I got a letter from the government
The other day
I opened and read it
t said they were suckers
(Public Enemy – Black Steel In The Hour Of Chaos)
Iniziamo dalle basi: Dälek si pronuncia Die-a-leck, tutto insieme e anche un po' masticato, con la parlata americana non esattamente accademica. Di preciso siamo in New Jersey, anno di grazia 1998, Will Brooks aka MC Dälek e Alap Momin aka The Oktopus sono due afro-americani cresciuti nella provincia, tutto sommato borghese, mangiando Public Enemy a colazione e My Bloody Valentine per pranzo. La dieta è ricca e Will non proprio in forma, è un ragazzone tutt'altro che slanciato, ma porta in giro la propria mole con fierezza, lo sguardo tuttavia non è sereno, da quando ha cominciato a scrivere rime poi non ne parliamo. È come prendere a pugni un sacco da boxe e incendiarsi ancora di più perché non si riesce a demolirlo.
La situazione è tesa.
Fare hip-hop da qualche anno è lo sport preferito dalla popolazione colored, i nomi si sprecano e molto spesso anche il fiato: una scena inchiodata da soldi, droga e donne. Se fosse "Scarface", saremmo già completi così, purtroppo sono una manica di neri rincoglioniti che fanno a gara a chi finisce di più su Mtv.
Will e Alap non vivono bene l'esposizione mediatica del lato peggiore di ciò che sono loro e i loro fratelli, vivono malissimo il reaganismo che da oltre un decennio governa l'America, il nome cambia ma il metodo è sempre quello di dare carta bianca a chi ha i soldi e tutti gli altri muti. La soluzione più facile sarebbe prendersela con chi i soldi ce li ha, ma laggiù nel New Jersey amano fare le cose di testa propria. Dälek e Oktopus hanno pensato di poter suonare hip-hop in maniera nuovamente intelligente, proporre qualcosa di personale e sincero, che riuscisse a trasmettere il livore che provavano per una classe dirigente interessata a incensare sé stessa mentre manganella per le strade.
Negro Necro Nekros esce per la Gern Blandsten nell'ottobre del 1998 ed è una cosa un po' strana, specie per una micro-etichetta che solitamente pubblica post-hardcore: quelli che sentono l'opera dei due non sanno dire con certezza quanto sia hip-hop, piuttosto che industrial o shoegaze.
Il fatto è che Negro Necro Nekros segna l'inizio del percorso, getta le fondamenta migliori per il futuro dei Dälek, unisce la verbosità dell'hardcore rap, l'attitudine sampladelica di Eric B. e Terminator X e un uso di delay, distorsori e percussioncine assolutamente malato. “Praise Be The Man” chiude il disco ed è tutto ciò che i Dälek saranno, è il seme da cui nasceranno le loro creazioni migliori, con quell'inizio agonizzante, il beat metallico affondato tra mega-bassi, distorsioni e back-vocals che spuntano d'improvviso. Will rappa con una forza mostruosa, il suo tono di voce cavernoso è l'urlo di guerra di chi si è stancato di farsi fregare, di chi sa che l'unico modo per vendicarsi del sistema è quello di sapere sempre più cose. Essere coscienti.
L'accoglienza per questo debutto è ottima: non finiscono in classifica e Mtv se ne frega; va bene così, finire nella top 10 di Billiboard non era esattamente la meta da raggiungere, ma la carta stampata li incensa, inizia a crearsi un vero culto per questa band, dal vivo tengono il gain a +10 come una formazione metal, la presenza sul palco è limitata a mettere in fila i beat e le parole, zero cazzate a contorno. Si fanno un nome come band da combattimento, e cominciano a sfondare le porte di appassionati che mai avrebbero ascoltato un disco hip-hop.
L'attività live li porta in giro per l'America, imparano a conoscere realtà distanti, a toccare con mano ciò che loro, trasferiti a New York nel frattempo, vivono sotto l'operato di Rudolph Giuliani e della sua Tolleranza zero. Il caso Abner Louima era scoppiato poco prima dell'uscita di Negro Necro Nekros, l'uccisione di Amadou Diallo a pochi mesi di distanza. Gli Stati Uniti sono ossessionati dalla sicurezza, dal crimine dilagante, dagli stupri e l'unico modo per convincere le persone a votare per il proprio partito è quello di vendere la speranza di maggiore sicurezza.
Nel frattempo i nostri due, nel loro pellegrinare, fanno conoscenza della persona che darà una sferzata alla loro carriera: Mike Patton, nei panni dell'owner della Ipecac Records. Condividono l'attitudine punk e stringono un sodalizio artistico che durerà fino ad oggi, diventando una delle band di punta dell'etichetta.
Dälek e Oktopus, dicevamo, avvicinano un pubblico estremamente trasversale e, nel 2000, realizzano il primo di una serie di split Ep con band sempre diverse. A inaugurare la fila c'è la creatura più abrasiva sulla piazza del beatmaking: Techno Animal, che senza eccedere in descrizioni troppo articolate, sono due metallari in fuga verso l'hip-hop. Justin Broadrick e Kevin Martin, già God e Godflesh tanto per gradire. Il risultato è Megaton\Classical Homicide, originale degli uni più remix degli altri e viceversa, come prendersi un dritto di Tyson appena usciti dalla doccia. Il futuro è buio, ma artisticamente solare.
If Afrika Bambaataa wasn't influenced by Kraftwerk, we wouldn't have 'Planet Rock.' So, in that sense, what we do is strictly hip-hop.
(Dälek, intervista per il Chicago Sun-Times)
Il suono-Dälek continua a trasformarsi, le atmosfere taglienti ma dilatate dell'esordio cominciano a essere compresse. From Filthy Tongues Of Gods and Griots arriva nel 2002 e segna già un primo cambio nel metodo, si aggiunge alla formazione Dj Still, scratcher della scena newyorkese, e il disco viene concepito molto lentamente, le prime cose esistevano già ai tempi di Negro Necro Nekros, hanno attraversato gli anni subendo cambi di forma e sostanza, rimaneggiamenti ai testi e al suono, per far suonare tutto più compatto, definito, per prendere una direzione chiara.
La potenza delle basi di Oktopus comincia a crescere, sovrappone pattern su pattern, distorce, dilata, equalizza e separa: il beat da una parte, il caos dall'altra con Dälek al centro come un ariete negro e gigantesco. “Spiritual Healing” sono i Faust se fossero cresciuti negli anni 80 ascoltando i Run DMC, mentre lavoravano di flessibile, con la bruttissima aibtudine di campionarne il suono.
Si lavora di fino, le liriche affondano chiare e tonde nella società americana, si scagliano contro Rudy Giuliani, i 49 colpi sparati dalla polizia, l'11 settembre 2001 e il fallimento dell'intelligence. Non c'è paura nello schierarsi, non c'è più tempo per starsene zitti a inseguire stupidaggini. L'hip-hop in Filthy Tongue è l'essenza dell'hip-hop stesso, si passa dai break old school, il più classico dei “tumtum-cha” seppur disperso sotto la coltre di distorsioni, e si raggiunge “Black Smoke Rises”, un lamento funereo di dodici-minuti-dodici tra contrappunti sonici e immersioni senza ossigeno, le parole fluiscono senza un rtimica definita, la forma non esiste, c'è solo sostanza rap, sample, lavoro sul suono.
Nel titolo di questo disco si parla di “griots”, cantastorie tradizionali dell'Africa, ed è quello che si è detto poco sopra. La realtà attraverso la metafora, ciò che è la società attraverso una “favola”, un racconto. Ma si parla anche di Dio e questo disco ha molto a che fare con la spiritualità, con la ricerca, il sospetto e l'assenza. Se il metodo brutale è la norma, “Forever Close My Eyes” è l'eccezione, uno strano guizzo di malinconia a marchio Dälek. Chitarre pulite, base con un feeling molto più umano, il muro di suono messo in secondo piano questa volta, un accenno di tema portante, il ritornello. All'improvviso una coppia di rapper neri si credono i My Bloody Valentine del nuovo millennio e sfornano un gospel shoegaze moderno con tanto di organo ecclesiastico.
I due raggiungono un modus operandi ben chiaro, producono un suono tutto loro a cui nessuno si avvicina rimanendo a fuoco. Will e Alap sono ai comandi di un tank e non hanno nessuna intenzione di sedarsi.
Who trades his culture for dollars?
The fool or the scholar?
Griot? Poet? Or White collared?
(Dälek – "Culture For Dollars")
Kid606 con Kevin Martin al sax, i Faust, il collettivo idm dei Velma, tutti split, tutti Ep, tutti all'insegna del contaminare il proprio suono con quello di chi ti sta di fronte. A volte bene, a volte così così, non stiamo troppo a questionare. Il formato corto non è adeguato alle esigenze di due prolissi come loro, ma si tengono in forma, cominciano a farsi un nome anche come remixer, in tanti vorrebbero lavorare con loro.
Ma prima c'è da fare la propria cosa, il terzo disco in sette anni, ci vuole calma e ordine perché il progetto è grosso.
La rabbia che nutre il fuoco delle rime ha vissuto alti e bassi nel corso di questi anni, l'impegno artistico in sempre più numerosi fronti ruba energie a un radar politico come Dälek: è partita l'invasione dell'Iraq, dell'Afghanistan, sono venuti alla luce dossier falsi, tesi contrastanti, proclami di libertà duratura e caccia al cattivo. Ci vuole spazio e tempo per fare una cosa adeguata, ma il tempo corre e l'urgenza aumenta.
In studio Oktopus è impazzito, mangia ruggine mentre ascolta Einsturzende Neubauten, Faust, Can, hardcore e sludge-metal, è sempre più affascinato dall'industrial, se ne va a spasso con un mircofono a fare field-recording, assembla, scompone e ricompone, il beat ormai è automatico e si concentra per dare ancora più spessore al proprio suono. Dj Still gli fa da spalla, il giradischi è una piastra di metallo dove far grattare la puntina, pedali ovunque, è la follia.
Dälek scrive, come un moderno Malcom X, il proprio capolavoro accusatorio, taglia a metà ogni cosa gli capiti a portata, non c'è speranza nelle sue parole, il mondo è in mano agli idioti e stanno vincendo.
Absence è il terzo album in sette anni, è il numero perfetto, l'aggressione sonora è completata, le chitarre distorte sono diventate arnesi da cantiere sommersi di feedback e distorsioni, la voce è sul podio mentre chiama gli imputati e sigla la condanna. L'hip-hop non è mai stato così vivo nella bocca di Dälek, nella testa di Oktopus e nelle mani di Still, è la cosa più hip-hop che il trio abbia mai fatto: le basi sono circolari, un loop dietro l'altro e tutto il mondo a implodere dentro, il flow si contrappunta con gli scratch, pause e ripartenze come insegnavano quelli lì che si autodefinivano nemico pubblico.
I Dälek erano la bestia ingabbiata al centro della città, il cancello ora è sfondato e la resa dei conti è giunta a compimento.
Esce Absence e apriti cielo. Il trio ha un impatto devastante sull’opinione musicale, se prima erano molto apprezzati, ora assurgono al ruolo di venerabili, hanno raggiunto le proprie ambizioni sorpassandole da destra. Techno Animal cercava di raggiungere questo livello di complessità, ma non era riuscito nella missione, mancava ancora qualcosa, quel qualcosa che i Dälek hanno saputo trovare aprendo completamente occhi, orecchie e cuore.
Ma la lezione non è completa in Absence, o meglio la lezione c’è ma manca la post-fazione, c’è bisogno di capire dove e come sono nate certe intuizioni, e qui entra in gioco quella ciurma di arzilli vecchietti chiamata Faust. Derbe Respct, Alder esce a pochissimi mesi da Abscence ed è un macigno di hip-hop krauto, un crossover micidiale tra l’irruenza del trio del New Jersey e la follia dei sopravvissuti tedeschi.
La cosa che colpisce maggiormente è la capacità delle due formazioni di smontare a vicenda il proprio suono, fondendo e dialogando in un tutt'uno, evitando magicamente la sensazione per cui si percepisce chi lavora sui suoni di chi. Faust+Dälek una formazione unica che trapana il cranio dell’ascoltatore per circa un’ora, tra progressioni, digressioni e caos ben guidato.
Dopo aver visto i Faust andare in giro con una crew di negri del New Jersey, per molti scrivani della musica sembra essere giunto il momento del ritiro.
Success lasts for seconds
Our future's forsaken
Blatant lies of Bourgeois
Seeps into vacant
Eyes out of focus
Only see what they told us
World of weight's on our shoulders
(Dälek - "Ever Somber")
Nell’estate 2005 DJ Still abbandona la formazione, i suoi scratch erano diventati parte integrante del suono e, seppur all’ombra dei due proprietari del marchio, era riuscito ad aggiungere un tocco ancora più personale al risultato finale, utilizzando il turntable come un vero e proprio strumento, dialogando con ciò che stava attorno, aiutando persino l’MC contrappuntando le frasi di Dälek con sample vocali.
Il dopo-Absence è un momento strano, molti riflettori si sono accessi inaspettatamente, inviti a festival di grande risonanza, richieste di collaborazione, il proprio studio di registrazione a pochi passi da Manhattan intasato di prenotazioni, dai ragazzini mc-wannabe fino a Mr. Sitek dei Tv On The Radio, che con Oktopus condivide la maniacalità produttiva.
Dopo ogni disco il progetto ha visto aumentare la propria fama, avere a che fare con chi strumentalizza la propria musica e giornalisti cazzoni diventati esperti hip-hop all’improvviso.
George W. Bush è sempre più convinto di aver fatto le scelte migliori, tra cui scampare a un salatino mal inghiottito. Il mondo affronta sempre con maggior pressione i temi ecologisti, la crisi dei carburanti e a ogni passo un buchino in più nell’ozono. Intanto gli Stati Uniti d’America continuano a lasciare pallottole e vittime sul terreno, sia fuori che dentro le proprie mura, in nome di una sicurezza ora minacciata da un nemico distante migliaia di chilometri, invisibile alle persone comuni eppure sempre pronto e sempre vicino.
Con l’antrace, con esplosioni a Madrid o a Londra, con una solida campagna giornalistica si alimenta il terrore per l’estraneo: “Facce diffidenti quando passa lo straniero” dicevano i Sangue Misto.
Abandoned Language arriva dopo due anni, in mezzo una collaborazione più tour con i nostrani Zu. Ma l’ambiente che ritroviamo nel disco è cambiato, le distorsioni e i muri di suoni metallici sono scomparsi, al loro posto fiati e archi lontani, sempre ricorsivi, a creare mantra su cui il beat spinge delicato. Il suono si fa molto più subdolo e morbido, ma è sul versante più avanguardistico che si trovano i colpi più malefici, le ferite più profonde: “Content To Play Villain”, disorientamento dissonante, out-acid-jazz, Cabaret Voltaire e Nurse With Wound. Prossimo all’astrazione cLOUDDEAD. Niente più spasmi violenti. Solo un mantra. Ipnotico. “Eraserhead” nella testa, fino a perderci tra archi in caduta libera e sfrigolii atonali, in un miasma Xenakis-iano di riverberi indecisi tra l’infernale e il celestiale (“Lynch”).
L’abbandono e la fuga diventano la pena da infliggere, chi scappa da sé stesso e chi scappa per non dover più dare nulla a nessuno, a nessuno che ne faccia un uso improprio. L’abbandono e la fuga impossibile dal reale che circonda e violenta quotidianamente milioni di persone in Abandoned Language trova una sua narrazione, un filo logico nonostante tutto.
La sorpresa è grande e, nonostante le discontinuità di un disco dal viso più umano dei precedenti, il risultato parla sempre di esseri umani, non perde il focus sulla carne, il sangue e il sudore.
La macchina da guerra targata Dälek si ferma per qualche tempo. Un tour, questa volta più contenuto dei passati, una compilation di remix pubblicati in passato, ricaricare le energie perché il prossimo appuntamento si annuncia importante, tra qualche tempo potrebbe esserci un nero, di Chicago, a guidare gli Usa.
We bombed Hiroshima! We bombed Nagasaki! And we nuked far more than the thousands in New York and the Pentagon, and we never batted an eye.
(reverendo Jeremiah Wright, sermone)
“Blessed Are They Who Bash Your Children’s Heads Against A Rock” è la prima canzone di Gutter Tactics ed è puro ol’skool che incede sornione, sottomesso dalle parole del reverendo Jeremiah Wright: "Abbiamo bombardato Hiroshima, abbiamo bombardato Nagasaki, ne abbiamo ammazzati molti di più delle migliaia di persone morte tra New York e il Pentagono, eppure non abbiamo mai battuto ciglio". Più che un’apertura, una dichiarazione di guerra.
Gutter Tactics è ciò che ci si aspetta eppure travolge sempre, cambiano alcune cose ma il modus operandi è quello. C’è meno solitudine, il mondo non è una palla ghiacciata in mezzo all’universo, Dälek rappa molto più hardcore rispetto ai precedenti, ritorna sullo stile di Gods And Griots e non da mai tregua, è un treno di rancore e sangue che insegue la propria rabbia e va dove vuole che lei vada.
Gutter Tactics sono le tattiche del flow, come un bignami del rapper di strada con dietro uno che voleva fare shoegaze ma è nato negro e incazzato. Ma c’è speranza questa volta, la luce in fondo al tunnel di "Atypical Stereotype", un appello a chi forse possiamo intruire: “tu cambia le cose, io cambierò le mie storie”.
Stare da una parte, sempre.
I saw a man yesterday,
Snub-nosed .38 to temple test his fate
And lose.
I had the same new balance shoes
I wonder what size?
Registrato in pieno 2005, poco prima dell’uscita di Still e poco dopo il rilascio di Absence (quindi prima di Deadverse Massive e di Abandoned Language e Gutter Tactics), e disponibile solo in tiratura limitata per la felice serie Latitudes della Sourthern Records, i quarantaquattro minuti dell'Untitled costituiscono il loro più solenne flusso di coscienza, in cui elementi mediorientali, ammassi gassosi di vocabolari rap (un Prefuse73 reso colossale), silenzi scioccanti e concertazioni dissonanti entrano in collisione rimanendo pura collisione di gestalt casuali, il loro ultimo e più importante nadir artistico e il primo viaggio dantesco della black music.
Nel 2016, dopo aver firmato per la Profound Lore Records (un’etichetta di solito dedita a produzioni di matrice metal & dintorni) e dopo aver chiamato alla propria corte due nuovi collaboratori (DJ rEK and Mike Swarmbots), MC Dälek è pronto a rilasciare nuovi, inquieti dispacci dal suo universo hip-hop.
Asphalt For Eden (che rende il suono del trio definitivamente “classico”, senza spingersi oltre le vette raggiunte in passato) apre in medias res, con una “Shattered” che è marchio di fabbrica infallibile ma scontato, tra flow elastico e fondali rumorosi in cui malinconia e stupore sono attraversati da un cupo splendore. E’ il suono, lo sappiamo, della progressiva decadenza di un mondo che i Nostri continuano a scrutare da una distanza di sicurezza, proponendo la rivolta come unica arma possibile (“Guaranteed Struggle”) e aprendo spiragli verso il passato lungo crinali ipnagogici che aleggiano in preda a febbri melodiche (“Masked Laughter (Nothing’s Left)”). In “Critical”, il connubio-scontro tra la forza dei beat e la scivolosa malìa dei fondali raggiunge probabilmente il punto di maggior equilibrio, mentre lo strumentale “6dB” percorre sentieri cinematici che ampliano lo spettro dell'introspezione.
Altrove, atmosfere dilatate e fluttuanti (“Control”, “It Just Is”) sembrano voler annunciare nuove possibilità espressive, risolvendo l’irruenza dei loro numeri più politicizzati in un torbido miscuglio di paesaggi immaginari, memorie sepolte sotto le macerie degli anni-sugli-anni e incubi trasfigurati in ipnosi agrodolci. Come a dire che, per raggiungere la felicità, bisogna percorrere strade in cui l’asfalto si fa progressivamente più bollente.
Rodata la nuova line-up, Will Brooks e i due collaboratori partoriscono il più lungo Endangered Philosophies (2017), con cui confermano ufficialmente la rentrée (anche per via del ritorno su Ipecac). Il trio partorisce numeri ancora potenti, “Echoes Of…” (buon esempio di quello che si potrebbe etichettare come noise-doom), “Few Understand”, verace j’accuse alla massa ignorante punteggiato di dissonanze petulanti alla Public Enemy, e un nuovo piccolo classico, “A Collective Cancelled Thought”, predica rabbiosa racchiusa in una lunga cavalcata elettroacustica. Numeri minori (“Battlecries”, “Weapons”, “Beyond The Madness”, “The Son Of Immigrants”), svariano invece da psichedelia ambientale a forme fondamentalmente riappacificate con la tonalità e persino con la melodia, pagando anche pegno alle radici loro old-school (“Nothing Stays Permanent”), e sfiorare la ballata soul (“Numb”). Lo storico assalto cacofonico, qui trattenuto e a volte trasognato, fa imborghesire di quel tanto il progetto, ma - pur mancando di vero sabotaggio e aggrappandosi a una cura da designer del suono - messaggio e musica escono ancora dirompenti.
DALEK | ||
Negro Necro Nekros (Gern Blandsten, 1998) | 7,5 | |
From Filthy Tongue Of Gods And Griots (Ipecac, 2002) | 7,5 | |
Absence (Ipecac, 2005) | 8,5 | |
Deadverse Massive Vol.1: Dälek Rarities 1999-2006 (antologia, Hydra Head, 2007) | 8 | |
Abandoned Language (Ipecac, 2007) | 7 | |
Gutter Tactics (Ipecac, 2009) | 7,5 | |
Untitled (Latitudes, 2010) | 8 | |
Asphalt for Eden (Profound Lore, 2016) | 6 | |
Endangered Philosophies (Ipecac, 2017) | 6 | |
COLLABORAZIONI | ||
Megaton/Classical Homicide [w/ Techno Animal] | 8 | |
Ruin It Ep [w/ Kid606] (2002) | 6,5 | |
Dälek vs Velma (2003) | 7 | |
Derbe Respect, Alder [w/ Faust] (2004) | ||
Dälek vs Zu (2005) | 6,5 | |
Dälek & Destructo Swarmboot & Oddateee - Deadverse Massive (2007) | 7,5 |
Sito ufficiale | |
Myspace | |
Testi |