Il governo sta tornando indietro su varie misure della legge di bilancio

Anche su quelle che il ministro dell'Economia aveva detto che non sarebbero state assolutamente cambiate: tutto per chiudere la pratica entro Natale

Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti al Forum Mondiale OCSE sul benessere, Roma, 6 novembre 2024 (Cecilia Fabiano/LaPresse)
Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti al Forum Mondiale OCSE sul benessere, Roma, 6 novembre 2024 (Cecilia Fabiano/LaPresse)
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Lunedì scorso il governo, al termine di una riunione coi leader di maggioranza e col ministro dell’Economia, ha concordato di proporre delle modifiche di un certo rilievo al disegno di legge di bilancio che sta per entrare nella fase decisiva di approvazione in parlamento. Alcuni degli emendamenti annunciati, a cui i tecnici del ministero dell’Economia stanno lavorando, sono di fatto interventi con cui il governo modifica in maniera sostanziale alcune delle norme inizialmente inserite nel disegno di legge che era stato approvato dal Consiglio dei ministri a metà ottobre.

Quest’anno la presidente del Consiglio Giorgia Meloni vorrebbe anticipare l’approvazione definitiva della legge di cinque o sei giorni rispetto al solito, provando a chiudere entro il 22 o 23 dicembre, e i ripensamenti sono dovuti anche all’esigenza di sveltire il processo.

In generale è abbastanza usuale che il governo faccia interventi simili. L’approvazione del disegno di legge di bilancio – il più importante provvedimento di programmazione economica per l’anno seguente – deve infatti avvenire entro metà ottobre per essere inviato in tempo alla Commissione Europea, che poi lo esamina. Da quel momento i saldi di finanza pubblica, cioè l’andamento della spesa e del debito e degli altri principali parametri macroeconomici, devono sostanzialmente restare invariati: nel frattempo però comincia un negoziato interno ai partiti della maggioranza, con trattative spesso turbolente per modificare o correggere alcune misure. Quasi sempre le trattative riguardano le norme accessorie, e non quelle fondamentali, coi vari partiti che si battono per ottenere qualche concessione da poter rivendicare di fronte agli elettori.

Alla fine infatti il parlamento approva la legge di bilancio votando a favore di un cosiddetto “maxiemendamento”, cioè un emendamento unico che riscrive integralmente la legge includendovi tutte le varie modifiche aggiunte nel frattempo.

In alcuni casi, ma sono abbastanza rari, i ripensamenti del governo sono più traumatici. Succede per esempio quando ci si accorge che una certa norma è stata scritta male, oppure si dimostra inapplicabile, o viene criticata molto duramente dalle associazioni di categoria, dalle istituzioni nazionali più autorevoli (Banca d’Italia, la Corte dei Conti) o da quelle europee e internazionali. Nel dicembre del 2022, durante la discussione della sua prima legge di bilancio, il governo di Meloni fu costretto a rimuovere in tutta fretta una misura che limitava significativamente l’uso dei pagamenti elettronici. La misura infatti avrebbe invalidato uno degli obiettivi già raggiunti del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), e dopo alcuni rilievi della Banca d’Italia e un intervento dei tecnici della presidenza della Repubblica venne cancellata.

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Poi ci sono i consueti tatticismi del ministro dell’Economia di turno. Chi più e chi meno, ma un po’ tutti i ministri dell’Economia, avendo a che fare con una cronica ristrettezza di risorse, finiscono per dover scontentare gli altri loro colleghi del governo e i partiti di maggioranza limitando le spese e imponendo tagli. Il ministro dell’Economia è il principale responsabile della legge di bilancio ed è tra i pochi ad avere piena conoscenza delle effettive disponibilità finanziarie del governo: è normale che in prima battuta si opponga del tutto ad alcune misure, o che imponga un approccio particolarmente rigoroso, sapendo già però che poi dovrà fare delle concessioni ai partiti, in una logica negoziale molto politica.

Quest’anno stanno succedendo un po’ tutte queste cose insieme: i ravvedimenti del governo sembrano per ora limitati alle misure meno incisive in termini di spesa, ma riguardano molte di quelle su cui c’era una certa tensione tra i partiti di maggioranza e su cui il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti aveva preso impegni netti e perfino categorici, salvo poi dover accettare alcuni compromessi.

Forse il ripensamento più notevole del governo sulla legge di bilancio riguarda la cosiddetta “web tax” o “digital tax”, l’imposta sui servizi digitali, cioè sui ricavi che siti e social network traggono dalla pubblicità online. Il governo aveva deciso di estendere questa tassa a tutte le imprese che operano nel settore, anche le più piccole: in questo modo avrebbe eliminato i limiti finora esistenti, per cui la tassa si applicava solo alle multinazionali che facevano ricavi complessivi superiori a 750 milioni di euro l’anno, di cui almeno 5,5 milioni realizzati in Italia. A pagare la tassa quindi avrebbero dovuto essere anche le piccole imprese (comprese le società editoriali).

Il leader di Forza Italia Antonio Tajani coi capigruppo del partito di Camera e Senato, Paolo Barelli (a sinistra) e Maurizio Gasparri (a destra), il 13 maggio 2024 (Roberto Monaldo/LaPresse)

Questa norma aveva generato molti malumori tra i partiti di maggioranza, anche perché contraddiceva una battaglia storica di Fratelli d’Italia e Forza Italia per cui questa tassa avrebbe dovuto riguardare solo i cosiddetti «giganti del web», cioè le multinazionali con sede fiscale all’estero. L’Italia, come aveva notato in maniera critica Banca d’Italia, sarebbe diventata il primo paese dell’UE a eliminare qualsiasi soglia di applicazione di questa imposta. Giorgetti aveva escluso la possibilità di correzioni significative: aveva detto infatti che a suo avviso altri paesi europei avrebbero seguito l’esempio italiano, e aveva soprattutto avvertito che nel caso in cui si fossero reintrodotte le soglie di applicazione la norma sarebbe diventata particolarmente punitiva per alcune grandi aziende americane, esponendo l’Italia a eventuali ritorsioni commerciali da parte del governo degli Stati Uniti.

Nonostante tutto questo, l’accordo raggiunto lunedì scorso dai leader di maggioranza prevede di modificare questa norma apparentemente intoccabile, reintroducendo almeno uno dei due limiti finora in vigore, quello dei 750 milioni di euro di ricavi. Dal pagamento dell’imposta sarebbe così esentata di nuovo la quasi totalità delle aziende editoriali e delle piccole e medie aziende italiane del settore.

Analogamente, il governo è intenzionato a tornare indietro anche sulla norma che innalzava le ritenute fiscali sui rendimenti delle criptovalute dal 26 al 42 per cento. È una norma molto contestata, anche perché avrebbe garantito allo Stato maggiori entrate per appena 16 milioni di euro ma avrebbe rischiato di scoraggiare in maniera significativa la crescita di un settore in grande espansione. In questo caso a protestare era stata in particolare la Lega, cioè lo stesso partito del ministro dell’Economia, col suo deputato Giulio Centemero. Anche qui alla fine si è trovato un compromesso: la tassazione aumenterà ma fino al 33 per cento, rivedendo però alcune esenzioni fiscali garantite finora agli operatori del settore.

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Forza Italia aveva invece espresso grosse critiche su una norma che obbligava le aziende che ricevono almeno 100mila euro di soldi pubblici a nominare un revisore del ministero dell’Economia nei propri collegi sindacali, cioè negli organismi che vigilano sui bilanci: era una norma evidentemente statalista, su cui Giorgetti aveva detto che avrebbe accettato modifiche solo a patto che il senso originario fosse mantenuto, e cioè che lo Stato potesse avere un controllo diretto sull’utilizzo dei suoi finanziamenti alle aziende.

Ora anche su questo il governo sta definendo un emendamento che modifica la misura in modo sostanziale, in base al quale le aziende dovranno semplicemente rendicontare in maniera puntuale, su un prospetto specifico nei loro bilanci, l’utilizzo delle risorse pubbliche.

C’è ancora qualche altra modifica di un qualche rilievo al disegno di legge di bilancio. È stata aggiunta la detassazione degli straordinari di medici e infermieri (una concessione limitatissima, ma che prova a fare qualcosa in favore di una delle categorie che avevano maggiormente criticato la manovra) ed è stato rimosso il blocco delle assunzioni per le forze dell’ordine e per gli enti locali, impegnati nell’attuazione dei progetti del PNRR. C’è poi stata una parziale modifica dell’orientamento del governo sull’industria automobilistica.

La versione iniziale della manovra aveva infatti ridotto di 4,6 miliardi di euro la dotazione residua di un fondo stanziato dal governo di Mario Draghi nel 2022 e che poteva ancora contare su 5,8 miliardi rimanenti (sugli 8,7 iniziali). Dopo le dimissioni di Carlos Tavares come amministratore delegato di Stellantis, e nel contesto di un dialogo meno conflittuale tra John Elkann e il governo italiano, il ministro delle Imprese Adolfo Urso ha annunciato di voler reintrodurre dei fondi a sostegno del settore: la cifra esatta ancora non è nota, ma per il 2025 saranno probabilmente alcune centinaia di milioni di euro.

Il ministro per i Rapporti con il parlamento Luca Ciriani parla con Giorgia Meloni alla Camera, il 15 ottobre 2024 (Mauro Scrobogna/LaPresse)

Nel complesso comunque le trattative tra i partiti di maggioranza non sono state caratterizzate da particolare scompiglio. Uno dei motivi è che quest’anno Meloni ha applicato un metodo molto diverso rispetto al 2023. Lo scorso anno la presidente del Consiglio aveva imposto ai gruppi parlamentari di maggioranza di non presentare alcun emendamento e di rinunciare a ogni pretesa di parte sulla legge di bilancio. Questo insolito accordo aveva retto per un po’, poi però le tensioni erano emerse e la maggioranza si era trovata a dover gestire le ultime fasi dell’approvazione della manovra con un certo affanno. Stavolta il confronto sta andando avanti in maniera più tradizionale: con le consuete baruffe del caso tra questo o quel partito, con le rivendicazioni degli uni e degli altri, ma senza particolari conflittualità.

Come dicevamo, l’obiettivo che Meloni ha confidato di voler raggiungere è approvare la legge di bilancio entro Natale. Significa dunque che la Camera dovrebbe votare il provvedimento tra il 20 e il 21 dicembre, per poi trasmetterlo al Senato, che il 23 lo approverebbe senza possibilità di apportarvi modifiche. Significherebbe chiudere la pratica con cinque o sei giorni di anticipo rispetto al solito, ma soprattutto evitare l’affanno tipico con cui le maggioranze approvano la legge di bilancio a ridosso della fine dell’anno. Sarebbe un segnale di risolutezza e stabilità che Meloni vuole dare ai mercati finanziari. Le concessioni che Giorgetti ha fatto servono dunque anche a evitare ulteriori tensioni e ad agevolare un’approvazione rapida della manovra.