SIMON SPRINGER
ANARCHISMO!
QUELLO CHE DOVREBBE ESSERE LA GEOGRAFIA
«Noi, “terribili anarchici” come siamo, conosciamo un solo modo per stabilire pace e benessere tra donne e uomini: la soppressione del privilegio e il riconoscimento dei diritti. Non
ci piace vivere se le gioie della vita sono solo per noi; noi protestiamo contro la nostra buona
fortuna se non possiamo dividerla con gli altri; è più dolce per noi frequentare gli emarginati
che sedere, coronati di rose, al banchetto del ricco. Siamo stanchi di quelle ineguaglianze che
ci fanno nemici l’un l’altro; noi vogliamo porre fine alla furia che spinge i popoli a scontri ostili
e a tutto ciò che incatena il debole al forte sotto la forma di schiavitù, servaggio e dipendenza»
(Elisèe Reclus 1884, p.641). «Se voi volete, come noi, che sia rispettata la completa libertà
dell’individuo e, conseguentemente, la sua vita, necessariamente siete portati a ripudiare il
governo dell’uomo sull’uomo, qualunque forma esso assuma; voi siete forzati ad accettare
i principi dell’anarchia che voi avete disdegnato così a lungo. Voi dovete allora cercare
con noi le forme della società che possano meglio realizzare questo ideale e mettere fine
a tutta la violenza che suscita la vostra indignazione» (Piotr Kropotkin 2005 [1898]),
p.144). L’anarchismo è una filosofia politica calunniata; su questo non ci possono essere dubbi.
Comunemente l’anarchismo è descritto come una caotica espressione di violenza perpetrata
contro il supposto pacifico «ordine» dello stato. Questa rappresentazione mistifica il cuore del
pensiero anarchico, che è propriamente compreso come il rifiuto di tutte le forme di dominazione, sfruttamento, e «archia» (sistema di regole, governo), da cui la parola «an-archia» (contro il
sistema di regole, non governo). L’anarchismo è una teoria e una pratica che cerca di produrre
una società in cui gli individui possano cooperare liberamente come uguali in ogni aspetto,
non in base alla legge o a una garanzia sovrana (che introduce nuove forme di autorità, impone
criteri di appartenenza e rigidi legami territoriali), ma a partire da sé stessi in solidarietà e mutuo
rispetto. Conseguentemente l’anarchismo si oppone a tutti i sistemi di regole o forme di archia
(cioè gerarchia, patriarchia, monarchia, oligarchia, antropoarchia, eccetera) ed è invece fondata su forme cooperative ed egualitarie di organizzazione sociale, politica ed economica, dove
possono fiorire spazialità autonome e in continua evoluzione. Sebbene sia stato spesso detto
che ci sono tanti anarchismi quanti sono gli anarchici, il mio assunto è che l’anarchismo debba
abbracciare un’etica della non violenza precisamente perché la violenza si riconosce sia come
un atto che come un processo di dominazione.
La violenza è stata la base di molti movimenti storici anarchici e sarebbe semplicistico definire questo elemento come qualcosa di «non anarchico». In effetti prima che anarchici come
Paul Brousse, Johann Most, Enrico Malatesta e Alexander Berkman sostenessero la violenza
rivoluzionaria e la propaganda del fatto, i primi anarchici o «protoanarchici» come William
Godwin, Pierre-Joseph Proudhon, Henry David Thoreau e Leo Tolstoi, rifiutarono la violenza
come mezzo giustificabile per abbattere la tirannia dello stato. In accordo con queste posizioni
l’anarchismo simpatizzava con la nonviolenza come si poteva vedere nel The Peaceful Re-
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La pratica della libertà e i suoi limiti
volutionist, un settimanale edito da Josiah Warren nel 1833 e primo periodico anarchico mai
stampato. Che l’anarchismo sia diventato da allora un diretto sinonimo di violenza (piuttosto
che riconoscerla come ideologia che di volta in volta sostiene sia la violenza sia la non violenza)
dice piuttosto della resistenza «discorsiva» dello statu quo contro formazioni socio spaziali e
politico-economiche alternative e della limitata immaginazione geopolitica o l’indottrinamento
ideologico di coloro che non possono o semplicemente rifiutano di concepire un mondo senza
stati. Infatti la critica originaria dell’anarchismo è che lo stato è la quintessenza della violenza
o come Godwin (1976 [1793], p.380) puntualizza: «Soprattutto noi non dobbiamo dimenticare
che il governo è un male, un’usurpazione del giudizio personale e della coscienza individuale
dell’umanità». Dato l’approccio postcoloniale che la geografia umana contemporanea oggi sposa, i geografi radicali dovrebbero considerare più criticamente su come l’accettazione dello stato
in effetti reintegri la violenza di pensiero e la pratica del colonialismo. Nel rinvigorire il potenziale delle geografie anarchiche e mettendo in pratica la prassi critica che l’anarchismo richiede,
il mio pensiero è che la non violenza dovrebbe essere compresa come un ideale in cui vivere per
gli anarchici. Questa è la storia dell’anarco-femminista Emma Goldman (1996 [1923], p.253)
che nei suoi anni giovanili aveva flirtato con la violenza ma, alla fine, l’aveva rifiutata:
una cosa di cui mi sono convinta come mai nella mia vita, è che le armi non decidono assolutamente niente. Anche se raggiungono quello che si prefiggono, cosa che raramente avviene,
producono così tante conseguenze negative da inficiare gli obiettivi originali.
Per questo, se l’anarchismo si pone contro lo stato e in particolare contro il monopolio,
l’istituzionalizzazione e la codificazione della violenza che questa organizzazione spaziale
rappresenta, allora ne consegue che l’anarchismo propone un’immaginazione geografica
alternativa che rifiuta mezzi violenti. Inizio esplorando come i geografi hanno considerato il
pensiero anarchico. Sostengo che sebbene l’anarchismo abbia contribuito fortemente alla radicalizzazione della geografia umana negli anni Settanta questa prima prospettiva è stata velocemente eclissata dal marxismo che da allora (insieme al femminismo) è diventato la pietra angolare della geografia radicale contemporanea. La sezione seguente problematizza l’utilitarismo
del pensiero marxiano che, si sostiene, reitera i principi coloniali che il marxismo esplicitamente
cerca di distruggere. L’anarchismo è presentato come un’alternativa preferibile per il fatto che
si contrappone al nazionalismo e riconosce che non c’è una fondamentale differenza tra la colonizzazione e la formazione di uno stato se non per la scala secondo cui questi progetti paralleli
operano, significando in tal modo che qualsiasi posizione «post coloniale» deve essere anche
«post statale» o anarchica. In seguito cerco di dare una parziale risposta alla questione delle
alternative allo stato e come nuove forme di organizzazioni umane volontarie possano essere
messe in condizione di fiorire. Piuttosto che proporre un imperativo rivoluzionario sostengo il
valore dell’immediato, del qui e ora come la più emancipatoria dimensione spazio-temporale,
precisamente perché è il luogo e il momento in cui noi effettivamente viviamo le nostre vite.
Considero a questo punto l’illusione neoliberista della dissoluzione dello stato un accessorio e
ricordo che un «governo leggero» è sempre un governo per cui, mentre i disegni, le strategie, le
tecnologie e le tecniche del governo neoliberista sono nuove, la logica disciplinare dello stato rimane la stessa. Nelle conclusioni propongo qualche pensiero sul futuro della geografia radicale
e in particolare dove penso che le geografie anarchiche possano costituire un quadro concettuale
più libero che potenzialmente rompa sia la struttura discorsiva del neoliberismo sia i limiti del
marxismo in relazione alle contemporanee lotte di opposizione.
S. Springer - Anarchismo! Quello che dovrebbe essere la geografia
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Quindi questo articolo può essere letto come un manifesto delle geografie anarchiche che
sono concepite come spazialità caleidoscopiche che consentono connessioni multiple, non gerarchiche e propulsive tra entità autonome dove solidarietà, legami, e affinità sono unite volontariamente in opposizione alla violenza sovrana, di norme predeterminate e categorie di appartenenza assegnate. Nel suo rifiuto di questi multiformi apparati di dominazione quest’articolo è
un richiamo all’uso di armi non violente per quei geografi e non geografi che cercano di porre
fine all’apparente infinita serie di tragedie, sfortune e catastrofi che caratterizzano l’attuale
maleodorante momento neoliberista. Ma questa non è semplicemente una richiesta che finisca
il neoliberismo e il suo rimpiazzo con una più moderata e umana versione del capitalismo, né
che si voglia una più egualitaria versione dello stato. È piuttosto una condanna del capitalismo
e dello stato in qualsiasi forma si presentino; una condanna di tutti i modi di sfruttamento, manipolazione e dominazione dell’umanità; un’opposizione alla deprivazione della maggioranza
e ai privilegi della minoranza che fino a oggi e per comune accettazione sono state chiamate
«ordine»; e il recupero di un progetto della geografia che risale ai primi giorni della disciplina.
Questo non è niente di più e niente di meno che una rinnovata chiamata all’anarchismo.
Per geografie anarchiche
Alla luce dei contributi fondamentali alla disciplina geografica di Kropotkin e di Reclus e
dell’importante ruolo dell’anarchismo nella crescita di una prassi geografica più radicale, è sorprendente che questa vibrante tradizione intellettuale sia stata, fino a tempi recenti, largamente
ignorata dai geografi dai tardi anni Settanta. Scrivendo nel periodo della maggiore infatuazione
della geografia per il colonialismo durante la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, e in
forte contrasto con i contemporanei come David Livingstone, Halford Mckinder e Friederich
Ratzel, che spesero i loro giorni sostenendo una visione imperialista della disciplina, sia Kropotkin sia Reclus avevano una risoluta immaginazione antiautoritaria. La teoria di Kropotkin
del volontario reciproco scambio di risorse per il bene comune, o «mutuo appoggio», era una
diretta sfida al darwinismo sociale presente negli scritti di Mckinder, Ratzel e in particolare nel
saggio del biologo Thomas Henry Huxley, La lotta per l’esistenza, (1888). «Loro arrivarono a
concepire il mondo animale come un mondo di lotta perpetua tra malnutriti individui assetati del
sangue degli altri», scrive Kropotkin nella sua grande opera Il mutuo appoggio:
Loro hanno fatto risuonare la moderna letteratura con il grido di guerra e la sofferenza del
vinto, come se fosse una parola definitiva nella moderna biologia. Hanno innalzato la battaglia
“senza pietà” per vantaggi personali alle altezze di un principio biologico cui pure gli umani devono sottomettersi sotto la minaccia di soccombere in un mondo fondato sul mutuo sterminio.
Sostenendo che la realtà del mutuo appoggio tra animali non umani minava gli argomenti
naturalistici in favore di capitalismo, guerra e imperialismo che dominavano il pensiero geografico del tempo, come pure i darwinisti sociali, precisamente in modo opposto Kropotkin voleva
trovare in natura quanto voleva legittimare nella società. La geografia di conseguenza doveva
essere concepita non come un programma di prepotenza imperiale, ma come mezzo per dissolvere pregiudizi e realizzare la cooperazione tra le comunità (Kropotkin 1978 [1880]).
Come per il suo amico e compagno Kropotkin la visione anarchica di Reclus era similmente radicata nella geografia. Reclus ha proposto un approccio integrale verso ogni
fenomeno inclusa l’umanità che era concepita come inseparabile dalle altre forme di vita
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La pratica della libertà e i suoi limiti
e dalle caratteristiche geografiche della terra stessa. La terra, di conseguenza, era concepita come un tutt’uno in cui ogni coerente elemento del mondo richiedeva un simultaneo
riconoscimento di tutti i multipli fattori di interconnessione. Per Reclus (1905-1908, p.114115) «È solo attraverso un atto di pura astrazione che uno possa pensare di presentare un
particolare aspetto dell’ambiente come se avesse un’esistenza distinta e cerchi di isolarlo
da tutti gli altri per studiare la sua influenza essenziale». Sebbene il focus fosse il sistema
«naturale» il lavoro olistico di Reclus in effetti richiedeva che i fenomeni sociali fossero
considerati come intrecciati e costitutivi della naturale «geografia universale» che aveva in
mente (vedi Reclus 1876-1894). Per Reclus la sopracitata affermazione sulla natura aveva
la stessa rilevanza delle idee prevalenti sull’organizzazione umana, fossero quella marxiana
o quella neoclassica, e questo riporta ai limiti di quelle due teorie economiche. Così mentre
le idee reclusiane di integralità hanno ispirato l’ecologia sociale di Murray Bookchin e altre
parti del movimento ambientalista radicale, le implicazioni politiche del suo lavoro rispetto
all’organizzazione umana sono state sostanzialmente ignorate dai geografi per più di un secolo. Il suo permanente significato politico deriva in larga parte dalla sua visione egualitaria
di una «globalizzazione dal basso» basata sulla integralità che lui ha descritto e promosso,
e che offre un’alternativa teorica alla dominante versione della globalizzazione aziendale e
statale. In contrasto con la situazione corrente di un mondo diviso tra chi ha e chi non ha
dove la geografia dell’accesso al capitale aderisce largamente agli alti e bassi del sistema
vestfaliano, Reclus (1876-1894, citato in Clark e Martin, 2004) preconizzava un mondo
libero e senza stati con «il suo centro ovunque, la sua periferia in nessun posto».
Mentre la geografia umana contemporanea è opportunamente andata oltre all’affermazione della scienza come sinonimo di «verità», il medesimo scetticismo di Reclus e
Kropotkin e le sfide alle ideologie dominanti di allora hanno molto da offrire agli studi
geografici contemporanei e alla loro irriflessiva accettazione del «discorso» di civiltà,
legalità capitalista che converge nello stato. La perpetuazione dell’idea che la spazialità
umana necessiti della formazione degli stati è piuttosto ampia in una disciplina che da
un lato ha deriso la «trappola territoriale» (vedi Agnew, 1994), ma dall’altro ha rifiutato
di portare la critica dello statocentrismo verso la dissoluzione dello stato. I geografi contemporanei di conseguenza hanno evitato di confrontarsi con il potenziale emancipatorio
della prassi anarchica, sottostimando largamente i contributi di Hakim Bey, Bookchin e
Pierre Clastres sull’importanza di alternative configurazioni rispetto allo stato, favorendo
invece discussioni su alternative configurazioni dello stato, in particolare da parte della
teoria marxiana. Nella forma odierna l’attenzione si concentra sulla spiegazione di come
il processo neoliberista faciliti la trasformazione dello stato e la sua permanenza facendo
da contraltare alle diffuse teorie che la globalizzazione stia erodendo lo stato e producendo un mondo senza confini, il che significa la fine sia della storia sia della geografia. In
altre parole mentre le idee neoclassiche e neoliberiste sono state vigorosamente dibattute
e screditate dai geografi che si muovono in un’ampia prospettiva marxiana, la geografia
contemporanea non ha visto le critiche anarchiche al marxismo svilupparsi con la stessa
forza empirica e teorica del suo rivale radicale; un impresa assolutamente da fare.
Sebbene molto sottorappresentati nella letteratura geografica recenti contributi offrono graditi interventi che prestano attenzione alle promettenti idee anarchiche sia teoriche sia pratiche.
Graditi come sono offrono grandi spunti in un terreno teorico ancora molto da esplorare dai
geografi. In particolare penso ai profondi contributi di studiosi non geografi quali Lewis Call,
Todd May, Saul Newman e di Douane Rousselle e Süreyyya Evren sulle possibilità e il po-
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tenziale del post-anarchismo. Mentre il post-strutturalismo è cosa comune nella disciplina, i
geografi umani hanno mancato di esplorare il potenziale del pensiero post-anarchico con poche eccezioni. Altri hanno esplorato largamente spazialità «anarchiche» attraverso lenti poststrutturaliste, ma senza inserire questa attenzione nella emergente letteratura che esplicitamente
sviluppa una teoria post-anarchica. Il post-anarchismo non è un movimento oltre l’anarchismo,
ma un rinnovamento di idee anarchiche attraverso «l’infusione» con la teoria post-strutturalista,
consentendoci così di mantenere uno spirito emancipatorio, nel mentre si abbandona il richiamo
alla scienza e le essenzialiste epistemologie e ontologie che caratterizzano il pensiero anarchico
classico. È doveroso per i geografi radicali cominciare a esaminare l’importanza contemporanea dell’azione anarchica e delle teorie post-anarchiche nel resistere al capitalismo piuttosto
che semplicemente ripetere quegli statocentrici e senza via d’uscita argomenti che puntano a
una più equa distribuzione del potere all’interno dello stato. Lo stato dopotutto, nella classica
critica anarchica, è un’istituzione gerarchica che presume il rispetto dell’autorità. Come hanno
riconosciuto chiaramente pensatori «non anarchici» quali Giorgio Agamben e Walter Benjamin
è precisamente a causa del carattere giuridico sovrano dello stato che non può mai essere effettivamente egualitario. E così i geografi dovrebbero domandarsi: dove possono portarci supposti
argomenti liberatori che continuano ad accettare lo stato se non a strutture di gerarchia e dominazioni fermamente stabili?
Nonostante non sia l’unica preoccupazione degli anarchici, lo stato è il primario argomento del pensiero anarchico. Sebbene i marxisti abbiano sempre più criticato la logica del
potere statale, va oltre lo scopo di questo articolo sviluppare una tassonomia che indichi
con precisione la posizione verso lo stato delle multiple varianti del pensiero marxiano. A
rischio di semplificare eccessivamente la complessità delle intersezioni tra le due principali
alternative del pensiero socialista, ciò nonostante è facile dire che la questione dello stato è
la differenziazione originaria tra marxismo e anarchismo. Infatti la principale divisione tra
anarchismo e marxismo si riferisce alle differenti opinioni sul grado di autonomia concesso
ai lavoratori in un contesto post-rivoluzionario e la strettamente legata questione del monopolio della violenza. Gli anarchici rifiutano decisamente tale monopolio sulla base che
la violenza è soprattutto la primaria dimensione del potere dello stato e di ogni stato; sia
controllato dalla borghesia o conquistato dai lavoratori inevitabilmente funzionerà come
strumento della dominazione di classe. Al contrario i marxisti credevano che poiché una
classe minoritaria governa la maggior parte delle società, prima del socialismo il raggiungimento di una società senza classi richiede che, preventivamente, la classe più svantaggiata
conquisti lo stato e acquisisca il monopolio della violenza. Dunque il desiderio di superare
lo stato e creare un sistema socialista liberato attraverso un potere dispotico è una contraddizione che gli anarchici negano. La correlata nozione marxiana dell’estinzione dello stato era
similmente vista come una contraddizione. E Bakunin ha osservato (1953 [1873], p.288):
Se il loro Stato è un genuino Stato popolare, perché dovrebbe dissolversi?...(i marxisti) dicono che questo giogo statale (la dittatura) è un necessario mezzo temporaneo per raggiungere
l’emancipazione del popolo: l’anarchismo o la libertà è lo scopo, lo Stato o la dittatura è il mezzo. Quindi per liberare le masse lavoratrici per prima cosa è necessario schiavizzarle.
Questa notevole contraddizione inorridiva gli anarchici e durante la Prima Internazionale questa differenza divenne la fondamentale divisione tra i socialisti. Mentre il marxismo tradizionalmente rappresenta il confine statista dello spettro politico socialista, o
in ultima analisi, l’accettazione dello stato in termini utilitaristici come mezzo verso una
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La pratica della libertà e i suoi limiti
finalità attraverso una provvisoria dittatura del proletariato, l’anarchismo è sempre stato il
campo del socialismo libertario rifiutando l’idea che uno stato, sia pur modificato, possa
mai scomparire e condurre a una condizione di emancipazione.
Il colonialismo è morto, lunga vita al colonialismo?
Non condivido l’entusiasmo di Marx per il capitalismo. Marx e gli economisti politici
classici vedono il capitalismo attraverso simili lenti celebratorie; solo che Marx mitigava
la sua visione suggerendo che era una necessaria fase da passare sulla via del comunismo
e non una gloriosa fase finale come nel progetto liberale di Adam Smith. Scrivendo un
secolo dopo Bill Warren, uno dei più controversi scrittori della tradizione marxista, lo ha
colto come essenza del lavoro di Marx. Warren (1980, p.136) sosteneva che: «L’imperialismo era il mezzo attraverso cui tecnica, cultura e istituzioni che si erano sviluppate
in Europa lungo molti secoli (la cultura del Rinascimento, la Riforma, l’Illuminismo e
la Rivoluzione Industriale) hanno sparso i loro semi rivoluzionari nel resto del mondo».
Warren ha interpretato correttamente la relazione integrale tra capitalismo e imperialismo, ma ha dipinto l’imperialismo come un «male necessario» sulla strada verso un bene
più grande. La banalità della descrizione di Warren dell’imperialismo ha stimolato molti
detrattori, ma egli in effetti ha rivisitato il marxismo espresso nel Manifesto comunista
dove, sebbene Marx condanni la violenza dell’accumulazione primitiva, ciò nonostante
ritiene «questa violenta espropriazione come necessaria per lo sviluppo delle possibilità
umane» (Glassman 2006, p.610). Malgrado trovi il capitalismo moralmente ripugnante se
comparato con il modo di produzione feudale che lo ha preceduto, Marx attribuisce al capitalismo molte virtù, riconoscendolo come straordinariamente produttivo, suscitatore di
creatività umana, produttore di grandi cambiamenti tecnologici e iniziatore di potenziali
forme democratiche di governo. In linea con questa ottimistica visione di Marx, Warren
sostiene che nella sua fase iniziale l’esplorazione capitalista di nuovi territori è stata condotta in forma di colonialismo e imperialismo e mentre questa forma di capitalismo è stata
un arretramento per quei territori occupati ci sono stati però anche importanti benefici. I
livelli di istruzione sono cresciuti, le aspettative di vita anche e le forme di controllo politico sono da considerarsi più democratiche di quelle preesistenti il colonialismo.
Se tutto questo suona familiare è perché è la stessa struttura «discorsiva» che orienta
il neoliberismo oggi; correttamente David Harvey (2003) lo ha definito «nuovo imperialismo». Il ritornello è che la gente potrebbe fare meglio e sebbene imperfetta nella sua
esecuzione (largamente attribuita alla continua «interferenza» dello stato nei mercati) alla
fine «l’effetto gocciolamento» produrrà i suoi frutti e la promessa utopia si materializzerà. Invece di aspettare che il mercato produca i suoi effetti secondo i suoi tempi Marx
intendeva accelerarne il passo per raggiungere un contratto sociale egualitario attraverso
la rivoluzione. Per essere chiari non sto sostenendo che ci sia una ideologica consonanza
tra il marxismo e il neoliberismo, piuttosto cerco di chiarire che ambedue condividono la
nozione che lo stato può essere usato per raggiungere un fine «liberato». Per contrasto la
posizione anarchica rifiuta la violenza dello stato, dell’imperialismo e del capitalismo e
non si fa convincere dall’utilitarismo di Marx. I mezzi del capitalismo e le sue violenze
non giustificano un non-stato finale comunista né questo fine giustifica tali mezzi. Questo
particolare aspetto del pensiero marxista richiama il neoliberismo: sebbene l’utopico non-
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stato finale sia concettualizzato in modo differente, i mezzi «penultimi» per raggiungere
il «prodotto finale» sono virtualmente gli stessi. Mentre i post-marxisti opportunamente
sostengono che genere, sesso, etnicità, razza, e altre evidenti categorie «non capitaliste»
siano ugualmente importanti linee di differenziazione che segnano gerarchie, disuguaglianze e violenze nel nostro mondo neoliberista l’anarchismo va oltre rifiutando la sostanziale violenza che è intrinseca e implicitamente accettata dall’approccio lineare alla
storia fondato sugli «stadi di sviluppo». Non coerente con l’utilitarismo e l’essenzialismo
del pensiero di Marx può allo stesso modo essere vista la genesi del post-strutturalismo,
che invece si focalizza sulla complessità ed eterogeneità della condizione attuale e rifiuta
teorie totalizzanti nel rigettare le «verità» assolute.
Sebbene la critica post strutturalista sia diventata velocemente una delle più vibranti varianti filosofiche nella disciplina geografica e Michel Foucault, Gilles Deleuze e Jacques
Lacan abbiano tutti elaborato critiche all’interno del fertile terreno del pensiero antistatale
la geografia contemporanea è stata lenta nel confrontarsi con le idee che auspicano la fine
del Leviatano. Posso solo formulare ipotesi sulle ragioni di questa lacuna, ma sembra che
il predominio delle idee marxiste abbia avuto un ruolo. Il marxismo tradizionale con la
sua compagna ideologia statalista è largamente presente nella letteratura geografica dove
l’influenza di Harvey domina. Sebbene occasionalmente qualche geografo politico abbia
criticato la limitata visione geopolitica dello stato-centrismo, ciononostante la forma di organizzazione statale è un dato di fatto scontato nella disciplina. Lo stato è o implicitamente
accettato o non sottoposto a un tipo di esame che ne analizzi i suoi principi fondamentali,
anche se i/le geografi/e femministi/e hanno contribuito a ridefinire i parametri sui quali lo
stato è correntemente concepito. Nonostante questo una parte significativa della geografia
umana ha sollevato la questione dello stato solo per cercare di determinare quanto il neoliberismo abbia riconfigurato le sue funzioni, con i geografi marxisti che auspicano una rinnovata e reimmaginata versione del welfare sociale, e i post-strutturalisti che argomentano
che la governabilità rende lo stato quasi invisibile grazie a soggetti capaci di autoregolarsi
e di autocorreggersi. È scarsamente evidenziata la potenzialità di quest’ultimo approccio
nello svelare la perdurante forza della logica statuale e della violenza che la pervade tramite
alterate razionalità disciplinari e le mutate tecniche di controllo biopolitico; per non parlare
delle coincidenze del post-strutturalismo con il pensiero anarchico (vedi Newman 2010).
Che la geografia radicale mantenga l’orientamento statuale forse testimonia delle origini coloniali della disciplina stessa e una esitazione nel rompere con vecchie abitudini. Così
il contemporaneo stato-nazione va visto come una replica in scala minore dello stato coloniale. Sebbene differenziati per diffusione e distribuzione nello spazio sia il potere dello
stato nazionale sia quello coloniale mostrano gli stessi violenti principi del privilegio di
pochi sopra i molti e l’imposizione di un’identità unica prevalente su antecedenti modi di
concepire l’appartenenza. Marx ne era consapevole, ma ancora una volta ha sostenuto la
sua idea utilitarista. Nel momento in cui il capitalismo si diffonde nel mondo ha suscitato
forti movimenti di resistenza da parte di lavoratori e contadini oppressi (guidati da avanguardie) che, secondo Marx, avrebbero incubato alla fine il superamento del capitalismo.
In casi particolari Marx aveva sostenuto lotte nazionaliste vedendo in questo una «fase di
sviluppo» verso il futuro internazionalismo dei lavoratori. Dal punto di vista anarchico è
difficile vedere il fine emancipatorio quando si usano mezzi violenti. Quello che la «liberazione nazionale» rappresenta in effetti è il cambio di una élite con un’altra e quindi di
una forma di colonialismo con un’altra. Mentre l’espressione territoriale è stata dismessa,
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La pratica della libertà e i suoi limiti
la sottostante logica rimane la stessa. Esattamente come lo stato coloniale suscitava e
spesso imponeva il monopolio della violenza la lotta per creare uno stato-nazione è allo
stesso modo una lotta per il monopolio della violenza. Quello che si crea in ambedue i casi
(uno stato coloniale o nazionale) è esso stesso uno strumento di violenza. Nel riconoscere questa corrispondenza, e a dispetto del cosiddetto «precipuo quadro di comprensione
postcoloniale» di Gillian Hart (Hart 2008, p.680), essere «postcoloniali» in ogni senso è
essere anche «poststatali» o anarchici come pure sono da rifiutare totalmente gerarchie,
ordine, autorità e violenza su cui quei progetti paralleli sono stati costruiti. Inoltre l’internazionalismo, per definizione, non può andare oltre lo stato; al contrario continua a
presupporre e assumere l’esistenza delle nazioni. Nell’auspicare la cooperazione tra le
nazioni a prescindere dalla geografia, l’internazionalismo di Marx non va oltre la nozione
dello stato-nazione quale unità di base dell’appartenenza.
Perché allora la geografia radicale contemporanea non ha sviluppato una «immaginazione
anti coloniale» che giunga fino alla sfida post statuale come Anderson (2005) ritiene che in
effetti sia necessario? Reclus e Kropotkin hanno dimostrato da molto tempo che la geografia
si presta essa stessa a idee emancipatorie e «non è stato per caso che due dei più importanti
anarchici della fine del diciannovesimo secolo fossero geografi» (Ward 2010, p.209). C’è un
latente straordinario potenziale per la geografia radicale contemporanea di diventare ancora
più radicale nella sua critica e quindi maggiormente libertaria nei suoi interessi aderendo
all’ethos anarchico. L’anarchismo è in grado di comprendere capitalismo, imperialismo, colonialismo, neoliberismo, militarismo, nazionalismo, classismo, razzismo, etnocentrismo,
orientalismo, sessismo e genere, omofobia e transfobia, età, abilità, specie, vegetarianismo,
sovranità e lo stato come sistemi intrecciati di dominazione. Il mutuo rinforzo della composizione di queste varie dimensioni di «archia» significa, conseguentemente, che escluderne
acriticamente una dall’analisi perpetua quella conglomerazione nel suo insieme. A differenza
delle compartimentazioni della geografia marxiana la promessa delle geografie anarchiche
consta precisamente nella loro capacità di pensare in modo integrato e quindi di rifiutare di
dare priorità a uno qualsiasi dei molteplici apparati di dominazione, in quanto tutti irriducibili
uno all’altro. Questo significa che nessuna lotta può venire dopo una qualsiasi altra. È tutto o
niente e il privilegio aprioristico dei lavoratori, delle avanguardie, o di qualsiasi altra classe
sopra le altre devono essere rifiutati sulla base della loro insita gerarchia.
Immaginare alternative
In effetti non ci sono peggiori controrivoluzionari dei rivoluzionari; perché
non ci sono peggiori cittadini degli invidiosi
(Anselme Bellegarrigue 1848)
Non ci sono sogni per un lontano futuro e neppure tappe da raggiungere dopo
altre, ma nostri processi di vita ovunque nei quali noi possiamo sia avanzare sia
arretrare
(Roger Baldwin 2005, p.114)
La questione delle alternative allo stato è comunque nella mente degli scettici dell’anarchismo. In questo senso Harvey (2009, p.200) domanda: «Come funzionerà concre-
S. Springer - Anarchismo! Quello che dovrebbe essere la geografia
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tamente la reificazione di questo ideale anarchico nello spazio e nel tempo assoluti?».
Sebbene gli anarchici abbiano teorizzato molteplici possibilità da quella collettivista a
quella individualista, dalla sindacalista alla mutualista, dalla volontaristica alla comunista, io rivendico un non dottrinario, post-anarchico approccio e conseguentemente la mia
risposta è cominciare a rifiutare di dare visioni prescrittive sulle forme di organizzazione
sociale che io penso debbano essere sviluppate. La risposta a questa domanda non può
dipendere da un singolo individuo, ma piuttosto collettivamente attraverso il dialogo e
una permanente flessibile innovazione. In questo senso la critica di Harvey all’anarchismo
è problematica da due punti di vista. Primo, quando mai spazio e tempo sono stati «assoluti» se non attraverso le lenti riduzioniste del positivismo? Questa affermazione nega
lo stesso riconoscimento di Harvey sulla reciproca influenza dialettica di spazio e tempo,
espressa da lui come «spazio-tempo». Secondo, cerca di applicare i principi del pensiero
marxiano e della «teoria delle fasi» a una posizione filosofica che escluda questa linearità
predeterminata. Harvey concettualizza la costruzione del luogo come una politica di finestato, cosa che posiziona non correttamente l’anarchismo come un progetto chiaramente
definito (idea condivisa da marxismo e neo-liberismo) piuttosto che riconoscerlo come un
processo vivente, flessibile e sempre dinamico (Springer 2011). Qualcuno potrebbe giudicare la mia posizione come un tentativo di svicolare, ma desidero ricordare al lettore che
qualsiasi tentativo di preconizzare un modello fisso isolato dal più ampio corpo sociale
riassume sia il progetto neoliberista sia una disposizione autoritaria visto che ciascuno
di essi sostiene un unico modo di fare le cose. Questo rinforza l’arroganza/ignoranza dei
cosiddetti «esperti» che presumono di sapere che cosa è meglio senza riconoscere i propri
limiti. Persino Sara Haraway, quale brillante pensatrice che è, una volta manifestò i propri
limiti rivelando: «io ho quasi perso la capacità di immaginare come potrebbe essere un
mondo non capitalista. E questo mi spaventa» (Harvey e Haraway 1995, p.519). La stessa
incipiente paura dovrebbe essere ugualmente evocata quando si riflette criticamente sullo
stato e sulla sua apparente totalizzante pervasività. Noi trattiamo questa particolare forma
gerarchica di organizzazione e di dominio territoriale come imprescindibile e facendo
questo noi concretamente dimentichiamo che la gran parte del tempo che gli umani hanno
passato sul pianeta Terra è stato caratterizzato da una organizzazione non statale. Lo stato
quindi non è né inevitabile né necessario. Il neoliberismo è particolarmente virulento nella
misura in cui inserisce un nuovo elemento nella nostra collettiva dimenticanza riconfigurando lo stato in modo tale che impedisce di notare i suoi continui effetti deleteri. Il
discorso dietro questa illusione di dissoluzione cerca di convincerci che il neoliberismo
rappresenti la nostra liberazione come individui, emancipandoci dalle catene che chiama
«il grande governo». Ma lo stato continua a essere rilevante nelle dinamiche neoliberiste.
Allo stesso modo il monopolio della violenza che lo stato reclama per sé rimane ugualmente potente e oppressivo sotto la logica disciplinare di uno stato neoliberista come
lo fa sotto ogni altra configurazione di stato; malgrado «i bei momenti» della apparente
democrazia (leggi «autoritarismo elettorale») (Springer 2011). Quello che è effettivamente perso nel supposto stato neoliberista in streaming sono ovviamente i benefici sociali
forniti ai cittadini. Questa retromarcia è il risultato del collasso della fiducia sociale, che
attivamente anticipa il mito hobbesiano-darwiniano di tutti contro tutti dove solo il più
forte sopravvive. La gente è incoraggiata non a rivolgersi agli altri per risolvere i problemi
di tutti i giorni o anche solo quando ci sono problemi, ma semplicemente deve smettere
di essere «pigra» e mettersi al lavoro. Il discorso neoliberista pone il sistema stesso al di
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La pratica della libertà e i suoi limiti
sopra di qualsiasi rimprovero così che ogni «anomalia», come l’impoverimento o la disoccupazione, sono derubricate quali fallimenti individuali. Quelli che non hanno «successo»
in questo gioco perverso sono facilmente estromessi dal punitivo stato neoliberista grazie
alla loro criminalizzazione. Il carcere è visto come la più valida soluzione che affronta il
crescere delle ineguaglianze e della povertà della maggioranza. Questo strumento disciplinare è particolarmente debilitante perché per la realizzazione del potere popolare le
condizioni per la cooperazione sociale devono essere presenti per il semplice motivo che
la gente deve avere fiducia negli altri.
Il neoliberismo in particolare e il capitalismo più generalmente lavorano per distruggere la fiducia facendoci competere l’un l’altro e approfittare della reciproca vulnerabilità.
Allo stesso modo lo stato distrugge la fiducia avvertendoci che homo homini lupus diventerebbe la legge in assenza di un potere sovrano. Per ristabilire la fiducia sembrerebbe che
sconfiggere il capitalismo non sia sufficiente. Nell’allestire una realtà post-neoliberista,
cioè la realizzazione di un contesto che rompa con il corrente Zeitgeist (spirito del tempo),
la sovranità e lo stato stesso devono essere smantellati. Facendo questo, a prima vista,
sembra apparire il problema del muoverci dal qui al là e dall’ora al poi. Nonostante collochi l’idea della rivoluzione come sparita dalla vista Neil Smith (2010) esemplifica la
permanente infatuazione della sinistra suggerendo che la recente crisi finanziaria potrebbe
essere la base sulla quale «l’imperativo rivoluzionario» può essere rinnovato. Ma desiderando che una rivoluzione globale emerga dalla recente crisi economica attribuisce un
ruolo strumentale a un singolo sistema economico che stranamente recupera l’argomento
del neoliberismo come monolitismo. Questo tipo di critica riporta all’implicita accettazione di Smith del ruolo utilitaristico che Marx attribuisce al capitalismo/colonialismo, una
posizione che gli anarchici trovano discutibile. Mentre compiange le vittime del colonialismo Marx si consola con il pensiero che i suoi continui abusi non faranno che avvicinare
il giorno in cui l’intero mondo verrebbe consumato da un’unica crisi e quindi inaugurando
la rivolta rivoluzionaria così desiderata. Questo è un approccio ultra passivo perché se
la rivoluzione deve risultare da una crisi capitalista allora questo implica una politica di
attesa per il giorno in cui «tutto si dissolve».
La questione della perdita di fiducia diventa particolarmente acuta al momento del
«dissolvimento» perché, come Proudhon (2005 [1864], p.108) avvertiva, c’è un «pericolo nell’aspettare fino ai momenti di crisi, quando le passioni diventano incandescenti
dalla diffusa sofferenza». Nel tempo che è passato dall’inizio della crisi nel tardo 2008 è
tristemente diventato ovvio di come sia possibile, in assenza di fiducia, per la gente, accettare alternative razziste, nazionaliste e fondamentaliste. Invece che occupare il tempo
nell’attesa della rottura i geografi dovrebbero invece aderire anarchicamente al «qui e
ora» come spazio-tempo in cui le nostre vite sono effettivamente vissute. Riconoscendo
che la potenzialità di questa immediatezza sia emancipatoria di per sé in quanto ci fa
rendere conto della possibilità che noi possiamo immediatamente rifiutare di partecipare
al consumismo, di praticare il nazionalismo e di non agire gerarchicamente per evitare di
legittimare l’ordine esistente, ci porta ad aderire alla cultura del «do it yourself» centrata
sull’azione diretta, il non consumismo e il mutuo aiuto. Aderendo all’idea della coppia di
autrici che si firma J-K Gibson-Grahan (2008) che «altri mondi» sono possibili e all’impegno di Sara Koopman (2011) per una battaglia contro egemonica non violenta di quello
che lei chiama «altra-geopolitica», il potere del «qui e ora» ci offre la libertà d’immaginare e di cominciare a costruire le libere alternative istituzioni e le volontarie associazioni
S. Springer - Anarchismo! Quello che dovrebbe essere la geografia
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che faciliteranno la transizione verso un vero futuro post-coloniale/post-neoliberista. Così
il significato di immaginare alternative all’ordine corrente non è quello di fissare un programma per ogni tempo, ma invece di fornire un esempio di alterità o di esternalità come
un mezzo per sfidare i limiti di questo ordine. È solo nel preciso spazio e momento del
rifiuto, che è il «qui e ora», che gli individui si prendono il potere di scegliere la propria
via, liberi dalla guida coercitiva di un’autorità sovrana o dalla persuasiva influenza di un
patrocinio accademico. L’ambito dove i geografi sono effettivamente in buona posizione
per essere efficaci, come i/le pensatori/rici femministi/e hanno dimostrato, è nei riguardi
della questione del costruire fiducia, abbattendo pregiudizi e agendo con nuove energie
creative radicate nella continua capacità delle emozioni e della vita quotidiana come effettivo terreno dell’interazione umana. Nell’accettare la «svolta affettiva» (Thien 2005)
che vede la connettività emozionale e la politica dell’affinità come basi fondamentali su
cui qualsiasi durevole trasformazione può avvenire, è precisamente a questa intimità e immediatezza che possono dedicarsi produttivamente le geografie anarchiche. Piuttosto che
dare priorità al particolarismo di classe, come nell’imperativo marxiano, o arrenderci alla
politica del razzismo, come vorrebbe il neoliberismo, l’anarchismo chiede che qualsiasi
processo di emancipazione sia pervaso da relazioni non universali, non gerarchiche e non
coercitive, fondate sul mutuo appoggio e sull’impegno eticamente condiviso.
Infine, quello che l’anarchismo ha da offrire è esattamente l’opposto del neoliberismo. Differenziandosi dall’insito elitismo e autoritarismo dello stato, l’anarchismo punta
alla produzione di beni comuni tramite la cooperazione umana in accordo ai bisogni, un
processo che non richiede una struttura amministrativa, ma invece perni su cui si fonda
un’etica di reciprocità. Una prospettiva anarchica riconosce inoltre che le nuove latenti
forme di organizzazione, che potrebbero svilupparsi oltre la logica territoriale dello stato,
possono esistere in un continuo processo di riflessione e revisione da parte di coloro che le
praticano, così come impedire la formazione di qualsiasi potenziale gerarchia prima che le
si possa permettere di crescere. Le geografie anarchiche di cooperazione devono nascere
all’esterno dell’ordine esistente, nei luoghi che lo stato ha mancato di includere e nelle
infinite possibilità che la logica statale ignora, rifiuta, saccheggia e nega. Come Kropotkin
(1887 p.153) ha eloquentemente chiarito:
mentre tutti concordano che l’armonia è sempre desiderabile non c’è una corrispondente
unanimità a proposito dell’ordine che si immagina che regni nelle nostre società moderne; così
che noi non abbiamo nessun tipo di obiezione all’uso della parola “anarchia” come negazione
di quello che è stato spesso descritto come ordine.
Le geografie anarchiche sono quelle forze potenziali che continuamente infastidiscono
lo stato sostenendo che sia semplicemente una delle possibilità socio-spaziali in un numero illimitato di altre. Così le alternative allo stato non nascono dall’ordine che esse rifiutano, in quanto contraddittorio e oppressivo, ma dall’anarchica profusione di forze che sono
aliene a questo ordine e da quelle reali possibilità che questo ordine cerca di dominare e
distorcere. I geografi radicali di conseguenza avrebbero molto da imparare dall’intensificare le connessioni con quei popoli (come le tribù indigene di Zomia) che non hanno
mai avuto lo stato e praticato quello che James Scott (2009) chiama «l’arte di non essere
governati». La questione qui non è la fine dello stato o la realizzazione di una politica che
porti alla fine dello stato, ma piuttosto una «infinita richiesta», una lotta fatta di continua
evasione, contestazione e solidarietà (Critchley 2007). Non siamo obbligati a vedere lo
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La pratica della libertà e i suoi limiti
stato come l’esclusivo luogo dal cambiamento sociopolitico o l’unico riferimento di un
paradigma rivoluzionario, come troppo spesso è avvenuto. Nello spirito delle citazioni che
aprono questo articolo noi possiamo invece orientare la nostra rabbia e tristezza dentro
di noi, dove la sostenuta indignazione per la nostra buona fortuna può portare a un riallineamento delle nostra bussola etica, forzandoci a fermarci e rifiutare, stando dalla parte
di altri meno fortunati. L’empatia è la morte dell’apatia e comincia non quando lo stato è
fluidificato, indebolito o smembrato, ma «qui e ora».
Conclusioni
La libertà come mezzo produce più libertà. Per coloro che condannano ciò come sterilità politica e posizione da «torre d’avorio» si risponda che il «realismo» e il loro «circostanzialismo» invariabilmente portano al disastro. Noi crediamo che sia più realistico
influenzare le menti con la discussione piuttosto che plasmarle con la coercizione (Vernon
Richards 1995, p.214).
L’etimologia di «radicale» viene dal latino radix e significa radice. I geografi radicali
contemporanei farebbero meglio a esplorare questa originaria dimensione (ri)confrontandosi con i contributi di Kropotkin e Reclus, che senza timore criticavano la dominazione
coloniale in un tempo in cui il «grosso» della geografia marciava mano nella mano con
il progetto imperialista. Ma la geografia radicale oggi non ha bisogno di rileggere il passato, bensì necessita di un futuro, di una iniezione di nuove idee che abbracci i progressi
intellettuali fatti dal pensiero post-strutturalista e femminista per andare oltre quello che
è già «conosciuto». All’interno degli studi anarchici il confine critico di questo tentativo
è il post-anarchismo, che non cerca di muovere il «vecchio» anarchismo, ma rifiuta le
basi epistemologiche delle teorie anarchiche «classiche» e il loro attaccamento all’essenzialismo del metodo scientifico. Il pensiero post-anarchico di conseguenza cerca di
rinvigorire la critica anarchica espandendo il suo concetto di dominazione oltre lo stato
e il capitalismo per comprendere le reti tortuose e molteplici che caratterizzano il potere
contemporaneo; e rimuovendo i suoi quadri concettuali normativi e «naturali» per aderire
a conoscenze specifiche ed empatiche. Applicare questa critica filosofica alla geografia
radicale oggi richiede che si faccia una scelta consapevole etica e emozionale, scegliere
se «essere alleati con la stabilità dei vincitori e dei governanti, oppure, cosa più difficile,
considerare tale stabilità come uno stato di emergenza che minaccia i meno fortunati con
il pericolo della completa estinzione» (Said 1993, p. 26). La seconda scelta richiede un
deciso sforzo per rompere il fascino del «senso comune» della governabilità neoliberista,
in quanto il governo non è solo la struttura politica o le procedure gestionali dello stato,
ma l’indirizzo della condotta dei singoli e dei gruppi, significa «strutturare il possibile
campo di azione degli altri», la loro direzione e la loro posizione (Foucault 1982, p.790).
Questo è un processo che molti geografi hanno già iniziato prestando attenzione all’intrico del potere, facendo ricerche sulle azioni partecipative e attraverso la teoria non rappresentativa (Thrift 2007), ma senza riferirla esplicitamente alla critica anarchica. Così se
i mutevoli orizzonti dello spazio-tempo assicurano che le nostre esperienze vissute sono
continui comportamenti che sfidano la divisione teorica di identità predeterminate e di
soggettività codificate, allora che cosa è più «realistico» se non riconoscere la perpetua
fioritura dei significati dell’anarchismo? Le geografie anarchiche allora cercherebbero di
S. Springer - Anarchismo! Quello che dovrebbe essere la geografia
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mettere in dubbio la spazialità su cui il «governo» è fondato, per sostenere un non strutturato «campo di azione» dove gli individui volontariamente e/o collettivamente possano
decidere la loro direzione, liberi dalla presenza e dalle pressioni di qualsiasi alta o ultima
autorità. Il luogo di questa liberazione da tutte le varianti del potere sovrano non è radicato
nell’idea di fissità, come è nella «trappola territoriale» dello stato, ma nella inesorabile
affermazione di libertà attraverso dinamiche associazioni per affinità che possano essere
interamente transitorie o solo poco permanenti. Il pensiero potenziale chiave è quello che
ogni affiliazione è libera di rafforzarsi o dissolversi grazie alla condizione di una libera e
individuale scelta, dove nessun soggetto, come il monopolio della forza o il controllo dei
mezzi di produzione, faccia rispettare la sottomissione o la continuità condivisa.
Le geografie politiche delle frontiere e dei confini diventerebbero infinitamente intricate, sovrapponibili e variabili fino al punto che cercare di fissarle in un rigido ordine o
una griglia, come è nell’epistemologia sottostante la moderna cartografia, diventerebbe un
esercizio di futilità. Questa mappatura, sia letteralmente come nella attuali carte sia attraverso tecniche come i dati censuari, è costitutiva della logica dello stato da cui cominciare
ad agire e la proposizione delle geografie anarchiche dovrebbe essere quella di dissolvere
qualsiasi schema di categorizzazione e classificazione che promuova permanenze spaziotemporali. Questo non significa che l’anarchismo sia un caos, ma che ogni organizzazione
geografica debba procedere come un’etica di empatia invece che una politica di differenze
visto che queste ultime sono sempre forgiate dall’oppressione. L’anarchismo, spazialmente organizzato in questi termini, ci permetterebbe di comprendere l’insieme delle persone piuttosto che considerarli soggetti o cittadini conformi a particolari spazi e a parziali
obiettivi politici. Kropotkin ha descritto una simile visione quando scrisse:
in questo tempo di guerre, di auto-centrature nazionali, di gelosie nazionali e odii abilmente
alimentati da gente che persegue i propri egoistici interessi o di classe, la geografia deve essere
… un mezzo per dissipare i pregiudizi e creare altri sentimenti più nobili per l’umanità.
Le geografie anarchiche possono di conseguenza essere produttivamente caratterizzate
dalla loro integralità, dove tutti i tentativi di creare false dicotomie di separazione sono
rifiutate e al contrario l’umanità è riconosciuta come intimamente interconnessa con tutti
i processi e flussi dell’intero pianeta (Massey 2005). Questa radicale riconcettualizzazione della disciplina la renderebbe simile, realizzando la visione di Reclus, sia alla Rete
dei Gioielli di Indra della filosofia buddista sia all’ipotesi di Gaia, dato che i tentativi di
separare ogni tipo di variante da quella politica a quella economica, da quella sociale a
quella culturale e così via, sarebbe vista come una costruzione che tenti di addomesticare,
costringere, dividere e contenere l’irriducibile intero.
Nuove forme di affinità stanno già emergendo in forma di «etiche relazionali di lotta»
(Routledge 2009) dove non è più il lavoratore che è concepito come il soggetto del cambiamento storico, ma gli oppositori anticapitalisti che comprendono gruppi eterogenei
che sfuggono alla soggettivazione universale dell’identità proletaria. Riconoscere questo
potrebbe essere il punto di partenza per scalzare la posizione che il marxismo detiene oggi
nella geografia radicale. Questa emergente forma di lotta è chiaramente non interessata
a formulare strategie che replichino tradizionali strutture rappresentative, volendo significare uno spostamento paradigmatico dal cambiare lo stato modificandone i caratteri,
prestando invece attenzione a movimenti autonomi in opposizione allo stato. In questo
contesto Newman (2010, p.182) identifica una serie di nuove questioni e sfide politiche:
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La pratica della libertà e i suoi limiti
«libertà oltre la sicurezza, democrazia oltre lo stato, politica oltre i partiti, organizzazione
economica oltre il capitalismo, globalizzazione oltre i confini, [e] vita oltre la biopolitica».
E ancora, queste non sono solo questioni politiche, ma ciascuna è anche profondamente
geografica. Mentre i geografi stanno già esaminando queste concrete questioni c’è stata
un’attenzione molto ridotta ai modi in cui l’anarchismo può favorire una più rigorosa analisi di queste emergenti geografie. Di conseguenza concettualizzare un «andare avanti»,
oltre le dominanti strutture del neoliberismo e le perduranti animosità del colonialismo,
significa un più profondo rapporto con le filosofie anarchiche. Impegnare la geografia
radicale in un programma anarchico vorrebbe dire la negazione della falsa dicotomia che
la disciplina mantiene tra l’accademia come luogo della produzione della conoscenza da
una parte e dall’altra la più ampia società come campo della lotta sociale. Perciò reti di solidarietà con coloro che svolgono azione diretta nelle strade potrebbe ben essere il futuro
della geografia radicale. Da qui possono fiorire idee che permettano nuove immaginazioni
geografiche e materializzazioni che vadano oltre politiche stato-centriche; possono fiorire
forme di organizzazione non istituzionali, «glocalizzate», temporanee e volontarie, e la
teoria kropotkiniana del mutuo appoggio come pure il contributo di Reclus agli ideali della libertà umana possono avere lo stesso tipo di attenzione che finora Marx ha avuto dalla
geografia radicale. L’anarchismo, come Kropotkin (1978 [1885]) ha riconosciuto più di un
secolo fa, è «quello che la geografia dovrebbe essere».
traduzione di Fabrizio Eva
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