Lo abbiamo capito tutti ormai:
Lady Gaga è talentuosa, ha una gran voce, sa suonare, sa fare spettacolo come poche altre e ha una cultura musicale superiore a quella delle coetanee colleghe. E il suo ultimo disco in coppia con Tony Bennett, “
Cheek To Cheek”, seppur vetusto nell’approccio, aveva sicuramente ribadito il concetto.
Ormai, però, la sua stella brilla già un po’ meno rispetto a poco tempo fa. Forse perché, a otto anni dal suo esordio, comincia a sentirsi la mancanza di un sostanzioso repertorio all’altezza di queste sue capacità, di canzoni che rimangano nell’immaginario popolare e che vadano oltre i balbettanti ma trascinanti riempipista degli esordi con cui i media continuano prevalentemente a identificarla.
Troppo poco insomma per incoronarla
popstar definitiva come pubblico e (addirittura) critica l’avevano immediatamente salutata. E ascoltando la sua nuova fatica, “Joanne”, si ha quasi l’impressione che sia la stessa Lady Gaga a sentire il peso di tali aspettative e a rifuggirle, realizzando un progetto che mantiene un profilo decisamente più basso rispetto a quanto ci aveva abituato, rinnegando certe tamarrate elettroniche e rinunciando persino a quei look estremi che erano diventati il suo marchio di fabbrica.
La scelta è condivisibile, perché quando si sforza di ritrovare l’
appeal radiofonico di un tempo, la foga con cui si cimenta si traduce in ansia da prestazione. Quella che la porta inutilmente a far di tutto (ovvero urlare) pur di sollevare il piatto ritornello di “Perfect Illusion”, arrivando addirittura a distrarre l’ascoltatore dall’unica cosa discreta del pezzo, l’arrangiamento di
Mark Ronson e
Kevin Parker (ancora incapaci di realizzare qualcosa di veramente brutto). Peggio ancora quando affronta con interpretazione melodrammatica un motivetto
tropical scritto inspiegabilmente assieme a
Beck, “Dancin’ In Circles” (una delle poche concessioni alle sonorità più attuali), affossandolo irrimediabilmente.
Quando i singoloni scarseggiano, meglio cercare allora di concepire un buon lavoro nel suo complesso. Concentrarsi su un pop-rock più convenzionale,
vintage e a tinte country deve esserle sembrata quindi l’idea più sicura per indossare con credibilità i panni della cantautrice più matura e intimista (“Sinner’s Prayer”, seppur non originalissima, l’è venuta piuttosto bene) e far breccia, contemporaneamente, presso il pubblico americano ormai perso dietro
più conservatrici regine.
Se la trasformazione riesce particolarmente a livello di
concept, i risultati appaiono purtroppo altalenanti. Gaga sembra trovarsi a suo agio nelle ballate acustiche (tra la rassicurante “Million Reasons” e la fin troppo ingessata “Angel Down”, brilla soprattutto una
title track che non dispiacerebbe alla
Del Rey), ma certe s-porcate
stomp-blues, quali “A-YO”, “John Wayne” e la quasi natalizia “Come To Mama”, si confermano invece il suo tallone d’Achille.
In un simile contesto spiccano facilmente lo sbracato omaggio a
Springsteen, una “Diamond Heart” dal ritornello (finalmente!) glorioso, e quello all'amico
Elton John, in cui lei e
Florence Welch tengono a freno i loro squillanti vocioni per dedicarsi a una felpata ed elegante rivisitazione di “Bennie And The Jets”.
A differenza dello sconclusionato “
Artpop”, “Joanne” è un album coeso, conciso e gradevolmente confezionato da Ronson, ma non suona meno vetusto del precedente disco di
standard jazz e difficilmente dissiperà i dubbi sulle capacità di Lady Gaga di realizzare nuovi classici pop.
Grazie a
social, cinema e cerimonie, il culto del suo personaggio continuerà sicuramente a lungo. Se però non dovesse giocarsi meglio le sue carte (ovvero le canzoni), tutti i nati dopo gli anni 80 che si chiedono come sia possibile che
Cyndi Lauper (musicista talentuosa, gran voce e con una cultura musicale superiore a quella delle colleghe) venga ancora oggi ricordata solo per i pezzi del suo debutto o poco più potrebbero guardare la parabola della Germanotta per darsi delle risposte.
21/10/2016