Todd Rundgren e' stato uno dei primi e piu' grandi stregoni del rock. Stregone nel senso che fin dagli esordi ha concepito una musica universale. Una musica che non doveva rinchiudersi dentro barriere, ma doveva diventare veicolo dissacratorio e, ancor piu', mezzo per identificarsi e liberare le proprie manie ossessive, rivolte verso uno sviluppo creativo senza pari. La musica di Rundgren e' un reticolato di suoni orchestrati, ove si sviluppano labirintiche tracce, alcune di esse invisibili. Un corpo musicale denso di influenze della musica passata che, invece di rimuginare su se stesso, trova spunto per vivere una nuova vita in una realta'.
Todd Rundgren amava svisceratamente i Beatles e i Beach Boys, da queste due band ha appreso l'arte per il gusto dell'arrangiamento musicale, l'innovazione di nuovi suoni che generassero una melodia sempre un metro piu' avanti dei tempi correnti, la smania di avventurarsi in scenari sempre diversi, ove un semplice disco non e' piu' contraddistinto da una serie di canzoni numerate, ma da opere concettuali, che si alimentano vicendevolmente, proprio come in un romanzo in cui i capitoli si legano e susseguono fra loro, uniti da un preciso filo narrativo. Burt Bacharach e George Gershwin sono gli altri due numi tutelari del Nostro; da questi due compositori ha attinto a piene mani per rifarsi a certe atmosfere di "Vecchia America" e di music hall romantica e nostalgica assieme. Dall'unione di certa "nuova musica" (rock) e di certe reminescenze classiche, Rundgren e' ripartito per creare una musica personale, sviluppata rincorrendo le piu' nuove forme di avanguardismo. Ed e’ una musica involuta, al contempo, perché proprio nel bel mezzo di una suite proto-punk riflette su stessa, e si compiace e si amalgama in un break repentino dominato da morbide note pianistiche e da atmosfere da romantico ballo sotto le stelle.
Rundgren ha anticipato il punk di qualche anno, si e' preso gioco dell'hard-rock attraverso brani all’insegna di parodia e finta sufficienza, ma che allo stesso tempo impartivano sonore lezioni stilistiche ai portabandiera del genere. Con lui, il surf dopo dieci anni di dimenticatoio ha ripreso a volare sulla cresta delle onde. E al glam ha dato del tu. La musica progressiva, da sempre principalmente di matrice britannica, ha assunto grazie a lui nuove forme, e soprattutto nuove funzionalita', pertinenze futuristiche. Gli orpelli e i barocchismi, in Rundgren, vengono messi in un angolo, a favore di un suono che va a scandagliare nel futuro senza quell'overdose zuccherosa di romanticismo, a volte sopra le righe. Il pop piu' puro e melodico, grazie al suo talento compositivo, si e' elevato a forma d'arte senza le solite finalita' di musica usa e getta, buona per essere assimilata al primo ascolto e dimenticata nel breve volgere di un mese. Il cabarettismo ha tratto nuova linfa e si e' saputo ben coniugare con il rock, rinnovandosi come in una recita di una nuova Hollywood.
Tutto questo e' "Something/Anything?", album epocale, mostruoso, disumano, e chi piu' ne ha piu' ne metta... Per Rundgren rappresenta il sogno di una vita: quello di plasmare e manipolare in un tutt'uno generi, sottogeneri, stili e mode passate. Un disco in cui l'artista spazia a 360°, e la cosa che stupisce di piu' e' che dimostra un’abilita' quasi imbarazzante nel vestire i panni del cantante soul, e un attimo dopo essere hard-rocker di vecchia data, nel tentare esperimenti elettronici da teatrino di periferia e subito dopo calarsi in una di quelle ballatone potenti con una serie di arrangiamenti geniali, per ripartire poi con nuove idee. L'album si divide in quattro parti, tre di queste sono prodotte, composte, arrangiate e suonate (in tutti gli strumenti) da Rundgren stesso, mentre nella quarta parte il compositore americano si avvale della collaborazione di artisti estranei alla causa.
L'opera spicca subito il volo con "I saw the light", elegante pop song ispirata ai Fab Four, con una melodia accattivante, ma che non stanca mai; si noti poi l'uso della chitarra con quelle "svisate" che ricordano tanto George Harrison. I cori e i contro canti di sottofondo, invece ricordano momenti anni 50, attraverso quel voluto "ambientamento mieloso" e ingenuo.
"It wouldn't have made any difference" e' la seconda canzone, e anche questo e' un classico. Soul ballad, vede un Rundgren quantomai ispirato al canto e comunicatore sopraffino di emozioni Motown, con la ritmica che e' appena un sussulto, ma incisivo, e il piano un vulcano di contrappunti scintillanti e dolci. "Wolfman Jack" e' una canzone "gonfia" di strumenti a fiato che trasforma la matrice di partenza del brano in un r&b dominato da un cantato grintoso e scanzonato, mentre "Cold morning light" e' un sopraffino esempio di ballata romantica che viene introdotta da una linea melodica pimpante; la zona centrale del brano, quella del ritornello, e' dominata da un cambio di ritmo a meta' strada fra il blues, e la sacralita' del soul, in particolar modo nelle timbriche. "It takes two to tango (this is for the girls)" profuma nuovamente di Beatles, quelli dei primi anni 60, con momenti di disincantato beat in cui ancora una volta e' il pianoforte a fungere da ossatura al corpo melodico del brano.
Quando ancora abbiamo le orecchie piene di queste accattivanti melodie, Rundgren si dimostra mago nello stupirci attraverso una soul song pura e spirituale: sintetizzatori austeri, un cantato splendido e una chitarra elettrica filtrata, oltre a una ritmica potente, fanno di "Sweeter memories" una canzone che qualsiasi soul-singer sarebbe fiero di avere nel proprio repertorio.
"Breathless" e' uno di quei tipici e bizzarri "esperimenti elettronici" sopracitati: demode' e al contempo futuristici, in quel continuo intrecciarsi e sovrapporsi di sonorita' elettriche dominate da note sintetiche; solo che l'artista ci spiazza sul finire del brano quando stravolge la latina "La Bamba" di Valens donando a essa una nuova prospettiva. E' fondamentale questo esempio perche' sarebbe bastato un niente per scivolare nella pacchianeria piu' letale. Rundgren, attraverso un sapiente uso di suoni in bilico fra loro, riesce a far convivere l'impossibile con il possibile.
"The night the carousel burnt down" e' un vero e proprio carosello di teatrini circensi, e cabarettismo da balera anni 30, molto nostalgico e anche qui dominato da un sapiente uso di sintetizzatori e piani elettrici. "Saving grace", introdotta da voce cibernetica e dominata da un piano honky-tonky, e' un altro inno alla melodia piu' pura rifinita ad arte, con arrangiamenti chitarristici di sottofondo, mentre "Marlene" e' un toccante esempio di minimalismo molto retro' ed elegante. Gli arrangiamenti anche in questo caso mostrano uno stupefacente stato di salute: non c'e' abuso di niente, la canzone poteva diventare una ballata strappalacrime e alla lunga stucchevole, ma Rundgren, da vero artigiano della musica, conosce i limiti e sa fin dove e' lecito osare.
"Song for the Viking" prosegue sulle stesse tonalita' del brano precedente, ma qui il piano ha un andamento classicheggiante e ritmato: e' una piccola suite dove i tempi cambiano nel breve volgere di pochi secondi e in modo repentino. "I went to the mirror" lascia intravedere un anima tormentata nell'artista: blues cupo in partenza, con la voce che e' appena un sussurro lamentoso, e rumorismi di mezzo creano e donano all'anima della canzone un’ambientazione metropolitana, fino a quando, negli ultimi 45 secondi, i tempi aumentano e le chitarre cominciano a ruggire, trasformando tutto. Ma e' un attimo, e tutto sfuma... "Black Maria" e' una inquietante ballata dai toni pesanti e duri, inframmezzata da improvvisi cambi di tempo, dove la chitarra squarcia il panorama con lampi carichi di feedback; l'ambientazione e’ cupa, e in questo caso pero' la batteria risulta forse troppo spartana ed elementare, limitandosi semplicemente "a segnare" il tempo, quando invece una linea ritmica piu' consistente e fantasiosa avrebbe caricato la canzone di una maggiore personalita'.
"One more day (No world)" trabocca di sapori latini: il sole e' abbagliante fra i tasti pianistici e tra quelle note tutte "in levare"; il cantato e' una serenata romantica. "Couldn't I just tell you" e' introdotta da sferzanti note acustiche di chitarra e da una ritmica urgente e incisiva, il cantato e' quasi per tutta la durata impostato su tonalita' alte, e il sapore e' molto anglosassone "primi anni 60". Si prosegue con "Torch song", e con rarefatte note che assumono sembianze liquide attraverso una melodia nostalgica intrisa di melodia struggente. In "Little Red Lights", invece, viene fuori l'anima piu' sanguigna del Rundgren musicista: le inibizioni si fanno da parte e una slide guitar dalle somiglianze hendrixiane si produce in autentici scoppi di elettricita'. La ritmica e' dispari in certi frangenti e crea una canzone piu' sfaccettata, i cori di sottofondo sono da bubble-gum music, il cantato e' una unghiata al cuore dell'ascoltatore: si stenta a riconoscere che sia il medesimo artista di certi brani romantici precedenti. Hard-rock intelligente, colorato, e fantasioso, un’autentica fucina di idee, con il solismo finale che mostra ancora, se ce ne fosse stato bisogno, che Rundgren e' anche un "guitar hero", maestro nel controllo del feedback, del vibrato e dell’eco.
"Overture - My roots: money (that's what i want)/messin' withe kid", come lascia intravedere il titolo, e' un divertente cambio di passo rispetto a quanto ascoltato fin ad ora: sono solo vecchissime registrazioni di un Rundgren ancora primordiale e dilettante, in quel suo rifarsi a certo blues e boogie, sono le radici di un genio che deve ancora sbocciare. Con questo brano termina la terza parte di "Something/Anything?", e tutto quello che e' stato ascoltato finora e' stato tutta opera esclusiva di Rundgren... Sbalorditivo, per l'alto tasso di contenuti, e per l'alto numero di classici, il livello compositivo in queste tre parti non e' mai calato un istante, ma per fortuna la festa continua con un altra manciata di buone canzoni dove Rundgren si ritaglia, oltre al solito spazio di cantante solista, anche e solo quello di tastierista; il resto e' opera di session men, fra cui un gia' ottimo Rick Derringer alla chitarra solista. Gli spazi vuoti fra i brani sono legati tra loro da divertenti suoni prodotti dagli strumentisti in modo da creare un’allegra sensazione da jam in studio.
"Dust in the wind" e' una power ballad infarcita da una sottile ma visibilissima linea soul; anche in questo caso la parte del ritornello e' sorretta da un corposo uso di strumenti a fiato e ben supportata da cori gospel, e poi c'e' la zona di pertinenza solistica: una chitarra elettrica che fugge via in solitudine, tratteggiando flebili linee verso il cielo: anima e cuore comunicano attraverso una serie di corde metalliche, prima di cedere il passo a un sax notturno e dimenticato in quel suo "cantare" solitario. Da brividi. Con "Piss Aaron" si cambia totalmente scenario: e’ un baldanzoso e allegro swing a dominare il panorama, con arrangiamenti efficaci a base di pedal-steel. "Two, three... one, two, three...": divertenti prove tecniche di introduzione scandite dall'allegria di sottofondo fanno spiccare il volo a "Hello it's me", altro brano capolavoro di questo disco: e' un’elegante e raffinatissima pop song, dominata dal romanticismo; un piano, un flauto e un sax tenore a turno fanno capolino qua e là; il cantato, questa volta e per la prima volta, e’ pacato. Forse l'anima dell'artista trova pace in queste melodie e si lascia cullare dall'ondeggiante ritmo.
"Some folks is even whiter than me" ci proietta in atmosfere boogie da saloon polveroso a base di rockabilly nevrotico: chitarre pungenti combattono per avere la meglio in duelli all'alba con sax e pianoforti che proprio non vogliono lasciare il passo allo strumento di turno. "You left me sore" e' invece un brano in bianco e nero con bombetta e ombrello: vecchi tempi fuggevoli attraverso melodie antiche di cabarettismo, e con tanta nostalgia. Ultimo brano di questa opera e' "Slut": un’orgia di blues ritmato e torrido, con spezie boogie, e rock'and roll urlato sguaiatamente, sostenuto da cori femminili che si contrappongono alla voce solista, un "caos sonoro" all'ultima nota fra tutti gli strumenti che nella parte terminale del brano si fondono come se volessero dare il commiato tutti insieme in un’unica frase: signori e signori la festa e' finita e il gran ballo si conclude qui, speriamo vi siate divertiti... Buonanotte!
Gli anni sono passati e Rundgren non e' cambiato. Ha continuato a percorrere la propria strada, quella costellata da una vera fame di nuove scoperte. Non sempre i suoi dischi si sono rivelati all'altezza, a volte certi dischi sono apparsi fin da subito eccessivi per la loro carica troppo ambiziosamente innovativa, al punto da divenire lavori bislacchi, se non vere e proprie caricature di se stessi. La ricerca di nuove fonti ha permesso comunque all'artista Rundgren di reinventarsi sempre. Anche dopo i peggiori scivoloni, come un'araba fenice, e' riuscito a risorgere, suscitando scalpore per quell'alone di novita' che accompagna da sempre il suo nome.
08/11/2006
Disc 1
Disc 2