LE FORME DELLA COSCIENZA
Le origini della coscienza
Jaynes, nel suo libro dal titolo “Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza” ipotizza che “sia esistita una razza di uomini che parlavano, giudicavano, ragionavano, risolvevano problemi, che facevano in definitiva quasi tutto quello che facciamo noi, ma che non erano coscienti” (J. Jaynes, Il Crollo della Mente Bicamerale e l’Origine della Coscienza, pag.69).
Egli sostiene che noi siamo coscienti solo quando siamo coscienti di esserlo perché quando non siamo coscienti non possiamo sapere di esserlo. La temporalità della coscienza è quindi molto relativa ed è determinata dalla spazializzazione e cioè dalla separazione delle cose poiché “nella coscienza non vediamo mai nulla nella sua interezza” (pag.85), e cioè selezioniamo dalle cose ciò che assume rilevanza. La rilevanza selettiva ha un importante ruolo nella narratività poiché appartiene alla coscienza la ricerca di significato e di senso che gli uomini hanno acquisito attraverso il racconto degli eventi.
La nascita della coscienza in senso moderno è per Jaynes molto recente tanto che nella sua analisi vede assenza di introspezione e comportamenti da “voci interne” fino a circa tremila anni or sono. Tali voci sono strutture archetipiche che si sono formate nella mente umana in una fase evolutiva priva di soggettività: una mente che non era cosciente d’essere cosciente e priva di introspezione.
Jaynes chiama questa forma mentale, mente bicamerale. L’ipotesi è che la mente fosse scissa in due parti: una parte chiamata “dio” e una parte “uomo”. Nessuna della due parti era cosciente. Privo di coscienza, l’uomo bicamerale era parte dell’accadere del mondo, senza possibilità di coscienza. È probabile che le voci all’epoca bicamerale fossero simili alle allucinazioni uditive dell’uomo moderno. Delle voci possono essere udite anche da persone normali in periodi di stress molto forte, forse a causa dell’accumulo nel sangue di sostanze di decomposizione dell’adrenalina, causato dallo stress. I comportamenti, le decisioni, le iniziative, non erano organizzate coscientemente, ma udite dall’individuo. Egli obbediva a queste voci allucinatorie, non cosciente del da farsi.
La mente bicamerale, possiede solo nell’emisfero sinistro le tre aree destinate al linguaggio, mentre tutte le altre importanti funzioni sono rappresentate bilateralmente. Jaynes si chiede se le aree dell’emisfero destro, corrispondenti alle aree del linguaggio, non abbiano avuto in passato un ruolo che ora non hanno più. Entrambi gli emisferi sono in grado di comprendere il linguaggio ma solo il sinistro può parlare. Nell’emisfero destro, nell’area corrispondente all’area di Wernike dell’emisfero sinistro, esiste una funzione vestigiale simile alla voce degli dei.
Gli studi fatti da Wilder Penfield dimostrano che stimolando quest’area si possono verificare esperienze allucinogene a carattere uditivo, simili ad imperativi divini. I due emisferi sono in grado di funzionare come due persone indipendenti, forse in passato erano la parte divina e quell’umana e le differenze nelle funzioni cognitive sono forse lo specchio delle differenze tra uomo e dio.
La plasticità del cervello, inoltre, permette mutamenti come quello dall’uomo bicamerale all’uomo cosciente, sotto lo stimolo dell’apprendimento e della cultura. “La mente bicamerale è una forma di controllo sociale ed è per la precisione quella forma di controllo sociale che consentì all’umanità di passare dai piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori alle grandi comunità agricole” (J. Jaynes, Il Crollo della Mente Bicamerale e l’Origine della Coscienza, pag.159), permettendo l’origine della civiltà.
Uomini e donne non erano coscienti, ognuno aveva una parte divina che impartiva ordini, gli dei erano la volizione dell’uomo. Questa suggestiva interpretazione dei complessi archetipici, peraltro efficacemente giustificativa delle teologie rintracciabili nei miti, è anche una implicita spiegazione della ricerca sempre in atto nell’uomo di costruzioni simboliche, quali l’olismo o la teoria dei sistemi o lo strutturalismo o la condivisione umana di “campi morfogenetici”
Un modo recente e particolare di descrivere gli archetipi e quella legata all’evoluzione della teoria del campo di Kurt Lewin discussa da Rupert Sheldrake ed ampiamente utilizzata da Bert Hellinger con il concetto di campo morfogenetico. Tali campi morfogenetici influenzano i comportamenti mediante risonanza morfica non cosciente. Ispirandosi a questo concetto, molto più rarefatto della risonanza intragruppale di Hinshelwood o della risonanza di personalità collettva della teoria relazionale, Bert Hellinger costruisce un sistema di rappresentazione delle relazioni famigliari che utilizza nelle costellazioni famigliari in cui chi fa da rappresentante può entrare in contatto con la vibrazione di quella famiglia, e sentire come se fosse la persona che sta rappresentando. Esso è “il campo attraverso cui i rappresentanti possono accedere alla coscienza delle persone che rappresentano, percependone sentimenti e relazioni ed entrandoin contatto, ad un livello molto profondo, con un sistema di relazioni che non è il loro. Questo fenomeno è difficilmente spiegabile..” (Bertold Ulsamer, Senza radici non si vola, Edizioni Crisalide, 2000, pag 79). La nostra obiezione a questo ragionamento è radicale. Non tanto per il metodo di lavoro psicodrammatico di indubitabile efficacia che propone e nemmeno per i richiami di buon senso agli ordini dell’amore (l’appartenenza da cui nessuno può essere escluso; l’equilibrio tra dare e ricevere e le restituzioni incrementali; la precedenza gerarchizzata nel tempo) quanto per il fondamento teorico, implicitamente transpersonale, che lega la coscienza personale alla coscienza sistemica ed alla coscienza “integrale” ed ai suoi ordini immutabili che tendono a preservare il sistema risalenti ad epoche primitive, nelle quali, ad esempio, l’esclusione di una persona dal gruppo significava una sua condanna a morte. L’evoluzione della coscienza rende mutevoli tali ordini archetipi che non possono essere ripristinati in modo conservatore ma debbono evolvere mediante lo sviluppo di ulteriore affettività interumana., tendenti a spiegare l’equifinalità dei comportamenti o l’obbedienza umana a leggi comportamentali relativamente comuni a tutta la specie. L’archetipo è utile per la sopravvivenza delle relazioni (o almeno per limitare, nell’ecologia umana, la loro distruzione dettata da impulsi egoistici o tribali) fino a quando un ulteriore potenziamento della coscienza pone fine alla mente bicamerale e desincronizza gli emisferi.
Quali mutamenti permisero il passaggio dalla mente bicamerale alla coscienza? Quando avvenne questo? Perché? Jaynes, con l’ausilio di documenti storici, archeologici, antropologici, vede il secondo millennio a.C. come teatro di grandi sconvolgimenti sia geografici sia culturali. L’inizio dei commerci, l’aumento della popolazione, le guerre, misero in luce la precarietà e la fragilità delle teocrazie bicamerali. L’avvento della scrittura, su tavolette d’argilla, provocò l’indebolimento delle allucinazioni uditive fino all’emersione di nuove capacità mentali, che diedero il via ad un ulteriore sviluppo della coscienza.
Ricordi, pensieri ed emozioni danno vita ad un primario io ed alla coscienza soggettiva mentre il cervello bicamerale contiene ancora residui del nostro passato. Ciò significherebbe che l’emisfero destro si è involuto per lasciare spazio alla dimensione razionale dell’io cosciente e, secondo Jaynes, l’esperienza religiosa è il residuo più manifesto di una diversa forma mentale in cui risiedeva la convinzione dell’esistenza di una relazione con un’entità più vasta.
La coscienza implica infatti una separazione dalla relazione con il tutto e una chiusura dell’io in se stesso che interpreta il permanere di allucinazioni come forme di patologie schizofreniche che dissolvono l’io.
Il processo di estensione della coscienza sembra invece di segno opposto: proprio il distanziamento dalle voci interiori internalizzate come archetipi conduce alla loro progressiva osservazione ed elaborazione facendo i conti con l’angoscia di morte e con l’interpretazione delle voci interiori profonde. Ma non si tratta di lotta contro l’emersione dall’inconscio della forma mentale primitiva ma semmai dell’integrazione e della purificazione del sapere ancestrale presente nell’uomo e nella esperienza biologica fino agli strati più inferiori.
In pratica la liberazione dagli istinti primordiali è condotta attraverso la purificazione di tali strati e la trasformazione delle negatività in essi contenute in risorse per l’ulteriore sviluppo della affettività nel mondo sociale, relazionale ed anche nella sfera biologica.
Tale processo non può però prescindere dall’uso della coscienza come orientatore dei processi affettivi.
La coscienza
La caratteristica fondante dell’essere umano è un grado assolutamente superiore agli altri esseri viventi di allargamento della coscienza. La coscienza dell’ego, che è formata dalla somma dei contenuti psichici presenti nella persona, è inondata da un flusso continuo di pensieri, emozioni, sentimenti, stati d’animo e di umori che trasformano la psicofisiologia della coscienza stessa, pur lasciando inalterato il nucleo dell’identità della persona. Nel momento del risveglio dal sonno la coscienza sa di avere una continuità, sa di essere la stessa del giorno prima e sa anche di aver dormito. Pur essendo rimasta sopita nel corso del sonno.
In contrasto con la coscienza si presentano tre condizioni di progressiva diminuzione della coscienza, che possono essere graduate fino all’inconscio, al sonno, al coma. La coscienza può quindi essere descritta come: mondo del conscio, della vigilanza e della lucidità.
Poste queste condizioni nel loro equilibrio ottimale, possiamo definire la coscienza come l’autopercezione del sé vivente. Che, in altre parole, corrisponde a quello stato di pienezza che spesso definiamo come “sentirsi vivi”.
All’interno della elaborazione del sapere scientifico possiamo però inventariare informazioni importanti sul rapporto tra vita, identità e coscienza. Tali informazioni sono utili per dissipare numerosi equivoci o proiezioni negative sulla morte.
In primo luogo la certezza dell’identità di ciascuna forma vitale è scientificamente dimostrata dall’infinita differenziazione del DNA, in secondo luogo l’esperienza del vissuto umano ha a che fare con la coscienza di esistere in una specifica forma di esistenza.
L'identità profonda si colloca in un luogo "altro" rispetto alla coscienza, la cui attività va, per così dire, sospesa per accertare l'identità. Questo processo che va a suggerire al soggetto la sede, la struttura e le dimensioni della propria identità, si attua giungendo ai limiti del campo di esistenza della coscienza per giungere ad intuire ciò che la sorregge e la connota; ciò accade in momenti deriflessivi. La "presa diretta" del vissuto, il distanziamento da sé, la "messa tra parentesi della realtà", pratiche tradizionali quali la meditazione o la preghiera, oppure nel momento finale del processo di coglimento empatico del vissuto altrui. Quando cioè, sospesa la riflessività vigile, l'individuo percepisce la voce del suo "io": una voce che parla dentro di lui sempre con lo stesso timbro, dalla nascita alla morte e che lo contraddistingue.
Ciascun uomo ha una specifica identità, condivide aspetti comuni con altri membri della specie e perviene a livelli di coscienza di sé e della sua identità in funzione del grado di approfondimento del suo processo di individuazione.
Per individuazione si intende il lavoro mentale ed emozionale attraverso cui l’essere umano amplifica la conoscenza di se stesso. Tale conoscenza rafforza l’identità soggettiva ma non conduce all’individualismo poiché tanto più l’essere umano si conosce tanto più facilmente arriva a conoscere e capire gli altri esseri umani.
Tanto maggiore è il grado di elaborazione dei processi interiori, presi in considerazione dentro di sé, tanto più i processi mentali altrui, anche i più folli ed irrazionali, diventano comprensibili.
Il processo di crescita interiore può essere descritto come un progressivo aprirsi a dimensioni emozionali di esistenza estranee e lontane dalle percezioni abituali e la successiva interpretazione di tali emozioni in vista della loro comprensione
L‘incapacità di un bambino dislessico di rispettare le doppie appare misteriosa fintantoché non si entri nel suo mondo mentale e non si empatizzi con lui l’esperienza delle lettere che “saltano” da sole o che diventano invisibili. Solo dopo, è possibile comprendere la presenza anche nel nostro vissuto di episodi analoghi: perché le chiavi di casa hanno cambiato posto senza che io me ne sia accorto? Perché il tubetto di colla sulla mia scrivania è diventato invisibile e non riesco a trovarlo anche se ce l’ho sotto gli occhi? L’analogia dei vissuti li rende confrontabili e la mia coscienza si estende. Allo stesso modo posso calarmi nei vissuti di qualunque essere umano, anche i più abominevoli e capirne il senso perverso: qual’era il vissuto interiore di quel kamikaze che ha ucciso 40 persone? Anche se il delirio interiore e la sua autoanestesia affettiva mi fanno inorridire e condanno risolutamente il suo gesto, posso comprenderne la dinamica ed afferrare la forma mentale esperita nel compiere tale terribile ed insensato atto..
L’individuazione serve anche a prendere sufficiente distanza psichica da vissuti anaffettivi e riprovevoli, perché l’estensione della coscienza amplifica anche le capacità critiche e non solo quelle di immedesimazione.
Al fine di far evolvere l’estensione della coscienza è necessario affrontare scientificamente i diversi significati psicobiologici che la definiscono.
Prima di tutto coscienza è consapevolezza di se stessa e del mondo esterno attraverso la realizzazione di alcuni processi psichici elementari come vigilanza, memoria, e ideazione che consentono la presa d’atto della differenza tra sé e gli altri e la possibilità di riflettere sui propri personali vissuti.
Essa è dunque, secondo Jaspers, sia l’interiorità di un’esperienza vissuta, sia coscienza oggettiva, sia autoriflessione. La possibilità di sperimentazione della coscienza è alterata con il diminuire della capacità di vigilanza e di lucidità.
La coscienza dell’Io è contraddistinta, secondo Jaspers, da 4 caratteri formali: coscienza di attività, coscienza dell’unità, coscienza dell’identità, coscienza della delimitazione. Diminuzioni di questi caratteri di coscienza conducono a depersonalizzazione autopsichica (estraneità del proprio Io psichico dell’unitarietà del Sé), depersonalizzazione somatopsichica (estraneità del proprio corpo o di parti di esso, Sé fisico), derealizzazione (estraneità della percezione dell’ambiente). Tali alterazioni della coscienza compaiono occasionalmente in condizioni di stanchezza o isolamento, in situazioni di patologia epilettica (crisi parziali, aura, automatismi) o nei disturbi dissociativi, nella schizofrenia e nei disturbi dell’umore.
I disturbi di depersonalizzazione appaiono come esperienze di distacco e di estraneità vissute dal soggetto nei confronti della propria interiorità psichica, del proprio corpo o dell’ambiente esterno La derealizzazione è invece connessa alla perdita del contatto che ciascuno ha con la continuità della sua coscienza. In ambedue i casi si accompagnano a sensazioni di angoscia.
Nella psicopatologia descrittiva i disturbi della coscienza di sé sono declinati come disturbi del senso di esistere, disturbi della percezione della propria attività, disturbi della continuità del sé e della unicità del sé, disturbi dell’identità e dei confini del sé.
La perdita o la crisi nella coscienza dell’io sono infatti sensazioni correlate all’emersione della angoscia di morte poiché implicano una sensazione di distacco dalla continuità del sé. Per l’essere umano la perdita della coscienza di sé equivale alla perdita della vita stessa.
Per la piena comprensione dei processi di coscienza occorre però affrontare le grandi categorie in cui la coscienza è articolata:
Conscio Inconscio
Vigilanza Sonno
Lucidità Coma
Conscio /Inconscio
Qui la coscienza è definibile come la parte della attività psichica che emerge dall’inconscio e che diventa contenuto della coscienza stessa.
Con il termine inconscio Freud intendeva un complesso di processi, contenuti ed impulsi che non affiorano alla coscienza del soggetto e non sono quindi controllabili razionalmente. Egli riferì il termine dapprima ad una parte della mente in cui si trovano i contenuti psichici rimossi, per poi passare ad indicare i contenuti stessi che possono riaffiorare nei sogni in forma simbolica, o manifestarsi come atti mancati, come i lapsus e le distrazioni. La dimensione inconscia e irrazionale è per la psicoanalisi il luogo in cui si annidano una serie di istinti e desideri il cui contenuto non si manifesta a livello cosciente, ma la cui soddisfazione è necessaria, pena il manifestarsi di disturbi del comportamento più o meno gravi.
La forte dicotomia tra conscio e inconscio ha portato la formulazione di un luogo intermedio ai due: il subconscio. Il subcosciente (espressione che non fa parte della terminologia psicoanalitica) è descritto come uno stato a cui si può accedere con meno sforzo, in quanto interposto tra il conscio e l'inconscio. Lo stadio di mezzo era stato definito come preconscio per la sua attività di censore dei desideri e impulsi dell'inconscio, a cui permette un accesso distorto alla coscienza.
I contenuti preconsci sarebbero quindi non-immediatamente accessibili alla coscienza, ma neanche del tutto inaccessibili come quelli inconsci.
Oggi possiamo però estendere, in modo semplice, il significato della dimensione inconscia a tutto ciò che attiene alla nostra attività psichica senza apparire alla coscienza attuale. Vi sono parti dell’inconscio che possono essere attivate con un semplice richiamo di memoria, altre che sono più lontane, altre fortemente precluse perché blindate da sensazioni di dolore o di paura, altre ancora del tutto inaccessibili alla coscienza come i processi fisiologici neurovegetativi che soprassiedono all’equilibrio vitale, alla crescita, alla riproduzione. Le regolazioni psicosomatiche e somatopsichiche, ad esempio, non possono essere accessibili alla coscienza che, per interagire con tali processi, ha bisogno di individuare altri percorsi psicobiologici.
In questa ottica si ribalta la definizione di partenza e, posto che sia conscio tutto ciò che appare nella esperienza attuale della nostra coscienza, l’inconscio è tutto il resto. Più o meno facilmente accessibile alla coscienza. Ciò dipende dalla proprietà stesse della coscienza perché non può esistere una entità totalmente cosciente.
"Basta riflettere solo un pò sul problema, scrive Gregory Bateson, per convincersi che non si può concepire in alcun modo un sistema totalmente cosciente. Si immagini che sullo schermo della coscienza vi siano resoconti provenienti da numerose parti dell'intera mente, e si immagini di aggiungere alla coscienza i resoconti necessari a riferire su ciò di cui, ad un dato stadio di evoluzioni, non si hanno ancora informazioni. Quest'aggiunta comporterà un grandissimo aumento della struttura circuitale del cervello, ma non darà lo stesso un'informazione completa. Il passo successivo consisterà nel riferire sui processi e sugli eventi che hanno luogo nella struttura circuitale or ora aggiunta. E così via". Se infatti si paragona la coscienza ad uno schermo è facile appurare che su tale schermo può essere proiettata qualsiasi immagine, compresa l'immagine dello schermo stesso, tranne che l'immagine della telecamera che sta riprendendo lo schermo. E' possibile riprendere la telecamera con una seconda telecamera, la quale può essere ripresa riflessivamente dalla prima, ma sarà allora necessaria una terza telecamera che riprenda l'intero sistema. E così via. Lo stesso dicasi per i meccanismi riflessivi della nostra coscienza: esisterà qualche struttura a fondamento della coscienza stessa che non è direttamente esaminabile dalla coscienza. Tale fondamento è lo specifico individuale di ciascuna coscienza, che ne determina le caratteristiche e le dimensioni. Per cogliere tale fondamento serve porre una distanza dal proprio sé e dalla struttura attivata del pensiero riflesso che va "messa tra parentesi" per far emergere "qualcos'altro".
La nostra attività psichica è caratterizzata da processi di elaborazione generalizzati che prendono in considerazione tutte le informazioni presenti dentro di noi. Noi siamo coscienti di una parte infinitesimale di tali informazioni: possiamo paragonare ciò al lavoro del nostro computer che legge continuamente tutto il contenuto dell’hard disk ma che proietta sullo schermo solo ciò che abbiamo chiesto al processore di elaborare. Il resto, pur non apparendo, esiste ed è ciò che consente al processore di sostenere l’attività specifica che stiamo svolgendo. In altre parole lo schermo -coscienza proietta una piccola parte e ci induce spesso nell’inganno che tale parte sia la effettiva realtà esistente sottraendoci alla comprensione della vastità delle informazioni e dei processi mentali e psicologici che sono in atto in noi momento per momento. Eppure nessuno pensa che, nel momento in cui sta assistendo ad un programma della rete RAI 1, le altre reti non esistano più e non siano in onda.
La distinzione psicologica tra conscio e inconscio è però una metafora simbolica, poiché non esistono questi due comparti nella mente, giacché trattasi delle mobili condizioni in cui un oggetto si affaccia o meno alla coscienza. La distinzione psicodinamica è comunque molto utile, se si supera una visione assolutistica di questo modello, perché conduce ad osservare i processi inconsci come più mutevoli e veloci di quelli consci, poiché sono privi della necessità di allineamento consapevole. L’inconscio può così essere pensato come un mondo che si vede “con la coda dell’occhio”. Esso è formato da tutte le innumerevoli informazioni della vita individuale e della memoria della specie umana, che sono sotto la soglia della percezione intenzionalmente allineata con le informazioni, comprese le informazioni implicite sul grado personale di gestione delle diverse informazioni. Tali informazioni possono essere negate (o rimosse), oppure associate ad altre perché il sistema di pensiero e di emozioni non è in grado di gestirle per la loro incomprensibilità o per il dolore che contengono. In tal caso le informazioni sono messe in posizione da non nuocere, non allineandosi con la percezione consapevole. Così si può comprendere come le informazioni concernenti la nostra identità biologica ed esperienziale, le informazioni circa i complessi archetipici trasmessi dai nostri geni, stanno alle nostre spalle e, pur servendo anche a definire i rapporti sociali, non interferiscano con la nostra attività cosciente. Come potremmo infatti gestire il conflitto tra lo scatenamento emozionale prodotto da una forte attrazione sessuale riproduttiva, lanciata nel nostro organismo dalla attivazione dei ferormoni, con la coscienza delle norme sociali che presiedono alla vita di coppia?
Nell’inconscio si trovano strutture archetipiche che non riusciamo a far emergere e che si sono consolidate nello sviluppo psicobiosociale dell’umanità. Alcune di esse sono utili, altre meno e su queste ultime gravitano molte battaglie di civiltà gestite attraverso la politica.
Vigilanza /Sonno
Il secondo processo riguarda il rapporto tra vigilanza (allerta) e sonno. Vigilanza e sonno presuppongono diversi livelli o stati di coscienza. Il sonno si caratterizza come una quasi totale interruzione dei contatti sensoriali con l’ambiente esterno. Il tracciato elettroencefalografico della veglia ha in condizioni normali un andamento vivace e irregolare, con tanti picchi, denominato desincronizzazione cerebrale. Mostra cioè la presenza di processi mentali plurimi che, in fasi di rilassamento e addormentamento, presentano un andamento più lento denominato di sincronizzazione cerebrale. La desincronizzazione è in atto con uno stato di attivazione cerebrale diffuso, la sincronizzazione è uno stato di riposo. Al termine di ogni ciclo di sonno (90 minuti) a onde lente, compare un processo di desincronizzazione cerebrale abbastanza simile allo stato di veglia. Questa è la fase del sonno in cui compaiono i sogni, ovvero vengono processate informazioni che provengono dall’interno della mente.
Sulla base dei parametri elettroencefalografici il sonno viene classificato come contraddistinto da 5 stadi: 4 Non REM
Durante lo stadio 1 l'attività alfa diminuisce, il pattern di attivazione scarso, L'EEG è costituito principalmente da onde di basso voltaggio di frequenza mista tra i 3-7 Hz. I movimenti degli occhi sono ancora presenti ma lenti, rotanti e oscillatori (non in opposizione di fase come nella fase REM). Nello stadio 2 è presente una attività di fondo di voltaggio relativamente basso, con frequenza variabile ma vicina alle onde theta (3-7 Hz). Nello stadio 3 si presenta una attività Delta (onde di grande ampiezza) e il tono muscolare è ridotto mentre i movimenti degli occhi sonopraticamente assenti.
Lo stadio 4 non ha movimenti degli occhi e una attivazione muscolare tonica molto bassa, con attività metabolica del cervello ridotta (minor consumo di ossigeno e glucosio). Se il soggetto si sveglia in questa fase rimane confuso per qualche minuto. (Rapid eye movement, movimento rapido degli occhi) ed uno stadio REM.
Nel periodo di sonno REM si ha attività onirica con allucinazioni e autorappresentazioni, nei quali il soggetto ha esperienza di vissuti percettivi, assimilabili ad una forma di funzionamento psichico con desideri e impulsi disorganizzati e incomprensibili al pensiero razionale, immagini visive bizzarre e noncuranti del tempo, dell'ordine o della coerenza logica.
Tale funzionamento psichico è indispensabile per la persona. Chi viene infatti privato della possibilità di sognare, attraverso la privazione delle fasi REM, ha una insorgenza rapida di ansia, di irritazione, di disturbi della memoria e della concentrazione.
Durante la veglia l'EEG alterna fondamentalmente tra due pattern. Un pattern chiamato di 'attivazione' (o pattern desincronizzato) caratterizzato da onde di basso voltaggio (10-30 microvolt) ed alta frequenza (16-25 Hz) ed un secondo chiamato 'attività alfa' caratterizzato da onde sinusoidali di 8-12 Hz. L’attivazione è presente quando il paziente è in stato di attenzione ad occhi aperti. I movimenti oculari sono presenti e il tono muscolare è medio-alto.
Lo stadio REM, caratterizzato da un EEG a basso voltaggio con frequenze miste, presenta paralisi dei muscoli (per evitare di mimare i sogni) e per i sogni. Il cervello consuma ossigeno e glucosio come se il soggetto fosse sveglio e stesse svolgendo un'attività intellettuale. Se ci si sveglia in questa fase si è perfettamente orientati.
La sequenza delle fasi del sonno mostra come dalla vigilanza si passi al sonno attraverso un continuum in cui l’alerting cosciente
Alerting che rielabora pensieri, progettualità, esperienze, parole, ricordi ecc. e il controllo volontario sui flussi e sulle associazioni scema e si passa alla comparsa spontanea di processi mentali incontrollati. Non essendoci più contatto con l’ambiente esterno appaiono nella mente rapidi flash allucinatori ipnagogici. Ove essi abbiano una particolare intensità, il dormiente può essere preso da stupore, paura o ansia e svegliarsi di soprassalto (questo è il tipico caso di un disturbo ansioso del sonno).
Il sonno è uno stato dell'organismo caratterizzato da una ridotta reattività agli stimoli ambientali che comporta una sospensione dell'attività relazionale (rapporti con l'ambiente) e modificazioni dello stato di coscienza: esso si instaura autonomamente e periodicamente, si autolimita nel tempo ed è reversibile.
Il fatto che sia reversibile sulla base di uno stimolo esterno (o anche interno, ad esempio con un risveglio autoindotto per comparsa di incubi, preoccupazioni o per autocondizionamento) distingue il sonno dal coma o dall'anestesia che, rispettivamente, sono una patologia o sonno indotto farmacologicamente. Il sonno quindi si differenzia da altri stati di alterazione di coscienza: col sonno la perdita dello stato di coscienza è, come già detto, reversibile. Quindi il soggetto può risvegliarsi dopo stimolo anche non doloroso. Lo stupor diversamente, è un'alterazione dello stato di coscienza dal quale ci si può risvegliare dopo somministrazione di uno stimolo doloroso. Lo stato comatoso è un'alterazione dello stato di coscienza dal quale non ci si può risvegliare dopo somministrazione di uno stimolo doloroso.
Il sogno è una forma di attivazione da parte del Sistema Reticolare Ascendente, che invia impulsi nervosi che raggiungono la corteccia sotto forma di onde ponto-genicolo-occipitali e danno vita a mutevoli immagini, dati sensoriali ed emozioni. I sogni, pertanto, possono essere paragonati ad allucinazioni che sono fisiologiche nello stato ipnagogico.
L’esperienza più profonda del sonno è quella legata alle sequenze narrative, che compongono il sogno. Il sogno è infatti a tutti gli effetti una narrazione, più o meno comprensibile, che appare solo quando siamo lontani dallo stato di veglia.
Questo è il motivo che ci porta a combinare la dimensione del continuum veglia - sonno con la dimensione più emozionale e narrativa degli stati di coscienza. Il tessuto narrativo infatti si può muovere nella direzione della conferma dell’esperienza, operando così una interpretazione ed una sintesi simbolica, oppure divenire così emozionalmente carico da richiedere una proiezione verso l’esterno del vissuto narrativo. In questo caso è molto probabile che si associ allo stato ipnagogico, l’alerting fasico. In tal caso le emozioni prodotte dallo stato di sogno producono una attivazione a seguito di una sorta di avvertimento che ferma il pensiero nell'anticamera del sogno.
Sonno e sogno
La caratteristica più importante della coscienza, nel suo rapporto tra veglia e sonno, è quella di rendere possibile la sua continuazione nel sonno.
Nel sogno la coscienza permane, diminuisce la veglia e l’attenzione vigile, si susseguono fasi di attenzione vigile e progressiva disattenzione; ciò che viene a mancare è la vigilanza conscia sul pensiero. Quando si dorme non si perde la coscienza infatti essa perdura. Se così non fosse al risveglio non avremmo la sensazione di continuità di coscienza ovvero di essere le stesse persone che si sono addormentate il giorno prima.
Il sonno è spesso paragonato alla morte perché nel sonno si perde la percezione del mondo oggettivo e la coscienza perde la sua natura vigile ed entra nella diversa dimensione di coscienza sognante e cioè in uno stato capace di procurare imprevedibili esperienze.
Alla luce dei fenomeni neurofisiologici brevemente descritti prima possiamo comprendere alcune caratteristiche del rapporto tra coscienza e sonno.
1) I vissuti emozionali interiori hanno la caratteristica di turbare il sonno, sia impedendolo con un ansioso alerting quando ci addormentiamo, sia svegliandoci di colpo quando i sogni producono sensazioni o immagini inquietanti. Ove il materiale psichico rimosso non sia stato ben compreso o elaborato emergono prepotentemente disturbi del sonno e le persone, prive di un addestramento alla loro igiene mentale, soffrono di disturbi del sonno.
2) Solo quando una persona vive un buon rapporto con il suo sonno, per aver rielaborato suoi particolari vissuti angosciosi, può sperimentare lo sviluppo della coscienza anche nella fase del sonno. Per comprendere questo processo basta fare attenzione ai diversi risvegli latenti che caratterizzano il passaggio temporale da un ciclo di sonno a quello successivo. Gli adulti (e ancor più gli anziani) dormono molto meno perché hanno maggior percezione dei risvegli latenti che li conducono alla veglia specie nei cicli mattutini del sonno: alle 4 del mattino, alle 5 e mezza, alle sette, alle 8 e mezza, ecc. Ogni 90 minuti, al termine della produzione del sogno, siamo sull’orlo del risveglio, spesso ne diventiamo consapevoli per poi riaddormentarci in un altro ciclo di sonno
Un buon addestramento al mantenimento della coscienza anche nel sonno può proprio avvenire in questi stati crepuscolari in cui si può progressivamente mantenere sempre più desta la consapevolezza di quella parte di coscienza che dentro di noi non si addormenta mai del tutto. Le prime tecniche da utilizzare sono quelle della manipolazione dei sogni. Cambiarne il finale, il contenuto, controllarne la regia, volgerli a seconda dei nostri desideri, della nostra morale o del nostro gusto. Spesso le persone si risvegliano bruscamente e non ricordano i loro sogni perché sono abituate ad un atteggiamento censorio sul materiale onirico e, non potendosi permettere di accettarlo, rimuovono tutto accumulando processi nevrotici che lentamente impediranno loro anche il sonno naturale e li costringeranno ad usare farmaci per perdere la lucidità..
3) Il progressivo espandersi della coscienza nel sonno conduce anche ad un importante sviluppo del tipo di sogni: dai sogni di impotenza ai sogni evoluti di sviluppo delle potenzialità
A) I sogni di impotenza caratterizzano le prime fasi dell’esperienza della coscienza latente del sognare. Sono sogni in cui si cerca di scappare ma i piedi non si muovono da terra, si cerca di dare un pugno ma le mani non hanno forza, si cerca di proteggersi ma le difese o i nascondigli non reggono, ecc. Questi sono in genere i primi sogni, tipici dell’infanzia, di cui si ha ricordo. Ove tali sogni non vengano rielaborati (aggiustandoli al mattino o parlandone con altri) può manifestarsi, anche per lungo tempo, l’incapacità di ricordare i sogni al mattino.
B) I sogni fobici. Il più comune è quello di cadere da grandi altezze. Oppure di ritrovarsi nudi in mezzo alla gente. Sono sogni che hanno a che fare con un senso di insufficienza del proprio io. Compaiono nell’adolescenza ed a volte permangono per l’intera vita se non vengono trattati modificando il finale. Spesso possono diventare animati anche da presenze inquietanti, mostri o personaggi che inducono addirittura terrore. Oppure oggetti insignificanti che si presentano però come inspiegabilmente terrorizzanti. Una analisi del contenuto di tali sogni può condurre anche a buone interpretazioni ma tali interpretazioni non sono essenziali. E’ essenziale che compaia nel sogno qualche senso di realtà. Il miglior suggerimento è quello di riuscire a visualizzare le proprie mani nel sogno in modo da presentificarle nell’incubo e farlo dissolvere
C) Uno tra i primi sogni di potenza che compare nel vissuto onirico sano delle persone è quello di volare. Si presenta come una capacità appresa o attraverso una sorta di levitazione prodotta dallo schiacciare l’aria sotto il proprio corpo o dal balzo coraggioso verso il cielo. In genere le persone fanno ripetuta esperienza del volo nel sogno e la coscienza si manifesta evoluta al punto che le persone che hanno ripetutamente praticato tale sogno, rimangono deluse quando si rendono conto, da sveglie, di non essere in grado di volare. Erano convinte di averlo davvero appreso. Tale sogno mostra un buon processo di coscienza mantenuto nello stato onirico che entra in contatto con la realtà all’uscita dal sogno. E’ da notare che con i sogni di potenza il senso del tempo nel sogno si stabilizza passando dalla fase in cui si presentano confusi i diversi momenti del sogno a quello in cui è possibile raccontare i sogni con evidente continuità e logica temporale.
D) I sogni più evoluti e maturi sono quelli funzionali agli obiettivi concreti della vita. Se il livello di coscienza mantiene una certa densità nel corso del sogno è possibile utilizzarlo per sviluppare capacità mentali e di apprendimento. Si può impadronirsi della capacità di parlare in una lingua straniera sognando di farlo, si possono apprendere tecniche sportive, abilità pratiche e fare esercizi mentali in diverse discipline.
E) Sognare le persone defunte rappresenta uno stadio evoluto del sognare poiché presenta allucinazioni visive ed uditive estremamente forti e vivide. Tali sogni corrispondono ad uno stadio di ottima organizzazione dei propri immaginari che contrastano l’angoscia di morte..
Lucidità /Coma
Lo stato vigile ed attento si contrappone alla vigilanza ridotta, tipica della sonnolenza fino ai diversi stadi del sonno o alla perdita di coscienza (svenimento); la lucidità si contrappone all’offuscamento, all’ottundimento, all’obnubilamento, al torpore, allo stato soporoso ed al coma.
Il coma viene descritto come situazione in cui l’essere è ancora vivente ma la sua lucidità tende allo zero. “Il coma è uno stato di areattività psicologica, non suscettibile di risveglio, in cui il soggetto giace ad occhi chiusi” [F. Plum e J.B. Poster] e non produce alcuna risposta agli stimoli esterni o ai bisogni interni. Esso è “quello stato di sospensione della coscienza di sé e del mondo, di impossibilità di entrare in rapporto con chi ti circonda, con chi ti vuole parlare, aiutare? [...] uno stato che non è vita e non è morte, ma che vita e morte riassume, specchio di ciò che siamo e che saremo” [Standola, Avesani: 1997].
Il coma è il contrario della lucida attivazione, poiché in esso c’è l’abolizione di un particolare stato di coscienza che non è quella attentiva e nemmeno quella della veglia. Infatti nel coma persiste lo stato di coscienza nei termini della vigilanza, organizzata in ritmi circadiani di sonno-veglia. Infatti i trattamenti con stimolazione elettrica encefalica profonda vengono praticati ogni due ore, ma solo di giorno, sospendendola la notte per permettere il ciclo sonno veglia. I programmi di risveglio mediante stimolazione neuronale per pazienti in coma o in stato vegetativo possono essere possibili grazie alla neuroplasticità, cioè alla riorganizzazione neuronale centrale, possibile solo quando sono presenti livelli attentivi e percettivi seppur minimi [Fiori M., Giaquinto S., 1999].
Lo stato vegetativo è il più complesso e meno compreso disturbo della coscienza, poiché appare come situazione di perdita del contenuto di coscienza (cioè totale perdita delle funzioni cognitive e quindi anche assenza di interazione con l'ambiente circostante), e completo o parziale mantenimento delle funzioni autonomiche ipotalamiche e del tronco encefalico (l'attività cardiaca, la respirazione, la temperatura, la pressione sanguigna sono più o meno normali). Esso è un fenomeno moderno prodotto della rianimazione e della terapia intensiva. Il paziente in stato vegetativo apre gli occhi spontaneamente o in seguito ad un rumore, ma lo sguardo si perde nel vuoto. “Talvolta può girare il capo e gli occhi in direzione di stimoli sonori o di oggetti in movimento. Può emettere suoni, abbozzare un sorriso o piangere, senza motivo. Respira regolarmente da solo, non abbisogna di assistenza per la funzione cardiaca, la cute è calda e le pupille si contraggono normalmente alla luce. Reagisce agli stimoli dolorosi, talora anche con grimaces facciali e semplici vocalizzazioni, ma l'attività motoria è in genere scarsa e sempre priva di movimenti finalistici. Può avere una ricca motilità orale, con movimenti automatici di suzione, masticazione e deglutizione, ma non è in grado di attivarli in modo coordinato per alimentarsi. Quando gli viene messo 'qualcosa in gola ha conati di vomito o tossisce. È del tutto incontinente” II paziente in coma profondo rimane invece con le palpebre abbassate, non apre gli occhi spontaneamente-ciclicamente o in risposta a stimoli esterni. Il respiro è irregolare. Può avere movimenti involontari, come il pizzicare le lenzuola con le dita o il tentare di afferrare con le mani oggetti immaginari. La reattività agli stimoli dolorosi è afinalistica o assente. Non ha validi riflessi di deglutizione, faringeo e della tosse. È incontinente…Mentre nel coma la perdita della vigilanza consegue alla depressione del tronco encefalico, nello stato vegetativo la funzione del tronco è conservata, ma viene a mancare l'interazione tra tronco encefalico, talamo e corteccia cerebrale” [Verlicchi A., Zanotti B.: 1999, 306].
L’azione terapeutica sul coma da parte dei neurotrasmettitori determina la ripresa o l'innesco funzionale di cellule e vie inattive mediante “agonisti della dopamina, che sono stati collegati al ripristino di specifiche proiezioni dopaminergiche che normalmente interagiscono, come un 'unità coordinata, con la sostanza reticolare ascendente” [Echiverri H.C., Tatum W.O., Merens T.A., Coker S.B.:1998, 228].
L’azione dopaminergica aumenta il livello di responsività del soggetto fino all’eventualità di svegliarlo dal coma. Questo tipo di azione attivatoria ha l’obiettivo di far pervenire il soggetto a lucidità e quindi di modificare il suo stato di non - coscienza verso uno stato di lucidità. Per raggiunger quest’obiettivo, le azioni da applicare all’organismo sono tutte azioni di attivazione che lo scuotano dal coma.
In questa accezione l’attivazione è simile al movimento stressogeno nella accezione originale del termine
Hans Selye infatti, nel 1956, distingueva quattro modelli di stress riscontrabili: iperstress (sovrastress), postress (sottostress), eustress (stress positivo) e distress (stress negativo). In questo modello, denominato General Adaptation Sindrome, è possibile associare l’eustress ad una condizione positiva di introiezione di esperienza e quindi di apprendimento, mentre il distress a processi di scissione e di dissociazione finalizzati a trovare altre possibilità di azione. Il che conferma la teoria dell’apprendimento per tentativo e successo, e non per tentativo ed errore. Le conseguenze dell’errore sono il distress e la successiva dissociazione dal comportamento messo in atto, senza apprendimento introiettato.. Questo processo non è solo umano poiché appartiene alla sfera più propriamente biologica: gli effetti di esperienze stressanti sul comportamento e sulla funzione dopaminergica possono essere molto diversi in relazione all'evitabilità della situazione, al background genetico dell'animale e alla sua storia individuale. Numerosi studi dimostrano che i neuroni dopaminergici mesocorticali vengono selettivamente attivati dallo stress e la reazione agli stress da parte dei nuclei della base è ridotta dalla iperattività corticale. Siamo infatti nello stato soglia che distingue l’eustress dal distress: se prevale il secondo la ricerca di nuove soluzioni rischia di produrre oscillazioni dissociative.
Con il concetto di lucidità, in contrapposizione allo stato soporoso, all’obnubilamento ed al coma ci si riferisce a quel livello di dinamica psicobiologica, che ha a che fare con l’attivazione vitale. Qui il significato di coscienza lucida (e non vigile) è apparentata con il controllo esecutivo, che mobilita la focalizzazione del comportamento sugli obiettivi, la capacità di pianificazione e di riconoscimento degli errori e l’inibizione di risposte automatiche. Esso opera quando le funzioni di routine sono insufficienti, ovvero proprio nel momento di massimo bisogno di coscienza lucida, per rispondere ad un forte stimolo stressante in arrivo.
Il concetto di coscienza lucida non può essere sufficientemente descritto mediante la sola buona responsività tramite script comportamentali. Gli script sono comportamenti appresi e resi automatici per servire da difesa contro eventi negativi (stressor). Ciò che si perde nel coma, o negli stadi di perdita di lucidità ad esso connessi, non è la ricezione degli stimoli ma la capacità di attivazione delle risposte.
La differenza fondamentale fra il coma e lo stato stuporoso è che un paziente in stato comatoso non è capace di rispondere né agli stimoli verbali né a quelli dolorosi, mentre un paziente in stato di shock riesce a dare una risposta a tali stimoli, almeno istintiva (gridare in risposta a un pizzicotto, per esempio).
Il coma è anche diverso dallo stato vegetativo che a volte può susseguire ad esso: un paziente in stato vegetativo ha perso le funzioni neurologiche cognitive e la consapevolezza dell'ambiente intorno a sé, ma mantiene quelle non-cognitive e il ciclo sonno/veglia; può avere movimenti spontanei e apre gli occhi se stimolato, ma non parla e non obbedisce ai comandi. I pazienti in stato vegetativo possono apparire in qualche modo normali: di tanto in tanto possono fare smorfie, ridere o piangere.
Il coma non è nemmeno indice di morte cerebrale, cioè di cessazione irreversibile di tutte le funzioni del cervello: può accadere che un paziente in coma sia in grado di respirare da solo, mentre uno decerebrato non può farlo mai.
È inoltre diverso anche dal sonno, perché il sonno è sempre interrompibile, mentre non è possibile "svegliare" a piacere una persona in stato di coma.
Il coma vero e proprio dura di solito da 2 a 4 settimane, raramente di più. Alcuni pazienti in stato vegetativo possono recuperare un certo grado di consapevolezza, alcuni invece possono restare in tale stato per anni o per decenni.
Si definisce poi coma farmacologico, o coma indotto, o coma da barbiturici, il coma provvisorio (un stato profondo dell'inconsapevolezza) causato da una dose controllata di barbiturici, di solito pentobarbital. Il coma farmacologico viene utilizzato per proteggere il cervello durante grandi interventi chirurgici.
I barbiturici riducono il metabolismo nei tessuti del cervello e il flusso di sangue cerebrale. Con queste riduzioni, i vasi sanguigni nel cervello diminuiscono di volume, e, di conseguenza, fanno decrescere il volume occupato dall'organo e la pressione intra-cranica. In questo modo, diminuendo la pressione, possono essere evitati o diminuiti alcuni danni
E’ divenuto linguaggio comune tra gli operatori psichiatrici utilizzare l’espressione, non corretta, del “mettere in coma farmacologico” pazienti che ricevono trattamenti con antipsicotici forti. L’espressione sta a significare la necessità di spegnere attività mentali o comportamenti altrimenti non gestibili con contenimento psicorelazionale. .
La piena comprensione del vissuto del coma è ancora lontana ma il suo collegamento con la confusione mentale, lo stupor, l’anestesia da farmaci consente di vederlo come una condizione in cui, a seguito della modificazione bioenergetica dei vissuti della persona e della diminuzione della attività cerebrale, la coscienza si distacca dai vissuti corporei. Nel coma si manifesta, ad esempio, una profonda modificazione del senso del tempo di cui non viene più percepito il fluire anche se, in molti casi, vengono invece mantenute le percezioni ambientali.
Nel sonno si perde la percezione dell’ambiente e si mantiene quella della personale corporeità e dei suoi bioritmi, nel coma è più probabile venga mantenuta la percezione dell’ambiente e persa quella mentale e corporea.
La caduta di lucidità porta la persona a vivere alterazioni della coscienza; ad esempio la modificazione della percezione temporale. Il coma dunque può apparire come l’esatto contratto della iperlucidità del vivido presente che sperimentiamo quando la nostra attenzione è massimamente attiva: nel momento in cui viviamo una forte emozione, un evento traumatico o una importante performance sportiva. In tali situazione percepiamo il tempo al rallentatore proprio perché riusciamo a rallentare il tempo.
La percezione soggettiva dello scorrere del tempo non è sempre uguale al tempo realmente trascorso: la sensazione dello scorrere del tempo è del tutto soggettiva anche se i meccanismi fisiologici su cui si fonda non sono chiari perché influenzati dallo stato emotivo e dal contesto. Ora se è chiaro nella esperienza comune che lo stato emotivo influenza la percezione del tempo, è meno chiaro quali siano i meccansismi neurofisiologici che vengono implicati nel processo di accelerazione o di rallentamento del tempo vissuto.
Sul piano psicologico le diverse percezioni del tempo sono correlate alla prevedibilità ripetitiva degli eventi: tanto più gli eventi sono imprevisti tanto più appaiono lunghi, tanto più sono noti e scontati tanto meno durano.
Ciò ha molto a che fare con la funzione della lucidità intesa come chiara e coerente percezione del presente; al diminuire della lucidità diminuisce la sensazione attuale del tempo che può restringersi o dilatarsi rispetto alla percezione corporea del tempo, socialmente condivisa e confermata.
Il coma è il contrario della lucidità della coscienza ed è intimamente collegato a distorsioni nella percezione soggettiva del tempo. Nel coma si attua una percezione di tempo continuato, nella lucidità quella di tempo rallentato. Al tempo ininterrotto si associa la confusione mentale della non consecutività del pensato, al tempo rallentato una maggior lucida consapevolezza dello svolgimento degli eventi.
Coma e stati alterati di coscienza
E’ particolarmente difficile trattare in modo corretto il tema del coma
I 4 gradi del coma sono:
SUPERFICIALE. Il primo è quello superficiale dal quale il paziente si risveglia di solito nell’arco di pochi giorni. Nel secondo e nel terzo stadio i tempi del risveglio, quando la situazione non evolve in peggio, sono decisamente più lunghi. L’ultimo livello di coma è invece quello irreversibile
IRREVERSIBILE. Il cervello non ha più attività elettrica. Il coma irreversibile, o coma depassé, è lo stadio di coma durante il quale non si registra più alcuna attività elettrica del cervello. Uno dei segnali dell’irreversibilità è che le pupille non reagiscono più alla luce. Un paziente in coma irreversibile non è più padrone di nessuna delle sue funzioni vitali
STATO VEGETATIVO.Non esiste più una coscienza di sé. Lo stato vegetativo persistente è una specie di evoluzione dello stato di coma. Il paziente ha danni gravissimi alla corteccia cerebrale e, di conseguenza, non ha nessuna coscienza di sé, né dell’ambiente che lo circonda. Ma mantiene la funzionalità degli organi, anche dei polmoni. Per questo può respirare da solo
MORTE CEREBRALE. Si può procede all’espianto degli organi. La morte cerebrale è la condizione «sine qua non» perché si possa procedere all’espianto degli organi. Il paziente è praticamente morto. L’elettroencefalogramma è piatto, non si registra nessuna funzione motoria, sono assenti sia il ciclo del sonno, sia la coscienza di sé, sia la percezione del dolore. Si ha mancata funzionalità degli organi. e usare in modo preciso le definizioni di coma, stato vegetativo, risveglio. L’EEG informa sul funzionamento delle cellule della corteccia cerebrale e se l’elettroencefalogramma è piatto significa arresto delle funzioni con rara reversibilità. Più lento è il tracciato, più grave è il danno cerebrale.
Il coma può persistere per alcune settimane in cui il paziente tende a riaprire gli occhi anche solo per brevi intervalli, con progressiva ripresa di coscienza. Se rimane ancora non cosciente nonostante sia entrato nello stato vegetativo o coma vigile. In tale stato non reagisce a nessuno
stimolo anche per diversi mesi. I primi segni di recupero dal coma riguardano il contatto con l’ambiente esterno (seguire con lo sguardo, piangere, sorridere, ecc.) mediante uno stato di minima coscienza o di minima responsività. In fasi più avanzate di recupero l’uscita dal coma è accompagnata da grave disorientamento spazio-temporale (non sa dove si trova, né qual è la data corrente - giorno, mese e anno), non è in grado neanche di riconoscere le persone, presenta amnesie, disturbi della memoria recente, manifesti confabulazioni, mutismo e confusione mentale.
Coma, stato confusionale
disturbo della coscienza che si manifesta con disorientamento nel tempo e nello spazio, turbe della memoria, dell'attenzione e del pensiero, shock
Lo shock rappresenta una grave perturbazione emodinamica e metabolica dell'organismo, causata dall'incapacità del sistema circolatorio a fornire un adeguato apporto ematico agli organi vitali ., svenimento
Lo svenimento (o sincope) è la perdita momentanea della coscienza dovuta ad una improvvisa riduzione della quantità di sangue che giunge al cervello. Le cause possono essere svariate, come ad esempio una forte emozione (es. la vista del sangue), un forte dolore, un improvviso abbassamento della pressione, un disturbo del ritmo del cuore, una permanenza in piedi troppo prolungata, una riduzione improvvisa della quantità di zucchero presente nel sangue. La sincope può accompagnarsi, o talora essere confusa, con alcune malattie neurologiche o essere dovuta all'assunzione di particolari farmaci. In ogni caso, episodi di svenimento che non siano in relazione a cause evidenti (es. una forte emozione) richiedono una valutazione da parte del medico. sono stati in cui la coscienza si altera presentando alcuni delle caratteristiche elencate da Arnold Ludwig: alterazioni del pensiero; disturbi nel senso del tempo; perdita del controllo; cambiamenti nell'espressione emotiva; cambiamenti dell'immagine corporea; distorsioni percettive; cambiamenti nel significato o senso; senso dell'ineffabile; sentimenti di rinnovamento; ipersuggestionabilità.
Tali condizioni hanno basi fisiologiche e sono parte di un continuum: “La nostra intera vita psichica può, a sua volta, avere gradi di coscienza differenti, che vanno dalla coscienza più lucida, attraverso i livelli d’offuscamento, fino all’incoscienza. Ci possiamo figurare la coscienza come un’onda. La coscienza lucida, chiara, è l’apice dell’onda…. che diventa sempre più bassa fino al suo completo defluire nella perdita di coscienza” (K. Jaspers, Psicopatologia Generale, pag.150).
Le alterazioni dello stato di coscienza riguardano la diminuzione delle singole funzioni psichiche e del controllo di coscienza che progressivamente si restringe o modifica il suo flusso normale a seconda dei livelli di attivazione del sistema parasimpatico e ortosimpatico. L’elemento determinante per il passaggio da uno stato di coscienza all’altro è espresso dalla velocità di elaborazione del cervello. In altri termini, cambiare la velocità di lavoro del cervello significa cambiare stato di coscienza. Lo stato ordinario di coscienza è rappresentato da un equilibrio ottimale tra le informazioni che il cervello riceve e quelle che elabora, così, se tale equilibrio viene a mancare, ecco che si possono manifestare stati non ordinari di coscienza. L’esperienza della trance è lo stato di massima velocità di lavoro del cervello. I vari modi per indurre uno stato alterato di coscienza, mettono in luce il fatto che il nostro ordinario stato di coscienza è solo una delle tante possibili strutturazioni della mente.