Forse i Duemila hanno fatto da testimoni a troppe rivoluzioni collaterali al mondo della musica (il crollo dell'industria discografica, su tutto) per dare alla luce veri movimenti stilistici iconici, come potrebbero essere il classic rock americano dei Settanta, il pop sintetico degli Ottanta etc. C'è voluto parecchio tempo anche solo per abbandonare gli stilemi del decennio precedente, che forse non sono mai morti, per risorgere compiutamente, come regola vuole, proprio ora, vent'anni dopo.
Il Pacific Northwest è stato ancora una volta il catalizzatore del movimento diventato una delle impronte del mondo della musica dei tempi e contemporaneo, fino a contagiare, com'è stato per il grunge, anche l'immaginario musicale più popolare. Intorno a Seattle, nel 2008, ci sono già vari gruppi che stanno traghettando i 90 verso qualcos'altro (Carissa's Wierd poi Band Of Horses, Norfolk & Western, Loch Lomond, ma anche i DCFC stanno portando l'emo verso il pop-rock indipendente), ma fino ai Fleet Foxes in tutti gli Stati Uniti è difficile trovare una band che faccia musica acustica, country o folk con la stessa "rottura" estetica (va citata almeno Joanna Newsom, da sempre considerata loro affine, che pubblica nel 2006 il suo lavoro più riconosciuto, "Ys").
Chi si ricorda la prima volta in cui ha ascoltato Sun Giant, l'Ep di presentazione dei Fleet Foxes, ricorda anche un po' lo stupore, dopo gli anni di new new wave, di Arcade Fire e National, di ascoltare un brano a cappella con armonizzazioni vocali multiple. Pubblicato prima dell'omonimo Fleet Foxes ma effettivamente registrato in seconda battuta, l'Ep rimane tuttora la summa perfetta del mondo della band di Robin Pecknold, non solo per pura enumerazione delle loro caratteristiche, ma anche per riuscita artistica. Ma torniamo un attimo indietro: nonostante la "scena" e il contributo di Phil Ek e della Sub Pop alla nascita del sound dei Fleet Foxes, la band è soprattutto figlia dell'isolamento. Robin Pecknold è di quei ragazzi introversi e cicciottelli che hanno pochi amici a scuola, la sua famiglia si è appena trasferita, fratello e sorella più grandi sono via, al college. L'unico amico che ha è Skye Skjelset, un altro ragazzo timido, anch'egli di famiglia norvegese. Insieme imparano a suonare la chitarra, fino a formare un duo: i Pineapple. Per loro fortuna, una band punk californiana intimerà loro di abbandonare il nome prima di andare per avvocati. Da lì nascono i Fleet Foxes, due ragazzi dalla scarsa vita sociale che infatti, a forza di fare pratica, arriveranno giovanissimi a pubblicare il loro primo materiale "adulto".
Sun Giant è uno dei primi lavori del revival Laurel-iano (che poi si esprimerà anche con Jonathan Wilson e le First Aid Kit, tra gli altri), la cui estetica post-hippy fa da collante alle passioni musicali di Pecknold: da una parte il pop "armonizzato" di Beach Boys, Zombies e Association, dall'altra il folk inglese di Fairport Convention, Steeleye Span e Pentangle. Un revival sempre più netto, reso possibile anche da un catalogo musicale che, con Napster, era diventato ormai completamente accessibile. È così anche spiritualmente lontano dai contemporanei e dagli immediati predecessori: in tutto il disco non c'è traccia degli stilemi e dell'estetica loser dei Novanta, anzi una "piattaforma" artistica quasi pre-moderna, come quella evocata romanticamente all'epoca del British folk revival. È così un impeto paesaggistico Bruegel-iano quello che guida le canzoni di Sun Giant, come nelle superbe, babeliche costruzioni orientaleggianti di "English House", o nel trionfo bulimico e liberatorio di "Drops In The River", vera e propria ostensione della musica dei Fleet Foxes.
Qualcosa del culto, della devozione è parte integrante di quest'ultima, come confessano anche gli arrangiamenti che, pur caleidoscopici, compongono una sinfonia "organica", non solo per la scelta degli strumenti, ma anche per la loro separazione, per l'intento preciso di farli risuonare come oggetti indipendenti, in un processo completamente riproducibile. In tutto questo, come anche la Newsom nota, è la scrittura di Pecknold a risaltare. Da alcuni viene addirittura ritenuta capziosa (e non sempre quest'accusa non si è rivelata valida) e per questo attraente per la nuova generazione degli snob alternativi, ma forse e soprattutto per assonanza e vago riferimento da "calderone" con chi in effetti faceva e fa dell'idiosincrasia la propria cifra stilistica (Grizzly Bear, Dirty Projectors, la stessa Newsom).
Ma l'impronta "tematica" delle canzoni di Pecknold è talmente forte che alcuni suoi brani hanno refrain definiti più o meno ovunque morriconiani, tanto è il loro impatto monolitico. Certo, questo tema portante viene poi riportato e declinato in varie forme, e non è mistero che molte canzoni dei Fleet Foxes sfuggano allo schema classico strofa-bridge-ritornello, addirittura riservando per la variazione finale la parte migliore. Esemplare in questo senso quella che è non solo "la" canzone di questo Ep, ma probabilmente "la" canzone dei Fleet Foxes: "Mykonos", che è anche la loro traccia di maggior ispirazione CSN&Y, con i suoi arrembanti stop'n'go in minore. Tutti i riferimenti di Pecknold, per quanto in bella mostra, emergono edulcorati, come in tutto il revival del nuovo millennio, non solo per la sua diversa personalità, ma anche per la maggior confusione e la conseguente difficoltà di proporre messaggi netti, come il Bob Dylan che ancora Robin definisce sua stella polare. Un esistenzialismo appena accennato (celebre ormai l'incipit di Helplessness Blues: "So now I am older/ Than my mother and father/ When they had their daughter/ Now, what does that say about me?"), una tensione verso cose più semplici, in particolare alla vita più semplice e idealizzata del nonno che coltivava un frutteto sono i segnali che risuonano col pubblico dei Fleet Foxes, insieme a uno spiritualismo senza volto, agnostico più che panico e che vengono tradotti musicalmente con il carattere suadente e vagamente irrisolto delle canzoni di Pecknold. Quest'ultimo si presenta inoltre in maniera abbastanza nuova rispetto alle band dei tempi: è un frontman "vocale" prima di tutto (arnese un po' in disuso in quel momento), come dimostra il suo brano chitarra e voce, un po' Harper, un po' Buckley, "Innocent Son". Sono le linee vocali la vera linfa dei Fleet Foxes, e gli strumenti, nonostante sempre presenti, dichiaratamente dei comprimari (forse anche per questo uno come Tillman, il batterista poi diventato Father John Misty, scalpiterà fino a lasciare la band).
Tutti i brani di maggiore impatto, più riconoscibili sono contenuti nell'omonimo esordio, Fleet Foxes, un vero album d'altri tempi. Di quelli con cinque, sei singoli da mandare in radio, per intenderci. E in radio ci andrà, in effetti: "White Winter Hymnal", con il suo spirito "natalizio" così facile da equivocare (in realtà racconta una scenetta che potrebbe ispirare un paesaggio invernale fiammingo), raggiungerà la rotazione di radio nazional(popolari) anche in Italia. In un mondo della musica in cui la musica "rock" nel senso più ampio possibile è sempre più lontana dal grande pubblico, Fleet Foxes rimane una delle dorate eccezioni e sarà abbastanza importante da lanciare tutto un movimento (purtroppo deteriore) ispirato al ritorno agli strumenti "folk", delle boyband "rurali" Mumford And Sons e Lumineers, contrappunto oratoriale, con la grettezza del loro ottimismo, alle invocazioni naturalistiche di Pecknold e soci. Ma anche molto country-rock "vocale" posteriore (per esempio gli Alabama Shakes) troverà in "He Doesn't Know Why" un nuovo inno.
I brani di questo esordio omonimo potrebbero essere rivisitazioni di vecchi classici Appalachiani, dall'espressività barocca e dall'esuberanza giovanile ("Ragged Wood"), con le loro immagini di mistica ancestrale e la loro toponomastica simbolica (la ballata senza tempo, scritta da un Elliott Smith scopertosi eremita Walden-iano "Tiger Mountain Song"). È soprattutto la forte identità melodica dei brani a rendere Fleet Foxes così denso, potente, riverberante di significato: tutti i colori che si rinvengono nella copertina di Bruegel vi si trovano riprodotti. Impossibile non ascoltare gli accordi iniziali di "Blue Ridge Mountains" (con il suo bellissimo giro di accordi dalle elegiache sfumature soul) senza vedere apparire il profilo bluastro di colline immerse nella foschia, le lucciole esplodere insieme all'assolo di mandolino. O non vedere il profilo di Clint Eastwood troneggiare sopra alle note di "Your Protector", con il suo cinematico arrangiamento tra tex-mex e post-punk.
Nonostante Fleet Foxes contenga idee di arrangiamento che contribuiranno a fondare e brevettare il sound della band (le armonizzazioni vocali, la lead guitar elettrica dai toni generalmente arabescati, una sezione ritmica piuttosto quadrata, da classic rock), si tratta di un disco assai lineare, e, per quanto dalla scrittura eccellente, non di grande profondità, per non dire sulla soglia dello stucchevole, almeno in qualche frangente, nel proporre un suono così pieno e quasi reazionario rispetto a tutto quanto avvenuto tra il 1978 e i trent'anni successivi ("Quiet Houses" esemplifica l'orgoglio di riportare alla luce un'espressività quasi antropologicamente diversa, col suo stolido incedere). Per questo forse sono diversi e azzeccati gli intervalli ambientali ("Heard Them Stirring", "Sun It Rises") o voce e acustica (per esempio la chiusura "Oliver James", il brano più tradizionalista - sembra una cover di Woody Guthrie - ma è anche il più "progressista", sia per stile che per il più "impegnato" tema narrativo).
Tutte le canzoni di Fleet Foxes suonano un po' bidimensionali, forse, tanto da poterle ricordare, a distanza di anni, nei minimi dettagli - ed è anche per questo che si tratta di un album, con le dovute proporzioni, d'impatto assimilabile ai grandi dischi del rock chitarristico dei Novanta, di quelli che hanno spinto tanti ragazzi a prendere in mano una chitarra e a imparare a suonarla. Pazienza se insieme a loro è nato almeno in parte il movimento hipster di massa, almeno nella sua accezione hippie/grunge da Pacific Northwest. Per qualche momento, ad esempio quando il disco diventa il primo "d'oro" per la Bella Union nel Regno Unito, c'è la speranza che venga sanata la cesura sempre più forte tra musica indipendente e popolare. Ma poi i Mumford And Sons e i Lumineers dimostreranno la facilità con cui oggi un'estetica originale e anche profonda può venire disintegrata e surrogata da slogan fatui e anche un po' mendaci.
Pecknold avverte il fenomeno, e forse anche per questo la sua musica da quel momento diventerà sempre più intricata, stratificata, pur senza perdere la sua identità. È questo processo di ricerca che porta alla nascita di Helplessness Blues, il disco che rimane oggi il loro più equilibrato ed esteticamente più completo. È il loro "Holiday", se fosse venuto subito dopo "Homecoming", sfruttando il parallelo con gli America.
Dalle melodie molto meno evidenti dell'esordio, anzi quasi "quadrate", le canzoni di questo disco assomigliano a sinfonie di una liturgia: non necessariamente esuberanti dal punto di vista melodico, ma abbastanza tematizzate da rimanere impresse, da acquisire significato anche solo con il loro contenuto prettamente musicale. Dagli inizi Pecknold aveva apprezzato e interiorizzato la spinta devozionale del songwriting di Brian Wilson, per esempio, e Helplessness Blues rappresenta il vero "breviario" canoro della setta Fleet Foxes.
Mele al posto del pane ("The Shrine/An Argument", con il cambio di brano dettato da un organo), nella ricostruzione virtuale di un passato mitico, in cui vive ancora la certezza di un lavoro manuale (il frutteto del vecchio zio) e, magari, di un posto in questo mondo e in quello dopo. È questo il nucleo della dottrina, gemmata da uno smarrimento post-adolescenziale, di Helplessness Blues, proiettato dalla title track con una maestosità abbacinante, in un soave esistenzialismo Malick-iano, con il memorabile inno finale:
If I had an orchard
I'd work till I'm raw
If I had an orchard
I'd work till I'm sore
And you would wait tables and soon run the store
Pochi versi che risuonano certamente con la vita di tanti venti-trentenni occidentali, che non conoscono né il lavoro manuale né la natura vera e propria, se non attraverso intermediari - e in quel limbo di una carriera sul nascere, in cui bisogna capire cosa fare della propria indipendenza. Helplessness Blues propone, come in passato, tutto questo pantheon di immagini romantiche e mitizzate ("Like a moonlit exile/ on the shore" proclama in "Someone You'd Admire") per parlare in profondità del miscuglio di emozioni, di terrore e trionfo, che attraversano i coetanei di Pecknold, e lo fa nel modo più nudo mai tentato dalla band. Soprattutto, senza l'assillo della melodia che affligge Fleet Foxes.
Suonano più libere e disinteressate, così, le rutilanti cavalcate di "Grown Ocean", "Lorelei" e "Battery Kinzie" (somiglianti anche per l'intento "liturgico" del disco), pregne di una religiosità umanizzante, un gospel basato sull'esperienza.
Ispirato dalla dodici corde usata da Roy Harper in "Stormcock", Helplessness Blues privilegia una scrittura più sfuggente e, più che umorale, calibrata sul suo contenuto espressivo ed emotivo (la sfuriata di "Sim Sala Bim" è da mettere anch'essa in questa sfera d'influenza). In questo senso nascono i brani in solitaria del disco: l'iniziale "Montezuma", che già si mette "in tono" con i dilemmi esistenziali dell'ascoltatore, solleticandolo col suo fingerpicking nervoso e riverberato; la sorta di confessione collettiva del dubbio di "Blue-Spotted Tail" ("Why is the Earth moving 'round the Sun?/ Floating in the vacuum with no purpose/ not a one"); la già citata marcia nuziale di "Someone You'd Admire" (forse il più bel pezzo chitarra e voce mai scritto da Pecknold).
Helplessness Blues è un disco scritto in maggiore, ma sulla base di un giovane uomo afflitto dai dubbi e dalle circostanze della vita, dalla propria inadeguatezza, come tutti, ma come pochi in grado di tramutare tutto questo fardello in una cornice nella quale trascendere, e infine accettare e gioire di queste debolezze - insomma, forse gli ingredienti fondamentali di ogni religione che si rispetti. Pur nella sua maggiore piattezza nelle linee melodiche, si tratta di un disco in cui emerge il lavoro sugli arrangiamenti, vere voci laddove erano soprattutto espedienti funzionali a ribadire o sostenere una linea melodica in Fleet Foxes (va ricordato che la band acquisisce intanto due nuovi membri, in particolare il polistrumentista Christian Wargo). Di seguito viene l'arrangiamento per violino di "Bedouin Dress", per flauto di "The Plains/Bitter Dancer", con anche una sezione ritmica ben più pensata e finalmente guida del disco. Insomma, si tratta di un disco dai tanti angoli nascosti, un dedalo di grotte e insenature, in fondo alle quali si trova un uomo con la barba, solo, che suona la chitarra.
Quello che succede in seguito è una (non) storia risaputa. Quello che è successo ormai cinque anni fa, in seguito al tour legato a "Helplessness Blues", è una (non) storia risaputa. I Fleet Foxes sembrano sfaldarsi: Josh Tillman abbandona la band (non senza un pizzico di acrimonia) insieme al suo lamentoso progetto solista per lanciarsi alla ribalta con il più sarcastico e ostentatamente piacione e pretenzioso nickname Father John Misty, mentre anche Christian Wargo lancia un nuovo side project, i Poor Moon (con il tastierista dei FF Casey Wescott). Intanto, non inaspettatamente (nel bene e nel male, s'intende), soprattutto Tillman raggiunge la fama agognata vendendo un po' d'anima al diavolo, mentre Pecknold si concede al massimo qualche sparuta comparsata social - in una delle quali annuncia di aver ripreso gli studi alla Columbia, a New York. In un topic su Reddit open question, Pecknold ha raccontato che lo iato della band le ha permesso anche di guadare il periodo in cui la musica folk, o almeno i suoi stilemi, era diventata il pane quotidiano della musica di massa, e che a quel punto (il 2016) si sentiva di nuovo in grado di proporre un album a firma Fleet Foxes senza sentirsi in dovere di snaturare il loro sound, e soprattutto in un clima più "accettabile" dal punto di vista culturale.
Tutte queste circostanze, del tutto umane ma anche rivelatrici di un processo più cerebrale che di crescita artistica, giustificano il carattere "pensato", rimuginato dell'attesissimo ritorno della band, intitolato Crack-Up. Già i primi due dischi mostravano una tendenza netta nella scrittura di Pecknold, sempre meno melodica e sempre più impressionistica, con un focus sempre maggiore sulla dinamica, sulla stratificazione. Interpolare tra i primi due sarebbe stata un'operazione possibile ma pericolosa, eppure anche questo immaginario terzo "punto" sembra allinearsi perfettamente - e ora la proiezione è di sei anni in avanti.
Insomma, Crack-Up è un disco a cui è stato dedicato molto tempo, ed è il risultato di molti dubbi. Nella sua pretesa complessità, di queste tracce torrenziali, spesso suddivise in pièce (stavolta addirittura anche triple), filtra indecisione, e, come spesso accade per un alunno zelante come Pecknold (col quale non si può non simpatizzare), l'ansia di dimostrare qualcosa. Ad esempio, attraverso un sound più rarefatto e discontinuo, abbandonando la pienezza tipica della band, per approdare a un non ben identificato framework sonoro ritratto, convoluto. Non risulta, nonostante tutto, un album pretenzioso, anzi, come non mai è percepibile l'amore per la musica e per lo studio.
Si è rotto, o perlomeno anchilosato, però, l'organo di comunicazione di Robin con il suo pubblico, a sentire il carattere ermetico delle sue melodie e quello magniloquente degli arrangiamenti, tra i quali compaiono ora suggestioni orchestrali. Ci sono tante variazioni, tanto affascinanti quanto indisponenti, in Crack-Up: il tentativo baritonale del crooning alla Harry Nilsson di "I Should See Memphis"; la ballata minimalista, "urban-folk", vagamente Vernon-iana di "If You Need To, Keep Time On Me", riferimento ripreso anche nella rarefatta chiusura polifonica, con accompagnamento di fiati, della title track; ci sono giochi di scale proggheggianti, come in "Mearcstapa" e "Fool's Errand". Soprattutto, ci sono tante costruzioni melodiche sghembe, capziose, in cui si alternano piattissime parti in maggiore a digressioni stonate ("Kept Woman" sembra un brano brutto delle First Aid Kit, anche se pare credersi diversamente), frammiste a soluzioni già percorse, che suonano riscaldate ("Cassius").
Insomma, la mutazione da band del rinascimento musicale popolare a feticcio dell'intellighenzia giovanile è completato (NB: questo non è un giudizio di merito), e se questo era il paletto che interessava mettere Pecknold, ci è riuscito. Se però Crack-Up fosse l'atteso ritorno cinematografico di un giovane regista, sarebbe quell'opera raffinata che tutti accorrerebbero ad elogiare per la sua "complessità", per il suo "coraggio", con grandi pacche sulle spalle e contorno di spiazzati ammiccamenti strabuzzati. In realtà il rinnovamento stilistico dei Fleet Foxes appare ancora piuttosto abbozzato: gli arrangiamenti e le scelte stilistiche sono in fondo il prodotto di un capriccio intellettuale, e la scrittura di Pecknold è la meno ispirata e più "masticata" che abbia mai prodotto.
Non sarebbe una sorpresa se questo si rivelasse l'ultimo album dei Fleet Foxes, una sorta di reunion accelerata, per una dissoluzione ancora più accelerata, verso quel "qualcosa di nuovo" che rimane il desiderio nascosto del suo frontman.
Non è certamente misterioso il ricorso alla metafora dell’acqua nel disco successivo della band, pubblicato (com’è d’uso) a sorpresa in coincidenza (al minuto) con l’equinozio autunnale nel 2020. Ed è altrettanto facile utilizzarla per raccontare Shore come un disco della rinascita per Robin Pecknold e soci, per come fa da contraltare a Crack-Up, che tre anni fa aveva segnato il ritorno della band sulla carta, qualche anno dopo i trionfali esordi.
Shore è invece un agognato ritorno alla normalità per la band, cosa che sembra trapelare anche dai racconti sulla gestazione dell’album e dal suo immaginario promozionale, a partire dalla “normalità iconografica” di Pecknold. È un disco che nuovamente proietta i Fleet Foxes al grado di band globale, non dissimili dai Coldplay a volte anche dal punto di vista musicale (“Can I Believe You”, “I’m Not My Season”), o semplicemente nello spirito del disco, celebrativo e inneggiante.
Dall’altra parte, il perfetto equilibrio di questo lavoro sta nell’essere riusciti a non smarrire la capacità di offrire la propria musica come viaggio spirituale, oltre che come semplice piacere uditivo. Una caratteristica rara che traspare in ogni scelta d’arrangiamento, che certamente fanno tesoro dell’esperienza di “Crack-up”, ma che accompagnano una scrittura molto più focalizzata e “aperta”.
Nonostante le melodie chiare, lampanti di Sun Giant e dell’omonimo Lp d’esordio non siano più nelle corde di Pecknold (anche se “Sunblind” è un ottimo tentativo), Shore non ha infatti nulla da invidiare al carattere umorale e bucolico di Helplessness Blues, alle sue improvvise aperture melodiche, al suo carattere orchestrale di trionfale cavalcata dello spirito fuori da sè.
Dopo aver tanto dato alla scena folk-rock e pop dell’ultimo decennio, Shore è in un certo senso anche il momento di “riprendersi qualcosa”, mutuando alcune soluzioni d’arrangiamento dagli Other Lives di “Tamer Animals” (“Cradling Mother, Cradling Woman”), lo spirito assolato e itinerante degli Whitney (“A Long Way Past The Past”, “Featherweight”) e gli arrangiamenti corali dei San Fermin (“Wading In Waist-High Water”). Ma nella generosità di un album di quindici tracce e 53 minuti circa si trova un vero patrimonio: gli scorci jazz di “Quiet Air/Gioia” e della title track; sing-along clamorosi come “Young Man’s Game”, coming-of-age dichiaratamente anacronistico per l’età di Robin, e “Jara”, dal grande riff d’accompagnamento. Ma anche solo i piccoli inni contemplativi di “Thymia” e “For A Week Or Two”, con il loro immaginario prosaico e vagamente evangelico, valgono il prezzo del biglietto.
Tutto questo fa dell’album un’esperienza catartica e riconciliatrice che ha pochi eguali nella musica contemporanea, uno dei pochi che sa fare di una certa ingenuità disarmante, della pura e semplice espressione di gioia, punti di forza. Questo è ciò che renderà la musica dei Fleet Foxes certamente preziosa molto oltre gli anni che stiamo vivendo.
Sun Giant (Ep, Sub Pop, 2008) | 8 | |
Fleet Foxes (Sub Pop, 2008) | 7,5 | |
Helplessness Blues(Sub Pop, 2011) | 7,5 | |
Crack-Up(Nonesuch, 2017) | 6 | |
Shore (Anti, 2020) | 7,5 |
Mykonos | |
White Winter Hymnal | |
Blue Ridge Mountains | |
Helplessness Blues | |
Grown Ocean | |
Third of May/Odaigahara | |
Shore (album streaming video, 2020) |
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