A causa del lavoro davvero «solerte» di numerosi «cursori» del pensiero evoliano (l’espressione è di Gian Franco Lami), gli esordi culturali di Julius Evola sono stati trascurati o sbrigativamente derubricati a momento insignificante, rispetto al sistema maturo che il pensatore principiò ad elaborare, sul finire degli anni Venti, sotto il segno di Guénon e della Tradizione. Costoro hanno trascurato, nelle esegesi affrettate cui hanno dato luogo, quanto il filosofo stesso sostenne ne Il cammino del cinabro, autobiografia spirituale e «guida tra i suoi libri», in merito alle relazioni sussistenti tra individuo assoluto ed uomo della Tradizione: «si trattò solo di una discesa dell’individuo assoluto da solitarie altezze astratte e rarefatte nella concretezza delle storia […] l’individuo assoluto si sensibilizzava quasi come in una sua incarnazione in colui o in coloro che stavano al centro delle civiltà tradizionali» (Edizioni Mediterranee 2018, pp. 182-183). L’individuo assoluto è la «figura» centrale dell’idealismo magico, sistema filosofico marcato dal novum dadaista. Ciò significa che Evola aveva rintracciato il proprio ubi consistam speculativo ed esistenziale già nella fase artistica, sia in poesia che in pittura. Peraltro, leggere con attenzione gli scritti di teoria dell’arte del filosofo, nonché analizzare la sua produzione magico-poietica, può essere d’aiuto a quanti vogliano liberare l’opera complessiva del pensatore dalla scolastica tradizionalista che, come tutto gli ismi, si costringe nelle categorie del necessitarismo storico e della sterile ripetitività intellettuale, riducendo il pensiero di Tradizione, ad una delle innumerevoli variabili di filosofie dell’impotenza, che la contemporaneità ben conosce. Al contrario, il pensiero di Evola sorse in un confronto serrato con la libertà, la cui misura era da individuarsi nella potenza.
Fortunatamente, nell’ultimo periodo le cose stanno cambiando. Lo mostra la pubblicazione integrale degli scritti estetici e dell’opera poetica e pittorica di Evola (Teoria e pratica dell’arte d’avanguardia, Edizioni Mediterranee, 2018). Tale tendenza è confermata da un recente volume. Ci riferiamo al testo di Curzio Vivarelli, Intorno ad Evola pittore, edito dalle Edizioni del Tridente (pp. 77), libro, peraltro, impreziosito da otto tavole pittoriche dell’autore, alcune delle quali mostrano un’evidente ispirazione sironiana. Vivarelli, fin dall’incipit dello scritto, sembra condividere la nostra tesi: la centralità del momento poietico in Evola. Ricostruisce, inoltre, puntualmente il mileu futur-dadista frequentato dal pensatore e ricorda la duplice periodizzazione, indicata dallo stesso filosofo, della sua produzione artistica, in particolare pittorica, distinta in idealismo sensoriale e in astrattismo mistico. A questo punto, Vivarelli introduce uno strumento esegetico originale. Richiama all’attenzione del lettore una classificazione ideata dallo storico dell’arte Heinrich Wölfflin che, in Svizzera, si pose in sequela del grande Jacob Burckhardt. Wölfflin, dal confronto di percezione tratto dall’ammirare opere rinascimentali e produzioni d’arte barocche, ritenne che le differenze tra le due modalità creative, potessero essere colte all’interno di un sistema biunivoco, così strutturato: lineare-pittorico, superficie-profondità, chiuso-aperto, molteplicità-unità, chiarezza-oscurità. I primi termini delle coppie indicate fanno riferimento all’arte rinascimentale, i secondi alle modalità poietiche proprie del Barocco. L’autore applica i primi al momento lineare dell’estetica evoliana, mentre si serve dei secondi, per rilevare aspetti salienti della pittura del filosofo.
La dualità lineare-pittorico, argomenta il Nostro: «è posta nei termini quasi esatti dei due modi del figurare dichiarati da Evola nel Cammino del Cinabro» (p. 16), mentre la dicotomia superficie-profondità è immediatamente evidente nelle sue opere. I disegni lineari evoliani: «sono partizioni illogiche ed arbitrarie della superficie del foglio» (p. 17). Solo dalla composizione del 1919, messa a corredo dei poemi di Râaga Blanda, si evince l’effetto di ampiezza e profondità, mentre nei quadri la profondità è realizzata: «dalle molteplici fughe nel bianco luminoso o nel blu che digrada a celeste che danno l’immagine quasi di un paesaggio che seppur inesistente essendo “interiore […] si apre ora per uno squarcio […] degli iperurani lontanissimi» (p. 17). Chiuso e aperto discendono in Evola da tali distinzioni. Il foglio, nelle composizioni lineari è chiuso, mentre l’hortus conclusus viene meno nei dipinti. In essi, le sfumature continue, rendono labili i confini tra regione e regione dello spazio, facendo prevalere l’aperto. La molteplicità si manifesta nella produzione lineare del tradizionalista, all’interno della percezione: «d’un disegno d’insieme policentrico» (p. 19), mentre l’unità la si percepisce nei dipinti in cui subentrata una percezione accentratrice. La chiarezza è, di poi, la connotazione essenziale delle produzioni lineari mentre: «oscurità e moto (sono) riassunte in modo esatto nei quadri » (p. 20), il moto si mostra nelle lingue di fiamma, nei coni metallici calati nelle composizioni, nelle serpentine ascendenti.
In fondo, le distinzioni del Wölfflin sono sintoniche alla fondamentale intuizione schopenhaueriana del mondo, in cui alla Volontà si contrappone la Rappresentazione, all’illimitato caotico originario sta di contro il limite spazio-temporale dell’intuizione rappresentativa, il principium individuationis. Aggiungiamo che, oltre al riferimento al pensatore di Danzica, è possibile cogliere il rinvio al Nietzsche de La nascita della tragedia e alla sua contrapposizione di dionisiaco ed apollineo. L’arte evoliana, in particolare la pittura, sarebbe, a dire di Vivarelli, attraversata da questa dicotomica polarità. E’ proprio così, perché il filosofo mirava ad un’ arte-pensiero-vita in cui i momenti dell’arché trovassero sintesi, unità. L’arte, quindi, non è semplicemente per Evola organo schellinghiano di un sapere orientato all’Uno, ma tentativo di realizzarlo, in un percorso iperbolico e inconcluso! Per tale ragione, ha evidente rilevanza nell’economia generale del libro il capitolo dedicato alla filosofia francese che il tradizionalista recuperò nelle opere teoretiche. Centrale, in particolare, il riferimento a Jules Lagneau che: «sembra riportare la filosofia ai tempi dell’epoca tragica degli Elleni» (p. 25).
Una sentenza del filosofo francese colpì la sensibilità spirituale di Evola: «Le grandi distese sono il marchio della mia potenza, e segno della mia vacuità è il tempo» (p. 25), da quel momento al potenza divenne per lui misura della Libertà originaria.
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