La Tirannia
dell’ambiente
Appunti per una possibile lezione
Storia di un concetto
La storia del concetto di ambiente parte da lontano, da molto lontano, se si
vuole: le actiones populares previste dalla Lex Quinctia de Aquaeductibus
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le leggi Bottai ed i beni culturali
l’art. 674, c.p. (reato di carattere generale, che punisce tutte quelle
immissioni che siano «atte a offendere o imbrattare o molestare
persone»)
l’art. 844, c.c. (una questione di proprietà: sic utere tuo ut alienum non
laedas: Background Principles?)
la legge 20 marzo 1941, n. 366 (“nei riflessi dell'igiene, dell'economia e
del decoro”)
il testo unico delle leggi sanitarie e le industrie insalubri (ad hoc
approach di carattere sanitario fondato sulla discrezionalità del
sindaco)
Troppo lontano per essere vicina:
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Storia di un concetto
Nessuna di queste disposizioni può essere
raggruppata assieme alle altre in un
insieme di norme caratterizzato da un
contenuto omogeneo
Nel momento in cui la Costituzione è stata
scritta non esisteva un concetto giuridico di
ambiente e la Costituzione, di conseguenza,
non lo ha preso in considerazione
L’ambiente nella
Carta costituzionale
La Costituzione, letta, così come la stessa è
stata approvata dalla Assemblea
costituente non parla (e non poteva
parlare) di diritto dell’ambiente
Parla di paesaggio
Parla di diritto alla salute
Ambiente e paesaggio
Nella Costituzione, il paesaggio non è “light”. E’ “heavy”, perché è
pesante l’endiadi con patrimonio artistico e storico. Una endiadi che
svela l’essenza culturale ed estetica del paesaggio
La distanza con la visione di Bottai a margine della legge 1497 del 1939:
una pianificazione asservita ad un progetto di ricomposizione fra
passato e futuro dominato dal progetto politico del regime (L.
Caravaggi, Paesaggi di paesaggi, Meltemi Editore, Roma, 2001, part. 25
e ss.)
Un paesaggio che è oggetto di un discorso politico: La Repubblica tutela
il paesaggio ed il patrimonio artistico e storico della nazione
Un discorso politico che è “totalitario”, perché burocratico, l’ordine del
giorno dell’Accademia dei Lincei, e comunque centralizzato (la
questione dei poteri delle regioni)
Un discorso politico che diventa amministrazione di un vincolo (mera
Conservation)
Ambiente e paesaggio
Tutto questo non ha nulla a che fare con la
tutela dell’ambiente, che non può essere un
discorso politico ma in un certo senso
forma il presupposto del discorso politico
Il diritto alla salute
l'art. 1 l. 23 dicembre 1978 n. 833 prevede che "La tutela
della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della
dignità della libertà della persona umana"
con la l. 28 marzo 2001 n. 145 il nostro Stato ha autorizzato
la ratifica della convenzione del Consiglio d'Europa per la
protezione dei diritti dell'uomo e della dignità dell'essere
umano riguardo all'applicazione della biologia e medicina
che recita all'art. 1: "Le parti della presente convenzione
proteggono l'essere umano nella sua dignità e nella sua
identità e garantiscono a tutti senza discriminazioni il
rispetto della sua integrità e degli altri diritti e libertà
fondamentali riguardo alle applicazioni della biologia e
medicina"
il codice di deontologia medica
Il diritto alla salute
La tutela della salute si afferma nel testo
costituzionale, da una parte, come diritto
sociale, ma, dall’altra parte, come diritto di
autodeterminazione rispetto al diritto
sociale
Esiste una libertà negativa individuale per
quanto riguarda il diritto alla salute che è
naturalmente incompatibile con il concetto
di ambiente, che non può essere
individualmente disponibile
L’ambiente come prodotto
legislativo del dopoguerra
L’ambiente si afferma come un prodotto
legislativo del dopoguerra, ma è un concetto
unitario?
- la legge 615 del 1966 ed il clean air act
- la legge 319 del 1976
- il d.p.r. 915 del 1982
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il d.p.r. 203 del 1988 (ed il d.m. 12 giugno
1992)
L’ambiente come prodotto
legislativo del dopoguerra
Sono tutte disposizioni che nascono in ambito
comunitario e su impulso comunitario, ovvero
che sono spinte dal motore misterioso della
sussidiarietà mercantile
Sono disposizioni che mancano di un approccio
sistemico
Sono disposizioni pericolose per l’ambiente a
causa dell’approccio olistico cui sono informate
Ma l’erosiva linea di attacco della legge 431 del
1985 ...
Ambiente ed istituzione del
ministero dell’ambiente
Le funzioni: é compito del Ministero assicurare, in un quadro
organico, la promozione, la conservazione ed il recupero delle
condizioni ambientali conformi agli interessi fondamentali della
collettività ed alla qualità della vita, nonchè la conservazione e
la valorizzazione del patrimonio naturale nazionale e la difesa
delle risorse naturali dall'inquinamento (art. 1, secondo comma)
La relazione sullo stato dell’ambiente (art. 1, sesto comma)
La valutazione di impatto ambientale (art. 6)
Il danno ambientale: Qualunque fatto doloso o colposo in
violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in
base a legge che comprometta l'ambiente, ad esso arrecando
danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in
parte, obbliga l'autore del fatto al risarcimento nei confronti
dello Stato (art. 18)
L’ambiente dopo il
ministero
La valutazione di impatto ambientale e il
danno ambientale superano la visione olistica
dell’ambiente (una a monte, perché riguarda
ogni impatto ambientale dell’opera, e l’altra a
valle, perché riguarda anche gli esiti di una
visione olistica del bene ambiente)
L’istituzione di un ministero apre la strada ad
una considerazione dell’ambiente come
materia, in quanto oggetto di un preciso
discorso politico agganciato ad una
responsabilità ministeriale
Le norme ambientali
di nuova generazione
il d.lgs. 22/1997
il d.lgs. 152/1999
Le norme ambientali
di nuova generazione
Sono norme che si caratterizzano per
l’espressione di principi
I principi consentono l’elaborazione di una
materia?
O indicano i valori che caratterizzano i punti di
aggressione dell’interesse che aggrega la
materia?
Nell’immediato passato della legge cost. 3/2001,
l’ambiente è ancora sospeso fra un’idea di valore
ed un’idea di principio
Ambiente e giurisprudenza
costituzionale prima della legge
cost. 3/2001
L’ambiente appare nella giurisprudenza della Corte
costituzionale con la sentenza 151/1986, che parla
della legge 431 del 1985 ed è coeva alla legge 349 del
1986
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“il paesaggio è un valore primario, valore estetico e
culturale” => <<L'interesse ambientale, in altri
termini è un interesse prevalente su tutti gli altri e
non consente il cosiddetto bilanciamento degli
interessi ai fini del raggiungimento della massima
utilità sociale [...] Il che equivale a dire che nessun
bilanciamento può dare un'utilità maggiore
comprimendo l'interesse ambientale, poiché questo
ha un valore assoluto>> (Maddalena)
Ambiente e giurisprudenza
costituzionale prima della legge
cost. 3/2001
210/1987:
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“Va riconosciuto lo sforzo in atto di dare un riconoscimento specifico alla
salvaguardia dell'ambiente come diritto fondamentale della persona ed
interesse fondamentale della collettività e di creare istituti giuridici per la
sua protezione. Si tende cioè ad una concezione unitaria del bene
ambientale comprensiva di tutte le risorse naturali e culturali. Esso
comprende la conservazione, la razionale gestione ed il miglioramento
delle condizioni naturali (aria, acque, suolo e territorio in tutte le sue
componenti), la esistenza e la preservazione dei patrimoni genetici
terrestri e marini, di tutte le specie animali e vegetali che in esso vivono
allo stato naturale ed in definitiva la persona umana in tutte le sue
estrinsecazioni. Ne deriva la repressione del danno ambientale cioè del
pregiudizio arrecato, da qualsiasi attività volontaria o colposa, alla
persona, agli animali, alle piante e alle risorse naturali (aria, acqua, suolo,
mare), che costituisce offesa al diritto che vanta ogni cittadino
individualmente e collettivamente. Trattasi di valori che in sostanza la
Costituzione prevede e garantisce (artt. 9 e 32 Cost.), alla stregua dei
quali, le norme di previsione abbisognano di una sempre più moderna
interpretazione”
Ambiente e giurisprudenza
costituzionale prima della legge
cost. 3/2001
641/1987:
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l'ambiente è “un bene di valore assoluto e
primario”, “un bene giuridico, in quanto
riconosciuto e tutelato da norme”, “un
bene immateriale unitario”
1031 del 1988, 67 del 1992, 318 del 1994
Ambiente e giurisprudenza
costituzionale prima della legge
cost. 3/2001
l’ambiente viene disegnato come un
“valore” assoluto e primario di invenzione
della Corte
è un diritto individuale
è un interesse della collettività
è un bene materiale / immateriale, a
seconda dei punti di vista (sic!)
Ambiente e giurisprudenza
costituzionale dopo la legge cost.
3/2001
407/2002
-
Non “una materia in senso stretto”, in quanto la
disposizione costituzionale avrebbe un valore non
oggettivo, ma finalistico. Inoltre, trattandosi di una
competenza che “si intreccia inestricabilmente con
altri interessi e competenze”, si è ritenuto che allo
Stato spetterebbe “solo il potere di fissare standard di
tutela uniformi sull'intero territorio nazionale, senza
peraltro escludere in questo settore la competenza
regionale alla cura di interessi funzionalmente
collegati con quelli propriamente ambientali”
222/2003, 307/2003
Ambiente e giurisprudenza
costituzionale dopo la legge cost.
3/2001
144/2006
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“i reati paesaggistici ed ambientali
tutelano il paesaggio e l'ambiente, e cioè
dei beni materiali, mentre i reati edilizi
tutelano un bene astratto consistente nel
rispetto della complessa disciplina
amministrativa dell’uso del territorio”
Ambiente e giurisprudenza
costituzionale dopo la legge cost.
3/2001
-
-
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sul territorio gravano più interessi pubblici, taluni che
guardano alla sua conservazione, e che sono di competenza
esclusiva dello Stato, talatri che riguardano la sua fruizione
e che appartengono alla competenza concorrente regionale
particolarmente in materia di governo del territorio e
valorizzazione dei beni culturali ed ambientali
la tutela del paesaggio è la tutela del complesso dei beni
materiali che danno una determinata forma al territorio
il paesaggio è un valore primario ed assoluto
367/2007
-
la conservazione è un limite alla fruizione e la allocazione
delle due funzioni a soggetti diversi ha una precisa logica di
tutela
Ambiente e giurisprudenza
costituzionale dopo la legge cost.
3/2001
378/2007
-
Occorre poi premettere, per la soluzione del problema del riparto di
competenze tra Stato, Regioni e Province autonome in materia di
ambiente, che sovente l'ambiente è stato considerato come"bene
immateriale".
Sennonché, quando si guarda all'ambiente come ad una"materia"del
riparto della competenza tra Stato e Regioni, è necessario tener
presente che si tratta di un bene della vita, materiale e complesso, la
cui disciplina comprende anche la tutela e la salvaguardia delle qualità
e degli equilibri delle sue singole componenti. In questo senso, del
resto, si è già pronunciata questa Corte con l'ordinanza n. 144 del
2007, per distinguere il reato edilizio da quello ambientale.
Oggetto di tutela, come si evince anche dalla Dichiarazione di
Stoccolma del 1972, è la biosfera, che viene presa in considerazione,
non solo per le sue varie componenti, ma anche per le interazioni fra
queste ultime, i loro equilibri, la loro qualità, la circolazione dei loro
elementi, e così via. Occorre, in altri termini, guardare all'ambiente
come"sistema", considerato cioè nel suo aspetto dinamico, quale
realmente è, e non soltanto da un punto di vista statico ed astratto.
Ambiente e giurisprudenza
costituzionale dopo la legge cost.
3/2001
378/2007
La potestà di disciplinare la tutela dell'ambiente nella sua interezza è stata affidata in via
esclusiva allo Stato dall'art. 117, comma secondo, lettera s), della Costituzione, il quale, come è
noto, parla di"ambiente"i n termini generali ed onnicomprensivi. E non è da trascurare che la
norma costituzionale pone accanto alla parola"ambiente"le parole"ecosistema"e"beni culturali".
Ne consegue che spetta allo Stato disciplinare l'ambiente come una entità organica, dettare
cioè delle norme di tutela che hanno ad oggetto il tutto e le singole componenti considerate
come parti del tutto.
Ed è da notare, a questo proposito, che la disciplina unitaria e complessiva del bene ambiente
inerisce ad un interesse pubblico di valore costituzionale primario (sentenza n. 151 del 1986)
ed assoluto (sentenza n. 210 del 1987) e deve garantire, come prescrive il diritto comunitario,
un elevato livello di tutela, come tale inderogabile da altre discipline di settore.
Si deve sottolineare tuttavia che accanto al bene giuridico ambiente in senso unitario, possono
coesistere altri beni giuridici, aventi ad oggetto componenti o aspetti del bene ambiente, ma
concernenti interessi diversi giuridicamente tutelati.
Si parla in proposito dell'ambiente come"materia trasversale", nel senso che sullo stesso
oggetto insistono interessi diversi: quello alla conservazione dell'ambiente e quelli inerenti alle
sue utilizzazioni. In questo caso, la disciplina unitaria del bene complessivo ambiente, rimessa
in via esclusiva allo Stato, viene a prevalere su quella dettata dalle Regioni o dalle Province
autonome, in materia di competenza propria, ed in riferimento ad altri interessi.
Ciò comporta che la disciplina ambientale, che scaturisce dall'esercizio di una competenza
esclusiva dello Stato, investendo l'ambiente nel suo complesso, e quindi anche in ciascuna sua
parte, viene a funzionare come un limite alla disciplina che le Regioni e le Province autonome
dettano in altre materie di loro competenza, per cui queste ultime non possono in alcun modo
derogare o peggiorare il livello di tutela ambientale stabilito dallo Stato
Ambiente e giurisprudenza
costituzionale dopo la legge cost.
3/2001
105/2008
-
“caratteristica propria dei boschi e delle foreste è quella di
esprimere una multifunzionalità ambientale, oltre ad una
funzione economico produttiva. Si può dunque affermare
che sullo stesso bene della vita, boschi e foreste, insistono
due beni giuridici: un bene giuridico ambientale in
riferimento alla multifunzionalità ambientale del bosco,
ed un bene giuridico patrimoniale, in riferimento alla
funzione economico produttiva del bosco stesso [...] Ne
consegue che la competenza regionale in materia di
boschi e foreste, la quale si riferisce certamente [...] alla
sola funzione economico produttiva, incontra i limiti
invalicabili posti dallo Stato a tutela dell’ambiente, e che,
pertanto, tale funzione può essere esercitata soltanto nel
rispetto della <sostenibilità degli ecosistemi forestali>”.
Ambiente e giurisprudenza
costituzionale dopo la legge cost.
3/2001
61/2009
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“Le Regioni, nell'esercizio delle loro competenze, debbono rispettare
la normativa statale di tutela dell'ambiente, ma possono stabilire per
il raggiungimento dei fini propri delle loro competenze (in materia di
tutela della salute, di governo del territorio, di valorizzazione dei
beni ambientali, ecc.) livelli di tutela più elevati (vedi sentenze nn.
30 e 12 del 2009, 105, 104 e 62 del 2008). Con ciò certamente
incidendo sul bene materiale ambiente, ma al fine, non di tutelare
l'ambiente, già salvaguardato dalla disciplina statale, bensì di
disciplinare adeguatamente gli oggetti delle loro competenze. Si
tratta cioè di un potere insito nelle stesse competenze attribuite alle
Regioni, al fine della loro esplicazione. Inoltre, è da rilevare che la
dizione, ricorrente nella giurisprudenza di questa Corte, secondo la
quale, in materia di tutela dell'ambiente, lo Stato stabilisce
<standard minimi di tutela> va intesa nel senso che lo Stato assicura
una tutela adeguata e non riducibile dell'ambiente”
142, 180, 214, 220, 329, 437/2008
Il codice dell’ambiente
d.lgs. 152/2006
-
è un codice?
aggregazione per principi, che non
aggiunge molto a quanto consolida
Eppure esprime un bisogno ed un
movimento
Il codice dell’ambiente
‘nanti la Corte
quindici sentenze del luglio 2009
225/2009
La giurisprudenza
costituzionale
solo una questione di riparto di competenze?
in realtà, è una questione di peso di un interesse ai
fini del riparto delle competenze
l’ambiente ha il peso dello sviluppo sostenibile e lo
sviluppo sostenibile penetra nel nostro ordinamento
con la forza che la penombra della soft law
acquisisce per effetto di 11 e 117, primo comma
la logica è un arretramento della Corte dalla tirannia
dell’ambiente e il confinamento della Corte stessa
nella funzione del custode dei confini Stato / regioni
Ambiente o Sviluppo
sostenibile?
Si può davvero considerare il diritto
dell’ambiente come un diritto teso alla
mera conservazione?
In realtà, il concetto di conservazione può
essere visto come un limite alla fruizione,
ha la consistenza di un limite alla fruizione,
di talché il diritto dell’ambiente è il diritto
dello sviluppo sostenibile, inteso come
necessario equilibrio fra sviluppo e
conservazione
La storia dello
sviluppo sostenibile
Quattro parole chiave segnano la seconda metà del XX secolo: Pace,
Libertà, Sviluppo ed Ambiente, inteso come Environment
Al centro dell’idea di sviluppo sostenibile, vi sono queste quattro
parole chiave, che costituiscono un sintagma di significanti
1972, Stoccolma: L’uomo ha un diritto fondamentale alla libertà,
all’eguaglianza e a condizioni di vita soddisfacenti in un ambiente che
gli consenta di vivere nella dignità e nel benessere ed è altamente
responsabile della protezione e del miglioramento dell’ambiente
davanti alle generazioni future. Per questo le politiche che
promuovono o perpetuano l’apartheid, la segregazione razziale, la
discriminazione, il colonialismo ed altre forme di oppressione e di
dominanza straniera, vanno condannate ed eliminate (art. 1)
Lo sviluppo economico e sociale è il solo modo per assicurare all’uomo
un ambiente di vita e lavoro favorevole e per creare sulla Terra le
condizioni necessarie al miglioramento del tenore di vita (art. 8)
La storia dello
sviluppo sostenibile
La Commissione Brundtland (World Commission on
Environment and Development, 1982 - 1987, Our common
future)
The Environment does not exist as a sphere separate from
human actions, ambitions, and needs, and attempts to defend
it in isolation from human concerns have given the very word
“environment” a connotation of naivety in some political
circles. The world “development” has also been narrowed by
some into a very limited focus, along the lines of “what poor
nations should do to become richer thus again is automatically
dismissed by many in the international arena as being a
concern of specialists, of those involved in questions of
development assistance. But the Environment is where we
live and the Development is what we all do in attempting to
improve our lot within that abode. The two are inseparable
La storia dello
sviluppo sostenibile
Rio 1992 (Earth Summit): una dettagliata
dichiarazione di principi e l’agenda 21
Johannesburg 2002 (World Summit on
Sustainable Development): lo sviluppo
sostenibile diventa: un concetto (una idea),
un obiettivo ed un movimento
L’ambiguità di un
concetto
Ability to make the development sustainable - to
ensure that it meets the needs of the present without
compromising the ability of future generations to meet
their own needs => il focus è l’equità intergenerazionale
ma l’equità non è solo intergenerazionale contiene in sé
una idea di giustizia sociale che vale sia in senso
transnazionale che come limite alla sovranità
e la giustizia sociale contiene in sé a sua volta una idea
ed una aspirazione alla democrazia, intesa come:
diritto a ricevere una corretta informazione, diritto a
partecipare alle decisioni che hanno un impatto
sull’ambiente, diritto a ricevere giustizia
Archivio selezionato: Dottrina
La giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia di tutela e fruizione
dell'ambiente e le novità sul concetto di "materia", sul concorso di più competenze
sullo stesso oggetto e sul concorso di materie (*)
Riv. giur. ambiente 2010, 05, 685
Paolo Maddalena (**)
1. Il concetto di paesaggio ed ambiente nelle prime sentenze della Corte Costituzionale. 2. La
giurisprudenza costituzionale in materia di paesaggio e di ambiente dopo la modifica del Titolo Quinto,
Seconda Parte della Costituzione: l'intreccio inestricabile di competenze. 3. Il radicale cambiamento di
questo orientamento introdotto dalle sentenze n. 367 e n. 378 del 2007. 4. In particolare il paragrafo
quattro della sentenza n. 378 del 2007: il concorso di più competenze sullo stesso oggetto ambiente. 5.
L'ambiente come bene materiale. L'insistenza sullo stesso bene materiale di più beni in senso giuridico e,
quindi, di più e diverse competenze: il caso dei boschi e delle foreste. 6. La sentenza n. 61 del 2009: la
possibilità, per le Regioni, di stabilire livelli di tutela dell'ambiente più elevati di quelli statali, ma non per
tutelare l'ambiente, già tutelato dallo Stato, con una disciplina "adeguata e non riducibile", ma per
disciplinare adeguatamente il diverso oggetto delle loro competenze. Le numerose sentenze concernenti
questo nuovo orientamento giurisprudenziale. 7. La definitiva conferma delle sentenze (una quindicina)
del luglio 2009, ed in particolare la sentenza n. 225 del 2009. 8. Il nuovo modo di concepire il concetto di
"materia" alla luce della predetta giurisprudenza. Il caso del cosiddetto "intreccio inestricabile di materie"
e del cosiddetto "incrocio di materie". Superamento di queste concezioni attraverso l'utilizzo del concetto
tecnico e giuridico di "concorso". Le tre ipotesi di coinvolgimento nella stessa disposizione di competenze
statali e regionali. La necessità di ricorrere all'intesa in caso di "spostamento di competenze".
L'interpretazione dell'art. 118 della Costituzione. 9. Le conseguenze pratiche di questo nuovo
orientamento giurisprudenziale sul piano generale e sul piano della tutela ambientale.
1. Il concetto di paesaggio ed ambiente nelle prime sentenze della Corte Costituzionale.
La prima sentenza della Corte Costituzionale che si è occupata di ambiente è la n. 151 del 1986,
concernente la legittimità costituzionale della legge 431 del 1985, la cosiddetta legge Galasso, la quale,
come è noto, formò un elenco delle zone d'Italia sottoposte per legge al vincolo paesaggistico e statuì per
le Regioni l'obbligo di redigere i piani paesistici, ovvero dei piani territoriali aventi valore paesistico
ambientale.
Quello che maggiormente rileva di questa importante sentenza, ai fini della costruzione della tutela
giuridica dell'ambiente, è l'affermazione che "il paesaggio (che poi è stato considerato l'aspetto visivo del
territorio) è un valore primario, valore estetico e culturale". L'interesse ambientale, in altri termini è un
interesse prevalente su tutti gli altri e non consente il cosiddetto bilanciamento degli interessi ai fini del
raggiungimento della massima utilità sociale (principio, invero, che poi è stato disatteso da qualche
sentenza). Il che equivale a dire che nessun bilanciamento può dare un'utilità maggiore comprimendo
l'interesse ambientale, poiché questo ha un valore assoluto (l'assolutezza di tale valore sarà precisata da
altra sentenza, come vedremo in seguito).
Una sentenza che costituisce un punto fermo al quale si riferiranno tutte le sentenze successive e che
racchiude in sé le affermazioni più rilevanti per quanto concerne la tutela ambientale è la n. 210 del
1987, relativa al Parco Nazionale dello Stelvio, all'impatto ambientale previsto dalla legge 349 del 1986,
ed alla dichiarazione di aree ad elevato rischio ambientale previsto da questa stessa legge 349 del 1986.
Tale sentenza contiene la seguente frase che conviene riportare per intero: "Va riconosciuto lo sforzo in
atto di dare un riconoscimento specifico alla salvaguardia dell'ambiente come diritto fondamentale della
persona ed interesse fondamentale della collettività e di creare istituti giuridici per la sua protezione. Si
tende cioè ad una concezione unitaria del bene ambientale comprensiva di tutte le risorse naturali e
culturali. Esso comprende la conservazione, la razionale gestione ed il miglioramento delle condizioni
naturali (aria, acque, suolo e territorio in tutte le sue componenti), la esistenza e la preservazione dei
patrimoni genetici terrestri e marini, di tutte le specie animali e vegetali che in esso vivono allo stato
naturale ed in definitiva la persona umana in tutte le sue estrinsecazioni. Ne deriva la repressione del
danno ambientale cioè del pregiudizio arrecato, da qualsiasi attività volontaria o colposa, alla persona,
agli animali, alle piante e alle risorse naturali (aria, acqua, suolo, mare), che costituisce offesa al diritto
che vanta ogni cittadino individualmente e collettivamente. Trattasi di valori che in sostanza la
Costituzione prevede e garantisce (artt. 9 e 32 Cost.), alla stregua dei quali, le norme di previsione
abbisognano di una sempre più moderna interpretazione".
L'ambiente, si dice, è "un valore costituzionale" e pertanto vanno riconosciute, e cioè ritenute valide, le
costruzioni giuridiche che affermano il diritto all'ambiente "come diritto fondamentale della persona" e
che parlano di una "concezione unitaria del bene ambientale". In particolare, la tutela ambientale
riguarda la conservazione, la gestione ed il miglioramento di tutte le risorse naturali e culturali e, "in
definitiva, la persona umana in tutte le sue estrinsecazioni". Infine la repressione del danno ambientale
concerne tutti i pregiudizi arrecati a tutte le risorse naturali (aria, acqua, suolo, mare) e che
"costituiscono offesa al diritto che vanta ogni cittadino individualmente e collettivamente".
Insomma, il concetto unitario di ambiente è estremamente vasto, identificandosi con l'intera comunità
biotica, uomo compreso, e con le testimonianze di civiltà di quest'ultimo (i beni culturali) e, quindi, con
una molteplicità di componenti, che, nel loro insieme, costituiscono una unità organica. Il bene ambiente,
in estrema sintesi, è un bene materiale e complesso, che può essere considerato nella sua globalità o
nelle sue singole componenti. Infine è possibile affermare un diritto all'ambiente, quale diritto individuale
e collettivo insieme, che merita la qualifica di "diritto fondamentale della persona". Tale diritto, tuttavia,
concerne, non la fruizione dell'ambiente, che è un fatto individuale, ma la sua conservazione, che è un
fatto che riguarda l'intera collettività.
C'è da notare, oltre alla fondamentale distinzione tra fruizione e conservazione (la cui mancanza ha
generato molti equivoci), che questa sentenza pone il rapporto tra uomo e natura nel senso di una
interazione, di una corrispondenza naturale, si direbbe di una reciproca appartenenza. Il concetto, in
fondo, è quello già individuato dai filosofi presocratici, i quali dicevano che "l'uomo è parte della natura",
e da Platone, il quale affermava che "questo mondo è davvero un essere vivente dotato di anima".
L'affermazione generica del "diritto fondamentale della persona" all'ambiente, potrebbe pertanto essere
completata nel senso che l'ambiente appartiene all'uomo come gli appartengono le membra del corpo,
nell'ambito cioè di un valore unitario che comprende l'uomo e la natura. Sottende questa affermazione il
principio biocentrico o ecocentrico, che non esclude, ovviamente, la centralità dell'uomo, ma esclude di
certo la contrapposizione tra uomo e natura, espressa dal principio antropocentrico. Si pone in altri
termini, la conservazione della natura come necessaria ed indispensabile per la stessa vita dell'uomo, e
quindi come valore non comprimibile. Si tratta di una tematica che fa dubitare molto della posizione
centrale che occupa nei nostri moderni ordinamenti il concetto della proprietà privata, cioè del potere del
singolo di godere e di disporre del bene in modo pieno ed esclusivo, e che fa tornare alla mente il valore
della proprietà comune o collettiva, come quella degli usi civici, delle Magnifiche Regole alpine, delle
Università agrarie, ecc. (1).
Altra sentenza importante è la n. 641 del 1987, sulla giurisdizione in materia di risarcimento del danno
ambientale. Qui si afferma che l'ambiente è "un bene di valore assoluto e primario", è "un bene giuridico,
in quanto riconosciuto e tutelato da norme". È, infine "un bene immateriale unitario".
Il valore ambiente viene definito, dunque, non solo "primario", ma anche "assoluto", cioè niente affatto
comprimibile. Si accetta inoltre come criterio di definizione del bene in senso giuridico, quello che il
Pugliatti definisce del bene giuridico in senso lato, nel senso che è bene giuridico, non solo quello
appropriabile dal singolo (bene giuridico in senso stretto), ma anche quello oggetto di tutela giuridica (2).
L'ultima annotazione, quella secondo la quale il bene ambiente è un bene immateriale unitario è alquanto
impropria, poiché l'ambiente, come si è visto a proposito della precedente sentenza n. 210 del 1987, è
formato da un complesso di cose materiali e la considerazione unitaria del bene vale ad esaltarne la sua
complessità e non ad attribuirgli la natura di un bene immateriale. Tale incongruenza, comunque, è stata
successivamente corretta, dall'ordinanza n. 144 del 2006, relativa alle sanzioni penali in tema di reati
edilizi e paesaggistici, nella quale si afferma che "i reati paesaggistici ed ambientali tutelano il paesaggio
e l'ambiente, e cioè dei beni materiali, mentre i reati edilizi tutelano un bene astratto consistente nel
rispetto della complessa disciplina amministrativa dell'uso del territorio".
L'aggettivo "immateriale" scompare, peraltro, già nella sentenza n. 1029 del 1988, relativa alla
individuazione dei parchi nazionali, la quale parla di nuovo dell'ambiente come "bene unitario se pur
composto da molteplici aspetti rilevanti per la vita naturale ed umana".
In tema di parchi nazionali è inoltre interessante la sentenza n. 1031 del 1988, la quale rivendica allo
Stato, non solo il potere di individuare le aree, ma anche quello di istituire, con legge, i parchi nazionali.
Il concetto del bene ambiente come bene (materiale) unitario è poi ripetuto dalle sentenze n. 67 del 1992
e n. 318 del 1994, nonché in modo molto chiaro, come in seguito vedremo, da numerose sentenze
successive.
2. La giurisprudenza costituzionale in materia di paesaggio e di ambiente dopo la modifica del
Titolo Quinto, Seconda Parte della Costituzione: l'intreccio inestricabile di competenze.
Dopo la modifica costituzionale del Titolo Quinto della Parte Seconda della Costituzione, grande rilievo ha
avuto la previsione della materia "ambiente, ecosistema e beni culturali", come materia di competenza
esclusiva dello Stato, là dove fino a quella data l'intera tutela ambientale era stata costruita sul raccordo
fra l'art. 9 e l'art. 32 della Costituzione.
Sennonché, a questo punto, l'attenzione della Corte Costituzionale si è spostata dall'oggetto della tutela
ambientale alla distribuzione delle competenze fra Stato e Regioni in materia di ambiente.
Ne è scaturita la sentenza n. 407 del 2002, la quale ha creato un diritto vivente, che ha dominato per
circa un quinquennio.
Si è escluso che la materia "tutela dell'ambiente" possa costituire "una materia in senso stretto", in
quanto la disposizione costituzionale avrebbe un valore non oggettivo, ma finalistico. Inoltre, trattandosi
di una competenza che "si intreccia inestricabilmente con altri interessi e competenze", si è ritenuto che
allo Stato spetterebbe "solo il potere di fissare standard di tutela uniformi sull'intero territorio nazionale,
senza peraltro escludere in questo settore la competenza regionale alla cura di interessi funzionalmente
collegati con quelli propriamente ambientali".
La sopra descritta interpretazione giurisprudenziale presta il fianco, come rilevato dalla dottrina, a
numerose critiche. Di fronte ad un testo dell'art. 117 Cost., che parla di competenza esclusiva dello Stato
nelle seguenti "materie", sembra alquanto arduo affermare che "la tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e
dei beni culturali" non costituisca una "materia in senso stretto". Appare inoltre molto difficile concepire,
sul piano giuridico, una competenza esclusiva che "si intreccia con altri interessi e competenze". La
competenza, cioè la misura di un potere, è strettamente legata al singolo potere di cui si tratta, e parlare
di intreccio di competenze significa trasformare una competenza per sua natura unica, in quanto riferita
ad un potere, in una competenza comune a più poteri.
Di questo presupposto "intreccio di competenze", cui ha fatto spesso eco un'altra dizione detta di
"incrocio di materie", si è fatta poi pratica attuazione tutte le volte che la Corte Costituzionale, ha ritenuto
che allo Stato spetti soltanto il potere di dettare, in materia di tutela dell'ambiente, gli "standard minimi
uniformi per tutto il territorio nazionale", standard che le Regioni, nell'esercizio delle loro competenze (ad
esempio in materia di governo del territorio) possono rendere più rigorosi, assicurando un "più elevato
livello di garanzia" ambientale. In questa maniera, come agevolmente si nota, la competenza esclusiva
dello Stato in materia di tutela dell'ambiente viene in gran parte esautorata, venendo limitata a standard
minimi uniformi, là dove dovrebbe realizzarsi quanto meno in una tutela "adeguata", se non addirittura
"elevata", come sancisce il diritto comunitario.
Si è venuta così a costituire una competenza propria delle Regioni in materia di tutela dell'ambiente,
nonostante, come si è visto, l'art. 117, comma secondo, lett. s), della Costituzione attribuisse questa
materia alla competenza esclusiva dello Stato.
Infatti, nella sentenza n. 307 del 2003, la quale ricorda le sentenze n. 407 del 2002 e n. 222 del 2003, si
legge testualmente: "Questa Corte ha già chiarito che la"tutela dell'ambiente", più che una"materia"in
senso stretto, rappresenta un"compito"nell'esercizio del quale lo Stato conserva il potere di dettare
standard di protezioni uniformi validi in tutte le Regioni e non derogabili da queste; e che ciò non esclude
affatto la possibilità che le leggi regionali, emanate nell'esercizio della potestà concorrente di cui all'art.
117, terzo comma, della Costituzione, e di quella"residuale", di cui all'art. 117, quarto comma, possano
assumere fra i propri scopi anche finalità di tutela ambientale".
Insomma, una volta chiarito, attraverso il riferimento "all'intreccio di competenze", che deve passarsi da
una concezione oggettivistica (la materia) ad una concezione finalistica (lo scopo, il compito), è stato
agevole per la giurisprudenza costituzionale, eliminare il carattere "esclusivo" della competenza statale in
materia di tutela dell'ambiente, e "trasferire" parte di questa competenza alle Regioni.
3. Il radicale cambiamento di questo orientamento introdotto dalle sentenze n. 367 e n. 378
del 2007.
Un chiaro e preciso revirement di questa giurisprudenza si è avuto con la sentenza n. 367 del 2007. Detta
sentenza ha affermato che il concetto di paesaggio indica innanzitutto la morfologia del territorio, e cioè
l'ambiente nel suo aspetto visivo, ripetendo, come già detto dalla giurisprudenza precedente, che esso ha
un valore primario (sentenza n. 151 del 1986) ed assoluto (sentenza n. 641 del 1987). Ma ciò che più
conta è l'affermazione secondo la quale, quando si parla di paesaggio, l'oggetto tutelato non è il concetto
astratto delle "bellezze naturali", ma l'insieme dei "beni materiali", e delle loro composizioni, che
conferiscono un certo aspetto al paesaggio.
Di grande interesse è inoltre la precisazione che sul territorio gravano più interessi pubblici: quelli
concernenti la "conservazione" ambientale e paesaggistica, la cui cura spetta in via esclusiva allo Stato, e
quelli concernenti la "fruizione" del territorio, che sono affidati alle competenze regionali concernenti il
governo del territorio e la valorizzazione dei beni culturali ed ambientali.
La tutela ambientale e paesaggistica, dunque, "precede" e comunque costituisce un "limite" alla fruizione
del territorio, poiché, da un punto di vista puramente logico, è evidente che si può fruire soltanto di ciò
che si conserva e non di ciò che si distrugge. In sostanza, la competenza affidata in via esclusiva allo
Stato in materia di tutela dell'ambiente e del paesaggio delimita i confini entro i quali può avvenire la
fruizione del territorio, mentre le Regioni, esercitando le loro competenze in materia di governo del
territorio e valorizzazione dei beni culturali ed ambientali, dettano le norme d'uso necessarie affinché
detta fruizione avvenga entro i limiti prescritti. Si tratta di una distinzione molto saggia del legislatore
costituzionale del Titolo Quinto, Parte Seconda della Costituzione, poiché se non si affida a soggetti
diversi, rispettivamente, la conservazione e la fruizione dell'ambiente e del territorio, confondendo le due
competenze, diventa estremamente difficile impedire che la fruizione prevalga sulla conservazione, con
tutte le negative conseguenze che agevolmente si possono immaginare.
4. In particolare il paragrafo quattro della sentenza n. 378 del 2007: il concorso di più
competenze sullo stesso oggetto ambiente.
Il decisivo chiarimento posto dalla sentenza n. 367 del 2007 è stato ampiamente sviluppato dalla
sentenza n. 378 del 2007, della quale vale la pena di riportare alcuni passi contenuti nel paragrafo 4 della
parte in diritto.
"Occorre poi premettere, per la soluzione del problema del riparto di competenze tra Stato, Regioni e
Province autonome in materia di ambiente, che sovente l'ambiente è stato considerato come"bene
immateriale".
Sennonché, quando si guarda all'ambiente come ad una"materia"del riparto della competenza tra Stato e
Regioni, è necessario tener presente che si tratta di un bene della vita, materiale e complesso, la cui
disciplina comprende anche la tutela e la salvaguardia delle qualità e degli equilibri delle sue singole
componenti. In questo senso, del resto, si è già pronunciata questa Corte con l'ordinanza n. 144 del
2007, per distinguere il reato edilizio da quello ambientale.
Oggetto di tutela, come si evince anche dalla Dichiarazione di Stoccolma del 1972, è la biosfera, che
viene presa in considerazione, non solo per le sue varie componenti, ma anche per le interazioni fra
queste ultime, i loro equilibri, la loro qualità, la circolazione dei loro elementi, e così via. Occorre, in altri
termini, guardare all'ambiente come"sistema", considerato cioè nel suo aspetto dinamico, quale
realmente è, e non soltanto da un punto di vista statico ed astratto.
La potestà di disciplinare la tutela dell'ambiente nella sua interezza è stata affidata in via esclusiva allo
Stato dall'art. 117, comma secondo, lettera s), della Costituzione, il quale, come è noto, parla
di"ambiente"in termini generali ed onnicomprensivi. E non è da trascurare che la norma costituzionale
pone accanto alla parola"ambiente"le parole"ecosistema"e"beni culturali".
Ne consegue che spetta allo Stato disciplinare l'ambiente come una entità organica, dettare cioè delle
norme di tutela che hanno ad oggetto il tutto e le singole componenti considerate come parti del tutto.
Ed è da notare, a questo proposito, che la disciplina unitaria e complessiva del bene ambiente inerisce ad
un interesse pubblico di valore costituzionale primario (sentenza n. 151 del 1986) ed assoluto (sentenza
n. 210 del 1987) e deve garantire, come prescrive il diritto comunitario, un elevato livello di tutela, come
tale inderogabile da altre discipline di settore.
Si deve sottolineare tuttavia che accanto al bene giuridico ambiente in senso unitario, possono coesistere
altri beni giuridici, aventi ad oggetto componenti o aspetti del bene ambiente, ma concernenti interessi
diversi giuridicamente tutelati.
Si parla in proposito dell'ambiente come"materia trasversale", nel senso che sullo stesso oggetto
insistono interessi diversi: quello alla conservazione dell'ambiente e quelli inerenti alle sue utilizzazioni. In
questo caso, la disciplina unitaria del bene complessivo ambiente, rimessa in via esclusiva allo Stato,
viene a prevalere su quella dettata dalle Regioni o dalle Province autonome, in materia di competenza
propria, ed in riferimento ad altri interessi.
Ciò comporta che la disciplina ambientale, che scaturisce dall'esercizio di una competenza esclusiva dello
Stato, investendo l'ambiente nel suo complesso, e quindi anche in ciascuna sua parte, viene a funzionare
come un limite alla disciplina che le Regioni e le Province autonome dettano in altre materie di loro
competenza, per cui queste ultime non possono in alcun modo derogare o peggiorare il livello di tutela
ambientale stabilito dallo Stato".
5. L'ambiente come bene materiale. L'insistenza sullo stesso bene materiale di più beni in
senso giuridico e, quindi, di più e diverse competenze: il caso dei boschi e delle foreste.
L'importanza di queste due prime sentenze, interamente ribadite dalla sentenza n. 104 del 2008, la quale
ha posto soprattutto in evidenza la "prevalenza" della conservazione sulla fruizione dell'ambiente, è
decisiva.
L'affermazione che l'ambiente non è un bene "immateriale", ma "materiale" contiene in sé un modo
diverso di considerare le "materie" di cui all'art. 117 della Costituzione. Se la giurisprudenza
costituzionale ha affermato la rilevanza del carattere materiale o immateriale dell'ambiente, è chiaro che
essa ha mutato anche il suo tradizionale modo di guardare alle "materie" come strumento per il riparto
delle competenze legislative tra Stato e Regioni. Finora la prevalente giurisprudenza costituzionale aveva
considerato le "materie" come complessi normativi agglomeratisi intorno ad uno specifico interesse
pubblico, con questa "svolta", essa ha dimostrato di considerare la materia, esattamente, come
"l'oggetto" della tutela giuridica. In altri termini, esistono degli oggetti, ed anche dei beni della vita, che
possono essere materiali (come l'ambiente), o immateriali (come i servizi, la concorrenza, ecc.), la cui
tutela giuridica, in relazione alle diverse utilità ed ai diversi interessi che essi esprimono, è affidata alle
cure dello Stato o delle Regioni.
Si deve peraltro sottolineare che l'identificazione dell'oggetto della tutela giuridica con la materia, intesa
come criterio di riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni, tiene conto, come si è accennato,
non soltanto della cosa in sé, ma anche delle utilità che la cosa stessa offre e degli interessi umani che su
quelle utilità si appuntano.
Sicché può verificarsi che sulla stessa cosa materiale, ed in relazione alle sue diverse utilità, si
costituiscono, per effetto della disciplina giuridica apprestata dallo Stato o dalle Regioni, più beni giuridici.
È quanto accade per i boschi e per le foreste, dei quali si occupa la sentenza n. 105 del 2008, nel cui
paragrafo 4 della parte in diritto si legge che "caratteristica propria dei boschi e delle foreste è quella di
esprimere una multifunzionalità ambientale, oltre ad una funzione economico produttiva. Si può dunque
affermare che sullo stesso bene della vita, boschi e foreste, insistono due beni giuridici: un bene giuridico
ambientale in riferimento alla multifunzionalità ambientale del bosco, ed un bene giuridico patrimoniale,
in riferimento alla funzione economico produttiva del bosco stesso... Ne consegue che la competenza
regionale in materia di boschi e foreste, la quale si riferisce certamente, come peraltro sembra
riconoscere la stessa Regione Veneto, alla sola funzione economico produttiva, incontra i limiti invalicabili
posti dallo Stato a tutela dell'ambiente, e che, pertanto, tale funzione può essere esercitata soltanto nel
rispetto della"sostenibilità degli ecosistemi forestali".
I distinti concetti di multifunzionalità ambientale del bosco e di funzione economico produttiva sottoposta
ai limiti della ecosostenibilità forestale sono del resto ribaditi a livello internazionale, comunitario e
nazionale".
6. La sentenza n. 61 del 2009: la possibilità, per le Regioni, di stabilire livelli di tutela
dell'ambiente più elevati di quelli statali, ma non per tutelare l'ambiente, già tutelato dallo
Stato, con una disciplina "adeguata e non riducibile", ma per disciplinare adeguatamente il
diverso oggetto delle loro competenze. Le numerose sentenze concernenti questo nuovo
orientamento giurisprudenziale.
La chiarificazione definitiva di questo nuovo orientamento giurisprudenziale si è avuto con la sentenza n.
61 del 2009, nella quale testualmente si legge: "Le Regioni, nell'esercizio delle loro competenze, debbono
rispettare la normativa statale di tutela dell'ambiente, ma possono stabilire per il raggiungimento dei fini
propri delle loro competenze (in materia di tutela della salute, di governo del territorio, di valorizzazione
dei beni ambientali, ecc.) livelli di tutela più elevati (vedi sentenze nn. 30 e 12 del 2009, 105, 104 e 62
del 2008). Con ciò certamente incidendo sul bene materiale ambiente, ma al fine, non di tutelare
l'ambiente, già salvaguardato dalla disciplina statale, bensì di disciplinare adeguatamente gli oggetti delle
loro competenze. Si tratta cioè di un potere insito nelle stesse competenze attribuite alle Regioni, al fine
della loro esplicazione. Inoltre, è da rilevare che la dizione, ricorrente nella giurisprudenza di questa
Corte, secondo la quale, in materia di tutela dell'ambiente, lo Stato stabilisce"standard minimi di
tutela"va intesa nel senso che lo Stato assicura una tutela adeguata e non riducibile dell'ambiente".
Detta giurisprudenza sembra abbia avuto una battuta d'arresto con la sentenza n. 62 del 2008. Questa
sentenza, infatti, pur riconoscendo che la materia dei rifiuti rientra nella materia della tutela ambientale
(accedendo così al concetto materiale, e non più immateriale, di ambiente), di competenza esclusiva dello
Stato, afferma testualmente che "la competenza statale nella materia ambientale si intreccia con altri
interessi e competenze, di modo che deve intendersi riservato allo Stato il potere di fissare standard di
tutela uniformi sull'intero territorio nazionale, restando ferma la competenza delle Regioni alla cura di
interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali (ex multis, sentenza n. 407 del
2002)". Si adombra, a quanto pare, un ritorno a quel filone, che, da oltre un anno era stato
efficacemente contrastato.
Nelle sentenze successive, comunque, non ci sono più state incertezze, ed il nuovo filone
giurisprudenziale ha proseguito nel suo cammino nel presupposto della distinzione, e non "dell'intreccio",
tra competenze statali e regionali.
La sentenza n. 142 del 2008, ha posto in evidenza che, se l'attività di tutela dell'ambiente posta in essere
dallo Stato, ridonda sulle competenze regionali con effetti specifici e puntuali, è necessario che lo Stato
acquisisca un parere non vincolante da parte delle Regioni.
La sentenza n. 180 del 2008 ha sancito il principio gerarchico della prevalenza dei piani territoriali
paesistici sugli altri strumenti urbanistici, in base alla ovvia considerazione che la tutela del paesaggio in
tanto è possibile, in quanto preceda la sua utilizzazione. Ed è opportuno a questo proposito ricordare che,
in base allo stesso principio logico, i piani di bacino, ai quali spetta il compito di assicurare l'equilibrio
idrogeologico del suolo, a loro volta, hanno prevalenza sui piani paesistici. Infatti, non si può parlare di
tutela del paesaggio, se prima non si assicura l'equilibrio idrogeologico, e cioè la saldezza del suolo.
La sentenza n. 214 del 2008 ha statuito su un altro importante problema. In essa si legge che "questa
Corte ha più volte affermato che le Regioni, nell'esercizio di proprie competenze, possono perseguire tra i
propri scopi anche finalità di tutela ambientale (sentenza n. 246 del 2006; sentenza n. 182 del 2006).
Tuttavia, il perseguimento di finalità di tutela ambientale da parte del legislatore regionale può
ammettersi solo ove esso sia un effetto indiretto e marginale della disciplina adottata dalla Regione
nell'esercizio di una propria legittima competenza e comunque non si ponga in contrasto con gli obiettivi
posti dalle norme statali che proteggono l'ambiente (sentenza n. 431 del 2007)". In sostanza si afferma
che le Regioni non hanno una competenza in materia di tutela dell'ambiente, ma che esse, nell'esercizio
delle proprie competenze (si pensi alla tutela della salute), come sarà efficacemente chiarito da una
successiva sentenza, possono osservare limiti di tutela ambientale anche più elevati di quelli posti dallo
Stato.
La sentenza n. 220 del 2008, pur concludendo con un dispositivo di inammissibilità, riconosce che la
disciplina dei parchi zoologici, di cui alla direttiva 1999/22/CE, concernente la custodia degli animali
selvatici nei giardini zoologici, recepita dal D.Lgs. 21 marzo 2005, n. 73, spetta soltanto allo Stato, poiché
la tutela della selvaggina rientra nella materia della tutela dell'ambiente.
Questa sentenza richiama il problema della caccia, problema che la giurisprudenza della Corte
Costituzionale non ha ancora risolto, essendo rimasta ferma all'interpretazione fornita dalla sentenza n.
536 del 2002, secondo la quale la caccia rientra nella materia della tutela dell'ambiente come materia
trasversale, per cui è attribuita allo Stato la competenza a dettare standard minimi di tutela uniformi per
tutto il territorio nazionale. Si tratta di una sentenza alquanto oscura, poiché, senza nulla dire in ordine
alla competenza residuale delle Regioni in materia di caccia e pesca, trova una soluzione che appare di
compromesso, nel senso che si riconosce allo Stato una competenza a dettare "standard minimi di
tutela", facendo supporre che alle Regioni spetti di completare quei livelli minimi con livelli adeguati.
In proposito occorre chiarire che il tema della caccia va esaminato da due punti di vista: quello della
tutela del bene ambientale costituito dalla selvaggina e quello della fruizione di questo bene costituito
dalla caccia.
Quanto alla tutela, rientrando la selvaggina, che è un bene ambientale, nella materia della tutela
dell'ambiente, la relativa disciplina spetta allo Stato, il quale non è affatto tenuto a porre "standard
minimi di tutela", ma un "elevato livello" di tutela, che sia comunque "adeguato e non
riducibile" (sentenza n. 61 del 2009); mentre, quanto alla fruizione, e cioè alle modalità da seguire
affinché la caccia si svolga nei limiti di tutela stabiliti dallo Stato e non provochi effetti dannosi sulla
conservazione della selvaggina, la cosiddetta disciplina d'uso, rientra nella competenza residuale delle
Regioni. In altri termini, le Regioni potranno stabilire i permessi di caccia, i controlli sull'esercizio della
cacciagione, ecc., ma non potranno stabilire quali siano le specie cacciabili, né quali siano i periodi di
apertura e chiusura della caccia, e così via dicendo.
La sentenza n. 329 del 2008 pone il problema dei rapporti tra la Provincia di Bolzano e lo Stato in tema di
tutela delle "zone speciali di conservazione" (ZSC) e delle "zone di protezione speciale" (ZPS), stabilendo
che "l'istituzione" di dette zone, denominata "designazione", avviene d'intesa tra Stato e Provincia, ai
sensi dell'art. 5, della legge 8 luglio 1986, n. 349 (Istituzione del Ministero dell'ambiente e norme in
materia di danno ambientale), integrato dall'art. 8, comma 3, della legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge
quadro sulle aree protette), mentre la determinazione delle "misure di conservazione", spetta alla
Provincia, in virtù della sua competenza legislativa primaria in materia di "parchi per la protezione della
flora e della fauna".
La sentenza n. 437 del 2008 ripropone il tema della prevalenza dei piani paesistici sui piani territoriali
regionali e sui piani urbanistici comunali. Si afferma, in sostanza, che la materia paesaggistica prevale
sulla materia urbanistica. L'affermazione è di notevole importanza, poiché rende chiaro che la
"prevalenza" di cui si parla ha un preciso fondamento logico giuridico e non può mai derivare da un
"giudizio discrezionale della Corte Costituzionale". Si deve affermare in concreto che le varie forme di
conservazione e tutela del territorio, proprio al fine di perseguire i loro scopi, sono soggetti ad una
precisa gerarchia. In altri termini, come già poco sopra si accennava, occorre innanzitutto assicurare
l'equilibrio idrogeologico e la saldezza dei suoli, attraverso i piani di bacino, in secondo luogo garantire la
conservazione dei valori paesaggistici, attraverso i piani paesistici, ed infine stabilire l'assetto ottimale del
territorio attraverso i piani territoriali ed urbanistici.
La sentenza n. 12 del 2009, riassume brillantemente, i punti di maggiore interesse del nuovo filone
giurisprudenziale. Dopo aver precisato che la tutela dell'ambiente, pur potendo avere effetti ulteriori su
altri interessi relativi a materie di competenza regionale concorrente, tuttavia rientra nella competenza
esclusiva dello Stato, essa precisa che la disciplina unitaria e complessiva del bene ambiente inerisce ad
un interesse pubblico di valore costituzionale "primario" ed "assoluto" e deve garantire un "elevato livello
di tutela", come tale inderogabile da altre discipline di settore. La stessa sentenza sottolinea in particolare
che sullo stesso oggetto "ambiente" possono insistere interessi diversi: quello alla sua conservazione e
quelli inerenti alle sue utilizzazioni (sentenza n. 378 del 2007). In tali circostanze la disciplina unitaria di
tutela del bene complessivo ambiente, rimessa in via esclusiva allo Stato, viene a "prevalere" su quella
dettata dalle Regioni o dalle Province autonome, in materie di competenza propria, che riguardano
l'utilizzazione dell'ambiente, e quindi altri interessi. Ciò comporta che la disciplina statale relativa alla
tutela dell'ambiente viene a funzionare come un "limite" alla disciplina che le Regioni e le Province
autonome dettano in altre materie di loro competenza, salva la facoltà di queste ultime di adottare norme
di tutela ambientale "più elevate" nell'esercizio di competenze, previste dalla Costituzione, che vengano a
contatto con quella dell'ambiente (sentenza n. 104 del 2008).
La sentenza n. 30 del 2009 si è occupata della fauna ittica, affermando che spetta allo Stato stabilire
quali specie (autoctone o alloctone) possano essere immesse nelle acque interne. La stessa sentenza ha
inoltre ripetuto che le Regioni, nell'esercizio delle proprie competenze, possono stabilire livelli di tutela
ambientale anche più elevati di quelli statali, come stabilito dalla citata sentenza n. 61 del 2009.
7. La definitiva conferma delle sentenze (una quindicina) del luglio 2009, ed in particolare la
sentenza n. 225 del 2009.
Questa giurisprudenza è stata definitivamente confermata da numerose sentenze (una quindicina),
emanate nel luglio 2009 in relazione a numerosi ricorsi regionali contro il cosiddetto Codice dell'ambiente.
Le linee essenziali seguite dalla Corte possono dirsi riassunte nel paragrafo 4, della sentenza n. 225 del
2009, che vale la pena di rileggere nel suo nucleo essenziale:
"Prima di entrare nella disamina delle singole questioni, è anche opportuno operare una ricognizione dello
stato della giurisprudenza di questa Corte sul tema della "tutela dell'ambiente", ponendone in evidenza i
contenuti più rilevanti e le correlate precisazioni terminologiche.
Il primo problema che si pone è, ovviamente, quello della individuazione della materia di cui si tratta ed a
tal fine occorre guardare all'oggetto della disciplina (statale o regionale), nonché alla sua ratio,
confrontandola con l'elenco contenuto nell'art. 117 Cost. (sentenze n. 411, n. 449 e n. 450 del 2006; n.
30, n. 285 e n. 319 del 2005).
A proposito della materia "tutela dell'ambiente", è da osservare che essa ha un contenuto allo stesso
tempo oggettivo, in quanto riferito ad un bene, l'ambiente (sentenze n. 367 e n. 378 del 2007; n. 12 del
2009), e finalistico, perché tende alla migliore conservazione del bene stesso (vedi sentenze n. 104 del
2008; n. 10, n. 30 e n. 220 del 2009).
L'individuazione nei termini appena descritti della materia tutela dell'ambiente pone in evidenza un dato
di rilevante importanza: sullo stesso bene (l'ambiente) (sentenze n. 367 e n. 378 del 2007) "concorrono"
diverse competenze (sentenza n. 105 del 2008), le quali, tuttavia, restano distinte tra loro, perseguendo
autonomamente le loro specifiche finalità attraverso la previsione di diverse discipline (vedi sentenze n.
367 e n. 378 del 2007, n. 104 e n. 105 del 2008, n. 12 e n. 61 del 2009).
Questo fenomeno evidenzia che, secondo il disegno del legislatore costituzionale, da una parte sono
affidate allo Stato la tutela e la conservazione dell'ambiente, mediante la fissazione di livelli "adeguati e
non riducibili di tutela" (sentenza n. 61 del 2009) e dall'altra compete alle Regioni, nel rispetto dei livelli
di tutela fissati dalla disciplina statale (sentenze n. 62 e n. 214 del 2008), di esercitare le proprie
competenze, dirette essenzialmente a regolare la fruizione dell'ambiente, evitando compromissioni o
alterazioni dell'ambiente stesso.
In questo senso può dirsi che la competenza statale, quando è espressione della tutela dell'ambiente,
costituisce "limite" all'esercizio delle competenze regionali (sentenze n. 180 e n. 437 del 2008 nonché n.
164 del 2009).
A questo proposito, è peraltro necessario precisare che, se è vero che le Regioni, nell'esercizio delle loro
competenze, non debbono violare i livelli di tutela dell'ambiente posti dallo Stato, è altrettanto vero, che,
una volta che questi ultimi siano stati fissati dallo Stato medesimo, le Regioni stesse, purché restino
nell'ambito dell'esercizio delle loro competenze, possono pervenire a livelli di tutela più elevati (sentenze
n. 104 del 2008, n. 12, n. 30 e n. 61 del 2009), così incidendo, in modo indiretto sulla tutela
dell'ambiente.
Strettamente collegata alla tutela dell'ambiente è la tutela della salute, poichè è indubbio che la salubrità
dell'ambiente condiziona la salute dell'uomo. È da sottolineare, comunque, che le due competenze hanno
oggetti diversi: per l'appunto, l'ambiente e la salute, e che la fissazione, da parte delle Regioni, di livelli
più elevati di tutela ambientale ai fini della tutela della salute umana solo indirettamente produce effetti
sull'ambiente, che è già adeguatamente tutelato dalle norme statali.
Tale possibilità è, peraltro, esclusa nei casi in cui la legge statale debba ritenersi inderogabile, essendo
frutto di un bilanciamento tra più interessi eventualmente tra loro in contrasto.
Per quanto in particolare riguarda l'incidenza del principio di leale collaborazione, è da tener presente che
l'art. 118 Cost., nell'eliminare il principio del parallelismo tra competenza legislativa ed amministrativa ai
fini del riparto delle funzioni amministrative tra Stato e Regioni ordinarie e nell'imporre un livello
dell'azione amministrativa verso il basso, ha stabilito, comunque, che, nel rispetto del principio di legalità,
una diversa distribuzione della funzione amministrativa possa avvenire, quando occorra assicurarne
l'esercizio unitario, con legge statale o regionale, secondo le competenze legislative previste dall'art. 117
Cost. e nel rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza (sentenze n. 303 del
2003; n. 172 del 2004).
Ne consegue che, nel caso della tutela ambientale, lo Stato, in quanto titolare di una competenza
esclusiva, ai sensi dell'art. 118 Cost., nel rispetto dei suddetti principi, può conferire a sé le relative
funzioni amministrative, ovvero conferirle alle Regioni o ad altri Enti territoriali, ovvero ancora prevedere
che la funzione amministrativa sia esercitata mediante il coinvolgimento di organi statali ed organi
regionali o degli Enti locali".
8. Il nuovo modo di concepire il concetto di "materia" alla
caso del cosiddetto "intreccio inestricabile di materie" e
Superamento di queste concezioni attraverso l'utilizzo
"concorso". Le tre ipotesi di coinvolgimento nella stessa
regionali. La necessità di ricorrere all'intesa in caso
L'interpretazione dell'art. 118 della Costituzione.
luce della predetta giurisprudenza. Il
del cosiddetto "incrocio di materie".
del concetto tecnico e giuridico di
disposizione di competenze statali e
di "spostamento di competenze".
Alla luce della predetta giurisprudenza, e soprattutto di quanto si trova chiaramente riassunto nella
sentenza n. 225 del 2009, risulta molto semplificata la lettura dell'art. 117 della Costituzione, sia per
quanto riguarda la tutela dell'ambiente, sia per quanto riguarda, in genere, l'individuazione delle materie.
Riprendendo qualche spunto che già era emerso nella giurisprudenza precedente, si è infatti posto in
rilievo che l'individuazione della materia avviene, non più con il riferimento ad un complesso normativo
già formatosi, ma mediante la individuazione dell'oggetto e della ratio della disciplina sottoposta
all'esame della Corte Costituzionale.
Occorre, in altri termini, stabilire quale bene della vita, quale attività, quale ente giuridico o quale
rapporto giuridico, la disposizione statale o regionale in esame voglia disciplinare e quale fine la stessa
disposizione voglia raggiungere.
Individuati l'oggetto e la ratio, diventa poi agevole incasellare la disposizione di cui si discute in una delle
materie dell'art. 117 e stabilire, conseguentemente, se la competenza spetti allo Stato o alle Regioni.
La questione, come è ovvio, si complica, se vengono in evidenza più competenze o più oggetti, e cioè più
materie. In questo caso, è importante sottolineare che l'elemento unificante è dato dalla ratio, cioè dal
fine che si vuol raggiungere. Posto lo scopo che la disposizione statale o regionale vuol perseguire, la
regola fondamentale è che, qualora la disciplina è dettata dallo Stato, deve trattarsi di materie e
competenze proprie dello Stato, e che, qualora la disciplina è dettata dalla Regione, deve trattarsi di
materie e competenze proprie della Regione: saranno incostituzionali quelle parti di disposizione che
riguardano materie e competenze appartenenti ad un soggetto (Stato o Regione) diverso da quello che
ha disposto la disciplina sottoposta all'esame della Corte Costituzionale.
Ipotesi più complessa è quella in cui sullo stesso oggetto (ad esempio sul bene ambiente) insistono, per
disposto costituzionale, più competenze statali e regionali insieme.
In questo caso è poco produttivo, ai fini dell'interpretazione corretta dell'art. 117 Cost., far ricorso a
formule atecniche ed astratte, come quella dell'"intreccio inestricabile di competenze", ed è molto più
utile, invece, usare il termine giuridico di "concorso" di più competenze, statali e regionali, sullo stesso
oggetto o materia. La parola "concorso" pone in evidenza che non esiste un intrecciarsi, ovvero un
fondersi, di competenze e che ciascuna competenza mantiene la sua identità e persegue il suo scopo
indipendentemente dalle altre competenze concorrenti. Esempio chiarissimo è quello del concorso della
competenza esclusiva statale per la tutela dell'ambiente con le altre competenze regionali, quali il
governo del territorio e la valorizzazione dei beni culturali ed ambientali: dette competenze perseguono i
loro scopi l'una indipendentemente dalle altre. Si potrebbe dire che la competenza esclusiva statale per la
tutela dell'ambiente persegue lo scopo della conservazione (e possibilmente del miglioramento)
dell'ambiente, mentre le competenze regionali perseguono, con assoluta indipendenza, i loro fini di
fruizione dell'ambiente, nell'ambito però dei limiti invalicabili posti dallo Stato per la conservazione
dell'ambiente stesso.
Fenomeno diverso dal "concorso" di più competenze (statale e regionali) sullo stesso oggetto è quello,
che, anche qui con formula atecnica ed astratta, è comunemente definito "incrocio di più materie", e che
invece dovrebbe essere definito, tecnicamente, "concorso di materie". Si pensi ad una disciplina statale o
regionale, che implica, in relazione al fine da raggiungere, la utilizzazione di più materie, e quindi
l'esercizio di più competenze. In questa ipotesi, è importante accertare che le materie e le competenze
utilizzate appartengano allo stesso soggetto, sia esso lo Stato o la Regione, e che non ci siano
sconfinamenti della competenza dell'uno nelle competenze dell'altra. Ad esempio, nel caso del Servizio
idrico integrato, lo Stato utilizza, non solo la sua competenza esclusiva in materia di tutela dell'ambiente,
ma anche le sue competenze esclusive in materia di concorrenza, funzioni fondamentali dei Comuni,
determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (art. 141 del D.Lgs. 152 del 2006). Utilizza cioè
competenze proprie, unificate dal fine che si vuol raggiungere, e non invade competenze proprie delle
Regioni.
Qualora nella stessa disposizione statale siano coinvolte anche competenze regionali, occorre tener
presenti tre ipotesi: quella in cui lo Stato, titolare di una competenza esclusiva (ad esempio in materia di
tutela dell'ambiente), limita, riguardo ad alcuni profili, la propria competenza, conferendola alle Regioni;
quella in cui lo Stato, per il perseguimento della ratio oggetto della sua competenza, utilizza anche
competenze regionali; quella, infine, in cui lo Stato ritenga di "attrarre a sé" le competenze regionali, per
esigenze unitarie.
Premesso che, per disposto costituzionale, le competenze legislative, come si è sopra visto, sono l'una
indipendente dalle altre, e presupposto altresì che con la riforma del Titolo Quinto, Parte Seconda, della
Costituzione, è stato abolito il principio di corrispondenza tra competenza legislativa e competenza
amministrativa, si deve sottolineare che, sul piano amministrativo, in relazione alle su esposte ipotesi, si
verificano le seguenti conseguenze.
Nel primo caso, e cioè qualora venga in evidenza soltanto una competenza esclusiva, come quella della
tutela dell'ambiente, e non siano toccate le competenze regionali, lo Stato è libero di attribuire alle
Regioni o ad altri soggetti territoriali parte della propria competenza, ma deve seguire i "principi di
sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza" di cui all'art. 118 della Costituzione.
Nel secondo caso, e cioè nell'ipotesi dell'utilizzazione da parte dello Stato di competenze regionali per il
perseguimento di una certa ratiolegis, lo Stato, sempre ai sensi del citato art. 118 della Costituzione, non
solo deve uniformarsi ai predetti principi, ma, poiché si serve anche di competenze regionali, è tenuto
anche ad un'intesa forte con la Regione.
Nel terzo caso, e cioè in caso di "attrazione" di competenze regionali, per assicurare l'esercizio unitario
delle funzioni amministrative, avendosi anche qui uno spostamento di competenze regionali in capo allo
Stato, questi è tenuto a comportarsi come nel caso precedente: è suo dovere cioè prevedere, sul piano
amministrativo, una intesa forte con le Regioni interessate (sentenza n. 303 del 2003).
È da avvertire che nei casi in cui lo Stato utilizza o attrae a sé competenze regionali, la Corte
Costituzionale, ispirandosi al concetto atecnico di "incrocio di materie", anziché al concetto tecnico di
"concorso di materie", ha sovente affermato che spetta a lei medesima stabilire se c'è una materia
"prevalente" sulle altre, e, nel caso non si riesca ad individuare tale "prevalenza", è la Corte stessa che
deve imporre la previsione di una intesa tra Stato e Regione.
In realtà non si tratta di formulare un giudizio di "prevalenza". Le varie competenze (statali e regionali),
concernenti più materie, a ben vedere, "concorrono" per il perseguimento di quell'unico scopo che
costituisce la ratio del provvedimento, mantenendo la loro identità e la loro distinzione, e certamente
devono poter realizzare ciascuna la propria funzione: dunque, in casi come questi, come si accennava,
non c'è altra via che la previsione, ai fini dell'esercizio delle funzioni amministrative, di una intesa forte,
da raggiungere nella sede opportuna (Conferenza Stato-Regioni, Conferenza unificata), attraverso la
quale le esigenze inerenti a ciascuna delle competenze in gioco possano essere adeguatamente prese in
considerazione.
Come si nota, se si evita il ricorso a concetti estranei al mondo giuridico, come quelli dell'"intreccio
inestricabile delle competenze", ovvero dell'"incrocio di materie", e si fa invece ricorso alla tradizionale
terminologia giuridica, parlando semplicemente di "concorso", tutto si semplifica e le soluzioni alle quali si
perviene appaiono certamente più aderenti alla lettera ed alla logica dell'art. 117 della Costituzione (per il
"concorso di materie", vedi: sentenza n. 307 del 2009).
9. Le conseguenze pratiche di questo nuovo orientamento giurisprudenziale sul piano generale
e sul piano della tutela ambientale.
Come si nota, la più recente giurisprudenza della Corte Costituzionale sull'ambiente ha il grandissimo
merito di aver precisato, sul piano scientifico, taluni concetti fondamentali, rilevanti sia sul piano
generale, sia sul piano, più specifico, della tutela dell'ambiente.
Sul piano generale, si è chiarito una volta per tutte che non esistono "materie-valore", "materie-fine",
"materie trasversali", o "materie non in senso stretto". Né, tanto meno, esistono "intrecci inestricabili di
competenze" o "incroci di materie", che giustifichino, tra l'altro, il ricorso allo strumento dell'intesa, forte
o debole che sia.
Tutte le materie elencate dall'art. 117 della Costituzione hanno valore oggettivo, contengono un oggetto
di tutela, non importa se materiale (come l'ambiente), o immateriale (come la concorrenza). Talvolta,
oltre a contenere un oggetto, le disposizioni dell'art. 117 Cost. prescrivono anche un fine da perseguire: è
quello che avviene quando dette disposizioni usano il termine "tutela": tutela del risparmio, tutela della
concorrenza, tutela dell'ambiente. In questi casi, è compito del legislatore non solo proteggere
giuridicamente il bene oggetto di disciplina, ma anche fare in modo che detto bene progredisca, si
sviluppi, migliori.
Sul piano della tutela ambientale, si può riassuntivamente ricordare: che la materia tutela dell'ambiente
ha un valore nello stesso tempo oggettivistico e finalistico; che l'ambiente è un bene materiale; che la
competenza dello Stato in materia di tutela ambientale ha carattere "esclusivo" e che, pertanto, le
competenze regionali non possono avere come scopo anche la tutela dell'ambiente; che la Corte
Costituzionale non deve ricercare "materie prevalenti", ma deve solo indagare la ratio della disposizione e
verificare se vengono in gioco anche competenze regionali, nel qual caso è necessario prevedere una
intesa forte con le Regioni; che la tutela dello Stato non può essere ridotto a standard minimi di tutela
validi per tutto il territorio nazionale, ma deve prevedere una tutela dell'ambiente "adeguata e non
riducibile", mentre le Regioni, nell'esercizio delle loro competenze (salute, governo del territorio, ecc.),
possono adeguarsi a livelli di tutela ambientale anche più elevati e rigorosi, al fine, però, di meglio
esercitare le proprie competenze e non per apprestare una maggiore tutela ambientale, già
adeguatamente predisposta dallo Stato (sentenza n. 61 del 2009).
Queste, in estrema sintesi, le innovazioni apportate dalla più recente giurisprudenza della Corte
Costituzionale in materia ambientale, iniziata con le sentenze n. 367 e n. 378 del 2007, e che può dirsi
oggi definitivamente stabilizzata (vedi, da ultimo, sentenza n. 272 del 2009).
NOTE
(*) Relazione al Convegno di Lioni (Av) del 12 dicembre 2009, sul tema "La tutela del territorio e lo
sviluppo delle aree interne".
(1) P. GROSSI, Un altro modo di possedere, in Per la storia del pensiero giuridico moderno, Milano, 1977,
5, pp. 5 ss.
(2) S. PUGLIATTI, Beni e cose in senso giuridico, Milano, 1962, pp. 27 ss.
(**) Giudice costituzionale.
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Archivio selezionato: Dottrina
PRINCIPIO DI DIFFERENZIAZIONE E PAESAGGIO
Riv. giur. edilizia 2007, 03, 71
Paolo Carpentieri
SOMMARIO: 1. Premessa e posizione del tema. 2. Il principio di differenziazione (in generale). 3. Il
principio di differenziazione (in una possibile lettura innovativa). 4. Applicazione (principio di
differenziazione e paesaggio: la tutela "a doppia chiave" del bene paesaggistico). 5. Conclusioni
(sussidiarietà orizzontale e non verticale nella materia paesaggistico-ambientale).
1. Premessa e posizione del tema.
L'art. 146, comma 3, primo periodo, del Codice dei beni culturali e del paesaggio (d. legisl. 22 gennaio
2004 n. 42), nel nuovo testo introdotto dall'art. 16 del decreto correttivo del 2006 (d. legisl. 24 marzo
2006 n. 157), in tema di autorizzazione paesaggistica, stabilisce che "Le Regioni, ove stabiliscano di non
esercitare direttamente la funzione autorizzatoria di cui al presente articolo, ne possono delegare
l'esercizio alle Province o a forme associative e di cooperazione degli enti locali in ambiti sovracomunali
all'uopo definite ai sensi degli artt. 24, 31 e 32 del d. legisl. 18 agosto 2000 n. 267, al fine di
assicurarne l'adeguatezza e garantire la necessaria distinzione tra la tutela paesaggistica e le
competenze urbanistiche ed edilizie comunali".
La previsione risponde a una riflessione spesso ricorrente nei commentatori della materia (1) a
proposito della resa non soddisfacente della gestione comunale dei controlli autorizzatori di tutela
paesaggistica [derivante dalla subdelega regionale ex d.p.r. n. 616 del 1977, art. 82, comma 2, lett.
b)]. Gestione che è risultata non soddisfacente, deve aggiungersi, anche a causa del noto "fallimento"
dell'annullamento ministeriale (2). Sulla nuova disposizione si è peraltro aperto un contenzioso con le
Regioni, che hanno impugnato il decreto correttivo dinanzi alla Corte costituzionale (3).
Lo scopo di questa breve riflessione è quello di verificare se la disposizione in esame possa rinvenire
una sua diretta base giuridica di livello costituzionale nel principio di differenziazione espresso dall'art.
118 Cost. (in combinato disposto con l'art. 9 della legge fondamentale).
A tal fine, dopo una veloce disamina della corrente ricostruzione offerta dalla dottrina del principio di
differenziazione nel nuovo Titolo V Cost. (par. 2), si tenterà (par. 3) una proposta ricostruttiva,
integrativa e non alternativa, di questo principio, come speciale ipotesi applicativa del principio del
contraddittorio (art. 111 Cost.) al procedimento amministrativo (che, con le ultime riforme del 2005, è
sempre più processo), secondo il rilievo per cui il principio del contraddittorio vale non solo per il
confronto tra interessi pubblici e interessi privati incisi dal provvedimento, ma anche per la dialettica tra
i diversi interessi pubblici convergenti e/o confliggenti nei procedimenti complessi che coinvolgono
funzioni distinte. Da questo particolare punto di vista, si propone di considerare il principio di
differenziazione non più (soltanto) come un corollario o un riflesso applicativo inautonomo del principio
di sussidiarietà, ma (anche) come un autonomo principio (dipendente, caso mai, da quello del
contraddittorio) che bilancia quello di sussidiarietà, in contrapposizione ad esso, come criterio guida per
il legislatore (nazionale e regionale), nella sede della cd. "allocazione" delle funzioni amministrative, in
deroga al principio di vicinanza-prossimità (o di autoamministrazione delle autonomie locali) che fonda
la regola della sussidiarietà verticale. Ne deriva l'ipotesi che il principio di differenziazione, distinto sia
da quello di sussidiarietà, che da quello di adeguatezza, rivesta una sua specificità come principio del
contraddittorio applicato alla relazione dialettica tra gli interessi pubblici, con il corollario della alterità
soggettiva necessaria e della autonoma rappresentanza degli interessi pubblici in conflitto all'interno di
procedimenti complessi e/o collegati. Su queste basi si proporrà (par. 4) una spiegazione razionale del
comma 3, primo periodo, del (nuovo) art. 146 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, come
esempio paradigmatico applicativo di questa nuova costruzione (autonoma) del principio di
differenziazione, nella logica dell'art. 118 Cost. Nelle conclusioni (par. 5) si evidenzierà come la
sussidiarietà rilevante nel campo della tutela paesaggistico-ambientale è soprattutto quella orizzontale,
che pone l'associazionismo e la partecipazione attiva dei cittadini come essenziale strumento integrativo
di sussidio dell'azione dei pubblici poteri.
2. Il principio di differenziazione (in generale).
Il principio di differenziazione si lega, come è noto, alla nozione di autonomia (4) e presenta una vasta
latitudine di possibili accezioni giuridicamente rilevanti.
Scopo di questa nota non è certo quello di trattare questa ampia e complessa nozione in tutti i suoi
possibili significati (rilevanti per il diritto pubblico) (5), ma solo quello di proporre un possibile
significato (peraltro aggiuntivo e non esclusivo rispetto ad altri) che il principio di differenziazione
sembra assumere nella particolare declinazione che di esso fa il testo dell'art. 118 Cost., con specifico
riferimento al criterio distributivo di allocazione delle funzioni amministrative. In questa prospettiva
specifica non rileva, dunque, la nozione (generalissima) di differenziazione come portato dell'autonomia,
poiché interessa la differenziazione come criterio di distribuzione delle funzioni alle autonomie locali (6).
Da questo angolo di visuale, la prima enunciazione normativa del principio di differenziazione si rinviene
nell'art. 4 della legge 15 marzo 1997 n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti
alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione
amministrativa) che, nel dettare i princìpi fondamentali per i conferimenti di funzioni alle Regioni e agli
enti locali, enuncia, alle lett. g) ed h) del comma 3, i principi di adeguatezza e di differenziazione,
ponendo il principio di adeguatezza "in relazione all'idoneità organizzativa dell'amministrazione
ricevente a garantire, anche in forma associata con altri enti, l'esercizio delle funzioni", e facendo
consistere quello di differenziazione "nell'allocazione delle funzioni in considerazione delle diverse
caratteristiche, anche associative, demografiche, territoriali e strutturali degli enti riceventi".
La formula della l. n. 59 del 1997, come riconosciuto dalla Corte cost., costituisce il precedente diretto
di derivazione immediata del testo della riforma costituzionale del 2001 e riveste perciò un ruolo
privilegiato ai fini dell'interpretazione del nuovo Titolo V (7). La successiva l. 5 giugno 2003 n. 131,
recante Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla l. cost. 18 ottobre 2001
n. 3, non fornisce ulteriori elementi ermeneutici e mostra di fare una considerazione sostanzialmente
unitaria dei suddetti principi fondamentali (differenziazione e adeguatezza, in riferimento alla
sussidiarietà), poiché si limita a menzionarli, nel comma 4, lett. c) dell'art. 2, in sede di definizione dei
principi e criteri direttivi per la delega attuativa dell'art. 117, comma 2, lett. p), Cost. e di adeguamento
del TUEL, nonché nell'art. 7, comma 1, in sede di attuazione dell'art. 118 Cost. (8).
La dottrina tende a considerare questi due principi come un'endiadi unitaria, in stretto raccordo
applicativo con il principio superiore della sussidiarietà verticale. Più in particolare, sembra prevalere
una lettura minimalista del principio di differenziazione, presentato in definitiva come un aspetto minore
del principio di sussidiarietà verticale. Si afferma, ad esempio, che "sembra pacifico che, nonostante il
lessico utilizzato dal legislatore della riforma, adeguatezza e differenziazione non costituiscono principi
ulteriori, rispetto a quello di sussidiarietà, ma piuttosto corollari, o riflessi o risvolti applicativi" (9).
Questa tesi coglie indubbiamente un elemento di verità, lì dove evidenzia come la sussidiarietà
verticale, con il bilanciamento dell'adeguatezza e della differenziazione, costituisca un unitario
meccanismo di allocazione equilibrata delle funzioni amministrative. Ma appare riduttiva della reale
portata del principio di differenziazione quando lo configura come corollario o riflesso applicativo della
sussidiarietà. A questa impostazione si oppone il dato letterale dell'enunciato contenuto nell'art. 118
che, trattandosi del testo della Costituzione, non pare tollerare interpretazioni soppressive, quale
finirebbe per essere, in definitiva, quella che riduce la differenziazione alla sussidiarietà o
all'adeguatezza e nega autonomia a questo principio, ancorché distintamente enunciato dalla norma. Ma
osta, ancor prima, a questa lettura restrittiva, un argomento logico generale: la differenziazione, come
l'adeguatezza, è principio contrario alla sussidiarietà verticale, per come enunciata (e configurata) dal
primo periodo dell'art. 118, nel senso della normale spettanza al Comune di tutte le funzioni
amministrative. È vero che, in linea generale, la sussidiarietà, nel suo significato comune, esprime l'idea
del subsidium, per cui l'autorità meno vicina al cittadino interviene solo se quella prossima non è in
grado di soddisfare determinati bisogni di interesse pubblico; ma è altresì vero che questa nozione
generale è declinata, nel testo dell'art. 118, nella regola della ordinaria spettanza al Comune della
competenza amministrativa, donde la funzione contraria alla sussidiarietà verticale, così conformata,
che viene ad essere oggettivamente svolta dai (distinti) principi della adeguatezza e della
differenziazione. Il principio di sussidiarietà verticale, in altri termini, deve essere considerato non già in
astratto (10), per come sarebbe ricostruibile su un piano di teoria generale del diritto, o sul piano del
diritto comunitario, o comparato, bensì nella sua concreta occorrenza nel testo costituzionale, per come
esso è stato ivi oggettivamente configurato dal legislatore della riforma costituzionale del 2001 nel
(nuovo) testo dell'art. 118 Cost., dove si presenta, come detto, come direzione verso il basso (principio
di prossimità) di tutte le competenze amministrative (11).
Se, dunque, l'adeguatezza e la differenziazione derogano alla sussidiarietà verticale, intesa come
normale spettanza al Comune di tutte le competenze amministrative, allora non è condivisibile la tesi
che presenta quei principi come meri aspetti interni della sussidiarietà, dovendo, invece, riconoscersi in
essi due principi autonomi e contrari, che contraddicono, non ausiliano la sussidiarietà. In altri termini,
sul piano logico, il rapporto tra sussidiarietà verticale, da un lato, e adeguatezza e differenziazione,
dall'altro, non è di complementarietà, ma di contrarietà, donde la necessaria autonomia dei relativi
concetti. Dove operano il principio di adeguatezza e quello di differenziazione non opera quello di
sussidiarietà verticale (inteso, nell'art. 118 Cost., come direzione verso il basso di tutte le competenze
amministrative), trattandosi di principi che applicano alla allocazione delle competenze forze di segno
vettoriale contrario, gli uni in senso ascendente, l'altro in senso discendente secondo il principio di
prossimità.
Questo discorso non esclude, ovviamente, che sussidiarietà verticale, adeguatezza e differenziazione
convergano nell'unica funzione di corretta allocazione delle competenze amministrative ai "giusti" livelli
territoriali (e organizzativi) di governo. Ma questa considerazione, dell'unitaria convergenza funzionale
di questi principi, non esclude (ma, anzi, accentua) l'esigenza di una loro corretta distinzione.
Sorreggono, inoltre, la evidenziata distinzione tra i principi in esame anche comuni e condivise nozioni
di scienza dell'organizzazione, che mostrano come la differenziazione nella distribuzione dei compiti
funzionali, secondo un principio di specializzazione tecnica e di adeguatezza strutturale e organizzativa,
costituiscano la precondizione per un razionale assetto di qualunque struttura organizzativa, secondo
elementari canoni di ottimalità nell'allocazione e distribuzione delle risorse e dei compiti assegnati (12).
Anche per quanto attiene al rapporto tra adeguatezza e differenziazione, che si tende a leggere, come
detto, come un'endiadi unitaria, occorrerebbe in realtà, per rispetto della lettera del testo costituzionale,
verificare in primo luogo e preferibilmente la percorribilità di una strada interpretativa che ne salvi,
invece, la distinzione e l'autonomia.
L'adeguatezza, come è fatto palese dal significato proprio della parola usata nell'enunciato normativo,
deve essere intesa come eguale dimensione (ad-aequo), sia strutturale-organizzativa, sul piano
soggettivo, sia spaziale-territoriale, sul piano oggettivo, dell'ente locale ricevente rispetto all'entità della
funzione amministrativa assegnata. In base a questo principio, dunque, una funzione amministrativa
può essere attribuita all'ente locale se e solo se gli interessi curati presentino una dimensione spaziale e
territoriale governabile entro la circoscrizione amministrativa propria dell'ente locale e se e solo se
l'ente locale disponga, come soggetto pubblico, nei suoi caratteri essenziali fisiognomici, di strutture
idonee a farvi fronte (non rilevando, ovviamente, a questi fini, l'accidentale deficit di dotazione di mezzi
e di personale, che ben deve e può essere colmato con idonei provvedimenti rafforzativi).
L'adeguatezza, dunque, denota la misura della capacità dell'ente locale di ricevere, di accogliere, la
funzione, sia, si ripete, riguardo alla dimensione territoriale della materia, sia rispetto alla robustezza e
idoneità strutturale dell'ente stesso (13).
La differenziazione, invece, come avviene già sul piano del significato comune del termine nel
linguaggio ordinario, designa un elemento di separazione (dis fero), di distinzione, di attribuzioni e di
regime, distinzione che, per l'appunto, come dice la parola stessa, differenzi l'ambito competenziale
dell'un ente rispetto all'altro.
Ora, in astratto ragionando, due sono i possibili significati (significato qui inteso come ragione
giustificatrice) di tale nozione di differenziazione (funzionale), entro il meccanismo dell'allocazione delle
funzioni amministrative di cui all'art. 118 Cost.: un significato radicale o "forte", che colloca la
differenziazione in una dimensione geografica e la intende come possibile pluralità di attribuzioni e di
regimi giuridici in ragione della sostanziale pluralità e differenziazione storico-sociale esibita dalla realtà
italiana, in cui vi sono aree del Paese palesemente incapaci, oggi, di assicurare adeguati livelli di
gestione di talune materie ed aree più evolute e civili nelle quali, invece, quelle stesse materie già da
anni sono gestite con ottimi risultati dagli enti locali (questo primo significato esprime dunque un'idea di
federalismo differenziato, a due o più velocità o federalismo asimmetrico); un secondo significato, più
istituzionale-procedurale, che è quello che si sostiene in questo contributo, che considera la
differenziazione come criterio di distinzione delle competenze valido uniformemente su tutto il territorio
nazionale in funzione della prevenzione del confitto d'interessi e della necessaria alterità soggettiva di
imputazione degli interessi pubblici nella dialettica conflittuale dei procedimenti amministrativi
complessi.
Questi due significati della differenziazione funzionale, peraltro, giova ripeterlo, non sono alternativi e
contrapposti tra loro, ma possono essere anche concorrenti e aggiuntivi. Né si può negare, peraltro, che
la differenziazione, sotto entrambi questi profili, costituisce per certi versi un aspetto della nozione più
ampia di adeguatezza, poiché commisurare le attribuzioni funzionali amministrative al reale stato socioeconomico di evoluzione e di maturità del singolo ente locale (tesi radicale dell'Italia a due o più
velocità), oppure adeguare l'ambito delle attribuzioni amministrative al criterio ordinatore del divieto del
conflitto d'interessi e al principio del contraddittorio (tesi istituzionale-procedurale), vuol dire in ogni
caso ricercare la giusta misura di tale attribuzione di competenza, in un significato lato di adeguatezza.
Ciò nondimeno non può sfuggire, e proprio alla luce delle considerazioni sopra sviluppate, la intrinseca
diversità dei due principi, di adeguatezza e di differenziazione, e l'utilità conoscitiva e applicativa della
loro distinzione.
Giova subito precisare che, in tema di differenziazione funzionale, non rileva (o, comunque, non apporta
utili elementi conoscitivi) la (ovvia) distinzione (che è pur sempre, anch'essa, una forma di
differenziazione) tra i diversi tipi di enti locali (non da ieri) conosciuti dal nostro ordinamento (comuni,
province, comunità montane, consorzi tra enti locali ecc., cui oggi si vanno aggiungendo le città
metropolitane). Risolvere, infatti, il significato del principio di differenziazione nel criterio di
distribuzione razionale e proporzionata delle competenze amministrative tra questi enti significa ridurre
questo principio a una inutile ovvietà, annullando ogni suo serio rilievo nel contesto dell'art. 118 Cost.
(14). Non v'è dubbio che l'accorta ripartizione delle competenze amministrative tra Comuni, Province,
Comunità montane, ecc., sia il primo esercizio (minimo) di adeguatezza e differenziazione. Ma quello
che si vuole qui ricercare è un significato del principio di differenziazione ulteriore, più ricco, rispetto a
questo, e con esso, peraltro, non incompatibile. La distinzione degli enti locali in categorie tipologiche e
la connessa differenziazione organizzativa e funzionale non soddisfa l'esigenza di spiegare come e
perché il principio di differenziazione sia posto dal testo della Costituzione come criterio autonomo di
distribuzione delle competenze funzionali degli enti (15).
Dei due possibili significati del principio di differenziazione funzionale sopra indicati, il primo significato,
quello più radicale, sembra sostenuto da quella dottrina che considera il principio di differenziazione
quale espressione, in sede di allocazione delle funzioni amministrative, della obiettiva diversità
intercorrente tra le varie realtà territoriali italiane e della esigenza di differenziare il mix di attribuzioni,
conferimenti e deleghe su misura del reale stato di maturazione o di capacità dell'ente locale
destinatario di bene fare fronte alle incombenze conseguenti (16). In questa impostazione la
considerazione delle diverse caratteristiche associative, demografiche, territoriali e strutturali degli enti
riceventi viene condotta non tanto e non solo per classi o tipi di enti, quanto e soprattutto per aree
geografiche, secondo il criterio sopra richiamato, storico-sociale, in base al quale, per essere chiari fino
in fondo, la gestione dei rifiuti può benissimo essere affidata ai Comuni in Emilia Romagna, mentre
certamente non lo può oggi in Campania (17). Del resto la differenziazione per tipi o classi o categorie
di enti c'è sempre stata ed esistono già numerose leggi che, per singole materie, differenziano i regimi
giuridici a seconda della realtà demografica, territoriale ecc. dei Comuni (si pensi alla legge elettorale, o
alla disciplina in materia di locazione di immobili urbani, che è differenziata in funzione della dimensione
demografica e della tensione abitativa dei Comuni, ecc.) (18). Ma questa, come detto, è soprattutto
differenziazione strutturale e organizzativa e non conduce al tema dell'art. 118 Cost. (19); per altro
verso questa diversificazione organizzativa costituisce in realtà una manifestazione non già del principio
di differenziazione (funzionale), bensì di quello di adeguatezza, siccome imperniata sulla dimensione e
sulla capacità strutturale dell'ente a ricevere e farsi carico adeguatamente dell'attribuzione.
La tesi "forte" della differenziazione, in ragione della realtà storico-sociale del territorio, se vuole
aggiungere qualcosa di nuovo al regime giuridico già da lungo tempo sperimentato e stabilizzato, e se
vuole evitare di appiattire la differenziazione sull'adeguatezza, deve dunque accedere alla impostazione
geografica dell'Italia a due o più velocità, che privilegi la rilevanza della obiettiva diversità intercorrente
tra le varie realtà territoriali italiane e ne derivi l'esigenza di differenziare in modo consequenziale il mix
di attribuzioni.
È però possibile obiettare a questa impostazione la violazione dell'art. 3 Cost. (con la rottura del
principio solidaristico e cooperativo che per unanime opinione caratterizza il nostro regionalismo) e la
mancata considerazione degli artt. 116, comma 3, e 118, comma 3, Cost., che già prevedono (l'uno) la
possibilità, mediante legge approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti sulla base
di intesa fra lo Stato e la Regione interessata, di "ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia"
nelle materie di cui al comma 3 dell'art. 117 e in alcune materie di competenza legislativa esclusiva
dello Stato (organizzazione della giustizia di pace, istruzione, tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei
beni culturali), nonché (l'altro) la possibilità di più intense forme di coordinamento fra Stato e Regione
(secondo la speciale disciplina dettata dalla legge statale) nelle materie dell'immigrazione e dell'ordine
pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale, e di ulteriori forme di intesa e
coordinamento nella materia della tutela dei beni culturali (sempre previa disciplina di legge statale):
l'esigenza di consentire (ragionevoli) margini di distinzione, a seconda dell'effettivo stato di maturità
delle singole realtà territoriali, in sede di allocazione delle funzioni amministrative, risulta dunque già
presa adeguatamente in considerazione dalla riforma costituzionale del 2001, con l'introduzione di
apposite, speciali previsioni, che è ragionevole ritenere abbiano esaurito gli spazi di possibile manovra
per la differenziazione intesa come criterio geografico e storico-sociale del federalismo a due (o più)
velocità (20). Andare oltre questi strumenti appositamente previsti in Costituzione, per differenziare
ancor di più il regime giuridico delle attribuzioni, per aree geografiche, con trattamenti speciali per
singole realtà territoriali, significherebbe impattare sul limite di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost.
Inoltre, la distinzione, nella distribuzione delle funzioni, non già per classi omogenee ed astratte e
generali di enti, ma con riferimento alle singole realtà locali storico-sociali, conduce inevitabilmente a
una legislazione "a macchia di leopardo" affidata a leggi particolari, a leggi singolari, anch'esse di
dubbia legittimità costituzionale, rispetto al complessivo impianto egalitario-solidaristico del sistema.
Concludendo sul punto, si osserva che: a) la pluralità tipologica degli enti locali (Comuni, Province,
ecc.), da sempre conosciuta, e la connessa distribuzione razionale delle relative competenze, non può
esaurire il significato del principio di differenziazione, che in tal modo verrebbe svuotato di ogni suo
autonomo significato rilevante nell'ambito dell'art. 118 Cost.; b) la tesi della differenziazione per tipi o
classi (demografico-dimensionali) degli enti locali non è soddisfacente, poiché nega al principio
enunciato nell'art. 118 Cost. ogni significato innovativo (riducendolo a una mera esplicitazione di un
criterio già pacificamente ammesso), riguarda, inoltre, per lo più aspetti organizzativi e strutturali
dell'ente, piuttosto che il profilo, pertinente all'art. 118 Cost., della distribuzione delle competenze
funzionali, e conduce quasi esclusivamente ad aspetti dimensionali demografici riconducibili in definitiva
al (solo) principio di adeguatezza; c) la tesi della differenziazione per ragioni storico-sociali (federalismo
a due o più velocità o asimmetrico) non convince poiché non fa i conti con il fatto che il revisore
costituzionale del 2001 ha già detto tutto quello che occorreva sul punto con gli appositi istituti di cui
agli artt. 116, comma 3 e 118, comma 3, Cost., sicché ogni ulteriore sforzo del legislatore ordinario in
quella direzione porterebbe a differenziazioni geografiche mediante leggi singolari, dando luogo a un
"vestito di Arlecchino" e sarebbe incostituzionale, in definitiva per violazione dell'art. 3 Cost.; d)
pertanto, l'unica strada percorribile per assicurare al principio di differenziazione la sua giusta
autonomia concettuale sembra essere quella istituzionale-procedurale, che lo configura come
applicazione uniforme su tutto il territorio nazionale del principio del contraddittorio alla dialettica tra
interessi pubblici antagonisti nell'ambito del procedimento amministrativo complesso.
3. Il principio di differenziazione (in una possibile lettura innovativa).
È ormai pressoché generalmente condiviso l'insegnamento di quella dottrina che configura, sul piano
funzionale, il procedimento amministrativo volto all'adozione di un provvedimento discrezionale come
luogo di acquisizione, ricognizione, valutazione, ponderazione, comparazione e decisione di prevalenza
(in funzione della migliore cura dell'interesse pubblico affidato dalla legge all'autorità procedente) della
pluralità dei fatti-interessi-valori coinvolti dall'affare amministrativo oggetto di trattazione
procedimentale (21).
Questa pluralità, variamente interrelata, di fatti-interessi-valori della realtà pregiuridica fa capo a
soggetti distinti e ha connotazione sia pubblica, che privata. Nel procedimento, infatti, confluiscono non
solo le posizioni soggettive dei privati a vario titolo coinvolti (e, quindi, gli interessi che a costoro fanno
capo, come beni-interessi privati), ma anche (e, forse, soprattutto) i beni-interessi pubblici che fanno
capo (non già a soggetti privati, ma) a soggetti pubblici appositamente costituti e forniti di una loro
specifica missione, che ne delimita l'ambito di competenza, inteso come misura di potere-autorità
funzionale alla cura di quegli interessi pubblici particolari che la legge assegna alla missione istituzionale
di ciascuna pubblica autorità.
La specializzazione e il tecnicismo crescenti rendono sempre più marcata (anche) la specializzazione e il
tecnicismo delle autorità (si pensi al fenomeno delle Autorità indipendenti). L'articolazione e la
strutturazione organizzativa complessa dell'amministrazione risponde a questa esigenza di fornire
risposte adeguate ai diversi bisogni e di garantire mezzi idonei e specialistici per la migliore trattazione
della diversificata tipologia di affari. Soccorrono in questa direzione le comuni acquisizioni della scienza
dell'organizzazione (22).
Alla eccessiva complessità e articolazione della macchina amministrativa che, se sproporzionata e non
ben commisurata, può tradursi in fattore di aggravio delle procedure e di ritardo nel provvedere si è
cercato di porre rimedio con la semplificazione, attraverso il meccanismo della conferenza di servizi
(23), degli accordi tra pp. aa. e del superamento dell'inerzia delle amministrazioni consultive (l. n. 241
del 1990; art. 20 l. n. 59 del 1997, in tema di semplificazione amministrativa) (24).
Si è però sempre chiarito che la conferenza non vanifica le diverse competenze, anche se oggi si spinge
verso uno sportello unico sostanziale e non solo formale (25).
Oltre un certo limite questo processo di riaggregazione diventa nocivo e provoca effetti indesiderati di
eccessiva semplificazione, di semplicismo, di inadeguatezza conoscitivo-istruttoria e di non bontàgiustizia del provvedere (che postula in primis un'adeguata conoscenza dei fatti). Esiste un "ottimo
paretiano" nella semplificazione stessa che non deve essere superato. La ipersemplificazione svuota di
senso e di utilità la stessa funzione pubblica, se rettamente intesa come cura dell'interesse generale
sulla base di scelte razionali e ben ponderate. In altri termini: è giusto, sì, sfrondare gli appesantimenti
burocratici, ma eliminando i controlli inutili e restituendo al diritto privato e al mercato ciò che non
rileva più per il diritto pubblico (perché non richiede un regime speciale di controlli nell'interesse
generale); non, invece, introducendo un generalizzato meccanismo di indiscriminata semplificazione
"cieca" dei procedimenti. Il sistema si migliora eliminando il troppo e il vano e rendendo nel contempo
reali ed effettivi i controlli che servono, quelli veri, i controlli preventivi, cioè, su quelle materie e per
quegli interessi che esigono ancora un trattamento speciale di deroga al diritto privato.
Un limite fondamentale alla semplificazione e alla riaggregazione unificante è costituito proprio dal
principio del contraddittorio, che sempre più penetra di sé e conforma lo stesso procedimento
amministrativo (che, come già detto, sta diventando sempre più processo).
Il principio del contraddittorio (26) si fonda sul canone logico essenziale della alterità-dualità soggettiva
dei centri di imputazione degli interessi in confronto: audiatur et altera pars. Sotteso al principio del
contraddittorio vi è il divieto del conflitto di interessi: la difesa e rappresentanza di un interesse non può
essere influenzata in modo sviato e partigiano dalla difesa e rappresentanza contestuale di un altro
interesse, che si cumula al primo e rispetto al primo è contrapposto (o è con esso in potenziale
conflitto). Questo principio riposa, in definitiva, su di un piano ancor più generale, sull'idea gnoseologica
del dialogo intersoggettivo come contesto pragmatico ideale per il progressivo affinamento persuasivo
dell'argomentare verso la verità (comunque la si voglia intendere) (27) o, comunque, verso la
condivisione di condizioni di soddisfacimento delle asserzioni riversate nel contenuto decisiorio dell'atto
giuridico. È pacifico che il contraddittorio, nel processo e nel procedimento, non serve solo alla difesa
del diritto della parte privata, ma anche come apporto collaborativo per la migliore approssimazione alla
verità (o validità) giuridica, e ciò non solo sul piano istruttorio della conoscenza dei fatti, ma anche
come contesto o "ambiente" dialettico che favorisce, nella discussione critica, il riscatto delle pretese o
impegni di verità/validità sollevati dalla tesi dell'attore (ossia, nel procedimento, dell'Amministrazione
procedente, che agisce) (28).
L'idea del contraddittorio come precondizione di verità/validità dell'atto giuridico decisorio risulta
particolarmente indispensabile ove si muova verso dimensioni consensuali e non unilaterali dell'agire
amministrativo. Il consenso, però, non può essere ricostruito solo ex latere civis, ma richiede di essere
compreso e ammesso anche dal lato dell'Amministrazione, nel senso che così come il sacrificio
dell'interesse del privato deve essere valutato e negoziato in sede procedimentale, alla stessa stregua
l'interesse pubblico antagonista, che debba essere in qualche modo sacrificato dal provvedimento (si
pensi, ad es., all'interesse naturalistico sacrificato dalla realizzazione di un'infrastruttura) deve essere
sentito nel procedimento, e deve essere sentito nella persona dell'autorità amministrativa competente,
tecnicamente attrezzata a far valere in modo giusto quell'interesse, nella dialettica con gli altri interessi
pubblici contrapposti. Il cumulo semplificatorio di una pluralità di competenze siffatte in capo alla
medesima autorità non solo sminuisce il necessario tecnicismo dell'istruttoria e della conoscenzacomprensione dei fatti, ma priva in radice la discussione di quell'elemento pragmatico-strutturale,
costituito dal contraddittorio in senso proprio, dall'alterità soggettiva, che, come detto, rappresenta la
precondizione di contesto indispensabile al fine del conseguimento, con buona approssimazione, della
verità/validità della scelta amministrativa conclusiva del procedimento.
Il principio di differenziazione enunciato dall'art. 118 Cost., non a caso in sede di criterio razionale di
riparto delle competenze esprime proprio questa esigenza, che, cioè, nell'allocare le funzioni
amministrative, la legge (statale o regionale) non concentri in testa a una stessa autorità competenze
confliggenti perché in tendenziale contrasto dialettico e perciò abbisognevoli di autonoma e specifica
rappresentanza. Quando vi siano funzioni distinte, la cui distinzione si fonda su ragioni sostanziali di
conflittualità-concorrenza tra i beni-interessi e i valori pubblici sottesi alla materia, allora è sconsigliabile
il cumulo di queste funzioni in capo a un unico soggetto amministrativo, poiché quest'unico soggetto
non sarà di regola in grado di assicurare quelle condizioni pragmatiche di contesto minime indispensabili
perché si attui una compiuta dialettica tra gli interessi opposti e da questa completa dialettica possano
sorgere decisioni ottimali in termini di coglimento del giusto punto di equilibrio tra gli interessi pubblici
contrapposti (29).
Il principio di differenziazione, come applicazione del principio del contraddittorio al procedimento
amministrativo complesso, significa, per essere chiari, che non sarebbe accettabile che la sicurezza
dell'approvvigionamento energetico fosse affidata alla cura del Ministro dell'ambiente, così come non
giudicheremmo accettabile razionalmente che la tutela dell'ambiente fosse affidata alla competenza del
Ministro dell'industria. Elementari canoni di razionalità impongono, infatti, che il giusto equilibrio tra i
due interessi pubblici tra loro in potenziale (ed effettivo) conflitto sia affidato alla mediazione, all'interno
del procedimento amministrativo, e alla sintesi che scaturisce, nel contraddittorio tra i diversi plessi
amministrativi competenti, tra le divergenti esigenze di tutela dell'ambiente (che sconsiglierebbero, ad
esempio, la riconversione a carbone di centrali elettriche alimentate a gas metano) e la sicurezza della
fornitura energetica del Paese (che, invece, consiglierebbe queste riconversioni, per diversificare le fonti
energetiche).
Si deve osservare che l'idea dei semplificazionisti dell'autorizzazione unica, se correttamente intesa, non
è affatto in contrasto con questa nozione di contraddittorio pubblico necessario, poiché l'unicità del
procedimento e l'unicità dell'atto provvedimentale finale non escludono affatto (ma, anzi, implicano)
che, a monte e nel corso del procedimento complesso (fattispecie cd. di decisione pluristrutturata, con
subprocedimenti funzionalmente connessi), le diverse Amministrazioni competenti si confrontino
dialetticamente e forniscano il loro apporto istruttorio e valutativo, che dovrà poi trovare il momento di
sintesi nella decisione finale unitaria (30).
Nei procedimenti complessi, a decisione c.d. pluristrutturata, dunque, indipendentemente dai
meccanismi semplificatori, ciò che è (e resta) indispensabile è che sia assicurata adeguata
rappresentanza e autonoma voce ai distinti interessi pubblici in potenziale conflitto tra loro, nel quadro
del fondamentale meccanismo operazionale disegnato dagli artt. 41 e 42 Cost., in base ai quali, come è
noto, l'iniziativa economica privata è libera, ma non può svolgersi in contrasto con la utilità sociale o in
modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (art. 41, commi 1 e 2) e la
proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di
godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti (art. 42,
comma 2).
Né può sfuggire che il criterio procedurale decisionale del contraddittorio, anche tra interessi pubblici, e,
quindi, della differenziazione nell'attribuzione delle competenze, trova fondamento anche nel diritto
comunitario, con il noto principio di integrazione (31). Integrazione vuol dire, infatti, forte
coordinamento, non annullamento dei diversi punti di vista, ma, per l'appunto, loro adeguata
valorizzazione in un contraddittorio allargato e praticato sin dall'inizio dei procedimenti complessi, al
fine che esso contraddittorio possa essere collaborativo (e preventivo) e non interdittivo (in via
successiva).
Solide basi costituzionali (artt. 41, 42, 111 Cost.) e comunitarie (principio di integrazione), oltre che
evidenti principi generali di logica, sorreggono dunque la costruzione del principio di differenziazione
come espressione del principio del contraddittorio alterità soggettiva necessaria delle autorità
competenti nei procedimenti amministrativi complessi a decisione c.d. pluristrutturata.
4. Applicazione (principio di differenziazione e paesaggio: la tutela "a doppia chiave" del bene
paesaggistico).
Un caso applicativo paradigmatico del principio di differenziazione inteso come divieto di cumulo di
competenze amministrative conducenti a funzioni distinte ed espressive di interessi pubblici in
potenziale conflitto tra loro è costituito giust'appunto dalla materia della gestione dei beni paesaggistici.
Il controllo e la gestione dei beni soggetti a tutela (così recita la rubrica del Capo IVdella Parte III del
codice del 2004) si attua essenzialmente attraverso il controllo autorizzatorio preventivo di ogni
intervento idoneo a immutare lo stato dei luoghi nell'area o nell'immobile sottoposto a tutela
paesaggistica. Questo controllo preventivo è distinto da (e si aggiunge a) quello urbanistico edilizio,
condotto attraverso gli atti autorizzatori edilizi, di cui al d.p.r. n. 380 del 2001 (32). La tradizione
giuridica italiana ribadita dal codice del 2004, soprattutto con la novella del 2006 prevede una
sostanziale cogestione di tale potere autorizzatorio tra lo Stato e le Regioni. Come detto sopra, quasi
tutte le Regioni italiane hanno subdelegato ai Comuni l'esercizio di questa funzione autorizzatoria.
Moltissimi Comuni, come è altrettanto noto, hanno esercitato questa funzione attraverso un parere sulla
concessione edilizia rilasciato (non già dalla semplice commissione edilizia, ma) dalla commissione
edilizia appositamente integrata con esperti architetti pianificatori paesaggisti. Rispetto a questo
sistema il codice del 2004, come integrato nel 2006, ha aggiunto la norma programmatica ricordata in
principio del presente contributo (art. 146, comma 3, primo periodo), ponendo il principio fondamentale
della materia per cui, nell'allocazione delle funzioni di gestione autorizzatoria dei beni paesaggistici
(33), le Regioni devono preferibilmente individuare livelli amministrativi sovracomunali, sia per motivi di
adeguatezza, che per motivi di distinzione (dice la norma), rispetto alle competenze urbanistiche ed
edilizie comunali, ossia, nell'interpretazione che qui se ne fornisce, per l'operare del principio di
differenziazione.
Questa proposta interpretativa si articola attraverso i seguenti quattro passaggi argomentativi.
4.1. La tutela del paesaggio costituisce una funzione autonoma e distinta rispetto all'urbanistica ed
edilizia, sicché il rilascio del nulla osta paesaggistico è espressione di una funzione non confondibile con
quella, diversa, cui appartiene il rilascio del titolo edificatorio edilizio. Su questa (pressoché pacifica)
acquisizione non occorre dire molto (34). Pur senza voler indugiare sulla tradizionale (e ormai superata)
nozione restrittiva di urbanistica proposta dalle più risalenti pronunce della Corte costituzionale (35),
ma dovendo nel contempo respingere la troppo ampia nozione adoperata dal d.p.r. n. 616 del 1977
(36), si può più ragionevolmente ritenere che la trasformazione urbanistico edilizia del territorio attiene
alla pianificazione e alla gestione di tutte le attività antropiche incidenti sul territorio provocate dalle
esigenze economiche e sociali dell'uomo. La reiterazione, nel linguaggio del legislatore, dell'endiadi
"urbanistica ed edilizia" sposta giustamente il punto focale definitorio della materia sulla trasformazione
antropica del territorio, essenzialmente sull'attività edificatoria. Paiono dunque persuasive le
interpretazioni della nozione di "urbanistica ed edilizia" rivolte ad esaltare la sostanziale unitarietà
giuridica e concettuale di quel campo di materia (37). Si tratta (benvero) di funzioni (quella
paesaggistica e quella edilizia) convergenti sul medesimo episodio di vita una determinata
trasformazione antropica di una determinata porzione di territorio , ma che sono serventi a finalità di
pubblico interesse diverse e potenzialmente confliggenti, poiché ciò che potrebbe essere assentibile sul
piano edilizio potrebbe non esserlo sul piano paesaggistico (38).
4.2. Il principio di differenziazione, per come sopra ricostruito, in un suo primo profilo, suggerisce,
pertanto, di mantenere distinte le relative competenze, poiché si tratta di interessi pubblici che devono
ricevere voce ed essere impersonati, secondo un principio di vero contraddittorio, da due distinti
soggetti pubblici. Questa distinzione di competenze è dettata anche dal principio del divieto del conflitto
d'interessi e dal divieto di cumulo in capo allo stesso soggetto delle funzioni di controllore e di
controllato, poiché, per la speciale relazione che intercorre tra il titolo autorizzatorio edilizio e il nulla
osta paesaggistico (di autonomia convergente), quest'ultimo si pone, in un certo senso, come momento
di controllo ulteriore, quasi di secondo grado, rispetto al primo, ragion per cui l'autorità che è chiamata
a svolgere il primo ruolo non può fare anche il secondo (che, come detto, nella sostanza comporta una
sorta di controllo, sia pur in senso atecnico, sul primo). Trattandosi di funzioni distinte, il principio del
contraddittorio impone la differenziazione delle competenze, in ragione del postulato della necessaria
alterità soggettiva del centro di imputazione e di riferimento delle attribuzioni di cura dei diversi e
configgenti interessi pubblici in gioco, al fine di assicurare idonee condizioni dialettiche minime per una
reale e seria difesa e cura di ciascuno dei diversi interessi pubblici coinvolti nelle scelte amministrative
complesse.
4.3. Vi è poi da considerare un terzo profilo del principio di differenziazione che spinge nel senso della
distinzione delle competenze in questione: la necessità di assicurare un adeguato tecnicismo e una
specifica professionalità e indipendenza dell'autorità che si occupa di tutela paesaggistica. L'idea di una
sorta di "magistratura tecnica" la rete territoriale delle soprintendenze statali deputata specificamente
alla cura del patrimonio culturale, nei suoi profili archeologico, storico-artistico e paesaggistico (profili
strettamente intrecciati nella peculiare connotazione del paesaggio storico italiano), risale molto indietro
nel tempo. Questo motivo è infatti presente nella tradizione giuridica italiana sin dai lavori preparatori
delle leggi "Bottai" del 1939 (nn. 1089 e 1497) ed è sotteso all'istituzione, negli anni settanta del secolo
scorso, dell'apposito Ministero, scorporato da quello della pubblica istruzione (39). Ma ha trovato nuovo
sostegno soprattutto nella previsione dell'art. 9 Cost. che, nella sua forza immediatamente precettiva e
non puramente programmatica, esige la creazione di strutture amministrative specialistiche
appositamente dedicate, che forniscano tutte le migliori garanzie di assiduità, qualità e indipendenza di
giudizio tecnico (40).
4.4. Occorre, infine, garantire una distanza minima tra decisori e forze sociali locali stanziate sul
territorio, che tendono naturalmente a una pecuniarizzazione immediata e a un uso/consumo del
territorio non sempre lungimirante. È infatti nota e dimostrata la debolezza intrinseca e strutturale
dell'interesse ambientale diffuso rispetto all'interesse economico, localmente concentrato, alla
trasformazione del territorio. L'interesse diffuso, come è noto, è "adespota" (41), è parcellizzato in
tante piccole porzioni di interesse disperse nella moltitudine dei soggetti portatori, per ciascuno dei
quali, però, esso riveste un rilievo tutto sommato marginale, non essenziale. L'interesse economico di
pochi individui alla trasformazione produttiva del territorio riveste invece per i suoi portatori un ruolo
essenziale e determinante e si concentra e si focalizza pervicacemente su una determinata porzione
territoriale. Con la conseguenza che l'interesse, forte e determinato, di pochi, è destinato di solito a
prevalere, nel lungo periodo, su quello diffuso e debole dei tanti che, certo, hanno a cuore la tutela del
paesaggio, ma non sono direttamente lesi nella loro propria sfera giuridica personale dall'atto di
consumo del territorio e di pregiudizio al valore estetico culturale del bene paesaggistico manomesso. Il
paesaggio, infatti, come bene giuridico, è di tutti, e perciò stesso, come sovente accade per gli interessi
generali, non è di nessuno, o rischia di essere solo di chi se ne appropria. Anche per questo è
necessario un apposito custode pubblico del paesaggio, professionalizzato, tecnicamente attrezzato e
sufficientemente distante e indipendente dal conflitto degli interessi locali, distante abbastanza da
potersi anche assumere la responsabilità di scelte interdittive, che possono apparire sfavorevoli e lesive
degli interessi dei pochi, nel breve periodo, ma che fanno la vera tutela dell'interesse generale, nel
lungo periodo, in un'ottica di maggiore lungimiranza.
Sotto questo profilo non può negarsi anche a costo di dire qualcosa di "politicamente scorretto" (ma
vero) che l'autorità locale, che scambia (fisiologicamente) il consenso elettorale con le proprie scelte di
governo e di amministrazione, finisce fatalmente per essere più sensibile al richiamo forte e continuo
dei pochi che puntano le proprie aspettative di guadagno sul consumo del territorio, che non all'opinione
(debole e parcellizzata) dei tanti (della generalità dei cittadini) che preferirebbero che il territorio
venisse preservato nel suo valore paesaggistico, ma non hanno un coinvolgimento abbastanza diretto e
forte su questi temi, tale da costituire un fattore davvero determinante delle loro scelte elettorali e
politiche.
Questi quattro aspetti applicativi del principio di differenziazione, nella sua applicazione alla tutela
paesaggistica, conducono a configurare un modello di gestione rafforzata del bene paesaggistico, un
sistema per così dire a "doppia chiave", in base al quale, in sostanza, le chiavi di accesso alla
trasformazione antropica del territorio vincolato devono essere duplici e (soprattutto) devono essere
affidate a mani diverse. In base a questo sistema il progetto di intervento esige un doppio controllo
autorizzatorio, presso autorità distinte, l'una delle quali (quella specificamente a competenza
paesaggistica) possibilmente abbastanza distante dai luoghi dell'intervento da poter preservare la
propria obiettività e serenità di giudizio nell'interesse generale. E per certi aspetti è questa la ragione di
fondo che sta sotto alla nota posizione della Corte costituzionale (sentenza n. 334 del 1998) (42) in
tema di gestione del vincolo paesaggistico, compendiata nella formula di sintesi della necessaria
compartecipazione paritaria tra Stato e Regioni ed enti locali (quale modalità pratica della leale
cooperazione) da sempre richiesta dal giudice delle leggi in questa materia (43).
5. Conclusioni (sussidiarietà orizzontale e non verticale nella materia paesaggisticoambientale).
La disposizione dell'art. 146, comma 3, del codice dei beni culturali e del paesaggio, dalla quale si è
partiti nella presente nota, nel dettare regole di allocazione della competenza funzionale in tema di
autorizzazione paesaggistica, sembra rispondere appieno alla nozione di differenziazione funzionale, per
come qui ricostruita, nei suoi quattro profili essenziali (alterità soggettiva intrinseca nel contraddittorio
pieno tra interessi pubblici in conflitto nelle decisioni amministrative complesse; divieto di cumulo di
funzioni di controllato e controllore nello stesso soggetto; garanzia di adeguata specializzazione e
competenza tecniche; necessità di un'imparzialità rafforzata, anche mediante la giusta distanza tra i
decisori e le forze sociali locali).
Questa ricostruzione e l'idea di differenziazione funzionale ad essa sottesa mette in discussione i due
assiomi della semplificazione e della prossimità del livello di gestione.
Essa dimostra che la semplificazione unificante non è un bene in sé ed incontra anch'essa un limite,
superato il quale l'effetto non è più benefico, ma negativo. Si può in proposito osservare che "un solo
procedimento sarebbe lo stesso che nessun procedimento, giacché la sua differenziazione come sistema
non avrebbe alcun senso" (44). Una delle ragioni di questo limite alla semplificazione-unificazione è
dato proprio da quelle materie, come la tutela paesaggistica, che intrinsecamente (cioè per il tipo di
beni-interessi e annessi valori che tutelano) e strutturalmente (cioè per il tipo di configurazione
organizzativa e di competenze che ne derivano) esigono specializzazione, imparzialità rafforzata, visione
d'assieme di dimensione territoriale più ampia.
L'interpretazione qui svolta dimostra inoltre che la linea della sussidiarietà verticale, per cui tutto tende
a ricadere nella competenza comunale, senza un forte contrappeso nell'adeguatezza e nella
differenziazione, sembra essere, in definitiva, una linea poco appropriata alla materia della tutela
paesaggistica. La direzione proficua e adatta della sussidiarietà in questa materia sembra essere invece
un'altra, quella della sussidiarietà orizzontale, della partecipazione democratica delle persone, singole
ed associate, perché facciano sentire il peso dell'interesse generale, in sussidio e in supplenza rispetto
alle amministrazioni competenti. È la direzione orizzontale della sussidiarietà e non la verticale quella
più in sintonia con la speciale materia in esame. È del resto noto e condiviso il ruolo centrale svolto
dalla partecipazione attiva dell'associazionismo in campo ambientale (45). Per l'efficacia della tutela
ambientale e paesaggistica, all'amministrazione (in origine statale, poi regionale delegata; oggi
regionale, in forza dell'attribuzione fatta dalla Parte III del codice del 2004-2006) serve soprattutto il
sussidio della partecipazione attiva della società civile organizzata, e non già il sovraccarico di funzioni
concentrate sugli enti locali minori. Questi beni interessi hanno bisogno di partecipazione diretta dei
cittadini, prima, affianco e oltre il ruolo e l'azione delle pubbliche amministrazioni, nella direzione di un
rinnovato protagonismo delle persone e dei gruppi associati, che possa vivificare l'interesse diffuso e
strutturarlo in modo da dargli voce e peso (46). È noto, inoltre, che la linea della sussidiarietà
orizzontale nella materia ambientale è preferita anche a livello comunitario, non solo per il principio di
responsabilità condivisa, ma anche per la latitudine dell'accesso alle informazioni ambientali, che
incentiva la partecipazione informata e attiva dei cittadini (47).
Ed è proprio nella direzione della valorizzazione della partecipazione dei cittadini che si dirige la scelta
lungimirante del codice del 2004-2006. Prevede infatti l'art. 146, comma 13, che l'autorizzazione
paesaggistica è impugnabile, con ricorso al Tribunale amministrativo regionale o con ricorso
straordinario al Presidente della Repubblica, dalle associazioni ambientaliste portatrici di interessi diffusi
individuate ai sensi dell'art. 13 della l. 8 luglio 1986 n. 349; e da qualsiasi altro soggetto pubblico o
privato che ne abbia interesse (48). Si tratta di una disposizione che riveste un valore soprattutto
propulsivo, più che innovativo dell'ordinamento, atteso che era relativamente pacifico, già prima di
questa norma, che le associazioni ambientaliste potessero impugnare provvedimenti in materia di tutela
paesaggistica. Ma essa esprime tuttavia un significato importante nella logica complessiva del nuovo
testo normativo di settore, poiché si raccorda con la disposizione, sopra esaminata, recata dal comma
3, in tema di deroga al criterio di prossimità, in favore di quello (rafforzato) di differenziazione, e
dimostra che, come detto, la direzione giusta della sussidiarietà, in questa materia, è quella orizzontale,
che apre alla partecipazione attiva, anche in chiave suppletiva, dei cittadini organizzati in associazioni
portatrici dell'interesse diffuso alla tutela del paesaggio.
La tutela del paesaggio, dunque, da un lato, per l'operare di un principio di differenziazione rafforzata,
richiede di essere curata da un'Amministrazione specializzata, dotata delle adeguate professionalità, che
non cumuli su di sé funzioni urbanistico-edilizie incompatibili e si collochi in una posizione di imparzialità
qualificata, rispetto alla realtà sociale locale; dall'altro, essa, per l'operare di un principio di sussidiarietà
orizzontale (che in questa materia supplisce all'inappropriatezza del principio di sussidiarietà verticale),
deve essere integrata dal protagonismo attivo delle associazioni ambientaliste e dei cittadini comunque
organizzati, al fine di dare corpo e sostanza all'interesse diffuso alla tutela paesaggistica, altrimenti
destinato a soccombere al più pervicace interesse economico produttivo (49) che mira al consumo del
territorio.
NOTE
(1) P. URBANI, Strumenti giuridici per il paesaggio. Qualche riflessione sulle tecniche di redazione dei
nuovi piani paesistici, in A. CLEMENTI (a cura di), Interpretazioni di paesaggio, Roma, 2002, 78, osserva
che "la sussidiarietà ambientale è in contrasto con la ricerca del consenso"; P. CARPENTIERI, La nozione
giuridica di paesaggio, in Riv. trim. dir. pubbl., 2004, 417; S. AMOROSINO, Rapporti tra i piani dei parchi e
i piani paesaggistici alla luce del Codice Urbani, in Aedon, Rivista di arti diritto on line, al sito
http://www.aedon.mulino.it ("il c.d. nulla osta paesaggistico, purtroppo nella grandissima maggioranza
delle Regioni italiane delegato ai comuni"). La considerazione sembra condivisa da G. SEVERINI, Il
concetto di "bene ambientale" nel testo unico, in La nuova tutela dei beni culturali e ambientali, a cura
di P.G. Ferri e M. Pacini, Milano, 2001, 238, dove l'A. sottolinea come "la dominante specificità (della
connotazione estetico-culturale - n.d.r.)... che non si ritrova negli altri fenomeni di tutela ambientale...
impone una netta distinzione, organizzativa non meno che funzionale, della tutela paesistica"; M.R.
SPASIANO, sub art. 146, in M.A. SANDULLI (a cura di), Il codice dei beni culturali e del paesaggio, Milano,
2006, 966. La considerazione di cui al testo risponde alla logica delle tutele parallele per interessi
differenziati, su cui cfr. V. CERULLI IRELLI, Pianificazione urbanistica e interessi differenziati, in Riv. trim.
dir. pubbl., 1985, 389 e 427 ss., nonché P. URBANI, Urbanistica, tutela del paesaggio e interessi
differenziati, in Regioni, 1986, 665; ID., Ordinamenti differenziati e gerarchia degli interessi nell'assetto
territoriale delle aree metropolitane, in Riv. giur. urbanistica, 1990, 609; ID., sub. artt. 142, in La nuova
disciplina dei beni culturali e ambientali, a cura di M. Cammelli, Bologna, 2004, 550, dove si richiama la
consolidata tradizione del sistema normativo di tutela di beni aventi rilevanza territoriale, fondata sul
principio che la cura e la soddisfazione dell'interesse pubblico differenziato vada affidata ad autorità
specializzate. Sulla delega statale alle Regioni e sulla subdelega regionale ai Comuni, cfr. P. UNGARI, sub
art. 146, in G. TROTTA, G. CAIA e N. AICARDI (a cura di), Commentario del codice dei beni culturali e del
paesaggio, in Le nuove leggi civili commentate, Cedam, Padova, n. 1-2 del 2006, 186 (nota 6). Più in
generale, sull'inadeguatezza dei Comuni "polvere", cfr. M.S. GIANNINI, Il riassetto dei poteri locali, in Riv.
trim. dir. pubbl., 1971, 452.
(2) Sul punto si vedano le riflessioni di R. CECCHI, I beni culturali, Testimonianza materiale di civiltà,
Milano, 2006, 110 ss.
(3) Ricorso della Regione Toscana depositato il 27 giugno 2006 (in G.U., I serie speciale n. 35 del 30
agosto 2006); ricorso della Regione Piemonte depositato il 30 giugno 2006 (in G.U., I serie speciale n.
36 del 6 settembre 2006, 11 ss.). Le Regioni e gli enti locali mostrano di vivere questa tematica come
un sottrazione di poteri, in una logica di difesa burocratica delle competenze.
(4) SANTIROMANO, Autonomia, in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1982 (ristampa), 15 ss.;
M.S. GIANNINI, voce Autonomia (teoria generale e diritto pubblico), in Enc. Dir., IV, Milano, 1959, 353
ss.
(5) Di differenziazione in ambito giuridico si parla anche in tema di globalizzazione, con riferimento alla
tensione dialettica tra differenze locali e ricerca di uniformità globale [profilo su cui, nella ormai vasta
letteratura del genere, cfr., da ultimo, M.R. FERRARESE, Diritto sconfinato, Roma-Bari, 2006, soprattutto
cap. V, par. 1 (Differenze e rimescolamento delle differenze nel mondo globale), cap. 2 (Unità e
differenze per le istituzioni), capp. 4 e 5 (sul "glocalismo"), ed ivi ampi rinvii bibliografici in materia]. Su
di un piano ancor più ampio cfr. N. LUHMANN, Diritto e differenziazione, Bologna, 1990, dove però la
differenziazione del diritto è vista, nell'ambito della teoria dei sistemi, nel rapporto con gli altri sistemi
sociali (cfr., per es., 68 ss.,) fino alla differenziazione tra Stato e società, nonché ID., Procedimenti
giuridici e legittimazione sociale, Milano, 1995 (soprattutto cap. 3, La differenziazione funzionale, ove si
riferisce della teoria della differenziazione funzionale dei sistemi sociali di Spencer e Durkheim).
(6) "Differenziazione funzionale", secondo E. CARLONI, Lo Stato differenziato. Contributo allo studio dei
principi di uniformità e differenziazione, Torino, 2005, 63, che va distinta dalla differenziazione
organizzativa che, come diremo, poco rileva agli effetti dell'art. 118 Cost.
(7) Sent. 20 gennaio 2004 n. 26, in Cons. St., 2004, II, 92 ss., nonché in Consultaonline, al sito
http://www.cortecost.org., in tema di valorizzazione dei beni culturali, dove la Corte afferma
testualmente che è"individuabile una linea di continuità tra la legislazione degli anni 1997-98, sul
conferimento di funzioni alle autonomie locali, e la l. cost. n. 3 del 2001".
(8) I due luoghi normativi citati sono, rispettivamente, i seguenti: "valorizzare i princìpi di sussidiarietà,
di adeguatezza e di differenziazione nella allocazione delle funzioni fondamentali in modo da assicurarne
l'esercizio da parte del livello di ente locale che, per le caratteristiche dimensionali e strutturali, ne
garantisca l'ottimale gestione anche mediante l'indicazione dei criteri per la gestione associata tra i
Comuni", e "Lo Stato e le Regioni, secondo le rispettive competenze, provvedono a conferire le funzioni
amministrative da loro esercitate alla data di entrata in vigore della presente legge, sulla base dei
princìpi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza".
(9) E. MALFATTI, sub l. cost. n. 3 del 2001, in Commentario della Costituzione (fondato da G. Branca), a
cura di A. Pizzorusso, Bologna-Roma, 2006, 312 (nota 14). Nello stesso senso Q. CAMERLENGO, sub art.
118, in R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI (a cura di) Commentario alla Costituzione, Utet, 2007, III,
2336, ove si parla di sussidiarietà "con i suoi corollari della differenziazione e della adeguatezza". E.
CARLONI, op. cit., 311, considera "i criteri della differenziazione e dell'adeguatezza" come "predicati della
sussidiarietà". E. LAMARQUE, voce Funzioni amministrative degli enti territoriali, in Enciclopedia giuridica
de II Sole 24 Ore, Milano, 2007, afferma che "il principio cardine è quello di sussidiarietà, di cui i
principi di differenziazione e adeguatezza... costituiscono ulteriori precisazioni e applicazioni". P. VIPIANA,
Il principio di sussidiarietà "verticale", Milano, 2002, 314 e 398, considera l'adeguatezza e la
differenziazione, nel comma 1 dell'art. 118 Cost., come "aspetto positivo della sussidiarietà per cui i
livelli superiori devono svolgere le funzioni che gli inferiori sono inidonei ad esercitare". Idem per la
manualistica (ad es., in S. BARTOLE, R. BIN, G. FALCON, R. TOSI, Diritto regionale, Bologna, 2003, 184, si
legge: "Gli altri due principi non sono principi autonomi, ma criteri applicativi del principio di
sussidiarietà").
(10) "Sul principio di sussidiarietà in generale, P. RIDOLA, Il principio di sussidiarietà e la forma di Stato
di democrazia pluralistica, in A.A. CERVATI, S.P. PANUNZIO, P. RIDOLA, Studi sulla riforma costituzionale.
Itinerari e temi per l'innovazione costituzionale in Italia, Torino, 2001, 139 ss.; P. VIPIANA, Il principio di
sussidiarietà "verticale", cit.; P. CARETTI, Stato, Regioni, Enti locali tra innovazione e continuità, Torino,
2003, presenta una nozione di carattere generale del principio di sussidiarietà verticale, rilevando come
esso "a un criterio formale di attribuzione delle funzioni amministrative" (quello del parallelismo delle
funzioni rispetto alla competenza legislativa) abbia sostituito un criterio "sostanziale, che guarda
soprattutto alle finalità da perseguire: si attribuiscono le funzioni amministrative al soggetto che
presumibilmente è in grado di soddisfare meglio le esigenze della comunità che costituisce l'interfaccia
dell'esercizio di quella funzione", donde la conclusione per cui "ciò significa che, in base a tale
disposizione, oggi non esiste più alcun soggetto, pubblico o privato, che possa dirsi, in ragione della
Costituzione, titolare formale e a priori di una certa funzione amministrativa" (150, 151). Questa
ricostruzione, indubbiamente esatta sul piano descrittivo della sussidiarietà come criterio logico
sostanziale di distribuzione delle competenze, non considera, però, che lo stesso art. 118 Cost.,
secondo un imprescindibile principio di legalità (che non può non fondare le funzioni amministrative)
assegna alla legge (statale o regionale) il compito di allocare le funzioni, e questa attribuzione di
competenza non può certo immaginarsi, nel concreto operare dell'amministrazione, come variabile e
mutevole, in relazione a singoli affari, come dovrebbe invece inammissibilmente postularsi se si
accettasse l'idea dell'unicità del principio di sussidiarietà (di cui l'adeguatezza e la differenziazione
sarebbero meri snodi applicativi nell'operare concreto dell'Amministrazione). Adeguatezza e
differenziazione, invece, sono due autonomi principi, che guidano il legislatore nella distribuzione delle
competenze. In generale sulle funzioni comunali nel nuovo Titolo V, si veda L. DELUCIA, Le funzioni di
Province e Comuni nella Costituzione, in Riv. trim. dir. pubbl., 2005, 23 ss. ed ivi rinvii.
(11) Anche in questo caso soccorre il precedente conforme della l. n. 59 del 1997 che, come detto nel
testo, rappresenta la fonte ispiratrice diretta (e dunque la chiave interpretativa elettiva) del nuovo testo
costituzionale. L'art. 4 della l. n. 59 del 1997, infatti, enuncia il principio di sussidiarietà esattamente in
termini "attribuzione della generalità dei compiti e delle funzioni amministrative ai comuni, alle province
e alle comunità montane". P. VIPIANA, op. cit., 314, rileva come la prima parte dell'art. 118 Cost. "ossia
la tendenziale attribuzione della generalità delle funzioni amministrative al Comune, è espressione
dell'aspetto negativo della sussidiarietà per cui le funzioni vanno preferibilmente demandate agli enti
più vicini ai cittadini".
(12) La nozione stessa di competenza (da cum e petere) reca in sé l'idea di una intima rispondenza, di
una giusta concordanza tra soggetto e oggetto, di un'adeguatezza tra attore e azione e attività che gli
viene richiesta. E se si distingue una competenza tecnica da una competenza giuridica, nondimeno si
rileva che "spesso un giudizio di competenza tecnica è alla base delle disposizioni giuridiche con cui si
stabiliscono le competenze giuridiche e i requisiti delle persone cui queste devono essere affidate" (P.
GASPARRI, voce Competenza amministrativa, in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, 33). La divisione del lavoro
secondo criteri di specializzazione e di professionalizzazione della burocrazia ha profonde radici
nell'evoluzione storica delle società occidentali, soprattutto di quelle europeo-continentali (M. WEBER, Il
lavoro intellettuale come professione, Torino, 1948). C. SCHMITT, Dottrina della costituzione, trad. it. di
A. Caracciolo, Milano, 1984, 178, rileva che "come Stato di diritto è considerato solo uno Stato, la cui
attività sia completamente racchiusa in una somma di competenze esattamente circoscritte. La
divisione e la distinzione dei poteri contiene il principio fondamentale di questa generale misurabilità di
tutte le manifestazioni statali di potere... la generale misurabilità è il presupposto della generale
controllabilità". N. LUHMANN, Procedimenti giuridici..., cit., 12 ss., osserva che "la differenziazione,
nell'ambito dei procedimenti, di ruoli specifici per la particolare funzione dell'individuazione della verità,
può essere un presupposto indispensabile, e del resto anche la ricerca scientifica della verità si svolge in
ruoli specifici o per lo meno in conformità a norme (metodi) e valori specifici, ed è dunque socialmente
differenziata". Non può non ricordarsi, del resto, che un limite alla concentrazione e all'unicità delle
attribuzioni in capo al livello di governo più vicino al cittadino, secondo il principio di prossimità, è
rappresentato dallo stesso testo dell'art. 97 Cost., in base al quale I pubblici uffici sono organizzati
secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e la imparzialità
dell'amministrazione. Nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le
attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari.A. PIOGGIA, voce Organizzazione amministrativa, in
S. CASSESE (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, IV, Milano, 2006, 4019, evidenzia come
l'organizzazione si risolve nella predeterminazione del funzionamento di un'amministrazione attraverso
la distribuzione dei compiti fra le sue varie componenti. L'A. richiama anche il "percorso ascendente
dell'organizzazione e dell'azione amministrativa a partire dagli interessi", secondo la sequenza:
"interesse - organizzazione - azione". Cfr. anche G. PALEOLOGO, voce Organizzazione amministrativa, in
Enc. dir., XXXI, Milano, 1981, 135 ss.
(13) Correttamente, sotto questo profilo, il disegno di legge di delega al Governo per l'attuazione
dell'art. 117, comma 2, lett. p), Cost., per l'istituzione delle città metropolitane e per l'ordinamento di
Roma Capitale della Repubblica, nonché recante disposizioni per l'attuazione dell'art. 118, commi 1 e 2,
Cost. e di delega al Governo per l'adeguamento delle disposizioni in materia di enti locali alla l. cost. 18
ottobre 2001 n. 3, approvato dal Consiglio dei Ministri del 16 marzo 2007 e presentato al Senato il 5
aprile 1997 (AS 1464), enuncia il principio direttivo, per l'allocazione delle funzioni amministrative, della
"adeguatezza organizzativa e dimensionale" dei diversi livelli di governo. Da segnalare che il criterio
direttivo per la individuazione ed allocazione delle funzioni fondamentali e delle funzioni proprie degli
enti locali di cui alla lett. o) del comma 4 dell'art. 2 (ove è prevista una disciplina differenziata per i
comuni con popolazione pari o inferiore a 5.000 abitanti idonea ad agevolarne l'azione di governo con
misure di semplificazione strutturali, procedurali e organizzative correlate alle minori dotazioni di risorse
strumentali) afferisce anch'esso al profilo dell'adeguatezza, piuttosto che a quello delle differenziazione.
(14) Sarebbe bastato all'uopo il "ricco" art. 20 della legge c.d. "Bassanini 1", la n. 59 del 1997 (articolo
numerose volte riscritto, da ultimo dall'art. 1 della l. 29 luglio 2003 n. 229 e dall'art. 1 della l. 28
novembre 2005 n. 246), che contiene l'elenco delle regole su come i procedimenti dovrebbero essere
strutturati e come andrebbero distribuite le annesse competenze, regole che si esauriscono peraltro
nella enunciazione formale di comuni principi di buon senso e di logica ordinaria [cfr. soprattutto i
commi 3, lett. l) e 4, lett. f)-ter].
(15) Si è già in principio di paragrafo chiarito ma giova qui ribadirlo che, nella polisemia del significato
del termine differenziazione, esso presenta sicuramente un diretto radicamento nell'autonomia
organizzatoria degli enti locali, sancita dall'art. 117, comma 6, Cost. (in tal senso cfr. A. PIOGGIA, op.
cit., 4028, che, al di là del richiamo agli enti locali, riferisce la nozione di differenziazione anche alla
diversificazione organizzativa intercorrente tra i diversi enti pubblici, agenzie, società partecipate, etc.,
nonché, amplius, E. CARLONI, Lo Stato differenziato, cit., passim). Ma questa impostazione non pare
rilevante sul piano dell'art. 118 Cost., sul piano, cioè, della allocazione ottimale delle funzioni, nel
quadro del principio di sussidiarietà verticale. Nel contributo da ultimo citato E. CARLONI, Lo Stato
differenziato, cit. si dà ampiamente conto dei diversi significati del concetto di differenziazione, ma con
precipuo riferimento ai profili strutturali e organizzativi degli enti locali, nella dialettica ("coppia
dicotomica") uniformità/differenziazione (l'A. richiama U. BORSI, Regime uniforme e regime differenziale
dell'autarchia locale, in Riv. dir., pubbl. giust. amm., 1927, 7 ss.), nella dinamica storica dal modello
francese unitario ai più recenti sviluppi di differenziazione dei modelli strutturali delle autonomie (con ivi
ampi richiami di bibliografia). Alla stessa stregua, non rileva in questa sede quella particolare specie di
differenziazione che è insita nella previsione delle Regioni ad autonomia speciale, così come non
rilevano le plurali forme di differenziazione (organizzative e funzionali) derivanti dalle numerose leggi
singolari, temporanee, eccezionali che possano prevedere speciali discipline per singole realtà territoriali
(oltre a Roma Capitale, si pensi alla laguna di Venezia, al comune di Campione d'Italia etc.).
(16) Secondo E. CARLONI, op. cit., 183, "in base al "nuovo modello", enti locali appartenenti alla
medesima categoria potranno essere portatori di funzioni differenti". Per L. VANDELLI, La distribuzione
delle competenze: le tendenze in Italia dopo l'attuazione della l. n. 59 del 1997, in S. GAMBINO (a cura
di), Stati nazionali e poteri locali. La distribuzione territoriale delle competenze, Rimini, 1998, 287 ss., si
tratta di una "allocazione differenziata e asimmetrica" delle funzioni amministrative, in relazione alla
"eterogeneità di fatto dei soggetti destinatari, anche all'interno della medesima categoria". In tal senso
anche F. MERLONI, Funzioni comunali e principio di sussidiarietà, nota a T.A.R. Brescia, 7 aprile 1999 n.
256, in Giorn. dir. amm., 1999, 1161, e G. ROLLA, in T. GROPPI, M. OLIVETTI (a cura di), La Repubblica
delle autonomie, 2°, Torino, 2003, 210. Riferimenti più generali in questa direzione in L. ANTONINI, Il
regionalismo differenziato, Milano, 2000; C. BOZZACCHI, Uniformità e differenziazione nel sistema
federale austriaco, Bologna, 1998; P. PERNTHALER, Lo Stato federale differenziato. Fondamenti teorici,
conseguenze pratiche ed ambiti applicativi nella riforma del sistema federale austriaco, Bologna, 1998.
Nella manualistica cfr. S. BARTOLE ET ALII, Diritto regionale, cit. 184, dove si osserva che "L'affermazione
del principio di differenziazione ha la sua origine nella grande varietà delle situazioni in cui si trovano, in
particolare, i diversi Comuni italiani, la cui consistenza demografica varia da poche decine a diversi
milioni di persone, e la cui organizzazione amministrativa varia di conseguenza. Esso consente dunque
di attribuire certe funzioni ai soli Comuni in grado di svolgerle, sia da soli che eventualmente in
associazione con altri, mantenendo la competenza a un livello più elevato (ad es. a livello provinciale) là
dove i Comuni non siano in grado".
(17) Così V. CERULLI IRELLI, Il nuovo assetto dell'amministrazione, Relazione tenuta al Convegno di Studi
di scienza dell'Amministrazione di Varenna, 16 settembre 2004, mostra di considerare la
differenziazione in senso "forte", come possibilità di diversificare le attribuzioni per singole realtà
geografiche, lì dove afferma che "il principio di differenziazione impone al legislatore di tenere conto,
nella imputazione delle funzioni amministrative ai diversi enti, anche della medesima categoria, della
rispettiva capacità di governo...". Naturalmente non si considera come nozione di differenziazione qui
rilevante quella che è predicabile con riferimento alla legislazione speciale o ai regimi di emergenza per
calamità naturali o crisi socio-economico-ambientali ai sensi della legge sulla protezione civile 24
febbraio 1992 n. 225.
(18) Ad es., in funzione della classe demografica di appartenenza del comune, il t.u.e.l. (d. legisl. n.
267 del 2000) differenzia il numero dei componenti gli organi consiliari (art. 37) e le giunte (art. 47), la
disciplina della presidenza del Consiglio comunale (art. 39), il sistema elettorale (artt. 71 ss.), la figura
del direttore generale (art. 108), il conferimento di incarichi dirigenziali (art. 109), la materia
finanziario-contabile (diversificata in base alle classi demografiche di appartenenza dei comuni, giusta la
previsione dell'art. 156), l'organo di revisione dei conti [la legge finanziaria per il 2007 l. 27 dicembre
2006 n. 296 , modificando (comma 732 dell'art. 1) il comma 3 dell'art. 234 del t.u.e.l., ha previsto
l'organo monocratico di revisione contabile nei Comuni con popolazione inferiore a 15.000 abitanti], ecc.
Per altri esempi cfr. E. CARLONI, op. cit., 186, note 136 e 137. L'A. da ultimo citato non manca ivi di
rilevare come il d. legisl. n. 112 del 1998, attuativo della delega di cui alla l. n. 59 del 1997, non abbia
prodotto un "significativo conferimento differenziato".
(19) La legge sulle locazioni degli immobili urbani non detta regole sulle competenze dei comuni, ma
norme di diritto e procedura civile (nonché fiscali) differenziate a seconda della tensione abitativa dei
comuni in cui i rapporti locatizi sono sorti e si svolgono (d.-l. 30 dicembre 1988 n. 551, conv., con
modif., in l. 21 febbraio 1989 n. 61; l. 9 dicembre 1998 n. 431; l. 8 febbraio 2007, n. 9). Vi potrebbero
anche essere, peraltro, previsioni di legge, preesistenti o successive al nuovo Titolo V, che graduano
l'attribuzione delle competenze dei comuni in funzione della loro dimensione demografica o territoriale.
Si tratterebbe, in ogni caso, di previsioni applicative del principio di adeguatezza, più che di quello di
differenziazione (come avviene allorquando la legge attribuisce alla provincia o ad appositi consorzi di
enti locali di ambito territoriale ottimale talune competenze cd. di area vasta, in considerazione della
non adeguatezza territoriale dei Comuni: cfr. d. legisl. n. 152 del 2006, in tema di gestione dei rifiuti e
di tutela delle acque dall'inquinamento, oppure, in tema di gestione del ciclo idrico integrato, la legge
"Galli" n. 36 del 1994, o la l. n. 183 del 1989, che assegna alle Autorità di bacino la gestione del rischio
idrogeologico e la difesa del suolo). Non mancano peraltro, nelle leggi speciali, casi di differenziazione
qualitativa, come nell'ipotesi della qualifica di "turistico" riferibile a taluni Comuni (ad es., art. 12 del d.
legisl. n. 114 del 1999 in tema di commercio). In questa direzione cfr. anche il recente disegno di legge
di Sostegno e valorizzazione dei piccoli comuni (testo unificato AC 15, 1752 e 1964), in corso di esame
parlamentare.
(20) Sul cd. "federalismo differenziato" o asimmetrico previsto dall'art. 116 Cost., cfr. A. ZANARDI, Il
federalismo differenziato nell'art. 116 Cost.: una breve nota, in http://www.federalismi.it, n. 22/2006,
novembre 2006, con particolare riferimento ai problemi di finanziamento di un tale sistema delle
competenze territorialmente differenziate, in armonia con l'art. 119 Cost. Pone in evidenza come la
"differenziazione autonomia" si ponga "allo snodo tra i principi di autonomia ed uguaglianza" E. CARLONI,
Lo Stato differenziato, cit., 9, nota 19 (il quale sottolinea anche il "rischio di una "differenziazione
arbitraria", peraltro costituzionalmente difficilmente accettabile", ivi, 182). Non va peraltro dimenticata
la rilevanza della differenziazione interna che, tra singoli ordinamenti regionali, può derivare dal fatto
che le singole Regioni, applicando l'art. 118 Cost., possano diversamente allocare tra gli enti locali
dell'ambito regionale le diverse funzioni amministrative nelle materie di legislazione regionale (ad es.,
una Regione potrebbe attribuire alla Provincia la funzione di rilasciare il titolo edilizio ex art. 87 codice
delle comunicazioni elettroniche necessario per l'installazione di una stazione radio base di telefonia
mobile). Rispetto a questo tema si solleva la complessa questione del conflitto tra neocentralismo
regionale e competenze proprie e/o fondamentali dei Comuni, su cui si vedano i contributi qui citati alla
nota 15 e, ivi, ampi richiami bibliografici. Un ulteriore effetto di differenziazione si avrebbe nella logica
(che sembra condivisa dal d.d.l. delega di riordino del t.u.e.l. AS 1464 , sopracitato) delle funzioni
"proprie" dei Comuni come funzioni (in senso lato) non autoritative, che ciascun Comune può attivare
nella suo autonomia; ma anche in questo caso si tratterebbe di effetti che esulano dal meccanismo
allocativo dell'art. 118 Cost. e che, dunque, non rilevano ai fini del presente discorso.
(21) M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, Milano, 1970, II, 885 ss. Sul procedimento amministrativo la
letteratura è sterminata, ma è doveroso richiamare i fondamenti teorici (A.M. SANDULLI, Il procedimento
amministrativo, Milano, 1959, ma prima ed. del 1940; F. BENVENUTI, Funzione amministrativa,
procedimento, processo, in Riv. trim. dir. pubb., 1952, 118 ss.; F.G. SCOCA, La teoria del provvedimento
dalla sua formulazione alla legge sul procedimento, in Dir. amm., 1/1995, 1 ss.; M.E. SCHINAIA, Sandulli:
il procedimento amministrativo, in Cons. St., 2005, II, 217 ss.) e alcuni contributi più recenti che hanno
evidenziato la processualizzazione del procedimento amministrativo (A. SCOGNAMIGLIO, Il diritto di difesa
nel procedimento amministrativo, Milano, 2004; G. SALA, Procedimento e processo nella nuova l. n. 241,
in Dir. proc. amm., 3/2006, 576-577; L. DE LUCIA, Procedimento amministrativo e interessi materiali, in
Dir. Amm., 1/2005, 87 ss.; E. FREDIANI, Partecipazione procedimentale, contraddittorio e comunicazione:
dal deposito di memorie scritte e documenti al "preavviso di rigetto", in Dir. amm., 4/2005, 1003 ss.; F.
MERUSI, Diritti fondamentali e amministrazione (o della "demarchia" secondo Feliciano Benvenuti), in
Dir. Amm., 3/2006, 543 ss., il quale ultimo rileva che mentre la partecipazione (istruttoria) consentita
dalla (vecchia) l. n. 241 del 1990 si colloca ancora nell'area della mera libertà garantita, un vero e
proprio esercizio partecipato dei diritti di libertà (secondo il modello di F. Benvenuti) si avrebbe con il
contraddittorio paritario (o contraddittorio sulla decisione, o in contestazione) introdotto dal nuovo art.
10-bis (oltre che per la via dei principi comunitari introduttivi del contraddittorio sul progetto di
provvedimento, come nel caso della direttiva sulle telecomunicazioni 2002/2 UCE recepita nell'art. 11
del codice delle comunicazioni elettroniche di cui al d. legisl. n. 259 del 2003).
(22) La semplificazione, infatti, non dovrebbe dimenticare che la specializzazione e la
professionalizzazione burocratica, che impongono le distinzioni di competenze (nonché tempi minimi per
un serio svolgimento delle istruttorie e dei processi decisionali), sono fattori di legittimazione
dell'autorità: cfr. A. ROMANO TASSONE, Situazioni giuridiche soggettive e decisioni della amministrazioni
indipendenti, in Dir. amm., 3/2002, 465, circa la "tecnica legittimante formale-procedimentale"
nell'ambito del principio di legittimazione dell'autorità legato a un criterio di tipo legale-razionale (ove si
richiamano M. Weber e N. Luhmann). Sull'incidenza della specializzazione tecnica, insita in talune
particolari materie, sull'organizzazione burocratica e sulla distribuzione delle competenze, cfr. anche F.
CARDARELLI, Efficienza e razionalizzazione dell'attività amministrativa. I contratti ad oggetto informatico
nelle pubbliche amministrazioni, Camerino, 1996, soprattutto 7 ss.
(23) F.G. SCOCA, Analisi giuridica della conferenza di servizi, in Dir. amm., 2/1999, 255 e ss.; M.
D'ORSOGNA, Spunti di riflessione sulla nuova conferenza di servizi, in Cons. St., 2001, II, 651 ss.; P.
STAFFINI, La conferenza di servizi nell'ordinamento amministrativo: spunti ricostruttivi, in Cons. St.,
1992, II, 549; D.M. TRAINA, Ancora un contributo circa i caratteri "costituzionali" della conferenza di
servizi (nota a Corte cost., 19 marzo 1996 n. 79), in Giur. cost., 1996, 734; P. BERTINI, La conferenza di
servizi, in Dir. smm., 1997, 271; A. CRISAFULLI, La conferenza di servizi non è un organo collegiale
perfetto (nota a Cons. Stato, Sez. IV, 13 luglio 1998 n. 1088), in Urb. e app., 1998, 1313; F.
CARINGELLA-L. TARANTINO, Il nuovo volto della conferenza di servizi dopo la l. n. 340 del 2000, in Urb.
app., 4/2001, 367 ss. P. FORTE, La conferenza di servizi, Padova, 2000; F. CARINGELLA, M. SANTINI, Il
nuovo volto della conferenza di serviri, in Le nuove regole dell'azione amministrativa dopo le l. n. 15 del
2005 e n. 80 del 2005, Milano, 2005.
(24) In tema di semplificazione la letteratura è vastissima. Ai fini del presente discorso è sufficiente
l'esame delle apposite leggi (le più recenti): l. 28 novembre 2005 n. 246, di semplificazione e riassetto
normativo per l'anno 2005; d.-l. 10 gennaio 2006 n. 4, convertito, con modificazioni, dalla l. 9 marzo
2006 n. 80 (istitutivo di un apposito Comitato interministeriale per l'indirizzo e la guida strategica delle
politiche di semplificazione e di qualità della regolazione, poi costituito con d.p.c.m. 12 settembre
2006); d.-l. 18 maggio 2006 n. 181, convertito, con modificazioni, dalla l. 17 luolio 2006 n. 233,
istitutivo (art. 1, comma 22-bis) dell'Unità per la semplificazione e la qualità della regolazione, a
supporto del Comitato interministeriale sopra indicato; da ultimo, d.d.-l. governativo all'esame del
Parlamento (AC 2161), contenente Misure volte alla riorganizzazione dell'azione amministrativa, alla
riduzione ed alla certezza dei tempi dei procedimenti.
(25) La giurisprudenza costituzionale (Corte cost., 8 febbraio 1993 n. 62; 10 marzo 1996 n. 79, 26
giugno 2001 n. 206 e 23 luglio 2002 n. 376, in Consultaonline, al sito http://www.cortecost.org) e
amministrativa (Cons. Stato, Sez. IV, 14 aprile 2006 n. 2170, consultabile al sito http://www.giustiziaamministrativa.it) esclude che lo sportello unico alteri il quadro distributivo sostanziale delle
competenze. Contro questa tesi cfr. F. BASSANINI, B. DENTE, La parabola degli sportelli unici per le attività
produttive: una innovazione da correggere e rilanciare, in Astridonline al sito http://www.astridonline.it,
dicembre 2006, ove si accusa la citata giurisprudenza della Corte costituzionale di aver frenato la
riforma riducendo lo sportello unico a un front office per salvare le attribuzioni di competenza, rispetto
al progetto originario, secondo cui le amministrazioni di settore si sarebbero dovute limitare alla sola
istruttoria, su richiesta del Comune, decisore unico. Questa impostazione sembra riemergere nel
disegno di legge governativo (AC 2161, cit.), presentato nel febbraio del 2007, che rilancia l'idea
dell'autorizzazione unica e semplifica ulteriormente il cd. start up delle imprese. Sullo sportello unico
cfr. I.M.G. IMPASTATO, La conferenza di servizi "aperta" nel d.p.r. n. 447 del 1998, ovvero della
"semplificazione partecipata", in Dir. amm., 4/2001, 481 ss.; M. SGROI, Lo sportello unico per le attività
produttive: prospettive e problemi di un nuovo modello di amministrazione, in Dir. amm., 1/2001, 179
ss.; M. D'ORSOGNA, Unificazione funzionale e sportello unico, in Giorn dir. amm., 5/2003, 471 ss.
(26) Sul principio del contraddittorio cfr. L.P. COMOGLIO, Contraddittorio (principio del), in Enc. giur.
Treccani, VIII, Roma, 1988, ad vocem (p. 19 sulla riferibilità al procedimento amministrativo).
(27) Queste considerazioni trovano riscontro nelle più moderne visioni filosofico-linguistiche della verità
come discorso (teoria discorsiva della verità) per cui la verità (la validità) della proposizione si raccorda
al riscatto della pretesa (illocutiva) di validità contenuta nell'atto linguistico mediante l'avanzamento di
buone ragioni nel discorso argomentativo (K.O. APEL, Discorso, verità, responsabilità, trad. it. di V.
Marzocchi, Napoli-Milano, 1997, 78 e passim, nel quadro della teoria pragmatico-trascendentale della
verità come consenso). Nella stessa direzione muove la teoria consensual-discorsiva della verità di J.
Habermas (J. HABERMAS, Etica del discorso, trad. it. di E. Agazzi, Roma-Bari, 2004; ID., Teoria dell'agire
comunicativo, I. Razionalità nell'azione e razionalizzazione sociale, trad. it. di P. Rinaudo, Bologna,
1997; ID., Fatti e norme, trad. it. di L. Ceppa, Napoli-Milano, 1996, 269 ss.) e, ancor prima, il
pragmatismo inferenzialista di W. SELLARS (Empirismo e filosofia della mente, 1956, trad. it. di E. Sacchi.
Torino, 2004), che tende a ricondurre la conoscenza nello spazio logico delle ragioni, nello spazio in cui
si giustifica e si è in grado di giustificare quel che si dice (54). Sui più recenti sviluppi di questa
impostazione cfr. R. BRANDOM, Making it Explicit, Harvard University Press, Cambridge, MA, 1994,
secondo cui la pratica delle transazioni linguistiche è fatta dello scambio di entitlement (titoli, ossia
premesse legittimanti la credenza) e commitment (impegni, ossia inferenze che ne derivano). Nella
stessa direzione della centralità del contesto pragmatico del discorso conduce infine il più recente olismo
interpretativo del neopragmatismo americano di impostazione antifondazionalista e decostruzionista di
D. Davidson e R. Rorty, che sostituisce all'idea di "verità" oggettiva quella di comportamento complesso
giustificativo delle credenze dell'interpretante nei significati (D. DAVIDSON, Soggettivo, intersoggettivo,
oggettivo, trad. it. di S. Levi, Milano, 2003; R. RORTY, Verità e progresso, Scritti filosofici, trad. it. di G.
Rigamonti, Milano, 2003).
(28) Sul rilievo del metodo dialogico del contraddittorio come contesto per l'argomentazione giuridica
cfr. F. VIOLA, G. ZACCARIA, Le ragioni del diritto, Bologna, 2003, 224 ss. (e, ivi, rinvii bibliografici); CHAIM
PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, Trattato dell'argomentazione, trad. it. di C. Schick, M. Mayer, E.
Barassi, Einaudi, Torino, 1966, vol. I, 15 ss. In ultima istanza, resta vero che la "concezione classica del
procedimento" implicherebbe l'idea che esso "non sarebbe dì per sé un criterio di verità, ma favorirebbe
la correttezza della decisione" (N. LUHMANN, Procedimenti giuridici e legittimazione sociale, cit., 4).
(29) Appare peraltro illusoria l'idea che questa sintesi dei contrapposti interessi, anche pubblici, possa
adeguatamente avvenire all'interno delle istanze rappresentative costituite dagli organi elettivi dell'ente
locale (il consiglio comunale), sia perchè è notorio che questi organismi svolgono un ruolo di mero
indirizzo politico, sia (e soprattutto) per gli intrinseci limiti propri del meccanismo stesso della
rappresentanza nell'offrire una sintesi razionale e completa degli interessi in gioco (tema, quest'ultimo,
su cui si vedano D. NOCILLA, L. CIAURRO, voce Rappresentanza politica, in Enc. dir., XXXVIII, Milano,
1987, 543 ss.).
(30) È significativo, sotto questo profilo, il meccanismo decisionale sintetico proprio della conferenza di
servizi, su cui la dottrina richiamata alla nota 22.
(31) In base all'art. 6 TCE "le esigenze connesse con la tutela dell'ambiente devono essere integrate
nella definizione e nell'attuazione delle politiche e azioni comunitarie di cui all'art. 3, in particolare nella
prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile" (formulazione trasfusa nell'art. III-119 del Trattato di
Roma del 29 ottobre 2004 che adotta una costituzione per l'Europa, ratificato in Italia con l. 7 aprile
2005 n. 57). La stessa previsione è inoltre contenuta nell'art. 174 TCE, par. 2. Sul principio di
integrazione cfr. R. FERRARA, I principi comunitari di tutela dell'ambiente, in Dir. amm., n. 3/2005, 509
ss. (con ivi ampi richiami bibliografici sul tema); F. DE LEONARDIS, Il principio di precauzione
nell'amministrazione di rischio, Padova, 2005; A. MASSERA, Principi generali dell'azione amministrativa
tra ordinamento nazionale e ordinamento comunitario, in Dir. amm., 4/2005, 754 ss. Sia consentito
anche rinviare a P. CARPENTIERI, La causa nelle scelte ambientali, in Rivista della Scuola Superiore
dell'Economia e delle Finanze, n. 3/2006, 99 ss., nonché al sito http://www.giustizia-amministrativa.it.
(32) La giurisprudenza ha chiarito che i due titoli autorizzativi, quello edilizio e quello paesaggistico,
sono autonomi e distinti, salva la non utilizzabilità in concreto del primo in mancanza del secondo. Così
Cons. Stato, Sez. V, 14 gennaio 2003 n. 87 (in http://www.giustizia-amministrativa.it) afferma che "il
provvedimento relativo alla concessione edilizia e quello relativo al nulla osta ambientale sono tra loro
autonomi e indipendenti, realizzando interessi diversi e distinti e fondandosi su presupposti diversi, per
cui il rilascio della prima non risulta condizionato dal secondo, atteso che il nulla-osta costituisce un
mero requisito di efficacia (e non, dunque, un presupposto di legittimità) della concessione edilizia, nel
senso che solo la realizzazione dell'opera assentita con quest'ultima, in zona soggetta a vincolo
paesaggistico, postula il previo conseguimento dell'assenso ambientale". Conseguentemente, I'art. 146,
comma 8, del codice dei beni culturali e del paesaggio stabilisce che l'autorizzazione "costituisce atto
distinto e presupposto della concessione o degli altri titoli legittimanti l'intervento edilizio. I lavori non
possono essere iniziati in difetto di essa". Sul tema cfr. P. UNGARI, sub art. 146, in G. TROTTA, G. CAIA E N.
AICARDI (a cura di), Commentario del codice dei beni culturali e del paesaggio, in Le Nuove Leggi Civili
Commentate, Cedam, Padova n. 1-2 del 2006, 194 ss.; M.R. SPASIANO, sub art. 146, in M.A. SANDULLI (a
cura di), Il codice dei beni culturali e del paesaggio, Milano, 2006, 973.
(33) In realtà dovrebbe a rigore osservarsi che, ricadendo la materia della tutela del paesaggio nel titolo
di potestà legislativa esclusiva statale di cui alla lett. s) del comma 2 dell'art. 117 Cost. "tutela
dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali" come ribadito, sia pur incidenter tantum, dalla Corte
cost. nelle sent. nn. 51 e 182 del 2006, la competenza alla suddetta allocazione, nel quadro dell'art.
118, spetterebbe allo Stato, di talché più che di un principio fondamentale di legislazione concorrente
dovrebbe parlarsi, per la disposizione codicistica in esame, di norma di esplicitazione di un principio
generale di riparto delle competenze (e, per l'appunto, si ritiene, del principio generale di
differenziazione). Peraltro non è condivisibile il rilievo critico (S. CIVITARESE MATTEUCCI, La revisione del
Codice del paesaggio: molto rumore per (poco o) nulla? in Aedon, Rivista di arti e diritto on line,
2/2006, al sito http://www.aedon.mulino.it) dell'improprietà del termine "delega", usato dal decreto
delegato correttivo del 2006, rispetto al nuovo sistema dell'art. 118 Cost., atteso che la Parte III del
codice, nell'esercizio della potestà legislativa esclusiva statale in materia di tutela del paesaggio, ha
"allocato" la relativa funzione (in parte) a livello regionale (salva la compartecipazione necessaria
statale), donde la possibilità di una delega regionale agli enti locali e non già di una vera e propria
riallocazione attributiva in tale direzione da parte della legge regionale. Peraltro, il principio di
differenziazione, oltre a fondare la scelta del legislatore statale (attribuzione alle Regioni, in deroga al
principio di sussidiarietà verticale-prossimità), opera anche in chiave di criterio direttivo "a valle" per
l'eventuale delega regionale. A BORZÌ, La disciplina della tutela e della valorizzazione del paesaggio alla
luce del d. legisl. n. 157 del 2006 e della recente giurisprudenza costituzionale, in Federalismi.it (al sito
http://www.federalismi.it), 18 luglio 2006, 8, parla di "principio sull'allocazione di funzioni
amministrative" segnalando la peculiarità di questa tecnica di normazione, richiamando la distinzione
tra principi sull'allocazione e norme di allocazione di funzioni operata da M. CECCHETTI, Ambiente,
paesaggio e beni culturali, in G. CORSO, V. LOPILATO, Il diritto amministrativo dopo le riforme
costituzionali. Parte speciale, I, Milano, 2006, 394.
(34) Sia consentito sul punto, per mere ragioni di sintesi, rinviare a quanto sostenuto in P. CARPENTIERI,
La nozione giuridica di paesaggio, in Riv. trim. dir. pubbl., 2004, 404 ss, dove, in particolare, si è
osservato che il termine "governo del territorio", figurante nel comma 3 dell'art. 117 Cost., riveste un
valore soprattutto enfatico e ideologico, ma presenta una scarsa forza innovativa giuridica.
(35) Sent. 6 luglio 1972 n. 141 e precedente, ivi richiamata, n. 50 del 1958 (consultabili su
Consultaonline, al sito http://www.cortecost.org), ove l'urbanistica viene intesa come "attività che
concerne l'assetto e l'incremento edilizio dei centri abitati" (nozione desunta dalla l. n. 1150 del 1942
che, all'art. 1, rubricato "Disciplina dell'attività urbanistica e suoi scopi", stabilisce che "L'assetto e
l'incremento edilizio dei centri abitati e lo sviluppo urbanistico in genere nel territorio del Regno sono
disciplinati dalla presente legge"). Questa impostazione si rinviene peraltro anche presso il giudice
amministrativo: cfr. Cons. Stato, Sez. V, 22 settembre 2001 n. 498 (in Foro it., 2002, III, 105, con nota
di F. FRACCHIA).
(36) Art. 80 del d.p.r. n. 616 del 1977, nozione di recente ripresa, al diverso fine del riparto di
giurisdizione, dal d.-l. n. 80 del 1998.
(37) Se ne veda un'ampia ricognizione, con esaurienti richiami bibliografici, in M.A. SANDULLI, Profili della
nuova giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia urbanistica ed edilizia, in questa
Rivista, 2001, II, 99 ss. Sulla nozione di urbanistica cfr., più di recente, P. STELLA RICHTER, Costituzione
nuova e problemi urbanistici vecchi, in Dir. amm., 2-3/2001, 387 ss.
(38) Non rileva ai fini di questo discorso il fatto che, a regime, quando la pianificazione paesaggistica e
quella urbanistica fossero compiutamente definite, tutti i vincoli paesaggistici dovrebbero essere
presenti anche nel piano regolatore urbanistico: resta il fatto che le ragioni giustificatrici dei diversi
vincoli paesaggistici e urbanistici, anche se morfologico-ambientali sono e restano autonome e diverse,
e il valore paesaggistico, per quanto pedissequamente registrato nel piano urbanistico, richiede
comunque un suo proprio controllore, diverso da chi gestisce il piano urbanistico e ne amministra la
concreta attuazione.
(39) Le tappe fondamentali dello sviluppo di questa linea di pensiero vanno dal convegno dei
soprintendenti del 4, 5 e 6 luglio 1938, in Roma, sotto la direzione del ministro Bottai, alla l. n. 833, 22
maggio 1939, che ristabilisce la tripartizione delle soprintendenze secondo criteri tecnici, con il recupero
dell'autonomia tecnica di questi uffici; si sviluppano attraverso le ll. n. 1089 e 1939 del 1939, i lavori
preparatori della Cost., la l. n. 310, 26 aprile 1964 istitutiva della commissione "Franceschini", fino a
pervenire alla legge istitutiva del Ministero per i beni culturali e ambientali d.-l. 14 dicembre 1974 n.
657, conv. in l. 29 gennaio 1975, n. 5 voluta, da Giovanni Spadolini (governo Moro-La Malfa). Su questi
temi cfr. M. SERIO, La riforma Bottai delle antichità e belle arti: leggi di tutela ed organizzazione, in L.
BARROERO, A. CONTI, A.M. RACHELI, M. SERIO, Via dei Fori Imperiali. La zona archeologica di Roma:
urbanistica, beni artistici e politica culturale, Venezia, 1983, 227 ss.
(40) S. SETTIS, Italia s.p.a., l'assalto al patrimonio culturale, Torino, 2002; ID., Battaglie senza eroi. I
beni culturali tra istituzioni e profitto, Milano, 2005, (dove è raccolto un precedente articolo pubblicato
sul quotidiano La Repubblica del 22 aprile 2004, con il titolo, Il manager non salva l'arte); ID.,
Presentazione, in G. LEONE, L. TARASCO (a cura di), Commentario al codice dei beni culturali e del
paesaggio, Padova, 2006, XXIX, ove l'A. sottolinea come "la tutela prescritta dall'art. 9 (Cost.)... si
incarna in norme e strutture dello Stato, e in particolare nel sistema delle Soprintendenze territoriali,
una creazione culturale e amministrativa molto originale e molto imitata da altri Paesi...". B. ZANARDI, Il
Sole 24 Ore, domenica 1° aprile 2007, Tutela programmata, una lettera di Urbani ricorda il progetto di
Giovanni Urbani del 1981 per creare un corso di laurea in "Scienze storico-ambientali" al fine di "creare
degli esperti in materia di teoria e pratica delle scelte pubbliche relative a problemi di compatibilità tra
sviluppo e conservazione", secondo l'idea guida della tutela del patrimonio culturale nel suo contesto
paesaggistico-ambientale.
(41) M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, I, Milano, 1970, 882.
(42) Corte cost., 14 luglio 1998 n. 334, in Giur. cost., 1998, I, 2442. La stretta implicazione tra
esigenza di cura speciale del bene protetto e strutturazione organizzativa e connessa distribuzione delle
competenze è avvertita anche dalla recente sentenza della Corte cost. n. 182 del 5 maggio 2006 (in
Consultaonline, al sito http://www.cortecost.org), ancorché con riguardo specifico al profilo della
necessaria unitarietà della pianificazione paesaggistica. Con questa sentenza la Consulta ha dichiarato
l'illegittimità costituzionale dell'art. 34, comma 3, della l.r. Toscana n. l del 2005, in tema di governo del
territorio, nella parte in cui stabilisce che sia il piano strutturale del Comune a indicare le aree in cui la
realizzazione degli interventi non è soggetta all'autorizzazione paesaggistica di cui all'art. 87 della l.r.,
anziché il piano regionale paesaggistico con specifica considerazione dei valori paesaggistici. Questa
previsione di legge regionale, secondo il giudice delle leggi, si pone "in contraddizione con il sistema di
organizzazione delle competenze delineato dalla legge statale a tutela del paesaggio, che costituisce un
livello uniforme di tutela, non derogabile dalla Regione, nell'ambito di una materia a legislazione
esclusiva statale ex art. 117 Cost., ma anche della legislazione di principio nelle materie concorrenti del
governo del territorio e della valorizzazione dei beni culturali". In questo contesto la Corte ha affermato
il principio secondo cui "il paesaggio va rispettato come valore primario, attraverso un indirizzo unitario
che superi la pluralità degli interventi delle amministrazioni locali".
(43) È naturale che le esigenze proprie di questo sistema di tutela rafforzata (o "a doppia chiave") del
bene paesaggistico possono essere parimenti soddisfatte con tecniche alternative (o concorrenti) di
dislocazione delle attribuzioni di competenza e di articolazione procedimentale: una soluzione
alternativa (ma rivelatasi in pratica inadatta) era quella dell'annullamento ministeriale successivo; una
soluzione alternativa (e in parte concorrente) è quella prevista dal codice dei beni culturali del 2004,
che contempla un parere obbligatorio del soprintendente sul merito del progetto e della proposta di
autorizzazione; un mix tra il sistema della distinzione delle competenze e quello del concorso è dato
dalla novella del 2006, in base alla quale il parere del soprintendente resta vincolante (e non solo
obbligatorio), oltre che in caso di delega ai Comuni (comma 3), anche (comma 8) fino all'approvazione
del piano paesaggistico ai sensi dell'art. 143, comma 3, e all'avvenuto adeguamento ad esso degli
strumenti urbanistici comunali.
(44) N. LUHMANN, Procedimenti giuridici e legittimazione sociale, cit., 251. L'A. non manca di rilevare
(op. cit., 10) che tutta l'elaborazione dei procedimenti giuridici nella cultura del diritto liberale si
caratterizza per un "atteggiamento spiccatamente antiburocratico", per essere rivolta contro gli
amministratori del potere in chiave di difesa delle libertà del cittadino (che, nell'idea liberale, ma, più in
generale, nel costituzionalismo moderno, preesistono allo Stato, come patrimonio innato dell'individuo,
e costituiscono un limite razionale e naturale al potere dello Stato). Ma questo modello, se è sufficiente
a tutelare le libertà del mercato, è del tutto inadeguato a difendere le libertà dal mercato, siccome
incapace di tutelare gli interessi generali dagli abusi e dalle distorsioni del mercato (ovvero, dalla
amoralità del mercato, che è dominio, fine a se stesso, della tecnica). Se la libertà di fare impresa gode
della massima protezione, rischia di restare senza reale tutela il diritto alla salute. Ragion per cui torna
in discussione l'assioma, fino a ieri dato per pacifico, della separazione tra Stato e società, che di
quell'approccio antiburocratico è l'humus e la precondizione culturale (in tema cfr. E.W. BÖCKENFÖRDE,
Diritto e secolarizzazione, Roma-Bari, 2007, 82 ss.). E il miglior raccordo tra Stato e società può esser
dato proprio, come diremo, dalla sussidiarietà orizzontale. Questo per dire, in sostanza, che la
proceduralizzazione e la semplificazione, che è l'ultimo livello dell'antiburocratismo insisto nel diritto
procedurale non devono superare il limite della necessaria difesa di interessi che non sono tutelati dal
mercato, ma, anzi, possono essere lesi dal mercato e dalle sue indiscriminate libertà.
(45) Non a caso all'origine del riconoscimento (prima giurisprudenziale, poi normativo) della
legittimazione ad agire delle associazioni portatrici di interessi diffusi vi è per l'appunto l'attività di
associazioni ambientaliste (il leading case si fa risalire alla questione dell'ammissibilità di un ricorso
proposto dall'associazione Italia Nostra, deciso in senso favorevole da Cons. Stato, Sez. V, 9 marzo
1973 n. 253, su cui poi, però, si è pronunciato in senso negativo Cons. Stato, Ad. Plen., 19 ottobre
1979 n. 24); sul piano normativo, il primo riconoscimento formale si è avuto con l'art. 18 della legge
istitutiva del Ministero dell'ambiente, l. n. 349 del 1986. Tra le dimostrazioni più recenti del significativo
ruolo di propulsione e di controllo sociale svolto dalle associazioni nel campo della difesa del paesaggio,
si consideri la recente iniziativa dei movimenti ambientalisti toscani che, il 25 marzo 2007, hanno
creato, a Firenze, una rete dei comitati di difesa del paesaggio (Corriere della Sera, lunedì 26 marzo
2007, 21, articolo di P. CONTI), sull'onda delle vivaci polemiche innescate da recenti interventi di
lottizzazione nel Comune di Pienza, nei pressi di Monticchiello, autorizzati grazie al nulla osta comunale.
(46) Per un'informazione di sintesi sul vastissimo dibattito giurisprudenziale e dottrinario sul tema degli
interessi diffusi cfr. V. CAIANIELLO, Diritto processuale amministrativo, Torino, 1988, 156 ss., nonché F.
CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, I, Milano, 2001, 483 ss. (ove si richiamano i fondamentali
contributi di M.S. GIANNINI, La tutela degli interessi collettivi nei procedimenti amministrativi, in Le azioni
a tutela degli interessi collettivi, Padova, 1976 ove si propone la teoria dell'interesse diffuso "adespota"
che diviene interesse collettivo se si struttura in forme associative e di M. NIGRO, Le due facce
dell'interesse diffuso: ambiguità di una formula, in Foro it., 1987, V, 7 ss.).
(47) Cfr. la dir. 90/313/CEE del 7 giugno 1990, modificata dalla dir. 2003/4/CE, sull'accesso alle
informazioni ambientali (recepita con d. legisl. 19 agosto 2005 n. 195), nonché la convenzione di
Aarhus del 25 giugno 1998, ratificata dall'Italia con l. n. 108, 13 luglio 2001 in tema di informazione
ambientale e di partecipazione del pubblico ai processi decisionali in materia ambientale.
(48) La disposizione prosegue con la innovativa previsione secondo cui Il ricorso è deciso anche se,
dopo la sua proposizione, ovvero in grado di appello, il ricorrente dichiari di rinunciare o di non avervi
più interesse. Le sentenze e le ordinanze del tribunale amministrativo regionale possono essere
appellate da chi sia legittimato a ricorrere avverso l'autorizzazione paesaggistica, anche se non abbia
proposto il ricorso di primo grado. Previsioni, queste, che sembrano caricare il ricorso avverso
l'autorizzazione paesaggistica di una sorta di valenza di tutela nell'interesse generale (con una tecnica
di tutela cd. di tipo oggettivo, e non più solo di tipo soggettivo, a difesa di posizioni soggettive
individuali). Sul rilievo quasi pubblicistico riconosciuto alle associazioni (in quel caso, consumeristiche)
dalla più recente legislazione, cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 11 gennaio 2007 n. 1 (in http://www.giustiziaamministrativa.it), ove si evidenzia la natura eccezionale della disposizione ora ricordata del codice dei
beni culturali e del paesaggio. È importante, in quest'ottica, anche la previsione del comma 14 del
medesimo art. 146, che introduce ulteriori strumenti volti a favorire il controllo sociale diffuso
dell'attività dell'amministrazione che gestisce lo strumento autorizzatorio. Il comma 14 stabilisce infatti
che Presso ogni amministrazione competente al rilascio dell'autorizzazione è istituito un elenco,
aggiornato almeno ogni quindici giorni e liberamente consultabile, in cui è indicata la data di rilascio di
ciascuna autorizzazione paesaggistica, con la annotazione sintetica del relativo oggetto e con la
precisazione se essa sia stata rilasciata in difformità dal parere del soprintendente, ove il parere stesso
non sia vincolante, o della commissione per il paesaggio. Copia dell'elenco è trasmessa trimestralmente
alla regione e alla soprintendenza, ai fini dell'esercizio delle funzioni di vigilanza di cui all'art. 155. Su
queste innovative previsioni cfr. F. FIGORILLI, sub art. 146, comma 11, in G. TROTTA, G. CAIA e N. AICARDI
(a cura di), Commentario del codice dei beni culturali e del paesaggio, in Le Nuove Leggi Civili
Commentate, cit., 198 ss.; A. ANGIULI, sub art. 146, in A. ANGIULI e V. CAPUTI JAMBRENGHI (a cura di),
Commentario al codice dei beni culturali e del paesaggio, Torino, 2005, 391; V. PARISIO, sub art. 146,
comma 13, in M.A. SANDULLI (a cura di), Il codice dei beni culturali e del paesaggio, cit., 978 ss.
(49) È ovvio che l'interesse allo sviluppo economico e produttivo deve e può andare d'accordo con
quello alla tutela ambientale e paesaggistica. Ma è talmente ovvio che quella dello sviluppo sostenibile
rischia di essere un'enunciazione formale e vuota, poco più che un luogo comune (o un truismo
insignificante o un ossimoro; per il che sia consentito di rinviare a P. CARPENTIERI, La causa nelle scelte
ambientali, cit.).
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delle circostanze, alle quali è sottomessa la situazione giuridica soggettiva "amministrata" dal
provvedimento della pubblica autorità; in tali ordini singolari vengono fissati modalità, oneri, scansioni
temporali di adempimento, ecc.".
In tema di prescrizioni poste in sede di autorizzazione all'esercizio di operazioni di smaltimento e di
recupero dei rifiuti con impianto mobili cfr. recentemente T.A.R. Emilia Romagna, Parma, 1 aprile 2008, n.
206, nella banca dati www.giustamm.it; per una fattispecie in tema di autorizzazione paesaggistica cfr.
Cons. Stato, Sez. VI, 30 novembre 2008, n. 4679, reperibile nella banca dati www.lexitalia.it.
(14) In proposito cfr. SANTINI, Analisi della recente giurisprudenza del Consiglio di Stato in tema di
conferenza di servizi, in Urbanistica e Appalti, 2004, pp. 520-521, nonché CARINGELLA, Corso di diritto
amministrativo, Giuffrè, 2005, tomo II, p. 1575 e ss.
(15) Al riguardo, precisa SANTINI, cit.: "Se dunque il procedimento ammette la partecipazione e la
conferenza sostituisce il procedimento, ne deriva che, per la proprietà transitiva, anche la conferenza
deve ammettere l'intervento dei privati, salvo previsioni normative di segno contrario che tuttavia non è
dato riscontrare".
Archivio selezionato: Dottrina
Ambiente e democrazia: un dibattito
Riv. giur. ambiente 2010, 02, 293
GIUSEPPE MANFREDI,
STEFANO NESPOR
I. MANFREDI: OSSERVAZIONI SU AMBIENTE E DEMOCRAZIA. 1. Problematiche ambientali e forme della
democrazia. 2. Le misure apprestate dall'ordinamento per aumentare la democraticità delle scelte
ambientali. 3. Incertezza scientifica e tecnologica e richiesta di controllo sociale. 4. La sfiducia verso la
democrazia rappresentativa. 5. L'impraticabilità delle forme di democrazia diretta. 6. L'impiego degli
strumenti di democrazia partecipativa e deliberativa. 7. Conclusioni. II. NESPOR: TUTELA DELL'AMBIENTE E
DEMOCRAZIA: CONSIDERAZIONI SULLO SCRITTO DIMANFREDI. III. MANFREDI: AMBIENTE, GLOBALIZZAZIONE, DEMOCRAZIA.
I. MANFREDI: OSSERVAZIONI SU AMBIENTE E DEMOCRAZIA(1)
1. Problematiche ambientali e forme della democrazia.
In ottica sociologica o politologica spesso si rileva che a fronte delle problematiche ambientali le consuete
modalità di funzionamento delle istituzioni democratiche rappresentative tendono a entrare in crisi.
In effetti durante gli ultimi due decenni si sono verificati diversi episodi in cui la realizzazione di interventi
potenzialmente dannosi per l'ambiente o per la salute umana, o sospetti di essere tali, ha suscitato, da
parte di ampi settori delle comunità più direttamente interessate, avversioni e proteste che talora hanno
paralizzato per diverso tempo, e taltra hanno impedito l'attuazione delle scelte degli organi
rappresentativi, e che nel complesso hanno variamente delegittimato l'operato di detti organi.
L'esempio più noto è rappresentato senz'altro dalla vicenda della localizzazione della linea ferroviaria TAV
in Val di Susa, che durante gli scorsi anni ha ricevuto grande attenzione da parte dei mezzi di
comunicazione di massa di rilievo nazionale (2); ma si potrebbero ricordare anche le proteste contro la
realizzazione degli impianti di trattamento dei rifiuti dell'area di Napoli (3), oppure le contestazioni che
qualche tempo fa hanno impedito la localizzazione del deposito nazionale dei rifiuti radioattivi (4).
E sappiamo bene che sarebbe sufficiente scorrere le raccolte dei quotidiani locali di qualsiasi parte d'Italia
per riscontrare numerose vicende analoghe, in occasione della localizzazione di discariche, inceneritori,
impianti che sono fonte di emissioni elettromagnetiche, ecc. (5).
In prospettiva de iure condendo non è mancato chi partendo da una prospettiva politologica ha proposto
di sovvenire alle carenze delle istituzioni della democrazia rappresentativa in subiecta materia addirittura
per il tramite di radicali riforme costituzionali, che comporterebbero la suddivisione del Parlamento in ben
tre diverse Camere, che dovrebbero essere "costituit(e) dalla camera della governance locale
(amministratori, interessi, associazioni locali), dalla camera degli esperti (comprese forme non
convenzionali di esperto), e dalla camera della governance generale..." (6).
Per tacer d'altro un rimedio siffatto oltre a risultare, com'è ovvio, difficilmente praticabile è
evidentemente eccessivo a fronte di un problema che almeno per ora ha natura per lo più settoriale.
2. Le misure apprestate dall'ordinamento per aumentare la democraticità delle scelte
ambientali.
In realtà il nostro ordinamento prevede già una serie di misure che detto in via di prima approssimazione
sono intese ad aumentare la democraticità delle scelte nel settore.
Peraltro misure siffatte sono riconducibili a una tendenza normativa che non riguarda solo il diritto
italiano: per tacer d'altro, già la Dichiarazione di Rio afferma il principio per cui "le questioni ambientali
sono trattate meglio con la partecipazione di tutti i cittadini interessati" (7), e la Convenzione di Aarhus
contiene norme intese ad assicurare il diritto all'informazione in materia ambientale, e la partecipazione
dei cittadini ai processi decisionali in materia d'ambiente "sin dall'inizio della procedura, ovvero quando
tutte le opzioni e le soluzioni sono ancora possibili, e quando il pubblico può esercitare un'influenza
effettiva" (8).
Per quanto riguarda il nostro diritto interno, si possono ricordare numerosi istituti che sono stati introdotti
per autonoma iniziativa del legislatore italiano, oppure in adempimento di obblighi comunitari o
internazionali.
Tra i primi possiamo richiamare i diritti di partecipazione e di azione nei giudizi in tema di ambiente
riconosciuti alle associazioni ambientaliste a partire dalla legge 349/1986 (9).
Tra i secondi, il diritto di tutti i cittadini di accedere alle informazioni in materia ambientale, e quello di
partecipazione ai procedimenti ambientali, e, in particolare, a quelli di valutazione ambientale strategica,
o VAS, e di valutazione di impatto ambientale, o VIA.
Ed è pur vero che a partire dalla legge 241/1990 i diritti di accesso e di partecipazione al procedimento
amministrativo sono divenuti istituti di applicabilità generale, anziché ristretta al solo settore ambientale:
ma è altrettanto vero che nel diritto dell'ambiente essi vengono configurati in modo tale da risultare più
efficaci degli omologhi diritti previsti dalla legge n. 241 (10).
Riguardo all'accesso, basti considerare che nell'art. 3-sexies del cosiddetto Codice dell'ambiente ex D.Lgs.
152/2006 si prevede che "chiunque, senza essere tenuto a dimostrare la sussistenza di un interesse
giuridicamente rilevante, può accedere alle informazioni relative allo stato dell'ambiente e del paesaggio
nel territorio nazionale", e, quindi, si prescinde dall'obbligo che invece discende dagli artt. 22 e ss. della
legge n. 241 di dimostrare la sussistenza di un interesse qualificato ad accedere a un determinato dato.
Sicché l'accesso alle informazioni ambientali risulta funzionale a garantire un vero e proprio controllo
sociale sui dati ambientali in possesso dell'amministrazione, anziché (solo) le posizioni dei singoli
direttamente interessati a un determinato documento amministrativo.
E riguardo alla partecipazione procedimentale, pare sufficiente evidenziare che sempre nel Codice
dell'ambiente si prevede un sistema di informazione del pubblico che è atto a favorire sia la
partecipazione, sia la verifica degli esiti della medesima (11).
Ora, per valutare l'adeguatezza o meno di queste misure al problema di cui s'è detto, pare a chi scrive
che l'approccio più producente sia quello di prendere le mosse dalle ragioni della segnalata insufficienza
delle istituzioni rappresentative.
3. Incertezza scientifica e tecnologica e richiesta di controllo sociale.
Come avviene per la più parte dei fenomeni sociali, anche quello che qui interessa deriva da una pluralità
di fattori: a esso ad esempio ha contribuito senz'altro la scarsa attenzione che veniva dimostrata dalle
istituzioni rappresentative per le problematiche ecologiche negli anni Sessanta e Settanta dello scorso
secolo, quando la sensibilità ambientale non era ancora diffusa, e sembrava appannaggio solo di poche
"anime belle" (12).
Nondimeno, il fenomeno in parola sembra avere (anche) ragioni più profonde, e più durature, se non
altro perché esso persiste tuttora, quando l'originaria indifferenza delle istituzioni per l'ambiente e per
l'ecologia è stata superata ormai da vari decenni.
La prima (principale) ragione del fenomeno in discorso sembra dunque risiedere nelle ricadute del
mutamento della percezione sociale dell'innovazione scientifica e tecnologica che si è verificato negli
ultimi tempi.
Cercando di semplificare al massimo grado un complesso di questioni estremamente articolato, in
proposito si può ricordare innanzitutto un dato abbastanza scontato, ossia che per com'è oggi la nostra
società è in gran parte il frutto del progresso scientifico e tecnologico iniziato nel XIX secolo.
Il che aveva condotto a un atteggiamento di fiducia acritica nella scienza e nella tecnologia (13), che si
traduceva in una sorta di positivismo, o scientismo abbastanza ingenuo, di cui potrebbe considerarsi
paradigmatico ad esempio il famoso ballo excelsior con cui a fine ottocento la borghesia milanese
celebrava le invenzioni e le grandi opere del periodo, quali il telegrafo, il piroscafo, il canale di Suez, ecc.
In realtà questo atteggiamento è tutt'altro che scientifico, e, anzi, stride con i canoni del pensiero
scientifico contemporaneo, che in generale tende a ridiscutere costantemente i risultati a cui di volta in
volta perviene, e spesso ammette di non poter fornire certezze su determinati problemi (14).
Del che peraltro si trova una chiara conferma proprio nella scienza che ha come oggetto le problematiche
ambientali, ossia l'ecologia, dato che la peculiare complessità dei fenomeni ambientali fa sì che questa
disciplina, pur non essendo ovviamente priva di capacità esplicativa degli accadimenti che riguardano
l'ambiente, si caratterizzi per una capacità predittiva abbastanza limitata, sicché le si attaglia senz'altro
ciò che è stato espressivamente definito come il paradigma della scienza incerta (15).
Quando però negli scorsi decenni e soprattutto a partire dagli anni Sessanta del Novecento numerose
innovazioni scientifiche e tecnologiche hanno preso a rivelarsi dannose o pericolose per l'ambiente o per
la salute umana, anche l'atteggiamento di cui s'è detto pur non essendo mai stato integralmente
superato ha iniziato a incrinarsi (16).
Per quanto qui interessa, le tendenze culturali e sociali che ne sono venute (17) sembrano convergere
nella richiesta di un maggior controllo sociale sulle concrete applicazioni delle nuove tecnologie,
soprattutto quando esse sono suscettibili di incidere sull'ambiente o sulla salute (18).
Sia detto per inciso che una tale richiesta non può considerarsi tout court come espressione di un qualche
atteggiamento antiscientifico e antitecnologico: in definitiva gli studi sociologici più recenti dimostrano
che pure i progressi scientifici sono influenzati da una serie di complesse interazioni tra scienza e società,
o, se si preferisce, dal contesto sociale in cui si collocano (19), sicché essa per certi aspetti si limita a
esplicitare e a rendere trasparente ciò che avveniva anche in passato.
4. La sfiducia verso la democrazia rappresentativa.
Questa richiesta di un maggior controllo sociale sulla applicazione della tecnologia sembra però
suscettibile di essere incanalata solo in parte nelle istituzioni rappresentative (20).
Alla richiesta in discorso si è infatti sommato anche un atteggiamento, negli ultimi tempi abbastanza
diffuso in tutte le democrazie occidentali, di sfiducia nei confronti della rappresentanza politica.
Si tratta di un atteggiamento che talora viene fin troppo enfatizzato: ma che, nondimeno, non può
considerarsi interamente privo di giustificazioni.
Procedendo anche qui per semplificazioni estreme, non va dimenticato che ciò che oggi definiamo come
democrazia rappresentativa deriva dalla rielaborazione settecentesca e ottocentesca dei concetti di
governo rappresentativo e di repubblica, che originariamente si ponevano in dichiarata contrapposizione
rispetto alle forme democratiche dell'antichità, perché tramite essi si volevano evitare i pretesi
inconvenienti della democrazia diretta, ossia, per usare la famosa definizione di Constant, della
democrazia degli antichi (21): in sostanza, la scelta dei rappresentanti attraverso le elezioni veniva vista
come uno strumento per assicurare il governo di una vera e propria aristocrazia democratica (22).
D'altro canto, è ampiamente noto che molte delle correnti democratiche più radicali, e soprattutto quelle
di matrice marxista, in passato negavano recisamente che i sistemi di governo rappresentativi potessero
considerarsi autenticamente ascrivibili alla democrazia (23).
Certo, vero è che i caratteri originari della democrazia rappresentativa nel corso del tempo si sono
modificati, e profondamente, per effetto di una serie di fattori tra cui ovviamente spicca l'entrata o
l'irruzione in scena delle masse popolari avvenuta mercé l'introduzione del suffragio universale: ma resta
innegabile che questa forma di democrazia sin dall'inizio fu destinata a oscillare tra i due poli costituiti
dall'autogoverno del popolo e dall'oligarchia.
Peraltro è noto pure che a partire dalla fine dell'ottocento si sviluppa una linea di pensiero a cui sono
ascrivibili l'elitismo competitivo, e tutte le teorie cosiddette realiste della democrazia , che, assumendo di
analizzare i processi democratici in termini realistici, giunge ad affermare che in definitiva "il metodo
democratico è lo strumento istituzionale per giungere a decisioni politiche, in base al quale singoli
individui ottengono il potere di decidere attraverso una competizione che ha per oggetto il voto
popolare" (24).
In quest'ottica la democrazia rappresentativa si risolve dunque nella competizione tra le varie élite per la
conquista dei consensi degli elettori, e, quindi, del potere politico: e, ovviamente, risulta ben lungi dal
poter assicurare una qualche forma di autogoverno, dato che finisce piuttosto col rappresentare null'altro
che una variante, o, meglio, un (efficacissimo) completamento degli strumenti di garanzia apprestati dal
costituzionalismo liberale, poiché si sostanzia in "un sistema di controllo e di limitazione del potere" (25).
E in ultima analisi da questa linea di pensiero non si discostano più di tanto neppure quelle concezioni
pluralistiche della democrazia che hanno avuto ampia diffusione negli ultimi anni: quale quella, notissima,
di Dahl, per cui la democrazia rappresentativa è ancora una volta ben lungi dal costituire una qualche
forma di autogoverno, dato che essa si risolve piuttosto in una poliarchia, ossia nella compresenza di
diversi gruppi di interesse di cui nessuno riesce a prevalere in via definitiva sugli altri, talché le scelte
politiche rappresentano l'esito finale di un processo di contrattazione tra detti gruppi (26).
Va detto però che anche nel pensiero politologico recente non mancano concezioni della democrazia
rappresentativa diverse da quelle appena richiamate: ad esempio, quella di chi sottolinea che per il
tramite della rappresentanza politica si realizza una partecipazione dei cittadini alle scelte politiche che è
ulteriore alla mera designazione dei rappresentanti, tramite i rapporti di comunicazione che si instaurano
tra elettori ed eletti anche al di fuori delle competizioni elettorali (27).
Prospettive di questo genere risultano senz'altro accattivanti: nondimeno, la loro attendibilità sembra
messa in forse da una serie di dati che probabilmente stanno venendo interamente a emersione solo
negli ultimi tempi.
Alla fin fine prospettive siffatte si basano pur sempre, esplicitamente o implicitamente, sul ruolo svolto
dall'opinione pubblica nel condizionare le élite al potere: ma è innegabile che gli assetti odierni dei mezzi
di comunicazione di massa sembrano condurre a situazioni di apatia degli utenti che dell'archetipo di
un'opinione pubblica dotata di consapevolezza e di senso critico rappresentano l'esatto opposto; e,
quindi, alla diffusione di forme di cittadinanza meramente passiva (28) (in definitiva, una situazione in
cui, per riprendere una nota espressione di Stuart Mill, i cittadini rischiano di costituire null'altro che "un
gregge di pecore pascolanti fianco a fianco") (29).
In realtà, la prospettiva più plausibile sembra quella di chi di recente ha evidenziato che ogni forma di
democrazia (non esclusa dunque la democrazia rappresentativa) ha l'"essere in crisi" come "condizione
naturale", perché essa non può che trovarsi "in conflitto perenne (...) contro le oligarchie sempre
rinascenti nel suo interno" (30).
Ma dato che probabilmente ci troviamo in un momento storico in cui l'oscillazione tra l'autogoverno e
l'oligarchia di cui s'è detto ci ha condotti più vicini all'oligarchia anziché al suo opposto, i sentimenti di
sfiducia risultano senz'altro comprensibili.
5. L'impraticabilità delle forme di democrazia diretta.
Sarebbe però affrettato ritenere che il controllo sociale di cui s'è detto possa realizzarsi tramite un
qualche recupero di forme di vera e propria democrazia diretta.
Probabilmente è vero che per lungo tempo la democrazia degli antichi è stata vittima di una serie di
pregiudizi negativi (31): nondimeno, è abbastanza evidente che la democrazia diretta per tutta una serie
di aspetti risulta scarsamente compatibile sia con gli assetti della società contemporanea, sia, per quanto
qui più direttamente interessa, con le stesse esigenze della gestione degli interessi ambientali.
E ciò, in primo luogo, ove questa forma di democrazia tende a radicalizzare le differenze di posizione,
poiché ogni scelta deve necessariamente tradursi in una sorta di gioco a somma zero tra due sole
alternative: e questa caratteristica, intuibilmente, cozza con quella complessità che della società
contemporanea costituisce un dato costitutivo, e affatto ineliminabile (32), la quale invece richiede
articolate mediazioni tra una pluralità di interessi (33).
Ed è abbastanza scontato pure che in una società complessa anche la tutela degli interessi ambientali e
della salute umana non può prescindere da una adeguata comparazione, e composizione, di questi
interessi con gli interessi di diversa natura: non a caso il diritto comunitario prevede come corollario del
principio dello sviluppo sostenibile il principio di integrazione, che postula appunto un costante confronto
tra le esigenze di tutela dell'ambiente e le altre esigenze delle collettività umane (34).
E, in secondo luogo, perché la democrazia diretta può funzionare con una qualche efficacia solo in
comunità di dimensioni ridotte, ossia a livello locale (35) si sa che i tentativi di applicarla anche in
contesti più ampi, in particolare mediante il sistema dei soviet, non hanno avuto successo, e non hanno
lasciato un buon ricordo .
Ma si sa che il livello locale risulta affatto inadeguato per la gestione della più parte delle questioni
ambientali.
Se, infatti, si mette a confronto in sede locale un interesse che riguarda la collettività intera (al limite,
anche un interesse ambientale) con un interesse ambientale o di tutela della salute localizzato sul
territorio, è intuibile che ben difficilmente si può evitare l'insorgere di atteggiamenti di particolarismo
localistico di un qualche tipo, ossia della tanto paventata sindrome nimby(36).
D'altro canto, quello del particolarismo è un problema vecchio almeno quanto la democrazia, che
praticamente da sempre si trova a pencolare tra il pericolo che le "associazioni parziali" (37) possano
infirmare la volontà della maggioranza, e quello, opposto, della tirannia della maggioranza sulla
minoranza, o sulle minoranze.
Le democrazie contemporanee hanno elaborato tutta una serie di strumenti intesi a evitare l'uno e l'altro
pericolo, che attraverso successive stratificazioni sono venuti a creare un complesso aggregato di pesi e
contrappesi (38).
Tra di essi lo strumento più recente e più raffinato probabilmente è il principio di sussidiarietà, che ora
viene espressamente enunciato nel nuovo testo dell'art. 118 Cost., e che nell'accezione di sussidiarietà
verticale prevede l'allocazione delle funzioni al livello di governo più prossimo al cittadino: ma solo ed
esclusivamente quando siffatta allocazione non pregiudichi la possibilità di svolgimento delle dette
funzioni (39).
Ed è proprio per evitare la sindrome nimby che il nostro ordinamento, in attuazione del detto principio,
tende ad allocare molte delle funzioni ambientali a livello statale o a livello regionale, anziché a livello
meramente locale (40).
6. L'impiego degli strumenti di democrazia partecipativa e deliberativa.
Se, dunque, nemmeno la democrazia diretta può costituire una risposta adeguata per le esigenze in
discorso, non deve stupire se a tal fine il nostro ordinamento, al pari di quelli di diversi altri paesi
occidentali, ha preso a impiegare gli strumenti che in genere vengono ascritti a ciò che da ultimo viene
definito democrazia partecipativa, oppure democrazia deliberativa.
Dato che entia non sunt multiplicanda sine necessitate (soprattutto a fronte di concetti che, come quelli
che qui interessano, si prestano a essere sovraccaricati di significati per ragioni ideologiche) va detto
immediatamente che la nozione di democrazia partecipativa (41) che, pure, talora viene presentata come
fortemente innovativa nei suoi tratti essenziali non pare dissimile da nozioni che nel dibattito giuridico e
giuridico-politico sono in circolazione da vari decenni, ossia dalla democrazia amministrativa, o, se si
preferisce, dalla partecipazione con finalità di controllo democratico.
Come noto, tramite quest'ultima nozione già negli anni Sessanta del Novecento in buona sostanza si
postulava di attuare forme di partecipazione popolare diretta all'esercizio della funzione amministrativa
(42).
E dopo il tramonto della stagione della partecipazione collegiale (43), questa linea di pensiero è alla base
della generalizzazione della partecipazione al procedimento amministrativo attuata tramite la legge n.
241 del 1990 (44) anche se va detto che talvolta questo significato della partecipazione procedimentale
viene offuscato dal fatto che essa adempie anche alla funzione di consentire il contraddittorio con i
soggetti direttamente interessati dal provvedimento emanando .
La nozione di democrazia deliberativa è poi suscettibile di sortire esiti non dissimili da quelli della
democrazia partecipativa (o, se si preferisce, della democrazia amministrativa), anche se la prima
nozione si connota per essere originaria della cultura anglosassone, e in nuce si ricollega alle note tesi di
Habermas sull'agire comunicativo, per cui il dialogo con i diversi attori sociali dovrebbe servire a
ottenerne il consenso razionale sui temi di generale interesse (45).
Il peculiare fondamento di quest'ultima nozione peraltro ci dà il destro anche di evidenziare i principali
inconvenienti e i principali limiti di queste forme di democrazia.
Ora, l'idea di conseguire il consenso per il tramite di una discussione razionale è quanto mai condivisibile
sul piano assiologico.
Nondimeno, dato che non pare possibile che per questa via si possa giungere sempre e in ogni caso ad
appianare ogni e qualsivoglia disaccordo, essa può tradursi in una tendenza all'unanimismo, la quale,
intuibilmente, può a sua volta portare senz'altro all'impossibilità di giungere a una decisione in tempi
ragionevoli, se non addirittura all'inazione: in altri termini, il problema è sempre quello indicato con il
caveat sibi Polonia che Ruffini richiamava a sostegno del principio maggioritario (46).
Ma non solo: queste forme di democrazia sembrano affette da una sorta di variante di quel paradosso del
voto che, notoriamente, si riscontra nella democrazia rappresentativa, dato che esse in concreto
sembrano passibili di coinvolgere solo percentuali di cittadini che addirittura sono nettamente inferiori a
quelle dei partecipanti alle consultazioni elettorali (47).
Probabilmente ciò avviene perché gli argomenti con cui Constant sosteneva la superiorità della
democrazia rappresentativa rispetto alla democrazia diretta colgono nel segno ove evidenziano che la
prima forma di democrazia, a differenza della seconda, lascia ai cittadini il tempo di dedicarsi anche ad
altre attività (48): e, si potrebbe aggiungere, non solo alle attività economiche, su cui Constant
appuntava la sua attenzione, ma anche alle attività culturali, religiose, artistiche, ecc.
In definitiva, la cittadinanza attiva è un ideale senz'altro nobilissimo, ma esso non sembra essere
perseguibile a tutti i costi e fino in fondo in una società complessa e articolata quale quella odierna (49).
Per cui, per evitare che la democrazia partecipativa (o deliberativa) si traduca anch'essa nel governo di
una élite, seppure dei partecipanti anziché degli eletti (sempre che le due élite non si intersechino o non
si colleghino, dato che pare inevitabile che una qualche forma di ricerca, o di manipolazione del consenso
trovi spazio anche in questo contesto), probabilmente l'unica soluzione concretamente praticabile è quella
di cercare di conciliare gli strumenti di partecipazione con i meccanismi di formazione delle scelte di
generale interesse tipici della democrazia rappresentativa (50).
E ciò può avvenire attraverso i percorsi che, come s'è detto, in parte sono già stati intrapresi da parte del
legislatore, ossia attraverso l'attribuzione ai cittadini singoli o associati di una serie di poteri intesi a
controllare e stimolare l'attività delle istituzioni: e, in particolare, nel contesto dei procedimenti
amministrativi, acquisendo sì gli apporti partecipativi dei cittadini, ma lasciando però la decisione finale a
un organo rappresentativo, oppure a un organo amministrativo inserito in una struttura governata da
organi rappresentativi, e, quindi, dotato anch'esso di una legittimazione di tipo rappresentativo (51).
In caso contrario, paradossalmente si correrebbe il rischio di andare verso una qualche sorta di governo
di una minoranza sulla maggioranza, ossia di tornare verso ciò che della democrazia costituisce l'esatto
opposto.
7. Conclusioni.
Alla luce di quanto s'è visto, appare dunque evidente che la tendenza del nostro ordinamento a sovvenire
alla richiesta di cui s'è detto soprattutto mediante forme di partecipazione ai procedimenti ambientali che
sono ascrivibili alla democrazia partecipativa costituisce una sorta di scelta obbligata.
Vero è che questi strumenti sono senz'altro ampiamente, o amplissimamente, perfettibili, dato che
svariati aspetti della loro disciplina prestano anzi il fianco a critiche di vario genere.
Ad esempio, in relazione alle modalità della partecipazione, che il Codice ex D.Lgs. 152/2006 ha
disegnato ancora secondo il modello, frusto e scarsamente efficace, delle osservazioni scritte sugli atti di
pianificazione che risale almeno alla legge urbanistica n. 1150 del 1942, invece di implementare lo
strumento dell'inchiesta pubblica (che, pure, è contemplato nelle direttive comunitarie sulle valutazioni
ambientali), se non come opzione meramente facoltativa per l'amministrazione procedente, e per di più
in relazione al solo procedimento di VIA, mentre, a ben vedere, le esigenze di controllo democratico
risultano se possibile ancor più impellenti nel procedimento di VAS (52).
È infatti di tutta evidenza che per il tramite di osservazioni in forma scritta risulta decisamente difficile
instaurare una qualche forma di dialogo o di discussione razionale, e, quindi, raggiungere gli obiettivi che
si ripropongono le correnti di pensiero afferenti alla democrazia deliberativa.
Senza poi considerare che il legislatore ben potrebbe riprendere (e rielaborare) anche quelle ancor più
innovative modalità di partecipazione che (in parte prendendo spunto proprio delle proposte che vengono
dagli studi sulla democrazia deliberativa), sono già state ampiamente implementate nella legislazione
regionale o nella normativa emanata da singoli Comuni sui procedimenti urbanistici, quali consultazioni
con le parti sociali, sondaggi deliberativi, ecc.(53).
Ma d'altro canto sappiamo bene che nel nostro ordinamento spesso la partecipazione è stata vista e,
purtroppo, viene vista tuttora come un intralcio, tant'è che nella produzione normativa recente non sono
mancati neppure interventi intesi a depotenziare persino le stesse forme partecipative (non
particolarmente avanzate) che sono previste in via generale dalla legge n. 241 del 1990 (54): l'esempio
più tipico è costituito senz'altro dalla disposizione, estremamente discussa, di cui all'art. 21-octies, che è
stata introdotta nella legge n. 241 dalla legge n. 15 del 2005 (55).
Ed è probabilmente a causa della estrema arretratezza dei modelli che vengono impiegati dal legislatore
statale che sinora la partecipazione democratica nel settore ambientale non ha ancora potuto spiegare
tutte le proprie potenzialità.
Certo, sarebbe illusorio credere che l'implementazione di forme di democrazia siffatte possa risolvere ogni
e qualsivoglia forma di dissenso sulle scelte ambientali: come s'è già visto, l'unanimismo non pare
concretamente perseguibile in un contesto sociale articolato quale quello odierno, ove possono trovarsi a
collidere addirittura interessi che abitualmente vengono accomunati nel generale interesse alla tutela
dell'ambiente sintomatico è ad esempio il caso della collisione tra tutela del paesaggio e reperimento di
fonti di energia rinnovabile che è sorto in occasione della realizzazione degli impianti eolici (56) .
Per tutto quanto sopra non sembrano dunque praticabili percorsi che vadano al di là della democrazia
partecipativa, e che (anche a prescindere da vincoli costituzionali di una qualche sorta) conculchino la
preferenza del nostro ordinamento per le forme della democrazia rappresentativa (57), perché una
qualche diversa soluzione rischierebbe di andare inintenzionalmente a inficiare, anziché a incrementare,
la stessa complessiva democraticità delle scelte in tema di ambiente.
II. NESPOR: TUTELA DELL'AMBIENTE E DEMOCRAZIA: CONSIDERAZIONI SULLO SCRITTO DIMANFREDI (58)
1. Il contributo di Giuseppe Manfredi tocca l'argomento, di grande importanza anche se assai trascurato,
specialmente in Italia, del rapporto tra tutela dell'ambiente e democrazia. Le considerazioni di Manfredi
prendono le mosse da alcune recenti vicende italiane: le proteste per la localizzazione della TAV, quelle
contro la localizzazione degli impianti di smaltimento rifiuti in Campania, e, prima, contro la localizzazione
dei rifiuti radioattivi. Non bisogna però pensare che vicende analoghe non si verifichino in tutti i paesi
democratici. Sono vicende che mettono in evidenza la frizione, allorché si tratta di adottare interventi che
coinvolgono la tutela dell'ambiente, tra diversi livelli e diverse concezioni della democrazia: tra
democrazia diretta e democrazia rappresentativa, tra diverse modalità di valutazione degli interessi in
gioco, tra interessi locali (di cui è espressione la sindrome Nimby) e interessi generali.
Va subito sgombrato il campo da una diffusa convinzione. Non è affatto detto che la democrazia diretta e
gli interessi locali offrano una migliore tutela dell'ambiente. La scelta, non solo italiana, di affidare il tema
dell'ambiente al livello nazionale, può esprimere, nel suo versante negativo, il tentativo accentratore di
azzittire le voci, le domande, le proteste che sorgono a livello locale, ma, nel suo versante positivo, è la
conseguenza del fatto che l'ambiente travalica le realtà locali (e, come diremo, anche nazionali) e sottrae
quindi le scelte di tutela dell'ambiente a pressioni particolaristiche.
Manfredi osserva che la correzione di queste frizioni tra centro e periferia che coinvolgono la tutela
dell'ambiente è stata affidata, nel corso degli ultimi decenni, all'espansione e all'intensificazione di istituti
di partecipazione allargati a tutti coloro che sono coinvolti dalle decisioni assunte, dando luogo a un
complesso di soluzioni note con la denominazione di democrazia partecipativa (sul punto, rinviamo al
saggio di Allegretti, citato anche dall'Autore) (59). Si tratta di una forma di democrazia che privilegia,
rispetto all'imposizione unilaterale di decisioni in questa materia, il dibattito come metodo di ricerca del
consenso e la consapevolezza della provvisorietà politica e morale delle decisioni perché sempre
suscettibili di revisione e di modifica alla luce di nuovi apporti e di più approfonditi contributi (60).
Più in generale, è constatazione ormai comune che la democrazia o meglio, quella che oggi intendiamo
per democrazia è ben di più che indire elezioni: ormai le elezioni ci sono in quasi tutti gli Stati (salvo
alcuni paesi dell'Asia dell'Est e vari paesi arabi) e, in misura crescente, sono truccate (61). La democrazia
è anche, tra l'altro, un sistema giudiziario e una Pubblica amministrazione indipendenti dal potere politico,
uno stato di diritto, garanzie adeguate per il diritto di proprietà, la libertà di informazione, e poi,
trasparenza e tolleranza.
2. Queste frizioni tra tutela dell'ambiente e democrazia non sono limitate all'interno del livello statale:
esse si verificano se prendiamo in considerazione il rapporto tra livello statale e il livello soprastatuale.
Con l'affermarsi della globalizzazione si è infatti formato e consolidato a livello sopranazionale un sistema
decisionale basato non più solo su accordi e trattati stipulati tra Stati, ma su una rete di istituzioni e di
organismi formali e informali, e sull'intrecciarsi di meccanismi, di relazioni, di processi, di accordi di
natura privatistica che coinvolgono, oltre che gli stati, organizzazioni pubbliche e private, agenzie con
compiti settoriali, operatori finanziari e commerciali che operano a livello internazionale e nazionale. È un
sistema per lo più sottratto a controllo e privo di trasparenza del quale molti hanno denunciato la
pericolosità e l'incompatibilità con i princìpi di rappresentanza politica e di democrazia che dovrebbero
stare alla base dell'operare della comunità internazionale.
Gli esempi al riguardo non mancano. La dislocazione e le attività delle multinazionali petrolifere,
minerarie, agroalimentari e di sfruttamento delle risorse forestali in molti paesi poveri avvengono
attraverso trattative con i Governi che portano ad accordi che raramente sono resi pubblici (e ancora più
raramente producono benefici per le popolazioni coinvolte); lo stesso può dirsi di molti accordi
commerciali e finanziari che spesso influenzano lo sviluppo economico di interi paesi senza che le
collettività interessate per lo più apprendono a giochi ormai fatti.
Eppure, l'aspetto per molti versi paradossale è che la tutela dell'ambiente, pur risentendo pesantemente
di questo deficit di democrazia, tende tuttavia a sfuggire al livello statale, e quindi al livello di maggior
contenuto democratico, e a concentrarsi proprio nel livello soprastatale e nelle organizzazioni
internazionali.
Questo accade per alcune ragioni oggettive.
Innanzi tutto (già si è accennato), l'ambiente pone problemi che per la loro dimensione e per il loro
impatto non possono essere affrontati a livello statale: il cambiamento climatico offre l'esempio più
evidente, ma lo stesso può dirsi per la gestione e il traffico di rifiuti, o per la desertificazione. Vi sono poi
altre ragioni che concorrono nello spostare la tutela dell'ambiente al livello sopranazionale. La più
importante è che occuparsi dell'ambiente non porta voti (anche perché, come è stato osservato, le balene
non votano). Questo significa che le decisioni di carattere ambientale sono assai difficili da assumere per i
Governi, eletti sempre in una prospettiva di breve periodo (i pochi anni di durata di un mandato
elettorale), che costituiscono poi l'orizzonte, ma anche il recinto, della democrazia rappresentativa.
Per questo uno dei padri fondatori del diritto ambientale europeo, Ludwig Krämer, soleva affermare che
l'aspetto che accomuna tutti gli Stati membri dell'Unione Europea è che nessuno di essi vuole difendere il
proprio ambiente, ma tutti sono contenti di essere obbligati a farlo. Lo spostamento delle decisioni
ambientali a livello sopranazionale e la trasformazione dell'attività dei governanti nazionali da assunzione
di responsabilità di una scelta politica in mero obbligo di eseguire scelte che vengono imposte dall'alto
(magari lamentandone la scarsa democraticità) è, sotto questo profilo, il meccanismo che sinora ha
permesso la tutela dell'ambiente senza compromettere le sorti elettorali dei vari Governi.
L'aspetto però interessante è l'analogia con la vicenda descritta da Manfredi: proprio come accade
nell'ambito nazionale, anche a livello sopranazionale il deficit di democrazia è, sia pur parzialmente e
limitatamente a taluni aspetti, temperato dall'espansione di meccanismi di partecipazione e di
consultazione e cioè proprio da quegli istituti di democrazia partecipativa su cui ci siamo poc'anzi
soffermati.
Si tratta di un'espansione che trova il suo fondamento da un lato nell'affermarsi del diritto ambientale a
livello internazionale, e quindi nella progressiva erosione dell'area oscura riservata alla politica e
all'arbitrarietà, dall'altro lato nel tumultuoso sviluppo della società civile e della pubblica opinione globali
e nella pressione che viene così esercitata sul potere economico, finanziario e politico: si parla spesso
anche di una cittadinanza ambientale globale e sono ormai migliaia e migliaia le organizzazioni
indipendenti che operano e fanno sentire la loro voce nei più svariati settori, e in particolare nell'ambiente
(62). Affermarsi del diritto e sviluppo della società civile producono così, nel livello globale, una poderosa
controspinta democratica e operano per l'introduzione, anche a questo livello, di principi di democrazia
partecipativa rispetto al deficit democratico e alla riduzione della trasparenza cui abbiamo accennato (pur
sollevandosi da molte parti dei dubbi sulla effettiva democraticità delle espressioni della società civile e
delle istituzioni che la rappresentano).
Nel libro Il diritto globale Sabino Cassese descrive l'affascinante sviluppo di questa regola dalle sue
limitate applicazioni nel diritto romano (quod omnes tangit) all'attuale conformazione di principio cardine
della sovranità popolare e, appunto, della democrazia partecipativa (63) per verificare come il principio
democratico del consenso si sia esteso agli ordinamenti giuridici globali.
Il problema da risolvere, in prospettiva, è quello di individuare la collettività a cui è necessario fare
riferimento per decidere attività che incidono sul futuro assetto ambientale, stabilendo se essa debba
includere anche coloro che, pur non avendo giuridicamente diritto di partecipare alle decisioni, ne
risentono comunque gli effetti: è evidentemente il caso di tutte le decisioni che incidono negativamente
sull'ambiente, e specificatamente sull'equilibrio climatico, e producono effetti sull'intera popolazione
mondiale, pur essendo assunte solo dalle ben più ristrette collettività interessate a conseguirne gli effetti
favorevoli in termini di sviluppo economico e di benessere (64). Sembrerebbe del tutto ragionevole che,
per esempio, sulle decisioni degli Stati Uniti o della Cina che coinvolgono e deteriorano l'ambiente globale
debbano potersi pronunciare, in considerazione del loro impatto, anche coloro che ne subiscono oggi o in
un prossimo futuro gli effetti (così come si ritiene del tutto ragionevole che sulle decisioni statali che
producono gli effetti sull'ambiente a livello locale la collettività coinvolta debba essere sentita).
Questa soluzione, seppur ragionevole, urta attualmente contro principi consolidati del diritto
internazionale e contro lo stesso principio (ancorché su più versanti sfibrato) di sovranità. Eppure sono
maturi i tempi per parlare di questo argomento, tenendo conto di due aspetti: da un lato che questi
principi sono stati concepiti ben prima che si potesse immaginare che le scelte di uno stato potessero
produrre effetti potenzialmente gravi e irreversibili sull'ambiente globale, d'altro lato che la democrazia
moderna è stata pensata nel quadro dello stato nazione, un organismo ormai liso e inefficiente per
confrontarsi con i grandi problemi che ci stanno avanti.
3. C'è infine un'altra possibile forma di frizione tra tutela dell'ambiente e democrazia, oltre a quello di cui
si occupa lo scritto di Manfredi ed a quello sovra statuale su cui ci siamo appena soffermati: è la
contrapposizione di tutela dell'ambiente e democrazia nella dimensione intertemporale.
Si tratta di una questione che, per lo piè, è stata affrontata all'interno di un dibattito in merito
all'esistenza di diritti (non solo ambientali) delle generazioni future, sviluppatosi sin dagli anni Settanta
del secolo scorso, dapprima ad opera di alcuni filosofi, ma poi con un'ampia ricaduta sul pensiero eticogiuridico di matrice ambientalista.
Il dibattito ha però assunto nuovo impulso negli ultimi anni, soprattutto come conseguenza, ancora, del
cambiamento climatico e delle sempre più cupe previsioni dei suoi devastanti effetti a partire da un non
lontano futuro. Più in generale, con l'aumentare dell'impatto dell'uomo sull'ambiente e del degrado che
esso provoca, sempre più consistente si presenta lo spettro del futuro ambientale che lasciamo in eredità
a coloro che ci seguiranno.
Gli scritti in proposito si sono focalizzati intorno a tre temi, solo l'ultimo dei quali attiene direttamente al
tema del rapporto tra tutela dell'ambiente e democrazia.
È stato discusso, sotto un primo profilo, se le obbligazioni dei presenti per la conservazione e la tutela
dell'ambiente futuro debbano intendersi come veri e propri obblighi giuridici, oppure come vincoli di
carattere etico, oppure ancora come obiettivi moralmente rilevanti [si veda in proposito il fondamentale
saggio di Brian Barry (65); il tema è stato ampiamente trattato, tra gli altri, anche da John Rawls (66) e
Derek Parfit (67)].
Poi, sotto un secondo profilo, è stato discusso se sia giuridicamente e moralmente giusto occuparsi della
conservazione dell'ambiente futuro e degli interessi delle generazioni future provocando in questo modo
inevitabili lesioni al diritto allo sviluppo e delle popolazioni dei paesi poveri. Sono infatti i paesi poveri che
sopportano le conseguenze di scelte volte a ridurre l'uso di risorse naturali e i consumi energetici, perché
vengono bloccati nell'attuazione del loro diritto allo sviluppo (che, non va dimenticato, è stato
riconosciuto dalle Nazioni Unite come un diritto umano). Si pone quindi il problema del rapporto di
eventuali obblighi di equità intergenerazionale con gli obblighi di equità interspaziale nei confronti
dell'ampia porzione della generazione presente che vive in condizioni di povertà e sottosviluppo.
C'è poi, come anticipato, un terzo importante profilo. Esso concerne l'idoneità degli attuali sistemi
democratici a tutelare i diritti delle generazioni future e, specificatamente, i diritti a godere di un
ambiente non degradato e idoneo a consentire una sufficiente qualità della vita.
In sintesi, la domanda è: la democrazia come è attualmente intesa è adatta a tutelare l'ambiente, al di là
di quelli che sono interessi temporalmente limitati e ristretti al godimento dell'ambiente da parte delle
generazioni presenti?
Naturalmente, la domanda non ha senso per tutti coloro che condividono l'idea di Winston Churchill
secondo cui il presente è sempre meglio del passato e il futuro è sempre meglio del presente. Questa
concezione, che esprime nel modo più icastico la fiducia nel progresso, esclude il dovere di preoccuparsi
per le generazioni future: staranno comunque meglio di noi, quindi non c'è motivo di impensierirsi.
Ha invece senso per tutti coloro che ritengono che il futuro potrebbe anche non essere meglio del
presente (e, d'altro canto, l'esperienza insegna che anche il presente non è sempre meglio del passato:
proprio la storia del ventesimo secolo e delle guerre e sofferenze che lo hanno caratterizzato offre la
dimostrazione che per molti il passato era stato migliore del presente).
Tra costoro, ci sono molti che dubitano che il sistema democratico così come oggi è formulato garantisca
una tutela dell'ambiente che va oltre gli interessi dei presenti.
Il documento più importante che esprime questo punto di vista è il ben noto Rapporto Our Common
Future del 1987 (noto anche come Bruntland Report) redatto dalla Commissione mondiale su Ambiente e
sviluppo istituita nel 1984 dalle Nazioni Unite: lì si afferma che "noi non ci occupiamo delle condizioni
dell'ambiente e agiamo come agiamo perché nessuno può impedircelo: le generazioni future non votano,
non hanno alcun potere politico o finanziario, non possono contestare le nostre decisioni" (68). Nello
stesso senso ha osservato, qualche anno dopo, l'ex presidente tedesco von Weizsäcker che "ogni
democrazia è strutturalmente fondata sulla glorificazione del presente e sul rifiuto del futuro".
Secondo Dennis Thompson la democrazia è "sistematically biased in favour of the present" (69).
Le conseguenze che derivano da queste considerazioni sono inquietanti: esse infatti sembrano
comportare che la democrazia, comunque intesa, faccia male all'ambiente e che, per converso, una
efficace protezione dell'ambiente di lungo periodo richieda una riduzione del livello di partecipazione
democratica, in modo da consentire di assumere decisioni ambientali sgradite agli elettori ma utili (o
addirittura necessarie) in una prospettiva di lungo periodo (70).
Questa conclusione, lo abbiamo visto, trova conferma nello spostamento della tutela dell'ambiente ai
livelli sovrastatuali, dove minore è il tasso di democraticità degli organismi preposti alle decisioni.
Sono state proposte varie modalità per ottenere questo risultato di riduzione della partecipazione
democratica vincolando le democrazie al rispetto dell'ambiente futuro.
Un primo gruppo di proposte suggerisce l'introduzione di norme di rango costituzionale particolarmente
rafforzate per la tutela dell'ambiente e per garantire un uso sostenibile delle risorse o, in un versante
soggettivizzato, per tutelare il diritto di ciascuno, nel presente e nel futuro, ad un ambiente sostenibile
(quest'ultimo, come si sa, è da molti considerato come un vero e proprio diritto umano fondamentale)
(71). Questa proposta, tuttavia, presuppone una fiducia eccessiva sulla forza vincolante delle norme
costituzionali di principio: è sotto gli occhi di tutti come le norme di rango costituzionale siano facili da
introdurre e altrettanto facili da manipolare o accantonare.
Un altro gruppo di proposte suggerisce una modifica strutturale del concetto di democrazia, compensando
la riduzione della partecipazione democratica nel presente con una espansione della partecipazione verso
il futuro. In questo modo si raggiungerebbe il risultato di dare voce a chi non l'ha (voice to the voiceless),
realizzando obiettivi di equità intergenerazionale.
Si tratta di un risultato che rispecchia, sia pure in una prospettiva diacronica, il principio cardine della
democrazia partecipativa cui abbiamo sopra accennato, e cioè il dibattito esteso a tutti coloro che siano
portatori di un interesse qualificato. Esso rappresenta inoltre, nella stessa prospettiva, l'evoluzione della
regola secondo cui alle deliberazioni che interessano una collettività debbono partecipare tutti coloro che
vi appartengono.
Poiché però non è, ovviamente, materialmente possibile instaurare un dibattito con soggetti che non
esistono ancora né tantomeno è possibile ottenere il loro parere su iniziative che potrebbero incidere sui
loro interessi, il principio dell'espansione della democrazia verso il futuro è stato variamente adattato:
secondo alcuni i soggetti futuri debbono essere considerati dai presenti come parte della loro collettività
(ma ci vuole un forte sforzo di immaginazione); secondo altri, è necessario inserire nel processo
decisionale un meccanismo per verificarne la giustificatezza o la ragionevolezza rispetto alle generazioni
future; secondo altri ancora, debbono essere costituiti dei particolari organi incaricati di rappresentarne
gli interessi. Cosè, è stato suggerito di riservare alcuni seggi nelle assemblee parlamentari a
rappresentanti delle generazioni future, che possano intervenire ogni volte che si discutono proposte che
incidono sull'ambiente nel lungo periodo. Un unico Stato, Israele, ha sinora raccolto questo
suggerimento: il Parlamento (Knesset) ha designato un apposito Commissario per le generazioni future
con la funzione di intervenire e di esprimere il proprio parere nei dibattiti volti a introdurre riforme
legislative che incidono su beni o interessi futuri.
4. Queste considerazioni pongono in evidenza che ambiente e democrazia non vanno d'accordo non solo
in Italia e non solo all'interno dello Stato nazionale. Il rapporto tra tutela dell'ambiente e principi
democratici costituisce presenta attriti e disfunzioni che travalicano le frontiere nazionali e quelle
temporali e si pone, sia pure, come abbiamo visto, con modalità diverse, a livello sopranazionale e a
livello intergenerazionale (se, come è opinione ormai diffusa, si deve tenere conto anche delle esigenze
delle generazioni future).
La ragione di fondo di questo dissidio sta in gran parte nel fatto che la democrazia tradizionalmente
intesa è stata progettata per funzionare all'interno di un quadro statuale e per obiettivi temporalmente
limitati. Se i problemi da affrontare non rispettano questo quadro, sia spazialmente che temporalmente, il
meccanismo democratico tradizionale si inceppa o urta contro principi che sono posti alla base
In effetti, come la democrazia sia praticabile in una sfera ultrastatuale, e come essa possa estendersi e
ricomprendere anche soggetti spazialmente o temporalmente non ricompresi nell'ambito dello stato, non
è attualmente del tutto chiaro (la questione è stata affrontata anche dalla sentenza della Corte
Costituzionale tedesca del 30 giugno 2009 sulla legittimità costituzionale della ratifica da parte della
Germania del Trattato di Lisbona: nella sentenza la Corte indica la necessità di un rafforzamento delle
garanzie democratiche a livello statuale per controbilanciare le carenze di democrazia a livello
sovranazionale).
Eppure di questi argomenti è tempo di parlare, tenendo conto di due aspetti: da un lato che questi
principi sono stati concepiti ben prima che si potesse immaginare che le scelte di uno stato potessero
produrre effetti potenzialmente gravi e irreversibili sull'ambiente globale, d'altro lato che la democrazia
moderna è stata pensata nel quadro dello stato nazione, un quadro che è ormai inefficiente per i grandi
problemi che ci stanno avanti, sicché non si può pensare di operare una semplice trasposizione delle sue
istituzioni a livello sovrastatale: la democrazia non si esporta da Stato a stato, ma neppure dallo stato ad
altre forme organizzative sovrastatali.
III. MANFREDI: AMBIENTE, GLOBALIZZAZIONE, DEMOCRAZIA
1. Le considerazioni di Stefano Nespor sono di estremo interesse, e quanto mai stimolanti, tra l'altro
anche perché inquadrano la questione dei rapporti tra democrazia e ambiente in un contesto di ben più
ampio respiro di quello in cui si inscrive il mio scritto.
Nespor in sostanza rileva in primo luogo che, contrariamente a quanto generalmente si ritiene, la
democrazia diretta in sede locale non è la sede più adeguata per la cura dell'ambiente, perché gli
interessi ambientali travalicano le realtà locali, e, quindi, devono essere tutelati in una dimensione
sovralocale, al fine di sottrarli alle pressioni particolaristiche.
In secondo luogo riprende rilievi che si rinvengono nella più recente letteratura anglosassone, e ipotizza
che l'ambiente risulti meglio tutelato a livello sovranazionale: e ciò, nonostante il deficit di democrazia
che notoriamente connota quanto per riprendere il titolo del noto studio di Maria Rosaria Ferrarese (72)
possiamo definire come le istituzioni della globalizzazione, se non proprio grazie a questo deficit
democratico.
Il che avviene sia perché i Governi nazionali, destinati a durare in carica solo per pochi anni, agiscono
prendendo a riferimento un orizzonte temporale limitato, mentre le questioni ambientali devono essere
inquadrate in un orizzonte ben più esteso; sia perché "occuparsi dell'ambiente non porta voti", dato che
le decisioni intese a tutelare l'ambiente possono risultare impopolari.
In terzo luogo, segnala che i sistemi democratici (almeno negli assetti odierni) non sono congegnati in
modo tale da tutelare i diritti delle generazioni future.
Per cui ipotizza che la partecipazione democratica, almeno per come viene intesa negli odierni
ordinamenti statuali, sia inadatta ad assicurare una efficace protezione dell'ambiente nel lungo periodo.
2. Sperando di aver sintetizzato le considerazioni di Nespor in modo adeguato, devo dire innanzitutto che
sembra senz'altro condivisibile che la democrazia diretta non sia lo strumento adeguato per affrontare
una gran parte delle questioni ambientali, perché tali questioni per lo più hanno una dimensione ben più
vasta di quella locale, ossia dell'unica dimensione in cui storicamente la democrazia diretta ha dimostrato
di poter funzionare.
Mi pare anzi di averlo già segnalato nel mio scritto, ed è anche per tale ragione che ritengo che per la
cura di gran parte degli interessi ambientali siano più adeguate le forme della democrazia
rappresentativa, integrate però da strumenti di democrazia partecipativa.
Certo, alcuni interessi ambientali ben possono avere una dimensione esclusivamente locale, e, in tal caso,
il coinvolgimento della collettività locale è estremamente producente: ad esempio, la tutela di un
determinato bosco, di un determinato lago, di una determinata zona umida, ecc., con tutta probabilità è
meglio garantita se a occuparsene sono coloro che risiedono in loco.
In questi casi profili di problematicità possono però sorgere quando un interesse ambientale che rileva in
sede locale si confronta con un interesse di segno diverso che ha una dimensione più ampia, perché in
questa evenienza, se a decidere dell'esito del confronto sono le autorità locali, ben può verificarsi una
miopia nei confronti dell'interesse di più ampio respiro.
In definitiva, è quello che negli scorsi anni è accaduto in materia di emissioni elettromagnetiche, dato che
pare innegabile che talvolta l'interesse alla comunicazione sia stato ingiustamente sacrificato a fronte di
timori di scarsa o di nessuna fondatezza.
Basti solo ricordare che in certi casi erano stati emanati regolamenti comunali che addirittura vietavano
l'installazione delle stazioni radio base nei pressi dei corsi d'acqua (73) (peraltro è proprio questo
atteggiamento che a sua volta ha indotto la giurisprudenza costituzionale e la giurisprudenza
amministrativa a orientamenti sin troppo punitivi nei confronti delle competenze delle autonomie locali)
(74).
In realtà per questo aspetto il particolarismo che sfocia nella notoria sindrome nimby non riguarda solo
l'ambiente, dato che può interessare anche settori diversi: ad esempio, sono abbastanza diffusi pure
fenomeni riconducibili al c.d. nimby sociale, per cui le collettività locali esprimono la stessa ostilità
dimostrata nei confronti degli impianti che sono fonti di emissioni elettromagnetiche anche nei confronti
dei campi nomadi, dei centri di accoglienza, ecc. (75).
In definitiva la soluzione ai problemi di sindrome nimby, ambientale o sociale che sia, probabilmente la si
può trovare solo individuando la dimensione e, quindi, la sede istituzionale adeguata per il confronto fra
interessi, affinché questo confronto si svolga tra interessi di dimensione omogenea: il che può avvenire
dando coerente applicazione al principio di sussidiarietà, che, come noto, è sancito a livello comunitario, e
ora, dopo la riforma del 2001, è stato opportunamente previsto anche nell'art. 118 della nostra
Costituzione.
3. Un discorso più articolato si deve fare in ordine all'ipotesi che l'ambiente risulti meglio tutelato dalle
istituzioni della globalizzazione anche almeno in certa misura grazie al deficit democratico che ne connota
gli assetti.
Occorre immediatamente precisare che la questione non riguarda solo la gestione dell'ambiente, e che
essa non è certo sorta solo negli ultimi tempi, dato che, a ben vedere, si ricollega piuttosto a una
problematica che accompagna la democrazia (e non solo la democrazia) praticamente da sempre.
Infatti praticamente da sempre è ricorrente l'affermazione che l'operato dei pubblici poteri rischia di
essere inefficace se resta esposto sempre e costantemente a ogni e qualsivoglia fibrillazione dell'opinione
pubblica.
Anche senza voler affrontare il problema dei limiti sostanziali alla volontà della maggioranza, che ci
porterebbe sin troppo lontano (76), è sufficiente ricordare che gli ordinamenti democratici sono
costantemente alla ricerca di un equilibrio tra le esigenze di legittimazione democratica e le esigenze di
stabilità.
Per intendersi, è per ottenere maggiore stabilità che periodicamente, sia in Italia, sia in altri paesi
occidentali, vengono avanzate proposte intese a rafforzare gli esecutivi.
E, se si vogliono ricordare vicende normative recenti, è sempre per tale ragione che nell'ordinamento
delle autonomie locali a partire dalla legge 81/1993 si è rafforzata la posizione del Sindaco e del
Presidente della Provincia.
Ma non solo: sempre partendo dall'angolo visuale del nostro ordinamento, possiamo ricordare che la cura
di determinati interessi negli ultimi anni è stata affidata alle cosiddette Autorità indipendenti, ossia a
soggetti che (pur inserendosi anch'essi in un contesto di accountability democratica) sono stati configurati
in modo tale da sfuggire alle pressioni di questa o di quella parte politica, e, quindi, in modo tale da
essere (in certa misura) insensibili ai mutamenti contingenti di indirizzo politico.
Detto questo, occorre però fare una precisazione.
Se mai ci si convincesse che in tema di ambiente le esigenze di stabilità sono destinate a prevalere
sempre e comunque su quelle di legittimazione democratica, in buona sostanza ci ritroveremmo di fronte
a qualcosa che per così dire ha un sapore d'antico, ossia a una riedizione del governo dei filosofi, magari
aggiornata in chiave tecnocratica.
In altri termini, gli organismi internazionali finirebbero coll'essere null'altro che la versione del governo
dei filosofi del XXI secolo.
Ma non bisogna dimenticare che il governo dei filosofi, come quello di tutte le élite che del loro operato
non devono rispondere al popolo, va da sempre incontro all'inconveniente che sin dall'antichità viene
espresso con l'interrogativo "quis custodiet custodes?".
Ed è innegabile che per questo aspetto la democrazia sembra adempiere meglio di ogni altro strumento a
quella funzione di controllo e di limitazione del potere su cui ad esempio insistono tanti degli scritti di
Giovanni Sartori.
In altri termini, in assenza di un adeguato controllo democratico, e, quindi, di una possibilità di ricambio
mercé gli esiti delle consultazioni elettorali, il rischio è sempre quello che le élite, seppure inizialmente
benintenzionate, si corrompano ancor più rapidamente di quanto non facciano i governanti eletti dal
popolo, e, quindi, smettano di perseguire la mission a cui sono preposte, e prendano a seguire finalità
diverse, magari più confacenti agli interessi personali dei membri dell'élite medesima.
E non pare che dal rischio di smarrire la coerenza con le finalità originarie vadano esenti neppure gli
organismi internazionali.
Ad esempio, solo qualche anno fa Joseph Stiglitz notava che tutte le istituzioni finanziarie internazionali
avevano completamente abbandonato gli obiettivi di ispirazione keynesiana per cui erano state fondate,
e, in particolare, che il Fondo monetario internazionale, "nato sul presupposto che i mercati spesso
funzionino male, ora sostiene con fervore ideologico la supremazia del mercato" (77): e di questi tempi
sembra quasi superfluo rilevare che alla fin fine questo stato di cose un qualche problema l'ha provocato.
Peraltro anche lo studio di Cassese che viene citato da Nespor si conclude sì rilevando che sinora gli ordini
globali in concreto hanno agito a favore della democrazia e dei diritti umani, ma anche chiedendosi se
essi in futuro non potrebbero giungere ad abusare dei poteri di cui dispongono (78).
In realtà, si può ipotizzare che sinora le istituzioni della globalizzazione abbiano agito a favore della
democrazia e dei diritti umani non grazie al deficit di democrazia che le caratterizza, ma nonostante
questo deficit, e in virtù di una mera contingenza storica.
Infatti gli organismi internazionali (per ora) sembrano avere introiettato una sorta di ethos
liberaldemocratico perché essi come, in genere, tutti i fenomeni riconducibili all'odierna globalizzazione in
definitiva costituiscono un'espressione della cultura occidentale, che di tali valori è appunto portatrice (ed
è anche per questa ragione che, come noto, chi appartiene a culture diverse talvolta accusa questi
organismi di essere latori di una qualche forma di imperialismo culturale) (79).
Ma se per una qualche ragione a iniziare e a governare la globalizzazione fosse stata una cultura diversa
da quella occidentale, la globalizzazione non sarebbe portatrice dei valori di cui s'è detto: né,
probabilmente, lo sarebbe se, per ipotesi, in futuro fossero culture diverse a guidarne i processi (80).
Ciò posto, è vero che i metodi democratici che sono stati elaborati per essere applicati negli Stati
nazionali non sono sic et simpliciter trasportabili nel contesto sovranazionale: gli stimoli di Stefano
Nespor sono dunque estremamente opportuni, dato che ci inducono a porci l'interrogativo di quali siano
gli strumenti adeguati per democratizzare la globalizzazione (ed è probabile che come appunto ipotizza
Nespor a tal fine anche la democrazia partecipativa sia destinata a giocare un ruolo di rilievo: ma qui
ovviamente non ci si può dilungare sul punto, perché una disamina pur minimamente approfondita
richiederebbe riflessioni che ci porterebbero sin troppo lontano).
Per quanto qui più specificamente interessa, va poi detto che da tutto quanto sopra discende anche che
nel lungo periodo i valori ambientali, per continuare a essere tutelati pure a livello sovranazionale, non
possono avere miglior garanzia di quella di continuare a essere supportati dal consenso dell'opinione
pubblica: o, se si preferisce, che la migliore garanzia dell'ambiente sta nel fatto che non venga meno e
che non si attenui la coscienza ambientale che è emersa negli ultimi decenni.
In definitiva, non mi pare che possa ravvisarsi una contrapposizione tra democrazia e ambiente, e mi
sembra piuttosto che occorra rinvenire gli strumenti più adeguati per operare un'adeguata composizione
tra l'una e l'altro nei vari livelli di governo: e mentre a livello nazionale si è sulla strada per individuare
questi strumenti (è ciò che sostengo nel mio scritto), per quanto riguarda il livello sovranazionale il
percorso probabilmente è ancora agli inizi (ma deve senz'altro proseguire: e, per quanto sopra, anche
nell'interesse dell'ambiente).
4. I rilievi in ordine ai diritti delle generazioni future mi sembrano riallacciarsi alle note considerazioni
esposte da Hans Jonas ne Il principio responsabilità(81).
V'è però da dire che a questo proposito sarebbe forse più opportuno inquadrare la questione in termini di
valori che devono essere tutelati da parte di una democrazia, piuttosto che in termini di partecipazione
democratica differita (ovvio: a meno di non voler impiegare questa nozione come metafora).
Se, infatti, ci incarichiamo di rappresentare gli interessi delle generazioni future, non sono le generazioni
future a prendere parte alle decisioni che le riguardano, ma, piuttosto, siamo sempre noi, che viviamo nel
presente, ad arrogarci il diritto di decidere per esse, nonostante qualsivoglia fictio iuris si voglia
congegnare per giustificare una rappresentanza siffatta.
Il che dovrebbe servire anche per non dimenticare che fermo ovviamente restando che è nostro dovere
primario tutelare l'ambiente affinché le generazioni future possano venire a esistenza le generazioni
future dovrebbero sempre conservare il diritto di fare le proprie scelte (e, se del caso, i propri errori) nel
modo il più possibile autonomo dalle nostre scelte (e, soprattutto, dai nostri errori).
NOTE
(1) Il presente lavoro è destinato agli Scritti in onore di Giuseppe Palma.
(2) Vedi, in proposito, A. ALGOSTINO, La democrazia e le sue forme. Una riflessione sul movimento no TAV,
in Pol. dir., 2007, pp. 653 e ss.
(3) Merita di essere ricordato che durante la cosiddetta crisi dei rifiuti di Napoli le strutture della
Protezione civile avevano preso in considerazione addirittura l'idea di realizzare discariche segrete per
evitare le proteste dei cittadini residenti nelle aree interessate: vedi Discariche segrete per evitare
proteste, in Corriere della sera, 25 maggio 2007.
(4) Culminate nella sent. n. 62/2005 della Corte Costituzionale che si può leggere in questa Rivista,
2005, pp. 532 e ss., con nota di chi scrive, La Corte Costituzionale, i rifiuti radioattivi e la sindrome nimby
che ha dichiarato l'illegittimità delle leggi con cui tre diverse Regioni avevano vietato l'ingresso dei residui
radioattivi nei rispettivi territori.
(5) Per casi analoghi a quelli richiamati nel testo vedi D. UNGARO, Democrazia ecologica. L'ambiente e la
crisi delle istituzioni liberali, Roma-Bari, 2004, passim, e L. BOBBIO, A. ZEPPETELLA (a cura di), Perché
proprio qui? Grandi opere e opposizioni locali, Milano, 1999, passim.
(6) D. UNGARO, Democrazia ecologica, 137.
(7) Cfr. G. CORDINI, Ambiente e democrazia. Profili introduttivi di diritto pubblico comparato, in Diritto e
gestione dell'ambiente, 2001, pp. 11 e ss.
(8) Vedi, in proposito, per tutti, J. HARRISON, Legislazione ambientale europea e libertà di informazione:
La Convenzione di Aarhus, in questa Rivista, 2000, pp. 27 e ss., e E. PELOSI, A. VERSOLATO, La
partecipazione del pubblico ai processi decisionali in materia ambientale, ivi, 2007, pp. 1001 e ss.
(9) Su cui vedi, in particolare, P. DURET, Riflessioni sulla legitimatio ad causam in materia ambientale tra
partecipazione e sussidiarietà, in Dir. proc. amm., 2008, pp. 688 e ss.
(10) Vedi, in proposito, le dettagliate e puntuali considerazioni sui procedimenti ambientali di M. COCCONI,
La partecipazione all'attività amministrativa generale, in corso di stampa. Non va dimenticato neppure
che la partecipazione era ben lungi dal costituire una regola generale sia nel diritto italiano, sia nello
stesso diritto comunitario, quando, alla metà degli anni Ottanta, venne emanata la direttiva 85/337/CEE,
che costituisce la prima disciplina dell'istituto della VIA, e quando essa venne recepita nel nostro
ordinamento mercé l'art. 6 della L. 349/1986: cfr., in proposito, almeno S. CASSESE, Il procedimento
amministrativo europeo, M.P. CHITI, Le forme di azione dell'amministrazione europea, e F. BIGNAMI, Tre
generazioni di diritti di partecipazione nei procedimenti amministrativi europei, in S. CASSESE (a cura di),
Il procedimento amministrativo europeo, Milano, 2004.
(11) Sia permesso rinviare al ns. VIA e VAS nel Codice dell'ambiente, in questa Rivista, 2009, pp. 63 e
ss.
(12) Cfr., in tal senso, E. PICOZZA, Il rapporto democrazia - ambiente e l'utilizzazione dei concetti giuridici,
in Diritto e gestione dell'ambiente, 2001, pp. 23 e ss.
(13) Nella vasta letteratura dedicata al rapporto tra cultura e tecnologia vedi almeno U. GALIMBERTI, Psiche
e tecne. L'uomo nell'età della tecnica, Milano, 1999.
(14) Questo carattere della scienza contemporanea notoriamente è al centro delle riflessioni della filosofia
della scienza del novecento: basti solo ricordare il falsificazionismo di Popper e la teoria delle rivoluzioni
scientifiche di Kuhn, o, ancora, il pensiero antimetodologico di Feyerabend. Vedi, in generale, almeno M.L.
DALLACHIARA, G. TORALDO DIFRANCIA, Introduzione alla filosofia della scienza, Bari, 2000.
(15) M. C. TALLACCHINI, Ambiente e diritto della scienza incerta, in S. GRASSI, M. CECCHETTI, A. ANDRONIO (a
cura di), Ambiente e diritto, cit., I, 1999, p. 58, e, ID., Diritto per la natura, Torino, 1996, spec. pp. 9 e
ss.
(16) Vedi S. TESTONI BINETTI, Progresso, voce in N. BOBBIO, N. MATTEUCCI, G. PASQUINO (a cura di), Il
Dizionario della Politica, Torino, 2004, spec. 771, e M.C. TALLACCHINI, Ambiente e diritto, cit., passim. In
argomento, della stessa autrice, cfr. anche Scienza e diritto. Verso una nuova disciplina, introduzione a S.
JASANOFF, La scienza davanti ai giudici, Milano, 2001, VII e ss.
(17) Che prevedibilmente hanno dato origine a una serie di ciò che con una brutta espressione potremmo
definire risposte ordinamentali altrettanto diversificate, tra cui, notoriamente, anche l'elaborazione di un
principio giuridico che affronta ex professo l'incertezza scientifica e tecnologica, ossia il principio di
precauzione su cui vedi F. DE LEONARDIS, Il principio di precauzione nell'amministrazione di rischio, Milano,
2005, e sia consentito anche rinviare al ns. Note sull'attuazione del principio di precauzione in diritto
pubblico, in Dir. pubbl., 2004, pp. 1075 e ss. .
(18) Cfr. F. DE LEONARDIS, Il principio di precauzione, cit., pp. 193 e ss.
(19) Vedi, in particolare, S. JASANOFF, Fabbriche della natura, Milano, 2008.
(20) Cfr. U. ALLEGRETTI, Democrazia partecipativa e processi di democratizzazione, in astrid-online.it.
(21) Per una puntuale e completa ricostruzione delle origini della democrazia rappresentativa vedi B.
MANIN, Principes du gouvernement representatif, Paris, 1995, passim. In proposito vedi almeno anche J.
DUNN, Il mito degli uguali, Milano, 2006, 71 e ss., e D. HELD, Modelli di democrazia, Bologna, 2006, pp.
103 e ss. Il riferimento nel testo è ovviamente a B. CONSTANT, La libertà degli antichi, paragonata a quella
dei moderni, Torino, 2005.
(22) Secondo l'espressione impiegata da B. MANIN, Principes, cit., spec. pp. 171 e ss.
(23) Sulle note critiche marxiste alla democrazia rappresentativa, vedi, da ultimo, D. HELD, Modelli, cit.,
pp. 169 e ss.
(24) J.A. SCHUMPETER, Capitalismo, socialismo e democrazia, Milano, 2001, p. 279.
(25) G. SARTORI, Democrazia e definizioni, Bologna, 1954, p. 156. Cfr., sul punto, in diversa prospettiva,
anche P. COSTA, Democrazia politica e Stato costituzionale, Napoli, 2006.
(26) Vedi R.A. DAHL, Prefazione alla teoria democratica, Milano, 1994, 71 e ss. La contiguità tra le
concezioni pluraliste e quelle realiste della democrazia viene rilevata in particolare da D. ZOLO, Il
principato democratico. Per una teoria realistica della democrazia, Milano, 1996, spec. pp. 115 e 181 e
ss.
(27) Cfr., in tal senso, da ultimo, N. URBINATI, Lo scettro senza il re. Partecipazione e rappresentanza nelle
democrazie moderne, Roma, 2009.
(28) Vedi, in particolare, D. ZOLO, Il principato, cit., pp. 191 e ss.
(29) J. STUART MILL, Considerazioni sul governo rappresentativo, Milano, 1946, p. 67.
(30) G. ZAGREBELSKY, Lezione al convegno Biennale democrazia svoltosi a Torino i giorni 22-26 aprile
2009, in astrid-online.it.
(31) Nella letteratura recente cfr., in particolare, D. MUSTI, Demokratia. Origini di un'idea, Roma-Bari,
2006, e L. CANFORA, La democrazia. Storia di un'ideologia, Roma-Bari, 2004. È infatti innegabile che alla
cattiva fama della democrazia degli antichi ha grandemente contribuito il fatto che essa per secoli è stata
nota principalmente tramite gli scritti di Platone e Aristotele, che, come ricorda ad es. J. DUNN, Il mito,
cit., 30 e ss., erano apertamente antidemocratici.
(32) D. ZOLO, Il principato, cit., 99, giustamente evidenzia che "l'idea che il pluralismo e la complessità
siano una conseguenza del disordine e dell'anarchia capitalistica", che connota alcune delle correnti di
pensiero più radicali, costituisce una prospettiva illusoria e gravemente fuorviante: anche a prescindere
dall'auspicabilità o meno di una società non capitalista, è evidente che pure in un contesto siffatto
resterebbero pur sempre ineliminabili (ovvio: a meno di non postulare interventi repressivi di un qualche
genere) le differenze culturali, etniche, religiose, ecc.
(33) Cfr. A. BARBERA, La rappresentanza politica: un mito in declino?, in Quad. cost., 2008, spec. pp. 884
e ss.
(34) Sui principi di sviluppo sostenibile e di integrazione vedi, per tutti, R. FERRARA, I principi comunitari
della tutela dell'ambiente, in ID. (a cura di), La tutela dell'ambiente, Torino, 2006, pp. 10 e ss., e M.
CAFAGNO, Principi e strumenti di tutela dell'ambiente come sistema complesso, adattativo, comune,
Torino, 2007, pp. 218 e ss.
(35) Vedi, per tutti, N. BOBBIO, Democrazia rappresentativa e diretta, ora in ID., Il futuro della
democrazia, Torino, 1995, p. 48.
(36) Come ricorda G. ENDRICI, Territori e ambiente, in C. BARBATI, G. ENDRICI, Territorialità positive.
Mercato, ambiente e poteri subnazionali, Bologna, 2005, "comunità apparentemente virtuose nella difesa
del proprio territorio rischiano di recare pregiudizio anche ambientale su un piano più generale".
(37) Secondo la ben nota espressione di J.J. ROUSSEAU, Il contratto sociale, Milano, 2002, p. 52.
(38) Vedi, per tutti, P. BISCARETTI DI RUFFIA, Democrazia, voce in Enc. Dir., Milano, 1964, XII, cit., p. 120 e
ss.
(39) Cfr. V. CERULLI IRELLI, Principio di sussidiarietà e autonomie locali, in L. CHIEFFI, G. CLEMENTE DI SAN
LuCA, (a cura di), Regioni ed enti locali dopo la riforma del Titolo V della Costituzione fra attuazione ed
ipotesi di ulteriore revisione, Torino, 2004, pp. 269 e ss., P. DURET, Sussidiarietà e autoamministrazione
dei privati, Padova, 2004.
(40) Vedi, per tutti, M. RENNA, L'allocazione delle funzioni normative e amministrative, in G. ROSSI (a cura
di), Diritto dell'ambiente, Torino, 2008, pp. 135 e ss.
(41) Su cui vedi almeno U. ALLEGRETTI, Verso una nuova forma di democrazia: la democrazia
partecipativa, in Dem. dir., 2006, n. 3, pp. 7 e ss., e Procedura, procedimento, processo. Un'ottica di
democrazia partecipativa, in Dir. amm., 2007, pp. 779 e ss., L. BOBBIO, Dilemmi della democrazia
partecipativa, in Dem. dir., 2006, n. 4, pp. 11 e ss.
(42) Così F. BENVENUTI, Introduzione a La procedura amministrativa in Italia, in G. PASTORI, La procedura
amministrativa, Vicenza, 1964, pp. 537 e ss. Come noto, questa linea di pensiero soprattutto durante gli
scorsi anni ha ricevuto vasta attenzione da parte della dottrina amministrativistica: cfr. almeno lo studio
di M. P. CHITI, Partecipazione popolare e pubblica amministrazione, Pisa, 1977, o, ancora, quelli pubblicati
nei volumi collettanei di G. MARONGIU, G. DE MARTIN (a cura di), Democrazia e amministrazione. In ricordo
di Vittorio Bachelet, Milano, 1992, G. PALMA (a cura di), La partecipazione. Tematica e metodologie
seminariali, Napoli, 1992, G. BERTI, G. DE MARTIN (a cura di), Gli istituti della democrazia amministrativa,
Milano, 1996.
(43) Che notoriamente troppo spesso dava origine a pratiche neocorporative: ma sul punto sia permesso
rinviare al ns. Principio di imparzialità e riordino dell'amministrazione per collegi, in Dir. amm., 1996, p.
89 e ss.
(44) Vedi, riassuntivamente, G. PASTORI, Considerazioni conclusive, in G. ARENA, C. MARZUOLI, E.
ROZOACUNA (a cura di), La legge n. 241/1990: fu vera gloria? Una riflessione critica a dieci anni
dall'entrata in vigore, Napoli, 2001, p. 385 e ss. Nella dottrina precedente cfr. almeno G. BERTI,
Procedimento, procedura, partecipazione, in AA.VV., Studi in memoria di Enrico Guicciardi, Padova, 1975,
pp. 779 e ss.
(45) Vedi, per tutti, U. ALLEGRETTI, Democrazia, cit., e R. BIFULCO, Democrazia deliberativa e democrazia
partecipativa, in astrid-online.it. Le tesi di J. HABERMAS cui si fa riferimento nel testo sono esposte in
particolare in Teoria dell'agire comunicativo, Bologna, 1986. La concettuologia della democrazia
deliberativa è comunque decisamente ampia e articolata, ma qui non si può andare oltre i meri accenni
che se ne fanno nel testo, e si preferisce rinviare a D. HELD, Modelli, cit., pp. 399 e ss.; cfr., in proposito,
almeno anche C. R. SUNSTEIN, A cosa servono le Costituzioni? Dissenso politico e democrazia deliberativa,
Bologna, 2009.
(46) E. RUFFINI, Il principio maggioritario, Milano, 1976, p. 105.
(47) Ad esempio L. BOBBIO, Dilemmi, cit., p. 16, segnala che "l'esperienze mostra che le persone disposte
a partecipare sono una frazione minuscola della popolazione", ampiamente inferiore a un decimo della
comunità interessata, e che in genere questa frazione non annovera neppure i soggetti cosiddetti deboli,
che, pure, si vorrebbero coinvolgere per primi tramite queste forme di partecipazione. Vedi, in tal senso,
anche P. GINSBORG, La democrazia che non c'è, Torino, 2006, p. 89.
(48) In La libertà, cit., passim.
(49) Vedi D. ZOLO, Il principato, cit., passim. Cfr., in diversa prospettiva, almeno anche R. DAHRENDORF,
Cittadini e partecipazione: al di là della democrazia rappresentativa?, in G. SARTORI, R. DAHRENDORF, Il
cittadino totale, Torino, 1977, pp. 33 e ss.
(50) Cfr., in generale, A. PIZZORUSSO, Minoranze e maggioranze, Torino, 1993, pp. 19 e s.
(51) Il punto viene esposto con molta chiarezza da ultimo da C. CUDIA, La partecipazione ai procedimenti
di pianificazione territoriale tra chiunque e interessato, in Dir. pubbl., 2008, pp. 263 e ss. Ma convergono
in tal senso anche U. ALLEGRETTI, Democrazia, cit., e, partendo da considerazioni sul caso della TAV in Val
di Susa che abbiamo richiamato in premessa, A. ALGOSTINO, L'osservatorio per il collegamento ferroviario
Torino-Lione come case-study sulla democrazia e sul dissenso, in costituzionalismo.it.
(52) Cfr., in questo senso, E. BOSCOLO, VAS e VIA riformate: limiti e potenzialità degli strumenti applicativi
del principio di precauzione, in Urb. app., 2008, p. 545, e sia consentito rinviare anche al nostro VIA e
VAS nel Codice dell'ambiente, in questa Rivista, 2008, pp. 63 e ss. Sullo strumento dell'inchiesta
pubblica, vedi, in generale, L. CASINI, L'inchiesta pubblica.Analisi comparata, in Riv. trim. dir. pubbl.,
2007, pp. 43 e ss.
(53) Di cui ci informa in particolare E. BOSCOLO, VIA e VAS, cit., 545.
(54) Peraltro va ricordato che tendenze avverse alla partecipazione si erano manifestate anche negli anni
settanta del novecento, dopo che gli strumenti partecipativi avevano avuto una prima stagione di
diffusione negli Statuti delle Regioni ordinarie: vedi, per tutti, G. BERTI, La parabola regionale dell'idea di
partecipazione, in Le Regioni, 1974, pp. 1 e ss.
(55) Vedi, per tutti, A. PUBUSA, Forma e sostanza nel procedimento. Considerazioni sull'art. 21-octies della
legge n. 241 del 1990, in Dir. pubbl., 2006, pp. 511 e ss., e G. SALA, Procedimento e processo nella
nuova legge 241, in D. CORLETTO, G. SALA, G. SCIULLO (a cura di), La giustizia amministrativa in
trasformazione, Padova, 2006, pp. 81 e ss. Questa tendenza perè è più generale, e non si esprime solo
tramite l'art. 21-octies: cfr. P. LAZZARA, I procedimenti amministrativi aistanza di parte, Napoli, 2008. È
quasi inutile rilevare che atteggiamenti siffatti sembrano quasi il frutto di una sorta di eterogenesi dei fini,
perché essi paiono ispirati al fine di perseguire il buon andamento della Pubblica amministrazione
disgiunto dall'imparzialità, mentre già in base alla Costituzione buon andamento e imparzialità non
potrebbero andare disgiunti, e, anzi, dovrebbero rapportarsi in termini di mezzo a fine vedi, per tutti, U.
ALLEGRETTI, Amministrazione pubblica e Costituzione, Padova, 1996, passim, ID., Imparzialità e buon
andamento della Pubblica amministrazione, in Dig. disc. pubbl., VII, Torino, 1993, pp. 131 e ss., G.
PASTORI, Considerazioni conclusive, cit.
(56) Su cui vedi F. DELEONARDIS, Criteri di bilanciamento tra paesaggio e energia eolica, in Dir. amm.,
2004, pp. 889 e ss., che peraltro segnala che anche le associazioni ambientaliste si sono divise tra quelle
favorevoli alla realizzazione dei parchi eolici, e quelle che invece li avversano perché temono la
compromissione del paesaggio che ne deriva.
(57) Cfr., in tal senso, seppure in diversa prospettiva, C. CUDIA, La partecipazione, cit., passim.
(58) Ringrazio Pasquale Pasquino per le osservazioni e i suggerimenti.
(59) U. ALLEGRETTI, Democrazia partecipativa e processi di democratizzazione, in astrid-online.it
(60) Sul punto rinvio al volume di A. GUTMANN, D. THOMPSON, Why deliberative democracy? Princeton
University Press, Princeton, 2004, in particolare p. 7 e poi l'intero quarto capitolo. In proposito, affermano
I due Autori che "we can define deliberative democracy as a form of government in which free and equal
citizens (and their representatives), justify decisions in a process in which they give one another reasons
that are mutually acceptable and generally accessible, with the aim of reaching conclusions that are
binding in the present on all citizens but open to challenge in the future" (p. 7). In generale, sul tema
della democrazia deliberativa, si vedano tra gli ormai moltissimi scritti S. CHAMBERS, Deliberative
democratic theory in Annual Review of Political Science, 2003, pp. 307-326 e la raccolta di saggi a cura di
W.M. LAFFERTY, J. MEADOWCROFT, Democracy And The Environment. Problems and Prospects, Elgar, 1996.
(61) Si veda in proposito il recente saggiodi P. COLLIER, A. HOEFFLER, Democracy's Achilles Heel, Centre for
the study of African Economies, consultabile in www.csae.ox.ac.uk.
(62) La letteratura sull'argomento è ormai enorme. Rimando, anche per riferimenti, a H. ANHEIER, M.
GLASIUS, M. KALDOR, Introducing global civil society che presenta e introduce lo Yearbook Global civil
society pubblicato dal 2001 dal Centre for the study of Global Governance, consultabile online in: http://
www.lse.ac.uk/Depts/global/Publications/Yearbooks/2001/2001chapter1.pdf. Per esempio, è dovuta
proprio alla pressione esercitata dalle organizzazioni non governative e dalla società civile la costituzione,
nel 2002 al Summit di Johannesburg, della Extractive Industries Transparency Initiative (vedi: http://
eitransparency.org/) che si propone di rendere pubblici gli accordi che intercorrono tra governi e industrie
del settore minerario e petrolifero.
(63) S. CASSESE, Il diritto globale, Einaudi, 2009.
(64) Su questo aspetto si vedano R. GOODIN, Enfranchising the all-affected and its alternatives, in
Philosophy and Public Affairs, 2007, pp. 40-68 e Reflective Democracy, Oxford, 2005, e da R. ECKERSLEY,
The green state: rethinking democracy and sovereignty, 2004, MIT, Press. Cambridge, MA.
(65) B. BARRY, Justice between Generations, in P. MICHAEL, S. HACKER, J. RAZ (a cura di), Law, Morality and
Society.Essays in Honor of H. L. A. Hart, Oxford Clarendon Press, 1977, pp. 268-84 e dello stesso Autore
Circumstances of justice and future generations, in R. SIKORA, B. BARRY (a cura di), Obligations to future
generations, Filadelphia, Temple University Press,, 1978, pp. 204-248.
(66) J. RAWLS, 1971, A Theory of Justice, Oxford, Oxford University Press.
(67) D. PARFIT, Reasons and Persons, Oxford Clarendon Press, 1984.
(68) "We act as we do because we can get away with it: future generations do not vote; they have no
political or financial power; they cannot challenge our decisions" (WCED 1987, p. 8).
(69) D. THOMPSON, Democracy in time: popular sovereignty and temporal representation, in
Constellations, 12, 2005, p. 245-261.
(70) Si veda T. HAYWARD, Constitutional Environmental Rights, Oxford University Press, 2005.
(71) Si veda per esempio K. BOSSELMAN, Human Rights and the Environment: Redefining Fundamental
Principles?, in http://www.arbld.unimelb.edu.au/envjust/papers/allpapers/bosselmann/home; J. LEE, The
Underlying Legal Theory to Support a Well-Defined Human Right to a Healthy Environment as a Principle
of Customary International Law, in Columbia J. Envtl. L., 25, 2000, p. 283, J.T. MCCLYMONDS, The Human
Right To A Healthy Environment:An International Legal Perspective in N.Y.L. Sch. L. Rev., 37, 1992, p.
583.
(72) M.R. FERRARESE, Le istituzioni della globalizzazione. Diritto e diritti nella società transnazionale,
Bologna, 2000.
(73) Cfr. S. CASSESE, La nuova disciplina sulla protezione dalle esposizioni a campi elettromagnetici, in
Giorn. dir. amm., 2001, pp. 329 e ss., F. MERUSI, Dal fatto incerto alla precauzione: la legge
sull'elettrosmog, in Foro amm., 2001, pp. 221 ss., e sia permesso anche rinviare al mio Note
sull'attuazione del principio di precauzione in diritto pubblico, in Dir. pubbl., 2004, pp. 1075 e ss.
(74) Sia permesso rinviare ai miei Tre modelli di riparto delle competenze in tema di ambiente, in Le
istituzioni del federalismo, 2004, pp. 509 ss., e Regolamenti comunali sugli impianti di comunicazione e
principio di legalità, in Urb. app., 2006, pp. 1287 e ss.
(75) Vedi L. BOBBIO, Un processo equo per una localizzazione equa, in L. BOBBIO, A. ZEPPETELLA (a cura di),
Perché proprio qui? Grandi opere e opposizioni locali, Milano, 1999, p. 188.
(76) Perché probabilmente costituisce il principale snodo problematico di qualsiasi teoria democratica. V.,
in argomento, nella letteratura recente, almeno L. FERRAJOLI, Principia iuris. Teoria del diritto e della
democrazia, Roma-Bari, 2007, II, e cfr. anche G. AZZARITI, Critica della democrazia identitaria. Lo Stato
costituzionale schmittiano e la crisi del parlamentarismo, Roma-Bari, 2005.
(77) J.E. STIGLITZ, La globalizzazione e i suoi oppositori, Torino, 2002, p. 11.
(78) S. CASSESE, Il diritto globale. Giustizia e democrazia oltre lo Stato, Torino, 2009, p. 167.
(79) Vedi D. ZOLO, Globalizzazione. Una mappa dei problemi, Roma-Bari, 2006, spec. pp. 88 e ss., e
passim.
(80) Vero è che non manca chi sostiene in particolare A.K. SEN, La democrazia degli altri. Perché la libertà
non è un'invenzione dell'Occidente, Milano, 2005 che ciò che definiamo valori liberaldemocratici è ben
lungi dall'essere un'invenzione solo occidentale (senza poi considerare che gli stessi paesi occidentali
spesso sono tutt'altro che coerenti con detti valori), e porta a esempio esperienze democratiche di altre
culture: è però altrettanto vero che, anche a questa stregua, non pare sostenibile che i valori in parola
costituiscano un'invariante di ogni e qualsivoglia cultura.
(81) H. JONAS, Il principio responsabilità. Un'etica per la civiltà tecnologica, Torino, 2002.
Archivio selezionato: Note
L'accesso alla giustizia amministrativa in materia ambientale in una recente
sentenza della Corte di Giustizia e la lunga strada per il recepimento della
convenzione di Aarhus da parte dell'Italia
Riv. giur. ambiente 2010, 1, 114
Matteo Ceruti
1. Premessa. 2. Il diritto di azione in giudizio delle organizzazioni non governative, anche locali. 3. Sulla
legittimazione a ricorrere: l'"interesse sufficiente" e l'obiettivo dell'"ampio accesso alla giustizia
ambientale". 4. Cenni sugli orientamenti della giurisprudenza amministrativa italiana in materia di
legittimazione e di interesse al ricorso in materia ambientale. 5. Sull'estensione e l'effettività del controllo
giurisdizionale sulle decisioni ambientali. 6. Sulla tempestività delle procedure giurisdizionali. 7.
Sull'onerosità dei processi in materia ambientale: la pressoché totale assenza di agevolazioni per le spese
di giustizia nel nostro paese. 8. Sull'obbligo di mettere a disposizione del pubblico informazioni pratiche
sull'accesso alla giustizia ambientale.
1. Premessa.
Con una recente sentenza la Corte di Giustizia (Seconda Sezione, 16 luglio 2009, causa C-427/07), per
un verso (ai paragrafi 36-45) aggiunge un altro tassello in ordine alla corretta interpretazione del campo
applicativo della direttiva 85/337/CEE sulla valutazione di impatto ambientale precisando che la natura
pubblica o privata di un progetto (nel caso di specie, una strada) non presenta alcuna rilevanza ai fini
della sottoposizione alla procedura, per cui si perviene all'inevitabile conclusione che l'Irlanda, nel
sottrarre alla VIA i progetti di costruzione di strade private anche qualora possano presentare un notevole
impatto ambientale, è venuta meno agli obblighi comunitari.
La parte più interessante della decisione (si vedano i paragrafi 47 e ss.) riguarda però il tema del corretto
recepimento nell'ordinamento irlandese della direttiva 2003/35 con cui l'UE ha contribuito a dare
attuazione agli obblighi derivanti dalla Convenzione internazionale di Aarhus "sull'accesso alle
informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l'accesso alla giustizia in materia
ambientale".
Poiché quest'ultima parte della pronuncia dei giudici europei tocca alcuni temi cruciali (e dolenti) della
giurisdizione amministrativa in materia ambientale ossia quelli della legittimazione a ricorrere,
dell'ampiezza e dell'effettività della tutela giudiziale, della tempestività delle procedure giurisdizionali,
dell'onerosità delle medesime e dell'informazione offerta ai cittadini , essa consente anche di formulare
qualche rapida considerazione sullo stato dell'attuazione della convenzione di Aarhus nel nostro paese in
termini di accesso alla giustizia amministrativa in materia ambientale.
2. Il diritto di azione in giudizio delle organizzazioni non governative, anche locali.
In particolare il ricorso per inadempimento proposto dalla Commissione contro l'Irlanda aveva ad oggetto
la direttiva del Parlamento e del Consiglio 26 maggio 2003, 2003/35/CE, la quale ha modificato le
direttive del Consiglio 85/337/CEE (sulla valutazione di impatto ambientale) e 96/61/CE (sulla
prevenzione e la riduzione integrate dell'inquinamento), allo scopo di dare attuazione alla citata
convenzione di Aarhus.
Innanzitutto la Corte esamina (paragrafi 54-60), giudicandolo infondato, il secondo motivo del ricorso per
inadempimento con cui la Commissione aveva evidenziato come nell'ordinamento irlandese, a causa della
mancata introduzione di disposizioni legislative dirette a definire le nozioni di "pubblico" e di "pubblico
interessato" (previste dall'art. 1 n. 2 della direttiva 85/337 come modificato dall'art. 3, punto 1, della
direttiva 2003/35), non sarebbero sufficientemente garantiti i relativi diritti in ordine all'accesso alla
giustizia ambientale, in particolare delle organizzazioni non governative.
Ma i giudici europei ciò fanno sulla base di argomenti di ordine formale, in primo luogo precisando come
dalla circostanza che le suddette definizioni non siano state espressamente riprodotte nel diritto interno,
non se ne può trarre automaticamente la conclusione che l'Irlanda non abbia adempiuto all'obbligo di
dare attuazione alle disposizioni in parola, essendo invece necessario esaminare quali siano gli effettivi
diritti riconosciuti al pubblico interessato dalla direttiva e il cui esercizio sarebbe conculcato nel diritto
interno: cosa che però la Commissione aveva omesso di precisare. In secondo luogo la Corte chiarisce
che i rilievi della Commissione inerenti alle carenze nell'effettiva attuazione dei diritti che dette
organizzazioni possono far valere in ambito giurisdizionale, quali sarebbero desumibili dalla
giurisprudenza nazionale, non rientravano comunque nell'ambito del motivo di censura sollevato dalla
Commissione medesima che riguardava solo la "mancata attuazione" delle citate disposizioni e non la
"qualità della loro attuazione" (ovvero la loro attuazione inesatta ovvero incompleta).
Sulla questione dei diritti di tutela giudiziale delle organizzazioni non governative la Corte di Giustizia è
tuttavia tornata con una successiva decisione, la sentenza della Sez. II, 15 ottobre 2009 (nel
procedimento C-263/08), in cui, a seguito della domanda pregiudiziale posta dalla Corte di Cassazione
svedese (1), ha affermato che, sebbene dal combinato disposto dell'art. 10-bis e dell'art. 1, n. 2 della
direttiva 85/337 venga affidato ai legislatori nazionali il compito di determinare i presupposti che possono
essere richiesti perché un'associazione possa esercitare il diritto al ricorso, tuttavia le norme nazionali
debbono in ogni caso garantire l'obiettivo dell'"ampio accesso alla giustizia" e l'"effetto utile" delle
disposizioni della direttiva secondo cui coloro i quali vantano un "interesse sufficiente" per contestare un
progetto e i titolari di diritti lesi da quest'ultimo, tra cui le associazioni di tutela ambientale, debbono
poter agire dinanzi al giudice competente.
Facendo applicazione di questi principi generali, i giudici europei precisano che una legge nazionale può
senz'altro imporre che siano legittimate a ricorrere le associazioni che abbiano un oggetto sociale
attinente alla protezione della natura e dell'ambiente, e può altresì stabilire requisiti rilevanti sotto il
profilo dell'effettività dell'esistenza e dell'attività dell'organizzazione, tra cui anche la previsione di un
numero minimo di aderenti, purché tale dato quantitativo non venga fissato dalla normativa dello Stato
membro ad un livello tale da rendere disagevole la possibilità di accesso alla giustizia.
E poiché la direttiva 85/337 non concerne soltanto operazioni di portata nazionale o regionale, ma anche
interventi di dimensioni limitate in ordine alle quali sono le associazioni ambientaliste locali le più indicate
per farsene carico, una normativa nazionale che riservi il diritto al ricorso contro decisioni relative ad
operazioni che rientrino nel campo applicativo della direttiva alle sole organizzazioni con un numero
minimo di 2000 associati è tale in concreto da privare le associazioni ambientaliste locali del diritto a
proporre ricorso nella materia e, come tale, contrasta col diritto comunitario.
Nˆ si precisa tale limitazione della possibilità di ricorso giurisdizionale delle associazioni come di qualsiasi
altro membro del pubblico interessato può essere giustificata da eventuali ampie possibilità di
partecipazione concesse a monte dalla normativa nazionale in fase di elaborazione della decisione di
autorizzare un progetto (anche quando tale decisione venga assunta da un organo giurisdizionale
nell'ambito di eventuali sue competenze di natura amministrativa) (2).
3. Sulla legittimazione a ricorrere: l'"interesse sufficiente" e l'obiettivo dell'"ampio accesso alla
giustizia ambientale".
Ulteriore importante questione affrontata nella pronuncia in esame riguarda il travagliatissimo (almeno
nel nostro paese) tema della legittimazione a ricorrere e dell'interesse ad agire in materia ambientale.
In proposito sia la direttiva 85/337 [l'art. 10-bis, primo comma, lett. a) e b)] sia la direttiva 96/61 [art.
15-bis, primo comma, lett. a) e b)], come modificate dalla ricordata direttiva 2003/35 (artt. 3, punto 7 e
4, punto 4), stabiliscono che gli Stati membri debbano provvedere, ovviamente in conformità al proprio
ordinamento giuridico, affinché i membri del pubblico interessato che vantino un "interesse
sufficiente" (o, in alternativa, che facciano valere la violazione di un diritto, nel caso in cui tale
presupposto sia richiesto dal diritto processuale amministrativo interno), abbiano accesso ad un organo
giurisdizionale per contestare la legittimità delle decisioni assunte in materia ambientale.
Il tutto con la precisazione che spetta agli Stati membri determinare ciò che costituisce "interesse
sufficiente" (e violazione di un diritto), ma sempre compatibilmente con l'obiettivo fondamentale di offrire
al pubblico interessato un "ampio accesso alla giustizia".
Ebbene nel caso de quo la Commissione riteneva che la legge irlandese sulla pianificazione territoriale e
sullo sviluppo relativamente alle opere strategiche (Planning and Development - Strategic Infrastructure
Act - PDA) del 2006, nel prevedere la possibilità di ricorso giurisdizionale avverso le decisioni adottate
dalle Autorità competenti in materia urbanistica soltanto a chi abbia un "interesse rilevante" (ancorché
non limitato agli interessi immobiliari o finanziari) nella questione oggetto della domanda, adottasse un
criterio più restrittivo di quello dell'"interesse sufficiente" previsto dalla ricordata direttiva 2003/35.
La Corte di Giustizia purtroppo ha ritenuto (si vedano i paragrafi 82-85) di non poter decidere la
questione nel merito giacché la Commissione, anche in questo caso, si era limitata a formalizzare una
contestazione inerente la "mancata attuazione" e non invece l'inesatta od incompleta attuazione delle
disposizioni della direttiva, per cui risultava così preclusa al giudicante la verifica "se il criterio relativo
all'interesse sostanziale, quale interpretato ed applicato dai giudici irlandesi, coincida con quello relativo
all'interesse sufficiente stabilito dalla direttiva 2003/35". Ed è un vero peccato perché diversamente, si
aggiunge nella sentenza, la Corte avrebbe ben potuto pronunciarsi "sulla qualità dell'attuazione con
riferimento, in particolare, alla competenza che detta direttiva riconosce agli Stati membri al fine di
determinare la nozione di interesse sufficiente compatibilmente con l'obiettivo da essa perseguito".
Vale tuttavia la pena rimarcare che il giudice europeo pare dunque preannunciare l'esercizio del proprio
sindacato sul diritto processuale amministrativo degli Stati nazionali (ove correttamente "interrogato"),
chiarendo che è sempre l'obiettivo di assicurare un "ampio accesso alla giustizia" ai soggetti che possono
subire gli effetti delle decisioni in materia ambientale il fondamentale parametro di giudizio che la Corte
utilizzerà per valutare l'esatta e completa attuazione della direttiva da parte degli Stati membri in termini
di legittimazione a ricorrere dinanzi ai giudici nazionali per contestare la legittimità delle decisioni relative
alla valutazione di impatto ambientale, alla prevenzione e riduzione integrate dell'inquinamento, e più in
generale, in materia ambientale.
Inoltre pare di poter rilevare che, alla luce dell'obbligo generale di interpretazione del diritto nazionale in
conformità alle disposizioni del diritto comunitario, è il medesimo fondamentale obiettivo di garantire
questo "ampio accesso" alla giustizia in materia ambientale che sin d'ora deve guidare i giudici nazionali
nel decidere le questioni processuali preliminari della legittimazione e dell'interesse a ricorrere.
4. Cenni sugli orientamenti della giurisprudenza amministrativa italiana in materia di
legittimazione e di interesse al ricorso in materia ambientale.
In proposito non si può omettere ivi di accennare, sia pure assai fugacemente, a quegli orientamenti della
giurisprudenza amministrativa italiana che a tutt'oggi interpretano alquanto restrittivamente i presupposti
della legittimazione e dell'interesse a ricorrere di privati, Enti pubblici ed associazioni in materia
ambientale; richiedendo, ad esempio, alle persone fisiche e giuridiche, e agli stessi Enti locali, ricorrenti
non la semplice dimostrazione della vicinitas rispetto all'area interessata dal progetto sottoposto alla
decisione ambientale (il quale peraltro, com'è noto, viene invece considerato presupposto sufficiente
laddove si impugni un semplice titolo edilizio), bensì la dimostrazione di un sicuro e concreto pregiudizio
derivante dalla decisione (3).
In proposito, fatte salve ovviamente le particolarità di ogni singolo caso, in termini generali parrebbe
comunque risultare più aderente al principio dell'ampio accesso alla giustizia ambientale richiamato dalla
Corte di Giustizia quel diverso orientamento giurisprudenziale che, per ragioni di effettività della tutela di
interessi di carattere particolarmente sensibile, quale appunto la tutela dell'ambiente, ritiene che nelle
ipotesi dubbie il giudizio dell'interprete debba essere orientato nel senso di estendere e non di limitare la
legittimazione a ricorrere e la possibilità di ottenere una tutela giurisdizionale di carattere effettivo (art.
24 Cost.) (4).
Anche gli atteggiamenti eccessivamente restrittivi in materia di legitimatio ad causam delle associazioni di
protezione ambientale sembrerebbero suscettibili di rivisitazione alla luce delle pronunce in commento del
giudice europeo.
Così in primo luogo appaiono senz'altro in contrasto con i principi di diritto enunciati dalla Corte di
Giustizia le pronunce del giudice amministrativo che richiedono come necessario il carattere nazionale
delle associazioni ed il relativo riconoscimento ministeriale, con conseguente esclusione della
legittimazione ad agire dei comitati e gruppi associativi locali (5). Anche se per la verità l'orientamento
prevalente sembra ormai essere quello volto al riconoscimento della legittimazione a ricorrere anche delle
associazioni spontanee locali ove siano presenti una serie di requisiti di rappresentatività normalmente
sintetizzati nella protezione dell'interesse ambientale elevata a fine statutario; presenza di una
organizzazione congrua rispetto al fine medesimo; operare stabilmente nella zona in cui si trova il bene
collettivo pregiudicato che si intende tutelare (6).
Appare poi non in linea con l'insegnamento della Corte di Giustizia anche quella giurisprudenza
amministrativa nazionale che limita l'interesse a ricorrere delle associazioni (anche riconosciute) alle sole
decisioni ambientali intese "in senso stretto", con esclusione pertanto dei provvedimenti in materia
edilizia o urbanistica, salvo che l'azione sia esercitata a tutela di aree sulle quali sono posti vincoli di tipo
paesaggistico-ambientale, mentre le stesse organizzazioni sarebbero prive di legittimazione ad agire, in
quanto la loro posizione appare differenziata ma non qualificata, quando l'interesse dedotto in giudizio
attiene ad aree su cui non insistono vincoli di tal genere (7).
Teorica quest'ultima che francamente appare assai lontana da una corretta visione "europeista", sol che si
pensi che molto spesso le cause in materia ambientale sottoposte al vaglio della Corte di Giustizia
attengono proprio a questioni urbanistiche o edilizie, compresa quella oggetto della sentenza ivi in esame
(8).
5. Sull'estensione e l'effettività del controllo giurisdizionale sulle decisioni ambientali.
Ulteriore occasione perduta, rectius probabilmente solo rimandata, della pronuncia in esame della Corte
di Giustizia è quella che riguarda la problematica dell'ampiezza e dell'effettività del sindacato giudiziale
sulle decisioni in materia ambientale.
In proposito i già ricordati art. 10-bis della direttiva 85/337 ed art. 15-bis della direttiva 96/61, inseriti
dalla direttiva 2003/35, stabiliscono che il ricorrente possa contestare la "legittimità sostanziale" oltre che
procedurale di decisioni, atti od omissioni soggetti alle disposizioni di ciascuna delle direttive sulla
partecipazione del pubblico.
La Commissione denunziava la mancata attuazione da parte dell'Irlanda di tali disposizioni, ma anche in
questo caso il giudice europeo (paragrafi 87-90) si trincera dietro la mancata formale contestazione di
una "inadeguata attuazione" delle direttive, per cui risulterebbe precluso l'esame degli argomenti
riguardanti l'estensione del controllo giudiziale effettivamente esercitato nello Stato membro a seguito del
ricorso giurisdizionale avverso una decisione in materia ambientale (e, più precisamente, in campo
urbanistico).
Anche in questo caso tuttavia la verifica del giudice europeo parrebbe dunque soltanto rinviata ad una più
puntuale contestazione da parte della Commissione.
Davvero interessante sarà allora comprendere se da parte della Corte vi sarà o meno un incoraggiamento
ai nostri giudici amministrativi a superare certe timidezze che spesso conducono ad escludere concrete ed
effettive possibilità di sindacato giurisdizionale sulle decisioni assunte in materia ambientale; vuoi per il
tradizionale self restraint nei settori caratterizzati dalla cosiddetta "discrezionalità tecnica"; vuoi per la
pretesa impossibilità di operare un controllo su atti di supposta valenza politica ovvero di c.d. "alta
amministrazione" (si pensi ad esempio alle decisioni del Consiglio dei Ministri volte a superare giudizi
negativi di compatibilità ambientale) (9).
Sempre in relazione alle problematiche connesse all'effettività della tutela giudiziale in materia
ambientale, varrebbe altresì la pena di interrogarsi sulle decisioni talvolta da ultimo assunte dal giudice
amministrativo nazionale il quale, pur in presenza dell'accertata violazione della normativa in materia
ambientale (nel caso di specie con l'approvazione di un'opera pubblica in assenza della preventiva VIA),
abbia tuttavia affermato che l'avanzato e non più reversibile stato di realizzazione dell'opera impedirebbe
(anche alla luce della regula iuris sottesa agli artt. 2058 e 2933 c.c.) l'adozione di una pronuncia
costituiva di annullamento con effetti demolitori e ripristinatori, pervenendo dunque ad un generico
accertamento dell'illegittimità degli atti impugnati, senza alcun esito di annullamento (oltre che con effetti
nei riguardi del solo appellante, ai fini della tutela risarcitoria invocabile con riguardo agli eventuali danni
patiti per effetto dell'esecuzione dei provvedimenti di che trattasi) (10).
6. Sulla tempestività delle procedure giurisdizionali.
L'art. 10-bis della direttiva 85/337 in materia di VIA e l'art. 15-bis della direttiva 96/61 in materia di
IPPC, entrambi inseriti a seguito della direttiva 2003/35 per dar attuazione agli obblighi della convenzione
di Aarhus, stabiliscono che l'accesso alla giustizia ambientale avvenga secondo una procedura che sia,
oltre che giusta ed equa, anche "tempestiva".
Malgrado la contestazione mossa dalla Commissione nel ricorso per inadempimento contro l'Irlanda in
ordine alla mancata attuazione del predetto obbligo, la Corte (si veda il par. 91 della sentenza) respinge
tuttavia l'argomento evidenziando come la normativa irlandese (il menzionato PDA) stabilisce che gli
organi giurisdizionali competenti debbono trattare detti procedimenti "con la massima sollecitudine,
consentita da una buona amministrazione della giustizia" (11).
Venendo al nostro paese, è noto come nell'ordinamento processuale amministrativo italiano non vi sia
invece alcuna previsione analoga a quella contenuta nel diritto irlandese che istituisca una corsia
preferenziale per la definizione dei contenziosi in materia ambientale, e in particolare in materia di VIA e
di IPPC.
Ed è altresì noto come in Italia assai spesso accada che, fatti salvi i rari casi in cui venga accolta la
domanda cautelare (con buona pace di una vulgata giornalistica che afferma il contrario), la pronuncia di
merito dei giudici amministrativi sui ricorsi giurisdizionali per l'annullamento delle decisioni in materia
ambientale interviene quando la situazione giuridica sostanziale è ormai del tutto pregiudicata: il
contestato intervento di trasformazione territoriale è già avvenuto, l'infrastruttura pubblica o privata è già
stata realizzata, l'impianto industriale è già entrato in funzione (12).
È questo dunque un punto davvero assai dolente in termini di effettività della giustizia ambientale nel
nostro paese, che forse potrebbe essere portato all'attenzione dei giudici europei.
7. Sull'onerosità dei processi in materia ambientale: la pressoché totale assenza di
agevolazioni per le spese di giustizia nel nostro paese.
Con la pronuncia in argomento, la Corte esamina altresì (paragrafi 92-94) la problematica delle spese di
giustizia e perviene alla condanna dell'Irlanda perché la sua legislazione non assicura l'obbligo, imposto
dalla Convezione di Aarhus e dalle direttive comunitarie che vi si sono adeguate, che i procedimenti
giudiziali avviati in materia di VIA e di IPPC "non devono avere un costo eccessivamente oneroso" (si
veda l'art. 10-bis della direttiva 85/337, inserito dall'art. 3, punto 7, della direttiva 2003/35 e dall'art. 15bis della direttiva 96/61, inserito dall'art. 4, punto 4, della stessa direttiva).
Precisa infatti la Corte che siffatta prescrizione, se da un lato, non impedisce che i giudici possano
pronunciare una condanna alle spese, tuttavia impone che sia prevista espressamente la riserva che
l'importo di queste ultime soddisfi la condizione della non eccessiva onerosità.
In tal senso non è stato considerato sufficiente che i giudici irlandesi possano rinunciare a condannare la
parte soccombente alle spese e, neppure, che possano far gravare sulla controparte l'onere delle spese
sostenute dalla parte soccombente. Neppure è sufficiente che ciò di fatto accada in concreto, giacché una
mera prassi giurisdizionale non possiede, per sua natura, carattere di certezza, e non può quindi essere
considerata, rispetto ai presupposti stabiliti dalla giurisprudenza costante della Corte, un valido
adempimento degli obblighi risultanti dalle menzionate norme comunitarie.
Mentre dunque i giudici europei condannano un paese membro perché non ha introdotto espresse
previsioni che assicurino un regime differenziato a tutela dell'accesso alla giustizia in materia ambientale
dando così piena attuazione alla convenzione di Aarhus, l'Italia sembra, al contrario, avviarsi sulla strada
dell'introduzione di un regime differenziato in pejus, ossia volto a scoraggiare il contenzioso in materia
ambientale.
In tal senso si vedano le previste ipotesi di condanna d'ufficio per lite temeraria nel contenzioso delle
opere strategiche "anti-crisi" (si veda l'art. 20 del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito,
con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2).
Ma soprattutto si consideri la proposta di legge attualmente in discussione in Parlamento volta a
prevedere, per le sole le associazioni di protezione ambientale, la "condanna al risarcimento dei danni" in
caso di ricorso avanti al giudice amministrativo dichiarato manifestamente infondato; e ciò sulla base
della convinzione per cui "sembra doveroso un intervento legislativo volto a responsabilizzare l'attività
delle associazioni di protezione ambientale, al fine di evitare che ricorsi amministrativi, manifestamente
infondati, siano presentati al solo fine di ritardare la realizzazione di opere pubbliche" (13).
Ma a parte tale proposta di legge, la cui approvazione porrebbe l'Italia in evidente rotta di collisione con
la convenzione di Aarhus ed il diritto comunitario citato (ma anche con fondamentali principi
costituzionali, prima fra tutti quelli di cui agli artt. 24 e 111 della Carta), e che senza dubbio
comporterebbe la fine del contenzioso giurisdizionale amministrativo per iniziativa delle associazioni
ambientaliste, vale la pena di ricordare come a tutt'oggi queste ultime siano tutt'affatto che agevolate nel
sopportare le spese di giustizia.
In proposito basti evidenziare che anche per i ricorsi giurisdizionali proposti dalle associazioni
ambientaliste nazionali e locali, il Consiglio di Stato e gran parte dei T.A.R. italiani richiedono il
pagamento del c.d. "contributo unificato" di iscrizione a ruolo di cui al T.U. sulle spese di giustizia
(approvato con il D.Lgs. 115/2002), anche quando queste siano riconosciute come ONLUS Organizzazioni non lucrative di utilità sociale ai sensi del D.Lgs. 266/1991 (14). Il tutto tenendo conto del
considerevole importo cui è ormai pervenuto il contributo unificato per le cause davanti al giudice
amministrativo, di 500 euro in via ordinaria, che arriva sino a 1.000 per le cause di cui all'art. 23-bis della
legge 1034/1971, tra cui quelle aventi ad oggetto i provvedimenti relativi all'esecuzione di opere
pubbliche e di pubblica utilità.
Né vita facile pare aver avuto sinora l'applicazione alle associazioni ambientaliste del beneficio del c.d.
"gratuito patrocinio", ossia l'ammissione al patrocinio di un avvocato a spese dello Stato, disciplinato dalle
disposizioni di cui al Titolo IV del ricordato D.Lgs. 115/2002, assicurato anche nel processo
amministrativo per la difesa del cittadino non abbiente quando le sue ragioni risultino non
manifestamente infondate (art. 74, comma 2 del T.U.) ed espressamente esteso ad enti o associazioni
che non perseguono scopo di lucro e non esercitano attività economica (art. 119). E tuttavia spesso nella
prassi l'ammissione al gratuito patrocinio per i ricorsi giurisdizionali amministrativi viene negata alle
associazioni di protezione ambientale da parte dei consigli dell'ordine degli avvocati (competenti ad
esprimersi sulle istanze di ammissione per il processo amministrativo ex art. 124 del T.U. delle spese di
giustizia), in ragione del superamento in capo alle organizzazioni della soglia di reddito imponibile annuo
massimo per poter accedere al beneficio (attualmente fissata dall'art. 76 del T.U. in euro 9.723.000),
reddito normalmente derivante dalle rendite catastali degli immobili di proprietà delle associazioni
medesime, malgrado la dottrina abbia evidenziato che detto criterio non possa trovare applicazione per le
organizzazioni non lucrative essendosi in presenza di un reddito non derivante dall'esercizio di attività
economiche e non distribuibile (15).
8. Sull'obbligo di mettere a disposizione del pubblico informazioni pratiche sull'accesso alla
giustizia ambientale.
Infine la Corte (ai paragrafi 96-98) ricorda che l'art. 10-bis, sesto comma, della direttiva 85/337 (inserito
dall'art. 3, punto 7, della direttiva 2003/35) e l'art. 15-bis, sesto comma, della direttiva 96/61 (inserito
dall'art. 4, punto 4, della stessa direttiva 2003/35) stabiliscono che spetta agli Stati membri mettere a
disposizione del pubblico informazioni pratiche sull'accesso alle procedure di ricorso amministrativo e
giurisdizionale, precisando che trattasi di un "preciso obbligo di risultato".
Anche in questo caso l'Irlanda viene ritenuta inadempiente in quanto mancano, nel relativo ordinamento,
specifiche disposizioni legislative o regolamentari riguardanti l'informazione al pubblico sui diritti di
accesso alla giustizia ambientale.
Il tutto con la precisazione, da parte della Corte, che la sola messa a disposizione, attraverso la
pubblicazione o con mezzi di comunicazione elettronici, della normativa relativa alle procedure di ricorso
amministrativo e giurisdizionale, nonché la mera possibilità di accesso alle decisioni giurisdizionali, non
possono essere considerate strumenti tali da garantire, in modo sufficientemente chiaro e preciso, che il
pubblico interessato sia posto in grado di conoscere i propri diritti di accesso alla giustizia in materia
ambientale.
In proposito basti evidenziare come anche in Italia nessuna disposizione normativa stabilisce e disciplina
l'informazione al pubblico circa le modalità di accesso alla giustizia ambientale, per cui appare
francamente del tutto evidente l'inadempimento del nostro Paese anche sotto questo profilo rispetto agli
obblighi imposti dalla direttiva 2003/35.
Ancora molta strada deve dunque percorrere l'Italia per dare attuazione alla Convenzione di Aarhus,
malgrado quest'ultima sia stata formalmente ratificata ed eseguita con la legge 16 marzo 2001, n. 108.
NOTE
(1) Nell'ambito di una controversia tra un'associazione per la tutela dell'ambiente e il Comune di
Stoccolma relativa al progetto di costruzione di un tunnel di circa 1 km per l'interramento di cavi elettrici
destinati a sostituire linee aeree ad alta tensione, il quale prevedeva la realizzazione di una serie di opere
per il drenaggio e di ricarica delle acque freatiche. In sentenza, confermando la tendenziale
giurisprudenza intesa ad interpretare in senso ampio il campo applicativo della procedura di VIA, si
precisa (ai paragrafi 23-31) che un progetto come quello in esame rientra nell'allegato II della direttiva
85/337 (punto 10, lett. l) a prescindere dalla destinazione finale delle falde freatiche e quindi anche se sia
escluso un successivo utilizzo delle medesime acque.
(2) Come si apprende dalla sentenza, il diritto svedese prevede che le domande di autorizzazione in
materia di drenaggio e ricarica artificiale delle falde freatiche vengono esaminate e decise da sezioni
specializzate in materia ambientale del tribunale locale, impugnabili dinanzi a Corti d'Appello, anch'esse
specializzate, le cui decisioni sono ricorribili per cassazione.
(3) Si veda ad esempio Cons. Stato, Sez. VI, 19 ottobre 2007, n. 5453, in Riv. giur. edilizia 2008, p. 371,
con riferimento all'interesse all'impugnazione, da parte di privati proprietari di aree e di Comuni, di
provvedimenti autorizzatori di una discarica di rifiuti. In termini Cons. Stato, Sez. V, 14 aprile 2008, n.
1725, in Riv. giur. edilizia 2008, p. 1157, secondo cui anche i Comuni viciniori debbono fornire elementi
concreti atti a dare prova della idoneità della discarica a produrre disagi e conseguenze negative sulla
salute della popolazione.
(4) Si veda in tal senso T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, 5 febbraio 2008 n. 358; in Foro amm.-TAR 2008, p.
590; in termini ID., Sez. II, 29 dicembre 2008, n. 3758, in Foro amm.-TAR 2008, p. 3453.
(5) Su tali tematiche si rinvia a A. MAESTRONI, Associazioni ambientaliste e interessi diffusi, in S. NESPOR,
A.L. DECESARIS (a cura di), Codice dell'ambiente, III ed., Milano 2009, pp. 435 ss. e alla giurisprudenza ivi
citata.
(6) Cfr. ad esempio da ultimo T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. I, 10 dicembre 2008, n. 1739, in Foro
amm.-TAR, 2008, p. 3281; nonché T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, Sez. I, 26 novembre 2007, n. 3365,
in questa Rivista, 2008, n. 3-4, p. 650, con nota in calce di L. FRIGERIO, Impugnazione di atti
amministrativi: legittimazione delle associazioni ambientaliste e rapporto tra AIA e VIA.
(7) Si veda ad esempio T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 1 aprile 2009, n. 3481, in Foro amm.-TAR, 2009, p.
1087.
(8) Da ultimo sembra impostare nei corretti termini la questione T.A.R. Calabria, Catanzaro, Sez. I, 30
aprile 2009, n. 378, in Foro amm.-TAR 2009, p. 1590; nonché T.A.R. Emilia Romagna, Parma, 3 giugno
2008, n. 304 e T.A.R. Toscana, Sez. I, 23 giugno 2008, n. 1651, entrambe in questa Rivista, 2009, n. 1,
pp. 200 ss. con nota in calce.
(9) Su tali argomenti si veda ad esempio R. LAI, Alta amministrazione e VIA: tra discrezionalità tecnica e
discrezionalità politica, in questa Rivista, 2006, pp. 515 ss.
(10) Cons. Stato, Sez. V, 16 giugno 2009, n. 3849, su cui si veda la nota di V. STEFUTTI, Tra il divieto di
frazionamento del progetto e il principio di effettività della normativa comunitaria, in
www.dirittoambiente.net
(11) Per la verità, a leggere il precedente paragrafo 23 della sentenza della Corte di Giustizia, non
parrebbe che il PDA irlandese recasse una previsione vincolante per i giudici nazionali, ma semplicemente
esortativa.
(12) L'assenza di dati statistici sull'argomento non rende men vere le suddette circostanze che rientrano
nell'esperienza di ogni operatore giuridico del settore.
(13) Così la relazione alla proposta di legge AC n. 2271, "Modifica all'articolo 18 della legge 8 luglio 1986,
n. 349, in materia di responsabilità processuale delle associazioni di protezione ambientale": si tratta
della c.d. proposta di legge "blocca-processi ambientali" presentata il 10 marzo 2009 alla Commissione
Giustizia della Camera dei deputati, primo firmatario l'on. Michele Scandroglio.
(14) E ciò malgrado la dottrina ritenga i ricorsi delle associazioni esenti dal contributo unificato in forza
del disposto dell'art. 10 del ricordato T.U. sulle spese di giustizia che esclude dall'obbligo del versamento
per i procedimenti già esenti dall'imposta di bollo (tra i quali rientrano tutti gli atti posti in essere da
ONLUS ex art. 27-bis Tabella B) del D.P.R. 642/1972 sulla disciplina dell'imposta di bollo): si veda. A
MAESTRONI, cit., pp. 471 ss.
(15) A. MAESTRONI, cit., p. 473.
Archivio selezionato: Dottrina
La direttiva 2004/35/CE e il suo recepimento in Italia (*)
Riv. giur. ambiente 2010, 01, 1
BARBARA POZZO
La Valutazione di
impatto ambientale
Fra Tecnica, Politica ed Amministrazione
Premessa
-
-
Un modello di partecipazione ed informazione e
quindi di inserimento della democrazia
ambientale nel procedimento amministrativo
Un modello di esercizio del potere amministrativo
(come la visita medica per la patente, così la
considerazione degli aspetti ambientali deve
precedere ogni decisione a proposito dell’opera)
Tre modi per guardare alla Via:
-
Uno strumento di verifica delle modalità di
attuazione del progetto
La Via nel D.Lgs. 152
-
-
E’ regolata insieme alla Vas ed alla
Autorizzazione Integrata Ambientale
Sta nella Parte seconda, ovvero subito dopo
i principi generali
Sul piano topografico:
-
Titolo I, Principi generali comuni a Vas, Via
e Ippc; Titolo II, Vas; Titolo III, Via; Titolo
III bis, Ippc; Titolo IV, Via transfrontaliere;
Titolo V, Norme transitorie e finali
La Via nel D.Lgs. 152
-
Ippc, attività
Via, progetti
Vas, piani e programmi
Sul piano concettuale:
-
-
-
-
-
-
Monitoraggio
Decisione ed informazione
Valutazione dell’esito dello studio e delle consultazioni
Consultazioni
Definizione del contenuto dello studio / rapporto
Verifica di assoggettabilità
Sul piano procedimentale, Via e Vas => schema comune:
-
L’influenza
comunitaria
Attuazione di tre direttive
- 2001/42
- 1985/337
- 2008/01
Ma anche una chiara finalità di diritto
interno: il coordinarmento di tutte le
procedure di autorizzazione in campo
ambientale
Il principio dello
sviluppo sostenibile
La valutazione ambientale di piani, programmi e
progetti ha la finalità di assicurare che l'attività
antropica sia compatibile con le condizioni per uno
sviluppo sostenibile, e quindi nel rispetto della
capacità rigenerativa degli ecosistemi e delle risorse,
della salvaguardia della biodiversità e di un'equa
distribuzione dei vantaggi connessi all'attività
economica. Per mezzo della stessa si affronta la
determinazione della valutazione preventiva
integrata degli impatti ambientali nello svolgimento
delle attività normative e amministrative, di
informazione ambientale, di pianificazione e
programmazione.
Tre diverse proiezioni
Vas, la Integrazione dell’ambiente inteso come sviluppo sostenibile costituisce
una condizione per la approvazione di qualsiasi strumento di pianificazione o
programmazione che possa avere influenza sull’ambiente secondo il principio
di Integrazione. Nella Vas, l’ambiente è Sviluppo sostenibile
-
-
-
Interazione fra i fattori appena indicati
Beni materiali e patrimonio culturale
Suolo, acqua, aria, clima
Uomo, fauna, flora
Via, la pre - considerazione degli effetti per l’ambiente costituisce il
presupposto per l’approvazione di qualsiasi progetto che possa avere effetti
sull’ambiente stesso, secondo il principio di Prevenzione. Nella Via, l’ambiente
è composto di matrici ambientali:
-
Ippc, lo scopo è la prevenzione e la riduzione integrata dell’inquinamento, ove
possibile e fin tanto che è possibile, avvicinandosi al principio Chi inquina
paga. Nella Vas, l’ambiente è Controllo di un’attività inquinante
Ed un problema
lessicale
Impatto ambientale: l'alterazione qualitativa e/o quantitativa,
diretta ed indiretta, a breve e a lungo termine, permanente e
temporanea, singola e cumulativa, positiva e negativa
dell'ambiente, inteso come sistema di relazioni fra i fattori
antropici, naturalistici, chimico-fisici, climatici, paesaggistici,
architettonici, culturali, agricoli ed economici, in conseguenza
dell'attuazione sul territorio di piani o programmi o di
progetti nelle diverse fasi della loro realizzazione, gestione e
dismissione, nonché di eventuali malfunzionamenti
=> Una questione quasi impossibile da giudicare e risolvere
senza pregiudizi
=> Il primo nodo della Via è la verifica di assoggettabilità che è
una fase tutta interna alla pubblica amministrazione !
Competenze
In sede statale, l'autorità competente è il Ministro
dell'ambiente e della tutela del territorio e del
mare. Il provvedimento di VIA e il parere motivato
in sede di VAS sono espressi di concerto con il
Ministro per i beni e le attività culturali, che
collabora alla relativa attività istruttoria. Il
provvedimento di AIA è rilasciato dal Ministro
dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare
sentiti il Ministro dell'interno, il Ministro del lavoro
e delle politiche sociali, il Ministro della salute, il
Ministro dello sviluppo economico e il Ministro
delle politiche agricole, alimentari e forestali
Commissione Tecnica
di Verifica Ambientale
Assicura il supporto tecnico-scientifico
Sono nominati per un triennio con decreto
ministeriale (spoil system?)
I suoi componenti sono posti fuori ruolo, con diritto
al trattamento economico ed all’avanzamento in
carriera, il loro posto in pianta organica è
indisponibile
! E’ un modello diretto ad assicurare l’imparzialità e
l’indipendenza della fase tecnico - scientifica
! Lo stesso modello vale per Ippc
Procedimento
Si applica la legge 241 del 1990
! Non c’è una specialità procedimentale dell’Ambiente
con riferimento alla Via
Il modello per conferenze di servizi
! Analisi contestuale ed in contraddittorio dei diversi
interessi come cristallizzati negli atti di assenso
Gli accordi procedimentali
! La definizione consensuale degli interessi coinvolti
! La questione del segreto industriale
Semplificazione
Tendenziale identità fra Via e Aia
!Il problema del Domino Approach
Vas, Rapporto
ambientale
Autorità proponente: Rapporto preliminare / Autorità
competente definisce il contenuto del Rapporto ambientale
La consultazione si svolge sulla base del Rapporto
preliminare (entro novanta giorni dal suo invio): è il
proponente che decide il ritmo della consultazione, ma è la
consultazione che influenza il contenuto del Rapporto
ambientale
Nel rapporto ambientale debbono essere individuati,
descritti e valutati gli impatti significativi che l'attuazione
del piano o del programma proposto potrebbe avere
sull'ambiente e sul patrimonio culturale, nonché le
ragionevoli alternative che possono adottarsi in
considerazione degli obiettivi e dell'ambito territoriale del
piano o del programma stesso
Vas, Consultazioni
Avviso
Deposito
Osservazioni (sessanta giorni dall’avviso)
Valutazione finale (novanta giorni dalla
conclusione del termine per le osservazioni)
In caso di violazione del termine, valgono le
disposizioni generali in materia di silenzio
contenute nel c.p.a.
!
!
Vas, Decisione
Il piano o programma ed il rapporto ambientale, insieme con
il parere motivato e la documentazione acquisita nell'ambito
della consultazione, sono trasmessi all'organo competente
all'adozione o approvazione del piano o programma
Fa corpo con il procedimento cui accede, secondo il principio
di Integrazione
Pubblicità su Gu e Bur ed accessibilità mediante web
Determina il dies a quo di eventuali impugnazioni dinanzi
alla giustizia amministrativa
Monitoraggio e pubblicazione degli esiti
! Ha valore provvedimentale?
Valore della Via
Art. 29: presupposto o parte integrante del
procedimento di autorizzazione o approvazione. I
provvedimenti di autorizzazione o approvazione
adottati senza la previa valutazione di impatto
ambientale, ove prescritta, sono annullabili per
violazione di legge.
Se manca la Via o le prescrizioni di Via sono eluse,
sospensione dei lavori e rimessione in pristino a spese
dell’interessato (si applica Tu per la riscossione coattiva
delle entrate dello Stato) =>Il valore dell’ambiente a
seguito della rimessione in pristino => un potere da
esercitare previa nuova Via (l’Opzione zero
rovesciata)
Fasi della Via
Verifica di assoggettabilità (art. 6, comma 7)
Definizione del contenuto dello studio di impatto
ambientale
Presentazione e pubblicazione
Consultazioni
Valutazione dello studio e delle consultazioni
Decisione
Informazione sulla decisione
Monitoraggio
Verifica di
assoggettabilità
Ambito di applicazione: i progetti di cui
all’allegato II (sperimentazione ed esercizio per
non più di due anni aut modifiche o estensioni);
i progetti indicati nell’allegato IV
Oggetto: Possibili effetti Negativi e Significativi
sull’ambiente
Tempi: 45 giorni (osservazioni), 45 giorni
(pronuncia), 45 + 30 (integrazioni documenti)
Esito: Via o non Via, se del caso con prescrizioni
Definizione contenuti
Progetto preliminare, Studio preliminare
ambientale, Piano di lavoro, Elenco
autorizzazioni
L’Amministrazione: (a) definisce le condizioni per
l’elaborazione dello studio di impatto ambientale;
(b) esamina l’Alternativa zero; (c) verifica
situazioni di incompatibilità; (d) individua le
condizioni per ottenere in sede di presentazione
del progetto definitivo i diversi atti di assenso
Dura massimi sessanta giorni
Lo Studio di Impatto
ambientale
Contenuti: (a) una descrizione del progetto; (b)
misure per eliminare, ridurre o compensare gli
impatti negativi rilevanti; (c) i dati necessari per
individuare e valutare l’impatto del progetto
sull’ambiente ed il patrimonio culturale sia in fase
di realizzazione che di esercizio; (d) descrizione
delle principali alternative; (e) descrizione delle
misure previste per il monitoraggio
Presentazione progetto definitivo, studio di impatto
ambientale, sintesi non tecnica (e contributo per le
spese di istruttoria); 30 giorni per verificare la
documentazione e chiedere eventuali integrazioni
Consultazione
Notizia a mezzo stampa e sul sito web della
Amministrazione competente (vale anche ai fini dell’art. 7,
commi 3 e 4, legge 241/1990)
Sessanta giorni per osservazioni, che comprendono anche i
pareri di tutte le amministrazioni interessate (le
osservazioni devono essere prese in considerazione
“contestualmente, singolarmente, per gruppi”)
Possibile inchiesta pubblica (possibile contraddittorio del
proponente con chi ha presentato osservazioni ovvero chi
ha formulato parere contrario alla realizzazione dell’opera)
Possibile modifica del progetto in base alle osservazioni ed
ai pareri (eventualmente si riparte)
Istruttoria
Parere della Regione
Parere di ogni amministrazione competente
in materia ambientale, ivi compreso MinBC,
eventualmente per mezzo di una
conferenza di servizi istruttoria (tempo
sessanta giorni dalla presentazione della
istanza)
Eventuali accordi procedimentali
Decisione
150 - 210 giorni dall’inizio del procedimento (potere sostitutivo
del Consiglio dei Ministri, tutela generale contro il silenzio della
amministrazione [discrezionalità e giustiza amministrativa])
Provvedimento espresso e motivato che sostituisce o coordina
tutte le autorizzazioni, intese, concessioni, licenze, pareri, nulla
osta e assensi comunque denominati in materia ambientale,
necessari per la realizzazione e l'esercizio dell'opera o
dell'impianto
Contiene tutte le condizioni per la realizzazione, esercizio o
dismissione dei progetti
In nessun caso, i lavori possono iniziare prima che sia
intervenuta la Valutazione di impatto ambientale
Massimi cinque anni per la realizzazione del progetto
Informazione e
monitoraggio
Informazione: Gu (o Bu) e sito web
Monitoraggio: sito web, serve per verificare
che la Valutazione sia stata completa,
altrimenti i lavori devono essere sospesi e
la Decisione integrata (può essere integrata
anche con l’opzione zero?)
Autorizzazione
Integrata Ambientale
E’ un esempio di semplificazione funzionale (art. 10, d.lgs.
152/2006)
E’ espressione del principio della azione preventiva, ma
anche dei principi di efficienza e di unicità della
amministrazione
E’ derivata dal diritto comunitario (dir. 96/61/CE: dapprima
d.lgs. 372 del 1999 e quindi d.lgs. 59/2005. Solo il d.lgs.
4/2008 la accorpa nel codice dell’ambiente)
Sostituisce tutte le autorizzazioni indicate nell’Allegato IX e
rispetto a ciascuna autorizzazione ha l’efficacia indicata
dalle norme settoriali di riferimento: in pratica ogni
autorizzazione ad eccezione degli incidenti rilevanti (d.lgs.
334/1999) e gas ad effetto serra (d.lgs. 216/2006)
Autorizzazione
Integrata Ambientale
Non solo realizza, in base ai principi di efficienza e di responsabilità e
unicità dell'Amministrazione, un accorpamento di funzioni di tutela
dell'ambiente tra loro sovrapposte o comunque intrecciate; ma costituisce
anche una mirabile applicazione del principio di efficacia dell'azione
amministrativa, poiché l'integrazione delle tutele ambientali di settore
all'interno di una funzione unitaria consente di tenere conto, nel rilascio
dell'autorizzazione integrata, che assorbe le autorizzazioni altrimenti
richieste, del fatto che l'inquinamento complessivamente prodotto da un
impianto non coincide con la mera somma algebrica, se così si può dire,
degli inquinamenti di vario genere prodotti da ogni singola fonte di
emissioni inquinanti presente nell'impianto medesimo. In realtà, le
diverse fonti e i vari tipi di inquinamento, dell'acqua, dell'aria e del suolo,
riscontrabili in un impianto si combinano tra loro causando una
moltiplicazione esponenziale dell'effetto complessivo degli inquinamenti,
che è ben superiore alla somma dei singoli fattori inquinanti considerati
isolatamente (M. Renna, Le semplificazioni amministrative (nel decreto
legislativo n. 152 del 2006), in Riv. giur. ambiente 2009, 05, 649)
Oggetto
Determinate attività industriali particolarmente inquinanti:
-
attività energetiche,
attività di produzione e trasformazione di metalli,
attività dell'industria dei prodotti minerali, attività dell'industria
chimica,
attività di gestione dei rifiuti,
fabbricazione di carta e cartoni con capacità di produzione
superiore a 20 tonnellate al giorno,
concia delle pelli con capacità di trattamento superiore a 12
tonnellate al giorno di prodotto finito,
macellazione con capacità di produzione di carcasse superiore a 50
tonnellate al giorno,
trattamento e trasformazione del latte con un quantitativo di latte
ricevuto di oltre 200 tonnellate al giorno,
allevamento intensivo di pollame o di suini con più di 40.000 posti
pollame, 2.000 posti suini da produzione o 750 posti scrofe, e così
via
Autorizzazione
Integrata Ambientale
Una “Soggezione speciale” => L’Aia come atto
amministrativo condizionato?
Bat (Best Available Technologies)
Decreti del Ministro dell'ambiente e della tutela del
territorio e del mare, del Ministro dello sviluppo
economico e del Ministro del lavoro, della salute e delle
politiche sociali, sentita la Conferenza unificata istituita
ai sensi del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281
Le Aia generali
Procedimenti composti (il modello OGM)?
Finalità (art. 6,
comma 16)
a) devono essere prese le opportune misure di prevenzione dell'inquinamento,
applicando in particolare le migliori tecniche disponibili;
b) non si devono verificare fenomeni di inquinamento significativi;
c) deve essere evitata la produzione di rifiuti, a norma della quarta parte del
presente decreto; in caso contrario i rifiuti sono recuperati o, ove ciò sia
tecnicamente ed economicamente impossibile, sono eliminati evitandone e
riducendone l'impatto sull'ambiente, secondo le disposizioni della medesima
quarta parte del presente decreto;
d) l'energia deve essere utilizzata in modo efficace ed efficiente;
e) devono essere prese le misure necessarie per prevenire gli incidenti e
limitarne le conseguenze;
f) deve essere evitato qualsiasi rischio di inquinamento al momento della
cessazione definitiva delle attività e il sito stesso deve essere ripristinato ai sensi
della normativa vigente in materia di bonifiche e ripristino ambientale
=> Elevato livello di protezione dell’ambiente nel suo complesso
La domanda
a) l'impianto, il tipo e la portata delle sue attività;
b) le materie prime e ausiliarie, le sostanze e l'energia usate o prodotte dall'impianto;
c) le fonti di emissione dell'impianto;
d) lo stato del sito di ubicazione dell'impianto;
e) il tipo e l'entità delle emissioni dell'impianto in ogni settore ambientale, nonché un'identificazione
degli effetti significativi delle emissioni sull'ambiente;
f) la tecnologia utilizzata e le altre tecniche in uso per prevenire le emissioni dall'impianto oppure per
ridurle;
g) le misure di prevenzione e di recupero dei rifiuti prodotti dall'impianto;
h) le misure previste per controllare le emissioni nell'ambiente nonché le attività di autocontrollo e di
controllo programmato che richiede l'intervento dell'Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca
Ambientale e Agenzia per la protezione dell'ambiente e per i servizi tecnici e delle Agenzie regionali e
provinciali per la protezione dell'ambiente (146);
i) le eventuali principali alternative prese in esame dal gestore, in forma sommaria;
l) le altre misure previste per ottemperare ai principi di cui all'articolo 6, comma 15, del presente
decreto.
Sintesi non tecnica
Istruttoria
Trenta giorni per verificare la documentazione
Comunicazione di avvio del procedimento, Deposito,
Avviso al pubblico (ai sensi dell’art. 7, legge 241 del
1990)
Osservazioni entro trenta giorni che decorrono
dall’avviso al pubblico
Conferenza di servizi ai sensi dell’art. 14 bis e ter,
legge 241 del 1990 (Sindaco ai sensi di 216 e 217,
Tuls)
Provvedimento pubblico
Accordi ex art. 29 quater,
quindicesimo comma
In considerazione del particolare e rilevante
impatto ambientale, della complessità e del
preminente interesse nazionale dell'impianto,
nel rispetto delle disposizioni del presente
decreto, possono essere conclusi, d'intesa tra lo
Stato, le regioni, le province e i comuni
territorialmente competenti e i gestori,
specifici accordi, al fine di garantire, in
conformità con gli interessi fondamentali
della collettività, l'armonizzazione tra lo
sviluppo del sistema produttivo nazionale, le
politiche del territorio e le strategie aziendali
Valori limite di
emissione
Non inferiori a quelli previsti dalle norme di settore
Se necessario, ulteriori misure
Se opportuno, possono essere sostituiti con
parametri o tecniche equivalenti (misure tecniche
equivalenti)
Riferimento alle Bat, senza obbligo di adottare una
specifica Bat e tenendo conto delle caratteristiche
tecniche dell'impianto in questione, della sua
ubicazione geografica e delle condizioni locali
dell'ambiente
Valori limite di emissione
per determinate aree
Se, a seguito di una valutazione dell'autorità
competente, che tenga conto di tutte le emissioni
coinvolte, risulta necessario applicare ad
impianti, localizzati in una determinata area,
misure più rigorose di quelle ottenibili con le
migliori tecniche disponibili, al fine di assicurare
in tale area il rispetto delle norme di qualità
ambientale, l'autorità competente può prescrivere
nelle autorizzazioni integrate ambientali misure
supplementari particolari più rigorose, fatte salve
le altre misure che possono essere adottate per
rispettare le norme di qualità ambientale.
Rinnovo
Dura cinque anni (sei, per gli impianti ISO
14001)
Sei mesi prima della scadenza, istanza di
rinnovo (stesso procedimento stabilito per
il rilascio)
Fino all’esito del procedimento di rinnovo, il
Gestore prosegue sulla base della
precedente autorizzazione
Riesame
Se l’inquinamento provocato dall’impianto
è tale da rendere necessaria la modifica dei
valori limite di emissione
Cambiano le migliori tecnologie disponibili
La sicurezza di esercizio dell’impianto
richiede l’impiego di nuove tecniche
Ci sono modifiche ordinamentali
Modifiche degli
impianti
Se sostanziali, nuova Aia
Altrimenti, aggiornamento
Controlli
A carico del Gestore (periodici, diffusi, effettivi,
imparziali)
Comunicati agli organismi di controllo
Controlli ed ispezioni
Il tutto a disposizione del pubblico
Diffida, sospensione, revoca, a seconda della
gravità della infrazione - Misure ai sensi
dell’art. 217, Tuls su impulso della Autorità
competente
L’inventario
Delle principali fonti di emissione
Delle Aia rilasciate
Archivio selezionato: Note
La valutazione di impatto ambientale fra discrezionalità dell'amministrazione e
sindacato del giudice amministrativo.
Foro amm. TAR 2010, 10, 3179
Rosario Ferrara
Abstract: Il commento alla sentenza del T.a.r. Toscana fa il punto in merito al procedimento di valutazione
di impatto ambientale così come disciplinato nel nostro ordinamento. A questo riguardo si evidenzia che il
vero punto focale attorno al quale si annodano le principali criticità è costituito dal rapporto che passa fra
l'attività di valutazione tecnica delle pubbliche amministrazioni preposte alla tutela dell'ambiente e il
sindacato del giudice amministrativo volto ad accertare se il procedimento e il finale provvedimento
amministrativo siano legittimi. Si nota, da questo punto di vista, una sorta di self-restraint del nostro
giudice amministrativo il cui sindacato sembra arrestarsi al cospetto di quelli che vengono considerati
come gli elevati profili di discrezionalità amministrativa dell'amministrazione procedente.
1. Mi sembra importante una riflessione preliminare, prima e a margine della sentenza in esame,
pronunzia comunque rilevante e densa di significato da molteplici punti di vista.
E cioè, ogni discorso relativo alle politiche pubbliche di tutela dell'ambiente passa (rectius, continua a
passare) nella stretta cruna dell'ago costituita dal procedimento di valutazione di impatto ambientale, in
sintonia con i principi più generali e fondamentali del diritto dell'Unione europea, ovverosia il principio di
precauzione e quello di prevenzione? (1) .
Di ciò fanno piena prova, a tutti gli effetti, almeno due dati di fatto e di sistema giuridico che ci vengono
rappresentati dalla concreta e materiale evoluzione del nostro ordinamento giuridico, non raramente
secondo linee non perfettamente coerenti con lo spirito e le norme positive del diritto derivato dell'Unione
europea.
Se, infatti, da un lato, il c.d. codice ambientale si rivela, a tutti gli effetti, come un cantiere aperto, quasi
si trattasse del duomo di Colonia (ultimato il quale dovrebbe finire il mondo!), è soprattutto in materia di
v.i.a. e di valutazione ambientale strategica (v.a.s.) che risalta emblematicamente l'indomito vigore
riformatore del nostro legislatore? (2) . Dall'altro lato, ogni più generale dibattito intorno alla
semplificazione amministrativa ed ai suoi istituti finisce fatalmente per convergere verso un vero e
proprio imbuto (in realtà, verso un'autentica strettoia «?idelogica?» che dovrebbe essere in qualche
misura decodificata) nel quale si confrontano e si misurano le (buone) ragioni dell'impresa, ossia della «?
cultura del fare?», e quelle, certamente non secondarie, della cura adeguata, responsabile e soprattutto
non rinunciataria degli interessi pubblici attuali, così come obiettivizzati dalla nostra carta costituzionale,
ed anzi in modo addirittura formale dai Trattati istitutivi dell'Unione europea? (3) .
E di tutto ciò si può fornire più di un indizio, anche a prescindere dai ricorrenti conati riformatori del
nostro legislatore i cui «?strali?» si dirigono anche nei riguardi dell'art. 41 Cost. di cui viene
enfaticamente predicata la revisione in nome della «?cultura del fare?»? (4) .
Vero è infatti che l'attenzione della dottrina e della giurisprudenza si focalizza da sempre attorno ad un
fondamentale nodo problematico, del quale la sentenza in commento dà conto, con risposte e soluzioni
interpretative che paiono essere del tutto persuasive: fino a che punto le (buone) ragioni dell'impresa
possono indurre a sacrificare quelle (verosimilmente ottime) della protezione dell'ambiente? E quali
possono eventualmente essere gli strumenti, apprezzabili sul piano tecnico- giuridico, maggiormente
idonei a consentire (l'improbabile) quadratura del cerchio, nella direzione del miglior contemperamento
possibile, alla luce del principio di proporzionalità, degli interessi pubblici e privati coinvolti dai
procedimenti di valutazione di impatto ambientale?
A questo riguardo, un fondamentale punto di snodo del dibattito è sicuramente rappresentato dal
dilemma (che materializza, in realtà, una vera e propria antinomia concettuale e financo «?ideologica?»)
se il procedimento di valutazione di impatto ambientale debba conservare una sua piena autonomia nel
contesto dei variegati, e talora non sufficientemente coordinati, procedimenti a carattere autorizzatorio
che si dirigono a preventivamente conformare quella stessa opera, quel progetto, quell'intervento che
deve essere comunque del pari sottoposto alla previa verifica di sostenibilità ambientale. In altre parole,
posto che ogni progetto relativo ad un'attività umana obbligatoriamente assoggetata a valutazione di
impatto ambientale dovrà in ogni caso passare attraverso altri momenti di conformazione preventiva
(innanzi al ministero dello sviluppo economico, delle infrastrutture, ecc. oppure avanti alle competenti
autorità regionali e/o provinciali) ci si chiede se il procedimento di valutazione di impatto ambientale
debba essere costruito e strutturato secondo un principio logico di integrazione e concentrazione
procedimentale oppure alla luce della diversa regola dell'autonomia e della differenziazione funzionale?
(5) .
Sono ben evidenti, e persino ovvie, le diverse filosofie di valore sottese alle opposte opzioni strategiche e
di politica del diritto appena messe in luce.
E, infatti, nel momento in cui la valutazione di impatto ambientale sia destinata ad innestarsi, alla stregua
di un subprocedimento fornito di autonomia funzionale, nel contesto di un più vasto e complesso
procedimento di procedimenti, si potrà verosimilmente supporre (o almeno confidare) che la cura degli
interessi ambientali riceva adeguata considerazione, quantomeno nella forma minima della sua
rilevazione e ponderazione nell'ambito del procedimento amministrativo? (6) ; laddove invece la
valutazione medesima confluisca in una sorta di terra di tutti (e di nessuno), ossia costituisca il segmento
inautonomo di una più generale procedura di comparazione di tutti gli interessi (pubblici e privati) in
gioco, non parrebbe infondato temere una forte dequotazione di quegli stessi interessi di tutela
ambientale che il legislatore, in altre norme e per altri profili, sembra comunque collocare nell'area dei
valori e degli obiettivi di vertice del nostro ordinamento? (7) .
Siffatto modo di ragionare può forse apparire come viziato da una certa astrattezza, o comunque a
carattere meramente formale, ma esso assume tuttavia, a mio avviso, corpo e sostanza se solo si
focalizza il nucleo vivente di ogni procedimento di valutazione di impatto ambientale, cogliendosene
pertanto la ratio e, soprattutto, le finalità ultime, di ordine sostanziale, che ne designano la missione.
Vero è, infatti, che è nel quadro del procedimento di valutazione di impatto ambientale che si mette in
campo una vera e propria «?strategia strutturata?» di controllo del rischio, del rischio ambientale,
ovviamente, ed alla luce del principio di precauzione? (8) ; e vero è egualmente che è in questo stesso
contesto che il procedimento amministrativo gioca il fondamentale ruolo che gli è proprio, di rilevazione e
di misurazione, di ponderazione e di comparazione dei rischi secondo criteri e valori che si ispirano
all'analisi costi/benefici, e pertanto al calcolo probabilistico, integrato, e financo corretto, dalla regola
della proporzionalità? (9) .
Ossia, il procedimento di valutazione di impatto ambientale non si materializza soltanto come un
procedimento amministrativo in senso tecnico- giuridico, ma addirittura — se mi si passa questa solo
apparente forzatura- come l'esempio forse più rilevante e significativo della contemporaneità, della
contemporaneità disillusa del mondo liquido (9) nel quale è il diritto, con i suoi riti formali/sostanziali, ad
essere chiamato a gestire le insufficienze o, comunque, i nodi irrisolti della «?scienza incerta?»? (10) .
2. Tale complesso di considerazioni e valutazioni sistemiche non sembra affatto estraneo alla sentenza in
commento e, anzi, ne costituisce, a tutti gli effetti, l'humus culturale, ossia il presupposto logico di
partenza.
Il che è comprovato sia dalla ricostruzione effettuata dal giudice amministrativo del procedimento di
valutazione di impatto ambientale sulla scorta dei principi dei Trattati istitutivi dell'Unione europea
(precauzione e prevenzione), sia dalla stessa sua configurazione, proprio in questa luce, come sequenza
procedimentale autonoma, all'insegna di regole e principi di autonomia funzionale differenziata.
È tuttavia soprattutto il nucleo sensibile del ragionamento del giudice amministrativo a rivestire
particolare interesse, là ove si affronta il tema cruciale del potere discrezionale dell'amministrazione e
quello (connesso) dei limiti del sindacato giurisdizionale sulle forme concrete dell'esercizio di siffatto
potere discrezionale da parte delle amministrazioni preposte a realizzare le valutazioni di impatto
ambientale.
La pronunzia in esame coglie sicuramente nel segno allorché individua nel potere discrezionale
dell'amministrazione e nel correlato potere di sindacato del giudice amministrativo, sia sul modo di farsi
del potere che sul provvedimento che chiude la procedura di valutazione, il thema decidendum attorno al
quale far ruotare ogni più rilevante e risolutiva considerazione.
E, infatti, la discrezionalità amministrativa (pura e/o tecnica, ed anzi la discrezionalità tout court) è
davvero il baricentro di ogni discorso relativo al procedimento di valutazione di impatto ambientale, e
anzi relativo ad ogni più ampia e differenziata procedura di valutazione del previo impatto ambientale
delle attività umane suscettibili di arrecare un vulnus all'ambiente, sia a quello naturalistico che a quello
antropizzato oppure «?creato dall'uomo?»? (11) , secondo quanto lascia chiaramente intendere la
sentenza in commento.
A ben vedere, sembra addirittura possibile affermare che la discrezionalità in quanto tale sia del tutto
coessenziale ai procedimenti di valutazione di impatto ambientale (anche a carattere strategico oppure a
struttura atipica) (12) , e che tale coessenzialità sia per così dire in re ipsa già nel momento stesso nel
quale si provvede a recepire nell'ordinamento degli Stati nazionali le direttive europee in materia di
valutazioni di impatto ambientale.
È sufficiente ricordare, sotto questo riguardo, il dibattito, in qualche misura persino inatteso e quasi
paradossale, che si sviluppò nella prima fase di trasposizione della direttiva CEE 85/337 del 27 giugno
1985 (la madre di tutte le direttive in materia) circa le opere, i progetti e gli interventi elencati nel
secondo allegato alla direttiva medesima, relativamente ai quali la comune quanto interessata regia di
tutti i paesi membri dell'Unione europea spingeva nella direzione di sottrarli all'obbligo della previa
valutazione di impatto ambientale, quasi che per essi fosse stato disposto un regime di piena
facoltatività. Del tutto noto è, sotto questo profilo, il costante orientamento della giurisprudenza di Corte
di giustizia dell'Unione europea la quale ravvisò nell'eccesso di potere discrezionale il vizio di
ragionamento nel quale erano incorsi i legislatori nazionali in occasione del recepimento della direttiva
CEE n. 85/337, eccesso di potere discrezionale la cui presenza — e persistenza nel tempo —
materializzava, inesorabilmente, l'inadempimento delle obbligazioni comunitarie (rectius, del diritto
dell'Unione europea) ad opera degli Stati membri? (13) .
Se questo è vero, è tuttavia in merito alle valutazioni ambientali a carattere strategico che il problema
della discrezionalità delle amministrazioni sembra destinato a presentare, «?a regime?», i profili di
maggior interesse e, soprattutto, di più evidente criticità, e sia considerando in se stesso il procedimento
di valutazione ambientale strategica che il rapporto che passa (rectius, che non può non passare) fra la
previa valutazione di conformità, «?a monte?», dei piani e dei programmi rilevanti per l'ambiente e il
giudizio di sostenibilità ambientale che deve essere espresso, «?a valle?», sulle singole opere, sui singoli
progetti, ecc.
In questo senso, il cit. d.lg. n. 152/2006 non sembra foriero di soluzioni davvero esaustive, ed anzi si
limita a meramente sollevare il problema, almeno in relazione al secondo punto di snodo appena
evidenziato, abbozzando, peraltro, a questo riguardo, una risposta tutto sommato convincente? (14) .
Si comprendono, in verità, le motivazioni di una certa leggerezza delle norme del c.d. codice ambientale
relative alla v.a.s. (ad esempio, una certa ricorrente confusione circa la fase procedimentale durante la
quale dovrebbe essere disposto il controllo strategico del piano e/o del programma, oscillandosi fra il
momento dell'adozione e quello dell'approvazione del piano medesimo), in quanto la stragrande
maggioranza dei piani/programmi di governo del territorio in senso ampio è oggi disciplinata dalle regioni,
sicché la legge dello Stato non può andare oltre la mera «?determinazione dei principi fondamentali?»
della materia, alla luce dell'art. 117, terzo comma, Cost.? (15) .
Sufficientemente preciso è, invece, il secondo comma dell'art. 19 del d.lg. n. 152/2006, là ove afferma
che «?Per i progetti inseriti in piani o programmi per i quali si è conclusa positivamente la procedura di
VAS, il giudizio di VIA negativo ovvero il contrasto di valutazione su elementi già oggetto della VAS è
adeguatamente motivato?».
Ora, la norma appena riportata intercetta in modo del tutto corretto quello che è certamente un problema
nel problema, di evidente valenza pratico-teorica e, del resto già ampiamente esplorato, sia in dottrina
che in giurisprudenza: ossia il problema, ben noto, del rapporto che passa fra gli atti c.d. presupposti (a
carattere normativo, di alta amministrazione, di pianificazione/programmazione, ecc.) e i conseguenti atti
applicativi che sono assunti «?a valle?», secondo una linea di non solo virtuale coerenza con gli atti più
generali che si collocano invece «?a monte?»? (16) .
E tale rapporto — quello fra l'atto presupposto e il provvedimento c.d. applicativo ed esecutivo — sembra
rappresentarci, a tutti gli effetti, una relazione dinamica fra poteri discrezionali. Relazione dinamica, e
tutto sommato fluida, che si dispiega fra un potere più ampiamente discrezionale, e davvero di non
agevole sindacabilità da parte del giudice amministrativo in quanto si dirige nei confronti di atti che sono
pur sempre manifestazione dell'indirizzo politico- amministrativo degli apparati amministrativi (e,
segnatamente, degli enti territoriali), e l'esercizio di potestà pubbliche a contenuto esecutivo e concreto il
cui tasso di discrezionalità appare sicuramente più ridotto, e comunque in qualche modo espressione
dell'autovincolo dell'amministrazione, nella misura in cui i documenti di pianificazione/programmazione
elaborati «?a monte?» abbiano saputo (o voluto) indirizzare e vincolare «?a valle?» la successiva attività
provvedimentale.
Le scelte fin qui effettuate dal legislatore (ad esempio, nella l. n. 241/1990, ex artt. 3, 13 e 24,
rispettivamente in materia di motivazione degli atti amministrativi, di partecipazione al procedimento e di
diritto di accesso), possono anche non essere condivise, ma abbastanza scoperta e visibile ne pare essere
la ratio fondativa. E cioè, vi è un'area, corposa e significativa, dell'attività amministrativa che, in quanto
espressione dell'indirizzo politico-amministrativo degli apparati di governo e di amministrazione degli
interessi pubblici, è per così dire sottratta alle regole ordinarie di garanzia declinate dalla nostra legge
breve sul procedimento, materializzandosi, in questo modo, una rilevante «?libertà
dell'amministrazione?», libertà che si manifesta (anche) per il fatto che su di essa il sindacato del giudice
amministrativo si esercita in forma obiettivamente debole (rectius, più debole e/o meno forte).
E, tuttavia, un dato di esperienza e di sistema giuridico è egualmente certo, un dato in forza del quale si
perviene a temperare la condizione di (sicuramente elevata) libertà delle amministrazioni pubbliche
allorché mettano in campo atti normativi, atti amministrativi generali nonché di pianificazione/
programmazione: il potere normativo e di pianificazione/programmazione è pur sempre assoggettato in
quanto tale al sindacato del giudice amministrativo, quantomeno per quello che ne appare come il
prodotto finale, sia autonomamente, ex se, quando si tratti di scelte e decisioni concrete capaci di
infliggere comunque un vulnus, sia congiuntamente all'atto applicativo/esecutivo quando sia solo a
seguito dell'emanazione del successivo provvedimento concreto che si verifichi una vera e propria lesione
del patrimonio giuridico degli interessati? (17) .
Ossia, anche quando il potere discrezionale degli apparati amministrativi si esprima nella sua forma più
alta, e persino suggestiva (nel momento della selezione degli obiettivi e dei fini e delle forme più generali
delle attività pubbliche preordinate alla loro realizzazione), si tratterà pur sempre di un'attività
conformata dalla legge, e pertanto sottoposta al riscontro della giurisdizione, essendo semmai in
discussione sia il momento in cui il sindacato del giudice amministrativo possa essere attivato, sia i limiti
(di cognizione e di decisione) che eventualmente ne ciroscrivono il perimetro.
E, in fondo, anche la norma appena riportata, e cioè il secondo comma dell'art. 19 del d.lg. n. 152/2006,
sembra confermare le riflessioni in ordine sparso fin qui sbozzate.
Vero è infatti, a quel che è dato di arguire, che il potere di apprezzamento che si manifesta con la
pronunzia di compatibilità ambientale è per così eterovincolato, a monte, dalla previa valutazione a
carattere strategico relativa al piano/programma da cui il singolo intervento ripete titolo e legittimazione
(nell'an ed eventualmente, in parte, nel quomodo); e verosimile è egualmente che la diversa opinione
palesata dall'amministrazione che effettua la valutazione puntuale debba essere supportata da una
motivazione in qualche modo rafforzata ed aggravata. Il che sembrebbe necessario sia allorché si
contesti, in opposizione ai risultati raggiunti in sede di valutazione strategica, l'opera in quanto tale (non
s'ha da fare, sebbene, alla luce del piano/programma di riferimento, possa sembrare compatibile!), sia
quando la valutazione a carattere puntuale, per il tenore di una, o più, misure concrete dell'apparato
prescrittivo, oppure per una qualche compensazione e/o mitigazione che si impone al proponente, paia
essere in contrasto con le caratteristiche di impianto e di processo che, relativamente ai singoli interventi,
il piano aveva già deciso di selezionare? (18) .
Tutto ciò sembra verosimilmente e ragionevolmente sostenibile, e da ogni punto di vista, e cioè sia
avendo di mira gli interessi pubblici coinvolti, e pertanto il ruolo giocato, a questo fine, dalle
amministrazioni valutatrici, sia alla luce dell'equa considerazione degli interessi privati toccati, solo che
alla fine siffatto ragionamento finisce con il provare troppo (mi si passi l'espressione!), risolvendosi, in
conclusione, con il provare forse troppo poco!
3. Il punto è che la decisione che si commenta, pur essendo largamente condivisibile per il suo impianto
complessivo, al punto da costituire un vero e proprio «?trattatello?» sul procedimento di valutazione di
impatto ambientale, disvela una certa (forse in parte inevitabile) «?insostenibile leggerezza dell'essere?»
proprio nel suo segmento più delicato, ossia là ove si cerca di mettere a fuoco il nucleo più riposto e
sensibile del potere discrezionale degli apparati amministrativi.
E, infatti, quasi all'insegna di un malcelato self-restraint, quasi si trattasse di un giudice di common Law?
(19) , si afferma, sulla scorta di un noto orientamento giurisprudenziale? (20) , che «?...la valutazione di
impatto ambientale, giacché finalizzata alla tutela preventiva dell'interesse pubblico, non si risolve in un
mero giudizio tecnico, ma presenta profili particolarmente elevati di discrezionalità amministrativa che
sottraggono al sindacato giurisdizionale le scelte della P.A., ove non siano manifestamente illogiche e
incongrue?», nel senso che «?...nella valutazione di impatto ambientale l'apprezzamento degli interessi
pubblici in rilievo, operato dall'Amministrazione, presenta profili di discrezionalità non solo tecnica, ma
anche amministrativa, particolarmente intensi, con il corollario che tale apprezzamento è sindacabile dalla
G.A. solo in ipotesi di manifesta illogicità o travisamento dei fatti, in cui è evidente lo sconfinamento del
potere discrezionale riconosciuto alla P.A....?»? (21) .
Ora, sembra essere del tutto palese che allorché si discuta del potere discrezionale delle amministrazioni
pubbliche si corre sempre il fortissimo rischio di restare avviluppati in un ginepraio di interrogativi senza
risposta; è tuttavia del pari evidente che è proprio intorno al concetto di potere discrezionale (con le sue
non omogenee varianti riconducibili, almeno nella nostra esperienza, anche alla necessità di articolare gli
strumenti di un'adeguata tutela giurisdizionale nei confronti del modo di farsi del potere)? (22) , che
finiscono sempre col riannodarsi le fila di un più generale — e non eludibile — discorso intorno al modo
stesso d'essere della pubblica amministrazione, e pertanto in merito alla «?quantità?» ed alla «?qualità?»
del potere che viene nel concreto esercitato? (23) .
E, infatti, senza poter qui affrontare la problematica del potere discrezionale delle amministrazioni
pubbliche e neppure soltanto dare conto dei principali indirizzi ed orientamenti emersi nel corso di un
dibattito che ha profondamente segnato la storia e l'evoluzione del diritto amministrativo? (24) , si può
semplicemente constatare che la modulazione della nozione stessa della discrezionalità amministrativa
(una e tridimensionale, giacché si articola e scompone in discrezionalità pura, tecnica e mista) sembra in
qualche modo abbisognare di una non più rinviabile operazione di aggiustamento/riperimetrazione: anche
al cospetto della categoria, simmetrica e speculare, del potere vincolato, e in vista del fine delle tutele
giurisdizionali in un sistema costituzionale strutturalmente e funzionalmente qualificato dal dualismo delle
giurisdizioni? (25) .
Mi limiterò, sotto questo riguardo, ad una semplice constatazione, peraltro verosimilmente decisiva, a
mio avviso: la tecnica e il diritto tendono a presupporsi e, soprattutto, ad integrarsi reciprocamente in
forme e con caratteri assolutamente nuovi ed originali, per qualità e qualità, ed è anzi la tecnica, in
ragione della perenne evoluzione che ne segna il percorso, a penetrare massicciamente nel mondo del
diritto conformandone la sostanza e le regole fondative. Il che non può essere privo di conseguenze,
comunque si voglia apprezzare il fenomeno, e anzi sembra essere foriero di importanti conseguenze di
ordine sistemico, principalmente quando, nel contesto delle contemporanee «?società del rischio?», sia il
«?diritto della scienza incerta?»? (26) a rappresentare il banco di prova della «?tenuta?» sul campo (e,
cioè, dal punto di vista della loro perdurante utilità strumentale) dei concetti, degli istituti, dei principi e
delle regole di ordinamento che un'importante tradizione più che secolare ci ha consegnato.
Anche da questo punto di vista il procedimento di valutazione di impatto ambientale ed il provvedimento
che lo conclude costituiscono, insomma, una cartina di tornasole peculiare e particolarmente sensibile,
idonea a testare lo stato di salute di alcuni concetti e principi consolidati e tradizionali, quasi a
confermare la straordinaria capacità maieutica del diritto ambientale e dei suoi istituti.
A questo riguardo, anche la dottrina più avvertita segnala l'incertezza che in qualche modo colora il
provvedimento conclusivo del procedimento di valutazione di impatto ambientale, ora ricondotto alla
discrezionalità amministrativa c.d. pura, ora a quella c.d. tecnica? (27) ; e, su questa via, è la stessa
dottrina a rappresentarci una realtà di fatto nella quale la ponderazione degli interessi (pubblici e privati)
che sicuramente viene effettuata nel contesto della procedura di V.I.A. costituisce il riflesso sensibile
dell'istruttoria tecnica (relativa a fatti complessi) che in quella sede viene condotta, secondo criteri che
paiono doversi sostanziare per adeguatezza e ragionevolezza, in vista dell'assunzione di una decisione
argomentata, motivata e, pertanto, modulata nel suo contenuto dispositivo alla luce del principio di
proporzionalità? (28) .
In siffatto modo di ragionare si intravedono, certamente, da un lato, importanti «?semi di verità?»,
mentre, dall'altro lato, sembra potersene far discendere, tuttavia, una conseguenziale conclusione a
carattere interlocutorio: il problema della discrezionalità tecnico/amministrativa in occasione delle
procedure di valutazione di impatto ambientale — e, coerentemente, del provvedimento finale che le
chiude — assomiglia molto alla classica quadratura del cerchio, anche in considerazione della ricorrente
«?timidezza?» del giudice amministrativo che cerca, in qualche misura, di chiamarsi fuori, manifestando
un evidente quanto comprensibile self-restraint, non dissimilmente da quanto va facendo la
giurisprudenza francese e quella delle corti britanniche? (29) .
Se questo è vero, si può allora tentare di «?aggirare?», per così dire, il problema, teorico e generale e
che la stessa sentenza in commento affronta e risolve nello spirito della tradizionale impostazione della
nostra giurisprudenza, provando invece ad isolare alcuni segmenti e spezzoni del ragionamento del
giudice amministrativo onde sottoporli, in quanto «?congetture?», ad elementari procedimenti di
verificazione/falsificazione.
Il giudice amministrativo sembra ritenere, ad esempio, che, per il fatto di non risolversi in un mero
giudizio tecnico, e per il fatto, anzi, di presentare profili particolarmente elevati di discrezionalità
amministrativa (pura?), il provvedimento che decide sulla valutazione di impatto ambientale viene
sottratto al sindacato della giurisdizione amministrativa il quale non può esercitarsi sulle scelte (politiche
e/o di merito tout court?) dell'amministrazione, a meno che non si presentino come illogiche ed incongrue
(così la decisione in esame nella sua parte motiva di maggior peso).
Impossibile non cogliere, sotto questo riguardo, una straordinaria assonanza con il pensiero di un'illustre
dottrina? (30) , ad avviso della quale, prima che l'art. 3 della l. n. 241/1990 ponesse come principio
generale di garanzia l'obbligo di motivare i provvedimenti dell'amministrazione, i provvedimenti e gli atti
altamente discrezionali non avrebbero richiesto alcuna motivazione, quando pure avessero operato in
senso restrittivo nei confronti del patrimonio giuridico dei destinatari. Ovverosia, mettendoci su questa
stessa lunghezza d'onda, se il potere è in qualche misura «?libero?», al punto da essere sottratto al
sindacato della giurisdizione, non si vede perché tale supposta, o reale, libertà non debba operare a tutto
campo, e segnatamente nel senso e nella direzione appena descritti.
E tuttavia, secondo quanto si evince dalla sentenza che si riporta, il giudice amministrativo è comunque
chiamato ad esercitare il suo sindacato sotto il profilo della logicità e della congruità e, anzi, il sindacato
medesimo può spingersi, per ammissione della stessa giurisprudenza amministrativa, sino a poter
apprezzare il travisamento dei fatti, ossia il travisamento dei fatti nei quali sia eventualmente incorsa
l'istruttoria tecnica (rectius, tecnico-discrezionale) dell'amministrazione procedente.
La ragionevolezza — ossia la razionalità procedurale (e sostanziale) dell'istruttoria — pare costituire, da
ogni punto di vista, il profilo di maggior rilievo formale/sostanziale alla cui luce il procedimento di
valutazione di impatto ambientale, ed il provvedimento finale che lo conclude, debbono essere
positivamente riscontrati ad opera del giudice amministrativo, nel contesto di una judicial review che si
dirige, del tutto obiettivemente, ad analizzare fatti, eventi e dati di esperienza e di conoscenza molto
spesso di elevata, ed anzi straordinaria, complessità. Straordinaria ed elevata complessità che si
manifesta sia per il carattere dei problemi (tecnici e di ordine scientifico) che debbono essere passati in
rassegna in vista della loro positiva soluzione, sia per i rilevanti «?incidenti?» di natura schiettamente
procedimentale che segnano il percorso ordinario del procedimento di valutazione di impatto ambientale.
E senza dimenticare — mi sembra opportuno rammentarlo — che il già cit. art. 19, ultimo comma, del
d.lg. n. 152/2006, nel momento in cui salda, per così dire, il procedimento di valutazione sul singolo
progetto con quello, a carattere strategico, che si svolge «?a monte?», pare implementare l'arco delle
facoltà sindacatorie del giudice amministrativo il quale è, infatti, chiamato a verificare (anche) se e come
il provvedimento di V.I.A. sia in contraddizione con le «?norme?» del piano e/o del programma, e se e
come tale incoerenza di punti di vista sia giustificata nella motivazione del provvedimento finale relativo
alla singola valutazione puntuale.
Se questo è vero, allora la verifica circa la non illogicità e circa la congruità del provvedimento di
valutazione di impatto ambientale, la cui legittimità sarà obiettivamente fondata (anche) sulla corretta e
razionale ricostruzione della serie storica degli eventi e dei fatti acquisiti e correttamente apprezzati nel
corso della procedura, passa necessariamente attraverso alcuni step che non possono essere elusi o
trascurati, focalizzandosi su quei fatti e su quegli eventi che dovevano essere acquisiti ed apprezzati,
secondo ragionevolezza, da parte dell'amministrazione procedente.
Sarà possibile, ad esempio, dubitare della correttezza e della legittimità del procedimento quando questo
stesso non sia stato costruito, o non si sia comunque svolto, in modo tale da garantire il rispetto del
principio del contraddittorio (anche relativamente alle posizioni soggettive dei «?terzi?») oppure allorché
l'amministrazione procedente non abbia eventualmente disposto gli accertamenti e gli adempimenti
procedimentali maggiormente idonei alla formazione di un «?sapere informato?» in funzione della miglior
decisione finale possibile. Il travisamento e l'erronea valutazione dei fatti, figura sintomatica dell'eccesso
di potere alla quale la giurisprudenza fa costante riferimento, porta alla luce, infatti, una più o meno
grave défaillance dell'istruttoria procedimentale, e si riflette pertanto sul processo logico di formazione
della volontà dell'amministrazione, risolvendosi in un vizio funzionale che disvela le asimmetrie
informative? (31) del decisore collettivo pubblico la cui opzione finale (nella quale si propone un
equilibrato e mediato assetto stabilizzato degli interessi pubblici e privati coinvolti dalla procedura) si è,
per così dire, formata in modo distorto, sulla base di fatti e dati di esperienza e di conoscenza non
correttamente acquisiti e/o apprezzati oppure non acquisiti del tutto. Il che — ossia il «?sapere
informato?» su cui deve essere fondato il processo decisionale dell'amministrazione procedente, pena la
sua illogicità e la sua non congruità- sembra essere foriero di ulteriori, non secondarie, conseguenze sul
piano sistemico; difficile, ad esempio, dubitare che il deficit dell'istruttoria procedimentale non finisca col
riflettersi sulla motivazione del provvedimento finale, in quanto la motivazione dell'atto amministrativo è
funzionalmente correlata ai risultati dell'istruttoria (cfr. l'art. 3 della l. n. 241/1990). Ed è del pari
piuttosto difficile escludere che i vizi della motivazione del provvedimento di valutazione dell'impatto
ambientale non siano spesso collegati alla non corretta valutazione degli apporti partecipativi e
collaborativi dispiegati nel corso della procedura ad opera dei «?terzi?» (dal c.d. ricettore sensibile come
da altri altri: cfr. già l'art. 6 della l. n. 349/1986 e ora spec. gli artt. 25 e 26 del d.lg. n. 512/2006), con
inevitabili quanto gravi ricadute sulla logicità e sulla congruità del provvedimento finale.
E, il discorso può, ovviamente, continuare con altri possibili esempi, in quanto le categorie valoriali, ancor
prima che rilevanti sul piano tecnico- giuridico, della logicità e della congruità paiono manifestare,
nonostante ogni contraria opinione, una straordinaria forza espansiva, alla stregua di clausole generali e/
o di concetti giuridici indeterminati tipici e propri dell'agire giuridico (e secondo diritto).
Si pensi, fra l'altro, al caso delle misure prescrittive (e, in parte, anche a quelle di mitigazione o di
compensazione)? (32) che vengano apposte ad un provvedimento di valutazione dell'impatto ambientale.
Non sembra certo irragionevole supporre che esse possano risolversi in un costo non agevolmente
sostenibile da parte del ricorrente e che, su questa via, il sindacato del giudice amministrativo sia
chiamato a dirigersi proprio su di esse (sulla loro logicità e congruità) e che, per conseguenza, il giudice
debba, da un lato, testare la inessenzialità comunque della misura contestata, onde eventualmente
salvare il provvedimento nel suo complesso, e che, dall'altro lato possa invece stabilirne il parziale
annullamento («?per quanto di ragione?»), e fatta egualmente salva l'ipotesi che si determini, al
contrario, una più generale caducazione dell'intero provvedimento.
4. Alla luce di quanto fin qui visto — in piena sintonia, del resto, con le ragioni e le motivazioni di fondo
della sentenza in commento — si può far discendere una conclusione di massima abbastanza pacifica:
intorno al procedimento di valutazione di impatto ambientale, ed al provvedimento che lo conclude, si
annodano le sparse fila di un più generale discorso relativo al potere discrezionale degli apparati
amministrativi e — anche — al controverso rapporto fra politica ed amministrazione, secondo quanto
disvela il ricorrente dibattito in merito alla competenza ad emanare il provvedimento stesso che si
pronunzia sulla sostenibilità ambientale di un progetto, di un'opera, ecc. (il ministro o il dirigente di
vertice del settore)? (33) .
Ma c'è di più, come si è già detto, e proprio in relazione al potere discrezionale di cui si discute.
Ciò che mi sembra, infatti, fuor di discussione è che il tentativo di decodificare le proposizioni e le
(buone) argomentazioni della sentenza, presentate in punta di penna, e quasi all'insegna di un certo selfrestraint (del quale ci sarebbe francamente bisogno, soprattutto in altri casi!), finisce con portare
comunque ad evidenza il ruolo strategico — e francamente non eliminabile — che il «?vecchio?» e
tradizionale vizio di eccesso di potere gioca nel sistema complessivo delle tutele giurisdizionali innanzi alla
giustizia amministrativa? (34) .
Incongruità, illogicita, travisamento ed erronea valutazione dei fatti: ma non si tratta delle figure
sintomatiche del vizio di eccesso di potere, delle quali non tesserò sicuramente le lodi e della cui
perdurante utilità, tuttavia, il giudice amministrativo dimostra di volere (e saper) fare largamente uso in
vista della judicial review del potere discrezionale dell'amministrazione?
E non si tratta, a ben vedere, dell'antica (e forse attuale) regola di ordinamento per la quale il potere
discrezionale sarà testato e valutato secondo ragionevolezza e proporzionalità?? (35) .
In fondo, nel momento in cui il giudice amministrativo riserva comunque per se stesso, almeno per
implicito, ogni più ampio apprezzamento intorno ai profili di discrezionalità tecnica, che nei procedimenti
e nei provvedimenti di valutazione di impatto ambientale sono verosimilmente quelli più rilevanti, non si
chiama affatto fuori da un sindacato (relativamente) forte sulle questioni così portate alla sua attenzione.
Ed anzi può risultare vero l'esatto contrario, posto che la discrezionalità dell'amministrazione è sempre
più chiamata a misurarsi con la tecnica che conforma il diritto oppure — se si preferisce — con sistemi di
regolazione e di gestione degli interessi che con tecnica e con funzione, maieutica e magistrale, svolta
dalla scienza debbono necessariamente confrontarsi (ossia, con «?il diritto della scienza incerta?»).
Il giudice si chiama invece fuori — e del tutto correttamente — allorché sia in discusssione il «?merito?»
delle scelte e delle opzioni degli apparati politico-amministrativi, e pertanto il profilo strategico
dell'indirizzo politico; ed è questo, infatti, il punto di snodo sensibile, il terreno scivoloso e friabile sul
quale il sindacato del giudice amministrativo non riesce (e non può!) radicarsi ed esercitarsi, nel concreto.
E, sotto questo riguardo, è sicuramente problema non di poco conto separare e distinguere, sul piano
pratico-teorico, le scelte e le opzioni riconducibili all'esercizio del potere discrezionale (sindacabile) da ciò
che, invece, appartiene al merito, insindacabile, delle decisioni di indirizzo? (36) .
Se questo è vero, non si vede come e perché, in tutti quei casi in cui oggetto del riscontro giudiziale sia
davvero il potere discrezionale, nelle sue forme cangianti (e verosimilmente oggi mutate), il sindacato del
giudice amministrativo possa incontrare limiti che non siano quelli tradizionalmente imposti
dall'ordinamento.
E questo ci si deve infatti attendere dal nostro giudice amministrativo: niente di più ma neppure nulla di
meno.
NOTE
(1) Principi non scalfiti dal Trattato di Lisbona che, al contrario, li riafferma in tutto il loro rilievo, e
relativamente ai quali sia consentito il rinvio, ex multis, a R. FERRARA, I principi comunitari della tutela
dell'ambiente, in La tutela dell'ambiente (a cura di chi scrive), Torino, 2006, 1 ss.
(2) Cfr., infatti, da ultimo, il decreto correttivo del d.lg. 3 aprile 2006, n. 152, ossia il d.lg. 29 giugno
2010, n. 128.
(3) Tematiche, queste stesse, sicuramente centrali, e sulle quali sono stati versati fiumi d'inchiostro: per
tutti M. CAFAGNO, Principi e strumenti di tutela dell'ambiente, Torino, 2007, passim nonché A. MILONE, C.
BILANZONE, La valutazione di impatto ambientale, Piacenza, 2003, passim.
(4) Il dibattito è piuttosto vivace, secondo quanto si evince da una pur sommaria rassegna della stampa
quotidiana: M. AINIS, L'impresa e l'alibi dell'articolo 41, in La Stampa dell'8 giugno 2010 nonché I.
TINAGLI, Costituzione usata come scusa, ivi, sullo stesso quotidiano, in data 16 giugno 2010.
(5) Problema, anche questo, ricorrente e, soprattutto, coessenziale al procedimento di valutazione di
impatto ambientale (ed al quale la sentenza in commento sembra dare una risposta del tutto persuasiva
e corretta). A questo riguardo, cfr., esaustivamente, F. FRACCHIA, in AA.VV., Diritto dell'ambiente, RomaBari, 2008, 401 ss. In questo senso, si veda comunque, da ultimo, C. cost., 17 giugno 2010, n. 221, in
www.giurcost.org, ove si rimarca l'autonomia dei procedimenti di valutazione di impatto ambientale, pur
secondo una logica di connessione funzionale con il procedimento «?principale?».
(6) Ancora F. FRACCHIA, op. loc. cit. nonché, se si vuole, R. FERRARA, La protezione dell'ambiente e il
procedimento amministrativo nella «?società del rischio?», in Dir. e società, 2006, 507 ss.
(7) Ancora F. FRACCHIA, op. loc. cit. e R. FERRARA, op. ult. cit.. Sul piano più generale, paiono essere del
tutto attuali i densi rilievi di un'autorevole dottrina formulati quasi all'indomani dell'entrata in vigore della
l. 7 agosto 1990, n. 241: E. CASETTA, Profili dell'evoluzione dei rapporti tra cittadini e pubblica
amministrazione, in Dir. amm., 1993, 10 ss., nonché ID., La difficoltà di semplificare, ivi, 1998, 335 ss.
(8) Cfr., infatti, proprio in questa direzione, la Comunicazione della Commissione europea sul principio di
precauzione del 2 febbraio 2000 (leggibile, fra l'altro, in Dir. e gestione dell'ambiente, fasc. n. 2/2001,
135 ss.).
(9) Sia ancora consentito il rinvio a R. FERRARA, op. ult. cit., anche per ulteriori riferimenti bibliografici.
(10) Si vedano sul punto, del tutto esaustivamente, i rilievi magistrali di M. TALLACCHINI, Ambiente e
diritto della scienza incerta, in S. GRASSI, M. CECCHETTI, A. ANDRONIO, (a cura di), Ambiente e diritto, vol. I,
Firenze, 1999, 57 ss.
(11) Nel senso messo, ad esempio, recentemente in luce da A. RISSOLIO, Il paesaggio creato dall'uomo:
profili di evoluzione normativa, in Dir. e proc. amministrativo, 2010, 279 ss.
(12) Cfr., nuovamente, F. FRACCHIA, op. loc. cit. e, nel quadro di una più generale ricostruzione sistemica,
C. VIDETTA, L'amministrazione della tecnica, Napoli, 2008, passim.
(13) Cfr., ex multis, Corte giustizia CE, sez.V, 21 settembre 1999, causa C-392/96 e Corte giustizia CE,
sez.VI, 16 settembre 1999, causa C-435/97, in Foro it., 2000, IV, 265, con nota di R. FERRARA. nonché,
recentemente, Corte giustizia CE, sez.VI, 12 novembre 2009, causa C-495/08, in Journal for european
environmetal &planning law (JEEPL), n. 7/2010, 111.
(14) Relativamente alla quale non si evidenziano elementi di novità alla luce della nuova riscrittura della
materia proposta nel d.lg. n. 128 del 2010, almeno a quanto è dato di arguire (supra, alla nota n. 2). Si
deve anzi notare che il d. l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito nella l. 30 luglio 2010 n. 122 «?Misure
urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica?», sembra delineare, all'art.
49, un più stretto, e vincolante, rapporto fra la previa valutazione strategica e il successivo controllo di
sostenibilità ambientale del singolo progetto allorché questo stesso venga effettuato in sede di conferenza
dei servizi.
(15) Sia consentito rinviare, per tali problemi, a R. FERRARA, in AA.VV., Diritto dell'ambiente, cit., spec.
172 ss.
(16) Per tale ordine di problemi, per tutti, recentemente, M. P. GENESIN, L'attività di alta amministrazione
fra indirizzo politico e ordinaria attività amministrativa, Napoli, 2009, passim. In giurisprudenza, cfr., da
ultimo, l'interessante sentenza di TAR Sardegna, sez. II, 19 febbraio 2010, n. 187, in questa Rivista,
2010, 698, in merito al ruolo giocato dai piani di lottizzazione. V. anche supra, alla nota n. 14.
(17) Ancora M. P. GENESIN, op. loc. cit. nonché C.E. GALLO, Manuale di giustizia amministrativa, Torino,
2009, spec. 160.
(18) Siffatto modo di ragionare fa tuttavia leva su un presupposto, necessario e imprescindibile, non
sussistendo il quale il quadro sarebbe totalmente diverso, ossia sulla non superabile esigenza che i piani/
programmi siano sufficientemente puntuali e dettagliati, in quanto, qualora si presentassero alla stregua
di documenti di larga massima, o peggio come meramente celebrativi, verrebbe meno ogni loro capacità
di vincolare «?a valle?» l'attività a carattere esecutivo.
(19) Per l'esperienza della Gran Bretagna, cfr., per tutti, D.J. GALLIGAN, La discrezionalità amministrativa,
trad. it., Milano, 1999, nonché J.A. G. GRIFFITH, Giudici e politica in Inghilterra, a cura di M.P. CHITI,
Milano, 1980. Importanti i contributi raccolti nel volume a cura di V. PARISIO, Potere discrezionale e
controllo giudiziale, Milano, 1998 (e, ivi, importanti interventi che illustrano il modello tedesco e quello
francese).
(20) Cfr., infatti, Cons. St., sez.V, 21 novembre 2007, n. 5910 nonché Cons. St., sez. V, 22 giugno 2009,
n. 4206, entrambe riportate, in uno con altri precedenti, nel corpo della motivazione della sentenza in
commento (e comunque reperibili in www.ambientediritto.it) cui adde Cons. St., sez. IV, 5 luglio 2010, n.
4246, reperibile egualmente al sito www.ambientediritto.it.
(21) Supra, per le decisioni riportate alla nota immediatamente precedente, fra le quali cfr., soprattutto,
la cit. pronunzia di Cons. St., sez. V, n. 4206/2009.
(22) C. VIDETTA, op. cit., passim, alla quale si rinvia anche per il nutrito corredo di riferimenti bibliografici
e giurisprudenziali.
(23) Faccio, ovviamente, riferimento, anche per le espressioni utilizzate, a S. COGNETTI, «?Quantità?» e «?
qualità?» della partecipazione, Milano, 2000 nonché ai contributi raccolti nel volume a cura di M.A.
SANDULLI, Il procedimento amministrativo in Europa, Milano, 2000.
(24) C. VIDETTA, op. cit., passim e V. PARISIO (a cura di), op. cit., passim cui adde, se si vuole, R. FERRARA,
Introduzione al diritto amministrativo. Le pubbliche amministrazioni nell'era della globalizzazione, RomaBari, 2008, spec. 45 ss. e passim.
(25) Sia ancora consentito il rinvio a R. FERRARA, op. ult. cit., passim.
(26) Cfr. nuovamente, se si vuole, R. FERRARA, op. ult. cit. e, soprattutto, M. TALLACCHINI, op. loc. cit.,
anche per ulteriori riferimenti.
(27) Cfr., esaustivamente, F. TRIMARCHI BANFI, Aspetti del procedimento per la valutazione di impatto
ambientale, in Amministrare, 1989, 375 ss. nonché F. FRACCHIA, op. loc. cit.
(28) Cfr., ex multis, F. GIAMPIETRO, Criteri tecnici o discrezionali nel c.d. giudizio di compatibilità
ambientale? Proposte di coordinamento della VIA con gli altri procedimenti autorizzatori, in Riv. giur.
ambiente, 1995, 395 ss.
(29) Il che è esattamente osservato in dottrina, a commento di una certa difficoltà, quasi esistenziale,
che il giudice amministrativo continua ad incontrare allorché si tratti di sindacare la c.d. discrezionalità
tecnica: E. FERRARI, M. RAMAJOLI, M. SICA (a cura di), Il ruolo del giudice di fronte alle decisioni
amministrative per il funzionamento dei mercati, Torino, 2006, passim.
(30) A. M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1984, vol.I, 673ss. (spec. 674, in relazione
agli atti di alta amministrazione).
(31) Anche per tali profili del discorso sia consentito il rinvio, soprattutto per ulteriori riferimenti
bibliografici, a R. FERRARA, Introduzione al diritto amministrativo, cit., spec. 122 ss.
(32) In argomento, esaustivamente, A. MILONE, C. BILANZONE, op. cit., passim nonché F. FRACCHIA, op. loc.
cit.
(33) Cfr., ad esempio, Cons. St., sez.VI, 30 gennaio 2004, n. 316, ove si afferma la natura «?politica?»
del provvedimento finale relativo alla compatibilità ambientale di un intervento (con la conseguente
competenza dell'organo politico) e, contra, in precedenza, Cons. St., sez. VI, 23 ottobre 2001, n. 5590,
ove si conclude invece per la sua natura tecnico- discrezionale, con la relativa competenza finale
dell'organo burocratico, entrambe reperibili, fra l'altro, in www.giustamm.it., cui addeTAR Lazio, Roma,
sez. II, 8 settembre 2010, n. 32176, reperibile allo stesso sito.
(34) Relativamente al quale, e nel quadro di una letteratura ormai sterminata, cfr., per tutti, E. CASETTA,
Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2009, spec. 542 ss. e passim.
(35) E. CASETTA, op. ult. cit., al quale si rimanda, anche per un più completo corredo di riferimenti
bibliografici e giurisprudenziali.
(36) Sia consentito rinviare, per più diffuse argomentazioni, a R. FERRARA, L'interesse pubblico al buon
andamento delle pubbliche amministrazioni: tra forma e sostanza, in Dir. e proc. amministrativo, 2010,
31 ss.
Archivio selezionato: Dottrina
LA TEORIA DEI DIRITTI INDEGRADABILI: ORIGINI ED ATTUALI TENDENZE
Dir. proc. amm. 2010, 02, 483
Lorenzo Coraggio
SOMMARIO: 1. I casi giurisprudenziali. - 2. I commenti della dottrina. - 3. Analisi critica. - 4. Recenti
tendenze. - 5. Considerazioni conclusive.
1. La Corte di Cassazione, e nella sua scia i giudici di merito, sostengono la necessità di particolari,
accresciute garanzie di tutela di taluni diritti di rango costituzionale, c.d. fondamentali, e in particolare del
diritto alla salute e dei diritti della personalità: a tal fine, ne hanno predicato la «indegradabilità», ovvero
l'insuscettibilità di affievolimento, o di indiretto pregiudizio, ad opera dei pubblici poteri.
Si assume che, allorquando incida su tali superiori diritti, l'amministrazione agisca non più in veste di
autorità, ma nel fatto, in situazione di assoluta carenza di potere: cosicché, il giudice ordinario non solo
ritiene di avere giurisdizione sulla controversia, ma anche di poter emettere, in ipotesi, pronunce di
condanna al risarcimento del danno in forma specifica - previa, all'occorrenza, disapplicazione degli atti
amministrativi coinvolti in via diretta nella fattispecie - siccome valuta inoperante il divieto imposto,
secondo tradizionale interpretazione, dall'art. 4, comma 2, l. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E.
La comparsa dell'indirizzo si fa risalire a due note decisioni del 1979 (1): in entrambi i casi, gli attori si
dolevano del danno alla salute derivante da impianti di pubblica utilità, rispettivamente, una centrale di
produzione d'energia elettrica e un depuratore, siti nelle vicinanze delle loro abitazioni; la Cassazione, nel
disporre la consulenza tecnica, puntualizzava che l'eventuale accertamento di una situazione
pregiudizievole avrebbe determinato il travolgimento delle scelte, pur legittimamente operate
dall'Amministrazione, in materia di localizzazione e di progettazione degli impianti, con conseguente
possibilità di inibire la prosecuzione delle attività, in quanto il potere autoritativo dell'Amministrazione non
poteva spingersi a sacrificare o comprimere il diritto alla salute, costituzionalmente garantito come diritto
fondamentale dell'individuo.
Da allora in poi, numerose sono state le pronunce del giudice ordinario di contenuto analogo, in materia
di danno alla salute derivante da elettrodotti (2), discariche (3), opere fognarie (4), centrali
termolelettriche (5), attività private autorizzate dall'Amministrazione (6). In una fattispecie sui generis, il
giudice di merito (7) ha addirittura imposto all'autorità di polizia, ex art. 700 c.p.c., di smettere di
esercitare il servizio di sorveglianza del consolato a Torino degli Stati Uniti d'America con modalità tali da
arrecare inquinamento acustico ed atmosferico e quindi danno alla salute dell'istante, dimorante nelle
adiacenze (8).
Si annovera tra le pratiche applicazioni della teoria dell'inviolabilità, anche il risalente e diffuso
orientamento con cui il giudice ordinario, nel ritagliarsi uno spazio residuale di giurisdizione in una
materia fino a tempi recentissimi per tradizione ascritta al giudice amministrativo (9), si manifesta
favorevole ad accogliere le domande formulate da privati per ottenere la condanna dell'amministrazione
al rimborso: a) delle spese sostenute per l'acquisto di farmaci che, seppure non mutuabili, siano
riconosciuti indispensabili e insostituibili per la cura efficace di gravi patologie (10); b) delle spese
sostenute per cure o interventi urgenti sostenuti presso centri non convenzionati, o di alta
specializzazione all'estero (11).
Il nuovo orientamento si è peraltro ben presto esteso ai diritti cosiddetti della personalità, quali il diritto
all'istruzione (12), all'educazione ed alla integrazione sociale, all'immagine (13) e alla riservatezza (14),
alla libertà di movimento (15), alla libertà religiosa (16).
2. Fin dalla sua comparsa, il descritto orientamento ha suscitato attenti commenti da parte della dottrina.
Da più parti, si è innanzitutto paventato il rischio di deriva nell'indeterminatezza e nella discrezionalità,
insito in una costruzione giurisprudenziale imperniata su una categoria dogmatica, quella dei diritti
fondamentali, dai contorni tendenzialmente elastici ed illimitati (17).
Ricorre poi, sovente, la considerazione che non esistano solidi argomenti giuridici a sostegno del
predicato carattere di indegradabilità dei diritti fondamentali. Si obietta innanzitutto che l'aver ricavato,
(73) L'adesione all'iniziativa comporta per le imprese la possibilità di utilizzare il logo GC, possibilità che
sembrerebbe, tuttavia, collegata da un parte all'effettiva conduzione delle attività imprenditoriali in chiave
responsabile e dall'altra al pagamento di un contributo finanziario. Sembrerebbe così costruita una sorta
di «certificazione» ONU della RSI in grado di produrre alcuni effetti molto vicini a quelli giuridici. Il GC
sembrerebbe avere, infatti, un contenuto prescrittivo (i ten principles), un sistema di controllo (il
reporting annuale), una sanzione diretta (la cancellazione ed, in caso di utilizzo del logo, la cessazione di
tale impiego) ed una indiretta (disapprovazione dei consumatori ed attuazione delle policy ONU
sull'utilizzo del proprio marchio in caso di abuso da parte dell'impresa «depennata» dalla lista.
(74) Cfr. A. COSTA, Il governo e le regole dell'economia globale nell'era dei meta- problemi, Roma, 2009,
p. 83.
(75) Al 30 giugno 2009 le adesioni erano 7.700, di cui 5.500 imprese in 130 Paesi (dati disponibili su
www.unglobalcompact.org).
(76) Cfr. C. LEBEN, L'activité des entreprises dans une économie mondialisée et le droit international
public, in N. BOSCHIERO, R. LUZZATTO (a cura di), I rapporti economici internazionali, cit., p. 75.
Archivio selezionato: Dottrina
LA VALUTAZIONE TECNICA ED I SUOI RIFLESSI SUL PROCEDIMENTO (*)
Foro amm. CDS 2010, 05, 1121
Monica Delsignore
SOMMARIO: 1. Le regole di organizzazione come criterio di distinguo per la valutazione tecnica e il parere. 2. Il regime ordinario della valutazione tecnica, anche alla luce dei recenti interventi del legislatore. - 3.
La valutazione tecnica in sede di conferenza di servizi. - 4. Qualche considerazione conclusiva.
1. Le regole di organizzazione come criterio di distinguo per la valutazione tecnica e il parere.
L'ordine delle competenze stabilisce quale sia l'Autorità che deve adottare il provvedimento.
In casi sempre più numerosi il legislatore ha previsto che all'adozione del provvedimento cooperino altre
autorità o organi amministrativi, collaborando nell'espressione dell'unità della funzione amministrativa,
vuoi perché la loro posizione giuridica e competenza sarà interessata dal provvedimento, vuoi perché
devono essere sentite per la loro perizia e professionalità nella materia. È quest'ultimo il caso della
valutazione tecnica e del parere.
L'istituto della valutazione tecnica (1) è stato introdotto nel nostro sistema proprio con la legge sul
procedimento amministrativo. Prima, infatti, la valutazione tecnica confluiva nell'ambito del parere (2),
dal quale non rappresentava una figura autonoma.
Di qui, necessaria premessa alle riflessioni che seguono è la definizione dell'istituto.
La legge 241, affermando l'esigenza di una nozione più specifica di parere, distingue il regime della
valutazione tecnica da quello del parere, postulando una differenza, che non sempre in concreto è facile
evidenziare.
Come noto, il regime del parere e della valutazione differisce, da un lato, quanto alla generale possibilità
di prescindere dal solo parere (3) e, dall'altro, quanto alla fungibilità della sola valutazione tecnica, di
regola sostituibile ad opera di altri organi dell'amministrazione pubblica o di enti pubblici dotati di
qualificazione e capacità tecnica equipollenti, ovvero istituti universitari.
Da ciò deriva la necessità di individuare un criterio di distinguo tra i due atti.
Giurisprudenza e dottrina si sono cimentate a indicare indici di massima che permettano di operare il
distinguo tra valutazione e parere, considerata la diversità della disciplina, che, si conceda la ripetizione,
permette di prescindere dal solo parere e di sostituire solo la valutazione.
In particolare, il Consiglio di Stato (4) ritiene che il criterio astratto di distinzione fra i due tipi di attività
va ricercato nel contenuto e nell'oggetto della funzione considerata. Il parere costituisce espressione di
una funzione consultiva e comporta l'indicazione (o il consiglio) all'amministrazione procedente in ordine
alla cura degli interessi tutelati, tenendo conto della situazione di fatto così come essa risulta accertata
nell'istruttoria.
Talora, però, il parere si collega più strettamente, ma non in modo esclusivo o preponderante, alle
acquisizioni di ordine tecnico già compiute nel corso del procedimento. In tale eventualità, precisa lo
stesso Consiglio di Stato, la linea di confine tra la valutazione tecnica e il parere puro può risultare meno
agevole, sicché la qualificazione va compiuta considerando i dati di diritto positivo. I profili più rilevanti
attengono al carattere non vincolante del parere, alla mancanza di competenze scientifiche particolari
dell'organo, pure esperto nella materia genericamente intesa come settore dell'ordinamento, alla
valutazione ad ampio raggio sui contenuti del provvedimento finale, ripercorso l'intero procedimento, a
nulla rilevando che l'istruttoria abbia toccato profili di ordine tecnico e specialistico.
La dottrina mette in evidenza, ai fini della distinzione, la scansione cronologica procedimentale:
l'apprezzamento dei presupposti dell'agire appartiene al momento istruttorio ed è proprio della
valutazione, mentre il parere è espressione della funzione consultiva, fondata sulla situazione di fatto
come accertata nell'istruttoria, da collocarsi in un momento, forse, di completamento dell'istruttoria, ma
non più dell'istruttoria in senso stretto (5).
La regola che il parere debba essere richiesto ad istruttoria ultimata esprime, quindi, uno dei profili
sostanziali di diversità fra valutazioni tecniche (che attengono tipicamente alla fase istruttoria del
procedimento) e pareri in senso proprio (che invece presuppongono il completamento dell'istruttoria) (6).
La valutazione atterrebbe alla corretta rappresentazione del fatto, mentre il parere esprimerebbe e
proporrebbe, in relazione al fatto così rappresentato, la miglior composizione degli interessi nell'esercizio
della funzione consultiva.
Il criterio di distinguo così individuato non soddisfa pienamente perché di fatto, ma anche nelle stesse
disposizioni che disciplinano i singoli procedimenti, non è sempre facile ritrovare una chiara cesura tra la
fase istruttoria e la successiva fase decisoria, cui rispettivamente dovrebbero ascriversi valutazione e
parere.
S'intende proporre, pertanto, attraverso un'attenta lettura delle disposizioni, una diversa regola.
L'art. 16 è intitolato « attività consultiva » e indica quali soggetti tenuti a rendere il parere « gli organi
consultivi delle pubbliche amministrazioni ».
Il parere è, dunque, l'atto di organi specializzati, appartenenti a quella che si usa chiamare
amministrazione consultiva, in quanto distinta dall'amministrazione attiva. Ecco perché il parere, nella
particolare accezione dell'art. 16, non è in grado, né serve ad introdurre nel procedimento interessi
pubblici diversi da quello cui è funzionalizzata l'Amministrazione procedente. Gli organi consultivi si
limitano ad esprimere la propria visione in relazione all'interesse perseguito e curato con l'adozione del
provvedimento finale.
Da ciò deriva che il parere, sempre inteso nel senso dell'art. 16, non è mai atto vincolante, poiché la cura
dell'interesse pubblico resta affidata all'Amministrazione procedente, il che certo non accadrebbe se
l'organo consultivo individuasse la più opportuna composizione degli interessi nel caso concreto, senza
possibilità di discostarsene.
È, allora, nelle regole dell'organizzazione dell'Amministrazione che si trova la soluzione quanto alla
qualificazione di un atto come parere (7).
Solo qualora l'atto provenga da un organo consultivo, si applica il regime di cui all'art. 16, che, proprio in
quanto il parere non introduce interessi diversi, coerentemente riconosce la facoltà all'Amministrazione
procedente di prescinderne in caso di decorrenza del termine (8).
Cosè è un parere l'atto rilasciato dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici sui progetti di competenza
statale. Scorrettamente, invece, si qualificherebbe parere - nel senso dell'art. 16 - l'atto, necessario per
esempio ai fini dell'autorizzazione paesaggistica e quindi del successivo titolo abilitativo edilizio, che pure
il codice dei beni culturali all'art. 146 chiama « parere della Soprintendenza », che non proviene da un
organo consultivo, ma da un'Amministrazione attiva cui compete la cura di interessi specifici, pure se
omogenei a quelli propri dell'Amministrazione procedente. Ugualmente nemmeno si può richiamare l'art.
16 quando, in base all'art. 181 comma 1 quater del codice dei beni culturali, ricorra il parere della
Soprintendenza per la realizzazione di interventi edilizi in area sottoposta a vincoli paesaggistici (9).
La valutazione tecnica, disciplinata dal successivo art. 17, è istituto che la legge distingue dal parere, in
quanto atto necessario alla piena rappresentazione del fatto.
L'organo « tecnico », diversamente che nel parere, permette all'Amministrazione procedente di conoscere
pienamente il fatto, ma, di regola, senza introdurre interessi pubblici che non siano omogenei con quelli
dell'Amministrazione procedente.
Proprio in quanto atta a ricostruire il fatto, la valutazione rappresenta un elemento essenziale
dell'istruttoria e, in quanto tale, è, al contrario del parere, sempre vincolante per l'Amministrazione
procedente. La stessa non può mai prescindere, né discostarsi dal fatto così come rappresentato.
Ciè è coerente con l'idea del procedimento come momento di emersione del fatto e di sua
rappresentazione, per la successiva miglior composizione degli interessi. La rappresentazione del fatto
serve all'amministrazione per l'adozione del provvedimento, ma fornisce poi anche al giudice gli elementi
necessari per la sua verifica così come posti a base del provvedimento (10).
Si pensi all'attività delle Commissioni giudicatrici in una qualsiasi procedura concorsuale selettiva (11) o
alla valutazione circa la dipendenza da causa di servizio dell'infermità del pubblico impiegato (12).
L'Amministrazione, però, non è sempre e solo chiamata ad accertare il fatto, ma, spesso, deve valutarlo e
apprezzarlo (13).
Ciè è evidente e quasi immanente quando il parere e la valutazione investono i « super-interessi » in
tema di tutela ambientale, paesaggistica, territoriale e salute dei cittadini. Qui, infatti, parere e
valutazione tendono a confondersi in un'incertezza e intersezione che riflette, in parte, quella stessa
difficoltà di distinguere tra discrezionalità tecnica e amministrativa (14), tanto più quando il legislatore
considera interesse pubblico un interesse che ha valenza tecnico-scientifica e ne attribuisce la cura ad
un'autorità amministrativa (15). Ivi si esprime la continuità logica e la conseguente inscindibilità tra
valutazione tecnica e considerazione del pubblico interesse: la scelta del legislatore di delegare la
valutazione all'organo munito della necessaria professionalità tiene conto anche della prospettiva in cui si
pone l'Amministrazione tecnica individuata. Non è facile, perciò, discernere se l'organo consultivo con il
suo atto si limiti a esprimere la propria visione o, esprimendo la propria visione, introduca e rappresenti il
fatto pienamente, sicché non è facile comprendere se si sia di fronte ad un parere o ad una valutazione e
molto dipende dal contesto normativo in cui si iscrive l'intervento previsto (16). Ecco perché,
consapevolmente, il legislatore detta una disciplina eccezionale ed uniforme, che si applica, non quando
l'atto riguarda o investe i super interessi dell'ambiente, paesaggio, territorio o salute, ma - come
precisamente si legge nel testo degli articoli 16 e 17 - quando l'atto proviene da un'autorità « preposta »
alla cura di tali super interessi (17), che, inevitabilmente, è influenzata dagli stessi e compie alla luce di
quegli interessi la valutazione del fatto concreto.
In queste ipotesi, come noto, il parere e la valutazione tecnica, senza alcun distinguo, debbono essere
rilasciati dalla sola Autorità competente individuata dal legislatore come riservataria di quell'atto, sicché il
procedimento necessariamente si interrompe in attesa della loro acquisizione. La difficoltà di distinguere
in concreto valutazione tecnica e parere giustifica la scelta di introdurre un regime equivalente perché,
certo, la rappresentazione del fatto inevitabilmente dà conto o è influenzata dall'interesse cui è
funzionalizzato il potere dell'Amministrazione tecnica e soprattutto non richiede un semplice
accertamento, ma appunto una valutazione, un giudizio sul fatto. Non è possibile intervenire in alcun
modo con un intento di semplificazione laddove esista la scelta del legislatore di riservare il parere o la
valutazione a quella precisa Amministrazione preposta alla cura di interessi particolari (18).
Si pensi alle verifiche tecniche nella valutazione di adeguatezza di un impianto di smaltimento rifiuti (19)
o, più in generale, alla verifiche circa la conformità a vincoli urbanistici, ambientali o paesistici negli
interventi di trasformazione del territorio (20) o, ancora, all'attività dei sanitari nell'accertamento dei
requisiti attitudinali di aspirante poliziotto (21).
In ogni caso il criterio della regola di organizzazione - ai fini dell'applicazione della disciplina di cui agli
artt. 16 e 17 - resta valido, poichè è sempre la regola di organizzazione che indica l'Amministrazione
preposta alla cura dei super interessi, competente a rilasciare l'atto, parere o valutazione, disciplinato
secondo il medesimo regime.
Al di fuori di tali eccezionali ipotesi, l'art. 17, vista l'impossibilità di procedere - poiché, si ricordi, la
valutazione, diversamente dal parere, serve a ricostruire il fatto - prevede che, quando l'Amministrazione
« tecnica » competente non produca la valutazione nel termine, l'Amministrazione procedente possa
sostituirla con altro organo dell'amministrazione o ente con competenze equipollenti o con istituti
universitari.
Al fine della semplificazione e dell'eliminazione degli ostacoli all'adozione del provvedimento finale, il
legislatore, posto che senza la valutazione è impossibile provvedere, pre-individua una sorta di
commissario, che si sostituisce all'organo inottemperante al rilascio della valutazione nel termine, così
semplificando le modalità ed abbreviando i tempi per arrivare al provvedimento finale.
La fungibilità della sola valutazione, e non del parere, sottolinea la necessità ed imprescindibilità della
piena conoscenza degli elementi di fatto nell'istruttoria: il legislatore non può che individuare un
meccanismo sostitutivo per superare lo stallo, posto che l'Amministrazione procedente non è, comunque,
in grado di decidere senza la valutazione.
Si valorizza, così, l'autonomia dell'Amministrazione procedente, quale capacità di elaborazione propria
(22), non tanto con la preoccupazione di abbreviare i tempi del procedimento, ma piuttosto per
riconoscere all'amministrazione professionalizzata la capacità di determinare, di volta in volta, l'ampiezza
e l'incisività degli accertamenti dovuti, individuando i soggetti in grado di apportare circostanze
significative e ricercando alternative alle valutazioni tecniche degli organi che non provvedano nei tempi
prefissati. Tale autonomia è, però, destinata a venire meno - come si è detto - ogni volta che il legislatore
riservi ad un'Amministrazione precisa preposta alla cura di interessi determinati la valutazione, anche in
vista della difficoltà - se non impossibilità - in cui si troverebbe l'Amministrazione procedente
nell'individuare e indicare un organo equipollente.
L'irrilevanza, per il legislatore, della sfera soggettiva dell'Amministrazione chiamata alla valutazione - e
quindi la svalutazione del profilo soggettivo dell'amministrazione e la correlativa accentuazione del suo
aspetto strumentale (23) - non trova luogo, perciò, ogni volta che si tratti di Amministrazione preposta
alla cura di quei particolari interessi dell'ambiente, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini.
2. Il regime ordinario della valutazione tecnica, anche alla luce dei recenti interventi del legislatore.
Definita la nozione di valutazione tecnica, come apprezzamento sul fatto, necessario per completare
l'istruttoria e quindi rappresentare all'Amministrazione la situazione concreta su cui il provvedimento
andrà ad incidere, si tratta di esaminarne più precisamente il regime (24), anche alla luce delle recenti
modificazioni.
In particolare, il comma 3 dell'art. 7 della l. n. 69 del 2009 ha riformato la disposizione sul termine finale
per l'adozione del provvedimento, incidendo forte mente anche sulla disciplina del procedimento quando
debbano essere acquisite valutazioni tecniche.
Se l'originario disegno di legge riformatore (25) armonizzava la nuova disciplina generale sul termine
finale con la fase incidentale dell'acquisizione della valutazione, prevedendo la modifica anche dell'art. 17,
la definitiva formulazione, concentrandosi nel garantire un termine ultimo certo per l'adozione del
provvedimento, si limita a far salva la disciplina delle valutazioni tecniche di cui all'art. 17, ma senza
coordinamento alcuno.
Come noto, la disposizione dell'art. 2 è stata oggetto, nei vent'anni della vigenza della l. 241, di alcune
modifiche, che hanno articolato in modo più dettagliato il suo testo.
La prima versione della disposizione prevedeva che ogni Amministrazione stabilisse in via generale il
termine finale per ciascun tipo di procedimento e indicava un termine residuale di 30 giorni, volutamente
assai breve sì da essere di stimolo all'adozione di una regolamentazione diversa.
Non vi era alcuna indicazione quanto all'incidenza del tempo necessario all'acquisizione della valutazione
o del parere sul termine finale, ma l'idea della imprescindibilità della valutazione - espressa nell'art. 17,
come si è tentato di far emergere nel paragrafo precedente - si rifletteva sulla necessità di calcolarla
laddove l'Amministrazione, in sede di prima attuazione dell'art. 2, indicava il termine finale.
Così l'Adunanza Generale, prima nel 1992 con il parere 23 gennaio 1992, n. 10, poi nel 1994 con il parere
27 gennaio 1994, n. 3, evidenziava - da un lato - la necessità che i regolamenti delle amministrazioni
indichino i termini per i casi in cui « si debbano acquisire valutazioni tecniche da parte di organi od enti in
alternativa a quello che non abbia risposto nei tempi prescritti » ed anche dei « tempi nei quali devono
fornire gli apporti endoprocedimentali di propria pertinenza, nei procedimenti di competenza delle altre
amministrazioni » e - d'altro lato - sottolineava l'opportunità di accordi procedimentali « idonei ad
assicurare in tempi predeterminati l'acquisizione dei pareri e delle valutazioni degli organi tecnici
competenti ».
La dottrina (26) aveva proposto una regola generale di sospensione del termine finale per il caso
dell'acquisizione di valutazioni o altri atti endoprocedimentali.
Non sempre, però, le Amministrazioni hanno virtuosamente seguito le indicazioni del Consiglio di Stato,
sicché nel 2005 il testo della disposizione è stato modificato in modo da espressamente dar conto della
parentesi procedurale necessaria all'acquisizione della valutazione.
Il nuovo comma 4 all'art. 2 espressamente contemplava la sospensione del termine del procedimento,
per un periodo non superiore a 90 giorni, in attesa dell'adozione della valutazione.
Con il nuovo intervento nel 2009, non solo la sospensione non è più ammessa, ma si prevede che il
termine ordinario per l'adozione del provvedimento non debba comunque superare i 90 giorni. Nelle
ipotesi di provvedimenti di « particolare complessità » vale il diverso termine comunque non superiore a
180 giorni. L'evidente intento della disposizione è quello di fornire tempi certi e immutabili - in tal senso,
appunto, l'abrogazione della sospensione - per arrivare all'adozione del provvedimento.
Il comma 7 dell'art. 2, come si è anticipato, fa salva la disciplina di cui all'art. 17, ma l'art. 17, da un lato,
non contiene previsione alcuna quanto all'incidenza del tempo necessario all'acquisizione della
valutazione sul termine finale (27), dall'altro, prevede un termine generale di 90 giorni per il compimento
della valutazione.
Manca, perciò, il necessario raccordo tra durata del procedimento e disciplina di cui all'art. 17.
Infatti, pur facendo letteralmente salvo l'art. 17, il legislatore ha espressamente abrogato la disposizione
sulla sospensione per il tempo necessario all'acquisizione della valutazione e, inoltre, ha introdotto un
termine generale per l'adozione del provvedimento perfettamente identico a quello per il rilascio della
valutazione. Questo comporta un'evidente contraddizione e carenza sistematica all'interno della disciplina
del procedimento, che, per come oggi articolata, fa sì che l'Amministrazione procedente possa trovarsi,
nel rispetto delle disposizioni di legge, ad avere una corretta rappresentazione del fatto - appunto con
l'acquisizione della valutazione - quando ormai è scaduto il termine per adottare il provvedimento finale.
Ma la sensibile riduzione dei termini per l'adozione del provvedimento produce riflessi importanti anche
sulla posizione dell'Amministrazione procedente e sulla sua eventuale responsabilità per danno da ritardo.
Infatti, con la riforma, in contrasto con l'indirizzo che andava affermandosi in giurisprudenza (28), si è
introdotta la responsabilità delle Amministrazioni per il danno ingiusto cagionato in conseguenza
dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento.
Ora il mancato effettivo coordinamento tra art. 2 e art. 17 riduce di fatto l'evidente intento di rendere più
incisiva la disciplina del termine.
Infatti, non può certo ritenersi illecito il ritardo quando esista norma espressa che legittima la richiesta di
istanze istruttorie sino allo scadere dell'ordinario termine finale del procedimento, né tanto meno sussiste
la colpa dell'Amministrazione procedente quando l'Amministrazione tecnica, sollecitata, non si pronunci
entro i termini prescritti.
L'Amministrazione procedente, constatata l'inerzia di quella tecnica, deve indicare altra Amministrazione
con equipollenti capacità in grado di sostituirsi nella valutazione, sempre che - come si diceva in
precedenza - non si tratti di valutazione infungibile.
Tale incidente non sospende il termine, sicché, nel rispetto delle disposizioni di legge, si perviene
certamente all'adozione di un provvedimento oltre il termine finale. Infatti, salvo diversa indicazione
regolamentare, 90 giorni sono concessi per l'adozione della valutazione all'Amministrazione tecnica
competente e, analogicamente, altri 90 a quella vicaria: sommando, si ottengono 180 giorni, il che,
anche senza contare il tempo necessario per la trasmissione dell'istanza, implica l'inevitabile adozione del
provvedimento oltre il termine, pure nei casi di « particolare complessità ».
Dunque, la scelta del legislatore di abrogare la sospensione del termine in attesa dell'acquisizione della
valutazione non solo si rivela insoddisfacente per la mancanza di coordinamento con la disciplina generale
dell'istituto - che produce un'incoerenza sistematica dei termini nel procedimento -, ma pare anche in
grado di inficiare lo stesso risultato della garanzia di un provvedimento espresso entro un termine sempre
certo, che il legislatore si prefigge di raggiungere con la modifica. Di fatto, la sanzione della responsabilità
per il ritardo perde la funzione deterrente, essendo il ritardo inevitabile nel rispetto delle disposizioni di
legge ogni volta si debba acquisire una valutazione.
Infine, resta da esaminare il caso in cui l'Amministrazione tecnica, competente in via infungibile, o
eventualmente quella vicaria, eludano il termine per la produzione della valutazione e restino inerti.
Anzitutto occorre verificare se, per questa ipotesi, esistano clausole di sblocco in grado di garantire che il
procedimento giunga a termine, poiché quando non esista un meccanismo per consentire la prosecuzione
del procedimento, è chiaro che anche il termine per l'adozione del provvedimento finale diventa affatto
irrilevante (29).
Né, d'altra parte, l'Amministrazione potrebbe - al solo fine di rispettare il termine - adottare un
provvedimento di diniego in assenza della valutazione tecnica: tale provvedimento, infatti, sarebbe
illegittimo per la mancanza di una corretta rappresentazione del fatto (30).
In assenza di previsioni peculiari a riguardo, in dottrina (31), prima della nuova formulazione dell'art. 2,
si è proposta l'applicabilità del rito speciale del silenzio al caso in cui manchi la valutazione infungibile,
proprio al fine di accertare il dovere di provvedere alla valutazione. Il rito del silenzio, per così come
congegnato, concederebbe comunque all'Amministrazione un'ulteriore chance di provvedere. La sua
estensione richiederebbe di superare l'ostacolo letterale per cui il rito del silenzio sarebbe applicabile solo
in carenza di provvedimento e non laddove manchi un atto endoprocedimentale. La valutazione tecnica,
anche secondo la ricostruzione appena fornita, ha, infatti, natura endoprocedimentale, in quanto atto
pertinente e proprio dell'istruttoria.
D'altra parte, un'interpretazione estensiva della disposizione sarebbe giustificata dal fatto che il mancato
rilascio della valutazione configura un ostacolo alla conclusione positiva del procedimento, insuscettibile di
essere rimosso dal soggetto procedente. Il termine dal quale esperire l'azione sarebbe quello del
subprocedimento per l'emanazione della valutazione.
Parte della giurisprudenza (32) ha fatto proprio il suggerimento della dottrina, spingendosi a ritenere che
l'esclusione del rimedio nei casi di inerzia delle autorità endoprocedimentali « determinerebbe un
irreparabile vulnus agli interessi di coloro che siano soggetti alla potestà amministrativa che
provocherebbe il sospetto di incostituzionalità del precetto per violazione dell'art. 24 Cost. »
La soluzione in favore dell'estensione del rito del silenzio pare, però, di scarsa efficacia concreta, in
quanto costosa per il privato e difficilmente in grado di modificare lo stato di fatto, dovendosi supporre,
analogicamente, l'impossibilità che il commissario si sostituisca all'amministrazione competente, ogni
volta che l'art. 17 introduce l'infungibilità della valutazione. E sono certo questi i casi di maggiori
interesse e rilievo economico.
La giurisprudenza, peraltro, riconosce la legittimazione a proporre ricorso contro il silenzio
inadempimento ogni volta che il termine finale per l'adozione del provvedimento risulti di fatto superato,
talora non ritenendolo giustificatamente sospeso - anche nel vigore della disciplina che ammetteva la
sospensione - pure nel caso della necessaria acquisizione di valutazioni (33).
La nuova formulazione dell'art. 2 sul termine finale sostiene la soluzione della giurisprudenza,
semplificandola: l'azione di accertamento dell'obbligo di provvedere dell'Amministrazione procedente sarà
proponibile intervenuta la scadenza dei 90 o 180 giorni o del minor diverso termine previsto per
l'adozione del provvedimento finale. Ciò anche se, in base alle considerazioni precedenti, il termine per
l'adozione della valutazione potrebbe essere appena o non ancora consumato.
3. La valutazione tecnica in sede di conferenza di servizi.
Le riflessioni precedenti hanno valore solo quando la valutazione tecnica non debba acquisirsi insieme ad
atti autorizzatori provenienti da altre amministrazioni, sicché sia utile, se non obbligatoria, l'indizione
della conferenza di servizi. La giurisprudenza ha, infatti, ritenuto che ogni volta che la conferenza di
servizi sia obbligatoria per l'adozione del provvedimento, la conferenza stessa diviene l'unica sede in cui
l'Amministrazione, pure tecnica, si deve pronunciare sicché non pare sorgere in capo alla stessa un
distinto dovere di provvedere in ordine all'istanza presentata dall'Amministrazione procedente (34).
In tali casi si deve ragionare su quali siano gli effetti della mancata produzione della valutazioni all'interno
dei particolari meccanismi procedurali della conferenza.
In proposito, la giurisprudenza, di recente (35), ha ritenuto che la mancanza di una valutazione tecnica
non sostituibile non giustifichi la mancata adozione del provvedimento conclusivo della conferenza di
servizi entro il termine previsto. Il Tribunale ha precisato che il termine non ha natura perentoria « solo in
quanto si miri ad escludere che il suo decorso comporti la decadenza del potere di provvedere o
l'illegittimità del provvedimento tardivamente adottato dalla conferenza », ma che il suo scadere
consente certo all'interessato di attivare il rimedio processuale previsto dall'art. 21bis.
Il giudice suggerisce come soluzione preferibile - per il caso dell'impossibilità delle amministrazioni di
pronunciarsi in mancanza dell'acquisizione di un parere o di una valutazione tecnica insostituibile l'adozione, in sede di conferenza, di un provvedimento negativo. « Detta soluzione, infatti, appare, per un
verso, rispettosa della previsione legislativa dell'obbligo di conclusione dei procedimenti amministrativi e
conforme alla funzione di semplificazione procedimentale propria dell'istituto della conferenza di servizi e,
per altro verso, risponde all'interesse del privato di ottenere comunque un riscontro, anche negativo, alle
proprie istanze, in vista della assunzione di diverse determinazioni e/o iniziative imprenditoriali ».
La decisione pare quanto meno criticabile; e ciò risulta tanto più evidente ove, seguendone la ratio, la si
applichi anche al di fuori della conferenza di servizi, richiamando « la funzione di semplificazione
procedimentale » secondo la disci plina dell'art. 17. Ne deriverebbe, infatti, che « poiché risponde
all'interesse del privato ottenere comunque un riscontro », potrebbe sostenersi la legittimità di un
provvedimento di diniego adottato nel nuovo immutabile termine di cui all'art. 2, ma senza l'acquisizione
della valutazione tecnica: il che stravolgerebbe completamente l'impostazione della l. 241.
Diverso è il caso in cui l'espressa clausola di sblocco è contenuta al comma 4 dell'art. 14 ter in riferimento
al caso particolare in cui la valutazione di impatto ambientale sia acquisita nell'ambito di un procedimento
autorizzativo, semplificato attraverso la conferenza di servizi - procedimento che, come noto, ha ad
oggetto il rilascio dell'autorizzazione unica per la realizzazione di impianti di produzione di energia
elettrica da fonti rinnovabili (36). In merito la norma prevede un preciso meccanismo di scadenze così da
ovviare al caso patologico in cui la v.i.a. non venga resa entro i termini previsti, evitando lo stallo
procedimentale (37).
In particolare, come noto, si prevede che nei casi in cui sia richiesta la v.i.a., la conferenza si esprime
dopo aver acquisito la valutazione medesima ed il termine per l'adozione della decisione conclusiva resta
sospeso, per un massimo di 90 giorni, fino all'acquisizione della pronuncia sulla compatibilità ambientale.
Se la v.i.a. non interviene, l'Amministrazione competente si esprime in sede di conferenza di servizi, la
quale si conclude nei trenta giorni successivi al termine predetto.
È vero, però, che anche i termini così indicati sono sempre stati intesi dall'Amministrazione procedente
come ordinatori, sicché di consueto si attende la conclusione del procedimento di v.i.a. prima di
riconvocare la conferenza.
La previsione, inoltre, è certamente propria del caso specifico in cui la v.i.a. è endoprocedimento di un
diverso e distinto procedimento autorizzatorio (38) e non consente, pertanto, di essere generalizzata ed
estesa alle ipotesi, disciplinate dall'art. 17, in cui la valutazione costituisce atto endoprocedimentale e non
endoprocedimento.
4. Qualche considerazione conclusiva.
L'interrogativo cui si deve rispondere, in conclusione, è se la legge regoli il procedimento amministrativo,
quanto al profilo dell'acquisizione di valutazioni tecniche, in modo corretto e ordinato, ponendo
l'amministrazione in grado di risolvere i suoi problemi attuali e futuri in modo migliore, e cioè più efficace,
più attento alle materie trattate e alle esigenze di equità dei cittadini (39).
Il fine di efficacia del procedimento mette in risalto proprio i rapporti orga nizzatori, nelle loro variabili
ipotesi e combinazioni, e la collaborazione e coordinamento tra amministrazioni trova certo una chiara
espressione nell'affidare all'Amministrazione con le maggiori competenze il compito di rappresentare il
fatto all'Amministrazione che deve poi compiere la composizione degli interessi.
La semplificazione nei meccanismi della valutazioni tecniche deve, però, essere utilizzata
dall'Amministrazione procedente non come automatismo, ma come strumento di flessibilità, quando le
stesse informazioni possano più velocemente ed utilmente essere acquisite altrove.
Si è detto, infatti, che la l. 241 nel suo primo intento riconosceva autonomia all'Amministrazione
procedente non tanto per abbreviare i termini del procedimento, ma piuttosto per valorizzare la sua
capacità di ricercare alternative alle valutazioni tecniche, che, in quanto atte alla rappresentazione del
fatto, sono elemento ineliminabile ed insostituibile nell'istruttoria del procedimento.
Certo il procedimento è efficace in quanto capace di adempiere alle sue funzioni.
Ciò, però, non significa, come, invece, pare emergere dai più recenti interventi del legislatore, che il
procedimento debba concludersi con un provvedimento espresso quale che sia in tempi brevi e certi, ma,
invece, che il procedimento debba concludersi con un provvedimento che, talora anche a scapito
dell'efficienza quanto al fattore tempo, si riveli utile a comporre gli interessi in gioco.
Alla luce della nuova formulazione, l'acquisizione della valutazione non sembrerebbe più rappresentare un
momento, una parentesi del procedimento in grado di procrastinare l'adozione del provvedimento rispetto
al termine generalmente previsto al procedimento di fermarsi. Ciò incide, inevitabilmente, sull'istituto
della valutazione che resta sì atto imprescindibile, ma senza che vi sia una parentesi temporale per
procedervi.
L'adozione ad ogni costo di un provvedimento negativo, proposta dalla giurisprudenza in sede di
conferenza di servizi, permette semplicemente al privato di attivarsi in sede giurisdizionale, ma non pare
la soluzione corretta, perché una semplificazione - che in definitiva richieda un intervento del giudice che
ne stabilisca la portata e gli effetti - non è né utile, né accettabile (40).
Allo stesso modo, già una decina di anni fa, si osservava che i meccanismi della conferenza di servizi
devono essere organizzati per avere decisioni giuste e non decisioni a tutti i costi (41).
Le incongruenze emerse, forse, derivano dalla diversa prospettiva in cui si pone il legislatore nel 1990 e
nel 2009.
Se nel 1990 il procedimento è lo strumento di garanzia del cittadino, sicché la sua completezza è
essenziale anche a scapito del tempo necessario per raggiungerla, con la modifica del 2009 si tende a
considerare il provvedimento espresso adottato in tempi brevi lo strumento in grado di soddisfare il
cittadino, in una logica - su cui occorre riflettere - che non è più tanto quella del provvedimento giusto in
quanto esito naturale di un procedimento completo, quanto quella di un provvedimento purché sia in
tempi certi.
NOTE
(*) Questo scritto è destinato al volume che raccoglie gli atti del Convegno "La legge sul procedimento
venti anni dopo", Palermo, 16-17 aprile 2010.
(1) Cui è dedicata la voce più generale di D. DE PRETISValutazioni tecniche della Pubblica Amministrazione,
in Diz. Dir. pubbl. a cura di S. CASSESE, Milano 2006, vol. VI, 6176. Per una comprensione della
prospettiva in cui si pone l'Autrice si ricordi il noto volume Valutazione amministrativa e discrezionalità
tecnica, Padova 1995, ove, attraverso un'attenta e completa ricostruzione dell'evoluzione degli studi sulla
c.d. attività di discrezionalità tecnica, si giustifica la riserva all'amministrazione degli accertamenti
opinabili quando sorretta da una legittimazione organizzativa dell'amministrazione unita all'espressa
attribuzione normativa del relativo potere di decisione ultima all'amministrazione. Come noto, a favore di
una riserva di giudizio dell'amministrazione si è espresso C. MARZUOLI, Potere amministrativo e valutazioni
tecniche, Milano 1985, mentre sostiene la pienezza del sindacato giurisdizionale F. LEDDA, Potere, tecnica
e sindacato giudiziario, in Studi in memoria di Vittorio Bachelet, Milano 1967.
(2) In tal senso A. TRAVI, voce Parere, in Dig. Disc. Pubbl., vol. X, Torino 1995, 601, qui p. 603; A. LALLI,
Parere (postilla di aggiornamento), in Enc. giur., vol. XXII.
(3) Quanto al generale dovere dell'amministrazione di attendere il parere per un periodo massimo di 45
giorni per poi prescindere da esso, da ultimo, TAR Lazio, Roma, sez. II, 9 aprile 2008, n. 3045. Anche
Cons. St., sez. V, 15 marzo 2006 n. 1386 ritiene legittima la procedura di decentramento di una farmacia
anche in assenza dell'emanazione del parere dell'Ordine dei farmacisti della Provincia, richiesto ma non
rilasciato nel termine.
(4) Cons. St., comm. spec. pubbl. imp., parere 5 novembre 2001, n. 480/00, in Foro it. 2002, III, 239. Si
trattava, nel caso di specie, di qualificare la determinazione resa dal comitato per le pensioni privilegiate
ordinarie, insieme con la valutazione resa dalla commissione medico-ospedaliera nel procedimento, di cui
al d.P.R. 20 aprile 1994, n. 349, ai fini della corresponsione della pensione privilegiata ordinaria.
(5) In tal senso A. TRAVI, op. ult. cit., 608 e C. VIDETTA, Pareri e valutazioni tecniche a confronto nel
procedimento di riconoscimento di infermità o lesione dipendente da causa di servizio e di concessione
dell'equo indennizzo, in commento al succitato parere del Cons. St., sempre in Foro it. 2002, III, 239, qui
244, F. FRACCHIA e C. VIDETTA, La tecnica come potere, in Foro it., 2003, III, 493.
(6) Così A. TRAVI, op. ult. cit., 608.
(7) In giurisprudenza TAR Puglia, Lecce, 7 febbraio 2008, n. 372 afferma che non può qualificarsi parere
l'atto reso dal Comune nel caso di adozione di ordinanze per ipotesi in cui i livelli di contaminazione
risultino superiori alla soglia massima di concentrazione poiché il Comune « non è qualificabile in alcun
modo come organo consultivo delle pubbliche amministrazioni ». Il giudice ritiene, perciò, non possano
trovare applicazione le previsioni dell'art. 16.
(8) Occorre precisare che con la l. 18 giugno 2009, n. 69, il termine per l'acquisizione del parere è stato
ridotto da 45 a 20 giorni e, in caso di decorrenza del termine, per i pareri obbligatori si prevede la facoltà
dell'Amministrazione di procedere, mentre per i pareri facoltativi si dispone che l'Amministrazione procede
indipendentemente dal parere.
(9) Non è, pertanto, necessario richiamare, come fa la giurisprudenza, un principio di specialità ed
esaustività della norma codicistica. In merito TAR Veneto, Venezia, sez. II, 18 dicembre 2006, n. 4094.
(10) In tal senso M. NIGRO, Il procedimento amministrativo fra inerzia legislativa e trasformazioni
dell'amministrazione (a proposito di un recente disegno di legge), in Il procedimento amministrativo fra
riforme legislative e trasformazioni dell'amministrazione, cit., 3, qui p. 21 ove si precisa che, così
ragionando, è « impensabile che in tutti i casi in cui l'amministrazione determina assetti di interessi, il
fatto venga verificato (esclusivamente) con i mezzi propri del processo civile ». La prova dovrebbe,
piuttosto, essere cercata non omologando gli istituti processuali ma ricercando i metodi e gli strumenti
per trasportare nel processo amministrativo con la maggior fedeltà i risultati della complessa opera di
tessitura dei fatti e degli interessi che ha la sua sede appunto nel procedimento.
(11) In merito Cons. St., sez. VI, 30 aprile 2003, n. 2331, con il commento di L. IEVA, Sulla obbligatorietà
della motivazione delle valutazioni tecniche espresse dalle commissioni giudicatrici sulle prove di esame
nei concorsi pubblici, in questa Rivista, 2003, 1684, in particolare p. 1689-1692 in cui si dà conto della
integrazione tra elementi tecnici e contesto normativo in cui sono inseriti.
(12) Cons. St., sez. IV, 9 aprile 1999, n. 601 con nota, cui ci si permette di rinviare, di M. DELSIGNORE, Il
sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche: nuovi orientamenti del Consiglio di Stato,
in Dir. proc. amm., 2000, 182.
(13) Per la ricostruzione del significato dell'attività di valutazione tecnica tra discrezionalità e
apprezzamento si confronti R. VILLATA, M. RAMAJOLI, Il provvedimento amministrativo, Torino 2006, 104
ss.
(14) Si rimanda, in proposito, a quanto già citato alla nota 1, nonché, da ultimo F. CINTIOLI, Giudice
amministrativo, tecnica e mercato, Milano 2005, in particolare 208 ss.
(15) In merito V. CERULLI IRELLI, Note in tema di discrezionalità amministrativa e sindacato di legittimità,
in Dir. proc. amm. 1984, 465 e lo studio di P. LAZZARA, Autorità indipendenti e discrezionalità, Padova
2001.
(16) In tal senso già G. CORSO e F. TERESI, Procedimento amministrativo e accesso ai documenti, Rimini
1991, 117, che prendono ad esempio la Commissione edilizia e ritengono il Sindaco legittimato ad agire
in base alla sola valutazione dell'ufficio tecnico comunale - espressione di competenza tecnica analoga a
quella della Commissione edilizia - prescindendo dal parere della Commissione.
(17) In proposito TAR Lazio, Roma, sez. III, 16 gennaio 2010, n. 289 sottolinea che il Consiglio Superiore
dei Lavori Pubblici non è autorità preposta alla tutela di esigenze di pubblica incolumità, ben diverse da
quella più propriamente afferente alla « salute pubblica » e, di conseguenza, il suo parere è prescindibile
se non rilasciato nel termine.
(18) Ciò può forse rispondere alle critiche mosse da parte della dottrina quanto alla mancanza di una
giustificazione per la scelta di ritenere non sostituibile le valutazioni tecniche nelle ipotesi eccezionali qui
in discussione. In tal senso A. LALLI, op. ult. cit., 2. Ugualmente critico quanto all'infungibilità delle
valutazioni in materia ambientale è M. RENNA, Semplificazione e ambiente, in La semplificazione nelle
leggi e nell'amministrazione: una nuova legge, Bologna 2008, 123, qui p. 159, che ritiene la fungibilità
dei valutatori oggi confermata, sul piano processuale, dalla possibilità per il giudice amministrativo di
esercitare un sindacato intrinseco, diretto e forte sulle stesse mediante lo strumento della c.t.u.
(19) TAR Liguria, sez. I, 28 settembre 2002, n. 984.
(20) In tema di vincolo idrogeologico Cons. St., sez. IV, 6 ottobre 2001, n. 5287, in tema di atti
preparatori al piano comunale della distribuzione di carburante TAR Abruzzo, L'Aquila, 17 maggio 1993, n.
159.
(21) TAR Lazio, Roma, sez. I ter, 5 dicembre 2000, n. 11068.
(22) Così si esprime E. CARDI, L'istruttoria nel procedimento: effettività delle rappresentazioni ed
elaborazione delle alternative, in Il procedimento amministrativo fra riforme legislative e trasformazioni
dell'amministrazione, Milano 1990, 105, qui 114-115.
(23) Ove la strumentalità implica, di solito, fungibilità di mezzi e di strutture rispetto al fine G. CORSO e F.
TERESI, Procedimento amministrativo e accesso ai documenti, Rimini 1991, 118.
(24) La giurisprudenza in proposito è piuttosto scarna. In dottrina (A. SANDULLI, La semplificazione, in Riv.
trim. dir. pubbl. 1999, 757, qui p. 780) si è affermato che ciò sia il sintomo del fatto che, in tema di
semplificazione, la scelta dei valori da salvaguardare è stata operata, in via preliminare, dal legislatore.
Ciò corrobora la scelta qui compiuta di procedere attraverso uno stretto esame delle disposizioni.
(25) Si tratta del disegno di legge Nicolais all'art. 27 nella sua prima versione (Ddl 1441-bis), ove si
prevedeva di introdurre nell'art. 17 la previsione della sospensione del procedimento per i 90 giorni
necessari all'acquisizione della valutazione, senza alcuna interruzione anche in caso di esigenze istruttori,
e si imponeva al responsabile del procedimento di provvedere comunque all'adozione del provvedimento,
pure in assenza della valutazione richiesta e mai adottata dall'Amministrazione tecnica o da quella vicaria.
(26) M. MAZZAMUTO, Legalità e proporzionalità temporale dell'azione amministrativa: prime osservazioni,
in Foro amm., 1993, 1739, proponeva appunto una « regola di carattere generale, per la quale,
allorquando debba essere espletata un'attività infraprocedimentale che non dipenda dall'amministrazione
procedente o che, comunque, non faccia capo all'amministrazione attiva responsabile del
procedimento ... la decorrenza del termine di conclusione del procedimento è soggetta a sospensione.
» (1747), pur rilevando, criticamente, che la regola della sospensione aveva l'inconveniente di
determinare una « sostanziale imperscrutabilità della durata reale del procedimento » (1748).
(27) Ivi si prevede solo che nel momento in cui l'organo adito per la valutazione abbia rappresentato
esigenze istruttorie all'Amministrazione procedente, i termini per la valutazione possano essere interrotti
per una sola volta e la valutazione debba essere resa definitivamente entro quindici giorni dalla ricezione
degli elementi istruttori da parte delle Amministrazioni interessate.
(28) Come noto, a partire dalla pronuncia dell'Adunanza Plenaria n. 7 del 2005 la giurisprudenza si era
assestata nel senso del risarcimento del danno da ritardo solo nell'ipotesi di provvedimento favorevole al
privato.
(29) Così espressamente TAR Veneto, Venezia, 18 dicembre 2006, n. 4094. Si noti, inoltre, che anche gli
atti soprassessori sono stati giudicati pregiudizievoli se interrompono la sequenza procedimentale per un
tempo che non sia determinato né determinabile. In proposito Trib. sup. acque pubbliche 21 gennaio
2005, n. 8.
(30) Già in tal senso, nel vigore della disciplina precedente, TAR Campania, Napoli, sez. II, 16 agosto
1996, n. 337. Nel caso di specie si trattava della richiesta di riconoscimento dell'obiezione di coscienza
con opzione per il servizio sostitutivo e della valutazione in merito alla sincerità e fondatezza dei motivi.
(31) F. FRACCHIA, Riti speciali a rilevanza endoprocedimentale, Torino 2003, 69 ss.
(32) Così TAR Calabria, Reggio Calabria, sez. I, 28 gennaio 2010, n. 46. L'affermazione della necessaria
interpretazione costituzionalmente orientata è rimasta, in ogni caso, priva di applicazione poiché il ricorso
è stato dichiarato inammissibile sotto altro profilo. Si trattava della mancata delibera del Direttore
Generale dell'ASP di accertamento dei requisiti tecnici di cui la struttura sanitaria deve essere in possesso
per ottenere l'accreditamento da rilasciarsi da parte della Regione.
(33) In favore dell'applicabilità dell'art. 21 bis, da ultimo, anche TAR Sicilia, Catania, sez. III, 26 gennaio
2010, n. 125. Nel caso di specie si trattava del parere medico sanitario al fine del riconoscimento della
causa di servizio di un sinistro occorso ad un agente di polizia penitenziaria e del rimborso di tutte le
spese vive relative, secondo la disciplina di cui al d.P.R. 29 ottobre 2001 n. 461.
(34) Si ricordino, in tema di autorizzazione unica gli impianti per lo sfruttamento di fonti rinnovabili,
Cons. reg. sic., 11 aprile 2008, n. 295 e TAR Piemonte, Torino, sez. I, 25 settembre 2009, n. 2292.
(35) TAR Campania, Napoli, sez. VII, 27 maggio 2009 n. 2944. Oggetto della conferenza di servizi era il
rilascio di concessione demaniale marittima per la realizzazione di strutture dedicate alla nautica di
diporto.
(36) In tal senso, come noto, dispone l'art. 12 del d.lg. n. 387 del 2003.
(37) Critico al meccanismo di sblocco così introdotto nel 2005 è R. BIN, Dissensi in Conferenza di servizi e
incauto deferimento della decisione alle « Conferenze » intergovernative: le incongruenze della l.
15/2005, in Le Regioni 2006, 339 che considera scorretta l'opzione del legislatore di permettere la
prevalenza di interessi politici sulle valutazioni tecniche.
(38) In tal senso anche TAR Lecce, 10 gennaio 2008, n. 59
(39) Tale quesito è comune a ogni ordinamento in cui la legge sul procedimento sia codificata, tanto che
le parole riportano gli interrogativi di W. SCHMITT GLAESER in merito alla legge tedesca, in Problemi di
amministrazione pubblica, Quaderno Formez n. 2, La codificazione del procedimento amministrativo nella
Repubblica Federale Tedesca, 1979, 377, qui 411.
(40) A. TRAVI, La semplificazione fra Stato e autonomie territoriali, in La semplificazione nelle leggi e
nell'amministrazione: una nuova stagione, cit., 81, qui 88.
(41) G. FALCON, Semplificazione, garanzie, certezza: modelli di composizione degli interessi, in Il
procedimento amministrativo in Europa, Milano 2000, 59, qui 78.
Archivio selezionato: Note
Una nuova pronuncia del T.A.R. Piemonte in tema di autorizzazione alla costruzione e
all'esercizio degli impianti di produzione di energia elettrica alimentati da biomasse:
legittimazione a ricorrere, contenuto e presupposti per il rilascio dell'autorizzazione
unica ex art. 12 del D.Lgs. 387/2003 e questioni procedimentali
Riv. giur. ambiente 2010, 2, 388
Laura Corti
1. Introduzione. 2. Legittimazione a ricorrere ed intervenire in giudizio in materia ambientale. 3. Principi
in materia di autorizzazione unica ex art. 12 del D.Lgs. 387/2003. 3.1. Autorizzazione unica e
procedimento di valutazione di impatto ambientale. 3.2. Contenuto dell'autorizzazione unica: le
prescrizioni. 4. Principi del procedimento amministrativo, con particolare riferimento all'istituto della
conferenza di servizi. 4.1. La partecipazione del privato. 4.2. La partecipazione della P.A.: modalità e
tempi della manifestazione della posizione che ciascuna P.A. intende assumere nell'ambito della
conferenza.
1. Introduzione.
La sentenza del T.A.R. Piemonte in commento affronta molteplici questioni, che possono tuttavia
ricondursi a tre tematiche fondamentali:
Archivio selezionato: Note
La Valutazione di Impatto Ambientale come strumento di better regulation ed i
problemi applicativi nell'ordinamento italiano
Riv. it. dir. pubbl. comunit. 2010, 1, 339
Maria Luce Mariniello
SOMMARIO: Premessa. 1. I termini della questione. 2. Finalità ed effetti della VIA. 3. Il bilanciamento di
interessi nella VIA dei parchi eolici. 4. Partecipazione procedimentale e conferenza di servizi nella VIA.
Premessa.
La compatibilità della realizzazione di un parco eolico con il vincolo paesistico può essere legittimamente
negata da un'amministrazione comunale, in assenza di contraddittorio tra i soggetti interessati? E quali
effetti produce tale dichiarazione di incompatibilità ai fini dell'espletamento della procedura di VIA?
Con la sentenza in commento il giudice amministrativo torna a pronunciarsi sulla dimensione procedurale
della valutazione di impatto ambientale (VIA), evidenziandone la funzione di strumento conformativo
dell'esercizio di potestà tecnico-discrezionali nei procedimenti di rilevanza ambientale. In particolare, il
T.A.R. Umbria si concentra sull'obbligo di condurre la VIA dei parchi eolici attraverso un'adeguata
istruttoria tecnica, che è tale quando la discrezionalità spettante alla pluralità di amministrazioni titolari di
poteri, in relazione all'autorizzazione di tali opere, è esercitata attraverso il metodo della conferenza di
servizi e con l'apporto partecipativo dei privati interessati.
Nell'affermare siffatto principio, la sentenza offre interessanti spunti di riflessione sulla garanzia del
contraddittorio nella procedura di VIA che, nel diritto europeo, integra un più ampio complesso di regole e
principi in cui si sostanzia il diritto dei privati a una buona amministrazione. Al contempo, mette in
evidenza come l'arretratezza della legge sul procedimento amministrativo in materia di partecipazione
abbia influito negativamente sull'adozione di alcune legislazioni regionali di settore, in cui si ravvisa un
utilizzo improprio della conferenza di servizi: in effetti, le direttive comunitarie sulla VIA ed oggi anche la
disciplina nazionale di attuazione delineano una procedura preordinata a finalità di apertura dei
procedimenti alle istanze del pubblico interessato attraverso il ricorso a specifici moduli strutturali, come
l'inchiesta pubblica, diretti ad attenuare l'unilateralità delle decisioni amministrative. Pertanto,
un'interpretazione giurisprudenziale tendente a concepire la conferenza di servizi quale unico momento di
confronto e sintesi degli interessi coinvolti nell'attività amministrativa complessa rischia di assecondare il
fenomeno, frequente nella prassi, di assorbimento degli istituti partecipativi della VIA in moduli
procedimentali strutturalmente inadeguati ad assicurarne la funzione.
Tra i possibili effetti riconducibili a questa prassi applicativa non vi è solo il rischio di snaturare le finalità
proprie degli obblighi di partecipazione e trasparenza dettati dalle direttive comunitarie in materia di VIA.
Più in generale, un siffatto modello di attuazione degli istituti del diritto ambientale europeo contribuisce
altresì a limitarne la portata nell'ordinamento italiano. Qui l'attuazione di numerose direttive comunitarie
si è rivelata non soltanto tardiva, ma spesso anche meramente formalistica, incapace cioè di garantire un
efficace adattamento ordinamentale alle innovazioni sostanziali e procedurali richieste dalle politiche
europee in materia di sviluppo sostenibile. Ciò rischia di compromettere l'effettività della tutela
dell'ambiente nel nostro ordinamento e, nel caso della VIA, comporta altresì che ai costi amministrativi ad
essa associati non sempre corrispondano i vantaggi derivanti da un'adeguata istruttoria tecnica, in
termini di garanzie nel procedimento, razionalizzazione e controllabilità delle decisioni pubbliche.
1. I termini della questione.
Con la sentenza in esame il T.A.R. Umbria ha parzialmente accolto due ricorsi presentati da una società
interessata alla realizzazione di un parco eolico, composto da 27 aerogeneratori, nel Comune di Spoleto,
ed inerenti un procedimento di Valutazione di Impatto Ambientale (VIA) conclusosi con esito negativo. Il
giudizio seguiva ad una precedente controversia tra la società ricorrente ed il Comune di Spoleto avente
ad oggetto l'annullamento di un certificato attestante l'incompatibilità urbanistica del progetto, rilasciato
dallo Sportello Unico Impresa e Cittadino ai sensi della legge regionale applicabile in materia di VIA (1).
Tale certificato era stato dichiarato illegittimo dal T.A.R. per violazione delle disposizioni di legge che
incentivano la produzione di energia da fonte rinnovabile (2). Ciononostante, la rinnovazione del
provvedimento si concludeva nuovamente con una dichiarazione di incompatibilità urbanistica
dell'intervento proposto, benché fondata su elementi di valutazione diversi da quelli oggetto di censura
nella precedente sentenza, ed attinenti in particolare ai vincoli a tutela del paesaggio e dell'ambiente
previsti dal Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale (PTCP), e dalle misure di salvaguardia
ambientale disposte da una successiva deliberazione regionale. Per effetto dell'acquisizione del secondo
certificato comunale, il procedimento di VIA si concludeva con un giudizio di compatibilità ambientale
negativo, emesso dalla competente direzione regionale. E ciò senza alcuna integrazione della precedente
attività istruttoria che, in definitiva, era consistita nella convocazione di una sola conferenza di servizi.
Pertanto, la società ricorrente che aveva già impugnato il secondo certificato di compatibilità urbanistica
proponeva un ulteriore ricorso per l'annullamento della determinazione dirigenziale conclusiva della
procedura di VIA e, tra gli atti presupposti, del verbale della conferenza di servizi.
Il T.A.R. Umbria si è pronunciato sui due ricorsi, previamente riuniti, risolvendo in senso favorevole ai
ricorrenti solo alcune delle questioni emergenti dalle censure prospettate.
Circa il certificato di compatibilità urbanistica, la sentenza chiarisce che questo ha natura meramente
dichiarativa e non può pertanto sostituirsi alle valutazioni spettanti ad altre amministrazioni preposte alla
cura di interessi paesaggistico-ambientali. L'apprezzamento e la ponderazione di tali interessi deve infatti
essere compiuta dalle autorità competenti nell'ambito del procedimento di VIA e secondo le modalità
proprie della conferenza di servizi. A tale riguardo, il T.A.R. Umbria ha tuttavia precisato che l'illegittimità
del procedimento di VIA, per violazione della specifica dimensione procedurale richiesta nell'esercizio di
poteri tecnico-discrezionali, non inficia la validità delle determinazioni impeditive della realizzazione di
impianti eolici, in corrispondenza di pre-esistenti valori tutelati, respingendo così i motivi di censura
relativi ai vincoli posti dal PTCP, contestati dai ricorrenti sotto il profilo dell'efficacia temporale e del
contrasto con i più recenti dettami normativi in materia di fonti rinnovabili (3). In particolare, il giudice ha
valutato positivamente, sulla base del test di proporzionalità, le misure di salvaguardia che escludevano
temporaneamente la realizzabilità delle opere, in attesa di un adeguamento delle pianificazioni
urbanistiche al mutato contesto normativo, nonostante il ricorrente avesse prospettato, quale soluzione
alternativa, l'adozione di una meno drastica disciplina sulle prescrizioni tecniche da osservare (4). In tal
modo, il giudice ha evitato di pronunciarsi sull'ammissibilità del vincolo paesistico in aree idonee alla
localizzazione di impianti eolici, rimettendo la questione all'esercizio delle potestà discrezionali spettanti
alle amministrazioni nell'adozione degli strumenti pianificazione territoriale di propria competenza.
Quanto al giudizio di compatibilità ambientale negativo, il T.A.R. ha rilevato che la validità del
provvedimento è inficiata dalla mancata riconvocazione della conferenza di servizi, sotto due diversi
profili. In primo luogo, l'attività istruttoria è risultata insufficiente, in quanto l'amministrazione non ha
garantito ulteriori occasioni di confronto con il proponente, nonostante la prima ed unica seduta della
conferenza si fosse di fatto conclusa con un esito interlocutorio. Inoltre, il provvedimento conclusivo della
procedura di VIA è stato giudicato inadeguato, non avendo tenuto conto l'amministrazione dei nuovi
elementi emersi a seguito della rinnovazione del procedimento, e delle osservazioni presentate dal
proponente dopo la prima seduta della conferenza. Dal comportamento tenuto dall'amministrazione
procedente deriverebbe, pertanto, una violazione del principio costituzionale di buon andamento per
carenza di istruttoria, nonché dei principi generali sul procedimento, con particolare riguardo alla garanzia
del contraddittorio.
2. Finalità ed effetti della VIA.
Le direttive comunitarie rappresentano la principale fonte di produzione delle norme che tutelano
l'ambiente nell'ordinamento italiano (5). È grazie all'impulso delle politiche adottate in seno all'Unione
Europea se anche in Italia si è andato via via delineando l'attuale quadro normativo di riferimento per
l'attuazione dei principi ispirati al valore dello sviluppo sostenibile: tali principi rappresentano, a loro
volta, un corpus affermatosi nello spazio giuridico globale, anche per effetto della circolazione
"orizzontale" di alcuni istituti di derivazione statale (6).
Tra i principali effetti di questa dinamica, così sommariamente descritta, vi sono le innovazioni apportate
alle discipline dell'attività amministrativa, cui l'articolo 6 TCE, introdotto con il Trattato di Amsterdam, ha
imposto una serie di adattamenti, al fine di garantire un'effettiva integrazione della dimensione
ambientale nei diversi settori di azione dei pubblici poteri. In particolare, le esigenze di attuazione
trasversale degli obiettivi di sviluppo sostenibile hanno ispirato l'adozione delle direttive comunitarie in
materia di VIA, segnalando un sostanziale cambiamento di prospettiva nell'affrontare le problematiche
ambientali (7). Peraltro, mentre in alcuni Stati membri, come la Danimarca, procedure di questo tipo
erano già conosciute, in Italia l'attuazione della direttiva sulla VIA ha rappresentato la prima significativa
esperienza di integrazione trasversale dell'interesse ambientale nelle politiche pubbliche. In questa fase, i
principali problemi attuativi hanno riguardato soprattutto i ritardi nella trasposizione della direttiva, a
causa delle difficoltà di adattamento ordinamentale sul piano organizzativo, nonché la definizione
dell'ambito di applicazione di questo nuovo strumento giuridico di "portata globale", volto cioè a
concentrare in unico episodio procedimentale la valutazione complessiva degli effetti ambientali connessi
alla realizzazione di determinate categorie di opere (8).
In seguito, l'elaborazione giurisprudenziale comunitaria, ponendo in risalto la dimensione procedurale
degli obblighi che caratterizzano la VIA, ha notevolmente contribuito a chiarirne finalità e funzioni,
imprimendo all'istituto in esame una valenza più ampia rispetto a quella originariamente delineata dalle
direttive comunitarie in materia (9). In particolare, nella prassi applicativa dell'ultimo decennio la VIA si è
rivelata un efficace strumento conformativo dell'azione dei pubblici poteri al modello delineato dalla
strategia europea di "Better Regulation". Al fine di migliorare la qualità dei processi decisionali
nell'Unione, questa ha peraltro generalizzato il ricorso alla valutazione preventiva dell'impatto delle
decisioni pubbliche, estendendolo anche ai procedimenti in cui la VIA non trova applicazione e per finalità
diverse dalla tutela ambientale (10).
In effetti, uno dei tratti distintivi della VIA rispetto ad altri istituti di tutela preventiva dell'ambiente è che
la valutazione della sostenibilità di un progetto deve essere condotta da un'autorità diversa da quelle
titolari di eventuali altri procedimenti autorizzatori, non soltanto mediante specifiche metodologie di
analisi ma anche in applicazione di precisi obblighi di carattere procedurale (11). In sostanza, tali obblighi
comportano il ricorso ad un'articolata istruttoria tecnica volta, da un lato, all'apprezzamento degli
interessi emergenti dal quadro normativo, urbanistico e pianificatorio di riferimento; dall'altro, alla
valutazione comparativa di tali interessi in rapporto ad altri elementi fattuali tra cui la prospettazione di
soluzioni progettuali alternative acquisiti al procedimento mediante l'intervento di una pluralità di centri di
interesse, ai quali sono assicurate ampie garanzie di partecipazione e trasparenza. In questa ottica, la
legittimità del provvedimento conclusivo della procedura di VIA risulta condizionata dalla necessità di
dimostrare, attraverso un'adeguata motivazione, che si sia tenuto conto dell'apporto partecipativo di altri
soggetti nella valutazione comparativa delle possibili soluzioni alternative di intervento, così da
identificare la scelta ottimale in relazione ai costi e benefici ambientali associabili a ciascuna delle
alternative esaminate. A ben vedere, quindi, l'espletamento della VIA non costituisce una mera
"parentesi". Essa comporta una procedimentalizzazione della sfera di valutazione comparativa riservata
all'amministrazione, in funzione di razionalizzazione della decisione, garanzia di rappresentazione degli
interessi, e conseguente controllabilità dell'esercizio del potere tecnico-discrezionale riservato all'autorità
competente.
Sulla base di questa ricostruzione, la più recente giurisprudenza comunitaria e nazionale pone particolare
enfasi sulla necessità che il procedimento di VIA si concluda con un provvedimento adeguatamente
motivato in rapporto alle risultanza istruttorie, ancorché sfavorevole per l'interessato (12). A tale
orientamento aderisce altresì la sentenza in commento, laddove afferma che la totale assenza di
discussione su elementi acquisiti al procedimento successivamente alla conclusione della conferenza di
servizi costituisce un'illegittima lesione dell'interesse del proponente ad ottenere un provvedimento
adeguatamente motivato, sia in vista di un adeguamento del progetto alle prescrizioni ivi contenute, sia
per intraprendere eventuali azioni giurisdizionali avverso un giudizio di compatibilità ambientale negativo.
A tale riguardo, va rilevato che la Corte di giustizia, in una sentenza pressoché contestuale, si è
pronunciata affermando la centralità dell'obbligo di adeguata motivazione anche nelle decisioni di non
assoggettamento di un intervento alla VIA, in quanto la conoscibilità dei motivi rappresenta una
fondamentale garanzia per gli eventuali controinteressati, ai fini dell'effettività della tutela giurisdizionale
ad essi accordata (13).
3. Il bilanciamento di interessi nella VIA dei parchi eolici.
La dimensione procedurale degli obblighi in materia di VIA comporta il rischio per l'amministrazione di
incorrere frequentemente in una condotta censurabile sotto il profilo della carenza di istruttoria o di
motivazione. In effetti, i casi di annullamento dei provvedimenti conclusivi della VIA per inadempimento
di obblighi procedurali sono numerosi, soprattutto nelle controversie che riguardano l'autorizzazione di
impianti eolici, dove la disciplina di settore impone il ricorso alla conferenza di servizi decisoria per
esigenze di semplificazione e coordinamento dell'attività amministrativa, particolarmente complessa nella
realizzazione di impianti alimentati da fonti rinnovabili (14). In questi casi, un costante indirizzo dei
T.A.R., condiviso dalla sentenza esaminata, richiede che il bilanciamento degli interessi in gioco avvenga
attraverso un effettivo confronto tra i centri di imputazione che li rappresentano, escludendo che
l'individuazione dell'interesse prevalente (sia pure quello della tutela ambientale) possa avvenire in
assenza di un tentativo di mediazione o, comunque, di una ponderazione con altri valori meritevoli di
tutela: tentativo da effettuarsi necessariamente in contraddittorio con gli interessati e attraverso il ricorso
a strumenti di raccordo come la conferenza di servizi (15). Peraltro, nei procedimenti di autorizzazione di
impianti eolici, pur in assenza di precise regole di coordinamento tra la conferenza di servizi ex art. 12
d.lgs. 387/03 e la VIA, l'integrazione procedimentale appare agevolata dalle comuni regole sul
bilanciamento di interessi. In particolare, anche la disciplina sulla conferenza di servizi espressamente
stabilisce l'obbligo di motivare la determinazione conclusiva sulla base delle risultanze istruttorie, e di
tener conto delle alternative progettuali, da esaminare in contraddittorio con l'interessato. L'analisi delle
alternative è peraltro obbligatoria non solo nell'ipotesi in cui la conferenza sia indetta per l'esame
contestuale di un intervento sottoposto a VIA, ma anche quando sia necessario motivare il dissenso di
un'amministrazione o la decisione di superarlo. Di conseguenza, a differenza della VIA, che opera solo in
relazione a determinate categorie di progetti, la conferenza di servizi si configura come il criterio di
carattere generale per l'esercizio di potestà discrezionali, quando l'attività amministrativa è diretta
all'adozione di decisioni complesse o caratterizzate da un'elevata conflittualità tra gli interessi in gioco.
Nel caso della realizzazione di parchi eolici, le questioni più frequentemente affrontate nelle sentenze dei
T.A.R. riguardano, in particolare, il conflitto emergente, nei relativi procedimenti autorizzatori, tra
l'interesse allo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili e la tutela del paesaggio. In merito a tale
problematica, ed a fronte del contesto normativo sopra descritto, la sentenza in commento aderisce
all'indirizzo giurisprudenziale prevalente, confermando la scelta dei giudici nazionali di operare un
sindacato debole sui profili sostanziali sollevati dalle parti. Pur riconoscendo il favor dell'ordinamento per
la realizzazione degli obiettivi fissati dal Protocollo di Kyoto perseguiti dalla direttiva 2001/77/CE e dalla
disciplina di attuazione dettata con d.lgs. 387/03 il giudice amministrativo tende a risolvere le
controversie sorte in questa materia concentrandosi sull'obbligo di condurre un'istruttoria accurata e
diligente, affidando così alla discrezionalità delle autorità amministrative la risoluzione di eventuali
conflitti emergenti tra tali obiettivi ed altri interessi meritevoli di tutela.
La conflittualità che caratterizza il bilanciamento degli interessi nei procedimenti di autorizzazione di
parchi eolici è, peraltro, un dato comune alla maggior parte dei processi decisionali che riguardano il
governo del territorio e la realizzazione di opere incidenti sull'ambiente. Essa è determinata dalla
straordinaria complessità delle decisioni adottate in tali settori, dove oggetto di apprezzamento è una
molteplicità di elementi fattuali, criteri e metodi di valutazione, spesso opinabili sul piano tecnico, prima
ancora che giuridico. A questa situazione di contesto, corrisponde un sistema amministrativo
caratterizzato da una pluralità di centri esponenziali degli interessi assunti come meritevoli di tutela che,
anche per effetto della proliferazione di organi e funzioni, tendono a differenziarsi progressivamente (16).
Pertanto, la recente giurisprudenza in materia fa perno sul ricorso a modelli procedimentali che, come la
VIA o la conferenza di servizi, garantiscano sia la possibilità di confronto nell'apprezzamento dei diversi
interessi coinvolti soprattutto in funzione collaborativa con l'amministrazione procedente sia l'adozione di
soluzioni mediate da parte di tali soggetti (17).
D'altra parte, l'introduzione di siffatte discipline procedimentali, volte ad assicurare un adattamento
dell'attività amministrativa alla "complessità della vita reale" (18), comporta un'alterazione delle
dinamiche proprie dell'esercizio del potere discrezionale (19). Il ricorso a moduli procedimentali che
prescrivono un esame contestuale, una ponderazione in contraddittorio e l'adozione di decisioni che siano
frutto del confronto, e dell'apporto conoscitivo di diversi enti esponenziali di interessi, richiede infatti uno
sforzo comune alle amministrazioni coinvolte, chiamate a realizzare l'interesse pubblico cui sono preposte
attraverso la ricerca di soluzioni condivise, in grado di minimizzare il sacrificio imposto ai diversi interessi
concorrenti. Di conseguenza, il principio guida per le amministrazioni coinvolte in un processo decisionale
improntato a tali regulae agendi non può che essere quello di proporzionalità, che assume una duplice
valenza: sul piano procedimentale esso impone che l'assetto di interessi da conseguire con un
determinato provvedimento sia orientato alla ricerca di un punto di equilibrio tra le diverse posizioni
rappresentate, con la conseguenza che eventuali scostamenti siano corredati da un adeguato supporto
motivazionale; su quello processuale la VIA, imponendo l'adozione di un provvedimento adeguatamente
motivato in rapporto alle risultanze istruttorie, consente al giudice di oggettivare il test di proporzionalità,
soprattutto in relazione ai profili di necessarietà e adeguatezza, risultando strumentale ad un efficace,
seppur "estrinseco", sindacato giurisdizionale sull'esercizio di potestà discrezionali (20).
Appare pertanto di tutta evidenza che la funzione assolta dalla VIA non consiste nell'attribuire una
preminenza assoluta alla tutela dell'ambiente nei procedimenti in cui trova attuazione. Piuttosto,
l'applicazione giurisprudenziale della VIA ha connotato tale istituto quale meccanismo di supporto ai
processi decisionali complessi, essenzialmente diretto a circoscrivere la discrezionalità in campo
ambientale o, meglio, scongiurare i rischi di sconfinamento in decisioni arbitrarie mediante un'adeguata
istruttoria tecnica. In questa prospettiva, il modello procedimentale della VIA rispecchia pienamente
l'elaborazione giurisprudenziale comunitaria relativa al principio di buona amministrazione, sancito
all'articolo 41 della Carta di Nizza (21), cui corrisponde un duty of care delle amministrazioni, tenute a
svolgere un'istruttoria imparziale e diligente, attraverso l'acquisizione e la valutazione di tutte le
circostanze fattuali e giuridiche pertinenti (22). In particolare, la disciplina in materia di VIA assicura
all'autorità decidente parametri oggettivi di riferimento affinché tale principio sia rispettato attraverso
un'accurata ricostruzione degli elementi acquisiti al procedimento nella motivazione delle decisioni
adottate, rendendo altresì misurabile, in base a precisi standard procedimentali, la diligenza osservata
nell'istruttoria tecnica (23).
4. Partecipazione procedimentale e conferenza di servizi nella VIA.
Seguendo un orientamento largamente condiviso dalla giurisprudenza nazionale, la sentenza in
commento indica la conferenza di servizi come lo strumento preordinato ad assicurare l'accuratezza
dell'attività istruttoria e, conseguentemente, l'adeguatezza della motivazione del provvedimento
conclusivo della procedura di VIA. In particolare, il T.A.R. Umbria ha designato la conferenza di servizi
quale sede istituzionale privilegiata della "valutazione integrata degli interessi pubblici e privati implicati
nella scelta amministrativa", anche laddove tale istituto sia utilizzato esclusivamente per fini di
valutazione, senza cioè che esso operi in funzione strettamente decisoria. Il ragionamento del T.A.R.,
nella parte in cui individua nella conferenza il modulo strutturale ottimale per l'attuazione del principio del
contraddittorio nella procedura di VIA, pone tuttavia il problema dell'organizzazione della partecipazione
procedimentale.
Giova preliminarmente chiarire che nella sentenza esaminata il ricorso alla conferenza di servizi
rappresenta un obbligo previsto dalla legge regionale in materia di VIA, non il metodo di adozione delle
decisioni prescritto dalla disciplina nazionale sull'autorizzazione di impianti energetici, cui si è fatto cenno
in precedenza.
D'altra parte, è stato osservato che la conferenza di servizi non dovrebbe sostituire gli istituti della
partecipazione procedimentale che in quanto funzionali all'acquisizione di fatti e interessi al procedimento
intervengono in una fase istruttoria precedente, o comunque distinta, da quella deputata alla decisione
mediante il metodo della conferenza (24). Questa tesi appare condivisibile se si considera che le regole di
funzionamento della conferenza di servizi mal si prestano ad assecondare le funzioni assolte dalla
partecipazione procedimentale nella VIA, che non è limitata a particolari soggetti, né prevede una
differenziazione fondata sulla qualificazione giuridica dell'interesse rappresentato. In tema di
partecipazione, in effetti, le direttive sulla VIA stabiliscono il diritto dei privati a rappresentare
all'amministrazione situazioni di fatto, interessi, volontà, e ad ottenerne l'esame da parte
dell'amministrazione, attraverso un confronto diretto con gli interventori. Questa ampia facoltà di
intervento, ed il coinvolgimento di una pluralità di centri di imputazione di interessi differenziati,
contribuiscono a conformare l'azione dei pubblici poteri nella procedura di VIA secondo il modello
dell'arena pubblica(25), dove l'autorità decidente perde la posizione di supremazia e la possibilità di agire
in maniera unilaterale rispetto al perseguimento dei propri fini, in quanto è tenuta ad acquisire e
ponderare i diversi interessi in gioco in contraddittorio con chiunque intenda introdurre nuovi elementi di
valutazione nel procedimento.
Proprio per favorire l'apertura dei processi decisionali alle istanze del pubblico interessato, la disciplina
comunitaria in materia di valutazione ambientale prevede l'organizzazione della partecipazione
procedimentale attraverso consultazioni pubbliche, inchieste e dibattiti. A seconda degli interessi
coinvolti, infatti, tali moduli procedimentali si prestano a garantire le diverse finalità (conoscitive,
democratiche o di difesa) assolte dalla partecipazione nella VIA, attraverso forme più flessibili rispetto alle
modalità di intervento previste dalla l. 241/90. Si tratta di modelli procedimentali non contemplati dalla
legge sul procedimento amministrativo, seppur frequentemente utilizzati in altri ordinamenti nazionali,
soprattutto per migliorare l'efficacia della partecipazione procedimentale nei processi di rule-making, che
normalmente coinvolgono un'ampia gamma di interessi ed enti che li rappresentano (26). Il modello
dell'inchiesta pubblica, tuttavia, è stato parzialmente recepito in attuazione delle direttive comunitarie in
materia di VIA, che espressamente vi fanno riferimento, ed è oggi contemplato dalla disciplina nazionale
di settore e da alcune legislazioni regionali adottate prima del Testo unico in materia ambientale(27).
Questo ha espressamente previsto la facoltà, per l'autorità competente per la VIA, di attivare un subprocedimento di inchiesta pubblica per "l'esame dello studio di impatto ambientale, dei pareri forniti dalle
pubbliche amministrazioni e delle osservazioni dei cittadini" (28). Tale previsione si riferisce in realtà a
varie tipologie di sub-procedimenti di natura istruttoria, attivati per il soddisfacimento di esigenze
conoscitive e di partecipazione, il cui tratto caratterizzante è la presenza di un organo in posizione di
terzietà rispetto all'autorità decidente.
L'assenza di riferimenti a siffatti moduli strutturali nella disciplina generale del procedimento ha, tuttavia,
condizionato negativamente la prassi applicativa e la legislazione regionale anche in materia di VIA. A tale
riguardo, merita rilievo la circostanza che, sino ad oggi, le uniche pronunce dei T.A.R. dirette ad
affermare la doverosità del ricorso all'inchiesta pubblica a garanzia dell'accuratezza dell'attività istruttoria
nel procedimento di VIA hanno riguardato l'applicazione giurisprudenziale di discipline regionali che
espressamente ne prevedevano l'indizione (29). In tutti gli altri casi, invece, l'unico modello
procedimentale cui fa riferimento il giudice amministrativo è la conferenza di servizi. Come accennato, si
tratta comunque di istituti affatto assimilabili né sul piano del funzionamento, né tantomeno degli effetti e
delle finalità perseguite. Il ricorso all'inchiesta pubblica, infatti, è funzionale all'acquisizione di fatti ed
interessi al procedimento, e suggerisce un'organizzazione della partecipazione procedimentale fondata su
un modello simil-processuale, con gli interventori in posizione di parità rispetto all'autorità inquirente,
terza e imparziale. Invece, nella conferenza di servizi la partecipazione dei privati, soprattutto se
cointrointeressati, riveste un ruolo marginale, dal momento che la funzione dell'istituto è
fondamentalmente quella di favorire il coordinamento dell'azione di più amministrazioni nella fase
decisoria, sia pure limitatamente ad una valutazione contestuale delle diverse posizioni manifestate dai
partecipanti. Inoltre, sebbene le linee di tendenza ravvisabili nell'evoluzione dell'istituto mostrino una
progressiva apertura alla partecipazione dei privati, restano evidenti i limiti e le asimmetrie associati
all'utilizzo della conferenza di servizi nell'espletamento della procedura di VIA. A tale riguardo, vale
rilevare che anche le più recenti modifiche apportate alla disciplina sulla conferenza di servizi non paiono
mutare in maniera sostanziale il quadro delineato (30). In effetti, le nuove disposizioni, che ampliano le
garanzie partecipative dei privati proponenti o concessionari e gestori di pubblici servizi, evidenziano
altresì con maggiore nettezza l'asimmetria che caratterizza l'intervento dei centri esponenziali di interessi
qualificati rispetto ad altri eventuali interessati. Questi invece, secondo la disciplina sulla VIA, devono
poter intervenire nell'istruttoria ed avvalersi della garanzia del contraddittorio in maniera pressoché
incondizionata. Alle limitazioni previste dalla disciplina sulla conferenza circa la partecipazione di alcune
categorie di privati interessati, si aggiungono quelle previste per le amministrazioni cosiddette a
"partecipazione meramente eventuale", che non sembrano peraltro trovare un correttivo nelle più recenti
pronunce giurisprudenziali (31). Peraltro, l'esclusione di queste amministrazioni dal diritto di voto in
conferenza oltre che dei privati che vi partecipino lascia presumere che il meccanismo di deliberazione a
maggioranza continuerà ad impedire una equilibrata armonizzazione degli interessi, anche a seguito
dell'entrata in vigore delle modifiche alla legge 241/90. In definitiva, le disparità di posizioni assegnate ai
diversi soggetti ammessi a parteciparvi non solo avvantaggiano gli enti esponenziali di interessi pubblici
rispetto ai portatori di altri interessi, ma operano altresì nel senso di collocare gli stessi interessi pubblici
coinvolti secondo una scala di valori, desumibile dalle differenziazioni previste in materia di legittimazione
all'intervento, nonché di dissenso. In effetti, nella conferenza di servizi il criterio di adozione delle
decisioni, fondato sull'esame delle posizioni prevalenti, suggerisce una logica di tipo gerarchico, che mal
si adatta alle finalità perseguite dalla disciplina in materia di VIA, tendente a conformare l'esercizio delle
potestà tecnico-discrezionali secondo un modello di composizione degli interessi neutrale e "orizzontale",
fondato sul ricorso a tecniche analitiche.
L'inadeguatezza della conferenza di servizi ad assicurare una corretta esplicazione della procedura di VIA
emerge sia in rapporto al momento decisionale, sia alla fase istruttoria, con particolare riguardo alla
garanzia del contraddittorio, cui fa riferimento la sentenza esaminata. Questo, infatti, non può essere
limitato al confronto tra le amministrazioni preposte alla cura di interessi generali, soprattutto laddove il
provvedimento da adottare riguardi l'esercizio o il sacrificio di diritti e libertà individuali. In questi casi,
esso impone il ricorso ad istituti partecipativi in cui prevalga la funzione di difesa degli interessati,
riconducibili al paradigma del giusto procedimento. Questo principio appare ormai consolidato
nell'elaborazione giurisprudenziale relativa all'attuazione della direttiva comunitaria sulla VIA. Circa la
garanzia del contraddittorio, ad esempio, la Corte di giustizia ha affermato che l'omessa procedura di VIA
in quanto diretta ad assicurare che la valutazione ambientale avvenga attraverso un confronto con gli
interessati impedisce di per sé un'efficace partecipazione dei privati al processo decisionale, essendo
irrilevante la circostanza che l'autorità procedente abbia indetto comunque una consultazione pubblica
(32). La funzione di garanzia assolta dagli istituti partecipativi previsti dalla disciplina sulla VIA è stata
riconosciuta anche dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, secondo cui l'omissione di tale procedura
nell'autorizzazione di un impianto di trattamento dei rifiuti costituisce violazione del diritto al rispetto
della vita privata e del domicilio (articolo 8 CEDU) (33).
In generale, la riconduzione della procedura di VIA nell'alveo dei principi del giusto procedimento si
inscrive in una più ampia tendenza della giurisprudenza comunitaria e nazionale a far coincidere il
contenuto del principio di partecipazione con il "diritto ad essere sentiti", o "diritto al contraddittorio",
estendendone l'applicazione anche ai procedimenti non suscettibili di per sé di incidere negativamente
sulle posizioni dei singoli. Ciononostante, anche nelle pronunce sopra richiamate, la tensione tra la
garanzia del contraddittorio e le esigenze di efficienza e celerità dei procedimenti è particolarmente
evidente. A tale riguardo, non può essere trascurato che, a fronte della crescente rilevanza che questo
principio va assumendo nelle decisioni dei giudici europei e nazionali, il contraddittorio nei procedimenti di
VIA non assume una portata assoluta. In tale prospettiva, va segnalato l'orientamento secondo cui è la
partecipazione e non il contraddittorio a costituire un principio generale dell'azione amministrativa (34).
Pertanto, anche nella procedura di VIA il principio del buon andamento richiede non soltanto la ricerca di
moduli procedimentali adeguati alla finalità di attenuare l'unilateralità delle decisioni pubbliche attraverso
la partecipazione dei privati, ma anche un continuo contemperamento tra la garanzia del contraddittorio e
l'esigenza di introdurre deroghe e limitazioni e, in generale, efficaci regole di funzionamento, in ossequio
ad altri principi costituzionalmente tutelati, o per sottrarre il processo decisionale alla "troppo penetrante
ingerenza di una molteplicità di interessati" (35).
NOTE
(1) L'articolo 5 della l.r. Umbria n. 11/1998 "Norme in materia di impatto ambientale" dispone che il
soggetto proponente la realizzazione di un'opera da assoggettare alla procedura di valutazione di impatto
ambientale alleghi alla propria domanda: il progetto definitivo; lo studio di impatto ambientale, redatto
secondo quanto previsto dalla disciplina nazionale in materia di VIA; l'attestazione dell'avvenuta
presentazione della domanda alle amministrazioni interessate; la dichiarazione di avvenuta richiesta di
pubblicazione per finalità di trasparenza e partecipazione; la dichiarazione del sindaco sulla compatibilità
urbanistica dell'opera".
(2) T.A.R. Umbria, sez. I, sent. del 15 giugno 2007, n. 518. La violazione di legge è stata dichiarata con
riguardo al d.lgs. n. 387/2003 "Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione
dell'energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell'elettricità.", il cui
articolo 12 qualifica gli impianti alimentati da fonti rinnovabili come opere di pubblica utilità, indifferibili
ed urgenti, ed espressamente prevede la possibilità che queste vengano ubicate anche in zone
classificate agricole dai vigenti piani urbanistici.
(3) Secondo la società ricorrente tale contrasto sussisterebbe, in particolare, rispetto alle disposizioni
"che disciplinano la valutazione dei progetti di impianti energetici da fonti rinnovabili esprimendo un favor
per la loro realizzazione¯articolo 12 del d.lgs. 387/2003, legge 10/1991, Direttiva 2001/77/CEE,
Protocollo di Kyoto, Piano Energetico Regionale oltre che rispetto agli artt. 41 e 97 Cost." Cfr. T.A.R.
Umbria sent. del 4 marzo 2009, cit. par. 4.2
(4) In senso contrario si era invece pronunciata la Corte costituzionale con la sent. del 25 ottobre 2006,
n. 364.
(5) Oltre all'adozione di direttive e regolamenti già a partire dagli anni settanta, meritano rilievo i
numerosi atti di indirizzo del Consiglio Europeo, tra cui ben sei programmi di azione per l'ambiente,
l'ultimo dei quali risale al 2001 (VI Piano di azione dell'UE in campo ambientale per il periodo 2002-2010,
COM(2001) 31 def), nonché la Strategia per lo sviluppo sostenibile, adottata a Göteborg nel 2001 ed
oggetto di riesame nel 2005 (COM(2005) 658 final).
(6) Il riferimento è ai principi affermati con la Rio Declaration on Environment and Development, 1992 ed
all'impatto di questi sugli ordinamenti nazionali, dove si registra una comune tendenza ad adeguare non
solo le norme di diritto interno ma anche i propri apparati amministrativi. B. KINGSBURY, N. KRISCH, R.B.
STEWART, The Emergence of Global Administrative Law, in http://www.iilj.org/GAL/documents/
TheEmergenceofGlobalAdministrativeLaw.pdf, p. 22; S. CASSESE, La crisi dello Stato, Laterza 2002, ID.,
Lo spazio giuridico globale, Laterza 2003; ID., Oltre lo Stato, Laterza, 2006, in part. p. 125.
(7) La disciplina del procedimento di VIA è dettata dalle direttive 85/337/CEE concernente la valutazione
dell'impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati e 97/11/CE che modifica la direttiva
85/337/CEE, che hanno trovato compiuta attuazione nell'ordinamento italiano solo con l'adozione del
d.lgs. n. 152 del 2006 Testo Unico in materia ambientale. La parte seconda del testo unico, dedicata alle
valutazioni ambientali, è stata peraltro modificata a più riprese da ulteriori interventi correttivi di cui il
principale è il d.lgs. 4/2008. In materia di VIA, si v. R. FERRARA (a cura di), La valutazione di impatto
ambientale, Padova, 2000; A. CROSETTI, R. FERRARA, F. FRACCHIA e N. OLIVETTIRASON (a cura di),
Diritto dell'ambiente, III ed., Roma-Bari, 2005, 364 e ss.; F. FRACCHIA, F. MATTASOGLIO, Lo sviluppo
sostenibile alla prova: la disciplina di VIA e VAS alla luce del d.lgs. 152/2006, in Riv. trim. di dir.
pubblico, 1/2008, pp. 114-135.
(8) COMMISSIONE, Quindicesima relazione annuale sul controllo dell'applicazione del diritto comunitario 1997 - (98/C 250/01) COM(1998) 317 def, p. 55. Cfr. CGCE sent. del 9 agosto 1994 nella causa C-396/92
Bund Naturschutz in Racc., 1994 p. I-03717, sent. del 2 maggio 1996 nella causa C-133/94 Commissione contro Belgio in Racc., 1996 p. I-02323, sent. del 24 ottobre 1996 nella causa C-72/95 Aannemersbedrijf in Racc., 1996 p.I-05403, sent. del 18 giugno 1998 nella causa C-81/96 Burgemeester, in Racc., 1998 p. I-02323.
(9) Cfr. CGCE sent. del 24 ottobre 1996 nella causa C-72/95 - Kraaijeveld e a., 16 settembre 1999 nella
causa C-435/97 - WWF e a., 19 settembre 2000 nella causa C-287/98 - Linster, 23 novembre 2006 nella
causa C-486/04, Commissione contro Italia, 3 luglio 2008 nella causa C-215/06 - Commissione contro
Irlanda. Va rilevato che, soprattutto in Italia, la giurisprudenza amministrativa negli ultimi anni è apparsa
particolarmente attenta agli indirizzi della Corte di giustizia in materia di VIA, contribuendo a sua volta
alla formazione di un vero e proprio nucleo fondamentale di principi giurisprudenziali che governano
attualmente il procedimento di valutazione ambientale. G. LANDI, La Valutazione di Impatto Ambientale,
in Riv. giur. ambiente 2006, Speciale 20 anni, pp. 363 e ss.
(10) COMMISSIONE, European Governance: A White Paper, COM(2001) 428, Communication from the
Commission on Impact Assessment, COM(2002) 276, Impact Assessment Guidelines, SEC(2009) 92
http://ec.europa.eu/governance/better_regulation/impac t_en.htm.
(11) Le direttive in materia di VIA non si limitano ad imporre alle autorità nazionali l'adozione di
strumenti di carattere normativo volti a introdurre procedure di valutazione ambientale. Esse prevedono
altresì che tale valutazione sia condotta in maniera indipendente dal decisore, da un organismo con
specifici requisiti di competenza tecnica, sulla base delle informazioni fornite dal committente ed
eventualmente da altre amministrazioni e dal pubblico. A tale riguardo, l'amministrazione competente per
la VIA ha l'obbligo di collaborare alla determinazione dei contenuti delle informazioni che il committente è
tenuto a rendere in merito agli impatti ambientali attesi (c.d. scoping) e di assicurare il coordinamento e
la partecipazione delle altre amministrazioni titolari di funzioni in materia ambientale. Nell'ambito del
procedimento di VIA, l'amministrazione procedente in via principale e il committente dell'opera da
valutare sono tenuti a garantire la trasparenza del procedimento, l'informazione del "pubblico" e la
possibilità di effettiva partecipazione al "pubblico interessato" prima della decisione finale. Ai fini
dell'adozione del giudizio di compatibilità ambientale, inoltre, l'organismo competente ha l'obbligo di
prendere in considerazione tutte le osservazioni, le informazioni ed i pareri acquisiti in fase istruttoria e
valutare le principali alternative che, a tal fine, il committente deve individuare e motivare in sede di
istanza. Infine, una volta che l'organismo competente in materia di VIA abbia reso il proprio parere,
l'autorità procedente è tenuta a motivare e pubblicare il provvedimento che conclude il procedimento
principale di autorizzazione, tenendo adeguatamente in conto l'esito della procedura di VIA. Per un'analisi
dettagliata degli obblighi di carattere procedurale derivanti dal quadro comunitario in materia di VIA, si v.
F. FONDERICO, Il riordino del procedimento di valutazione di impatto ambientale nella legge delega
308/2004, in Riv. giur. ambiente, 2005, 420.
(12) Si v., in particolare Corte di giustizia CE sent. del 10 giugno 2004, nella causa C-87/02,
Commissione contro Italia (Racc. pag. I-5975, punto 49), Cons. di Stato, VI, 22 novembre 2006, n. 6831.
Cfr. Corte cost., sent. del 6 dicembre 2004, n. 379. Nella giurisprudenza amministrativa, si v. in part.
T.A.R. Puglia, Bari, sez. I, sent. del 10 aprile 2008 n. 894.
(13) Corte di giustizia CE, sez. II, sent. del 30 aprile 2009, nella causa C-75/08.
(14) D.lgs. 387/03 art. 12 commi 3 e 4. Il regime di autorizzazione degli impianti per la produzione di
energia da fonte rinnovabile prevede, con finalità di razionalizzazione e semplificazione, l'integrazione in
un unico procedimento delle diverse procedure di autorizzazione cui può essere assoggettato un
intervento di questo tipo (VIA, autorizzazione comunale, parere della sovrintendenza in relazione al
vincolo paesistico, autorizzazione della Comunità montana, nulla osta dell'Ente Parco, ecc.). Tale
integrazione si realizza attraverso l'indizione di una conferenza di servizi decisoria cui sono tenute a
partecipare le amministrazioni, compresa eventualmente l'autorità titolare dei sub-procedimenti di VIA o
verifica di assoggettabilità.
(15) Cfr. T.A.R. Umbria, sent. dell'11 febbraio 2000, n. 138, con commento di M.C. COLOMBO, in Riv.
giur. ambiente, n. 2/2001 pp. 280-285; T.A.R. Toscana, Firenze, sez. II, sent. del 25 giugno 2007, n.
939, T.A.R. PUGLIA - Bari Sez. III - sent. dell'11 settembre 2007 n. 2107.
(16) Discrezionalità ed ambiente in D. DECAROLIS, E. FERRARI, A. POLICE (a cura di), Ambiente, attività
amministrativa e codificazione, Milano, 2006, pp. 432-463, in part. p. 450.
(17) Cons. di Stato, sez. IV, sentenza del 30 gennaio 2004, n. 316, T.A.R. Abruzzo, L'Aquila, sent. del 25
ottobre 2002, n. 540 con nota di M. BROCCA, in Riv. giur. ambiente, n. 7/2002, pp. 375-383.
(18) G. BERTI, La responsabilità pubblica, Padova, 1994, p. 327.
(19) Si fa qui riferimento alla teoria del potere discrezionale quale capacità di determinazione dell'assetto
di interessi nella decisione amministrativa, conseguente ad una valutazione comparativa effettuata in
vista del conseguimento di un interesse pubblico primario, M.S. GIANNINI, Il potere discrezionale della
pubblica amministrazione. Concetti e problemi, Milano, 1939.
(20) A. SANDULLI, La proporzionalità dell'azione amministrativa, Cedam, Padova, 1998, 1-423.
(21) Nel senso che la scarsa accuratezza e diligenza nell'attività istruttoria comporti l'invalidità dell'atto
decisionale per violazione del "diritto a una buona amministrazione", si v. Tribunale di primo grado
(seconda sezione ampliata), sent. del 30 gennaio 2002 nella causa T-54/99 Max.mobil
Telekommunikation Service GmbH contro Commissione.
(22) In tal senso, si v. J. MASHAW,Reasoned administration: the EU, the US and the project of democratic
governante, in MASSERA (a cura di), Le tutele procedimentali, profili di diritto comparato, Pisa, 2007, pp.
123-148.
(23) Sul ruolo della VIA come "better regulation tool", si v. J.B. WIENER, Better regulation in Europe, in J.
HOLDER, D. MCGILLIVRAY (a cura di), Taking stock of environmental assessment: law, policy and
practice, Routledge, 2007, pp. 65-130.
(24) F.G. SCOCA, Analisi giuridica, cit. p. 266. Per la tesi contraria, si v. G. MORBIDELLI, Il procedimento
amministrativo, in AA.VV., Diritto amministrativo, 2000, p. 1363.
(25) S. CASSESE, L'arena pubblica. Nuovi paradigmi per lo Stato, in Riv. trim. dir. pubbl., 2001, pp.
601-650, ora anche in La crisi dello Stato, Laterza 2002, p. 74. Per un approfondimento sulle dinamiche
sopra richiamate in ambito europeo, si rinvia a G. DELLA CANANEA, L'Unione Europea. Un ordinamento
composito, Laterza, 2003, pp. 97-99.
(26) Per un'ampia trattazione dell'istituto in esame si rinvia a L. CASINI, L'inchiesta pubblica. Analisi
comparata, in Riv. trim. dir. pubbl., 2007, n. 1, p. 43-92, in particolare, pp. 70-75. Circa il funzionamento
e l'evoluzione della disciplina delle inchieste in ordinamenti stranieri, ed in particolare in quello britannico,
si v. anche C. HARLOW-R. RAWLINGS, Law and Administration, II ed., 2006, pp. 394-398.
(27) L.r. Toscana n. 79/1998, l.r. Basilicata n. 47/1998, l.r. Piemonte n. 40/1998, l.r. Puglia n. 11 del
2001. Nel senso che l'indizione dell'inchiesta, ove prevista dalla legislazione regionale, spetti comunque
alla discrezionalità dell'amministrazione procedente, si v. T.A.R. Toscana, Firenze, sez. I, sentenza n. 978
del 1 marzo 2005. Per la tesi secondo cui sarebbe invece doverosa in tutti i procedimenti di VIA che
coinvolgano una pluralità di soggetti, cfr. T.A.R. Puglia, Bari sentenza del 4 aprile 2008, cit.
(28) D.lgs. 152/06 ss.mm.ii. che, all'articolo 24 comma 6, che recepisce l'articolo 6 della direttiva 97/11/
CE.
(29) Cfr. T.A.R. Toscana, Firenze, sezione I, sent. del 1° marzo 2005 n. 978, con riguardo all'inchiesta
prevista dall'art. 9, l.r. Toscana n. 68/1995 (abrogata dalla l.r. n. 79/1998); T.A.R. Puglia, Bari, sez. I,
sent. 10 aprile 2008 n. 894.
(30) Il 26 maggio 2009 il Senato ha approvato in via definitiva il d.d.l./1082 B "Disposizioni per lo
sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile" che,
all'articolo 9 detta disposizioni in materia di conferenza di servizi ed, in particolare, aggiunge alla
disciplina dettata dall'articolo 14-ter della legge 241 del 1990 i nuovi commi 2-bis e 2-ter: "2-bis. Alla
conferenza di servizi di cui agli articoli 14 e 14-bissono convocati i soggetti proponenti il progetto dedotto
in conferenza, alla quale gli stessi partecipano senza diritto di voto.2-ter. Alla conferenza possono
partecipare, senza diritto di voto, i concessionari e i gestori di pubblici servizi, nel caso in cui il
procedimento amministrativo o il progetto dedotto in conferenza implichi loro adempimenti ovvero abbia
effetto diretto o indiretto sulla loro attività. Agli stessi è inviata, anche per via telematica e con congruo
anticipo,comunicazione della convocazione della conferenza di servizi. Alla conferenza possono
partecipare inoltre, senza diritto di voto, le amministrazioni preposte alla gestione delle eventuali misure
pubbliche di agevolazione".
(31) Cfr. T.A.R. Puglia, Lecce, sez. II, sent. del 26 novembre 1993, n. 573, in Foro amm., 1994, I, 1248,
T.A.R. Liguria, sez. I, sent. del 26 maggio 2008 n. 1079, ed anche T.A.R. VENETO, sez. I sent. del 9 aprile
2009, n. 1207.
(32) CGCE, (seconda sezione) sent. del 16 settembre 2004 nella causa C-227/01, Commissione delle
Comunità europee contro Regno di Spagna, in Raccolta 2004 p. I-08253, par. 57.
(33) ECHR, Case of Giacomelli V. Italy (Application no. 59909/00), 2 November 2006, www.echr.coe.int.
Cfr. T.A.R. Lombardia, Brescia, sezione I, sent. del 11 agosto 2007, n. 726, con nota di F. CASTOLDI, in
Riv. giur. ambiente, 5/2008, pp. 439 e ss.
(34) Si v. Cons. Stato, sez. IV, sent. del 23 ottobre 1959, n. 1004 e 11 maggio 2004, n. 2953. Circa la
portata del principio di partecipazione, una costante giurisprudenza della Corte costituzionale, a partire
dalle sent. n. 13 e 212 del 1962, ne afferma, da un lato, la funzione solo eventuale di difesa dei privati,
riconoscendo altresì che gli istituti partecipativi possono assecondare anche esclusivamente altre finalità,
collaborative e conoscitive, o di democrazia diretta, a seconda del tipo procedimento. In ogni caso, la
giurisprudenza nazionale è concorde nell'affermare la portata relativa dello stesso principio partecipazione
procedimentale, in quanto principio generale dell'ordinamento giuridico dello Stato e non costituzionale.
(35) Cons. Stato, Ad. Gen., parere n. 7 del 19 febbraio 1987, in Foro it., 1988, III, c. 35. Nel senso che
l'apertura del procedimento non debba necessariamente dare luogo al contraddittorio, G. DELLA
CANANEA, Gli atti amministrativi generali, cit., pp. 265-275.
Archivio selezionato: Note
Importanti precisazioni del giudice comunitario sui regimi nazionali di sanatoria delle
opere realizzate in assenza di valutazione di impatto ambientale e su alcuni
meccanismi elusivi del campo di applicazione della procedura: quali effetti per
l'ordinamento giuridico italiano dopo l'entrata in vigore della Parte II del D.Lgs.
152/2006 (riformata dal D.Lgs. 4/2008)?
Riv. giur. ambiente 2009, 1, 113
Matteo Ceruti
1. Premessa. - 2. La sanatoria delle opere realizzate in assenza di valutazione di impatto ambientale e la
disciplina nazionale sanzionatoria per la violazione dell'obbligo comunitario. - 2.1. Bocciatura dei regimi
nazionali di regolarizzazione elusivi dell'obbligo della VIA e applicabili in assenza di circostanze
eccezionali. - 2.2. Adeguatezza dei sistemi nazionali di repressione dell'illecito comunitario. - 2.3. La
disciplina italiana di controllo e repressione della realizzazione di progetti in mancanza della (o difformità
dalla) VIA nel D.Lgs. 152/2006, dopo la riforma del D.Lgs. 4/2008. - 2.4. Segue. Le sanzioni penali,
amministrative e civili per la mancanza di VIA - 3. Verifica dell'obbligo di VIA anche per le attività
secondarie o strumentali rispetto al progetto principale: il caso italiano delle "cave mascherate". - 4.
Obbligatorietà e discrezionalità degli Stati membri nell'applicazione del criterio del "cumulo dei progetti".
- 4.1. La prassi elusiva della suddivisione dei progetti in tranches. - 4.2. Le risposte della Corte di
Giustizia alle questioni pregiudiziali poste dal Consiglio di Stato italiano.
1. Premessa.
Nelle due pronunce in commento la Corte di Giustizia europea fornisce importanti chiarimenti in materia
di procedura di valutazione di impatto ambientale, su questioni che molto spesso sono state affrontate
dalla giurisprudenza nazionale dei paesi membri e, in particolare, dai giudici amministrativi italiani.
Nella prima decisione (la sentenza della Sez. II, 3 luglio 2008, resa nella causa C-215/06), avente ad
oggetto un ricorso della Commissione per inadempimento, ai sensi dell'art. 226 CE, proposto contro
l'Irlanda, la Corte affronta, dapprima, il tema della legittimità di norme nazionali che prevedano istituti di
regolarizzazione a posteriori (o in sanatoria) di interventi realizzati in assenza della prescritta valutazione
di impatto nonché delle connesse procedure di repressione degli illeciti; e, successivamente,
relativamente ad un progetto di costruzione di una centrale eolica (preceduto da un intervento di
estrazione della torba e dalla costruzione di strade di accesso all'impianto), prende in esame la
problematica del campo di applicazione della direttiva 85/337/CEE in relazione alle opere cosiddette
"secondarie" - o complementari - rispetto al progetto principale.
Nella seconda decisione (ordinanza della Sez. VI, 10 luglio 2008, resa nella causa C-156/07), avente ad
oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte dal Consiglio di Stato italiano, ai sensi
dell'art. 234 del Trattato CE, relativamente alla realizzazione di una strada di collegamento di determinati
quartieri nord di Milano, i Giudici europei si esprimono sull'applicabilità del "criterio del cumulo" del
progetto interessato con altri progetti quando si tratti di valutare se un intervento debba essere
sottoposto o meno alla valutazione dell'impatto ambientale.
2. La sanatoria delle opere realizzate in assenza di valutazione di impatto ambientale e la
disciplina nazionale sanzionatoria per la violazione dell'obbligo comunitario.
2.1. Bocciatura dei regimi nazionali di regolarizzazione elusivi dell'obbligo della VIA e applicabili in
assenza di circostanze eccezionali. - Con la prima sentenza ivi in commento del 3 luglio 2008 la Sezione
II della Corte di Giustizia prende dunque avvio dalla propria precedente giurisprudenza, per ribadire la
natura ontologicamente ed imprescindibilmente preventiva della procedura di VIA, precisando, ancora
una volta (1), che l'obiettivo essenziale della direttiva 85/337 consiste nel garantire che, prima del
rilascio di un'autorizzazione per i progetti per i quali si prevede un notevole impatto ambientale, sia
prevista una valutazione del loro impatto.
Il tutto sulla base sia di un'esegesi letterale dell'art. 2, n. 1, della direttiva medesima, sia di
un'interpretazione teleologica del testo comunitario desumibile in particolare dal quinto "considerando"
della direttiva 97/11 (di modifica della direttiva 85/337), secondo il quale "per lo sviluppo dei progetti per
i quali si richiede una valutazione si dovrebbe prevedere un'autorizzazione [e] la valutazione dovrebbe
precedere il rilascio dell'autorizzazione".
Con la conseguenza che, poiché l'"autorizzazione" è costituita dalla decisione dell'Autorità o delle Autorità
competenti che conferisce al committente il diritto di realizzare il progetto (a mente dell'art. 1, n. 2, della
direttiva 85/337 modificata, con una formulazione ritenuta dal giudicante "scevra da qualsiasi ambiguità")
(2), il richiedente che ha omesso di presentare la domanda e quindi di ottenere l'autorizzazione
necessaria, e che non ha precedentemente proceduto al prescritto studio dell'impatto ambientale, non
può legittimamente iniziare i lavori inerenti al progetto in questione.
Ciò premesso, la Corte passa dunque ad esaminare la normativa irlandese (si tratta del "Planning and
Development Act 2000", la legge del 2000 sulla pianificazione del territorio e lo sviluppo), la quale, se in
linea di principio prescrive che la valutazione dell'impatto ambientale ed il permesso urbanistico, debbono
essere, rispettivamente, effettuata ed ottenuto prima della realizzazione dei lavori e che la relativa
inosservanza integra una violazione delle norme urbanistiche, tuttavia prevede altresì la possibilità di
ottenere il rilascio di un "permesso di regolarizzazione" i cui effetti sono assimilati a quelli
dell'autorizzazione urbanistica ordinaria anteriore alla realizzazione di lavori, che può essere rilasciato in
assenza di qualsiasi circostanza eccezionale ed anche nel caso in cui il relativo progetto sia già stato
completamente realizzato.
A questo punto il Giudice comunitario enuncia il principio secondo cui "se il diritto comunitario non può
ostare a che le norme nazionali vigenti consentano, in determinati casi, di regolarizzare operazioni o atti
irregolari rispetto a quest'ultimo, tale possibilità dovrebbe essere subordinata alla condizione che essa
non offra agli interessati l'occasione di aggirare le norme comunitarie o di disapplicarle, e che rimanga
eccezionale".
Tale duplice presupposto, secondo la Corte, non sussiste nel caso di specie in quanto il descritto regime
irlandese di regolarizzazione dell'esecuzione totale o parziale di un progetto non autorizzato: a) opera
anche in mancanza di qualsivoglia circostanza eccezionale dimostrata; b) ha gli stessi effetti
dell'autorizzazione urbanistica antecedente alla realizzazione dei lavori, per cui può indurre i committenti
a tralasciare di intraprendere le operazioni necessarie all'individuazione dell'impatto ambientale dei
suddetti progetti e alla loro valutazione preventiva.
La pronuncia è quindi l'occasione per la Corte di chiarire la portata ed il significato di una propria
precedente decisione, la "sentenza Wells", con cui si era precisato che, in forza del principio di leale
collaborazione (previsto dall'art. 10 del Trattato CE), gli Stati membri hanno l'obbligo di eliminare le
conseguenze illecite di una violazione del diritto comunitario, cosicché le Autorità nazionali competenti
sono pertanto tenute ad adottare i provvedimenti necessari al fine di rimediare alla mancata valutazione
dell'impatto ambientale, tra cui ad esempio - sia pure nel rispetto dei limiti dell'autonomia procedurale
degli Stati membri - la revoca o la sospensione dell'autorizzazione già rilasciata in assenza di VIA al fine
di effettuare una tale valutazione, oltre che prevedere l'obbligo del risarcimento di tutti i danni derivanti
dall'omessa valutazione preventiva (3).
La Corte, fornendo dunque una sorta di interpretazione autentica di tale precedente, precisa che dalla
suddetta pronuncia non si può desumere che lo "studio correttivo", effettuato al fine di rimediare alla
mancata VIA, sia "equivalente" al prescritto studio sull'impatto ambientale antecedente al rilascio
dell'autorizzazione, richiesto e disciplinato dalla direttiva 85/337.
Parrebbe così, almeno prima facie, smentita quella giurisprudenza amministrativa nazionale che, proprio
sulla base della sentenza Wells, aveva espresso talune (sia pur limitate) aperture per valutazioni di
impatto ambientale "postume", sulla base della convinzione che "la giurisprudenza comunitaria ha
sempre avuto un approccio pragmatico con riguardo ai vizi consistenti nell'omesso svolgimento della
procedura di valutazione di impatto ambientale", per cui "l'omissione dello svolgimento della VIA può,
quindi, essere sanata attraverso lo svolgimento della procedura"a posteriori, essendo giuridicamente
indifferente l'aspetto relativo al momento della valutazione (4).
2.2. Adeguatezza dei sistemi nazionali di repressione dell'illecito comunitario. - Il secondo problema
affrontato dalla sentenza dei giudici europei riguarda l'adeguatezza del sistema nazionale di repressione
dell'illecito comunitario della mancanza della VIA.
A tal proposito la Corte di Giustizia evidenzia che, secondo il diritto irlandese, l'ottenimento di un
permesso di regolarizzazione consente di lasciar sussistere un progetto non regolarmente autorizzato,
alla sola condizione che la domanda per il rilascio di tale permesso sia presentata prima dell'avvio di un
procedimento sanzionatorio, cosicché la presentazione dell'istanza di regolarizzazione può indurre le
Autorità competenti a "non agire" per sospendere o far cessare un progetto rientrante nell'ambito di
applicazione della direttiva 85/337 modificata, in corso di realizzazione o già realizzato in violazione degli
obblighi preventivi di studio dell'impatto ambientale ed autorizzazione, e quindi ad astenersi dall'avviare il
procedimento coercitivo il cui esercizio risulta discrezionale.
Di qui, pertanto, secondo la Corte lussemburghese, la dimostrata inadeguatezza del sistema di controllo e
repressione predisposto dall'Irlanda in quanto la mera esistenza di un siffatto permesso di
regolarizzazione con effetti equivalenti a quelli dell'autorizzazione ottenuta prima della realizzazione
dell'opera e previa VIA, in sostanza, priva di qualsiasi reale efficacia il medesimo regime sanzionatorio.
Con l'importante precisazione che una tale conclusione non risulta affatto posta in discussione dalla
circostanza - inutilmente valorizzata in giudizio dal Governo irlandese - che il sistema sanzionatorio degli
illeciti dovrebbe tener conto dei diversi diritti coinvolti (di cui nella fattispecie sono titolari i committenti, i
proprietari dei terreni, il pubblico ed i singoli direttamente interessati dal progetto) in quanto - precisa il
giudice comunitario - "la necessità di una composizione di tali interessi non può giustificare, di per se
stessa, l'inefficacia di un sistema di controllo e di repressione".
Alla luce di questi ultimi chiarimenti pare dunque che i principi della certezza delle situazioni giuridiche e
dell'affidamento del privato con conseguente necessità della ponderazione/comparazione dei relativi
interessi coinvolti, spesso invocati dai giudici nazionali per "salvare" opere ed interventi realizzati in
assenza di VIA, non possano dunque più essere oltremodo valorizzati.
In particolare sembrerebbe, dunque, imporsi una rivisitazione di quella giurisprudenza del Consiglio di
Stato che, proprio in nome della certezza delle situazioni giuridiche definite, aveva recisamente escluso
sia che il vizio dell'assenza di VIA rendesse obbligatorio l'esercizio dei poteri di autotutela, sia che tale
illegittimità dell'atto per contrasto con il diritto comunitario fosse sufficiente per giustificare la rimozione
in via amministrativa del provvedimento autorizzatorio in quanto sarebbe comunque sempre necessaria anche alla luce dell'art. 21-nonies della legge 241/1990 - un'attenta ponderazione degli interessi
coinvolti, tra cui in particolare dell'interesse del destinatario che ha fatto affidamento sul provvedimento
illegittimo (5).
2.3. La disciplina italiana di controllo e repressione della realizzazione di progetti in mancanza della (o
difformità dalla) VIA nel D.Lgs. 152/2006, dopo la riforma del D.Lgs. 4/2008. - A questo punto risulta
opportuno domandarsi se l'attuale disciplina italiana in materia di VIA, contenuta nella Parte II del D.Lgs.
152/2006, dopo la completa riformulazione operata dal D.Lgs. 4/2008, possa considerarsi rispettosa dei
principi enunciati dalla Corte di Giustizia nella qui annotata sentenza Sez. II del 3 luglio 2008 (nella causa
C-215/06).
A tal proposito si ricorda che l'art. 29 del decreto, sotto la rubrica "controlli e sanzioni", al comma 1
stabilisce che la VIA costituisce "presupposto o parte integrante del procedimento di autorizzazione o
approvazione".
Dalla menzionata disposizione pare lecito evincere una concezione della VIA - sia essa "presupposto" del
procedimento abilitativo principale ovvero "parte integrante" dell'unitaria procedura di autorizzazione/
approvazione dei progetti (secondo un modulo di semplificazione procedimentale che si sta sempre più
diffondendo: si veda ad esempio nei settori delle c.d. "grandi opere" o delle infrastrutture energetiche
appartenenti alle reti nazionali) - quale istituto che opera preliminarmente rispetto alla decisione di
realizzare o non realizzare un progetto, allo scopo di valutarne le possibili conseguenze sull'ambiente, in
linea, peraltro, col principio generale dell'azione preventiva proclamato all'art. 3-ter del Codice
dell'ambiente medesimo.
Importante risulta altresì l'espressa sanzione - contenuta nella seconda parte di questo comma 1 dell'art.
29 - dell'"annullabilità" dei provvedimenti di autorizzazione/approvazione emessi senza la "previa"
valutazione di impatto ambientale.
E ciò ancorché nella versione antecedente alla novella di cui al D.Lgs. 4/2008 il decreto contenesse una
più efficace e radicale previsione di "nullità" dei provvedimenti abilitativi, quale conseguenza della
mancata effettuazione della preventiva procedura di VIA, con le note implicazioni processuali, sia sotto il
profilo del venir meno del termine decadenziale per la proposizione del ricorso, sia sotto il profilo della
rilevabilità d'ufficio del vizio. Una previsione quest'ultima che non pareva poi così sconvolgente dei
principi giurisdizionali amministrativi (in particolare dopo la codificazione dell'istituto della nullità del
provvedimento amministrativo - peraltro da tempo elaborato dalla giurisprudenza pubblicistica - nell'art.
21-septies della legge 241 del 1990 introdotto dalla legge 15 del 2005) (6), ma soprattutto risultava la
soluzione più adeguata ad assicurare l'effettività del principio comunitario di prevenzione della VIA (7) in
quanto evidenziava meglio come il legislatore ritenesse che l'atto amministrativo risultava affetto da una
invalidità non sanabile ex post(8).
Allorquando nell'ambito della vigilanza e dei controlli l'Autorità competente per la VIA (che all'uopo può
avvalersi delle agenzie per la protezione dell'ambiente: art. 29, comma 2) accerti la violazione delle
prescrizioni impartite dal giudizio di compatibilità ambientale o comunque difformità progettuali
significative (ossia tali da incidere sugli esiti della VIA o dello screening) ancorché non sostanziali (9), ad
essa sono attribuiti - dal comma 3 dell'art. 29 - poteri inibitori di sospensione dei lavori in corso e
conformativi dell'intervento con la previsione di ordini recanti termini e modalità di adeguamento
dell'opera; il tutto con la possibilità di procedere all'esecuzione d'ufficio a spese dell'inadempiente in caso
di inerzia (e recupero delle somme con le modalità previste per la riscossione delle entrate patrimoniali
dello Stato) (10).
Quando invece venga accertata la realizzazione di opere e interventi in completa assenza della prescritta
VIA ovvero della verifica di assoggettabilità, oltre che nel caso di "difformità sostanziali" da quanto
disposto dai provvedimenti finali di VIA e di screening, l'art. 29, comma 4, del decreto attribuisce
all'autorità di controllo poteri analoghi a quelli previsti in materia di repressione degli abusi edilizi dall'art.
31 del T.U. dell'edilizia, e quindi sospensione dei lavori, demolizione e ripristino dello stato dei luoghi e
della situazione ambientale, anche d'ufficio a spese del responsabile inadempiente.
Tuttavia (a differenza dell'ingiunzione di demolizione dell'illecito edilizio condizionata al solo accertamento
dell'abuso) l'esercizio di questi ultimi poteri inibitori e ripristinatori da parte dell'autorità competente alla
VIA è subordinato ad una preventiva verifica: la valutazione dell'"entità del pregiudizio ambientale
arrecato e quello conseguente all'applicazione della sanzione".
Al di là della formulazione non perfettamente intelligibile, pare che la norma imponga all'autorità di
controllo la soluzione più opportuna per la migliore tutela dell'interesse ambientale giacché potrebbero
esservi ipotesi in cui la rimozione dell'opera o la sospensione dell'attività potrebbe cagionare pregiudizi per il territorio e l'ambiente interessati - maggiori del mantenimento della medesima (11).
Si tratta dunque di una delicatissima valutazione discrezionale tecnica che deve, comunque, essere
sempre condotta nella prospettiva della migliore protezione dei beni ambientali; cosicché pare da scartare
perché in contrasto con il dato letterale e con la ratio legis un'interpretazione della norma che dovesse
condizionare l'esercizio dei poteri repressivi in materia ad una previa valutazione comparativa
dell'interesse ambientale con quello del trasgressore ovvero con altri interessi privati e pubblici in gioco
diversi dalla tutela ambientale: conclusione quest'ultima ora tanto più avvalorata dai chiarimenti offerti
dalla sentenza del giudice comunitario ivi in esame.
Al comma 5 dell'art. 29 del decreto si prende infine in esame l'ipotesi dell'intervenuto annullamento giurisdizionale ovvero amministrativo in autotutela - del provvedimento di VIA o dell'autorizzazione/
concessione rilasciata a seguito della prescritta VIA, disponendo che in tali fattispecie l'esercizio dei poteri
repressivi di sospensione, demolizione e rimessione in pristino sono subordinati ad una "previa nuova
valutazione di impatto ambientale".
Seppure la laconicità della previsione non aiuti l'interprete, sembrerebbe comunque che in questo caso, e
solo in questo caso - dunque con esclusione delle ipotesi di mancanza di valutazione ab origine -, fosse
prevista una procedura "VIA a posteriori", la quale, in caso di esito negativo, farebbe scattare i
summenzionati poteri repressivi di demolizione dell'opera e rimessione in pristino, mentre in ipotesi di
(rinnovato) giudizio di compatibilità ambientale positivo (con eventuali prescrizioni), potrebbe al più
ordinarsi l'adeguamento alle modifiche progettuali prescritte.
Il qui ricordato regime di controllo e repressione, a presidio dell'obbligo della VIA attualmente vigente nel
nostro paese, introdotto con il richiamato D.Lgs. 152/2006 riformato, parrebbe, dunque, sostanzialmente
rispettoso della direttiva comunitaria nei termini chiariti dalla Corte di Giustizia con la decisione in
commento; fatte salve due criticità.
In primo luogo appare evidente che l'idoneità del sistema repressivo degli illeciti più rilevanti, di
realizzazione del progetto pur in completa assenza di VIA (o di screening) ovvero con difformità
sostanziali, dipenderà - oltre che, ovviamente, dall'efficacia dei controlli - dal corretto svolgimento - nei
termini suesposti - della delicata valutazione tecnica sul "pregiudizio ambientale maggiore" che deve
precedere l'esercizio dei poteri inibitori e ripristinatori da parte delle competenti Autorità nazionali,
regionali e locali.
In secondo luogo la procedura di sanatoria dell'art. 29, comma 5, pur limitata alla fattispecie
dell'intervenuto annullamento del giudizio di compatibilità ambientale o dell'autorizzazione o concessione
(pur sempre precedute da VIA), lascia aperti diversi problemi, tra cui quello delle concrete modalità di
svolgimento di questa valutazione di impatto sui generis (ma sarebbe meglio parlare di "studio di impatto
correttivo", come fa la Corte di Giustizia), ad esempio con riferimento alla considerazione delle alternative
progettuali ed ubicazionali.
In ogni caso, il rispetto dei principi enunciati dai giudici europei impone che gli istituti di regolarizzazione
ordinari o "a regime" previsti dalla normativa edilizia (in primis, l'accertamento di conformità di cui all'art.
36 del D.P.R. 380/2001), e da quella ambientale-paesaggistica (come l'accertamento di compatibilità
paesistica di cui agli artt. 167, comma 4 e 181, comma 1-ter del D.Lgs. 42/2004 riformato), non possano
di per sé escludere l'operatività delle sopra illustrate misure inibitorie e ripristinatorie per interventi
realizzati in mancanza o in violazione della VIA, previste dal menzionato art. 29 del Codice dell'ambiente.
2.4. Segue. Le sanzioni penali, amministrative e civili per la mancanza di VIA- Nella Parte II del D.Lgs.
152/2006 riformata, oltre ai menzionati provvedimenti ripristinatori, non sono previste misure
sanzionatorie in senso stretto per le violazioni in materia di VIA; tuttavia con tipica disposizione di
chiusura, il comma 6 dell'art. 29 fa "in ogni caso salva l'applicazione delle sanzioni previste dalle norme
vigenti".
Qui evidentemente si fa riferimento innanzitutto alle sanzioni amministrative e penali conseguenti
all'ipotesi in cui l'intervento sia stato realizzato non solo in mancanza di VIA, ma risulti abusivo anche
sotto il profilo dell'omessa acquisizione dei titoli autorizzatori previsti dalla normativa ambientale
settoriale e in materia paesaggistica, i quali peraltro sono ora "integrati" nel procedimento di VIA (si veda
l'art. 25, comma 3) ovvero possono anche essere "sostituiti" dal provvedimento di VIA (nel caso
dell'autorizzazione integrata ambientale e della valutazione di incidenza: si veda l'art. 10).
Inoltre la menzionata "causola di salvezza" si riferisce chiaramente anche alle misure ripristinatorie e
sanzionatorie - amministrative e penali - previste nell'ipotesi dell'eventuale realizzazione di un intervento
in assenza del prescritto titolo edilizio (artt. 31 ss. e 44 del D.P.R. 380/2001).
Il tutto con l'ulteriore precisazione che, come detto, la VIA costituisce "presupposto o parte integrante"
dell'approvazione/autorizzazione del progetto, cosicché l'illegittimità (e non mera irregolarità) del rilascio
dell'autorizzazione/approvazione in mancanza di VIA potrebbe essere di per sé sindacabile anche da parte
del giudice penale laddove si ritenga che detta omissione configuri un'illegittimità rilevante dell'atto
amministrativo e, come tale, o suscettibile di disapplicazione da parte dell'autorità giudiziaria ordinaria in
forza dei generali poteri di cui agli artt. 2, 4 e 5 della legge 2248/1865, ovvero sia comunque sottoposta
al vaglio giurisdizionale quale presupposto o elemento costitutivo dell'illecito penale (12).
Aggiungasi che tradizionalmente si afferma che, in presenza di provvedimenti di autorizzazione in
sanatoria, il sindacato giurisdizionale, anche del giudice penale, dev'essere più stringente (13), per cui un
analogo criterio di rigore potrà essere ragionevolmente applicato anche alla summenzionata VIA in
sanatoria prevista dall'art. 29, comma 5, del D.Lgs. 152/2006.
Rimane, infine, aperto il tema dei rimedi di ordine civilistico alla realizzazione di opere ed interventi in
assenza o in violazione della VIA, ossia del risarcimento del danno ambientale allo Stato e degli ulteriori
danni patrimoniali e non patrimoniali ai soggetti privati e pubblici pregiudicati.
La sentenza ivi annotata della Sez. II, 3 luglio 2008 la Corte di Giustizia non prende in esame la
questione la quale, tuttavia, era già stata affrontata nella richiamata "sentenza Wells" in cui il giudice
comunitario, dopo aver chiarito che provvedimenti idonei a reprimere l'illecito risultano quelli della
sospensione e della revoca delle autorizzazioni rilasciate in assenza di VIA, soggiungeva testualmente:
"Inoltre lo Stato membro ha l'obbligo di risarcire tutti i danni causati dalla mancata valutazione
dell'impatto ambientale" (par. 66); e (14) concludeva con l'enunciazione del principio secondo cui "spetta
al giudice nazionale accertare se il diritto interno preveda la possibilità di revocare o di sospendere
un'autorizzazione già rilasciata al fine di sottoporre il detto progetto ad una valutazione dell'impatto
ambientale, conformemente a quanto richiesto dalla direttiva 85/337, o, in alternativa, nel caso in cui il
singolo vi acconsenta, la possibilità per quest'ultimo di pretendere il risarcimento del danno subito" (par.
67 e ss.).
Dunque, già in tale ultima pronuncia risultava chiaramente affermato l'obbligo degli Stati membri (e delle
altre autorità nazionali competenti) di riconoscere e, correlativamente, il diritto del cittadino di
pretendere, il risarcimento del danno conseguente alla mancanza di VIA, e ciò sul solo presupposto
dell'inadempimento del diritto comunitario.
In tal senso ha già avuto occasione di pronunciarsi un giudice amministrativo italiano (il T.A.R.
Lombardia, Sezione di Brescia) che, dopo una lunghissima vicenda giudiziaria che aveva condotto una
tenace cittadina residente nei pressi di un inceneritore di rifiuti speciali a proporre sette ricorsi al giudice
amministrativo di primo grado, un appello al Consiglio di Stato ed un ricorso alla CEDU - Corte europea
dei diritti dell'uomo (in relazione al diritto al domicilio tutelato dall'art. 8 della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo) -, aveva infatti riconosciuto la risarcibilità della lesione dei diritti
pregiudicati dall'attività dell'impianto di smaltimento, dapprima, realizzato ed esercito in assenza di VIA,
e, quindi, oggetto di un giudizio di compatibilità ambientale ex post in occasione del rinnovo
dell'autorizzazione (15).
In particolare in tale ultima sentenza, sulla scorta di alcune decisioni della giurisprudenza comunitaria che
aveva dichiarato contrarie alle direttive europee le norme nazionali che impongono al danneggiato di
fornire la dimostrazione del dolo o della colpa dell'Amministrazione per ottenere il risarcimento dei danni
(specie nel settore degli appalti pubblici), i giudici bresciani concludevano che anche nella materia in
esame ricorre la medesima ratio in quanto deve essere garantito "con precedenza su ogni altra
considerazione" il diritto del danneggiato a conseguire un effettivo risarcimento del danno in conseguenza
della violazione dell'obbligo comunitario della VIA.
Tuttavia la testé rammentata pronuncia del giudice amministrativo lombardo, proprio sotto quest'ultimo
profilo dell'elemento soggettivo, da ultimo è stata riformata dal Consiglio di Stato il quale, evidenziando
come l'annullamento del rinnovo dell'autorizzazione all'impianto era avvenuto perché si era ritenuto che
anche in tal caso la VIA dovesse essere effettuata in quanto non già precedentemente svolta, in ciò
fornendosi per la prima volta un'interpretazione in tal senso della normativa, ricorreva l'ipotesi della
novità della questione e, nel contempo, quella dell'incertezza del dato normativo di riferimento in
presenza delle quali vanno ravvisati gli estremi per il riconoscimento della scusabilità dell'errore di diritto
e, di qui, dell'insussistenza dell'elemento soggettivo fondante la condanna al risarcimento dei danni (16).
Ora, al di là della specificità della testè ricordata fattispecie sottoposta all'esame del Giudice
amministrativo, v'è comunque da chiedersi se l'accertamento dell'elemento soggettivo della colpevolezza
in capo alla P.A. procedente quale indispensabile presupposto del risarcimento dei danni conseguenti alla
violazione dell'obbligo comunitario della VIA, sia tale da rendere se non impossibile, quanto meno
eccessivamente difficoltoso, l'esercizio dei diritti conferiti (anche ai cittadini) dall'ordinamento giuridico
comunitario, e sia pertanto concretamente rispettosa del "principio di effettività" enunciato dalla Corte di
Giustizia.
3. Verifica dell'obbligo di VIA anche per le attività secondarie o strumentali rispetto al progetto
principale: il caso italiano delle "cave mascherate".
La sentenza ivi in commento della Corte di Giustizia, Sez. II, 3 luglio 2008, affronta poi una seconda
questione riguardante i lavori di costruzione di una centrale eolica nella contea di Galway, considerata
dalla Commissione il progetto più vasto di produzione di energia eolica terrestre mai proposto in Irlanda,
nonché uno dei più importanti in Europa, la cui realizzazione era avvenuta senza alcuna valutazione
dell'impatto ambientale.
Il Governo irlandese sosteneva che, nel momento in cui erano state richieste le autorizzazioni per le
prime due fasi di costruzione della centrale eolica (nel 1997 e nel 1998) né l'Allegato I né l'Allegato II
della direttiva 85/337 menzionavano tale categoria di progetti tra quelli rientranti nel suo ambito di
applicazione.
A tal proposito la Commissione, pur riconoscendo che gli impianti di produzione di energia mediante lo
sfruttamento del vento non comparivano né all'Allegato I né all'Allegato II della versione originaria della
direttiva 85/337 (prima delle modifiche apportate dalla direttiva 97/11), appuntava la sua attenzione
sulle prime due fasi della costruzione della centrale eolica che avevano richiesto numerosi interventi, tra
cui lavori di estrazione di torba e di minerali diversi da quelli metallici ed energetici, nonché la costruzione
di strade di accesso all'impianto: lavori questi che invece figurano al suddetto Allegato II, rispettivamente
al punto 2, lett. a) e c), e al punto 10, lett. d).
La Corte di Lussemburgo accoglieva tale ultima impostazione e, quindi, concludeva che la direttiva
85/337 avrebbe dovuto applicarsi alle prime due fasi di costruzione della centrale eolica, in quanto esse
comportavano in particolare il ricorso a progetti di lavori citati nell'Allegato II di tale direttiva, cosicché
l'Irlanda era tenuta a sottoporre i progetti di questi lavori ad uno studio preventivo se per essi si
prevedeva un notevole impatto ambientale, in particolare per la loro natura, le loro dimensioni o la loro
ubicazione (17).
Invero la circostanza che i lavori connessi all'estrazione della torba e alla costruzione di strade
presentassero una importanza secondaria rispetto al progetto principale, che era quello della costruzione
della centrale eolica, non escludeva ex se che gli stessi potessero cagionare un impatto ambientale
rilevante. Anzi, la considerevole dimensione dell'intervento estrattivo e dei lavori di costruzione delle
strade, nonché l'ubicazione dei medesimi (su una montagna ricoperta da boschi e in prossimità di un
fiume) dimostravano, secondo la Corte, che detti progetti dovevano considerarsi idonei a cagionare un
notevole impatto ambientale e, come tali, avrebbero senz'altro dovuto essere sottoposti a VIA.
La pronuncia risulta di indiscutibile interesse ove si considerino le sue ripercussioni nel nostro paese ove
sono numerosi i casi di vero e proprio aggiramento dell'obbligo della VIA, operato presentando in sede
autorizzatoria come meramente secondari e quasi "serventi", rispetto all'opera principale, interventi che
in realtà rivestono un potenziale rilevante impatto ambientale.
In particolare tali èscamotages sono piuttosto diffusi proprio nel settore delle attività estrattive (oggetto
anche del caso irlandese sottoposto all'esame della Corte di Giustizia), talvolta agevolati da normative
regionali che recano istituti potenzialmente elusivi della disciplina comunitaria: si pensi alla legislazione
del Veneto (art. 2 della L.R. 44/1982) o all'analoga del Friuli-Venezia Giulia (art. 12-bis della L.R.
25/1992) che sottraggono alla disciplina sulle cave i movimenti di terra funzionali alla realizzazione di
miglioramenti fondiari ovvero alla costruzione di opere pubbliche e private (in quest'ultimo caso anche
quando vi sia utilizzazione dei materiali estratti) (18).
Di qui tutto un fiorire, nel territorio delle due Regioni, di interventi di migliorie fondiarie, di impianti di
acquacoltura, di campi da golf, di sistemazioni di versanti montani o costieri in funzione di opere edilizie o
turistiche e di altri progetti che avevano (ed hanno) quale rilevante - e spesso principale - obiettivo
economico imprenditoriale le operazioni di escavazione e, quindi, di asportazione dei materiali estratti (ai
fini della loro commercializzazione), ma formalmente presentati e autorizzati come interventi "secondari"
e "indiretti" rispetto all'opera principale e, come tali, neppure considerati ai fini dell'operatività
dell'obbligo della VIA per le attività estrattive.
Ora se tali discipline regionali sono suscettibili di condurre ad una esclusione, per tali "escavazioni
secondarie", dell'operatività della disciplina di pianificazione e di autorizzazione in materia estrattiva (con
disposizioni la cui irragionevolezza è stata, peraltro, talvolta sottolineata dal giudice amministrativo) (19),
tuttavia non possono (più) legittimare una sottrazione dei medesimi interventi all'obbligo comunitario
della VIA per quella che, agli effetti della direttiva 85/337, dev'essere considerata un'attività di cava
laddove si sia in presenza di una estrazione ed asportazione dei materiali escavati (ancorché presentata
come attività strumentale rispetto al progetto principale).
Anche in questo caso, dunque, meriterebbe un ripensamento l'orientamento sin qui generalmente seguito
dalla giurisprudenza amministrativa a cui sembra sinora sfuggito il dato sostanziale, degli effettivi e
concreti lavori necessari per realizzare un progetto, cui dev'essere ancorata la verifica circa l'obbligo o
meno della valutazione di impatto ambientale (20).
4. Obbligatorietà e discrezionalità degli Stati membri nell'applicazione del criterio del "cumulo
dei progetti".
4.1. La prassi elusiva della suddivisione dei progetti in tranches. - Con la seconda pronuncia in esame,
l'ordinanza della Sez. VI, 10 luglio 2008 (nella causa C-156/07) (21), la Corte di Giustizia affronta
un'altra problematica piuttosto nota: quella della necessaria valutazione cumulativa, ossia globale ed
unitaria, dei progetti onde evitare che l'opera venga artificiosamente frazionata in porzioni, lotti o
tranches: sia allo scopo di rimanere al di sotto della soglia oltre la quale scatta l'obbligo della VIA (e
quindi allo scopo di sottrarre del tutto l'opera alla valutazione); sia perché comunque una valutazione
delle singole frazioni dell'opera, isolatamente considerate, ha maggiori probabilità di ottenere un giudizio
di compatibilità positivo rispetto all'intervento unitario valutato nella totalità dei suoi impatti.
È noto infatti che la tecnica elusiva della VIA, comunemente definita dello "spezzatino", è praticata spesso
in relazione alle infrastrutture che presentano uno sviluppo lineare (tra cui elettrodotti, gasdotti, ferrovie,
ecc.), e in particolare nel settore dei progetti stradali.
Il fondamentale principio della necessaria valutazione dei progetti nei loro effetti cumulativi è stato da
tempo chiarito a livello nazionale nella circolare del Ministero dell'ambiente 7 ottobre 1996, n. 15208 ove
si precisa che l'esigenza della valutazione complessiva della globalità degli interventi "risponde alla logica
intrinseca della valutazione di impatto ambientale, atteso che questa deve prendere in considerazione,
oltre a elementi di incidenza propria di ogni singolo segmento dell'opera, anche le interazioni degli impatti
indotte dall'opera complessiva sul sistema ambientale, che non potrebbero essere apprezzate nella loro
completezza se non con riguardo anche agli interventi che, ancorché al momento non ne sia prospettata
la realizzazione, siano posti in essere (o sia inevitabile che siano posti in essere) per garantire la piena
funzionalità dell'opera stessa".
D'altronde la nostra giurisprudenza amministrativa è stata spesso costretta a sanzionare l'illegittima
artificiosa suddivisione del progetto di un'opera stradale al fine di evitare la sottoposizione dello stesso
alla valutazione di impatto ambientale, affermando tra l'altro che "diversamente, verrebbe
inammissibilmente a trasferirsi in capo ai soggetti redattori dei progetti il potere di determinare i limiti
della procedura di VIA, attraverso la sottoposizione ad essi di porzioni di opera e l'acquisizione, su
iniziative parziali e, perciò stesso, non suscettibili di apprezzamento, circa i "livelli di qualità finale" di una
pronuncia di compatibilità ambientale asseritamente non modificabile, con conseguente espropriazione
delle competenze istituzionali dell'Amministrazione competente e sostanziale elusione delle finalità
perseguite dalla legge" (22). E precisando altresì che le ineludibili esigenze di salvaguardia del bene
ambientale postulano una valutazione parametrata non già sui mezzi ma sul risultato finale e, dunque,
coerentemente ricollegano l'operatività delle misure di tutela preventiva come la VIA non all'entità del
singolo intervento, ma al complesso che deriva dalla sovrapposizione di quello alle preesistenze, per cui
"non può dunque condividersi la tesi... secondo la quale la VIA sarebbe prescritta solo per interventi che
vengano ad incidere per la prima volta sul territorio, dovendosi invece, in base al diritto positivo
applicabile, tenere conto anche degli esiti derivanti sul piano complessivo o finale da successive addizioni
alle infrastrutture già realizzate" (23).
La questione è naturalmente ben presente al diritto comunitario laddove, in particolare, l'art. 4 della
direttiva 85/337/CEE, ai paragrafi 2 e 3, prevede che per i progetti elencati nell'Allegato II la decisione se
un progetto debba essere o meno sottoposto a VIA venga presa dagli Stati membri (sia mediante un
esame caso per caso sia con una regolamentazione generale sulla base di soglie e criteri prefissati),
tenendo conto dei criteri di selezione riportati nell'Allegato III della direttiva medesima, il quale ultimo (al
paragrafo 1 dedicato alle "caratteristiche dei progetti") include anche quello del "cumulo con altri
progetti" (24).
4.2. Le risposte della Corte di Giustizia alle questioni pregiudiziali poste dal Consiglio di Stato italiano. Venendo dunque alla questione decisa dalla Corte con l'ordinanza in esame, basti dire che la stessa
traeva origine da una controversia pendente avanti il Consiglio di Stato italiano avente ad oggetto
l'approvazione, da parte del Sindaco di Milano quale Commissario delegato per l'emergenza traffico e
mobilità, del progetto relativo ad una strada interquartiere della lunghezza di 1600 metri. Il nostro
Supremo Collegio amministrativo, dopo aver escluso (a seguito di specifica istruttoria) che la strada
medesima si inserisse nell'ambito di un'unica infrastruttura lunga oltre 10 km (ipotesi prevista dal piano
regolatore cittadino, ma poi abbandonata) che come tale rientrerebbe nell'Allegato I della direttiva
85/337, si chiedeva tuttavia se il progetto controverso non dovesse comunque essere sottoposto VIA
poiché tale opera si inserisce in un'operazione più ampia di ristrutturazione di un complesso di strade dei
quartieri cittadini interessati, di modo che l'autorità competente avrebbe dovuto prendere in
considerazione il "cumulo" di diversi progetti, secondo il criterio espressamente previsto dal richiamato
Allegato III della direttiva. Così facendo il Consiglio di Stato ha sospeso il procedimento, sottoponendo
alla Corte di Giustizia europea tre questioni pregiudiziali (25).
Con un primo quesito il giudice italiano chiedeva se l'art. 2 della direttiva, laddove afferma che sono
sottoposti a VIA i progetti destinati ad avere un impatto importante sull'ambiente vada interpretato nel
senso che qualunque progetto che ha un rilevante impatto sull'ambiente è sottoposto a VIA, ancorché
non incluso negli Allegati I o II; ovvero nel diverso significato che sono sottoposti a VIA solo ed
esclusivamente i progetti di cui agli Allegati della direttiva.
In proposito la Corte, pur rammentando che l'ambito d'applicazione della direttiva 85/337 "è vasto e il
suo obiettivo di portata molto ampia" (26) per cui "è in questo spirito che deve essere attuata", dichiara
che l'art. 2, n. 1, della direttiva 85/337 dev'essere in ogni caso interpretato nel senso che esso non
richiede che tutti i progetti per i quali si prevede un notevole impatto ambientale siano sottoposti alla
procedura, bensì che debbano esserlo solo quelli che sono citati agli Allegati I e II di detta direttiva.
Venendo alla normativa nazionale ci si limita soltanto ad osservare che relativamente al campo
applicativo della VIA, ad un'analisi testuale delle norme del D.Lgs. 152/2006 riformato (si veda l'art. 6,
commi 5 e 6), sembra essere stata prevista una clausola elastica che parrebbe non attribuire efficacia
esaustiva agli elenchi di opere allegati; per cui, oltre agli interventi individuati negli elenchi, potrebbero
essere sottoposti a VIA ulteriori progetti che comunque "possono avere impatti significativi sull'ambiente
e sul patrimonio culturale": e ciò sulla base di una decisione assunta dall'autorità competente che rischia
di aprire spazi di discrezionalità obiettivamente troppo estesi.
Con una seconda questione pregiudiziale il Consiglio di Stato interrogava i giudici europei per sapere se
l'art. 4 della direttiva, laddove lascia agli Stati membri la possibilità di prevedere la VIA per i progetti
dell'Allegato II, secondo valutazioni caso per caso o criteri prestabiliti, tenendo altresì conto dei criteri
dell'Allegato III, crei un obbligo puntuale oppure soltanto una facoltà per gli Stati membri di tener conto
di tutti i criteri di cui al detto Allegato III.
La risposta della Corte - che era un po' il cuore del rinvio pregiudiziale - appare invece per la verità un po'
sfuggente e generica limitandosi a sancire che i criteri di selezione rilevanti citati all'Allegato III della
direttiva 85/337 sono "vincolanti" per gli Stati membri "quando stabiliscono - per i progetti rientranti
nell'Allegato II di quest'ultima, sulla base di un esame caso per caso ovvero sulla base delle soglie o dei
criteri che essi fissano - se il progetto interessato debba essere sottoposto alla procedura di valutazione
dell'impatto ambientale".
L'affermazione di principio, espressa in termini piuttosto tautologici, pare chiarirsi alla luce di quanto
espresso al precedente paragrafo dell'ordinanza ove si precisa che la direttiva 85/337 impone agli Stati
membri l'obbligo di tener conto dei criteri di selezione "rilevanti" definiti al suo Allegato III, "vale a dire di
quelli fra tali criteri che, tenuto conto delle caratteristiche del progetto interessato, devono essere
applicati", ma soprattutto alla luce della risposta alla terza questione pregiudiziale.
Con l'ultima questione la Corte era stata infine chiamata a rispondere alla domanda se l'art. 1 del decreto
del Presidente della Repubblica 12 aprile 1996 costituisca puntuale recepimento della direttiva 85/337,
non avendo previsto, come criterio per sottoporre a VIA i progetti rientranti nell'Allegato II della direttiva,
quello del "cumulo del progetto con altri progetti" di cui al detto Allegato III alla direttiva.
A tal proposito nell'ordinanza in esame, dopo la precisazione che secondo una consolidata giurisprudenza,
nell'ambito di un procedimento di rinvio pregiudiziale ex art. 234 CE la Corte non può pronunciarsi sulla
compatibilità delle norme di diritto interno con le disposizioni del diritto comunitario (ma soltanto fornire
al giudice nazionale gli elementi per la corretta interpretazione dell'ordinamento europeo), risolve la terza
questione proposta affermando il principio di diritto secondo cui, quando uno Stato membro decide di
determinare "caso per caso" i progetti dell'Allegato II da sottoporre a valutazione dell'impatto ambientale,
esso deve, o mediante semplice rinvio nelle sue norme nazionali all'Allegato III della direttiva, ovvero
riproducendo nella sua legislazione i criteri elencati dalla stessa direttiva, "fare in modo che il complesso
di tali criteri possa effettivamente essere considerato qualora l'uno o l'altro di essi sia rilevante per il
progetto interessato, senza poterne escludere alcuno [ivi compreso quello del "cumulo con altri progetti",
n.d.r.] esplicitamente o implicitamente". Invero una tale esclusione potrebbe dissuadere l'Autorità
nazionale competente dal prendere in considerazione il criterio o i criteri in questione o addirittura
impedirle di farlo, venendo così meno ai suoi obblighi comunitari.
Diversamente, invece, quando uno Stato membro opta per una regolamentazione generale ed astratta
del campo applicativo della VIA per i progetti rientranti nell'Allegato II mediante la fissazione di soglie e
criteri, esso è tenuto a redigere l'elenco di tali progetti applicando, a seconda dei casi, l'uno o l'altro dei
diversi criteri "rilevanti" di detto Allegato III, di talché il "criterio del cumulo può così, ove sia rilevante,
essere utilizzato per sottoporre un tipo di progetto a una tale valutazione, tenuto conto della realizzazione
del medesimo con altri progetti, eventualmente prendendo in considerazione la realizzazione del
complesso di tali progetti durante un periodo di tempo determinato".
Si tenga tuttavia presente che il riconoscimento di un certo margine di discrezionalità da parte degli Stati
membri - ma solo laddove si predisponga una disciplina generale del campo applicativo dei progetti del
secondo Allegato - nell'applicare, tra i criteri dell'Allegato III della direttiva 85/337, solo quelli ritenuti
"rilevanti", dev'essere tuttavia interpretata alla luce dei principi già espressi in passato dagli stessi Giudici
comunitari proprio con specifico riferimento al criterio del "cumulo" (27).
Quanto all'attuale disciplina nel nostro paese, parrebbe che i dubbi di non compatibilità con il diritto
comunitario espressi dal Consiglio di Stato dovessero essere superati dall'attuale espressa previsione del
criterio del cumulo con altri progetti tra le caratteristiche da considerare nell'ambito della verifica di
assoggettabilità a VIA, ormai contenuta nell'Allegato V alla Parte II del D.Lgs. 152/2006 modificato.
NOTE
(1) Nella sentenza annotata vengono richiamati i precedenti delle sentenze: Corte di Giustizia CE, 19
settembre 2000 (causa C-287/98), pubblicata in questa Rivista 2001, 1, p. 53, con nota di A. GRATANI,
L'attività discrezionale del legislatore in sede di trasposizione della direttiva VIA; e Corte di Giustizia CE,
Sez. II, 23 novembre 2006, causa C-486/04, Commissione c. Italia, punto 36, in questa Rivista 2007, 2,
p. 289, con nota di A. GRATANI. Ma l'illegittimità della VIA "postuma", ossia eseguita successivamente alla
decisione di realizzare il progetto (e, a fortiori, della sua realizzazione), era stata espressamente
affermata dalla stessa Corte di Giustizia anche nella sentenza della Sez. VI, 2 giugno 2005, causa
C-83/03, Commissione CE c. Italia (si veda in particolare i paragrafi 14, 17, 20, 21) che ha condannato il
nostro paese per aver svolto una procedura di verifica di VIA successivamente al rilascio della
concessione edilizia per la realizzazione di un porto turistico; tale ultima sentenza è pubblicata in questa
Rivista 2005, 6, p. 1027, con nota di A. GRATANI, L'autorizzazione a realizzare progetti pubblici e privati
senza una preventiva disamina ambientale deve essere annullata e il sito ripristinato.
(2) Sulla nozione di autorizzazione ai sensi della direttiva 85/337 si veda Corte di Giustizia CE, Sez. V, 7
gennaio 2004, causa C-201/02, su cui infra.
(3) Si tratta della sentenza della Corte di Giustizia CE, Sez. V, 7 gennaio 2004, causa C-201/02, Wells, in
questa Rivista, 2004, 2, p. 254, con nota in calce di A. GRATANI, La VIA deve precedere i provvedimenti
nazionali autorizzativi o dichiarativi di P.U., pubblicata anche in Riv. amb., 2004, 5, p. 525 con nota in
calce di S. GUZZI, VIA e regime di rimedi in sua assenza: verso una nozione comunitaria di
autorizzazione?
(4) Così Cons. Stato, Sez. VI, 22 novembre 2006, n. 6831, in questa Rivista, 2007, 3-4, pp. 551 ss., con
nota sostanzialmente adesiva in calce di L. FUMAROLA; e in Riv. giur. edilizia 2007, 3, p. 1049 con nota di
MICHELOTTI, La valutazione di impatto ambientale nella dinamica procedimentale. In termini identici cfr. la
sentenza coeva, 22 novembre 2006, n. 6832, in Riv. giur. edilizia, con nota critica di A. MILONE, In merito
ad alcune questioni di valutazione di impatto ambientale e di valutazione di incidenza, ove si evidenziava,
tra l'altro, che tale orientamento "non tiene conto, ad esempio, della circostanza che nell'ambito di un
procedimento postumo di VIA l'esame delle alternative di progetto, contenuto nello studio di impatto
ambientale, assolve ad una funzione meramente formale, essendo l'opera già approvata". Si precisa
peraltro che entrambe le pronunce in esame riguardavano, come detto, una fattispecie in cui la VIA era
sopravvenuta quando ancora non erano iniziati i lavori di realizzazione dell'opera e doveva essere ancora
rilasciata l'autorizzazione sul progetto definitivo, ancorché fosse però già intervenuta la dichiarazione di
pubblica utilità dell'opera medesima (trattandosi di una disciplina speciale - in materia di gasdotti - in un
cui la p.u. viene dichiarata con l'approvazione del progetto di massima); fattispecie in relazione alla quale
la dottrina e la giurisprudenza si erano comunque precedentemente espresse per l'obbligo di VIA
preventiva: si veda A. GRATANI, La VIA deve precedere i provvedimenti nazionali autorizzativi o dichiarativi
di P.U., in questa Rivista, 2004, 2, p. 254, e la giurisprudenza ivi citata). In termini analoghi per una
lettura della sentenza Wells che legittimerebbe l'emissione di una VIA postuma cfr. anche Cons. Stato,
Sez. VI, 3 marzo 2006, n. 1023, in Guida al diritto, 2006, 15, pp. 70 ss. con nota di U. MAIELLO.
(5) Così Cons. Stato n. 1023/2006 cit. recante riforma della sentenza del T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, 27
ottobre 2005, n. 4633, relativa terminale di rigassificazione di gas naturale di Brindisi, ove si legge che la
stessa Corte di Giustizia, nella "sentenza Wells", nel prevedere l'alternativa risarcitoria (alla sospensione e
alla revoca dell'autorizzazione), ammetterebbe la possibilità che il decorso del tempo renda non più
rimediabile l'eventuale vizio dell'assenza di VIA.
(6) Sull'argomento si veda L. MAZZAROLLI, Sulla disciplina della nullità dei provvedimenti amministrativi, in
Dir. proc. amm., 2006, 3, pp. 543 ss.
(7) Cfr. in proposito A. MILONE, D.Lgs. n. 152/2006: le nuove norme in materia di VIA e di VAS, in
Ambiente & sviluppo, 2006, 5, pp. 421 s.
(8) Cosicché il provvedimento di approvazione di un progetto adottato in assenza di previa pronuncia di
VIA non poteva neppure essere oggetto di "convalida" in quanto si era in presenza di un vizio non
emendabile (si veda l'art. 21-nonies, comma 2, della legge 241/1990 che prevede la possibilità,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole, di convalida del solo
provvedimento annullabile, ma non del provvedimento nullo).
(9) L'art. 5, comma 1, lett. 1-bis, del decreto reca la definizione di "modifica sostanziale" che differisce
dalla modifica "semplice" in quanto gli effetti sull'ambiente sono "negativi" e "significativi". Se ne desume
che le modifiche sostanziali (che divengono "difformità sostanziali" nel caso in cui non vengano
autorizzate) richiedono sempre una nuova VIA.
(10) È invece sparito dalla versione definitiva del decreto correttivo il deposito cauzionale obbligatorio previsto invece nello schema di decreto - che il proponente era tenuto a costituire prima dell'inizio dei
lavori a garanzia della corretta esecuzione delle opere.
(11) Peraltro si tratta di "ipotesi limite" che potrebbero essere individuabili nel caso in cui l'intervento
abusivo si sia, per così dire, armonizzato con l'ambiente circostante (inteso in termini paesaggistici) che
verrebbe ad essere quindi ormai deturpato da una rimozione dell'intervento stesso; ovvero ove
dall'eventuale interruzione dell'esercizio dell'attività potrebbe derivare un rilevante danno ecologico, ad
es. nel caso della realizzazione (pur in assenza di VIA) di un (davvero) indispensabile ed insostituibile
impianto di smaltimento di rifiuti o di depurazione di reflui.
(12) Si veda, ad esempio, Cass. pen., Sez. III, 3 aprile 2007, n. 13676 che, sia pure in sede cautelare, ha
ritenuto ipotizzabile il reato di attività di gestione di rifiuti non autorizzata, sanzionato dall'articolo 256,
comma 1, D.Lgs. 152/2006, in relazione ad un impianto di termovalorizzazione assentito con
autorizzazione ritenuta gravemente illegittima ed inefficace in quanto non preceduta dalla preventiva
procedura di VIA regionale.
(13) Così nella più nota fattispecie di autorizzazione in sanatoria, ossia in materia di concessione edilizia
in sanatoria di cui agli artt. 22 e 13 della legge 47/1985 (le cui previsioni sono state trasfuse negli artt.
36 e 45 del T.U. 380/2001), la giurisprudenza pressoché pacifica ha ripetutamente ribadito che il Giudice
penale ha il potere-dovere di verificare la legittimità della concessione edilizia rilasciata "in sanatoria" e di
accertare che l'opera realizzata sia conforme alla normativa urbanistica senza che alla valutazione di
illegittimità del provvedimento della P.A. consegua la disapplicazione dello stesso ex art. 5 della legge 20
marzo 1865, n. 2248, All. E): vedi ad esempio Cass. pen., Sez. III: 30 maggio 2000, M.; ID., 7 marzo
1997, n. 2256, T. e altro; 24 maggio 1996, B. e altro; ID., 15 febbraio 2005, n. 19236, S., in C.E.D.
Cassazione 2005, RV231834.
(14) Sulla base della premessa che, se è vero che le modalità processuali applicabili rientrano
nell'ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro in forza del principio dell'autonomia
procedurale degli Stati, è altresì vero che tali modalità non debbono essere meno favorevoli di quelle che
riguardano ricorsi analoghi di natura interna (principio di equivalenza) e tali da rendere praticamente
impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario
(principio di effettività).
(15) Nella sentenza del T.A.R. Lombardia - Brescia, 11 agosto 2007, n. 726, in greenlex.it, marzo 2008,
con nota introduttiva di M. CERUTI, Smaltimento di rifiuti speciali e danno ambientale: chi la dura la vince,
si precisava che il mancato svolgimento della VIA necessariamente preliminare al rilascio
dell'autorizzazione ad un intervento non costituisce una semplice irregolarità nella successione degli atti
procedimentali, cosicché la valutazione degli impatti intervenuta in una fase successiva all'autorizzazione
di un impianto e all'inizio dell'attività non ha e non può avere un effetto sanante né rispetto ai
provvedimenti di autorizzazione né rispetto all'attività svolta; e così pure recava l'ulteriore fondamentale
precisazione che un'applicazione coerente dei principi comunitari dovrebbe comportare la sospensione
dell'autorizzazione per il tempo necessario allo svolgimento della VIA e la revoca dell'autorizzazione in
caso di VIA ex post negativa (vengono così preannunciate in qualche modo le soluzioni poi accolte
dall'art. 29 del Codice dell'ambiente). Il Giudicante a questo punto aggiungeva opportunamente che "un
esame a posteriori non è tuttavia in grado di ottenere gli stessi risultati di un esame tempestivamente
svolto prima dell'autorizzazione". Ed è per questo che il T.A.R. concludeva che il bilanciamento degli
interessi che nel caso di specie ha consentito il rinnovo dell'autorizzazione dell'impianto di smaltimento,
pur originariamente realizzato ed esercito in assenza di preventiva valutazione degli impatti, non poteva
ostacolare il diritto dei singoli ad ottenere quanto meno un ristoro monetario dei danni cagionati dal
mancato svolgimento della VIA prima dell'autorizzazione.
(16) Cons. Stato, Sez. V, 20 ottobre 2008, n. 5124, in lexitalia.it, 2008, 10.
(17) In sentenza vengono menzionati i precedenti del 24 ottobre 1996, causa C-72/95, Kraaijeveld e a.,
in Racc., I-5403, punto 50; nonché 28 febbraio 2008, causa C-2/07, Paul Abraham e a., non ancora
pubblicata nella Raccolta, punto 37.
(18) Sull'argomento si veda I. CACCIAVILLANI, Cava strumentale e criteri sanzionatori dell'attività di cava
abusiva, in Riv. amm. Regione Veneto, 1994, 1, pp. 25 s.; e le sentenze del Trib. pen. Verona 28 aprile
1994, n. 215 e T.A.R. Veneto, Sez. II, 23 marzo 1994, n. 334, entrambe in Riv. amm. Regione Veneto n.
1994, 3, pp. 196 ss., con nota in calce di G.P. SARDOSALBERTINI, Ancora in materia di cave e acquicoltura:
competenze coordinate.
(19) In particolare si segnala la pur risalente pronuncia del T.A.R. Veneto, Sez. II, 23 marzo 1994, n. 334
per la lucida denuncia della totale irrazionalità sul punto della menzionata normativa regionale veneta,
sollecitandone opportunamente una riforma che, ovviamente, ad oggi non è intervenuta.
(20) Cons. Stato, Sez. VI, 25 settembre 2006, n. 5610, in Foro amm.-CDS 2006, 9, p. 2629 secondo cui
un intervento presentato e autorizzato come "miglioramento fondiario" ai sensi della legislazione
regionale veneta, ancorché preveda l'asportazione e la commercializzazione del materiale estratto, ai fini
della verifica dell'obbligo della preventiva valutazione di impatto ambientale non dovrebbe considerarsi
come una "cava" (con conseguente obbligo della VIA quando la superficie è superiore ai 25 ettari), bensì
come un progetto di "ricomposizione fondiaria" (il cui obbligo di VIA scatta solo se interessa una
superficie superiore ai 200 ettari e ricade all'interno di aree sensibili).
(21) La scelta di pervenire alla decisione della causa con ordinanza è fondata sull'art. 104, n. 3, del
regolamento di procedura della Corte di Giustizia CE secondo cui, qualora la soluzione di una questione
proposta possa essere chiaramente desunta dalla giurisprudenza ovvero non dia adito a dubbi
ragionevoli, la Corte, può appunto statuire con ordinanza motivata, dopo aver sentito l'Avvocato generale.
(22) Così Cons. Stato, Sez. V, 2 ottobre 2006, n. 5760, in questa Rivista, 2007, 2, p. 360, con nota di F.
ORLINI. Il principio è stato affermato anche in altri settori (si veda, ad esempio, Cons. Stato, Sez. VI, 30
agosto 2002, n. 4368, in Riv. giur. edil., 2003, I, p. 152, con nota di A. MILONE, in materia di porti
turistici). Assai più incerta e discussa è stata invece in giurisprudenza l'applicazione del criterio del
cumulo tra opera principale ed opere connesse, specie in presenza di infrastrutture strategiche, ove si è
spesso esclusa la connessione strutturale o funzionale tra opera principale ed opere secondarie (così ad
esempio Cons. Stato, Sez. VI, 16 marzo 2005, n. 1102, in Riv. giur. edil., 2005, 4, 1200, di conferma di
T.A.R. Veneto, Sez. I, 26 luglio 2004, n. 2480 e 2483, in questa Rivista, 2005, p. 363, con nota in calce di
E. BARICHELLO, sul progetto c.d. "MOSE" in relazione al rapporto tra paratie mobili ed "opere
complementari" di salvaguardia dalle alte maree; Cons. Stato, Sez. IV, 22 luglio 2005, n. 3917, in Riv.
giur. edil., 2006, 1, p. 125, con nota di A. MILONE, sulla vicenda del ponte sullo stretto di Messina, in
relazione alla connessione tra ponte ed infrastrutture stradali; Cons. Stato, Sez. VI, 22 novembre 2006,
n. 6832, cit. in relazione al rapporto tra terminale marino di rigassificazione di Rovigo e il metanodotto di
collegamento alla rete nazionale di distribuzione).
(23) Cons. Stato, Sez. IV, 14 maggio 2004, n. 3116, in Riv. giur. edil., 2004, 1, p. 2022, il quale,
applicando i criteri ora esposti al caso in esame è pervenuto alla conclusione che risultava indubbio che "il
segmento del tracciato della strada vicinale preesistente, inglobato e intercluso come è fra i raccordi di
nuova costruzione e destinato a costituirne la necessaria connessione, rappresenti parte essenziale e
determinante della nuova opera, e cioè di una variante a strada statale, la quale viene appunto a
superare nel suo complesso, unitariamente considerato, la soglia dimensionale oltre la quale è imposta la
verifica".
(24) Oltre alle seguenti ulteriori caratteristiche progettuali: le dimensioni del progetto, l'utilizzazione di
risorse naturali, la produzione di rifiuti, l'inquinamento e disturbi ambientali e il rischio incidenti, per
quanto riguarda, in particolare, le sostanze o le tecnologie utilizzate.
(25) Cons. Stato, Sez. VI, 22 novembre 2006, n. 6836, in Foro amm.-CDS, 2006, 11, 3106; e in Riv.
giur. edil., 2007, 2, p. 611.
(26) La Corte richiama i propri precedenti di cui alle sentenze 24 ottobre 1996, causa C-72/95,
Kraaijeveld e a., in Foro it., 1998, IV, 57, con nota di AMADEO; nonché 16 settembre 2004, causa
C-227/01, Commissione c. Spagna, in Dir. e giust., 2004, 41, p. 116.
(27) Si veda Corte di Giustizia CE, Sez. V, 21 settembre 1999, causa C-392/96, Commissione CE c. Rep.
Irlanda, in Foro it., 2000, IV, 263, con nota di R. FERRARA, la quale, dichiarando sul punto inadempiente
l'Irlanda per non aver adottato tutte le misure necessarie a garantire la corretta attuazione della direttiva
del Consiglio 27 giugno 1985, 87/337/CEE, ha avuto occasione di affermare testualmente: "Quanto
all'effetto cumulativo dei progetti, occorre ricordare che i criteri e/o le soglie limite di cui all'art. 4, n. 2,
hanno lo scopo di agevolare la valutazione delle caratteristiche concrete di un progetto al fine di stabilire
se vada sottoposto all'obbligo di valutazione e non di sottrarre anticipatamente a detto obbligo talune
classi complete di progetti di cui all'Allegato II che si prevede di attuare nel territorio di uno Stato
membro. La questione se, nel fissare tali criteri e/o soglie limite, lo Stato membro abbia ecceduto il suo
margine di discrezionalità non può essere risolta con riferimento alle caratteristiche di un unico progetto,
ma dipende da una valutazione globale delle caratteristiche del progetto di tale natura che si prevede di
realizzare nel territorio dello Stato membro interessato. Pertanto, uno Stato membro che dovesse fissare
i criteri e/o le soglie limite a un livello tale che in pratica la totalità dei progetti di un certo tipo resterebbe
a priori sottratta all'obbligo di valutazione di impatto eccederebbe il margine di discrezionalità di cui
dispone ai sensi degli artt. 2, n. 1, e 4, n. 2, della direttiva, a meno che la totalità dei progetti esclusi
potesse considerarsi, sulla base di una valutazione globale, come inidonea a produrre un impatto
ambientale importante. Ciò si verificherebbe nel caso di uno Stato membro che si limitasse a fissare un
criterio di dimensione dei progetti e che, per il resto, non si assicurasse che l'obiettivo della normativa
non venga aggirato tramite un frazionamento dei progetti. Infatti, la mancata presa in considerazione
dell'effetto cumulativo dei progetti comporta in pratica che la totalità dei progetti d'un certo tipo può
venire sottratta all'obbligo di valutazione mentre, presi insieme, tali progetti possono avere un notevole
impatto ambientale ai sensi dell'art. 2, n. 1, della direttiva (...). Da quanto sopra esposto risulta che,
avendo fissato soglie limite per le classi di progetti di cui all'allegato II (...) della direttiva, senza peraltro
assicurarsi che l'obiettivo della normativa non venisse aggirato tramite un frazionamento dei progetti,
l'Irlanda ha ecceduto il margine di discrezionalità di cui disponeva ai sensi degli artt. 2, n. 1, e 4, n. 2
della direttiva".
La difesa del
suolo
Alla ricerca della terra ferma
Premessa
Corte cost. 180/2008:
-
ha sancito il principio gerarchico della prevalenza dei
piani territoriali paesistici sugli altri strumenti
urbanistici, in base alla ovvia considerazione che la tutela
del paesaggio in tanto è possibile, in quanto preceda la sua
utilizzazione. Ed è opportuno a questo proposito ricordare
che, in base allo stesso principio logico, i piani di bacino, ai
quali spetta il compito di assicurare l'equilibrio
idrogeologico del suolo, a loro volta, hanno prevalenza sui
piani paesistici. Infatti, non si può parlare di tutela del
paesaggio, se prima non si assicura l'equilibrio
idrogeologico, e cioè la saldezza del suolo (Maddalena,
2010)
- superinteresse
Premessa
Difesa del Suolo:
-
il complesso delle azioni ed attività riferibili alla
tutela e salvaguardia del territorio, dei fiumi, dei
canali e collettori, degli specchi lacuali, delle
lagune, della fascia costiera, delle acque
sotterranee, nonché del territorio a questi
connessi, aventi le finalità di ridurre il rischio
idraulico, stabilizzare i fenomeni di dissesto
geologico, ottimizzare l'uso e la gestione del
patrimonio idrico, valorizzare le caratteristiche
ambientali e paesaggistiche collegate
Supera ed abroga la legge 183/1989
La Difesa del suolo nel
D.Lgs. 152
Sul piano topografico:
-
-
-
tre temi ben distinti, regolati in tre diverse Sezioni,
ciascuna delle quali può essere considerata un T.U.
E’ regolata insieme alla tutela delle acque
dall'inquinamento e alla gestione delle risorse idriche
E’ intestata Norme in materia di difesa del suolo e lotta
alla desertificazione
- Sta nella Parte terza, inaugurando le discipline settoriali
-
Titolo I, Principi generali (capo I) e competenze (capo
II); Titolo II, I distretti idrografici (capo I), Gli strumenti
(capo II), Gli interventi (capo III)
Principi generali
-
-
-
Programmare e pianificare
Conoscere
Prevenire il dissesto del suolo
Scarni:
-
Coinvolgimento di ogni amministrazione
comunque competente
Competenze
-
-
gli atti di indirizzo e coordinamento
approva i piani di bacino, previo parere conferenza Stato - regioni
norme uniformi per raccogliere e catalogare le informazioni in materia di difesa del
suolo
Pcm, previa deliberazione del CdM:
-
-
-
-
coordina i sistemi cartografici
identifica le linee fondamentali dell'assetto del territorio nazionale con riferimento
ai valori naturali e ambientali e alla difesa del suolo, nonché con riguardo
all'impatto ambientale dell'articolazione territoriale delle reti infrastrutturali, delle
opere di competenza statale e delle trasformazioni territoriali
prevede, previene e difende il suolo nel medio e nel lungo periodo (le competenze
del Dipartimento per la protezione civile)
programma, finanzia (previo parere della Conferenza Stato regioni: Corte cost.
232/2009) ed attua le opere in materia di difesa del suolo
Mamb:
-
Competenze
Conferenza Stato - regioni:
-
Formula osservazioni sui piani di bacino ai fini della loro
conformità ai criteri generali
- Formula proposte per l’adozione degli indirizzi e dei metodi
-
Esprime parere sulla ripartizione dei finanziamenti per gli
interventi
Apat: sistema informativo unico di rilevamento e di sorveglianza
Regioni: elaborano, adottano ed approvano i piani di tutela delle acque,
gestiscono il vincolo idrogeologico, realizzano gli interventi all’interno
dei singoli bacini idrografici
Tutti gli altri enti, ivi compresi i Consorzi di bonifica esercitano le
funzioni e svolgono i compiti che sono loro conferiti dalle regioni (la
regione come arbitro di sussidiarietà: art. 62)
Le autorità di bacino
distrettuali
Una per ciascun distretto idrografico
Ente pubblico non economico, ha per organi la Conferenza
istituzionale permanente, il Segretario generale, la Segreteria
tecnico - operativa e la Conferenza operativa di servizi
Alla Conferenza Istituzionale permanente partecipano: il Mamb, il
Minf, il Mind, il Magr, il Mfun, il Mbc, i Presidenti delle regioni ed
un delegato del Dipartimento per la protezione civile (livello
politico). Decide a maggioranza. Partecipa senza diritto di voto il
Segretario generale che chiede al Mamb la convocazione. Adotta
gli atti di indirizzo, coordinamento e pianificazione (il piano di
bacino) e ne controlla l’attuazione. Nomina il Segretario generale.
Conferenza operativa di servizi, come sopra, ma “rappresentanti”
dei ministri in luogo dei ministri (livello tecnico)
I distretti idrografici
Una questione geografica (art. 64) che
domina il concetto di Piano di bacino
Superamento della vecchia distinzione fra
bacini di interesse nazionale, bacini di
interesse interregionale e bacini di
interesse regionale
Il piano di bacino
distrettuale
Espressione di un superinteresse e perciò
superpiano
Problema della copianificazione dei diversi
interessi afferenti al territorio: il modello del
piano territoriale di coordinamento secondo
il d.lgs. 112/98
Superamento di questo problema attraverso
la Vas, che diventa il luogo dell’assorbimento
consensuale degli interessi
Il piano di bacino
distrettuale
!
!
!
Misure di salvaguardia e stralci per settori funzionali
Ha valore gerarchico rispetto a qualsiasi piano che ha per
oggetto l’uso del territorio
Contiene: un programma di opere pubbliche, la disciplina di uso
del suolo, la programmazione e l’utilizzazione delle risorse
idriche, agrarie, forestali ed estrattive
è lo strumento conoscitivo, normativo e tecnico-operativo
mediante il quale sono pianificate e programmate le azioni e le
norme d'uso finalizzate alla conservazione, alla difesa e alla
valorizzazione del suolo ed alla corretta utilizzazione della
acque, sulla base delle caratteristiche fisiche ed ambientali del
territorio interessato
Art. 65
!
Adozione e
approvazione
Sono sottoposti a Vas
Sono adottati a maggioranza (con
dissenting) dalla Conferenza istituzionale
permanente
Concluso il processo di Vas, sono approvati
con Dpcm sentita la Conferenza Stato regioni
Gli interventi
Programmi di intervento (art. 69), di durata triennale che secondo le finalità dei piani di
bacino regolano l’attuazione delle opere previste dai piani di bacino, individuando le risorse
disponibili a legislazione vigente
Il 15% degli stanziamenti è comunque destinato a:
a) interventi di manutenzione ordinaria delle opere, degli impianti e dei beni, compresi
mezzi, attrezzature e materiali dei cantieri-officina e dei magazzini idraulici;
b) svolgimento del servizio di polizia idraulica, di navigazione interna, di piena e di pronto
intervento idraulico;
c) compilazione ed aggiornamento dei piani di bacino, svolgimento di studi, rilevazioni o
altro nelle materie riguardanti la difesa del suolo, redazione dei progetti generali, degli studi
di fattibilità, dei progetti di opere e degli studi di valutazione dell'impatto ambientale delle
opere principali.
Sono adottati dalla Conferenza istituzionale permanente e vengono trasmessi al Mamb che li
trasmette al Mec con l’indicazione del fabbisogno finanziario per la predisposizione del ddl
finanziaria
Accordi di programma ai sensi dell’art. 34, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267
Gli interventi sono a carico dello Stato
Rapporto con la tutela
paesaggistica
L’art. 142, d.lgs. 42/2004 considera di
interesse paesaggistico tutti i corsi di acqua
Organicità rispetto al governo
Archivio selezionato: Dottrina
PIANIFICAZIONE URBANISTICA E INTERESSI DIFFERENZIATI: LA DIFESA DEL
SUOLO QUALE ARCHETIPO DI VIRTUOSE FORME DI COOPERAZIONE TRA DISTINTI
AMBITI DI AMMINISTRAZIONE
Riv. giur. edilizia 2010, 02, 93
Paola Lombardi
SOMMARIO: 1. Premessa. 2. Pianificazione e interessi differenziati: a) il principio dell'integrazione nel
governo del territorio dei profili di tutela ambientale attraverso la pianificazione (prima opzione). 3.
Segue: b) la pianificazione di bacino quale limite alla discrezionalità nella pianificazione territoriale ed
urbanistica (seconda opzione). 4. Riflessioni di sintesi: l'archetipo della difesa del suolo quale esempio di
virtuosa sinergia tra autorità di tutela differenziata ed autorità urbanistiche.
1. Premessa.
È noto come accanto al diritto urbanistico, inteso nella sua generale accezione di insieme di regole volte a
disciplinare le modalità di trasformazione fisica dei suoli, esista un complesso di precetti dettati dalle
molteplici normative di settore accomunabili a quelli urbanistici unicamente sul piano teleologico ed
oggettuale, per essere tutti riferibili alla disciplina del territorio: anche per queste ragioni, il legislatore
costituzionale ha sostituito, all'art. 117, la precedente terminologia urbanistica con governo del territorio
(1).
È altrettanto noto come quell'insieme di regole sia spesso giustificato dall'esistenza dei c.d. "interessi
differenziati", la cui cura affidata in via generale ad autorità amministrative diverse da quelle
istituzionalmente deputate alle scelte di pianificazione territoriale ed urbanistica pone molto spesso dei
limiti alla discrezionalità dei soggetti pubblici che tali scelte sono chiamati a compiere: ad esempio, è
stato efficacemente osservato in dottrina come all'interesse ambientale quando viene in rilievo quale
interesse "secondario" in procedimenti orientati al perseguimento di altri interessi primari venga spesso
assegnata la veste di vero e proprio "super-interesse", che gli consente di affermarsi al di là dei limiti che
normalmente gli si opporrebbero applicando i criteri ordinari" (2).
Si vengono pertanto a creare regimi vincolistici dei quali la pianificazione comunale è chiamata a
compiere un'attività di ricognizione: in particolare, tale compito spetta alla parte c.d. "strutturale" dei
p.r.g.
Tale ultima osservazione permette di sottolineare l'importanza di una serie di innovazioni nei sistemi di
pianificazione territoriale ed urbanistica delineati dalle Regioni mediante le rispettive leggi urbanistiche di
più recente fattura (3). Tra le più importanti novità che possono essere ricordate vi è certamente la
particolare riconfigurazione dei piani comunali, effettuata attraverso soluzioni simili, benché variamente
denominate: si parla di piano di governo del territorio comunale, composto da un documento di piano, un
piano dei servizi e un piano delle regole (l.r. Lombardia n. 12/2005) (4); si distingue diffusamente tra
piano strutturale comunale o locale e piano/i operativo/i (l.r. Friuli-Venezia Giulia n. 5/2007, l.r. Emilia
Romagna n. 20/2000, l.r. Toscana n. 1/2005, l.r. Lazio n. 38/1999, l.r. Basilicata n. 23/1999, l.r. Calabria
n. 19/2002), oppure tra parte strutturale e parte operativa del p.r.g. (l.r. Veneto n. 11/2004) (5) o ancora
tra disposizioni strutturali e disposizioni programmatiche del piano comunale (l.r. Puglia n. 20/2001) (6).
L'espansione di questo modello testimonia l'esigenza da tempo avvertita di disporre di un sistema di
pianificazione locale "flessibile" (e di risposta alla crisi della tradizionale "rigidità" del modello di p.r.g.
delineato dalla legge urbanistica del 1942), la cui parte strutturale sia in grado di svolgere una funzione
"strategica" di organizzazione del territorio (secondo la scansione temporale degli interventi prevista dalla
parte operativa), basata in primo luogo sulla conoscenza di esso e delle sue "invarianti" territoriali ed
ambientali, anche attraverso la ricognizione dei vincoli che gli strumenti di piano provenienti dalle tutele
differenziate, o più semplicemente le norme giuridiche, pongono alle possibili trasformazioni del suolo.
Questi aspetti acquistano ulteriore rilievo nella misura in cui si consideri che i tre progetti di legge
presentati alla Camera nel corso della XVI legislatura in tema di governo del territorio (7) benché ancora
lontani da una approvazione in Parlamento (anche perché sospettati di incostituzionalità alla luce della
riforma del titolo V di cui alla l.cost. n. 3 del 2001) hanno a loro volta individuato come principio
fondamentale quello della distinzione nella pianificazione comunale di un livello strutturale e di un livello
operativo (si leggano infatti l'art. 6 d.d.l. C. 438, l'art. 15 d.d.l. C. 329 e l'art. 5 d.d.l. C. 1794 (8)):
attraverso corposi elenchi che a scopo di ricognizione delle discipline di settore il piano comunale deve
contenere, le leggi regionali sembrano pertanto avere recepito in pieno il principio generale avanzato in
Parlamento della necessità di rispettare e dare rilevanza alle tutele differenziate attraverso il governo del
territorio (9).
In questa sede s'intende peraltro ampliare ulteriormente la prospettiva: partendo dal presupposto che
debba necessariamente esistere un collegamento dinamico tra discipline di settore come ad esempio la
difesa del suolo, la protezione della natura o delle acque e pianificazione urbanistica, può essere
interessante verificare se esista un livello di pianificazione sul quale sia possibile allocare
istituzionalmente tale collegamento in modo non meramente episodico, ma propriamente istituzionale,
portando a compimento quel processo di integrazione delle discipline che la funzione ricognitiva dei piani
strutturali ha sostenuto in modo deciso.
2. Pianificazione e interessi differenziati: a) il principio dell'integrazione nel governo del
territorio dei profili di tutela ambientale attraverso la pianificazione (prima opzione).
È stato opportunamente rilevato in dottrina come la produzione normativa degli ultimi anni si sia ormai
orientata a privilegiare la "copianificazione" come tecnica di coordinamento dei vari interessi afferenti al
territorio (10).
Le disposizioni che rappresentano la chiave di lettura di questo particolare modo di intendere il rapporto
tra gli interessi differenziati e quelli della pianificazione urbanistica sono contenute nell'art. 57 del d. lgs.
31 marzo 1998 n. 112, rubricato Pianificazione territoriale di coordinamento e pianificazioni di settore. È
previsto che "la regione, con legge regionale, prevede che il piano territoriale di coordinamento
provinciale di cui all'art. 15 della legge 8 giugno 1990 n. 142 (11), assuma il valore e gli effetti dei piani
di tutela nei settori della protezione della natura, della tutela dell'ambiente, delle acque e della difesa del
suolo e della tutela delle bellezze naturali, sempreché la definizione delle relative disposizioni avvenga
nella forma di intese fra la Provincia e le amministrazioni, anche statali, competenti" (comma 1). "In
mancanza dell'intesa di cui al comma 1, i piani di tutela di settore conservano il valore e gli effetti ad essi
assegnati dalla rispettiva normativa nazionale e regionale" (comma 2). "Resta comunque fermo quanto
disposto dall'art. 149, comma 6, del presente decreto legislativo" (12) (comma 3).
Il modello delineato dall'articolo in esame si appalesa diverso da quelli in precedenza descritti: infatti il
problema della contemporanea gestione dei molteplici interessi considerati viene risolto per il tramite
della "necessaria compresenza" dei vari soggetti attributari delle molteplici funzioni di settore nel
momento in cui si tratta di effettuare le concrete scelte di pianificazione.
Com'è stato opportunamente rilevato in dottrina, la "proiezione delle questioni ambientali nell'orbita della
pianificazione urbanistica generale propone una tecnica risolutoria delle antinomie tra interessi
differenziati ambientali e politica generale del territorio diversa da quella tradizionale (...). L'idea è di una
pianificazione che assuma come risorsa primaria del territorio le sue componenti culturali e ambientali e
che, in tale veste, le consideri nel processo decisionale di comparazione e ponderazione degli
interessi" (13).
Questa disposizione sembra avere anticipato condividendone indubbiamente i presupposti le
caratteristiche dell'attuale sistema di pianificazione territoriale ed urbanistica delineato a livello regionale
ed in via di completamento sotto forma di principi a livello statale: la contrapposizione tra più interessi
insistenti sul medesimo territorio, sia di diversa dimensione che di diversa natura, non può che fondarsi
sulla ricerca del consenso.
Il nuovo scopo del piano territoriale di coordinamento provinciale viene ricercato proprio nell'esigenza di
raccordare i diversi interessi ambientali esistenti su base provinciale in funzione di una tutela più efficace
in quanto più organica, nel tentativo di porre innanzi al cittadino un unico strumento di pianificazione
territoriale ed urbanistica: l'esigenza di unicità di un piano che recepisca "tutte le scelte" di pianificazione
territoriale viene infatti stimata alla stregua di un vero e proprio "principio" da tenere necessariamente
presente in una moderna considerazione dell'urbanistica e da attuare attraverso lo strumento della
"procedimentalizzazione" (14). Un principio si badi non meramente auspicabile per una futura legge
statale sul governo del territorio, ma già riconoscibile come tale nel citato testo normativo nazionale in
vigore dal 1998.
Il suindicato raccordo verrebbe realizzato attraverso l'"assorbimento consensuale" (15) da parte del piano
territoriale degli interessi pubblici riconducibili alla materia ambientale, assorbimento che peraltro non è
effettuato in via preventiva per volere del legislatore come condurrebbe a pensare una mera attività
ricognitiva di vincoli già esistenti ed altrove determinati ma è affidato alle intese che vengano raggiunte
tra le varie amministrazioni competenti (16).
Si dovrebbe in questo modo soddisfare l'esigenza di ricomposizione sul territorio delle diverse tipologie di
atti pianificatori speciali per riunificare in un contesto unitario le diverse discipline di tutela che
afferiscono al medesimo territorio (17), creando un punto di convergenza di tutte le discipline territoriali
di settore espresse in forma pianificatoria (18) ed ovviando, tramite l'attenuazione della "autonomia dei
procedimenti di tutela" (19), a pericolose sovrapposizioni ed inefficienze. Infatti, in sede di pianificazione
provinciale, le disposizioni derivanti dai livelli superiori o collaterali potrebbero trovare momenti di
specificazione ed approfondimento che ne facilitino il trasferimento alla dimensione operativa comunale,
con un arricchimento delle informazioni che, se lasciato senza mediazioni nel passaggio dal livello
nazionale a quello locale, rischierebbe di perdere elementi di coerenza metodologica (20).
D'altra parte, è stato altrove osservato come oggi sia impensabile sul piano amministrativo ed
inammissibile sul piano giuridico ipotizzare una pianificazione di area vasta che prescinda da un processo
di copianificazione non solo con gli altri soggetti pubblici di pianificazione urbanistica, ma anche con quelli
interessati alla disciplina degli usi del territorio per motivi diversi da quello di un suo ordinato assetto
(21).
Procedendo nell'analisi di carattere generale, è utile rilevare come sia stata prospettata in dottrina (22) la
possibilità che il meccanismo concertativo previsto dall'art. 57 in esame si presti a due possibili
interpretazioni.
Secondo la prima (definita "lettura debole" delle disposizioni), il piano territoriale di coordinamento
provinciale avrebbe natura meramente "ricognitiva", in quanto dovrebbe dettare le proprie previsioni
recependo quelle dei piani redatti dalle amministrazioni di settore, piani che peraltro continuerebbero ad
esistere nella loro individualità: l'unica vera novità consisterebbe nel fatto che sarebbe possibile
conoscere tutte le direttive di pianificazione territoriale sovracomunale attraverso la consultazione di un
solo documento. In questo caso, il piano di settore coesisterebbe con il piano provinciale, che deve tenere
conto in fase di formazione delle prescrizioni contenute nel primo: il corretto recepimento verrebbe poi
confortato dal raggiungimento dell'intesa, che accerta la correttezza delle scelte della Provincia (23).
In base alla seconda interpretazione (definita "lettura forte" delle disposizioni), l'art. 57 verrebbe a
delineare un vero e proprio "principio di fungibilità" tra pianificazione provinciale di coordinamento e
pianificazione di settore, in modo tale che attraverso l'intesa si renderebbe superflua l'emanazione dei
piani di settore i quali, divenendo parte di un più ampio processo di pianificazione globale di livello
provinciale, cesserebbero di esistere come provvedimenti a sé stanti. Tale interpretazione viene ritenuta
preferibile in quanto più in linea con la lettera dell'articolo, anche perché, qualora i piani di settore
conservassero vita autonoma, non verrebbe ad essere soddisfatto in pieno l'affidamento degli interessati
sulle disposizioni del piano provinciale siccome esaustivo di ogni aspetto di tutela del territorio (24).
Peraltro, altrove è stato aggiunto (25) che l'integrazione del piano provinciale non si dovrebbe esaurire in
una mera riproduzione delle disposizioni già previste dai singoli piani di settore, essendo piuttosto chiaro
l'intento del legislatore di sollecitare uno sforzo di massimo coordinamento possibile degli interessi in
gioco, mediante una valutazione d'insieme degli stessi in sede di intesa, in uno spirito di leale
collaborazione, che viene evidentemente in rilievo non solo nei rapporti Stato-Regioni ma anche quando
siano coinvolti gli enti locali (26).
Non sono comunque mancati anche rilievi critici alle disposizioni in commento.
Accanto a chi ha addirittura ravvisato la possibilità di ritenere che il d. lgs. 112/1998 sia incorso in un
eccesso di delega (27), vi è chi osserva come l'art. 57 d. lgs. 112/1998 si caratterizzi in relazione al
previsto meccanismo dell'intesa per contenere una disposizione intrinsecamente debole (28): essa, pur
evocando interessanti riflessioni sul valore del consenso nelle procedure di programmazione, assoggetta il
potere di programmare in modo unitario la gestione dell'ambiente alla discrezionalità di tutte le
amministrazioni coinvolte, che potrebbero avvalersi della possibilità di non rinunciare ad effettuare in
proprio la programmazione. Ciò in quanto "tutte le volte in cui si prevede la necessità del raggiungimento
di un'intesa, si istituisce parallelamente un potere di veto" (29).
Si tratta inoltre di problemi che in dottrina vengo evidenziati soprattutto con riferimento ai rapporti tra
pianificazione di coordinamento provinciale e pianificazione di bacino (30): così si guarda con
preoccupazione (31) alla possibilità che la prevista intesa venga a realizzarsi tra l'Autorità di bacino e solo
alcune Province, ovvero solo con riferimento ad alcuni contenuti del piano di bacino, provocando in tal
modo un coordinamento degli interessi ambientali non uniforme sul territorio dell'intero bacino ed una
sovrapposizione tra strumenti di tutela variabile a seconda delle realtà provinciali. Si sottolineano anche
le difficoltà insite nell'interpretazione dell'art. 57 a causa delle diversità dei sistemi di pianificazione da
ultimo citati per soggetti competenti, strumenti giuridici, ambiti territoriali, ordine di rilevanza,
procedimento ed efficacia (32).
Non è poi possibile nascondere i problemi legati sia alla necessità di costituire forme di governo collegiali
(33) in funzione di controllo del rispetto dei diversi contenuti ed effetti dei piani, sia alle tecniche di
pianificazione, quanto ad esempio alla uniformazione delle scale dei diversi strumenti (34).
In ogni modo, e per fare nuovamente cenno alla normativa regionale di ultima generazione, certo è che le
regioni, disciplinando la pianificazione territoriale provinciale, hanno pressoché tutte fatto riferimento
all'art. 57 d. lgs. 112/1998.
Per quanto nella maggior parte dei casi sia stata introdotta una formula di stile, secondo la quale il
p.t.c.p. assume il valore e gli effetti dei vari piani di settore in caso di stipulazione delle intese ex art. 57,
alla ricorrenza delle condizioni ivi previste (si vedano ad esempio gli art. 56 l.r. Lombardia, 22 l.r. Veneto,
21 l.r. Emilia Romagna, 13 l.r. Basilicata, 6 l.r. Puglia e 19 l.r. Lazio) (35), dalla normativa regionale
risulta in modo palese la volontà di pervenire ad una conoscenza effettiva del territorio, la quale si pone
come imprescindibile attività preliminare di ogni processo di pianificazione.
Ma vi è di più.
La singolare attenzione prestata a livello regionale alla pianificazione di bacino consiglia di effettuare in
questa sede un passo ulteriore per approfondirne brevemente i contenuti: si vedrà infatti in primo luogo
come la disciplina sulla difesa del suolo, per il caso in cui non venga assorbita dagli strumenti di
pianificazione territoriale ai sensi del citato art. 57, possa esercitare pesanti condizionamenti su questi e
soprattutto sulla pianificazione urbanistica. In secondo luogo, si avrà modo di appurare come la
medesima possa essere a buon diritto segnalata quale esempio paradigmatico del modo in cui nel nostro
ordinamento si debbano confrontare le autorità preposte alla tutela e alla gestione degli interessi c.d.
"differenziati" e le autorità preposte alla definizione del corretto assetto del territorio. Infine, consentirà di
svolgere nuove considerazioni sul ruolo dell'ente locale minore anche all'interno di questo sistema.
3. Segue: b) la pianificazione di bacino quale limite alla discrezionalità nella pianificazione
territoriale ed urbanistica (seconda opzione).
La pianificazione di bacino è oggi prevista dalla parte III del d. lgs. 3 aprile 2006 n. 152, recante Norme
in materia ambientale, e succ. modif. e integraz. (c.d. Testo unico ambientale), nella sez. I, dedicata alle
"Norme in materia di difesa del suolo e lotta alla desertificazione" (36).
Riprendendo la vecchia disciplina dettata dalla legge 18 maggio 1989 n. 183, contenente Norme per il
riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo, questa sezione del decreto legislativo
suindicato costituisce attuazione della legge delega 15 dicembre 2004 n. 308, nella parte in cui ha
richiesto l'emanazione di un provvedimento di riordino, coordinamento ed integrazione delle disposizioni
legislative nel settore tra gli altri della difesa del suolo.
Essendo lo scopo della disciplina in oggetto quello di "assicurare la tutela ed il risanamento del suolo e del
sottosuolo, il risanamento idrogeologico del territorio tramite la prevenzione dei fenomeni di dissesto, la
messa in sicurezza delle situazioni a rischio", oltre alla lotta alla desertificazione (art. 53), il decreto si
occupa agli artt. 65 ss. degli strumenti di pianificazione allo scopo apprestati.
Viene previsto il "piano di bacino distrettuale", sostitutivo del vecchio piano di bacino un tempo
configurato per ambiti regionali, interregionali e nazionale di cui all'art. 17 dell'abrogata l. 183, ma del
quale vengono ripresi integralmente i contenuti. Esso viene infatti nuovamente definito quale "piano
territoriale di settore" nonché "strumento conoscitivo, normativo e tecnico-operativo mediante il quale
sono pianificate e programmate le azioni e le norme d'uso finalizzate alla conservazione, alla difesa e alla
valorizzazione del suolo e la corretta utilizzazione delle acque, sulla base delle caratteristiche fisiche ed
ambientali del territorio interessato" (art. 65, comma 1).
Avuto riguardo alla qualificazione di "piano territoriale di settore" attribuita dalla legge, condivisibile
sembra l'affermazione secondo la quale il piano di bacino è piano di settore nel senso che "può
intervenire solo in quei settori e per quegli obiettivi che sono indicati (...), ma non può sostituirsi agli
strumenti urbanistici nella indicazione delle direttive generali e degli obiettivi specifici riferibili all'assetto
del territorio. La natura del piano di bacino non è, quindi, urbanistica in senso proprio, ma attiene al
coordinamento dei diversi interessi ambientali esistenti nel "bacino" considerato, in funzione di tutela del
suolo. Solo nel perseguimento dei suoi obiettivi che sono sempre di carattere "ambientale" in senso più
ampio, ovvero diverso, da quello specificamente "urbanistico" il piano di bacino potrà, dunque, effettuare
"anche" valutazioni di carattere urbanistico (37) e, in tal caso, prevarrà su tutti i piani urbanistici,
generali o di settore" (38). Anche secondo la Corte costituzionale, alla luce della sentenza 26 febbraio
1990 n. 85 (39), i piani in oggetto vengono equiparati ai piani territoriali di settore non già per indicare la
loro inerenza alla disciplina urbanistica ma semplicemente al fine di stabilire che i vincoli posti dal
suddetto piano obbligano immediatamente le amministrazioni statali e regionali, come in effetti risulta
dalla disciplina che seguirà.
Si considerino ora le disposizioni che riguardano i rapporti tra il piano in oggetto ed i sistemi di
pianificazione e di programmazione già esistenti, da applicarsi evidentemente per il caso in cui il p.t.c.p.
non riesca ad assumere il valore e gli effetti dello strumento a difesa del suolo.
Ai sensi dell'art. 65, comma 4, seconda parte, e comma 5, i piani e programmi di sviluppo socioeconomico e di assetto ed uso del territorio devono essere coordinati, o comunque non in contrasto, con
il piano di bacino approvato. Ai fini di cui al comma 4, entro dodici mesi dall'approvazione del piano di
bacino le autorità competenti provvedono ad adeguare i rispettivi piani territoriali e programmi regionali
quali, in particolare, quelli relativi alle attività agricole, zootecniche ed agroforestali, alla tutela della
qualità delle acque, alla gestione dei rifiuti, alla tutela dei beni ambientali ed alla bonifica.
Dai dati normativi a disposizione si desume che in caso di contrasto tra una disposizione del piano di
bacino ed una contenuta in un altro strumento di pianificazione preesistente prevale sempre la prima
sulla seconda (40): condivisibile appare pertanto l'opinione (41) per la quale il comma 4 non prevede in
realtà un coordinamento reciproco tra vari strumenti pianificatori, bensì un coordinamento "a senso
unico", visto l'obbligo di adeguamento della strumentazione pianificatoria già in essere.
In definitiva, sembra molto chiaro l'intento del legislatore di fare del piano di bacino una sorta di "superpiano" (42), che quanto meno in ossequio ai principi di buona amministrazione si deve certamente
coordinare a monte con gli strumenti preesistenti nella misura in cui si riesca a raggiungere già
nell'ambito del suo procedimento di formazione la composizione degli interessi contrapposti; ma che si
sovrappone a tutti gli altri piani qualora tale coordinamento non riesca (43).
E vi è di più. In relazione a questo intento del legislatore ed alla lettura in chiave sistematica dei
contenuti della normativa sulla difesa del suolo, si deve ritenere che l'elenco dei piani e programmi
"cedevoli" in quanto tenuti all'adeguamento non sia a carattere tassativo bensì meramente
esemplificativo, potendo il piano di bacino prevalere anche su altri strumenti con valenza di tutela
ambientale non espressamente indicati (44), ma che comunque continuano ad esistere in assenza di
contrarie previsioni.
Ancora, ai sensi dell'art. 65, comma 4, prima parte, "le disposizioni del piano di bacino approvato hanno
carattere immediatamente vincolante per le amministrazioni ed enti pubblici, nonché per i soggetti
privati, ove trattasi di prescrizioni dichiarate di tale efficacia dallo stesso piano di bacino".
Si noti poi che ai sensi del comma 6, "le regioni, entro novanta giorni dalla data di pubblicazione del
piano di bacino sui rispettivi bollettini ufficiali regionali, emanano ove necessario le disposizioni
concernenti l'attuazione del piano stesso nel settore urbanistico. Decorso tale termine, gli enti
territorialmente interessati dal piano di bacino sono comunque tenuti a rispettarne le prescrizioni nel
settore urbanistico. Qualora gli enti predetti non provvedano ad adottare i necessari adempimenti relativi
ai propri strumenti urbanistici entro sei mesi dalla data di comunicazione delle predette disposizioni, e
comunque entro nove mesi dalla pubblicazione dell'approvazione del piano di bacino, all'adeguamento
provvedono d'ufficio le regioni".
Dunque, una conferma dell'assoluta prevalenza di questo piano su tutti gli strumenti di pianificazione
urbanistica, giustificata evidentemente dalla rilevanza ultralocale degli interessi che vi sono sottesi.
Quest'ultima osservazione contribuisce a giustificare la scelta effettuata in questa sede di utilizzare la
difesa del suolo quale esempio più significativo di incidenza degli interessi differenziati sul sistema di
governo del territorio: il piano di bacino distrettuale sembra infatti definire un nuovo complesso di
stringenti "eterolimitazioni" della pianificazione urbanistica, sulle quali gli enti territoriali possono influire
attraverso la prevista partecipazione agli organi istituzionalmente deputati alla sua formazione, oppure
dando luogo ad un tempestivo adeguamento nel settore urbanistico che consenta di sfruttare gli spazi di
manovra eventualmente consentiti.
Quanto alla previsione dell'intervento regionale d'ufficio, in dottrina ci si è domandati come le Regioni
possano volersi sostituire agli enti territoriali quando esse stesse non abbiano a loro volta emanato le
disposizioni attuative, e ciò al possibile fine di manifestare dissenso con l'inerzia (45). Pare peraltro
condivisibile l'affermazione per la quale, se il vincolo scatta in ogni caso ex lege, l'interesse di tutti gli enti
destinatari è proprio quello di evitare il meccanismo dell'automatica applicazione delle prescrizioni del
piano di bacino e, pertanto, di formalizzare l'adeguamento per introdurre disposizioni che tengano conto
anche dei loro specifici interessi (46).
Concludendo la rapida disamina della disciplina di settore, conformemente al vecchio art. 17, comma 6ter, l. 183/1989, è oggi previsto che i piani di bacino possono essere redatti ed approvati anche per
sottobacini o per stralci relativi a settori funzionali, che, in ogni caso, devono costituire fasi sequenziali e
interrelate, garantendo la considerazione sistemica del territorio (art. 65, u.c.): "nelle more
dell'approvazione dei piani di bacino, le autorità di bacino adottano, ai sensi dell'art. 65, comma 8, piani
stralcio di distretto per l'assetto idrogeologico (PAI)" (art. 67, comma 1).
4. Riflessioni di sintesi: l'archetipo della difesa del suolo quale esempio di virtuosa sinergia tra
autorità di tutela differenziata ed autorità urbanistiche.
Se quanto appena esposto costituisce l'attuale sistema normativo della pianificazione a difesa del suolo,
va rilevato peraltro che il primo decreto correttivo del testo unico, il d. lgs. 284/2006, ha sospeso
l'efficacia delle sue norme che sopprimevano le Autorità di bacino, ripristinando la situazione
organizzativa precedente. Essendo nel frattempo scaduta la delega contenuta nella l. 308/2004,
organizzazione amministrativa, procedimento di formazione dei piani ed efficacia di quelli già esistenti
sono stati colpiti da paralisi "a frigore" e sine die(47), rimanendo applicabile la disciplina da sostituire
(48).
Rivolgendo l'attenzione verso quello che attualmente è il bacino idrografico di più ampie dimensioni,
conserva dunque anche oggi interesse evidenziare che il 26 aprile 2001 il comitato istituzionale
dell'Autorità di bacino del fiume Po ha emanato la delibera n. 18 di adozione del piano stralcio per
l'assetto idrogeologico per il bacino idrografico di rilievo nazionale del fiume Po più brevemente chiamato
PAI , in applicazione dell'art. 17, comma 6-ter, l. 183/1989 (49). Il piano è stato approvato con d.p.c.m.
24 maggio 2001, divenendo esecutivo dalla sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica
italiana avvenuta l'8 agosto 2001.
Il PAI in oggetto si distingue per l'ampiezza del suo ambito territoriale di riferimento, costituito dall'intero
bacino idrografico del fiume Po ad esclusione del Delta: attraverso le sue disposizioni, persegue l'obiettivo
di garantire al territorio del bacino del fiume Po un livello di sicurezza adeguato rispetto ai fenomeni di
dissesto idraulico e idrogeologico.
L'art. 1, comma 4, delle norme di attuazione (NDA), prevede che i programmi e i piani nazionali, regionali
e degli enti locali di sviluppo economico, di uso del suolo e di tutela ambientale, vengano con esso
coordinati: di conseguenza, le autorità competenti devono provvedere al relativo adeguamento dei propri
strumenti alle prescrizioni del piano in esame. In particolare, i piani territoriali di coordinamento
provinciali attuano il PAI specificandone ed articolandone i contenuti ai sensi dell'art. 57 d. lgs. 112/1998
e delle relative disposizioni regionali di attuazione (comma 11) (50).
Sempre nell'ambito delle NDA, di rilievo sono ancora gli artt. 5 e 7.
Iniziando per chiarezza di esposizione da quest'ultimo, si può notare come esso richiami tra i contenuti
del piano la classificazione dei territori amministrativi dei Comuni e delle aree soggette a dissesto,
individuati nell'"atlante dei rischi" in funzione del rischio idraulico e idrogeologico presente, mentre l'art. 5
si occupa degli effetti prodotti dal PAI. Il suo comma 2 dispone che le Regioni emanino le disposizioni
necessarie all'attuazione del piano nel settore urbanistico entro novanta giorni dalla sua approvazione;
decorso inutilmente il termine, gli enti territorialmente interessati sono comunque tenuti a rispettarne le
prescrizioni di carattere urbanistico.
Collegato a tale ultimo comma è il disposto dell'art. 18 NDA, dedicato agli indirizzi di pianificazione
urbanistica.
È infatti prescritto che le regioni, proprio in relazione a quanto stabilito dall'art. 5, comma 2, emanino le
disposizioni concernenti l'attuazione del PAI nel settore urbanistico conseguenti alle condizioni di dissesto
risultanti dall'atlante di cui sopra, provvedendo ove necessario all'indicazione dei Comuni esonerati in
quanto già dotati di strumenti urbanistici compatibili con le condizioni di dissesto presente o potenziale
(art. 18, comma 1). A tali disposizioni i Comuni si devono conseguentemente conformare in sede di
formazione e adozione degli strumenti urbanistici generali o di loro varianti, effettuando previamente una
verifica di compatibilità idraulica e idrogeologica delle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti con le
condizioni di dissesto presente o potenziale (comma 2): all'atto dell'approvazione di tali strumenti e
varianti, la delimitazione delle aree in dissesto e le previsioni urbanistiche ivi comprese che sono
conseguenza della suddetta verifica di compatibilità aggiornano ed integrano la prescrizioni del PAI
(comma 4).
Proprio in relazione alla normativa da ultimo esposta, è importante ricordare che il comitato istituzionale
dell'Autorità di bacino del fiume Po ha proceduto con delibera n. 6 del 25 febbraio 2003, approvata con
d.p.c.m. 30 giugno 2003, a modificare l'art. 6 della propria delibera n. 18/2001 di adozione del PAI.
Tale articolo ha previsto una procedura transitoria per l'aggiornamento delle aree in dissesto,
comportante la trasmissione all'Autorità di bacino, a cura delle Regioni territorialmente interessate, di
proposte di aggiornamento risultanti dalle varianti di adeguamento degli strumenti urbanistici comunali al
piano qui in esame, adottate dai Comuni ai sensi dell'art. 18 NDA.
Nelle more della pubblicazione del d.p.c.m. di approvazione della modifica di cui alla propria delibera n.
6/2003, il comitato istituzionale ha ritenuto necessario concordare con le regioni i contenuti tecnici del
processo di aggiornamento dell'elaborato n. 2 del PAI: pertanto, con delibera n. 16 del 31 luglio 2003 ha
adottato la direttiva Attuazione del PAI nel settore urbanistico e aggiornamento dell'atlante dei rischi
idraulici ed idrogeologici.
Scopo della direttiva è infatti quello di coordinare il processo di attuazione del PAI nel settore urbanistico
posto in capo alle Regioni attraverso la gestione in forma coerente del flusso informativo connesso
all'aggiornamento del piano.
Così l'allegato n. 1 della direttiva riassume tra le altre le procedure di adeguamento degli strumenti
urbanistici al PAI stabilite dalla Regione Piemonte nei seguenti termini:
il Comune effettua la verifica di compatibilità, procede ad una variante di adeguamento e invia alla
Regione gli elaborati d'indagine per l'acquisizione del parere regionale
esaminati gli atti pervenuti, le Direzioni tecniche regionali e la Direzione pianificazione e gestione
urbanistica esprimono il parere regionale
il Comune, in caso di parere favorevole, adotta il progetto preliminare dello strumento urbanistico e
trasmette alla Regione gli elaborati tecnici
adottato il progetto definitivo, il Comune trasmette i relativi documenti per l'approvazione alla Regione, la
quale, allo stesso tempo, trasmette all'Autorità di bacino gli elaborati tecnici del progetto.
Ecco dunque, in estrema sintesi, il processo individuato al fine di dare attuazione al PAI nel settore
urbanistico. I Comuni procedono ad un approfondimento conoscitivo volto alla identificazione dei
fenomeni di dissesto, valutando le conseguenti condizioni di rischio; successivamente, procedono ad una
revisione della propria pianificazione urbanistica se necessaria al fine di renderne compatibili le previsioni
con gli accertamenti effettuati e con le limitazioni d'uso del suolo già previste dal PAI; ciò innesta a sua
volta un processo di ricaduta sul PAI, in quanto consente di aggiornare il quadro delle conoscenze di
settore a scala di bacino.
Sembra pertanto corretto sostenere che il PAI si configura come una sorta di "piano cornice" attuato nella
più ridotta dimensione territoriale dei piani urbanistici comunali, i quali, attraverso la verifica di
compatibilità ed il constante confronto tra il livello di analisi concepita alla scala di bacino ed il livello di
analisi condotta a scala locale, ne realizzano un aggiornamento continuo.
Le disposizioni fino ad ora esaminate sembrano lasciar trasparire un nuovo approccio metodologico alla
risoluzione delle problematiche di tipo ambientale, che consente il passaggio da una concezione del piano
basata su di un sistema prevalentemente vincolistico ad un maggior coinvolgimento degli attori locali, in
relazione al quale decisivo risulta essere l'incremento delle conoscenze, e dei relativi metodi di raccolta,
circa le condizioni territoriali in essere (51).
E con questo il cerchio si chiude, poiché anche sul piano della protezione degli interessi lato sensu
ambientali trovano conferma alcune delle acquisizioni che sono maturate alla luce degli odierni contenuti
della Costituzione: si pensi infatti al rinnovato interesse per le potenzialità del Comune, le cui conoscenze
e le cui capacità vengono qui considerate idonee ad implementare il sistema delle pianificazioni.
Ma in realtà vi è di più. In questa sede è risultata altresì la consapevolezza della necessità di disporre
sempre e comunque di idonee previsioni normative che siano in grado di consentire il superamento sia
dell'eventuale inerzia dei soggetti deputati ad effettuare scelte pianificatorie, sia dei possibili ed
inaccettabili momenti di stallo delle relative procedure provocati dall'insorgenza di non altrimenti
sormontabili contrasti a causa dell'insistenza sulla medesima area di differenti interessi di cui siano
portatrici più autorità pubbliche.
A tale scopo, dai dati emersi dal contesto normativo descritto è stato possibile dare finalmente il giusto
rilievo ad uno degli strumenti che sempre più spesso caratterizza gli attuali scenari istituzionali: la ricerca
del consenso. Questa volta, quale fattore di legittimazione dei più moderni processi di organizzazione del
territorio (*).
Paola Lombardi
(*) Segue un breve abstract in lingua inglese predisposto dall'autore.
The use of the territory is not only regulated by the planning law, but also from various disciplines of
sector that have the purpose to protect the "diverse interests", especially those of environmental nature.
The latest normative production has tried to resolve the problem of the relationship between "diversified
interests" and planning interests through the "co-planning". In Italy, an example of this approach is
represented by art. 57 d. lgs. 112/1998: this article provides the conditions to which the territorial plan
of provincial coordination can take the effects of environmental protection plans.
Other times, the legislator chose to provide that the pian of environmental protection is a limit to the
discretion that is practiced in the territorial and urbanistic plans: an example of this second approach is
constituted by the discipline of the planning of hydrogeological basin, today contained in the d. lgs.
152/2006.
Actually the implementation of this last legislation allows to identify new possible forms of cooperation
among different administrative authorities to the purpose of a correct use of the territory: this is
demonstrated by the plan far the hydrogeological structure of Po River (PAI), whose implementation
allows a valuable exchange of informations among river basin authorities and urbanistic authorities, with
the purpose to strengthen protection of territory.
NOTE
(1) E. STICCHI DAMIANI, Disciplina del territorio e tutele differenziate: verso un'urbanistica "integrale", in
AA.VV., L'uso delle aree urbane e la qualità dell'abitato, a cura di E. FERRARI, Milano, 2000, 146.
(2) Così D. DE PRETIS, Discrezionalità e ambiente, in AA.VV., Ambiente, attività amministrativa e
codificazione, a cura di D. DE CAROLIS-E. FERRARI-A. POLICE, Milano, 2006, 452. L'A. aggiunge (ivi, 461-462)
come la stessa discrezionalità amministrativa presenti in materia ambientale delle peculiarità sia di ordine
quantitativo (perché la grande mole di norme ambientali assegna spesso alla p.a. il compito di assumere
atti ad alto grado di discrezionalità), che di ordine qualitativo (in quanto la normale dinamica degli
interessi pubblici risente della rilevante molteplicità di quelli ambientali e del fatto che spesso le norme ad
essi attribuiscono un valore assoluto o predominante).
(3) Sul variegato panorama attuale di legislazioni regionali, definito vero e proprio "caleidoscopio" che si
compone a sua volta di tanti diversi caleidoscopi, poiché per ciascuna realtà regionale sono possibili
diverse combinazioni, S. AMOROSINO, La pianificazione del territorio tra poteri regionali e scelte locali:
modelli (normativi) e realtà (amministrative) di una "concorrenza" di funzioni, in questa Rivista, 2005, II,
37-38; sullo stesso punto si può leggere anche S. BELLOMIA, Evoluzione e tendenze della normativa statale
e regionale in materia di pianificazione urbanistica, ibid., 2003, II, 125 ss. Sulla specifica configurazione
del piano regolatore generale, N. CENTOFANTI, Diritto urbanistico, Padova, 2008, 166 ss.
Più in generale, sulle nuove esperienze regionali, D. DE PRETIS, La legislazione regionale in materia di
governo del territorio dopo la riforma costituzionale del 2001, in Le regioni, 2005, 811 ss., B. DELFINO, Il
governo del territorio tra politica ed amministrazione, con particolare riferimento alla pianificazione
territoriale ed urbanistica con finalità anche paesaggistiche, in Riv. giur. urb., 2006, 442 ss. ed E. D'ARPE,
Il giudice amministrativo e la pianificazione urbanistica, in Urb. e app., 2008, 1072 ss.
(4) Nutrita è la dottrina che si è occupata della legge lombarda del 2005. Sui suoi aspetti, si può leggere,
V. PARISIO-E. BOSCOLO, La Lombardia: innovazioni in attesa della riforma, in AA.VV., Poteri regionali ed
urbanistica comunale a cura di E. FERRARI-P.L. PORTALURI-E. STICCHI DAMIANI, Milano, 2005, 180 ss.; E.
BOSCOLO, Le regole dell'urbanistica in Lombardia, Milano, 2006, passim; ID., Il superamento del modello
pianificatorio tradizionale, in Amministrare, 2008, 325 ss., spec. 330 ss.,; S.A. FREGO LUPPI, Il governo del
territorio tra Stato, regioni ed enti locali: aspetti problematici della legge lombarda, in questa Rivista,
2006, II, 55 ss. (spec. 64 ss.); M. SOLLINI, La pianificazione urbanistica regionale allo specchio: profili
comparativi sintetici e linee evolutive, in Riv. giur. urb., 2008, 507 ss. e M. CAVICCHI-G.A. INZAGHI-E.
MARINI, La legge per il governo del territorio della Lombardia, Bologna, 2009.
(5) Per la legge veneta, V. DOMENICHELLI, La nuova legge urbanistica della regione Veneto, in AA.VV., Poteri
regionali e urbanistica comunale, cit., 379 ss.; ID., Gli elementi caratterizzanti della legge regionale del
Veneto 23 aprile 2004 n. 11, in Nuova rass., 2006, 499 ss.; M. BREGANZE, Piani sovracomunali nella
legislazione regionale veneta: prime applicazioni, ibid., 533 ss., e ID., La nuova pianificazione urbanisticoterritoriale in Veneto e gli accordi con i privati, in Riv. giur. urb., 2005, 210 ss. (spec. 213).
(6) Su questa esperienza regionale, AA.VV., Le nuove frontiere della pianificazione urbanistica in Puglia, a
cura di G. DE GIORGI CEZZI-S. MININANNI-P.L. PORTALURI, Napoli, 2008 e P.L. PORTALURI, D'acciaio e di vetro.
Razionalismo urbanistico e regolazioni regionali: la Puglia, Napoli, 2008.
(7) Si tratta: del progetto C. 438 recante "Principi fondamentali per il governo del territorio" presentato
dagli On. Lupi, Stradella e Parodi il 29 aprile 2008; del progetto C. 329 recante "Principi fondamentali per
il governo del territorio. Delega al governo in materia di fiscalità urbanistica e immobiliare" presentato lo
stesso giorno dagli On. Mariani ed altri; del progetto C. 1794 recante "principi fondamentali in materia di
governo del territorio" presentato dall'On. Mantini il 15 ottobre 2008. I tre progetti, assegnati alla 8ª
Commissione permanente (Ambiente, Territorio, Lavori pubblici) della Camera in sede referente, sono
stati dalla medesima riuniti e risultano ancora in corso di esame nel momento in cui questo scritto viene
dato alle stampe.
(8) C. 438 parla infatti di necessità di un "primato" del Comune quale soggetto pianificatore di uno
strumento che deve "ricomprendere e coordinare" ogni disposizione dei piani territoriali e di settore; C.
329 pone il principio della tutela e la valorizzazione dell'ambiente, che evidenzia la rilevanza degli
interessi c.d. "differenziati" e la necessità di "integrare" nel governo del territorio le competenze
pubblicistiche ad essi attinenti; C. 1794 pone infine il principio della doverosa gestione delle "tutele
separate" in raccordo con gli atti di governo del territorio.
(9) Quanto agli effetti derivanti dall'esistenza di interessi pubblici "differenziati" sui poteri nei quali si
estrinseca la pianificazione urbanistica, si rinvia a V. CERULLI IRELLI, Pianificazione urbanistica e interessi
differenziati, in Riv. trim. dir. pubb., 1985, 386 ss.; F. ZEVIANI PALLOTTA, La pianificazione ambientale come
funzione di coordinamento nello Stato policentrico, in Foro amm., 1998, 2235; P. STELLA RICHTER,
L'articolazione del potere di piano, in Dir. amm., 2000, 657 ss.; A. CROSETTI, Interventi di manutenzione e
di difesa del suolo: regime vincolistico, regime autorizzativo e semplificazione amministrativa, in Riv.
giur. amb., 2003, 952 ss.; M. D'ARIENZO, L'evoluzione dei rapporti tra l'urbanistica e l'ambiente anche alla
luce del Titolo V della Costituzione, in Foro amm.-T.A.R., 2003, 2216 ss. e, più di recente, P.L. PORTALURI,
L'ambiente e i piani urbanistici, in AA.VV., Diritto dell'ambiente, a cura di G. ROSSI, Torino, 2008, 220 ss.
Sia altresì consentito rinviare a P. LOMBARDI, I profili giuridici della nozione di ambiente: aspetti
problematici, in Foro amm.-T.A.R., 2002, 779 ss. Più in generale, sui problemi connessi al riparto di
competenze in materia ambientale, si veda R. FERRARA, La materia "ambiente" nel testo di riforma del
Titolo V, in AA.VV., Problemi del federalismo, Milano, 2001, 185 ss. Infine, sul problema della risoluzione
dei conflitti tra pubbliche amministrazioni in relazione alla pluralità delle discipline settoriali costituenti il
sistema delle tutele parallele, si vedano in giurisprudenza Corte cost., 15 luglio 1985 n. 201, in Foro it.,
1988, I, 65 con nota di M. MELI; ID., 18-21 dicembre 1985 n. 359, in Cons. stato, 1985, II, 1750 e, più di
recente, T.A.R. Friuli-Venezia Giulia, 20 dicembre 1996 n. 1371, in Trib. amm. reg., 1997, I, 564.
(10) E. STICCHI DAMIANI, Disciplina del territorio cit., 159 ss.
(11) Il riferimento oggi deve intendersi fatto ovviamente all'art. 20 d. lgs. n. 267/2000.
(12) Il comma 6 dell'art. 149 dispone che restano riservate allo Stato le funzioni ed i compiti statali in
materia di beni ambientali di cui all'art. 82 d.p.r. n. 616/1977 così come modificato dalla legge 8 agosto
1985 n. 431.
Sull'art. 57 in commento, oltre ai contributi che verranno di seguito indicati, si veda quello più recente di
A. ANGIULI, Piano paesaggistico e piani ad incidenza territoriale. Un profilo ricostruttivo, in Riv. giur. urb.,
2009, 301-305.
(13) P.L. PORTALURI-M. BROCCA, L'ambiente e le pianificazioni, in AA.VV., Ambiente, attività amministrativa
e codificazione cit., 387.
Sui significati della disciplina qui descritta sia consentito rinviare anche a P. LOMBARDI, Le valenze
ambientali del piano territoriale di coordinamento provinciale: aspetti problematici, in Nuova rass., 2006,
670 ss.
(14) In questo senso, V. CERULLI IRELLI, Le prospettive della riforma urbanistica in Italia nel mutato quadro
dei rapporti tra Stato centrale e autonomie territoriali, in AA.VV., La disciplina urbanistica in Italia, a cura
di P. URBANI, Torino, 1998, 46. L'A., nel contributo Il "governo del territorio" nel nuovo assetto
costituzionale, in AA.VV., Il governo del territorio cit., 511, parla anche di "principio del confronto
procedimentale".
(15) L'espressione è di P. URBANI, Le nuove frontiere della pianificazione territoriale, in AA.VV., Presente e
futuro nella pianificazione urbanistica, a cura di F. PUGLIESE-A. FERRARI, Milano, 1999, 206. Del medesimo
Autore si veda altresì lo scritto Tutela del paesaggio: verso una disciplina negoziata tra Stato, regioni (e
autonomie locali)?, in Le regioni, 1999, 1133, ove si parla altrettanto efficacemente di "osmosi
consensuale".
(16) A tale metodo d'azione occorre guardare con favore, in quanto risponde alla necessità di limitare gli
effetti dirompenti e devastanti di quel fenomeno di obesità funzionale che caratterizza in negativo la
condizione delle relazioni tra Stato-persona, il sistema autonomistico (così R. FERRARA, Gli accordi di
programma. Potere, poteri pubblici e modelli dell'amministrazione concertata, Padova, 1993, 53-54)
nonché, si vuole qui aggiungere, le autorità deputate alla realizzazione delle c.d. tutele parallele. Il
fenomeno della moltiplicazione dei centri di potere produce infatti una "immissione di complessità" nel
sistema dei poteri pubblici, in modo tale che ogni azione successiva di riorganizzazione si deve muovere
nel segno della riduzione di quella complessità: e ciò soprattutto quando si ha a che fare con le procedure
di pianificazione, che per loro natura coinvolgono più centri e soggetti istituzionali (ancora R. FERRARA,
voce Intese, convenzioni e accordi amministrativi, in Digesto disc. pubbl., vol. VIII, Torino, 1993,
547-548).
I modelli di amministrazione consensuale che fanno leva sul modulo giuridico della previa intesa
rispondono proprio all'esigenza di attivare idonei meccanismi di raccordo procedimentale fra più soggetti
pubblici operanti a diversi livelli di governo, dando vita a forme di amministrazione integrata accomunate
dalla ricerca di una maggior efficienza dell'azione amministrativa attraverso la riduzione della complessità
del sistema: si tratta di procedure di "cooperazione funzionale" e di "coordinamento infrastrutturale" che
si dispiegano sul piano formale (come nel caso qui in esame, vogliamo aggiungere), grazie alla
mobilitazione di un modello sufficientemente tipizzato, ma che si possono sviluppare anche sul terreno
dell'informalità o di un minor formalismo giuridico (così R. FERRARA, Gli accordi di programma cit., 28-29
cui si rinvia anche per la disamina delle problematiche connesse all'inquadramento giuridico delle varie
figure di intesa e degli strumenti di raccordo tra le pubbliche amministrazioni , ID., L'accordo... e gli
accordi di programma. Spunti sulla c.d. amministrazione consensuale, in Foro it., 2002, III, 136 ss. e ID.,
Introduzione al diritto amministrativo, Roma-Bari, 2005, 180-181).
(17) Così P. URBANI, Urbanistica consensuale cit., 139, che richiama nuovamente il concetto di
assorbimento consensuale, a sua volta ripreso anche da E. STICCHI DAMIANI, Disciplina del territorio cit.,
163. Si vedano anche le osservazioni di G. CAIA, La gestione dell'ambiente: principi di semplificazione e di
coordinamento, in AA.VV., Ambiente e diritto, vol. I, a cura di S. GRASSI-M. CECCHETTI-A. ANDRONIO, ed. Leo
S. Olschki, 1999, 247 ss.
(18) P. URBANI-S. CIVITARESE MATTEUCCI, Diritto urbanistico. Organizzazione e rapporti, Torino, 2004, 286.
(19) L'espressione è di A. CROSETTI, Beni forestali e beni ambientali: per un superamento delle tutele
parallele, in AA.VV., Agricoltura e diritto. Scritti in onore di Emilio Romagnoli, vol. I, Milano, 2000, 477.
(20) Si ricordi che anche Cons. Stato, Sez. V, 13 marzo 2002 n. 1501 (in questa Rivista, I, 2002, 1096)
ha messo in evidenzia come il piano territoriale di coordinamento per certi aspetti non si pone quale mero
strumento urbanistico, ma come elemento pianificatorio atto a rimuovere o, per quanto interessa, ad
impedire che in determinate aree possano essere svolte attività non consentite in quanto pericolose per
l'ambiente e con conseguenze potenzialmente pregiudizievoli anche per le locali popolazioni.
(21) A. CHIERICHETTI, La concertazione nella normativa del piano territoriale di coordinamento, in
particolare in Lombardia, in AA.VV., Livelli e contenuti della pianificazione territoriale, a cura di E. FERRARIN. SAITTA-A. TIGANO, Milano, 2001, 124 ss.
Sulla necessità di azionare meccanismi di partecipazione attiva al procedimento di formazione degli
strumenti di pianificazione, alla ricerca del consenso dei soggetti coinvolti e del coordinamento dei
molteplici interessi pubblici insistenti sul medesimo territorio, si veda anche E. BENEDETTI, Osservazioni in
tema di utilizzazione edilizia di terreni soggetti a vincolo idrogeologico, in Giur. agr. it., 1972, 396; S.
MASINI, Ambiente, agricoltura e territorio, Milano, 2000, 169-170 e P. STELLA RICHTER, Il piano territoriale
di coordinamento provinciale e le prospettive di riforma della legislazione urbanistica, in Riv. giur. urb.,
2001, 94. Più in particolare, quanto alla necessità di un rapporto di collaborazione che soddisfi l'esigenza
di condivisione da parte dei pubblici poteri delle responsabilità ambientali, si legga S. MASINI, op. loc. cit.,
266, il quale indica la concertazione ambientale tra amministrazione pubblica e realtà produttive quale
strumento capace di stimolare efficienza nell'utilizzo delle risorse. Ancora, quanto alla necessità che la
pianificazione rappresenti un quadro di convergenze delle politiche ambientali, R. GAMBINO, La tutela
ambientale nella gestione del territorio: la pianificazione tra conservazione, innovazione e sviluppo, in
AA.VV., Diritto pubblico dell'ambiente. Diritto etica politica, a cura di V. DOMENICHELLI-N. OLIVETTI RASON-C.
POLI, Padova, 1995, 154.
(22) P. URBANI-S. CIVITARESE MATTEUCCI, Diritto urbanistico, cit., 286-287.
(23) Condivide questa impostazione L. DE LUCIA, Pianificazione territoriale d'area vasta e pluralismo
amministrativo, in Riv. giur. urb., 2003, 295.
(24) Così ancora P. URBANI-S. CIVITARESE MATTEUCCI, Diritto urbanistico cit., 286-287.
(25) P. FALCONE, Pianificazione territoriale di coordinamento e pianificazione di settore, in Urb. e app.,
2000, 8.
(26) In tal senso, P. SANTINELLO, La pianificazione territoriale intermedia fra piani urbanistici e piani di
settore, Milano, 2002, 151-152.
(27) Ci si riferisce all'opinione di P. STELLA RICHTER, I piani di bacino, in AA.VV., Pianificazioni territoriali e
tutela dell'ambiente, a cura di F. BASSI-L. MAZZAROLLI, Torino, 2000, 31. l'A. rileva che il legislatore
delegato, dopo aver puntualizzato all'art. 52, co. 1, che hanno rilievo nazionale i compiti relativi alle linee
fondamentali dell'assetto del territorio nazionale, con riferimento anche alla difesa del suolo, ha poi
introdotto attraverso l'art. 57 una disciplina dei rapporti tra piano territoriale di coordinamento provinciale
e piani di settore che definisce singolare, in quanto al piano provinciale è attribuita piena efficacia
dispositiva solo nel caso di adeguamento alla volontà di tutte le amministrazioni, anche statali,
competenti; il dubbio di eccesso di delega si anniderebbe nella parte in cui viene lasciato alle
amministrazioni statali un così ampio potere, rispetto ad una legge che riserva alle stesse soltanto i
compiti di rilievo nazionale.
(28) R. FERRARA, Pianificazione territoriale e tutela ambientale, in AA.VV., Livelli e contenuti della
pianificazione territoriale, cit., 183 ss.
(29) R. FERRARA, Pianificazione territoriale, cit., 185. Del medesimo Autore si vedano anche le osservazioni
contenute nello scritto Moduli e strumenti dell'amministrazione convenzionale e concertata nel governo
locale (in Dir. amm., 1994, 373 ss., spec. 388-389), secondo le quali la più marcata formalizzazione dei
modelli di intesa tra pubbliche amministrazioni, se induce "rigidità", gioca peraltro un fondamentale
"ruolo garantistico" laddove le relazioni giuridiche e fattuali tra soggetti dell'ordinamento siano in qualche
modo rette da un principio di sovraordinazione in grado di limitare la sfera di autonomia dei partners
meno forti dell'intesa.
(30) Nel senso della sicura sovraordinazione dei piani di bacino rispetto a quelli territoriali di
coordinamento provinciali, G. GARZIA, Vincoli di piano e misure di salvaguardia della difesa del suolo, in
questa Rivista, 1998, II, 41-42. L'A. osserva infatti che, per quanto sia la Regione a dover dare
attuazione alle previsioni del piano di bacino, dal disposto dell'art. 20 d. lgs. 267/2000 si deduce la
necessaria subordinazione dei piani provinciali agli atti di pianificazione e programmazione regionali:
"pertanto, l'obbligatorio adeguamento alle prescrizioni del piano di bacino da parte dei piani regionali
determinerà anche se indirettamente i propri effetti anche in relazione ai piani provinciali".
(31) G. GARZIA, Difesa del suolo e vincoli di tutela, Milano, 2003, 72.
(32) Per un approfondimento di tali ultimi aspetti, P. DELL'ANNO, La tutela delle acque dall'inquinamento.
Commento al d. lgs. 11 maggio 1999 n. 152, Rimini, 2000, 46.
(33) Così P. URBANI, Urbanistica consensuale, cit., 140.
(34) Sotto questi ultimi punti di vista si legga del resto P. URBANI, Gli strumenti della pianificazione
territoriale e ambientale, in www.giustamm.it, il quale parla di un fallimento dell'art. 57 in commento a
causa della inerzia tenuta dalle amministrazioni e delle numerose difficoltà di ordine tecnico.
(35) Secondo l'art. 2 della normativa toscana, poi, le province, ai fini della formazione o revisione del
p.t.c.p., posso procedere anche attivando forme di collaborazione con le Autorità di bacino e con i Comuni
competenti per addivenire ad un aggiornamento congiunto dei rispettivi quadri conoscitivi.
(36) Per un commento ai singoli articoli del decreto che verranno in seguito citati si rinvia fin da subito a
L. COSTATO-F. PELLIZZER, Commentario breve al codice dell'ambiente (d. lgs. 3 aprile 2006 n. 152), Padova,
2007, 185 ss. e A. CAMARDA, art. 65 [e ss.], in AA.VV., Codice dell'ambiente. Commento al d. lgs. 3 aprile
2006 n. 152, aggiornato alla legge 6 giugno 2008 n. 101, Milano, 2008, 637 ss. Più in generale, sui
contenuti della disciplina prevista dall'attuale testo unico ambientale in materia di difesa del suolo, i
riferimenti sono ad A. CROSETTI, Le tutele differenziate, in A. CROSETTI-R. FERRARA-F. FRACCHIA-N. OLIVETTI
RASON, Diritto dell'ambiente, Roma-Bari, 2008, 529 ss.; ID., Difesa del suolo, voce del Dizionario di diritto
pubblico, a cura di S. CASSESE, vol. III, Milano, 2006, 1838 ss., P. DELL'ANNO, Elementi di diritto
ambientale, Padova, 2008, 11 ss. e quanto soprattutto al riparto delle funzioni amministrative ed alle
principali problematiche che oggi sono in discussione sul decreto del 2006 ad AA.VV., Diritto
dell'ambiente, a cura di G. ROSSI cit., 286 ss.
(37) Sul tema, si legga M. D'ARIENZO, L'evoluzione dei rapporti tra l'urbanistica e l'ambiente anche alla
luce della riforma del titolo V della Costituzione, in Foro amm.-T.A.R., 2003, 2216 ss.
(38) F. ZEVIANI PALLOTTA, Le funzioni di coordinamento nei nuovi strumenti di prevenzione e risanamento
ambientale, in questa Rivista, 1990, II, 165. Sulle problematiche affrontate in questa sede si rinvia altresì
a G.G. BUONOMO, La pianificazione territoriale dopo la legge sulla difesa dei suoli e quella sulle autonomia
locali, in Riv. giur. amb., 1991, 449 ss. e L. DE ANGELIS, Difesa del suolo: la l. n. 183/89 dopo un lustro
dalla sua emanazione, in Ambiente, 1996, 413-414.
(39) In Foro it., 1990, I, 1778, con nota di E. ROSSI. L'esposizione dei fatti si può consultare per esteso in
Giur. cost., 1990, 359 ss.
(40) Sul punto si vedano le osservazioni di G. GARZIA, Vincoli di piano e misure di salvaguardia cit., 45 e
di G. SCIULLO, Pianificazioni ambientali e pianificazioni territoriali nello Stato delle autonomie, in AA.VV.,
Pianificazioni territoriali e tutela dell'ambiente, a cura di F. BASSI-L. MAZZAROLLI cit., 27-28.
(41) P.M. PIACENTINI, Aspetti della funzionalità amministrativa nella nuova legge sulla difesa del suolo, in
Riv. trim. appalti, 1989, 892.
(42) L'espressione è di L. RAINALDI, I piani di bacino nella previsione della l. n. 183/1989, Milano, 1992,
74.
(43) Sull'attitudine del piano di bacino a costituire sintesi del coordinamento degli interessi pubblici
riferibili alla materia ambientale, si veda Trib. sup. acque, 2 febbraio 1995 n. 13 (in Foro amm., 1995,
1184, con nota di C. MORRONE, Competenze e strumenti di coordinamento delle competenze in materia di
pianificazione ambientale e tutela del suolo: i piani di bacino ex l. 18 maggio 1989 n. 183).
(44) In questo senso, tra gli altri, F. ZEVIANI PALLOTTA, Le funzioni di coordinamento cit., 170-171 e A.
ABRAMI, Strutture amministrative e poteri di programmazione nella recente legislazione di difesa del
suolo, in Riv. dir. agr., 1992, 2, 331.
(45) Così L. RAINALDI, I piani di bacino cit., 33. Sulla questione, si veda anche P.M. PIACENTINI, Aspetti della
funzionalità amministrativa cit., 893 e A. ABRAMI, Strutture amministrative cit., 338.
(46) Ancora L. RAINALDI, I piani di bacino, cit., 34, la quale precisa altresì che le espressioni "attuazione" e
"adeguamento" utilizzate dalla legge hanno probabilmente due significati diversi: "l'attuazione è in
funzione di un solo fine, che è quello di attuare; mentre l'adeguamento, senza essere in contrasto con il
fine perseguito attraverso le prescrizioni del piano di bacino, è in funzione anche degli interessi
regionali" (ivi, 37).
(47) In tal senso P. DELL'ANNO, Elementi di diritto ambientale, cit., 10-11.
Sulla proroga delle Autorità di bacino di cui alla l. 183/1989 nelle more della costituzione dei nuovi
distretti idrografici e della eventuale revisione delle relativa disciplina legislativa si veda anche l'art. 1 del
d.-l. 30 dicembre 2008 n. 208, recante Misure straordinarie in materia di risorse idriche e di protezione
dell'ambiente, convertito nella legge 27 febbraio 2009 n. 13.
A conferma della situazione "magmatica" in cui sta vivendo il sistema della Autorità di bacino si può
leggere la recente l.r. Friuli-Venezia Giulia n. 6 del 12 marzo 2009, recante Disposizioni urgenti in materia
di utorità di bacino regionale. La legge prevede che alla scadenza dell'incarico del segretario generale
dell'Autorità di bacino regionale venga nominato un commissario con il compito di definire il riordino
organizzativo dell'autorità, in armonia con il riassetto delle Autorità di bacino nazionali.
(48) In questa situazione, la direzione verso la quale le autorità si stanno muovendo in materia di difesa
del suolo è quella volta all'ottemperanza della Direttiva quadro sulle acque 2000/60/CE, nella parte in cui
prevede che entro il 2015 gli Stati membri dell'Unione raggiungano un buono stato ambientale per tutti i
corpi idrici, individuando il "piano di gestione" come lo strumento conoscitivo, strategico ed operativo
attraverso cui i medesimi devono applicare i contenuti del provvedimento a livello locale. In attesa della
messa a regime dei nuovi distretti idrografici previsti dal testo unico ambientale, la già citata legge 27
febbraio 2009 n. 13 ha attribuito ai comitati istituzionali delle autorità di bacino di rilievo nazionale il
compito di adottare i suddetti piani di gestione, dovendo le autorità procedere al coordinamento di
contenuti ed obiettivi di questi strumenti all'interno del distretto idrografico di rispettiva competenza.
(49) Per alcune notazioni di ordine generale sul PAI, si vedano i contributi di A. CROSETTI, Interventi di
manutenzione, cit., 946-948, ID., Suolo (difesa del) cit., ed E. MARTINETTI, Pianificazione urbanistica, cit.,
290 ss.
(50) Aggiunge il comma 11 che "i contenuti dell'intesa prevista dal richiamato art. 57 definiscono gli
approfondimenti di natura idraulica e geomorfologica relativi alle problematiche di sicurezza idraulica e di
stabilità dei versanti trattate dal PAI, coordinate con gli aspetti ambientali e paesistici propri del piano
territoriale di coordinamento provinciale, al fine di realizzare un sistema di tutela sul territorio non
inferiore a quello del PAI, basato su analisi territoriali non meno aggiornate e non meno di dettaglio.
L'adeguamento degli strumenti urbanistici è effettuato nei riguardi dello strumento provinciale per il quale
sia stata raggiunta l'intesa di cui al medesimo art. 57".
(51) Del resto, nel senso che il processo si adeguamento degli strumenti urbanistici alla pianificazione di
bacino non può essere descritto in termini di stretta sovraordinazione gerarchica di una normativa
rispetto all'altra, T.A.R. Valle d'Aosta, 20 luglio 2004 n. 93 (in Foro amm.-T.A.R., 2004, 1971).
Archivio selezionato: Dottrina
Le aree agricole tra disciplina urbanistica e regolamentazione dell'attività economica
Riv. giur. edilizia 2010, 01, 29
PAOLO URBANI
SOMMARIO: 1. Inquadramento del tema. 2. Urbanistica e zone agricole. 3. Legislazione regionale e
pianificazione di area vasta. 4. Programmazione dell'attività agricola e scelte urbanistiche. 5. Disciplina
urbanistica e libertà d'iniziativa economica: il limite dei rapporti. 6. Alla ricerca dell'interesse pubblico
differenziato e della protezione "rinforzata" delle aree rurali. 7. Lo spazio agricolo come bene
paesaggistico.
1. Inquadramento del tema.
La questione delle aree agricole e già il termine "agricole" è foriero di differenti interpretazioni così come
il termine "aree" rispetto a "zone" è oggetto di disciplina giuridica cui si intrecciano norme di azione e
(10) Già PREDIERI nel suo Pianficazione e costituzione, Milano, 1963, aveva osservato che caratteristica
essenziale della pianificazione urbanistica è quella di "affrontare problemi con caratteristiche di globalità,
non di settorialità".
(11) P. STELLA RICHTER, Profili funzionali dell'urbanistica, Milano, 1984.
(12) G. ORSONI, Disciplina urbanistica, Padova, 1988.
(13) MATTEI, La proprietà immobiliare, Torino, 1995.
(14) P. STELLA RICHTER, I principi di diritto urbanistico, Milano, 2006 (II ed.).
Archivio selezionato: Note
LA DEMANIALITÀ IDRICA E LA CATEGORIA RESIDUALE DELLE ACQUE PRIVATE (*)
Giur. merito 2008, 7-8, 2046
Filippo Cazzagon
Avvocato in Mestre-Venezia
SOMMARIO: 1. La contrapposizione tra acque pubbliche e acque private come tradizionale summa divisio in
materia di acque. - 2. Il concetto di acque pubbliche dal t.u. n. 1775 del 1933 al d.lg. n. 152 del 2006. 3. Le ipotesi residuali di acque private dopo la l. n. 36 del 1994: A) la raccolta di acque piovane al
servizio del fondo e B) l'utilizzo di acque sotterranee per usi domestici. - 4. La tesi dell'efficacia non
retroattiva della demanializzazione dei beni idrici: aspetti problematici ed esame critico. - 5. La natura
pubblica o privata delle reti idriche.
1. LA CONTRAPPOSIZIONE TRA ACQUE PUBBLICHE E ACQUE PRIVATE COME TRADIZIONALE
SUMMA DIVISIO IN MATERIA DI ACQUE
Uno degli aspetti notoriamente problematici posti dalla l. 5 gennaio 1994, n. 36 atteneva all'impatto della
nuova definizione di acque pubbliche con la tradizionale e fondamentale distinzione tra acque pubbliche
ed acque private.
Invero, le questioni sulla configurabilità di acque private nel nostro sistema legislativo sono relativamente
attuali, posto che lo sviluppo della disciplina giuridica delle acque pubbliche aveva già mostrato la
progressiva tendenza alla riduzione, se non addirittura alla eliminazione delle acque private (2). Tanto
che, anche prima della l. n. 36 del 1994, era emerso il dubbio se nel nostro ordinamento giuridico ne
potesse ancora essere riconosciuta l'esistenza.
Le discussioni ebbero, infatti, origine sin dalla pubblicazione del Codice civile del 1865, il quale ripudiando il criterio della navigabilità e attitudine ai trasporti di epoca medioevale ed accolto dal Code
Napoleon (art. 538) - classificava, sulle tracce del Codice albertino del 1837 (art. 420), tra i beni
appartenenti al demanio pubblico «i fiumi e torrenti», mentre la l. 20 marzo 1865, n. 2248 all. F, nel
titolo III, c. I («Dei fiumi, torrenti, laghi, canali, rivi e colatori naturali») si riferiva anche ai «minori corsi
naturali di acque pubbliche, distinti dai fiumi e torrenti colla denominazione di fossati, rivi e colatori
pubblici» (artt. 91 ss.).
L'apparente antinomia delle disposizioni del Codice civile e della legge sui lavori pubblici del 1865 aveva
consentito agli interpreti di schierarsi tanto a favore di una esegesi privatistica (in virtù della quale le
acque diverse da fiumi e torrenti dovevano considerarsi private), quanto a favore di una esegesi
pubblicistica o demanialistica (secondo cui anche i corsi minori rientravano nel demanio), ed era prevalsa
alla fine una soluzione di compromesso fondata sul criterio della idoneità dei corsi minori a soddisfare
interessi generali.
Ma le incertezze continuarono anche dopo l'entrata in vigore del testo unico n. 1775 del 1933, il quale,
recependo tale criterio, definiva le acque pubbliche in termini di attitudine ad usi di pubblico generale
interesse. Si trattava di una formula estremamente ampia, soprattutto per l'estensione del concetto di
«attitudine ad usi di pubblico generale interesse» che dottrina e giurisprudenza maggioritaria intesero
come idoneità anche solo virtuale, indipendente da un'attuale destinazione ad usi pubblici (diretti o
indiretti).
Tale interpretazione aveva indotto alcuni studiosi a sostenere che già in base al t.u. del 1933 non si
sarebbe più potuto parlare di acque private. Secondo questa tesi, le norme del Codice civile e delle altre
leggi vigenti attributive ai privati di diritti sopra determinate acque, avrebbero riguardato non la
proprietà, bensì la mera utilizzazione delle stesse. Si era addirittura paventato che la tradizionale
distinzione tra acque pubbliche ed acque private dovesse essere sostituita con quella fra acque pubbliche
ed acque non pubbliche, ove alla demanialità delle prime si sarebbe contrapposta la patrimonialità
(indisponibile) delle seconde (3).
Tuttavia, la dottrina dominante ha mantenuto l'indirizzo opposto, ammettendo l'esistenza di acque
private, come categoria «a rischio» (4), ma comunque distinta da quella delle acque pubbliche (5).
2. IL CONCETTO DI ACQUE PUBBLICHE DAL T.U. N. 1775 DEL 1933 AL D.LG. N. 152 DEL 2006
Con la promulgazione della legge Galli il legislatore è intervenuto in modo dirompente sul sistema delle
acque, affrontando la tematica sotto una duplice prospettiva: quella dell'appartenenza, riservandola in via
necessaria allo Stato (art. 1) e quella della fruizione, individuando un insieme di usi di pubblico interesse,
assoggettati ad un complesso regime amministrativo che dovrebbe privilegiare il «consumo umano» (art.
2), pur largamente inteso, e, quanto agli altri usi produttivi, provvedere ad una scala di priorità tra usi
agricoli (art. 28) e usi industriali (art. 29).
L'aspetto innovativo di questa riforma consisteva nell'aver statuito la pubblicità di tutte, indistintamente,
le acque, a prescindere dalla cennata attitudine ad usi di pubblico generale interesse. La ratio era
ascrivibile a ragioni di carattere strettamente ambientale: la finalità di pubblico generale interesse
coincideva, infatti, con la ridondante esigenza di salvaguardare le «aspettative ed i diritti delle
generazioni future a fruire di un integro patrimonio ambientale» (6)(7).
Si trattava di una correlazione (acqua-ambiente-demanio) che - malgrado la contraria opinione della
Corte costituzionale - non appariva e non appare, tuttora, priva di aspetti di irragionevolezza, considerato
che la finalità di tutela del patrimonio idrico è riferibile all'«acqua» intesa come risorsa (ovvero come
bene primario della vita dell'uomo) da utilizzare con parsimonia e secondo criteri di solidarietà, mentre
l'appartenenza pubblica è configurabile in ordine al diverso concetto di «acque» costituite da beni
immobili (art. 812 c.c.) composti da una massa d'acqua racchiusa in un alveo (fiumi, laghi, torrenti,
stagni, etc.) (8).
Siffatta disciplina è stata, in seguito, affinata dal d.P.R. 18 febbraio 1999, n. 238 (emanato in attuazione
della legge Galli e tuttora in vigore) a mente del quale «Appartengono allo Stato e fanno parte del
demanio pubblico tutte le acque sotterranee e le acque superficiali, anche raccolte in invasi o
cisterne» [comma 1] mentre vi rimangono escluse le «acque piovane non ancora convogliate in un corso
d'acqua o non ancora raccolte in invasi e cisterne» [comma 2] (9).
Da ultimo, il d.lg. 3 aprile 2006, n. 152 (abrogativo della legge Galli) ha stabilito, all'art. 144, che «Tutte
le acque superficiali e sotterranee, ancorché non estratte dal sottosuolo, appartengono al demanio dello
Stato».
Quanto si è rilevato in ordine alle finalità ed alle prescrizioni della l. n. 36 del 1994 va, quindi, ribadito e
confermato anche per il codice dell'ambiente.
3. LE IPOTESI RESIDUALI DI ACQUE PRIVATE DOPO LA L. N. 36 DEL 1994: A) LA RACCOLTA DI
ACQUE PIOVANE AL SERVIZIO DEL FONDO E B) L'UTILIZZO DI ACQUE SOTTERRANEE PER USI
DOMESTICI
La pubblicizzazione integrale delle risorse idriche sembrerebbe aver definitivamente posto la parola fine
sulla sopravvivenza di acque private.
Ma non è esattamente così.
Come è noto la disciplina codicistica è contenuta nel Libro terzo, Titolo II, Sezione IX «Delle acque» agli
artt. 909-921 suddivisibili in tre gruppi: il primo (artt. 909-912 e 918-921) riguarda l'uso delle acque; il
secondo (artt. 913 e 914) lo scolo e il prosciugamento dei terreni; il terzo (artt. 915-917) la difesa contro
le acque fluenti.
Ora, l'art. 2 d.P.R. 238 del 1999 ha disposto l'espressa abrogazione dell'art. 910 c.c. («Uso delle acque
che limitano o attraversano il fondo»).
Sono, invece, rimaste in vita le altre norme del Codice civile che si occupano di uso delle acque ovvero
l'art. 909 («Diritto sulle acque esistenti nel fondo»), l'art. 911 («Apertura di nuove sorgenti e altre
opere») e l'art. 912 («Conciliazione di opposti interessi»).
Non appare sostenibile la tesi dell'implicita abrogazione dell'intera Sezione IX del Capo II del Titolo II del
Codice civile per la semplice ragione che il legislatore là dove ha voluto abrogare l'ha fatto espressamente
(ubi lex voluit dixit) e per giunta identificando nel regolamento governativo di cui all'art. 17 comma 2 l. n.
400 del 1988 lo strumento preordinato a individuare «le disposizioni normative incompatibili con la
presente legge» (art. 32 l. n. 36 del 1994).
In ogni caso, le richiamate disposizioni del Codice civile appaiono compatibili con il regime
panpubblicistico delle acque (10).
Ai sensi dell'art. 909 c.c. il proprietario del suolo ha diritto di utilizzare le acque in esso esistenti «salve le
disposizioni delle leggi speciali per le acque pubbliche per le acque sotterranee».
L'espressione «acque esistenti nel fondo» già in passato - prima cioè della l. n. 36/94 - veniva intesa
ricomprendendovi: a) le sorgenti che si esauriscono in un fondo privato; b) i corsi minori (torrenti, rivi,
etc.); c) i laghi e stagni non idonei ad uso pubblico; d) le acque non correnti; e) i corsi d'acqua artificiali
che scorrono non naturalmente; f) le acque sotterranee idonee solo per uso domestico o per irrigazione
del fondo; g) i canali di derivazione appartenenti a privati; h) le raccolte di acque piovane.
È un dato di fatto che, nell'attuale sistema normativo, molte di queste acque sono divenute pubbliche (si
pensi alle sorgenti, ai corsi minori, ai laghi e stagni, alle acque correnti, etc.).
Ciò limita l'operatività della norma codicistica, ma non esclude in toto l'ammissibilità di «acque esistenti
nel fondo».
Il rinvio alle disposizioni vigenti in materia di acque pubbliche e di acque sotterranee permette, invero, di
delimitare il campo di applicazione dell'art. 909 c.c. e di definire i margini del diritto d'uso spettante al
proprietario del fondo.
Dal necessario coordinamento della disciplina privatistica e di quella pubblicistica si desume che la
categoria delle «acque esistenti nel fondo» liberamente utilizzabili da parte del proprietario (o dell'avente
titolo) è limitata a due ipotesi.
(A) La prima è costituita dalla raccolta di acque piovane in invasi e cisterne di cui agli art- 28 l. 36/94 e
167 d.lg. n. 152 del 2006. Tale raccolta - precisa l'art. 167 d.lg. n. 152 del 2006 - quando è «al servizio
di fondi agricoli o di singoli edifici è libera» (comma 3) «non richiede licenza o concessione di derivazione
di acque» e «la realizzazione dei relativi manufatti è regolata dalle leggi in materia di edilizia, di
costruzioni nelle zone sismiche, di dighe e sbarramenti e dalle altre leggi speciali» (comma 4). Il fatto
che, in questi casi, il legislatore non richieda la licenza o concessione di derivazione sembra, in effetti,
postularne l'appartenenza al privato, analogamente a quanto accade con le concessioni di acqua potabile
o di derivazione a scopo irriguo che attribuiscono al concessionario un effettivo diritto di proprietà
sull'acqua concessa. L'unica differenza è che, mentre nel caso della concessione la proprietà (e con essa il
diritto di vendere l'acqua ex art. 40 T.U. n. 1775 del 1933) è conseguenza del provvedimento
amministrativo, nel caso previsto dall'art. 167 d.lg. n. 152 del 2006 il diritto trova la sua fonte
direttamente nella norma di legge.
(B) La seconda ipotesi è, invece, rappresentata dalle acque sotterranee di cui all'art. 93 t.u. n. 1775 del
1933. La loro estrazione ed utilizzazione per fini domestici anche con mezzi meccanici continua, infatti, ad
essere libera, non essendo sottoposta ad autorizzazione neppure per la ricerca. L'art. 28 comma 5 l. n. 36
del 1994 e del pari l'art. 167 comma 5 d.lg. n. 152 del 2006 prevedono che «L'utilizzazione delle acque
sotterranee per gli usi domestici come definiti dall'art. 93 comma 2 del testo unico delle disposizioni di
legge sulle acque e sugli impianti elettrici (...) resta disciplinata dalla medesima disposizione, purché non
comprometta l'equilibrio del bilancio idrico (...)». Le acque fluenti nel sottosuolo, quindi, una volta
estratte rappresentano una pars fundi ed appartengono al proprietario. In questi casi, la facoltà di
estrarre le acque dal sottosuolo è espressamente condizionata all'osservanza delle «distanze e cautele
previste dalla legge». Ora le prime si ricavano dall'art. 889 («Distanze per pozzi, cisterne, fosse e tubi»)
e dall'art. 891 («Distanze per canali e fossi») mentre le seconde si desumono dall'art. 911 («Apertura di
nuove sorgenti e altre opere»). Per cui chi intende aprire sorgenti, stabilire capi o aste di fonte e in
genere eseguire opere per estrarre acque pubbliche dal sottosuolo (così come costruire canali o
acquedotti, oppure scavarne, approfondirne o allargarne il letto, aumentarne o diminuirne il pendio o
variarne la forma), oltre a conseguire il permesso della pubblica amministrazione e rispettare le distanze
di cui agli artt. 889 e 891 c.c., dovrà eseguire le opere che siano necessarie per non recare pregiudizio ai
fondi altrui, nonché alle sorgenti, capi o aste di fonte, canali o acquedotti preesistenti e destinati
all'irrigazione dei terreni o agli usi domestici o industriali.
Queste due fattispecie (acque piovane ed acque sotterranee) sono - a parere di chi scrive - le uniche
ipotesi di acque private ammissibili dall'attuale disciplina.
È vero che il diritto d'uso da parte del soggetto privato appare ancora strettamente correlato al rapporto
tra lo stesso ed il terreno nel quale esiste l'acqua (nel senso che la facoltà di utilizzare le «acque esistenti
nel fondo» è riconducibile al diritto di proprietà del suolo che sembrerebbe inglobare anche la facoltà di
prelevare le quantità d'acqua necessarie per gli scopi domestici o del singolo fondo).
Ma è altrettanto vero che, una volta esercitata tale facoltà, il proprietario del fondo si appropria della
quantità d'acqua consumata per usi irrigui o potabili, senza che ciò si ponga in conflitto con il principio
della necessaria appartenenza pubblica delle acque superficiali e sotterranee. Come ha, invero, rilevato la
dottrina «altro è il regime al quale è sottoposto il bene in quanto categoria, altro è il regime delle singole
parti del bene» (11) ben potendosi ammettere che il legislatore consenta l'acquisto della proprietà da
parte del privato su singole parti del bene appartenente alla complessa categoria demaniale (12).
Non appare, quindi, condivisibile l'impostazione seguita dal Tribunale di Sant'An gelo nella sentenza n.
114 del 2008 secondo cui l'art. 909 c.c. andrebbe «aggiunto» alle norme che permettono la raccolta di
acque piovane e l'utilizzazione di acque sotterranee.
A ben vedere, l'art. 909 c.c. non contiene una ipotesi ulteriore di acque private, ma rappresenta la
categoria tipica di acque private (o che dir si voglia «non pubbliche») alla quale vanno armonizzate e
ricondotte le previsioni specifiche di cui sopra (13).
Alle suddette acque risultano, perciò, ancora applicabili non solo gli artt. 909 e 911 c.c., ma anche
l'istituto conciliativo previsto dall'art. 912 c.c.
Ed invero, le controversie insorte tra proprietari confinanti in merito all'estrazione di acque sotterranee
per usi domestici e/o alla raccolta ed utilizzo delle acque piovane al servizio di fondi agricoli o di singoli
edifici potrebbero essere eventualmente risolte dal giudice attraverso una conciliazione degli opposti
interessi.
Da questo punto di vista, si può certamente confermare che la tradizionale contrapposizione tra acque
pubbliche ed acque private, benché fortemente ridimensionata e ridotta ai minimi termini, non è del tutto
scomparsa, nemmeno dopo le più recenti riforme normative.
4. LA TESI DELL'EFFICACIA NON RETROATTIVA DELLA DEMANIALIZZAZIONE DEI BENI IDRICI:
ASPETTI PROBLEMATICI ED ESAME CRITICO
V'è da chiedersi, peraltro, se le riferite categorie di acque private siano realmente le uniche ipotizzabili o
se ve siano delle altre.
La domanda sorge spontanea se solo si esamini la già richiamata sentenza del Tribunale di Sant'Angelo
dei Lombardi n. 114 del 2008.
Il giudice irpino ha statuito che la declaratoria di pubblicità idrica posta dalla legge Galli non avrebbe
effetto retroattivo, ragion per cui non avrebbe travolto i diritti sulle acque già acquisiti dai privati ante
riforma.
A sostegno di tale esegesi vengono richiamati i precedenti giurisprudenziali che negano efficacia
retroattiva alla demanializzazione impressa dalla l. n. 37 del 1994 (14) Precedenti le cui massime sono
state estese dall'organo giudicante alle norme della legge Galli con il conseguente riconoscimento di
acque rimaste in regime di proprietà privata.
È evidente che, in questo caso, la categoria delle acque private si dilaterebbe in modo significativo
rispetto al numerus clausus riconosciuto in precedenza. Dovrebbe ro, infatti, considerarsi private non solo
le acque piovane al servizio del fondo e le acque sotterranee destinate ad usi domestici, ma anche tutte
quelle acque che anteriormente all'entrata in vigore della legge Galli non erano iscritte negli elenchi in
quanto prive della attitudine ad usi di pubblico generale interesse di cui all'art. 1 t.u. 1775 del 1933.
In altre parole, la irretroattività della l. n. 36 del 1994 consentirebbe ai privati di restare proprietari di
sorgenti, piccoli laghi, stagni, corsi minori, etc. oltre che di raccolte di acque pluviali e sotterranee ad usi
domestici.
La tesi, però, non convince pienamente.
V'è, anzitutto, da rilevare che l'ambito oggettivo della legge n. 36/94 non coincide con quello della l. n.
37 del 1994. Quest'ultima - come precisa il suo stesso intitolato («Norme per la tutela ambientale delle
aree demaniali dei fiumi, dei torrenti, dei laghi e delle altre acque pubbliche») - non riguarda
direttamente le acque superficiali e sotterranee, ma le pertinenze idrauliche ovvero i terreni («aree») che
fungono da alveo o da letto di fiumi, laghi, torrenti ed altri corsi d'acqua assoggettati al regime
demaniale.
La l. n. 37 del 1994 ha sottratto in molti casi all'appropriazione privata le aree fluviali o di pertinenza
fluviale in favore della demanialità delle stesse. Ha, invero, novellato gli artt. 942, 946 e 947 c.c.
escludendo la sdemanializzazione tacita e qualificando come demaniali anche le «aree» che dovessero
perdere la loro originaria funzione pubblica in relazione al corso del fiume (15).
Malgrado, quindi, si tratti di beni afferenti all'ampia categoria del demanio idrico non si tratta di
fattispecie assimilabili.
Non è detto, quindi, che si possa estendere tout court alle acque della legge Galli, il principio
giurisprudenziale di salvezza dei diritti quesiti sulle «aree» di cui alla l. n. 37 del 1994.
Ma anche a prescindere da questo rilievo, è sufficiente rimanere entro i confini della giurisprudenza per
appurate che la tesi del Tribunale di Sant'Angelo si scontra con le pronunce intervenute nel tempo proprio
sul tema della retroattività della pubblicizzazione idrica.
L'orientamento incontrastato dei giudici, infatti, è sempre stato di segno diametralmente opposto rispetto
a quanto or ora statuito dalla sentenza n. 114 del 2008.
Fin dagli anni '60 si afferma che la declaratoria di pubblicità determinerebbe una trasformazione oggettiva
dell'acqua in virtù della quale la medesima, per ciò stesso, perderebbe la sua caratteristica di essere
suscettibile di proprietà privata, divenendo un bene demaniale con conseguente caducazione dei diritti di
proprietà o di altri diritti precedentemente costituiti a favore di terzi (16).
Per giustificare la legittimità costituzionale di simile meccanismo, dottrina e giurisprudenza hanno
invocato l'istituto giuridico della riserva che comporterebbe un'acquisizione a titolo originario in favore
dello Stato non accompagnata da alcun indennizzo (17) Ciò sulla scorta del principio - da tempo
affermato dalla Corte costituzionale - per cui «la legge può non disporre indennizzi quando i modi e i
limiti che essa segna, nell'ambito della garanzia accordata dalla Costituzione, attengano al regime di
appartenenza o ai modi di godimento dei beni in generale o di intere categorie di beni» (18). Principio
ribadito anche in occasione di due pronunce (n. 259 e n. 419 del 1996) relative alla legittimità
costituzionale dell'art. 1 della stessa legge Galli (19).
È evidente che, applicando questi canoni ermeneutici al caso di specie, non sarebbe postulabile la tesi del
valore non retroattivo della legge Galli.
Tesi che, oltretutto, sarebbe difficilmente compatibile con le disposizioni [art. 34 della l. n. 36 del 1994
art. 1 comma 4 d.P.R. 238 del 1999 e art. 164 comma 2 d.lg. n. 152 del 2006] che fissano il termine
perentorio (20) entro il quale l'utilizzatore (e con esso l'ex proprietario) avrebbe dovuto chiedere - a pena
di decadenza (21) -il riconosci mento o la concessione preferenziale delle acque «divenute pubbliche» per
effetto della l. n. 36 del 1994 (22). Queste norme sembrano chiaramente presupporre il carattere
retroattivo (ed espropriativo) della declaratoria di pubblicità. E, in effetti, la conversione della proprietà in
un diritto d'utenza pare costituire una forma di compensazione ex art. 42 Cost. per il sacrificio subito dal
proprietario di un'acqua divenuta demaniale.
Sia chiaro: sarebbe certamente auspicabile e ben accetta un'esegesi che in applicazione dell'art. 11 disp.
prel. c.c. limitasse la pubblicità alle acque che non erano già in pertinenza dei privati.
Si tratterebbe, del resto, di una limitazione coerente con il concetto di riserva di beni pubblici elaborato
dalla dottrina (23).
Tuttavia, il suo accoglimento dovrebbe postulare, per un verso, l'abbandono dello schema
dell'acquisizione a titolo originario (anche) delle acque già appartenenti ai privati ed ora riservate allo
Stato e, per un altro, l'illegittimità delle stesse norme di legge e di regolamento che dispongono la
conversione della proprietà privata in diritti temporanei d'uso e che assoggettano tale riconoscimento ad
un termine perentorio (24).
Con questo non si vuole necessariamente bocciare l'impostazione seguita dal Tribunale di Sant'Angelo
(25) ma soltanto evidenziare che la stessa implicherebbe conse guenze forse non calcolate dallo stesso
organo giudicante: a quel punto si sarebbe, invero, dovuta sollevare la questione di legittimità
costituzionale delle menzionate disposizioni di legge o, quanto meno, disapplicare gli artt. 1 e 2 d.P.R. n.
238 del 1999.
Questo ci induce a ritenere che, nell'attuale sistema normativo, l'ambito delle acque private - piaccia o no
- appare davvero limitato alle categorie residuali descritte in precedenza e, cioè, alle raccolte di acque
piovane al servizio del fondo e all'utilizzo di acque sotterranee per usi domestici.
Che queste siano le uniche fattispecie da considerarsi non pubbliche è dimostrato a fortiori dalla
circostanza che la demanialità è estesa dall'art. 1 comma 1 d.P.R. n. 238 del 1999 a tutte «le acque
sotterranee e le acque superficiali anche raccolte in invasi o cisterne» (26).
Non ogni raccolta e/o utilizzo per usi domestici od al servizio del singolo fondo implica l'esclusione dal
novero dei beni pubblici, potendo ciò verificarsi soltanto per le raccolte di acque piovane e di acque
sotterranee.
In altre parole, il carattere demaniale non è ristretto alla falda acquifera ed ai corsi e bacini idrici naturali,
ma si estende anche a tutte le raccolte artificiali di acque che non siano quelle di cui sopra,
eccezionalmente lasciate nella disponibilità dei soggetti privati (27).
5. LA NATURA PUBBLICA O PRIVATA DELLE RETI IDRICHE
La domanda da porsi, a questo punto, è se un canale interrato (qual è quello preso in esame dalla
sentenza n. 114/08 del Tribunale di Sant'Angelo) possa rientrare in una delle cennate ipotesi residuali di
acque private.
È evidente che, trattandosi di una conduttura artificiale, il criterio discriminante non è costituito dall'opera
in sé, ma dal tipo di acqua che vi confluisce: se si tratta di acqua prelevata in forza di regolare titolo
abilitativo (concessione di derivazione o riconoscimento di antico uso) oppure di acqua piovana e/o
sotterranea raccolta ed incanalata per usi domestici, il privato sarebbe proprietario dell'invaso e della
massa d'acqua che vi scorre all'interno.
Negli altri casi, invece, l'acqua dovrebbe appartenere allo Stato (in forza del principio per cui sono
demaniali tutte le acque sotterranee e superficiali «anche raccolte in invasi o cisterne») mentre al privato
resterebbe solo la titolarità del canale artificiale. Del resto, l'art. 153 d.lg. n. 152 del 2006 ascrive al
demanio dello Stato solo le reti idriche artificiali di proprietà pubblica e non anche quelle realizzate dai
privati sui propri terreni.
In questi frangenti, si verificherebbe un tipico caso di sdoppiamento tra il regime (privato) del contenitore
(terreno) e la natura (pubblica) della sostanza incanalata (acqua).
È noto, infatti, che occorre sempre distinguere fra l'acqua come elemento fisico a sé stante ed il suo
mezzo contenitore o conduttore. Sono due cose necessariamente connesse e concorrenti a formare un
bene complesso (qual è il canale), ma fra loro nettamente distinte anche per il diverso diritto di cui
ciascuna di esse potrebbe essere oggetto (28).
In conclusione, la natura della massa d'acqua confluita in un canale artificiale potrebbe variare a seconda
della provenienza e dell'utilizzazione della risorsa.
Potrebbe, cioè, essere privata la rete idrica composta da acque superficiali raccolte in forza di concessione
di derivazione o di riconoscimento antica utenza oppure da acque piovane o sotterranee invasate ed
utilizzate per esigenze domestiche od agricole del singolo fondo.
Si rientrerebbe, in questi casi, nell'esercizio del diritto conferito a ciascun proprietario di utilizzare le
«acque esistenti nel fondo» (art. 909 c.c.) nei limiti previsti dall'art. 1 d.P.R. n. 238 del 1999 e dall'art. 93
t.u. n. 1775 del 1933.
Negli altri casi si dovrebbe trattare di acque pubbliche senza che possa rivestire alcuna rilevanza
l'attitudine o meno a soddisfare usi di pubblico generale interesse.
NOTE
(*) L'occasione per affrontare con queste brevi note il tema delle acque private è offerta dalla recente
decisione del Tribunale di Sant'Angelo dei Lombardi n. 114 del 4 marzo 2008. La sentenza dirime la lite
insorta tra due privati in ordine alla liceità delle opere di presa d'acqua effettuate dal convenuto su un
canale artificiale interrato posizionato lungo la linea di confine tra i due fondi ed alimentato da acque
sorgenti e da piccole emergenze idriche superficiali raccolte in un altro terreno (a monte) e fatte poi
defluire - attraverso il suddetto canale - in una vasca ubicata (a valle) nella proprietà dell'attore. Il
giudice monocratico, dopo aver escluso la natura demaniale delle acque in questione (sul rilievo che
l'intervenuta declaratoria di pubblicità non avrebbe effetto retroattivo al pari di quanto statuito dalla
giurisprudenza in ordine alla l. n. 37 del 1994) ha accertato la natura privata dell'acqua ex art. 909 c.c. e
la sussistenza in capo all'attore di un diritto esclusivo d'uso costituito sulla conduttura e sulla stessa
acqua dall'originario proprietario del compendio immobiliare. Conseguentemente ha condannato il
convenuto alla rimozione delle opere che intercettavano (deviandole) le acque defluenti nel canale
interrato ed ha altresì disposto il ripristino della situazione preesistente.
(1) ASTUTI, voce Acque private, in Enc. dir., vol. I, Milano 1958, 387 s.
(2) Questa tesi si fondava soprattutto sul diverso regime previsto dal codice civile del 1865 rispetto a
quello del codice vigente. Nel primo gli artt. 542 e 545 facevano espressa menzione del «proprietario
della sorgente» e del «proprietario o possessore d'acqua» e distinguevano l'uso spettante a costoro come
facoltà di godimento contenuta nel diritto di proprietà dell'acqua, dall'uso consentito al proprietario del
fondo limitato o attraversato da un'acqua non demaniale, qualificato come facoltà connessa al diritto di
proprietà del fondo. Nel codice del 1942, invece, il diritto di usare l'acqua sarebbe considerato solo come
una facoltà contenuta nel diritto di proprietà del fondo, ed in tal senso si interpretavano gli artt. 909 e
910 c.c. Negata l'esistenza di acque private, le acque non pubbliche erano ricondotte nell'ambito dell'art.
827 c.c., in virtù del quale «I beni immobili che non sono in proprietà di alcuno spettano al patrimonio
dello Stato». Si sarebbe trattato, pertanto, di beni appartenenti al patrimonio indisponibile dello Stato
destinati all'uso privato, mentre il diritto di utilizzazione spettante al proprietario veniva configurato come
una servitù prediale, considerando come fondo servente l'acqua sotterranea, sorgente o scorrente (come
corso d'acqua nella sua integrità) (cfr. ASTUTI, op. ult. cit., 389).
(3) LUGARESI, Le acque pubbliche. Profili dominicali, di tutela e di gestione, Milano 1995, 55 («Si è nel
contempo evidenziato che tali acque, per eventi naturali o per un incremento della necessità pubblica che
comportassero una «dilatazione dell'area» del pubblico generale interesse, potessero in qualsiasi
momento acquistare il carattere della pubblicità»).
(4) Gli argomenti posti a fondamento di questo indirizzo erano sostanzialmente desunti: dalla rubrica
dell'art. 909 c.c. («Diritto delle acque esistenti sul fondo»); dalla menzione delle «acque non pubbliche»
di cui agli artt. 910 e 912 c.c.; dal riferimento implicito dell'art. 822 ad acque non definite pubbliche; dal
potere di disposizione riconosciuto al titolare del diritto delle acque esistenti nel fondo (art. 909 comma
2); dall'art. 912 c.c. ove è previsto che l'autorità giudiziaria può assegnare una indennità ai proprietari
che sopportino diminuzioni del proprio diritto; dalla espressa menzione del «proprietario del lago o dello
stagno» (art. 943 c.c.) (cfr. ASTUTI, op. ult. cit., 390 s.).
(5) Sul punto mi permetto di rinviare a CAZZAGON, Le acque pubbliche nel Codice dell'ambiente, in Riv.
giur. amb., f. 3-4, 2007, 435 s. Sulla l. n. 36 del 1994 si veda CONTE, Il demanio idrico secondo la legge 5
gennaio 1994, n. 36, in Rass. giur. en. el., 1994, 613 s.; DELL'ANNO, Manuale di diritto ambientale,
Padova, 1995, 531; DI MAJO, Le risorse idriche nel vigente ordinamento, in Rass. giur. en. el., 1996, 1 s.;
PALAZZOLO, voce Acque pubbliche in Enc. dir., Agg. IV, Milano, 2000, 38 ss.; PALAZZOLO, Acque pubbliche
ed energia, in Rass. giur. en. el., 1996, 342; PALAZZOLO, La nuova normativa in tema di acque pubbliche,
in Dir. e giur. agraria e dell'ambiente, 1995, 6; GOLA, L'amministrazione degli interessi ambientali,
Milano, 1995, 304, in nota GRAGNOLI, Nuovi indirizzi sulla disciplina dell'acqua, in Dir. econ., 1997, 347 ss.
In giurisprudenza, cfr. Trib. sup. acque pubbliche, ord. 18 luglio 1995, in Rass. giur. en. el., 1995, 235.
(6) Anche la Corte costituzionale (con sent. n. 259 del 1996 in www.giurcost.org) ha osservato che
«...l'attenzione si è soffermata sull'acqua (bene primario della vita dell'uomo), configurata quale
«risorsa» da salvaguardare, sui rischi da inquinamento, sugli sprechi e sulla tutela dell'ambiente, in un
quadro complessivo caratterizzato dalla natura di diritto fondamentale a mantenere integro il patrimonio
ambientale...».
(7) Sul punto si rinvia, ancora, a CAZZAGON, Le acque pubbliche nel Codice dell'Ambiente, cit., 441-442.
(8) Non sembrano del tutto esenti da censure le richiamate disposizioni del d.P.R. n. 238 del 1999.
Invero, l'art. 32 l. n. 36 del 1994 fissava, in modo dettagliato, i limiti del potere governativo ed i
contenuti dell'emanando regolamento stabilendo che quest'ultimo avrebbe dovuto limitarsi a individuare
le norme incompatibili con la legge Galli. Non si trattava, dunque, di un regolamento finalizzato a
disciplinare la materia (delle acque), bensì di un atto ricognitivo delle disposizioni che - sulla base dei
principi generali determinati dalla legge delegificante (nel nostro caso dalla legge Galli) - apparivano
logicamente incompatibili con le norme di questa stessa legge. Orbene, il d.P.R. n. 238 del 1999 non si è
limitato a individuare le norme da considerarsi abrogate (art. 2), ma ha innovato la definizione di acque
pubbliche posta dall'art. 1 l. n. 36 del 1994 determinando, da un lato, l'estensione della demanialità a
tutte le acque «anche raccolte in invasi o cisterne» (art. 1 comma 1) e sancendo, dall'altro, l'esclusione
da tale ambito delle «acque piovane non ancora convogliate in un corso d'acqua o non ancora raccolte in
invasi e cisterne» (art. 1 comma 2). Da questo punto di vista potrebbe profilarsi un illegittimo esercizio
del potere regolamentare per violazione della legge delegificante, sanzionabile con la disapplicazione (ex
art. 5 l. n. 2248 del 1865) o addirittura con l'annullamento delle menzionate disposizioni.
(9) In senso contrario, si veda Trib. S. Angelo Lombardi 5 giugno 2003, in Giust. civ., 2004, 1, 1355, con
nota di Flammia (secondo cui dopo l'emanazione del d.P.R. n. 238 del 1999 «... solo parte della dottrina
si è rivelata particolarmente attenta alle diverse sfaccettature ermeneutiche della stessa, riuscendone a
cogliere il corredo di effetti tacitamente abrogativi che non si limiterebbe ad involgere solo l'art. 910 c.c.,
unica norma espressamente abrogata dal d.P.R. n. 238, cit., ma travolgerebbe anche gli articoli seguenti,
presupponendo questi, esattamente come l'altro, la natura privata delle acque...»).
(10) CASSESE, I beni pubblici. Circolazione e tutela, Milano, 1969, 216.
(11) Anche la più recente dottrina (OLIVI, Beni demaniali ad uso collettivo, Padova, 2005) dopo aver
precisato che «la demanialità non investe tutte le utilità che la cosa rende, e cioè che l'ordinamento,
attraverso il regime demaniale, qualifica diversamente alcune utilità rispetto ad altre, predisponendo una
tutela differenziata» (92-93) sottolinea che si tratta «di selezionare le utilità rese dalla cosa che possono
essere oggetto di sfruttamento economico, e ciò nello svolgimento di tale funzione di tutela che si traduce
in una valutazione di compatibilità di usi. Si può quindi ammettere che le utilità così selezionate, per aver
passato il vaglio di compatibilità con l'utilità oggetto di protezione, possano essere oggetto di un diritto di
proprietà privata comprensivo della facoltà. Tali utilità infatti non sono oggetto della protezione assicurata
dal regime demaniale, e per brevità possono anche dirsi collaterali al regime demaniale, tenendo però
presente che sono individuate proprio in applicazione di tale regime. Sono queste le utilità che si trovano
indicate come afferenti alla «titolarità domenicale» del bene nella citata prospettiva di proprietà
compatta, ed è in riferimento ad esse che si può estendere l'applicazione della disciplina domenicale
comune» (298).
(12) Non va dimenticato l'art. 943 c.c. che pone il principio per cui l'estensione dell'alveo lacuale deve
essere determinata con riferimento al livello delle piene ordinarie allo sbocco del lago, senza che si possa
tener conto del perturbamento causato da piene straordinarie ovvero da eventi eccezionali (meteorici,
geosismici o prodotti dall'opera dell'uomo per esigenze momentanee) e senza che dall'alveo propriamente
detto possa distinguersi il lido, potendo soltanto l'alveo stesso distinguersi dalla spiaggia, la quale ha
strutturalmente inizio là dove ha termine l'alveo (v. ancora CAZZAGON, Le acque pubbliche nel Codice
dell'ambiente, op. cit., 451 s.)
(13) Sulla non retroattività delle disposizioni della l. n. 37 del 1994 e sulla loro inidoneità a travolgere la
proprietà privata dei beni già legalmente appartenenti ai privati: cfr. Trib. sup. acque pubbl. 11 novembre
1997, n. 75; Trib. sup. acque pubbl. 19 ottobre ..., n. 125, in Cons. Stato, 2000, 1987. Egualmente con
riferimento alle disposizioni di cui agli artt. 3 e 4 della l. n. 37 del 1994 (sostitutive degli artt. 946 e 947
c.c.) vedi Cass., sez. un., 26 luglio 2002, n. 11101, in Giust. civ., 2003, I, 89; Cass., 14 gennaio 1997, n.
300, in Giust. civ., 1997, I, 1312 e in Dir. giur. agr. e ambiente, 1998, II, 94, con nota di A. Coletta.
(14) Sul punto v. BOLDON ZANETTI, La tutela ambientale delle aree di pertinenza dei corpi idrici e il divieto
di sdemanializzazione (nota a Cons. Stato, sez. II,15 dicembre 2004 n. 5548) in Riv. giur. ambiente,
2005, 5, 819.
(15) Si è infatti statuito che «la dichiarazione di demanialità dell'acqua opera con effetto retroattivo,
come se l'acqua non fosse stata mai di proprietà di alcuno, e ciò per il carattere originario di demanialità
di uso pubblico, che rende il bene insuscettibile di privato dominio» (cfr. Trib. sup. acque pubbl. 11
maggio 1965, n. 10, in Cons. Stato 1965, II, 243 s.). Ad analoghe conclusioni perveniva Cass., sez. un.,
22 giugno 1955, n. 1933, in Acque bon. costr., 1955, 405 secondo cui l'art. 4 t.u. n. 1775 del 1933
«tempera gli effetti della retroattività della dichiarazione di demanialità, in quanto all'utente che delle
acque abbia goduto in buona fede e che le vede incluse in un elenco suppletivo, riconosce un diritto alla
concessione di quelle stesse acque, mediante un provvedimento che la forma della concessione e la
sostanza del riconoscimento»; Cass., sez. I, 4 agosto 1960, n. 2289, in Foro pad., 1961, I, c. 1261 per la
quale «La classifica pubblica di un corso d'acqua, a seguito della sua iscrizione in elenco, produce la
caducazione dei diritti di proprietà o di altro genere costituiti sull'acqua, con la conseguenza ulteriore che
i diritti anteriormente accordati ai terzi dal titolare si trasformano in diritti di uso temporaneo, il cui
esercizio è soggetto alle prescrizioni, alle limitazioni ed agli oneri posti nel disciplinare dall'Autorità
amministrativa». Ancora nel senso che la dichiarazione di demanialità delle acque importasse la
decadenza del diritto di proprietà e di tutti gli altri diritti privati già costituiti sull'acqua dichiarata
pubblica, salvo riconoscimento o concessione da parte dell'autorità amministrativa si veda App. Roma 12
luglio 1958, in Giur. agr. it., 1958, 437; Trib. Lecce 12 febbraio 1959, in Giur. it., 1959, I, 854; App.
Brescia 20 febbraio 1958, in Mass. Giust. civ., 1958, 12; Trib. acque Palermo 23 maggio 1957, in Mass.
Giust. civ., 1957, 53; Trib. Brescia 7 agosto 1954, in Acque, bonif., costr. 1958, 117. In dottrina cfr.
LUGARESI, Le acque pubbliche, op. cit., 72 s.; PERRUCCI, Le acque pubbliche nella legislazione italiana,
Bologna, 1981, 35; cfr. Trib. sup. acque pubbl. 18 luglio 1961, n. 13, in Acque, bon., costr., 1962, 62;
CERULLI IRELLI V., voce Acque pubbliche, in Enc. giur., vol. I, Roma, 1988, 4; JANNOTTA, voce Acque
pubbliche, in. Dig. disc pubbl., vol. I, Torino, 1987, 57; CAPUTI JAMBRENGHI, voce Beni pubblici, in Enc.
giur., vol. V, Roma 1988, 16; COSTANTINO, Sfruttamento delle acque e tutela giuridica, Napoli, 1975, 134.
(16) LUGARESI, Le acque pubbliche, cit., 80; PERRUCCI, Le acque pubbliche nella legislazione italiana, cit.,
35; PASINI BALUCANI, I beni pubblici e le relative concessioni, Torino, 1978, 257 s; BUSCA, Passaggio di
acque dal regime privatistico al regime pubblicistico. Conseguenze in ordine ai diritti e ai rapporti di cui
esse furono oggetto prima della loro attuazione nella categoria delle acque pubbliche, in Foro padano,
1961, c. 1262 s.In giurisprudenza, v. Trib. sup. acque pubbl. 1 aprile 1965, n. 8, in Cons. Stato, 1965, II,
177; Trib. sup. acque pubbl. 1 aprile 1965, n. 10, ivi, 1965, II, 175; Trib. sup. acque pubbl. 28 gennaio
1950, n. 9, in Foro amm., 1951, I, 2; Trib. sup. acque pubbl. 28 gennaio 1967, n. 1, in Rass. avv. Stato,
1967, I, 160; Trib. sup. acque pubbl., 23 maggio 1967, n. 14, in Foro amm., 1967, I, 454-455.
(17) Tale orientamento venne proposto per la prima volta in occasione di una decisione sulle servitù
militari (n. 6 del 20 gennaio 1966, in www.giurcost.org); poi ripreso in due sentenze in materia di
miniere, cave e torbiere (nn. 20 e 119 del 1967, in www.giurcost.org) e sostanzialmente ribadito in altre
sentenze riguardanti i vincoli di inedificabilità urbanistici e paesaggistici (n. 55 del 9 maggio 1968 e n. 56
del 29 maggio 1968, in www.giurcost.org).
(18) C. cost. 19 luglio 1996, n. 259 e C. cost. 27 dicembre 1996, n. 419, in www.giurcost.org.
(19) La scadenza del predetto termine era stata originariamente stabilita in «tre anni» dall'entrata in
vigore della legge Galli (art. 34 della l. n. 36 del 1994); in seguito venne fissata in «un anno» a decorrere
dalla emanazione del d.P.R. n. 238 del 1999 (art. 1 comma 4) e successivamente prorogata al «30 giugno
2003» dall'art. 19, comma 5, della l. n. 289 del 2001 ed infine al «31 dicembre 2007» dall'art. 2, comma
1, d.l. 300 del 2006 convertito in l. n. 17 del 2007.
(20) Sul carattere perentorio e decadenziale del termine la giurisprudenza ha statuito: «La norma
transitoria contenuta nell'art. 34 l. 5 gennaio 1994, n. 36, che stabiliva il termine entro il quale poteva
essere fatto valere a pena di decadenza, il diritto al riconoscimento od alla concessione di acque che
avevano assunto natura pubblica era fissato in 3 anni dalla data di entrata in vigore della legge stessa,
ave vano contenuto immediatamente precettivo, che non poteva ritenersi incluso nella differita
operatività, desunta dalla mancata approvazione dei regolamenti previsti dal precedente art. 32, di
attuazione della nuova normativa sulle acque» (così Trib. sup. acque pubbl. 6 ottobre 1999, n. 107, in
Cons. Stato, 1999, II,1560).
(21) Anche sotto questo profilo emerge una sostanziale differenza tra il regime di demanialità impresso
dalla l. n. 37 del 1994 e dalla l. n. 36 del 1994: la facoltà di conseguire il riconoscimento e la concessione
preferenziale è circoscritta all'utenza di «acque» divenute pubbliche per effetto della legge n. 36/94 e non
anche all'uso delle «aree» asservite al demanio ai sensi della l. n. 37 del 1994.
(22) Il riferimento è al Cassese il quale nella propria monografia sui beni pubblici precisa che la riserva,
colpendo una situazione soggettiva logicamente antecedente alla proprietà (e cioè la legittimazione a
divenire proprietari di talune categorie di beni) andrebbe riferita «a beni che non sono attualmente, cioè
al momento nel quale venga disposta la riserva, di pertinenza dei privati». In questo senso, si rende
necessario tenere distinta la categoria dei «beni attualmente di pertinenza dei privati» assoggettabile solo
ad espropriazione con indennizzo, dalla categoria contigua dei «beni non attualmente di pertinenza dei
privati» i quali potrebbero essere sottoposti solo ad un regime di riserva originaria. Tale fondamentale
intuizione ha permesso all'Autore di individuare con esattezza anche il criterio di discrimine tra la riserva
e l'espropriazione. Quest'ultima «colpisce la proprietà dei privati, e non l'appropriazione dei privati, cioè
colpisce i privati in quanto siano titolari di un certo bene, in quanto quel bene venga sottratto ai privati
per essere trasferito ad altri». Invece, la riserva opera «nei confronti di una posizione e presuppone che
questa non si sia esplicata, facendo divenire il privato titolare del diritto che ha il bene per oggetto»: cfr.
CASSESE, I beni pubblici, cit., 220 s.
(23) Appare, in effetti, per certi versi discutibile alla luce di quanto stabilito dall'art. 42 comma 2 Cost.
che lo Stato possa espropriare un bene e subordinare la corresponsione dell'indennizzo (qui
ipoteticamente convenuto nell'attribuzione di un diritto d'uso) ad un duplice termine: l'uno perentorio
connesso al tempo entro il quale l'espropriato deve chiedere il riconoscimento o la concessione
preferenziale, pena la decadenza ovvero la definitiva perdita di qualsiasi pretesa a mantenere l'uso delle
acque; l'altro finale correlato alla natura temporanea del diritto d'uso accordato.
(24) Dal punto di vista teorico, si potrebbe attribuire all'art. 909 c.c. la stessa rilevanza conferita da
alcuna dottrina all'art. 943 c.c. (che come noto contempla la figura del proprietario del lago e dello
stagno). Con riferimento a questa categoria di beni già in passato autorevole dottrina aveva, infatti,
sostenuto che l'art. 943 c.c. servirebbe ad integrare tanto l'art. 28 cod. nav., quanto l'art. 822 c.c. (che
parla di laghi senza distinguere tra acque dolci o salate, comunicanti o no col mare, rientranti nel
demanio idrico o in quello marittimo). Secondo questa teorica «l'unica costruzione logica che si deve
trarre dal combinato disposto degli artt. 822 c.c. e 28 c.n. con l'art. 943 c.c.» sarebbe quella di
considerare ancora privati i «bacini (o parti di bacini) naturali già privati all'entrata in vigore dei due
codici salva una possibile loro demanializzazione, previo esproprio (con indennizzo) e destinazione al
pubblico uso; invece i bacini già pubblici, a seconda della oggettiva intensità della loro rilevanza pubblica,
vengono a ricadere nel demanio necessario con impossibilità di sdemanializzazione, o nel demanio
accidentale con possibilità di sdemanializzazione giusti gli artt. 829 c.c. e 35 c.n.» (cfr. IMPALLOMENI,
Demanialità accidentale nell'ambito marittimo e idrico, con particolare riguardo a darsene e canali
artificiali, in Scritti in onore di Vignocchi, Padova, 1991, 1413). Ad analoghe conclusioni si potrebbe
pervenire, ora, in relazione alle altre tipologie di «acque esistenti nel fondo» in base al coordinato
disposto degli artt. 909 e 822 c.c. e degli artt. 1 l. n. 36 del 1994 e 1 d.P.R. n. 238 del 1999.
(25) Oltre a queste raccolte, sono altresì demaniali in virtù dell'art. 143 del codice dell'ambiente anche le
reti idriche di proprietà pubblica (acquedotti, fognature, impianti di depurazione e infrastrutture idriche)
che in passato potevano appartenere (es. gli acquedotti) ad amministrazioni diversi dallo Stato e fare
parte del patrimonio indisponibile (cfr. PARISIO, Acqua, servizio idrico, liberalizzazioni in Foro amm., 2007,
4, 1293 s.).
(26) Si veda in proposito anche C. cost. sent. n. 419 del 1996, cit., che ha ritenuto legittima l'inclusione
nel demanio dei corpi idrici recettori di acque drenate dai terreni agricoli bonificati, sul presupposto che
tali beni non sarebbero assimilabili né alle raccolte di acque piovane in invasi o cisterne al servizio del
fondo né all'utilizzazione di acque sotterranee per usi domestici.
(27) La necessità di tale distinzione è stata sottolineata, in passato, anche dalla giurisprudenza: cfr.
Cass., sez. un., 26 febbraio 1930, in Giur. it., 1939, I, c. 455 («una cosa è l'acqua, altra il canale che la
convoglia; né dal carattere dell'una si può argomentare il carattere dell'altra»); la stessa sentenza della
Cass. 22 luglio 1948, n. 1194, in Giur. it., 1949, c. 445 («La servitù di acquedotto importa il diritto di far
passare l'acqua per il fondo servente, quella di presa di ricavare da esso l'acqua»), è interamente fondata
sul presupposto della piena reciproca autonomia e scindibilità fra il diritto, di cui è oggetto l'acqua, e il
diritto di cui è oggetto il mezzo adibito alla sua derivazione e condotta.
Archivio selezionato: Dottrina
Il ruolo storico dei Consorzi di bonifica del Veneto nella tutela del territorio e
dell'ambiente nella disciplina dei regi decreti 368/1904 e 523/1904
Riv. giur. ambiente 2007, 05, 727
ROBERTO CORSINO (*)
1. Premesse: l'evoluzione della legislazione sui Consorzi di bonifica dopo l'Unità d'Italia fino alla lex
generalis e il principio di sussidiarietà. 2. Il R.D. 8 maggio 1904, n. 368: la delimitazione dei Consorzi in
bacini idraulici; il potere impositivo, la concessione dei lavori pubblici; il funzionamento dei Consorzi; le
autorizzazioni idrauliche, il catasto consortile; la polizia idraulica, la gestione e tutela della rete idrografica
di bonifica; la prevenzione del rischio idraulico. 3. Il R.D. 25 luglio 1904, n. 523: la classificazione dei
manufatti idraulici, l'utilizzazione delle acque pubbliche minori; gli argini e le altre opere che riguardano il
buon regime delle acque pubbliche; la polizia delle acque pubbliche; la tutela delle acque e del territorio.
1. Premesse: l'evoluzione della legislazione sui Consorzi di bonifica dopo l'Unità d'Italia fino alla
lex generalis e il principio di sussidiarietà.
Nel 1904 apparve un fondamentale contributo alla bonifica e irrigazione con la promulgazione del R.D. 8
maggio 1904, n. 368 "Regolamento per la esecuzione del T.U. della legge 22 marzo 1900, n. 195, e della
legge 7 luglio 1902, n. 333, sulle bonificazioni delle paludi e dei terreni paludosi", e del R.D. 25 luglio
1904, n. 523 "Testo unico delle disposizioni di legge intorno alle opere idrauliche delle diverse categorie",
ancora oggi in vigore.
La legislazione in materia di opere pubbliche dopo l'unità prese avvio nel 1865 con il fondamentale R.D.
20 marzo 1865, n. 2248 dal titolo "Organi, consultivi e di controllo centrali e periferici in materia di opere
pubbliche", seguito, nello stesso anno, dal R.D. 25 giugno 1865, n. 2359 su "Espropriazioni per causa di
pubblica utilità", in gran parte opera di Giuseppe Pisanelli (1). Vent'anni dopo, a causa di un'epidemia
colerica che colpì Napoli, venne promulgata la legge speciale 15 gennaio 1885, n. 2892 per il risanamento
della città di Napoli, rivolta ad espropriare di più e a pagare di meno. Il corpo delle anzidette leggi, di
indiscusso interesse pratico per i Consorzi di bonifica, rimarrà sostanzialmente immutato fino alla metà
del XX secolo e verrà applicato in tutti i processi che daranno avvio alla realizzazione di opere idrauliche.
Successivamente il Ministro dei lavori pubblici Alfredo Baccarini (2) ingegnere idraulico riuscì a fare
approvare la prima legge coordinata sulla bonifica idraulica, la legge 25 ottobre 1882, n. 869, che porta il
suo nome e dalla quale trae origine e si concretizza la moderna dottrina della bonifica (3).
Il trend legislativo inaugurato dal citato provvedimento proseguirà inarrestabile, perfezionandosi, negli
anni successivi tra i due secoli, con una molteplicità di interventi normativi che si inseriscono
nell'evoluzione del concetto della bonifica. Sarà Arrigo Serpieri a centrare definitivamente il bersaglio con
il R.D. 215/1933, lex generalis della bonifica di eccezionale longevità, attuale legge dello Stato sulla
bonifica.
Peraltro la legge Baccarini non ottenne i risultati attesi. Seguirono la legge 8 luglio 1883, n. 1489 (4), e la
legge 10 agosto 1884, n. 2644 (5).
(34) Una sintesi degli orientamenti giurisprudenziali ricordati è, da ultimo, contenuta in C. cost., 17
marzo 2006 n. 103. In detta pronuncia, con riferimento al potere regolamentare dei comuni disciplinato
dalla l. rg. Abruzzo n. 11 del 2005, la Corte ha affermato che è legittima la norma di cui all'art. 4 comma
1, di detta legge, secondo cui « il comune nel PRG o nella variante allo strumento urbanistico definisce i
siti tecnologici dove saranno localizzate o delocalizzate le antenne per la telefonia mobile rispondendo a
criteri di funzionalità delle reti e dei servizi. Il comune predispone apposito regolamento che contenga le
disposizioni in materia al fine di ottimizzare, tenuto conto della morfologia del territorio, la localizzazione
degli impianti di cui trattasi [...] » ed ha sottolineato che « [...] nel dettare tale norma la regione ha
esercitato la propria competenza legislativa che, come già sottolineato, ricomprende la determinazione
dei criteri localizzativi e degli standard urbanistici, afferenti all'uso del proprio territorio, a condizione che
siano rispettate le esigenze della pianificazione nazionale degli impianti e che detti criteri non siano, nel
merito, "tali da impedire od ostacolare ingiustificatamente l'insediamento degli stessi" impianti (sentenza
n. 307 del 2003). D'altronde, la norma impugnata espressamente prevede che il comune, nel procedere
alla localizzazione o delocalizzazione delle antenne, ha l'obbligo di attenersi ai "criteri di funzionalità delle
reti e dei servizi", sicché può ritenersi assicurato anche il coordinamento tra le esigenze connesse alla
gestione del territorio e quelle derivanti dalla necessità di non interferire con la funzionalità delle reti e dei
servizi ».
Archivio selezionato: Note
LE CONVERGENZE PARALLELE DELLA TUTELA DEL TERRITORIO E DEL PAESAGGIO
Cass. pen. 2007, 10, 3833
Giovanni Luca Perdonò
Dottore di ricerca in diritto penale Università di Foggia
Sommario1. Premessa. - 2. Condono edilizio e condono paesaggistico: brevi cenni descrittivi sui
rispettivi ambiti di applicazione. - 3. L'accertamento postumo di compatibilità paesaggistica sugli abusi
ambientali "a regime". - 4. Le modifiche al sistema sanzionatorio introdotte dal d.lg. n. 157 del 2006. - 5.
Alcune considerazioni sui profili strutturali dei reati a tutela del paesaggio. - 6. Conclusioni.
1. PREMESSA
La sentenza in epigrafe, esaminando le distinte ipotesi di condono, edilizio e paesaggistico,
rispettivamente previste dalla l. n. 326 del 2003 e dalla l. n. 308 del 2004, affronta alcuni interessanti
nodi sulle caratteristiche dell'offesa dei reati edilizi e di quelli paesaggistici.
La pronuncia prende le mosse dalla decisione con cui la Corte di appello di Lecce, in parziale riforma della
pronuncia di primo grado, assolveva uno degli imputati e confermava, viceversa, la condanna per un altro
imputato, ritenuto responsabile di una duplice violazione dell'art. 20, lett.c)l. n. 47 del 1985 e dei reati di
cui agli artt. 349 c.p. e 163 d.lg. n. 490 del 1999, per aver realizzato, in zona agricola sottoposta a
vincolo paesaggistico, un abuso di rilevante entità, in assenza delle prescritte concessione edilizia ed
autorizzazione paesaggistica, nonché per avere proseguito i lavori nonostante l'apposizione dei sigilli in
virtù del provvedimento di sequestro dell'opera.
Avverso la sentenza di merito, il secondo dei predetti imputati ricorreva per cassazione adducendo a
sostegno della propria doglianza un unico motivo, rappresentato dall'intervenuta presentazione sia della
domanda di condono edilizio ai sensi della l. n. 326 del 2003, sia di quella diretta ad ottenere la
compatibilità paesaggistica in base al comma 37 dell'unico articolo della l. n. 308 del 2004, che, a parere
della ricorrente, avrebbe dovuto comportare la sospensione del processo nell'attesa che l'autorità
amministrativa competente si pronunciasse sulla predetta compatibilità paesaggistica.
La Corte, dopo aver premesso l'impossibilità di sanare, in base alla l. n. 326 del 2003, l'intervento edilizio
in discorso, a causa dell'assenza dei presupposti normativi richiesti - restauro, risanamento conservativo
e manutenzione straordinaria, previo parere favorevole da parte dell'autorità preposta alla tutela del
vincolo (art. 32, comma 27, legge cit.) -, conferma la decisione della corte distrettuale leccese di non
sospendere il processo in attesa della statuizione amministrativa sulla compatibilità paesaggistica
argomentando sulla base del tenore letterale delle norme interessate, giacché nulla dispone in proposito
la l. n. 308 del 2004, in cui è assente un'espressa disposizione legislativa analoga a quella di cui all'art.
38 l. n. 47 del 1985, richiamato, invece, dalla l. n. 326 del 2003 per il condono edilizio. Pertanto, in
presenza del rischio di scadenza del termine prescrizionale, la S.C. conclude per la non sospendibilità del
processo penale, aggiungendo che neppure l'art. 479 c.p.p. può invocarsi in senso contrario, perché tale
norma presuppone l'esistenza di una controversia in atto da definire con sentenza, nel caso di specie
assente per essersi esaurito il procedimento amministrativo di compatibilità paesaggistica e non essere
stato impugnato, in sede di giurisdizione amministrativa, alcun provvedimento di diniego.
2. CONDONO EDILIZIO E CONDONO PAESAGGISTICO: BREVI CENNI DESCRITTIVI SUI
RISPETTIVI AMBITI DI APPLICAZIONE
La sentenza in commento, inoltre, si distingue per aver affrontato un aspetto controverso della disciplina
del c.d. condono paesaggistico.
In tale direzione, il Giudice di legittimità prende in esame i commi 37, 38 e 39 dell'articolo unico della l.
n. 308 del 2004, che ha introdotto un'ipotesi di estinzione di qualsiasi illecito penale in materia
paesaggistica e, quindi, in primo luogo della contravvenzione di cui all'art. 181 d.lg. n. 42 del 2004 per i
lavori compiuti su beni vincolati entro e non oltre il 30 settembre del 2004, senza la prescritta
autorizzazione ovvero in difformità da essa, a condizione che intervengaex postl'accertamento di
compatibilità paesaggistica; in particolare, la S.C. affronta la questione dell'ambito di estensione del
condono o minicondono ambientale, così finendo per ritenere sanabili, proprio in virtù del carattere
eccezionale della norma in discorso, non solo gli abusi di minore entità, secondo l'interpretazione più
restrittiva, bensì ogni intervento edificatorio compiuto in zona sottoposta a vincolo paesaggistico entro e
non oltre il 30 settembre 2004, a condizione che:a)le tipologie edilizie realizzate e i materiali utilizzati
rientrino tra quelli previsti e assentiti dagli strumenti di pianificazione paesaggistica, ove esistenti, o
altrimenti siano giudicati compatibili con il contesto paesaggistico;b)i trasgressori abbiano previamente
pagato una sanzione amministrativa pecuniaria, in parte predeterminata dalla legge ed in parte stabilita
dall'autorità amministrativa competente, sempre che la domanda del proprietario, del possessore o del
detentore dell'immobile sia stata presentata all'autorità preposta alla gestione del vincolo entro il termine
perentorio del 31 gennaio 2005 e che la stessa amministrazione si pronunci, senza limiti di tempo e
previo parere - obbligatorio ma non vincolante - della soprintendenza.
Ciò premesso, la Corte chiarisce il punto cruciale sottoposto alla sua attenzione, ovverosia se il condono
paesaggistico possa ritenersi compatibile, oltre che con la fattispecie contravvenzionale dell'art. 181 d.lg.
n. 42 del 2004 e con quella dell'art. 734 c.p. (distruzione o deturpamento di bellezze naturali), anche con
i reati edilizi.
Secondo il Giudice di legittimità, la disciplina del c.d. condono ambientale non si estende ai reati edilizi,
per l'assenza di norme di coordinamento che, viceversa, si possono riscontrare in corrispondenza dell'art.
32, comma 43, n. 1 della l. n. 326 del 2003, laddove si prevede espressamente che «il rilascio del titolo
abilitativo edilizio estingue anche il reato per la violazione del vincolo».
In definitiva, poiché un'opera può essere conforme ai piani paesaggistici, ma non agli strumenti
urbanistici e viceversa, giacché l'interesse paesaggistico è ritenuto diverso da quello urbanistico, il
mancato coordinamento della disciplina dei due recenti condoni, oltre tutto sfalsati sul piano temporale scadendo quello edilizio il 10 dicembre 2004, a differenza di quello ambientale che, varato
successivamente, scadeva il 31 gennaio 2005 -, produce la conseguenza per cui un eventuale condono
ambientale può estinguere solo il reato paesaggistico e la relativa misura ripristinatoria, ma non il
connesso reato edilizio, diversamente da quanto disciplinato dalla l. n 326 del 2003, che espressamente
prevedeva che il condono edilizio estinguesse anche il reato per la violazione del vincolo.
Tale conclusione era già stata anticipata da una precedente pronuncia della S.C.(1). Il procedimento
riguardava lavori edilizi realizzati in zona vincolata, non costituenti una semplice attività di manutenzione,
e pertanto tali da determinare la creazione di nuovi volumi e superfici, per i quali l'autore era stato
condannato, sia per il reato paesaggistico che per quello edilizio, con decreto penale divenuto irrevocabile
e connessa sanzione amministrativa accessoria dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo.
Dichiarata, in sede di incidente esecutivo, per ben due volte l'inammissibilità dell'istanza di sospensione o
di revoca dell'ordine di demolizione, il ricorrente chiedeva l'annullamento di entrambi i provvedimenti in
virtù, tra gli altri motivi, dell'operatività della sanatoria prevista dall'art. 1, comma 37, l. n. 308 del 2004,
ma il supremo Consesso escludeva la possibilità di accogliere il ricorso sotto tale aspetto argomentando
nel senso che il condono ambientale è una causa di estinzione del reato che può applicarsi solo
nell'ambito del processo di cognizione, prima che sia intervenuta una sentenza definitiva di condanna; di
contro, dopo il passaggio in giudicato della condanna penale, il condono ambientale non estingue il reato,
né fa cessare gli effetti penali della condanna o l'esecuzione delle sanzioni amministrative accessorie,
quali quelle ripristinatorie(2).
La Corte di legittimità, infine, evidenziava che, poiché la condanna penale riguardava sia il reato
ambientale che quello edilizio, pur volendo prescindere dalle considerazioni dianzi accennate, un
eventuale condono ambientale avrebbe potuto estinguere il reato paesaggistico e la relativa misura
ripristinatoria, ma non avrebbe potuto estinguere il reato urbanistico e, soprattutto, non avrebbe potuto
rendere inefficace l'ordine di demolizione del manufatto abusivo discendente dall'illecito penale edilizio.
Anche in questo caso il giudice di legittimità sembra preferire un approccio interpretativo
prevalentemente ancorato al dato letterale delle norme in rilievo: infatti, a fronte di quell'indirizzo
giurisprudenziale che, nel caso di istanza di sospensione o revoca di un ordine di demolizione, per la sua
natura sostanziale di sanzione amministrativa, ritiene doversi revocare quest'ultima quando la stessa
diventa incompatibile con un atto amministrativo sopravvenuto dell'autorità competente, o doversi
sospendere quando un tale atto amministrativo si annuncia oggettivamente come imminente(3), la
suprema Corte qualifica il condono ambientale in esame come mera causa di estinzione del reato,
applicabile solo nell'ambito del processo di cognizione, prima che sia intervenuta una sanzione definitiva.
Ciò, a parere della Corte, in quanto il condono introdotto dalla l. n. 308 del 2004 non riproduce una
normativa analoga a quella prevista per il condono edilizio nell'art. 38, commi 3 e 4, l. n. 47 del 1985
(richiamata dall'art. 32, comma 25, d.l. n. 269 del 2003, convertito in l. n. 326 del 2003), secondo cui la
concessione in sanatoria, ove intervenuta dopo la sentenza definitiva di condanna, estingue gli effetti
penali della condanna ai fini della recidiva e del beneficio della sospensione condizionale della pena,
rendendo inoltre inapplicabili le sanzioni amministrative, sia pecuniarie che ripristinatorie.
L'impianto argomentativo proposto dalla Corte di cassazione, pertanto, si regge sulla riconosciuta
prevalenza del principio desumibile dagli artt. 2, comma 2, c.p. e 30, comma 4, l. n. 87 del 1953, nonché
dell'art. 673 c.p.p., secondo cui solo l'abrogazione o la dichiarazione di illegittimità costituzionale della
norma incriminatrice fa cessare l'esecuzione della condanna e gli effetti penali, oltre ad obbligare il
giudice dell'esecuzione a revocare la stessa sentenza di condanna(4).
Invero, la soluzione proposta, sul punto, dalla pronuncia in esame non sembra totalmente esente da
rilievi critici, almeno sul piano politico-criminale, non foss'altro perché, pur valorizzando il significato
letterale delle norme in questione, finisce per sacrificare diverse esigenze di ragionevolezza, laddove
introduce una disparità di trattamento fra ipotesi che, sulla base del merodiscrimentemporale costituito
dall'intervento o meno della sentenza definitiva di condanna prima della pronuncia di compatibilità
paesaggistica da parte dell'autorità tutoria, sottostanno ad una differente disciplina, nonostante l'identica
connotazione in termini di disvalore delle due situazioni prospettate.
Non a caso, la dottrina si è recentemente soffermata sui profili di problematicità connessi allacontinuità
della legalità di fronte a discontinuità legislative(5), ovverosia alle situazioni che mettono in discussione
l'equità e ragionevolezza, e quindi la coerenza con il principio di uguaglianza, del limite del giudicato a
fronte di modifiche legislative più favorevoli, incluse le ipotesi estintive della punibilità, quali l'amnistia e
l'indulto(6).
Non si vede, infatti, per quale ragione si debba ritenere meritevole di sanzione un abuso che, pur
presentando le caratteristiche che lo rendono condonabile, per la sussistenza dei relativi presupposti
oggettivi, tuttavia sia stato accertato con sentenza definitiva, a differenza di uno identico da tutti i punti
di vista, ma diverso solo per il mancato intervento della predetta sentenza, ovverosia sulla base di un
dato del tutto indipendente dalla sfera di dominabilità dell'autore.
Senonché, neppure possono del tutto trascurarsi considerazioni decisive come quella secondo cui le
fattispecie estintive hanno carattere tassativo e costituiscono delle deroghe alla disciplina generale, per
cui le stesse devono sottostare ad interpretazione restrittiva.
In conclusione, la giurisprudenza fin qui formatasi in materia di rapporti tra condono ambientale ed
edilizio ha chiarito tre questioni di fondo:a)il primo dei due condoni non estingue i reati edilizi, a
differenza del condono edilizio, che si estende anche ai reati per la violazione del vincolo;b)il condono
ambientale, diversamente da quello edilizio, non comporta la possibilità di sospendere il procedimento
penale, in attesa della definizione del procedimento amministrativo di sanatoria paesaggistica;c)il
condono ambientale può applicarsi solo nell'ambito del processo di cognizione, prima che sia intervenuta
una sentenza definitiva di condanna.
3. L'ACCERTAMENTO POSTUMO DI COMPATIBILITà PAESAGGISTICA SUGLI ABUSI
AMBIENTALI "A REGIME"
Accanto alla disciplina, fin qui esaminata, del c.d. minicondono ambientale, occorre menzionare l'art. 1,
comma 36, lett.c), della l. 15 dicembre 2004, n. 308, che ha escluso dal novero delle condotte
penalmente rilevanti, di cui all'art. 181 d.lg. n. 42 del 2004, talune ipotesi afferenti ad interventi edilizi
minori, così introducendo un nuovo comma, l'1-ter, al predetto articolo del "Codice Urbani". In
particolare, in base a tale ultima disposizione, è esclusa la punibilità:a)per i lavori, realizzati in assenza o
in difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o
volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;b)per l'impiego di materiali in difformità
dall'autorizzazione paesaggistica;c)per i lavori configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o
straordinaria ai sensi dell'art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Inoltre, l'esclusione dall'ambito di rilevanza penale è subordinata all'accertamento della compatibilità
paesaggistica da parte dell'autorità amministrativa preposta alla tutela del vincolo, ovverosia ad
un'autorizzazione "postuma" che deroga al divieto di rilascio successivo alla realizzazione degli interventi
contemplato dall'art. 146, comma 10, lett.c)d.lg. n. 42 del 2004.
La sanatoria "a regime" testé descritta, come meglio si vedrà più avanti, ha operato una sostanziale
depenalizzazione dei fatti tipizzati dalla fattispecie contravvenzionale in esame, da cui deve desumersi,
anche per gli interventi edilizi compiuti su beni paesaggistici pregressi al 30 settembre 2004, la disciplina
di favore prevista dall'art. 2, comma 2, c.p.(7).
In base all'assetto normativo vigente fino all'approvazione del d.lg. n. 157 del 2006, recante "Disposizioni
correttive ed integrative al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, in relazione al paesaggio", nel caso
in cui trovava applicazione l'esimente di cui all'art. 181, comma 1-ter, restava ferma l'applicazione delle
sanzioni amministrative ripristinatorie o pecuniarie di cui all'art. 167, come recitava l'incipitdella
disposizione in esame. Ciò in quanto le modifiche apportate, al c.d. "Decreto Urbani", dall'art. 1, comma
36, lett.c), della l. n. 308 del 2004 lasciavano inalterate le disposizioni di cui agli artt. 146, comma 10,
lett.c)e 167, comma 1, le quali, stabilendo la regola della non configurabilità dell'autorizzazione
paesaggistica postuma nel nostro ordinamento come istituto giuridico generale, sconfessavano
l'orientamento della giurisprudenza amministrativa che, invece, sotto la vigenza della l. n. 1497 del 1939
e del d.lg. n. 490 del 1999, aveva finito per ammettere, in via pretoria, il predetto provvedimento(8).
In tale contesto, non erano mancate prese di posizione in senso contrario alla soluzione adottata dal
legislatore; giàdelege lata, infatti, si era messa in discussione l'univocità degli stessi elementi normativi
posti a fondamento della ritenuta subentrata inammissibilità del rilascio di autorizzazioni in sanatoria
relative alla realizzazione, senza titolo, di opere edilizie su beni vincolati.
Così, da un lato si collocava la giurisprudenza amministrativa, la quale era pervenuta alla conclusione per
la quale il divieto di rilascio di una autorizzazione paesaggistica in sanatoria, previsto dall'art. 146,
comma 10, lett.c), d.lg. n. 42 del 2004, era immediatamente applicabile a tutti i procedimenti in corso
alla data di entrata in vigore della predetta disciplina, in ragione della natura sostanziale della norma e,
viceversa, della natura solo procedurale della disciplina transitoria dettata dall'art. 159, che non
contemplava espressamente tale divieto e, pertanto, non poteva interferire sui profili sostanziali
dell'esercizio del potere concessorio e sulla sua connotazione in termini di necessaria anteriorità rispetto
alla realizzazione dell'opera(9). La dottrina, dall'altro lato, aveva evidenziato una serie di incongruenze,
fra cui decisiva appariva quella per la quale il divieto di autorizzazione paesistica successiva, comportando
l'impossibilità di accedere all'accertamento in sanatoria di conformità, avrebbe implicato la demolizione
delle opere non autorizzate, in aperta contraddizione con il meccanismo sanzionatorio previsto dall'art.
167, comma 1, che, a fronte di un assoluto divieto di rilascio formale di autorizzazione paesaggistica in
sanatoria, manteneva e riproponeva la sanzione alternativa tra la rimessione in pristino a proprie spese
ed il pagamento di una somma equivalente al maggior importo tra il danno arrecato e il profitto
conseguito mediante la trasgressione(10).
In realtà, le istanze di omogeneizzazione della disciplina sanzionatoria del paesaggio e di quella
urbanistico-edilizia non sembrano affatto irragionevoli, anche alla luce del ravvicinamento che le
rispettive regolamentazioni ed i relativi strumenti di programmazione vanno registrando sulla base degli
ultimi sviluppi normativi.
Tali osservazioni sembrano aver trovato riscontro nelle scelte del legislatore, il quale, con il d.lg. n. 157
del 2006, ha definitivamente riconosciuto l'ingresso, nel nostro ordinamento, del nulla osta paesaggistico
postumo.
4. LE MODIFICHE AL SISTEMA SANZIONATORIO INTRODOTTE DAL D.LG. N. 157 DEL 2006
Per effetto dell'entrata in vigore del d.lg. 24 marzo 2006, n. 157, recante «Disposizioni correttive ed
integrative al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, in relazione al paesaggio», sono state apportate
alcune modifiche sostanziali al Codice dei beni culturali e del paesaggio, in particolare, per quel che ci
interessa, alle disposizioni sanzionatorie previste dagli artt. 167 e 181.
Per quanto riguarda l'accertamento di compatibilità paesaggistica postumo, il decreto correttivo ha
modificato gli artt. 146, 167, 181-tere 182 in modo tale che, secondo il combinato disposto del nuovo art.
146, comma 12, e 167, commi 4 e 5, il nulla osta paesistico postumo non può essere rilasciato in
sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi, salvo che per gli abusi c.d.
"minori", che sostanzialmente coincidono con le ipotesi previste dall'art. 181, comma 1-ter, e cioè per i
lavori in assenza o in difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione
di superfici utili o volumi, oppure aumento di quelli legittimamente realizzati; per l'impiego di materiali in
difformità dall'autorizzazione paesaggistica e, infine, per le opere comunque configurabili quali interventi
di manutenzione ordinaria o straordinaria.
In caso di autorizzazione postuma, subordinata all'accertata compatibilità paesaggistica, il trasgressore è
tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggior importo tra il danno arrecato e il profitto
conseguito mediante la trasgressione. Pertanto, in virtù della descritta modifica, secondo l'art. 167,
comma 1, fatte salve le ipotesi di sanatoria, l'autore dell'abuso è sempre tenuto alla rimessione in
pristino a proprie spese entro un termine fissato per provvedere; in definitiva, è caduta la disciplina che
prevedeva, all'esito di una valutazione di opportunità dell'autorità amministrativa preposta alla tutela
paesaggistica, compiuta nell'interesse della protezione dei beni indicati all'art. 134, cioè dei beni
paesaggistici, la rimessione in pristino o il pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra
il danno arrecato e il profitto conseguito.
Infine, la nuova formulazione dell'art. 182 ha portato a riscrivere la disciplina transitoria prevedendo che i
procedimenti relativi alle domande di autorizzazione paesaggistica postuma presentate entro il 30 aprile
2004, non ancora definiti alla data di entrata in vigore dell'ultimo decreto di riforma, oppure definiti con
determinazione di improcedibilità della domanda per il sopravvenuto divieto, senza pronuncia nel merito
della compatibilità paesaggistica dell'intervento, debbono essere esaminati e conclusi dall'Autorità
competente, che, su istanza dell'interessato, riapre il procedimento e lo conclude con provvedimento
motivato.
In altri termini, il legislatore ha ora esteso l'istituto dell'accertamento della compatibilità paesaggistica,
già previsto ai fini penali, anche ai fini sanzionatori amministrativi, con la conseguenza che in tale
contesto la sanzione pecuniaria costituisce non più l'alternativa alla sanzione demolitoria, bensì la
sanzione sostitutiva laddove, per intervenuto giudizio di compatibilità, la prima non debba essere più
applicata.
Tali osservazioni risultano ulteriormente confermate dall'ultimo periodo del comma 5 dell'art. 167, il quale
prevede che «la domanda di accertamento della compatibilità paesaggistica presentata ai sensi dell'art.
181, comma 1-quater, si intende presentata anche ai sensi e per gli effetti di cui al presente comma».
L'opzione di politica del diritto testé menzionata è stata accolta con un certo favore(11), soprattutto da
quanti vi hanno intravisto una conferma di quell'indirizzo dottrinale che, in opposizione alla
giurisprudenza prevalente, riteneva che già il precedente assetto normativo comportasse effetti anche sul
piano amministrativo, non essendo ritenuta ragionevole la differente soluzione. Certamente, non può
negarsi l'attenuazione dell'efficacia generalpreventiva che discende dall'estensione dell'autorizzazione
postuma ai fini amministrativi; potrebbe, infatti, obiettarsi, alle già esposte ragioni di coerenza e di
raccordo con l'ambito di disciplina della materia urbanistico-edilizia, la necessità di valorizzare, nell'ottica
della sussidiarietà penale, la sanzione amministrativa nelle ipotesi di illeciti formali, per subordinare
l'intervento della sanzione criminale al rispetto del principio di offensività.
Ad ogni buon conto, l'evoluzione normativa osservata si pone a coronamento di un processo di
avvicinamento della disciplina degli illeciti paesaggistici a quelli edilizi, e ciò non solo per le tecniche
incriminatrici utilizzate, ma anche per la riconosciuta possibilità di ottenere il rilascio di un'autorizzazione
successiva alla realizzazione degli interventi; in tale contesto, ferme restando quelle differenze di
disciplina che sono conseguenza delle peculiarità che contraddistinguono le rispettive materie, i due
ambiti normativi - paesaggistico-ambientale e urbanistico-edilizio - tendono a convergere per ciò che
concerne modelli e strumenti di tutela e promozione, a conferma della ribadita assunzione di
consapevolezza della sempre più intensa commistione fra i due profili, dell'intreccio di interessi in cui i
due richiamati contesti si integrano o sono chiamati ad integrarsi in una visione unitaria di sviluppo(12).
Non a caso, il d.lg. n. 157 del 2006, nel modificare l'art. 135 del d.lg. n. 42 del 2004, ha previsto che,
premesso che lo Stato e le regioni assicurano che il paesaggio sia adeguatamente conosciuto, tutelato e
valorizzato, le regioni, sempre nella specificata ottica collaborativa con lo Stato, sottopongano a specifica
normativa d'uso il territorio, approvando piani paesaggistici o piani urbanistico-territoriali con specifica
considerazione dei valori paesaggistici, concernenti l'intero territorio regionale, entrambi denominati
"piani paesaggistici", i quali individuano ambiti definiti in relazione alla tipologia, rilevanza e integrità dei
valori paesaggistici.
Nella prospettiva testé indicata, la sensibilità del penalista non può trascurare che le modifiche della
disciplina extrapenale finiscono per riverberarsi anche sugli interessi che intersecano il piano della tutela
penale; pertanto, la stretta compenetrazione fra la pianificazione paesaggistica e quella urbanistica indica
il progressivo allineamento degli interessi coinvolti, che esigenze di razionalità impongono di considerare
anche nella prospettiva penalistica, soprattutto se si considera che tutto il diritto sanzionatorio assume
oggetti di tutela che non si rinvengono inrerum natura, ma sono prioritariamente plasmati, calibrati e
formati dalla regolamentazione extrapenalistica, ovvero, come nel caso in esame, amministrativa(13).
5. ALCUNE CONSIDERAZIONI SUI PROFILI STRUTTURALI DEI REATI A TUTELA DEL
PAESAGGIO
La tecnica sanzionatoria adottata dal Codice dei beni culturali e del paesaggio rivela la sostanziale
conferma della scissione fra gestione dei beni, affidata all'amministrazione, e garanzia dell'effettività
dell'intera normativa, attraverso la deterrenza delle sue minacce, affidata, invece, al diritto penale(14).
L'art. 181 del Codice, unica norma incriminatrice in materia di paesaggio, prevede l'incriminazione di
interventi modificativi dell'assetto del territorio, purché avvenuti in assenza della prescritta autorizzazione
o in difformità dalla stessa. La tecnica di conformazione del fatto di reato è quella consueta che si
riscontra anche in materia di reati edilizi o ambientali, per cui la tutela del bene finale viene anticipata al
pericolo presunto: non viene immediatamente tutelato il bene paesaggistico, ma l'interesse dell'autorità
al controllo preventivo di quelle alterazioni suscettibili in astratto di incidere negativamente sulla forma
del territorio, sulla base dell'assunto che il primo è strumentale alla difesa della seconda(15).
Cosicché, anche in relazione alla fattispecie che ci interessa, si sono formati diversi orientamenti, di cui il
più rigoroso è senz'altro quello che attribuisce ad essa natura di illecito di mera condotta, volto a
sanzionare la mera disobbedienza rispetto al dovere di dotarsi del nulla-osta paesaggistico prima di
qualsiasi intervento(16).
In opposizione a tale tesi, non sono mancate posizioni di segno diverso, secondo cui non sarebbe
condivisibile, in quanto contraddittoria, un'interpretazione incentrata sulla punibilità della mera violazione
del regime autorizzativo, soprattutto se si considera che il secondo comma dell'art. 181 del Codice
prevede la possibilità, da parte del giudice, di comminare, accanto alla sanzione penale, la sanzione
amministrativa accessoria della rimessione in pristino, così dimostrando una chiara volontà del legislatore
di non prescindere affatto dai profili di lesione sostanziale e concreta del bene ambientale paesaggistico
preso di mira dalla norma in commento. Inoltre, nonostante il reato contravvenzionale di deturpamento o
distruzione di bellezze naturali di cui all'art. 734 c.p. sia un illecito di danno, esso è punito in modo più
mite rispetto alla comminatoria prevista dall'art. 181, comma 1, d.lg. n. 42 del 2004, ragion per cui
un'interpretazione estremamente formalistica di tale ultima norma incriminatrice non potrebbe che
accentuare tali profili di irrazionalità nei rapporti con la suddetta fattispecie codicistica(17).
Il tema dell'offensività, con particolare riferimento ai reati di pericolo astratto, presenta profili di estrema
problematicità e complessità, soprattutto per le diverse posizioni emerse in ambito dottrinale e
giurisprudenziale. Senza entrare, pertanto, nel merito delle diverse sfumature poste in evidenza sul punto
dalla dottrina(18), pur propendendo per la tesi che scorge nell'offensività, in primo luogo, un canone di
conformazione strutturale del reato(19), poiché l'attuazione del principio di offensività dovrebbe essere
tentata, prima ancora che sul piano giudiziario, su quello legislativo(20), sembra opportuno ricordare la
sentenza della Corte costituzionale, che, investita della questione di legittimità dell'art. 1-sexiesl. n. 431
del 1985 (c.d.Legge Galasso) in relazione agli artt. 13, 25 e 27 Cost., ha ribadito l'indirizzo
giurisprudenziale consolidato secondo cui i reati di pericolo non contrastano col principio in discussione,
anche perché, a prescindere dalla valutazione del legislatore sulla concreta incidenza della condotta sul
bene tutelato, «per i reati formali o di pericolo presunto l'accertamento in concreto dell'offensività è
devoluto al giudice penale, con ciò venendosi ad evidenziare non un vizio di costituzionalità, ma una
valutazione di merito dello stesso giudice»(21).
La suprema Corte, infatti, al fine di mitigare l'estremo rigore della fattispecie rispetto ai casi concreti che,
pur presentando idoneità offensiva, appaiono di minore entità, ha concluso nel senso che «nel valutare
l'offensività della condotta il giudice deve tenere conto della sua incidenza in senso fisico ed estetico sul
bene protetto ed in relazione al contingente contesto ambientale, senza trascurare la diffusività del
pericolo in presenza di una molteplicità di condotte analoghe reiterate nel tempo»(22), in tal modo
giungendo a introdurre la minima soglia del danno paesaggistico quale vero e proprio elemento
costitutivo del reato(22).
6. CONCLUSIONI
Un ultimo profilo, preso in considerazione dalla sentenza in commento, merita di essere esaminato. La
Corte, dopo aver confermato la decisione dei giudici di merito di dichiarare l'insanabilità dell'intervento
edilizio realizzato, per l'assenza dei presupposti del condono edilizio di cui alla l. n. 326 del 2003, con
riferimento alla richiesta di sospensione processuale formulata in attesa della statuizione amministrativa
sulla compatibilità paesaggistica, desume, dal tenore letterale della l. n. 308 del 2004, che non prevede
un'espressa disposizione legislativa analoga a quella di cui all'art. 38 l. n. 47 del 1985, richiamato, invece,
dalla l. n. 326 del 2003 per il condono edilizio, l'impossibilità della sospensione stessa; secondo il Giudice
di legittimità, neppure l'art. 479 c.p.p. può invocarsi a favore della tesi avversata, perché tale norma
presuppone l'esistenza di una controversia in atto da definire con sentenza, nel caso di specie assente per
non essersi esaurito il procedimento amministrativo di compatibilità paesaggistica e non essere stato
impugnato, in sede di giurisdizione amministrativa, alcun eventuale provvedimento di diniego.
Senonché, se si conviene con quell'indirizzo giurisprudenziale, precedentemente richiamato, secondo cui,
per i reati formali o di pericolo presunto, l'accertamento in concreto dell'offensività è devoluto al giudice
penale, attinendo ad una sua valutazione di merito, deve anche concludersi che l'accertamento postumo
di conformità in materia paesaggistica, valendo a verificare che il fatto è concretamente inoffensivo,
esclude che possa ritenersi consumata la fattispecie incriminatrice e, pertanto, implica, secondo la tesi
che si ritiene di privilegiare, la sospensione del processo penale, proprio per la natura sostanziale della
circostanza affidata all'accertamento dell'amministrazione competente.
Più complessa appare la situazione se, viceversa, si aderisce a quella giurisprudenza per la quale l'art.
181, comma 1, d.lg. n. 42 del 2004 descrive un «reato di pericolo astratto, mediante il quale il
legislatore, imponendo la necessità di autorizzazione, ha inteso assicurare una immediata informazione e
la preventiva valutazione, da parte della p.a., dell'impatto sul paesaggio nel caso di interventi consistenti
sia in opere edilizie sia in altre attività antropiche, intrinsecamente capaci di comportare modificazioni
ambientali e paesaggistiche»(24). In tal caso, l'accertamento postumo di compatibilità paesaggistica
viene ad assumere la portata non di elemento negativo della tipicità, bensì di mera fattispecie estintiva
del reato(25).
Senonché, anche nella prospettiva testé delineata, non può negarsi come la soluzione accolta dalla Corte
di cassazione (la non sospendibilità del processo penale in attesa del nulla-osta in sanatoria), per quanto
apparentemente più aderente al tenore letterale, appaia foriera di effetti alquanto contraddittori sia sul
piano sistematico che su quello dell'adeguatezza rispetto allaratiosottesa alla disciplina.
Anzi, a ben guardare, qualche dubbio solleva già la stessa pretesa maggiore aderenza al dato testuale
dell'interpretazione adottata dalla Corte. Infatti, nel momento in cui il comma 1-terrichiama il concetto di
"non applicazione" della disposizione di cui al primo comma dell'art. 181 del Codice, non sembra doversi
necessariamente orientare nel senso della configurazione di una causa di estinzione del reato, poiché il
rinvio alla disposizione incriminatrice ben può estendersi anche alla sanzione, e non solo alla parte
precettiva. D'altronde, lo stesso testo unico in materia edilizia, all'art. 45, comma 3, precisa che il rilascio
in sanatoria del permesso di costruireestingue i reati contravvenzionaliprevisti dalle norme urbanistiche
vigenti, così come il legislatore della riforma dei reati societari, quando ha previsto cause estintive del
reato (artt. 2627, 2628 e 2629 c.c.), ha utilizzato la locuzioneestingue il reato.
Inoltre, laddove il legislatore ha voluto porre dei limiti temporali ben precisi, li ha espressamente indicati,
come dimostra l'ulteriore ipotesi di non punibilità di cui al comma 1-quinquiesdell'art. 181, laddove si
precisa che la rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincoli paesaggistici da parte
del trasgressore deve intervenire prima che venga disposta d'ufficio dall'autorità amministrativa, e
comunque prima che intervenga la condanna; l'effetto, poi, di tale condotta riparatoria è chiaramente
qualificato come causa di estinzione del reato; cosicché, in dottrina si è piuttosto notata la differenza
terminologica riscontrabile nel dato testuale tra le predette clausole di non applicazione e di estinzione
(26).
Per quanto attiene alla questione del permesso in sanatoria in materia edilizia, il legislatore ha previsto
(art. 45 t.u. n. 380 del 2001), in continuità con la disciplina della concessione o autorizzazione in
sanatoria, una apposita causa di estinzione delle contravvenzioni edilizie, da cui discende il predetto
effetto sospensivo. È evidente, pertanto, come la differente disciplina vigente nella contigua materia
edilizia renda contraddittoria un'eventuale diversa soluzione in materia di tutela del paesaggio, laddove
ugualmente potrebbe individuarsi, come ritenuto in dottrina(27), un'ipotesi di antecedenza necessaria di
diritto sostanziale. In altri termini, muovendo dalla distinzione fra pregiudizialità in senso proprio, intesa
come relazione logica fra accertamenti (giudizi), ed antecedenza necessaria, intesa quale situazione in cui
una delle due fattispecie ha, come sua premessa, non già un accertamento (un giudizio), ma un «fatto»,
cioè un comando giudiziale (o dell'autorità amministrativa)(28), non sembra priva di fondamento la tesi
per la quale sarebbe il provvedimento in sanatoria, e non i presupposti e le ragioni che lo fondano (la
conformità dell'opera agli strumenti urbanistici), ad interessare la disciplina sostantiva, in sintonia con la
natura degli illeciti edilizi nella misura in cui sono rivolti a tutelare anche il controllo amministrativo; nella
prospettiva delineata, l'aver previsto, quale estremo di fattispecie, un atto "esterno", anziché i suoi
presupposti, non sta nella coerenza logica tra accertamenti, che interessa la pregiudizialità come
ricostruita nei termini anzidetti, ma nella struttura specifica del reato, in sintonia con lo schema della
antecedenza necessaria di diritto sostanziale, ipotesi cui si accompagna la regola generale della
sospensione obbligatoria del processo penale, in attesa del perfezionamento della fattispecie sostanziale
che di volta in volta viene in rilievo.
Ciò premesso, non si comprende per quali ragioni, viste le inequivoche analogie strutturali e teleologiche
con la disciplina degli illeciti in materia urbanistico-ediliza, la S.C. sia giunta a conclusioni radicalmente
antitetiche in materia di tutela paesaggistica da condotte di illecita alterazione. E le contraddizioni non si
riducono, bensì aumentano, se solo si considera che la pronuncia in commento lascia intravedere la
possibilità di una sospensioneexart. 479 c.p.p. nel caso di impugnazione del diniego del provvedimento di
sanatoria, laddove, viceversa, giurisprudenza consolidata, avallata anche dal Giudice delle leggi, ritiene
conforme ad esigenze di razionalità la previsione della sospensione del processo penale in attesa del
provvedimento abilitativo in sanatoria, ma non anche quando la domanda di sanatoria abbia avuto esito
negativo in via amministrativa e sia sorta controversia, in sede giurisdizionale, sulla legittimità di tale
rifiuto, purché venga opportunamente escluso il rischio del decorso della prescrizione e salvaguardato il
libero convincimento del giudice(29).
In realtà, potremmo ricondurre la fattispecie di cui al comma 1-terdel Codice dei beni culturali e del
paesaggio ad un'ipotesi diclausola negativa di delimitazione della responsabilità, del tipo di quella prevista
dal § 326, comma 5, StGB, consistente in una specifica e dettagliata clausola di inoffensività(30),
finalizzata ad esentare da pena tutti i casi in cui lo scarico di rifiuti avvenga in misura così ridotta, da far
apparire manifestamente esclusa la verificazione di conseguenze pregiudizievoli. Sul piano degli effetti,
invece, il legislatore avrebbe delineato, attraverso l'autorizzazione in sanatoria, uno schema normativo
ispirato alla tecnica della degradazione dell'illecito, da penale ad amministrativo(31); ciò che non cambia,
tuttavia, è la qualificazione dell'accertamento in discorso alla stregua di elemento idoneo a determinare
effetti sospensivi del giudizio penale e del decorso della prescrizione.
Applicando fino in fondo, invece, il principio elaborato dalla pronuncia in esame, dovrebbe ammettersi,
con esito del tutto contrario ad ogni logica di razionalità ed economia processuale, che il responsabile di
illecita esecuzione di lavori su beni paesaggistici in assenza di autorizzazione o in difformità da esso abbia
interesse a vedersi celermente respinta l'istanza di autorizzazione postuma per poter rapidamente
impugnare il diniego in sede di giurisdizione amministrativa ed invocare la sospensione del giudizioexart.
479 c.p.p., come ipotizzato dallo stesso supremo Collegio, tra l'altro in palese contraddizione col
differente e più ragionevole, in quanto avallato dallo stesso Giudice delle leggi, orientamento affermatosi
in materia di reati edilizi.
Per la sanzione accessoria amministrativa, invece, a seguito dell'intervento novellatore predisposto con
d.lg. n. 157 del 2006, deve ritenersi non più attuale quell'indirizzo che sosteneva l'applicazione e
l'esecuzione dell'ordine di ripristino anche in presenza dei presupposti dell'esimenteexart. 181, comma 1ter, poiché, anche tralasciando la disciplina del condono ambientale, almeno nelle ipotesi sussumibili
nell'attuale versione dell'art. 167 del Codice, qualora l'autorità amministrativa accerti la compatibilità
paesaggistica degli interventi di cui all'art. 181, è possibilein executivisottenere la revoca dell'ordine di
ripristino dello stato dei luoghi applicato con la sentenza di condanna(32).
In tale ipotesi, mantenere ferma la sanzione penale, a fronte della revoca di quella amministrativa,
equivale a contraddire laratioispiratrice della riforma, ovverosia quella di instaurare una forte
interdipendenza tra sanzione amministrativa (e sua esecuzione) e sanzione penale(33).
NOTE
(1) Sez. III, 26 ottobre 2005, inRiv. giur. amb., 2006, p. 701 ss.
(2) Sez. III, 26 ottobre 2005, cit, p. 705 s.
(3) V. Sez. III, 19 gennaio 2005, n. 1104, Calabrese, inC.E.D. Cass., n. 230815.
(4) Ipotesi cui appare ragionevole aggiungere anche quella della mancata conversione del decreto legge
contenente una norma incriminatrice, come opportunamente statuito da Sez. I, 15 giugno 1999, n. 3205,
Litim, inC.E.D. Cass., n. 213715.
(5)PULITANÒ,Legalità discontinua? Paradigmi e problemi di diritto intertemporale, inRiv. it. dir. e proc.
pen., 2002, p. 1270 ss.
(6)PULITANÒ,Legalità discontinua?, cit., p. 1292 ss.
(7) Cfr.BELTRAME,Tutela penale del paesaggio e abusivismo edilizio: le modifiche al sistema sanzionatorio
introdotte dal d.lg. n. 157 del 2006, inRiv. giur. amb., 2006, p. 710.
(8) Cons. St., Sez. VI, 12 maggio 2004, n. 2994; Sez. VI, 11 ottobre 2000, n. 5373;contraCons. St., Ad.
Gen., 25 gennaio 1996, n. 20.
(9)Ex plurimis, cfr. TAR Puglia, Lecce, Sez. I, 10 novembre 2005, n. 4943, inRiv. giur. amb., 2006, p. 522
ss.: la decisione ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 146, comma 10,
lett.c), rispetto agli artt. 3 e 97 Cost., proprio in virtù della considerazione per la quale «il primario rango
che il paesaggio rinviene nel testo costituzionale e nella evoluzione della sensibilità giuridico-sociale
risulta pienamente ed effettivamente garantito proprio attraverso un intervento amministrativo di tipo
preventivo che valuti la compatibilità del progetto edificatorio con il contesto ambientale di riferimento
nella sua dimensione reale e nel suo intrinseco ed assoluto significato, con esclusione di valutazioni
operate in un quadro già, comunque, inciso dall'opera ormai realizzata». Sempre secondo il medesimo
Giudice, inoltre, poiché ogni fase o atto del procedimento amministrativo viene disciplinato, quanto alla
struttura, ai requisiti e al ruolo funzionale, dalle disposizioni di legge e di regolamento vigenti alla data in
cui ha luogo ciascuna sequenza, la regola generale secondo cuitempus regit actumimpone l'applicazione
del divieto di rilascio di sanatoria di cui all'art. 146 alle fasi non ancora concluse del procedimento; nel
medesimo senso si era espresso il Ministero per i beni e le attività culturali, con la circolare interpretativa
n. 56/06/24664 del 16 luglio 2004, adottata sulla base del parere dell'ufficio legislativo n. 11758 del 22
giugno 2004, che ha ritenuto il divieto contenuto nell'art. 146, comma 10, lett.c)operativo già dall'entrata
in vigore dello stesso e la disciplina transitoria di cui all'art. 159 d.lg. 42 del 2004 applicabile solo agli
aspetti procedimentali dell'autorizzazione paesistica, ma non ai presupposti dell'atto.
(10) Cfr.VITIELLO,Cambia di nuovo il quadro normativo di riferimento dell'autorizzazione paesaggistica
postuma, inRiv. giur. amb., 2006, p. 530; in giurisprudenza, cfr. TAR Puglia, Lecce, Sez. I, 10 novembre
2005, n. 4943, cit., secondo cui nessuna incongruenza logico-giuridica poteva riscontrarsi tra il divieto
assoluto di cui all'art. 146 ed il sistema sanzionatorio predisposto dall'art. 167 d.lg. 42 del 2004.
(11) In questo senso, cfr.TRICOMI,Ridotte le alternative alla demolizione, inGuida dir., 2006, n. 26, p.
111.
(12) La stessa giurisprudenza costituzionale, fin dalle sue prime significative pronunce sul tema, ha
contribuito ad elaborare un concetto unitario di ambiente, che comprende, oltre alla protezione collegata
all'assetto urbanistico del territorio, anche la tutela del paesaggio, la tutela della salute, nonché la difesa
del suolo, dell'aria e dell'acqua dall'inquinamento (C. cost., n. 239 del 1982, inForo it., 1982, c. 2),
considerandolo un bene immateriale unitario sebbene a varie componenti, ciascuna delle quali può anche
costituire, isolatamente e separatamente, oggetto di cura e di tutela; ma tutte, nell'insieme, sono
riconducibili ad unità (C. cost., n. 641 del 1987, inRiv. giur. amb., 1988, p. 93).
(13) Tali riflessioni sono state per la prima volta proposte in relazione ai rapporti tra il diritto penale
dell'impresa e la sottostante regolamentazione civilistica, daPEDRAZZI, voceSocietà commerciali
(disciplina penale), inDig. d. pen., vol. XIII, Utet, 1998, ora inDiritto penale. Scritti di diritto penale
dell'economia, vol. III, Giuffrè, 2003, p. 295; più recentemente, con riferimento ai rapporti tra disciplina
civilistica del fallimento, di recente riformata, e reati fallimentari, cfr.ALESSANDRI,Profili penalistici delle
innovazioni in tema di soluzioni concordate delle crisi d'impresa, inRiv. it. dir. e proc. pen., 2006, p. 115.
(14) CosìDEMURO,D.Lgs. 42/04, Premessa e commento alla parte quarta, inLeg. pen., 2004, p. 425.
(15) In tal senso, cfr.BERGAMASCO,Commento all'art. 181 del d.lg. 42/04, inCodice commentato dei reati
e degli illeciti ambientali, a cura di Giunta, Cedam, 2005, p. 895;PATERNITI,Profili penalistici della tutela
del paesaggio, inRiv. trim. dir. pen.econ., 2006, p. 779;PADALINO-MORICHINI,La tutela penale dei beni
paesaggistici ai sensi del decreto legislativo n. 42 del 2004, inIl codice dei beni culturali e del paesaggio,
gli illeciti penali, a cura di Manna, Giuffrè, 2005, p. 357.
(16) Sez. VI, 24 luglio 1997, Stanzione, inquesta rivista, 1999, p. 256; Sez. III, 2 ottobre 1996, Elia,
inRiv. giur. ed., 1998, I, p. 211.
(17) Cfr.BERGAMASCO,Commento all'art. 181 del d.lg. 42/04, cit., p. 906.
(18)MANNA,I reati di pericolo astratto e presunto ed i modelli di diritto penale, inDiritto penale minimo, a
cura di Curi-Palombarini, Donzelli, 2002, p. 35 ss.;MANES,Il principio di offensività nel diritto penale.
Canone di politica criminale, criterio ermeneutico, parametro di ragionevolezza, Giappichelli, 2005, part.
p. 293 ss. e 298 ss., che non nasconde un giudizio critico nei confronti dei reati di pericolo astratto
incentrati sulla violazione di un provvedimento amministrativo.
(19) Cfr. C. cost., 24 luglio 1995, n. 360, inquesta rivista, 1995, p. 2824, con nota diGIUS. AMATO,Nuovi
interventi giurisprudenziali in tema di coltivazione di piante da cui si estraggono sostanze stupefacenti, p.
2825 ss., laddove si legge che «la verifica del rispetto del principio dell'offensività come limite di rango
costituzionale alla discrezionalità del legislatore ordinario nel perseguire penalmente condotte segnate da
un giudizio di disvalore implica la ricognizione astratta della fattispecie penale, depurata dalla variabilità
del suo concreto atteggiarsi nei singoli comportamenti in essa sussumibili [...] Diverso profilo è quello
dell'offensività specifica della singola condotta in concreto accertata ...».
(20)DI GIOVINE,L'evoluzione dell'art. 25 Cost. nel pensiero del nuovo costituente, inquesta rivista, 1998,
p. 356 ss.
(21) C. cost., 18 luglio 1997, n. 247, inDir. pen. proc., 1997, p. 1072.
(22) Cfr. Sez. III, 22 ottobre 1998, inRiv. pen., 1999, p. 274.
(23) Cfr.RAMACCI,Quale futuro per la tutela dei beni culturali ed ambientali? La tutela penale del
paesaggio, inIl codice dei beni culturali e del paesaggio tra teoria e prassi, a cura di Piergigli-Maccari,
Giuffrè, 2006, p. 788;PATERNITI,Profili penalistici della tutela del paesaggio, cit., p. 780
s.;BERGAMASCO,Commento all'art. 181 del d.lg. 42/04,cit., p. 907.
(24) Così Sez. III, 26 maggio 2004, Signorini, inUrb. app., 2004, p. 1110.
(25) In questo senso si esprimeBISORI,Riforma della tutela penale del paesaggio, inquesta rivista, 2005,
p. 3188 s.
(26) V.NATALINI,Primi spunti problematici sul nuovo delitto di alterazione del paesaggio, inquesta rivista,
2006, p. 2101, nt. 20.
(27)BUSETTO,Giudice penale e sentenza dichiarativa di fallimento, Giuffrè, 2000, p. 123 ss.
(28)BUSETTO,Giudice penale e sentenza dichiarativa di fallimento, cit., p. 20.
(29) C. cost., sentenza n. 270 del 1996, che, tra l'altro, ammette anche la legittimità di una soluzione
diversa, ovverosia quella della sospensione estesa anche alla fase di giurisdizione amministrativa; C.
cost., sentenza n. 85 del 1998, riferita alla autorizzazione in sanatoria relativa alle costruzioni realizzate
in violazione dei vincoli paesaggistici culturali o ambientali.
(30) Sul tema, cfr.FIANDACA,La tipizzazione del pericolo, inDei delitti e delle pene, 1984, p. 441 ss.
(31) V.DONINI,Le tecniche di degradazione fra sussidiarietà e non punibilità, inInd. pen., 2003, p. 75 ss.
(32)BELTRAME,Tutela del paesaggio e abusivismo edilizio: le modifiche al sistema sanzionatorio
introdotte dal d.lg. n. 157 del 2006, cit., 712, il quale, però, ritiene comunque salvi gli effetti penali della
condanna penale irrevocabile, nonostante la possibilità di revocare in sede esecutiva la sanzione
amministrativa a seguito dell'intervenuta autorizzazione paesaggistica in sanatoria.
(33) A dire il vero, il risultato complessivo delle riforme intervenute nella materia esaminata non è esente
da ulteriori rilievi critici, dal momento che l'introduzione del delitto di alterazione del paesaggio, con la
sua struttura di pericolo astratto, l'assenza di istituti estintivi di regime, l'aggravio sanzionatorio rispetto
alla figura contravvenzionale, la controversa qualificazione in termini di fattispecie autonoma od
aggravata e il non lineare collegamento con il reato di cui al primo comma, ha fatto sorgere ulteriori
sospetti di irragionevolezza: per un esame di tali problematiche, cfr.BISORI,Riforma della tutela penale
del paesaggio, cit., p. 3185-88;NATALINI,Primi spunti problematici sul nuovo delitto di alterazione del
paesaggio,cit., p. 2099-2103.
Archivio selezionato: Dottrina
Le acque pubbliche nel Codice dell'ambiente
Riv. giur. ambiente 2007, 3-4, 435
FILIPPO CAZZAGON (*)
1. Premessa. 2. L'evoluzione del concetto di acque pubbliche nell'ordinamento italiano. 3. Esame critico
dell'interpretazione restrittiva della nozione di acque pubbliche introdotta dall'art. 1 della legge n. 36 del
1994: il valore precettivo della declaratoria di pubblicità generale e l'interesse generale sotteso alla
demanialità. La duplice concezione della pubblicità delle acque. 4. La categoria ontologica delle acque
pubbliche: acque superficiali ed acque sotterranee. 5. Il problema della compatibilità degli artt. 909, 910,
La tutela delle acque
dagli inquinamenti
Un bene intrinsecamente pubblico
Geografia
-
-
-
-
Titolo III Tutela dei corpi idrici e disciplina degli scarichi Capo I Aree
richiedenti specifiche misure di prevenzione dall'inquinamento e di
risanamento Capo II Tutela quantitativa della risorsa e risparmio
idrico Capo III Tutela qualitativa della risorsa: disciplina degli scarichi
Capo IV Ulteriori misure per la tutela dei corpi idrici
Titolo II Obiettivi di qualità Capo I Obiettivo di qualità ambientale e
obiettivo di qualità per specifica destinazione Capo II Acque a specifica
destinazione
Titolo I Principi generali e competenze
Sezione II Tutela delle acque dall'inquinamento
Sul piano topografico:
-
Titolo IV Strumenti di tutela Capo I Piani di gestione e piani di tutela
delle acque Capo II Autorizzazione agli scarichi Capo III Controllo degli
scarichi Titolo V Sanzioni Capo I Sanzioni amministrative Capo II
Sanzioni penali
Premessa
Una disciplina estremamente tecnica
Finalità (73)
a) prevenire e ridurre l'inquinamento e attuare il risanamento dei corpi idrici inquinati;
b) conseguire il miglioramento dello stato delle acque ed adeguate protezioni di quelle
destinate a particolari usi;
c) perseguire usi sostenibili e durevoli delle risorse idriche, con priorità per quelle potabili;
d) mantenere la capacità naturale di autodepurazione dei corpi idrici, nonché la capacità
di sostenere comunità animali e vegetali ampie e ben diversificate;
e) mitigare gli effetti delle inondazioni e della siccità contribuendo quindi a: 1) garantire
una fornitura sufficiente di acque superficiali e sotterranee di
buona qualità per un utilizzo idrico sostenibile, equilibrato ed equo;
2) ridurre in modo significativo l'inquinamento delle acque sotterranee;
3) proteggere le acque territoriali e marine e realizzare gli obiettivi degli accordi
internazionali in materia
f) impedire un ulteriore deterioramento, proteggere e migliorare lo stato degli ecosistemi
acquatici, degli ecosistemi terrestri e delle zone umide direttamente dipendenti dagli
ecosistemi acquatici sotto il profilo del fabbisogno idrico.
Strumenti
a) l'individuazione di obiettivi di qualità ambientale e per specifica destinazione dei corpi
idrici;
b) la tutela integrata degli aspetti qualitativi e quantitativi nell'ambito di ciascun distretto
idrografico ed un adeguato sistema di controlli e di sanzioni;
c) il rispetto dei valori limite agli scarichi fissati dallo Stato, nonché la definizione di valori
limite in relazione agli obiettivi di qualità del corpo recettore;
d) l'adeguamento dei sistemi di fognatura, collegamento e depurazione degli scarichi idrici,
nell'ambito del servizio idrico integrato;
e) l'individuazione di misure per la prevenzione e la riduzione dell'inquinamento nelle
zone vulnerabili e nelle aree sensibili;
f) l'individuazione di misure tese alla conservazione, al risparmio, al riutilizzo ed al riciclo
delle risorse idriche;
g) l'adozione di misure per la graduale riduzione degli scarichi, delle emissioni e di ogni
altra fonte di inquinamento
h) l'adozione delle misure volte al controllo degli scarichi e delle emissioni nelle acque
superficiali secondo un approccio combinato
Obiettivi di qualità
ambientale e per
specifica destinazione
-
-
-
Sufficiente, entro 2008; Buono, entro 2015
Compito delle Regioni, sulla base delle indicazioni
delle Autorità di Bacino, obbligazione di risultato, in
ogni caso impedire ulteriori degradi
L'obiettivo di qualità per specifica destinazione
individua lo stato dei corpi idrici idoneo ad una
particolare utilizzazione da parte dell'uomo, alla vita
dei pesci e dei molluschi
L'obiettivo di qualità ambientale è definito in funzione
della capacità dei corpi idrici di mantenere i processi
naturali di autodepurazione e di supportare
Obiettivi di qualità ambientale
e per specifica destinazione
-
Corpi artificiali o
fortemente modificati
La designazione di un corpo idrico artificiale o fortemente modificato e la relativa
motivazione sono esplicitamente menzionate nei piani di bacino e sono riesaminate ogni sei
anni. Le regioni possono definire un corpo idrico artificiale o fortemente modificato quando:
a) le modifiche delle caratteristiche idromorfologiche di tale corpo, necessarie al
raggiungimento di un buono stato ecologico, abbiano conseguenze negative rilevanti:
1) sull'ambiente in senso ampio;
2) sulla navigazione, comprese le infrastrutture portuali, o sul diporto;
3) sulle attività per le quali l'acqua è accumulata, quali la fornitura di acqua potabile, la
produzione di energia o l'irrigazione;
4) sulla regolazione delle acque, la protezione dalle inondazioni o il drenaggio agricolo;
5) su altre attività sostenibili di sviluppo umano ugualmente importanti;
b) i vantaggi cui sono finalizzate le caratteristiche artificiali o modificate del corpo idrico
non possono, per motivi di fattibilità tecnica o a causa dei costi sproporzionati, essere
raggiunti con altri mezzi che rappresentino un'opzione significativamente migliore sul piano
ambientale.
=> SVILUPPO SOSTENIBILE
Deroghe
Le regioni, per alcuni corpi idrici, possono stabilire di conseguire obiettivi ambientali meno
rigorosi rispetto a quelli di cui al comma 4, qualora, a causa delle ripercussioni dell'impatto
antropico rilevato ai sensi dell'articolo 118 o delle loro condizioni naturali, non sia possibile
o sia esageratamente oneroso il loro raggiungimento. Devono, in ogni caso, ricorrere le
seguenti condizioni:
a) la situazione ambientale e socioeconomica non consente di prevedere altre opzioni
significativamente migliori sul piano ambientale ed economico;
b) la garanzia che:
1) per le acque superficiali venga conseguito il migliore stato ecologico e chimico possibile,
tenuto conto degli impatti che non potevano ragionevolmente essere evitati per la natura
dell'attività umana o dell'inquinamento;
2) per le acque sotterranee siano apportate modifiche minime al loro stato di qualità, tenuto
conto degli impatti che non potevano ragionevolmente essere evitati per la natura
dell'attività umana o dell'inquinamento;
c) per lo stato del corpo idrico non si verifichi alcun ulteriore deterioramento;
d) gli obiettivi ambientali meno rigorosi e le relative motivazioni figurano espressamente nel
piano di gestione del bacino idrografico e del piano di tutela di cui agli articoli 117 e 121 e tali
obiettivi sono rivisti ogni sei anni nell'ambito della revisione di detti piani
Obiettivi di qualità per
specifica destinazione
Sono acque a specifica destinazione funzionale:
a) le acque dolci superficiali destinate alla produzione di acqua
potabile (A1: trattamento fisico semplice e disinfezione; A2:
trattamento fisico e chimico normale e disinfezione; A3:
trattamento fisico e chimico spinto, affinamento e disinfezione)
b) le acque destinate alla balneazione (Tutte le acque devono
essere idonee alla balneazione, e per le acque non idonee alla
balneazione le Regioni devono indicare al Ministero con
cadenza annuale le cause che impediscono di fare il bagno);
c) le acque dolci che richiedono protezione e miglioramento
per essere idonee alla vita dei pesci (salmonicole e ciprinicole);
d) le acque destinate alla vita dei molluschi.
Tutela dei corpi idrici e
disciplina degli scarichi
Aree richiedenti specifiche misure di
prevenzione dall'inquinamento e di risanamento
Casi che abbisognano di
speciali forme di tutela
Aree sensibili
Aree vulnerabili ai nitrati di origine
agricola (codice di buona pratica agricola)
Zone vulnerabili da prodotti fitosanitari e
zone vulnerabili alla desertificazione
Aree di salvaguardia delle acque
superficiali e sotterranee destinate al
consumo umano
Tutela dei corpi idrici e
disciplina degli scarichi
Tutela quantitativa della risorsa
Il bilancio idrico
Concorre al raggiungimento degli obiettivi di qualità attraverso
una pianificazione delle utilizzazioni delle acque volta ad
evitare ripercussioni sulla qualità delle stesse e a consentire un
consumo idrico sostenibile
L’equilibrio del bilancio idrico è definito dalla Autorità di bacino
tenendo conto dei fabbisogni, delle disponibilità, del minimo
deflusso vitale, della capacità di ravvenamento della falda e
delle destinazioni d'uso della risorsa compatibili con le relative
caratteristiche qualitative e quantitative
Censimento degli usi, valutazione se rinnovo: cambia il senso
delle derivazioni
Risparmio
Riutilizzo
Tutela dei corpi idrici e
disciplina degli scarichi
Tutela qualitativa della risorsa
La disciplina degli
scarichi
Gli scarichi nella legge 319/76: scarico o rifiuto,
diretto o indiretto, esistente o nuovo, il titolare dello
scarico, diluizione
qualsiasi immissione effettuata esclusivamente
tramite un sistema stabile di collettamento che
collega senza soluzione di continuità il ciclo di
produzione del refluo con il corpo ricettore acque
superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria,
indipendentemente dalla loro natura inquinante,
anche sottoposte a preventivo trattamento di
depurazione. Sono esclusi i rilasci di acque previsti
all'articolo 114 (art. 74, primo comma, ff)
Criteri generali (art.
101)
Sono disciplinati in funzione degli obiettivi di
qualità e comunque devono rispettare i limiti
tabellari
I limiti tabellari sono in quantità massima assoluta
ed in quantità massima per unità di tempo
Tutti gli scarichi devono essere accessibili per il
campionamento. Il campionamento deve essere
immediatamente a monte del corpo ricettore =>
Conseguenza sulle prescrizioni (ma se sostanze di
cui ai numeri 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 12, 15, 16, 17
e 18 della tabella 5 dell'Allegato 5: scarichi parziali)
Divieto di diluiizione
I valori limite di emissione non possono in alcun
caso essere conseguiti mediante diluizione con acque
prelevate esclusivamente allo scopo. Non è
comunque consentito diluire con acque di
raffreddamento, di lavaggio o prelevate
esclusivamente allo scopo gli scarichi parziali di cui
al comma 4, prima del trattamento degli stessi per
adeguarli ai limiti previsti dalla parte terza dal
presente decreto. L'autorità competente, in sede di
autorizzazione prescrive che lo scarico delle acque
di raffreddamento, di lavaggio, ovvero impiegate per
la produzione di energia, sia separato dagli scarichi
terminali contenenti le sostanze di cui al comma 4
Gli scarichi assimilati
agli urbani
a) provenienti da imprese dedite esclusivamente alla coltivazione del
terreno e/o alla silvicoltura;
b) provenienti da imprese dedite ad allevamento di bestiame (341);
c) provenienti da imprese dedite alle attività di cui alle lettere a) e b) che
esercitano anche attività di trasformazione o di valorizzazione della
produzione agricola, inserita con carattere di normalità e
complementarietà funzionale nel ciclo produttivo aziendale e con materia
prima lavorata proveniente in misura prevalente dall'attività di
coltivazione dei terreni di cui si abbia a qualunque titolo la disponibilità;
d) provenienti da impianti di acqua coltura e di piscicoltura che diano
luogo a scarico e che si caratterizzino per una densità di allevamento pari
o inferiore a 1 Kg per metro quadrato di specchio d'acqua o in cui venga
utilizzata una portata d'acqua pari o inferiore a 50 litri al minuto secondo;
e) aventi caratteristiche qualitative equivalenti a quelle domestiche e
indicate dalla normativa regionale;
f) provenienti da attività termali, fatte salve le discipline regionali di
settore.
Gli scarichi sul suolo
È vietato lo scarico sul suolo o negli strati superficiali del sottosuolo, fatta eccezione:
a) per i casi previsti dall'articolo 100, comma 3 [Per insediamenti, installazioni o edifici
isolati che producono acque reflue domestiche, le regioni individuano sistemi individuali
o altri sistemi pubblici o privati adeguati che raggiungano lo stesso livello di protezione
ambientale, indicando i tempi di adeguamento degli scarichi a detti sistemi];
b) per gli scaricatori di piena a servizio delle reti fognarie;
c) per gli scarichi di acque reflue urbane e industriali per i quali sia accertata
l'impossibilità tecnica o l'eccessiva onerosità, a fronte dei benefìci ambientali
conseguibili, a recapitare in corpi idrici superficiali, purché gli stessi siano conformi ai
criteri ed ai valori-limite di emissione fissati a tal fine dalle regioni ai sensi dell'articolo
101, comma 2. Sino all'emanazione di nuove norme regionali si applicano i valori limite
di emissione della Tabella 4 dell'Allegato 5 alla parte terza del presente decreto;
d) per gli scarichi di acque provenienti dalla lavorazione di rocce naturali nonché dagli
impianti di lavaggio delle sostanze minerali, purché i relativi fanghi siano costituiti
esclusivamente da acqua e inerti naturali e non comportino danneggiamento delle falde
acquifere o instabilità dei suoli;
e) per gli scarichi di acque meteoriche convogliate in reti fognarie separate;
f) per le acque derivanti dallo sfioro dei serbatoi idrici, dalle operazioni di manutenzione
delle reti idropotabili e dalla manutenzione dei pozzi di acquedotto.
Gli scarichi nel
sottosuolo
È vietato, con alcune limitate eccezioni
Gli scarichi in acque
superficiali
Due tipi:
Acque reflue industriali: autorizzazione
Acque reflue urbane: trattamento
appropriato
Gli scarichi in acque
superficiali
Casi particolari:
Fertirrigazione (art. 112)
Acque di dilavamento e prima pioggia
(art. 113)
Il piano di tutela delle
acque
Contiene le misure necessarie alla tutela qualitativa e
quantitativa del sistema idrico:
L’individuazione degli obiettivi di qualità ambientale e
per specifica destinazione
L’elenco dei corpi idrici a specifica destinazione e delle
aree richiedenti specifiche misure di prevenzione
dall'inquinamento e di risanamento
Le misure di tutela qualitative e quantitative tra loro
integrate e coordinate per bacino idrografico, la loro
cadenza temporale e le modalità di verifica della loro
efficacia
Gli interventi di bonifica delle acque
L’autorizzazione agli
scarichi - Criteri generali
Tutti gli scarichi devono essere
preventivamente autorizzati in capo al
titolare dell’attività da cui si origina
(Consorzi e Scarichi parziali / Scarichi di
acque reflue domestiche in fognatura)
Durata: quattro anni (ma IPPC). Rinnovo
(Sostanze pericolose)
Modifiche impiantistiche
Controlli
Periodici, diffusi, effettivi ed imparziali
Accessi ed ispezioni: Il titolare dello
scarico è tenuto a fornire le informazioni
richieste e a consentire l'accesso ai luoghi
dai quali origina lo scarico
Se sostanze pericolose, controlli in
automatico e registri dei risultati delle
analisi
Gestione delle
Risorse Idriche
Principi generali e competenze
Prolegomeni
“profili che concernono la tutela dell'ambiente e della
concorrenza e la determinazione dei livelli essenziali
delle prestazioni del servizio idrico integrato e delle
relative funzioni fondamentali di comuni, province e
città metropolitane”
insieme dei servizi pubblici di captazione, adduzione e
distribuzione di acqua ad usi civili di fognatura e di
depurazione delle acque reflue
Gli enti locali svolgono le funzioni di organizzazione
del servizio idrico integrato, di scelta della forma di
gestione, di determinazione e modulazione delle
tariffe all'utenza, di affidamento della gestione e
relativo controllo
La solidarietà del
Demanio
Gli acquedotti, le fognature, gli impianti di depurazione e le altre infrastrutture
idriche di proprietà pubblica, fino al punto di consegna e/o misurazione, fanno parte
del demanio ai sensi degli articoli 822 e seguenti del codice civile e sono inalienabili se
non nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge (Vedi 153 per il regime della concessione
in uso gratuito al soggetto gestore e per il passaggio dei mutui, vedi anche
l’indennizzo, nella misura prevista dal comma 1-bis dell'art. 12 della L. 133/2008,
salvoché le "modifiche e le innovazioni..." non vengano accettate dalla controparte)
Tutte le acque superficiali e sotterranee, ancorché non estratte dal sottosuolo,
appartengono al demanio dello Stato ed il loro uso deve essere guidato dal principio di
solidarietà (dal r.d. 1775/1933, alla legge 36 del 1994, ma anche legge 5 gennaio 1994,
n. 37 che tocca il cod. civ., ed al D.P.R. 18 febbraio 1999, n. 238: è novellato l’art. 822,
c.c.)
Corte cost. 295/1996: “la dichiarazione di pubblicità di tutte le acque non deve
indurre in equivoco: l’interesse generale è alla base della qualificazione di pubblicità di
un’acqua, intesa come risorsa suscettibile di usi previsti e consentiti (omissis). La
nuova legge 36 del 1994 ha disposto, in realtà, lo spostamento del baricentro delle
acque (dichiarate) pubbliche verso il regime di utilizzo, piuttosto che sul regime di
proprietà”
Usi diversi dal consumo umano sono consentiti nei limiti nei quali le risorse idriche
siano sufficienti e a condizione che non ne pregiudichino la qualita
Servizio Idrico
Integrato
Organizzati sulla base di ambiti territoriali
ottimali (147)
Piano di ambito (149): a) ricognizione delle
infrastrutture; b) programma degli
interventi; c) modello gestionale ed
organizzativo; d) piano economico
finanziario.
Forme di gestione: articolo 113, comma 5,
del decreto legislativo 18 agosto 2000, n.
267
Convenzione Tipo
a) il regime giuridico prescelto per la gestione del servizio:
b) la durata dell'affidamento, non superiore comunque a trenta anni;
c) l'obbligo del raggiungimento dell'equilibrio economico-finanziario della gestione;
d) il livello di efficienza e di affidabilità del servizio da assicurare all'utenza, anche con riferimento alla
manutenzione degli impianti;
e) i criteri e le modalità di applicazione delle tariffe determinate dall'Autorità d'ambito e del loro
aggiornamento annuale, anche con riferimento alle diverse categorie di utenze;
f) l'obbligo di adottare la carta di servizio sulla base degli atti d'indirizzo vigenti;
g) l'obbligo di provvedere alla realizzazione del Programma degli interventi;
h) le modalità di controllo del corretto esercizio del servizio e l'obbligo di predisporre un sistema tecnico
adeguato a tal fine, come previsto dall'articolo 165;
i) il dovere di prestare ogni collaborazione per l'organizzazione e l'attivazione dei sistemi di controllo
integrativi che l'Autorità d'ambito ha facoltà di disporre durante tutto il periodo di affidamento;
l) l'obbligo di dare tempestiva comunicazione all'Autorità d'ambito del verificarsi di eventi che comportino
o che facciano prevedere irregolarità nell'erogazione del servizio, nonché l'obbligo di assumere ogni
iniziativa per l'eliminazione delle irregolarità, in conformità con le prescrizioni dell'Autorita
m) l'obbligo di restituzione, alla scadenza dell'affidamento, delle opere, degli impianti e delle canalizzazioni
del servizio idrico integrato in condizioni di efficienza ed in buono stato di conservazione;
n) l'obbligo di prestare idonee garanzie finanziarie e assicurative;
o) le penali, le sanzioni in caso di inadempimento e le condizioni di risoluzione secondo i principi del codice
civile;
p) le modalità di rendicontazione delle attività del gestore.
Tariffa
E’ un corrispettivo ed in quanto tale deve tenere
conto della qualità della risorsa erogata, ma anche
degli investimenti che devono essere eseguiti e di
una adeguata remunerazione del capitale
investito (referendum dichiarato ammissibile con
Corte cost. 26/2011)
Principio di copertura integrale dei costi di
investimento e di esercizio da allocare secondo il
canone Chi inquina paga
Specificità per fognatura e depurazione
Riscossione della tariffa
Archivio selezionato: Note
Il quadro normativo sulla tutela del demanio idrico fluviale
Riv. giur. ambiente 2009, 1, 189
Fulvio Di Dio
1. Introduzione. 2. L'artificializzazione dei nostri fiumi. 3. Definizione e consistenza giuridico fattuale del
demanio idrico. 3.1. L'identificazione concreta del demanio idrico fluviale. 4. La gestione del demanio
idrico fluviale. 5. L'insieme delle norme di riferimento. 5.1. Le categorie del demanio idrico. 6. Le opere
idrauliche. 7. Le pertinenze idrauliche demaniali. 8. Cenni sugli usi del demanio idrico.
1. Introduzione.
Con questa sentenza il T.A.R. Campania si inserisce a pieno titolo nel solco tracciato dalla giurisprudenza
amministrativa più consolidata (1), che interpreta l'art. 142 del D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (2), nel
senso di ritenere che solo per le acque fluenti di minori dimensioni, ossia per i corsi d'acqua che non sono
né fiumi né torrenti, si impone, ai fini della loro rilevanza paesaggistica (e conseguente tutela
ambientale), la iscrizione negli elenchi delle acque pubbliche.
Di conseguenza, per i fiumi e torrenti, che, prim'ancora della valenza paesaggistica, fanno parte del
demanio idrico, il requisito della pubblicità esiste di per sé (ex art. 822 Codice civile) e, comunque, il
vincolo paesaggistico è imposto senza alcuna necessità di iscrizione negli elenchi.
Come ben evidenzia il Tribunale amministrativo nel caso in epigrafe, per una fattispecie relativa ad un
corso d'acqua per un tratto denominato nelle carte IGM "torrente" e per un tratto "fosso", tale
interpretazione risulta confortata anche dal mero dato letterale della norma: se il precedente art. 146 del
D.Lgs. n. 490 del 1999 faceva infatti riferimento a "i fiumi, i torrenti ed i corsi d'acqua iscritti negli elenchi
delle acque pubbliche", ora, con la modifica apportata dal "Codice Urbani", la scomparsa della
congiunzione "ed", e l'utilizzo di una virgola, quale segno di separazione, "risulta indicativa della volontà
del legislatore di evidenziare una cesura tra le diverse tipologie di acque fluenti e, per l'effetto, di
sottolineare con maggiore evidenza che il requisito della iscrizione è riferito ai soli corsi d'acqua diversi
dai fiumi e dai torrenti".
Cosicché, dato che molte delle realità fluviali sottoposte a tutela per legge in ragione del loro interesse
paesaggistico sono costituite in tutto o in parte da beni appartenenti al pubblico demanio o al patrimonio
indisponibile, le zone in questione godono per la corrispondente estensione di una duplice protezione:
quella attinente alla funzione tipica, propria del sistema codicistico, e quella attinente ai valori
paesaggistico ambientali, propria della legge speciale. Sistemi che hanno in comune la finalità della
conservazione della integrità fisica dei beni, ma che possono divergere rispetto alla destinazione d'uso, il
che richiede (dovrebbe richiedere) una concertazione tra gli organi istituzionali che hanno parte nella
gestione.
Per quanto attiene l'aspetto paesaggistico, dunque, la peculiarità delle caratteristiche fisiche impone
scelte di destinazione compatibili con quelle del governo del territorio in generale, nel senso che la tutela
e gestione dei pregi ambientali deve essere coordinata (tramite pianificazione) con quella relativa agli
altri interessi generali, quale quello della salvaguardia degli equilibri idrogeologici (in tema di difesa del
suolo, trattandosi di demanio idrico), e dell'urbanistica (3).
2. L'artificializzazione dei nostri fiumi.
Le aree del demanio idrico costituiscono un po' il cuore di questa sentenza. In esse, come accennato,
prevale la normativa sulle acque, ma è presente anche quella sulla protezione della natura e del
paesaggio. Gli interventi in questa fascia (4) assumono rilevanza prioritaria, in quanto condizionano quelli
delle aree adiacenti ai corsi d'acqua e quelle del bacino idrografico di riferimento.
Nel nostro caso, come la fattispecie in epigrafe esemplifica (la questione centrale del giudizio è, infatti,
costituita dalla verifica o meno dell'esistenza di un vincolo paesaggistico ex lege sui terreni interessati
dagli interventi edificatori di alcune ditte), l'urbanizzazione ha chiaramente invaso le aree perifluviali, in
questo modo restringendo gli alvei ed esponendo nuovi beni al rischio: mentre prima il fiume (o torrente
o fosso che dir si voglia) poteva inondare vaste aree provocando danni limitati, oggi i flussi sono
accelerati e i picchi di piena, esacerbati, si scagliano con rinnovata energia contro ponti dalle luci troppo
strette, protezioni spondali, fabbriche, edifici, città, colpendoli molto più duramente.
Un tema dominante, quindi, sotteso a questa pronuncia, e che intendiamo sviluppare a integrazione del
ragionamento dei giudici, appare essere quello della sicurezza idraulica del territorio; con esso, si
consideri che le aree adiacenti assolvono anche e soprattutto funzioni ecologiche e paesistiche, poiché
costituiscono, assieme all'alveo e alle sponde dei corsi d'acqua, reti ecologiche di primaria importanza
(soprattutto nelle campagne biologicamente impoverite delle pianure) e quadri paesaggistici di pregio, da
tutelare e ripristinare nella loro armonia complessiva (5).
Va infine considerata la rilevanza della fruizione sociale dei beni naturali, paesistici e culturali legati ai
corpi d'acqua, che richiede specifici interventi, dislocati in prevalenza nelle aree adiacenti.
Nelle suddette aree si riscontra dunque una molteplicità di norme, azioni e attori da coordinare
sinergicamente: come detto, si va dalla normativa sulla protezione della natura e del paesaggio, a quella
sulle acque, a quella territoriale, urbanistica e agroforestale.
Con il presente contributo ci si prefigge di fare un po' di luce sulle normative che interessano
principalmente il demanio idrico fluviale (dette aree sono poste proprio nel cuore delle reti idrografiche e
presentano una decisiva importanza fisica, in particolare, nei progetti di riqualificazione e valorizzazione
delle reti stesse), non dimentichi dell'importanza della funzione idrologico/idraulica delle aree adiacenti,
che sono fisicamente collegate a quelle del demanio idrico, in modo tanto più stretto quanto più si
conserva o ripristina l'equilibrio naturale (6).
3. Definizione e consistenza giuridico fattuale del demanio idrico.
Costituisce il demanio idrico l'insieme delle acque dolci e dei corpi solidi naturali o artificiali che le
contengono e ne regolano il corso caratterizzandole come acque fluenti o lacuali (7). Il Codice civile
qualifica come demaniali "i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in
materia" (art. 822, comma primo).
Secondo quanto disponeva la legge speciale basilare (T.U. 11 dicembre 1933, n. 1775) e l'allora costante
orientamento della giurisprudenza, la demanialità delle acque esistenti in superficie, anche se estratte dal
sottosuolo in modo artificiale, veniva fatta derivare esclusivamente dalla loro attitudine a soddisfare
interessi pubblici nel sistema idrografico di cui fanno parte, mentre non potevano essere considerate
pubbliche le acque che per la loro scarsa portata e per la minima importanza idrografica non erano in
grado di essere utilizzate ai fini di pubblico interesse (8).
Esaminando la dimensione del requisito attitudinale e, per l'effetto, l'estensione della demanialità, si può
già notare un progressivo ampliamento dei concetti rispetto a quelli riconducibili all'art. 427 del Codice
civile del 1865, il quale, nominando tra i beni pubblici solo i fiumi e i torrenti, sembrava limitare la
demanialità ai corsi d'acqua maggiori.
Dal punto di vista storico, ciò dipese dalla crescente necessità di utilizzare anche le acque dei corsi minori
(fossati, rivi, colatoi), le quali, seppur non adatte alla navigazione o quali fonti primarie di produzione di
energia, si prestavano a soddisfare altri interessi generali, quali l'irrigazione, la bonifica, il consumo
umano.
In relazione agli interessi generali sin qui menzionati, la ragion d'essere della natura pubblica
presupponeva la disponibilità attuale del bene identificabile con la superficialità delle acque,
indipendentemente dal fatto che la stessa sia tale in natura ovvero ottenuta mediante il prelievo da falde
sotterranee realizzato con mezzi meccanici.
Ma l'emergere di un nuovo interesse generale, volto a salvaguardare la consistenza non solo attuale ma
anche futura delle risorse idriche, ha poi portato ad una ulteriore estensione della condizione di
demanialità con la dichiarazione della natura pubblica delle acque sotterranee ancorché non estratte dal
sottosuolo. L'enunciazione, contenuta nella L. 5 gennaio 1994, n. 36, non cancellava tuttavia la
distinzione tra pubblico e privato in materia di acque basata sui limiti propri delle categorie enumerate nel
codice e nelle leggi speciali. La natura pubblica, infatti, rimaneva saldamente ancorata al requisito
dell'attitudine in rapporto all'interesse generale, il quale era presupposto, in linea di principio, per tutte le
acque percettibili o non esistenti nel territorio, tenuto conto della limitatezza delle disponibilità e delle
esigenze prioritarie dell'uso nei confronti dell'aspetto della dominicalità (9).
In questo sistema legislativo è irrilevante il modo in cui l'attitudine dapprima non configurabile viene
acquisita, nel senso che l'evento agente non è mai causa di trasferimento coattivo del diritto dominicale
dal privato al pubblico, dal quale possono farsi derivare reciproci rapporti tra il dante e l'avente causa.
Esso evidenzia e concretizza un limite particolare del diritto sulle acque che l'ordinamento riconosce al
privato, con la conseguenza che il venir meno dello stesso non dà luogo a risarcimento alcuno, ancorché
non si possa negare, come ha affermato la Suprema Corte di Cassazione, che si tratta pur sempre di una
avocazione alla mano pubblica (10).
3.1. L'identificazione concreta del demanio idrico fluviale. È con il D.P.R. 18 febbraio 1999, n. 238 (11),
che finalmente sono state definite pubbliche tutte le acque superficiali e sotterranee, a prescindere
dall'iscrizione negli elenchi provinciali delle acque pubbliche e a prescindere, quindi, dalla loro attitudine a
soddisfare interessi pubblici.
L'iscrizione delle acque pubbliche negli appositi elenchi provinciali serviva per il corretto esercizio
dell'azione amministrativa, in forza della presunzione che assiste gli atti della pubblica amministrazione,
ma soltanto con effetto dichiarativo (12).
Come emerge anche dalla sentenza in epigrafe, l'identificazione concreta del demanio idrico, molto
importante per gli evidenti riflessi giuridici sulla proprietà e sull'uso del bene, in ogni caso risulta legata
ad operazioni di delimitazione territoriale, aventi caratteri tecnici e altresì mutevoli nel tempo, tenuto
conto dell'evoluzione dei corsi d'acqua.
Tali operazioni vengono generalmente affidate all'Autorità idraulica, la quale applica ancora oggi una
procedura definita all'inizio del XX secolo del Servizio idrografico nazionale ed esposta nella circolare n.
780 del 28 febbraio 1907 del Ministero dei lavori pubblici, secondo la quale il limite dell'alveo
appartenente al demanio pubblico ai sensi dell'art. 822 c.c. viene determinato in base al livello
corrispondente alla cosiddetta portata di piena ordinaria (13).
Questo metodo, quando è applicato, consente di definire la linea di demarcazione tra il demanio idrico
propriamente detto, ossia l'alveo vivo assolutamente intoccabile, ed altre aree pubbliche considerate
pertinenze idrauliche demaniali, suscettibili di talune forme di utilizzazione in concessione, sottoposte a
servitù idraulica, poiché interessate dalle piene con tempi di ritorno superiori a quello della piena
ordinaria.
4. La gestione del demanio idrico fluviale.
Si è ricordato che la consistenza del demanio idrico e delle relative pertinenze è continuamente variabile
nel tempo, a motivo della dinamica fluviale, più o meno accentuata a seconda del grado di naturalità o
viceversa artificialità del bacino idrografico. Ma anche il diritto interviene sul destino delle pertinenze
idrauliche demaniali generate dalla suddetta dinamica.
Fino a tempi recenti, il Codice civile, conformandosi ad un'antica tradizione, favoriva l'acquisizione alla
proprietà privata in molti casi di modifiche di corsi d'acqua: alluvioni con incrementi successivi dei fondi
rivieraschi (art. 941) o viceversa terreni abbandonati dall'acqua corrente (art. 942), avulsioni di parti di
un fondo trasportate verso un altro fondo (art. 944) o isolate dalla corrente (art. 945), alvei abbandonati
(art. 946).
Su tutte queste fattispecie è intervenuta, come detto, la L. 5 gennaio 1994, n. 37 ("Norme per la tutela
ambientale delle aree demaniali dei fiumi, dei torrenti, dei laghi e delle altre aree pubbliche"), con
modifiche al Codice stesso tendenti a preservare il demanio idrico statale e relative pertinenze per
prevalenti usi ambientali e sociali.
Oggi, quindi, i terreni e gli alvei abbandonati dalle acque correnti, le avulsioni e in parte anche le alluvioni
(nel caso in cui derivino da regolamento del corso dei fiumi, bonifiche o altri interventi artificiali)
rimangono assoggettati al regime del demanio idrico pubblico.
La suddetta norma è stata richiamata dall'art. 115 del nuovo Codice ambientale: "Le aree del demanio
fluviale di nuova formazione ai sensi della L. 5 gennaio 1994, n. 37, non possono essere oggetto di
sdemanializzazione".
Va ricordato, del resto, come, a fronte della natura demaniale di un'area ovvero di un bene, l'eventuale
procedimento amministrativo sottostante viene ad assumere valore meramente ricognitivo e non
costitutivo della demanialità.
Con le parole dei giudici amministrativi nel caso in oggetto: "La denominazione ufficiale di fiume o
torrente, in quanto frutto dell'accertamento da parte di soggetti qualificati delle caratteristiche proprie
della categoria, non è dato liberamente obliterabile, "disapplicabile" per utilizzare una terminologia cara al
diritto amministrativo (...). Una volta qualificato ufficialmente, il bene risulta vincolato, irrilevante
essendo il dato sostanziale della mancanza ovvero della perdita delle caratteristiche proprie della
categoria. Tali elementi rilevano, al fine del venir meno del vincolo, solo all'esito di un peculiare
procedimento amministrativo di declassificazione. La verifica sostanziale, pertanto, è consentita solo
quando manchi una denominazione ufficiale ovvero quando questa sia contraddittoria, perplessa o ancora
quando, in presenza di una pluralità di denominazioni, non sia certa l'appartenenza di uno specifico tratto
del corso d'acqua all'una o all'altra qualificazione".
A coronamento di questo impeccabile ragionamento, si deve aggiungere che gli eventi che fanno venire
meno l'attitudine quale presupposto della demanialità non producono la cessazione automatica della
stessa. Le disposizioni sulla condizione giuridica dei luoghi abbandonati dalle acque sia per eventi naturali
che antropici, che hanno modificato o sostituito gli articoli del codice che ne attribuivano il dominio ai
proprietari dei fondi rivieraschi, hanno confermato che per il demanio idrico, così come per quello
marittimo (14), per la cessazione si richiede una formale dichiarazione della pubblica amministrazione in
ordine al venire meno dell'attitudine, la quale non è più ristretta, come nel caso della sdemanializzazione
tacita, alla sola perdita della funzione idraulica, stante l'attualità dell'interesse generale ambientale.
In altre parole, laddove, per poter positivamente affermare la demanialità di un bene, non occorre l'avvio,
né tanto meno la definizione di un provvedimento amministrativo, stante che questa scaturisce da una
mera situazione di fatto, nel caso opposto, in cui si renda invece necessario dimostrare l'avvenuta
sdemanializzazione di un bene, non essendo configurabile, nel nostro ordinamento, alcuna forma di
sdemanializzazione tacita, dovrebbe invece attuarsi quella espressa mediante uno specifico
provvedimento, avente in questo caso carattere costitutivo e non già meramente dichiarativo, da
rilasciarsi a cura della competente autorità amministrativa (15).
5. L'insieme delle norme di riferimento.
L'utilizzazione e la regimazione delle acque si realizzano attraverso la mediazione di opere artificiali che
formano un tutt'uno con i corpi naturali cui accedono, da cui l'estensione della condizione giuridica dei
medesimi analogamente a quanto si verifica per le grandi opere di infrastrutturazione dei porti nel
demanio marittimo. Come vedremo, la materia delle opere idrauliche, che si articola nei momenti tipici
della progettazione, costruzione e manutenzione, è tuttora regolata, salvo gli emendamenti, dal testo
unico approvato con R.D. 25 luglio 1904, n. 523.
Dal punto di vista della competenza amministrativa, la normativa italiana sulle sistemazioni idrauliche ha
subìto nel tempo una significativa oscillazione, dapprima assegnando un certo spazio agli Enti locali e alla
proprietà privata (Ottocento e primo Novecento), in seguito ridimensionandolo secondo una concezione
centralistica (secondo Novecento) e, infine, rivalutandolo, in anni recenti.
L'insieme delle disposizioni riunite nei due testi unici citati (R.D. 25 luglio 1904, n. 523 e R.D. 11
dicembre 1933, n. 1775) costituisce comunque ancora oggi il referente primario per la conoscenza della
demanialità idrica (16).
In seguito, esigenze di carattere generale sopraggiunte hanno imposto la produzione di nuovi strumenti
normativi per porre in grado la Pubblica amministrazione di affrontare in modi più efficace i problemi del
governo delle acque.
Ciè è avvenuto nel mutato contesto istituzionale del nostro ordinamento, coinvolgendo nell'azione
amministrativa le Regioni e gli Enti locali mediante il conferimento di funzioni e compiti nelle materie di
cui all'art. 117 della Costituzione.
Hanno contribuito ad accelerare l'evoluzione del quadro normativo, da un lato, i sempre più frequenti
eventi naturali calamitosi che hanno messo in evidenza la fragilità della situazione idrogeologica;
dall'altro, lo sviluppo della politica ambientale.
Si tratta di un insieme di fonti materiali di produzione che hanno innestato nuove norme di diritto
sostanziale e procedimentale nel corpo primigenio dei due testi unici, incidendo sugli istituti della
demanialità idrica, forse più che in altri settori del pubblico demanio (17).
Alla fine del secolo, lo Stato realizza un riordino amministrativo generale (riforma Bassanini) con il D.Lgs.
31 marzo 1998, che ha conferito le competenze amministrative e innovato i criteri di gestione del
demanio. L'art. 86 ("Gestione del demanio idrico") stabilisce che "Alla gestione dei beni del demanio
idrico provvedono le Regioni e gli Enti locali competenti per territorio. I proventi dei canoni ricavati dalla
utilizzazione del demanio idrico sono introitati dalla Regione".
Spettano poi alle Regioni (e in subordine agli Enti locali), in applicazione dell'art. 89, le funzioni
concernenti, tra l'altro: le concessioni di estrazione di materiale litoide dai corsi d'acqua; le concessioni di
spiagge lacuali, superfici e pertinenze dei laghi; le concessioni di pertinenze idrauliche e di aree fluviali
anche ai sensi dell'art. 8 della L. 5 gennaio 1994, n. 37; la polizia delle acque, anche con riguardo alla
applicazione del testo unico approvato con R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775; la programmazione,
pianificazione e gestione integrata degli interventi di difesa delle coste e degli abitati costieri; la gestione
del demanio idrico, ivi comprese tutte le funzioni amministrative relative alle derivazioni di acqua
pubblica, alla ricerca, estrazione e utilizzazione delle acque sotterranee, alla tutela del sistema idrico
sotterraneo nonché alla determinazione dei canoni di concessione e all'introito dei relativi proventi.
Queste disposizioni del D.Lgs. 112 del 1998 costituiscono il coronamento del processo di riforma del
demanio idrico avviato dalla già richiamata legge 37 del 1994, la quale (art. 8) aveva tra l'altro
modificato il R.D.L. 18 giugno 1936, n. 1338, in materia di concessione delle pertinenze idrauliche
demaniali, abolendo il diritto di prelazione a favore dei frontisti e stabilendo che tale diritto spettava a
Regioni, Province, Comunità montane, Comuni e loro Consorzi, che facessero richiesta di tali terreni allo
scopo di destinarli a riserve naturali o parchi fluviali o lacuali o comunque ad interventi di recupero,
valorizzazione o tutela ambientale (18).
Anche questa norma è stata ripresa dal nuovo Codice ambientale (art. 115), il quale afferma che "le aree
demaniali dei fiumi, dei torrenti, dei laghi e delle altre acque possono essere date in concessione allo
scopo di destinarle a riserve naturali, a parchi fluviali o lacuali o comunque a interventi di ripristino e
recupero ambientale".
5.1. Le categorie del demanio idrico. La classificazione delle acque pubbliche sulla base delle categorie
nominate nel Codice civile e nelle leggi speciali è legata, come detto, alle caratteristiche morfologiche
della cavità naturale o artificiale che le contiene, la quale, se si tratta di acque superficiali, assume il
nome di alveo. Stante l'inseparabilità in senso naturalistico e giuridico dell'acqua dal suo alveo, occorre
delimitare l'estensione dello stesso onde distinguere la parte pubblica da quella privata avente per
oggetto i terreni contigui ai corpi idrici.
Prescindendo dalla navigazione e dagli altri usi di interesse generale, per i quali si richiede una portata
relativamente costante quale quella dei fiumi nel tratto medio e inferiore del loro corso, ai torrenti si è
riconosciuto nel passato un ruolo di minor rilievo.
Nell'ordinamento vigente la situazione è mutata, poiché nella maggior parte dei casi le acque che i
torrenti non scaricano nei fiumi servono a formare e arricchire le falde freatiche, le quali hanno un ruolo
di primo piano dal punto di vista attitudinale quali risorse idriche da salvaguardare e utilizzare secondo
criteri di priorità, che collocano il consumo umano al primo posto (19).
Nel concetto di alveo rientrano le sponde e le rive interne che sono a contatto con l'acqua e sono
sommerse da questa nelle piene ordinarie. Come accennato prima, la nozione di piena ordinaria che
rileva per la determinazione della demanialità non è definita normativamente, ma si considera tale
secondo consolidata giurisprudenza quella corrispondente al livello massimo raggiunto o superato dalle
acque, desumibile da una serie di rilevazioni sufficientemente estesa nel tempo (20).
Per il principio di inseparabilità di derivazione romanistica, secondo il quale se il fiume è pubblico lo è
anche l'alveo, se a causa di eventi naturali o antropici l'alveo perde in via definitiva e irreversibile
l'attitudine a contenere le piene ordinarie, cessa la ragione costitutiva della demanialità idrica e si
rendono applicabili le norme della legge n. 37 del 1994, ora trasposte nell'art. 115 del D.Lgs. n. 152 del
2006 sulla tutela ambientale delle aree demaniali dei fiumi (21). Pertanto, la demanialità dell'alveo
abbandonato che, vigente il vecchio testo dell'art. 947 del Codice civile, cessava, con conseguente
passaggio del terreno al patrimonio disponibile, persiste in quanto giustificata da altri interessi generali.
Se le acque si formano un nuovo alveo, il terreno investito diventa parte del fiume e acquista la
demanialità (22).
Le sponde e le rive che possono essere invase dalle acque soltanto nel caso di piene straordinarie
appartengono quindi ai proprietari dei fondi rivieraschi.
Nei luoghi pianeggianti nei quali sono eretti argini di contenimento arretrati, i terreni contigui alle rive
esterne, o golene, assumono natura di pertinenza demaniale per opera dell'uomo, in quanto assicurano
una migliore regolazione del fiume in caso di piene straordinarie. Se le golene si trovano in zona di foce
non per questo appartengono al demanio marittimo; così anche le terre emergenti e le opere idrauliche
che sono strumentali per la difesa del territorio dai possibili danni derivanti da un regime incontrollato
delle acque fluviali, mentre rimangono del tutto estranee agli usi della navigazione (23).
È stato altresì ritenuto che la demanialità dell'alveo e degli argini di un corso naturale non si estende alla
copertura dell'alveo e alle sedi dell'alveo artificialmente realizzate da un'amministrazione comunale per
esigenze stradali e urbanistiche (24).
6. Le opere idrauliche.
Esaminiamo ora alcuni aspetti relativi agli argini e alle altre opere idrauliche che formano oggetto della
disciplina del testo unico del 1904 in quanto attinenti al regime delle acque pubbliche (artt. da 57 a 62).
Esulano dalla disciplina le opere che i privati in linea di principio possono eseguire liberamente per
proteggere le sponde dei fondi di cui hanno la proprietà o il possesso, purché le stesse non alterino in
alcun modo il regime dell'alveo, o non siano di impedimento alla navigazione, o di danno ai diritti dei terzi
(artt. 58 e 95). Al riguardo è stato ritenuto che il solo rialzo dell'argine eseguito dal privato quando non
abbia inciso sul regime dell'alveo, ancorché il fatto risponda in astratto alla figura edittale del divieto ex
art. 96, lett. g) del T.U., non integra il reato previsto per mancanza di idoneità a recare pregiudizio o
pericolo all'interesse protetto, e ciò nell'ottica della c.d. concezione realistica del reato (25).
Dal punto di vista tecnico, l'argine svolge una funzione di contenimento delle acque, ma è qualificabile
distintamente dall'alveo, che comprende la cavità di scorrimento delle stesse e la parte della sponda
interna fino al limite che le acque raggiungono durante le piene ordinarie. Si tratta quindi di una funzione
di contenimento potenziale legata alla diversa natura delle piene. Dal punto di vista fisico-morfologico,
l'argine è formato dalla parte di terreno o di manufatto che si eleva al di sopra di detto limite, la quale è,
in definitiva, la parte visibile del contenitore, durante le piene ordinarie. Dal punto in cui le acque
cominciano a correre entro argini il corso d'acqua acquista la condizione di fiume arginato, la quale rileva
in senso tecnico poiché le opere idrauliche situate lungo il percorso (chiaviche, conche di navigazione,
ecc.) sono qualificate come opere di seconda categoria.
L'affidamento che gli argini danno come garanzia del buon regime delle acque dipende dall'esercizio di
una rigorosa azione dell'autorità amministrativa, che si concreta nella puntuale manutenzione delle
opere; e nella attività di vigilanza e di repressione dei comportamenti contrari alla normativa sui divieti e
sulle limitazioni di cui agli artt. da 96 a 100 del T.U. Al tal fine è stato emanato il R.D. 9 dicembre 1937,
n. 2669, che approva il regolamento sulla tutela delle opere idrauliche, contenente le istruzioni ad uso
degli ufficiali e guardiani idraulici, ai quali è demandato l'esercizio in concreto dell'attività di vigilanza, e di
denunzia degli illeciti che agli stessi compete in veste di ufficiali di polizia giudiziaria.
I divieti riguardano essenzialmente atti e comportamenti potenzialmente idonei a provocare il
sommovimento del terreno arginale come le piantagioni, gli scavi e le fabbriche eseguiti nella zona
contigua la cui profondità si misura dal piede degli argini.
Per lo stesso motivo è vietato anche il pascolo e la permanenza del bestiame sugli argini, mentre è
consentito lo sfalcio di erbe spontanee necessario per tenerli puliti onde facilitare il servizio di vigilanza.
Le opere che possono essere eseguite nel corpo degli argini previo permesso dell'autorità amministrativa
sono elencate negli artt. 97 e 98 del testo unico e hanno attinenza con l'utilizzazione del demanio, come
la formazione di rampe per l'esercizio dell'attività di estrazione di materiali litoidi dall'alveo o per la tutela
di altri interessi generali, quali le comunicazioni ai beni, agli abbeveratoi, ai guadi e ai passi, o come
l'apertura di chiaviche o la chiusura di quelle esistenti (26) [art. 97, lett. e), e art. 98].
Il divieto posto dall'art. 96, lett. f), secondo il quale non si possono fare piantagioni, eseguire scavi o
costruire fabbriche a distanza inferiore a dieci metri dal piede degli argini, sussiste anche se si tratta di
argini artificiali, poiché la legge speciale non fa alcuna distinzione tra argini naturali e artificiali (27).
Viceversa, è stato ritenuto che le ragioni pubblicistiche sulle quali si fonda il vincolo di inedificabilità, ossia
l'esigenza di assicurare il libero deflusso delle acque, sono insussistenti, così che il divieto cade, qualora il
corso d'acqua sia ricoperto da una strada, poiché il tal caso, oltre a mancare la necessità della tutela
dell'interesse generale, la norma diviene inapplicabile a causa dell'inesistenza del riferimento materiale
per poter calcolare la distanza (28).
Agli obblighi di non fare imposti ai terzi proprietari o possessori dei fondi rivieraschi si contrappone
l'obbligo che grava sulla Autorità amministrativa che ha in consegna gli argini e le altre opere di
provvedere a quanto occorra per evitare che siano causa di danno. I comportamenti ipotizzabili al
riguardo possono esaurirsi in atti meramente esecutivi, collegati solo occasionalmente e in via indiretta
con gli aspetti pubblicistici dell'opera, dalla cui omissione può trarre origine il danno. Oppure si tratta di
comportamenti riconducibili ai problemi di governo delle acque che attengono alla vicenda pubblicistica.
Nel primo caso, tipica l'omissione della manutenzione delle opere, per cui la P.A. risponde ex art. 2043
c.c. per atto illecito sotto il profilo della violazione delle comuni regole della prudenza, diligenza, imperizia
in relazione all'osservanza del dovere generale di neminem laedere e, in caso di controversia, la
cognizione spetta al giudice ordinario. Nel secondo caso, che comprende l'intero spazio operativo che va
dalla progettazione alla realizzazione e uso dell'opera, si tratta di valutare il modo di essere della stessa
in rapporto agli interessi generali sottesi, il che comporta un apprezzamento delle scelte discrezionali
della P.A. sul piano tecnico, donde la competenza del giudice specializzato ai sensi dell'art. 140, lett. e)
del T.U. 11 dicembre 1933, n. 1175 (29).
Per la normativa paesaggistico ambientale, al centro della sentenza in epigrafe, il piede dell'argine
costituisce la linea di riferimento per misurare la profondità della fascia di rispetto di 150 metri soggetta
al vincolo paesaggistico di cui all'art. 142, comma 1, lett. c) del D.Lgs. 42 del 2004.
Va tenuto presente, inoltre, che le opere di regolazione del corso dei fiumi e dei torrenti, di canalizzazione
e gli interventi di bonifica e altri simili destinati ad incidere sul regime delle acque, compresi quelli di
estrazione di materiali litoidi dal demanio fluviale (e lacuale), sono compresi tra i le infrastrutture
elencate nell'All. IV alla Parte Seconda del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 ("Norme in materia ambientale"),
le cui progettazioni sono sottoposte alla verifica di assoggettabilità a valutazione d'impatto ambientale di
competenza delle Regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano.
7. Le pertinenze idrauliche demaniali.
Con la locuzione "pertinenze idrauliche" si definiscono i luoghi demaniali contigui ai corsi d'acqua, di
formazione alluvionale o non, compresi fra le rive e gli argini, detti anche terreni golenali. L'estensione di
queste aree, che rilevano in via prioritaria con riferimento al regime delle acque, ma che in epoca più
recente hanno assunto un rilievo ambientale, è destinata ad aumentare dopo che, come abbiamo visto, la
L. 5 gennaio 1994, n. 37 ha dichiarato che appartengono al pubblico demanio le aree abbandonate dalle
acque correnti a seguito di eventi naturali o di attività antropica, modificando in tal senso gli artt. 942,
945 e 946 c.c. che ne attribuivano la proprietà ai privati confinanti.
Il ruolo che le pertinenze idrauliche svolgono per il contenimento delle piene non ordinarie e per evitare il
sommovimento del suolo in prossimità delle rive naturali quale causa potenziale di fenomeni di
disalveamento, giustifica il vincolo di intangibilità della destinazione dei luoghi, che trova riscontro nei
divieti di cui all'art. 96 del T.U. 523/1904 ed estende agli stessi il regime di cui all'art. 818 c.c., onde
possono in astratto formare oggetto di distinti rapporti giuridici (30).
Nel passato, in un momento nel quale vi era la necessità di soddisfare interessi di politica economica, i
governanti dell'epoca hanno derogato ad alcuni divieti posti in via generalizzata, dando vita ad una forma
atipica di uso del demanio idrico, che ha preso il nome di "coltivazione arborea golenale". Scartata,
infatti, a priori l'ipotesi di utilizzare le golene per incrementare le produzioni cerealicole onde evitare
periodici dissodamenti del terreno, le pertinenze furono ritenute più adatte per le coltivazioni arboree dal
lungo ciclo produttivo, salvo in ogni caso la verifica della compatibilità dell'uso con l'interesse primario
della polizia delle acque in relazione all'effettivo stato dei luoghi.
Dopo un primo esperimento che attribuiva agli organi del Ministero dei lavori pubblici la verifica di
compatibilità caso per caso (l. 1° marzo 1928, n. 381), venne deciso di pianificare le coltivazioni arboree
golenali con la preventiva individuazione dei terreni utilizzabili mediante la formazione da parte di speciali
Commissioni provinciali di elenchi aventi valore di nulla osta idraulico, onde superare il divieto
generalizzato relativo alle piantagioni di cui all'art. 96, lett. f) del T.U. È chiaro che gli elenchi in
questione, compilati in base alla L. 14 gennaio 1937, n. 402, hanno effetto dichiarativo in ordine
all'accertamento della idoneità del terreno golenale ad essere utilizzato per le colture arboree ed alla
compatibilità delle stesse con il regime delle acque. In definitiva, l'iscrizione negli elenchi costituisce
individuazione di una species nell'ambito del più ampio genus delle pertinenze idrauliche demaniali che
formano gli alvei di piena non ordinaria (31).
La pioppicoltura nazionale, nata come fenomeno contingente, continuò a svilupparsi anche dopo il venire
meno delle ragioni che ne avevano determinato l'apparizione nel paesaggio fluviale e lacuale, come
risulta dai provvedimenti normativi emanati in prosieguo per incentivarne la diffusione attraverso
l'applicazione di canoni di favore per le concessioni della specie, graduati a seconda della produttività dei
terreni (32).
8. Cenni sugli usi del demanio idrico.
Se i beni rappresentano i mezzi di cui si avvale la P.A. per il conseguimento dei fini istituzionali
astrattamente considerati, gli usi rappresentano le forme mediante le quali l'azione amministrativa
assume concretezza caso per caso. Gli usi si identificano, pertanto, con la visione dinamica del demanio,
una visione dominata dagli interessi generali, che storicamente giustificano la ragion d'essere della
demanialità necessaria delle acque (33).
Con il progressivo aumento dei consumi, causato dallo sviluppo demografico e dalle mutate forme di
aggregazione degli individui, è sorta l'esigenza di tutelare le risorse idriche come ricchezza disponibile in
quantità limitata, onde destinarla ai diversi usi in base a criteri di priorità. Si passa così dalla forma di uso
che è nella disponibilità di tutti i membri della collettività, a quello particolare esercitabile in base ad un
titolo che ne regola le modalità nel quadro di una pianificazione funzionale alle esigenze di conservazione
dei beni, considerati patrimonio comune da salvaguardare ed amministrare con oculatezza a vantaggio
anche delle generazioni future (34).
Queste considerazioni valgono principalmente per l'uso di derivazione delle acque, stante la concreta
possibilità di conflitto tra interessi generali legati alla molteplicità delle destinazioni d'uso delle acque
derivate (35). Ma valgono, in qualche misura, anche per le utilizzazioni che hanno per oggetto gli alvei e
le pertinenze fluviali, in quanto incidenti sul regime dei corsi d'acqua, stante il rilievo che questo assume
in relazione all'assetto idrogeologico del suolo e quello di compatibilità ambientale.
Dal punto di vista classificatorio, si può osservare che le utilità proprie della fruizione dell'acqua e delle
altre componenti del demanio idrico hanno tutte una peculiarità legata alle caratteristiche fisiche.
Tuttavia, è possibile intravedere un criterio discretivo nella distinzione tra usi che hanno per oggetto
l'impossessamento dell'acqua per soddisfare bisogni che richiedono la consumazione del bene, e usi che
non la richiedono, consistendo per lo più in forme di occupazione delle superfici liquide. Rientrano nel
primo gruppo: i prelievi per il consumo umano, irriguo e di produzione di forza motrice; nel secondo: la
navigazione e la fluitazione, i molini e i ponti natanti, le installazioni per la pesca e per l'estrazione di
materiali inerti. Un terzo gruppo riguarda usi che non comportano il contatto fisico con l'acqua, come le
coltivazioni arboree nelle zone golenali, lo sfalcio delle erbe sugli argini, gli attraversamenti aerei del
fiume.
Per l'esercizio legittimo dell'uso è necessario il possesso di un titolo, il cui contenuto è dato dalle facoltà di
godimento del bene pubblico attribuite al soggetto uti singulus. A prescindere dal riconoscimento dei
diritti d'uso fondati su antichi titoli in attuazione di norme transitorie, lo strumento tradizionale che ha
effetto costitutivo delle facoltà in questione è l'atto di concessione amministrativa. L'esercizio sine titulo di
qualsiasi uso che non avvenga uti universi nei casi e nei limiti in cui è ammesso, costituisce fatto illecito
che la P.A. ha il potere-dovere di far cessare agendo in autotutela ex art. 823 c.c. nell'ambito delle norme
speciali o avvalendosi dei mezzi ordinari uti dominus e salva la rilevanza del fatto sotto il profilo penale
(36).
Poiché le occupazioni, come abbiamo visto, riguardano luoghi classificati bellezze naturali ex legge
431/1985, poi D.Lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, ora D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, è chiaro che anche per
questo tipo di uso del demanio idrico, ancorché improprio, si inseriscono nel procedimento di rilascio della
concessione le valutazioni attinenti il vincolo paesaggistico nel rispetto delle disposizioni di cui, appunto,
al D.Lgs. n. 42 del 2004.
Valutazioni che, se non sono già state fatte in sede di pianificazione degli usi dell'asta fluviale interessata,
richiedono il coinvolgimento della Regione ex artt. 86 e 89 del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112.
E se i luoghi sono compresi in aree soggette alla particolare protezione (aree naturali protette) di cui alla
legge 394/1991, è necessario che le modalità di utilizzo dell'area protetta siano compatibili con le finalità
istitutive della stessa, da valutarsi dall'organo di gestione in relazione al diverso grado di protezione
risultante dal piano relativo.
NOTE
(1) Vedi Cons. St., Sez. VI, 4 febbraio 2002, n. 657, in questa Rivista, 2002, p. 550, con nota di M.
BROCCA, Il vincolo paesaggistico relativo ai "fiumi, torrenti e corsi d'acqua" ex art. 146, comma 1, lett.
c), D.Lgs. 490/1999: alcune problematiche.
(2) Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'art. 10 della L. 6 luglio 2002, n. 137 (G.U. 24
febbraio 2004, n. 45 s.o. e così corretto con comunicato 26 febbraio 2004, in G.U. 26 febbraio 2004, n.
47).
(3) A questo riguardo, si rinvia a R. TAMIOZZO, La legislazione dei beni culturali e paesaggistici, Giuffrè,
2004. Sul valore dei vincoli paesaggistici estesi ope legis su ambiti formanti la struttura morfologica del
territorio (boschi, fiumi, montagne, coste, ecc.), mi sia permesso il rinvio a F. DIDIO, Il vincolo
paesaggistico ambientale come tutela fondamentale per il territorio, in Riv. dir. giur. agr. alim. amb.,
2005, 1, pp. 54-55.
(4) Innumerevoli sono le minacce dell'uomo ai corsi d'acqua (sottrazione di spazi vitali, alterazione del
bilancio idrico, canalizzazione, inquinamento, ecc.). Dopo un lungo periodo in cui l'attenzione si è
soprattutto concentrata sui problemi legati all'inquinamento, la direttiva quadro europea sulle acque
60/2000/CE ha messo in moto (anche) un più ampio e completo processo di riqualificazione naturale e
ambientale delle reti idrografiche, aprendo nel contempo nuovi spazi alla partecipazione degli Enti locali e
degli interessati, la cui importanza cresce in proporzione inversa alle dimensioni dei corsi d'acqua. A
questo proposito, mi sia permesso ancora rinviare F. DIDIO, La direttiva quadro sulle acque: un approccio
ecosistemico alla pianificazione e gestione della risorsa idrica, in Riv. dir. giur. agr. alim. amb., 2006, 9,
pp. 496-500; ID., La partecipazione pubblica nel governo delle acque: le linee guida per una comune
strategia europea, ivi, 2007, 2, pp. 152-156.
(5) Nella realtà italiana, spesso le aree adiacenti sono anche uno straordinario "giacimento culturale", con
le loro edificazioni storiche, che richiedono estesi e incisivi interventi di tutela e riqualificazione.
(6) Si rimanda altresì a F. DIDIO, L'evoluzione giuridica della gestione del demanio idrico: verso il
concetto di acqua come bene comune, in Riv. dir. giur. agr. alim. amb. (Studi e documenti), 2006, 3, pp.
156-161.
(7) Vedi S. AVANZI, Il nuovo demanio nel diritto civile, amministrativo, ambientale, comunitario, penale,
tributario, CEDAM, Padova, 2000.
(8) Trib. Sup. Acque 25 maggio 1987, n. 22, in Cons. Stato, 1987, II, 1043; Trib. Sup. Acque 22
novembre 1990, n. 84, in Foro. It., Rep. 1991, voce Acque pubbliche, 26.
(9) Corte Cost. 19 luglio 1996, n. 259, in Giust. civ., 1996, I, 1310.
(10) Cass., SS.UU., 25 maggio 1971, n. 1534, in Giust. civ., 1971, parte I, 1384; Cass. 26 aprile 1976, n.
1507, in Foro amm., 1977, I, 1379.
(11) Regolamento recante norme per l'attuazione di talune disposizioni della L. 5 gennaio 1994, n. 36, in
materia di risorse idriche (G.U. 26 luglio 1999, n. 238).
(12) La valutazione fatta ai fini della iscrizione ha natura tecnico-discrezionale poiché attiene al merito e
non è sindacabile in sede di legittimità.
(13) Come tale si assume il valore che, rispetto alla serie storica delle massime portate annuali
verificatesi nella sezione di riferimento, è uguagliato o superato nel 75 per cento dei casi e quindi ha un
tempo di ritorno poco superiore ad un anno. Si capisce facilmente che queste operazioni sono complesse
e spesso l'aggiornamento delle mappe alla modificata situazione idrografica lascia a desiderare.
(14) Si veda, a questo proposito, Cass. pen., Sez. III, 15 dicembre 2006, n. 1339, in Riv. dir. giur. agr.
alim. amb., 2006, 3, con mia nota: Le modalità di acquisto della demanialità marittima: la posizione
attuale della dottrina e della giurisprudenza, pp. 156-161.
(15) Più o meno negli stessi termini si esprime V. STEFUTTI, Corsi d'acqua e vincoli paesaggistici, in
www.dirittoambiente.com.
(16) Il T.U. 25 luglio 1904, n. 523, in particolare, classificò le opere idrauliche in cinque categorie in
ordine d'importanza decrescente, a cui corrispondeva un interesse decrescente dello Stato e viceversa
crescente degli Enti locali (Province e Comuni) e dei consorzi idraulici comprendenti gli interessati
(proprietari e possessori de suolo), che erano chiamati a contribuire anche finanziariamente alla difesa
idraulica del territorio. A distanza di un secolo, nonostante la mancanza di una visione organica di bacino,
la predetta normativa appare ancora interessante, per il suo sforzo di coinvolgere, accanto allo Stato, gli
Enti locali e i privati nella gestione del sistema idrico. Essa, infatti, corrisponde ai più recenti indirizzi sulla
gestione dei beni pubblici, ispirati al principio di sussidiarietà.
(17) Ricapitolati in sintesi cronologica, i provvedimento possono essere così enumerati: D.P.R. 15 gennaio
1972, n. 8 e D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, conferimento di funzioni e trasferimento opere idrauliche alle
Regioni a statuto ordinario; L. 18 maggio 1989, n. 183, sulla difesa del suolo, che ha istituito la categoria
dei bacini idrografici di diverso rilievo territoriale, diversificando le competenze istituzionali di gestione
delle acque relative; D.Lgs. 12 luglio 1993, n. 275, in materia di concessioni di acque; L. 5 gennaio 1994,
n. 36, sulla tutela delle risorse idriche; L. 5 gennaio 1994, n. 37, sulla tutela delle aree demaniali
abbandonate dalle acque per cause naturali o per opera dell'uomo; L. 21 ottobre 1994, n. 584, in materia
di dighe; L. 15 marzo 1997, n. 59, delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti a Regioni
ed Enti locali, per la riforma della P.A. e per la semplificazione amministrativa (legge Bassanini); D.Lgs.
31 marzo 1998, n. 112, emanato in attuazione della suddetta delega; D.Lgs. 30 marzo 1999, n. 96, di
intervento sostitutivo del governo per la ripartizione delle funzioni amministrative fra Regioni ed Enti
locali; i numerosi provvedimenti in materia di lotta all'inquinamento delle acque, a cominciare dalla L. 10
maggio 1976, n. 319, e successive modifiche, al D.Lgs. n. 152 del 1999, al D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152,
Norme in materia ambientale, Parte III.
(18) A seguito di questa riforma, molte Regioni trasferirono a Comuni e Comunità montane compiti di
polizia idraulica, manutenzione e realizzazione delle opere di pronto intervento, riguardanti in particolare
il cosiddetto "reticolo idrico minore". Con particolare riferimento alla normativa della Regione Lazio, si
rinvia a F. DIDIO, La tutela del demanio idrico per garantire il diritto delle acque: il nuovo regolamento
del Lazio alla luce di alcuni (ancora attuali) aspetti di riforma del governo delle acque, in
www.dirittoambiente.net.
(19) Si rimanda a F. DIDIO, Difesa e diritto delle acque, primo passo per la salvaguardia degli ecosistemi,
in Riv. dir. giur. agr. alim. amb., 2007, 3, pp. 275-277.
(20) Trib. Sup. Acque 16 novembre 1994, n. 61, in Foro it., Rep., 1995, voce Acque pubbliche, 63.
(21) Vale la pena riportare il testo completo dell'articolo in questione, dal titolo "Tutela delle aree di
pertinenza dei corpi idrici": 1. Al fine di assicurare il mantenimento o il ripristino della vegetazione
spontanea nella fascia immediatamente adiacente i corpi idrici, con funzioni di filtro per i solidi sospesi e
gli inquinanti di origine diffusa, di stabilizzazione delle sponde e di conservazione della biodiversità da
contemperarsi con le esigenze di funzionalità dell'alveo, entro un anno dalla data di entrata in vigore della
parte terza del presente decreto le regioni disciplinano gli interventi di trasformazione e di gestione del
suolo e del soprassuolo previsti nella fascia di almeno 10 metri dalla sponda di fiumi, laghi, stagni e
lagune, comunque vietando la copertura dei corsi d'acqua che non sia imposta da ragioni di tutela della
pubblica incolumità e la realizzazione di impianti di smaltimento dei rifiuti. 2. Gli interventi di cui al
comma 1 sono comunque soggetti all'autorizzazione prevista dal regio decreto 25 luglio 1904, n. 523,
salvo quanto previsto per gli interventi a salvaguardia della pubblica incolumità. 3. Per garantire le finalità
di cui al comma 1, le aree demaniali dei fiumi, dei torrenti, dei laghi e delle altre acque possono essere
date in concessione allo scopo di destinarle a riserve naturali, a parchi fluviali o lacuali o comunque a
interventi di ripristino e recupero ambientale. Qualora le aree demaniali siano già comprese in aree
naturali protette statali o regionali inserite nell'elenco ufficiale previsto dalla vigente normativa, la
concessione è gratuita. 4. Le aree del demanio fluviale di nuova formazione ai sensi della legge 5 gennaio
1994, n. 37, non possono essere oggetto di sdemanializzazione.
(22) Cass., Sez. I, 14 gennaio 1997, n. 300, in Giust. civ., 1997, I, 1312. Riguardo al principio di
inseparabilità, POMPONIO affermava che "i fiumi fanno le vesti di censitori, così che rendono pubblico un
luogo privato, e privato il pubblico" (Dig., 41, I, 30, 3), mentre secondo ULPIANO, "impossibile est, ut
alveus fluminis publici non sit publicus" (Dig. 43, 12, 1, 7).
(23) Cass., SS.UU., 18 dicembre 1998, n. 12701, in Foro it., Rep. 1998, voce Acque pubbliche, 58.
(24) Trib. Sup. Acque 22 gennaio 1993, n. 6, in Foro it., Rep. 1993, voce Acque pubbliche, 57.
(25) Cass., Sez. III ,12 maggio 1994, n. 5633, in Foro it., Rep. 1995, voce Acque pubbliche, 104.
(26) Si intende per chiavica un'opera in muratura per regolare il deflusso delle acque di una corrente,
mediante paratoie et sim.
(27) Cass., Sez. III, 6 marzo 1996, n. 2412, in Foro it., Rep. 1996, voce Acque pubbliche, 102.
(28) Cass., Sez. I, 14 febbraio 1997, n. 1414, in Foro it., Parte I, 733.
(29) Cass., Sez. I, 9 giugno 1998, n. 5676, in Foro it., 1999, I, 230; Cass., SS.UU., 26 agosto 1997, n.
8054, in Foro it., Rep. 1997, voce Acque pubbliche, 90; Trib. Sup. Acque 24 febbraio 1997, n. 15, in Foro
it., ibidem, 67.
(30) Art. 818 c.c., comma 1: Gli atti e i rapporti giuridici che hanno per oggetto la cosa principale
comprendono anche le pertinenze, se non è diversamente disposto dal comma 2: Le pertinenze possono
formare oggetto di separati atti o rapporti giuridici.
(31) Cass., Sez. III 23 marzo 1994, n. 2820, in Giust. civ., 1994, Parte I, 2200.
(32) Legge 31 luglio 1956, n. 1016; legge 12 dicembre 1960, n. 1596.
(33) L'uso delle acque, fonte di vita, ha acquistato una valenza pubblicistica fin dai primordi della
organizzazione statuale: alla natura pubblica dei fiumi corrispondono la libertà di pesca, di navigazione, di
abbeveraggio del bestiame. Dai testi giustinianei apprendiamo che l'ordinamento romano tutelava l'uso
delle acque non tanto per regolare i consumi, nel senso di limitarli, quanto per evitare che qualcuno
impedisse al civis di esercitare il suo diritto sulla cosa pubblica.
(34) Ciò implica quantomeno la concertazione delle scelte da parte dei soggetti portatori degli interessi
settoriali, sia a livello centrale ove si esercitano le funzioni di indirizzo e coordinamento, sia a livello
regionale o locale, secondo le competenze conferite con le leggi emanate in attuazione degli artt. 117 e
118 della Costituzione.
(35) Si veda, a questo proposito, Trib. Reg. Acque Pubbl. (presso la Corte di Appello Roma) 4 febbraio
2008, n. 12, in questa Riv., 2008, 6, p. 1014, con mia nota: Acqua, derivazioni e conflitti d'uso: per la
prima volta un Tribunale riconosce che bere è un diritto primario rispetto alle concessioni per produrre
energia elettrica.
(36) Vedi R. ROSSI, La tutela penale dei beni culturali e paesaggistici, Sistemi Editoriali SE, Napoli, 2005.
Mi sia permesso, inoltre, il rinvio a F. DIDIO, Il reato di alterazione degli argini per la salvaguardia della
funzionalità ecologica del fiume, in Riv. dir. giur. agr. alim. amb., 2007, 11, pp. 697-698.
Archivio selezionato: Dottrina
Diritto dell'ambiente e sistema comunitario delle libertà economiche (*)
Riv. it. dir. pubbl. comunit. 2009, 06, 1571
Marco Mazzamuto
SOMMARIO: 1. L'ambiente: una difficile variabile dell'ordinamento giuridico. 2. Il paradigma delle libertà
economiche nell'ordinamento comunitario. 3. Il limite ambientale nel sistema delle libertà economiche. 4.
Un bilanciamento in realtà fondato su un doppio regime forse solo transitorio. 5. La maggior protezione
negli Stati membri. 6. La maggior protezione regionale: una prospettiva sopravvalutata. 7. Conclusioni.
1. L'ambiente: una difficile variabile dell'ordinamento giuridico.
L'ingresso della tutela ambientale ha determinato un vero e proprio sconvolgimento di cui ancora,
nonostante il superamento di visioni riduttive (1) e nonostante sia passato più di un ventennio, si cerca
faticosamente di intravedere un primo ordinato esito nel complesso dell'ordinamento giuridico (2).
Non vi è dubbio che una fase di incertezza caratterizzi comunemente ogni caso in cui un interesse trovi
ex novo riconoscimento e tutela giuridica. È come se i vari elementi di cui è composto l'ordinamento
giuridico debbano in qualche modo risuonare e trovare diverso equilibrio di fronte al nuovo arrivato. Si
pensi ad esempio all'entrata in campo della privacy ed al difficile contemperamento col principio di
pubblicità dell'azione amministrativa.
Ma questo ordine di problemi sembra nel caso dell'ambiente assumere una portata decisamente più grave
e dunque maggiormente foriera di complicazioni e di tempi lunghi di ricomposizione.
Le ragioni di questa gravità, di primo acchito, non sembrerebbero difficili da scorgere.
Anzitutto, la "intensità" della tutela.
L'ambiente, superata la soglia della rilevanza giuridica, si è atteggiato con immediatezza come un bene
giuridico di rango primario.
Ma non si tratta solo di questo. L'ambiente sembra porsi anche con una intrinseca "dinamicità", tale cioè
da poter sempre spostare in avanti il proprio livello di tutela, rimettendo di volta in volta in discussione i
punti di bilanciamento con altri beni giuridici (3).
Ed il discorso potrebbe persino andare oltre qualora dovessero tradursi in apprezzabili risultati giuridici le
versioni olistiche che dalla questione ambientale finiscono per far dipendere le sorti della umanità. Non
allora un semplice rango primario ma un qualcosa di totalizzante e sovraordinato: una sorta di "ordine
pubblico ambientale", magari declinato nel nuovo concetto dello sviluppo sostenibile (4). Ed un ordine
pubblico ben più comprensivo di quello tradizionale, pretendendo di costituire il terreno di salvaguardia
primaria della comunità intesa adesso anche come comunità di uomo e natura e non solo come comunità
di uomini, ristretta cioè al superamento del moderno paradigma hobbesiano del homo homini lupus.
Non siamo certo a questo punto (5), ma è indubbio che si tratti di un terreno sottostante di "pressione"
sull'ordinamento giuridico.
In secondo luogo, la "estensione" o, per usare la familiare terminologia del nostro giudice delle leggi, la
trasversalità dell'interesse ambientale.
Non si tratta cioè soltanto di un interesse che presenta un elevato peso specifico, ma di un interesse
potenzialmente idoneo a intaccare qualsiasi sfera della realtà, poiché l'espressione ambiente, nel suo
significato grosso modo ormai corrente, tutto potenzialmente comprende, appunto l'uomo e la natura.
Le conseguenze sono subito comprensibili. Non taluni, ma "tutti" gli elementi dell'ordinamento giuridico
sembrano destinati a dover risuonare di fronte a questo (orami relativamente) nuovo arrivato, pesante
per intensità e appunto ingombrante per estensione nella sua strutturale ubiquità.
Un terzo elemento che, infine, rende ancor più complicato il riassetto dell'ordinamento, è che un interesse
di tal fatta non poteva che atteggiarsi anche come "compito pubblico", portando con sé tutte quelle
valenze problematiche che sono connesse ai delicati rapporti tra autorità e libertà: il diritto dell'ambiente
dunque non solo come momento di mediazione dei rapporti interprivati, ma più decisamente come nuova
e penetrante variabile dei rapporti tra pubblici poteri e libertà individuali e sociali.
Tutto questo fa comprendere dove si esprima primariamente la problematicità della questione
ambientale: il bilanciamento con gli altri beni giuridici.
Un bilanciamento che può coinvolgere l'ambiente, come interesse pubblico, nei confronti di "altri"
interessi pubblici e che può coinvolgere non meno l'ambiente, come interesse pubblico, nei confronti degli
interessi privati e dei diritti di libertà.
Ed è proprio questo ultimo terreno che vuole essere oggetto di approfondimento del presente lavoro,
prendendo a termine di confronto quello che è forse il più formidabile avversario della tutela ambientale,
e cioè il sistema comunitario delle libertà economiche.
2. Il paradigma delle libertà economiche nell'ordinamento comunitario.
L'ordinamento comunitario è stato sin dall'inizio caratterizzato da una posizione di primazia delle libertà
economiche nel contesto di un assetto concorrenziale dei mercati.
Ciò ha determinato nella consolidata giurisprudenza comunitaria un approccio tendenzialmente restrittivo
secondo lo schema della regola e dell'eccezione delle limitazioni di tali libertà, sia nell'an, sia nella misura
(6).
In primo luogo, questo approccio si catalizza intorno agli interessi che possono giustificare le restrizioni
delle libertà economiche. L'ordinamento comunitario ha svolto qui un ruolo di filtro rispetto alle ampie
qualificazioni nazionali: se la regola è la libertà e la sua limitazione l'eccezione, ciò si pone prima di tutto
sul versante dei fini perseguibili, secondo un sovraordinato principio di tipicità comunitaria.
Ad es i divieti o restrizioni alla circolazione delle persone sono possibili soltanto per "motivi di ordine
pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica" (art. 39 co. 3 Tr. UE).
Naturale corollario del principio di tipicità è l'interpretazione restrittiva della latitudine e dei presupposti di
ricorrenza di un fine rientrante nel catalogo comunitario.
È ad es il caso dell'ordine pubblico: "la nozione di ordine pubblico, può essere richiamata in caso di
minaccia effettiva e sufficientemente grave ad uno degli interessi fondamentali della collettività. Come
tutte le deroghe ad un principio fondamentale del Trattato, l'eccezione di ordine pubblico va interpretata
in modo restrittivo" (C. giust. sentenza 9 marzo 2000 C-355/98); "l'ordine pubblico nel contesto
comunitario e, in particolare, in quanto giustificazione di una deroga al principio fondamentale della libera
prestazione dei servizi, deve essere inteso in senso restrittivo, di guisa che la sua portata non può essere
determinata unilateralmente da ciascuno Stato membro senza il controllo delle istituzioni della Comunità
europea" (C. giust. sentenza 19 giugno 2008 C-319/06).
In secondo luogo, una volta riconosciuta la legittimità (comunitaria) di un fine pubblico, le limitazioni alle
libertà economiche devono comunque essere informate ad uno stretto principio di proporzionalità.
In sostanza, queste limitazioni se e quando possono intervenire devono attenersi a quanto strettamente
necessario in modo da arrecare il minor pregiudizio alle libertà economiche.
Rispetto a questa sequenza di filtri vi è stato negli anni un temperamento sul versante del catalogo
comunitario dei fini pubblici. Questo catalogo è stato infatti progressivamente allargato ad opera della
giurisprudenza comunitaria.
Di recente, ad es., il Considerando 40 della Direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno
ci offre un elenco aggiornato dei "motivi imperativi di interesse generale", proprio alla luce dei precedenti
della Corte di giustizia (7).
Ma ciò non ha intaccato l'ispirazione di fondo del carattere derogatorio delle limitazioni alle libertà
economiche.
La giurisprudenza comunitaria è rimasta a tutt'oggi sostanzialmente fedele a questo schema.
Nei casi che le vengono sottoposti si riproduce costantemente questo ordine di problemi: se una certa
misura è restrittiva delle libertà economiche; se tale misura si fonda su un fine rientrante nel catalogo
comunitario ed interpretato in senso stretto; se tale misura è comunque proporzionata.
E ciò perché, per dirla con le parole della giurisprudenza, "qualsiasi provvedimento nazionale che possa
ostacolare o scoraggiare l'esercizio delle dette libertà è giustificabile solo se soddisfa quattro condizioni:
deve applicarsi in modo non discriminatorio, soddisfare ragioni imperative di interesse pubblico, essere
idoneo a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e non andare oltre quanto necessario per il
raggiungimento di questo" (Corte giust. sentenza 26 gennaio 2006, causa C-514/03).
3. Il limite ambientale nel sistema delle libertà economiche.
La giurisprudenza comunitaria è stata tra i protagonisti della giuridificazione dell'interesse ambientale,
qualificandolo, ancor prima delle successive codificazioni, come "uno degli scopi essenziali della
Comunità" (Corte giust. sentenza 7 febbraio 1985, causa C-240/83), che, in quanto tale, può giustificare
limitazioni del principio delle libertà di circolazione.
Questo rango primario è stato ampiamente confermato nel Trattato:
“ "La Comunità ha il compito di promuovere (...) un elevato livello di protezione dell'ambiente ed il
miglioramento della qualità di quest'ultimo" (art. 1);
“ "le esigenze connesse con la tutela dell'ambiente devono essere integrate" nella definizione di tutte le
politiche comunitaria (art. 6);
“ le misure comunitarie di protezione ambientale "non impediscono ai singoli Stati membri di mantenere
e di prendere provvedimenti per una protezione ancora maggiore" (art. 176);
“ la Commissione nelle proposte di armonizzazione "in materia di sanità, sicurezza, protezione
dell'ambiente e protezione dei consumatori, si basa su un livello di protezione elevato, tenuto conto, in
particolare, degli eventuali nuovi sviluppi fondati su riscontri scientifici" (art. 95 comma 3).
Significativo è anche che l'azione di tutela deve fondarsi sui "principi della precauzione e dell'azione
preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente,
nonché sul principio chi inquina paga" (art. 174 comma 2). Tutti principi che esprimono tipiche tecniche di
tutela nei confronti di beni giuridici di altissimo rango. È sufficiente evocare il rilievo del principio di
precauzione che anticipa la soglia della tutela ad una prova ancora incerta del rischio.
Ma sin dall'inizio la stessa giurisprudenza ha immediatamente inquadrato questo nuovo fine nel "sistema"
delle libertà economiche. Così, nella citata sentenza, i provvedimenti adottati in materia non devono
"eccedere le restrizioni inevitabili giustificate dal perseguimento dello scopo d'interesse generale
costituito dalla tutela dell'ambiente".
Ancor oggi la casististica della giurisprudenza comunitaria continua a riproporre nelle fattispecie di rilievo
ambientale il solito e consolidato schema dei filtri a tutela delle libertà economiche.
Si è così, ad es., censurata, per difetto di proporzionalità, una tassa comunale che mirava a scoraggiare
la proliferazione delle antenne paraboliche a tutela dell'ambiente, con ciò violando la libera prestazione
del servizio di emissione di messaggi televisi (Corte giust. sentenza 29 novembre 2001, causa C-17/00).
O ancora, in assenza di armonizzazioni legislative, si è ritenuta sproporzionata una misura nazionale a
tutela della salute in materia di etichettatura dei prodotti, determinando una illegittima restrizione al
commercio infracomunitario ai sensi dell'art. 30 del Trattato (Corte giust. 16 novembre 2000, causa
C-217/99).
Ovvero più di recente si è ritenuta restrittiva della libertà di circolazione delle merci una misura statale in
materia di controllo sullo stato fisico dei veicoli, a tutela (della sicurezza stradale e) dell'ambiente, di cui
non risulta provata la proporzionalità, e ciò perché l'esigenza imperativa "tutela dell'ambiente" deve non
meno "essere idonea a garantire la realizzazione dell'obiettivo perseguito e non andare oltre quanto
necessario per il suo raggiungimento" (Corte giust. sentenza 20 settembre 2007, causa C-297/05).
Ciò ovviamente significa che non sarebbe ammissibile alcuna impostazione di unilateralismo ambientalista
(8). L'evocazione dell'interesse ambientale, sempre che in effetti ricorra, non può essere assunto come
motivo che determini un terreno "franco" per l'intervento pubblico. Su questo la Corte di giustizia è molto
chiara: "In ordine alla giustificazione fondata sulla tutela dell'ambiente (...) occorre sottolineare come la
tutela dell'ambiente non consenta di giustificare qualsiasi restrizione delle esportazioni" (Corte giust.
sentenza 23 maggio 2000, causa C-209/98; ma già 25 giugno 1998, C-203/96)". Così come il livello di
tutela richiesto dal Trattato, come obiettivo che va perseguito dagli organi comunitari, "non deve essere
necessariamente il più elevato possibile sotto il profilo tecnico" (Corte giust. sentenza 14 luglio 1998,
causa C-284/95).
E significa altresì che, tutto al contrario di un terreno franco, l'interesse ambientale si è trovato e continua
a trovarsi di fronte ad vero e proprio un osso duro, l'originaria e ancora viva primazia comunitaria delle
libertà economiche: "Secondo una giurisprudenza costante, misure nazionali atte ad ostacolare gli scambi
intracomunitari possono essere giustificate da esigenze imperative attinenti alla tutela ambientale purché
siano proporzionate all'obiettivo perseguito" (Corte giust., grande sezione, 14 dicembre 2004, causa
C-309/02) (9).
Per quanto potranno ricalibrarsi i momenti di bilanciamento in favore dell'ambiente (10), mantiene tutto il
suo rilievo sistematico il rapporto tra principio e eccezione, anche soltanto per il fatto che il principio la
libertà economica si afferma in quanto tale senza necessità di giustificazione, mentre la deroga alla
libertà, compresa la deroga a tutela dell'ambiente, deve essere di regola supportata da una motivazione
che consenta di verificare la sussistenza dell'interesse e la proporzionalità della misura.
Anzi, su questo terreno il Trattato sembra rafforzare le garanzie di libertà, poiché impone che la misura di
tutela ambientale sia fondata su una fonte qualificata, e cioè sui "dati scientifici e tecnici disponibili" (art.
174 comma 3) (11).
Presupposto che non solo deve ricorrere, in positivo, per l'assunzione di una misura ambientale, ma che,
peraltro, potrebbe anche svolgere un ruolo dinamico regressivo, laddove nuovi dati scientifici dovessero
sconfessare quelli preesistenti sui quali si era basata la misura ambientale.
Ipotesi niente affatto peregrina specialmente nei casi in cui la misura ambientale sia stata assunta alla
stregua del principio di precauzione, il cui contesto, come è noto, "è per definizione un contesto
d'incertezza scientifica" (12).
4. Un bilanciamento in realtà fondato su un doppio regime forse solo transitorio.
Un'attenta dottrina ha affermato recisamente che "a fronte della difesa dell'ambiente non opera il
tradizionale favor libertatis" (13).
Un assunto che potrebbe apparire del tutto incomprensibile, anche soltanto alla luce di una
giurisprudenza comunitaria che continua ad applicare alle fattispecie ambientali la consueta intelaiatura di
filtri a tutela delle libertà economiche.
Ma si tratta di un assunto che, spogliato dalla sua pretesa totalizzante, porta con sé una parte
significativa di verità. In effetti quanto si è in precedenza osservato non riesce a giustificare lo stato
attuale del diritto ambientale comunitario.
La tutela dell'ambiente sembra presentare una valenza specifica nel segno di una maggiore portata
derogatoria rispetto agli standards restrittivi delle altre deroghe alle libertà economiche.
Imponente è ormai la produzione di legislazione derivata e di decisioni nel segno della progressiva
imposizione di vincoli ambientali.
Significativa è anche l'evoluzione in materia di aiuti, cioè di uno strumento tipico di deroga alla
concorrenza. Nella recente disciplina introdotta nel 2008, gli aiuti all'ambiente segnano una fase di
intensificazione rispetto ai programmi passati (14).
O ancora: la Commissione incoraggia gli appalti pubblici ecocompatibili, con inevitabili conseguenze in
termini di restrizione alla concorrenza in sede di partecipazione alle gare (15).
Negli ultimi anni ha preso poi fortemente corpo l'iniziativa dell'UE nelle sedi internazionali, che appaiono
rinvigorite come contesto potenziale di ulteriore rafforzamento dei vincoli ambientali.
È del tutto ovvio che lo stesso riconoscimento comunitario dell'interesse ambientale e del suo rango
primario non poteva non determinare uno spazio già significativo di incardinamento a scapito delle libertà
economiche.
In qualche misura, la fame ambientalista è comprensibile in ragione della novità dell'interesse tutelato,
sicchè è come se si debba per così dire "recuperare" terreno. E si potrebbe così pensare che una volta
conseguito l'obiettivo di "un elevato livello di protezione dell'ambiente" (art. 2 Trattato) sia possibile
sgonfiare questa tensione, tornando ad un assetto più fisiologico di bilanciamento con gli altri beni
giuridici.
Ma nell'ordinamento comunitario, se sono da escludere le prospettazioni unilateraliste, sono anche visibili
le tracce di altre valenze dell'interesse ambientale, cioè quel "dinamismo" che tende a spingere in avanti
la soglia di tutela.
Quell'obiettivo, di per sé generico, della "elevata" tutela si presta non meno ad una lettura dinamica e ciò
grazie ad altri inequivocabili riferimenti contenuti nel Trattato.
Così l'art. 95 dispone che le proposte della Commissione per garantire un livello di protezione elevato,
tengono conto "degli eventuali nuovi sviluppi fondati su riscontri scientifici" (comma 3); che gli Stati
membri possono introdurre disposizioni più rigorose, tra l'altro, "fondate su nuove prove
scientifiche" (comma 5); che in tal caso, se la norma nazionale è giustificata, "la Commissione esamina
immediatamente l'opportunità di proporre un adeguamento" della misura di armonizzazione (comma 7).
In altre parole, le necessità dell'interesse ambientale sono sempre aggiornabili nel segno di una maggior
tutela alla luce di "nuove" evidenze. Certo potrà dirsi che in qualche modo i mutamenti della realtà e/o
della sua conoscenza finiscono sempre per incidere sugli equilibri dell'ordinamento giuridico, ma è
significativo che tutto ciò venga codificato, come se il legislatore comunitario fosse consapevole
dell'attualità di questo dinamismo, che vi sia cioè da attendersi, già nel breve termine, un progresso delle
conoscenze che disvelerà sempre nuove problematiche ambientali.
Non vi è dunque soltanto la rincorsa alla tutela di un bene che non era protetto, ma il convincimento che,
a sua volta, lo stesso obiettivo di (elevata) tutela si possa nel tempo spostare in avanti.
La politica ambientale comunitaria, in un modo o nell'altro, sembra cioè essere informata ad una logica,
per così dire, "incrementalista", analogamente a quanto è avvenuto con la tutela della concorrenza, ma
con l'importante differenza che mentre quest'ultima è considerata come costitutiva e dunque con effetti
adiuvanti delle stesse libertà economiche, la prima si atteggia come limite a queste libertà.
È quindi evidente che una siffatta logica incrementalista, ridisegnando di volta in volta punti di equilibrio
più favorevoli alla tutela ambientale nel bilanciamento con altri beni, metta a dura prova, anzi sia in
diretta rotta di collisione con il principio generale che, come si è visto, impone una considerazione
restrittiva delle limitazioni alle libertà economiche.
Sembrerebbe una vera e propria contraddizione interna all'ordinamento comunitario, se non ci si
avvedesse che, allo stato, questa contraddizione non si traduce in conseguenze pratiche grazie soltanto
ad un'attitudine differenziata della giurisprudenza comunitaria.
Il filtro delle libertà economiche trova di regola riscontro nella giurisprudenza comunitaria ogni qual volta
vengano in gioco misure di tutela ambientale adottate dagli Stati membri o dagli enti territoriali
infrastatuali (Regioni ed enti locali).
Sostanzialmente flebile è invece quello esercitato sulle decisioni "comunitarie".
In linea di principio, questo controllo è possibile, ed anzi doveroso, poiché i principi sostanziali del
Trattato, così come anche interpretati nel tempo dalla giurisprudenza, non possono non vincolare gli
stessi organismi comunitari.
Ed infatti, proprio riguardo ad un caso di tutela ambientale, in ordine alla validità del regolamento (CE)
del Consiglio 15 dicembre 1994, n. 3093, sulle sostanze che riducono lo strato di ozono, si ricorda che
"per giurisprudenza costante, il divieto di restrizioni quantitative nonché di misure di effetto equivalente
vale, non solo per i provvedimenti nazionali, ma del pari per quelli adottati dalle istituzioni
comunitarie" (Corte giust. sentenza 14 luglio 1998, causa C-284/95; ma vedi anche sentenze 17 maggio
1984, causa 15/83, e 9 agosto 1994, causa C-51/93).
Così come l'operato delle istituzioni comunitarie va vagliato alla luce del principio di proporzionalità:
"secondo la giurisprudenza della Corte, al fine di stabilire se una norma di diritto comunitario sia
conforme al principio di proporzionalità, si deve accertare se i mezzi da essa contemplati siano idonei a
conseguire lo scopo perseguito e non eccedano quanto necessario a raggiungere il detto scopo" (ad es di
recente Corte giust. sentenza 9 settembre 2003, causa C-236/01).
Discorso non diverso vale per gli specifici presupposti della politica ambientale comunitaria, tra cui in
particolare il fondamento scientifico della decisione.
Con riguardo all'art. 130 (ora 174) la Corte aveva avuto modo di statuire che "questa disposizione
prevede una serie di obiettivi, principi e criteri che il legislatore comunitario deve rispettare
nell'attuazione della politica ambientale", sottoponendo al suo vaglio il regolamento (CE) del Consiglio 15
dicembre 1994, n. 3093, in materia di ozono, sia sotto il profilo dei dati scientifici, sia sotto quello della
proporzionalità della limitazione delle libertà economiche (Corte giust. sentenza 14 luglio 1998, causa
C-284/95).
Ma già nel famoso caso della "mucca pazza" la Corte di giustizia dovette misurarsi proprio su questo
terreno con riguardo al divieto di esportazione dei bovini inglesi disposto dalla Commissione. La questione
venne rigettata, ma all'interno della solita intelaiatura in ordine ad una motivata e proporzionata misura
di restrizione dell'esportazione e significativamente anche a partire dai pareri scientifici acquisiti dalla
Commissione (Corte giust. sentenza 5 maggio 1998, causa C-157/96).
Interessante e impegnativo, sempre per il profilo del fondamento scientifico, è stato di recente il caso
dell'impugnazione di un regolamento comunitario che ha previsto la revoca dell'autorizzazione alla
commercializzazione di determinati additivi nell'alimentazione degli animali, tra cui la virginiamicina (Trib.
1° grado CE, sez. III, sentenza 11 settembre 2002, causa T-13/99).
D'altro lato, è innegabile che, in pratica, il controllo sugli atti delle istituzioni comunitarie ha sempre avuto
un carattere più limitato, specialmente quando, come è certo il caso dell'ambiente, ci si trovi in presenza
di una larga discrezionalità (16).
Anzi in materia di ambiente hanno concorso due ulteriori fattori al self-restraint della giurisprudenza: il
forte mandato di tutela dell'ambiente contenuto nel Trattato e la complessità delle valutazioni in materia
(17). E possono persino scorgersi spinte volte ad ampliare la sfera di "politicità" delle scelte (18).
Già chiara al riguardo la citata pronuncia in materia di ozono:
"Tuttavia, in ragione della necessità di prendere in considerazione alcuni obiettivi e principi enunciati
all'art. 130 R, nonché della complessità dell'attuazione dei criteri stessi, il controllo giurisdizionale deve
necessariamente limitarsi a verificare se il Consiglio, nell'adottare il regolamento, abbia commesso un
errore di valutazione manifesto quanto alle condizioni di applicabilità dell'art. 130 R del Trattato" (14
luglio 1998, causa C-284/95 cit.)
In altre parole, è questo il vero punto di sfondamento dell'incrementalismo ambientalista.
Agli organi comunitari è al momento lasciata un'ampia libertà di concepire e portare ad esecuzione una
graduale "politica nel settore dell'ambiente" (art. 3 lett. l) Tr.) in vista dell'obiettivo di un "elevato livello
di protezione" (art. 2).
È difficile dire se o per quanto tempo rimarrà questo margine di azione, poiché non vi è dubbio che
astrattamente, in punto di diritto, i filtri posti a tutela delle libertà economiche, unitamente al criterio del
fondamento scientifico, sono parametri che dovrebbero valere anche nei confronti delle azioni comunitarie
in materia di ambiente.
Verrà il momento, magari dopo che le politiche ambientali abbiano raggiunto un certo livello di
protezione, che la giurisprudenza comunitaria svolgerà un intenso ruolo sistematico di controllo e di freno
anche rispetto ad eventuali eccessi comunitari dell'incrementalismo ambientalista?
È certo troppo presto per dirlo, anche perché la questione ambientale è ancora una priorità dell'agenda
comunitaria e si continua a ritenere che la tutela raggiunta non sia ancora sufficiente (19).
Tuttavia, non è mancata occasione nella quale la giurisprudenza ha finito per censurare decisioni
comunitarie. È il caso recente dell'autorizzazione da parte della Commissione di una ecotassa introdotta
da uno Stato membro, di cui si è dichiarata la non conformità all'art. 87, comma 1, del Trattato, sotto il
profilo della selettività dell'aiuto (Corte giust. sentenza 22 dicembre 2008, causa C-487/06).
5. La maggior protezione negli Stati membri.
Si è già visto che gli Stati membri possono motu propriu adottare misure di tutela dell'ambiente, ma
sempre suscettibile di vaglio alla luce dei principi posti a tutela delle libertà economiche.
Vi è tuttavia anche un altro terreno di intervento degli Stati membri.
L'introduzione nel Trattato della politica ambientale ha posto infatti l'esigenza di regolare i rapporti tra le
misure comunitarie e le eventuali misure nazionali. Rispetto all'ipotesi precedente non si tratta soltanto di
comparare una misura nazionale ai principi, ma di un quadro più complesso dove insistono anche le
misure comunitarie e gli specifici presupposti di intervento nazionale in uno spazio non più vergine.
Occorre dunque verificare quale sia in effetti l'ambito riconosciuto agli Stati membri, e cioè alla possibilità
esplicitamente considerata dal Trattato (artt. 95 e 176) che si introducano al livello nazionale misure di
maggior protezione rispetto agli standards ambientali contenuti negli interventi comunitari.
Riguardo alle tradizionali misure di armonizzazione riguardanti il funzionamento del mercato interno (art.
95) l'azione degli Stati membri appare quantomai circoscritta.
In primo luogo, rimangono sempre in campo i principi a tutela delle libertà economiche, secondo i
consueti standards giurisprudenziali.
È, ad es., il caso delle pile alcaline. Una direttiva comunitaria del 1991 vieta la commercializzazione di pile
e di accumulatori contenenti più dello 0,0005% in peso di mercurio. Lo Stato italiano impone misure più
restrittive con riferimento alle pile contenenti meno dello 0,0005%. La Corte, da un lato, non ritiene che
tale misura di maggior protezione potesse fondarsi sulla stessa Direttiva, d'altro lato, sottopone la
fattispecie al vaglio dell'art. 28 che vieta agli Stati membri restrizioni quantitative all'importazione. La
conclusione è che la misura è illegittima, poiché non è stata provata "l'esistenza di un'esigenza imperativa
che giustifichi il regime di marcatura di cui trattasi" (Corte giust. sentenza 14 ottobre 2004, causa
C-143/03).
O, in altro caso, si è ritenuto che la Direttiva del 1994 sugli imballaggi e rifiuti di imballaggi, volta anche
ad un elevato livello di protezione dell'ambiente, si limita a consentire agli Stati membri di favorire, nel
rispetto del Trattato, sistemi di reimpiego degli imballaggi idonei ad essere riutilizzati senza nuocere
all'ambiente. La conseguenza è che la misura nazionale in tal senso deve pur sempre essere sottoposta al
solito scrutinio di proporzionalità. Nel caso di specie, la misura viene ritenuta sproporzionata perché non
prevede "un ragionevole termine transitorio" per il cambio di sistema (Corte giust. 14 dicembre 2004,
causa C-309/02).
In secondo luogo, a ciò vanno aggiunti gli specifici presupposti previsti dal Trattato.
Le misure nazionali sono anzitutto soggette ad un'approvazione preventiva della Commissione, che dovrà
verificare, a conferma del rilievo dei principi in materia di libertà economiche, "se esse costituiscano o no
uno strumento di discriminazione arbitraria o una restrizione dissimulata nel commercio tra gli Stati
membri e se rappresentino o no ostacolo al funzionamento del mercato interno" (art. 95 comma 6).
Ma vi è anche un aggravamento sui presupposti "sostanziali".
Ciò non tanto per le misure nazionali di maggior protezione "precedenti" ad una misura comunitaria di
armonizzazione, dove lo Stato membro deve soltanto precisare "i motivi del mantenimento delle stesse",
il che finisce in sostanza per ricondurre al vincolo dei principi generali: "uno Stato membro può fondare
una domanda volta al mantenimento in vigore delle sue norme nazionali preesistenti su una valutazione
del rischio per la sanità pubblica differente da quella effettuata dal legislatore comunitario al momento
dell'adozione della misura di armonizzazione alla quale quelle norme nazionali derogano. A tal fine spetta
allo Stato membro richiedente provare che le dette norme nazionali garantiscono un livello di protezione
della salute più elevato della misura comunitaria di armonizzazione e che non vanno al di là di quanto è
necessario per raggiungere tale obiettivo" (Corte giust. sentenza 20 marzo 2003, causa C-3/00 (20)).
Sebbene appare difficile sostenere che sia ammissibile il mantenimento di una misura nazionale che non
abbia anche una base scientifica.
Mentre per le misure nazionali "susseguenti" ad una misura comunitaria di armonizzazione, queste
devono più espressamente fondarsi su "nuove prove scientifiche" e su "un problema specifico" dello Stato
membro (art. 95 comma 5).
Così, in materia di organismi geneticamente modificati, si è statuito che una misura nazionale dotata di
prove scientifiche, ma priva della dimostrazione di un problema specifico, non è rispettosa delle condizioni
dell'art. 95 (Corte giust. sentenza 13 settembre 2007, causa C-439/05 P e C-454/05 P) (21).
Riguardo alle misure di armonizzazione che costituiscono diretta espressione delle politiche ambientali
comunitarie (art. 174 ss) l'azione degli Stati membri sembra avere invece un margine più ampio.
L'art. 176 del Trattato prevede solo un obbligo di notificazione e non una preventiva autorizzazione da
parte della Commissione e soprattutto, sul piano dei presupposti sostanziali, che le misure nazionali di
maggior protezione "devono essere compatibili con il presente trattato".
Non vi è dubbio che queste diversità siano ulteriore espressione del germe dell'incrementalismo
ambientalista, quasi che l'ampia libertà di azione degli organi comunitari possa trovare un seguito
nell'azione degli Stati membri.
Persino nella giurisprudenza comunitaria se ne ritrova una traccia.
Così, dopo aver affermato che l'art. 176 e la direttiva 1999/31/CE, relativa alle discariche di rifiuti,
prevedono la possibilità per gli Stati membri di disporre misure rafforzate di protezione che superino
quelle minime stabilite dalla direttiva, si è ritenuto che "Il principio comunitario di proporzionalità non si
applica per quanto riguarda le misure nazionali di protezione rafforzata adottate ai sensi dell'art. 176 CE
e che superano i requisiti minimi previsti da una direttiva comunitaria in materia ambientale, nella misura
in cui altre disposizioni del Trattato non siano interessate" (Corte giust. 14 aprile 2005, causa C-6/03).
Si tratta di una pronuncia che esprime un sicuro favor ambientale, ma alla quale non si può attribuire
alcun valore sistematico. Sia perché essa è confinata al presupposto del tutto raro che non siano
interessate altre disposizioni del Trattato, come a dire che ci troveremmo di fronte ad una misura
ambientale che non ha alcuna incidenza sulle libertà economiche. Sia perché si tratterebbe di una deroga
all'applicazione del principio di proporzionalità che non ha alcun riscontro in tutta la restante e
consolidata giurisprudenza comunitaria.
Non a caso in una successiva statuizione della Corte ritornano nuovamente in campo gli schemi consueti.
La misura nazionale, comportando che esemplari di specie non menzionati nell'allegato A del regolamento
n. 338/97 adottato, in virtù dell'art. 175, in materia di protezione di specie della flora e della fauna
selvatiche possano, in generale, essere importati, detenuti e commercializzati in Belgio, "costituisce una
normativa più rigorosa di detto regolamento, che deve pertanto essere esaminata alla luce dell'art. 28
CE" e dunque anche soggetta allo scrutinio di proporzionalità. Ed è non meno significativo che la Corte,
pur rimettendosi al giudice di rinvio, ritiene necessario che il suddetto scrutinio "presuppone una concreta
analisi, basata segnatamente sui diversi testi applicabili, sulla pratica nonché sugli studi scientifici" (Corte
giust. sentenza 19 giugno 2008, causa C-219/07).
Del resto, appare quantomai impraticabile una lettura atomistica dell'art. 176, che lasci cioè un terreno
così ampio di intervento degli Stati membri in totale dissonanza con i dati sistematici dell'ordinamento
comunitario.
In primo luogo, non può certo condividersi una interpretazione che svuoti di significato il limite, contenuto
nell'art. 176, della compatibilità con il Trattato.
Va ricordato che la giurisprudenza in altre occasioni si è fatta carico di analoghe formulazioni contenute in
atti di legislazione derivata.
Con riferimento al criterio, cui devono soggiacere le misure nazionali, del "rispetto delle disposizioni
generali del Trattato" di cui all'art. 2, co. 2, Direttiva 91/174/CEE del Consiglio, del 25 marzo 1991,
relativa alle condizioni zootecniche e genealogiche che disciplinano la commercializzazione degli animali di
razza, si è statuito che "le legislazioni nazionali rimangono applicabili nel rispetto però delle disposizioni
generali del Trattato. Pertanto, una normativa come quella di cui trattasi nella causa a qua deve essere
valutata alla luce degli artt. 30 e 36 del Trattato CE." (Corte giust. 3 dicembre 1998, causa C-67/97).
L'art. 5 della direttiva 94/62 consente agli Stati membri di favorire sistemi di reimpiego degli imballaggi
solo "in conformità con il Trattato". Si è ritenuto che le misure nazionali non si debbano sistematicamente
presumere conformi al diritto comunitario solo perché mirano a dare attuazione a uno o più dei principi
menzionati dalla suddetta disposizione. L'espressione "in conformità con il Trattato" "deve essere
piuttosto intesa nel senso che le suddette misure nazionali, oltre ad essere conformi al regolamento,
devono anche rispettare le norme o i principi generali del Trattato che non sono direttamente previsti
dalla normativa adottata nell'ambito delle spedizioni di rifiuti. Occorre quindi esaminare la compatibilità
delle disposizioni nazionali controverse con l'art. 28 CE." (Corte giust. 14 dicembre 2004, causa
C-463/01).
Il dato di fondo rimane comunque quello sistematico. Se è vero, come è vero, che le misure ambientali
non possono di regola non intaccare la sfera economica (22), non si vede come ci si possa sottrarre ai
momenti di bilanciamento con i principi fondamentali posti a tutela delle libertà di circolazione. Anzi, se,
in linea di principio, come si è visto, le stesse istituzioni comunitarie, in sede di elaborazione delle
politiche ambientali, devono sottostare a quei principi, a fortiori ciò dovrà valere per le misure nazionali di
maggior protezione.
Tutto questo fa anche comprendere come sia ineludibile, quanto corretta (23) una interpretazione
sistematica dell'art. 176 alla luce di quegli altri presupposti sostanziali fissati dall'art. 95.
Il bilanciamento tra beni di rango primario infatti non può mutare sostanzialmente a seconda del mezzo
giuridico utilizzato. In tal senso, deve ricordarsi che per la consolidata giurisprudenza comunitaria
"sebbene una misura non abbia l'obiettivo di regolare gli scambi di merci tra gli Stati membri, ciò che è
determinante è il suo effetto, attuale o potenziale, sul commercio intracomunitario" (così di recente Corte
giust. sentenza 14 ottobre 2004, causa C-143/03).
In altre parole, anche quei requisiti aggiuntivi ex art. 95 delle "nuove prove scientifiche" e del "problema
specifico" non potranno prima o dopo venire elusi in presenza di misure nazionali di maggior protezione
rispetto a misure comunitarie adottate ai sensi dell'art. 174 e ss.
L'argomento sistematico torna poi in modo appariscente per il fondamento scientifico.
Lo stesso art. 174 dispone che la "Comunità" nel "predisporre la sua politica in materia ambientale"
debba tenere conto dei "dati scientifici e tecnici disponibili" e, come si è visto, questo presupposto è, pur
flebilmente, oggetto di vaglio nel sindacato giurisdizionale di atti comunitari.
Ebbene, come si fa, ancora una volta, a ritenere che tale presupposto valga per gli organi comunitari e
non anche invece per gli Stati membri?
6. La maggior protezione regionale: una prospettiva sopravvalutata.
L'incrementalismo ambientalista è stato anche declinato nell'ambito del riparto di competenze legislative
tra Stato e Regioni, in vista di una potenzialità addizionale che si vorrebbe, a cascata, mantenere intatta
ad ogni livello territoriale di governo.
I tentativi di valorizzare l'autonomia regionale (o al limite anche locale) per costruire un ulteriore e
cumulativo spazio franco di maggior tutela ambientale appaiono tuttavia alquanto velleitari.
In primo luogo, perché il paradigma comunitario (presupposto scientifico e bilanciamento con libertà
economiche) ha carattere generale e non può non applicarsi a qualsiasi livello di governo. E ogni
decisione dello Stato membro, come di una sua articolazione interna, rimane, sotto questi profili, sempre
suscettibile di vaglio di fronte al giudice comunitario e ancor prima di fronte alla Commissione.
In secondo luogo, perché lo stesso intervento dello Stato non può che restringere ulteriormente gli spazi
per un margine di manovra che vada al di là degli standards comunitari.
Del resto, l'evoluzione della nostra giurisprudenza costituzionale sembra confermare quanto si va
dicendo.
È vero che il giudice delle leggi ha sembrato alimentare certe prospettive, sia calcando a volte la mano su
un presunto valore "assoluto" dell'interesse ambientale, sia affermando che le Regioni possano
indirettamente rafforzare la tutela dell'ambiente rispetto a quanto stabilito dal legislatore nazionale, cui è
rimessa in via esclusiva la potestà legislativa in materia.
Ma queste indicazioni sono più che altro suggestive.
Nel primo caso, poiché la proclamazione del peso specifico dell'interesse ambientale non ha affatto
impedito, come vedremo, il bilanciamento con altri beni costituzionalmente rilevanti (24).
Nel secondo caso, perché certe aperture appaiono più segnate da un iniziale omaggio allo spirito della
riforma del Titolo V che da una effettiva volontà di concedere spazio ad un ambientalismo regionale.
La Corte ha anzitutto ferreamente affermato la competenza esclusiva dello Stato nella "materia"
ambientale.
Si è chiarito che la "trasversalità" dell'ambiente non significa affatto che esso non costituisca anche una
"materia" in senso tecnico ai fini del riparto di competenze legislative (25).
E si è difesa significativamente questa esclusività statale pure di fronte al terreno scivoloso di preesistenti
materie di competenza delle Regioni a statuto speciale, la cui sfera di autonomia doveva restare
impermeabile ad ogni previsione restrittiva che derivasse dalla riforma del Titolo V.
L'astuzia giuridica consiste nel configurare l'ambiente come una materia del tutto nuova per sintesi
qualitativa e dunque in alcun modo riconducibile ai suoi segmenti o al mero cumulo di essi.
Poco importa così che lo Statuto siciliano preveda materie di legislazione esclusiva regionale come
agricoltura e foreste, bonifica, urbanistica, miniere, cave, torbiere e saline, acque pubbliche, tutela del
paesaggio etc. Tali disposizioni "pur aventi ad oggetto importanti settori afferenti all'ambiente, non lo
esauriscono", ovvero sia "non si rinvengono disposizioni che prevedono, in materia, considerata nel suo
complesso, di ambiente ed ecosistema, una disciplina derogatoria rispetto a quella stabilita, in via
generale, dal secondo comma, lettera s) dell'art. 117 Cost." (Corte cost. n. 12/2009; nonché n.
380/2007).
La rigorosa affermazione della competenza statale esclusiva in "materia" ambientale è già significativa,
sul piano sistematico, di una volontà di restringere fortemente il ruolo delle regioni.
Certo rimane ancora aperto l'intervento regionale indiretto, e cioè che attraverso le proprie competenze
in altre materie che comportano "l'utilizzazione" dell'ambiente (26) le regioni possano appunto solo
indirettamente rafforzare gli standards ambientali (27), ma tutto questo nel segno di una "marginalità"
che costituisce il naturale corollario della "centralità" della competenza statale.
Si è così statuito che "il perseguimento di finalità di tutela ambientale da parte del legislatore regionale
può ammettersi solo ove sia effetto indiretto e marginale della disciplina adottata" (Corte cost. n.
214/2008).
Questo spazio residuo incontra poi una serie significativa di vincoli, che in fondo finiscono per ricalcare in
chiave di parametri costituzionali lo schema comunitario (28).
Innanzi tutto sono rintracciabili significativi riferimenti in ordine alla necessità di fondare l'intervento
legislativo su dati scientifici.
Già riguardo ad un divieto regionale di ricorso all'elettroshock, a maggior tutela della salute umana, la
Corte ha avuto modo di affermare che "un intervento sul merito delle scelte terapeutiche in relazione alla
loro appropriatezza non potrebbe nascere da valutazioni di pura discrezionalità politica dello stesso
legislatore, bensì dovrebbe prevedere l'elaborazione di indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle
conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite, tramite istituzioni e organismi di norma
nazionali o sovranazionali a ciò deputati, dato l'essenziale rilievo che, a questi fini, rivestono gli organi
tecnico-scientifici"; e così, nel caso di specie, l'intervento ragionale è stato censurato poiché "non si fonda
né pretende di fondarsi su specifiche acquisizioni tecnico-scientifiche verificate da parte degli organismi
competenti, ma si presenta come una scelta legislativa autonoma" (Corte cost. n. 282/2002).
E tutto lascia dunque pensare che uno schema analogo potrà ritrovarsi ogni qual volta vengano in gioco
norme di tutela dell'ambiente (29).
In secondo luogo, il giudice delle leggi ha messo in campo un altro e formidabile vincolo: il bilanciamento
dell'ambiente con altri beni giuridici.
In qualche caso, l'individuazione di un limite all'intervento regionale è facilitato da norme costituzionali
trancianti.
Come è noto l'art. 120 Cost. impedisce alle Regioni di prevedere limiti alle libertà di circolazione tra le
Regioni (schema inevitabilmente evocativo del paradigma comunitario).
Tale divieto ha così consentito alla Corte di censurare in modo perentorio una norma regionale che
poneva limiti allo smaltimento nel proprio territorio di rifiuti di provenienza extraregionale (Corte cost. n.
10/2009 (30)).
In altri casi, il giudice delle leggi ha in concreto delegittimato l'intervento regionale, qualificando le norme
statali anche come momento di contemperamento con altri beni costituzionalmente rilevanti, poichè è del
tutto evidente che la questione dell'articolazione organizzativa della tutela debba sempre considerarsi
secondaria e subordinata rispetto a quella del bilanciamento.
Una volta cioè che venga individuato un superiore punto di equilibrio sostanziale, ciò rende irrilevante e
superflua l'esistenza di ulteriori livelli di competenza (legislativa o amministrativa) che astrattamente
potrebbero insistere (e per via indiretta) sulla tutela ambientale.
In altre parole, quel punto di equilibrio diventa "limite" costituzionale nei confronti di "tutti" i pubblici
poteri.
Limitiamoci a qualche esempio.
In attuazione di una direttiva comunitaria il legislatore statale fissava dei limiti alla sperimentazione a fini
scientifici sugli animali. Un legislatore regionale dava ulteriore sviluppo all'indicazione comunitaria,
introducendo una disciplina ancor più restrittiva delle possibilità di sperimentazione. Investito della
questione il giudice delle leggi ha dichiarato l'incostituzionalità della normativa regionale, non mettendo in
discussione l'esistenza di una competenza legislativa regionale, ma argomentando che la legge statale
doveva ritenersi come il punto di "equilibrio" non derogabile tra la tutela degli animali e la tutela di un
diritto di libertà costituzionalmente tutelato: la libertà di ricerca scientifica (Corte cost. n. 166/2004).
È chiara la ratio della decisione: l'ordine astratto delle competenze è appunto recessivo rispetto al
bilanciamento sostanziale dei beni giuridici in gioco. Il rafforzamento regionale dei limiti alla
sperimentazione avrebbe determinato un grado di compressione della libertà scientifica incompatibile con
la tutela costituzionale di questa libertà.
La normativa statale in materia di inquinamento elettromagnetico è non meno punto di "equilibrio" non
derogabile tra l'interesse alla tutela ambientale e l'interesse alla distribuzione dell'energia ed allo sviluppo
dei sistemi di telecomunicazione (Corte cost. n. 307/2003).
Significativi sono anche gli sviluppi avuti nella giurisprudenza amministrativa. Così sempre con riguardo
all'inquinamento elettromagnetico si è statuito che "la necessità che la norma statale, in ossequio a
principi di carattere fondamentale, chiaramente enunciati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale,
recanti disposizioni inderogabili a tutela della salute e della sicurezza della generalità dei cittadini, non
possa in ogni caso essere disattesa sulla base di norme diverse, anche nel caso che risultino in concreto
improntate a criteri maggiormente prudenziali.
L'eventuale presenza di norme regionali finalizzate ad una più ampia tutela della salute, come nel caso
ora in esame, pur rispondendo ad intenzioni certamente apprezzabili sotto vari profili, comporta tuttavia
inevitabilmente il sacrificio di altri valori costituzionalmente tutelati, attinenti ad esempio al libero
esercizio di lecite attività economiche ed imprenditoriali, che potrebbero venire limitate od impedite senza
la effettiva sussistenza (in base ai dati scientifici generalmente riconosciuti in materia) di superiori e
preminenti esigenze di interesse pubblico, ponendo gli interessati in una situazione di ingiustificato
pregiudizio e di disparità di trattamento rispetto ai soggetti operanti in altre Regioni." (Cons. Stato, sez.
IV n. 1159/2008).
Ma vi è di più.
Si ha infatti la percezione che i due elementi di stringenza competenza esclusiva statale e vincoli di
bilanciamento si stiano incominciando a sovrapporre, sino a rendere infine evanescenti le proclamazioni di
principio sulla competenza (indiretta) regionale.
È come se il giudice delle leggi vada progressivamente prendendo atto che la normativa ambientale
ponga quasi sempre un serio problema di bilanciamento con altri beni costituzionalmente rilevanti:
le Regioni "non possono in alcun modo derogare il livello di tutela ambientale stabilito dallo Stato. Spetta
infatti alla disciplina statale tener conto degli altri interessi costituzionalmente rilevanti contrapposti alla
tutela dell'ambiente. In tali casi, infatti, una eventuale diversa disciplina regionale, anche più rigorosa in
tema di tutela dell'ambiente, rischierebbe di sacrificare in maniera eccessiva e sproporzionata gli altri
interessi confliggenti considerati dalla legge statale nel fissare i cosiddetti valori soglia.
(...) la norma censurata ha quale oggetto diretto e specifico la tutela dell'ambiente, imponendo, in
violazione di detti princípi e in evidente contrasto con quanto statuito dal legislatore statale (...)." (Corte
cost. n. 214/2008 cit.).
La sostanza del limite è sempre quella del bilanciamento, ma questa sostanza si reinnesta in un problema
di competenza ed in chiave ancora più assorbente e restrittiva.
La competenza esclusiva dello Stato non riguarda soltanto la materia "ambiente", ma riguarda altresì il
contemperamento con altri beni giuridici.
Come a dire che, ancor prima della costituzionalità sostanziale del bilanciamento statale (che certo
potrebbe per altro verso rimanere autonomamente sindacabile), è il contemperamento stesso, quale che
sia il suo contenuto, a rimanere precluso in termini di competenza ad interferenze regionali.
A quel punto la statuizione diventa tranciante: la norma regionale ha invaso l'ambito di competenza
statale.
Si comprende bene allora che, se una norma ambientale è destinata sempre o quasi sempre a porre
problemi di bilanciamento costituzionale, i giochi sono fatti: ogni determinazione al riguardo sarà in senso
stretto rientrante nella potestà legislativa esclusiva dello Stato
Se, poi, si aggiunge che nell'ambito dell'esercizio delle competenze legislative esclusive dello Stato non
opera il principio della "leale collaborazione" (da ult. Corte cost. n. 12/2009), il cerchio per le Regioni si
chiude miseramente.
Di recente, tuttavia la prospettiva regionalista è stata ravvivata per via legislativa. L'art. 3-quinqiues,
comma 2, del codice dell'ambiente (introdotto dal d.lgs. 16 gennaio 2008, n. 4) dispone che "Le regioni e
le province autonome di Trento e di Bolzano possono adottare forme di tutela giuridica dell'ambiente più
restrittive, qualora lo richiedano situazioni particolari del loro territorio, purché ciò non comporti
un'arbitraria discriminazione, anche attraverso ingiustificati aggravi procedimentali.".
Sul piano della competenza questa previsione si presta a due possibili letture.
O la si intende come una mera ed ulteriore proclamazione della competenza legislativa "indiretta" già
configurata dalla giurisprudenza costituzionale.
O la si intende invece, in senso forte, come vera e propria attribuzione di potestà legislativa "diretta"
delle Regioni in materia ambientale.
Nel primo caso si tratterebbe di una norma inutile, poiché nulla sposterebbe rispetto agli autonomi
svolgimenti della giurisprudenza costituzionale.
Nel secondo caso invece si tratterebbe di una previsione palesemente incostituzionale, poiché
configurerebbe una competenza regionale in una "materia" di competenza legislativa esclusiva dello Stato
(31), né potrebbe evocarsi il conferimento di ulteriori forme di autonomia ex art. 116 Cost., atteso che il
citato decreto non è stato approvato con le speciali forme aggravate previste al riguardo dalla
Costituzione (32).
In ogni caso, anche a voler riconoscere astrattamente una competenza legislativa "diretta" delle Regioni,
nulla cambierebbe sui vincoli "sostanziali", sia comunitari, sia costituzionali, nei quali tale potestà
rimarrebbe astretta. Vincoli peraltro in qualche modo richiamati dalla stessa previsione legislativa (33).
Per sintetizzare con una battuta, dal punto di vista del nostro ordinamento, nel diritto dell'ambiente e dei
suoi limiti abbiamo un Imperatore che è l'Unione europea, un Vassallo, con spazi molto limitati, che è lo
Stato, ma non certo, se non apparentemente, valvassori e valvassini.
7. Conclusioni.
L'interesse ambientale ha indubbiamente assunto una rango primario nell'ordinamento giuridico. Ciò ha
consentito di guadagnare progressivamente spazi di tutela significativi e, con tutta probabilità, suscettibili
in futuro di ulteriore incremento.
Questa prospettiva, quantomeno allo stato del diritto positivo, non deve tuttavia lasciar pensare che
l'interesse ambientale si ponga in termini di pura sovraordinazione, consentendo un terreno franco di
intervento pubblico.
L'ordinamento comunitario, pur segnando una decisa apertura alle ragioni dell'ambiente, mostra
inequivocabilmente che tale interesse deve fare i conti con altri beni giuridici di rango primario, ed in
particolar modo con le libertà economiche.
Un confronto assai impervio, poiché, in linea di principio, tutte le esigenze imperative di interesse
generale, compreso dunque l'ambiente, in quanto deroghe alle libertà di circolazione, dovrebbero
atteggiarsi come eccezioni, e dunque esser soggette ad interpretazioni restrittive e al vaglio del principio
di proporzionalità.
Si tratta di una tensione che ha o potrà avere esiti a volte imprevedibili nell'effettivo assetto dei momenti
di bilanciamento, ma che non è suscettibile in quanto tale di venire ignorata, come se la tutela
ambientale fosse per definizione priva di confini.
Ed è questa stessa tensione che in fondo fa anche comprendere la tendenza alla centralizzazione delle
decisioni. Soltanto a livelli superiori il delicato equilibrio tra beni di altissimo rango può trovare la sua
sede naturale di composizione, lasciando agli altri centri decisionali una posizione di sostanziale
marginalità.
NOTE
(*) Il presente lavoro è destinato agli Studi in memoria di Roberto Marrama.
(1) V. G. ROSSI, La"materializzazione"dell'interesse dell'ambiente, in G. ROSSI (a cura di), Diritto
dell'ambiente, Torino, Giappichelli, 2008, p. 11 ss..
Ancora alla fine degli anni '80, ad es., per quanto fossero già intervenute le prime importanti sentenze
della Corte di giustizia sull'ambiente, F.G. SCOCA, Tutela dell'ambiente: impostazione del problema dal
punto di vista giuridico, in Quad. reg., 1989, p. 563, osservava che "l'ambiente si presenti come una
nozione così vicina ai nostri interessi da sollecitare più le nostre emozioni che non le nostre idee".
(2) Si veda al riguardo D. AMIRANTE, Diritto ambientale italiano e comparato, Napoli, Jovene, 2003.
(3) G. MORBIDELLI, Profili giurisdizionali e giustiziali nella tutela amministrativa dell'ambiente, in S. GRASSI,
M. CECCHETTI, A. ANDRONIO (a cura di), Ambiente e diritto, II, Leo S. Olshki, 1999, p. 310: l'ambiente "ha
come hanno i concetti giuridici indeterminati una valenza dinamica, in quanto si muove e si modifica
secondo il mutare di elementi esterni: nuove scoperte, nuove acquisizioni, impiego di nuove tecniche,
evidenziazione di effetti dannosi prima non riscontrati".
(4) Per una valorizzazione del principio dello sviluppo sostenibile, pur in un quadro problematico, come
fonte di doveri, di recente in dottrina F. FRACCHIA, Sviluppo sostenibile, protezione dell'ambiente e tutela
della specie umana, 2009, in corso di pubblicazione.
(5) Non condivisibilmente G. MORBIDELLI, op. cit., p. 311 invece attribuisce già una posizione di assoluta
primazia all'ambiente, paragonandolo al regime precostituzionale dell'ordine pubblico amministrativo.
(6) Si consenta un rimando a M. MAZZAMUTO, La riduzione della sfera pubblica, Torino, Giappichelli, 2000.
(7) "La nozione di "motivi imperativi di interesse generale" cui fanno riferimento alcune disposizioni della
presente direttiva è stata progressivamente elaborata dalla Corte di giustizia nella propria giurisprudenza
relativa agli articoli 43 e 49 del trattato, e potrebbe continuare ad evolvere. La nozione, come
riconosciuto nella giurisprudenza della Corte di giustizia, copre almeno i seguenti motivi: l'ordine
pubblico, la pubblica sicurezza e la sanità pubblica ai sensi degli articoli 46 e 55 del trattato, il
mantenimento dell'ordine sociale, gli obiettivi di politica sociale, la tutela dei destinatari di servizi, la
tutela dei consumatori, la tutela dei lavoratori, compresa la protezione sociale dei lavoratori, il benessere
degli animali, la salvaguardia dell'equilibrio finanziario del regime di sicurezza sociale, la prevenzione
della frode, la prevenzione della concorrenza sleale, la protezione dell'ambiente e dell'ambiente urbano,
compreso l'assetto territoriale in ambito urbano e rurale, la tutela dei creditori, la salvaguardia della sana
amministrazione della giustizia, la sicurezza stradale, la tutela della proprietà intellettuale, gli obiettivi di
politica culturale, compresa la salvaguardia della libertà di espressione dei vari elementi presenti nella
società e, in particolare, dei valori sociali, culturali, religiosi e filosofici, la necessità di assicurare un
elevato livello di istruzione, il mantenimento del pluralismo della stampa e la politica di promozione della
lingua nazionale, la conservazione del patrimonio nazionale storico e artistico, e la politica veterinaria.".
(8) Per la critica di una prospettiva, specie suggerita dalla dottrina tedesca, di una assoluta
sovraordinazione dell'interesse ambientale, v. già L. KRÄMER, Manuale di diritto comunitario per
l'ambiente, Milano, Giuffrè, 2002.
(9) G. CORSO, La valutazione del rischio ambientale, in G. ROSSI (a cura di), op. cit., p. 169-170: "La
tutela ambientale (...) deve fare i conti con altri interessi costituzionalmente protetti: come il principio
della libera iniziativa economica o principi di libertà in generale. La scelta delle misure, una volta
individuato l'ambiente come bene da tutelare, deve rispettare il criterio di proporzionalità: ossia un
criterio che, a giudizio della Corte di giustizia CE, deve guidare qualsiasi decisione, legislativa o
amministrativa".
(10) Già alla fine degli anni novanta, M.P. CHITI, Ambiente e"costituzione"europea: alcuni nodi
problematici, in questa Rivista, 1998, p. 1421 evidenziava che "la qualificazione dell'ambiente quale
scopo essenziale della Comunità porta la Corte di giustizia ad ampliare con qualche ardimento
interpretativo il novero delle circostanze che possono apportare limiti alle libertà economiche comunitarie,
anche se tali possibili limiti vanno vagliati attentamente alla luce dei principi di proporzionalità e di
adeguata motivazione, e così via".
(11) Sull'emersione nella giurisprudenza comunitaria della necessità di un'attività istruttoria basata su
dati tecnici, vedi F. DE LEONARDIS, Le trasformazioni della legalità nel diritto ambientale, in G. ROSSI (a cura
di), op. cit., p. 125.
(12) Così Trib. 1° grado CE, sez. III, sentenza 11 settembre 2002, causa T-13/99.
Secondo la Commissione, Comunicazione sul principio di precauzione, COM (2000) p. 10: "Esso
comprende quelle specifiche circostanze in cui le prove scientifiche sono insufficienti, non conclusive o
incerte e vi sono indicazioni, ricavate da una preliminare valutazione scientifica obiettiva, che esistono
ragionevoli motivi di temere che gli effetti potenzialmente pericolosi sull'ambiente e sulla salute umana,
animale o vegetale possono essere incompatibili con il livello di protezione prescelto".
(13) G. MORBIDELLI, op. cit., p. 311.
(14) Vedi Disciplina comunitaria degli aiuti di Stato per la tutela ambientale Testo rilevante ai fini del SEE,
in GU C82 del 1 aprile 2008; nonché gli artt. 17 ss. del nuovo Regolamento (CE) n. 800/2008 sulle
categorie di aiuti compatibili con il mercato comune.
(15) Vedi COMMISSIONE, Acquistare verde! Un manuale sugli appalti pubblici ecocompatibili, 2005.
(16) Come si ricorda correttamente nella citata Comunicazione sul principio di precauzione: "Secondo una
costante giurisprudenza della Corte, quando la Commissione o qualunque altra istituzione comunitaria
dispone di un ampio potere discrezionale, in particolare per quanto riguarda la natura e la portata delle
misure adottate, il controllo del giudice comunitario deve limitarsi ad esaminare se l'esercizio di tale
potere non è stato inficiato da errore manifesto o da uno sviamento di potere o se l'istituzione non ha
manifestatamene oltrepassato i limiti del duo potere di apprezzamento" (p. 16).
(17) "Ove il legislatore comunitario è chiamato a effettuare valutazioni complesse, il sindacato
giurisdizionale dell'esercizio della sua competenza deve limitarsi ad esaminare se esso non sia inficiato da
errore manifesto o sviamento di potere o se il legislatore non abbia manifestamente oltrepassato i limiti
del suo potere discrezionale" (Corte giust. 9 settembre 2003, causa C-236/01 cit.).
(18) Comunicazione sul principio di precauzione cit.: "Giudicare quale sia il livello di rischio "accettabile"
per la società costituisce una responsabilità eminentemente politica" (p. 3).
(19) Sul persistere negli atti comunitari di una visione ancora sconfortante dello stato dell'ambiente e
sulle sue cause, v. G. COCCO, A. MARZANATI, R. PUPILELLA, Ambiente. Il sistema organizzativo ed i principi
fondamentali, in M.P. CHITI, G. GRECO, Trattato di diritto amministrativo europeo, Parte speciale, Tomo I,
Milano, Giuffrè, 2007, p. 159 ss.
(20) La Corte offre anche precisazioni sulla diversità delle fattispecie ante e post misura di
armonizzazione: "L'art. 95 CE, che, in virtù del Trattato di Amsterdam, sostituisce e modifica l'art. 100 A
del Trattato, opera una distinzione a seconda che le disposizioni notificate siano norme nazionali
preesistenti all'armonizzazione o norme nazionali che lo Stato membro interessato intenda introdurre. Nel
primo caso, previsto dall'art. 95, n. 4, CE, il mantenimento delle disposizioni nazionali preesistenti
dev'essere giustificato da esigenze importanti di cui all'art. 30 CE o relative alla protezione dell'ambiente
o dell'ambiente di lavoro. Nel secondo caso, previsto all'art. 95, n. 5, CE, l'introduzione di disposizioni
nazionali nuove dev'essere fondata su nuove prove scientifiche inerenti alla protezione dell'ambiente o
dell'ambiente di lavoro, giustificate da un problema specifico a detto Stato membro insorto dopo
l'adozione della misura di armonizzazione.
La differenza tra i due casi previsti all'art. 95 CE è che, nel primo, le norme nazionali esistevano prima
della misura di armonizzazione. Esse erano dunque note al legislatore comunitario, ma questi non ha
potuto o non ha voluto ispirarvisi al fine dell'armonizzazione. Esso ha dunque ritenuto accettabile che lo
Stato membro potesse chiedere che le proprie norme restassero in vigore. A tal fine il Trattato CE esige
che simili misure siano giustificate da esigenze importanti contemplate dall'art. 30 CE ovvero relative alla
protezione dell'ambiente di lavoro o dell'ambiente in generale. Al contrario, nel secondo caso, l'adozione
di una normativa nazionale nuova rischia di mettere maggiormente in pericolo l'armonizzazione. Le
istituzioni comunitarie, ovviamente, non hanno potuto prendere in considerazione il testo nazionale nel
momento dell'elaborazione della misura di armonizzazione. In questo caso le esigenze di cui all'art. 30 CE
non sono prese in considerazione e sono ammesse solamente ragioni relative alla protezione
dell'ambiente in generale o dell'ambiente di lavoro, a condizione che lo Stato membro apporti prove
scientifiche nuove e che la necessità d'introdurre norme nazionali nuove risulti da un problema specifico
allo Stato interessato insorto successivamente all'adozione della misura di armonizzazione".
(21) La Corte afferma, anche alla stregua di un suo precedente:
"Si deve anzitutto rilevare che la legittimità delle misure nazionali notificate ex art. 95, n. 5, CE è
strettamente connessa alla valutazione delle prove scientifiche dedotte dallo Stato membro notificante.
La detta disposizione esige, in effetti, che l'introduzione di disposizioni nazionali in deroga a una misura di
armonizzazione sia basata su nuove prove scientifiche inerenti alla protezione dell'ambiente o
dell'ambiente di lavoro, resasi necessaria a causa di un problema specifico di detto Stato membro sorto
dopo l'adozione della misura di armonizzazione, e che le disposizioni previste nonché i motivi della loro
adozione siano notificati alla Commissione (sentenza della Corte 21 gennaio 2003, causa C-12/99,
Germania/Commissione, cit., punto 80).
Trattandosi di requisiti cumulativi, essi devono essere tutti soddisfatti pena il rigetto delle disposizioni
nazionali derogatorie da parte della Commissione (v. sentenza 21 gennaio 2003, Germania/Commissione,
cit., punto 81).".
(22) Condivisibilmente M. RENNA, L'allocazione delle funzioni normative e amministrative, in G. ROSSI (a
cura di), op. cit., p. 147: "La tesi della maggior protezione dell'ambiente ad ogni costo non tiene conto,
insomma, che dettare disposizioni di tutela ambientale significa quasi sempre fissare un punto di
equilibrio tra la difesa dell'ambiente e l'esercizio di una o più libertà, solitamente di carattere economico".
(23) Per una condivisibile critica alla tesi "monadica" e a favore di una lettura sistematica dei due gruppi
di norme, v. P. DELL'ANNO, Il principio di maggiore protezione nella materia ambientale e gli obblighi
comunitari di ravvicinamento delle legislazioni nazionali, in Foro amm. TAR, 2002, p. 1431 ss.
Diversamente M. RENNA, Il sistema degli"standard ambientali"tra fonti europee e competenze nazionali, in
Scritti in onore di Giorgio Berti, III, 2005, Napoli, Jovene, p. 1962 e 1966, il quale, pur riconoscendo che
"il vincolo sostanziale alla compatibilità con il Trattato vale proprio ad evitare che, attraverso gli
incrementi di tutela ambientale, si realizzino effetti distorsivi della concorrenza", ritiene che fra i due
gruppi di norme rimangano "sensibili differenze" in ordine ai presupposti degli interventi statali di
maggior protezione.
Vedi anche M. CECCHETTI, La disciplina giuridica della tutela ambientale come"diritto dell'ambiente", in
www.federalismi.it, p. 131 che introduce un altro criterio restrittivo e cioè che la prospettiva della
maggior protezione rimane confinato al "potenziamento" della disciplina comunitaria, non invece ad "un
potere di regolamentazione del tutto autonomo".
(24) In tal senso, in dottrina, correttamente B. CARAVITA, Diritto dell'ambiente, 2005, Bologna, Il Mulino,
p. 30.
(25) Corte cost. n. 108 del 2008: "non può certo dirsi, come vorrebbero le Regioni Veneto e Lombardia,
che "la materia ambientale non sarebbe una materia in senso tecnico". Al contrario, l'ambiente è un bene
giuridico, che, ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, funge anche da
discrimine tra la materia esclusiva statale e le altre materie di competenza regionale".
(26) Vedi Corte cost. n. 104/2008.
(27) Ancora da ultimo in questo senso Corte cost. n. 61/2009.
(28) A parte i casi in cui la Corte utilizza direttamente i vincoli normativi comunitari. In sede di ricorso in
via principale, si è così, ad es., dichiarata l'incostituzionalità di una norma provinciale che sottraeva taluni
residui alla nozione di rifiuti in contrasto con la direttiva comunitaria in materia, come norma interposta
ex art. 117, comma 1, Cost. (Corte cost. n. 62/2008).
(29) Condivisibilmente M. RENNA, Il sistema degli"standard ambientali., cit., p. 1968: "anche a
prescindere dalle disposizioni contenute nei §§ 2 e 3 dell'art. 174 del Trattato, sembra facile ricavare dagli
artt, 3, comma 1, e 41-42 della nostra Costituzione i vincoli alla regola dell'attendibilità scientifica delle
misure introdotte e al principio doi proporzionalità: vincoli che, per utilizzare una parola sola, si possono
ricondurre al concetto di ragionevolezza".
(30) Ma vedi anche sentenze n. 64/2007, n. 247/2006, n. 161/2005, n. 62/2005, n. 502/2002.
(31) Così condivisibilmente P. DELL'ANNO, Elementi di diritto dell'ambiente, Padova, Cedam, 2008, p. 7-8.
(32) D. DE PRETIS, Il codice dell'ambiente e il riparto delle funzioni tra Stato e Regioni, in M.P. CHITI, R.
URSI, Studi sul codice dell'ambiente, Torino, Giappichelli, 2009, p. 114.
(33) In questo senso M. RENNA, L'allocazione delle funzioni, cit., p. 150, evidenzia che la legge "stabilisce,
comunque, condizioni sostanziali che riecheggiano quelle previste dall'art. 95. Tratt. CE".
Archivio selezionato: Dottrina
Il governo e la gestione del ciclo integrato delle acque
Riv. giur. ambiente 2009, 02, 255
FRANCESCO CIRO RAMPULLA (*)
1. I poteri regionali in tema di risparmio idrico ed il Piano d'ambito. 2. Il regime dominicale delle acque e
delle infrastrutture del servizio idrico integrato. 3. La costituzione dell'ATO, la sua forma giuridica e la sua
natura. 4. I gestori del servizio e i modi di attribuzione dello stesso. 5. Le convenzioni, i poteri dell'ATO,
le attribuzioni ministeriali e del Comitato per la vigilanza sull'uso delle risorse idriche. 6. L'applicabilità del
Codice dei contratti della P.A. agli interventi dei soggetti gestori del servizio. 7. I caratteri del governo e
della gestione del servizio.
1. I poteri regionali in tema di risparmio idrico ed il Piano d'ambito.
Il D.Lgs. 152/2006, così come modificato dal D.Lgs. 284/2006 e dal D.Lgs. 4/2008 nonché dalla L.
244/2007, oltre a dare a dare un assetto complessivo, per quanto criticabile, alla tutela ambientale nei
suoi diversi e variegati aspetti, disciplina anche il regime delle acque e dell'impiantistica funzionale di tipo
acquedottistico, fognante e depurativo, nonché detta le disposizioni relative alle Autorità preposte al
governo del servizio idrico ed ai soggetti gestori dell'operatività (1).
Al di sotto del Piano di bacino che, con disposizioni e prescrizioni generali ma concrete, programma,
avendo valore ed efficacia di Piano territoriale di settore, la difesa e la valorizzazione del suolo e la
corretta e razionale utilizzazione delle acque (art. 65 D.Lgs. 152/2006 e s.m.), e di quello per la
pianificazione del bilancio idrico, di cui all'art. 95 del Codice dell'ambiente, nonché dei Piani di gestione e
dei Piani di tutela delle acque, contemplati negli artt. 117 e 121 del Codice stesso, si pongono due
strumenti, per così dire, attuativi pro quota del Piano di bacino e del Piano idrico per ciò che concerne il
governo delle acque utilizzato per scopi igienico-antropici (2).
Il primo di tali strumenti, previsto dall'art. 146 del D.Lgs. 152/2006 e s.m., concerne il risparmio idrico.
Le Regioni sono tenute, entro un anno dall'entrata in vigore del decreto stesso, ad assumere iniziative
volte al risparmio dell'acqua, agendo su tre versanti: per un aspetto devono far sì che siano migliorate le
manutenzioni dell'impiantistica, anche sulla base delle disposizioni regolamentari del Ministro per
l'ambiente sui criteri e sulle metodiche per la valutazione delle perdite degli acquedotti e delle fognature,
prevedere che nella costruzione o rinnovazione di impianti siano utilizzati sistemi anticorrosivi, per altro
verso devono disciplinare la realizzazione, per nuovi insediamenti di rilevanti dimensioni, di reti duali di
adduzione al fine di poter utilizzare anche acque meno pregiate e l'installazione di contatori per ciascuna
unità abitativa, nonché di contatori differenziati per le attività produttive e terziarie e, infine, disporre per
i nuovi insediamenti, a condizione che sia economicamente e tecnicamente conveniente, sistemi di
collettamento differenziati per tipologie di acque reflue, e per ulteriore rispetto devono disciplinare
sistemi di irrigazione ad alta efficienza ed individuare le aree di ricarica delle falde (3).
Queste complesse indicazioni possono esser svolte dalle Regioni sia mediante strumenti normativi, leggi e
regolamenti, che attraverso "... misure..." ex art. 146, volte, ovviamente a razionalizzare i consumi ed
eliminare gli sprechi. Si tratta per vero di un'espressione assai generica, ma che sta ad indicare che le
Regioni possono impiegare, a seconda delle necessità obbiettive, sia strumenti di mero indirizzo e
direttiva, sia atti amministrativi generali e speciali che atti pianificatori.
Anticipando gli interventi regionali, il comma 2 del rammentato art. 146 dice, palesemente invadendo con
disposizioni di dettaglio la competenza normativa regionale concorrente in tema di territorio ex comma 3
dell'art. 117 Cost., che gli strumenti urbanistici comunali devono prevedere reti duali e che il rilascio del
permesso di costruire è subordinato all'inserimento nel progetto di contatori individuali.
Ma comunque, è pacifico che le normative o le misure regionali svolgano, sul tema del risparmio idrico e
dell'eliminazione degli sprechi una funzione vincolante per i Piani d'ambito, pur essendo la cogenza di
quelle prescrizioni assai variabile, a seconda dello strumento impiegato dalle Regioni e del suo contenuto,
nonché della sua efficacia giuridica.
Il secondo degli strumenti di attuazione del Piano di bacino e del Piano idrico, rammentandosi che a
norma dell'art. 65 del D.Lgs. 152/2006 e s.m. tali piani hanno l'efficacia giuridica di Piano territoriale di
settore e hanno, tra i loro contenuti, le direttive per l'utilizzazione delle acque, con il rilievo dei prelievi ai
differenti scopi energetici, idropotabili, irrigui e il bilancio idrico regionale, è costituito dal Piano d'ambito.
Il Piano d'ambito, riferito a territori assai più contenuti rispetto ai distretti idrografici, e di cui si dirà più
avanti trattando delle Autorità d'ambito, costituisce lo strumento, per logica dei programmi a cascata,
parzialmente attuativo del Piano di bacino e del Piano idrico, per il settore degli usi igienico-antropici delle
acque, e detta in parte mere rilevazioni [ad esempio il quadro conoscitivo, ex lett. a) del comma 3
dell'art. 65 del decreto legislativo], in parte prescrizioni immediatamente vincolanti per le Pubbliche
amministrazioni attuatrici (comma 4, art. 65 e comma 1, art. 145 del D.Lgs. 152/2006 e s.m.) e, infine,
anche per i privati, e in particolare per le società gestrici, nella misura in cui le prescrizioni pianificate si
vedano attribuita tale efficacia dalle norme di Piano (4).
Il Piano di ambito è composto, a norma del comma 1 dell'art. 149, da quattro tipologie contenutistiche: la
ricognizione delle infrastrutture, il programma degli interventi, il modello gestionale-organizzativo ed il
programma economico-finanziario.
La ricognizione delle strutture di captazione, adduzione e distribuzione delle acque ad usi idropotabili ed
igienici, nonché di quelle di veicolazione dei reflui e di loro depurazione, operata sulla scorta delle
informazioni degli Enti locali proprietari, a titolo dominicale, delle infrastrutture stesse, ha un rilievo
determinante al fine di definire lo stato di consistenza e di funzionamento dell'impiantistica, nell'ottica sia
del loro affidamento al gestore operativo che in quella di programmazione degli interventi (comma 2, art.
149).
Il programma degli interventi, il secondo capitolo del Piano, è inteso a pianificare, in relazione alle
disponibilità economiche e nel tempo, le opere di manutenzione straordinaria, le nuove opere e gli
adeguamenti dell'impiantistica, allo scopo di raggiungere i livelli minimi del servizio, che il Piano deve
definire sulla scorta degli indicatori elaborati dal Comitato per la vigilanza sull'uso delle risorse idriche
[art. 2, comma 15, lett. e) del D.Lgs. 4/2008], soddisfare la domanda dell'utenza e realizzare, anche se
la legge non lo dice, le doverose azioni di tutela ambientale (comma 3, art. 149).
Il programma economico-finanziario, articolato come un vero e proprio bilancio pluriennale nello stato
patrimoniale, nel conto economico e nel rendiconto finanziario, prevede, anche con cadenza annuale,
l'andamento dei costi di gestione e di investimento, al netto di eventuali finanziamenti a fondo perduto
provenienti da soggetti pubblici, quali ad esempio quelli derivanti dal Fondo finalizzato a promuovere
progetti ed interventi atti a garantire, sul piano nazionale ed internazionale, il miglior accesso alle risorse
idriche ovvero quello per assicurare la ottimale fruizione dell'acqua dal rubinetto, di cui al comma 334
dell'art. 2 della L. 244/2007, ovvero i contributi concessi dalle Regioni, quali ad esempio quelli
contemplati dall'art. 50 della L.R. Lombardia 26/2003. Esso è integrato dalla previsione delle entrate ed
in particolare dai proventi derivanti dalle quote versate dalla Regione, dalla Provincia o dagli Enti locali in
qualità di componenti dell'ATO, dalle quote versate dai gestori e, in via figurativa, da quelle da
tariffazione, in modo da assicurare l'equilibrio economico della gestione (comma 4, art. 149).
Ora, però, la previsione delle entrate tariffarie è, come accennato, del tutto figurativa, poiché le tariffe,
osservati i principi relativi al recupero dei costi dei servizi idrici di cui all'art. 119, sono riscosse, a norma
dell'art. 156 del D.Lgs. 152/2006 e s.m., dal gestore del servizio idrico integrato, il quale, fatto salvo un
ragionevole utile di impresa, dovrà destinare i relativi proventi, oltreché a coprire i costi di struttura e di
gestione, alle spese inerenti l'obbligo di esecuzione del Programma degli interventi [lett. g), comma 2
dell'art. 151] e a riversarne una quota all'ATO per il suo funzionamento (art. 154, comma 1).
Infine il Piano di ambito deve definire il modulo gestionale del servizio, e cioè mediante gara tra soggetti
privati o affidamento a entità totalitariamente pubbliche ovvero miste, e il modello organizzativo,
dovendosi intendere per tale non tanto le figure giuridiche soggettive idonee alla gestione del servizio
integrato, definite dalla legge, quanto piuttosto i requisiti di organizzazione funzionale di quei soggetti,
cosa che avrà peculiare rilevanza in caso di gare ovvero di affidamenti (5).
Una volta ricostruito il contenuto del Piano, bisogna esaminare le procedure approvative: il Piano
d'ambito è approvato dall'ATO e trasmesso alla Regione competente e al Ministero dell'ambiente entro
dieci giorni dalla sua approvazione (comma 6 art. 149). I poteri dell'Autorità di vigilanza sulle risorse
idriche e sui rifiuti, esercitabili entro novanta giorni e costituiti da rilievi, osservazioni e prescrizioni in
ordine all'adeguatezza degli interventi sull'impiantistica ed all'equilibrio economico correlato al rapporto
tra la tariffazione e gli investimenti, erano stati abrogati dal comma 5 dell'art. 1 del D.Lgs. 284/2006.
Ma con l'entrata in vigore del D.Lgs. 4/2008 essi sono stati ripristinati e posti in capo ad un organo, il
Comitato di vigilanza sull'uso delle risorse idriche, che opera avvalendosi dell'Osservatorio per le risorse
idriche. Il comma 15 dell'art. 2 del decreto, che modifica l'art. 161 del Codice dell'ambiente, dispone,
infatti, che il Comitato, composto da tre membri designati dalla Conferenza dei Presidenti di Regioni e
Province autonome e quattro di designazione ministeriale, verifica, a seguito della comunicazione del
Piano al Ministro dell'ambiente ed alla Regione interessata, la corretta redazione del Piano d'ambito
stesso e può esprimere osservazioni, rilievi e prescrizioni sia sugli elementi tecnici che sui profili
economici che, infine, sulla necessità di modificare le clausole contrattuali e gli atti che regolano il
rapporto tra l'ATO ed i soggetti gestori [art. 2, comma 15 lett. b) del D.Lgs. 4/2008].
Si tratta di un vero e proprio controllo di merito, sottoposto, salve diverse prescrizioni regolamentari, al
termine finale di novanta giorni previsto dal comma 3 dell'art. 2 della L. 241/1990 e s.m., esercitabile
nella forma delle osservazioni e dei rilievi ovvero attraverso prescrizioni che obbligano l'ATO o a
prenderne atto, con provvedimento, ed eventualmente a controdedurre alle indicazioni critiche ovvero ad
adeguarsi alle prescrizioni di un organo di nomina ministeriale, ancorché composto minoritariamente da
rappresentanti collettanei delle Regioni e delle Province autonome (6).
A questi fini, il Comitato riceve, entro il 31 dicembre di ogni anno, dai gestori le informazioni relative ai
dati dimensionali, tecnici e finanziari dei servizi, le convenzioni e le condizioni generali dei contratti di
appalto ovvero di affidamento e, sulla base dei modelli di gestione contenuti nel Piano d'ambito, i piani di
investimento, nonché i livelli di qualità delle prestazioni e le tariffe applicate (comma 7 dell'art. 161,
come modificato dal comma 15 dell'art. 2 del D.Lgs. 4/2008). Come faccia giuridicamente il Comitato a
incidere sugli aspetti contrattuali e convenzionali nonché su quelli provvedimentali del rapporto tra ATO e
soggetti gestori non è dato capirlo, anche se la norma della lett. b) del comma 4 dell'art. 161, così come
novellata, recita "prescrizioni... sulle necessità di modificare le clausole contrattuali e gli atti che regolano
il rapporto...".
Evidentemente il legislatore o fa riferimento al termine finale di efficacia di contratti, convenzioni o atti,
cosa che renderebbe quasi senza effetto, dato il lungo periodo delle concessioni dei servizi idrici, quelle
prescrizioni, ovvero immagina che gli ATO possano recedere unilateralmente dagli accordi stipulati, o
modificarli parzialmente, in applicazione estensiva del comma 4 dell'art. 11, oppure revocare ovvero
innovare gli atti ed i provvedimenti ex art. 21-quinquies della L. 241/1990 e s.m.
Peccato che in un caso come nell'altro l'amministrazione sia tenuta ad un indennizzo, nella misura
prevista dal comma 1-bis dell'art. 12 della L. 133/2008, salvoché le "modifiche e le innovazioni..." non
vengano accettate dalla controparte.
Quindi questo tipo di controllo non troverebbe, senza sacrifici economici, un suo sbocco pratico, salva
l'acquiescenza dei gestori del servizio.
Come si combini, poi, questa previsione procedimentale con l'attribuzione delle funzioni degli ATO a
Regioni, Province e forme associative di Comuni, introdotta con la finanziaria 2008, di cui più avanti si
dirà, non è dato intenderlo, a fronte della conclamata abolizione dei controlli su Regioni ed Enti locali
introdotta con la legge costituzionale 3/2001 (7).
Forse l'unica via per dare a quella disposizione un minimo di legittimità costituzionale è quella di
considerare gli ATO come soggetti giuridici (comma 1, art. 148 D.Lgs. 152/2006 e s.m.) differenti e
oggetto di norme speciali rispetto ai loro contenitori, le Regioni, le Province e le forme associative di
Comuni, i quali, per così dire, prestano i loro organi per l'esercizio delle funzioni dell'ATO, ovvero
rappresentano forme collaborative derogatorie degli impianti propri della Carta fondamentale della
Repubblica, essendo tutti soggetti regolati da normative speciali.
Al di là, dunque, di questi dubbi ricostruttivi, è evidente che l'utilizzo delle acque per usi igienici ed
idropotabili, per l'allontanamento dei reflui e per la loro depurazione resta governato per un verso dalle
norme e dalle misure regionali volte al risparmio idrico e per altro verso dal Piano d'ambito, entrambi
strumenti di attuazione della pianificazione di bacino e di quella di bilancio idrico.
2. Il regime dominicale delle acque e delle infrastrutture del servizio idrico integrato.
Per meglio valutare il regime di operatività degli ATO e dei gestori dei servizi idrici integrati è necessario,
preliminarmente, indagare quale sia la natura e la disciplina del bene acqua e dei connessi impianti di
captazione, adduzione, distribuzione, nonché di allontanamento dei reflui e di loro depurazione.
Sin dall'entrata in vigore dell'art. 1 della L. 36/1994 si aveva avuta la solenne e un poco enfatica
dichiarazione di pubblicità di tutte le acque, come risorsa da salvaguardare e utilizzare secondo criteri di
solidarietà, anche in vista delle attese delle future generazioni.
Tale dichiarazione è stata ripresa dall'art. 144, comma 1, del D.Lgs. 152/2006 e s.m. il quale dice che
tutte le acque superficiali e sotterranee, anche se non estratte dal sottosuolo, appartengono al demanio
dello Stato (8).
Ciò comporta una modifica, implicita, dell'art. 822 c.c. il quale va letto, oggi, nel senso che pertengono al
demanio statale tutte le acque, poiché la legge le definisce pubbliche, con la conseguenza di novellare
anche gli artt. 824 e 826 c.c.
Ma una volta acquisito il principio della demanialità statuale delle acque, la norma continua dicendo che le
stesse costituiscono una risorsa da utilizzarsi secondo criteri di tutela e di solidarietà, anche
intergenerazionale (comma 2), che la disciplina degli usi è finalizzata alla loro razionalizzazione (comma
3) e che il consumo umano è preminente sulle altre tipologie di utilizzazione (comma 4).
È, dunque, evidente che il legislatore, nell'affermare la demanialità di tutte le acque, ha posto l'attenzione
sostanziale sui loro modi di tutela, di rinnovabilità e di uso (9).
La previgente disciplina delle acque, contenuta nell'art. 1 del R.D. 1775/1033, diceva che erano pubbliche
le acque suscettibili di usi di generale interesse e, come tali, iscritte in appositi elenchi approvati dal
Ministro competente, il che sottintendeva oltre ad un giudizio sugli utilizzi, anche l'intervento
discrezionale dell'Autorità amministrativa; la legge Galli e il Codice dell'ambiente, viceversa, hanno, un
poco apoditticamente, statuito la pubblicità di tutte le acque attraverso l'imperio della legge e in funzione
della loro tutela, preservazione e usi.
Resta, peraltro, il dato circa la coerenza con la Costituzione dell'operazione di demanializzazione di tutte
le acque, sia già pubbliche ma appartenenti a Enti diversi dallo Stato che anteriormente private.
Infatti per rendere legittima l'operazione di demanializzazione di tutte le acque, il legislatore avrebbe
dovuto rispettare sia il primo comma dell'art. 42 Cost., che afferma che i beni, tra i quali l'acqua è
sicuramente ricompresa sin dalle disposizioni del T.U. 1775/1933, sono di proprietà pubblica e privata,
che il terzo comma, che prevede che i beni privati possano esser espropriati, nei casi contemplati dalla
legge, a fronte del pagamento di un indennizzo.
Ora siccome in Italia vi era, prima della L. 36/1994, un importante patrimonio privato di acque
prevalentemente superficiali, risulta del tutto lampante la violazione del comma 3 dell'art. 42 Cost. Né si
può pensare di applicare a questa fattispecie il primo alinea dell'art. 43, il quale parla di riserva originaria
allo Stato di imprese che si riferiscano a servizi pubblici essenziali, poiché l'elemento qualificante della
disposizione è tutto nella locuzione "imprese", non riferibile, ovviamente, a singoli beni (10).
Ne consegue, dunque, che la dichiarata demanialità delle acque private appare costituzionalmente
illegittima per violazione del comma 3 del rammentato art. 42. Ma tuttavia la Corte Costituzionale,
investita della questione della legittimità dell'art. 1 della L. 36/1994 in riferimento all'art. 42 Cost., ha
salvato la disposizione riconoscendola conforme alle norme superprimarie. Infatti la pronuncia 259/1996
del giudice delle leggi afferma che "la dichiarazione di pubblicità di tutte le acque non deve indurre in
equivoco: l'interesse generale è alla base della qualificazione di pubblicità di un'acqua, intesa come
risorsa suscettibile di usi previsti e consentiti (omissis). La nuova legge 36 del 1994 ha disposto, in
realtà, lo spostamento del baricentro delle acque (dichiarate) pubbliche verso il regime di utilizzo,
piuttosto che sul regime di proprietà" (11).
Se questa è l'interpretazione della Corte, in coerenza con la giurisprudenza del giudice delle leggi che ha
più volte affermato che tra due interpretazioni normative è da preferirsi la lettura coerente con la
disciplina costituzionale, risulta che la portata dell'art. 144 del D.Lgs. 152/2006 e s.m. non sarebbe intesa
a disporre tanto un regime di dominicalità delle acque, quanto piuttosto ad assicurarne, per quella via, la
tutela della qualità e delle quantità, nonché dei regimi d'uso consentiti in un quadro razionale, sia per il
presente che per il futuro (12).
Ora, nonostante le statuizioni della Corte in punto, è assai dubbia la legittimità costituzionale delle
previsioni del citato art. 144 in riferimento alle acque, anteriormente alla L. 36/1994, private, ma, attesa
la dichiarata demanialità statuale delle acque stesse, discorso non diverso potrebbe essere fatto anche
per le acque già pubbliche ma appartenenti ad altri Enti (13).
Pur tuttavia, il dichiarato regime demaniale del bene acqua è ormai acquisito dall'ordinamento e
asseverato dal giudice delle leggi, di talché, salve ulteriori improbabili impugnative in Corte e altrettanto
improbabili ripensamenti, ormai esso è un dato acquisito.
Da ciò deriva che il bene utilizzato, appunto l'acqua, è un bene pubblico, sì da salvaguardare e tutelare
razionalmente, ma anche da utilizzare ed in particolare per i primari fini idropotabili, fognari e depurativi,
che, in quanto tale, ha un costo per i gestori dei servizi idrici rappresentato dal canone di concessione
(14).
Accertata così la demanialità statuale delle risorse idriche e del loro regime giuridico, imperniato
sostanzialmente sull'art. 823 c.c., si possono individuare le linee di disciplina dell'impiantistica sia relativa
agli usi idropotabili che a quelli fognanti e depurativi.
Nel suo complesso l'impiantistica inerente acquedotti, fognature e depuratori fa parte del demanio
comunale, ex art. 824 c.c., poiché, sin dall'art. 91 del T.U. 383/1934 sugli Enti locali, dagli artt. 226 e 227
del T.U. 1265/1934 sulla sanità e dalle disposizioni delle leggi Merli 319/1976 e 650/1979, i Comuni
dovevano provvedere a tali opere ed assumersene la gestione (15).
Trattandosi, quindi, di impianti dei Comuni, essi erano classificati come beni demaniali municipali e come
tali erano, da sempre, costruiti, gestiti, mantenuti e rinnovati.
Ora, dunque, mentre la risorsa idrica pertiene al demanio statuale, l'impiantistica funzionale ai primari usi
umani fa parte del demanio comunale o consortile.
I differenti titolari delle proprietà dominicali costituiscono i centri di imputazione formale delle
attribuzioni, anche se l'esercizio di molte competenze sostanziali è stato, spesso, attribuito alle Regioni
(16).
Va, infine, precisato per quanto concerne le infrastrutture, che queste devono esser date in concessione
gratuita al soggetto gestore del servizio idrico integrato, per l'intera durata della gestione, il quale
assumerà tutti gli oneri, previsti dal Piano d'ambito, costruttivi, manutentivi, gestori e rinnovativi,
secondo la convenzione in materia (art. 153, comma 1, D.Lgs. 152/2006), al punto che le
immobilizzazioni patrimoniali, ivi compresi gli oneri dei mutui, sono trasferiti al gestore (comma 2, art.
153 D.Lgs. 152/2006), avendo lo stesso l'obbligo di restituire quei beni, in buono stato di fatto, al
momento della scadenza dell'affidamento o dell'aggiudicazione del servizio [lett. m), comma 2, art. 151
D.Lgs. 152/2006] (17).
Dunque, ne consegue che il servizio idrico integrato si avvale in modo oneroso (canoni di concessione)
della risorsa idrica, mentre utilizza gratuitamente le infrastrutture funzionali per gli usi civili della
popolazione: quello che muta è solo il titolo dell'uso dei beni, poiché in un caso trattasi di un utilizzo a
titolo eccezionale da parte dei gestori, ancorché l'uso dell'acqua a scopi umani sia privilegiato (comma 4,
art. 144), mentre nel secondo si verte in tema di concessioni, ancorché gratuite (18).
3. La costituzione dell'ATO, la sua forma giuridica e la sua natura.
La costituzione degli ATO, Autorità d'ambito ottimale, è stata, di recente novellata, per ciò che concerne
la territorializzazione degli ambiti, dal comma 38 dell'art. 2 della L. 244/2007, la finanziaria 2008.
Le Regioni, infatti, potevano disegnare gli ambiti tenendo conto dei principi direttivi contenuti nel comma
2 dell'art. 147 e rappresentati dall'unità del bacino idrografico o del sub-bacino o di bacini contigui, dalla
necessaria unitarietà (comma 13, art. 2 D.Lgs. 4/2008) della gestione e dall'adeguatezza delle dimensioni
territoriali, definite sulla base di parametri fisici, demografici e tecnici (19).
Questa disciplina è stata sostanzialmente modificata dalla legge finanziaria 2008, poiché la stessa
prevede che la valutazione regionale deve esser indirizzata prioritariamente a riconoscere quale ambito
ottimale, in omaggio al mito della riduzione della spesa, le aree provinciali, ovvero, in caso di bacini di
dimensioni più ampie, le aree regionali o, sulla scorta di appositi accordi di coordinamento implicitamente
affidati a normative regionali, quelle delle Province stesse, oppure aree minori di Comuni limitrofi, i sub
bacini in linea di massima.
Fissati così i confini fisici degli ambiti, le Regioni devono attribuire le funzioni dell'Autorità alle Province o
alle Regioni stesse ovvero, sulla scorta di appositi coordinamenti, alle Province medesime, ma come
espressione funzionale di potestà regionali, ovvero a forme associative di Comuni ricompresi nell'ambito
[comma 38, lett. a), dell'art. 2 della L. 244/2007].
Tuttavia il ridisegno, operato dalla legge finanziaria 2008, degli Ambiti ottimali e dei relativi ATO si
incrocia con le disposizioni dell'art. 148 del D.Lgs. 152/2006: quest'ultimo, infatti, dispone che l'ATO sia
una struttura dotata di personalità giuridica e di un proprio bilancio, a norma dei commi 1 e 3 del
rammentato art. 148. Ciò in buona sostanza significa che l'ATO-Provincia o l'ATO-Regione (sia pure
articolato per Province), oltre ad avere un'autonoma personalità giuridica, deve disporre di un bilancio
separato da quello dell'ente esponenziale cui afferisce (20).
Parzialmente diverso è il discorso per le forme associative dei Comuni di cui agli artt. 30 e seguenti del
D.Lgs. 267/2000 e s.m.: si tratta in sostanza di forme convenzionali (art. 30), di forme consortili gestite
secondo le tipologie delle aziende speciali (art. 31) o di Unioni di comuni (art. 32), cui però i Comuni
partecipano obbligatoriamente, a norma del comma 1 dell'art. 148, sia pure con la deroga di cui al
comma 5 così come modificato dal comma 14 dell'art. 2 del D.Lgs. 4/2008. Ora, però, la previsione della
necessarietà della personalità giuridica fa propendere, ove non si voglia ammettere, in contrasto con
principi giuridici ineludibili, che sia il comma 1 dell'art. 148 a conferire, nel caso di specie, la personalità
alle forme convenzionali, per l'opzione regionale tra i Consorzi e le Unioni, pur essendo quest'ultima
figura di non facile adattabilità al caso specifico, che sono le due strutture associative dotate appunto
della soggettività (21).
Infatti, mentre per i Consorzi è previsto che, in caso di rilevanti interessi pubblici, gli Enti locali possano
essere obbligatoriamente riuniti, sulla base della legge statale di principio e di quella regionale di
attuazione (comma 7 dell'art. 31 del D.Lgs. 267/2000), per le Unioni non sussiste una consimile
previsione e la costituzione del soggetto associativo è lasciata alla libera volontà dei Municipi (art. 32 del
D.Lgs. 267/2000): ne consegue, quindi, che la figura collaborativa delle Unioni non è utilizzabile a questi
fini.
Pur tuttavia è la legge regionale a dover, entro il luglio 2008, determinare la forma giuridica dell'ATO e ad
avere in sostanza tre opzioni, l'ATO-Regione, in caso di coincidenza tra il territorio provinciale ed il bacino
o i bacini idrografici contigui, l'ATO-Regione nell'ipotesi di bacini più ampi del territorio provinciale, con la
sub-ipotesi di ATO-Regione, sia pure nel contesto di ovvie forme di coordinamento regionale, ed infine
ATO-forme associative di Comuni, in riferimento, presumibilmente, a sub-bacini. In ogni caso, come
detto, l'ATO deve avere separata personalità giuridica, un proprio bilancio ed, ovviamente, deve
uniformarsi agli ordinamenti interni del soggetto contenitore.
Il che, tanto per fare un qualche esempio, determina che la competenza in ordine al Piano di ambito ed in
ordine al bilancio spetterà al Consiglio Provinciale, a quello Regionale o all'organo a ciò deputato in base
allo statuto del Consorzio, in applicazione del comma 3 dell'art. 31 del D.Lgs. 267/2000, con la
conseguenza della proposta giuntale, dell'esame della Commissione Consiliare competente e
dell'approvazione finale del Consiglio.
Ovviamente, l'applicazione degli statuti regionali, provinciali ed associativi costituisce un appesantimento
procedurale per l'operatività degli ATO, cui si aggiunge che l'ultimo alinea della lett. a) del comma 38
dell'art. 2 della finanziaria 2008 prescrive, per le forme associative di Comuni, la gratuità dell'esercizio
delle funzioni da parte dei sindaci o di loro delegati: ne deriverebbe una singolare figura giuridica, in base
alla quale le Regioni e le Province finirebbero col prestare i propri organi, Consiglio, Giunta e Presidente,
agli ATO per l'esercizio di funzioni proprie di una persona giuridica diversa e tipizzata dalla legge, in modo
difforme dai caratteri costituzionali del contenitore, mentre le forme collaborative tra Comuni, in pratica i
Consorzi-azienda, avrebbero sì una personalità giuridica del tutto coincidente con gli ATO, ma, a sua
volta, retta da discipline speciali (si pensi ai controlli) derogatorie del loro impianto costituzionale.
Ne consegue, dunque, che gli ATO, costituiti nelle forme di cui s'è detto, presentano elementi non certo
funzionali alla realizzazione dei compiti assegnatigli nel caso di ATO-Provincia o di ATO-Regione e tratti
che non favoriscono la loro gestione operativa nel caso di forme associative tra Municipi, in conseguenza
della non indennizzabilità degli amministratori.
Le attribuzioni degli ATO sono, in buona sostanza, quelle programmatorie, quelle bilancistiche, quelle
tariffarie, quelle convenzionali e quelle di scelta dei modi di intestazione e di organizzazione del servizio
idrico integrato, di cui agli artt. 149, 150, 151 e 154 del D.Lgs. 152/2006 e s.m., nonché quelle di
vigilanza e controllo, contemplate nell'art. 152: il pacchetto delle attribuzioni di governo del servizio
avrebbe dovuto consigliare il suo affidamento ad un soggetto, per così dire, specializzato, al fine di dare a
tale governo un'impronta tecnico-funzionale di un minimo di spessore e di non confonderlo con altre
attribuzioni, pure assai rilevanti, ma che mal si combinano con l'esercizio meditato e consapevole di quel
pacchetto (22).
L'unica speranza, nel contesto di quelle previsioni della finanziaria 2008, è che le Regioni forzino un poco
la norma del comma 38 e istituiscano forme associative obbligatorie di Comuni a scala tendenzialmente
provinciale, in modo da dare a quel governo dell'ambito una sua consapevolezza operativa, magari
stabilendo, nella loro autonomia, anche un regime di moderati compensi per gli amministratori e
perlomeno degli organi esecutivi degli ATO.
Resta da dire quale sia la natura giuridica degli ATO: essi, dotati di personalità giuridica, ex comma 1
dell'art. 148, e di autonomia di bilancio, in base al comma 3 del medesimo articolo, devono essere
soggetti locali, provinciali o regionali di governo delle acque e del servizio idrico e, come tali, enti
specializzati nell'esercizio delle funzioni loro attribuite dalla legge statale, di principio, e regionale.
Trattasi, dunque, di soggetti di carattere regionale, provinciale o comunale associativo, che, ancorché
coincidenti, in alcune ipotesi, con le Regioni o con le Province, devono conservare un'autonoma
soggettività e una propria operatività, separate da quelle dell'ente contenitore. Questo elemento non si
pone nel caso di creazione di ambiti e dei connessi soggetti di governo del servizio idrico integrato di tipo
associativo tra Comuni, restando esclusa l'applicabilità del comma 28 della L. 244/2007 a questa
fattispecie, poiché in quest'ipotesi i Consorzi avranno sì una non separata soggettività da quella dell'ATO
ed una specializzazione funzionale, ma saranno ascrivibili al genus degli Enti locali associativi di natura
obbligatoria, ancorché regolati da disposizioni speciali.
Gli uni e l'altro tipo di soggetti sono però disciplinati, avendo separata personalità da Regioni e Province
che si atteggiano a meri contenitori, da normative speciali e che derogano, sia nel caso di Enti Regione e
Provincia che in quello di soggetti associativi di Municipi, all'impianto costituzionale loro proprio e, in
particolare, in tema di controlli.
Concludendo sul punto, può osservarsi che la scelta della finanziaria 2008, anche forse giustificabile dal
punto di vista del risparmio delle risorse economiche, crea una serie di complicazioni funzionali e
operative di non piccolo momento e indebolisce la specializzazione e la qualificazione del governo
dell'ambito: ne deriverà, salve opzioni regionali più meditate e volte al concreto rafforzamento di quel
governo, un sostanziale abbassamento del livello di esercizio delle attribuzioni degli ATO e una minore
attenzione per i problemi operativi del servizio idrico integrato.
4. I gestori del servizio e i modi di attribuzione dello stesso.
Tra le funzioni dell'ATO vi è anche quella, come già detto, di stabilire il modello gestionale e organizzativo
del servizio idrico integrato [lett. c), comma 1 dell'art. 149 del D.Lgs. 152/2006 e s.m.], cosa che
comporta, a valle di tali scelte, le procedure di aggiudicazione o di affidamento diretto del servizio stesso
(comma 1, art. 160).
Ora, il fissare il modello gestionale, attesa l'unitarietà della gestione per ciascun ambito (fatti salvi i diritti
dei gestori prorogati, di cui all'art. 172 e di quelli in essere), vuole significare che l'ATO è tenuta ad
operare un'opzione tra le diverse forme gestorie dei servizi pubblici locali, ormai contemplate dall'art. 23bis della L. 133/2008 e cioè imprenditori o società in qualsiasi forma costituite, siano esse a capitale
privato, misto o pubblico (23).
Cosa voglia significare la modifica dell'espressione normativa "unità della gestione", di cui alla lett. b) del
comma 2 dell'art. 147 e al comma 1 dell'art. 150 del Codice dell'ambiente, con quella "unitarietà della
gestione", prevista dal comma 13 dell'art. 2 del D.Lgs. 4/2008, non è di facile comprensione. Il
legislatore palesemente voleva aggiustare la normativa coordinandola con l'ampliamento degli ambiti,
previsto dalla finanziaria 2008 ed, a tal fine, rendendosi conto che gestori unici per aree ad esempio
regionali erano di non facile configurabilità e che comunque sussistevano gestori a livello provinciale o
sub-provinciale, al di là delle vecchie gestioni esistenti di cui all'art. 172, ha inventato la gestione
unitaria. Ma questa idea, per avere un minimo di operatività, avrebbe dovuto esser supportata almeno da
un'indicazione di principio in ordine al coordinamento dei soggetti gestori, attraverso la commissione alla
legge regionale di uno strumento di tal fatta, ovvero mediante forme incentivanti la costituzione di una
holding, in omaggio alla struttura societaria dei gestori, avente capacità di direzione e controllo sulle
società operanti nell'ambito.
La scelta del modello organizzativo, per non essere considerata un'inutile ripetizione della scelta di quello
gestionale, sta ad indicare, invece, che, accanto alla tipologia gestoria, l'ATO deve altresì individuare
moduli organizzativi interni ai soggetti gestori, atti ad assicurare la qualità e l'efficienza del servizio e i
modi di soddisfazione della domanda degli utenti.
Una volta compiute, in sede di Piano di ambito, queste opzioni, l'ATO dovrà scegliere le modalità con le
quale assegnare il servizio, ma tale scelta sarà vincolata, ai sensi dell'art. 150, alle determinazioni
pianificate in ordine al modello gestorio, essendo le opzioni possibili, come accennato, tre nel contesto di
una disposizione che recita "... società in qualsiasi forma costituite...": società a capitale privato, ovvero,
società a capitale misto e società ad interessenza totalitariamente pubblica, implicitamente contemplate
dai comma 2, 3 e 4 dell'art. 23-bis della L. 133/2008 (24).
Nel caso in cui l'ATO abbia optato per la gara tra società, dotate dei requisiti finanziari, di esperienza ed
organizzativi prescritti, dovrà dar vita ad una procedura ad evidenza pubblica, in conformità al comma 2
del citato art. 23-bis e secondo le linee stabilite con decreto dal Ministro dell'ambiente e nel rispetto delle
normative regionali (comma 2, art. 150 D.Lgs. 152/2006 e s.m.) (25).
Ciò significa, in sostanza, inserire nel bando di gara e nel capitolato speciale d'oneri gli standard
qualitativi, quantitativi, ambientali, di sicurezza e via dicendo, fissare i criteri di aggiudicazione con il
metodo dell'offerta economicamente più vantaggiosa, ex art. 81 del D.Lgs. 163/2006 e s.m., secondo le
indicazioni del comma 7 dell'abrogato art. 113, concettualmente sempre valide, in base al quale la gara è
aggiudicata sulla scorta del miglior livello di qualità e di sicurezza, delle condizioni economiche, della
tipologia della prestazione del servizio e dei piani di investimento, programmati in sede di Piano d'ambito,
nonché dei contenuti di innovazione tecnologica e gestionale.
Si tratta, come ovvio, di una gara da aggiudicarsi sulla scorta di appositi punteggi derivati dall'art. 83 del
Codice dei contratti da parte di una Commissione giudicatrice, nominata secondo le modalità di cui all'art.
84 del Codice stesso (26).
Nel caso in cui, viceversa, l'ATO abbia optato per l'assegnazione del servizio, ricorrendo motivate ragioni
tecniche ed economiche e dovendosene dar atto nella previa deliberazione di cui al comma 2 dell'art. 11
del Codice dei contratti pubblici, a società totalitariamente controllate da Comuni o da altri Enti locali
(Regioni, Consorzi, Unioni, ecc.) compresi nell'ambito ottimale, in base al comma 3 del rammentato art.
150 del Codice dell'ambiente, ovvero a società a capitale misto pubblico-privato (27), in questi casi
l'Autorità può decidere l'affidamento diretto senza gara (28). Ma questa previsione è stata modificata dal
comma 8 dell'art. 23-bis della L. 133/2008 che ha disposto che le concessioni del servizio idrico integrato,
rilasciate a seguito di procedure diverse dall'evidenza pubblica, cessino automaticamente al 31 dicembre
2010 e che, successivamente a quella data, debbano esser indette gare, ai sensi del comma 2 del
ricordato articolo, cui, però, possono partecipare anche i soggetti già affidatari in forma diretta del
servizio, in forza del comma 9 del medesimo articolo. Al governo è attribuita, dal comma 10, la potestà di
emanare uno o più regolamenti intesi, tra l'altro, alla definizione della durata degli affidamenti in
relazione ai tempi di ammortamento e alla cessione dei beni in caso di subentri.
Il limite del 31 dicembre 2010 non si applica agli affidamenti diretti che, nel rispetto delle discipline
comunitarie, siano stati adeguatamente motivati, in riferimento alle peculiarità economiche, sociali,
ambientali e geomorfologiche del territorio dell'ATO, a seguito di un'indagine di mercato (comma 3 art.
23-bis L. 133/2008). L'opzione di affidamento diretto ha anche valore prospettico, purché le relative
delibere siano conformi alle discipline comunitarie, congruamente sostenute da ragioni oggettive e sia
stato assunto il parere dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato e delle Autorità di
regolazione del settore, se istituite, in applicazione del comma 4 dello stesso articolo.
In buona sostanza, ancorché sia stato abrogato l'art. 113 del D.Lgs. 267/2000 e s.m., la situazione per
ciò che concerne gli affidamenti in house del servizio idrico integrato non è mutata, anche se è stata
aggravata proceduralmente e se è stata implicitamente contemplata la possibilità di concedere
direttamente il servizio a società private, ipotesi, in fatto, di scarsa praticabilità politica.
Pur tuttavia l'affidamento è una mera facoltà intestata, nelle descritte circostanze, all'ATO, come si
desume agevolmente dalla lettera del citato comma 3 dell'art. 150 "La gestione può esser altresì
affidata...", ma non è certo un obbligo, ben potendo l'Autorità dar vita a procedure ad evidenza pubblica,
nel caso in cui non sussistano valide ragioni tecnico-economiche per l'affidamento, e ben potendo
partecipare alle gare anche società pubbliche e/o miste.
Ad esito della procedura ad evidenza pubblica o a quelle di affidamento diretto, l'ATO è tenuto a dare in
concessione-contratto (rectius convenzione), alle società private vincitrici della gara o alle società miste
ovvero a quelle totalitariamente pubbliche affidatarie, la gestione del servizio idrico integrato, di talché
quelle società acquisiscono la veste e la natura di concessionari di pubblico servizio (29).
Riassumendo, dunque, l'ATO dovrebbe essere costituita dalla Regione o dalla Provincia, ovvero da forme
associative di comuni, essendo l'opzione regionale in realtà limitata a quella dei Consorzi, in ragione della
necessitarietà della personalità giuridica e dell'autonomia di bilancio, requisiti difficilmente adattabili alle
semplici forme convenzionali e non prestandosi alla bisogna le Unioni, in ragione della partecipazione
obbligatoria dei Municipi.
Tra i compiti dell'ATO, al di sotto della pianificazione d'ambito ed in coerenza con la stessa, si pone la
scelta del gestore del servizio idrico integrato o con gara ad evidenza pubblica, ovvero mediante
affidamento, ai sensi del comma 3 e 4 dell'art. 23-bis della L. 133/2008, sempreché sussistano obiettive
ragioni tecnico-economiche, a società interamente pubbliche nelle interessenze, o miste pubblico-privato,
ma con soci di quest'ultimo tipo, scelti mediante procedure ad evidenza pubblica, ovvero ancora, ma
l'ipotesi è fattualmente del tutto marginale, a società private.
5. Le convenzioni, i poteri dell'ATO, le attribuzioni ministeriali e del Comitato per la vigilanza
sull'uso delle risorse idriche.
Una volta individuata la società privata, mista o pubblica aggiudicataria o affidataria del servizio idrico
integrato, sono da indagare le modalità rapportuali tra il gestore e l'ATO, nonché quelle con i proprietari
degli impianti. Le prime sono regolate, a norma dell'art. 151 del Codice ambientale, da convenzioni tra i
due soggetti interessati, sulla base di uno o più schemi convenzionali ministeriali ed una convenzione tipo
regionale.
Per la verità la convenzione ed il relativo disciplinare, contenente il programma degli interventi di cui
all'apposita sezione del Piano d'ambito (comma 4, art. 151), sono atti sostanzialmente obbligatori per la
società aggiudicataria, in quanto il comma 3 del rammentato art. 151 prescrive che i medesimi atti
debbano essere allegati ai capitolati di gara e ciò, in pratica, rende contrattualmente vincolanti le
discipline convenzionali, a norma degli artt. 5, 68 e 69 del Codice dei contratti (30), poiché i concorrenti
alla gara ovvero i possibili affidatari del servizio sono preliminarmente tenuti a conoscerne il contenuto di
quegli atti e si devono impegnare a rispettarli.
Per quanto riguarda le convenzioni tipo ministeriali, esse sono previste dalla lett. c) del comma 4 dell'art.
161, come modificato dal comma 15 dell'art. 2 del D.Lgs. 4/2008.
Tale disposizione prevede che il Ministro dell'ambiente, udita la Conferenza Stato-Regioni, adotti, con
proprio decreto, una o più convenzioni tipo di cui all'art. 151 del Codice dell'ambiente, su atti predisposti
dalla Commissione per la vigilanza sull'uso delle risorse idriche.
Ora non si vede, una volta approvate le convenzioni tipo ministeriali, cosa possano fare le Regioni,
intestatarie in base all'art. 151 di una parallela competenza, salvoché gli schemi centrali non lascino
margini apprezzabili di spazi alle Regioni medesime, cosa per vero non contemplata dalla norma in
discorso.
Purtuttavia i principi di logica giuridica ed il rispetto per le autonomie regionali, che non sembrerebbero
permeare le normative del decreto 4/2008, vorrebbero che gli schemi centrali lascino margini significativi
di adattabilità alle convenzioni tipo regionali.
Le Regioni, pur con i vincoli ed i limiti sopra illustrati, devono, nel redigere lo schema di convenzione-tipo
ed i relativi disciplinari, dare a tali atti contenuti tipizzati, in particolare, dal comma 2 del rammentato art.
151. I principali contenuti della convenzione-tipo sono riassumibili in quelli di tipo istituzionale (la scelta
del modello gestorio e la sua durata non superiore a trent'anni), quelli di natura economico-efficientistica
(obbligo dell'equilibrio economico-finanziario, corretto livello di funzionalità del servizio, criteri di
applicazione delle diverse tariffe per tipologia di utenza, decise dall'Autorità, l'obbligo di adottare la carta
dei servizi), quelli di natura tecnica (obbligo di provvedere alle manutenzioni, rinnovi e realizzazioni
contemplate dal Piano d'ambito, obbligo di attivare idonei controlli sull'erogazione del servizio, dovere di
prestare collaborazione ai sistemi di vigilanza dell'Autorità, obbligo di dare tempestiva comunicazione
all'Autorità di irregolarità del servizio e di provvedere alla loro eliminazione) e quelli di tipo giuridicocontabilistico (obbligo di restituzione delle opere e degli impianti alla scadenza, l'obbligo di prestare
idonee garanzie, l'individuazione di penali e, in caso di inadempimento, le risoluzioni contrattuali, nonché
le modalità di rendicontazione delle attività di servizio).
Ora, dunque, la convenzione-tipo regionale, applicativa degli schemi ministeriali, reca la gran parte degli
obblighi del gestore, ma non ne esaurisce tutti gli oggetti, ben potendo le Regioni aggiungere anche altri
contenuti (31).
Accanto a questa convenzione e disciplinare tra l'ATO ed i soggetti gestori, che, come già accennato
costituiscono atti complementari dei capitolati speciali d'oneri delle procedure di aggiudicazione o di
affidamento, si pongono, in chiave di concessione-contratto, le concessioni gratuite degli impianti
assentite dai Municipi o dai loro Consorzi, proprietari a titolo demaniale degli stessi, che, per vero,
possono anche esser sostituite da convenzioni, in forza di leggi regionali. Gli Enti locali hanno, però, la
facoltà, prevista dall'art. 157 del Codice dell'ambiente, di realizzare opere ed impianti di adeguamento del
servizio, in relazione a nuove zone di insediamento contemplate dallo strumento urbanistico (anche a
cura dei privati a scomputo degli oneri), previo parere dell'Autorità d'ambito sulla compatibilità con il
Piano, a seguito di apposita convenzione col soggetto gestore, al quale il resultato degli interventi è dato
in concessione gratuita.
I gestori del servizio idrico integrato possono, altresì, stipulare convenzioni con lo Stato, le Regioni, gli
Enti locali, le associazioni e le università agrarie, allo scopo di tutelare le aree di salvaguardia delle risorse
idriche, per la gestione diretta dei demani pubblici o collettivi che ricadono nel perimetro delle aree di
salvaguardia (art. 163 D.Lgs. 152/2006).
Un ulteriore strumento rapportuale fra i soggetti gestori del servizio e l'ATO è costituito dalla fissazione
delle tariffe, che, per vero sono determinate con atti autoritativi, ma costituiscono pur sempre, essendo
un'entrata determinante per il servizio, un modulo relazionale per i soggetti gestori. La tariffa del servizio
idrico integrato, che ha natura di corrispettivo ex ultimo alinea dell'art. 154 ed è riscossa dai gestori a
norma del comma 1 dell'art. 156, è determinata in modo da assicurare l'integrale copertura dei costi di
investimento e di esercizio propri sia, pro quota, dell'ATO, alle cui entrate provvedono anche i Comuni
associati, le Province o le Regioni in relazione alla loro partecipazione ex comma 4 dell'art. 148 del Codice
dell'ambiente, che dei soggetti gestori; il Ministro dell'ambiente definisce, con decreto e sentita la
Conferenza Stato-Regioni, su elaborazione del Comitato di vigilanza sull'uso delle risorse idriche, ex lett.
a) del comma 4 dell'art. 2 dell'art. 161, come modificato al comma 15 dell'art. 2 del D.Lgs. 4/2008, il
metodo tariffario per i diversi settori dell'impiego dell'acqua (comma 1 e 2, art. 154) (32) e, con decreto
del Ministro dell'economia di concerto con quello dell'ambiente, sono fissati i criteri generali per la
determinazione dei canoni concessori per l'utenza dell'acqua da parte delle Regioni (comma 3, art. 154),
aventi cadenza triennale (33). Sulla base di questi elementi, l'Autorità d'ambito determina la tariffa base
e la comunica al Ministro dell'ambiente (comma 4, art. 154).
Dal combinato disposto dei comma 1 e 4 della norma in esame, si desume che la risorsa idrica ha un
costo per i gestori e che la tariffazione deve tener conto anche, accanto ad altri titoli di uscita, di tale
elemento, costituito in particolare dall'onere della risorsa connesso ai diversi usi dell'acqua per gli
impegni civili, industriali, terziari ed agricoli e di quelli ambientali (comma 2 dell'art. 119 del Codice
dell'ambiente).
Le quote della tariffa base, riferita agli impianti fognanti e di depurazione, che sono dovute anche in caso
di mancanza o di interruzione del servizio di depurazione con una singolare illogicità giuridica a fronte
della dichiarata natura di corrispettivo, sono versati dal soggetto gestore su di un fondo vincolato
intestato all'Autorità d'ambito, che lo mette a disposizione dei soggetti gestori per la realizzazione degli
interventi sulle reti e sui depuratori previsti dal Piano, essendo l'utente non tenuto al versamento nel caso
in cui disponga di sistemi di collettamento e depurazione propri, approvati dall'Autorità (comma 1, art.
155). La quota è determinata in funzione diretta dell'acqua fornita per le utenze domestiche ed
assimilate, mentre per quelle industriali la quota della tariffa è determinata in base alla quantità e qualità
delle acque scaricate, ma può essere applicata in forma ridotta a coloro che provvedono direttamente alla
depurazione e siano collegati, a valle, alla pubblica fognatura, ovvero che riusino nel processo produttivo
l'acqua già utilizzata (comma 4, 5 e 6, art. 155) (34).
Norme particolari sono, poi, dettate per gli usi delle acque irrigue e di bonifica, per quelli agricoli ivi
compresa l'acquicoltura e per quelli idroelettrici con sostanziale valutazione dei canoni e delle eventuali
tariffe in relazione al rilievo pubblicistico delle attività produttive interessate (artt. 166, 167 e 168).
Nell'ambito delle aree protette, i Parchi, le Riserve e via dicendo, l'Ente gestore di quelle aree, sentita
l'Autorità di bacino, definisce le acque, di qualsiasi tipologia, necessarie alla conservazione degli
ecosistemi, che sono escluse dalla captazione e le correlate concessioni in essere, fatta salva la
conseguente diminuzione del canone, possono essere ridotte nelle quantità, su proposta dell'ente gestore
e con provvedimento dell'Autorità competente, nel caso in cui esse siano riconosciute necessarie per
l'equilibrio ambientale (art. 146).
L'ATO, infine, ha poteri di vigilanza e controllo sul servizio idrico integrato (35), al di là dei vincoli
organizzativi stabiliti dal Piano d'ambito per i soggetti gestori, i quali sono tenuti a dotarsi di un adeguato
servizio interno di controllo territoriale e di una laboratorio di analisi per i controlli delle acque ovvero a
stipulare apposita convenzione con altri gestori di servizi idrici (art. 165).
I poteri di vigilanza sono costituiti dalla facoltà di accesso ai lavori e dalla verifica della consistenza
funzionale degli impianti, nonché da quella di riscontro sull'andamento gestionale del soggetto deputato
al servizio idrico integrato (comma 1 e 4 dell'art. 152), dovendo l'ATO comunicare annualmente al
Ministro dell'ambiente le risultanze delle verifiche.
Nell'ipotesi in cui il soggetto gestore sia inadempiente agli obblighi di Piano, di convenzione o di
disciplinare, compromettendo la risorsa, l'ambiente ovvero non raggiungendo i livelli minimi del servizio,
l'ATO interviene per garantire gli adempimenti da parte del gestore; l'ATO stessa, perdurando le
inadempienze, può risolvere il contratto di appalto o revocare l'affidamento e, di conseguenza, elidere la
concessione e può, infine, sostituirsi al gestore facendo eseguire le opere omesse con procedura in danno
(comma 2 art. 152).
Le Regioni, nell'ipotesi di mancato intervento dell'ATO, e il Ministro dell'ambiente, nel caso di mancato
esercizio dei poteri regionali, possono surrogarsi agli organi inadempienti, mediante la nomina di un
commissario ad acta rispettivamente regionale o ministeriale (comma 3, art. 152).
Ma accanto ai poteri di vigilanza sui soggetti gestori del servizio idrico integrato, si pongono le potestà del
Comitato per la vigilanza sull'uso delle risorse idriche, che, per non pochi rispetti, si presentano in
posizione di preminenza su quelli dell'ATO e costituiscono, in sostanza, una forma di by-pass della
Autorità nei rapporti con i gestori.
Il comma 4, alle lettere da d) ad l) dell'art. 161 del Codice ambientale, come modificato dal comma 15
dell'art. 2 che D.Lgs. 4/2008, intesta, infatti, al Comitato una serie di poteri, in parte di amministrazione
attiva, in parte consultiva ed in parte di vigilanza e controllo, sui soggetti gestori.
Tanto per esemplificare, il Comitato emana direttive per la trasparenza delle contabilità delle gestioni e
valuta i costi prestazionali (lett. d), controlla le modalità di erogazione del servizio (lett. f), definisce i
livelli minimali dei servizi, udite le Regioni, i gestori e le associazioni dei consumatori (lett. o), predispone
periodicamente dei rapporti sull'organizzazione dei servizi e li compara fra di loro (lett. h), emana linee
guida per assicurare la parità di accesso, la continuità dei servizi e verificare la qualità e l'efficacia delle
prestazioni (lett. g), esprime pareri sulla qualità dei servizi, su richiesta dei soggetti interessati (lett. i) ed
elabora annualmente una relazione sullo stato dei servizi idrici e sull'attività svolta da presentare al
Parlamento (lett. l).
In buona sostanza emerge un disegno connotato da notevoli poteri dell'autorità centrale, anche se
coinvolgente in qualche caso la Conferenza Stato-Regioni o le Regioni, in tema di amministrazione attiva,
consultiva, di vigilanza e controllo, che si aggiungono a quelli in tema di tariffazione, di approvazione dei
Piani d'ambito, di verifica dei contratti e degli atti inerenti il rapporto ATO-gestori e di schemi tipo
ministeriali di convenzioni tra i medesimi soggetti.
A quanto illustrato, si aggiunga che il Comitato, sulla scorta dei dati raccolti dall'Osservatorio, può
intraprendere l'azione o il ricorso giurisdizionale avverso gli atti posti in essere in violazione del decreto
legislativo, l'azione di responsabilità nei confronti degli amministratori delle società gestrici e quella di
risarcimento del danno a tutela dei diritti dell'utente (comma 7 dell'art. 161, come modificato dal comma
15 dell'art. 2 del D.Lgs. 4/2008): si tratta di una legittimazione processuale ad amplissimo spettro che fa
del Comitato il soggetto abilitato ad intraprendere qualsiasi tipo di azione o di ricorso alle competenti
autorità giudiziarie a tutela di una vastissima ed assai variegata gamma di beni giuridici tutelati.
Traendo le fila del discorso, può dirsi, al di là dei segnalati ed immanenti poteri centrali, che gli ATO sono i
soggetti cui è demandato il governo delle risorse attraverso la pianificazione, la scelta dei soggetti
gestori, le forme convenzionali, nonché mediante la tariffazione e la vigilanza ed il controllo sui soggetti
medesimi, mentre i gestori sono quelle società, concessionarie di pubblico servizio, cui è appaltato ovvero
affidato in via diretta il servizio in concessione, con gli obblighi di attuazione del Piano, della convenzione
e dei relativi disciplinari. I soggetti gestori del servizio idrico integrato devono rispettare, accanto
all'efficacia ed all'efficienza del servizio, l'equilibrio economico tra i costi dei canoni di concessione delle
acque, di quelli delle opere sull'impiantistica e di quelli della gestione, avendo come entrate principali le
tariffazioni dei servizi acquedottistici e di quelli di fognatura e depurazione. Proprio in vista degli
investimenti che le società gestorie devono operare, il D.Lgs. 152/2006 e s.m. ha introdotto al comma 8
dell'art. 151 una deroga alle normali discipline civilistiche ed ha previsto che le stesse società (s.p.a. o
s.r.l.) possano emettere prestiti obbligazionari sottoscrivibili esclusivamente dagli utenti dei servizi e che
quei prestiti siano convertibili in azioni o quote ordinarie o di risparmio. Nel caso di società private
concessionarie del servizio nonché di società miste, una quota non inferiore al 10% degli aumenti di
capitale deve esser offerta agli utenti del servizio medesimo.
Nell'ottica di far conseguire alle società gestrici del servizio idrico integrato utili, il comma 7 dell'art. 151
del Codice dell'ambiente prevede, altresì, che le società stesse possano, sulla base del loro oggetto
sociale, operare nel campo di altri servizi pubblici, purché non incompatibili con il servizio idrico, anche
non estesi all'intero territorio dell'ambito ottimale.
È, dunque, di tutta evidenza che il legislatore nazionale si sia occupato anche di permettere alle società
gestrici di accedere a prestiti obbligazionari ed a servizi pubblici ulteriori (si pensi ad esempio alla
redazione dei piani del sottosuolo, alla gestione di vie comunali, alla progettazione di opere pubbliche e
via dicendo) al fine di implementare le entrate societarie.
Il governo delle risorse idriche a fini idropotabili e igienici risulta, nel suo complesso, articolato tra i poteri
centrali del Ministro per l'ambiente e quelli del Comitato per la vigilanza sull'uso delle risorse, i poteri
regionali, in particolare in tema di risparmi, di territorializzazione degli ambiti, di schemi di convenzioni,
nonché di costituzione degli ATO, i poteri degli ATO stessi, specificatamente di pianificazione, tariffazione,
scelta dei gestori, convenzionamento e vigilanza e controllo, ed infine le prerogative dei soggetti gestori,
concessionari di pubblico servizio.
È del tutto evidente la pesantezza operativa del sistema così creato, poiché ripartisce le competenze tra
diversi livelli con la tendenza, per di più, non all'attribuzione di ruoli definiti ai singoli livelli ma ad una
commistione, per alcuni rispetti di difficile scioglimento (come ad esempio nel caso degli schemi di
convenzioni), delle tipologie di competenze e ad un singolare accentramento dei poteri significativi in
sede statuale.
Questo sistema risulta, per alcuni versi, non del tutto conforme alle norme costituzionali, in quanto è pur
vero che l'art. 117, comma 2, Cost. intesta allo Stato la competenza esclusiva in tema di tutela
dell'ambiente e dell'ecosistema, ma è egualmente vero che il terzo comma di tale articolo affida alla
competenza regionale concorrente, anche alla luce del principio di sussidiarietà contemplato nell'art. 118
Cost., la valorizzazione dei beni ambientali e che acquedotti, fognature e depuratori dovrebbero pertinere
alla competenza esclusiva delle Regioni e a quella amministrativa degli Enti locali (36).
Emerge, dunque, un disegno parzialmente non del tutto coerente con l'impianto costituzionale,
aggravato, altresì, dalle disposizioni della Finanziaria 2008 e del D.Lgs. 4/2008.
6. L'applicabilità del Codice dei contratti della P.A. agli interventi dei soggetti gestori del
servizio.
Il Codice dei contratti della Pubblica amministrazione, alla Parte III contenente gli artt. dal 206 al 238,
prevede le disposizioni relative a lavori pubblici, servizi e forniture inerenti i settori speciali: si tratta dei
settori del gas, dell'energia termica, dell'elettricità, dell'acqua, del pubblico trasporto, delle poste,
dell'estrazione di prodotti combustibili, nonché dei porti e degli aeroporti.
Questa parte del Codice si applica a tre tipi di soggetti, che sono le amministrazioni aggiudicatici, le
imprese pubbliche ed i concessionari di pubblici servizi, in base al disposto dell'art. 207. Le
Amministrazioni aggiudicatrici sono ovviamente gli Enti pubblici, gli Enti pubblici non economici, le
fondazioni e le associazioni costituite dai medesimi soggetti, [art. 207, comma 1, lett. a)] (37), di talché
le disposizioni della Parte III saranno applicabili anche agli ATO in relazione agli appalti relativi al
complesso delle attività concernenti il ciclo integrato delle acque (art. 209). Le imprese pubbliche sono,
invece, quelle entità imprenditoriali su cui gli Enti pubblici esercitano, in via diretta o mediata,
un'influenza dominante, perché, alternativamente o comulativamente, detengono la maggioranza del
capitale sociale, controllano, di fatto o a mezzo di patti parasociali, la maggioranza dei voti assembleari,
ovvero hanno il diritto di nominare, in base agli artt. 2449 e 2450 c.c. (38), più della metà dei
componenti il Consiglio di amministrazione, l'organo di controllo e la Direzione generale (n. 28, art. 3 del
Codice dei contratti) (39).
A queste indicazioni, per ciò che concerne il servizio idrico integrato, si devono aggiungere le prescrizioni
del comma 2 dell'art. 1 del Codice dei contratti che afferma che nelle società miste, i soci privati debbono
esser scelti con procedure ad evidenza pubblica e il n. 28 dell'art. 3 del Codice medesimo che dispone che
nelle società a capitale pubblico gli Enti azionisti devono esercitare, in termini civilistici, un'influenza
dominante, cui si accompagnano i principi discendenti dal Trattato CE e dalla giurisprudenza della Corte di
Giustizia che vogliono che l'Amministrazione eserciti su quelle società un controllo analogo a quello svolto
sui propri servizi e che la società stessa rivolga la parte prevalente della sua attività nei confronti delle
popolazioni dei soci pubblici (40). Trattasi, quindi, applicando la doppia previsione normativa ai gestori
dei servizi idrici integrati, delle società miste o pubbliche cui gli ATO affidano i servizi regionali, provinciali
o locali.
Le imprese pubbliche si differenziano dagli organismi di diritto pubblico, di cui al n. 26 dell'art. 3 del
Codice dei contratti, con le quali hanno in comune il controllo della gestione da parte di soggetti pubblici
ovvero la nomina della maggioranza dell'organo di amministrazione, di quello di controllo e della direzione
da parte dei medesimi soggetti pubblici, per due tratti: il primo è rappresentato dal finanziamento per più
del 51% a carico della finanza pubblica ed il secondo è costituito da un minor tasso di imprenditorialità,
dovendo gli organismi sì soddisfare esigenze di carattere generale, ma mediante attività non aventi le
connotazioni industriali o commerciali (41).
Infine la lett. b) del comma 1 del rammentato art. 207 dice che questa parte del Codice si applica altresì
alle società od ai soggetti privati che, esercitando una o più delle attività inerenti i settori speciali,
operano in virtù di diritti speciali od esclusivi loro concessi dall'Autorità.
Si verte evidentemente in casi di concessionari di pubblici servizi, i quali, in base a provvedimenti
amministrativi ovvero ad atti pattizi (42), sono abilitati ad esercitare le attività inerenti i settori speciali,
incidendo la capacità di altri soggetti di svolgere le medesime attività (comma 2, art. 207 e art. 219): per
quanto riguarda il servizio idrico integrato si tratta delle società private aggiudicatici del servizio stesso
ovvero di società miste ad interessenza prevalente privata e che sono, appunto, concessionarie del
medesimo (43).
L'ambito oggettivo cui si applica la Parte III del Codice è definito dall'art. 209 per quanto riguarda in
particolare il settore idrico: le attività coinvolte devono riguardare gli appalti concernenti gli acquedotti e
la loro alimentazione, e cioè la captazione, l'adduzione, la veicolazione e via dicendo, nonché il
convogliamento dei reflui, la loro depurazione e lo smaltimento dei residui. Esse concernono pure i
progetti di ingegneria idraulica, irrigazione e drenaggio, il cui volume dell'acqua destinata
all'approvvigionamento potabile rappresenti più del 20% dei volumi resi disponibili da quei progetti o
impianti di irrigazione o di drenaggio [comma 2, latt. a) dell'art. 2099] (44).
Fanno eccezione alle attività contemplate nel comma 1 dell'art. 209, viceversa, quelle indicate alle lett. a)
e b) del comma 3 del medesimo art. 209 (45).
Illustrati così gli ambiti soggettivi e quelli oggettivi di applicabilità della Parte III del Codice si possono
descrivere sommariamente le regole che i soggetti gestori del servizio idrico integrato sono tenuti ad
applicare per gli appalti strumentali alle loro attività.
Va, però, precisato in via preliminare che l'applicazione da parte delle società gestrici dei servizi idrici
integrati, siano esse imprese pubbliche che soggetti privati, di quote del Codice dei contratti avviene sì
attraverso l'utilizzo di una normativa pubblicistica ma a cura di soggetti di diritto comune e, di
conseguenza, in termini del tutto privatistici.
Le disposizioni applicabili a quei soggetti per lo svolgimento di appalti inerenti gli indicati settori di attività
sono individuate mediante un rinvio generale, uno speciale e una disciplina ad hoc.
Il rinvio generale è contenuto nell'art. 206 del Codice e prevede che agli appalti e ai contratti in questione
siano applicabili le disposizioni contenute nelle Parti I (principi e disposizioni comuni), IV (contenzioso) e
V (disposizioni di coordinamento, finali e transitorie) del Codice medesimo.
Accanto a questo rinvio ve ne è un altro di tipo speciale, in quanto viene individuata una serie di articoli,
contenuti nella Parte II (contratti relativi a lavori, servizi e forniture nei settori ordinari), con alcune
attenuazioni dei loro effetti e alcune lievi modifiche al loro contenuto, quale, tanto per esemplificare, il
caso della scelta tra le procedure aperte, ristrette o negoziate che è sempre rimesso alle valutazioni dei
soggetti appaltanti (art. 220) (46) ovvero quello dell'indizione di gara mediante semplici avvisi (art. 224)
(47).
Infine i Capi II, III, IV ed il Titolo II della Parte III del Codice dettano poi alcune regole ad hoc per gli
appalti nei settori speciali, derogando, in pratica, ad alcune disposizioni contenute nel codice stesso e non
oggetto di rinvio generale o speciale (48).
Da questa sommaria descrizione si evince che le direttive comunitarie e il legislatore domestico hanno
individuato dei soggetti e delle attività in riferimento ai quali il Codice necessitava di una maggiore
flessibilità e di un adattamento alle realtà eminentemente imprenditoriali nel campo dei servizi pubblici.
Da quanto detto deriva, tornando al ciclo integrato delle acque, che i soggetti gestori, siano essi ascrivibili
alla categoria delle imprese pubbliche ovvero a quella dei concessionari, sono tenuti ad applicare, con
regole flessibilizzate ed attenuate, il Codice dei contratti, o meglio alcune parti del Codice stesso, per
l'effettuazione delle procedure ad evidenza pubblica e per la stipula dei relativi contratti inerenti le attività
di acquedotto, fognatura, depurazione e smaltimento dei residui.
Ora, nonostante l'utilizzo di criteri di flessibilizzazione e di attenuazione della portata delle norme
codicistiche, è pacifico che, per quanto riguarda le Amministrazioni pubbliche operanti in quei settori
speciali, tra i quali si colloca anche quello idrico, la disciplina particolare costituisca indubbiamente un
vantaggio derivante dagli snellimenti procedurali, mentre, per quel che riguarda le società gestrici,
concessionarie di pubblico servizio, essa rappresenti, in qualche misura, un aggravio al loro modo di
agire, che risulta non certo tipico di soggetti imprenditoriali di diritto comune.
È, peraltro, evidente che l'utilizzo di quelle normative risponde ai principi di prevalenza degli aspetti
oggettivi delle attività rispetto alla natura formale dei soggetti (49) ed, in particolare, mira a tutelare
indirettamente la concorrenza che altrimenti potrebbe esser incisa da scelte del tutto privatistiche dei
soggetti societari di diritto comune, gestori, però, di pubblici servizi in regime concessorio.
In sostanza, dunque, i gestori dei servizi idrici integrati sono tenuti ad applicare in parte il Codice dei
contratti della P.A., seppur con regole flessibilizzate ed attenuate, in ragione della loro natura
imprenditoriale e della tipologia delle attività ascritta ai settori di pubblica utilità, al fine di tutelare i
principi comunitari e nazionali in tema di concorrenza (50).
7. I caratteri del governo e della gestione del servizio.
Tentando di trarre le fila del discorso sin qui condotto, si possono cercare di individuare i caratteri salienti
del governo e della gestione del servizio idrico integrato.
Un primo carattere che emerge è quello che l'utilizzo delle risorse idriche a scopi acquedottistici, fognanti
e depurativi è un settore retto dal modello di amministrazione per programmi (51).
Infatti, al di sotto delle indicazioni e direttive del Piano di bacino e dal Piano di bilancio idrico, si pongono
le misure e le norme regionali sul risparmio idrico, da un lato, e, dall'altro, i Piani d'ambito, come
strumenti attuativi dei piani sovraordinati. In particolare i Piani d'ambito devono contenere, accanto alla
ricognizione delle infrastrutture, il programma degli interventi sull'impiantistica, il programma economicofinanziario e la scelta del modello gestionale, implementato da requisiti organizzativo-funzionali.
Si tratta, com'è facile capire, di un piano costituito da prescrizioni generali sì, ma concrete che vincolano i
soggetti attuatori del piano stesso e al contempo l'autore dell'atto, ma possono anche costituire vincolo
per i gestori e per gli altri privati. Il piano, adottato dall'Autorità d'ambito, è approvato a seguito delle
verifiche, delle osservazioni, dei rilievi e delle prescrizioni vincolanti del Comitato di vigilanza sull'uso
delle risorse idriche, elemento che desta perplessità d'ordine costituzionale, salvoché non si ricostruisca
l'ATO come persona giuridica strutturalmente separata dalla Regione e dalla Provincia che prestano, per
così dire, i loro organi all'Autorità, ponendosi il medesimo problema giuridico nell'ipotesi in cui la Regione
costruisca l'ATO tramite Consorzi obbligatori di Comuni, in ragione della specialità dell'ordinamento
rispetto al suo impianto costituzionale.
Le opzioni regionali, il secondo di tali caratteri, di territorializzazione degli ambiti e le connesse scelte
relative al soggetto impersonante l'ATO, la Provincia, la Regione anche articolata per Province con
implicito coordinamento regionale, e le forme associative di Comuni, tra le quali il consorzio si pone, in
pratica, come scelta obbligata in funzione della necessità della personalità giuridica, dell'autonomia di
bilancio e della partecipazione obbligatoria dei Municipi, costituiscono, sulla base, però, di discipline
speciali derogatorie degli impianti costituzionali, il ruolo di governo dell'ambito, o meglio di quello delle
risorse idriche destinate ad usi igenico-antropoci, del sistema di captazione, adduzione, distribuzione
tramite acquedotti e di quello di allontanamento dei reflui civili e produttivi tramite fognature e di loro
depurazione (52).
Il governo di questa complessa tematica, che coinvolge aspetti impiantistici, economici e gestori, avrebbe
dovuto consigliare la costituzione di un soggetto specializzato per l'esercizio consapevole delle relative
funzioni, ma la Finanziaria 2008 ha, viceversa, scelta la via di accorpare quelle funzioni con la gestione
della Regione o delle Province rendendo così confuso con altre, pur rilevanti, attribuzioni, il governo delle
risorse ed il loro impiego acquedottistico, fognario e depurativo. Fa eccezione a questa logica l'ipotesi di
ATO costituiti da Consorzi obbligatori di Comuni, ma anche questa, in qualche modo residuale, ipotesi, è
operativamente inficiata dalla previsione di una disciplina speciale dell'esercizio delle funzioni e dalla
gratuità dei compiti d'amministrazione. Il ruolo di governo dell'ATO si presenta per molti versi debole e
tendenzialmente gestito, sia pure con la separazione giuridica tra Regione e Provincia da un lato e
dall'altro Regione-ATO e Provincia-ATO, in modo sostanzialmente despecializzato, cosa che non dovrebbe
accadere nel caso dei Consorzi, i quali, peraltro, trovano nella disposizione sulla non indennizzabilità degli
amministratori un forte disincentivo ad un governo dedicato.
Emerge, quindi, un quadro che non induce, certo, ad ipotizzare un governo consapevole e specializzato
del settore e che finirà nel tempo, e salvo che le Regioni non operino scelte parzialmente correttive, per
consegnare alla burocrazia gli aspetti sostanziali di quel governo.
Le Regioni, nel corso di una lenta attuazione della legge Galli, erano, in vigenza della normativa
contenuta prima nella L. 36/1994 e poi nel D.Lgs. 152/2006, pervenute a soluzioni della problematica
degli ATO, muovendo dal presupposto di lasciare in linea di massima agli Enti locali la scelta della
tipologia delle forme associative contemplate nel D.Lgs. 267/2000 e successive modifiche.
Per fare qualche esempio, la L.R. Lombardia 27/2003, come modificata dalla L.R. Lombardia 18/2006,
aveva previsto che le Province ed i Comuni, con l'eccezione del solo Comune della Città di Milano che fa
ATO a sé, costituiscano gli ATO nelle forme degli artt. 30 e 31 del D.Lgs. 267/2000: in esecuzione di
queste normative i Comuni e le Province hanno dato vita all'ATO attraverso lo strumento convenzionale.
In modo consimile la L.R. Liguria 43/1995 dispone all'art. 33 che la Regione indica le forme ed i modi
della cooperazione tra Enti locali ricadenti nell'ambito ed il Consiglio Regionale, cosa che ha fatto con
delibera 8 luglio 1996, n. 43, ha stabilito gli ambiti, corrispondenti alle Regioni, ed ha fissato lo strumento
della convenzione di cooperazione per la formazione degli ATO.
Al contrario la Regione Puglia, con L.R. Puglia 28/1999 come modificata con L.R. Puglia 7/2002, ha
individuato un unico ambito regionale e ha promosso la costituzione di un consorzio fra tutti gli Enti locali
pugliesi denominato S.I.I.
Come può evincersi da questi esempi le regioni avevano, pur essendo ormai mutata la disciplina con la
Finanziaria 2008, dato vita o a convenzioni tra i Municipi e la Provincia per ATO a carattere provinciale,
con il limite però della carenza di personalità giuridica, ovvero a veri e propri Consorzi, i quali dovevano
operare nei modi delle Aziende Speciali: si trattava comunque di un governo dedicato e specializzato sulla
tematica del servizio idrico integrato.
Queste esperienze sono ormai tramontate e si andrà fatalmente verso ATO assai più deboli per le ragioni
di tipo istituzionale, funzionale ed operativo sopra espresse.
Un terzo carattere che emerge è quello dell'"unitarietà" dei soggetti gestori dei servizi idrici integrati per
ciascun ambito e quello degli strumenti di regolazione del servizio medesimo.
A seguito delle scelte pianificate circa il modello gestionale, l'ATO dovrà dar vita a gare ad evidenza
pubblica tra società private (e se del caso anche società ad interessenze pubbliche) con il metodo di
aggiudicazione dell'offerta economicamente più conveniente, sulla scorta di precisi capitolati d'oneri
speciali e di atti complementari, contenenti anche le ipotesi convenzionali.
In alternativa l'ATO può affidare, dandone un'adeguata motivazione, in via diretta e senza gara, ai sensi
del comma 3 e 4 dell'art. 23-bis della L. 133/2008, la gestione a società in qualsiasi forma costituite: in
questi casi l'ATO dovrà procedere ad un'indagine di mercato ed acquisire il parere dell'Autorità garante
della concorrenza e del mercato, e delle Autorità di settore, se costituite, anche se la scelta di una società
privata appare però, per molti rispetti, del tutto teorica.
Dunque, la scelta del gestore era palesemente orientata verso società miste o pubbliche nelle
interessenze come asseveravano l'art. 14 della L. 326/2003 che in sostanza ammetteva l'affidamento in
house dei servizi come metodica ordinaria, l'art. 150 del Codice dell'ambiente che ribadiva quel principio
condizionandolo solo ad un obbligo di motivazione ed il disegno di legge delega A.S. XV Leg. n. 772 che,
mentre rilanciava il processo di aggiudicazione attraverso gare dei servizi pubblici locali, escludeva
espressamente i servizi idrici, riconoscendo, ancorché il disegno di legge sia decaduto per fine legislatura,
una sorta di specificità dei servizi di quel genere, cosa che lasciava, in una stagione di privatizzazioni, un
poco perplessi (53). Per vero la situazione è solo apparentemente mutata con l'entrata in vigore dell'art.
23-bis della L. 133/2008 che ha posto il limite del 31 dicembre 2010 agli affidamenti in house, ma, in
forza dei commi 3, 4 e 8, 2° cpv. del medesimo articolo, la realtà del settore non è cambiata, se non per
l'obbligo di una puntuale motivazione delle nuove deliberazioni di concessione in riferimento a specifici
parametri di mercato e del parere dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato e delle altre
Autorità di settore: gli affidamenti senza gara a società in house, già avviati prima dell'entrata in vigore
dell'art. 23, sono fatti salvi, ai sensi del comma 12 del medesimo articolo, a condizione che rispettino i
principi comunitari, e cioè il controllo analogo e il prevalente servizio agli Enti soci, e che siano
adeguatamente motivati in riferimento, però, ai parametri previgenti.
Chiunque sia il gestore, questi dovrà sottoscrivere una convenzione con l'ATO definente sostanzialmente
gli obblighi circa la qualità del servizio e l'impiantistica, convenzione che dovrà essere conforme ad uno
schema tipo ministeriale ed ad uno regionale, con una commistione di compiti che non favorisce certo la
chiarezza delle funzioni. Lo stesso dovrà sottoscrivere pure una convenzione con la quale gli Enti
proprietari delle reti daranno in concessione-contratto gratuita gli impianti.
Anche la novellata "unitarietà" della gestione per ciascun ambito si pone come elemento di incertezza,
poiché, pur nel contesto delle prorogate gestioni esistenti di cui all'art. 172 del Codice dell'ambiente e di
quelle in essere, è evidente che la disposizione è funzionale all'ampliamento degli ambiti, ma dovrebbe
far riferimento, ancorché nella norma del tutto implicito, all'incentivazione di una holding nel contesto di
società controllate, ovvero avrebbe dovuto chiarire le facoltà, magari affidandole alla legge regionale, di
un apposito organismo di coordinamento (54).
Il quarto carattere dei gestori del servizio idrico integrato deriva dai poteri di vigilanza e controllo del
Ministro per l'ambiente, del Comitato di vigilanza sull'uso delle risorse idriche e dell'ATO: l'insieme di quei
poteri rende i gestori assai vincolati nelle loro scelte operative, poiché gli stessi oltre ad attuare il
programma degli interventi sull'impiantistica e a gestire il servizio tariffato autoritativamente, sono tenuti
a rispettare i vincoli sulla contabilità e sui costi delle prestazioni, a patire il controllo sulle modalità di
erogazione delle prestazioni stesse, ad assicurare i livelli minimali di qualità del servizio, a subire gli
interventi dell'Autorità, le eventuali risoluzioni del contratto e la revoca degli atti di concessione, nonché,
in caso di omissioni, le azioni in danno: nel complesso si configurano sì soggetti di diritto comune, aventi
vari tipi di interessenze, ma, in quanto concessionari di pubblico servizio, vigilati e controllati nei momenti
topici della loro operatività.
A quanto già detto, si deve aggiungere che, al fine di garantire l'effettivo controllo da parte degli Enti
pubblici locali nei confronti delle società a partecipazione totalitaria pubblica è opportuno che queste
società introducano nei loro ordinamenti statutari disposizioni atte a rafforzare la loro influenza
dominante ed ad appagare le prescrizioni dell'UE. Esse, infatti, dovrebbero, per quelle finalità, inserire
negli statuti una competenza assembleare in ordine agli indirizzi strategici delle società, in modo da
chiarire, con il voto dei soci, quali linee si intendano perseguire, senza impingere nei poteri riservati
all'esecutivo (art. 2380-bis c.c.), e un organo consultivo del Consiglio di amministrazione, in
rappresentanza dei partecipanti, che vigili sulla coerenza delle scelte operative societarie con gli indirizzi
strategici medesimi (55).
Ciò significa che questo tipo di società avranno anche forme sostanzialmente doverose di riscontro
interno sulle scelte operative rispetto agli indirizzi strategici approvati dall'Assemblea dei soci, gli Enti
pubblici partecipanti al capitale sociale, delle medesime società.
A questo elemento strutturale delle società, si deve altresì aggiungere che, in virtù dell'ampliamento degli
ambiti e conseguentemente degli ATO, la formula della gestione unitaria comporterebbe, si presume con
legge regionale, o la creazione di un organismo di coordinamento tra i gestori, ovvero l'incentivazione alla
costituzione di una vera e propria holding, avente facoltà di direzione e coordinamento.
Risulta dunque che, da un lato, è stato creato un governo regionale o locale tendenzialmente debole sotto
il profilo funzionale del settore, dall'altro è stata data vita a poteri forti centrali, e, dall'altro ancora, sono
stati delineati soggetti gestori potenzialmente non capaci di agire in spazi operativi, viceversa, propri
delle normali società di diritto comune, perché vincolati da un sistema penetrante di pianificazione, di
convenzioni, di tariffazioni e di vigilanza e controllo.
Le società gestrici in concessione del servizio idrico integrato incontrano, altresì, ulteriori elementi di
vincolo nella disciplina dei contratti pubblici.
In pratica il legislatore del D.Lgs. 163/2006 e s.m. ha voluto dettare una disciplina particolare per gli
appalti ed i relativi contratti inerenti le attività coinvolte nei settori speciali, ma così facendo ha imposto
alle società gestrici del servizio idrico integrato, concessionarie di pubblico servizio, di applicare quelle
disposizioni, siano esse società totalitariamente pubbliche, società ad interessenze miste, ascrivibili alla
categoria delle imprese pubbliche, ovvero società private o società miste, a maggioranza privata, ma
ricomprese nel novero dei soggetti tenuti all'applicazione di una parte del Codice dei contratti, in quanto
appunto concessionari di pubblici servizi.
Lo scopo della disciplina, di ovvia derivazione comunitaria, è quello di vincolare i gestori a regole a tutela
della concorrenza in un campo, quello dei servizi pubblici, che altrimenti dovrebbe essere gestito da
Amministrazioni pubbliche.
Pur tuttavia, ancorché il legislatore abbia flessibilizzata ed attenuata la disciplina dei contratti, in
relazione alla natura imprenditoriale dei gestori ed all'oggetto delle attività, resta comunque il dato che
soggetti di diritto comune sono gravati dal vincolo del rispetto di norme, la cui origine e la cui ratio si
appalesano tipiche di pubbliche amministrazioni.
Cercando di formulare una sintetica conclusione può dirsi che il sistema creato, al di là dei dubbi circa la
sua coerenza con la Costituzione (56), appare esser imperniato su enti di governo connotati da discipline
speciali rispetto ai soggetti contenitori e da caratteri di debolezza istituzionale, gli ATO-Regione e gli ATOProvincia, o di debolezza funzionale, gli ATO-Consorzi, a causa della non indennizzabilità delle funzioni
degli amministratori (57), cose tutte che finiranno per consegnare, nella sostanza, la gestione di quel
governo alla dirigenza, senza le doverose intermediazioni politiche. È evidente che, ad esempio, i Piani
d'ambito, fondamentale strumento di governo del settore, saranno approvati dai Consigli Regionali o da
quelli Provinciali come provvedimenti di un Ente, l'ATO, separato dalla Regione o dalla Provincia ed avente
una disciplina speciale, nonché i cui consiglieri finiranno per dedicare un'attenzione minore di quella per i
problemi propri degli Enti esponenziali; anche nel caso di organi di Consorzi, il disincentivo economico
finirà per determinare problemi funzionali. Nella migliore delle ipotesi i Piani saranno oggetto di una sorta
di ratifica di quanto elaborato dalla dirigenza, con l'aggravante che essi saranno sottoposti ad un controllo
di merito da parte di un organo ministeriale.
Accanto ai tratti di debolezza del governo di ambito si pongono, viceversa, i poteri forti del Ministro
dell'ambiente e del Comitato di vigilanza sull'uso delle risorse idriche, cosa che, al di là di problemi di
accentramento, crea situazioni di ulteriore non agibilità nell'esercizio delle funzioni proprie da parte degli
ATO.
Anche per ciò che concerne i gestori del servizio, società di diritto comune, il sistema dei vincoli derivanti
dalla pianificazione, dal convenzionamento, dalla tariffazione, dai controlli e dagli obblighi di rispetto del
Codice dei contratti pubblici tende a configurare quei soggetti come operanti, a loro volta, in un regime
speciale e con spazi di autonomia privata assai limitati, di talché saremmo in presenza di società sì, ma i
cui metabolismi, a livello delle determinazioni più significative, saranno regolati da disposizioni di diritto
speciale e con un forte segno centralistico (58), nonché con forme di riscontri interni alle stesse società e,
presumibilmente, di coordinamenti per ambito (59).
Ma per ciò che riguarda i soggetti gestori, almeno una Regione, la Lombardia, ha optato per una
soluzione per vero anticipatoria dell'art. 23-bis della L. 133/2008 che stabilisce, al comma 5, che le reti
devono restare, ancorché gestite da privati, di proprietà pubblica, in modo da garantire a tutti gli
operatori del servizio stesso l'accesso all'impiantistica e, al comma 2, che devono esser effettuate gare
per l'attribuzione del servizio (60).
La L.R. Lombardia 26/2003 e s.m., ma soprattutto il regolamento 4/2005 stabiliscono una netta
separazione tra il soggetto societario gestore delle reti (art. 49 L.R. Lombardia 18/2006), date in
concessione gratuita dai Comuni, a capitale interamente pubblico ed unico per ciascun ambito e quello
erogatore dei servizi [art. 1 lett. a) Reg.] scelto mediante gara ad evidenza pubblica. Spettano al primo
tipo di società tutti gli investimenti strutturali relativi agli impianti, mentre al secondo pertengono, oltre
all'erogazione del servizio, le manutenzioni ordinarie delle reti stesse (art. 3, comma 2, e 3, Reg.).
Si direbbe che la soluzione lombarda sia funzione della scelta regionale di attenuare la portata
dell'ipotesi, previamente vigente, dell'unità delle gestioni, in vista dell'affidamento del servizio idrico
anche ad una pluralità di erogatori, sempre ché l'ATO possa sostenere quella opzione con adeguate
ragioni di efficacia, efficienza ed economicità (art. 4 Reg.) e si coniughi, oggi, con l'unitarietà prevista dal
D.Lgs. 4/2008 (61).
Dando per scontata la logica della scelta, a sommesso avviso di chi scrive, pare che quella soluzione
comporti, accanto all'indubbio pregio di consentire l'accesso all'impiantistica ad una pluralità di gestori del
servizio e di non far gravare completamente sulla tariffa i costi di investimento infrastrutturale, anche
alcune complicazioni ineludibili (62). La prima e la più ovvia concerne il dato che gli interventi, che
eccedono la manutenzione ordinaria, sono di competenza della società patrimoniale la quale, ancorché gli
stessi siano previsti dal Piano d'ambito, potrebbe, in linea teorica, sia rallentarli nella loro effettuazione,
che realizzarli senza i necessari coordinamenti con l'erogatore. La seconda riguarda, invece, la natura
materiale del bene utilizzato che, essendo un fluido, può creare problematiche operative nel caso di una
pluralità di erogatori, specie per ciò che concerne il corretto funzionamento dei depuratori (63).
È però, del tutto scontato che tali aspetti critici del sistema lombardo non si diano nel caso in cui la
società patrimoniale e la società erogatrice siano controllate attraverso una holding od attraverso gli
assetti proprietari dai medesimi Enti locali, in modo da avere politiche di investimento e di gestione del
servizio del tutto coerentizzate e coordinate (64).
Al di là, dunque, delle soluzioni regionali, ne risulta, in linea più generale, un settore retto sì da una
programmazione locale, ma connotato, per un verso, da poteri forti di vigilanza e controllo da parte di
Autorità governative, da ATO sostanzialmente indeboliti nella loro funzionalità ed operatività ed, in
pratica, consegnati alle scelte di una dirigenza avente i consueti limiti della burocrazia, e, per altro verso
ancora, da società gestrici del servizio idrico integrato, sì teoricamente di diritto comune, ma aventi spazi
di agibilità assai limitati dall'incidenza della pianificazione, delle convenzioni, delle tariffazioni e degli
interventi di vigilanza e controllo sia degli organi ministeriali che degli stessi ATO, che, infine, tenuti
all'applicazione del Codice dei contratti pubblici e sottoposti a doverose forme di riscontro interno e di
eventuale coordinamento fra loro.
Il futuro delle acque, utilizzate per scopi igienico-antropici, si atteggia, quindi, come assai complesso,
perplesso e difficoltoso (65), talché si potrebbe affermare che esso sia "inquinato" da normative non
certo idonee e adeguate al governo ed alla gestione di un settore così importante e delicato.
In attesa di eventuali ed auspicabili aggiustamenti delle normative nazionali, cosa possono fare le
Regioni, fruendo della competenza concorrente in tema di valorizzazione dei beni ambientali, ex comma 3
dell'art. 117 Cost., di quella esclusiva in materia di acquedotti, fognature e depuratori, in forza del
comma 4 del medesimo articolo, e delle funzioni loro attribuite dal D.Lgs. 152/2006 e s.m.?
In primo luogo, esse devono sciogliere il nodo relativo ad una gestione specializzata e dedicata del
governo del sistema idrico integrato e, stante la previsione del comma 38 dell'art. 2 della Finanziaria
2008, lo potrebbero fare dando agli ATO una configurazione di consorzi obbligatori tra Municipi a scala
tendenzialmente provinciale e coinvolgendo anche l'Ente Provincia, ovvero creando un'Autorità regionale
capace di fornire gli indirizzi strategici e articolando la gestione operativa del servizio su sub-ATO
provinciali o inter-provinciali.
In tal modo si darebbe vita ad un soggetto, dotato di personalità e di proprio bilancio, capace di fornire al
sistema idrico integrato un governo idoneo a dominare consapevolmente i complessi e delicati temi
affidati alle sue competenze. Resterebbe, per vero, da risolvere la problematica dell'indennizzabilità delle
funzioni per gli amministratori dell'ATO, cosa non impossibile data la palese incostituzionalità, per
disparità di trattamento, della norma che prevede la gratuità delle funzioni stesse.
In secondo luogo, le Regioni, devono agire sulle due tematiche connesse, quelle delle concessioni di
derivazione e quelle delle tariffazioni dei diversi usi delle acque: è ben vero che il comma 3 dell'art. 154
del D.Lgs. 152/2006 dice che è di competenza ministeriale la fissazione dei criteri generali per la
determinazione dei canoni e che la lett. b del comma 4 dell'art. 2 del D.Lgs. 4/2008 stabilisce
l'attribuzione al Ministro dell'ambiente dell'individuazione del metodo tariffario, ma non è men vero che le
Regioni e gli ATO possano determinare, all'interno di quelle griglie, metodiche per la fissazione dei canoni
concessori e delle tariffe, calcolando in esse anche la remunerazione del capitale investito in interventi
infrastrutturali al netto di contribuzioni di origine pubblica, in modo da adeguarle alle effettive esigenze
economiche del settore.
Infine, la legislazione regionale può porre in essere norme, che nei limiti dei principi fondamentali della
materia, forniscano un maggior tasso di concorrenzialità tra gli operatori economici sia pubblici che privati
in vista dell'accesso, tramite gare, alla gestione del servizio idrico integrato ed, al contempo, rendere più
rigide le discipline concernenti gli eventuali affidamenti, ancora ammessi in base al comma 3 dell'art. 23bis della L. 133/2008, di tipo diretto e, quindi, senza gara (66).
Vi sarebbero poi tre tematiche, apparentemente di minor caratura, da sciogliere a cura della legislazione
regionale: la prima attiene al tema dell'unitarietà dei gestori dei servizi, la seconda riguarda il controllo
sulle società totalitariamente pubbliche ed il terzo concerne il coacervo di attribuzioni del Comitato per la
vigilanza sull'uso delle risorse idriche.
Venendo alla prima tematica, la legge regionale dovrebbe stabilire metodiche di coordinamento tra le
diverse società gestrici ovvero forme di incentivazione alla costituzione di una holding dotata,
ovviamente, di poteri di direttiva e coordinamento sulle partecipate (art. 2497 c.c.) (67).
Passando alla seconda tematica, il legislatore regionale potrebbe stabilire, in riferimento alle
partecipazioni azionarie degli Enti locali, che le società a proprietà pubblica debbano inserire nei loro
statuti norme sulla fissazione degli indirizzi strategici da parte dell'Assemblea dei soci e sulla creazione di
un organo, in rappresentanza dei partecipanti al capitale sociale, di verifica tra l'operatività dell'esecutivo
e gli indirizzi strategici stessi.
Da ultimo si pone il tema dei poteri del Comitato, introdotti con il D.Lgs. 4/2008, che, per un verso,
creano un sistema eccessivamente accentrato, in contrasto con il comma 1 dell'art. 118 Cost. che vuole
che la distribuzione delle funzioni tra i diversi livelli di governo sia improntata ai principi di sussidiarietà,
differenziazione e adeguatezza, e, dall'altro, impongono alle società di diritto comune, concessionarie di
pubblico servizio, un regime speciale che limita in modo eccessivo e pervasivo la loro funzionalità. In
ordine a quel nodo le Regioni, oltre ad impugnare le disposizioni in esame in Corte Costituzionale,
potrebbero dar vita ad una legislazione che attribuisca al livello regionale ed all'ATO solo alcune ed
essenzialissime tipologie di riscontri sull'operato dei concessionari del pubblico servizio idrico.
In tal modo, quindi, il livello regionale potrebbe mettere ordine, semplificare e snellire in modo
significativo il governo e la gestione del servizio idrico integrato.
NOTE
(1) Per una valutazione assai critica del D.Lgs. 152/2006, si rinvia a P. DELL'ANNO, La gestione
dell'ambiente ed il ruolo delle Pubbliche amministrazioni. Nuovi modelli organizzativi e controriforme nella
prospettiva di un Ministero superdotato, in ICEF, L'effettività del diritto all'ambiente in Italia, Pavia 2007,
pp. 61 e ss. Si rinvia altresì a R. CERRUTO, Codice ambientale annotato, in http://www.ambiente.diritto.it/
dottrina/dottrina_2008/ appendice/cerruto.idf ed a G. DIGASPARE, La gestione delle risorse idriche nel
decreto legislativo 152/2006, in Amm. in cammino, 2008, p. 1 e ss. Si veda altresì L.O. ATZORI, Il T.U.
dell'ambiente: commento al D.Lgs. 3 aprile 2006 n. 152, Napoli, 2006, p. 278 e ss., L. TRAMONTANO, Il
nuovo T.U. sull'ambiente, Macerata, 2006, pp. 500 e ss. e F. GIAMPIETRO, Commento al testo unico
ambientale, Milano, 2006, pp. 99 ss.
(2) Sulla tematica del piano di bacino, si rinvia a A. FIORITTO, Servizi idrici, in Trattato di diritto
amministrativo, Dir. Amm. Speciale, tomo III a cura di S. CASSESE, Milano 2003, pp. 2528 e ss. e a S.
BURCHI, Il diritto e l'amministrazione delle acque, Padova, 1995, pp. 34 e ss., nonché ad A. LUCARELLI,
Suolo e bacini idrografici: il caso italiano, in Econ. pubbl. 1994, p. 437 e ss. ed a G. POLIANDRI, I piani
delle Autorità di Bacino per la prevenzione e tutela dei rischi idrogeologici, in Dir. e giur. agraria e
dell'ambiente, 2002, pp. 485 e ss.
(3) Si legga, per un cenno in punto, G. ARDIZZONE-M. CHITI, Qualità e risparmi idrici, in Ecologia, econ.
tecnologia e dir., 1997, pp. 18 e ss.
(4) Sul tema del Piano d'ambito si leggano le indicazioni di A. FIORITTO, Servizi idrici, cit., pp. 2537 e ss. e
di P. ALBERTI, Organizzazione del servizio idrico integrato e forme di gestione: i rapporti tra Stato, Regioni
ed Enti locali, in Econ. Dir. terz., 1995, pp. 151 e ss.
(5) Sui contenuti specifici del Piano d'ambito si rinvia a D. SABATO-C. GRECO, La riforma dei servizi idrici:
Piani d'ambito, tariffe e norme di attuazione, Potenza, 2001, pp. 117 e ss., a R. DRUSIANI, Manuale del
Piano d'ambito per il servizio idrico integrato, Bari, 1998, passim, ed a A. BONANNI, Riorganizzazione del
servizio idrico integrato, Milano, 2004, pp. 92 e ss. Per una sintetica valutazione, cfr. F. GIAMPIETRO, cit.,
pp. 100 e ss.
(6) La tematica è stata di recente novellata dalla Finanziaria 2008 e dal D.Lgs. 4/2008 e pertanto non
sussistono fonti bibliografiche significative, cfr. ad esempio C. NOCERA, La Finanziaria 2008, Novecento
Media, 2008, passim. Tuttavia la parallela, organi a parte, previsione dell'art. 149 del Codice
dell'ambiente aveva trovato una sua ricostruzione, ancorché non molto critica, in R. DRUSIANI, cit., pp. 89
e ss.
(7) Sul tema dei controlli, dopo la riforma del Titolo V, si legga in generale P. VIRGA, L'Amministrazione
locale, Milano, 2003, pp. 194 e ss. e G. SCIULLO, Il controllo sugli enti locali e la riforma costituzionale, in
Giorn. dir. amm., 2002, pp. 899 e ss. La tesi di Virga, sull'introducubilità a cura rispettivamente delle
leggi nazionali e regionali, di controlli, si scontra, per vero, con la ratio abrogativa dell'art. 130 Cost. e
con il disposto del comma 2 dell'art. 114 Cost. che delinea l'autonomia degli Enti territoriali secondo "... i
principi fissati dalla Costituzione": ne deriva dunque l'illegittimità costituzionale di nuovi controlli.
(8) In ordine alla pubblicità di tutte le acque cfr. A. TARSIADIBELMONTE, Il contenuto giuridico della
pubblicità delle acque affermato dalla L. 36/1994, in Rass. Avv. Dello Stato, 1996, I, pp. 210 e ss. e S.
PALAZZOLO, Il regime delle acque pubbliche, in Rass. Giur. energia elettrica, 2000, pp. 289 e ss. Si legga
altresì, per un'impostazione di taglio prevalentemente civilistico, F. CAZZAGON, Le acque pubbliche nel
codice dell'ambiente, in questa Rivista, 2007, pp. 435 e ss. e, per un riferimento alla disciplina
previgente, R. JANNOTTA, Acque pubbliche, in Dig. Disc. Pubbl., vol. I, pp. 51 e ss., nonché S. PALAZZOLO,
Acque pubbliche, voce in Enc. dir., vol. IV aggiornamento, pp. 34 ss.
(9) Si legga M. P. GIRACCA, Le risorse idriche alla luce dei principi generali della legge Galli, in Giust. Civ.,
2003, 7/8 pt. 2°, pp. 337 e ss. e A. GERMANO, La proprietà delle acque secondo la L. 36/1994 in materia
di risorse idriche, in Dir. agricolt., 1997, p. 29 e ss.
(10) Cfr. F. BRUNO, Aspetti privatistici della nuova normativa sulle acque, in Riv. dir. agr., 1999, p. 11 e
ss.
(11) In punto si rinvia a F. BRUNO, La Corte Costituzionale di fronte alla pubblicità di "tutte" le acque, in
Rass. Giur. energia, 1997, pp. 115 e ss. e A. GRATANI, Recenti sviluppi giurisprudenziali in materia di
acque, in questa Rivista, 2000, pp. 1007 e ss.
(12) Si legga F.C. RAMPULLA-L.P. TRONCONI, Il modello di amministrazione delle acque, in questa Rivista,
2005, pp. 756 e ss.
(13) Si rammenta che, a norma dell'art. 4 del D.P.R. 327/2004, i beni appartenenti al demanio non sono
espropriabili sino a quando non ne venga disposta la sdemanializzazione, mentre sono espropriabili quelli
del patrimonio disponibile nel caso in cui sia riconosciuto che l'interesse pubblico perseguito sia superiore
alla precedente destinazione, cfr. F. CARINGELLA e A.A., L'espropriazione per pubblica utilità. Commento al
T.U. emanato con D.P.R. 30 giugno 2001 n. 327, Milano, 2003, passim. Di conseguenza l'eventuale
esproprio di acque appartenenti ad altri Enti pubblici è funzione del titolo giuridico di appartenenza e delle
vicende amministrative concernenti i beni di soggetti diversi dallo Stato. Si legga in punto B. VALLI, Le
risorse sono mie e le gestisco io, in Le Province, 1998, pp. 26 e ss.
(14) Sulla tematica concessoria si legga, in particolare, R. JANNOTTA, cit., pp. 65 ss. Per un esempio di
canoni concessori relativi agli usi idrico-igienici delle acque, si veda il D.P.G.R. Lombardia n. 8/5775 del
31 ottobre 2007, pubblicato sul B.U.R.L. del 12 novembre 2007, n. 46.
(15) Cfr. V. CAPUTIJAMBRENGHI, Beni pubblici e di interesse pubblico, in Diritto Amministrativo, Bologna,
2005, a cura di L. MAZZAROLLI e A.A., vol. II pp. 179 e ss, R. BAZZANI, I beni patrimoniali delle aziende di
servizi pubblici con particolare riguardo agli acquedotti, in La Fin. Loc., 1999, pp. 1499 e ss. e V.
CERULLIIRELLI, Acque pubbliche, in Enc. giur. Treccani, vol. I e N. LUGARESI-F. MASTRAGOSTINO, La disciplina
delle risorse idriche, Rimini, 2003, passim. Cfr. altresì M.A. LORIZIO, Acquedotti e canali demaniali, in Dig.
Disc. Pubbl., vol. I, pp. 72 ss.
(16) Valga l'esempio dei commi 1 degli artt. 86 e 89 del D.Lgs. 112/1998 in tema di concessioni di acque,
cfr. S. CIVITARESEMATTEUCCI, Commento all'art. 86, in Le Regioni, 1998, p. 753, che intestano i poteri
relativi alle Regioni.
(17) Per una sintetica valutazione di questi profili si rinvia ad A. BONANNI-M. GASTALDI-C. ROCCA,
Riorganizzazione e gestione del servizio idrico integrato, Milano, 2003, pp. 75 e ss.
(18) Cfr. G. FRAQUELLI-P. FABRI, La funzione di costo nel servizio idrico, Torino, 1996, passim e, più in
generale, M. COLUCCI-F.C. RAMPULLA-R. ROBECCHIMAJNARDI, Piani e provvedimenti nel passaggio
dall'amministrazione al governo delle acque, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 1974, pp. 1284 e ss. i quali
avanzano una teoria critica della impostazione classica degli usi riportata ad esempio da P. VIRGA, Diritto
amministrativo, Milano, 2000, vol. I, pp. 252 e ss. Va comunque evidenziato che le derivazioni d'acqua
per i diversi usi dovevano esser sottoposte ad un canone concessorio, a norma ad esempio degli artt. 7 e
30 del T.U. 1775/1933.
(19) Si legga in punto F. GUARNERI-A. ROSCI, In materia di risorse idriche. Considerazioni sulla L. 5 gennaio
1994, n. 36 con particolare riferimento ai servizi idrici, in Nuova Rass. leg. dottr. e giur., 1995, pp. 1150
e AUTORITÀ DI VIGILANZA SULLE RISORSE IDRICHE ED I RIFIUTI, Relazione annuale al Parlamento, anno 2005. Cfr.
altresì N. NITTI, Acque pubbliche e private nella riforma del codice ambientale, in Nuova Rass. leg. dottr.
e giur. 2006, pp. 2299 e ss.
(20) Si rinvia alle osservazioni, nel contesto però della previgente disciplina, di S. GUARNIERI-A. ROSCI, In
materia di risorse idriche..., cit., pp. 1150 e ss. ed, in riferimento alla disciplina del Codice, M.G.
ROVERSIMONACO, I caratteri delle gestioni in house, in Gior. Dir. Amm., 2006, pp. 1371 e ss., nonché F.
GIAMPIETRO, cit., p. 103.
(21) Cfr. V. ITALIA ed A.A., Consorzi ed aziende speciali, Milano, 1992, passim, M. COSCO, I nuovi consorzi
fra gli enti locali, Gorle, 1997, e F. ROMANO, I consorzi, Roma, 2000; sulle Unioni si rinvia a L. VANDELLI-F.
MASTRAGOSTINO, I comuni e le Province, Bologna, 1998, pp. 100 e ss. ed a L. VANDELLI, Il sistema delle
autonomie locali, Bologna, 2005, pp. 67 e ss.
(22) Per una impostazione similare, pur nel contesto della previgente normativa, si legga A. CARULLO,
Prime riflessioni sul gestore del servizio idrico integrato, in Dir. Enc., 1995, pp. 87 e ss.
(23) In tema si legga L. GUFFANTI-M. MERELLI, La riforma dei servizi idrici in Italia: riflessioni e spunti
comparativi, Milano, 1997, pp. 134 e ss. e F. BELLANTE, Il riassetto organizzativo-gestionale dei servizi
idrici, Roma, 2005, pp. 47 e ss.
(24) Per una valutazione di tale norma si rinvia a G. BUTTI-M. CHILOSI, Servizi pubblici locali e gestione
idrica: commento al nuovo art. 113 con particolare riguardo al servizio idrico integrato, Milano, 2002, Il
Sole 24 ore, passim e più in generale a G. CAIA, Servizi pubblici, in Diritto Amministrativo, a cura di L.
MAZZAROLLI e A.A. Bologna, 2005, vol. II, pp. 168 e ss. e G. CAIA, Le società a prevalente capitale
pubblico come forma organizzativa di cooperazione tra Comuni, in Il Foro amm., 2002, pp. 1232 ss.
(25) Sul tema si rinvia a G. MURARO-P. VALBONESI, I servizi idrici tra mercato e regole, Roma, 2003, pp. 38
e ss. e a R. DRUSIANI, Considerazione sulle gare con particolare riferimento al servizio idrico integrato, in
Serv. Pubbl. Appal., 2006.
(26) Sulla tipologia di gara, prevista dal nuovo Codice dei contratti della p.a., si rinvia a M. C. COLOMBOF.C. RAMPULLA-A. CELLA-O. RAHO-L. TRONCONI, Primi commenti al Codice dei contratti pubblici di lavori,
servizi e forniture, Bergamo, 2006, pp. 200 e ss. ed a M. SANINO, Commento al Codice dei contratti
pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, Torino, 2000, pp. 339 e ss., nonché a P. DELISE, Commento al
Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, Torino, 2006, pp. 339 e ss.
(27) Cfr. E. SCOTTI, Brevi considerazioni sulla scelta del socio di società mista a partecipazione pubblica
maggioritaria, in Il Foro amm., 2002, pp. 415 ss., N. PARIS, La disciplina delle società per azioni con
partecipazione pubblica minoritaria, in Nuova Rass. Leg. Dott. Giuris., 2001, pp. 218 ss. ed A. GRAZIANO,
La scelta dei soci privati nelle società di capitali pubblici: il Consiglio di Stato colma un'apparente lacuna
normativa, in Il Foro amm., 1998, pp. 2098 ss.
(28) Cfr., in tema di affidamenti in house, F. GAVERINI, Servizi pubblici in house: dall'eccezione alla regola
in recenti interventi legislativi, in Serv. Pubbl. Appal., 2004, pp. 729 e ss., A. FIORITTO, I servizi idrici a
dieci anni dalla riforma, in Giur. dir. amm., 2004, pp. 686 e ss. e più in generale, M. COLOMBO-F.C.
RAMPUULLA-L.P. TRONCONI, I modelli di amministrazione nell'evoluzione dei caratteri funzionali dell'azione
pubblica, Rimini, 2006, pp. 161 e ss. Cfr. altresì G. AMBROSETTI-M.E. CONTI, Servizio idrico integrato, in
Enti Pubbl., 1999, pp. 393 e ss., M.G. ROVERSIMONACO, I caratteri delle gestioni di house, cit. pp. 1371 e
ss. e L. TILOCCA, Organizzazione e gestione del servizio idrico integrato, in L'Amm. It., 2006, pp. 1509 e
ss.
(29) L'affidamento di pubblici servizi a terzi, poco rileva se a società private o a partecipazione pubblica,
comporta, per principi di diritto amministrativo, la concessione. Si legga in punto A. QUIETI, Servizi
pubblici: rilevanza e limiti, in L'Amm. It., 2001, I, pp. 1843 e ss. e D. SORACE, I servizi pubblici, in
Ammin., 2001, pp. 385 ss. L'ordinamento però conosce anche altre forme di attribuzione quali le
autorizzazioni e gli atti pattizzi, i quali sono, comunque, espressamente previsti dalle norme in punto, cfr.
M.C. COLOMBO-F.C. RAMPULLA, L. TRONCONI, cit., pp. 155 ss.
(30) Circa la natura ormai meramente contrattuale dei capitolati, cfr. P. DELISE, cit., pp. 28 e ss. e M.
SANINO, cit., pp. 59 e ss.
(31) In ordine alle convenzioni tra ATO e gestori si legga PROAQUA, Convenzione tipo per regolare i
rapporti fra l'ente di ambito ed il gestore idrico integrato, Roma, 1996, pp. 6 e ss.
(32) Sul tema tariffario cfr. D. SABATO-C. GRECO, La riforma dei servizi idrici: Piani d'ambito, tariffe e
norme di attuazione, Potenza, 2001 e A. MASSARUTTO, Le tariffe dei servizi idrici in Italia, in Econ., fonti
energ. e ambiente, fasc. 2, 1998, pp. 29 e ss. In particolare si legga, per una serie di spunti critici e
ricostruttivi di ampio respiro, M. FRACANZANI, L'ambiente:tra tutela e (necessario) profitto nel D.Lgs.
152/2006, in questa Rivista, 2007, pp. 187 e ss. In ordine al bilancio dei soggetti gestori, cfr. B. DEI-M.
PASSARELLI, I principi contabili del bilancio delle aziende del servizio idrico integrato, Milano, 1998, passim.
(33) Si rammenta che il D.Lgs. 112/1998 aveva attribuito alle Regioni le competenze in materia di
concessioni di derivazione.
(34) Per un commento si legga P. ALBERTI, cit. pp. 151 e ss. ed L. O. ATZORI, cit., pp. 283 e ss.
(35) Per una valutazione dei poteri di vigilanza e controllo, cfr. A. CARULLO, Prime riflessioni sul gestore del
servizio idrico integrato, in Dir. Ec., 1995, pp. 87 e ss. e N. GRECO, Il governo delle acque e del territorio,
in Rass. giur. elettr., 1996, pp. 13 e ss. Più in generale si legga U. POTOSCHING-E. FERRARI, Commentario
alle disposizioni in materia di risorse idriche, Padova, 2002, passim e G. BOTTINO, Servizi idrici:
acquedotti, fognature, depurazione, inquinamento, controlli e responsabilità, Milano, 2002, passim.
(36) Valga il caso del comma 1, lett. a) dell'art. 89 del D.Lgs. 112/1998, cfr. P. URBANI, Commento all'art.
89, in Le Regioni, 1998, p. 768 e ss.
(37) Per una valutazione dell'articolo in esame, si legga P. DELISE, cit., pp. 505 e ss., M. SANINO,
Commento al codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, cit. pp. 611 e ss., C.
FRANCHINI, Contratti con la Pubblica amministrazione, Milano, 2007, pp. 901 e ss., D. IELO-R. ROTELLI,
Codice dei contratti pubblici, Milano, 2007, pp. 1764 e ss.Si legga da ultimo M.A. SANDULLI e A.A., Trattato
sui contratti pubblici, vol. V, I settori speciali, Milano, 2008, passim.
(38) Cfr. V. BLANDA, Il potere di nomina degli amministratori nelle società a capitale pubblico, in Amm.
Civ., 2000, pp. 68 e ss.
(39) Per una ricostruzione critica del concetto di impresa pubblica, si rinvia a F. PATRONIGRIFFI, Le nozioni
comunitarie di amministrazione: organismo di diritto pubblico, impresa pubblica e società in house,
Relazione tenuta a Roma il 24 novembre 2005 in occasione della presentazione del volume Il nuovo
diritto degli appalti pubblici, a cura di R. GAROFOLI-M.A. SANDULLI, Milano, 2006 e D. IELO-R. ROTELLI, cit.,
pp. 1779 e ss.
(40) Cfr. G. BUTTI-M. CHILOSI, cit., pp. 34 e ss., D. SORACE, I servizi pubblici, cit., pp. 385 e ss., e V.
MARTELLI, Servizi pubblici locali e società per azioni, Milano, 1997, pp. 70 e ss. Si leggano, per i vincoli
derivanti dall'U.E., le conclusioni dell'avvocato generale V. TRSTENJAK nella causa C-324/07 pronunciate il 4
giugno 2008 dinanzi alla Corte di Giustizia.
(41) Si rinvia ancora a F. PATRONIGRIFFI, cit., passim.
(42) In relazione all'effetto sostanzialmente concessorio anche di atti pattizzi, si legga M.C. COLOMBO-L.
TRONCONI-F.C. RAMPULLA, cit., pp. 176 ss.
(43) Per un sintetico esame delle disposizioni citate nel testo, si rinvia a P. DELISE, cit., pp. 505 e ss. e pp.
528 ss., e a M. SANINO, cit., pp. 616 ss.
(44) Si legga in proposito P. DELISE, cit., p. 511, M. SANINO, cit., p. 626 e D. IELO-R. ROTELLI, cit., p. 1825.
(45) Cfr. P. DELISE, cit., p. 511, M. SANINO, cit., p. 626 e D. IELO-R. ROTELLI, cit., p. 1825.
(46) Si rinvia ancora a P. DELISE, cit., p. 504 e a D. IELO-R. ROTELLI, cit., p. 1922.
(47) Si rinvia a P. DELISE, cit., p. 548, M. SANINO, cit., p. 626 e D. IELO-R. ROTELLI, cit., pp. 1982 e ss.
(48) Per un commento a queste norme del Codice, si veda P. DELISE, cit., pp. 518-573 e D. IELO-R.
ROTELLI, cit., p. 1925 e ss. Per quanto concerne gli snellimenti e le flessibilizzazioni delle procedure ad
evidenza pubblica valga il caso del comma 4 dell'art. 223 che permette la riduzione del numero dei
candidati in relazione alle caratteristiche particolari dell'appalto, nell'ipotesi di procedure ristrette o
negoziate.
(49) Cfr. in punto P. DELISE, cit., p. 503.
(50) Si leggano in punto le osservazioni di M. SANINO, cit., p. 613 e D. IELO-R. ROTELLI, cit., pp. 1761 ss.,
i quali però osservano che il comma 3 dell'art. 206 è dominato, potendosi altresì applicare in via
facoltativa le disposizioni alla cui osservanza i soggetti non sono tenuti, dal principio di proporzionalità,
ma non colgono che la vera ratio del Codice mira, in realtà, a tutelare la concorrenza nel settore degli
appalti propri dell'utilità pubblica, qualsiasi siano i gestori dei servizi.
(51) Sulla tematica dell'amministrazione per programmi si rinvia a M.C. COLOMBO-F.C. RAMPULLA-L.
TRONCONI, cit., pp. 17 e ss.
(52) La notazione che nel Codice dell'ambiente non esiste una definizione di servizio idrico integrato si
deve a P. DELL'ANNO, cit., pp. 61 ss.
(53) Cfr. in punto A. SENTA, Il servizio idrico in Italia tra privato ed una concezione aperta di pubblico, in
http://ecologiasociale.org/pg/acquasenta:html, 2008, G. SIRIANNI, I servizi idrici tra programmazione e
mercato, in Amm. in cammino, 2008 pp. 12-13 e a L. TILOCCA, cit., pp. 1509 e ss.
(54) Si rinvia alle notazioni di M. LUCHETTI, L'organizzazione del servizio idrico integrato, secondo l'art.
113 del D.Lgs. 267/2000: alcune riflessioni, in http://www.ambientediritto.it/dottrina/
servizi_pubblici_locali. html, 2008 e a DRUSIANI, Il mercato idrico in Italia: la situazione delle gare e degli
affidamenti, in Astrid Rassegna, 2006, 1.
(55) Sul punto del controllo equivalente di cui all'abrogato art. 113 del D.Lgs. 267/2000 e s.m., si rinvia
alle sentenze del Consiglio di Stato 4440/2006 e dei T.A.R. Friuli-Venezia Giulia 634/2005 e Lombardia
1250/2006 nonché a quelle della Corte di Giustizia 6 aprile e 11 maggio 2006, citate da G. GUZZO,
Affidamenti in house: controllo analogo, in www.lexitalia.it Sulla tematica si legga soprattutto M.G.
ROVERSIMONACO, cit., p. 1377 la quale sostiene che una soluzione potrebbe esser quella di prevedere, in
sede statutaria, particolari poteri in capo all'assemblea di ambito. La tesi, per quanto interessante, è però
vanificata dalle previsioni del comma 38 dell'art. 2 della L. 244/2007 che ha rivoluzionati gli ATO e mal si
presterebbe ad una convivenza col diritto societario, in quanto attribuirebbe ad un'entità estranea poteri
di natura societaria. Il risultato può esser, dunque, conseguito o attraverso opportuni patti parasociali
ovvero mediante la soluzione proposta nel testo.
(56) Per un elenco delle possibili ipotesi di incostituzionalità, cfr. P. DELL'ANNO, cit., pp. 63-64 e, più in
generale, R. CHIEPPA, L'ambiente nel nuovo ordinamento costituzionale, in Urb. ed Appalt., 2002, pp.
1245 e ss. Sostiene l'incostituzionalità del metodo di determinazione della definizione delle tariffe, in
riferimento al comma 4 dell'art. 117 Cost., M. FRACANZANI, cit., p. 193, pure alla luce dei motivi di
impugnativa costituzionale della Regione Emilia-Romagna.
(57) La disposizione è però affetta da palese incostituzionalità, per disparità di trattamento, in quanto gli
amministratori dell'unica forma consortile consentita tra Comuni, prevista dal comma 28 dell'art. 2 della
finanziaria 2008, possono percepire indennità di carica, sia pure nella misura assai contenuta di cui al
comma 25 del ricordato art. 2, mentre gli amministratori degli ATO-forme associative non possono
riceverne alcuna.
(58) Una valutazione critica dei poteri governativi è accennata da P. DELL'ANNO, cit., pp. 66, 67 e 68.
(59) Sul tema delle holding, si legga, in particolare, M. DUGATO-G. PIPERATA, La gestione di servizi pubblici
locali attraverso società holding, in Riv. trim. appalti, 2001, pp. 312 e ss. e A. VIGNERI, Le virtù della
concorrenza. Regolazione e mercato dei servizi di pubblica utilità, Bologna, 2006, pp. 374 e ss.
(60) Cfr. G. SIRIANNI, cit., p. 5 il quale sottolinea la breve efficacia temporale della normativa contenuta
nella finanziaria 2002, che è stata modificata dall'art. 14 della L. 326/2003 la quale ha notevolmente
ampliata la facoltà di ricorrere a gestioni in house.
(61) Sul punto si leggano le osservazioni, in generale, di N. NITTI, Acque pubbliche e private nella riforma
del Codice dell'ambiente, in Nuova Rass. di legisl., dottr. e giurisprud., 2006, pp. 2299 e ss.
(62) La Regione e gli ATO lombardi hanno cercato di dare soluzione alle problematiche di cui al testo
attraverso delle convenzioni da stipularsi tra l'ATO competente, da un lato, e dall'altro le società erogatrici
e quelle gestrici del servizio. Cfr. ad esempio ATO-Provincia di Milano, Contratto di servizio per regolare i
rapporti con l'Erogatore, 2007, art. 5.
(63) Si rinvia alle notazioni di G. DIGASPARE, La gestione delle risorse idriche..., cit., p. 5 e ss.
(64) Si rinvia alle notazioni di L. TILOCCA, Organizzazione e gestione del servizio idrico integrato, in
L'Amm. It., 2006, 11, pp. 1509 ss. e si evidenzia che in Lombardia società gestrici ed erogatrici hanno, in
sostanza, la medesima proprietà, costituita prevalentemente da Enti locali.
(65) Per una ricostruzione critica del D.Lgs. 152/2006 e delle sue disposizioni in ordine al ciclo integrato
delle acque, si rinvia a M. FRACANZANI, cit., in pp. 187 e ss. e per una valutazione di carattere generale dei
servizi pubblici, si legga B. BOSCHETTI, Enti locali ed iniziativa economica, in Le Regioni, 2007, pp. 765 e
ss.
(66) Anche secondo i principi affermati dalla Corte di Giustizia, a partire dal caso Tekal, le gestioni in
house sono ammesse, anche in omaggio all'autonomia dei soggetti pubblici contemplata da ultimo nel
Trattato di Lisbona, purché le attività siano svolte da società su cui la mano pubblica eserciti un controllo
analogo.
(67) Cfr. in punto P. MONTALENTI, Direzione e coordinamento nei gruppi societari:principi e problemi, in
Riv. Soc., 2007 pp. 317 ss., F. GALGANO, I gruppi di società, Torino, 2001, passim e V. CARIELLO, Dal
controllo congiunto all'attività congiunta di direzione e coordinamento di società, in Riv. Soc., 2007, pp. 1
e ss.
(*) Professore di Diritto amministrativo presso l'Università degli Studi di Pavia.
Archivio selezionato: Note
Acqua, derivazioni e conflitti d'uso: per la prima volta un Tribunale riconosce che
bere è un diritto primario rispetto alle concessioni per produrre energia elettrica
Riv. giur. ambiente 2008, 6, 1018
Fulvio Di Dio
1. Introduzione. 2. Il diritto delle acque: alcuni aspetti della disciplina positiva del demanio idrico. 3.
L'utilizzazione delle acque pubbliche: la gestione del demanio idrico. 4. La tutela quantitativa della risorsa
e il risparmio idrico. 5. L'equilibrio fra offerta e domanda idrica nella legislazione. 5.1. I cambiamenti nel
campo delle utenze idroelettriche. 6. Il "pasticcio" dell'acqua pubblica nell'ultima riforma legislativa.
1. Introduzione.
Chi avrebbe mai immaginato che bere un bicchiere d'acqua dal rubinetto di casa equivale a "rubare"
alcuni chilowatt all'Enel? E mai ci è venuto il sospetto che quel sorso d'acqua potrebbe costare una multa
salata che avremmo potuto pagare come, diciamo, accendere alcune lampadine in più. Eppure, è quello
che traspare in controluce dalla storia e dalle motivazioni di questa sentenza.
Finora, in molte zone del sud Italia, l'Enel, Ente che detiene dal 1933 la concessione esclusiva e perpetua
delle acque pubbliche per produrne energia elettrica, e che negli anni, malgrado le trasformazioni del
patrimonio e dell'assetto proprietario, ha mantenuto quasi esclusivamente questo monopolio,
periodicamente ha intentato e vinto cause giudiziarie contro la Cassa del Mezzogiorno, quando esisteva, e
successivamente contro alcuni Consorzi acquedottistici locali e alcune Regioni (1).
Il torto che veniva loro attribuito era prelevare acqua alle sorgenti, come sembrerebbe ovvio, per
convogliarle nelle condutture della rete idrica territoriale, sottraendole però in questo modo allo
sfruttamento idroelettrico dell'Enel. Un diritto, quello dell'Enel, che era sempre stato ritenuto prioritario
dai Tribunali ordinari, compresa la Cassazione a Sezioni Unite.
Fino a quando il Consorzio acquedottistico marsicano non ha portato la questione al giudizio del Tribunale
regionale delle acque pubbliche presso la Corte di Appello di Roma (2), il quale, alla fine di una causa
durata ben undici anni, ha riconosciuto che l'acqua è un bene pubblico primario e che bere è come
respirare: nessuna concessione può venire prima. Un principio che suona tanto più scontato in una zona
come la Marsica, cuore montano dell'Abruzzo, che di acqua sorgiva e pura è sempre stata ricchissima,
almeno fino a qualche lustro fa (3).
D'altra parte, hanno riconosciuto i giudici nella sentenza in commento, "la complessa evoluzione del
sistema normativo tende a privilegiare l'utilizzazione dell'acqua per consumi umani: già l'art. 2 della
legge n. 36 del 1994 aveva affermato che "l'uso dell'acqua per il consumo umano è prioritario rispetto
agli altri usi del medesimo corpo idrico superficiale o sotterraneo" e che "gli altri usi sono ammessi
quando la risorsa è sufficiente e a condizione che non ledano la qualità dell'acqua per il consumo umano";
le successive disposizioni del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 risultano esplicitamente finalizzate a garantire i
"livelli di qualità della vita umana" affermando all'art. 2 che il presente decreto legislativo ha come
obiettivo primario la promozione dei livelli di qualità della vita umana, da realizzare attraverso la
salvaguardia e il miglioramento delle condizioni dell'ambiente e l'utilizzazione accorta e razionale delle
risorse naturali".
Ovviamente l'iter giudiziario non è ancora finito, ma riteniamo che questo rappresenti senz'altro un primo
importantissimo risultato.
2. Il diritto delle acque: alcuni aspetti della disciplina positiva del demanio idrico.
In questa sentenza sono sott(int)esi, in tutta la loro complessità, i problemi giuridici attinenti
all'individuazione dei poteri di intervento sul demanio idrico, alla distribuzione di questi poteri tra le varie
Autorità e al coordinamento tra poteri e Autorità, con l'obiettivo di un'azione organica e soprattutto
finalizzata ai reali bisogni (in particolar modo di schietta impronta ambientale, sulla spinta ormai
imponente del diritto comunitario) delle comunità sul territorio.
Non meno scottanti sono i problemi di reale efficacia dell'azione amministrativa, a cominciare da quello,
logicamente anteriore, dell'affermazione della demanialità dell'acqua con il suo conseguente
assoggettamento al regime pubblicistico (4).
L'art. l della legge 36/1994 (ora art. 144 D.Lgs. 152/2006) dispone che tutte le acque superficiali e
sotterranee ancorché non estratte dal sottosuolo, sono pubbliche e costituiscono una risorsa che è
salvaguardata e utilizzata sercondo criteri di solidarietà.
Viene così introdotta una modifica considerevole del sistema del codice civile e del Testo unico delle
acque, cioè il R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775, che ha sollevato anche un giudizio di costituzionalità,
poiché il codice stabilisce che sono demaniali i fiumi, i torrenti, i laghi, e le altre acque definite pubbliche
definite dalla legge (art. 822 c.c.), cui si aggiunge appunto l'art. l del T.U. acque, che per queste ultime
richiede l'utilizzazione del criterio del riconoscimento della loro attitudine ad usi di pubblico generale
interesse.
La Corte Costituzionale (5) nel rigettare la questione di costituzionalità sul riconoscimento ex lege delle
acque pubbliche, ha ritenuto che la pubblicità di tutte le acque attiene al regime d'uso di un bene
divenuto limitato, come risorsa comune, mentre rimane impregiudicato il regime pubblico o privato della
propietà in cui esso è contenuto.
Se nel passato si assisteva per vero ad un insufficiente esercizio dell'attività di certazione della P.A.
quanto alla tenuta ed aggiornamento degli elenchi delle acque pubbliche, oggi, a distanza di dodici anni
dalla legge Galli, si tratta di dar piena attuazione a quell'importante affermazione generalizzata di
pubblicità di tutte le acque superficiali e sotterranee contenuta per l'appunto nell'art. 1 della legge
36/1994 (art. 144 D.Lgs. 152/2006).
Quanto all'amministrazione giuridica puntuale del bene, emerge l'esigenza che essa si svolga attraverso
procedure più snelle, pur salvaguardando i momenti essenziali dell'articolazione, obiettività ed
imparzialità.
In buona sostanza si tratterebbe di ridurre i "passaggi" ridondanti, non idonei ad accrescere, per loro
autonoma valenza tecnica od amministrativa, l'insieme delle informazioni sulle quali basare la decisione
finale regolante la fattispecie.
Per converso la massima apertura andrebbe fatta nei confronti degli apporti partecipativi di Enti
esponenziali e di formazioni sociali, che non di rado sono i più attendibili testimoni di realtà territoriali,
più o meno estese, eppur sempre così importanti affinché gli interventi o le opere in programma
corrispondano al meglio agli effettivi bisogni.
Altro aspetto relativo agli usi delle acque pubbliche meritevole di attuazione concreta, evidenziato dalla
sentenza in commento, è quello attinente alla loro compatibilità e sostenibilità sul piano ambientale e alla
prevalenza dell'uso potabile sui rimanenti usi.
È quest'ultimo un assioma, trasposto in diritto positivo solo con il D.Lgs. 275/1993, che viceversa da
sempre è stato avvertito come naturale dalla comunità sociale; a stento essa comprende(va) la non
sporadica posposizione ad altri interessi (come quello idroelettrico, appunto) dell'utilizzo idropotabile ed
ancor meno che questo, laddove per una sua concreta attuazione si fosse reso necessario l'assorbimento
di utenze per scopi diversi, dovesse andar incontro a costi di indennizzo per sottensione a volte
decisamente esorbitanti.
È indubbio che la fruizione potabile delle risorse idriche è quella che più di ogni altra esalta la
destinazione pubblica delle acque demaniali, come ben sanno i nostri giudici. Ciò, peraltro, non vuol né
può significare sottrazione dell'utilizzo idropotabile al giusto criterio del risparmio idrico o ancora
esenzione per le collettività dai costi di gestione del relativo servizio pubblico.
Inoltre, le risorse idriche, seppur destinate all'uso più qualificato, vanno riguardate come beni economici
oltre che giuridici. In tal senso è impensabile sfuggire a parametri di valutazione anche economica
sull'impiego delle risorse. Nel nostro caso, il conteggio del volume di acqua "sottratta", e il corrispettivo
risarcimento dovuto sono calcoli complessi che i tecnici del Tribunale hanno compiuto per ogni sorgente
(6).
Certo è che l'ordinamento deve garantire un giusto equilibrio tra le esigenze naturalistiche e conservative
dell'ambiente (in assoluto il prius ineludibile), quelle dell'utilizzazione delle acque, nonché quelle di difesa
del suolo (7).
3. L'utilizzazione delle acque pubbliche: la gestione del demanio idrico.
Col termine utilizzazione delle acque si usa riferirsi ad una complessa fenomenologia, volta a ritrarre
utilità dalle risorse idriche (8).
È, in senso generale, attività di fruizione dell'importantissimo e insostituibile elemento naturale per i
bisogni più svariati della vita, quale che sia la sua classificazione giuridica.
In quanto attività, essa si coniuga inscindibilmente con il momento della sua disciplina, apprestata
dall'ordinamento giuridico e a sua volta incidente su questo in una sorta di rapporto interattivo (9).
Parlare di utilizzazione delle acque, significa quindi prendere in considerazione, sul piano giuridico, la
disciplina degli usi delle acque pubbliche.
Occorre dunque osservare in primis come le acque pubbliche siano per loro natura destinate a fruizione
collettiva e/o a fruizione imprenditoriale.
È questa una formula riassuntiva particolarmente efficace per descrivere le destinazioni degli usi, avendo
riguardo più ad una classificazione sostanziale che ad una formale.
Invero l'indicazione degli usi cui sono adibite le acque pubbliche non vede com'è naturale in alcun modo
divisa la dottrina, mentre disparità di opinioni sussistono al riguardo della loro classificazione in categorie
o tipi.
Diffusa è la tripartizione, articolata secondo lo schema degli usi comuni (normali), speciali ed eccezionali.
Parte autorevole della dottrina propende invece per una sistematica più semplice, distinguendo "usi
generali" e "usi particolari". L'uso generale è quello cui tutti vengono indiscriminatamente ammessi uti
cives (anche se, talvolta, previo pagamento di una tassa o previo rilascio di un permesso); l'uso
particolare è quello cui vengono ammessi, uti singuli, i beneficiari di specifici provvedimenti
amministrativi di concessione.
La giurisprudenza è attestata tuttora sulla tesi tradizionale della tripartizione (10), secondo la quale sono
usi comuni quelli che, in linea con la normale destinazione del bene, sono consentiti a tutti
indifferenziatamente i soggetti, senza che occorra alcun atto amministrativo; sono usi speciali quelli che,
pure essi conformi alla normale destinazione del bene, richiedono per il loro esercizio la previa
acquisizione di un particolare atto permissivo, quale rappresentato in forma implicita dal pagamento di
una tassa ovvero in forma esplicita da autorizzazioni o licenze della autorità amministrativa, ovvero
spettano a determinate persone che si trovano in una particolare situazione di fatto; sono usi eccezionali
quelli che, non conformi alla normale destinazione del bene, consistono in sottrazioni (seppur parziali) del
bene all'uso comune, per il godimento esclusivo, ancorché temporaneo, di determinati soggetti investiti di
titolo particolare, a carattere generalmente (ma non solo) concessorio.
Esemplificativamente si annoverano nella prima tipologia degli usi: a) la navigazione, quando non
avvenga a mezzo piroscafi, nel qual ultimo caso è subordinata ad autorizzazione; b) la provvista d'acqua
per scopi di alimentazione, di igiene, ecc., a condizione peraltro che non vi sia necessità di derivazione; c)
la balneazione; d) la ricreazione e il godimento estetico naturalistico.
Nella seconda categoria degli usi si ricomprendono: a) la pesca, per la quale in genere occorre una
speciale licenza ovvero l'iscrizione in appositi registri, differenziati a seconda della natura professionale o
dilettantistica dell'attività esercitata (ex art. 1, T.U. 8 ottobre 1931, n. 1604); b) la fluitazione, ossia il
trasporto di legname a galla, per la quale necessita una speciale licenza accordata dall'Autorità
provinciale (prefetto), sentite le amministrazioni dei Comuni territorialmente interessati, gli Uffici del
Genio Civile e della ispezione forestale, ai sensi dell'art. 64 del T.U. 11 luglio 1913, n. 959 [che riproduce
l'art. 152 della legge di unificazione amministrativa 20 marzo 1865, n. 2248, all. F) sui lavori pubblici]; c)
le estrazioni di materiale litoide dall'alveo dei fiumi, dei torrenti e dei canali pubblici, per le quali, con
esclusione delle località in cui esse vengono praticate per invalsa consuetudine senza autorizzazione
alcuna, necessita, come minimo, di un atto permissivo dell'Ufficio del Genio Civile [lo "speciale permesso"
a norma dell'art. 97, lett. m), del T.U. 25 luglio 1904, n. 523, così come modificato dall'art. 1 del R.D. 19
novembre 1921, n. 1688].
Nella terza categoria degli usi si collocano quelli resi leciti per concessione e oramai di maggior frequenza
e importanza nell'universo delle acque pubbliche. Per solito sono esercitati a mezzo di derivazioni, ma si
danno anche utilizzi che talvolta non richiedono la diversione delle acque dal loro corso naturale (11). Le
derivazioni, cui teleologicamente accedono quelle per scopi potabili, per uso d'irrigazione, per produzione
di forza motrice, per uso di bonifica per colmata, per piscicoltura, per fini tecnologici inerenti a processi
produttivi di beni di consumo, ecc., si caratterizzano invariabilmente per la loro incidenza sulle risorse
idriche (fluenti) delle quali vengono a modificare i caratteri fondamentali (12).
Esse si atteggiano poi in differente modo a seconda della natura statica o fluente delle risorse idriche
considerate. Nel primo caso, che essenzialmente riguarda le acque lacuali, il prelievo a mezzo derivazione
può esercitarsi solo entro i limiti dell'afflusso naturale allo specchio lacuale (per precipitazioni
atmosferiche e/o per apporto di immissari), pena in contrario l'esaurimento della risorsa; nel secondo
caso non si danno limiti di siffatto genere, dovendo comunque i prelievi non intaccare la soglia minima
per il rispetto degli usi locali, dell'ecosistema e per la conservazione degli alvei (13).
4. La tutela quantitativa della risorsa e il risparmio idrico.
Con il D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, la tutela quantitativa delle risorse idriche, che costituisce l'aspetto più
innovativo e centrale della direttiva 2000/60/CE (14), è stata (male) recepita (15) nel diritto interno
attraverso soprattutto i piani di tutela, ma anche attraverso lo strumento del riordinamento del sistema
delle concessioni, per modo che quest'ultimo non risponda più ai canoni della mera provvedimentazione
puntuale e facendo sì che nell'utilizzo della risorsa si tenga conto in maniera sinergica e coordinata sia
delle problematiche quantitative che di quelle qualitative attraverso la formulazione di programmi ed
interventi di tutela integrata.
In altri termini, nell'utilizzo delle risorse idriche occorre tener conto non più solo dei fabbisogni idrici, ma
anche dei problemi ambientali legati all'acqua (tutela dei corpi idrici nei loro fondamentali elementi
costitutivi; tutela degli ecosistemi, della biodiversità, riduzione dell'inquinamento, ecc.) e all'equilibrio del
bilancio idrico.
Con il D.Lgs. 152/2006, che fra l'altro reca profonde modifiche al R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775 ("Testo
unico delle disposizioni di legge sulle acque e sugli impianti elettrici"), trova piena esaltazione normativa
quel principio di tutela quantitativa della risorsa e del correlativo risparmio idrico, in una con il governo
dei trasferimenti d'acqua, che la migliore dottrina da tempo aveva individuato come problema centrale
per la disciplina del bene acqua e più in generale dell'ambiente in senso unitario.
Il D.Lgs. 152/2006 affronta invero la tutela qualitativa e quantitativa delle risorse idriche attraverso un
sistema olistico incentrato non solo sulla diretta salvaguardia dell'acqua in quanto tale ma pure sulla
tutela dell'ambiente e degli ecosistemi ad essa correlati, e ancora sulla tutela della salute, spingendosi
alla determinazione dei corretti usi nei diversi settori d'impiego dell'acqua (agricoltura, industria, ecc.)
(16).
Significative e pregnanti le indicazioni precettive degli enunciati normativi (che qui ci preme evidenziare)
degli artt. 95 ("Pianificazione del bilancio idrico") e 96 ("Modifiche al R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775"),
ed ancora degli artt. 98 ("Risparmio idrico") e 99 ("Riutilizzo dell'acqua").
Basti qui il cenno a talune di tali indicazioni precettive. Ed invero l'art. 96, al comma 3, così recita: "3.
L'articolo 12-bis del R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775, è sostituito dal seguente: "Articolo 12-bis. 1. Il
provvedimento di concessione è rilasciato se: a) non pregiudica il mantenimento o il raggiungimento degli
obiettivi di qualità definiti per il corso d'acqua interessato; b) è garantito il minimo deflusso vitale e
l'equilibrio del bilancio idrico; c) non sussistono possibilità di riutilizzo di acque reflue depurate o
provenienti dalla raccolta di acque piovane ovvero, pur sussistendo tali possibilità, il riutilizzo non risulta
sostenibile sotto il profilo economico. 2. I volumi di acqua concessi sono altresì commisurati alle
possibilità di risparmio, riutilizzo o riciclo delle risorse. Il disciplinare di concessione deve fissare, ove
tecnicamente possibile, la quantità e le caratteristiche qualitative dell'acqua restituita. Analogamente, nei
casi di prelievo da falda deve essere garantito l'equilibrio tra il prelievo e la capacità di ricarica
dell'acquifero, anche al fine di evitare pericoli di intrusione di acque salate o inquinate, e quant'altro sia
utile in funzione del controllo del miglior regime delle acque"".
E così dispone il medesimo art. 96, al comma 9: "9. Dopo il terzo comma dell'articolo 21 del R.D. 11
dicembre 1933, n. 1775, è inserito il seguente: "Le concessioni di derivazioni per uso irriguo devono
tener conto delle tipologie delle colture in funzione della disponibilità della risorsa idrica, della quantità
minima necessaria alla coltura stessa, prevedendo se necessario specifiche modalità di irrigazione; le
stesse sono assentite o rinnovate solo qualora non risulti possibile soddisfare la domanda d'acqua
attraverso le strutture consortili già operanti sul territorio"".
Così letteralmente l'art. 98: "Risparmio idrico. 1. Coloro che gestiscono o utilizzano la risorsa idrica
adottano le misure necessarie all'eliminazione degli sprechi ed alla riduzione dei consumi e ad
incrementare il riciclo ed il riutilizzo, anche mediante l'utilizzazione delle migliori tecniche disponibili. 2. Le
Regioni, sentite le Autorità di bacino, approvano specifiche norme sul risparmio idrico in agricoltura,
basato sulla pianificazione degli usi, sulla corretta individuazione dei fabbisogni nel settore, e sui controlli
degli effettivi emungimenti".
5. L'equilibrio fra offerta e domanda idrica nella legislazione.
Il Testo unico delle acque, cioè il regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775, che stabilisce definitivamente
che la concessione delle acque pubbliche è vincolata alla definizione del suo uso, si basa sull'ipotesi che
normalmente la disponibilità idrica sia maggiore delle concessioni asseribili, e che l'offerta e la domanda
idrica siano sostanzialmente determinabili e non soggette a forti variazioni.
La necessità di verificare la compatibilità fra gli usi conflittuali delle risorse idriche sta comunque alla base
del processo istruttorio delle domande di utilizzazione delle acque pubbliche.
Tuttavia mentre nella sua impostazione originaria questa conflittualità appariva come una verifica da
effettuare come conseguenza della presentazione di domande concorrenti, e quindi di interessi privati con
esse esplicitati, il processo evolutivo delle altre legislazioni che si sono susseguite nel tempo hanno
sempre più configurato il provvedimento concessionario come un atto amministrativo che si inquadra nel
processo pianificatorio delle risorse idriche sviluppato dalla Pubblica amministrazione, con la progressiva
definizione degli interessi pubblici prevalenti.
Lo sviluppo di questo percorso è avvenuto attraverso l'emanazione di leggi che hanno specificato la
natura e le modalità di identificazione di questi interessi pubblici e dei limiti di uso del patrimonio
ambientale (Piano regolatore generale degli acquedotti, legge 183/1989 e decreti attuativi, legge
36/1994 e decreti attuativi, D.Lgs. 152/1999 e decreti attuativi, D.Lgs. 152/2006), che hanno evidenziato
il ruolo dello Stato centrale come soggetto che emana i princìpi generali, mentre le Regioni rappresentano
i soggetti attuatori di detti princìpi e controllori del processo.
Il processo di separazione delle funzioni e compiti amministrativi fra Stato, Regioni ed Enti locali ha
trovato una definizione organica nel D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112, anche se questa materia è in fase di
ulteriore evoluzione in conseguenza delle recenti modifiche costituzionali, che hanno introdotto elementi
federalistici che possono nel settore specifico espandere ulteriormente il ruolo delle Regioni.
5.1. I cambiamenti nel campo delle utenze idroelettriche.Œ Anche le utenze idroelettriche, in modo
certamente diverso a seconda che si tratti di grandi o di piccole derivazioni, dovranno concorrere agli
obiettivi di tutela olistica delle risorse idriche comunque prese di mira (17).
In particolare dovranno essere garantiti i valori di minimo deflusso vitale alle varie prese (si pensi
all'incidenza e al grande impatto dei c.d. canali di gronda, che fanno incetta di tutte le acque di un dato
versante e che spesso operano anche la diversione di bacino rispetto alle fluenze naturali) nonché, più in
generale, per le grandi derivazioni, dovrà essere preso in considerazione il piano di risanamento
ambientale.
Peraltro, l'asserito danno derivato a parte ricorrente nella sentenza in epigrafe andrebbe individuato nella
minore disponibilità di acqua a cause dell'attingimento di acqua per uso potabile e nella conseguente
riduzione di energia idroelettrica.
Ma, come molto perspicuamente evidenziano i giudici, "la produzione di energia idroelettrica italiana
copre soltanto il 20 per cento del fabbisogno del nostro paese, quindi la produzione idroelettrica assume
un ruolo primario sotto il profilo quantitativo per la copertura dei consumi di punta, in quanto le
disposizioni riguardanti il funzionamento delle centrali idroelettriche sono notoriamente quelle di turbinare
tutta l'acqua in arrivo, utilizzando al meglio le capacità di compenso disponibili, in modo da concentrare la
produzione di energia elettrica nei periodi di maggiore richiesta della rete. (...) Se il livello di produzione
complessiva è rimasto invariato e comunque se esistono costi predeterminati in via amministrativa,
appare logico ritenere che la società ricorrente si sia limitata a riversare i predetti costi sugli utenti finali,
restando del tutto indifferente alla minore disponibilità di acqua. (...) Nella fattispecie in esame, i fatti
costitutivi dell'azione di risarcimento del danno non sono dunque riconducibili alla sola allegazione
dell'utilizzazione dell'acqua in assenza di titolo concessorio, ma implicavano la necessità di una compiuta
prospettazione delle modalità e della misura in cui la predetta evenienza risutava suscettibile di esplicare
effetti pregiudizievoli nella sfera patrimoniale dell'impresa attrice".
Da tutto ciò emerge che la gestione dell'utilizzazione delle acque pubbliche a fini produttivi, motivo
ricorrente e determinante di tutta la legislazione in materia a partire dal T.U. 1775/1933, risulta oggi in
aperta contraddizione con l'art. l della legge 36/1994 (art. 144 D.Lgs. 152/2006), in particolare il comma
3, che indirizza il loro uso al risparmio ed al rinnovo della risorsa per non pregiudicare il patrimonio idrico,
la vivibilità dell'ambiente, l'agricoltura, la fauna, le risorse acquatiche, i processi geomorfologici e gli
equilibri idrologici (18).
I giudici hanno quindi affermato che "Nell'attuale contesto giuridico risulta oggettivamente dubbio che
possa qualificarsi come illecita la derivazione di acqua effettuata da Enti pubblici per usi potabili o per
altre esigenze di primario rilievo per i livelli di vita della popolazione, sulla base della mera considerazione
dell'assenza di titoli concessori, giacché l'interpretazione del sistema normativo (e specificamente degli
artt. 45 e ss. del T.U. di cui al R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775, cui si fa generalmente riferimento anche
in tema di sottensione illegittima) non può prescindere dal riferimento ai princìpi desumibili dalla
Costituzione e dalle disposizioni del diritto internazionale in tema di tutela del diritto alla salute e, più in
generale, di realizzazione delle primarie esigenze di vita dell'uomo".
Questo perché, se si aderisse ad una diversa impostazione, si dovrebbe finire con l'ammettere, da un
lato, che il titolare della concessione per uso idroelettrico "possa giovarsi di forme di tutela giudiziale
finalizzate anche ad impedire l'uso asseritamente illecito con la consequenziale possibilità di lasciare
senza acqua intere popolazioni, e, dall'altro, che tutti gli Enti locali e comunità che non potessero far
fronte ai rilevanti oneri economici (che si tende a calcolare sulla base del costo di produzione dell'energia
elettrica), verrebbero di fatto a restare privi di risorse di caratere assolutamente primario per il normale
svolgimento della vita delle persone, con la conseguente compromissione di beni e valori di rilievo
costituzionale".
Che l'utilizzazione differenziata delle acque pubbliche non possa più essere oggetto di provvedimenti
puntuali collocati solo in una visione concorrenziale sia tra i possibili fruitori sia tra gli usi "più" produttivi,
disinteressandosi del coordinamento tra le varie utilizzazioni in vista di una gestione globale del corpo
idrico (19) sembra finalmente essere acquisizione non più solo dottrinale ma giuridica, espressamente
richiamata non solo in questa pronuncia, ma prim'ancora dall'ultimo comma dell'art. 88 D.Lgs. 112/1998,
ove si ribadisce l'unitaria considerazione delle questioni afferenti ciascun bacino idrografico.
È evidente che una prospettiva del genere apre tutto il problema del rapporto tra programmazioneregolazione degli usi delle acque nel bacino e il regime delle concessioni in atto, la compatibilità degli usi
e delle riserve esclusive, la rinegoziazione delle utenze, i diritti acquisiti dei concessionari: in breve il
rapporto tra usi e pianificazione di bacino (20) e, di conseguenza, ruolo e poteri delle Autorità di distretto,
che dovrebbero assumere sotto il profilo della coerenza sistematica della disciplina, un posto centrale nel
governo delle acque e della difesa del suolo (21).
6. Il "pasticcio" dell'acqua pubblica nell'ultima riforma legislativa.
Da tutto quanto esposto, si evince che la materia è in forte movimento, sia sotto il profilo della
organizzazione del settore, sia sotto quello della disciplina della compatibilità degli usi previsti.
Poiché sappiamo bene che le riforme amministrative non costituiscono, al pari delle ricerche scientifiche,
un evento ma un processo lungo e travagliato, proviamo ora a tratteggiare gli aspetti più rilevanti della
disciplina del governo delle acque alla luce delle ultime modifiche legislative.
L'art. 23-bis del nuovo D.L. 25 giugno 2008, n. 112 (22) non ha chiuso il dibattito relativo alla
privatizzazione dei servizi pubblici locali, in particolare, e per quello che ci interessa, per quanto riguarda
l'acqua (23).
Il decreto sancisce al comma 1 dell'articolo in questione che i servizi idrici fanno parte dei servizi pubblici
locali di rilevanza economica, cioè dei servizi la cui gestione deve essere sottomessa alle regole
dell'economia di mercato.
Il governo Berlusconi ha così confermato che l'Italia fa parte oramai dei paesi che considerano l'acqua
non come un bene comune, un bene sociale, ma come un bene economico, un bene-merce (24).
La scelta in favore della mercificazione dell'acqua è confermata dal comma 2, ma viene sistematicamente
derogata dai successivi commi, tanto che alla fine ne esce un quadro legislativo assai confuso e
impasticciato (25).
Il comma 2 stabilisce che "il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali avviene, in via
ordinaria, a favore di imprenditori e di società in qualunque forma costituite, individuate mediante
procedure competitive di evidenza pubblica, nel rispetto dei princìpi del Trattato che istituisce la Comunità
Europea". Il comma 3, però, prevede che "l'affidamento può avvenire... in deroga alle modalità del
comma 2... nel rispetto dei princìpi della disciplina comunitaria".
In realtà, la disciplina comunitaria si fonda su parecchie fonti (Trattato del 1985 che istituisce la Comunità
Europea, Trattato di Maastricht del 1992, Trattato di Amsterdam del 1997, Trattato di Nizza del 2003,
giurisdizione della Corte di Giustizia Europea) e consente una grande varietà di regimi di gestione dei
servizi idrici: dal regime inglese, che comporta la privatizzazione anche delle reti e delle infrastrutture, al
regime olandese che vieta di affidare a soggetti privati la gestione della distribuzione dell'acqua potabile o
al regime tedesco ancora oggi basato su più di 4 mila imprese municipali pubbliche e di consorzi
intercomunali.
Peraltro, la sentenza del 17 luglio 2008, C-371/05 della Corte di Giustizia Europea (26), rende la
confusione ancor più grande. Finora, per poter essere aggiudicataria di una gestione in house, l'impresa
doveva rispondere a due requisiti fondamentali il controllo analogo e il rapporto strumentale e, in più,
escludere la presenza di soci privati nel capitale sociale. Secondo la nuova sentenza, la presenza di
capitali privati è considerata ostativa dell'affidamento diretto solo se tale partecipazione sussiste al
momento della stipula della convenzione di affidamento. Questo significa che lo statuto societario di una
S.p.A. candidata anche a diventare in house non deve necessariamente escludere la partecipazione di
privati nel capitale societario. Quel che è determinante è che il capitale privato non sia effettivamente
presente al momento dell'affidamento. Dopo, l'apertura è possibile. Ciò decretando, la Corte di Giustizia
afferma il contrario di quanto aveva sostenuto finora.
A migliore chiarezza non contribuisce il comma 4, che sottomette la gestione in house alla condizione di
"dare adeguata pubblicità alla scelta motivandola in base a un'analisi del mercato e contestualmente
trasmettere una relazione contenente gli esiti della predetta verifica all'Autorità garante della concorrenza
e del mercato e alle autorità di regolazione del settore, ove costituite, per l'espressione di un parere... da
rendere entro 60 giorni dalla ricezione della predetta relazione".
Come si fa a sottomettere alla "verifica" di un'analisi di mercato prospettiva (per definizione,
estremamente fragile e soggettiva) la pertinenza di una scelta politico-economica operata dai Comuni
sulla base del principio costituzionale della libertà di scelta gestionale di cui essi dispongono? E come
faranno le Autorità cui è devoluto l'onere di emettere un parere (vincolante, sospensivo...?) a valutare e
giudicare, entro 60 giorni, la congruenza economica, oltreché giuridica, della scelta fatta alla luce di un
quadro legislativo così confuso e contraddittorio?
Confermando il ruolo preminente di controllo su tutti i servizi "pubblici" locali attribuito all'Autorità
garante della concorrenza e del mercato, il decreto legge sacralizza il mercato e la concorrenza come
princìpi fondatori e legittimanti del governo dei servizi "locali", che sono invece res publica, cioè di
fondamentale importanza per la sicurezza e il benessere di tutti i cittadini e per il vivere insieme (27). In
tale contesto, a cosa serve il Comitato per la vigilanza sull'uso delle risorse idriche, il Co.vi.ri? Per fare,
anch'esso, rispettare le regole della concorrenza in aggiunta all'Autorità garante della concorrenza e del
mercato e all'Autorità per la vigilanza per i contratti pubblici di lavoro, servizi e forniture?
Inoltre, il decreto modifica la natura stessa dello Stato e delle collettività territoriali. I Comuni, in
particolare, non sono più dei soggetti pubblici territoriali responsabili di beni comuni, ma diventano dei
soggetti proprietari di beni competitivi in una logica di interessi privati, per cui il loro primo dovere è di
garantire che i dividendi dell'impresa di cui sono azionisti siano i più elevati nell'interesse delle finanze
comunali.
Con l'applicazione dell'art. 23-bis vi sarà una grande confusione di ruoli, di competenze, di azioni, di
controlli, di regolamenti e, soprattutto, di affarismi. Questa disposizione è nociva perché non permetterà
un governo efficiente, giusto e saggio del servizio idrico integrato. Essa è da sostituire il più presto
possibile con una legge quadro fondata sulla non mercificazione dell'acqua (della vita) e sulla pubblicità
dei servizi idrici in quanto servizi di interesse generale non riducibili a rilevanza economica.
Nel nostro piccolo ci auguriamo che il legislatore, nel (non) ratificare con legge di conversione questo
decreto, prenda invece spunto (anche) da questa sentenza per indirizzarci verso una gestione pubblica
fondata sulla partecipazione diretta delle comunità locali.
NOTE
(1) L'Enel dal '63 a oggi aveva vinto numerose cause contro Regioni come il Lazio, l'Abruzzo o la
Sardegna. E per l'acquedotto marsicano, alimentato dalle sorgenti del bacino imbrifero del fiume Liri, e
che serve un'utenza di circa 150 mila persone, fino al 1990 l'Enel aveva ottenuto risarcimenti che si
aggiravano sull'1,5 miliardi di vecchie lire all'anno.
(2) Il Parlamento, con legge di conversione 10 gennaio 2003, n. 1, non ha ratificato il D.L. 11 novembre
2002, n. 251, nella parte in cui disponeva l'abrogazione dei Tribunali regionali e del Tribunale superiore
delle acque pubbliche (il decreto prendeva spunto dalle sentenze n. 305 e 353 della Corte Costituzionale,
per sopprimere definitivamente la giurisdizione speciale del Tribunale delle acque). Il Tribunale superiore
delle acque pubbliche ha sede nel Palazzo di Giustizia a Roma ed è previsto dall'art. 139 del R.D. 11
dicembre 1933, n. 1775, "Testo unico sulle acque e impianti elettrici". In materia di diritti soggettivi (art.
142 T.U. acque), conosce in grado di appello le cause decise in primo grado dagli otto Tribunali regionali
delle acque pubbliche aventi sede nelle Corti d'Appello di Torino, Milano, Venezia, Firenze, Roma, Napoli,
Palermo e Cagliari sulle controversie intorno alla demanialità delle acque, circa i limiti dei corsi o bacini
loro alvei e sponde; controversie aventi ad oggetto qualunque diritto relativo alle derivazioni e
utilizzazioni di acqua pubblica; controversie riguardanti la occupazione totale o parziale, permanente o
temporanea di fondi e le conseguenti indennità; controversie per risarcimenti di danni dipendenti da
qualunque opera eseguita dalla Pubblica amministrazione; ricorsi previsti dagli artt. 25 e 29 del testo
unico delle leggi sulla pesca approvato con R.D. 8 ottobre 1931, n. 1604. In materia di interessi legittimi
(art. 143 T.U. acque), quale organo di giurisdizione amministrativa ha cognizione diretta sui ricorsi per
incompetenza, per eccesso di potere e per violazione di legge avverso i provvedimenti presi dalla
amministrazione in materia di acque pubbliche; sui ricorsi, anche per il merito, contro i provvedimenti
dell'Autorità amministrativa indicati nell'art. 217 T.U. acque riguardanti l'esecuzione di opere idrauliche e
nell'art. 221 in tema di contravvenzioni che alterino lo stato delle cose, nonché contro i provvedimenti
adottati dall'Autorità amministrativa in materia di regime delle acque pubbliche; sui ricorsi in materia di
diritti esclusivi di pesca. La competenza del Tribunale superiore delle acque pubbliche sia in grado di
appello che in sede di legittimità sussiste anche per le controversie relative alle acque pubbliche
sotterranee e per quelle concernenti la ricerca, l'estrazione e l'utilizzazione delle acque sotterranee nei
comprensori soggetti a tutela sempre che le controversie interessino la Pubblica amministrazione.
(3) D'altronde, se pensiamo all'estate 2003, una delle stagioni più calde degli ultimi due secoli, l'Italia
scopre nel giro di poche settimane che la paura per la scarsità di acqua può colpire anche uno dei bacini
più ricchi del pianeta, la pianura padana. Siamo così arrivati ai conflitti d'uso, come quello tra centrali
idroelettriche e agricoltura, che credevamo esistessero solo nei paesi con poca disponibilità di acqua. In
futuro i cambiamenti climatici tenderanno ad aggravare questi eventi. E putroppo siamo abituati a
muoverci solo nell'emergenza, senza mai cercare di prevenire e governare le possibili crisi.
(4) Mi si permetta il rinvio a F. DIDIO, L'evoluzione giuridica della gestione del demanio idrico: verso il
concetto di acqua come bene comune (Studi e documenti), in Dir. giur. agraria e ambiente, 2006, pp.
156 ss.
(5) Sentenza n. 259 del 19 luglio 1996, in Riv. dir. agr., 1999, 3, con nota di F. BRUNO, Aspetti privatistici
della nuova normativa sulle acque.
(6) In totale, dal 1990 al 1999, sono stati conteggiati circa 200 milioni di kwh "sottratti" che avrebbero
dovuto costare 20 milioni di euro. Soldi che ovviamente sarebbero usciti dalle tasche dei cittadini.
(7) È attraverso un'idonea organizzazione che il complessivo problema del governo delle acque può
essere avviato verso un soddisfacente controllo d'assieme, non già soluzione, apparendo questa nel
particolare settore tanto impegnativa quanto solo tendenzialmente raggiungibile, con più o meno
significative accelerazioni.
(8) Vedi M. CONTE, L'utilizzazione delle acque prima e dopo la legge sulla difesa del suolo, in Il regime
giuridico delle acque in Italia e Spagna, in ISRI CNR Quaderni per la ricerca, n. 21/1990, pp. 55 ss.
(9) Vi è concordia di opinioni sul fatto che la tematica della disciplina dell'utilizzazione delle acque abbia
in ogni tempo impegnato le comunità umane. Perspicuamente autorevole dottrina ha posto in luce la
genesi stessa degli ordinamenti giuridici generali dall'esigenza di disciplina degli utilizzi delle acque (M.S.
GIANNINI, Diritto pubblico dell'economia, Il Mulino, Bologna, 1985, 20-21). Ancor oggi determinante, e
segno di civiltà e progresso, è il modo di atteggiarsi degli usi delle acque secondo le indicazioni di diritto
positivo.
(10) L'uso dei beni demaniali può essere normale, speciale ed eccezionale. Il primo corrisponde al potere
dei cittadini di trarre dai beni demaniali quei vantaggi che sono compatibili con la destinazione dei beni
stessi, diretti alla soddisfazione di interessi pubblici generali; il secondo è anche conforme alla normale
destinazione della cosa, ma richiede un'autorizzazione, uno speciale permesso, ovvero spetta a
determinate persone che si trovano in una particolare situazione di fatto; il terzo si ha quando il bene
viene sottratto all'uso normale per essere attribuito in godimento esclusivo ad un soggetto determinato
affinché vi eserciti un'attività che non corrisponde alla normale destinazione del bene, ancorché si risolva
in un vantaggio per la collettività. Vedi Cass. 21 gennaio 1970, n. 130, in Foro it., 1970, I, 2141.
Sostanzialmente conforme, in passato, Cass. 25 giugno 1960, n. 1675, in Mass. giur. it., 1960, col. 414.
(11) In specie, per quanto riguarda lo scopo idroelettrico, vi sono esempi di sfruttamento dell'intera o di
parte della portata di un corso d'acqua su salti naturali ovvero artificiali a mezzo sbarramento di ritenuta,
con l'edificio centrale ubicato nel corpo diga. F. MARZOLO, Costruzioni idrauliche, Cedam, Padova, 1963, p.
317.
(12) Vengono riconosciuti tre caratteri per un'acqua fluente naturale in un determinato luogo e in un dato
istante temporale: la quota, la quantità o volume per unità di tempo (portata), la qualità (insieme di
caratteristiche fisiche, chimiche, biologiche). Ogni suo concreto impiego altera uno o più di questi
caratteri. Le utilizzazioni importano tutte una degradazione energetico-potenziale (perdita di quota),
talvolta in maniera passiva (ad esempio trasporto d'acqua potabile al luogo di distribuzione e consumo) e
talaltra in maniera attiva e concorrente con la portata per il conseguimento di potenza (ad esempio
impianti idroelettrici). Varie specie di utilizzazioni importano una perdita di quantità; è il caso delle
irrigazioni, in relazione al processo dell'evapotraspirazione; in misura minore ricorre pure per gli utilizzi
igienico-potabili. Di ampio spettro sono poi le alterazioni qualitative: massime quelle di natura biologica
nelle acque destinate ad usi potabili e igienico-sanitari; rilevanti quelle di carattere chimico per le acque
impiegate in processi industriali; limitate alla temperatura quelle dell'acqua impiegata in processi di
interscambio di calore (ad esempio raffreddamento e pompe di calore); nulle nella produzione di energia
(e invero sono frequenti gli usi promiscui idroelettrico e potabile). Vedi Conferenza nazionale delle acque
(16 dicembre 1968-31 luglio 1971), I problemi delle acque in Italia, Tipografia del Senato, Roma, 1972,
p. 268.
(13) È certo che in tal senso mettono in guardia correntemente le scienze naturali. L'art. 12-bis del T.U.
1775/1933, introdotto dall'art. 5 del D.Lgs. 12 luglio 1993, n. 275, dispone al comma 2 che "Il
provvedimento di concessione tiene conto del minimo deflusso costante vitale da assicurare nei corsi
d'acqua, ove definito, delle esigenze di tutela della qualità e dell'equilibrio stagionale del corpo idrico,
delle opportunità di risparmio, riutilizzo e riciclo della risorsa, adottando le disposizioni del caso anche
come criteri informatori del relativo disciplinare". In posizione di assoluto rilievo si colloca del resto la
norma di cui all'art. 3, lett. i) della legge sulla difesa del suolo 18 aprile 1989, n. 183 (ora art. 95 D.Lgs.
152/2006) per la quale le attività di pianificazione, di programmazione e di attuazione degli interventi
volti a concretare le finalità generali della legge, curano in particolare, fra l'altro, "la razionale
utilizzazione delle risorse idriche superficiali e profonde... garantendo, comunque, che l'insieme delle
derivazioni non pregiudichi il minimo deflusso costante vitale negli alvei sottesi...".
(14) "Direttiva 200/60/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 ottobre 2000, che istituisce un
quadro per l'azione comunitaria in materia di acque", G.U. n. L 327 del 22/12/2000. Vedi F. DIDIO, La
direttiva quadro sulle acque: un approccio ecosistemico alla pianificazione e gestione della risorsa idrica,
in Dir. giur. agraria e ambiente, 2006, pp. 496-500.
(15) Quanti milioni di euro dovrà pagare l'Italia per la non corretta applicazione della Direttiva quadro
sulle acque? Il suo mancato recepimento comporta delle privazioni non solo dal punto di vista della
qualità ma anche da quello delle penali che l'Italia sarà costretta a pagare alla Comunità Europea. Il
nostro paese, nel Rapporto della Commissione sull'Implementazione, figura fra i peggiori Stati europei
per quanto riguarda la Water Framework Directive ed è già stata avviata una procedura di infrazione a
suo carico per non aver correttamente trasposto tale direttiva nella legislazione nazionale. Lo scorso
febbraio, inoltre, l'Italia è stata oggetto di una ulteriore procedura di infrazione per non aver operato le
necessarie analisi di impatto ambientale in base all'art. 5 della stessa direttiva. Entrambe le violazioni non
sono ancora passate in giudicato e pertanto non si conosce ancora l'entità della penale che l'Italia sarà
obbligata a pagare: l'ammontare sarà deciso dalla Corte sulla base della durata della violazione, della
gravità e della capacità economica del paese in questione. A titolo di esempio, la Francia, giudicata
colpevole al termine di due procedure, è stata condannata a pagare da una parte 31.000 euro per ogni
giorno di infrazione, e dall'altra 57 milioni di euro ogni sei mesi più un pagamento una tantum di 20
milioni di euro. Le penali, quindi, dipendono in larga misura dalla decisione da parte del nostro paese di
rispondere, o meno, agli obblighi previsti dalla Water Framework Directive.
(16) Mi sia, ancora una volta, permesso il rinvio a F. DIDIO, Difesa e diritto delle acque, primo passo per
la salvaguardia degli ecosistemi, in Dir. giur. agraria e ambiente, 2007, pp. 275-277.
(17) Le concessioni di grandi derivazioni di acqua pubblica a fini idroelettrici, secondo l'art. 29, comma 3
del D.Lgs. 112/1998, sono rilasciate d'intesa tra Stato e Regioni compatibilmente con il regime previsto
dal D.Lgs. 79/1999, in attuazione, nell'ordinamento interno, della direttiva 96/112/CE. Attuazione che
dovrebbe rompere quella "riserva in bianco" a scopi idroelettrici delle acque pubbliche (cosiddette
concessioni "perpetue") in favore dell'Enel (L. 6 dicembre 1962, n. 1643, parzialmente mod. dalla L. 7
agosto 1982, n. 529) ai fini di una riconsiderazione delle compatibilità di questi con gli altri usi delle
acque e di apertura al regime di concorrenza (vedi l'art. 36 della legge 128/1998 e l'art. 12 del D.Lgs.
79/1999). Vedi anche Corte Costituzionale 18 gennaio 2008, n. 1, in questa Rivista, 2008, 3-4, pp. 572
ss., con nota di S. FANETTI, Una nuova decisione della Corte Costituzionale in materia di energia. La
sentenza 1/2008.
(18) Disposizione richiamata dall'art. 88, comma 1, lett. p) del D.Lgs. 112/1998, che riserva allo Stato le
direttive nella gestione del demanio idrico, ai fini di un'equa ponderazione degli interessi in campo tra i
possibili usi, norma messa ad evidente compensazione della disciplina concessoria conferita alle Regioni
in materia. Analoga funzione compensativa hanno anche le disposizioni di cui al 2 e 3 comma in materia
di distribuzione della risorsa idrica tra più Regioni.
(19) U. POTOTSCHNIG, Vecchi e nuovi strumenti nella disciplina delle acque, in Riv. trim. dir. pubbl., 1969,
pp. 1025 s.
(20) Si tratta di questioni che non possono essere trattate in una nota come questa. Qui basti comunque
(v. anche nota successiva) rinviare a P. URBANI, Bilancio idrico, concessioni di derivazione di acqua
pubblica e ruolo delle Autorità di bacino, in questa Rivista, 1997, pp. 843 ss.
(21) P. URBANI, Le Autorità di bacino nazionale: pianificazione, regolazione e controllo nella difesa del
suolo, in Riv. giur. edil., 1995, pp. 22 ss.
(22) "Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione
della finanza pubblica e la perequazione tributaria". Pubblicato nella G.U. 25 giugno 2008, n. 147, S.O.
(23) Per un approfondimento in materia si rinvia a: A. DESANCTIS (a cura di), Acqua. Per un modello
pubblico di gestione, Edigrafital, Teramo, 2006; R. PETRELLA-R. LEMBO, L'Italia che fa acqua. Documenti e
lotte per l'acqua pubblica contro la mercificazione del bene comune, Carta/Ed. Intra Moenia, Napoli,
2006; M. BERSANI, Acqua in movimento. Ripubblicizzare un bene comune, Ed. Alegre, Roma, 2007.
(24) Sull'Osservatore romano del 16 luglio, il Papa Benedetto XVI ha scritto: "Riguardo al diritto
all'acqua, si deve sottilineare anche che si tratta di un diritto che ha il proprio fondamento nella dignità
umana; da questa prospettiva bisogna esaminare attentamente gli atteggiamenti di coloro che
considerano e trattano l'acqua unicamente come un bene economico".
(25) Non per nulla, l'art. 23-bis è stato già oggetto di forti critiche anche da parte di Federutility, della
Confservizi e dell'Anci, organizzazioni che non sono certo note per essere anti-privatizzazione.
(26) È possibile rintracciare il testo integrale della sentenza al seguente indirizzo web: http://
www.ambientediritto.it/sentenze/2008/Corte%20Conti%20CGE/C.G.E._2008_causa_371.htm.
(27) Vedi F. DIDIO, La partecipazione pubblica nel governo delle acque: le linee guida per una comune
strategia europea, in Dir. giur. agraria e ambiente, 2007, pp. 152-156.
Archivio selezionato: Note
LA DEMANIALITÀ IDRICA E LA CATEGORIA RESIDUALE DELLE ACQUE PRIVATE (*)
Giur. merito 2008, 7-8, 2046
Filippo Cazzagon
Avvocato in Mestre-Venezia
SOMMARIO: 1. La contrapposizione tra acque pubbliche e acque private come tradizionale summa divisio in
materia di acque. - 2. Il concetto di acque pubbliche dal t.u. n. 1775 del 1933 al d.lg. n. 152 del 2006. 3. Le ipotesi residuali di acque private dopo la l. n. 36 del 1994: A) la raccolta di acque piovane al
servizio del fondo e B) l'utilizzo di acque sotterranee per usi domestici. - 4. La tesi dell'efficacia non
retroattiva della demanializzazione dei beni idrici: aspetti problematici ed esame critico. - 5. La natura
pubblica o privata delle reti idriche.
1. LA CONTRAPPOSIZIONE TRA ACQUE PUBBLICHE E ACQUE PRIVATE COME TRADIZIONALE
SUMMA DIVISIO IN MATERIA DI ACQUE
Uno degli aspetti notoriamente problematici posti dalla l. 5 gennaio 1994, n. 36 atteneva all'impatto della
nuova definizione di acque pubbliche con la tradizionale e fondamentale distinzione tra acque pubbliche
ed acque private.
Invero, le questioni sulla configurabilità di acque private nel nostro sistema legislativo sono relativamente
attuali, posto che lo sviluppo della disciplina giuridica delle acque pubbliche aveva già mostrato la
progressiva tendenza alla riduzione, se non addirittura alla eliminazione delle acque private (2). Tanto
che, anche prima della l. n. 36 del 1994, era emerso il dubbio se nel nostro ordinamento giuridico ne
potesse ancora essere riconosciuta l'esistenza.
Le discussioni ebbero, infatti, origine sin dalla pubblicazione del Codice civile del 1865, il quale ripudiando il criterio della navigabilità e attitudine ai trasporti di epoca medioevale ed accolto dal Code
Napoleon (art. 538) - classificava, sulle tracce del Codice albertino del 1837 (art. 420), tra i beni
appartenenti al demanio pubblico «i fiumi e torrenti», mentre la l. 20 marzo 1865, n. 2248 all. F, nel
titolo III, c. I («Dei fiumi, torrenti, laghi, canali, rivi e colatori naturali») si riferiva anche ai «minori corsi
naturali di acque pubbliche, distinti dai fiumi e torrenti colla denominazione di fossati, rivi e colatori
pubblici» (artt. 91 ss.).
L'apparente antinomia delle disposizioni del Codice civile e della legge sui lavori pubblici del 1865 aveva
consentito agli interpreti di schierarsi tanto a favore di una esegesi privatistica (in virtù della quale le
acque diverse da fiumi e torrenti dovevano considerarsi private), quanto a favore di una esegesi
pubblicistica o demanialistica (secondo cui anche i corsi minori rientravano nel demanio), ed era prevalsa
alla fine una soluzione di compromesso fondata sul criterio della idoneità dei corsi minori a soddisfare
interessi generali.
Ma le incertezze continuarono anche dopo l'entrata in vigore del testo unico n. 1775 del 1933, il quale,
recependo tale criterio, definiva le acque pubbliche in termini di attitudine ad usi di pubblico generale
interesse. Si trattava di una formula estremamente ampia, soprattutto per l'estensione del concetto di
«attitudine ad usi di pubblico generale interesse» che dottrina e giurisprudenza maggioritaria intesero
come idoneità anche solo virtuale, indipendente da un'attuale destinazione ad usi pubblici (diretti o
indiretti).
Tale interpretazione aveva indotto alcuni studiosi a sostenere che già in base al t.u. del 1933 non si
sarebbe più potuto parlare di acque private. Secondo questa tesi, le norme del Codice civile e delle altre
leggi vigenti attributive ai privati di diritti sopra determinate acque, avrebbero riguardato non la
proprietà, bensì la mera utilizzazione delle stesse. Si era addirittura paventato che la tradizionale
distinzione tra acque pubbliche ed acque private dovesse essere sostituita con quella fra acque pubbliche
ed acque non pubbliche, ove alla demanialità delle prime si sarebbe contrapposta la patrimonialità
(indisponibile) delle seconde (3).
Tuttavia, la dottrina dominante ha mantenuto l'indirizzo opposto, ammettendo l'esistenza di acque
private, come categoria «a rischio» (4), ma comunque distinta da quella delle acque pubbliche (5).
2. IL CONCETTO DI ACQUE PUBBLICHE DAL T.U. N. 1775 DEL 1933 AL D.LG. N. 152 DEL 2006
Con la promulgazione della legge Galli il legislatore è intervenuto in modo dirompente sul sistema delle
acque, affrontando la tematica sotto una duplice prospettiva: quella dell'appartenenza, riservandola in via
necessaria allo Stato (art. 1) e quella della fruizione, individuando un insieme di usi di pubblico interesse,
assoggettati ad un complesso regime amministrativo che dovrebbe privilegiare il «consumo umano» (art.
2), pur largamente inteso, e, quanto agli altri usi produttivi, provvedere ad una scala di priorità tra usi
agricoli (art. 28) e usi industriali (art. 29).
L'aspetto innovativo di questa riforma consisteva nell'aver statuito la pubblicità di tutte, indistintamente,
le acque, a prescindere dalla cennata attitudine ad usi di pubblico generale interesse. La ratio era
ascrivibile a ragioni di carattere strettamente ambientale: la finalità di pubblico generale interesse
coincideva, infatti, con la ridondante esigenza di salvaguardare le «aspettative ed i diritti delle
generazioni future a fruire di un integro patrimonio ambientale» (6)(7).
Si trattava di una correlazione (acqua-ambiente-demanio) che - malgrado la contraria opinione della
Corte costituzionale - non appariva e non appare, tuttora, priva di aspetti di irragionevolezza, considerato
che la finalità di tutela del patrimonio idrico è riferibile all'«acqua» intesa come risorsa (ovvero come
bene primario della vita dell'uomo) da utilizzare con parsimonia e secondo criteri di solidarietà, mentre
l'appartenenza pubblica è configurabile in ordine al diverso concetto di «acque» costituite da beni
immobili (art. 812 c.c.) composti da una massa d'acqua racchiusa in un alveo (fiumi, laghi, torrenti,
stagni, etc.) (8).
Siffatta disciplina è stata, in seguito, affinata dal d.P.R. 18 febbraio 1999, n. 238 (emanato in attuazione
della legge Galli e tuttora in vigore) a mente del quale «Appartengono allo Stato e fanno parte del
demanio pubblico tutte le acque sotterranee e le acque superficiali, anche raccolte in invasi o
cisterne» [comma 1] mentre vi rimangono escluse le «acque piovane non ancora convogliate in un corso
d'acqua o non ancora raccolte in invasi e cisterne» [comma 2] (9).
Da ultimo, il d.lg. 3 aprile 2006, n. 152 (abrogativo della legge Galli) ha stabilito, all'art. 144, che «Tutte
le acque superficiali e sotterranee, ancorché non estratte dal sottosuolo, appartengono al demanio dello
Stato».
Quanto si è rilevato in ordine alle finalità ed alle prescrizioni della l. n. 36 del 1994 va, quindi, ribadito e
confermato anche per il codice dell'ambiente.
3. LE IPOTESI RESIDUALI DI ACQUE PRIVATE DOPO LA L. N. 36 DEL 1994: A) LA RACCOLTA DI
ACQUE PIOVANE AL SERVIZIO DEL FONDO E B) L'UTILIZZO DI ACQUE SOTTERRANEE PER USI
DOMESTICI
La pubblicizzazione integrale delle risorse idriche sembrerebbe aver definitivamente posto la parola fine
sulla sopravvivenza di acque private.
Ma non è esattamente così.
Come è noto la disciplina codicistica è contenuta nel Libro terzo, Titolo II, Sezione IX «Delle acque» agli
artt. 909-921 suddivisibili in tre gruppi: il primo (artt. 909-912 e 918-921) riguarda l'uso delle acque; il
secondo (artt. 913 e 914) lo scolo e il prosciugamento dei terreni; il terzo (artt. 915-917) la difesa contro
le acque fluenti.
Ora, l'art. 2 d.P.R. 238 del 1999 ha disposto l'espressa abrogazione dell'art. 910 c.c. («Uso delle acque
che limitano o attraversano il fondo»).
Sono, invece, rimaste in vita le altre norme del Codice civile che si occupano di uso delle acque ovvero
l'art. 909 («Diritto sulle acque esistenti nel fondo»), l'art. 911 («Apertura di nuove sorgenti e altre
opere») e l'art. 912 («Conciliazione di opposti interessi»).
Non appare sostenibile la tesi dell'implicita abrogazione dell'intera Sezione IX del Capo II del Titolo II del
Codice civile per la semplice ragione che il legislatore là dove ha voluto abrogare l'ha fatto espressamente
(ubi lex voluit dixit) e per giunta identificando nel regolamento governativo di cui all'art. 17 comma 2 l. n.
400 del 1988 lo strumento preordinato a individuare «le disposizioni normative incompatibili con la
presente legge» (art. 32 l. n. 36 del 1994).
In ogni caso, le richiamate disposizioni del Codice civile appaiono compatibili con il regime
panpubblicistico delle acque (10).
Ai sensi dell'art. 909 c.c. il proprietario del suolo ha diritto di utilizzare le acque in esso esistenti «salve le
disposizioni delle leggi speciali per le acque pubbliche per le acque sotterranee».
L'espressione «acque esistenti nel fondo» già in passato - prima cioè della l. n. 36/94 - veniva intesa
ricomprendendovi: a) le sorgenti che si esauriscono in un fondo privato; b) i corsi minori (torrenti, rivi,
etc.); c) i laghi e stagni non idonei ad uso pubblico; d) le acque non correnti; e) i corsi d'acqua artificiali
che scorrono non naturalmente; f) le acque sotterranee idonee solo per uso domestico o per irrigazione
del fondo; g) i canali di derivazione appartenenti a privati; h) le raccolte di acque piovane.
È un dato di fatto che, nell'attuale sistema normativo, molte di queste acque sono divenute pubbliche (si
pensi alle sorgenti, ai corsi minori, ai laghi e stagni, alle acque correnti, etc.).
Ciò limita l'operatività della norma codicistica, ma non esclude in toto l'ammissibilità di «acque esistenti
nel fondo».
Il rinvio alle disposizioni vigenti in materia di acque pubbliche e di acque sotterranee permette, invero, di
delimitare il campo di applicazione dell'art. 909 c.c. e di definire i margini del diritto d'uso spettante al
proprietario del fondo.
Dal necessario coordinamento della disciplina privatistica e di quella pubblicistica si desume che la
categoria delle «acque esistenti nel fondo» liberamente utilizzabili da parte del proprietario (o dell'avente
titolo) è limitata a due ipotesi.
(A) La prima è costituita dalla raccolta di acque piovane in invasi e cisterne di cui agli art- 28 l. 36/94 e
167 d.lg. n. 152 del 2006. Tale raccolta - precisa l'art. 167 d.lg. n. 152 del 2006 - quando è «al servizio
di fondi agricoli o di singoli edifici è libera» (comma 3) «non richiede licenza o concessione di derivazione
di acque» e «la realizzazione dei relativi manufatti è regolata dalle leggi in materia di edilizia, di
costruzioni nelle zone sismiche, di dighe e sbarramenti e dalle altre leggi speciali» (comma 4). Il fatto
che, in questi casi, il legislatore non richieda la licenza o concessione di derivazione sembra, in effetti,
postularne l'appartenenza al privato, analogamente a quanto accade con le concessioni di acqua potabile
o di derivazione a scopo irriguo che attribuiscono al concessionario un effettivo diritto di proprietà
sull'acqua concessa. L'unica differenza è che, mentre nel caso della concessione la proprietà (e con essa il
diritto di vendere l'acqua ex art. 40 T.U. n. 1775 del 1933) è conseguenza del provvedimento
amministrativo, nel caso previsto dall'art. 167 d.lg. n. 152 del 2006 il diritto trova la sua fonte
direttamente nella norma di legge.
(B) La seconda ipotesi è, invece, rappresentata dalle acque sotterranee di cui all'art. 93 t.u. n. 1775 del
1933. La loro estrazione ed utilizzazione per fini domestici anche con mezzi meccanici continua, infatti, ad
essere libera, non essendo sottoposta ad autorizzazione neppure per la ricerca. L'art. 28 comma 5 l. n. 36
del 1994 e del pari l'art. 167 comma 5 d.lg. n. 152 del 2006 prevedono che «L'utilizzazione delle acque
sotterranee per gli usi domestici come definiti dall'art. 93 comma 2 del testo unico delle disposizioni di
legge sulle acque e sugli impianti elettrici (...) resta disciplinata dalla medesima disposizione, purché non
comprometta l'equilibrio del bilancio idrico (...)». Le acque fluenti nel sottosuolo, quindi, una volta
estratte rappresentano una pars fundi ed appartengono al proprietario. In questi casi, la facoltà di
estrarre le acque dal sottosuolo è espressamente condizionata all'osservanza delle «distanze e cautele
previste dalla legge». Ora le prime si ricavano dall'art. 889 («Distanze per pozzi, cisterne, fosse e tubi»)
e dall'art. 891 («Distanze per canali e fossi») mentre le seconde si desumono dall'art. 911 («Apertura di
nuove sorgenti e altre opere»). Per cui chi intende aprire sorgenti, stabilire capi o aste di fonte e in
genere eseguire opere per estrarre acque pubbliche dal sottosuolo (così come costruire canali o
acquedotti, oppure scavarne, approfondirne o allargarne il letto, aumentarne o diminuirne il pendio o
variarne la forma), oltre a conseguire il permesso della pubblica amministrazione e rispettare le distanze
di cui agli artt. 889 e 891 c.c., dovrà eseguire le opere che siano necessarie per non recare pregiudizio ai
fondi altrui, nonché alle sorgenti, capi o aste di fonte, canali o acquedotti preesistenti e destinati
all'irrigazione dei terreni o agli usi domestici o industriali.
Queste due fattispecie (acque piovane ed acque sotterranee) sono - a parere di chi scrive - le uniche
ipotesi di acque private ammissibili dall'attuale disciplina.
È vero che il diritto d'uso da parte del soggetto privato appare ancora strettamente correlato al rapporto
tra lo stesso ed il terreno nel quale esiste l'acqua (nel senso che la facoltà di utilizzare le «acque esistenti
nel fondo» è riconducibile al diritto di proprietà del suolo che sembrerebbe inglobare anche la facoltà di
prelevare le quantità d'acqua necessarie per gli scopi domestici o del singolo fondo).
Ma è altrettanto vero che, una volta esercitata tale facoltà, il proprietario del fondo si appropria della
quantità d'acqua consumata per usi irrigui o potabili, senza che ciò si ponga in conflitto con il principio
della necessaria appartenenza pubblica delle acque superficiali e sotterranee. Come ha, invero, rilevato la
dottrina «altro è il regime al quale è sottoposto il bene in quanto categoria, altro è il regime delle singole
parti del bene» (11) ben potendosi ammettere che il legislatore consenta l'acquisto della proprietà da
parte del privato su singole parti del bene appartenente alla complessa categoria demaniale (12).
Non appare, quindi, condivisibile l'impostazione seguita dal Tribunale di Sant'An gelo nella sentenza n.
114 del 2008 secondo cui l'art. 909 c.c. andrebbe «aggiunto» alle norme che permettono la raccolta di
acque piovane e l'utilizzazione di acque sotterranee.
A ben vedere, l'art. 909 c.c. non contiene una ipotesi ulteriore di acque private, ma rappresenta la
categoria tipica di acque private (o che dir si voglia «non pubbliche») alla quale vanno armonizzate e
ricondotte le previsioni specifiche di cui sopra (13).
Alle suddette acque risultano, perciò, ancora applicabili non solo gli artt. 909 e 911 c.c., ma anche
l'istituto conciliativo previsto dall'art. 912 c.c.
Ed invero, le controversie insorte tra proprietari confinanti in merito all'estrazione di acque sotterranee
per usi domestici e/o alla raccolta ed utilizzo delle acque piovane al servizio di fondi agricoli o di singoli
edifici potrebbero essere eventualmente risolte dal giudice attraverso una conciliazione degli opposti
interessi.
Da questo punto di vista, si può certamente confermare che la tradizionale contrapposizione tra acque
pubbliche ed acque private, benché fortemente ridimensionata e ridotta ai minimi termini, non è del tutto
scomparsa, nemmeno dopo le più recenti riforme normative.
4. LA TESI DELL'EFFICACIA NON RETROATTIVA DELLA DEMANIALIZZAZIONE DEI BENI IDRICI:
ASPETTI PROBLEMATICI ED ESAME CRITICO
V'è da chiedersi, peraltro, se le riferite categorie di acque private siano realmente le uniche ipotizzabili o
se ve siano delle altre.
La domanda sorge spontanea se solo si esamini la già richiamata sentenza del Tribunale di Sant'Angelo
dei Lombardi n. 114 del 2008.
Il giudice irpino ha statuito che la declaratoria di pubblicità idrica posta dalla legge Galli non avrebbe
effetto retroattivo, ragion per cui non avrebbe travolto i diritti sulle acque già acquisiti dai privati ante
riforma.
A sostegno di tale esegesi vengono richiamati i precedenti giurisprudenziali che negano efficacia
retroattiva alla demanializzazione impressa dalla l. n. 37 del 1994 (14) Precedenti le cui massime sono
state estese dall'organo giudicante alle norme della legge Galli con il conseguente riconoscimento di
acque rimaste in regime di proprietà privata.
È evidente che, in questo caso, la categoria delle acque private si dilaterebbe in modo significativo
rispetto al numerus clausus riconosciuto in precedenza. Dovrebbe ro, infatti, considerarsi private non solo
le acque piovane al servizio del fondo e le acque sotterranee destinate ad usi domestici, ma anche tutte
quelle acque che anteriormente all'entrata in vigore della legge Galli non erano iscritte negli elenchi in
quanto prive della attitudine ad usi di pubblico generale interesse di cui all'art. 1 t.u. 1775 del 1933.
In altre parole, la irretroattività della l. n. 36 del 1994 consentirebbe ai privati di restare proprietari di
sorgenti, piccoli laghi, stagni, corsi minori, etc. oltre che di raccolte di acque pluviali e sotterranee ad usi
domestici.
La tesi, però, non convince pienamente.
V'è, anzitutto, da rilevare che l'ambito oggettivo della legge n. 36/94 non coincide con quello della l. n.
37 del 1994. Quest'ultima - come precisa il suo stesso intitolato («Norme per la tutela ambientale delle
aree demaniali dei fiumi, dei torrenti, dei laghi e delle altre acque pubbliche») - non riguarda
direttamente le acque superficiali e sotterranee, ma le pertinenze idrauliche ovvero i terreni («aree») che
fungono da alveo o da letto di fiumi, laghi, torrenti ed altri corsi d'acqua assoggettati al regime
demaniale.
La l. n. 37 del 1994 ha sottratto in molti casi all'appropriazione privata le aree fluviali o di pertinenza
fluviale in favore della demanialità delle stesse. Ha, invero, novellato gli artt. 942, 946 e 947 c.c.
escludendo la sdemanializzazione tacita e qualificando come demaniali anche le «aree» che dovessero
perdere la loro originaria funzione pubblica in relazione al corso del fiume (15).
Malgrado, quindi, si tratti di beni afferenti all'ampia categoria del demanio idrico non si tratta di
fattispecie assimilabili.
Non è detto, quindi, che si possa estendere tout court alle acque della legge Galli, il principio
giurisprudenziale di salvezza dei diritti quesiti sulle «aree» di cui alla l. n. 37 del 1994.
Ma anche a prescindere da questo rilievo, è sufficiente rimanere entro i confini della giurisprudenza per
appurate che la tesi del Tribunale di Sant'Angelo si scontra con le pronunce intervenute nel tempo proprio
sul tema della retroattività della pubblicizzazione idrica.
L'orientamento incontrastato dei giudici, infatti, è sempre stato di segno diametralmente opposto rispetto
a quanto or ora statuito dalla sentenza n. 114 del 2008.
Fin dagli anni '60 si afferma che la declaratoria di pubblicità determinerebbe una trasformazione oggettiva
dell'acqua in virtù della quale la medesima, per ciò stesso, perderebbe la sua caratteristica di essere
suscettibile di proprietà privata, divenendo un bene demaniale con conseguente caducazione dei diritti di
proprietà o di altri diritti precedentemente costituiti a favore di terzi (16).
Per giustificare la legittimità costituzionale di simile meccanismo, dottrina e giurisprudenza hanno
invocato l'istituto giuridico della riserva che comporterebbe un'acquisizione a titolo originario in favore
dello Stato non accompagnata da alcun indennizzo (17) Ciò sulla scorta del principio - da tempo
affermato dalla Corte costituzionale - per cui «la legge può non disporre indennizzi quando i modi e i
limiti che essa segna, nell'ambito della garanzia accordata dalla Costituzione, attengano al regime di
appartenenza o ai modi di godimento dei beni in generale o di intere categorie di beni» (18). Principio
ribadito anche in occasione di due pronunce (n. 259 e n. 419 del 1996) relative alla legittimità
costituzionale dell'art. 1 della stessa legge Galli (19).
È evidente che, applicando questi canoni ermeneutici al caso di specie, non sarebbe postulabile la tesi del
valore non retroattivo della legge Galli.
Tesi che, oltretutto, sarebbe difficilmente compatibile con le disposizioni [art. 34 della l. n. 36 del 1994
art. 1 comma 4 d.P.R. 238 del 1999 e art. 164 comma 2 d.lg. n. 152 del 2006] che fissano il termine
perentorio (20) entro il quale l'utilizzatore (e con esso l'ex proprietario) avrebbe dovuto chiedere - a pena
di decadenza (21) -il riconosci mento o la concessione preferenziale delle acque «divenute pubbliche» per
effetto della l. n. 36 del 1994 (22). Queste norme sembrano chiaramente presupporre il carattere
retroattivo (ed espropriativo) della declaratoria di pubblicità. E, in effetti, la conversione della proprietà in
un diritto d'utenza pare costituire una forma di compensazione ex art. 42 Cost. per il sacrificio subito dal
proprietario di un'acqua divenuta demaniale.
Sia chiaro: sarebbe certamente auspicabile e ben accetta un'esegesi che in applicazione dell'art. 11 disp.
prel. c.c. limitasse la pubblicità alle acque che non erano già in pertinenza dei privati.
Si tratterebbe, del resto, di una limitazione coerente con il concetto di riserva di beni pubblici elaborato
dalla dottrina (23).
Tuttavia, il suo accoglimento dovrebbe postulare, per un verso, l'abbandono dello schema
dell'acquisizione a titolo originario (anche) delle acque già appartenenti ai privati ed ora riservate allo
Stato e, per un altro, l'illegittimità delle stesse norme di legge e di regolamento che dispongono la
conversione della proprietà privata in diritti temporanei d'uso e che assoggettano tale riconoscimento ad
un termine perentorio (24).
Con questo non si vuole necessariamente bocciare l'impostazione seguita dal Tribunale di Sant'Angelo
(25) ma soltanto evidenziare che la stessa implicherebbe conse guenze forse non calcolate dallo stesso
organo giudicante: a quel punto si sarebbe, invero, dovuta sollevare la questione di legittimità
costituzionale delle menzionate disposizioni di legge o, quanto meno, disapplicare gli artt. 1 e 2 d.P.R. n.
238 del 1999.
Questo ci induce a ritenere che, nell'attuale sistema normativo, l'ambito delle acque private - piaccia o no
- appare davvero limitato alle categorie residuali descritte in precedenza e, cioè, alle raccolte di acque
piovane al servizio del fondo e all'utilizzo di acque sotterranee per usi domestici.
Che queste siano le uniche fattispecie da considerarsi non pubbliche è dimostrato a fortiori dalla
circostanza che la demanialità è estesa dall'art. 1 comma 1 d.P.R. n. 238 del 1999 a tutte «le acque
sotterranee e le acque superficiali anche raccolte in invasi o cisterne» (26).
Non ogni raccolta e/o utilizzo per usi domestici od al servizio del singolo fondo implica l'esclusione dal
novero dei beni pubblici, potendo ciò verificarsi soltanto per le raccolte di acque piovane e di acque
sotterranee.
In altre parole, il carattere demaniale non è ristretto alla falda acquifera ed ai corsi e bacini idrici naturali,
ma si estende anche a tutte le raccolte artificiali di acque che non siano quelle di cui sopra,
eccezionalmente lasciate nella disponibilità dei soggetti privati (27).
5. LA NATURA PUBBLICA O PRIVATA DELLE RETI IDRICHE
La domanda da porsi, a questo punto, è se un canale interrato (qual è quello preso in esame dalla
sentenza n. 114/08 del Tribunale di Sant'Angelo) possa rientrare in una delle cennate ipotesi residuali di
acque private.
È evidente che, trattandosi di una conduttura artificiale, il criterio discriminante non è costituito dall'opera
in sé, ma dal tipo di acqua che vi confluisce: se si tratta di acqua prelevata in forza di regolare titolo
abilitativo (concessione di derivazione o riconoscimento di antico uso) oppure di acqua piovana e/o
sotterranea raccolta ed incanalata per usi domestici, il privato sarebbe proprietario dell'invaso e della
massa d'acqua che vi scorre all'interno.
Negli altri casi, invece, l'acqua dovrebbe appartenere allo Stato (in forza del principio per cui sono
demaniali tutte le acque sotterranee e superficiali «anche raccolte in invasi o cisterne») mentre al privato
resterebbe solo la titolarità del canale artificiale. Del resto, l'art. 153 d.lg. n. 152 del 2006 ascrive al
demanio dello Stato solo le reti idriche artificiali di proprietà pubblica e non anche quelle realizzate dai
privati sui propri terreni.
In questi frangenti, si verificherebbe un tipico caso di sdoppiamento tra il regime (privato) del contenitore
(terreno) e la natura (pubblica) della sostanza incanalata (acqua).
È noto, infatti, che occorre sempre distinguere fra l'acqua come elemento fisico a sé stante ed il suo
mezzo contenitore o conduttore. Sono due cose necessariamente connesse e concorrenti a formare un
bene complesso (qual è il canale), ma fra loro nettamente distinte anche per il diverso diritto di cui
ciascuna di esse potrebbe essere oggetto (28).
In conclusione, la natura della massa d'acqua confluita in un canale artificiale potrebbe variare a seconda
della provenienza e dell'utilizzazione della risorsa.
Potrebbe, cioè, essere privata la rete idrica composta da acque superficiali raccolte in forza di concessione
di derivazione o di riconoscimento antica utenza oppure da acque piovane o sotterranee invasate ed
utilizzate per esigenze domestiche od agricole del singolo fondo.
Si rientrerebbe, in questi casi, nell'esercizio del diritto conferito a ciascun proprietario di utilizzare le
«acque esistenti nel fondo» (art. 909 c.c.) nei limiti previsti dall'art. 1 d.P.R. n. 238 del 1999 e dall'art. 93
t.u. n. 1775 del 1933.
Negli altri casi si dovrebbe trattare di acque pubbliche senza che possa rivestire alcuna rilevanza
l'attitudine o meno a soddisfare usi di pubblico generale interesse.
NOTE
(*) L'occasione per affrontare con queste brevi note il tema delle acque private è offerta dalla recente
decisione del Tribunale di Sant'Angelo dei Lombardi n. 114 del 4 marzo 2008. La sentenza dirime la lite
insorta tra due privati in ordine alla liceità delle opere di presa d'acqua effettuate dal convenuto su un
canale artificiale interrato posizionato lungo la linea di confine tra i due fondi ed alimentato da acque
sorgenti e da piccole emergenze idriche superficiali raccolte in un altro terreno (a monte) e fatte poi
defluire - attraverso il suddetto canale - in una vasca ubicata (a valle) nella proprietà dell'attore. Il
giudice monocratico, dopo aver escluso la natura demaniale delle acque in questione (sul rilievo che
l'intervenuta declaratoria di pubblicità non avrebbe effetto retroattivo al pari di quanto statuito dalla
giurisprudenza in ordine alla l. n. 37 del 1994) ha accertato la natura privata dell'acqua ex art. 909 c.c. e
la sussistenza in capo all'attore di un diritto esclusivo d'uso costituito sulla conduttura e sulla stessa
acqua dall'originario proprietario del compendio immobiliare. Conseguentemente ha condannato il
convenuto alla rimozione delle opere che intercettavano (deviandole) le acque defluenti nel canale
interrato ed ha altresì disposto il ripristino della situazione preesistente.
(1) ASTUTI, voce Acque private, in Enc. dir., vol. I, Milano 1958, 387 s.
(2) Questa tesi si fondava soprattutto sul diverso regime previsto dal codice civile del 1865 rispetto a
quello del codice vigente. Nel primo gli artt. 542 e 545 facevano espressa menzione del «proprietario
della sorgente» e del «proprietario o possessore d'acqua» e distinguevano l'uso spettante a costoro come
facoltà di godimento contenuta nel diritto di proprietà dell'acqua, dall'uso consentito al proprietario del
fondo limitato o attraversato da un'acqua non demaniale, qualificato come facoltà connessa al diritto di
proprietà del fondo. Nel codice del 1942, invece, il diritto di usare l'acqua sarebbe considerato solo come
una facoltà contenuta nel diritto di proprietà del fondo, ed in tal senso si interpretavano gli artt. 909 e
910 c.c. Negata l'esistenza di acque private, le acque non pubbliche erano ricondotte nell'ambito dell'art.
827 c.c., in virtù del quale «I beni immobili che non sono in proprietà di alcuno spettano al patrimonio
dello Stato». Si sarebbe trattato, pertanto, di beni appartenenti al patrimonio indisponibile dello Stato
destinati all'uso privato, mentre il diritto di utilizzazione spettante al proprietario veniva configurato come
una servitù prediale, considerando come fondo servente l'acqua sotterranea, sorgente o scorrente (come
corso d'acqua nella sua integrità) (cfr. ASTUTI, op. ult. cit., 389).
(3) LUGARESI, Le acque pubbliche. Profili dominicali, di tutela e di gestione, Milano 1995, 55 («Si è nel
contempo evidenziato che tali acque, per eventi naturali o per un incremento della necessità pubblica che
comportassero una «dilatazione dell'area» del pubblico generale interesse, potessero in qualsiasi
momento acquistare il carattere della pubblicità»).
(4) Gli argomenti posti a fondamento di questo indirizzo erano sostanzialmente desunti: dalla rubrica
dell'art. 909 c.c. («Diritto delle acque esistenti sul fondo»); dalla menzione delle «acque non pubbliche»
di cui agli artt. 910 e 912 c.c.; dal riferimento implicito dell'art. 822 ad acque non definite pubbliche; dal
potere di disposizione riconosciuto al titolare del diritto delle acque esistenti nel fondo (art. 909 comma
2); dall'art. 912 c.c. ove è previsto che l'autorità giudiziaria può assegnare una indennità ai proprietari
che sopportino diminuzioni del proprio diritto; dalla espressa menzione del «proprietario del lago o dello
stagno» (art. 943 c.c.) (cfr. ASTUTI, op. ult. cit., 390 s.).
(5) Sul punto mi permetto di rinviare a CAZZAGON, Le acque pubbliche nel Codice dell'ambiente, in Riv.
giur. amb., f. 3-4, 2007, 435 s. Sulla l. n. 36 del 1994 si veda CONTE, Il demanio idrico secondo la legge 5
gennaio 1994, n. 36, in Rass. giur. en. el., 1994, 613 s.; DELL'ANNO, Manuale di diritto ambientale,
Padova, 1995, 531; DI MAJO, Le risorse idriche nel vigente ordinamento, in Rass. giur. en. el., 1996, 1 s.;
PALAZZOLO, voce Acque pubbliche in Enc. dir., Agg. IV, Milano, 2000, 38 ss.; PALAZZOLO, Acque pubbliche
ed energia, in Rass. giur. en. el., 1996, 342; PALAZZOLO, La nuova normativa in tema di acque pubbliche,
in Dir. e giur. agraria e dell'ambiente, 1995, 6; GOLA, L'amministrazione degli interessi ambientali,
Milano, 1995, 304, in nota GRAGNOLI, Nuovi indirizzi sulla disciplina dell'acqua, in Dir. econ., 1997, 347 ss.
In giurisprudenza, cfr. Trib. sup. acque pubbliche, ord. 18 luglio 1995, in Rass. giur. en. el., 1995, 235.
(6) Anche la Corte costituzionale (con sent. n. 259 del 1996 in www.giurcost.org) ha osservato che
«...l'attenzione si è soffermata sull'acqua (bene primario della vita dell'uomo), configurata quale
«risorsa» da salvaguardare, sui rischi da inquinamento, sugli sprechi e sulla tutela dell'ambiente, in un
quadro complessivo caratterizzato dalla natura di diritto fondamentale a mantenere integro il patrimonio
ambientale...».
(7) Sul punto si rinvia, ancora, a CAZZAGON, Le acque pubbliche nel Codice dell'Ambiente, cit., 441-442.
(8) Non sembrano del tutto esenti da censure le richiamate disposizioni del d.P.R. n. 238 del 1999.
Invero, l'art. 32 l. n. 36 del 1994 fissava, in modo dettagliato, i limiti del potere governativo ed i
contenuti dell'emanando regolamento stabilendo che quest'ultimo avrebbe dovuto limitarsi a individuare
le norme incompatibili con la legge Galli. Non si trattava, dunque, di un regolamento finalizzato a
disciplinare la materia (delle acque), bensì di un atto ricognitivo delle disposizioni che - sulla base dei
principi generali determinati dalla legge delegificante (nel nostro caso dalla legge Galli) - apparivano
logicamente incompatibili con le norme di questa stessa legge. Orbene, il d.P.R. n. 238 del 1999 non si è
limitato a individuare le norme da considerarsi abrogate (art. 2), ma ha innovato la definizione di acque
pubbliche posta dall'art. 1 l. n. 36 del 1994 determinando, da un lato, l'estensione della demanialità a
tutte le acque «anche raccolte in invasi o cisterne» (art. 1 comma 1) e sancendo, dall'altro, l'esclusione
da tale ambito delle «acque piovane non ancora convogliate in un corso d'acqua o non ancora raccolte in
invasi e cisterne» (art. 1 comma 2). Da questo punto di vista potrebbe profilarsi un illegittimo esercizio
del potere regolamentare per violazione della legge delegificante, sanzionabile con la disapplicazione (ex
art. 5 l. n. 2248 del 1865) o addirittura con l'annullamento delle menzionate disposizioni.
(9) In senso contrario, si veda Trib. S. Angelo Lombardi 5 giugno 2003, in Giust. civ., 2004, 1, 1355, con
nota di Flammia (secondo cui dopo l'emanazione del d.P.R. n. 238 del 1999 «... solo parte della dottrina
si è rivelata particolarmente attenta alle diverse sfaccettature ermeneutiche della stessa, riuscendone a
cogliere il corredo di effetti tacitamente abrogativi che non si limiterebbe ad involgere solo l'art. 910 c.c.,
unica norma espressamente abrogata dal d.P.R. n. 238, cit., ma travolgerebbe anche gli articoli seguenti,
presupponendo questi, esattamente come l'altro, la natura privata delle acque...»).
(10) CASSESE, I beni pubblici. Circolazione e tutela, Milano, 1969, 216.
(11) Anche la più recente dottrina (OLIVI, Beni demaniali ad uso collettivo, Padova, 2005) dopo aver
precisato che «la demanialità non investe tutte le utilità che la cosa rende, e cioè che l'ordinamento,
attraverso il regime demaniale, qualifica diversamente alcune utilità rispetto ad altre, predisponendo una
tutela differenziata» (92-93) sottolinea che si tratta «di selezionare le utilità rese dalla cosa che possono
essere oggetto di sfruttamento economico, e ciò nello svolgimento di tale funzione di tutela che si traduce
in una valutazione di compatibilità di usi. Si può quindi ammettere che le utilità così selezionate, per aver
passato il vaglio di compatibilità con l'utilità oggetto di protezione, possano essere oggetto di un diritto di
proprietà privata comprensivo della facoltà. Tali utilità infatti non sono oggetto della protezione assicurata
dal regime demaniale, e per brevità possono anche dirsi collaterali al regime demaniale, tenendo però
presente che sono individuate proprio in applicazione di tale regime. Sono queste le utilità che si trovano
indicate come afferenti alla «titolarità domenicale» del bene nella citata prospettiva di proprietà
compatta, ed è in riferimento ad esse che si può estendere l'applicazione della disciplina domenicale
comune» (298).
(12) Non va dimenticato l'art. 943 c.c. che pone il principio per cui l'estensione dell'alveo lacuale deve
essere determinata con riferimento al livello delle piene ordinarie allo sbocco del lago, senza che si possa
tener conto del perturbamento causato da piene straordinarie ovvero da eventi eccezionali (meteorici,
geosismici o prodotti dall'opera dell'uomo per esigenze momentanee) e senza che dall'alveo propriamente
detto possa distinguersi il lido, potendo soltanto l'alveo stesso distinguersi dalla spiaggia, la quale ha
strutturalmente inizio là dove ha termine l'alveo (v. ancora CAZZAGON, Le acque pubbliche nel Codice
dell'ambiente, op. cit., 451 s.)
(13) Sulla non retroattività delle disposizioni della l. n. 37 del 1994 e sulla loro inidoneità a travolgere la
proprietà privata dei beni già legalmente appartenenti ai privati: cfr. Trib. sup. acque pubbl. 11 novembre
1997, n. 75; Trib. sup. acque pubbl. 19 ottobre ..., n. 125, in Cons. Stato, 2000, 1987. Egualmente con
riferimento alle disposizioni di cui agli artt. 3 e 4 della l. n. 37 del 1994 (sostitutive degli artt. 946 e 947
c.c.) vedi Cass., sez. un., 26 luglio 2002, n. 11101, in Giust. civ., 2003, I, 89; Cass., 14 gennaio 1997, n.
300, in Giust. civ., 1997, I, 1312 e in Dir. giur. agr. e ambiente, 1998, II, 94, con nota di A. Coletta.
(14) Sul punto v. BOLDON ZANETTI, La tutela ambientale delle aree di pertinenza dei corpi idrici e il divieto
di sdemanializzazione (nota a Cons. Stato, sez. II,15 dicembre 2004 n. 5548) in Riv. giur. ambiente,
2005, 5, 819.
(15) Si è infatti statuito che «la dichiarazione di demanialità dell'acqua opera con effetto retroattivo,
come se l'acqua non fosse stata mai di proprietà di alcuno, e ciò per il carattere originario di demanialità
di uso pubblico, che rende il bene insuscettibile di privato dominio» (cfr. Trib. sup. acque pubbl. 11
maggio 1965, n. 10, in Cons. Stato 1965, II, 243 s.). Ad analoghe conclusioni perveniva Cass., sez. un.,
22 giugno 1955, n. 1933, in Acque bon. costr., 1955, 405 secondo cui l'art. 4 t.u. n. 1775 del 1933
«tempera gli effetti della retroattività della dichiarazione di demanialità, in quanto all'utente che delle
acque abbia goduto in buona fede e che le vede incluse in un elenco suppletivo, riconosce un diritto alla
concessione di quelle stesse acque, mediante un provvedimento che la forma della concessione e la
sostanza del riconoscimento»; Cass., sez. I, 4 agosto 1960, n. 2289, in Foro pad., 1961, I, c. 1261 per la
quale «La classifica pubblica di un corso d'acqua, a seguito della sua iscrizione in elenco, produce la
caducazione dei diritti di proprietà o di altro genere costituiti sull'acqua, con la conseguenza ulteriore che
i diritti anteriormente accordati ai terzi dal titolare si trasformano in diritti di uso temporaneo, il cui
esercizio è soggetto alle prescrizioni, alle limitazioni ed agli oneri posti nel disciplinare dall'Autorità
amministrativa». Ancora nel senso che la dichiarazione di demanialità delle acque importasse la
decadenza del diritto di proprietà e di tutti gli altri diritti privati già costituiti sull'acqua dichiarata
pubblica, salvo riconoscimento o concessione da parte dell'autorità amministrativa si veda App. Roma 12
luglio 1958, in Giur. agr. it., 1958, 437; Trib. Lecce 12 febbraio 1959, in Giur. it., 1959, I, 854; App.
Brescia 20 febbraio 1958, in Mass. Giust. civ., 1958, 12; Trib. acque Palermo 23 maggio 1957, in Mass.
Giust. civ., 1957, 53; Trib. Brescia 7 agosto 1954, in Acque, bonif., costr. 1958, 117. In dottrina cfr.
LUGARESI, Le acque pubbliche, op. cit., 72 s.; PERRUCCI, Le acque pubbliche nella legislazione italiana,
Bologna, 1981, 35; cfr. Trib. sup. acque pubbl. 18 luglio 1961, n. 13, in Acque, bon., costr., 1962, 62;
CERULLI IRELLI V., voce Acque pubbliche, in Enc. giur., vol. I, Roma, 1988, 4; JANNOTTA, voce Acque
pubbliche, in. Dig. disc pubbl., vol. I, Torino, 1987, 57; CAPUTI JAMBRENGHI, voce Beni pubblici, in Enc.
giur., vol. V, Roma 1988, 16; COSTANTINO, Sfruttamento delle acque e tutela giuridica, Napoli, 1975, 134.
(16) LUGARESI, Le acque pubbliche, cit., 80; PERRUCCI, Le acque pubbliche nella legislazione italiana, cit.,
35; PASINI BALUCANI, I beni pubblici e le relative concessioni, Torino, 1978, 257 s; BUSCA, Passaggio di
acque dal regime privatistico al regime pubblicistico. Conseguenze in ordine ai diritti e ai rapporti di cui
esse furono oggetto prima della loro attuazione nella categoria delle acque pubbliche, in Foro padano,
1961, c. 1262 s.In giurisprudenza, v. Trib. sup. acque pubbl. 1 aprile 1965, n. 8, in Cons. Stato, 1965, II,
177; Trib. sup. acque pubbl. 1 aprile 1965, n. 10, ivi, 1965, II, 175; Trib. sup. acque pubbl. 28 gennaio
1950, n. 9, in Foro amm., 1951, I, 2; Trib. sup. acque pubbl. 28 gennaio 1967, n. 1, in Rass. avv. Stato,
1967, I, 160; Trib. sup. acque pubbl., 23 maggio 1967, n. 14, in Foro amm., 1967, I, 454-455.
(17) Tale orientamento venne proposto per la prima volta in occasione di una decisione sulle servitù
militari (n. 6 del 20 gennaio 1966, in www.giurcost.org); poi ripreso in due sentenze in materia di
miniere, cave e torbiere (nn. 20 e 119 del 1967, in www.giurcost.org) e sostanzialmente ribadito in altre
sentenze riguardanti i vincoli di inedificabilità urbanistici e paesaggistici (n. 55 del 9 maggio 1968 e n. 56
del 29 maggio 1968, in www.giurcost.org).
(18) C. cost. 19 luglio 1996, n. 259 e C. cost. 27 dicembre 1996, n. 419, in www.giurcost.org.
(19) La scadenza del predetto termine era stata originariamente stabilita in «tre anni» dall'entrata in
vigore della legge Galli (art. 34 della l. n. 36 del 1994); in seguito venne fissata in «un anno» a decorrere
dalla emanazione del d.P.R. n. 238 del 1999 (art. 1 comma 4) e successivamente prorogata al «30 giugno
2003» dall'art. 19, comma 5, della l. n. 289 del 2001 ed infine al «31 dicembre 2007» dall'art. 2, comma
1, d.l. 300 del 2006 convertito in l. n. 17 del 2007.
(20) Sul carattere perentorio e decadenziale del termine la giurisprudenza ha statuito: «La norma
transitoria contenuta nell'art. 34 l. 5 gennaio 1994, n. 36, che stabiliva il termine entro il quale poteva
essere fatto valere a pena di decadenza, il diritto al riconoscimento od alla concessione di acque che
avevano assunto natura pubblica era fissato in 3 anni dalla data di entrata in vigore della legge stessa,
ave vano contenuto immediatamente precettivo, che non poteva ritenersi incluso nella differita
operatività, desunta dalla mancata approvazione dei regolamenti previsti dal precedente art. 32, di
attuazione della nuova normativa sulle acque» (così Trib. sup. acque pubbl. 6 ottobre 1999, n. 107, in
Cons. Stato, 1999, II,1560).
(21) Anche sotto questo profilo emerge una sostanziale differenza tra il regime di demanialità impresso
dalla l. n. 37 del 1994 e dalla l. n. 36 del 1994: la facoltà di conseguire il riconoscimento e la concessione
preferenziale è circoscritta all'utenza di «acque» divenute pubbliche per effetto della legge n. 36/94 e non
anche all'uso delle «aree» asservite al demanio ai sensi della l. n. 37 del 1994.
(22) Il riferimento è al Cassese il quale nella propria monografia sui beni pubblici precisa che la riserva,
colpendo una situazione soggettiva logicamente antecedente alla proprietà (e cioè la legittimazione a
divenire proprietari di talune categorie di beni) andrebbe riferita «a beni che non sono attualmente, cioè
al momento nel quale venga disposta la riserva, di pertinenza dei privati». In questo senso, si rende
necessario tenere distinta la categoria dei «beni attualmente di pertinenza dei privati» assoggettabile solo
ad espropriazione con indennizzo, dalla categoria contigua dei «beni non attualmente di pertinenza dei
privati» i quali potrebbero essere sottoposti solo ad un regime di riserva originaria. Tale fondamentale
intuizione ha permesso all'Autore di individuare con esattezza anche il criterio di discrimine tra la riserva
e l'espropriazione. Quest'ultima «colpisce la proprietà dei privati, e non l'appropriazione dei privati, cioè
colpisce i privati in quanto siano titolari di un certo bene, in quanto quel bene venga sottratto ai privati
per essere trasferito ad altri». Invece, la riserva opera «nei confronti di una posizione e presuppone che
questa non si sia esplicata, facendo divenire il privato titolare del diritto che ha il bene per oggetto»: cfr.
CASSESE, I beni pubblici, cit., 220 s.
(23) Appare, in effetti, per certi versi discutibile alla luce di quanto stabilito dall'art. 42 comma 2 Cost.
che lo Stato possa espropriare un bene e subordinare la corresponsione dell'indennizzo (qui
ipoteticamente convenuto nell'attribuzione di un diritto d'uso) ad un duplice termine: l'uno perentorio
connesso al tempo entro il quale l'espropriato deve chiedere il riconoscimento o la concessione
preferenziale, pena la decadenza ovvero la definitiva perdita di qualsiasi pretesa a mantenere l'uso delle
acque; l'altro finale correlato alla natura temporanea del diritto d'uso accordato.
(24) Dal punto di vista teorico, si potrebbe attribuire all'art. 909 c.c. la stessa rilevanza conferita da
alcuna dottrina all'art. 943 c.c. (che come noto contempla la figura del proprietario del lago e dello
stagno). Con riferimento a questa categoria di beni già in passato autorevole dottrina aveva, infatti,
sostenuto che l'art. 943 c.c. servirebbe ad integrare tanto l'art. 28 cod. nav., quanto l'art. 822 c.c. (che
parla di laghi senza distinguere tra acque dolci o salate, comunicanti o no col mare, rientranti nel
demanio idrico o in quello marittimo). Secondo questa teorica «l'unica costruzione logica che si deve
trarre dal combinato disposto degli artt. 822 c.c. e 28 c.n. con l'art. 943 c.c.» sarebbe quella di
considerare ancora privati i «bacini (o parti di bacini) naturali già privati all'entrata in vigore dei due
codici salva una possibile loro demanializzazione, previo esproprio (con indennizzo) e destinazione al
pubblico uso; invece i bacini già pubblici, a seconda della oggettiva intensità della loro rilevanza pubblica,
vengono a ricadere nel demanio necessario con impossibilità di sdemanializzazione, o nel demanio
accidentale con possibilità di sdemanializzazione giusti gli artt. 829 c.c. e 35 c.n.» (cfr. IMPALLOMENI,
Demanialità accidentale nell'ambito marittimo e idrico, con particolare riguardo a darsene e canali
artificiali, in Scritti in onore di Vignocchi, Padova, 1991, 1413). Ad analoghe conclusioni si potrebbe
pervenire, ora, in relazione alle altre tipologie di «acque esistenti nel fondo» in base al coordinato
disposto degli artt. 909 e 822 c.c. e degli artt. 1 l. n. 36 del 1994 e 1 d.P.R. n. 238 del 1999.
(25) Oltre a queste raccolte, sono altresì demaniali in virtù dell'art. 143 del codice dell'ambiente anche le
reti idriche di proprietà pubblica (acquedotti, fognature, impianti di depurazione e infrastrutture idriche)
che in passato potevano appartenere (es. gli acquedotti) ad amministrazioni diversi dallo Stato e fare
parte del patrimonio indisponibile (cfr. PARISIO, Acqua, servizio idrico, liberalizzazioni in Foro amm., 2007,
4, 1293 s.).
(26) Si veda in proposito anche C. cost. sent. n. 419 del 1996, cit., che ha ritenuto legittima l'inclusione
nel demanio dei corpi idrici recettori di acque drenate dai terreni agricoli bonificati, sul presupposto che
tali beni non sarebbero assimilabili né alle raccolte di acque piovane in invasi o cisterne al servizio del
fondo né all'utilizzazione di acque sotterranee per usi domestici.
(27) La necessità di tale distinzione è stata sottolineata, in passato, anche dalla giurisprudenza: cfr.
Cass., sez. un., 26 febbraio 1930, in Giur. it., 1939, I, c. 455 («una cosa è l'acqua, altra il canale che la
convoglia; né dal carattere dell'una si può argomentare il carattere dell'altra»); la stessa sentenza della
Cass. 22 luglio 1948, n. 1194, in Giur. it., 1949, c. 445 («La servitù di acquedotto importa il diritto di far
passare l'acqua per il fondo servente, quella di presa di ricavare da esso l'acqua»), è interamente fondata
sul presupposto della piena reciproca autonomia e scindibilità fra il diritto, di cui è oggetto l'acqua, e il
diritto di cui è oggetto il mezzo adibito alla sua derivazione e condotta.
Archivio selezionato: Note
ANCORA SULLA DISTINZIONE TRA RIFIUTO, RIFIUTO LIQUIDO E SCARICO
Cass. pen. 2007, 10, 3855
Alfredo Montagna
Sommario1. Premessa. - 2. La natura di rifiuto del siero di latte. - 3. La disciplina dello scarico
occasionale. - 4. L'assetto del decreto n. 22 del 1997 ed il d.lg. n. 152 del 1999. - 5. La situazione dopo il
decreto n. 258 del 2000. - 6. L'interpretazione sistematica da preferire. - 7. Le novità del decreto 3 aprile
2006, n. 152.
1. PREMESSA
La decisione della Corte consente di operare una serie di riflessioni che si pongono su due piani diversi: il
primo attiene alla natura del c.d. siero di latte e del suo conseguente inquadramento, in via generale, alla
categoria del rifiuto; il secondo consente di riaffermare, anche dopo la entrata in vigore del d.lg. 3 aprile
2006, n. 152, il concetto di "scarico" e la conseguente demarcazione della linea di distinzione tra rifiuto e
scarico.
Il giudice di legittimità, in un procedimento nel quale il ricorso risultava proposto avverso la sentenza del
Tribunale di S. Maria Capua Vetere che aveva affermato la responsabilità per il reato di cui all'art. 51,
comma 1, del d.lg. n. 22 del 1997, per aver smaltito e trasportato, in tempi diversi, rifiuti non pericolosi
senza la prescritta autorizzazione, e segnatamente per lavendita, da parte del primo dei ricorrenti,del
siero di latte derivante dall'attività produttiva di un caseificio- sostanza che era stata qualificata come
rifiuto, in quanto residuo del processo di lavorazione - all'altro imputato, titolare di azienda zootecnica,
che lo aveva destinato ad alimento per bovini, aveva sollevato, con ordinanza 14 dicembre 2005,
depositata il 16 gennaio 2006 con il n. 1414 del 2006 e con riferimento agli artt. 11 e 117 Cost., la
questione di legittimità costituzionale dell'art. 14 del d.l. 8 luglio 2002, n. 138 (Interventi urgenti in
materia tributaria, di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per il sostegno
dell'economia anche nelle aree svantaggiate), convertito, con modificazioni, nella l. 8 agosto 2002, n.
178, che aveva introdotto «l'interpretazione autentica» della nozione di rifiutodi cui all'art. 6 del d.lg. 5
febbraio 1997, n. 22 (Attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e
94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio), dubitando della compatibilità costituzionale della
disciplina nazionale sui rifiuti nei suoi rapporti con il diritto comunitario.
La Corte costituzionale ha però restituito alla Corte di cassazione, ai fini di una nuova valutazione circa la
rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione sollevata, alla luce delle nuove disposizioni
introdotte dal d.lg. 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), pubblicato nellaG.U.n. 88 del 14
aprile 2006, supplemento ordinario, il quale, in attuazione della delega conferita dall'art. 1 della legge n.
308 del 2004, reca, nella parte quarta (Norme in tema di gestione dei rifiuti e di bonifica dei siti
inquinati), una nuova disciplina della gestione dei rifiuti, integralmente sostitutiva di quella già contenuta
nel d.lg. 5 febbraio 1997, n. 22.
Infatti successivamente all'ordinanza di rimessione è intervenuto il d.lg. 3 aprile 2006, n. 152, che, per
quanto in questa sede più interessa, ha espressamente abrogato, all'art. 264, comma 1, lett.l), la norma
di interpretazione autentica di cui all'art. 14 del d.l. n. 138 del 2002, sottoposta a scrutinio di
costituzionalità dalla corte rimettente; inoltre in luogo delle previsioni di cui al comma 2 del citato art. 14,
contro le quali si rivolgevano, in particolare, le censure della Corte di cassazione, il medesimo decreto
legislativo ha introdotto, all'art. 183, comma 1, lett.n), una nuova definizione di "sottoprodotto", sottratto
a determinate condizioni all'applicazione della disciplina sui rifiuti: definizione che, peraltro, pur
ponendosi, quanto aratio, in linea di ideale continuità con la disposizione censurata, si discosta da essa
sotto plurimi profili, sul piano della formulazione e dei contenuti precettivi.
2. LA NATURA DI RIFIUTO DEL SIERO DI LATTE
Molteplici ragioni militano a favore della tesi per la quale non vi sono ragioni, anche dopo l'entrata in
vigore del d.lg. n. 152 del 2006, per escludere il siero di latte dalla disciplina sui rifiuti.
Da un lato, pur senza richiamare le riflessioni di carattere più ampio e sistematico sui rapporti tra diritto
comunitario e diritto nazionale(1), basti in questa sede ricordare come la Corte di giustizia abbia
affrontato esplicitamente la questione della distinzione tra prodotti e rifiuti ed i criteri per operare una
distinzione siffatta sono stati individuati nell'assenza di operazioni di trasformazione preliminare e nella
certezza del riutilizzo senza recare pregiudizio all'ambiente. Peraltro la stessa Corte di giustizia delle
Comunità europee (Sez. II, 11 novembre 2004, C-475/02, Niselli) ha escluso in modo assoluto che
possano ricomprendersi tra i sottoprodotti, di cui il detentore non intende disfarsi, i residui di consumo (o
di produzione), atteso che questi non costituiscono materiali o materie prime derivanti da un processo di
fabbricazione o di estrazione destinato principalmente a produrlo; pertanto la Corte ha affermato come
non sia consentito escludere dalla nozione di rifiuto ogni residuo di produzione o di consumo sol che esso
possa essere riutilizzato in un qualunque ciclo di produzione o di consumo, vuoi in assenza di trattamento
preventivo e senza arrecare danno all'ambiente, vuoi previo trattamento ma senza che occorra tuttavia
un'operazione di recupero ai sensi dell'allegato II B della direttiva 75/442 (trasfusa nel decreto n. 22 del
1997).
Sotto il profilo giurisprudenziale va ricordato come sia nella stessa ordinanza 1414 della terza sezione,
che in precedenza (sentenza 16 gennaio 2002, dep. 4 marzo 2002, n. 8520, Leuci, inC.E.D. Cass., n.
221273) la Corte aveva affermato che la fattispecie della quale si sta trattando non è riportabile sotto la
disciplina di cui al d.lg. 14 dicembre 1992, n. 508, di attuazione della direttiva 90/667/CEE in tema di
norme sanitarie per la eliminazione, trasformazione e immissione sul mercato di rifiuti di origine animale
(poi sostituita dal regolamento n. 1774 del 2002 recante norme sanitarie relative ai sottoprodotti di
origine animale non destinati al consumo umano), e ciò per il motivo che il d.lg. n. 508 del 1992 regola
esclusivamente i profili sanitari e di polizia veterinaria della fase di trasformazione dei rifiuti di origine
animale; conseguentemente per quanto riguarda i profili di gestione permane la operatività del decreto n.
22 del 1997. Da tale premessa discende che non sono richiamabili le esclusioni dal regime del citato
decreto contenute dal successivo art. 8, atteso che queste operano soltanto allorquando le categorie di
materie esonerate siano disciplinate da specifiche disposizioni di legge.
Un ulteriore motivo per riaffermare la natura di rifiuto del siero da latte si fonda sul dato che il latte
perde, anche ove la si volesse riconoscere, la natura di sottoprodotto di origine animale quando viene
impiegato come materia prima nella produzione casearia, con la conseguenza che il siero di latte che
residua da questa produzione non può che essere qualificato come rifiuto specialeexart. 7 del d.lg. n. 22
del 1997, ed oggiexart. 184 del d.lg. n. 152 del 2006; ed in questo senso la Corte risulta essersi già
espressa, oltre che nella citata ordinanza del 2006, allorché ha affermato che la vendita del siero
residuato dall'attività di lavorazione del latte operata da un caseificio configura attività di gestione dei
rifiuti, ed ove svolta in difetto di autorizzazione, integra il reato di cui all'art. 51, comma 1, del d.lg. 5
febbraio 1997, n. 22, atteso che il siero costituisce rifiuto ai sensi degli artt. 6 e 7 del citato decreto n. 22
trattandosi di residuo derivante dall'attività di lavorazione del prodotto (nella specie il latte) (Sez. III 8
giugno 2004, dep. 2 agosto 2004, n. 33205, Cioffi, inC.E.D. Cass., n. 229011).
In ragione di queste osservazioni non appaiono sussistere spazi interpretativi per sottrarre il siero di latte
risultante dal processo produttivo dei caseifici alla disciplina dei rifiuti, stante la sua natura non di
sottoprodotto bensì di residuo, così che eventuali dubbi in merito non potranno portare ad una non
applicazione delle relative disposizioni, ma soltanto ad una nuova richiesta di intervento del giudice delle
leggi (questa volta in relazione alle definizioni del d.lg. n. 152 del 2006).
3. LA DISCIPLINA DELLO SCARICO OCCASIONALE
Con una interessante e pienamente condivisibile decisione la Corte di cassazione aveva nel 2004
sgombrato il campo da un equivoco che per lungo tempo aveva consentito a parte della dottrina, ed alla
stessa giurisprudenza di legittimità, di ritenere depenalizzato il superamento dei limiti tabellari nell'ipotesi
di scarico occasionale, e ciò a seguito delle modificazioni apportate agli artt. 54, comma 1, e 59, comma
5, del d.lg. 11 maggio 1999, n. 152, contenenti le sanzioni amministrative e penali previste nel caso di
effettuazione di scarichi con superamento tabellare, da parte del d.lg. 18 agosto 2000, n. 258, che
eliminava il riferimento alle immissioni occasionali prima presente nelle due disposizioni in questione.
Infatti con decisione del 21 gennaio 2004, dep. 24 marzo 2004, n. 14425, Ric. L., la terza sezione aveva
affermato il principio per il quale: «In tema di tutela delle acque dall'inquinamento, a seguito della
entrata in vigore del d.lg. 18 agosto 2000, n. 258, le immissioni occasionali escluse dalla sanzione prima
prevista dagli artt. 54, comma 1, e 59, comma 5, del d.lg. 11 maggio 1999, n. 152 sono esclusivamente
quelle realizzate senza il tramite di una condotta, atteso che anche dopo le modifiche del 2000 gli scarichi
non possono superare i limiti tabellari quale che sia il loro carattere temporale».
Il tema si pone all'interno della più ampia problematica consistente nella individuazione della linea di
confine tra normativa sui rifiuti e disposizioni in tema di scarichi, al fine di collocare esattamente il
trattamento dei rifiuti liquidi.
Prima ancora della entrata in vigore del d.P.R. n. 915 del 1982, la l. 10 maggio 1976, n. 319, all'art. 1,
conteneva uno specifico riferimento agli scarichi diretti ed indiretti allorché precisava come la legge in
questione avesse per oggetto «la disciplina degli scarichi di qualsiasi tipo, pubblici e privati, diretti ed
indiretti», individuando altresì come destinazione finale degli stessi «il suolo ed il sottosuolo».
Successivamente, con l'entrata in vigore della prima disposizione organica in materia di rifiuti, il d.P.R. 10
settembre 1982, n. 915, da un lato veniva fornita una nozione di rifiuto quale «qualsiasi sostanza ed
oggetto ivi comprese le sostanze acquose a base liquida e semiliquida», dall'altro veniva prevista, all'art.
2, la applicazione della citata legge n. 319 del 1976 per quanto concerneva «la disciplina dello
smaltimento nelle acque, sul suolo e nel sottosuolo dei liquami e dei fanghi», purché non qualificati tossici
e nocivi ai sensi dello stesso decreto n. 915.
A fronte di una persistente difficoltà di individuazione della linea di demarcazione tra disciplina sui rifiuti e
disciplina sulle acque, cui contribuiva anche l'uso alternativo dei termini scarico e smaltimento,
intervenivano le Sezioni unite con la decisione Forina(2)che, giudicando in tema di acque di lavorazione
delle olive, enunciava il principio di diritto secondo il quale il d.P.R. n. 915 del 1982 disciplinava tutte le
singole operazioni di smaltimento (es: conferimento, raccolta, trasporto, ammasso, stoccaggio) dei rifiuti,
fossero essi solidi o liquidi, fangosi o sotto forma di liquami, con esclusione di quelle fasi, concernenti i
rifluiti liquidi (o assimilabili), attinenti allo scarico e riconducibili alla disciplina stabilita dalla legge n. 319
del 1976, con l'unica eccezione dei fanghi e liquami tossici e nocivi, regolati, sotto ogni profilo, dal d.P.R.
n. 915 del 1982.
4. L'ASSETTO DEL DECRETO N. 22 DEL 1997 ED IL D.LG. N. 152 DEL 1999
Con la entrata in vigore del d.lg. 5 febbraio 1997, n. 22 le acque di scarico sono state espressamente
escluse dal campo di applicazione della normativa sui rifiuti, a meno che non si tratti di rifiuti allo stato
liquido, ciò ai sensi dell'art. 8, lett.e)che lo afferma espressamente, e pur in presenza di decisioni di
senso contrario la giurisprudenza di legittimità ribadiva quanto stabilito a seguito della citata decisione
Forina delle Sez. un., ovvero che la normativa sui rifiuti trovasse applicazione per tutte le operazioni di
smaltimento di rifiuti liquidi autonome rispetto allo scarico idrico come previsto dalla legge n. 319(3).
La sostanziale continuità interpretativa di tale discrimine pur dopo l'entrata in vigore del d.lg. n. 22 è
stata confortata dalla decisione 8 maggio 1998 della Corte costituzionale che sottolineava il
mantenimento della disciplina pur dopo l'abrogazione del d.P.R. n. 915 del 1982, in quanto la nuova
disposizione su rifiuti ricomprendeva i «rifiuti allo stato liquido» distinguendoli dalle «acque di scarico»,
con terminologia ripresa dalla direttiva 75/442/CEE.
Deve soltanto precisarsi in proposito come suscitino perplessità le oscillazioni della dottrina sulla
applicabilità o meno della disciplina sugli scarichi anche ai rifiuti liquidi pericolosi, sempre che lo
sversamento avvenga tramite condotta, in quanto anche dopo l'entrata in vigore del decreto n. 22, per
effetto della disposizione transitoria di cui all'art. 57, comma 1, che equipara i rifiuti tossici e nocivi della
precedente normativa (d.P.R. n. 915 del 1982) ai rifiuti pericolosi della normativa vigente, restano esclusi
dalla disciplina sulla tutela delle acque i rifiuti pericolosi(4).
In pratica il complesso normativo di riferimento ribadiva la posizione centrale del decreto sui rifiuti, così
che ogni qual volta la eventuale disciplina specifica di settore dei materiali esclusi si presentava (o si
presenti) lacunosa si riespandeva (o si riespande) la normativa sui rifiuti.
Con la pubblicazione sullaG.U.del 29 maggio 1999 del d.lg. 11 maggio 1999, n. 152, Disposizioni sulla
tutela delle acque dall'inquinamento, utilizzando nel sistema normativo interno una tecnica redazionale di
origine comunitaria già introdotta con il d.P.R. sui rifiuti, sono state fornite una serie di definizioni utili ai
fini della questione che si sta trattando, ed in particolare veniva fornita la definizione di scarico quale
«immissione diretta tramite condotta di acque reflue liquide, semiliquide e comunque convogliabili» (art.
1, lett.bb). Nozione che si completa con quanto previsto dall'art. 36 sia con riferimento al divieto di
utilizzo degli impianti di trattamento di acque reflue urbane per lo smaltimento dei rifiuti (comma 1), sia
con la affermazione che il produttore di rifiuti di cui ai commi 2 e 3 (rifiuti liquidi) ed il trasportatore dei
rifiuti sono tenuti al rispetto della normativa in materia di rifiuti prevista dal d.lg. n. 22 del 1997. L'art. 48
prevede altresì che i fanghi derivanti dal trattamento delle acque reflue siano sottoposti alla disciplina dei
rifiuti.
Una nozione di scarico che era stata letta in uno con la definizione di condotta, quale concetto di ordine
generale che indica una "conduzione", una convogliabilità, del refluo, e che oltre a ricomprendere
canalizzazioni strutturali si allarga a canalizzazioni di fatto, come ritenuto dalla giurisprudenza che ha in
proposito precisato come «la normativa di cui al decreto n. 152 del 1999 non imponga la presenza di una
tubazione che recapiti lo scarico in quanto è sufficiente una condotta, cioè qualsiasi sistema con il quale si
consente il passaggio o il deflusso delle acque»(5).
In pratica la nozione di scarico introdotta dal d.lg. n. 152 n. 1999 costituiva il parametro di riferimento
per stabilire, per le acque di scarico e per i rifiuti liquidi, l'ambito di operatività delle normative in tema di
tutela delle acque e dei rifiuti, così che solo lo scarico di acque reflue liquide, semiliquide e comunque
convogliabili,direttoin corpi idrici ricettori, specificamente indicati, rientrava in tale normativa; per contro,
i rifiuti allo stato liquido, costituiti da acque reflue di cui il detentore si disfisenza versamento direttonei
corpi ricettori, avviandole cioè allo smaltimento, trattamento o depurazione a mezzo di trasporto
comunque non canalizzato, rientravano nella disciplina dei rifiuti ed il loro smaltimento veniva
disciplinatoexd.lg. n. 22 del 1997.
Così che dopo l'entrata in vigore del d.lg. 11 maggio 1999, n. 152, intendendosi per scarico il
riversamento diretto nei corpi recettori,quando il collegamento tra fonte di riversamento e corpo ricettore
è interrotto viene meno lo scarico precedentemente qualificato come indiretto, per fare posto alla fase di
smaltimento del rifiuto liquido. Conseguentemente in tale ipotesi si rendeva applicabile la disciplina di cui
al d.lg. n. 22 del 1997 e non quella della legge n. 319 del 1976, come sostituita dal d.lg. n. 152 del 1999
(6).
5. LA SITUAZIONE DOPO IL DECRETO N. 258 DEL 2000
Con le modifiche apportate dal d.lg. 18 agosto 2000, n. 258 al decreto n. 152 del 1999(7), mentre si è
trovato conforto legislativo ad alcune posizioni giurisprudenziali, si è anche dato luogo ad errori
interpretativi, quale quello sulla disciplina applicabile agli scarichi occasionali.
Infatti il decreto n. 258 ha soppresso l'ipotesi dell'immissione occasionaleprecedentemente presente nel
testo degli artt. 54, comma 1, e 59, comma 5, che nel prevedere le sanzioni applicabili in caso di
superamento dei limiti di emissione facevano riferimento all'«effettuazione di uno scarico ovvero di una
immissione occasionale»; questa soppressione secondo parte della dottrina avrebbe creato, dal momento
di entrata in vigore del decreto n. 258, un vuoto di disciplina per la immissione occasionale non
recuperabile attraverso la interpretazione estensiva della nozione di scarico fino a ricomprendervi il
concetto di episodicità, sul presupposto che tale interpretazione contrasterebbe con la definizione di
scarico fornita dal legislatore nell'art. 2, lett.bbai sensi del quale sarebbero esclusi dall'ambito di
applicazione del decreto n. 152 gli sversamenti o i rilasci non riconducibili ad una struttura stabile(8).
In tale ottica l'immissione occasionale di rifiuti liquidi andava a confluire nella previsione dell'art. 14 del
d.lg. n. 22 che, al comma 2, disponeva che «è altresì vietata l'immissione di rifiuti di qualsiasi genere,
allo stato liquido o solido, nelle acque superficiali e sotterranee», ciò dopo avere comunque vietato, al
comma 1, l'abbandono e il deposito incontrollato sul suolo e nel suolo di rifiuti (in genere). Una ulteriore
soluzione sanzionatoria veniva individuata dai sostenitori di questa linea interpretativa, recuperando le
esperienze dell'ecologismo primordiale noto a quanti ricordano la stagione dei c.d. pretori d'assalto, nella
previsione di cui all'art. 674 c.p. che sanziona il comportamento di chiunque getti o versi in un luogo di
pubblico transito o in luogo privato, ma di comune o di altrui uso, cose atte ad offendere o imbrattare o
molestare le persone. Altra disposizione individuabile sarebbe quella, mai abrogata, dell'art. 6 del testo
unico sulla pesca n. 1604 del 1931, che stabiliva il divieto di scarico nelle acque di sostanze atte ad
intorpidirle, a stordire o uccidere i pesci e gli altri animali acquatici.
Per lungo tempo aveva dato conforto all'orientamento dottrinario che riteneva depenalizzate le ipotesi di
immissioni occasionali la stessa giurisprudenza di legittimità(9)che aveva ritenuto come l'immissione
occasionale, anche se avesse determinato il superamento dei valori limite fissati nelle tabelle 3 e 4
dell'allegato 5, in relazione alle sostanze indicate nella tabella 5, non era più prevista dalla legge come
reato a seguito della modifica operata dall'art. 23, comma 1, lett.e), del d.lg. 258 all'art. 59 del d.lg. n.
152.
Una posizione ripresa in modo acritico da altra pronuncia(10), peraltro adottata nella stessa udienza della
sentenza Rossi(11)che sottolineava, in linea con la precedente Lecchi, come il casode quonon fosse
sottoponibile alla disciplina di cui al d.lg. n. 152 in quanto la immissione occasionale era estranea alla
nozione legislativa di scarico, comprendente tutte le immissioni dirette tramite condotta.
6. L'INTERPRETAZIONE SISTEMATICA DA PREFERIRE
Ma una soluzione diversa era apparsa peraltro maggiormente in linea con la ricostruzione del fenomeno
nella sua sistematicità, anche in aderenza allaratio legische risultava avere ispirato la modifica, in quanto
il legislatore ha ritenuto che «la chiara definizione della nozione di scarico prevista dall'art. 2, lett.bb)e la
formulazione elaborata dalla giurisprudenza anche sotto il vigore della legge n. 319 del 1976
consentivano di ricomprendere in quest'ultima tutte le immissioni effettuate tramite condotta, anche solo
periodiche, discontinue o momentanee» (come recita la Relazione al decreto n. 258). Infatti il decreto n.
152 aveva modificato la precedente disciplina dettata dalla legge Merli distinguendo all'art. 59 tra scarico
di acque reflue industriali ed immissione occasionale, e mentre il primo era qualificato nello stesso
decreto, la seconda non aveva trovato alcuna definizione finendo con l'indicare tutte le ipotesi di contatto
tra reflui, di qualsiasi provenienza e prescindendo dalla continuità, ed i corpi recettori.
Più in particolare si osservava come non potesse e non dovesse essere la valutazione temporale
dell'immissione a determinare la scelta sulla natura della stessa, in quanto questa può essere continua,
discontinua, periodica, saltuaria, sino ad occasionale, ma conservare sempre la sua natura discarico.
Allorché la giurisprudenza (Sez.III, n. 1774 del 2000, cit.) affermava che la normativa di cui al decreto n.
152 pur distinguendo tra scarico ed immissione occasionale (nella precedente previsione) non imponeva
la presenza di una tubazione che recapiti l'immissione, atteso che è sufficiente un qualsiasi sistema con il
quale si consente il passaggio o il deflusso delle acque reflue, poneva l'accento sul dato oggettivo dello
scarico che è quello dellaimmissione diretta tramite condotta(intesa come qualsiasi sistema per la
convogliabilità), mentre è palese la confusione tra scarichi indiretti e scarichi occasionali (recteimmissioni
indirette e scarichi occasionali, rientrando solo le prime nella disciplina dei rifiuti) nella quale appaiono
essere caduti i sostenitori della diversa soluzione di quella fatto ora propria dalla Corte di cassazione nella
decisione del marzo 2004.
Conseguentemente anche dopo le modifiche operate dal decreto n. 258 permaneva la rilevanza penale
dello scarico che se anche qualificato dal requisito della irregolarità, dell'intermittenza e della saltuarietà,
risulti collegato ad un determinato ciclo produttivo industriale(12); ma se cosè è, anche l'immissione
occasionale di rifiuti liquidi, ma collegati ad un determinato ciclo produttivo, ed effettuato tramite un
sistema di convogliabilità, rimaneva sottoposto alla disciplina del decreto n. 152 e successive
modificazioni.
L'unica ipotesi di immissione occasionale che andava ricondotta sotto le previsioni del decreto n. 22 del
1997, e successive modificazioni (ove si possa configurare un rifiuto) o delle altre ipotesi tipiche sopra
indicate, era quella in cui oltre all'episodicità manchi il collegamento strutturale (tramite condotta) e
funzionale con un determinato ciclo produttivo industriale(13).
In considerazione di quanto riportato si era pertanto ritenuto che la disciplina delle acque trovasse
applicazione in tutti quei casi nei quali si è in presenza di uno scarico di acque reflue (liquide o
semiliquide) in uno dei corpi recettori individuati dalla legge (acque superficiali, suolo, sottosuolo, rete
fognaria) effettuato tramite condotta (ovvero tramite tubazioni, o altro sistema stabile) anche se soltanto
periodico, discontinuo o occasionale; mentre in ogni altro caso nel quale venisse a mancare il nesso
funzionale e diretto delle acque reflue con il corpo recettore si sarebbe dovuto applicare la disciplina in
tema di rifiuti, ove configurabile.
7. LE NOVITà DEL DECRETO 3 APRILE 2006, N. 152
Ora con la entrata in vigore del d.lg. 3 aprile 2006, n. 152, recante «Norme in materia ambientale», e
composto di 6 parti, 318 articoli e 45 allegati tecnici, la nozione di scarico risulta modifica, in quanto l'art.
74, comma 1, lett.ff)definisce scarico: «qualsiasi immissione di acque reflue in acque superficiali, sul
suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte
a preventivo trattamento di depurazione. Sono esclusi i rilasci di acque previsti all'articolo 114».
Confrontando l'attuale nozione con quella precedente («immissione diretta tramite condotta di acque
reflue liquide, semiliquide e comunque convogliabili» - art. 1, lett.bb), si evidenziano alcune modifiche,
per soppressione, di non poco conto, in quanto con l'eliminazione al riferimento di qualunque immissione
«diretta» nell'ambiente «tramite condotta» (od opere destinate allo scopo attraverso l'uso dei termini
comunque convogliabili), da un lato si rimette in discussione la sopra riportata e più recente ricostruzione
giurisprudenziale, che aveva portato ad un arresto che si andava appena consolidando, ma dall'altro si
rimettono in discussione i confini tra normativa delle acque e dei rifiuti, ritenuta universalmente la
disciplina di chiusura del sistema.
A fronte di ciò all'operatore si sono presentate diverse opzioni, la prima delle quali tendente a riportare lo
scarico indiretto nel regime delle acque, in conseguenza del rilievo da dare alla modificazione della
nozione di scarico. Infatti la eliminazione della specificazione che la immissione debba essere diretta
potrebbe consentire una interpretazione tesa a riespandere all'immissione indiretta la disciplina delle
acque, anche per la contestuale cancellazione al sistema di convogliabilità o più in particolare alla
«condotta».
La seconda considera ininfluente sull'assetto complessivo sopra delineato la nuova definizione,
considerando la nuova nozione come semplice, e maldestra, riscrittura(14), e ciò anche in considerazione
della intervenuta predisposizione dello schema di decreto legislativo concernente ulteriori modifiche al
d.lg. n. 152(15), nel quale il legislatore mostra di volere effettuare un passo indietro ritornando alla
situazione che si è sopra delineata.
Questa appare essere stata la scelta del giudice di legittimità che nelle prime pronunce intervenute dopo
l'entrata in vigore del d.lg. n. 152 ha mostrato di volere trattare l'argomento come se le modifiche
lessicali nulla di nuovo possano comportare ad un diritto vivente consolidatosi nell'ultimo biennio, con
operazione ermeneutica simile a quanto accaduto con la ritardata entrata in vigore della disciplina del
d.P.R. n. 380 del 2001, ma forse appare più corretto ipotizzare una violazione della delega e percorrere
un cammino maggiormente rispettoso del sistema costituzionale.
NOTE
(1) Sia consentito rinviare sul punto aMONTAGNA,Il difficile cammino verso un diritto penale europeo
minimo,retro, n. 275.
(2) Sez. un., 27 settembre 1995, n. 12310, Forina, inForo it., 1996, II, c. 150.
(3) La voce contraria era rappresentata da Sez. III, 13 febbraio 1998, n. 4280, Ciurletti, inForo it., 1999,
II, c. 115.
(4) In tal senso anche Sez. III, 24 giugno 1999, n. 2358, Belcari, inC.E.D. Cass., n. 214267.
(5) Sez. III, 16 febbraio 2000, n. 1774, Scaramozza, inC.E.D. Cass., n. 215607
(6) In questo senso vedi Sez. III, 18 dicembre 2000, n. 8337, Moscato, inC.E.D. Cass., n. 218027 e Sez.
III, 4 febbraio 2003, n. 12005, Arici,inedita.
(7) Il testo originario prevedeva: «Chiunque, nell'effettuazione di uno scarico di acque reflue industriali,
ovvero da una immissione occasionale, supera i valori limite fissati nella tabella 3 dell'allegato 5 in
relazione alle sostanze indicate nella tabella 5 ovvero i limiti più restrittivi fissati dalle regioni o dalle
province autonome, è punito con l'arresto fino a due anni e con l'ammenda da lire cinque milioni a lire
cinquanta milioni. Se sono superati anche i valori limite fissati per le sostanze contenute nella tabella 3A
dell'allegato 5, si applica l'arresto da sei mesi a tre anni e l'ammenda da lire dieci milioni a lire duecento
milioni»; mentre il nuovo testo recita: «Chiunque, nell'effettuazione di uno scarico di acque reflue
industriali, supera i valori limite fissati nella tabella 3 o, nel caso di scarico sul suolo, nella tabella 4
dell'allegato 5 ovvero i limiti più restrittivi fissati dalle regioni o dalle province autonome o dall'autorità
competente a norma degli articoli 33, comma 1, in relazione alle sostanze indicate nella tabella 5
dell'allegato 5, è punito con l'arresto fino a due anni, e con l'ammenda da lire cinque milioni a lire
cinquanta milioni. Se sono superati anche i valori limite fissati per le sostanze contenute nella tabella 3A
dell'allegato 5, si applica l'arresto da sei mesi a tre anni e l'ammenda da lire dieci milioni a lire duecento
milioni».
(8) In tal sensoZALIN, inLe nuove norme sull'inquinamento idrico, coord. da Butti e Grassi, Il Sole 24
Ore, 2001, secondo la quale «il comportamento di chiunque superi i limiti tabellari nell'effettuazione di
una immissione occasionale, indipendentemente dalla natura dell'immissione stessa, non risulta più
sanzionato né dall'art. 54, comma 1, né dall'art. 59, comma 5»;BUTTI,La tutela delle immissioni
ambientali tra normativa dei rifiuti e tutela della acque, Incontri del CSM 15 ottobre 2001,
incosmag.it.;PAONE,Ultime novità legislative nel settore dell'inquinamento idrico, inForo it., 2001, 3, II,
c. 167; mentre non si sofferma sul puntoFIMIANI,Gli illeciti in materia di inquinamento, Il Sole 24 Ore,
2002, p. 458; per la soluzione ora accolta dalla suprema corte Montagna, voceRifiuti (gestione dei),
inEnc. giur. Treccani, Agg., 2004.
(9) Sez. III, 14 giugno 2002, n. 29651, Paolini, inC.E.D. Cass.,n. 222114; e più di recente Sez. III, 10
marzo 2004, dep. 8 aprile 2004, n. 16720, Todesco, inC.E.D. Cass.,n. 228208, peraltro una
esemplificazione della confusione terminologica nella quale la stessa corte di legittimità sembra ricadere
con una certa frequenza è fornita anche da Sez. III, 8 luglio 2005, dep. 16 settembre 2005, n. 33723,
Cocchi,inedita, che, dopo avere correttamente affermato che lo scarico anche se discontinuo trova la
propria disciplina nel d.lg. n. 152 in quanto collegato al ciclo produttivo, ne esclude lo "scarico
occasionale", evidentemente con riferimento alla immissione occasionale senza natura di scarico.
(10) Sez. III, 10 marzo 2004, dep. 8 aprile 2004, n. 16720, Todesco, cit.
(11) Sez. III, 10 marzo 2004, dep. 8 aprile 2004, n. 16717, Rossi, inC.E.D. Cass., n. 228027.
(12) Sez. III, 7 novembre 2000, n. 12974, Lotti, inC.E.D. Cass., n. 218320.
(13) In tal senso Sez. III, 17 dicembre 2002, n. 8758, Conte, inC.E.D. Cass., n. 224164,per la quale:
«l'interruzione funzionale del nesso di collegamento diretto fra la fonte di produzione del liquame ed il
corpo recettore determina la trasformazione del liquame di scarico in un ordinario rifiuto liquido», e da
ultimo Sez. III, 10 marzo 2004, dep. 8 aprile 2004, n. 16717, Rossi, cit., che evidenzia come lo scarico
occasionale dal quale risultava originato il procedimento non necessitava di autorizzazione semplicemente
perché estraneo alla nozione legislativa di scarico in quanto nel caso di specie mancava il requisito
essenziale della condotta.
(14) Una ulteriore variazione riguarda la nuova formulazione della esclusione degli scarichi dal campo di
applicazione dei rifiutiexart. 185, lett.b)del d.lg. n. 152 del 2006, in quanto l'art. 185, lett.b)prevede che
vengano esclusi dalla disciplina dei rifiuti «gli scarichi idrici, esclusi i rifiuti liquidi costituiti da acque
reflue», mentre nel d.lg. n. 22 del 1997 era prevista l'esclusione per «le acque di scarico, esclusi i rifiuti
allo stato liquido»; tale formulazione è stata ripresa dalla direttiva 2006/12/CE del Parlamento e del
Consiglio del 5 aprile 2006.
(15) Dopo che un primo intervento correttivo, peraltro di modesta entità, è stato effettuato con il d.lg. 8
novembre 2006, n. 284.
Archivio selezionato: Dottrina
Le acque pubbliche nel Codice dell'ambiente
Riv. giur. ambiente 2007, 3-4, 435
FILIPPO CAZZAGON (*)
1. Premessa. 2. L'evoluzione del concetto di acque pubbliche nell'ordinamento italiano. 3. Esame critico
dell'interpretazione restrittiva della nozione di acque pubbliche introdotta dall'art. 1 della legge n. 36 del
1994: il valore precettivo della declaratoria di pubblicità generale e l'interesse generale sotteso alla
demanialità. La duplice concezione della pubblicità delle acque. 4. La categoria ontologica delle acque
pubbliche: acque superficiali ed acque sotterranee. 5. Il problema della compatibilità degli artt. 909, 910,
911 e 912 c.c. e degli artt. 913-921 c.c. con il vigente sistema normativo. 6. La rilevanza giuridica
dell'art. 943 c.c. 7. Conclusioni.
1. Premessa.
Il problema della individuazione delle acque pubbliche e più in generale della tradizionale distinzione tra
acque pubbliche ed acque private è questione di antica data. Dopo aver a lungo associato la qualifica
pubblica all'attitudine a soddisfare usi di interesse generale, il legislatore con la legge n. 36 del 1994 (c.d.
legge Galli) aveva adottato una definizione apparentemente panpubblicistica comprensiva anche delle
risorse un tempo considerate prive di tale idoneità (si pensi al piccolo fossato rurale od al piccolo stagno
ubicato all'interno di un lotto privato intercluso). Ciò aveva imposto all'interprete l'esigenza di stabilire se
la previsione normativa andasse applicata alla lettera oppure se, al contrario, necessitasse d'essere
temperata con una esegesi restrittiva che sostanzialmente conservasse le linee guida della pregressa
disciplina.
A distanza di dodici anni dalla promulgazione della L. 36/1994 è entrato in vigore il decreto legislativo 3
aprile 2006, n. 152, "Norme in materia ambientale" (pubblicato in G.U. 14 aprile 2006, n. 88, s.o. n. 96)
che ha riprodotto con qualche modifica la nozione di acque pubbliche varata dalla legge Galli.
L'emanazione di tale normativa costituisce valido motivo per riconsiderare, brevemente, la materia e per
verificarne i più recenti sviluppi.
2. L'evoluzione del concetto di acque pubbliche nell'ordinamento italiano.
Le prime disposizioni dello Stato italiano sulle acque pubbliche risalgono alla legge 20 marzo 1865, n.
2248, all. f), sui lavori pubblici la quale suscitò sin da subito un vivace contrasto sul significato
dell'espressione "acque pubbliche" rispetto a quella "acque demaniali" usata dal Codice civile del 1865.
Quest'ultimo, invero, prevedeva tra i beni demaniali anche "i fiumi e i torrenti" (art. 427), senza citare i
minori corsi d'acqua di cui all'art. 102 della legge 2248/1865. L'apparente antinomia che in realtà
rispecchiava "una profonda frattura fra due correnti dottrinali e politiche in merito al rapporto tra pubblici
poteri e proprietà delle acque" (1) aveva consentito agli interpreti di schierarsi tanto a favore di
un'esegesi privatistica (in virtù della quale le acque diverse da fiumi e torrenti dovevano considerarsi
private), quanto a favore di un'esegesi pubblicistica o demanialistica (secondo cui anche i corsi minori
rientravano nel demanio) ed era prevalsa alla fine una tesi c.d. distinguente, seguita anche dalla
giurisprudenza. Essa nasceva come compromesso tra le due opposte concezioni e riteneva che i corsi
d'acqua minori, al pari dei laghi e di altri specchi d'acqua, avrebbero potuto essere sia pubblici che privati
(2): erano pubblici quando presentavano una certa rilevanza per l'interesse generale e sociale, mentre
erano privati quando risultavano sforniti di tale utilità (3). Da questo momento in poi il concetto di acque
pubbliche venne costruito in termini di attitudine ad usi di pubblico interesse (in particolare alla
navigazione ex art. 1 del R.D. 959/1913) tanto da divenire il principio cardine della successiva
legislazione. E in effetti venne recepito, dapprima, nell'art. 3 del R.D.L. 9 ottobre 1919, n. 2161, e, poi,
nell'art. 1 del R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775, il quale ebbe a stabilire che "Sono pubbliche tutte le
acque sorgenti, fluenti e lacuali, anche se artificialmente estratte dal suolo, sistemate o incrementate, le
quali, considerate sia isolatamente per la loro portata o per l'ampiezza del rispettivo bacino imbrifero, sia
in relazione al sistema idrografico al quale appartengono, abbiano od acquistino attitudine ad usi di
pubblico generale interesse" (4). Si trattava di una definizione molto ampia che, prendendo in
considerazione "tutte le acque sorgenti, fluenti e lacuali", poteva avere un ambito operativo talmente
vasto e indefinito da potervi includere qualsiasi risorsa idrica, purché dotata di attitudine ad usi di
pubblico generale interesse; concetto, quest'ultimo, a propria volta indeterminato e in continuo evolversi
con il mutare delle condizioni tecniche, economiche e sociali.
Siffatta nozione subiva una radicale innovazione con la promulgazione della legge 5 gennaio 1994, n. 36,
il cui art. 1 disponeva che: "Tutte le acque superficiali e sotterranee, ancorché non estratte dal
sottosuolo, sono pubbliche e costituiscono una risorsa che è salvaguardata ed utilizzata secondo criteri di
solidarietà". Rispetto al T.U. del 1933, mutava il criterio di individuazione delle "acque pubbliche", tali
definendosi tutte le acque indipendentemente dalle caratteristiche fisiche dello scorrimento ed a
prescindere dalla loro concreta attitudine ad usi di pubblico generale interesse. L'aspetto innovativo della
riforma consisteva essenzialmente nell'abbandono del tradizionale criterio teleologico: la pubblicità era
conferita a tutte indistintamente le acque (5).
Tale definizione è stata ora trasfusa nel D.Lgs. 152/2006 (art. 144) il quale pur avendo abrogato la legge
Galli (art. 175), ne ha sostanzialmente riprodotto seppur con qualche modifica di lessico le disposizioni
normative elevandole, tra l'altro, al rango di "principi fondamentali ai sensi dell'art. 117, comma 3, della
Costituzione" e sancendone l'applicabilità anche alle Regioni a statuto speciale compatibilmente con le
norme dei rispettivi statuti.
L'esame del concetto di "acque" codificato nel recente Testo unico non può, quindi, che partire
dall'esegesi della legge 36/1994.
3. Esame critico dell'interpretazione restrittiva della nozione di acque pubbliche introdotta
dall'art. 1 della legge n. 36 del 1994: il valore precettivo della declaratoria di pubblicità
generale e l'interesse generale sotteso alla demanialità. La duplice concezione della pubblicità
delle acque.
Come si è rilevato, l'art. 1 della legge Galli aveva dichiarato pubbliche tutte le acque superficiali e
sotterranee definendole una risorsa da salvaguardare ed utilizzare secondo criteri di solidarietà.
Nell'esaminare siffatta norma, alcuni commentatori avevano suggerito di seguire un criterio identificatore
meno rigoroso rispetto a quello letterale. Il punto da cui prese le mosse questa teorica era che la
disposizione, rigorosamente applicata, avrebbe avuto come conseguenza di trattare come un fiume il
rigagnolo o come un lago lo stagno, la pozzanghera, gli invasi artificiali, le zone di acque freatiche e così
via, con l'ulteriore rischio di considerare demaniali per il principio di accessorietà anche i relativi terreni
(6). Così, mentre per gli altri beni demaniali il criterio ontologico sarebbe stato riferito ad una elencazione
di beni fisicamente individuabili che permetteva di distinguerne alcuni da altri, rispetto alla demanialità
idrica il criterio ontologico sarebbe, invece, stato associato alla categoria generica, ma non unitaria, delle
acque (7), ragion per cui qualsiasi bene che, in astratto, ne avesse posseduto le caratteristiche sarebbe
stato pubblico, ancorché inidoneo a soddisfare usi di pubblico generale interesse (8).
Si era allora cercato di individuare un criterio identificatore nell'inciso "e costituiscono una risorsa"
collegato alle parole "criteri di solidarietà" con il corollario che "le acque pubbliche sarebbero tali in
quanto costituiscono una risorsa in senso sociale" (9). Il tenore della norma lungi dall'essere pleonastico
si disse avrebbe dovuto rivestire un indiretto valore prescrittivo, nel senso che la pubblicità delle acque
sarebbe esistita fintantoché le stesse avessero costituito una risorsa sociale (10). Si sarebbe, in altre
parole, dovuta prediligere una interpretazione restrittiva della legge; interpretazione che sostanzialmente
avrebbe finito per riprodurre la definizione di acque pubbliche del T.U. del 1933. Le acque, dunque,
dovevano considerarsi pubbliche nei limiti in cui costituissero una risorsa per la collettività, con la
conseguente esclusione di molte fattispecie (stagni, acquitrini, fossati, ecc.) che, oltre a non rivestire una
immediata utilità sociale, avrebbero addirittura potuto costituire un pericolo per la salute pubblica (11).
In quest'ottica, la categoria delle acque "non pubbliche" sarebbe stata, ancora una volta, accomunata da
un elemento negativo: il non aver attitudine ad usi di pubblico generale interesse. L'attitudine sarebbe,
perciò, dovuta rimanere il "fondamentale spartiacque" tra pubblico e privato anche nel vigore della legge
Galli (12).
A tale orientamento sembrano aver aderito nel tempo parte della giurisprudenza (13) e la stessa Corte
Costituzionale secondo la quale la declaratoria di pubblicità avrebbe attuato "uno spostamento del
sistema delle "acque" pubbliche verso il regime di utilizzo piuttosto che sul regime di proprietà" (14).
A queste medesime conclusioni si potrebbe pervenire, ora, relativamente alla definizione di "acque"
formulata dall'art. 144 del D.Lgs. 152/2006 che ricalca in buona parte l'art. 1 della legge n. 36 (salvo
aver precisato il regime pubblico con l'ascrizione al "demanio dello stato").
Ma la tesi sembra provare troppo. Seguendo, invero, questa impostazione, si dovrebbe ritenere che l'art.
1 della legge 36/1994 ed ora l'art. 144 del D.Lgs. 152/2006 non avrebbero inciso sul regime di
appartenenza del bene, ma si sarebbero limitati a dettarne le modalità d'uso.
È, però, un dato di fatto oltre che un principio generale che nel nostro ordinamento il concetto di
pubblicità delle acque sia sempre stato (e sia tuttora) sinonimo di demanialità (15). Del resto, la recente
novella precisa che tutte le acque appartengono al demanio dello Stato, ragion per cui anche il
riferimento alle "altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia" contenuto nell'art. 822 c.c.
rappresenta, ormai, una mera petizione di principio.
Non va sottaciuto che in passato si era cercato di dare al richiamato alinea del comma 1 dell'art. 822 una
lettura diversa riferita ai minori corsi e bacini idrici. Ma si tratta di una interpretazione da tempo
supertata e comunque di dubbia utilità.
Invero, se si ritenesse che "fiumi, laghi e torrenti" si distinguano dalle "altre acque definite
pubbliche" (per essere i primi demaniali ex lege ed i secondi solo se idonei ad usi di pubblico interesse) i
criteri di attribuzione della demanialità risulterebbero attualmente equivalenti perché fondati sul criterio
ontologico posto dall'art. 144 del D.Lgs. 152/2006.
Se, poi, si ritenesse che la categoria delle "altre acque definite pubbliche" inglobi necessariamente i fiumi,
i laghi e i torrenti, sulla espressa menzione di questi (art. 822, comma 1, c.c.) diverrebbe prioritario il
rinvio alle "leggi in materia" ovvero al D.Lgs. 152/2006, il quale, avendo riguardo a tutte le "acque",
ricomprenderebbe, senz'altro, nella categoria generale anche i beni anzidetti. Le "acque" costituirebbero il
tipo con cui la legge determina la categoria dei beni del demanio idrico, onde la qualifica di bene
demaniale verrebbe attribuita ad un singolo bene concreto, in virtù della comune regola della sua
riconducibilità alla tipologia delle "acque" (16). Rispetto a tale categoria, l'enumerazione di fiumi, laghi e
torrenti si configurerebbe, pertanto, come un'elencazione di sottotipi, che in quanto meramente
descrittiva avrebbe natura esemplificativa.
Ora, tanto il senso fatto palese dal significato delle parole, quanto la mens legis evidenziano, in modo
chiaro ed univoco, il valore precettivo della dichiarazione di pubblicità-demanialità posta dall'art. 1 della
L. 36/1994 e da ultimo dall'art. 144 del D.Lgs. 152/2006. Non si tratta di una mera enunciazione
programmatica, né di una semplice regolamentazione degli usi; si tratta, piuttosto, di un vero e proprio
atto di asservimento che esprime la volontà del legislatore di attuare una pubblicizzazione generalizzata
delle risorse idriche. Ne è prova l'aver precisato che s'intendono demaniali tutte le acque superficiali e
sotterranee "ancorché non estratte dal sottosuolo": l'ultimo inciso ha l'evidente scopo di evitare ab
origine qualsiasi interpretazione restrittiva del principio di pubblicità delle acque sotterranee, ponendo,
così, definitivamente fine alle dispute che avevano contraddistinto la precedente definizione (17). Lo
stesso art. 1, comma 1, del D.P.R. 238/1999 (non abrogato) ribadisce che "Appartengono allo Stato e
fanno parte del demanio pubblico tutte le acque sotterranee e tutte le acque superficiali, anche raccolte in
invasi o cisterne".
La mens legis appare, dunque, orientata nel senso di attribuire carattere demaniale necessario a tutte le
acque.
A fronte del chiaro disposto legislativo, compito dell'interprete è quello di indagare quali siano le ragioni
poste alla base della pubblicità. Se tutte le acque sono demaniali, questo significa che esse come in
genere gli altri beni pubblici sono funzionalmente preordinate al soddisfacimento di una finalità di
pubblico generale interesse (18).
Il vero nodo da sciogliere sta, allora, nell'individuare la finalità sottesa all'asservimento ex lege delle
acque. Tale finalità affiora dall'esame congiunto dei primi tre commi degli artt. 1 della legge 36/1994 e
144 del D.Lgs. 152/2006: fondamentalmente la scelta del legislatore è dettata dall'esigenza di
salvaguardare le "aspettative ed i diritti delle generazioni future a fruire di un integro patrimonio
ambientale" (19). La formulazione che richiama la definizione di sviluppo sostenibile contenuta nel
famoso Rapporto Brundtland costituisce la trasposizione in termini enfatici del principio ordinatore della
demanialità. L'interesse generale, che è alla base della dichiarazione generale di demanialità, è costituito
dall'esigenza di tutelare (e conservare) il patrimonio idrico nazionale(20).
Si tratta di un interesse connesso al variato modo di concepire la funzione delle acque (21). Nel quadro
della iniziale prospettiva (emergente dal T.U. del 1933 e dal Codice civile) le stesse erano considerate
come mezzi dell'azione amministrativa (al pari degli altri beni pubblici) per la realizzazione delle varie
finalità pubbliche (navigazione, fluitazione, irrigazione, forza motrice, usi civili, ecc.) conseguibili
attraverso l'uso di tale bene, onde la disciplina delle acque mirava ad assicurare principalmente il regolare
soddisfacimento di tali usi e soltanto in via mediata la tutela e la gestione del bene in quanto tale (22). Si
è passati, poi, alla considerazione qualitativa delle acque come risorsa da risanare e da proteggere (23)
secondo l'impostazione della legge 319/1976 e del D.Lgs. 152/1999 sulla tutela delle acque
dall'inquinamento. Si è, infine, giunti alla valorizzazione delle acque nel quadro della più ampia
"questione ambientale" (24) dove l'ambiente è assunto come fine diretto dell'azione dei pubblici poteri. In
questa prospettiva si inseriscono le leggi 36/1994 e 37/1994 ed ora le disposizioni racchiuse nel D.Lgs.
152/2006. Con tali normative il legislatore è pervenuto "alla considerazione espressa in via di principio
delle acque come risorsa ambientale costituente in sé la finalità e il risultato, non più il mezzo, dell'azione
dei pubblici poteri" (25). Dunque, le acque sono pubbliche e demaniali "in considerazione del loro valore
ambientale" (26).
Se l'interesse generale correlato alla demanialità coincide con l'interesse alla difesa del patrimonio idrico,
risultano evidentemente fuori luogo le discussioni concernenti gli "usi di pubblico generale interesse" che
le acque dovrebbero essere idonee a soddisfare. Dal punto di vista logico la definizione, prima ancora di
dichiarare pubbliche tutte le acque, ha individuato un interesse pubblico generale così ampio da rendere
sostanzialmente equivalenti la definizione attuale e quella precedente (27); questo medesimo interesse
generale ha indotto il legislatore a considerare le acque demaniali anche come beni quoad usum
tendenzialmente esauribili. Sotto questo profilo si deve anzi ammettere che, rispetto al passato, sia
mutato il senso da attribuire alla qualifica pubblica(28). La pubblicità non attiene soltanto ai profili statici
del rapporto dominicale, ma si estende anche agli aspetti dinamici della sua fruizione e, pertanto,
corrisponde ad un vero e proprio statuto delle risorse idriche che condensa in sé l'aspetto della "signoria"
sulla cosa con quello della sua gestione.
In quest'ottica, lo Stato non dovrebbe più rivestire una mera posizione di dominium eminens diretta
garantire il libero uso da parte dei cittadini, ma dovrebbe svolgere una più ampia funzione di
amministrazione e di salvaguardia della risorsa idrica che malgrado l'accentuata frammentarietà dei centri
di competenza gestionale (stato, regioni, province, comuni, autorità di bacino, consorzi di bonifica, ecc.)
lo dovrebbe assimilare ad una sorta di authority avente il compito di rendere possibile il miglior
sfruttamento di un bene che non è dello Stato, ma che è di tutti e che serve all'intera collettività. L'uso
concreto dell'acqua e prima ancora la possibilità di una sua effettiva utilizzazione dovrebbero, quindi,
rapportarsi all'interesse di tutti i cittadini e dovrebbero, altresì, imporre una visuale più ampia del
problema dove l'interesse pubblico non corrisponde all'interesse specifico di cui è portatore il singolo
utente e neppure all'interesse del suo dominus, ma coincide con l'interesse della comunità, dovendo
l'utilizzazione essere resa come un servizio pubblico a vantaggio a tutti i cittadini.
Sembrano, in proposito, richiamabili le osservazioni provenienti dai recenti contributi dottrinali sulla c.d.
amministrazione "di risultato" secondo cui l'agire pubblico esibisce un modello di amministrazione "(...)
chiamato ad operare scelte dispositive (distributive) di risorse limitate, dopo aver condotto una
propedeutica valutazione di compatibilità tra plurimi interessi pubblici, e fra questi e quelli dei privati, in
relazione a vari, possibili usi di tali risorse, ciascuno corrispondente ad un dato interesse" (29).
La riflessione sembra, altresì, convergere con la tesi di chi afferma che, mentre in passato la pubblicità
veniva ricollegata principalmente al nesso di strumentalità del bene con l'agire dei pubblici poteri per il
perseguimento delle finalità e degli interessi di cui questi erano portatori (si trattava perciò di una
"pubblicità di ordine soggettivo-istituzionale"), attualmente la qualificazione inerisce "alla stessa natura
del bene e al valore che esso riveste in maniera diretta e immediata per l'organizzazione sociale presente
e futura. Si tratta quindi di una pubblicità di carattere oggettivo-funzionale che scaturisce dal fatto che è
al bene e ad una gestione del bene (...) che ineriscono gli obiettivi sociali ricordati. Onde il bene nella sua
qualificazione giuridica non si presenta neppure più come bene (...) ma comprensivamente come un
servizio nella sua qualificazione di servizio pubblico in senso oggettivo" (30).
Il rilievo esige, però, un chiarimento in merito all'oggetto di questa duplice qualifica pubblica.
Come ha evidenziato attenta dottrina (31), la pubblicità intesa come demanialità ex art. 822 c.c. non può
ricondursi alla nozione unitaria di acqua. L'acqua di per sé rappresenta un composto molecolare allo stato
liquido (32) non suscettibile di appropriazione, né pubblica, né privata. Per rilevare come bene giuridico
(art. 810 c.c.) l'acqua necessita di essere racchiusa in un invaso o in un contenitore che vi dia forma
(33). La proprietà non inerisce, dunque, alle singole molecole d'acqua, ma al contenuto degli invasi nei
quali la sostanza liquida scorre e si riversa: il diritto soggettivo può, cioè, riguardare alcune
manifestazioni od ambiti di raccolta dell'acqua che permettono di configurare una res nonostante il suo
naturale fluire (34).
Questo esclude che la demanialità, individuabile attraverso il criterio ontologico, sia riferibile al concetto
unitario dell'acqua. Una cosa è, infatti, definire l'acqua come "risorsa" (accezione che non equivale, né
tanto meno si sostituisce alla nozione di bene giuridico ex art. 810 c.c.) (35); altra cosa è stabilire la
proprietà delle acquesuperficiali e sotterranee. Come è stato efficacemente rimarcato le "acque pubbliche
non sono l'acqua: la sussistenza delle acque presuppone un alveo" (36) e quindi l'esistenza di un mezzo
conduttore o contenitore che dia forma e consistenza giuridica al fluido. Sarebbe, dunque, erroneo
ritenere che la pubblicità si riferisca ad ogni conglomerato di molecole ed implichi anche un generale
riconoscimento della giuridicità del medesimo (37). La norma fissa il regime di appartenenza, senza
incidere sulla preliminare necessità di individuare il bene giuridico che ne costituisce l'oggetto. Bene che,
ripetesi, non è affatto identificabile nella risorsa "acqua", ma nella diversa categoria delle "acque",
rappresentata dalla massa d'acqua raccolta in un corpo contenitore o conduttore che vi dà forma. Solo in
questo modo è possibile attribuire alla sostanza fluida il carattere della corporalità necessario per poter
costituire oggetto di diritti dominicali (le stesse acque piovane vengono dichiarate pubbliche dall'art. 1 del
D.P.R. 238/1999 nei limiti in cui vengano convogliate e/o invasate) (38).
Ad appartenere al demanio necessario (art. 822 c.c.) non è, pertanto, l'acqua considerata come composto
chimico ovvero come risorsa primaria da utilizzare con parsimonia e secondo criteri di solidarietà, ma
sono le acque intese come beni immobili (art. 812 c.c.).
4. La categoria ontologica delle acque pubbliche: acque superficiali ed acque sotterranee.
Da quanto si è fin qui appreso, emerge che il tipo legale delle acque pubbliche non è più enunciato e
delimitato attraverso l'indicazione di una qualità del bene (idoneità a pubblici generali interessi, ora data
per presupposta), ma da un nome generico che non è riferito al composto chimico ("acqua"), ma alla
categoria dei beni immobili costituiti dalle "acque superficiali e sotterranee" costituite dalla massa d'acqua
e da un corpo contenitore (alveo).
In particolare, avendo riguardo alle "acque superficiali" (acque vive ed acque fluenti) dovranno
considerarsi demaniali i fiumi e i torrenti, i laghi e gli stagni, le sorgenti (a prescindere dal rapporto
funzionale tra la sorgente e il corso pubblico), i ghiacciai e tutti gli altri corsi minori (rivi, fossati, colatoi).
Un dubbio potrebbe sorgere per i corsi e bacini artificiali. Aderendo, infatti, all'opinione che ricomprende
nel demanio necessario i soli beni naturali, i corsi e i bacini artificiali realizzati sui terreni privati
dovrebbero essere estromessi dal contesto demaniale (39). Non va, però, sottaciuto che per i beni
artificiali del demanio idrico la legge non richiede un apposito atto di volizione della Pubblica
Amministrazione (come avviene invece in tema di demanio militare) ragion per cui l'appartenenza allo
Stato potrebbe conseguire alla mera venuta in essere (comunque ciò accada) del bene immobile (40).
Relativamente alle "acque sotterranee" (acque freatiche ed acque circolanti negli strati più profondi del
sottosuolo), il legislatore ha semplificato la materia, eliminando ogni questione sulla necessità della loro
emersione dal sottosuolo terrestre, nonché sul loro modo di affiorare, ex naturali causa ovvero per opera
dell'uomo. Non è neppure più essenziale che le stesse siano valutate di volta in volta siccome aventi
attitudine ad usi di pubblico interesse, essendone stata dichiarata ope legis la pubblicità integrale.
Rimane, peraltro, l'incognita dell'esatta portata del canone normativo anche per il richiamo ad entità
spesso sconosciute nella loro consistenza ed ubicazione (41), non potendo essere una res "ciò che non è
percepito da alcuno" (42). Il problema, a ben vedere, attiene alla stessa configurabilità delle acque
sotterranee come beni giuridici: esse invero, finché non vengono individuate e scoperte, costituiscono
parte integrante del sottosuolo e sono prive di un'autonoma rilevanza giuridica (43). Nell'ambito della
teoria generale del diritto, si suole affermare che una "parte" per distinguersi giuridicamente dal "tutto"
richiede un atto di individuazione che "consente di determinare, nel campo della realtà oggettiva
materiale, l'autonomia in virtù della quale una parte di codesta realtà, distinguendosi rispetto al tutto,
assume la configurazione di unità oggettiva, per cui, divenendo centro di interessi umani (economici,
sociali o di qualsiasi altra natura), in virtù della tutela giuridica di tali interessi, dà luogo ad un bene
giuridico" (44). Nel nostro caso, l'individuazione delle acque sotterranee avviene con la scoperta: una
volta scoperte le acque cessano di essere una semplice pars fundi e divengono cose (e beni) in senso
giuridico (45). Di conseguenza, perché possa operare la declaratoria di pubblicità rimane indispensabile
l'effettiva conoscenza del bacino sotterraneo (46). Per il resto, la nuova formulazione della pubblicità
supera il modello del 1933 di iscrizione in appositi elenchi ed elimina in radice ogni possibile conflitto
valutativo, ponendo un dato incontestabile: le acque sotterranee, al pari di quelle superficiali, sono beni
pubblici ex lege ed in virtù di tale assimilazione sono ricondotte in via originaria al demanio idrico (47).
Nessun problema destano, invece, le "acque subalvee" la cui natura ed il cui regime giuridico seguono, di
pari passo, la natura ed il regime del corso principale a cui accedono e di cui formano "parte
integrante" (48): esse, pertanto, sono pubbliche (49).
Quanto, infine, alle "acque pluviali", tradizionalmente res communes omnium, l'art. 1 del D.P.R. 238/1999
esclude la demanialità delle "acque piovane non ancora convogliate in un corso d'acqua o non ancora
raccolte in invasi o cisterne". Continuano, pertanto a nostro avviso (50) ad essere res communes omnium
le acque pluviali scorrenti sul suolo pubblico o privato che non siano state convogliate o raccolte (51),
mentre dovrebbero a fortiori ritenersi pubbliche quelle che vengano raccolte o convogliate anche al solo
scopo di essere smaltite, ivi comprese le acque nere delle fognature (52).
5. Il problema della compatibilità degli artt. 909, 910, 911 e 912 c.c. e degli artt. 913-921 c.c.
con il vigente sistema normativo.
Chiarito l'ambito oggettivo della demanialità, si tratta adesso di verificare quali disposizioni del Codice
civile possano essere ritenute compatibili con il regime panpubblicistico.
Finora, in dottrina, si sono espresse due opposte tendenze: l'una favorevole ad interpretare e rielaborare
le norme codicistiche alla luce della nuova disciplina (53); l'altra intesa a sostenere l'abrogazione implicita
della Sezione IX del Capo II del Titolo II del Codice civile (54). Poiché ci sembra eccessivo considerare
l'intera Sezione IX incompatibile con la disciplina delle risorse idriche, preferiamo aderire al primo
orientamento, il quale tuttavia non va oltre questa mera petizione di principio. Occorre, quindi, procedere
ad una verifica caso per caso.
È noto che il Codice civile disciplina le acque private agli artt. 909-912, mentre i successivi artt. 913-921
concernono i consorzi per regolare il deflusso delle acque e le opere poste a carico dei proprietari
frontisti. Un'altra importante (e controversa) disposizione è, poi, l'art. 943 contemplante la figura del
"proprietario del lago o dello stagno".
Per quanto concerne il primo gruppo di norme, gli articoli 910 ("Uso delle acque che limitano o
attraversano il fondo") e 912 ("Conciliazione di opposti interessi") in quanto riferiti alla fattispecie "acque
non pubbliche" sembrerebbero prima facie incompatibili con la nuova disciplina, ragion per cui
dovrebbero essere entrambi annoverati tra le disposizioni da considerare abrogate. L'art. 2, comma 1, del
D.P.R. 238/1999 ha però disposto l'espressa abrogazione dell'art. 910 c.c., senza citare l'art. 912.
Quest'ultimo, in effetti, potrebbe essere coordinato con gli articoli 909 ("Diritto sulle acque esistenti nel
fondo") e 911 ("Apertura di nuove sorgenti e altre opere") certamente compatibili con la nuova disciplina.
Il proprietario del fondo, a norma dell'art. 911 c.c. e degli artt. 28, comma 5, L. 36/1994 e 167, comma
5, D.Lgs. 152/2006 ha diritto di utilizzare le acque sotterranee del suo fondo (55). La loro estrazione ed
utilizzazione per fini domestici, anche con mezzi meccanici, continua, infatti, ad essere libera, non
essendo sottoposta ad autorizzazione neppure per la ricerca. Più precisamente è previsto che:
"L'utilizzazione delle acque sotterranee per gli usi domestici come definiti dall'art. 93, secondo comma,
del testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e sugli impianti elettrici (...) resta disciplinata dalla
medesima disposizione, purché non comprometta l'equilibrio del bilancio idrico (...)" (56). Le acque
fluenti nel sottosuolo, quindi, una volta estratte tornano a rappresentare una pars fundi e ad appartenere
al proprietario (57), non per naturale espansione del diritto di proprietà a tutto ciò che si trova nel
sottosuolo (art. 840 c.c.), bensì per l'esplicito riconoscimento dell'estraneità o meglio della non
conflittualità delle esigenze domestiche con l'interesse generale che è alla base della dichiarazione di
demanialità delle acque (58).
Ai sensi del richiamato art. 93 T.U. 1775/1933, la facoltà di estrarre le acque sotterranee, anche
limitatamente agli usi domestici, è condizionata alla osservanza delle "distanze e cautele previste dalla
legge": e queste sono puntualmente stabilite dall'art. 911 c.c. Per cui chi intende aprire sorgenti, stabilire
capi o aste di fonte, e in genere eseguire opere per estrarre acque pubbliche dal sottosuolo (così come
costruire canali o acquedotti, oppure scavarne, approfondirne o allargarne il letto, aumentarne o
diminuirne il pendio o variarne la forma), oltre a conseguire il permesso della P.A., dovrà eseguire le
opere che siano necessarie per non recare pregiudizio ai fondi altrui, nonché alle sorgenti, capi o aste di
fonte, canali o acquedotti preesistenti e destinati all'irrigazione dei terreni o agli usi domestici o industriali
(59).
Passando all'art. 909 c.c., questo regola l'uso delle acque esistenti nel fondo. Tale espressione, già in
passato, veniva intesa nel senso che per acque esistenti dovevano intendersi anche le raccolte d'acqua
piovana in cisterne e laghetti collinari, oltre che le raccolte di acque sorgive di modestissima entità (60).
Ora, mentre queste ultime devono sicuramente intendersi pubbliche, la raccolta di acque piovane in invasi
e cisterne è disciplinata dall'art. 167 del D.Lgs. 152/2006, il quale dispone che essa, quando è "al servizio
di fondi agricoli o di singoli edifici è libera" (comma 3), "non richiede licenza o concessione di derivazione
di acque" e "la realizzazione dei relativi manufatti è regolata dalle leggi in materia di edilizia, di
costruzioni nelle zone sismiche, di dighe e sbarramenti e dalle altre leggi speciali" (comma 4). Il fatto
che, in questi casi, il legislatore non richieda la licenza o concessione di derivazione, salvo configurare
un'ipotesi di uso comune del bene pubblico (o meglio di uso particolare visto il ristretto ambito di soggetti
legittimati ex lege), ne dovrebbe postulare, in via eccezionale, l'appartenenza al privato, analogamente a
quanto accade con le concessioni di acqua potabile o di derivazione a scopo irriguo che attribuiscono al
concessionario un effettivo diritto di proprietà sull'acqua concessa (61). Appare in questo senso
condivisibile e non contrasta con l'art. 1, comma 1, del D.P.R. 238/1999 (a norma del quale
"Appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico tutte le acque sotterranee e tutte le acque
superficiali anche raccolte in invasi o cisterne") la tesi che vorrebbe le acque pluviali oggetto di proprietà
pubblica "salvo che un'indagine prevalentemente di fatto non consenta di accertare la raccolta delle
stesse in cisterne, serbatoi, vasche e depositi per iniziativa del proprietario del fondo" (62). Del resto,
l'art. 1, comma 2, del D.P.R. 238/1999 sottrae al demanio (e considera res communes omnium) solo "le
acque piovane non ancora convogliate in un corso d'acqua o non ancora raccolte in invasi o cisterne".
In questo contesto, potrebbe trovare ancora applicazione pure l'istituto conciliativo previsto dall'art. 912
c.c. Ed invero, le controversie insorte tra proprietari confinanti in merito all'estrazione di acque
sotterranee per usi domestici e/o alla raccolta ed utilizzo delle acque piovane al servizio di fondi agricoli o
di singoli edifici potrebbero essere eventualmente risolte dal giudice attraverso una conciliazione degli
opposti interessi.
Si deve pertanto convenire che, a differenza dell'art. 910 espressamente abrogato, gli artt. 909, 911 e
912 c.c., pur risultandone sensibilmente ridotta la portata, sono compatibili con la nuova disciplina delle
acque e per questo motivo sono rimasti in vigore.
6. La rilevanza giuridica dell'art. 943 c.c.
Una notazione a parte merita, invece, l'art. 943 c.c.
La legge 5 gennaio 1994, n. 37 (emanata ad integrazione della legge 36/1994) nella rubrica include i
laghi tra le acque pubbliche, e, nel testo, abroga espressamente le norme incompatibili col nuovo regime
di pubblicità generalizzata delle acque. Tuttavia, diversamente che per gli artt. 942, 946 e 947 c.c., essa
non contempla l'abrogazione o la modifica dell'art. 943 c.c. Quindi, salvo ritenere la disposizione
implicitamente abrogata o comunque incompatibile con la più recente normativa, si tratterà, ancora una
volta, di coordinare la norma in discussione con la nuova disciplina delle acque pubbliche.
Alcuni Autori, per rendere compatibile la permanenza dell'art. 943 c.c., con il principio di generale
pubblicità delle acque, sono ricorsi al concetto di interesse pubblico (63). Si è, così, affermato che, là
dove i laghi rivestano quel carattere di pubblico generale interesse di cui all'art. 1 del T.U. 1775/1933,
essi sarebbero da considerare pubblici. Qualora, invece, l'utilità del bene in parola non andasse oltre i
limiti dell'interesse privato (come nel caso di un lago incluso in un terreno agricolo, utilizzato per
l'irrigazione dello stesso) esso rimarrebbe di proprietà del titolare del fondo (64).
La tesi riflette, a ben vedere, l'opinione che vorrebbe una interpretazione restrittiva della novella
definizione di acque pubbliche, adottando sostanzialmente il criterio teleologico già previsto dal testo
unico del 1933. Come, peraltro, si è già detto, è preferibile attribuire alla definizione de qua carattere
precettivo e non meramente programmatico (65). Inoltre, si ritiene che l'attuale interesse generale, che è
alla base della pubblicità, non sia da confondere con quello che caratterizzava la disciplina anteriore.
Allora si trattava di consentire ed incoraggiare il più possibile lo sfruttamento delle acque (intese come
mezzo di produzione), mentre la tutela e la gestione della risorsa rilevavano soltanto in via indiretta. Ora,
invece, l'interesse generale è direttamente correlato alla difesa e conservazione del patrimonio idrico,
mentre qualsiasi uso delle acque pubbliche è sempre condizionato alla "salvaguardia delle aspettative e
dei diritti delle generazioni future a fruire di un integro patrimonio ambientale" e indirizzato "al risparmio
e al rinnovo delle risorse", in vista della tutela del patrimonio idrico e della vivibilità dell'ambiente, per
non pregiudicare l'agricoltura, la fauna e la flora acquatiche, nonché i processi geomorfologici e gli
equilibri idrologici.
Il fatto che il legislatore abbia "salvato" l'art. 943 c.c. non sembra comunque motivo di per sé sufficiente
per ritenere ancora ammissibile l'esistenza di laghi o stagni privati, posto che ai sensi dell'art. 144 del
D.Lgs. 152/2006 tutte le acque sia superficiali sia sotterranee sono pubbliche ed è indubbio che anche gli
stagni ricadano nell'ambito delle "altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia" (art. 822 c.c.).
Va, però, osservato che l'art. 1, comma 1, della legge 37/1994 (vale a dire il novellato art. 942, comma
3, c.c.) parla di "terreni abbandonati dal mare, dai laghi, dalle lagune e dagli stagni appartenenti al
demanio pubblico". L'espressa menzione degli "stagni appartenenti al demanio pubblico" (66), per
l'implicito riferimento a stagni che al medesimo non apparterrebbero, potrebbe far considerare come
tuttora esistente la contrapposizione fra proprietà pubblica e privata delle acque in parola, trovando,
quindi, ancora posto nell'ordinamento, lo schema tradizionale dell'appartenenza privata di tali beni.
Tuttavia, la legge 37/1994 non pone un criterio che permetta eventualmente di distinguere gli stagni
pubblici da quelli privati.
La ragione della salvezza dell'art. 943 c.c. potrebbe, allora, rinvenirsi nella "portata generale" della norma
che potrebbe mantenere la proprietà privata sugli specchi d'acqua già appartenenti ai privati prima
dell'entrata in vigore del Codice civile (67) e prima delle leggi n. 36 e n. 37 del 1994, nonché sui bacini
artificialmente realizzati sui terreni privati (68).
Ma alla norma potrebbe comunque essere attribuita anche un'altra valenza giuridica. In forza di un
consolidato indirizzo giurisprudenziale, in tema di individuazione dei terreni compresi nel demanio per la
loro contiguità a laghi pubblici (69), opera il principio desumibile dall'art. 943 c.c. per cui l'estensione
dell'alveo deve essere determinata con riferimento al livello delle piene ordinarie allo sbocco del lago,
senza che si possa tener conto del perturbamento causato da piene straordinarie ovvero da eventi
eccezionali (meteorici, geosismici o prodotti dall'opera dell'uomo per esigenze momentanee) e senza che
dall'alveo propriamente detto possa distinguersi il lido, potendo soltanto l'alveo stesso distinguersi dalla
spiaggia (70), la quale ha strutturalmente inizio là dove ha termine l'alveo (71).
Ai sensi dell'art. 144 del D.Lgs. 152/2006 tutte le acque superficiali sono pubbliche, senza distinzione tra
laghi e stagni, e così pure tra laghi e stagni di maggiore portata e laghi e stagni di portata inferiore. Una
volta, poi, riconosciuta l'appartenenza al demanio necessario non solo della massa d'acqua, ma anche
dell'invaso che la contiene, vale a dire dell'alveo lacuale (72), resterebbe da specificare il criterio
determinativo della sua espansione. E questo può essere, in effetti, desunto dall'art. 943 c.c. che,
definendo l'alveo come "il terreno che l'acqua copre quando essa è all'altezza dello sbocco del lago o dello
stagno", ne determina l'estensione con riferimento alla piena ordinaria (73). Di conseguenza, l'isoipsa che
segna la linea di confine tra l'alveo (pubblico) e le adiacenti proprietà private è fissata dal livello raggiunto
dalle acque allo sbocco del lago durante le piene ordinarie, restando esclusi dal demanio i terreni
sommersi nei casi di piene straordinarie (od eccezionali) (74).
Pertanto, l'art. 943 c.c. costituisce ancor oggi il fondamento positivo dal quale è mutuabile, non solo
l'eventuale riconoscimento della proprietà privata su taluni bacini, ma anche il criterio di determinazione
dell'estensione dell'alveo lacuale pubblico. Questa sembra essere quindi la ragione della sua salvezza.
7. Conclusioni.
In conclusione, la più recente legislazione, mutuando i principi della legge Galli, adotta una definizione di
acque demaniali comprensiva di tutte le acque interne con la sola eccezione delle acque pluviali non
invasate o convogliate (tuttora ascrivibili a res communes omnium) e forse di quelle invasate dal
proprietario ex art. 167 del D.Lgs. 152/2006. La demanialità rappresenta un "principio fondamentale" ai
sensi dell'art. 117, comma 3, della Costituzione che limita la potestà concorrente delle regioni. La qualità
pubblica è concepita come asservimento alla proprietà demaniale di tutte le acque e come risultato di un
giudizio di valore che fa dell'acqua una risorsa collettiva da utilizzare secondo criteri di solidarietà. Alla
luce del nuovo postulato dovrebbe, pertanto, considerarsi quasi soppressa la tradizionale
contrapposizione tra acque pubbliche ed acque private, malgrado parte della dottrina e della
giurisprudenza ritengano ammissibile la proprietà degli specchi realizzati su aree private.
Inutile dire che la finalità ambientale che sta alla base della declaratoria di pubblicità avrebbe potuto
essere perseguita senza operare un'espropriazione larvata ai danni degli ex proprietari e senza addivenire
ad una singolare e, per certi versi, irragionevole equiparazione tra demanio ed ambiente(75). La moderna
dottrina è da tempo concorde nel ritenere che, in fondo, tutti gli interessi perseguiti attraverso la
"cristallizzazione" della proprietà pubblica, potrebbero essere soddisfatti anche mediante il
riconoscimento di adeguati poteri di tipo conformativo ovvero espropriativo in capo all'Amministrazione
(76). L'inerenza dell'interesse pubblico alla tutela ambientale, elemento comune alle diverse acque,
avrebbe potuto giustificare la sottoposizione del bene a determinati vincoli, magari riducendo
ulteriormente le facoltà connesse alla proprietà delle acque o legittimando interventi particolarmente
incisivi dei pubblici poteri (ad es. mediante servizi di ispezione operanti in tempo reale) (77) senza dover
necessariamente stabilire la proprietà demaniale di tutti i bacini e corsi d'acqua (78). Del resto, un
compianto autore aveva osservato che la "tutela ecologica... non avviene attraverso l'attribuzione di una
competenza di controllo esterno" (su un bene cioè interamente demanializzato e poi affidato in
concessione ai privati) "ma avviene attraverso l'attribuzione primaria di una responsabilità interna alla
proprietà, divenendo così elemento per l'esplicazione della sua ormai indiscutibile funzione sociale" (79).
Ma queste sono evidentemente elucubrazioni de iure condendo, che non possono essere utilizzate per
limitare, in sede interpretativa, l'applicazione della vigente disciplina normativa.
NOTE
(1) LUGARESI , Le acque pubbliche. Profili dominicali, di tutela e di gestione, Milano, 1995, p. 26.
(2) BENVENUTI, Il demanio fluviale, in Atti del 1° Congresso di diritto fluviale e della navigazione interna
(Venezia 16-18 ottobre 1961), Milano, 1962, pp. 476 s.
(3) Sulla disputa vedi GIANZANA, Le acque nel diritto civile italiano, vol. I, Torino, 1879, pp. 35 s.; MAZZA,
Dei diritti sulle acque, Roma, 1913, p. 79; MEUCCI, Istituzioni di diritto amministrativo, Torino, 1892, p.
364; DEGIOANNISGIANQUINTO, Corso di diritto pubblico amministrativo, vol. II, Firenze, 1879, p. 93.
(4) NASCETTI, Il bacino padano e le sue leggi, in Po AcquAgricolturAmbiente, vol. VIII, Bologna, 1990, p.
40.
(5) In dottrina vedi AVANZI, Il nuovo demanio nel diritto civile, amministrativo, ambientale, comunitario,
penale, tributario, Padova, 2000, pp. 137 s.; LUGARESI, Le acque pubbliche, cit., pp. 41 s.; PALAZZOLO,
Acque pubbliche ed energia, in Rass. giur. en. el., 1996, p. 342; ID., La nuova normativa in tema di
acque pubbliche, in Dir. giur. agraria e ambiente, 1995, p. 6; GRAGNOLI, Nuovi indirizzi sulla disciplina
dell'acqua, in Dir. econ., 1997, pp. 347 ss.; DIMAJO, Le risorse idriche nel vigente ordinamento, in Rass.
giur. en. el., 1996, pp. 1 s.; CONTE, Il demanio idrico secondo la legge 5 gennaio 1994, n. 36, in Rass.
giur. en. el., 1994, cit., pp. 613 s.; DELL'ANNO, Manuale di diritto ambientale, Padova, 1995, p. 530;
VIRGA, Diritto amministrativo. I principi, I, Milano, 1995, p. 366; CAPUTIJAMBRENGHI, Beni pubblici e
d'interesse pubblico, in AA.VV., Diritto amministrativo, I, Bologna 1997, p. 1131. In giurisprudenza, cfr.
Trib. sup. acque pubbl., 18 luglio 1995 (ord.), con nota di FRANCO, in Rass. giur. en. el., 1995, pp. 234 s.
(6) PALAZZOLO, La nuova normativa in tema di acque pubbliche, cit., p. 6.
(7) Trib. sup. acque pubbl., ord. 18 luglio 1995, cit., p. 235.
(8) CONTE, Il demanio idrico, cit., pp. 615 s.; GRAGNOLI, Nuovi indirizzi, cit., pp. 355 s.; PALAZZOLO, Acque
pubbliche ed energia, in Rass. giur. en. el., 1996, p. 343.
(9) Sul punto vedi FRANCO, L'abolizione della proprietà privata in materia di acque al vaglio della Corte
Costituzionale, in Rass. giur. en. el., 1995, p. 236; vedi anche MASINI, La "decadenza" della proprietà
privata delle acque con particolare riguardo agli usi irrigui, in Dir. giur. agraria e l'ambiente, 1995, p. 671
e GIRACCA, Le risorse idriche alla luce dei principi generali della legge Galli, in Giust. civ., 2003, 7-8, pp.
337 s.
(10) FRANCO, cit., p. 237.
(11) Ibidem.
(12) DEANGELIS, Vecchi e nuovi problemi nel diritto delle acque, in Ambiente, 1997, pp. 755 s.
(13) In questo senso vedi Cass., Sez. I, 11 gennaio 2001, n. 315, in Giust. civ. mass, 2001, p. 66; Cass.,
SS.UU., 27 luglio 1999, n. 507, in Dir. giur. agraria, 2000, p. 394, con nota di BRUNO; Cass., Sez. II, 6
luglio 1995, n. 7475, in Foro it., Rep. 1995, voce Acque pubbliche, n. 121.
(14) Corte Cost., 19 luglio 1996, n. 259, cit., pp. 155 s.; vedi anche Corte Cost., 27 dicembre 1996, n.
419, cit., pp. 2117 s.
(15) È stata ormai da tempo superata la tesi che distingueva le acque demaniali dalle acque pubbliche e
che includeva nelle prime i fiumi e i torrenti e nelle seconde quelle acque che, pur restando di ragione
privata, erano, tuttavia, sottoposte al regime pubblicistico della polizia delle acque (vedi GUICCIARDI, Il
demanio, Padova, 1934, pp. 84 s.).
(16) Come ha da tempo rilevato la dottrina la categoria dei beni demaniali è determinata dalla legge
attraverso una enumerazione di "tipi" individuati con il nome generico che essi hanno nel linguaggio
comune lido del mare, spiagge, fiumi, laghi, ecc. onde la concreta qualifica di bene demaniale viene
attribuita ad un singolo bene in virtù della sua riconducibilità al tipo legale e a parte la necessità
dell'appartenenza all'ente pubblico territoriale per i beni del c.d. demanio accidentale soltanto in virtù di
tale riconducibilità (cfr. SANDULLI, Beni pubblici, in Enc. dir., vol. V, Milano, 1959, p. 280).
(17) Era opinione comune che le acque del sottosuolo divenissero pubbliche purché fossero naturalmente
od artificialmente portate in superficie: vedi per tutti GUICCIARDI, Il demanio, cit., pp. 131 s.;
PASINIBALUCANI, I beni pubblici e le relative concessioni, Torino, 1978, p. 229. ContraSANDULLI, Manuale di
diritto amministrativo, Napoli, 1989, p. 768, secondo il quale tale interpretazione avrebbe
eccessivamente ristretto la ratio della norma; nello stesso senso cfr. JANNOTTA, voce Acque pubbliche, in
Dig. disc. pubbl., vol. I, Torino, 1987, p. 56; MICCOLI, Leacquepubbliche, Torino, 1958, p. 30 s.;
ROEHRSSEN, Sulla pubblicità delle acque sotterranee artificialmente estratte, in Foro amm., 1950, col. 35;
EULA, Demanialità delle acque sotterrane, in Acque, bonifiche, costruzioni, 1952, p. 215.
(18) SANDULLI, voce Beni pubblici, cit., pp. 277 s.
(19) In questo senso si sono espressi: CONTE, Il demanio idrico secondo la legge 5 gennaio 1994, n. 36,
cit., pp. 613 s.; DIMAJO, Le risorse idriche nel vigente ordinamento, cit., pp. 1 s.; PALAZZOLO, Acque
pubbliche ed energia elettrica, cit., pp. 343 s.; DELL'ANNO, Manuale di diritto ambientale, cit., p. 531;
GOLA, L'amministrazione degli interessi ambientali, Milano, 1995, p. 304, in nota. In giurisprudenza, cfr.
Trib. sup. acque pubbliche, ord. 18 luglio 1995, cit., p. 235. La Corte Costituzionale (sent. 259/1996, cit.,
p. 159) ha osservato che "l'attenzione si è soffermata sull'acqua (bene primario della vita dell'uomo),
configurata quale "risorsa" da salvaguardare, sui rischi da inquinamento, sugli sprechi e sulla tutela
dell'ambiente, in un quadro complessivo caratterizzato dalla natura di diritto fondamentale a mantenere
integro il patrimonio ambientale".
(20) Che questa sia la finalità della legge sembra confermato anche dalle dichiarazioni espresse nella
separata (ma collegata) legge di pari data 37/1994 (recante "Norme per la tutela ambientale delle aree
demaniali dei fiumi, dei torrenti, dei laghi e delle altre acque pubbliche") che ha sancito la demanialità dei
terreni abbandonati dalle acque.
(21) TARSIADIBELMONTE, Il contenuto giuridico della dichiarazione di pubblicità delle acque affermata dalla
L. n. 36 del 1994, in Rass. Avv. St., 1996, p. 217.
(22) PASTORI, Tutela e gestione delle acque: verso un nuovo modello di amministrazione, in Studi in onore
di Feliciano Benvenuti, Modena, 1996, p. 1287.
(23) Ibidem.
(24) Ibidem.
(25) Sempre ivi, p. 1288.
(26) CONTE, Il demanio idrico secondo la legge 5 gennaio 1994, n. 36, cit., p. 615.
(27) LUGARESI, Le acque pubbliche, cit., p. 213; PASTORI, cit.
(28) PASTORI, cit.
(29) IANNOTTA, Merito, discrezionalità e risultato nelle decisioni amministrative, in Principio di legalità e
amministrazione di risultati, Atti del convegno di Palermo 27-28 febbraio 2003, a cura di IMMORDINO e
POLICE, Torino, 2004, pp. 433 ss.
(30) PASTORI, cit., p. 1290.
(31) GRAGNOLI, Nuovi indirizzi sulla disciplina dell'acqua, cit., pp. 350 s.
(32) Per una definizione del termine acqua si rinvia a DEVOTO-OLI, Dizionario della lingua italiana, Le
Monnier 2002/2003.
(33) CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, Roma, 1951, pp. 130 s.
(34) La vexata quaestio relativa all'ammissibilità della proprietà delle acque è stata da tempo risolta con
la precisazione che a costituire oggetto del diritto non è l'elemento liquido caratterizzato dalla fluidità,
bensì la "concreta realtà della vena o polla, del corpo o massa d'acqua, che pur rinnovandosi di continuo
nelle sue molecole, costituisce un tutto costante in quella fonte, in quell'alveo, invaso: il diritto riconosce
poteri di godimento e di disposizione sulla sorgente, sul fiume, sul rivo, sul lago, come beni aventi una
loro propria individualità, distinti dal suolo in cui esistono, e considerati come immobili (cfr. art. 812
c.c.)" (cfr. ASTUTI, voce Acque private, in Enc. dir., vol. I, Milano, 1958, p. 392; vedi inoltre GRAGNOLI,
Nuovi indirizzi sulla disciplina dell'acqua, cit., p. 352; COSTANTINO, voce Acque private, in Dig. disc. priv.,
vol. I, Torino 1987, p. 58).
(35) In senso contrario GIRACCA, Le risorse idriche alla luce dei principi generali della legge Galli, cit., pp.
337 s.
(36) GRAGNOLI, cit., p. 353.
(37) Ibidem, p. 356.
(38) BIONDI, voce Cosa mobile ed immobile (diritto civile), in Noviss. dig. it., vol. I, Torino, 1957, pp.
1024 s.
(39) IMPALLOMENI, Demanialità accidentale nell'ambito marittimo e idrico, con particolare riguardo a
darsene e canali artificiali, in Scritti in onore di Vignocchi, Padova, 1991, p. 1413. Per la natura non
demaniale delle darsene costruite a secco su aree private vedi Cass. civ., SS.UU., 5 febbraio 2002, n.
1552, in Giust. civ., 2002, I, p. 2805; Cons. St., Sez. VI, 27 marzo 2003, n. 1601, in Foro amm. - Cons.
St., 2003, 3, p. 1110, con nota di FORZA e SCOCA.
(40) VOLPE, Le espropriazioni amministrative senza potere, Padova, 1996, pp. 146-147.
(41) GRAGNOLI, Nuovi indirizzi sulla disciplina dell'acqua, cit., p. 349.
(42) GRAGNOLI, cit.
(43) COSTANTINO, voce Acque private, cit., p. 67.
(44) PUGLIATTI, voce Cose (teoria generale), in Enc. dir., vol. XI, Milano, 1959, p. 29.
(45) ASTUTI, voce Acque (introduzione storica generale), in Enc. dir., vol. I, Milano 1958, cit., p. 347; ID.,
Acque private, cit., p. 396; PUGLIATTI, cit.
(46) GRAGNOLI, cit., p. 350.
(47) POLIANDRI, Le acque sotterranee nella recente normativa sulle risorse idriche, in Dir. e giur. agraria e
ambiente, 1995, p. 9; GOLA, L'utilizzo ottimale delle risorse idriche sotterranee nella normativa italiana, in
Foro amm., 1996, p. 321.
(48) Trib. sup. acque pubbl., 6 marzo 1967, n. 5, in Foro amm., 1967, I, 1, p. 413.
(49) LUGARESI, Le acque pubbliche, cit., p. 98.
(50) ContraCONTE, Il demanio idrico secondo la legge 5 gennaio 1994, n. 36, cit., p. 618; il quale
muovendo dalla previsione che consente la "libera" raccolta dell'acqua piovana "in invasi e cisterne al
servizio di fondi agricoli o di singoli edifici" senza necessità di concessione o licenza di derivazione,
deduce secondo il principio inclusio unius exclusio alterius che il legislatore avrebbe implicitamente
vietato di raccoglierla in forme diverse da quelle espressamente previste soggiungendo che tale divieto
non avrebbe senso se si trattasse di res communes omnium, con la conseguente natura demaniale
dell'acqua piovana (v. anche DELL'ANNO, Manuale di diritto ambientale, cit., p. 531, in nota). Va detto,
però, che tale opinione era stata espressa in epoca anteriore all'emanazione del D.P.R. 238/99, ragion per
cui la tesi esposta nel testo ci sembra preferibile e conforme al dato normativo.
(51) Cass., SS. UU., 31 marzo 1971, n. 937, in Rass. giur. en. el., 1972, p. 352.
(52) Sulla pubblicità di tali acque anteriormente alla legge 36/1994 ed al D.P.R. 238/1999, vedi Cass., 21
gennaio 1970, n. 127, in Foro it., 1970, I, c. 2158; Cass., 7 novembre 1974, n. 3385, in Foro it. Mass.,
1974, p. 772; PASINI BALUCANI, I beni pubblici e le relative concessioni, cit., pp. 245 s.; PERRUCCI, Le acque
pubbliche nella legislazione italiana, Bologna 1981, p. 33.
(53) LUGARESI, Le acque pubbliche, cit., p. 54.
(54) In tal senso vedi BRUNO, Aspetti privatistici della nuova normativa sulle acque, in Riv. dir. agr., 1999,
23; CONTE, Il demanio idrico secondo la legge 5 gennaio 1994, n. 36, cit., p. 617.
(55) LUGARESI, cit.
(56) AGNOLI, Approvvigionamento autonomo idrico in agricoltura secondo la legge "Merli", in Giur. agraria
it., 1983, p. 602.
(57) MASINI, La "decadenza" dalla proprietà privata delle acque con particolare riguardo agli usi irrigui, in
Dir. giur. agraria e ambiente, 1996, p. 671.
(58) LUGARESI, op. ult. cit., p. 44; vedi anche Corte Cost., 19 luglio 1996, n. 259, cit., p. 159; Corte Cost.,
27 dicembre 1996, n. 419, cit., p. 2119.
(59) ASTUTI, voce Acque private, cit., p. 397.
(60) LETTERA, Sottosuolo ed acque sotterranee, in Nuovo dir. agrario, 1986, p. 377.
(61) GULLO, Provvedimento e contratto nelle concessioni amministrative, Padova, 1965, p. 163 in nota.
(62) MASINI, La "decadenza" dalla proprietà privata delle acque con particolare riguardo agli usi irrigui,
cit., p. 671.
(63) AVANZI, Il nuovo demanio, cit., p. 145; FRANCO, L'abolizione della proprietà privata in materia di
acque al vaglio della Corte Costituzionale, cit., p. 237.
(64) FRANCO, cit.
(65) Cons. St., Sez. VI, 18 aprile 2003, n. 2085, in Foro amm. - Cons. St., 2003, p. 1399.
(66) L'espressione stagni "tende a comprendere valli, paludi, fosse non comunicanti col mare e comunque
tutte le acque non fluenti caratterizzate dalla mancanza di emissari ed immissari e dalla bassa profondità
" (vedi LUGARESI, Le acque pubbliche, cit., p. 94).
(67) IMPALLOMENI, Demanialità accidentale nell'ambito marittimo e idrico, con particolare riguardo a
darsene e canali artificiali, cit., p. 1413.
(68) Vedi giurisprudenza richiamata in tema di darsene realizzate a secco supra nota (38).
(69) La questione concerne, dunque, il problema della "estensione della demanialità", problema
caratterizzato dalla presenza nel lago (come del resto nei corsi d'acqua) di alcune particolari
caratteristiche fisiche, quali il fatto di avere come sua parte costitutiva un corpo liquido, non dotato in
natura di propria forma, ed il fatto che questo corpo liquido muti periodicamente il suo volume in
funzione delle variazioni prodottesi nelle fonti di alimentazione (cfr. ZECCA, voce Fiumi e laghi, in Enc. dir.,
vol. XVII, Milano, 1968, p. 689).
(70) Cass. civ., SS.UU., 28 giugno 2005, n. 13834, in Giust. civ., 2003, I, 89; Cass. civ., SS.UU., 19
dicembre 1994, n. 10908 in Dir. e giur. agraria e ambiente, 1996, p. 455; Cass., SS.UU., 6 giugno 1994,
n. 5491, in Foro it., Rep. 1995, voce Acque pubbliche, n. 81; Trib. reg. acque pubbl. Milano, 26 gennaio
1988, n. 2, in questa Rivista, 1988, p. 331; Trib. sup. acque pubbl., 6 maggio 1980, n. 13, in Cons. St.,
1980, II, p. 747.
(71) Trib. sup. acque pubbl., 17 giugno 1987, n. 291, in questa Rivista, 1987, p. 670.
(72) LORIZIO, voce Laghi, in Dig. disc. pubbl., vol. IX, Torino 1994, p. 67; LETTERA, Spiagge lacuali e
demanio idrico, in questa Rivista, 1987, p. 672; Trib. sup. acque pubbl., 8 giugno 1965, n. 14, in Rass.
Avv. Stato, 1965, I, p. 830.
(73) COLETTA, Spiagge lacuali e demanio idrico dopo la legge 36 del 1994, in Dir. giur. agraria e ambiente,
1996, p. 456; LORIZIO, cit.
(74) DE NONNIS, Dei laghi e dei criteri per la delimitazione della spiaggia lacuale, in Foro pad., 1964, c.
770; COLETTA, cit.; LORIZIO, cit. In giurisprudenza, cfr. Trib. reg. acque pubbl. Milano, 21 gennaio 1964, in
Foro pad., 1964, cc. 761 s.
(75) Sul punto vedi CONTE, Il demanio idrico secondo la legge 5 gennaio 1994, n. 36, cit., p. 614.
(76) LOLLI, Proprietà e potere nella gestione dei beni pubblici e dei beni di interesse pubblico, in Dir.
amm., 1997, pp. 80 s.
(77) PALAZZOLO, Acque pubbliche ed energia, cit., p. 339.
(78) DE ANGELIS, Vecchi e nuovi problemi nel diritto delle acque,cit., p. 756; GRAGNOLI, Nuovi indirizzi sulla
disciplina dell'acqua, cit., p. 366; PALAZZOLO, Acque pubbliche ed energia, cit., p. 344.
(79) BENVENUTI, Conclusione, in AA.VV., La conterminazione lagunare, Atti del convegno di studio nel
bicentenario della conterminazione lagunare (Venezia 14-16 marzo 1991), p. 498.
(*) Avvocato in Mestre.
Archivio selezionato: Dottrina
BENI PUBBLICI TRA USO PUBBLICO E INTERESSE FINANZIARIO
Dir. amm. 2007, 02, 165
VINCENZO CAPUTI JAMBRENGHI
SOMMARIO: 1. Demanio e distinzioni preliminari nei beni degli enti pubblici: la destinazione aziendale. - 2.
(Segue): i beni di uso pubblico. - 3. La «sopravvivenza» della fruizione generale. - 4. La condizione
giuridica del demanio pubblico. Il caso dei beni culturali. - 5. Le ragioni dell'interesse finanziario: le
dismissioni. - 6. (Segue): la cartolarizzazione di immobili pubblici e la legge finanziaria 2007. - 7.
Dismissioni e demanio pubblico: interesse finanziario e c.d. violazione di principi del diritto comunitario. 8. (Segue): spunti critici. - 9. La ricerca di spazi pubblici nelle città e l'architettura a zero cubatura nella
globalizzazione dell'economia. - 10. L'analisi economica del diritto dei beni pubblici. Cenni sulla dottrina
americana e su alcuni approfondimenti critici. - 11. Considerazioni conclusive. Dai grattacieli di Chicago al
salario reale attraverso i beni pubblici.
1. Per affrontare oggi, tenendo il passo della legislazione incalzante sulle dismissioni di beni
soggettivamente pubblici, lo studio del rapporto tra interesse giuridicamente protetto alla fruizione
generale del nucleo più rilevante dei beni demaniali e patrimoniali indisponibili e interesse finanziario
dell'ente territoriale proprietario, soprattutto il Comune e lo Stato, al godimento delle loro utilità fino alla
sostituzione anche integrale del bene con il prezzo della sua commercializzazione, è necessaria una
rivisitazione delle distinzioni preliminari all'interno della categoria giuridica dei beni appartenenti ai
pubblici poteri.
Oltre a quelli comunemente definiti di patrimonio disponibile - per i quali non può sorgere alcuna difficoltà
in sede di affermazione dell'alienabilità in concreto - con riferimento alla maggior parte di beni del
patrimonio indisponibile di tutti gli enti pubblici può ritenersi l'immanenza condizionante di interessi
finanziari dell'ente cui essi appartengono; questa rilevazione è resa agevole anzitutto dalla circostanza
che sul compendio di beni destinati al servizio pubblico si riflettono, non solo le variazioni delle
innumerevoli esigenze del servizio stesso, ma altresì quelle indotte dal progresso tecnologico sino ad
indurre alla dismissione di quei beni: per fare qualche esempio, i vecchi tram e le loro rotaie, gli autobus
comunali e regionali obsoleti, gli arredi di uffici ormai soppressi, alienati mediante procedure speciali di
(scarsa) evidenza pubblica, gli stessi immobili sede di pubblici uffici, vecchie caserme in disuso, alloggi e
magazzini di Stato di varia provenienza, cave e miniere esauste, ecc. (immessi o no in una procedura di
cartolarizzazione), le case dell'edilizia economica e popolare assegnate agli originari assegnatari che
abbiano soddisfatto le condizioni economiche del loro riscatto.
Si tratta, all'evidenza, di beni cui è stata impressa dall'ente pubblico proprietario o dal legislatore una
destinazione aziendale, connessa cioè al servizio pubblico gestito dall'ente in favore di tutti o di
determinate categorie di cittadini: ma è proprio l'aziendalità del parametro classificatorio a rivelarsi
tendenzialmente prevalente quanto ai beni soggettivamente pubblici, essendo oggi imposta dalle
necessità finanziarie di ogni bilancio. Senonché la prevalenza di metodi di gestione dei beni pubblici
ispirati alla loro destinazione aziendale (il bene è dello Stato, lo Stato lo gestisce come vuole, ne fa
commercio quando vuole) sembra talvolta derogare, anche se affidata ad (o assunta da) un ente
pubblico, al principio cogente di effettività della libera concorrenza, posto alla base della costituzione
economica dell'Unione europea.
Ma nella categoria in questione, dei beni soggetti ad un mero vincolo di destinazione di tipo aziendale,
possono rientrare agevolmente anche le strade ferrate, demaniali fino all'entrata in vigore della l. 17
maggio 1985, n. 210 (di privatizzazione dei beni dell'ente pubblico economico Ferrovie dello Stato
subentrato all'Azienda statale e poi articolato in diverse S.p.a.), gli acquedotti, demaniali e preziosi, ma
evidentemente affidabili in concessione per il loro funzionamento improntato a criteri aziendali alla
gestione privatistica, ferma restando la demanialità dell'acqua, bene naturale di pubblico, generale
interesse da essi condotta dagli impianti depurativi di partenza ai recapiti dell'utenza.
Persino alcuni beni culturali immobili - fatti salvi quelli d'interesse archeologico - e mobili per i quali la
fruizione collettiva non può dirsi attuale (né, nel medio periodo, attuabile) in conseguenza, ad esempio,
nel primo caso, della precaria staticità dell'edificato, bisognevole di interventi di restauro evidentemente
sproporzionati nel costo rispetto ai benefici limitati prospettabili in concreto per la comunità, nel secondo,
dell'impossibilità di offerta del bene, centomillesimo esemplare della stessa anfora olearia, potrebbero
ritenersi non necessariamente destinabili alla fruizione collettiva (1), prevalendo in questi casi eccezionali
quelle esigenze che sono tipiche dei beni a destinazione aziendale.
2. A fronte di questi beni, che comunemente si ritengono ormai oggetto preminente dell'interesse
finanziario dello Stato o dell'ente pubblico di appartenenza, si pone una ben diversa categoria di cose
che, al di là della loro classificazione legislativa nel demanio e nel patrimonio indisponibile (artt. 822-830
c.c.), si qualificano giuridicamente, vengono cioè riconosciute dall'ordinamento, come beni meritevoli
(art. 810 c.c.) di distinta e singolare disciplina rispetto a quelli soggetti a jus commune, perché formano
oggetto di riserva, originaria o successiva, in favore dell'ente territoriale che deve destinarli e mantenerli
nell'uso pubblico, tale essendo la finalità unica, prevalente o almeno ampiamente compresente,
riconosciuta dall'ordinamento a queste dieci categorie di cose pubbliche (una volta «privatizzato» - l. n.
210 del 1985 - almeno nel nomen il c.d. demanio ferroviario): il demanio marittimo, idrico e militare,
stradale, autostradale, culturale, acquedottistico, aeroportuale e, quanto al demanio specifico comunale, i
cimiteri ed i mercati.
Si tratta di beni in varia misura aperti - tranne quelli della terza categoria, tuttora riservati alla funzione
statale esclusiva della difesa militare (in relazione ai quali l'accesso stesso può essere vietato a pena di...
morte) - alla fruizione generale, che ottiene garanzia nell'attuale stato evolutivo dell'esperienza giuridica
(e del diritto scritto) soltanto se la loro titolarità resti pubblica, con poche (e discusse) eccezioni.
Ciascuno di essi, del resto, riceve riconoscimento dall'ordinamento generale non tanto come mezzo
proprio di attività amministrativa, bensì anzitutto quale oggetto di un diritto soggettivo di tutte le persone
al suo uso, quello tipico del bene aperto alla fruizione collettiva in quanto essa sia stata resa possibile
dall'attività di offerta al pubblico (costruzione, sistemazione, ecc.) dell'ente «proprietario» successiva
all'individuazione giuridica del bene immobile in questione (2).
Come abbiamo altrove osservato, si tratta di immobili pubblici come le strade, le piazze, le ville comunali
e prima ancora le spiagge, gli arenili, i porti marittimi, fluviali e lacustri, tutti fondamentali per garantire
in concreto l'esercizio della libertà di circolazione costituzionalmente protetta, la socializzazione e lo
sviluppo economico, le autostrade e gli acquedotti (queste due ultime categorie, come i porti, presentano
una componente di uso aziendale collegata alla loro natura di struttura pubblica industriale di immediato
quanto notevole rilievo economico per la circolazione veloce su gomma o per il trasporto dell'acqua
potabile, irrigua e fognante, che ne induce una differenziazione parziale del regime della fruizione
collettiva rispetto a quello generale delle strade); gli aerodromi aperti ai voli di linea come all'uso del
singolo pilota di aereo-taxi o di aeromobile personale, gli immobili d'interesse storico, artistico ed
archeologico, nei quali la storia popolare ed il godimento estetico del bene che testimonia il percorso
civile delle generazioni precedenti interessa direttamente ogni persona, non meno delle raccolte dei
musei, pinacoteche e gallerie.
Il rapporto ente-persona-cosa si fa qui peculiare. Se nel caso dei beni pubblici come mezzi, quelli che
Giannini definiva beni in proprietà individuale pubblica, la doverosità dei comportamenti, dell'attività di
uso «governativo» (o «per servizi d'istituto») di essi da parte dell'Amministrazione non opera in rapporto
diretto con il cittadino, esercitandosi piuttosto nell'attuazione dell'ordinamento che assegna i compiti
epperò fornisce i mezzi per espletarli; nel caso dei beni pubblici aperti alla fruizione collettiva nelle forme
dell'uso comune libero e paritario, tendenzialmente gratuito e prevalentemente contestuale (cioè non
abbisognevole di regolazione di vere e proprie turnazioni tra gli utenti e del relativo controllo), il compito
dell'ente di appartenenza è tutto versato in un rapporto di doverosità non privo talora di elementi di
obbligazione verso i cittadini proprietari reali-utenti.
Si pensi, ad esempio, all'uso degli aerodromi nelle situazioni di emergenza incontrate da chiunque sia in
volo, al regime delle porzioni di superficie stradale necessarie a garantire la continuità dell'accesso agli
abitanti frontisti, all'obbligazione di manutenzione di strade, autostrade, acquedotti, porti, piste
aeroportuali, rive di fiumi e dei laghi per scongiurare danni da insidie e trabocchetti a chiunque ne usi.
Si osservi che, quanto alle modificazioni soggettive della titolarità di beni demaniali, quelle imposte
dall'aggiornamento della gestione di pubblici servizi sono quasi sempre di tipo meramente formale e si
mostrano inoffensive della sostanza della proprietà quoad usum.
Può ritenersi, ad esempio, che nulla sia mutato sostanzialmente a proposito del regime giuridico
concernente i diritti dei cittadini inerenti all'uso delle strade e autostrade realizzate dall'ANAS S.p.a. che,
da azienda pubblica strumentale, competente per la costruzione di siffatti beni, è divenuta soggetto
proprietario degli stessi; o di quei diritti alla fruizione del trasporto pubblico ferroviario, cioè mediante le
strade ferrate demaniali (art. 822, comma 2 c.c.) e mediante i treni e le stazioni costituenti patrimonio
indisponibile, dopo che la l. n. 210 del 1985 ha sottoposto i beni del ex demanio (e patrimonio
indisponibile) ferroviario al regime giuridico del codice civile mentre l'azienda si è trasformata in ente
pubblico economico, articolandosi successivamente, come abbiamo già ricordato, in diverse società per
azioni.
Infatti nel primo caso il trasferimento dei beni stradali «non modifica il regime giuridico previsto dagli
artt. 823 e 829, comma 1 dei beni demaniali trasferiti» (art. 7 d.l. 13 agosto 2002); e nel secondo caso
«i beni destinati a pubblico servizio», nonostante siano soggetti alle norme del codice civile e abbiano
pertanto perso la natura demaniale, «non possono essere sottratti alla loro destinazione senza il
consenso dell'ente» (art. 15, l. n. 210 del 1985): una disposizione, questa ultima, di ius singulare che si
sostituisce a quelle concernenti la condizione giuridica dei beni demaniali (art. 823 c.c. e norme
sull'azienda FF.SS.) tutte costituenti a loro volta ius singulare, in questa fattispecie oggetto di
abrogazione (3).
3. Se ci si chieda perché la fruizione collettiva sopravvive tal quale, almeno nella fattispecie astratta, alla
stessa estinzione della proprietà soggettivamente pubblica, mentre della destinazione aziendale si perde
irrimediabilmente la traccia una volta che essa sia cessata ed il bene abbia perso la sua demanialità
mediante sclassificazione, l'interrogativo può trovare risposta nell'analisi della situazione giuridica
soggettiva che sottostà alla fruizione collettiva pubblica.
Giannini ha sfidato l'assolutismo giuridico della codificazione costruendo (anche su basi sociologiche,
tuttavia mai meramente sociologiche), la figura giuridica della proprietà collettiva demaniale, riservata
alla gestione statale (4) oppure attribuita ad enti territoriali, costituita da beni in ordine ai quali e sui
quali gli «appartenenti all'università esercitano diritti soggettivi, appartenenti al gruppo dei diritti civili
collettivi» (5).
Diritti che tuttavia, come di frequente accade nel pieno rispetto dell'ordinamento generale, si presentano
nell'ordinamento amministrativo come fronteggiati dal potere dello Stato o dell'altro ente territoriale «in
quanto gestore del bene collettivo» che infatti «con atti di polizia può inibire o limitare utilizzazioni di beni
collettivi», chiudendo una strada, sbarrando un tratto di lido del mare, ecc., ovvero esercitando la
doverosa tutela diretta di qual bene proprio in quanto collettivo: siffatti provvedimenti sono
«strutturalmente... di autotutela... funzionalmente, però, essi hanno duplice fine in quanto tutelano sia la
collettività proprietaria sia la qualità di gestore del bene che la norma ha affidato all'ente» (6).
L'ente gestore che, come ben può vedersi, agisce come autorità, «sottostà» alle «norme proprie
dell'attività autoritativa prima fra tutte il principio di legalità e di nominatività (laddove se fosse
proprietario individuale potrebbe disporre circa l'uso del bene a proprio piacimento). Onde non potrebbe
p. es. adottare come permanenti provvedimenti che possono avere solo durata temporanea».
È questa, dunque, la ragione della sopravvivenza di una protezione dello specifico interesse universale
dell'uso dei beni demaniali aperti alla fruizione collettiva, cioè di una situazione giuridica attiva che
neppure la legge può cancellare senza tradire la sua stessa natura di fonte del diritto. Quella propria della
fruizione rappresenta dunque una realtà giuridica legittimante l'individuazione del bene e della
sopportazione degli oneri connessi alla sua gestione, talvolta assai pesanti, da parte della finanza
pubblica e tuttavia irrefutabili (si pensi - de minimis - al risarcimento del danno subito dall'utente del
bene a causa dell'omessa manutenzione da parte dell'ente gestore ed amplius alle conseguenze
economiche della mancata manutenzione del fondale di un porto o anche quelle sociali e persino fisiche
della gestione distratta di un acquedotto) potrebbe dirsi con Grossi (7) che è forse questo un caso nel
quale si avvera un'ipotesi rivoluzionaria rispetto all'assolutismo del diritto dato, ricorrente in dottrina: su
questa linea, c'è anche Berti nell'impostazione teorica secondo la quale è necessario «portare fino al
territorio proibito delle fonti» la propria analisi ricostruttiva «partendo da una degnità di fondo: la
riconduzione alla società della funzione normativa» (8).
Ma non c'è bisogno di visitare e condividere teorie di grande rilievo sistematico come quelle cui si è
appena fatto riferimento: ci si può limitare a trarre dalla stessa formulazione di tesi a tal segno
persuasive ed estremamente utili soprattutto oggi nell'era della globalizzazione - utili, si intende, ad
arginare, fidando su principi fortemente radicati nel consorzio umano, la tendenza dissolutrice
dell'ordinamento - le conclusioni generali in punto di necessità di preservare il valore giuridico reale nella
presenza di un legame tra una comunità e un bene strategico, dalle utilità peculiari, che da essa deve
ricevere la regola, nel caso concreto politica, della sua fruizione.
Può parlarsi, dunque, di una realtà sociale di dimensione collettiva, della quale il bene demaniale
costituisce il veicolo per entrare nel diritto dato, regolabile ma incomprimibile dalla legge dello Stato
perché a quest'ultima precedente, come accade per quelle realtà, individuali e sociali che, anche
formalmente, la Costituzione - fonte anch'essa di diritto positivo - riconosce come titolari di diritti pur se
diverse dallo Stato, inevitabilmente diverse, perché antecedenti ad esso: è il caso della persona come
singola e nelle formazioni sociali, art. 2; delle autonomie locali, art. 5; della Chiesa cattolica, art. 7; delle
altre Confessioni religiose, art. 8; delle norme dell'ordinamento internazionale generalmente riconosciute,
art. 10; della famiglia, art. 29.
4. Quella che può definirsi dunque come vera e propria riconcettualizzazione del regime giuridico
applicabile ai beni immobili dello Stato risponde alla tendenza strettamente propria dell'economia postindustriale di svalutare il ruolo della proprietà immobiliare e della sua gestione a favore dei rapporti
dinamici consentiti dalla proprietà azionaria e più in generale mobiliare.
Può osservarsi, per chiarire i termini reali del problema di convivenza tra l'interesse collettivo agli usi
demaniali e quello finanziario dello Stato-persona, che le ragioni che sospingevano in prima linea il
regime della responsabilità dello Stato per la tutela di tutto il demanio, anche non di uso pubblico, con
particolare riferimento al demanio culturale, non consentivano di estendere tale tutela - peraltro oggetto
di un'organizzazione assai razionale ed estesa che può dirsi tuttora vigente nelle linee di base - fino
all'introduzione di un regime di inalienabilità assoluta: ciò persino, si torna a sottolineare, con riferimento
ai beni culturali, cioè a testimonianze concrete più intimamente connesse alla storia, in particolare al
percorso di incivilimento del popolo.
Al titolare di un Ministero di grande rilievo nazionale e di pari capacità d'influenza sull'opinione pubblica,
quello della educazione nazionale, la l. 1º giugno 1939, n. 1089 aveva infatti conferito (art. 24) il potere
di autorizzare la vendita di qualsiasi bene culturale, sentito il parere del Consiglio nazionale
dell'educazione, a condizione che non ne derivasse danno alla conservazione del bene e che non ne fosse
menomato il pubblico godimento. In analogia si provvedeva per le alienazioni degli «enti morali» (artt. 26
e 27), mentre il sistema trovava la sua conclusione con il regime della prelazione artistica: lo Stato si
riservava il diritto di acquistare (altro che dismettere) qualsiasi bene culturale in privata proprietà,
oggetto di notifica dell'interesse particolare per il suo valore ai sensi della l. n. 1089 del 1939, che fosse
stato sul punto di essere alienato ad altro soggetto al prezzo determinato inter privos.
Or, si osservi che nell'anno di grazia 1939 l'interesse finanziario dello Stato poteva dirsi modulato secondo
le ordinarie condizioni di un'economia che va completando la sua infrastrutturazione industriale anche per
l'agricoltura e che non soffre di crisi di sviluppo particolarmente gravi: eppure si prevede che tanto lo
Stato stesso quanto qualsiasi persona giuridica possa alienare un bene culturale, pur di rilievo, con la
duplice garanzia cennata e sempre che il Ministero competente abbia compiuto le necessarie valutazioni.
Da un lato, dunque, la collocazione dell'amministrazione e gestione dei beni culturali all'interno
dell'organizzazione statale più vicina al popolo e più frequentata dai giovani rendeva ragione di una
consapevolezza piena della natura comunitaria di un interesse pubblico visto come vicinanza corale del
popolo alle sue radici storiche ed artistiche (9); dall'altro l'incapacità di quel Governo di sottrarsi alla
tentazione di disporre, come organo maggiore del proprietario-Stato, di un potere di alienazione che, pur
se circoscritto da due ben chiare condizioni (che, ad es., avrebbero impedito una circolazione del bene
all'estero), costituiva una sorta di recognitio domini.
Ma che siffatta scelta normativa non sia stata bene accolta nell'opinione prevalente all'epoca è dimostrato
dal fatto che, meno di due anni dopo l'entrata in vigore della norma di cui all'art. 24, il libro III del codice
civile, entrato in vigore allorché la seconda guerra mondiale era già in atto, abolisce, all'art. 823, ogni
possibilità di alienazione, costruendo viceversa una «condizione giuridica» dei beni demaniali di
incommerciabilità assoluta e di soggezione alle sole leggi speciali che li riguardino quanto al
riconoscimento di eventuali diritti a favore di terzi su di essi insistenti.
Il regime di inalienabilità assoluta di tutti i beni demaniali (10) rappresentò un vero e proprio
ravvedimento dello stesso legislatore del 1939, una svolta che, nonostante le sopravvenute, enormi
necessità finanziarie determinate dagli oneri di una guerra mondiale, implicò anzitutto la rinuncia dello
Stato all'«entrata» demaniale ed immediatamente il riconoscimento di una condizione del bene pubblico
non accomunabile a quello perché gravato da un vincolo di destinazione in proprietà votata all'utilità
generale, anzitutto all'uso pubblico, la cui forza veniva rappresentata proprio dalla soggettività pubblica di
siffatta proprietà demaniale. Non diversamente se non in termini di necessario impiego della forza
pubblica si può intendere l'autotutela demaniale, che è sopravvissuta sino ai nostri giorni come compito
primario di tutela dell'integrità del bene quoad proprietatem e quoad usum. Si tratta di un compito
affidato dall'ordinamento generale allo Stato (come - più eccezionalmente ancòra - agli enti territoriali
«proprietari» di demanio), espletabile in alternativa all'azione giudiziaria in via amministrativa, quanto al
demanio marittimo secondo le norme del codice della navigazione, per quello stradale del codice della
strada (e per gli altri beni demaniali, previa emanazione di una norma di specifico conferimento dei poteri
esecutori).
5. Tuttavia ci sono dati e problemi specifici dell'organizzazione pubblica concernente l'amministrazione dei
beni demaniali che non possono ormai essere collocati in secondo piano.
Infatti, di fronte all'aggravarsi del problema finanziario derivante dall'abbandono progressivamente
ingrediente di una gestione finanziariamente attiva dei beni di proprietà pubblica da parte dello Stato e
degli enti pubblici territoriali, sono state finalmente assunte nel 1985 una serie di «utili» iniziative
prendendo le mosse dalla costituzione di una Commissione d'indagine (insediata con d.P.C.M. del 15
ottobre) incaricata di recensire e valutare il patrimonio immobiliare pubblico: ma incaricata altresì di
«valutare la possibilità di alienare o trasferire a privati od ad altri enti pubblici tali beni».
È noto che 473 milioni di metri cubi di immobili dello Stato e 3 miliardi di metri quadrati di terreni statali
hanno ricevuto nel 1987 una valutazione di circa 144.000 miliardi di lire.
Quanto ai Comuni, le proprietà dei suoli sono risultate nello stesso anno di estensione pari a 40 miliardi di
mq., quelli di aree fabbricabili ad 800 milioni di mq. (100 milioni nella proprietà statale), oltre a 340
milioni di mq. appartenenti a Ferrovie dello Stato S.p.a. (all'epoca ente pubblico economico).
Per i beni «costruiti», suddivisi dalla Commissione nelle tipologie delle opere marittime, idrauliche, di
bonifica, dell'edilizia pubblica e degli altri beni (terreni attrezzati), le risultanze dell'indagine hanno posto
capo ad una consistenza di 11.100 beni immobili giuridicamente individuati, con una superficie di
1.045.500.645 mq, per oltre metà sita nel Mezzogiorno ed in maggior misura in Sardegna ed in Puglia,
oltre che nel Veneto.
Su queste basi fattuali l'idea stessa di una commercializzazione dei beni pubblici ha trovato ben presto
ampio spazio per affermarsi in ragione dell'evidente peso finanziario di un patrimonio pubblico non
gestibile (talora persino non amministrabile); ma, soprattutto per la stringente necessità di riordinare i
conti pubblici, almeno in vista dell'equilibrio minimo di bilancio richiesto per entrare nell'Unione monetaria
europea, configurata con il Trattato di Maastricht. Ben presto, infatti, la l. n. 537 del 1993 prefigura
regolamenti di delegificazione, strumento governativo per l'alienazione dei beni pubblici, dalla quale,
tuttavia, (qui la saggezza della scelta) restano testualmente esclusi quelli destinati all'uso generale e
quelli d'interesse ambientale o culturale, beni che sono fatti salvi in ragione di una esigenza avvertita,
anzitutto sul piano della cultura giuridica, dal Governo dell'epoca (del quale faceva parte un ministro della
funzione pubblica professore di Diritto amministrativo).
Poco dopo, con la l. n. 560 del 1993 (modificata dalla l. n. 127 del 1997) si regolamentava - del tutto
opportunamente - un'agevolata alienazione degli alloggi dell'edilizia residenziale pubblica in favore dei
rispettivi assegnatari.
La terza legge dello stesso anno è del 31 dicembre 1993, n. 597 ed autorizza il ministro delle Finanze a
trasferire beni demaniali e patrimoniali dello Stato non utilizzati in conformità alla loro destinazione a
Comuni e Province che ne facciano richiesta per ragioni di pubblico interesse contro un prezzo praticabile solo in favore degli enti che ospitino tali beni - non inferiore alla metà del valore stimato
dall'ufficio tecnico erariale.
La quarta legge, collegata alla legge finanziaria 1996 (l. n. 549 del 1995), abilita il Presidente del
Consiglio dei ministri a trasferire ai Comuni, o, in mancanza, ad altri enti locali richiedenti, la proprietà di
immobili statali non utilizzati, o inutili, al prezzo di 2/3 della valutazione UTE. Basando su queste norme,
sembra configurarsi, dunque, una forma di «quasi-prescrizione» riservata a rapporti intersoggettivi
pubblici e maturata in funzione dell'elemento centrale - quello dell'utilizzazione in concreto - del bene in
titolarità pubblica quoad usum.
Dalla manovra negoziale diretta sugli immobili si passa, quindi, a quella finanziaria, che mantiene lo
stesso oggetto delle dismissioni immobiliari, con la legge finanziaria dell'anno successivo (l. n. 662 del
1996, art. 3, commi 86-97, 99 e 111). Il ministro del Tesoro è autorizzato a sottoscrivere quote di fondi
comuni di investimento immobiliare chiusi, anche mediante apporto di immobili statali di valore catastale
non inferiore a lire 2 miliardi (al ministro delle Finanze, viceversa, spetta il compito - proprio dello
schema precedente - della ricerca dei beni in proprietà pubblica non utilizzati adeguatamente nell'uso
governativo e per questo motivo meritevoli di dismissione).
Le norme determinano la competenza del ministro del Tesoro per fissare le condizioni della cessione dei
fondi immobiliari e dell'emissione di titoli speciali aventi ad oggetto i diritti di conversione in quote di
fondi comuni.
La l. n. 127 del 1997, infine, trasforma all'art. 17, comma 65 ss., in gratuita la cessione di demanio civile
e militare statale, inutilizzato da oltre dieci anni, in favore di Comuni, Province e Regioni che ne abbiano
fatto richiesta.
Ma con riferimento ai beni culturali adibiti a servizi dell'Amministrazione della Difesa, può parlarsi di un
particolare attivismo del legislatore del secolo scorso (11): particolare perché sono i beni «culturali
militari» a costituire il cavallo di Troia per avviare il processo di evirazione delle norme sull'inalienabilità
dei beni demaniali di cui all'art. 823 c.c.. Infatti, con la l. finanziaria 1997 (l. n. 662 del 1996) un
programma di dismissione di beni militari comprendenti anche monumenti nazionali, oltre che opere
destinate alla difesa, dunque beni, in entrambi i casi, sicuramente demaniali, viene articolato (art. 3,
comma 112, lett. e) con l'applicazione del sistema normativo di cui alla l. n. 1089 del 1939 (art. 24 ss.),
cioè mediante il ritorno alla pura e semplice autorizzazione ministeriale alla vendita dei beni demaniali.
Ciò in modifica implicita dell'art. 823 c.c. il cui precetto di inalienabilità e incommerciabilità dei beni
demaniali viene derogato dalla norma successiva (e speciale) che la segue nel tempo.
Con particolare riferimento alle alienazioni in favore di privati, la legge finanziaria 1998 (l. n. 449 del
1997, art. 14, comma 12) riprende il leitmotiv dell'anno precedente e autorizza la vendita ministeriale a
trattativa privata dei beni - sempre se non conferiti nei fondi immobiliari - di valore inferiore a 300
milioni, ad asta pubblica per valori superiori. La trattativa privata incontra l'unico temperamento di un
diritto di prelazione riconosciuto al Comune che ospita il bene in vendita.
L'art. 19 della legge finanziaria 1999, disciplinando il «processo di dismissione o di valorizzazione del
patrimonio immobiliare statale», attribuisce al ministro del Tesoro, con il concerto degli altri ministri
interessati, il potere di «conferire o vendere a S.p.a. pubbliche, private o miste» (comma 4) «compendi o
singoli beni immobili, o diritti reali su di essi» anche se ricadenti nella disponibilità di soggetti diversi dallo
Stato che non li stiano utilizzando per usi governativi: ciò per ottenere la più proficua gestione di tali
immobili.
Con l'art. 65 del d.lgs. n. 300 del 1999 è stata istituita, come è noto, l'Agenzia del demanio che ha tra i
compiti fondamentali quello di «gestire con criteri imprenditoriali i programmi di vendita.. dei beni
immobili dello stato». Lo statuto dell'Agenzia, approvato il 6 giugno 2001 conferma che nel concetto di
immobili dello Stato è compreso il demanio pubblico (artt. 2 e 4) (12).
Nel frattempo una fondamentale riforma del bilancio statale (l. 3 aprile 1997, n. 94) aveva posto fine alla
tradizionale limitazione della funzione degli elenchi dei beni demaniali che, in base alla legge e al
regolamento di contabilità dello Stato (1923 e 1924), avevano valore unicamente descrittivo di ciascun
bene, introducendo un «livello di classificazione che fornisca l'individuazione dei beni dello Stato
suscettibili di utilizzazione economica».
Quest'ultimo principio, secondo l'osservazione di Cerulli Irelli opera «nella permanenza del bene di
proprietà dello Stato e anche nella coesistenza della sua destinazione pubblica».
Su questo nuovo - quanto ibrido (ma non necessariamente in senso critico) - terreno organizzativo si
sono innestate le già accennate iniziative consistenti nella costituzione della Patrimonio dello Stato S.p.a.
e della Infrastrutture S.p.a., che hanno caratterizzato per un intero periodo l'organizzazione delle
dismissioni degli immobili anche demaniali (13).
6. a) S'impone un accenno alla costituzione di società a capitale pubblico aventi ad oggetto esclusivo la
cartolarizzazione dei proventi derivanti dalla dismissione del patrimonio dello Stato e degli altri enti
pubblici, le scip, che operano disponendo di un patrimonio separato per ciascuna operazione di
cartolarizzazione (d.l. 25 settembre 2001, n. 351). La separatezza del patrimonio delle scip risponde come è noto - all'opportunità di garantire i creditori (finanziatori, mutuanti) della specifica operazione
finanziaria oggetto di contratto mediante una consistenza immobiliare non «aggredibile» da altri creditori.
Dunque il regime giuridico del bene «in transito» si modifica ormai radicalmente: ai sensi dell'art. 3,
comma 11, l'inclusione di un bene demaniale in un decreto del ministro dell'Economia e delle Finanze
diretto ad una scip e contenente la valutazione economica del bene produce il «passaggio dei beni al
patrimonio disponibile».
Siamo di certo ad una svolta perché nessuna differenza si fa nella lettera della legge tra patrimonio e
demanio pubblico, né all'interno di quest'ultimo, tra destinazione aziendale o fruizione collettiva.
Il decreto è stato convertito con l. n. 410 del 2001 che ha previsto scip 1, scip 2 ed il Fondo immobiliare
pubblico, disciplinando anche la costituzione di fondi di investimento immobiliare; con successivo d.l. n.
168 del 2004 la disciplina in questione, estesa all'apporto di beni pubblici per la costituzione dei fondi, è
stata semplificata (14).
La l. n. 311 del 2004 - significativamente intitolata «Interventi urgenti per il contenimento della spesa
pubblica» - ha recato nuove norme per l'alienazione, la permuta, la manutenzione, la razionalizzazione e
la valorizzazione dei beni dello Stato. Nel frattempo l'art. 5-bis del d.l. n. 143 del 2003 (conv. in l. 1º
agosto 2003, n. 212) regolava l'alienazione in favore dei privati di aree del patrimonio o del demanio
dello Stato (escluso il demanio marittimo) interessate dallo sconfinamento abusivo di opere eseguite
entro il 31 dicembre 2002 su fondi attigui di proprietà altrui, in forza di un titolo legittimante l'opera; ed il
d.l. n. 269 del 2003 (conv. in l. 24 novembre 2003, n. 326) ha dettato disposizioni in materia di
valorizzazione e privatizzazione dei beni pubblici, di verifica dell'interesse culturale del patrimonio
immobiliare pubblico, di cessioni di terreni e di immobili adibiti ad uffici pubblici, introducendo anche quasi per bilanciare la sanatoria privilegiata degli sconfinamenti a danno del demanio offerta qualche
mese prima - disposizioni per la definizione degli illeciti edilizi su aree demaniali (15).
b) Alle norme sulla «privatizzazione e valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico» di cui al già
ricordato d.l. 25 settembre 2001, n. 351, la norma di cui al comma 262 della l. 27 dicembre 2007, n.
296, finanziaria 2007 aggiunge due corollari all'art. 15 al fine di promuovere, anzitutto, una fondamentale
collaborazione tra l'Agenzia del demanio e gli enti territoriali per l'individuazione di un processo di
valorizzazione unico, in coerenza con gli indirizzi di sviluppo territoriale allo scopo di costituire «stimolo
ed attrazione di interventi di sviluppo locale». Si conferma per tal via la prospettiva - di ampio respiro che anche i beni demaniali si pongono a servizio della promozione e dello sviluppo dei «sistemi locali»:
priorità è anzi attribuita, nell'ambito dei predetti programmi unitari, alla possibilità di valorizzazione di
immobili demaniali e patrimoniali indisponibili senza ricorrere alla loro vendita, ma utilizzando il fisiologico
strumento della concessione d'uso per il demanio (della locazione per i beni patrimoniali) e privilegiando,
quale contenuto di siffatte concessioni demaniali in favore delle autonomie, «l'allocazione di funzioni
d'interesse sociale, culturale, sportivo, ricreativo, per l'istruzione, la promozione delle attività di
solidarietà e per il sostegno alle politiche per i giovani, nonché per le pari opportunità».
Ancora, in vista della professionalizzazione dell'esercito si prospettano permute di immobili militari con gli
enti territoriali affidate all'Agenzia del demanio.
Come si vede, con la finanziaria 2007 il legislatore, pur non rinunciando al già vigente programma di
dismissione degli immobili statali, anche demaniali, torna ad inserire la fruizione sociale nel fenomeno
della mise en valeur del demanio, ciò che dimostra l'intento di confermare la destinazione storica di
questi beni agli usi economico-sociali della comunità, in quanto essi restino nella titolarità pubblica che,
anche se formale, garantisce essa sola in ogni circostanza la pubblicità della fruizione e la sua uniformità
qualitativa nel territorio nazionale.
Ciò può osservarsi con chiarezza anche nelle iniziative pubbliche di esercizio di poteri di autotutela reale
contro turbative o tentativi di usurpazione che, osteggiate già in via di principio dalla dottrina, assai
difficilmente potrebbero trovare cittadinanza una volta trasferite in capo al concessionario privato del
bene demaniale o, ancor peggio, all'acquirente del bene, ex demaniale tenuto a garantirne la fruizione
collettiva, come nel caso del bene culturale oggetto di alienazione.
La dilazione del termine della concessione demaniale dai sei, e al massimo diciannove, anni (come
prevedeva l'art. 14, comma 2 del d.P.R. 13 settembre 2005, n. 296) fino a cinquanta anni disposto dal
comma 261 della l. finanziaria 2007, trova base sistematica nella prospettiva della tutela della fruizione,
in quanto il nuovo termine è subordinato soggettivamente e funzionalmente, perchè è riservato a
concessionari soltanto pubblici, come le Regioni e gli enti locali e, per altro verso, ai casi di impegno del
concessionario ad «eseguire consistenti opere di ripristino, restauro o ristrutturazione particolarmente
onerose, con indicazione del termine di ultimazione». Infine, con il comma 263, la finanziaria non
soltanto sblocca l'alienazione degli immobili militari non più utili ai fini istituzionali individuati dal Ministro
della Difesa e consegnati all'Agenzia del demanio «per essere inseriti nei programmi di dismissione e
valorizzazione» che coinvolgono, come è noto, anzitutto gli enti locali beneficiari principali, fino alla
prelazione, delle consistenze già militari: ma, novum assoluto, presenta al Ministro un calendario preciso
e obbligatorio delle «consegne» all'Agenzia del demanio degli immobili come definiti dalla norma (16).
Prima ancora di essere oggetto di stima economica da parte dell'Agenzia del demanio i beni elencati dal
Ministro della Difesa sono sottoposti al vaglio del Ministro per i beni e le attività culturali cui la norma
accorda novanta giorni dalla pubblicazione dell'elenco per verificare l'interesse culturale che giustifichi,
per qualcuno di essi, la tutela prevista dal codice n. 42 del 2004. L'effetto legale della verifica positiva
consiste nella cancellazione del bene dall'elenco di quelli alienabili.
Norme di analogo tenore a protezione dell'interesse culturale riconosciuto dal Ministro competente nel
bene anche se già destinato al Fondo immobiliare pubblico e con effetto di revoca di tale destinazione,
sono contenute, ad es., all'art. 8 del d.m. 16 settembre 2005, n. 98271 emanato per individuare immobili
da trasferire al F.I.P. del valore corrispondente a quello degli immobili rivelatisi intrasferibili secondo stima
dell'«esperto indipendente» (pari - nel caso - ad 173 milioni).
Ma l'ultima finanziaria sembra voler in qualche modo allontanare i rischi dell'eversione del demanio,
allorché prevede le decadenze dalle concessioni marittime dei gestori autori di gravi violazioni edilizie
(comma 250), aggiorna canoni e clausole delle stesse concessioni (comma 251-257), costruisce le ipotesi
di esercizio di prelazione da parte degli enti locali su beni ex ferroviari in vendita ed accordi di programma
con il ministero della Difesa finalizzati alla dismissione come alla valorizzazione degli immobili gestiti.
Un certo rilievo è da attribuire anche alla norma di cui al comma 254 che - ribadendo antichi quanto in
pratica violati principi - vincola la pianificazione regionale dell'utilizzazione delle aree demaniali marittime
(art. 6, comma 3 d.l. 5 ottobre 1993, n. 400, conv. in l. n. 494 del 1993), sentiti i Comuni, alla previa
individuazione di «un corretto equilibrio tra le aree concesse a soggetti privati e gli arenili liberamente
fruibili». Devono, inoltre, essere individuate «le modalità e la collocazione dei varchi necessari al fine di
consentire il libero e gratuito accesso e transito, per il raggiungimento della battigia antistante l'area
ricompresa nella concessione, anche al fine di balneazione».
È anche prevista una «razionalizzazione del patrimonio immobiliare del Ministro della Giustizia (comma
1313) e, ben più ampiamente, degli immobili ubicati all'estero per pianificare, con l'intervento
dell'Agenzia del demanio, la dismissione del patrimonio immobiliare dello Stato ubicato all'estero (comma
1311, 1312 e 1314) d'interesse del Ministero degli affari esteri (il 30%, almeno, dei proventi dovranno
essere riaccreditati allo stesso Ministro per il restauro e la manutenzione straordinaria degli immobili non
dismessi) (17).
7. Le principali riflessioni che possono derivare da una rassegna critica, se pur sommaria, sull'attuale
stadio evolutivo della disciplina in materia di dismissioni di beni pubblici pongono subito in luce che
l'intero fenomeno non sembra particolarmente caratterizzato dal rispetto della dicotomia - beni a
destinazione aziendale, beni aperti alla fruizione collettiva - che pure abbiamo mostrato esistere e che
peraltro non incontra generalmente critiche in dottrina.
L'esperienza giuridica degli ultimi quindici anni ha dimostrato infatti che, tanto la strutturazione in sé del
programma nazionale di dismissioni di beni pubblici, attraverso le società veicolo, quanto il passaggio
attraverso una cartolarizzazione di faticosa realizzazione danno luogo ad un processo assai lento e non
sempre di proficuo esito finale (18).
Ma quel che più rileva positivamente è che emerge nelle esperienze di quest'ultimo quindicennio la netta
tendenza a non invadere in concreto, al di là delle previsioni di legge, nelle alienazioni delle proprietà
soggettivamente pubbliche, le categorie dei beni demaniali, finora presenti soltanto in episodi assai
circoscritti e marginali (come quello di due piattaforme militari in zona marittima delle isole Tremiti
contenenti attrezzature già delle milizie borboniche, o in casi similari, sempre molto limitati): non c'è una
dilapidazione del demanio pubblico, nonostante la legge da tempo la consenta, né - in particolare - quella
dei beni culturali demaniali che non trovano mercato perché evidentemente la serie di vincoli di tutela del
bene e di fruizione pubblica ai quali la cosa d'arte transitata in proprietà privata è sottoposta per legge
non incoraggia di certo il mercato in questo settore (19).
Lo Stato è, dunque, di fronte ad un probabile fallimento del mercato che esso stesso ha voluto ed
istituito.
Tuttavia, neanche può omettersi la considerazione che un ordinamento che esprima nelle sue norme una
tendenza «eversiva» del demanio pubblico (come quella riservata a beni «storici» ben diversi e quasi
totalmente reddituali, come quelli dell'Asse ecclesiastico nella prima fase dell'unità d'Italia) tende a
ridurre progressivamente il ruolo della funzione amministrativa svolta in favore di chiunque nel realizzare
e conservare in condizioni accettabili le categorie di immobili aperti e destinati all'uso comune. Si tratta
del compito di garantire la sopravvivenza di un ambito di beni immobili nostri, quoad usum, ma nostri
anzitutto perché il proprietario formale è anch'esso nostro: siamo noi come Comune, Provincia, Regione o
Stato e, proprio per questo motivo, il «proprietario» è titolare di un dovere di proprietà che nasce
dall'interno dell'ordinamento e ne costituisce struttura, se è vero che la proprietà è pubblica e privata e
che i beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati, come tuttora vuole l'art. 42, comma 1,
Cost.
Si procede in tal modo verso una declassificazione del demanio, verso il suo depotenziamento anziché
verso l'estensione della fruibilità di beni pubblici che deve, viceversa, veder confermata, nel percorso
dall'esperienza giuridica alla soglia legislativa, la sua specifica funzione ed il ruolo socio-economico che le
è proprio dalle prime esperienze di rapporto tra sovranità e interessi collettivi, cioè emergenti in una
comunità diversamente composta e strutturata secondo il parametro delle risorse economiche dei singoli.
La sua salvaguardia e la sua apertura in favore dei cittadini e di gruppi che non riescono agevolmente a
superare - con risorse e iniziative proprie, alternative a quelle dell'uso pubblico e produttive di utilità
sostitutive - le difficoltà indotte dalla loro condizione economica nell'esercizio di diritti basilari come quello
di circolazione, di fruizione dei beni culturali, del litorale marino, degli arenili, delle acque, delle strade e
delle loro pertinenze, come i giardini comunali, del demanio lacuale, degli aeroporti, del demanio
autostradale, mercatale e cimiteriale, costituisce base costante e solida di un ordinamento politico
generale del terzo millennio, che deve rapportarsi alla globalizzazione in atto dei rapporti economici,
cercando di regolare - e spesso governare per il possibile - la ricaduta della globalizzazione economica sui
rapporti sociali di base interni alla comunità politica.
Oltre alle tesi, cui appena accenniamo, che sostengono la perfetta irrilevanza dell'assegnazione del bene
al proprietario privato o a quello pubblico a fronte della necessità di esaudire bisogni di fruizione
collettiva, sembrano operare talvolta nello stesso senso alcuni orientamenti e principi comunitari. Ma non
è difficile avvedersi dell'erroneità di una impostazione che identifichi nell'ordinamento comunitario un
nucleo di norme eversive della demanialità negli Stati membri.
Beninteso nel maggior numero dei casi si tratta di norme e principi non del tutto correttamente
interpretati, tuttavia presenti innegabilmente nell'ordinamento comunitario.
Ad es., volendo tutelare la libertà di circolazione delle merci e far rispettare il divieto di aiuti di Stato,
l'Unione europea vede con disfavore il regime del lavoro e le regole finanziarie delle attività portuali
affidate all'iniziativa delle Autorità degli Stati membri, che quasi fatalmente privilegiano ditte e lavoratori
nazionali, sostanzialmente escludendo la possibilità stessa di una presenza di altre ditte europee. La
stessa riserva legale della proprietà demaniale dei porti marittimi, fluviali e lacuali e delle autostrade non
è vista favorevolmente: ma a questa conclusione l'empirismo dell'Unione perviene nella considerazione
che nulla di positivo può sortire in favore della libera circolazione dei mezzi dalla presenza di una riserva
di legge per una proprietà - se pur formalmente - intitolata al soggetto pubblico che, tuttavia, nella sua
tendenza prevalente rende inaccessibili alla proprietà industriale una categoria di beni strategici - come,
appunto, quella dei porti marittimi - per l'economia di mercato.
Ma ciò al cospetto della prassi interpretativa della demanialità portuale nei singoli Stati come
scarsamente sensibile alla caratteristica di assoluta generalità del servizio pubblico organizzato dall'ente
competente mediante lo strumento di un bene demaniale. In queste condizioni ben può giustificarsi
l'opinione prevalente nell'U.E. che tuttavia attiene a difetti e insufficienze dell'esercizio in concreto della
funzione organizzativa dell'uso collettivo e, ad un tempo, all'uso pubblico aziendale del bene demaniale
destinato alla fruizione, non necessariamente alla sua intitolazione proprietaria.
8. Con motivazioni diverse convergono, dunque, contro la pubblicità dei beni pubblici, tanto le esigenze
finanziarie di bilancio dello Stato e degli altri enti (è superfluo ribadire che qui non si esprimono punto
riserve, tutt'altro, con riferimento alla dismissione, non soltanto di beni disponibili, ma, sullo stesso piano,
anche di quei beni che la dottrina più antica definiva riservati all'uso governativo, come uffici pubblici,
beni già adibiti alla difesa nazionale, caserme, case carcerarie, case popolari, ospedali - anche se talora
oggetto di riserva, tuttavia sottoposti, nell'uso governativo, ai consueti fenomeni di obsolescenza, come
accade per tutti gli armamenti, le strade militari, ecc. -), quanto la difesa della libertà d'impresa e quella
della effettività della libera concorrenza: tuttavia né la prima né la seconda esigenza minano alla base le
ragioni della proprietà anche soggettivamente pubblica dei beni aperti alla fruizione collettiva.
Infatti, da un lato, l'attuazione dei programmi governativi di dismissione si svolge in concreto al di fuori
della categoria dei beni «demaniali» aperti alla fruizione collettiva, dall'altro, i principi comunitari possono
trovare rispetto integrale anche se l'ente pubblico resti proprietario del bene e risolva il problema della
libertà d'impresa e di tutela della concorrenza mediante scelte politiche coerenti con i suddetti valori,
improntando al loro rispetto tutta la gestione del bene stesso. Senza trascurare che l'area della fruizione
collettiva - se per alcune utilizzazioni comprende beni come il porto e gli aeroporti - non si può intendere
estesa a beni come gli acquedotti ed a tutti i beni attualmente classificati nel patrimonio indisponibile
dello Stato e degli enti territoriali, dove s'incontrano beni strumentali legati intimamente ad interessi
collettivi, non già beni aperti all'uso generale.
Quanto ai beni culturali, era prevedibile - nella logica delle dismissioni demaniali - che la particolare
rilevanza del loro valore nel mercato, comportasse proprio per essi il primo «sacrificio» in nome
dell'interesse di finanza pubblica: infatti, conclusi i primi procedimenti di verificazione dell'attualità
dell'interesse culturale (art. 12 del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al d.lgs. 22 gennaio
2004, n. 42, in vigore dal 1º maggio 2004) si sono viste le prime - assai opportune - vendite di immobili
olim dichiarati di interesse culturale, ma anche le prime autorizzazioni ministeriali alla vendita di edifici
ricompresi nel demanio pubblico culturale (20).
Più alla base della contestazione nei confronti della pubblicità dei beni pubblici, anche di quelli aperti
all'uso generale, si muovono, viceversa, talune delle impostazioni dommatiche più estreme, conseguenti
all'analisi economica della condizione giuridica dei beni in questione. Tuttavia, al contempo, l'antico e
permanente bisogno di spazi aperti all'uso pubblico non accenna a ridursi: anzi, a misura che alla città,
con gli interessi economici che essa esprime nell'urbanistica, viene ridotto, nel rispetto o anche con la
frequente violazione delle norme e dei piani, lo spazio pubblico destinato all'uso collettivo, all'incontro del
singolo con i suoi simili e con lo Stato - o l'ente territoriale - che è chiamato dall'ordinamento ad
ampliarlo per apprestare degnamente il teatro quotidiano della fruizione pubblica demaniale, altri spazi si
propongono per queste elementari esigenze collettive. Ma non si tratta di spazio offerto da beni di uso
pubblico garantito, non da beni «nostri», o che mai saranno posti a nostra disposizione piena.
Di questo ultimo tema di ricerca e dell'esplorazione delle conclusioni estreme di alcune analisi economiche
del diritto dei beni pubblici ci occupiamo brevemente nei due paragrafi successivi.
9. Sono stati raccolti di recente cento progetti architettonici internazionali che presentano in diversa
misura spazi pubblici evidenziati mediante un'architettura a volume zero.
Essi esprimono, o gli aspetti puramente fisici di siffatti spazi destinati all'uso pubblico, come quelli che si
limitano ad individuare ed evidenziare mere superfici o che immaginano una verticalizzazione dello spazio
fruibile (21) o che rappresentano soltanto recinti che delimitano superfici libere; oppure, rappresentano
l'ambiente attraverso invenzioni progettuali trasparentemente simboliche (o metaforiche, ma sempre
leggibili), o, infine, sono dedicati ad eventi effimeri (esposizioni temporanee, celebrazioni, ecc.).
La raccolta di progetti in tali termini caratterizzati è accompagnata nel volume (22) da alcuni saggi degli
autori; or, dalla lettura grafica e delle descrizioni dei progetti raccolti secondo il criterio cennato sembrano
emergere spinte verso una nuova dimensione della progettazione del reale che, prescindendo dai volumi
e dagli stessi spazi interni, si apre completamente al pubblico, a costo di negare la stessa genuinità della
nozione di architettura, tradizionalmente legata, viceversa, proprio alla configurazione degli spazi interni,
di volumetrie dosate, sistemate e racchiuse mediante le linee scelte dall'architetto. In concreto nella
ricerca dell'architettura contemporanea si afferma ormai una tendenza in forza della quale pubblico è
spesso il contrario di interno, la permanente fruizione collettiva è soltanto quella degli spazi aperti ed
anche «architettati», ma a cubatura zero.
Ora, questa nuova dimensione architettonica presenta spunti di notevole interesse anche per l'analisi
giuridica, perché essa apre prospettive di ricerca fondate sull'osservazione dei mutamenti sociali
evidenziati dalle mutate modalità di uso - soprattutto pubblico - del territorio e costituenti una delle
molteplici conseguenze della globalizzazione dell'economia.
Le strade e le piazze riservate ai pedoni incontrano ormai la concorrenza dei mall, delle grandi gallerie
commerciali del tutto private, costruite tuttavia per favorire una presenza collettiva sostanzialmente
analoga a quella che può registrarsi durante il giorno in una città nelle strade pedonali e nelle piazze
chiuse al traffico.
I grandi centri commerciali tendono ad esaurire nei loro interni, questa volta «pubblici» (meglio si
definirebbero faux publics), la funzione economico-sociale di alcuni beni pubblici strategici, aperti all'uso
generale, come, appunto, le piazze e le strade riservate dal Comune ai pedoni per favorire l'incontro
«fisico» delle persone, il commercio dei prodotti di libera scelta perché disponibili nei negozi che si aprono
nella piazza o lungo la strada e di quelli offerti dai venditori ambulanti.
Oggi tutte queste funzioni sono realizzabili, con ben minore impegno rispetto a quello dell'organizzazione
pubblica, all'interno delle grandi strutture commerciali; esse mimano l'apprestamento comunale dei
luoghi demaniali d'incontro della popolazione e si presentano circondate da rilevanti superfici di
parcheggio, dove comodamente trovano spazi di sosta i cittadini nella veste di attori di quello specifico
processo economico che ha per regista il proprietario del centro commerciale, ma ad un tempo fruitori di
uno spazio che si definisce collettivo (e non - tecnicamente - «pubblico»), nella misura in cui esso sia
stato predisposto per la più ampia e generale fruizione dei cittadini (consumatori).
Questo anomalo ma talora imponente processo di interiorizzazione degli spazi aperti al pubblico provoca
una reazione, che risulta opportunamente considerata e misurata nelle ricerche ricostruttive dei fenomeni
architettonici più recenti: si tratta dell'antica «domanda di luoghi altri rispetto a quelli privati»,
un'aspirazione di libertà che si sviluppa nella domanda sociale di spazi pubblici pur nella consapevolezza
che solo gli spazi privati, interni, costituiscono strumenti di reddito; essa forse si connota giuridicamente
proprio per il tentativo di sottrarsi almeno per qualche momento ad una consuetudine di vita accettata
supinamente dalla maggioranza della comunità come proiezione quotidiana delle sole leggi dell'economia.
Secondo il critico tedesco Hans Sedlmayr il tema dominante nelle progettazioni prevalenti in un dato
momento storico riesce ad offrire l'immagine degli aspetti più intimi di un'epoca: le pulsioni sub-coscienti,
in particolare, dalle quali poi nasce e si afferma uno stile. Ciè è accaduto per il tema dominante del
giardino all'inglese nelle progettazioni degli edifici del primo ottocento, per i comprensori di case
economiche e popolari del novecento; ciò accade oggi, secondo gli autori in commento, per gli spazi
pubblici evidenziati costantemente dall'architettura contemporanea a zero cubatura, che costituisce «uno
dei temi dominanti di maggior rilievo dei nostri confusi e conflittuali tempi caratterizzati da uno stile di
vita sempre in bilico tra pubblico e privato» (23).
10. Un recente studio in materia di analisi economica del diritto applicata soprattutto dai giuristi
statunitensi ai beni pubblici offre spunti di notevole interesse nella quadruplice direzione dei rapporti tra
proprietà pubblica e privata, delle vicende relative ai beni collettivi, della tesi intitolata alla c.d. tragedia
degli anticomuni e degli effetti di inclusione o esclusione determinati dall'attribuzione di diritti sui beni
pubblici (new properties derivate in particolare dalle concessioni in ogni forma espresse: givings della
pubblica amministrazione) (24).
Sul primo punto si deve osservare subito che se non si prendono le mosse dalla distinzione tra beni
demaniali ricompresi nel nucleo della pubblicità necessaria e quelli che, per essere adibiti ad un uso
governativo (fortini militari, ecc.) oppure alla utilizzazione pubblica priva di diretta fruizione essendo il
bene elemento di un servizio (acquedotti, porti, aeroporti, autostrade, treni e ferrovie) - i primi, aperti
alla fruizione collettiva in considerazione della loro natura giuridicamente e strutturalmente rilevante per
l'uso generale, i secondi variamente accessibili ma utili in quanto strumenti di un servizio pubblico - si
finisce per avvicinarsi ai problemi posti dall'esperienza giuridica statunitense e, più in generale, dagli esiti
delle analisi economiche del diritto dei beni pubblici in modo probabilmente improprio ed inadeguato. Ciò
perché ci si trova di fronte a teorizzazioni che scriminano tra le varie categorie ed anche tra le specie di
beni pubblici in relazione ad aspetti molto pratici, empiricamente misurando la maggiore idoneità ad
essere affidate - ciascuna di esse - all'appartenenza di soggetti pubblici o privati in vista della praticabilità
di una fruizione collettiva che produca anche utili, anzitutto necessari ad evitare, come è del resto
connaturale alla natura ed alla finalità dell'impresa, che i costi della manutenzione restino interiorizzati,
senza intaccare le caratteristiche della fruizione pubblica (25).
Nel secondo tipo di problemi, sul presupposto della doverosa individuazione della gestione più efficiente,
si pone il confronto tra pubblica e privata gestione: non si giustificano verità autoevidenti circa la
preferibilità della gestione pubblica per scongiurare insuccessi del mercato perché ogni defaillance nella
gestione pubblica dei beni pubblici implica l'intervento finanziario dell'erario, cui si accompagna di
necessità un costo elevato da conteggiare in sede di comparazione con la gestione privata. La
comparazione tra costi e benefici della proprietà pubblica, afflitta anche dalla frequente «politicità» delle
scelte peggiori sul piano pratico (come da tempo sottolineano gli studi di public choice), e - posta a
confronto con quella - privata, guidata dal criterio dell'interesse aziendale, che è sempre riconoscibile e
controllabile nelle sue applicazioni: nel primo caso «la negoziazione avviene nell'ambito di un processo
democratico interno alle istituzioni, nel secondo la negoziazione si risolve nello «scambio di risorse sul
mercato» (26). Ma la stessa dottrina statunitense, in alcuni casi esponenti di rilievo, è disposta a
rintracciare alla base della proprietà soggettivamente pubblica dei beni pubblici «solide basi non soltanto
normative, ma anche economiche» (27).
Le conseguenze della revisione degli entusiasmi panprivatistici incontrano sul terreno dell'analisi giuridica
la fase di sviluppo della dottrina italiana sul diritto dei beni pubblici che da Giannini in poi rimarca
l'ininfluenza di una proprietà soggettivamente pubblica per le cose aperte alla fruizione collettiva,
ritenendo prioritaria l'appartenenza del diritto d'uso, sicché beni come le acque, le strade, il lido del mare
e le rive dei fiumi e dei laghi sono pubblici quoad usum non quoad proprietatem.
Dall'analisi dei tipi di usi collettivi delle res liberamente accessibili che si rivelano sempre più distruttive
(gli esempi addotti sono quelli di pesca e caccia senza limiti e dello sfruttamento di rapina delle foreste)
prende le mosse la c.d. tragedia dei (beni) comuni: dal sovraconsumo dei beni di pubblica fruizione,
compresa l'aria respirabile, alla postulazione di limiti all'accesso ed allo sfruttamento indiscriminato delle
risorse.
Qui si inserisce la funzione amministrativa, che svolge il ruolo di imporre le necessarie limitazioni
all'accesso, ciò che viene riconosciuto come soluzione priva di alternative anche da parte della dottrina
più scettica nei riguardi dell'autodisciplina degli amministratori e dei funzionari pubblici in relazione allo
scopo previsto per la loro azione.
Di questo scetticismo si nutre tuttavia la scuola di Chicago, del tutto favorevole alla privatizzazione di
ogni tipo di bene pubblico mediante quotizzazione di esso nelle singole proprietà private (non
diversamente dal sistema di internalizzazione delle esternalità negative mediante commercializzazione del
diritto, fatto proprio dalle disposizioni del Protocollo di Kioto a proposito del c.d. diritto d'inquinare
l'atmosfera).
Reagisce ad un'impostazione così estrema un altro filone dottrinale (che Napolitano propone di definire
«neocomunitario») che, nell'individuare le «solide basi normative ed economiche della proprietà
soggettivamente pubblica», osserva come sia assai raro che l'accesso libero ai beni comuni diminuisca la
loro efficienza, se è vero che proprio da esso derivano, viceversa, progresso economico e rafforzamento
di valori comunitari, sicché di una commedia anziché di una tragedia dei beni comuni si dovrebbe parlare.
Il quarto gruppo di problemi concerne gli effetti delle inclusioni e delle esclusioni rispetto alla fruizione
collettiva: e qui si registra, secondo lo studio in esame, lo stesso fenomeno sottolineato dalla c.d. scuola
neocomunitaria.
Infatti molti beni comuni sono ricompresi nel demanio pubblico in base agli artt. 822-824 c.c. e con la
categoria giuridica della proprietà collettiva pubblica la pubblicità dei beni pubblici è diventata il più
naturale degli assetti normativi, in quanto il suo tratto saliente non è nell'appartenenza ma nel godimento
collettivo della cosa, delle sue utilità, anche non economiche. Ne scaturiscono poteri di regolazione e di
polizia degli usi collettivi in capo all'ente pubblico.
Non è difficile, dunque, ammettere che il sistema così ricostruito sia quello che meglio si adatta alla
compresenza di interessi dei singoli e generali ad un tempo nel regime concretamente applicabile a beni
che si riconoscano significativi ed utili per l'intera comunità in dipendenza delle loro intrinseche
caratteristiche strutturali stimate come idonee alla fruizione collettiva da parte del legislatore.
A seguito dell'accertamento costitutivo del preminente interesse generale connesso alla fruizione di
siffatti beni, essi anzitutto risultano collegati agli interessi più meritevoli di riconoscimento e tutela e più
basilari e permanenti che legano singole cose idonee all'uso collettivo ai singoli usagers e - all'interno
dello stesso fenomeno giuridico - alla comunità intera; in secondo luogo meritano tutela e regolazione
dallo Stato.
Tra le possibili scelte organizzative della disciplina del settore, dunque, sembra affermarsi come
preferibile quella dell'imputazione pubblica del bene e della disciplina dei suoi usi; si tratta di una scelta
dalla quale si spera di ricavare una particolare attenzione tanto al sovraconsumo (che lo Stato non è
riuscito sinora ad evitare, se non in rare occasioni), quanto alla necessità di rivedere il regime delle
concessioni che, in via di principio, se non contrasta, mette continuamente in crisi la funzione regolatoria
degli usi generali che lo Stato deve svolgere.
Oggi per la VIA è prevista dalla legge (art. 29, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152) un'inchiesta pubblica per
l'esame dello studio presentato dal committente o proponente, dei pareri forniti dalle pubbliche
amministrazioni e delle osservazioni del pubblico che siano già intervenuti su quell'opera. Il giving
dell'amministrazione, dunque, passa al vaglio di tutti i possibili titolari di interessi nel territorio (che
possono autodisciplinare la propria presenza di massa incontrando nella legge il solo limite della durata
non più che semestrale della conferenza stessa), almeno quando è in gioco la tutela del valore egemone
rappresentato dall'ambiente.
Nulla del genere è viceversa previsto per garantire il rispetto degli interessi presenti e futuri dei cittadini
all'uso pubblico di beni che sono posti a loro disposizione di fronte ad un'istanza di concessione
delimitativa, o, addirittura, privativa dell'uso del bene in misura rilevante, o alla determinazione di canoni
e clausole di garanzia a carico del concessionario, o di fronte a programmi di lavori pubblici sulla struttura
di quei beni, o ad un programma concernente la loro commerciabilità.
La disciplina delle c.d. concessioni demaniali è ormai da rivedere interamente, come ormai nessuno
dubita in dottrina (28), anche se la difesa di posizioni di privilegio non ha sino ad ora consentito la
revisione profonda del metodo di giving che consenta ai proprietari reali di esprimere la loro opinione e
difendere i loro interessi nel procedimento, rappresentando l'interesse meritevole di miglior
riconoscimento e maggior tutela rispetto a quello introdotto dall'aspirante concessionario.
Sono peraltro interessanti le osservazioni conclusive cui perviene Napolitano sull'analisi economica del
regime giuridico dei beni pubblici: essa, «evidenziando realtà controintuitivee, segnalando eterogenesi
dei fini e svelando interessi nascosti, offre materiale prezioso per la costruzione di un diritto
amministrativo dei beni pubblici maggiormente in grado di sciogliere i dilemmi decisionali in ragione degli
usi cui i beni sono destinati e degli obiettivi che si intendono perseguire con la loro regolamentazione:
anche se sarà sempre difficile volgere in commediee le tragedie dell'interesse comunee che
inevitabilmente incombono quando entrano in gioco utilità collettive» (29).
11. Quella segnalata dalla recente dottrina è dunque difficoltà quotidiana, che tuttavia sarebbe davvero
avventato cercare di superare disperdendo la titolarità di beni sempre più rari tra soggetti privati, proprio
mentre incombono i segnali, chiari e preoccupanti, di un malessere sociale quanto all'impoverimento dei
cittadini il cui salario reale è sempre meno consistente per la progressiva riduzione di valore concreto e
godibile dell'area dei beni e dei servizi pubblici. Inoltre è da tenere in considerazione l'ancor più grave e
generale malessere ambientale, che indubbiamente coinvolge e pone anzi in primo piano quello del
contingente di beni immobili pubblici, affidato alla regolazione dell'ente proprietario, autoritativa, ma
proprio per questo dotata di una possibilità concreta di successo nell'urgente attività di «risparmio» del
bene ambiente.
L'ordinamento sembra andare spesso alla ricerca di forme varie di affidamento al privato del compito di
gestire i beni pubblici e regolare la fruizione collettiva: ne risulta un effetto di arresto o almeno di netta
svalutazione della pubblicità del bene pubblico e di apertura verso nuove (e più «moderne») esperienze,
che tuttavia giungerebbero a maturazione nei loro obiettivi in un periodo di vero e proprio allarme sociale
indotto dall'impotenza del «pubblico» - causata dalla perdita di alcuni mezzi particolarmente rilevanti per
la sua azione, come gli immobili d'interesse e di uso collettivo dismessi - a fronteggiare con un solido
programma d'azione coerente la somma delle conseguenze gravemente dannose che una disattenta
gestione amministrativa degli spazi - fisici e giuridici - del nostro, del comune, hanno provocato nel medio
ambiente.
Sicché può forse ritenersi che la parcellizzazione guidata dall'interesse finanziario degli ambiti territoriali
soggetti attualmente alle regolamentazioni ed alla polizia dell'ente pubblico in favore delle gestioni
privatistiche e la conseguente dispersione di forze in destinazioni non coordinabili agevolmente verso la
prevenzione e la difesa dalla rovina dell'ambiente, non potrebbero che nuocere pesantemente alla causa
comune: in particolare, all'interesse - tutto nostro - alla fruizione effettiva dei beni pubblici, che - almeno
in ragione delle dimensioni assunte dal degrado del pubblico e da quello del medio ambiente - oggi, ben
più che nel passato, può essere protetta soltanto publicis impensis e mediante iniziative dell'ente titolare
assunte con trasparenza ed esercitate sui teatri propri delle cose comuni.
Avranno le loro buone ragioni i giuristi di Chicago, ma non siamo in America: l'appartenenza dei beni
economici allo Stato e agli enti è norma di Costituzione rigida, i grattacieli sono rari, numerosi ed estesi
capillarmente, viceversa, sono tuttora i beni pubblici aperti alla fruizione collettiva: beni che, in quanto
tali o in quanto elementi essenziali di un servizio pubblico, trovano posto sempre più rilevante nei bilanci
economici delle famiglie, soprattutto nell'odierna fase dell'esperienza comune.
Al di là delle rare azioni positive statali e degli enti pubblici territoriali a tutela dei «propri» beni
demaniali, nessuno condividerebbe la delega istituzionale e generalizzata all'impresa privata per lo
svolgimento di compiti di salvaguardia di cose comuni che, come tali, escono dall'area del progetto
industriale e del profitto dell'imprenditore e restano affidate - almeno restano affidate anzitutto - al
sistema pubblico territoriale che della loro salvezza e garanzia deve, esso soltanto secondo l'ordinamento
generale, occuparsi istituzionalmente.
NOTE
(1) Perché ciò comporterebbe la rinuncia all'offerta nello stesso museo di altri oggetti artistici costituenti
beni culturali in unico o raro esemplare, posto che il numero e la capacità fisica dei musei, delle
esposizioni permanenti, delle gallerie e delle pinacoteche non saranno mai sufficienti per l'esposizione di
beni culturali artistici e storici costituenti l'immenso patrimonio culturale pubblico del popolo italiano,
compreso quello volutamente lasciato nel sottosuolo dallo Stato per la stessa ragione di affollamento
degli ambienti museali.
(2) Osserva con particolare efficacia A. ROMANO, Demanialità e patrimonialità: a proposito dei beni
culturali, in La cultura e i suoi beni giuridici, a cura di V. Caputi Jambrenghi, Milano, 1999, p. 402, (spec.
412): «Si è detto che il regime della demanialità implica la sottrazione al diritto comune dei beni delle
categorie che vi sono sottoposte. Ora, sembra che questa sottrazione dei beni demani segnali un dato
prezioso; e lo segnali molto più fortemente della indisponibilità di altri beni rientranti nel patrimonio dello
Stato e degli enti pubblici, e perfino della eventuale necessità, ma secondo questo regime, della loro
spettanza ad essi. Renda più evidente che i beni demaniali stessi, in realtà, non potendo spettare ad un
solo soggetto dell'ordinamento, e, in particolare, non potendo essere di proprietà di uno solo di noi,
appartengono a noi tutti: alla nostra società e a noi in quanto ne facciamo parte; ... il regime, appunto
demaniale, e non patrimoniale anche indisponibile, di quei beni stessi, sottolinea con assoluta chiarezza
che questa interposizione è solo strumentale: in quanto mezzo necessario per garantire l'effettività di
questa appartenenza collettiva, e quindi di una generale utilizzazione. Questa prospettiva dovrebbe valere
in generale per tutti i beni demaniali. Ma sembra attagliarsi particolarmente ai beni culturali: perché essi
hanno tanta parte nella configurazione della nostra stessa identità».
(3) Si tratta, dunque, come ricordava A.M. SANDULLI, voce Beni pubblici, in Enc. dir., vol. V, Milano, 1959,
278-279 ed ancor prima ID., Spunti per lo studio dei beni privati d'interesse pubblico, in Dir. pubbl. econ.,
1956, di un arricchimento della categoria assai cospicua dei beni privati d'interesse pubblico (tra i quali
campeggiava in passato soprattutto la categoria dei beni notificati dalle sovrintendenze, in quanto
riconosciuti come d'interesse culturale, ai proprietari privati e che, come osserva oggi Vincenzo CERULLI
IRELLI (cfr. Utilizzazione economica e fruizione collettiva dei beni, in Titolarità pubblica e regolazione dei
beni, Atti del Convegno di Firenze 2 e 3 ottobre 2003, in Annuario AIPDA, Milano, 2003, p. 15-16), hanno
assunto una dimensione «una volta inimmaginabile» con la ricomprensione tra di essi delle infrastrutture
dei servizi pubblici a rete, come quello telefonico o della distribuzione dell'energia elettrica, ecc.
Nonostante la diversa dimensione del fenomeno, sembra di poter confermare la definizione sandulliana
(un tempo osteggiata dalla dottrina prevalente), individuando nei beni privati d'interesse pubblico la
caratteristica, comune a quella dei beni degli enti pubblici soggetti a regime pubblicistico, di «realizzare
direttamente, essi stessi, un interesse pubblico» il che avviene normalmente allorché la loro utilizzazione
«venga concepita in funzione sociale... inerente di volta in volta alle comunicazioni, alla produzione, alla
cultura, (mentre i rimanenti beni privati, anche se realizzano nell'interesse pubblico... ciò fanno soltanto
in via indiretta e mediata), nonché, di essere proprio in relazione a ciò, soggetti ad un particolare regime
pubblicistico».
Sandulli pertanto costruisce «un'unica grande categoria: quella dei beni d'interesse pubblico».
A nostra volta abbiamo intitolato la trattazione della materia nel volume collettaneo Diritto
amministrativo, Bologna, sin dall'edizione del 1998, ai Beni pubblici e di interesse pubblico: cfr. Bologna,
2005, II, p. 179.
(4) M.S. GIANNINI, I beni pubblici, Roma, 1963, p. 47-59.
(5) Dall'originaria proprietà collettiva storica aperta alle fruizioni di chiunque, il percorso si snoda, nella
ricostruzione gianniniana verso la individuazione di un amministratore, poi del dominus terrae, del re e
infine della corona, tutti «amministratori di beni altrui che, a garanzia dei titolari del diritto, si dissero
inalienabili» (p. 52).
Con la sostituzione dello Stato o del Comune alla corona, «inavvertitamente» quasi, s'invertirono le parti.
(6) Per questa via Giannini spiega l'autotutela che l'ente può esercitare tanto contro gli usi distruttivi o di
rapina delle cose pubbliche esercitati dai componenti dell'Università quanto contro gli abusi che questi
compiono ai danni di altri. E spiega anche la giurisdizione amministrativa: «di fronte a questi
provvedimenti non stanno situazioni di diritto soggettivo (caso dell'autotutela diretta) o se vi erano sono
degradate ad interessi legittimi (caso degli ordini di polizia dei beni demaniali); giudice delle controversie
nascenti dai provvedimenti è il giudice degli interessi legittimi» (p. 57-58).
(7) P. GROSSI, Assolutismo giuridico e proprietà collettive, in Quaderni fiorentini, n. 19, Milano, 1990, p.
554.
(8) Osserva, infatti G. BERTI, Interpretazione costituzionale, Padova, 1990, p. 163 (ma cfr. anche ID.,
Diritto e Stato - Riflessioni sul cambiamento, Padova, 1986) che «la pluralità delle fonti, connaturale ad
un sistema giuridico costruito positivamente con il riconoscimento a più categorie di soggetti della
capacità normativa, è stata però mortificata dalla creazione di un sistema gerarchico, al cui vertice sta in
definitiva la legge di origine parlamentare».
(9) La protezione costituzionale del paesaggio e della cultura è affidata alla Repubblica dall'art. 9: sicchè
è possibile ritenere che il costituente abbia voluto porre paesaggio e beni culturali sotto la stessa
protezione speciale repubblicana, accomunandoli in un unico patrimonio culturale, come era, del resto,
accaduto nella felice sintesi del 1939 che aveva affidato alle medesime mani, ad un unico ministero,
quello della pubblica istruzione, diffuso capillarmente nel territorio nazionale, la cura dell'istruzione
giovanile media e superiore ed in più tanto i beni della cultura quanto le «bellezze naturali». Cfr. su ciò la
mia Introduzione al Commentario al codice dei beni culturali e del paesaggio, a cura di A. ANGIULI e V.
CAPUTI JAMBRENGHI, Torino, 2005, p. 12-15.
(10) È stato necessario l'intervento dell'Ad. gen. 13 luglio 1989, n. 59, in Foro it., 1989, III, 356, per
spegnere definitivamente i tentativi affiorati in giurisprudenza di considerare tuttora vigente l'art. 24 della
l. n. 1089 del 1939, in quanto legge speciale (cfr. le pronunce del Cons. Stato, Sez. VI, 7 maggio 1988, n.
568, e 19 gennaio 1985, n. 8, in Rass. Cons. Stato, 1988, I, p. 676 e 1985, I, p. 60).
E si noti che il parere reso al «Ministero per i beni culturali e ambientali» dall'Ad. gen. appare
particolarmente attento all'evoluzione dell'ordinamento. Infatti, dopo aver escluso dal regime
dell'autorizzazione i beni culturali demaniali in proprietà di enti territoriali, l'Adunanza osserva:
«L'adunanza è consapevole che tale esito, pur costituendo la necessaria conseguenza del regime di
circolazione proprio dei beni demaniali, può non apparire adeguato alle esigenze di conservazione e
fruibilità dei beni di interesse storico ed artistico, in una situazione che sempre più riconosce la capacità
delle istituzioni private di concorrere con quelle pubbliche alla realizzazione ed alla tutela di interessi
generali.
Sembra, infatti, essere ormai entrato in crisi il presupposto stesso dell'attribuzione della qualità
demaniale ai beni di interesse storico, artistico ed archeologico di proprietà degli enti pubblici territoriali,
costituito da una sorta di presunzione assoluta circa la capacità dell'amministrazione pubblica di garantire
in esclusiva l'utilizzazione collettiva e la conservazione effettiva dei beni medesimi. L'adunanza ritiene,
peraltro, che il regime di inalienabilità assoluta dei beni del demanio storico-artistico non possa essere
superato in via interpretativa, rendendosi, semmai, necessario uno specifico intervento legislativo, che
tenga conto, con le necessarie cautele, delle oggettive difficoltà, anche economiche, registrate dagli enti
territoriali nell'assicurare la gestione e la manutenzione del demanio storico-artistico». Il Ministero dei
beni culturali è, viceversa, escluso da questa ipotesi di normazione de jure condendo sul concorso
privatistico all'offerta di garanzia della fruizione collettiva dei beni culturali.
(11) Sul fenomeno cfr. S. CASSESE, Problemi attuali dei beni culturali, in Giorn. amm., 2001, p. 1064.
(12) Con il d.lgs. 3 luglio 2003, n. 173 l'Agenzia è stata trasformata in ente pubblico economico retto da
un Comitato di gestione composto di sei membri oltre al direttore e con patrimonio attribuito mediante
decreto del ministro dell'Economia e delle Finanze 29 luglio 2005. Anche nella nuova veste (che ha il
pregio di costare meno allo Stato, visto che si regge con circa 800 addetti e meno di 60 dirigenti e si
articola in venti filiali regionali, oltre alla direzione centrale), i compiti principali sono quelli della
ricognizione, dell'amministrazione e della valorizzazione dei beni immobili dello Stato, nonché della
gestione, con criteri imprenditoriali, dei programmi di acquisizione, vendita e manutenzione degli stessi e
dei beni confiscati alla criminalità organizzata.
L'Agenzia conclude appositi contratti di servizio con il Ministero dell'Economia, con previsione di una
remunerazione calcolata su corrispettivi standard in relazione ai risultati conseguiti. Il suo fondo di
dotazione è pari a circa settanta milioni di euro e i conferimenti originari di immobili hanno un valore di
centoquattordici milioni di euro. Con la l. f. 2006 (l. n. 266 del 2005, art. 1, comma 479), è stata istituita
in seno all'Agenzia una Commissione per la verifica di congruità delle valutazioni relative a vendite,
permute, locazioni e concessioni di immobili di proprietà statale.
(13) Cfr., in proposito V. CERULLI IRELLI, Utilizzazione economica e fruizione collettiva dei beni, cit., loc. cit.,
p. 15: «ma il trasferimento, a differenza che nei precedenti modelli, non comporta il passaggio del bene
al patrimonio disponibile (presupponendo perciò cessata destinazione pubblica): ma anzi esso, una volta
trasferito, conserva il suo regime pubblicistico, secondo il richiamo normativo agli artt. 823 e 829 c.c. ...
e non anche all'art. 828, che stabilisce il regime dei c.d. cosiddetti beni patrimoniali indisponibili mediante
l'affermazione del principio di portata generale, come è noto, della destinazione pubblica del bene come
quella dalla quale esso non può essere distratto se non sulla base di specifiche norme legislative... pare
tuttavia che possa essere ritenuto pacifico che la salvezza del c.d. regime demaniale stabilita dalla norma
debba essere intesa nel senso che si applichi a tutti i beni pubblici cioè come salvezza del regime tanto
della riserva quanto della destinazione pubblica».
(14) Allo scopo di «cartolarizzare» il valore del bene, inserendolo nel «patrimonio separato» per ciascuna
operazione, e di reperire tramite la vendita i finanziamenti per le maggiori opere pubbliche statali (lo
sblocco finanziario dei beni pubblici è stato successivamente esteso alle Regioni e alle autonomie locali),
con d.l. 15 aprile 2002, n. 63 si è disciplinato anche il doppio passaggio del bene demaniale alienato dal
ministro dell'Economia alla Patrimonio S.p.a. e da questa ad Infrastrutture S.p.a., organismo costituito
poco dopo (con l. 15 giugno 2002, n. 112).
Il d.l. n. 282 del 2002 ha autorizzato l'Agenzia per il demanio a cedere a trattativa privata i beni immobili
del patrimonio dello Stato elencati negli allegati dello stesso decreto legge. Ulteriore disciplina della
vendita a trattativa privata, anche in blocco, di beni immobili pubblici ad uso non abitativo attraverso
l'Agenzia del demanio, si è avuta con l'entrata in vigore del d.l. n. 203 del 2005, art. 11-quinquies.
(15) Si segnalano anche alcune dismissioni di settore, come quelle prefigurate dal d.l. 3 ottobre 2000, n.
262, «Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria», che con l'art. 10 «Disposizioni in materia di
alienazione d'immobili non strumentali di Poste italiane S.p.a.», che modifica il già citato d.l. n. 351 del
2001, aggiunge la fattispecie astratta della suddetta vendita che viene agevolata «con esonero della
consegna dei documenti relativi alla proprietà e di quelli attestanti la regolarità urbanistica, edilizia e
fiscale degli stessi beni», e all'art. 11 analoga disciplina prevede per la Ferrovie dello Stato S.p.a.. Con
l'art. 12 si disciplina infine «il riequilibrio dei rapporti concessori, in particolare per quanto riguarda
l'utilizzo a fini reddituali o collaterali rispetto a quelli della rete autostradale» ed un regime assai severo
per il controllo statale sulla gestione delle concessioni autostradali.
(16) Entro il 30 giugno per un valore di 1000 milioni di euro ed entro il 31 dicembre 2007 per altri 1000
milioni, nel 2008 altre due individuazioni datate 28 febbraio e 31 luglio per un valore complessivo di 2000
milioni di euro.
(17) La legge dedica, infine, ventidue commi alla previsione di una nuova società di investimento
immobiliare quotata in borsa e sottoposta a precise condizioni antiegemoniche nel pacchetto azionario
(perciò denominata S.i.i.q., Società di investimento immobiliare quotata). Si riproduce in tal modo un
modello d'oltralpe (S.i.i.c.) a sua volta derivato dalle esperienze positive statunitensi (R.e.i.t.s., Real
estate investiment trust), costituendo un intermediario privato, ma controllabile (perché tenuto a
svolgere «in via prevalente l'attività di locazione immobiliare, i cui titoli di partecipazione siano negoziati
in mercati regolamentati italiani») e soggetto ad un regime di vantaggio speciale del tutto favorevole sul
piano fiscale, perciò collocato in una posizione a prima vista migliore, perché più operativa ed agevolata,
rispetto alla gestione di fondi immobiliari sinora attivi nel mercato immobiliare con esiti alternanti. Le
S.i.i.q. potranno indubbiamente interessare gli immobili pubblici, dei Comuni, dello Stato, degli enti
previdenziali, ecc., perché le attuali gestioni ordinarie o straordinarie che si occupano della loro
immissione nel mercato potranno strutturarsi anche come S.i.i.q., secondo le istruzioni del Ministro
dell'economia.
(18) Cfr. da C. RUCELLAI, La cartolarizzazione dei crediti in Italia a due anni dall'entrata in vigore della l. 30
aprile 1999, n. 130, in Giur. comm., 2001, I, p. 395; a A. BRANCASI, I profili contabili e finanziari, in Atti
del Convegno su cartolarizzazione del patrimonio immobiliare, Firenze, 24 gennaio 2003, Fondazione
Cesifin Alberto Predieri; a G. COLOMBINI, Privatizzazione del patrimonio pubblico e obiettivi di Finanza
pubblica, in Titolarità, cit., loc. cit., p. 77.
Va precisato, infine, che Infrastrutture S.p.a. è stata soppressa ancor di recente per esserne stata
assorbita la finalità e la struttura dalla Cassa depositi e prestiti; e che i proventi delle dismissioni mobiliari
nell'ultimo decennio hanno raggiunto 103 miliardi di euro; quelli derivanti dalle dismissioni immobiliari,
del 2002, 9 miliardi di euro. V. su ciò G. DELLA CANANEA, I beni, in S. CASSESE (a cura di), Istituzioni di
Diritto amministrativo, Milano, 2006, II, p. 195.
(19) Cfr. l'accurata ricostruzione V. CERULLI IRELLI, Utilizzazione economica e fruizione collettiva dei beni, in
Titolarità, cit., loc. cit., p. 3, che sposa la tesi, ormai assai diffusa, della sostanziale indifferenza del
regime della proprietà nei beni pubblici, prevalendo in materia la disciplina del bene, dunque la
regolazione della fruizione su quella della proprietà. Tuttavia allorché alla tesi suddetta (per l'esposizione
della quale sia consentito rinviare a V. CAPUTI JAMBRENGHI, Premesse alla teoria dell'uso dei beni pubblici,
Napoli, 1979) si imprima l'evoluzione ulteriore che riversa lo stesso ordine concettuale nella disciplina del
diritto e si sostenga che anche la natura soggettivamente privata o pubblica del proprietario del bene non
incide apprezzabilmente sul regime dei beni demaniali aperti all'uso pubblico ed in particolare sulle
garanzie di cui necessita la fruizione collettiva, non possiamo che dissentire (v. infra nel testo).
(20) Di recente la sez. centrale di controllo sulla gestione delle Amministrazioni dello Stato della Corte dei
conti ha analizzato, a tre anni dall'entrata in vigore del d.lgs. n. 42 del 2004, i risultati e le immediate
conseguenze delle verifiche della permanenza e dell'esistenza dell'interesse culturale di competenza del
Ministero dei bb.cc. e del paesaggio, come previsto dall'art. 12 del codice in collaborazione continua con
l'Agenzia del demanio (l'aggiornamento è al 31 maggio 2006). Sui 376 immobili di proprietà statale
sottoposti a verifica soltanto in 169 di essi è stato riconosciuto l'interesse culturale mentre 207 beni
immobili già definiti pubblici hanno definitivamente perso questa qualitas giuridica e sono stati messi a
disposizione dell'Agenzia del demanio per la commercializzazione. Aggiungendo le analisi avviate d'ufficio
(14) si ottengono per gli immobili culturali statali 182 riconoscimenti, contro 208 immmobili non
riconosciuti di valore culturale.
Ma è più interessante osservare che senza soluzione di continuità il Ministero ha autorizzato (ex art. 55
del codice) la vendita del 64% dei 182 beni, cioè dei 117 beni immobili riconosciuti degni della qualitas di
pubblici. Sopravvivono, dunque, del campione di 182 beni immobili soltanto sessantacinque immobili
pubblici d'interesse culturale. Assai più numerosi i beni immobili degli enti territoriali, degli altri enti e
istituti pubblici e delle persone giuridiche private senza fini di lucro (la Chiesa cattolica anzitutto),
sottoposti a loro richiesta, alla verifica.
Su 9.633 beni (301 regionali, 298 provinciali, 2.831 comunali, 2.597 di altri enti pubblici, 1.374 di enti
ecclesiastici e 2.232 di privati senza fine di lucro), in disparte 1.984 non ancòra esaminati, soltanto 1.882
sono stati valutati d'interesse culturale, oltre a 106 demaniali sottratti alla verifica, e ben 5.661,
viceversa, privi d'interesse. Anche qui, sui 1.955 beni riconosciuti d'interesse culturale, dunque pubblico,
sono state emanate dal Ministro 739 autorizzazioni per l'alienazione: si tratta del 38% del totale, ciò che
sembra concorrere a differenziare in misura notevole la «tenuta» sociale del bene pubblico più vicino alla
popolazione che ne gode in concreto ed in concreto può seguirne le eventuali vicende alternative, da
quello meno prossimo, che è nella titolarità statale, talora lontana e non nota diffusamente.
Quanto ai beni mobili, soltanto dal settembre 2006 la procedura è stata estesa a tutto il territorio
nazionale. La fase sperimentale, sinora limitata alle Regioni Liguria, Toscana, Campania e - da ultimo Piemonte, ha posto capo all'autorizzazione alla vendita di due soli beni culturali mobili su 742 (630 dei
quali si riferiscono alla regione Piemonte), con 339 disconoscimenti dell'interesse.
La relazione della Corte dei conti si conclude rilevando che da tutto il procedimento è inspiegabilmente
tuttora assente il complesso di beni culturali in uso del Ministero della Difesa, che la convenzione tra
Stato e Conferenza episcopale per la valutazione degli immobili culturali degli enti ecclesiastici è scaduta
da tempo senza che si prospetti un suo rinnovo, mentre non è stata impostata alcuna convenzione per i
beni culturali ecclesiastici di natura mobiliare.
Infine si registra una maggior presenza di beni culturali nel Nord, minore nel centro Italia, scarsa nel Sud,
ma questa immagine è falsata dal non completamento di tutti i procedimenti.
(21) Come nell'evoluzione della tecnica progettuale del fabbricato «a gradoni» che libera numerose ed
ampie terrazze aperte all'uso pubblico nel complesso polifunzionale (BAT) progettato di recente a
Copenhagen (dal Bjarke Ingels Group) in guisa di una montagna artificiale in pieno centro urbano.
(22) A. AYMONINO e V.P. MOSCO, Spazi pubblici contemporanei. Architettura a volume zero, Milano (Skirà
ed.) 2006.
(23) P.M. MOSCO, Recensione a Spazi pubblici, cit., in Gazzetta ambiente, 2006, 146. In realtà i caratteri
estetici di almeno alcuni, rilevanti progetti a volume zero sono assai eloquenti: si registra una «attrazione
verso il design urbano come pantografia degli oggetti di arredo domestici», si scopre quella «attrazione
per la natura che diventa architettura», o ancora l'attrazione esercitata dai cosiddetti «eventi effimeri con
la loro architettura allestita dal vago sapore nomade e hippie».
(24) Lo studio, di indubbio rilievo, si deve a G. NAPOLITANO, I beni pubblici e le «tragedie dell'interesse
comune», intervento al Convegno AIPDA, Venezia 28-29 settembre 2006, in corso di pubblicazione.
(25) Riporta NAPOLITANO, ad esempio, la posizione di R.A. POSNER, Economic Analysis of Law, V ed., New
York, 1998, 84 ss. che critica la proprietà soggettivamente pubblica di boschi e beni ad essi assimilabili,
visto che la loro privatizzazione consentirebbe di sottoporre al pagamento di un biglietto d'ingresso ai
varchi predisposti ed una gestione utile del prodotto boschivo, mossa dalle leggi dell'impresa e non
nuocerebbe alla fruizione collettiva, non ostacolata dal prezzo del biglietto perché gli utenti poveri
potrebbero restare a carico dello Stato mediante una sovvenzione compensativa del loro uso gratuito. Ma
qui c'è da osservare che il problema non si pone, in quanto queste specie di beni di interesse pubblico
non soltanto non possono ritenersi ricomprese nel nucleo essenziale della proprietà soggettivamente
pubblica, ma persino nella fin troppo (e non sempre del tutto correttamente) criticata distinzione del
codice civile italiano sono esclusi dal demanio pubblico per entrare nel patrimonio indisponibile delle
Regioni, e senza riserva: sicché da un lato non sembra possibile dubitare della correttezza della tesi di
POSNER, dall'altro si rivela sempre più utile il richiamo alla distinzione interna ai beni attualmente in
proprietà soggettiva pubblica che abbiamo ritenuto di dover premettere.
Così come si può concordare con l'affermazione secondo la quale «postulare l'esistenza di beni
necessariamente pubblici è fuorviante: essi sono tali soltanto entro un determinato contesto giuridico e
tecnologico» (cfr. G. NAPOLITANO, I beni, cit., con riferimento a D.E. VAN ZANDT, The lesson of the
Lighthouse: «Governement or «Private» Provision of Goods, in J. of Leg. St., 1993, 47, citato da
Napolitano in nota 13).
(26) Cfr. su ciò ancora una volta G. NAPOLITANO, I beni, cit., 5 ss., il quale osserva che soltanto in
apparenza le prospettive di simili analisi giuridiche sono diverse da quelle consuete per la dottrina
europea: «Eppure, alla fine del XIX secolo, gli studi di scienza delle finanze, posti di fronte all'eredità
feudale degli Stati preunitari e agli ingenti patrimoni degli antichi sovrani e dell'asse ecclesiastico,
avevano sollecitato il superamento della manomortaa pubblica e l'alienazione dei beni pubblici, in nome
della superiorità dell'industria privata e dell'esigenza di aumentare la produttività della terra. All'inizio del
XX secolo, invece, completata l'alienazione dell'asse ecclesiastico, la scienza giuridica è ormai abituata ad
assumere l'esistenza della proprietà pubblica e l'appartenenza pubblica di determinati beni come un dato
storicamente ricevuto e consolidato dagli ordinamenti contemporanei. Si pensi al vasto disegno dei beni
pubblici offerto dal codice civile del 1942; e alla previsione generale della Costituzione, secondo cui la
proprietà pubblica ha una legittimazione pari a quella della proprietà privata».
(27) Cfr. D. FRIEDMAN, Mio, tuo, nostro: analisi economica del diritto di proprietà, in ID., L'ordine del
diritto, Bologna, 2004, 232.
(28) Cfr. soprattutto M. RENNA, La regolazione amministrativa dei beni a destinazione pubblica, Milano,
2004, spec. p. 279 ss. e passim; e già V. CAPUTI JAMBRENGHI, Premesse, cit., p. 225-274 (Cap. X).
(29) G. NAPOLITANO, I beni, cit., p. 25; cfr. ibidem ampi riferimenti alla dottrina statunitense.
Archivio selezionato: Dottrina
Cambiamento dei paradigmi nella legislazione internazionale a tutela delle acque(*)
Riv. giur. ambiente 2006, 06, 829
PAULO CANELAS DE CASTRO (**)
1. L'arricchimento normativo della legislazione contemporanea sulle acque. 2. Segnali del fermento
normativo. 3. Analisi prospettica. 4. Verso un diritto nuovo? 5. Diritto delle opzioni: le tre affinità del
diritto emergente contemporaneo. 6. Significato complessivo del cammino percorso e possibili
conseguenze.
1. L'arricchimento normativo della legislazione contemporanea sulle acque.
Norme sui fiumi e anche, più in generale, sulle acque dolci internazionali (1) esistono da sempre, anche
sotto forma di convenzioni internazionali (2). Uno dei primi strumenti normativi conosciuti è stata la Stele
degli Avvoltoi, risalente approssimativamente al 3000 a.C., vero e proprio trattato per regolare il conflitto
sull'utilizzo delle acque del fiume Eufrate (3) tra le città di Umma e Lagash in Mesopotamia.
Ai giorni nostri la produzione normativa sull'acqua è intensa, anche nella forma di trattati internazionali.
Produzione convenzionale ma anche creazione di strumenti normativi su problematiche relative alla
protezione e all'utilizzo delle acque. È il caso delle risoluzioni originate dalle sempre più frequenti
Conferenze internazionali dedicate a queste tematiche, dalle Organizzazioni internazionali (4), dalle
Commissioni di fiumi o bacini e dalle Organizzazioni non governative, anch'esse sempre più impegnate
nel settore. Una delle conseguenze più importanti è che i confini tra "hard law" e "soft law" (5)(6)
tendono a attenuarsi (7)(8) come risulta del resto dalla velocità di formazione delle regole
consuetudinarie (9)(10). Da considerare anche i ricorsi presso tribunali internazionali in merito
all'adozione delle regole (11). A ciò si aggiunge una profusa ed accesa riflessione della dottrina (12)(13)
in merito alle limitazioni del diritto attuale e al percorso per il futuro.
2. Segnali del fermento normativo.
Ad illustrare il fermento normativo cui abbiamo accennato, di seguito compare un elenco di alcune tra le
più importanti convenzioni ed accordi internazionali.
1. A livello locale: nel quadro europeo, la nuova Convenzione Luso-Spagnola di Albufeira, del 1998
firmata dopo un periodo di insolita tensione nelle relazioni tra Portogallo e Spagna causata dall'utilizzo
delle acque (14), la Convenzione sulla cooperazione per la protezione e l'uso sostenibile del Danubio,
firmata nel giugno del 1994 (15), la Convenzione del Reno del 1998 (16), la Convenzione della Mosella e
la Convenzione della Schelda, entrambe dell'aprile del 1994 (17), la Convenzione sulla Commissione
internazionale per la protezione dell'Oder contro l'inquinamento, firmata nell'aprile del 1996 (18), la
Convenzione dell'Elba e anche la Convenzione tra Grecia e Bulgaria per il fiume Nestos; e, nel continente
asiatico, l'Accordo sulla cooperazione per lo sviluppo sostenibile del bacino del fiume Mekong, firmato
nell'aprile del 1995, l'Accordo tra il governo della Repubblica Popolare Cinese e il governo della Mongolia
sulla protezione e utilizzo delle acque transfrontaliere, firmato nell'aprile del 1995, il Trattato tra il
governo della Repubblica Popolare del Bangladesh e il governo dell'India sulla spartizione delle acque del
Gange, firmato a Farakka nel dicembre del 1996, la Convenzione tra l'India e il Nepal del 1995, le
Convenzioni bilaterali tra Turchia e Siria, Israele e Giordania (19); nel contesto americano spicca il
Protocollo specifico aggiuntivo sulle risorse idriche condivise del 1991, tra Cile e Argentina (20). E nel
quadro africano, in particolare nella regione della SADC (Southern African Development Community)
(21), in cui si sta producendo una notevole rete di accordi, in buona parte a causa dell'impulso normativo
risultante dal Protocollo riveduto firmato nel 2000 a Windhoek e, a monte, dal dibattito provocato dal
Protocollo originale (22), si deve guardare, da un lato ad un gruppo di accordi molto recenti, creati dalle
Commissioni congiunte tra Mozambico e Sud Africa, Mozambico e Swaziland, Mozambico e Malawi,
Mozambico e Zimbabwe, Sud Africa e Swaziland, Sud Africa e Botzwana, Sud Africa e Namibia (23); e,
dall'altro, agli accordi per corsi d'acqua, come il Limpopo, l'Okavango (24), il Senqu-Orangale e lo
Zambesi, infine, come esempio per tutti, all'Accordo sulla protezione e uso sostenibile delle risorse idriche
dei fiumi Indomati e Maputo, la cui singolarità deriva dal trattamento integrato delle questioni sostanziali,
procedurali e organizzative, che di solito sono considerate separatamente (25). Già prima di questa
seconda ondata di accordi sui corsi d'acqua condivisi, c'è stata un'altra "prima ondata" di accordi più
limitati, con caratteristiche a volte molto differenti, come ad esempio l'Accordo denominato LBPTC
(Limpopo Basin Permanent Technical Committee), istituito nel 1986 (26) tra i paesi rivieraschi del fiume
Limpopo, ossia tra Botswana, Africa del Sud, Zimbabwe e Mozambico e l'Accordo TPTC (Tripartite
Permanent Technical Committee), nel 1983, tra la Repubblica del Sud Africa, il Mozambico e il Regno dello
Swaziland.
2. A livello regionale europeo, per quanto riguarda la problematica in generale, sono da menzionare la
Convenzione di Helsinki del 1992 sulla protezione e l'uso delle acque transfrontaliere e dei laghi
internazionali (27), e, ad un livello più settoriale, la Convenzione di ESPOO del 1991 sulla valutazione
d'impatto ambientale in un contesto transfrontaliero (28), la Convenzione di Helsinki sugli effetti
transfrontalieri degli incidenti industriali (29), il Protocollo Acqua e salute adottato a Londra nel 2000,
integrativo della Convenzione di Helsinki del 1992 sulla protezione e l'uso delle acque transfrontaliere e
dei laghi internazionali, la Convenzione di Aarhus del 1998 sull'accesso all'informazione, partecipazione
pubblica nei processi decisionali e accesso alla giustizia in materia ambientale e la direttiva quadro
dell'acqua (30), adottata dalla Comunità Europea nel 2000, ma esistono anche precedenti svariate
direttive settoriali nel quadro del diritto comunitario (31); in Africa, il Protocollo della SADC sui corsi
d'acqua condivisi nella regione della SADC (32), nel 1995, Protocollo rivisto nel 2000.
3. A livello globale: si è dimostrata infondata la previsione disfattista riguardante l'impossibilità di
sottoscrivere una convenzione globale (33), dato che nel 1997 (34) è stata adottata la Convenzione delle
Nazioni Unite sul diritto degli usi diversi dalla navigazione dei corsi d'acqua internazionali (35).
Sempre a livello globale, considerando non le convenzioni internazionali, ma quelle consuetudini che
hanno influito sulla produzione giuridica, bisogna tener conto anche del lavoro dell'Associazione del diritto
internazionale, che è la più antica associazione di esperti di diritto internazionale, la quale ha fornito
importantissimi contributi dottrinali (36), delle "Regole di Helsinki" e dell'adozione nel 2004 delle "Regole
di Berlino".
Da notare anche l'esistenza di numerose organizzazioni che condividono punti di vista innovativi (37)
come appaiono nelle risoluzioni e dichiarazioni internazionali, e il fatto che esistono nuovi "settori"
dell'acqua, anche a livello più locale (38), come le Commissioni degli Stati rivieraschi o confinanti con uno
o più bacini idrografici, che elaborano piani di gestione, programmi e misure per la gestione delle acque
in comune.
Interessante ricordare, inoltre, il caso di un ricorso presso il Tribunale Mondiale per risolvere il
contenzioso sulle acque tra Ungheria e Repubblica Slovacca (39), sorto in merito alle modalità di
applicazione di una serie di trattati, il progetto Gabcikovo-Nagymaros e un caso riguardante l'Africa
australe su uno dei problemi più classici relativi all'utilizzo dell'acqua, ovvero quali siano i limiti al suo
uso. Del resto i problemi relativi alle acque hanno assunto un'importanza rilevante anche presso il
Tribunale di Giustizia delle Comunità Europee per quanto riguarda l'aspetto, a prima vista banale, relativo
al fondamento giuridico di un atto normativo nel quale le Parti contraenti, cioè gli Stati rivieraschi e la
Comunità, si riconoscono reciprocamente (40).
Segnali di litigiosità (41) ai quali si unisce un'allarmata richiesta di attenzione da parte di un insigne Vicepresidente della Banca Mondiale, il quale, in contrasto con la proverbiale circospezione
dell'organizzazione, ha previsto che i conflitti relativi all'acqua sono destinati a diventare generali e ad
aggravarsi, diventando la causa più probabile delle guerre del XXI secolo (42)(43)(44).
I dati sembrano accendere i timori, in quanto dimostrano che, in contrasto con l'acqua disponibile sul
pianeta, che non aumenta, crescono e in forma quasi esponenziale (45) le pressioni su questo bene (46),
a causa dell'aumento della popolazione (47)(48), a causa dello sviluppo economico, a causa del crescente
inquinamento e di tanti altri fattori che creano insicurezza (49)(50)(51).
3. Analisi prospettica.
Un autentico fermento normativo internazionale, dunque. Per una ragione o per l'altra, certo è che
dall'ultima decade e mezza è in atto un movimento insolito nel campo delle relazioni internazionali, fino a
poco prima in apparente stato di letargia.
Quale significato attribuirvi?
Si tratta di un mero accrescimento quantitativo oppure tira un'aria nuova? Più che valutare la quantità,
importa valutare il contenuto di quanto vi è di nuovo. In realtà siamo di fronte ad un vero salto
qualitativo.
È opportuno tuttavia effettuare un'analisi prospettica che vada indietro nella storia oltre la decade
direttamente esaminata nella speranza di capire la sua vera portata.
3.1. Il "prima" che qui interessa è non solo il periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, ma anche
il tempo precedente. In particolare va evocata la tendenza all'autarchia che alcuni Stati hanno
sperimentato nel secolo XIX e che di tanto in tanto riappare, magari in forma camuffata, anche in pieno
secolo XX (52), assumendo toni diversi, come in Asia nei rapporti dell'India con i suoi vicini, in America
nei rapporti USA-Messico, in Africa nei rapporti tra Sud Africa e Stati vicini, o per quanto riguarda
l'Europa, nelle relazioni tra Austria e paesi limitrofi, e tra Spagna e Portogallo.
Un esempio eclatante di questa tendenza autarchica è la posizione assunta in passato dagli Stati Uniti ad
opera di un celebre Procuratore Generale di nome Harmon a proposito dei problemi di utilizzazione delle
acque del Rio Grande, al confine tra Stati Uniti e Messico. Ha affermato Harmon che, rientrando il fiume
nella sovranità degli Stati Uniti, il grande Stato nordamericano poteva fare quello che più gli pareva: e ciò
riguardava sia la quantità che la qualità delle sue acque. Il Messico non era interessato né coinvolto nelle
scelte e nelle azioni riguardanti il fiume. Una rivendicazione equivalente in fondo ad una riedizione del
vecchio principio di onnipotenza romano; la pretesa che esista un ius utendi, fruendi e anche abutendi
nelle relazioni di uno Stato sovrano sulle acque che vi scorrono (53). Una prospettiva assolutamente
unilaterale che trova risposta solo nell'affermazione, non meno unilaterale, di indole esclusivamente
teorica, che esisterebbe una non meno assoluta integrità territoriale (54). Se la prima dottrina della
sovranità territoriale sfocia nella esclusiva protezione degli Stati rivieraschi a monte, la seconda tutela a
malapena gli interessi degli Stati a valle in quanto lo Stato a monte impedisce allo Stato a valle di godere
in assoluto delle acque che la Natura ha voluto condivise. Nella loro cieca visione unilaterale, queste
teorie non rispecchiano la posizione del diritto internazionale. Anche per questa ragione si è trattato di
poco più che di teorie politiche prive di sostegno giuridico-normativo nell'universo dello ius positum. Del
resto, sono stati gli stessi promotori, cioè gli Stati Uniti, i primi che in tutta fretta se ne sono scostati
quando, nei rapporti con il Canada, si sono trovati ad essere in una posizione geograficamente
sfavorevole.
3.2. Nel secolo scorso, in particolare dopo la Seconda Guerra Mondiale, l'idea prevalente, soprattutto in
risposta alle posizioni unilaterali, è stata quella che in primo luogo bisognava assicurare buoni rapporti tra
gli Stati rivieraschi, salvaguardando i loro pari diritti e conciliando i loro interessi che rivestivano pari
importanza. Ciò sarebbe stato realizzato mediante una suddivisione equa delle acque. In questo modo
sarebbero state giustamente soddisfatte le aspettative di sviluppo dei paesi interessati, sfruttando
economicamente le acque mediante la realizzazione di progetti agricoli e industriali, o mediante
estrazione delle acque.
Se il modello politico precedente era quello di totale autarchia, del "voglio, posso e comando", il modello
successivo è stato quello economico dell'"orgogliosamente soli", di un rapporto tra Stati puramente
formale, minimo, di una coesistenza a "spalle voltate", del non voler vedere, in cui l'utilizzo dell'acqua
nello spazio "domestico" è una sorta di affare interno dello Stato. E dunque i trattati del periodo (55)(56)
hanno caratteristiche che riguardano:
1. quanto all'oggetto fisico: le acque di superficie (Accordi del 1929, 1964, 1969 tra Portogallo e Africa
del Sud, rispettivamente riguardanti i fiumi Cunene, Cuvelai e Okavango in Angola e Indomati e Limpopo
in Mozambico e ancora sul fiume Cunene), oppure in numerosi casi, i soli tratti limitrofi e qualche volta
anche gli affluenti (Accordi del 1927, 1964 e 1968 tra Portogallo e Spagna);
2. quanto all'oggetto materiale: le norme sulla suddivisione (quantitativa) delle acque per progetti di
utilizzo economico (come nel caso dell'Accordo tra Sud Africa e Portogallo relativo al Cunene, che
prevedeva la suddivisione del 50% delle acque per ogni Stato, e analogamente nel caso dell'Accordo del
1969 tra Sud Africa e Portogallo relativo alla costruzione di un progetto sul Cunene e la creazione di una
commissione tecnica congiunta e permanente la quale prevede l'estrazione delle acque del Cunene a
Calueque, in territorio namibiano, e il loro trasferimento verso il bacino del fiume Cuvelai, nel Nord);
3. quanto ai soggetti: solo gli Stati, anzi solo gli Stati rivieraschi, regolando relazioni bilaterali minime
(così, tipicamente negli accordi tra Portogallo e Spagna delle decadi degli anni '20 e '60, e negli accordi
tra Portogallo e Sud Africa dello stesso periodo);
4. quanto ai temi affrontati: i problemi di carattere economico, gli accordi necessari all'installazione dei
progetti (concessioni, espropriazioni);
5. quanto alla disciplina (dal punto di vista dell'ampiezza della normativa): il diritto minimo, la disciplina
minima, i trattati brevi;
6. quanto alla disciplina (dal punto di vista del tenore sostanziale degli obblighi): la consacrazione dei
relativi diritti e doveri soggettivi in una struttura del do ut des. I rapporti accertati assumono una chiara
forma contrattuale o societaria;
7. quanto ai principi e al diritto che ne deriva: si tratta di un diritto oggettivo, anch'esso minimo e di
scarso valore vincolante; il legame tra la pluralità normativa è costituito dal vago, poco costrittivo,
sostanzialmente procedurale, principio dell'uso equo, principio che nella sua essenza preserva e
garantisce la libertà degli Stati, pretendendo poco di più che una minima composizione di interessi statali
contraddittori e per questo si materializza, acriticamente, nei trattati che concretamente lo
rappresentano. Le discipline contrattuali sono l'espressione dei rapporti di forza esistenti tra gli Stati
contraenti.
3.3. Ma più ampiamente, l'immagine complessiva di questo diritto di un uso equo (57) può essere
riassunta nei seguenti punti:
1. diritto minimo;
2. diritto flessibile;
3. diritto che venera la sovranità (anche se relativa) o la libertà degli Stati;
4. diritto dei titoli (delle forme);
5. diritto di coesistenza degli Stati (i rapporti istituiti ricordano quelli di un matrimonio senza amore in cui
in realtà vige la separazione);
6. diritto economico, rivolto allo sviluppo;
7. diritto insensibile, o poco sensibile, al problema ambientale, visto solo sotto la prospettiva del danno,
una entelechia intesa come connaturale al processo di utilizzazione delle acque;
8. diritto senza principi, valori o obiettivi sostanziali, o nel quale i principi eminentemente processuali
sono appena l'espressione di interessi variabili e per questo fondamentalmente disponibili (riferimento
non obbligatorio);
9. diritto arrivato a compimento (ovvero, la somma o lo specchio delle volontà, il prodotto degli interessi
e della rispettiva forza), diritto oggettivo senza un significativo "valore aggiunto" relativamente ai diritti
soggettivi contrattati.
4. Verso un diritto nuovo?
E dunque, cosa avviene in questa decade di produzione (normativa) globale?
Nel panorama attuale emergono senza dubbio alcuni segnali innovativi.
Vi è un diritto oggettivo chiaro, oltre ai diritti soggettivi. Un diritto che, anche se plurale e complesso
(fonti plurime, anche più numerose di quelle elencate dalla fonte delle fonti - che viene rappresentato in
particolare dall'importanza della soft law) sembra quasi paradossalmente essere sostanzialmente
ordinato. Il che è possibile in quanto possiedono un ruolo fondamentale principi sempre più ambiziosi
(dello sviluppo sostenibile, dell'equità inter-generazionale, di precauzione, di prevenzione, di integrazione
della partecipazione), dirigisti o vincolanti delle libertà degli Stati, esse stesse, nel quadro attuale,
condizionate dalla percezione della crisi ambientale e sempre più responsabilizzate a fornire orientamenti.
L'ordinamento giuridico opera a livello globale e regionale e quest'ultimo livello funge da orientamento al
livello locale. I problemi concreti vengono affrontati già a livello locale, ma in una forma sempre meno
libera, sempre più condizionata e non solo in quanto esiste una gerarchia speciale o intervenga una
razionalità dello ius cogens. L'ipotesi, alquanto avventurosa, è stata rifiutata nella Convenzione delle
Nazioni Unite (come si evince dall'art. 3), ma in quanto è un diritto in rete e come tale con parametri che
risaltano e valgono come riferimenti incontrovertibili (anche se da un punto di vista formale non possono
dirsi obbligatori).
Anche nei trattati locali emergono alcune novità, probabilmente sotto un segno comune di integrazione. A
tal punto che, semplificando, si può dedurre che la prima fase è stata quella di Harmon, ovvero di
un'autarchia onnipotente e arrogante e la seconda di uno stato di convivenza minima tra gli Stati, in
concreto, di "spalle voltate" per quanto attiene alle attività relative alle acque, fase questa di rapporti
consolidati tra Stati, più "armonici": gli elementi comuni di integrazione sono riscontrabili nei punti
seguenti:
1. nell'oggetto fisico: integrazione delle acque di superficie e sotterranee (per esempio, art. 1, § 1, b) e 2
§ 1 della Convenzione luso-spagnola del 1998), e dell'insieme delle acque, non solo confinanti, nel corso
d'acqua principale (art. 1 dell'Accordo che crea la Commissione del corso d'acqua dello Zambesi (58), per
quanto riguarda la definizione di corso d'acqua; art. 1 dell'Accordo che istituisce la Commissione del corso
d'acqua del Limpopo e art. 1 del Protocollo riveduto della SADC, che costituisce la normativa quadro sulla
gestione dei corsi d'acqua confinanti in questa regione africana) e nel bacino idrografico (per la
definizione del concetto, art. 1, § 1, comma b) e artt. 2 § 1 e 3 § 1 della Convenzione Luso-Spagnola del
1998), delle acque e dei territori per i quali passano e percolano (per esempio, art. 1 §1 comma b) della
Convenzione tra Portogallo e Spagna del 1998), delle acque dolci come di quelle salate, delle acque degli
estuari e delle acque costiere, tra cui quelle marine (art. 14 §2 della Convenzione tra Portogallo e Spagna
del 1998) (59), delle acque e ecosistemi di fauna e flora ad esse associati (art. 2 § 1 della Convenzione
tra Portogallo e Spagna del 1998 e art. 14 n. 3 comma a) e b) dell'Accordo che istituisce la Commissione
del corso d'acqua dello Zambesi (60) e art. 2 comma b) e c) del Protocollo riveduto della SADC) e
inserimento delle acque nel loro ciclo complessivo e di conseguenza viene rivolta l'attenzione, fino a quel
momento rara, all'aria (nel caso del Trattato tra Stati Uniti e Canada, relativamente ai Grandi Laghi).
2. Nell'oggetto materiale: come ormai si rappresenta nei titoli delle Convenzioni e ancora con maggior
ampiezza nelle loro parti dispositive: cioè protezione dell'acqua come bene naturale e sviluppo (più
sostenibile) delle risorse idriche (61) (ad esempio, art. 2 e artt. 13, 14, 15 16 della Convenzione tra
Portogallo e Spagna del 1998) o anche cooperazione tra Stati rivieraschi, perlomeno in questo duplice
versante (art. 3 della Convenzione tra Portogallo e Spagna del 1998; alcuni esempi sono presenti anche
nelle convenzioni dell'Africa Australe, negli artt. 2, comma c e d, del Protocollo riveduto della SADC;
nell'art. 3, n. 1 e 2 del'Accordo che istituisce la Commissione del corso d'acqua del Limpopo; nell'art. 5
dell'Accordo che istituisce la Commissione del corso d'acqua dello Zambesi).
3. Nei soggetti: anche se questa disciplina riguarda quasi esclusivamente gli Stati rivieraschi, in certi casi
si riferisce alle organizzazioni internazionali (si pensi alla Convenzione del Danubio o dell'Oder) e alle
relazioni tra individui, il pubblico o le organizzazioni non governative (si pensi all'art. 6 della Convenzione
tra Portogallo e Spagna). La qual cosa avviene grazie al maggior diritto di informazione e partecipazione
o accesso alle istanze amministrative o giurisdizionali di soluzione dei conflitti da parte del pubblico. Ne
deriva che, in alcune Convenzioni, oltre ai diritti e doveri degli Stati Parte rivieraschi, si tutelano i diritti di
Stati rivieraschi terzi che non sono parti di queste convenzioni (cfr. art. 4 della Convenzione delle Nazioni
Unite) e anche di Stati che non essendo rivieraschi ma costieri possono ritenersi colpiti nei loro interessi e
diritti in forza dell'influenza reciproca tra acque dolci e acque salate (art. 9, 1, della Convenzione di
Helsinki). Esistono anche riferimenti diretti o indiretti (per esempio attraverso il ricorso al concetto di
sostenibilità) ai diritti delle generazioni future (così, ad esempio nella Convenzione tra Portogallo e
Spagna del 1998, art. 2, § 2 e Allegato II). Tendenza globale che ricorre anche a vario titolo negli artt. 5,
comma e) e f), 8 n. 2, comma a) e b), 14 n. 3, comma a), 10 e 16 n. 8 dell'Accordo che istituisce la
Commissione dei corsi d'acqua dello Zambesi; negli artt. 3 n. 7, comma a), e 10, comma c), del
Protocollo riveduto della SADC e anche nell'art. 7 n. 2, comma c), dell'Accordo che istituisce la
Commissione del corso d'acqua del Limpopo.
4. Nei temi: qui l'integrazione è più evidente: dove prima esisteva una monotonia di problematiche
relative fondamentalmente al problema quantitativo della ripartizione delle acque e forse anche
all'aspetto contrattuale di certi progetti di approvvigionamento, esiste ora una molteplicità di tematiche
che vanno dall'approvvigionamento (ma d'ora in poi in un contesto di sostenibilità), alla protezione (art.
13 della Convenzione Portogallo-Spagna del 1998), alla prevenzione e al controllo dell'inquinamento art.
14 della Convenzione Portogallo-Spagna alla valutazione dell'impatto delle attività e dei progetti art. 9
della Convenzione Portogallo-Spagna; inoltre si fa strada la problematica del rischio, sia in particolare
sotto l'aspetto della sicurezza delle strutture che della risposta alle emergenze naturali o provocate
dall'uomo, e si esamina la problematica istituzionale e delle procedure. Per menzionare solo alcuni degli
esempi normativi più significativi relativi ad un ventaglio talmente ampio di attività, si pensi, in un
contesto relativo al Vecchio Continente, agli artt. 4, § 2, e 10 della Convenzione Luso-Spagnola del 1998,
all'art. 18 della Convenzione sul Danubio, agli art. 5 delle Convenzioni della Mosella e della Scheda e in
un contesto africano, agli artt. 3 n. 7, comma b), e 10, comma a) e b), del Protocollo riveduto della
SADC, agli artt. 14 n. 3, comma b), e n. 4 e 17 dell'Accordo della Commissione dello Zambesi e all'art. 7
n. 2, commi b) ed e), dell'Accordo per la Commissione del Limpopo.
5. Nelle tecniche normative: dove prima esisteva soprattutto la consacrazione di diritti separati (per
esempio, art. 10 § 2 della Convenzione del 1968), derivanti dalle reciproche autorizzazioni a costruire le
strutture necessarie a determinati approvvigionamenti d'acqua (tipicamente, gli accordi della decade
degli anni '60 tra Spagna e Portogallo), esiste ora una previsione congiunta di diritti, responsabilità e
doveri crescenti, diritti anche funzionali in un quadro generico di estesa, franca, attiva e anche pro-attiva
cooperazione (come si evince ad esempio dagli artt. 3 e 10 della Convenzione Portogallo-Spagna del 1998
e dagli artt. 5, 13, 14, 15 e 16 dell'Accordo della Commissione dello Zambesi sia per quanto concerne gli
obblighi funzionali della Commissione che i doveri e le responsabilità delle Parti) e dall'art. 7 dell'Accordo
della Commissione del Limpopo.
6. Nei tempi: si tratta di tempi lunghi, che trascendono l'immediato. Il che è tipico delle discipline che si
prefiggono di raggiungere la sostenibilità dell'uso e della tutela delle acque e che, per questa ragione, si
affiancano non solo a situazioni di protezione e utilizzo in un contesto di normalità, ma anche a casi
eccezionali, come dovrebbero essere le situazioni estreme, o delle discipline che si occupano della
problematica dei rischi associati alle acque (62). Da cui derivano i riferimenti ai diritti delle future
generazioni, la previsione della revisione di soluzioni normative istituzionalizzate (per esempio sul livello
del regime della portata d'acqua, d'accordo con il Protocollo allegato alla Convenzione Portogallo-Spagna
del 1998), e l'avvicinarsi ad altri sistemi normativi (art. 2, § 2, della Convenzione Portogallo-Spagna del
1998), allo scopo di mantenere il regime sempre "attualizzato", con appelli normativi ad azioni di lungo
termine (azione congiunta di ricerca e sviluppo, per esempio, dell'art. 10 della Convenzione PortogalloSpagna del 1998) o a valutazioni ricorrenti ex ante o ex post factu (art. 9 della Convenzione PortogalloSpagna del 1998) (63) oltre al ruolo cruciale che si attribuisce o riconosce a certi principi normativi come
quello di prevenzione o precauzione, dotati di poteri normativi e di un adattamento permanente alla
realtà.
7. Diritto sia di interessi che di finalità o valori, imposti o condizionati dalla mediazione dei principi
menzionati.
5. Diritto delle opzioni: le tre affinità del diritto emergente contemporaneo.
Di tutti gli elementi descritti emerge l'immagine globale di un diritto delle opzioni (sui valori o sulle
finalità), di un diritto delle affinità, amico dei valori e delle finalità, punti cardinali di questo nuovo
emergente regime internazionale delle acque dolci.
Tre le opzioni che mi pare emergano:
1) affinità ambientale: varie sono le parole chiave riferibili all'opzione ambientale: integrazione, olismo,
ecosistema. Riguardano l'oggetto fisico e materiale, i temi, i concetti (impatto, prevenzione) in una
prospettiva più "naturalista" e meno accentrata sulla visione statale o sulla sovranità (ha meno rilievo il
problema della titolarità dell'acqua, importa invece maggiormente il problema pubblico e amministrativo
della gestione delle acque);
2) affinità relazionale: la parola chiave in questo caso è cooperazione. La cooperazione è presente nella
disciplina normativa, nei fini, nei soggetti, nei concetti (comunione di interessi), negli obblighi logistici,
procedurali e istituzionali, negli obblighi e nelle responsabilità, nei contatti (con altre commissioni, con le
organizzazioni internazionali, con i privati), nei metodi di soluzione dei conflitti (pensare a titolo di
esempio al disposto dell'art. 5, comma f), e all'art. 11, n. 5, comma 1) dell'Accordo che istituisce la
Commissione del corso d'acqua dello Zambesi), fino ai nomi stessi delle Convenzioni (tipicamente, la
Convenzione tra Portogallo e Spagna del 1998 e la Convezione sul Danubio);
3) affinità nella coerenza giuridica e anche interscientifica: più che di parole chiave, qui si tratta di opzioni
strategiche, di eloquenti soluzioni normative. Emergono nei condoni, nei riferimenti ad altri strumenti
(pensare ad esempio agli artt. 12 n. 2, 14 n. 11 dell'Accordo che istituisce la Commissione del corso
d'acqua dello Zambesi), nel riferimento alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto relativo all'utilizzo
di corsi d'acqua internazionali a fini diversi dalla navigazione e nel riferimento al Protocollo della SADC sui
corsi d'acqua condivisi, nel Preambolo dell'Accordo che istituisce la Commissione dello Zambesi o anche
nell'Accordo che istituisce la Commissione sul corso d'acqua del Limpopo), nei principi e nelle finalità,
nella composizione delle istituzioni incaricate di applicare o fiscalizzare l'applicazione, istituzionalmente e
anche materialmente, nella previsione delle successive revisioni, nell'apertura alle influenze derivanti da
altre conoscenze scientifiche, nell'attenzione all'attuazione e al fattore tempo. Anche la coerenza
normativa invocata va intesa come coerenza dinamica, collegata in rete, non gerarchica, aperta a varie
influenze che siano unite da una medesima visione delle cose e dagli obiettivi da perseguire, come
auspicato dai principi fondamentali.
6. Significato complessivo del cammino percorso e possibili conseguenze.
Queste trasformazioni, che ne accompagnano altre più globali, a livello di strutture fondamentali quali la
comprensione dello stato di diritto che G. Zagrebelsky ha definito come vera "mutazione genetica" nel
suo "diritto mite" (64), costituiscono quello che Thomas S. Kuhn definisce come "cambiamento dei
paradigmi" o "rivoluzione scientifica" (65).
Thomas S. Kuhn spiega nella sua teoria epistemologica che in periodi di "scienza normale" i ricercatori
tendono a convergere attorno ad un quadro teorico comune che "almeno per un certo tempo fornisce loro
problemi e soluzioni tipo". Questo accordo rispecchia un paradigma che, come avviene per una carta
nautica o una bussola, orienta i ricercatori e suggerisce il percorso verso la soluzione. In certi momenti,
tuttavia, si verificano anomalie o fatti che non coincidono più con la spiegazione dominante e, con il loro
moltiplicarsi, fanno vacillare lo stesso paradigma prima dato per sicuro ed accertato. Tuttavia il passaggio
non avviene senza incontrare resistenze. Così capita che, in un primo momento, "ipotesi ad hoc" e
"ostacoli epistemologici" di varia natura tenderanno a respingere l'intrusione teorico-scientifica e a
mantenere il predominio del modello iniziale. Siamo nella fase pre-paradigmatica, di confronto o di
conflitto tra scuole diverse. Ma quando lo spirito critico caratteristico della ricerca scientifica finisce per
prevalere, esso tende in breve tempo a produrre una teoria più completa, finalmente vittoriosa, una vera
e propria "rivoluzione scientifica". Progressivamente si rafforzerà un nuovo paradigma, che darà luogo ad
un nuovo periodo di "scienza normale" basata su nuovi principi, su nuovi valori, su una nuova visione del
mondo (66).
Conviene tuttavia non dimenticare che un paradigma, esattamente come un Idealtypus è una
schematizzazione della realtà, che viene forzata in alcuni dei suoi aspetti. La realtà contiene piuttosto
sfumature che "colori forti", estremi, di uno o di altro paradigma.
Dall'atra parte, su un piano storico o dinamico, bisogna prestare attenzione all'avvertenza di Kuhn,
secondo il quale i paradigmi non si succedono radicalmente, ma coesistono per un periodo più o meno
lungo, confrontandosi con la verità acquisita.
Questa situazione riguarda anche il diritto, e, in particolare, tutto il diritto internazionale sull'acqua. La
sovrapproduzione alla quale si assiste nell'ultima decade rivela un cambiamento dei paradigmi, una vera
rivoluzione scientifica. Porta con sé nuove idee, concetti, soluzioni, norme, credenze e valori dominanti.
Ma, come insegna Kuhn, il suo progressivo radicamento nell'ordinamento giuridico internazionale non è
avvenuto e non avviene senza conseguenze o tergiversazioni e persino arretramenti, anche per il fatto
che non perdono immediatamente valore gli altri concetti e soluzioni che prima venivano considerati
come la "migliore scienza" e pertanto continuano ad essere difesi da un gruppo preponderante di
scienziati dell'epoca che in parte è anche quella in cui viviamo (67).
Quali conseguenze potremmo trarre per il futuro tali da confortare la teoria che il paradigma emergente
risponde meglio ai problemi del presente e del futuro per quanto riguarda le acque?
Molto sommariamente, desidero sottolineare i seguenti elementi:
1. assunzione piena del carattere vitale del problema acqua e della problematica suscitata dalla sua
gestione internazionale;
2. rilevanza speciale della questione ambientale e dell'impatto sull'ambiente;
3. necessità di trovare soluzioni mirate di tipo procedurale e istituzionale per la realizzazione di nuovi
programmi;
4. molto realismo ma anche comprensione della complessità dei problemi e delle soluzioni (la vastità dei
problemi suggerisce modestia intellettuale e metodica nel metterli a fuoco);
5. indiscutibile importanza di un nuovo atteggiamento verso la cooperazione, ben più vasta, con altri
Stati, altre organizzazioni internazionali, e coinvolgimento di altri soggetti di diritto in particolare ONG,
comunità umane diverse e pubblico in generale;
6. persistenza nel perseguire i principi cardinali del sistema emergente, con adattamento alla realtà,
necessariamente dinamica e complessa;
7. continuità nell'apprendimento. Non ci sono verità assolute, ci sono invece tentativi di soluzione e
modalità che vale la pena di cogliere e sviluppare. Mentre il diritto precedente era l'espressione della
conoscenza di realtà assolute, questo è il diritto dell'indagine permanente, di successive approssimazioni,
nella ricerca dei vari percorsi che conducano al vagheggiato sviluppo sostenibile, sempre maggiormente
collegato (68). Come ben diceva il poeta Antonio Machado, "il cammino si percorre camminando".
NOTE
(*) Traduzione dal portoghese a cura di Alice Winkler.
(1) Come si deduce dalla formula, alquanto vaga, la disciplina è lontana dall'aver raggiunto una
designazione "definitiva". Nei secoli XIX e XX si parlava di diritto fluviale o dei fiumi, e l'uso predominante
delle acque era la navigazione. Successivamente, con la progressiva "economizzazione" delle acque, resa
più facile dallo sviluppo tecnologico della seconda metà del secolo XX, e anche per la necessità di
integrare oltre ai fiumi anche gli altri corsi d'acqua, è subentrata la denominazione di "diritto dei corsi
d'acqua internazionali", formula utilizzata anche nella Convenzione delle Nazioni Unite adottata alla fine
del secolo. La concorrenza di altre denominazioni ha comunque continuato ad esistere. Così negli ultimi
quindici anni si concretizza, specialmente in ambito anglo-americano, la tendenza a favorire la
denominazione di "diritto dell'acqua o delle acque" (dolci). Come indichiamo nel testo, questo è il segnale
dell'esistenza di un fondamentale cambiamento dei paradigmi, indice di una crescente sensibilizzazione
sulla necessità di trovare risposte adeguate alla crisi ambientale in corso. Da parte nostra siamo
d'accordo con tale definizione, convinti che non sarà nemmeno necessario ricorrere all'aggettivazione
delle acque, una volta che quelle marine saranno oggetto scientifico di un altro ramo del diritto
internazionale, ben costituito, cioè il diritto marittimo.
(2) Cfr. al riguardo la ricca documentazione: A. TORKA, Nichtnavigatorische Wassernutzung, Frankfurt a.
M., 1993; U. BEYERLIN, Rio-Konferenz 1992: Beginn einer neuen globalen Umweltrechtsordnung?, in
ZaöRV, 1994, vol. 54, pp. 125 ss.; I. BROWNLIE, Principles of Public International Law, p. 272; W.L.
GRIFFIN, The Use of Waters of International Drainage Basins under Customary International Law, in AJIL,
1959, vol. 53, pp. 50 ss.; W. HEINTSCHEL VON HEINEGG, Die ausservertraglichen (gewohnheitsrechtlichen)
Rechtsbeziehungen im Umweltvölkerrecht, in R. LORZ e altri (a cura di), Umwelt und Recht, Stuttgart,
1991, pp. 114 ss.; PH.KUNIG, Nachbarrechtliche Staatenverpflichtungen bei Gefährdungen und
Schädigunden der Umwelt, in Umweltschutz im Völkerrecht und Kollisionsrecht, in BDGVR, 1992, vol. 32,
pp. 28 ss.; E.J. MANNER, Some Legal Problems relating to the sharing of boundary waters, in Festschrift
für Berber, München, 1993, pp. 329 ss.; A.E. UTTON, International Water Quality, in NRJ, 1973, vol. 13,
pp. 284 ss.
(3) Cfr. W. PREISER, Zum Völkerrecht der vorklassischen Antike, e Die Epochen der antiken
Völkerrechtsgeschichte, entrambi in W. PREISER, Macht und Norm in der Völkerrechtsgeschichte, BadenBaden, 1978, rispettivamente a p. 136 e p. 110, nota 8; G. BARTON, The royal inscriptions of Summer and
Akkad, New Haven, 1928, p. 57; L.A. TECLAFF, The river basin in history and law, The Hague, 1967, p. 21;
K-H. ZIEGLER, Völkerrechtsgeschichte, München, 1994, § 2, II, 1.
(4) Pensare, per esempio alla relazione dell'UNDP relativa al processo che ha portato all'adozione
dell'Accordo del 1995 sul fiume Mekong (secondo la descrizione di George E. RADOSEVICH, The Role of
International Water Law in the Formulation of the Mekong River Basin Treaty, 1998, p. 11). Per citare
solo alcune delle risoluzioni originate dalle Organizzazioni Internazionali, a partire dalla decade dei '90 del
secolo scorso, ricordiamo la Dichiarazione di Arles del febbraio 1995 dei Ministri dell'ambiente di
Germania, Belgio, Francia, Olanda e Lussemburgo per il controllo dei problemi causati dal livello del Reno
e della Mosella; la Relazione dell'incontro del gruppo di esperti sulla gestione strategica delle acque dolci
adottata nel gennaio del 1998, ad Harare (UN Doc. E.CN.17/1998/2/Add.1); la Dichiarazione di Aarhus
dei Ministri dell'ambiente della Commissione economica per l'Europa delle Nazioni Unite, adottata nel
giugno del 1998 (UN Doc. ECE/CEP/56); la Dichiarazione di Petersberg, adottata nel marzo del 1998; la
Dichiarazione finale della Conferenza internazionale "Acqua e sviluppo sostenibile" di Parigi, nel marzo del
1998; la Dichiarazione di Ouagadougou, adottata nella Conferenza dell'Africa Occidentale sulla gestione
integrata delle risorse idriche, nel marzo 1998.
(5) Sebbene non sia facile trovare una definizione comune di "soft law" il che ha indotto Gunther HANDL, A
hard look at soft law, in Proceedings of the American Society of International Law, 1988, p. 371, ad
affermare che significa "cose diverse per persone diverse" , si ritiene che una sua caratteristica principale
sia quella, a differenza di quanto accade con la hard law, di non creare obblighi formalmente vincolanti. Il
regime del Reno ha costituito un esempio eloquente del problema e delle sue conseguenze, infatti uno
sguardo retrospettivo evidenzia la difficoltà nel determinare quali siano stati gli strumenti più influenti, se
le convezioni di hard law o i piani di azione di soft law. È più probabile che questi strumenti si rafforzino
reciprocamente. E inoltre, in ogni caso, la soft law ha in modo decisivo contribuito alla creazione della
hard law. In questo senso Pieter HUISMAN, From Degradation Towards Sustainable Development in the
Rhine Basin, lavoro presentato al Seminario NATO "Sustainable Management of Transboundary
Watercourses: Theory and Practice (Eastern and Western Perspectives)", 1997, p. 8.
(6) Su queste problematiche in generale si vedano le prospettive diametralmente opposte, da un lato, di
P. WEIL, Vers une normativité relative en droit international, in Revue Générale de Droit International
Public, 1982, pp. 6-47, e dall'altro, di R.J. DUPUY, Droit déclaratoire et droit programmatoire: de la
coutume sauvage à la "soft law", in SFDI, L'élaboration du droit international public, 1975, pp. 132. E
anche P.M. DUPUY, Soft Law and the International Law of the Environment, in Michigan Journal of
International Law, vol. 12, 2, pp. 420-435.
(7) In termini generali si può pensare che la "soft law" sia lo strumento che favorisce la creazione o la
definizione di un discorso e le relative aspettative di condotta, inducendo alla coerenza e all'uniformità di
pratica internazionale. Col passare del tempo, la "soft law" tende a cristallizzarsi in vera e propria "hard
law".
(8) Questa tendenza è accompagnata dall'abbattimento dei confini tra diritto internazionale e diritto
interno e dal ricorso a strumenti di natura mista o dalla continuità tra questi ordinamenti giuridici, un
tempo dichiaratamente diversi. Un segnale di tale fusione è indicato dalla tendenza ad usare strumenti
"misti" (piani di azione o strategie) che si situano nello spazio di confluenza tra piano nazionale e piano
internazionale allo scopo di seguire il programma generale del nuovo diritto internazionale delle acque.
Un buon esempio è rappresentato dall'accordo sul Piano di azione per la gestione ambientalmente
sostenibile del sistema comune del fiume Zambesi, conosciuto con l'acronimo inglese ZACPLAN; testo in
International Legal Materials, 1987, vol. 27, pp. 1112-1143. Anche se adottato a livello internazionale nel
1987, da Botswana, Mozambico, Tanzania, Zambia e Zimbabwe, questo strumento riguarda soprattutto il
contesto interno. Un altro documento rilevante, anch'esso riguardante l'Africa australe è il Regional
Strategic Action Plan for Integrated Water Resources Development and Management in the SADC
Countries (1999-2004), pubblicato dall'Unità di coordinamento del settore acque della Southern African
Development Community (SADC), nel settembre del 1998. Fa riferimento ai piani di azione del Reno
(Dichiarazione di Arles, dei Ministri dell'ambiente di Germania, Belgio, Francia, Olanda e Lussemburgo per
il controllo dei problemi causati dalle piene nel Reno e nella Mosella, adottati nel febbraio del 1995); cfr.
al riguardo J.G. LAMMERS, International Cooperation for the Protection of the Waters of the Rhine Against
Pollution, in Netherlands Yearbook of International Law, 1980, pp. 59 ss., e A. NOLLKAEMPER, The River
Rhine: from Equal Apportionment to Ecosystem Protection, in Review of European, Community and
International Environmental Law, 1996, vol. 5, n. 2, pp. 152-160), del Danubio (cfr. Strategic Action Plan
for the Danube River Basin 1995-2005, in http://www.cedar. univie.ac.at/danis/sap1.html) o della
Mosella (Dichiarazione di Arles citata e la Dichiarazione di Namur dei Ministri incaricati della lotta alle
piene in Francia e nelle Regioni di Vallonia e Fiandre in Belgio e Olanda adottata in aprile del 1998).
D'altronde la normativa europea più recente relativa alle acque, rappresentata dalla direttiva quadro
sull'acqua, insiste su tali strumenti, come si evince dagli artt. 11 e 13. Ma uguale è la conclusione sorta
dalle recenti convenzioni vedasi come esempio gli artt. 10, § 1 e), e art. 13, § 2, della Convenzione LusoSpagnola del 1998 o anche l'art. 1, § 3 della Convenzione dell'Oder.
(9) Vedasi il ruolo che il Tribunale internazionale di giustizia riserva loro nella sentenza relativa al caso
Cabcikovo-Nagymaros (specialmente nei paragrafi 85 e 147). Questo riferimento alla Convenzione delle
Nazioni Unite come rappresentazione del diritto consuetudinario è tanto più notevole, come abbiamo
detto in altro luogo P. CANELAS DECASTRO, The Judgment in the Case Concerning the Gabcikovo-Nagymaros
Project: Positive Signs for the Evolution of International Water Law, in Yearbook of International
Environmental Law, 1997, vol. 8, p. 25 in quanto "si fa ricorso ad essa nella ricerca del diritto applicabile
alle questioni più importanti". Ciò avviene prima ancora che la Convenzione entri in vigore. A tal punto
che si può anche sostenere, con uno sguardo alla controversia sorta attorno alla sua adozione, che anche
se la Convenzione non entra in vigore in quanto non ottiene il numero necessario di ratifiche secondo
l'art. 36, § 1, non tralascia di avere importanza e di esercitare la sua influenza, soprattutto nell'aiutare la
formazione e la proliferazione delle consuetudini che regolano il settore. Sarebbe strana qualunque altra
soluzione, in un caso come questo, di una Convenzione cioè che, benché soggetta, al procedimento poco
frequente della votazione, fosse, ciononostante, adottata da una grandissima maggioranza di Stati e con
appena tre voti contrari. Un simile risultato non può far a meno di indicare l'ampio accordo che il testo ha
suscitato nel seno della comunità internazionale, perlomeno per quanto riguarda le soluzioni fondamentali
(quelle stesse che si ritiene corrispondano alle regole consuetudinarie). Non lascerà soprattutto di aver
effetto sugli sforzi diretti a risolvere i litigi tra gli Stati. Si può sperare che appaia come una specie di
riferimento normativo emergente valido per qualunque opera di creazione di diritto, sia di tipo regionale
che particolare. Il nuovo protocollo della SADC, in particolare, è la prova di come esso sia già in parte
debitore di questa Convenzione, come del resto anche dell'Accordo sul bacino del Mekong, (ILM,1995,
vol. 34, pp. 864 ss.) e della Convenzione luso-spagnola del 1998. Analogamente è prevedibile che la
Convenzione, analogamente a quanto avviene con le soluzioni importanti, funzioni come parametro
insostituibile nell'interpretazione sia del diritto generale che di qualunque accordo particolare. Per un
interessantissimo svolgimento in materia, S.M. MCCAFFREY, Legal Issues in the UN Convention on the Law
of the Non-Navigational Uses of International Watercourses, presentazione al seminario "Legal and
Regulatory Issues in Water Management", tenutosi a Dundee in giugno 1998, p. 13, richiama l'attenzione
sull'influenza già visibile sul progresso di altri rami del diritto, soprattutto nel lavoro della Commissione di
diritto internazionale sulla responsabilità internazionale derivata da conseguenze dannose provenienti da
atti non vietati dal diritto internazionale.
(10) Il problema può essere analizzato sotto quattro aspetti principali: 1): secondo l'importanza del
diritto consuetudinario nella formazione dei regimi giuridici internazionali contemporanei, illustrata
dall'esempio dell'influenza che ha avuto l'accordo del Mekong del 1995 (cfr. G.E. RADOSEVICH, The Role of
International Water Law in the Formulation of the Mekong River Basin Treaty, 1998); 2) secondo
l'aspetto della costituzione o consolidamento delle regole consuetudinarie riguardanti soluzioni normative
già molto note quali il principio dell'utilizzo equilibrato ed equo (cfr. P. WOUTERS, An Assessment of Recent
Developments in International Watercourse Law through the Prism of the Substantive Rules Governing
Use Allocation, in Natural Resources Journal, 1996, vol. 36, pp. 417 ss.; J.W. DELLAPENNA, The Customary
International Law on Internationally Shared Fresh Waters, 1999, Presentazione, pp. 1-44; 3) secondo
l'aspetto del radicamento dell'obbligo sostanziale della protezione delle acque, fino a poco fa sconosciuto,
come ha sostenuto essere già in atto S. M. MCCAFFREY, Legal Issues in the UN Convention on the Law of
the Non-Navigational Uses of International Watercourses, presentazione al seminario "Legal and
Regulatory Issues in Water Management", di Dundee, giugno 1998, p. 11; 4) analogamente, qualche
autore ammette che è già consolidata la consuetudine sugli obblighi ambientali (come viene riconosciuto
da uno dei paladini della scuola di pensiero più tradizionalista nel campo del diritto internazionale sulle
acque. Cfr. Ch. BOURNE, The International Law Commission's Draft Articles on the Law of International
Watercourses: Principles and Planned Measures, in Colorado Journal of International Environmental Law
and Policy, 1992, vol. 3, pp. 65 ss.; 5) da cui deriva anche che questo consolidamento delle consuetudini
si produrrà anche nei confronti degli obblighi procedurali (secondo quanto sostiene anche G.E.
RADOSEVICH, The Role of International Water Law in the Formulation of the Mekong River Basin Treaty,
1998, p. 16).
(11) Cfr. testo in International Legal Materials, 1998, vol. 37, pp. 162 ss. Per una valutazione di questo
importante accordo, si veda il simposio del Yearbook of International Environmental Law del 1977, con
contributi di Ch. B. BOURNE, A.E. BOYLE, P. CANELAS DECASTRO, J. KLABBERS, S. STEC, G.E. ECKSTEIN, tutti alle
pp. 3-115. Vedere inoltre P. WOUTERS e S. VINOGRADOV, Current Developments in the Law Relating to
International Watercourses. Implications for Portugal, in Naãão e Defesa, 1998, 86, pp. 136-138 e infra,
nel testo.
(12) Durante un periodo che corrisponde grosso modo alla fine degli anni '90, si sono confrontate due
linee principali, rappresentate da due associazioni di esperti: quella dell'Institut du Droit International, più
audace e amica dell'ambiente, e quella dell'Internationl Law Association, con più tradizione e con
influenza reale su molti trattati del vecchio paradigma, ma anche molto più conservatrice e poco disposta
a cedere a favore della prevalenza, se non proprio della riducibilità fondamentale di questo diritto, al
sacrosanto principio dell'uso equo. Ciè è ben illustrato nei testi costitutivi delle due associazioni. Il lavoro
dell'ILA è stato compilato da E.J. MANNER e VELI-MARTTIMETSÄLAMPI (a cura di), The Work of the
International Law Association on the Law of International Water Resources, 1988, e presentato in modo
egregio da Ch.BOURNE, The International Law Association's Contribution to International Water Resources
Law, in Natural Resources Journal, 1996, vol. 36, pp. 155 ss. La tesi dell'IDI è presente da un lato nella
risoluzione più antica, Utilization of Non-Maritime International Waters (Except for Navigation), in
Annuaire de l'Institut de Droit International, 1961, vol. 40, p. 381 e, poi nelle risoluzioni più recenti
relative all'ambiente. Già verso la fine degli anni '90, specialmente dopo la riunione di Washington del
Comitato delle risorse idriche della centenaria International Law Association, e in seguito ad un'intensa e
quasi fratricida "lotta per il diritto", è sorta una crescente apertura alle opzioni cardine del nuovo
paradigma che culmina a Berlino con l'adozione delle Regole dello stesso nome in sostituzione delle
vecchie "Regole di Helsinki". Uno dei due punti della controversia in questione è costituito dall'"equilíbrio",
difeso dalla dottrina, tra i principi dell'uso equo e di nessun danno. Vedi al riguardo da un lato C. BOURNE,
The Right to Utilize the Waters of International Rivers, in Canadian Yearbook of International Law, 1965,
pp. 187-264 e, dall'altro, G. HANDL, The Principle of "Equitable Use" as Applied to International Shared
Natural Resources: Its Role in Resolving Potential International Disputes over Transfrontier Pollution, in
Revue Belge de Droit International, 1978/79, vol. 14, pp. 40-64.
(13) Per altri dibattiti (apparentemente meno accesi) tanto internazionali che nazionali, cfr. come
esempio, per altre associazioni di diritto internazionale, FAO, Sources of International Water Law, 1998,
FAO Legislative Study n. 65, pp. 323-336 e, nel caso dell'Istituto Americano di diritto, D. MASSEY, How the
American Law Institute Influences Customary Law: The Reasonableness Requirement of the Restatement
of Foreign Relations Law, in Yale Journal of International Law, 1997, vol. 22, p. 419.
(14) Quanto ai fatti che hanno determinato il deterioramento nelle relazioni tra i due paesi, e
relativamente ai primi passi fatti per superare la situazione, cfr. P. CANELAS DECASTRO, Para que os rios
unam: um projecto de Convenãão sobre a cooperaãão para a protecãão e a utilizaãão equilibrada e
duradoura dos cursos de água luso-espanhóis, in UAL, Conferência Portugal-Espanha, Lisboa, 1997, pp.
57-90.
(15) G.U. L 342 del 12 dicembre 1997.
(16) Il testo della nuova Convenzione per la protezione del Reno è presente in COM (1999) 51 finale,
febbraio 5, 1999. Revoca l'Accordo del 1963 sulla Commissione internazionale per la protezione del Reno
contro l'inquinamento, l'Accordo aggiuntivo del 1967 e la Convenzione sulla protezione del Reno contro
l'inquinamento chimico del 1976.
(17) Entrambe in International Legal Materials, 1995, vol. 34, pp. 851 ss.
(18) Convenzione sulla Commissione internazionale per la protezione dell'Oder contro l'inquinamento; cfr.
testo in COM (1998) 528 finale, settembre 16 1998.
(19) I testi di questi accordi sono reperibili in P. WOUTERS e S. VINOGRADOV, Transnational Water Projects:
Risks and Opportunities, Dundee, 1997.
(20) Per i riferimenti bibliografici, cfr. S.M. MCCAFFREY, Legal Issues in the UN Convention on the Law of
the Non-Navigational Uses of International Watercourses, cit., p. 13, nota 24. Per altri riferimenti generali
su altre Convenzioni più antiche o più recenti, cfr. List of Bilateral and Multilateral Agreements and Other
Arrangements in Europe and North America on the Protection and Use of Transboundary Waters, in UN
Doc. ECE/ENVWA/32 e Addenda).
(21) Considerata come una delle sotto-regioni che hanno dimostrato grande impegno nell'affrontare le
problematiche relative ai fiumi internazionali e pioniera nella conclusione di accordi negli ultimi anni.
(22) Protocollo sul sistema dei corsi d'acqua condivisi nella Regione della Comunità di sviluppo dell'Africa
Australe (d'ora in avanti il Protocollo della SADC), firmato a Johannesburg nell'agosto del 1995. Prima
d'esso è importante anche l'Accordo sul Piano d'Azione per la gestione ambientalmente sana del sistema
idrico comune dello Zambesi, diverso da quasi tutti gli altri, firmato nel maggio del 1987.
(23) Accordo adottato nel 1993, a Noordoewer, tra la Namíbia e il Sud Africa, relativo all'istituzione di una
Commissione permanente per l'acqua. Testo in International Legal Materials, 1993, vol. 32, pp.
1147-1151.
(24) Accordo di Windhoek, celebrato nel 1994, tra i Governi della Repubblica di Angola, la Repubblica di
Botswana e la Repubblica di Namibia sull'istituzione di una Commissione permanente per il bacino
idrografico dell'Okavango (OKACOM). Testo inFAO, Treaties Concerning the Non-Navigational Uses of
International Watercourses - Africa, pp. 142-145.
(25) La particolarità di questo accordo risiede nei suoi tre aspetti principali: ampiezza della materia
trattata, integrazione dei vari bacini, portata e modernità delle soluzioni.
(26) Revocato dall'Accordo che stabilisce la Commissione sul Limpopo come previsto nel n. 3 dell'articolo
12 pubblicato nel Boletim da República de Moçambique, n. 52, I serie, 5° supplemento, del 31 dicembre
2004.
(27) Vedi UN Doc. E/ECE/1267 ou International Legal Materials, 1992, vol. 31, pp. 1312 ss.
(28) International Legal Materials, 1991, vol. 30, pp. 800 ss. Vedasi anche la relazione sulla prima
riunione delle Parti contraenti della Convenzione, UN Doc. ECE/MP.EIA/2 del 10 novembre 1998, e dati
disponibili in http://www.mos.gov.pl/enimpas.
(29) International Legal Materials, 1992, vol. 31, pp. 1330-1362.
(30) Direttiva 2000/60/CE, adottata dal Parlamento europeo e dal Consiglio il 23 ottobre 2000. Cfr. G.U. L
327, del 22 dicembre 2000.
(31) Notius come seconda ondata di direttive, ossia come direttive adottate dopo la
"costituzionalizzazione" del diritto ambientale europeo, effettuata mediante l'Atto Unico europeo del 1986,
e che riflette già una pronunciata simpatia per l'ambiente (in particolare, la direttiva del Consiglio
91/271/CEE, del 21 maggio 1991, relativa al trattamento degli effluenti urbani e la direttiva del Consiglio
96/61 sulla prevenzione e controllo integrato dell'inquinamento). Sulla direttiva quadro e sulle varie
generazioni di direttive, cfr. P. CANELAS DECASTRO, Novos Rumos do Direito Comunitário da Água: a
caminho de uma revoluãão (tranquila)?, in Revista do Centro de Estudos de Direito do Ordenamento, do
Urbanismo e do Ambiente, 1998, anno I, 1, pp. 11-36; e ZH.JIALEI, EU Water Law: The Right Balance
Environmental and Economic Considerations?, Macau, 2005.
(32) Testo in FAO, Treaties Concerning the Non-Navigational Uses of International Watercourses - Africa,
pp. 142-153.
(33) Questi autori, tra i quali spiccano F. BERBER, Rivers in International Law, London, 1959, pp. 270-274,
e J. SETTE-CAMARA, Pollution of International Rivers, in Recueil des Cours de l'Académie de Droit
International, 1984, vol. 3, t. 168, pp. 125-217, insistono sul fatto che il diritto internazionale dell'acqua
non deve ignorare le specificità di ognuno dei corsi d'acqua. Secondo questo punto di vista, si potrebbe
anche dubitare della possibilità di un vero e proprio sistema giuridico internazionale nel settore.
Accogliamo invece il punto di vista di L. CAFLISCH, Règles générales du droit des cours d'eau
internationaux, in Recueil des Cours de l'Académie de Droit International, 1989, vol. VII, p. 216, che
adotta una posizione più equilibrata e corretta nella considerazione tra, da un lato, le caratteristiche
specifiche di determinati corsi d'acqua e, dall'altro, l'universalità del diritto. In ogni caso, riteniamo che
qualunque tesi diretta a dimostrare l'assenza di un diritto positivo relativo ai problemi originati dall'acqua
sia oggi semplicemente insostenibile. Naturalmente, persistono importanti differenze nelle dotte opinioni
dei più stimati studiosi quanto al contenuto e alla portata di questo diritto, della lex lata. Ma esse non
possono essere confuse con l'inesistenza di un corpus iuris gentium specificamente diretto a trattare i
problemi relativi alle acque internazionali, e non serve a negare la crescita accelerata o la maturazione di
questo ramo del diritto internazionale.
(34) Nel termine, sicuramente, del tribolato e molto protratto procedimento, che ben dimostra le difficoltà
inerenti all'esercizio. Le ultime fasi, in particolare quelle segnate da tragiche peripezie, sono
egregiamente descritte da A. TANZI, Codifying the Minimum Standards of the Law of International
Watercourses: Remarks on Part One and a Half, in Natural Resources Forum, 1997, vol. 21, p. 109; S.C.
MCCAFFREY, The Work of the Sixth Committee at the Fifty-First Session of the UN General Assembly, in
American Journal of International Law, 1997, vol. 91, pp. 546-547; e T. NUSSBAUM, Report on the Working
Group to Elaborate a Convention on International Watercourses, in Review of European, Community and
International Environmental Law, 1997, vol. 6, 1, pp. 47-53.
(35) La Convenzione è allegata alla Risoluzione 51/229, del 21 maggio 1997, della Assemblea Generale,
adottata con 103 voti a favore, 3 contrari e 27 astenuti. È consultabile in International Legal Materials,
1997, vol. 36, pp. 700 ss. Oltre al riconoscimento del valore giuridico da parte della maggioranza delle
giurisdizioni soprattutto nei paragrafi 85 e 147 della sentenza del caso del progetto GabcikovoNagymaros (testo in International Legal Materials, 1998, vol. 37, pp. 162 ss.) , essa ha acquisito anche
crescente riconoscimento da parte della dottrina, di cui vale la pena ricordare: E. HEY, The International
Watercourses Convention: to What Extent Does It Provide a Basis for Regulating the Uses of International
Watercourses, presentazione, 1997; J. BRUNNÉE, Pushing the Margins: Bringing Ecosystem Orientation in
International Environmental Law into the Law of International Watercourses, presentazione al seminario
NAPO "Sustainable Management of Transboundary Watercourses: Theory and Practice (Eastern and
Western Perspectives)", tenutosi a Mosca nel 1997, pp. 6-15; S. MCCAFFREY, Legal Issues in the UN
Convention on the Law of the Non-Navigational Uses of International Watercourses, presentazione al
seminario "Legal and Regulatory Issues in Water Management", di Dundee del giugno 1998; P. WOUTERS e
S. VINOGRADOV, Current Developments in the Law Relating to International Watercourses. Implications for
Portugal, in Naãão e Defesa, 1998, 86, pp. 138-142.
(36) Ch. BOURNE, The International Law Association's Contribution to International Water Resources Law,
in Natural Resources Journal, 1996, vol. 36, pp. 155-177 e 213-216.
(37) Si pensi ai lavori di UNEP, UNESCO, come all'iniziativa PCCP (From Potential to Conflict to
Cooperation Potential, ossia, dal potenziale di conflitto al potenziale di collaborazione), dell'OSCE, del
Foro Mondiale per l'acqua (World Water Forum).
(38) Notius, il livello delle commissioni congiunte degli Stati rivieraschi vicini.
(39) Succeduta alla Cecoslovacchia, contro la quale era stata inizialmente intentata l'azione.
(40) Processo C-36/98 (Spagna contro Consiglio), in Repertorio, 2001-I, pp. 779 ss. Sul caso, che
stranamente ha suscitato poca attenzione da parte della dottrina, cfr. G. LOIBL, Groundwater Resources A Need for International Legal Regulation?, in ARIEL, 2000, vol. 5, pp. 113-115.
(41) Molti di questi segnali si radicano nella condizione di prossimità degli Stati "rivieraschi". Ora, questa
espressione ha, significativamente, nel senso dell'etimo latino, la stessa radice della parola, "rivale". Cfr.
S. SCHWEBEL, Third Report on the Law of Non-Navigational Uses of International Watercourses, UN Doc.
A/CN.4/348, in Yearbook of the International Law Commission, 1982, parte II, p. 81, nota 142.
(42) E tuttavia, la storia recente dell'umanità fornisce anche la prova che le liti sull'acqua anche quando
prolungate e talvolta molto accese, come nei casi ricordati da S. MCCAFFREY, Water, politics and
international law, in P. GLEICK (a cura di), Water in Crisis: A Guide to the World's Freshwater Resources,
New York, 1993, capitolo 8, pp. 92-104 raramente sono sfociate in guerre vere e proprie o conflitti armati
si veda, l'allusione alle accese ostilità del Medio Oriente, sia di T. NAFF e R. MATSON, Water in the Middle
East: Conflict or Cooperation?, 1984, Boulder, Colorado, e McCaffrey, idem ma al contrario, possono
costituire l'occasione per creare o rafforzare rapporti di cooperazione. Cfr. J. WENIG, Water and Peace: The
Past, the Present and the Future of the Jordan River Watercourse: An International Law Analysis, in New
York University Journal of International Law and Policy, 1995, pp. 331-332; M. LOWI, Rivers of Conflict,
Rivers of Peace, in Journal of International Affairs, 1995, vol. 49, pp. 139-140.
(43) Alcuni, arrivano a predire l'esclusione delle guerre dell'acqua considerate come guerre tipiche del
XXI secolo. Tentiamo l'inventario di una letteratura già abbondante, in P. CANELAS DECASTRO, The Future of
International Water Law, in LUSO-AMERICANFOUNDATION, Shared Water Systems and Transboundary Issues
with Special Emphasis on the Iberian Peninsula, Lisbon, 2000, p. 183, note 9-1, e anche in P. CANELAS
DECASTRO, The Issue of Transboundary Rivers in Southern Africa: Heading for Fratricidal Water Wars or
Towards Cooperation in the Protection and Sustainable Utilization of International Waters?, in LUSOAMERICANFOUNDATION, Implementing Transboundary River Conventions with emphasis on the PortugueseSpanish Case: Challenges and Opportunities, Proceedings of the Conference held in Porto, Portugal, on
March 8 and 9, 2001, Lisbona, 2003, pp. 209-249. In questa corrente di pensiero, emerge la conflittualità
sulle acque internazionali, come del resto aveva già detto Mark Twain nella sua famosa frase "come esiste
il whisky per essere bevuto, così esiste l'acqua per essere combattuta", cfr., in particolare, A.H. WESTING
(a cura di), Global Resources and International Conflict: Environmental Factors in Strategic Policy and
Action, New York, 1986; P. GLEICK, Water and Conflict: Freshwater Resources and International Security,
in International Security, 1993, vol. 18, 1, pp. 79-112; TH. HOMER-DIXON, Environmental Scarcities and
Violent Conflict, in International Security, 1994.
(44) Da notare, tuttavia anche che un'altra corrente di pensiero, pur ammettendo che l'acqua origina
conflitti, contesta energicamente che gli stessi possano essere qualificati come "guerre per l'acqua". In
questo senso, A.T. WOLF, Conflict and Cooperation along International Waterways, in Water Policy, 1998,
vol. 1, p. 256. In linea con quest'altra analisi, prima bisogna parlare di "situazioni calde" (" flashpoints" o
"hotspots"), che richiedono attenzione. Una lista parziale è presente in Heather L. BEACH e altri,
Transboundary Freshwater, Dispute Resolution: Theory, Practice, and Annotated References, Tokyo,
2000, capítolo 7. Infine, vedere anche S. LIBISZEWSKI, Water Disputes in the Jordan Basin Region and
their Role in the Resolution of the Arab-Israeli Conflict, Zurich, 1995; SALMAN M.A. SALMAN e L. BOISSON
DECHAZOURNES (a cura di), International Watercourses. Enhancing Cooperation and Managing Conflict.
Proceedings of a World Bank Seminar, Washington, D.C., 1998; A. WOLF, Conflict and Cooperation Along
International Waterways, in Water Policy, 1998, vol. 1, 2, pp. 251-265, che sostengono con forza che
questo tipo di situazioni prima sfocia in opportunità di cooperazione, come è provato da numerosi esempi
storici. Nella realtà, il caso più ovvio di una vera e propria guerra per l'acqua se non proprio unica sembra
essere quella del conflitto che ha opposto le città-stato di Lagash e Umma nel duplice bacino del Tigri e
dell'Eufrate. Cfr. A.T. WOLF, The Importance of Regional Co-operation on Water Management for
Confidence-Building: Lessons Learned, Paper, 2002, p. 4.
(45) Cfr. E.H.P. BRANS, E. J. DEHAAN, A. NOLLKAEMPER, J. RINZEMA (a cura di), The Scarcity of Water.
Emerging Legal and Policy Responses, London, 1997. Vedere anche l'esauriente R. CLARKE e J. KING, The
Water Atlas, New York, 2004, The New Press.
(46) Tanto per fare un esempio, anche se riguardante un periodo storico non vicinissimo, in appena tre
decadi dalla fine della II Guerra Mondiale le estrazioni globali di acqua sono salite da 1.000 km! a 3.500
km!. E il ritmo della crescita continua ad aumentare.
(47) Tra il 1950 e il 1985, la popolazione mondiale è quasi raddoppiata (dai due miliardi e mezzo,
secondo la Relazione della Commissione mondiale sull'ambiente e sviluppo, Our Common Future, 1987,
Oxford). E si ritiene che possa triplicare poco dopo l'inizio del nuovo Millennio.
(48) In termini relativi, è possibile anche affermare che decresce una volta che l'acqua disponibile per
capita viene a diminuire notevolmente, determinando così un generico aumento della scarsità d'acqua
particolarmente acuto in certe regioni del mondo. Cfr. Freshwater Resources. Report of the SecretaryGeneral, in UN Doc. E/CN.17/1994/4, April 22, 1994.
(49) Fino al più "futurista" fattore di cambiamenti climatici, la certezza gravida di incertezze. Al riguardo,
Y.G. MOTOVILOV, Climate change impacts on water resources: certainties and uncertainties, Presentazione
alla Conferenza "Sustainable Management of Transboundary Watercourses: Theory and Practice",
promossa dalla NATO a Mosca nel 1997.
(50) Oltre a questi fattori, ve ne sono altri che ci sembrano rilevanti, anche se poco esplorati dalla
letteratura specializzata, quali i cambiamenti fondamentali registrati al livello più ampio del diritto
internazionale, gli altri universi normativi e le aspettative sociali. Ci appare non improprio che questi
cambiamenti si ripercuotano anch'essi in questo particolare settore. Ora sembra innegabile che l'attuale
diritto delle acque non sia atto ad affrontare questi nuovi valori ed aspettative sociali proprio loro
possibilmente costituenti risposta ad una preoccupazione fondamentale come quella di una protezione più
decisa dell'ambiente e quello di una comunità di Stati più cooperativi , e non riflette nemmeno i
cambiamenti di cui tiene conto il nostro sistema normativo, come quello etico e anche più semplicemente
del diritto internazionale in generale per cui va seguito il processo in corso di riforma del diritto
internazionale, giustamente sempre più reattivo ai nuovi valori e alle nuove idee. Il diritto internazionale
delle acque era rimasto indietro. Stranamente conservatore. Stranezza particolarmente nota nel caso del
primo divorzio segnalato quello tra diritto delle acque e diritto dell'ambiente dato che non si vede alcuna
ragione plausibile per la quale l'acqua meriti un trattamento giuridico diverso dagli altri beni e risorse
naturali, soprattutto quando si riconosce la necessità della sua protezione e la si colloca al centro delle più
serie preoccupazioni come la sicurezza dell'ambiente.
(51) Avviene con sempre maggior frequenza che le previsioni più moderne sulla sicurezza, a volte dette
di "sicurezza in senso ampio" per differenziarle da un significato più restrittivo, indiscusso e coincidente
con il significato più tradizionale del concetto internazionale o nazionale, integrino una dimensione o una
problematica di accesso ai beni naturali e all'equilibrio ambientale. Cfr., ad esempio, la dichiarazione del
Segretario generale della Conferenza delle Nazioni Unite su sviluppo e ambiente: Statement to the
Organizational Session of the Preparatory Committee, 1990, o P.H. SAND, International Law on the
Agenda of the United Nations Conference on Environment and Development: Towards Global
Environmental Security, in Nordic Journal of International Law, 1991, pp. 5 ss.; e Yearbook of
International Environmental Law, 1991, vol. 2, pp. 425 ss.
(52) Per le caratteristiche di tali dottrine nell'attuazione internazionale contemporanea di alcuni Stati, Cfr.
M. ARCARI, Il regime giuridico delle utilizzazioni dei corsi d'acqua internazionali diversi della navigazione,
Milano, 1995, pp. 22-51; e J.W. DELLAPENNA, Surface Water in the Iberian Peninsula: An Opportunity for
Cooperation or a Source of Conflict, in Tennessee Law Review, 1992, vol. 59, p. 821.
(53) J. AUSTIN, Canadian - United States Practice and Theory Respecting the International Law on
International Rivers: A Study of the History and Influence of the Harmon Doctrine, in Canadian Bar
Review, 1959, vol. 37, p. 393, e S. MCCAFFREY, The Harmon Doctrine One Hundred Years Later, Buried
not Praised, in Natural Resources Journal, 1996, vol. 36, pp. 733-745.
(54) Un buon riassunto della dottrina è presente in R. JOHNSON, The Columbia Basin, in A. GARRETSON e
altri (a cura di), The Law of International Drainage Basins, 1967, Oceana, Dobbs Ferry, p. 845.
(55) Nell'Africa portoghese dell'epoca coloniale, oltre agli accordi precedenti la decade degli anni '70
firmati dai governi del Portogallo e del Sud Africa, in particolare quello del 1929, relativo al fiume Cunene,
in Angola, e quello del 1964 relativo a due fiumi di comune interesse riguardanti i territori angolano e
mozambicano, bisogna ricordare l'Accordo sulla costruzione della diga di Massingir del 1971. Già dopo
l'indipendenza del Mozambico, gli Accordi di Umbelúzi e Piggs Peak del 1976 e 1991 sono un esempio
della tendenza in atto.
(56) Nei rapporti tra Spagna e Portogallo la tendenza è chiara in tutti i trattati dei secoli XIX e XX, fatta
eccezione dell'ultimo, in vigore, celebrato nel 1998.
(57) Questo tratto comune è appena smorzato dal principio detto del "non danno", volto a evitare o
minimizzare i danni, ma che, in concreto, poco costringe e poco modera, ragion per cui si è cercato
all'inizio di attribuirvi maggior spessore, e in tempi recenti si sono uniti altri principi aventi grande
sensibilità per l'ambiente.
(58) Pubblicato nello stesso Jornal Oficial de Moçambique, che ha pubblicato l'Accordo che istituisce la
Commissione sul Limpopo.
(59) Si tratta di una questione di particolare rilevanza per gli Stati che oltre alla loro condizione di essere
rivieraschi sono anche costieri, come accade per il Portogallo e il Mozambico.
(60) Pubblicato nello stesso Jornal Oficial de Moçambique, che ha pubblicato l'Accordo che istituisce la
Commissione sul Limpopo.
(61) Non è una coincidenza che la Convenzione tra Portogallo e Spagna usi l'espressione "acque" quando
si riferisce alle azioni di protezione del bene naturale avente valore per se stesso, sicuramente in implicito
omaggio ad una prospettiva più ecologica o favorevole all'ambiente e l'espressione "risorse idriche"
quando si tratta del loro utilizzo economico, in cui il loro valore proviene da un profitto esterno, in una
prospettiva marcatamente antropocentrica.
(62) Per i fondamenti teorici di questa problematica, cfr. U. BECK, Politik in der Risikogesellschaft, 1991,
anche Risk Society: Towards a New Modernity, 1992, e S. LASH, B. SZERSZYNSKI, B. WYNNE, Risk,
Environment and Modernity. Towards a New Ecology, 1996.
(63) Da notare anche l'insistenza del Tribunale internazionale di giustizia nella sentenza sul caso
Gabcikovo-Nagymaros, come abbiamo evidenziato in The Judgment in the Case Concerning the
Gabcikovo-Nagymaros Project: Positive Signs for the Evolution of International Water Law, in Yearbook of
International Environmental Law, 1997, vol. 8.
(64) G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite (nella traduzione francese di M. LEROY, Le droit en douceur, Paris,
Economia 2000, p. 35).
(65) Th. S. KUHN, The Structure of Scientific Revolutions, 2nd. ed., Chicago, 1970.
(66) Op. cit., pp. 216 ss.
(67) In questo senso anche E. HEY, Sustainable Use of Shared Water Resources: The Need for a
Paradigmatic Shift in International Watercourses Law, in G.H. BLAKE e altri (a cura di), The Peaceful
Management of Transboundary Resources, London, 1995, p. 127. È nostra convinzione che il futuro vive
già nel presente, come del resto abbiamo cominciato a sostenere in P. CANELAS DECASTRO, The Future of
International Water Law, già cit.
(68) Cfr. art. 2, 2 della Convenzione luso-spagnola del 1998 che può essere ricondotta al lavoro teoretico
di F. OST e M. VAN DEKERCHOVE, De la pyramide au réseau? Pour une théorie dialectique du droit, Bruxelles,
2002, Publications des Facultés universitaires Saint-Louis.
(**) L'Autore è assistente alla Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Coimbra e visiting professor alla
Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Macao.
Tutti i diritti riservati - © copyright 2002 - Dott. A. Giuffrè Editore S.p.A.
Archivio selezionato: Note
Scarichi idrici a Venezia: la titolarità dello scarico e quella della canalizzazione non
sono una coincidenza necessaria.
Riv. giur. ambiente 2005, 6, 1072
Enrico Murtula
1. Il controllo dell'inquinamento idrico nella laguna di Venezia. 2. Il piano di adeguamento dell'impianto
EVC. 2.1. I motivi del ricorso al T.A.R. 3. La giurisprudenza in tema di scarichi e "collegamento diretto".
4. La sentenza T.A.R. Veneto 248/2005. 5. La sentenza d'appello sul Petrolchimico. 6. Lo schema di
decreto legislativo sulle acque presentato dalla Commissione delega.
1. Il controllo dell'inquinamento idrico nella laguna di Venezia.
La laguna di Venezia è caratterizzata da un ridotto scambio di acque con il mare, cui episodicamente si
contrappone il fenomeno dell'acqua alta, e dalla circostanza che in essa si raccolgano scarichi idrici che
derivano sia dagli insediamenti ivi localizzati, quali la città storica di Venezia e l'area industriale di Porto
Marghera, che presenti nel "bacino scolante", ossia nell'amplio territorio compreso tra i fiumi che si
immettono in laguna.
Al fine di gestire quello che è stato dichiarato un "problema di preminente interesse nazionale", il
legislatore ha previsto dapprima un obbligo generalizzato di autorizzazione degli scarichi (legge
366/1963), poi valori-limite per gli stessi, con la previsione sia di sanzioni penali per il loro superamento,
sia di incentivi per la realizzazione di impianti di depurazione (legge 171/1973 e D.P.R. 962/1973) (1).
Le funzioni amministrative relative alla gestione ambientale e idrologica dell'area lagunare, tuttavia, non
sono state affidate a un solo soggetto, ma suddivise, con compiti che tendono a sovrapporsi, tra la
Regione Veneto e lo Stato; il Magistrato delle acque, dipendente dal Ministero delle infrastrutture e dei
trasporti, è rimasto l'organo competente ad autorizzare gli scarichi in laguna, mentre alla regione sono
attribuiti i compiti di pianificazione per il disinquinamento dell'intero bacino scolante (2).
La citata mancanza di una sola autorità di riferimento, continue proroghe nei termini di attuazione dei
citati atti normativi, unitamente alla carenza di investimenti e di controlli, ha permesso che i fenomeni di
inquinamento perdurassero; altre circostanze, quali i processi penali come quello sul Petrolchimico di
Marghera, hanno fatto sì che della situazione in esame fosse percepita tutta la gravità.
Tra il 1998 e il 1999 una serie di decreti adottati congiuntamente dai Ministeri di ambiente e lavori
pubblici è intervenuta sulla citata legislazione speciale prendendo in esame principalmente gli scarichi
industriali; con gli atti citati, tra l'altro, sono stati introdotti obiettivi di qualità per le acque e il divieto di
scaricare determinate sostanze (D.M. 23 aprile 1998), nonché la revisione dei valori limite già previsti dal
D.P.R. 962/1973 (D.M. 30 luglio 1999), prevedendosi l'obbligo di revisione delle autorizzazioni allo scarico
esistenti entro il 31 dicembre 2001 (3).
È stato comunque previsto che, a fronte della presentazione di appositi piani da parte delle società
proprietarie degli impianti, le autorità competenti potessero concedere periodi più lunghi per
l'adeguamento degli stessi alla nuova disciplina e che in tale periodo continuassero ad applicarsi i limiti
del D.P.R. 962/1973; tale possibilità è stata confermata nell'Accordo di programma sulla chimica a Porto
Marghera, approvato con D.P.C.M. del 12 febbraio 1999, che alle imprese firmatarie ha garantito "la
certezza operativa per tutto il periodo di ammortamento economico degli investimenti, nonché (...)
procedure autorizzatorie semplificate" (4).
Il D.M. 23 aprile 1998 prevedeva che l'autorità competente ad approvare i progetti di adeguamento degli
impianti fosse il Ministero dell'ambiente, ma tale scelta è stata censurata dalla Corte Costituzionale che,
con la sentenza 54 del 15 febbraio 2000, ha affermato la competenza della Regione Veneto.
2. Il piano di adeguamento dell'impianto EVC.
La società European Vinyls Corporation S.p.A. (di seguito EVC) produce cloruro di vinile monomero (CVM)
tramite l'impianto CV22 posto all'interno del complesso Petrolchimico di Porto Marghera,.
Le acque di processo dell'impianto CV22, dopo essere sottoposte a un primo trattamento interno
(stripping), erano canalizzate insieme a quelle di altri impianti, tramite rete fognaria privata, all'impianto
di depurazione SG31, che è gestito da una diversa società; i reflui di questo impianto depurazione, a loro
volta, confluiscono, insieme ad altri, nel canale SM15 recapitante in laguna.
In seguito all'adozione dei citati decreti interministeriali 1998/1999, EVC ha presentato un piano di
adeguamento per il proprio impianto, che la giunta regionale, con la deliberazione 21 dicembre 2001, n.
3749, ha approvato, fissando al 31 dicembre 2003 il termine per la sua attuazione.
Successivamente, la Giunta regionale ha predisposto un procedimento per la proroga dei termini di
adeguamento relativi a diversi impianti dell'area di Porto Marghera, tra i quali anche quello di EVC,
acquisendo per ognuno di essi specifici pareri da parte di propria commissione tecnico-ambientale
(CTRA); conseguentemente, con la deliberazione 30 dicembre 2003 n. 4361, la giunta ha prorogato di sei
mesi il suddetto termine, disponendo che durante tale "periodo transitorio gli impianti pubblici e privati
continueranno a rispettare i valori limite indicati nella tabella allegata al D.P.R. 962/1973, fatti salvi i
limiti diversi, più restrittivi, eventualmente già fissati in sede di autorizzazione allo scarico o stabiliti negli
allegati pareri".
Agli stessi "eventuali" limiti, inoltre, si richiamava anche il Magistrato delle acque quando, con il
provvedimento prot. 224 del 29 gennaio 2004, rilasciava un'autorizzazione allo scarico in laguna per il
canale SM15 riferita cumulativamente a (quasi) tutti gli impianti recapitanti in tale canale.
2.1. I motivi del ricorso al T.A.R. Nel parere relativo all'impianto di EVC, la commissione tecnicoambientale aveva stabilito che "il valore medio di concentrazione di CVM allo scarico delle colonne di
stripping sia pari a 1,0 g/L e il limite di concentrazione di 3,7 g/L possa essere superato al massimo una
volta" (5).
Ora, secondo la società, il richiamo a tali prescrizioni da parte delle autorizzazioni precedentemente
menzionate era illegittimo, perché in tal modo le Amministrazioni avrebbero introdotto, senza averne i
poteri, valori-limite agli scarichi più restrittivi di quelli previsti dal D.P.R. 962/1973, in assenza di
un'idonea istruttoria; pertanto, sulla base di tali motivazioni era proposto ricorso al T.A.R. per
l'annullamento in parte qua sia del parere che dei provvedimenti vi si richiamavano.
Nel corso del giudizio, l'Avvocatura dello Stato, costituitasi in difesa delle Amministrazioni resistenti,
sosteneva che gli scarichi dell'impianto CV22 dovevano classificarsi come rifiuti in virtù del loro contenuto
e del fatto che il loro conferimento a un impianto di depurazione gestito da un soggetto giuridico distinto
avrebbe interrotto la continuità del collegamento tra impianto di produzione e laguna; di conseguenza,
concludeva, gli atti impugnati erano legittimi perché adottati sulla base della normativa sui rifiuti.
3. La giurisprudenza in tema di scarichi e "collegamento diretto".
Sono diverse le opinioni giurisprudenziali e dottrinali che si sono confrontate sui concetti alla base
dell'applicazione delle normative sulle acque e sui rifiuti, confluendo nella formulazione di concetti
fondamentali quali quello di "collegamento diretto" (6).
L'entrata in vigore del D.P.R. 10 settembre 1982, n. 915, relativo allo smaltimento dei rifiuti (sia solidi che
liquidi), infatti, ha posto il problema di delimitare l'ambito di applicazione della precedente legge 10
maggio 1976, n. 319 (legge Merli), la cui permanenza in vigore era affermata dallo stesso D.P.R.
915/1982, art. 2, per quanto concernesse "la disciplina dello smaltimento nelle acque, sul suolo e nel
sottosuolo dei liquami e dei fanghi, (...) purché non tossici e nocivi".
Al riguardo è intervenuta la Cassazione penale, con la sentenza a Sezioni Unite del 27 settembre 1995-13
dicembre 1995 (ric. Forina), affermando che il criterio di discrimine tra le due normative era da
individuare non tanto nella sostanza scaricata, quanto piuttosto nelle diverse fasi di trattamento della
stessa; di tal guisa la normativa sulle acque s'inseriva in quella sui rifiuti come un cerchio concentrico
minore, sicché "il D.P.R. 915/1982 disciplina tutte le singole operazioni di smaltimento dei rifiuti... siano
essi solidi o liquidi, fangosi..., con esclusione di quelle fasi, concernenti i rifiuti liquidi (o assimilabili),
attinenti allo scarico e riconducibili alla disciplina stabilita dalla legge 319/1976" (7).
La sostanza del contrasto non è mutata a seguito dell'entrata in vigore del successivo D.Lgs. 22/1997, il
quale, andando a sostituirsi al D.P.R. 915/1982, escludeva dal proprio ambito "le acque di scarico, esclusi
i rifiuti allo stato liquido"; tracciare una linea di confine certa tra le due normative permaneva comunque
difficoltoso, in quanto non pareva che i termini "smaltimento" e "scarico" (utilizzati anche dalla
Cassazione) fossero stati impiegati dal legislatore in modo univoco (8).
Il successivo D.Lgs. 152/1999, pertanto, ha operato un'innovazione determinante nell'introdurre una
definizione legislativa di uno dei termini della discussione, ai sensi della quale "scarico" sarebbe da
considerarsi solo l'immissione "diretta tramite condotta di acque reflue liquide, semiliquide o comunque
convogliabili nelle acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla
loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione" (9).
Secondo un'opinione condivisa, il concetto di scarico così delineato avrebbe una portata più limitata di
quello formatosi nella vigenza della legge 319/1976 e sarebbe solo quello "che avviene attraverso una
tubazione, una condotta od un sistema di passaggio o deflusso, che abbia un collegamento diretto tra la
fonte di produzione del liquame ed il corpo ricettore", mentre lo scarico "indiretto" espressamente
sanzionato dalla legge Merli sarebbe stato espunto dalla nuova normativa sulle acque e costituirebbe una
fase dello smaltimento dei rifiuti liquidi (10).
Si rientrerebbe nella fattispecie di scarico indiretto ogniqualvolta sussista una "interruzione funzionale del
nesso di collegamento diretto" tra la fonte di produzione del refluo e il corpo ricettore (11), ossia quando
il rilascio di acque reflue avvenga "senza versamento diretto nei corpi ricettori, avviandole cioè allo
smaltimento, trattamento o depurazione a mezzo di trasporto su strada o comunque non
canalizzato" (12).
Per individuare la norma applicabile alla fattispecie concreta occorrerebbe, allora, fare riferimento alle
modalità del riversamento del refluo nel corpo ricettore (come stabilità, durata o artificiosità dei metodi di
convogliabilità), le quali costituirebbero "il parametro di riferimento per stabilire, per le acque di scarico e
per i rifiuti liquidi, l'ambito di operatività delle normative in tema di tutela delle acque e dei rifiuti" (13).
Ecco allora che, secondo un certo orientamento, il D.Lgs. 152/1999 sanzionerebbe che decida di
"costruire degli scarichi con condotte o effettuare scarichi utilizzando un sistema, anche naturale, che
consenta il passaggio o il deflusso delle acque reflue"; mentre, secondo un'opinione giurisprudenziale
differente, non potrebbe parlarsi di immissione diretta laddove il flusso d'acqua non sia "convogliato
artificialmente con sistemi predisposti ad hoc", ma semplicemente lasciato defluire lungo la sede di un
binario rimosso (14).
4. La sentenza T.A.R. Veneto 248/2005.
Con la sentenza annotata, il T.A.R. Veneto ha richiamato la citata giurisprudenza penale (espressamente
le pronunce 8758/2002, 1383/2002 e 5000/2000), ritenuta "pienamente condivisibile, ed applicabile alla
fattispecie de qua", per affermare l'applicazione della normativa sulle acque e conseguentemente
parzialmente annullare i tre provvedimenti impugnati per contrasto con essa.
Secondo il Collegio nella fattispecie in esame sarebbe mancata quella "interruzione funzionale" del nesso
di collegamento diretto tra fonte di produzione del refluo (impianto CV22) e corpo ricettore (laguna), che
sola avrebbe consentito di qualificare il conferimento in esame come smaltimento di rifiuto,
indipendentemente dalle sostanze contenute nel refluo.
Il T.A.R. riconosce che nelle circostanze in esame era presente una soluzione di continuità, ma afferma
che essa era relativa al solo profilo della titolarità giuridica dell'impianto di depurazione, diversa da quella
dell'impianto di produzione del refluo; per determinare una diversa qualificazione della fattispecie, esso
prosegue, la soluzione di continuità andava riscontrata "in senso materiale e funzionale".
Il T.A.R. conclude affermando che, una volta determinata la sussistenza di una canalizzazione diretta del
refluo, la presenza di determinate sostanze inquinanti nel refluo (nella specie CVM) obbligava a verificare
il rispetto dei valori-limite fissati dal D.P.R. 962/1973 ad esse applicabili, ma non poteva avere alcun
effetto sulla normativa applicabile.
Viene fatto un accenno anche all'art. 36 del D.Lgs. 152/1999, relativo al trattamento di rifiuti presso
impianti di trattamento delle acque; secondo il T.A.R., il "trasporto"dei reflui liquidi costituisce l'elemento
che impone l'applicazione della normativa sui rifiuti anche in tale ipotesi, dalla quale resterebbe pertanto
escluso "il caso della loro canalizzazione, dalla struttura che li produce all'impianto di depurazione".
5. La sentenza d'appello sul Petrolchimico.
La sentenza in esame assume un significato particolare per la complessità della fattispecie trattata,
costituita dallo scarico di un impianto produttivo in laguna previa depurazione in un impianto di diversa
soggettività giuridica.
La posizione del T.A.R. Veneto è chiara sul punto della non rilevanza di tale diversa soggettività giuridica
ai fini dell'interruzione del collegamento esistente tra l'impianto produttivo e la laguna; secondo quanto
affermato dal giudice amministrativo, pertanto, la convogliabilità del refluo deve essere in teso
prettamente materiale e funzionale.
Risulta estremamente interessante rilevare che argomentazioni del tutto simili a quelle svolte nel
processo amministrativo che ha portato alla sentenza 248/2005 sono state sviluppate nel corso dei due
gradi del processo penale sul Petrolchimico di Porto Marghera, che ha ad oggetto anche eventi avvenuti
presso l'impianto CV22 prima del suo trasferimento a EVC (15).
In tale processo, l'accusa, tra l'altro, ha ribadito che lo smaltimento dei reflui derivanti dal andava
sottoposto alla normativa sui rifiuti perché qualificabile come "scarico indiretto", a causa dell'interruzione
della canalizzazione tra il luogo di produzione del refluo e quello della sua immissione in laguna, a seguito
del suo conferimento ad un impianto di depurazione gestito da un soggetto giuridico distinto.
La seconda Sezione della Corte di Appello di Venezia, con una sentenza praticamente contemporanea a
quella del T.A.R. annotata (dispositivo del 15 dicembre 2004, motivazioni depositate in data 15 marzo
2005), ha negato le argomentazioni accusatorie e, nel riferirsi proprio alla sentenza della Cassazione
8758/2003 citata dal T.A.R., ha affermato che la qualificazione dello scarico andrebbe riferita alla
"conformazione naturalistica dello scarico in esame", sicché non sarebbe possibile "ritenere uno scarico
"indiretto" per il semplice fatto che una persona (fisica o giuridica) diversa dal produttore del refluo sia
titolare in tutto o in parte dell'impianto di depurazione o della canalizzazione".
6. Lo schema di decreto legislativo sulle acque presentato dalla Commissione delega.
Può risultare interessante menzionare che una delle modifiche alle disposizioni del D.Lgs. 152/1999
attualmente in discussione presso la Commissione istituita dalla legge 15 dicembre 2004, n. 308,
riguarda proprio alcuni degli aspetti che hanno formato oggetto della sentenza annotata.
Prevede infatti di art. 72, comma 2, dell'attuale bozza di schema di decreto legislativo recante "Norme in
materia di difesa del suolo e lotta alla desertificazione, di tutela delle acque dall'inquinamento e di
gestione delle risorse idriche", che:
"L'autorizzazione è rilasciata al titolare dell'attività da cui origina lo scarico. Ove uno o più stabilimenti
conferiscano ad un terzo soggetto, titolare dello scarico finale, le acque reflue provenienti dalle loro
attività, oppure qualora tra più stabilimenti sia costituito un consorzio per l'effettuazione in comune dello
scarico delle acque reflue provenienti dalle attività dei consorziati, l'autorizzazione è rilasciata in capo al
titolare dello scarico finale o al consorzio medesimo, ferme restando le responsabilità dei singoli titolari
delle attività suddette e del gestore del relativo impianto di depurazione in caso di violazione delle
disposizioni del presente decreto. Ove uno o più stabilimenti effettuino scarichi in comune senza essersi
costituiti in consorzio, l'autorizzazione allo scarico è rilasciata al titolare dello scarico finale, fermo
restando che il rilascio del provvedimento di autorizzazione o il relativo rinnovo sono subordinati
all'approvazione di idoneo progetto comprovante la possibilità tecnica di parzializzazione dei singoli
scarichi" (16).
Orbene, la disposizione appena citata presenta alcuni elementi di interesse rispetto al testo dell'attuale
art. 45 del D.Lgs. 152/1999; infatti, è previsto che, nel caso di più stabilimenti con uno scarico in
comune, lo scarico finale debba essere autorizzato anche quando non vi sia alcun consorzio, ferma
restando la necessità di predisporre accorgimenti tecnici che permettano di verificare i singoli scarichi.
Una disposizione simile, forse avrebbe giovato nel caso di specie, laddove invece l'autorizzazione del
Magistrato delle acque è stata rilasciata cumulativamente a tutte le società titolari di impianti recapitanti
nel canale SM15 ed è stata censurata proprio perché aveva imposto verifiche sugli singoli scarichi in una
fase precedente a quella della loro confluenza comune presso l'impianto di depurazione.
NOTE
(1) Gli atti principali della normativa nazionale sono legge 16 aprile 1973 n. 171 (Interventi per la
salvaguardia di Venezia), dal cui art. 1 è tratta la citazione nel testo; della legislazione precedente
occorre citare il R.D.L. 21 agosto 1937 n. 1901, la legge 31 marzo 1956, n. 294 e la legge 5 marzo 1963,
n. 366 (in merito alla quale si rimanda alla nota successiva).
L'art. 9 della legge 171/1973, oltre ad affermato che la "Regione Veneto e il Magistrato alle acque di
Venezia, nell'ambito delle rispettive competenze, adottano i provvedimenti necessari ad assicurare la
tutela del territorio dagli inquinamenti delle acque", imponeva "ai privati, imprese ed enti pubblici che
scarichino rifiuti nelle fognature o nelle acque della laguna o nei corsi d'acqua che comunque si
immettano nella laguna" di realizzare impianti di depurazione entro tre anni (termine che ha poi subito
numerose proroghe per diverse categorie di scarichi).
In attuazione della legge 171/1973 è stato adottato il D.P.R. 20 settembre 1973, n. 962 (Tutela della città
di Venezia e del suo territorio dagli inquinamenti delle acque), che rappresenta il primo atto normativo
nazionale con un approccio strutturato in materia di tutela dall'inquinamento idrico.
L'applicazione del D.P.R. 962/1973 alla laguna di Venezia è stata affermata dalla legge "Merli" (legge 10
maggio 1976, n. 319) e confermata da Corte Costituzionale (ordinanze 16 aprile 1998 n. 115 e 29
gennaio 1993, n. 17) e Cassazione (Cass., Sez. Un. pen., 3 maggio 1999, n. 7, in Dir. giur. agraria e
ambiente, 6/2000, p. 409).
Quanto alla normativa regionale, rilevano innanzitutto la L.R. 24 agosto 1979, n. 64, e la L.R. 27 febbraio
1990, n. 17 (Norme per l'esercizio delle funzioni di competenza regionale per la salvaguardia e il
disinquinamento della laguna di Venezia e del bacino in essa scolante).
Ai sensi dell'art. 2 della L.R. 17/1990, l'ambito interessato dagli interventi di competenza regionale è
formato dal territorio dei Comuni del "bacino scolante", ossia "le aree il cui recapito idrico avvenga
direttamente in laguna o nei corsi d'acqua che, comunque, si immettano nella laguna".
L'esatta estensione del "bacino scolante" viene concretamente individuata tramite il Piano per la
prevenzione dell'inquinamento e il risanamento delle acque del bacino idrografico immediatamente
sversante nella laguna di Venezia, che costituisce il principale strumento regionale di pianificazione idricoambientale; la versione vigente del Piano è stata adottata con la deliberazione del Consiglio regionale 1°
marzo 2000, n. 24 (pubblicata sul B.U.Regione Veneto, 14 luglio 2000, n. 64), in sostituzione di quella
adottato con la deliberazione consiliare 19 dicembre 1991 n. 255.
In dottrina, sulla tutela di Venezia e della sua laguna, si veda: M. MALO, Venezia, in Dig. disc. pubbl. Aggiornamento, 2000; P. URBANI, Venezia (provvedimenti per), in Enc. dir., 1993.
Tra i contributi pubblicati su questa Rivista si citano i commenti di: E. BARICHELLO, Il T.A.R. del Veneto dà
via libera al "progetto Mo.S.E."... per la salvaguardia di Venezia... e il Consiglio di Stato conferma,
commento alle sentenze del T.A.R. Veneto, Sez. I, 26 luglio 2004, n. 2480 e 2483, 2005, p. 359; E.
FORTUNA, La legge speciale per Venezia, 1993, p. 369; S. AMOROSINO, La salvaguardia ambientale di
Venezia tra Stato e Regione, 1991, p. 657.
(2) Il Magistrato delle acque è stato istituito dalla legge 5 maggio 1907, n. 257.
La legge 366/1963 delimita la "conterminazione lagunare" soggetta alla sorveglianza del Magistrato (la
cui individuazione è stata poi modificata con D.M. 9 febbraio 1990) e dispone, all'art. 7, che, oltre alle
"acque dolci, siano di fiume o di scolo, che entrano attualmente in laguna o per non essere mai state
divertite da essa, o per esservi state condotte con apposite concessioni", è vietato "introdurne altre, siano
torbide o chiare, senza un'apposita concessione del Magistrato alle acque il quale (...) prescriverà gli
oneri da imporre al concessionario nei riguardi igienici e idraulici, per rendere la concessione il più
possibile innocua alla laguna".
(3) D.M. 23 aprile 1998 (Requisiti di qualità delle acque e caratteristiche degli impianti di depurazione per
la tutela della laguna di Venezia); D.M. 16 dicembre 1998 (Integrazioni al decreto 23 aprile 1998 e
relativa proroga dei termini); D.M. (Individuazione delle tecnologie da applicare agli impianti industriali ai
sensi del punto 6 del D.M. 23 aprile 1998); D.M. 30 luglio 1999 (Limiti agli scarichi industriali e civili che
recapitano nella laguna di Venezia e nei corpi idrici del suo bacino scolante, ai sensi del punto 5 del D.M.
23 aprile 1998).
L'art. 6 del D.M. 23 aprile 1998 prevedeva l'eliminazione di talune sostanze (idrocarburi policiclici
aromatici, pesticidi organoclorurati, diossina, policlorobifenili e tributilstagno), mediante l'adeguamento
degli scarichi industriali versanti in laguna e nel bacino scolante alle "migliori tecnologie di processo e di
depurazione disponibili"; altre cinque sostanze sono state bandite con il decreto interministeriale 16
dicembre 1998 (cianuri, arsenico, cadmio, piombo, mercurio).
(4) Paragrafo 3.2, lett. a) dell'Accordo; il successivo paragrafo 4 prevede che entro "dodici mesi
dall'approvazione dell'accordo, le aziende firmatarie presenteranno, per i propri investimenti, un'unica
istanza all'Unità di Progetto per la riconversione del Polo industriale di Marghera, presso la Regione
Veneto, comprensiva di tutte le richieste di autorizzazione previste dalle leggi vigenti, ivi compresa la
VIA, (quando richiesta dalle norme), ovvero una relazione illustrativa sullo stato di elaborazione delle
richieste di autorizzazione, che dovranno comunque essere inoltrate entro i successivi sei mesi".
Il testo dell'Accordo di programma sulla chimica a Porto Marghera sottoscritto il 21 ottobre 1998 e quello
del successivo Atto integrativo del 15 dicembre 2000 sono reperibili sul sito della regione
(www.regione.veneto.it).
(5) Commissione tecnica regionale, Sezione ambiente, i cui compiti sono previsti dalla L.R. 16 aprile
1985, n. 33.
(6) Per una panoramica della giurisprudenza sugli scarichi si veda A. POSTIGLIONE, La tutela delle acque
alla luce della giurisprudenza della Corte di Cassazione, in Dir. giur. agraria e ambiente, 3/2005, p. 150;
A. GRATANI, in questa Rivista, 2000, p. 1007; A.L. DECESARIS, Scarichi di acque reflue: nuove definizioni,
ivi, 2000, p. 919.
(7) Per un estratto della sentenza, con commento di P. GIAMPIETRO, Le Sezioni Unite segnano lo
spartiacque fra scarichi idrici e rifiuti, si veda in questa Rivista, 1996, p. 686.
(8) S. BELTRAME, Sversamenti in mare di rifiuti solidi o liquidi: luci ed ombre ai "confini" tra la normativa
sulle acque e quella sui rifiuti, in questa Rivista, 2001, pp. 223 ss.
(9) D.Lgs. 152/1999, art. 2, lett. bb).
(10) Cass. pen., Sez. III, 11 maggio 2000-21 luglio 2000; similmente le decisioni 17 marzo 2000-22
maggio 2000 e 24 giugno 1999-3 agosto 1999 n. 2358.
(11) Cass. pen., Sez. III, 17 dicembre 2002-24 febbraio 2003, n. 8758, ric. C.
(12) Cass. pen., Sez. III, 29 marzo 2002, n. 1383 e 29 marzo 2000-4 maggio 2000, n. 5000.
(13) Cassazione 5000/2000 cit.
(14) La prima citazione è presa da Cass. pen., Sez. III, 31 gennaio 2003-20 maggio 2003, n. 206; la
seconda da Cass. pen., Sez. III, 11 giugno 2002-5 novembre 2002, n. 1376, in relazione alla quale si
veda in Ambiente, 2003, pp. 581 ss., le note di M. CHILOSI-M. ZALIN, La difficile distinzione tra scarichi e
rifiuti, e C. DIANI, Immissione diretta: artificialità del sistema di convogliamento dei reflui.
(15) Non è possibile entrare in questa sede in un'analisi più articolata della sentenza nel suo complesso.
Il testo completo della sentenza d'appello (Corte d'Appello di Venezia, Sez. II pen., 15 dicembre 2004),
così come quello della sentenza di primo grado (Trib. Venezia, Sez. I pen., 29 maggio 2002) sono
reperibili sul sito www.petrolchimico.it.
Ampli stralci della sentenza di primo grado sono stati riprodotti in questa Rivista, 2003, p. 119, con
commenti di F. CENTONZE e F. D'ALESSANDRO, nonché di legge PRATI.
(16) Il testo della bozza di decreto legislativo è reperibile sul sito www.comdel.it.
Archivio selezionato: Note
Condizioni e limiti al potere di ordinanza degli enti locali in materia di inquinamento
delle acque: l'individuazione dei punti di prelievo per la misurazione della
concentrazione delle sostanze inquinanti.
Foro amm. CDS 2005, 10, 2974
GABRIELE BOTTINO
SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. I fatti. - 3. Competenze e controlli nella tutela delle acque
dall'inquinamento: il quadro normativo di riferimento. - 4. Natura giuridica ed effetti dell'ordinanza
amministrativa a tutela delle risorse idriche. - 5. La misurazione dei valori-limite delle sostanze
inquinanti: l'individuazione dei punti di prelievo. - 5.1 (Segue): punti di prelievo ed immediatezza del
danno alla risorsa idrica, in osservanza ai principi di proporzionalità e precauzione. - 6. Considerazioni
conclusive e prospettive di riforma.
1. Premessa.
La tutela delle acque dalle sostanze inquinanti è materia nella quale si confrontano i progressi tecnicoscientifici conseguiti nei cicli di produzione industriale, ed i poteri di accertamento, ispezione e controllo
esercitati dalle pubbliche amministrazioni. Il caso oggetto della decisione in commento, relativo all'esatta
individuazione dei luoghi nei quali effettuare i campionamenti delle concentrazioni di sostanze pericolose
contenute nei reflui industriali, rappresenta la concreta necessità di bilanciare il diritto alla salubrità
dell'ambiente con l'iniziativa economica privata.
Tale bilanciamento consiste nell'adozione di misure interdittive, e sanzionatorie, comunque proporzionate
ed adeguate alle singole condotte inquinanti; nella verifica del rapporto, mediato o immediato, tra
controllo degli scarichi industriali e danno alle risorse idriche. Infine, e proprio in considerazione
dell'incessante progresso scientifico e tecnologico, nella ricostruzione - il più possibile completa - di un
quadro normativo in costante evoluzione.
2. I fatti.
L'amministrazione provinciale di Taranto ha emanato apposita ordinanza (1) in materia di igiene ed
inquinamento ambientale. Tale provvedimento imponeva alla società siderurgica I. s.p.a. di adottare
immediatamente, e non oltre trenta giorni dalla notificazione dell'ordinanza medesima, le misure
necessarie a ridurre l'emissione di agenti inquinanti nelle acque marine del luogo.
L'ordinanza amministrativa era motivata sugli accertamenti posti in essere dalla locale Azienda sanitaria
locale, accertamenti che erano stati condotti sui reflui prelevati direttamente in uscita dall'impianto di
produzione del carbone (cosiddetta "cokeria"), e che avevano evidenziato una presenza di selenio
(sostanza altamente inquinante) in concentrazioni superiori a quelle consentite dalle norme vigenti in
materia di tutela delle acque dall'inquinamento.
Il gruppo siderurgico I. ha impugnato l'ordinanza amministrativa innanzi al competente tribunale
amministrativo regionale il quale, con sentenza in forma abbreviata, ha accolto il ricorso,
contestualmente annullando l'ordinanza provinciale in oggetto. La provincia ha presentato il successivo
ricorso in appello, deciso dalla sentenza in commento.
L'oggetto del giudizio di appello è sostanzialmente costituito da due questioni: a) la diretta ed immediata
lesività dell'ordinanza provinciale nei confronti dell'attività dello stabilimento siderurgico; b) le modalità, i
luoghi ed i criteri di effettuazione dei prelievi idrici, allo scopo di misurare la presenza di sostanze
inquinanti in misura superiore ai valori-limite che le vigenti norme prescrivono in materia di tutela delle
acque dall'inquinamento.
Dalla verifica degli effetti immediatamente lesivi dell'ordinanza discende infatti la sussistenza
dell'interesse a ricorrere nei confronti del medesimo provvedimento. Nel merito, l'individuazione dei
criteri per la misurazione delle sostanze inquinanti costituisce il presupposto di necessaria legittimità cui
far seguire l'adozione di misure autoritative di interdizione alla prosecuzione dell'attività, ovvero di
ripristino dei valori-limite nell'inquinamento dei corpi idrici.
3. Competenze e controlli nella tutela delle acque dall'inquinamento: il quadro normativo di riferimento.
Le disposizioni che regolano la materia dell'inquinamento idrico sono ad oggi contenute nel d.lg. 11
maggio 1999 n. 152 (2). Tale provvedimento normativo, in considerazione del progresso tecnicoscientifico conseguito nella tutela delle risorse idriche, ha abrogato la precedente l. 10 maggio 1976 n.
319 (3) (la cosiddetta "Legge Merli"), ed ha introdotto nuove disposizioni di legge dirette alla tutela
complessiva delle acque, allegati tecnici e molteplici tabelle di analisi chimico-fisiche, contenenti i valori
massimi consentiti per le sostanze che inquinano le acque di superficie e le falde acquifere sotterranee.
In riferimento alla sentenza in commento assumono principale rilievo le disposizioni dedicate alle
competenze degli enti territoriali di governo (Stato, regioni, enti locali), nonché le norme che disciplinano
i controlli sulle acque che gli stabilimenti industriali riversano nelle acque cosiddette "superficiali" (mari,
laghi, fiumi).
Per ciò che concerne il primo profilo, l'art. 3, d.lg. n. 152 del 1999 - norma espressamente rubricata
"Competenze" - compie un rinvio formale alle disposizioni contenute nel d.lg. n. 112 del 1998 (4): gli art.
79 ss., di tale testo normativo dispongono infatti il trasferimento delle funzioni amministrative dallo Stato
alle regioni ed agli enti locali, nella specifica materia dell'"inquinamento delle acque". Alle province spetta
di conseguenza la tutela delle risorse idriche in relazione ai grandi stabilimenti industriali (come, nel caso
di specie, il rilevante complesso siderurgico tarantino dell'I. s.p.a.) ubicati nel medesimo territorio
provinciale; ad esse compete altresì il controllo delle sostanze inquinanti contenute nei reflui riversati nel
demanio idrico provinciale, nonché l'esercizio di poteri autoritativi di ordinanza - in specie nei casi di
necessità ed urgenza - qualora le concentrazioni delle sostanze inquinanti pericolose (e, tra queste, il
selenio) superino i valori massimi consentiti dalle norme vigenti.
Sotto altro profilo, è necessario che i controlli amministrativi sulle fonti di inquinamento idrico siano
presidiati da condizioni e regole precise, contenute in disposizioni legislative espresse: ciò in ragione della
lesività di eventuali misure interdittive dell'attività d'impresa, e di ripristino e risarcimento del danno
ambientale. A tal proposito, sin dall'originario testo della l. n. 319 del 1976, alla "regolamentazione degli
scarichi" industriali nelle acque è stata dedicata un'attenzione costante, sia per ciò che concerne i
provvedimenti autorizzatori, che in riferimento alle forme di controllo successivo.
Tali cautele sono ad oggi confermate (e rafforzate) negli art. 34 ss., d.lg. n. 152 del 1999, attraverso il
bilanciamento dell'interesse pubblico alla tutela dei corpi idrici, e delle garanzie alla libera iniziativa
economica privata; a tal fine, nel prosieguo dell'analisi, si potrà evidenziare come l'esercizio di poteri
pubblici autoritativi - nei confronti del complessivo fenomeno dell'inquinamento idrico - costituisca ad
oggi l'intervento cui ricorrere nelle sole fattispecie in cui i sistemi di depurazione, propri delle singole
organizzazioni industriali, non siano in grado di "abbattere" le elevate concentrazioni di agenti inquinanti,
anteriormente alla loro definitiva immissione nelle acque pubbliche.
4. Natura giuridica ed effetti dell'ordinanza amministrativa a tutela delle risorse idriche.
L'ordinanza con la quale la provincia ha imposto allo stabilimento industriale il rispetto delle norme in
materia di inquinamento idrico è stata adottata dal Presidente dell'amministrazione provinciale. Tale
provvedimento si qualifica dunque, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 50 comma 5, t.u. enti locali (d.lg.
n. 267 del 2000), quale ordinanza "contingibile ed urgente" in materia di "igiene pubblica" (5).
Il Consiglio di Stato giudica, in primo luogo, sulla natura giuridica e gli effetti dell'ordinanza in questione.
Ad avviso della provincia, infatti, il provvedimento - benché recante il nomen iuris di "ordinanza" - è da
qualificarsi come un atto di mera diffida a rimuovere, entro il termine massimo di trenta giorni (ed a pena
della conseguente irrogazione delle sanzioni previste dal d.lg. n. 152 del 1999), le cause
dell'inquinamento idrico. In tal senso la diffida costituirebbe pertanto un mero provvedimento
endoprocedimentale (6) - come tale non immediatamente impugnabile - all'interno del più generale
procedimento diretto a comminare, conclusivamente, le misure sanzionatorie contemplate dalle norme a
tutela delle acque dall'inquinamento.
Il Consiglio di Stato non condivide tale prospettazione. L'ordinanza provinciale, anche in considerazione
dei suoi caratteri di necessità ed urgenza (7), non costituisce un mero atto monitorio, di diffida a
rimuovere, per così dire, l'"azione inquinante". In essa, al precetto di ridurre la concentrazione delle
sostanze pericolose contenute nelle acque che fuoriescono dal grande stabilimento industriale (e si
riversano nel mare), si accompagna l'obbligo di ripristinare i valori-limite che, per ognuna di tali sostanze,
sono individuati nelle tabelle allegate al d.lg. n. 152, cit.; ne consegue, infine, l'adozione di misure
autoritative, a carattere interdittivo e sanzionatorio, ove persista la violazione delle disposizioni a tutela
delle acque dall'inquinamento.
Da tali caratteri, il giudice amministrativo esattamente ricava la concreta e diretta lesività dell'ordinanza
ambientale, e la sua conseguente ricorribilità. Al di là della circostanza che l'ordinanza costituisca dunque
l'atto conclusivo del procedimento diretto a verificare il rispetto delle norme sull'inquinamento idrico, gli
effetti immediatamente lesivi - rectius, le misure sanzionatorie collegate all'inosservanza dei precetti
imposti - sono di per sé sufficienti a fondare l'interesse ad agire del destinatario dell'ordinanza medesima.
Così risolta la questione pregiudiziale, è ora possibile procedere all'analisi del merito della controversia.
5. La misurazione dei valori-limite delle sostanze inquinanti: l'individuazione dei punti di prelievo.
Il controllo sui valori di concentrazione delle sostanze che inquinano le risorse idriche assume
costantemente una natura vincolata. Trattandosi infatti di eseguire analisi chimico-fisiche fondate su
evidenze scientifiche certe, ed in presenza di un parametro normativo prefissato in ordine agli obiettivi di
qualità delle acque, ed ai limiti di quantità delle sostanze inquinanti tollerate, l'attività amministrativa
assume i caratteri propri dei cosiddetti "accertamenti tecnici" (8). A conferma di ciò, le misure interdittive
adottate nei confronti di stabilimenti industriali che superano i limiti di inquinamento idrico consentiti,
come nel caso di specie, poggiano su adempimenti istruttori posti in essere dai locali presìdi delle Aziende
sanitarie locali. Ricevuti i risultati delle analisi, il potere amministrativo assume carattere strettamente
vincolato nell'adozione di misure interdittive (a fronte del superamento dei valori massimi di
inquinamento), ovvero nell'astensione da qualsivoglia atto autoritativo di intervento sull'attività d'impresa
(qualora questa rispetti la salubrità delle risorse idriche).
Se non assume rilevanza la misurazione in sé, ben diversa è al contrario l'importanza che riveste il punto
in cui effettuare la misurazione delle acque che gli stabilimenti industriali recapitano nei corpi idrici
superficiali e sotterranei (il cosiddetto "punto di prelievo"). Nell'individuazione del luogo della verifica ha
posto costante attenzione lo stesso legislatore, sin dall'adozione della l. n. 319 del 1976: l'art. 9 comma 3
di tale provvedimento normativo - ora abrogato dal vigente d.lg. n. 152 del 1999 - disponeva infatti che
la misurazione degli scarichi (9) avvenisse "subito a monte" del punto in cui gli scarichi medesimi si
immettono nelle acque pubbliche. Al fine di consentire l'efficace svolgimento delle analisi chimico-fisiche
sul campione prelevato, la norma imponeva ai proprietari degli stabilimenti aziendali di rendere sempre
accessibili gli scarichi, al fine di effettuare il campionamento.
Sull'applicazione di tale disposizione, sia per ciò che concerne la natura del potere amministrativo di
ispezione e campionamento, che in ordine alla precisa individuazione del punto di prelievo, si era
registrata un'attenta giurisprudenza (10).
Successivamente all'entrata in vigore dell'odierno d.lg. n. 152 del 1999, la questione del punto di prelievo
per la misurazione delle sostanze pericolose contenute negli scarichi idrici degli stabilimenti industriali si è
notevolmente complicata; ciò per effetto del testo normativo degli art. 28, comma 3 e 34 comma 4, del
medesimo d.lg. n. 152 del 1999.
Sotto questo particolare profilo, e pur tenendo in considerazione la giurisprudenza formatasi sul
precedente testo dell'art. 9, l. n. 319, la sentenza in commento figura tra le prime, e più attente,
decisioni in argomento.
L'art. 28 comma 3 primo periodo, ribadisce il principio di generale "accessibilità" per gli scarichi idrici da
assoggettare a controllo e misurazione da parte delle pubbliche autorità; viene altresì confermato che il
punto di prelievo dei reflui contenenti sostanze pericolose, in uscita dagli stabilimenti industriali, si
intende fissato "subito a monte del punto di immissione (dello scarico) in tutte le acque superficiali e
sotterranee, interne e marine, nonché in fognature, sul suolo e nel sottosuolo" (art. 28 comma 3 secondo
periodo). Tuttavia, il successivo art. 34 comma 4, specifica che - proprio in relazione alle acque reflue
industriali che contengono le sostanze pericolose, altamente inquinanti, tassativamente indicate nella
tabella 5 dell'all. 5 al medesimo d.lg. n. 152 del 1999 - "il punto di misurazione dello scarico si intende
fissato subito dopo l'uscita dallo stabilimento o dall'impianto di trattamento che serve lo stabilimento
medesimo" (il corsivo, nella preposizione disgiuntiva, sta per l'appunto a rilevare l'espressione
controversa) (11).
La disposizione sembra infatti evidenziare un potere discrezionale dell'amministrazione competente ad
effettuare il prelievo dei campioni idrici; tale campionamento può dunque essere posto in essere,
alternativamente, o nel punto in cui lo scarico industriale si riversa definitivamente nelle acque superficiali
e sotterranee, ovvero nel punto in cui i reflui industriali - prima ancora di rifluire nel corpo idrico finale
(mare, lago, fiume, falda acquifera) - fuoriescono dall'impianto di depurazione sito all'interno della
medesima azienda.
Proprio la discrezionalità insita nell'esercizio di tale attività di controllo deve essere oggetto di specifico
approfondimento.
5.1 (Segue): punti di prelievo ed immediatezza del danno alla risorsa idrica, in osservanza ai principi di
proporzionalità e precauzione.
La questione, ancor prima che sotto il profilo giuridico, può essere riguardata con la logica. È evidente
infatti che il problema non si pone per lo stabilimento industriale di piccole dimensioni, il cui ciclo
produttivo aggetta direttamente nel corpo idrico. In tale fattispecie, infatti, il controllo delle sostanze
contenute nei reflui industriali dovrà essere necessariamente compiuto nel punto in cui i reflui si
riversano, ad esempio, nel mare.
La questione è ben più complessa nell'ipotesi in cui - come nel caso di specie, ove si riscontrano impianti
depurativi lunghi alcune decine di chilometri - il sistema di depurazione di un grande stabilimento
industriale si sviluppa per tratti di condutture particolarmente estese e tra loro collegate. Sono qui
evidenti i diversi effetti cui può condurre un campionamento effettuato "a monte" dell'impianto di
trattamento del ciclo produttivo di riferimento, ovvero un prelievo effettuato direttamente prima che gli
scarichi industriali refluiscano in mare.
È peraltro logico considerare che, se ogni singolo impianto posto all'interno del ciclo produttivo rispetta i
valori-limite delle sostanze inquinanti, ne consegue che lo scarico finale non può che porsi all'interno dei
parametri chimico-fisici consentiti dalle norme a tutela delle acque dall'inquinamento. Ciò costituisce
tuttavia una misura precauzionale particolarmente onerosa, dal punto di vista economico ed
organizzativo, per l'azienda di riferimento.
Si potrebbe allora ritenere che, fatta salva l'autonomia di ogni singolo ciclo produttivo aziendale, i reflui di
ciascun impianto produttivo posto all'interno del perimetro aziendale possano comunque contenere
sostanze pericolose anche in misura superiore ai valori-limite normativamente prescritti. E che spetti al
trattamento depurativo che tali reflui subiscono all'interno del medesimo stabilimento industriale, prima
di riversarsi definitivamente nei corpi idrici finali (ad esempio, il mare), restituire scarichi che - proprio nel
punto finale di immissione - rispettano i parametri massimi di concentrazione delle sostanze pericolose.
In tale fattispecie, allora, il punto di prelievo dovrebbe essere più esattamente individuato non tanto "a
monte" del singolo impianto di trattamento, bensì pur sempre "a monte" ma del punto di immissione nel
mare.
È questa la soluzione adottata dalla sentenza in esame, attraverso l'annullamento dell'ordinanza
provinciale che - per l'appunto - si fondava su analisi chimico-fisiche effettuate sul singolo impianto
produttivo e non, viceversa, immediatamente prima dell'immissione, nel mare, dei reflui industriali.
La motivazione della sentenza si fonda sull'applicazione dei principi di precauzione (12) e proporzionalità
(13).
In ordine al principio precauzionale, dalle analisi della locale Azienda sanitaria locale, e dalla letteratura
scientifica in materia, si evidenzia infatti che la sostanza pericolosa (il selenio) i cui valori-limite
risultavano superati nel prelievo effettuato subito "a monte" dell'impianto di trattamento non è una
sostanza che - in base alle odierne acquisizioni chimiche - è possibile ridurre (rectius, "abbattere")
attraverso cicli depurativi direttamente riferiti al singolo impianto produttivo. Essa può essere viceversa
ricondotta ai valori di normale "accettabilità" soltanto se adeguatamente trattata nella complessiva
organizzazione del ciclo dei reflui industriali, attraverso la commistione degli scarichi contenenti il selenio
con altre acque comunque derivanti dal ciclo produttivo aziendale. Ciò consente, dopo un lungo
trattamento depurativo di miscelazione, di conseguire i valori-limite della sostanza pericolosa (e venefica)
soltanto nel momento in cui lo stabilimento industriale riversa infine in mare i propri reflui di produzione.
È qui pertanto, proprio nel punto di immissione in mare, che è possibile verificare l'adeguatezza
complessiva del sistema di depurazione industriale applicato.
Per ciò che concerne la proporzionalità tra le misure interdittive e sanzionatorie comminate nell'ordinanza
ambientale, e la gravità della condotta inquinante, tale adeguatezza non sussiste ove i reflui industriali
non rechino un danno immediato alle risorse idriche. Ciò si verifica proprio nel caso di specie, dal
momento che il superamento dei valori limite di concentrazione della sostanza pericolosa avviene soltanto
all'interno dello stabilimento industriale; non avviene viceversa nel punto di immissione dei reflui nelle
acque del mare, ove il mancato rispetto dei valori-limite è invece idoneo a causare un danno diretto ed
immediato alla risorsa idrica. Esattamente, ancora sotto questo profilo, la decisione in commento rileva
che l'amministrazione provinciale - ove avesse ritenuto l'impianto di produzione del carbone quale
impianto funzionalmente autonomo - avrebbe dovuto preventivamente (e proporzionatamente) imporre
allo stabilimento industriale in questione la separazione di tale scarico dagli altri reflui industriali prodotti,
in applicazione della disposizione normativa che espressamente consente la regolamentazione di appositi
"scarichi parziali" ed autonomi (art. 34 comma 4, d.lg. n. 152 del 1999).
Da ciò consegue la definitiva fissazione del punto di prelievo immediatamente prima del riversamento
degli scarichi in mare (poichè è qui che si evidenzia concretamente il nesso di causalità tra condotta e
danno ambientale) e non, al contrario, all'interno del ciclo produttivo aziendale (ove il danno è ancora del
tutto potenziale).
6. Considerazioni conclusive e prospettive di riforma.
Sulla base della delega contenuta nella l. 15 dicembre 2004 n. 308 (14), è ad oggi in fase di conclusiva
redazione il testo normativo di "riordino, coordinamento ed integrazione" delle vigenti disposizioni
legislative a tutela dell'ambiente, ivi comprese le norme del d.lg. n. 152 del 1999, più volte richiamate, a
tutela delle acque dall'inquinamento.
Le prime formulazioni dei nuovi testi normativi sono state recentemente rese disponibili, e presentate, dal
competente Ministero alle associazioni di protezione ambientale. È dunque necessario, seppure attraverso
una sola "prima lettura", dar conto delle prospettive di riforma di disposizioni che - proprio in riferimento
all'individuazione dei punti di prelievo e campionamento - sembrano recepire gli indirizzi fatti propri dalla
decisione in commento.
In riferimento agli scarichi industriali di sostanze pericolose, trova conferma il principio secondo il quale il
prelievo dei campioni dei reflui industriali deve essere effettuato nel punto d'immissione definitiva nel
corpo idrico superficiale o sotterraneo. Ciò in virtù della diretta lesività del mancato rispetto dei valorilimite di emissioni inquinanti, ove tali valori siano superati nel contatto immediato con la risorsa
ambientale.
Tuttavia, ampia attenzione viene riservata alla possibilità di fissare metodologie di verifica, e specifici
limiti di emissioni, in relazione a singoli stabilimenti industriali. Ciò costituisce diretta conseguenza
dell'introduzione - nel nostro ordinamento - dell'istituto (di derivazione comunitaria) dell'autorizzazione
integrata ambientale (15). Ove, infatti, i complessi produttivi siano destinatari dell'atto autorizzatorio
integrato, così definito in virtù di complessive misure di prevenzione relative sia all'inquinamento idrico,
che alle altre forme di inquinamento ambientale (aria, suolo e rifiuti), è dunque a tale atto che è rimessa
sia l'individuazione dei valori massimi di emissioni inquinanti gli scarichi industriali, che la fissazione delle
metodologie di prelievo e campionamento, di volta in volta utilizzate.
NOTE
(1) In generale, sulle ordinanze degli enti locali, con particolare riferimento alla necessità di distinguere anche in relazione alla differente competenza alla loro emanazione - le ordinanze contingibili ed urgenti
(riservate alla competenza del sindaco o del presidente della provincia), dalle ordinanze cosiddette
"ordinarie" (la cui emanazione spetta ai dirigenti dell'ente locale), cfr., Testo unico degli enti locali, a cura
di V. ITALIA, Milano, 2000, I, 547 ss.; R. CARPINO, L'ordinamento degli enti locali, a cura di M.
BERTOLISSI, Bologna, 2002, 277 ss., sub art. 50.
(2) In attuazione delle direttive comunitarie 91/271/CEE (concernente il trattamento delle acque reflue
urbane), e 91/676/CEE (in materia di protezione delle acque dall'inquinamento provocato da nitrati
provenienti da fonti agricole), tale decreto legislativo disciplina il complesso regime della tutela delle
risorse idriche dall'inquinamento. In argomento, per una disamina dell'ampio ed articolato provvedimento
normativo, sia consentito rinviare a G. BOTTINO, I servizi idrici, Milano, 2002, passim; F. FONDERICO, La
tutela dell'ambiente, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di S. CASSESE, Milano, 2003, parte
speciale, II, 2015 ss. e, ivi, nell'ampia bibliografia citata, in particolare G. AMENDOLA, Le nuove
disposizioni contro l'inquinamento idrico, Milano, 2001; F. CERVETTI SPRIANO, C. PARODI, La nuova
tutela delle acque, Milano, 2001; La tutela delle acque dopo il d.lg. n. 152 del 1999, a cura di G. COCCO,
Torino, 2000; P. DELL'ANNO, La tutela delle acque dall'inquinamento, Rimini, 1999.
(3) La l. n. 319 del 1976 - espressamente rubricata "Norme per la tutela delle acque dall'inquinamento" ha costituito il primo intervento legislativo organico nella materia dell'inquinamento idrico, ben prima
dell'adozione delle successive direttive comunitarie in materia. Sulla rilevanza delle disposizioni in essa
contenute, F. GIAMPIETRO, P. GIAMPIETRO, Commento alla legge sull'inquinamento delle acque e del
suolo, Milano, 1981, passim.
(4) Per un commento agli art. 79 ss., d.lg. n. 112 del 1998 e, più in generale, alle funzioni dello Stato,
delle regioni e degli enti locali nella materia della tutela delle risorse idriche dall'inquinamento, Lo Stato
autonomista: funzioni statali, regionali e locali nel decreto legislativo n. 112 del 1998 di attuazione della
legge Bassanini n. 59 del 1997, a cura di G. FALCON, Bologna, 1998, passim.
(5) Secondo la norma di cui all'art. 50 comma 5, d.lg. n. 267 del 2000 (t.u. enti locali), i presupposti
della "contingibilità" e della "urgenza" si presumono sussistenti nei casi di emergenze sanitarie o di igiene
pubblica, aventi carattere esclusivamente locale.
(6) In giurisprudenza, tra i soli atti interni al procedimento nei cui confronti è stata ammessa la diretta
impugnazione giurisdizionale, si annoverano ad esempio i cosiddetti "atti soprassessori" i quali, rinviando
ad un avvenimento futuro ed incerto (sia nell'an che nel quando) il soddisfacimento dell'interesse
pretensivo del privato, determinano un arresto del procedimento per un tempo indeterminato (in tal
senso, ex plurimis, da ultimo, Cons. St., sez. VI, 11 marzo 2004 n. 1246, in questa Rivista, 2004, 911
ss.); di recente in dottrina, per un'ampia ed approfondita disamina del tema, A. SCOGNAMIGLIO, Il diritto
di difesa nel procedimento amministrativo, Milano, 2004, in specie 94 ss.
(7) È opportuno rilevare come, per espressa statuizione normativa (art. 7 comma 1, l. TAR), la cognizione
sulle ordinanze contingibili ed urgenti degli enti locali sia devoluta alla giurisdizione "anche in merito" del
giudice amministrativo. In dottrina, per le difficoltà sistematiche comunque originate dall'interpretazione
della disposizione in oggetto, C. MIGNONE, Commento all'art. 7 l. TAR, in Commentario breve alle leggi
sulla giustizia amministrativa, a cura di A. ROMANO, Padova, 2001, 610 ss.
(8) In dottrina, tra le tradizionali ricostruzioni dell'esercizio della discrezionalità tecnica della pubblica
amministrazione, anche in relazione alla necessità di individuare l'autonoma categoria concettuale dei
meri "accertamenti tecnici", P. VIRGA, Appunti sulla cosiddetta discrezionalità tecnica, in Jus, 1957, 95; V.
BACHELET, L'attività tecnica della pubblica amministrazione, Milano, 1967; N. DANIELE, Discrezionalità
tecnica della pubblica amministrazione e giudice amministrativo, in Scritti in memoria di A. Giuffrè, III,
Milano, 1967; C. MARZUOLI, Potere amministrativo e valutazioni tecniche, Milano, 1985; V. OTTAVIANO,
Giudice ordinario e giudice amministrativo di fronte agli apprezzamenti tecnici della pubblica
amministrazione, in Studi Bachelet, II, Milano, 1984, 419 ss.; A. ANDREANI, La valutazione del fatto nel
giudizio amministrativo e gli apprezzamenti tecnici della pubblica amministrazione nel pensiero di
Federico Cammeo, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 22, 1993, Milano,
475 ss.; D. DE PRETIS, Valutazione amministrativa e discrezionalità tecnica, Padova, 1995; Potere
discrezionale e controllo giudiziario, a cura di V. PARISIO, Milano, 1998; e, di recente, A. TRAVI, Il giudice
amministrativo e le questioni tecnico-scientifiche: formule nuove e vecchie soluzioni, in Dir. pubbl., 2,
2004, 439 ss.
(9) La l. n. 319 del 1976 non conteneva una espressa definizione della nozione di "scarico"; a tale lacuna
ha posto rimedio, sebbene a distanza di molti anni, l'art. 2 comma 1, lett. bb), d.lg. n. 152, qualificando
"scarico" qualsiasi immissione diretta, tramite condotta, di acque reflue liquide, semiliquide e comunque
convogliabili nelle acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla
loro natura inquinante, anche se sottoposte ad un preventivo trattamento di depurazione. In dottrina
sull'argomento, con attenta considerazione della giurisprudenza comunitaria, F. FONDERICO, "Scarichi",
"emissioni diffuse" e "obiettivi di qualità" dell'ambiente idrico nell'interpretazione della Corte di giustizia,
in Dir. pubbl. comp. eur., 2000, I, 313 ss.
(10) In ordine all'applicazione dell'art. 9, l. n. 319 del 1976, ai soli "scarichi regolamentari", con la
conseguenza che - in presenza di scarichi non autorizzati - persisteva un più ampio potere amministrativo
discrezionale nell'individuazione del punto di misurazione, Cass. pen., sez. III, 23 marzo 1999 n. 5863, in
Riv. pen., 2000, 1027; secondo Id., sez. III, 7 maggio 1997 n. 5734, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1997,
1352, l'art. 9 si riferiva anche agli scarichi idrici "occasionali ed episodici"; sulla natura vincolata del
potere di individuare il punto di prelievo, Cass. pen., sez. III, 10 novembre 1993, in Riv. pen., 1994, 272;
"la disposizione secondo cui la misurazione degli scarichi va fatta subito a monte del punto di immissione
nei corpi ricettori, ha lo scopo di assicurare che la potenzialità inquinante del refluo sia accertata prima
che questo, per effetto di altre immissioni di sostanze inquinanti, possa subire modifiche e alterazioni
qualitative che rendono incerta la sua composizione chimica ed i suoi caratteri fisici originari, nonché
l'entità della concentrazione in esso di dette sostanze" (così testualmente, in ordine alla ratio legis
dell'art. 9, Cass. pen., sez. III, 9 luglio 1990, in Cass. pen., 1992, 157).
(11) La differenza tra l'originario testo dell'art. 9 comma 3, l. n. 319 del 1976 (norma che prescriveva di
effettuare sempre, ed in ogni caso, la misurazione dello scarico subito a monte del punto di immissione in
fognatura o negli altri corpi recettori), e l'art. 28 comma 3 dell'odierno d.lg. n. 152, è attentamente
considerata da Trib. Milano 11 novembre 1999, in Foro ambr., 2000, 228.
(12) Di recente, per un attento ed approfondito studio (anche in prospettiva storica e comparata) sul
principio di precauzione, F. DE LEONARDIS, Il principio di precauzione nell'amministrazione di rischio,
Milano, 2005, passim.
(13) In generale, tra gli studi dedicati al tema, A. SANDULLI, La proporzionalità dell'azione
amministrativa, Padova, 1998; D.U. GALETTA, Principio di proporzionalità e sindacato giurisdizionale nel
diritto amministrativo, Milano, 1998.
(14) Di recente, per un commento al testo della delega, anche in riferimento alle prime bozze dei decreti
delegati, S. GRASSI, L'attuazione della legge delega per il riordino, il coordinamento e l'integrazione della
legislazione in materia ambientale: criteri pregiudiziali, in www.federalismi.it, 2005 n. 17.
(15) Cfr. art. 7 ss., d.lg. 18 febbraio 2005 n. 59, recante l'attuazione della direttiva comunitaria 96/61/CE
relativa alla prevenzione e riduzione integrate dell'inquinamento.
Archivio selezionato: Dottrina
Standard di qualità dell'ambiente acquatico per le sostanze pericolose e scarichi
industriali: il Ministero dell'ambiente tenta di correggere il tiro
Riv. giur. ambiente 2005, 02, 255
Teodora Marocco (*)
1. Il D.M. 367/2003. 2. La direttiva 27 maggio 2004.
L'emanazione del D.M. 6 novembre 2003, n. 367 ("Regolamento concernente la fissazione di standard di
qualità nell'ambiente acquatico per le sostanze pericolose, ai sensi dell'art. 3, comma 4, del D.Lgs. 11
maggio 1999, n. 152") ha suscitato non poche perplessità, parte delle quali sono state recentemente
chiarite da parte del Ministero dell'ambiente.
1. Il D.M. 367/2003.
Il D.M. 367/2003 (1) risulta emesso, come indicato anche dal titolo stesso, ai sensi dell'art. 3, comma 4,
del D.Lgs. 152/1999. Tale comma, in particolare, prevede che le prescrizioni tecniche necessarie
all'attuazione del D.Lgs. 152/1999 (2) siano stabilite negli allegati e in regolamenti adottati ai sensi del
l'art. 17, comma 3, della legge 400/1988 eventualmente anche a modifica degli allegati stessi qualora
sopravvenute esigenze o nuove acquisizioni scientifiche o tecnologiche lo rendano opportuno.
Dal preambolo del D.M. 367/2003 si ricava inoltre che il Ministero dell'ambiente ha emesso il decreto al
fine di dare esecuzione alla sentenza della Corte di Giustizia del 1° ottobre 1998, con la quale lo Stato
italiano è stato condannato per non aver adottato i programmi di riduzione dell'inquinamento provocato
da certe sostanze pericolose.
L'art. 1 del D.M. 367/2003 definisce, mediante rinvio all'allegato A, gli standard di qualità in matrice
acquosa e nei sedimenti delle acque marino-costiere, lagunari e degli stagni costieri. L'articolo indica poi
le scadenze temporali entro le quali tali standard devono essere conseguiti. Nel caso in cui mediante
l'applicazione delle migliori tecniche disponibili a costi sostenibili, non sia possibile raggiungere gli
standard così fissati, l'autorità competente può fissare i valori di concentrazione residui.
Al fine di permettere il raggiungimento degli standard di qualità, il D.M. 367/2003 apparentemente
modifica, peraltro con modalità alquanto discutibili dal punto di vista della tecnica legislativa, l'attuale
punto 1.2 dell'allegato 5 del D.Lgs. 152/1999. Il punto 1.2 contiene infatti la disciplina relativa ai limiti di
emissione circa le acque reflue industriali con particolare riferimento al necessario rispetto dei limiti
tabellari o di quelli più restrittivi fissati dalle regioni, al controllo di conformità degli scarichi, al relativo
campionamento ed alla possibilità in capo alle regioni stesse di stabilire limiti di emissione in massa
nell'unità di tempo (kg/mese).
L'allegato B del D.M. 367/2003 aggiunge una serie di previsioni non soltanto inerenti i controlli, bensì
sostanziali sulla disciplina dello scarico. Infatti, esso prevede l'adozione delle migliori tecniche disponibili,
l'installazione dei misuratori di portata e di campionatori in automatico, il rispetto dei valori limite di
emissione allo scarico a piè di impianto e la separazione degli scarichi di acque di raffreddamento e delle
acque di prima pioggia.
Da quanto sopra illustrato, il D.M. 367/2003 appare opinabile sotto due profili: in primo luogo non
sembra che il contenuto del decreto sia congruente rispetto alle condizioni poste a fondamento del potere
regolamentare ministeriale quanto alla modifica degli allegati del D.Lgs. 152/1999. Quest'ultimo infatti fa
riferimento o a prescrizioni tecniche necessarie all'attuazione del decreto o a sopravvenute esigenze o
nuove acquisizioni scientifiche o tecnologiche. Il D.M. 367/2003 non indica quali sarebbero le esigenze
scientifiche o tecnologiche, né il relativo contenuto può essere considerato alla stregua di una
prescrizione tecnica necessaria per attuare il D.Lgs. 152/1999.
Inoltre, quand'anche vi fossero delle giustificazioni scientifiche o tecnologiche effettivamente fondanti il
potere regolamentare ministeriale, comunque le misure dettate con D.M. dovrebbero essere proporzionali
rispetto alle predette esigenze. Invece, la disciplina degli scarichi di acque reflue industriali, così come
apparentemente modificata dal D.M. 367/2003, risulta alquanto, ed ingiustificatamente, restrittiva.
Il fatto che il Ministero dell'ambiente abbia ecceduto rispetto ai propri poteri regolamentari è
ulteriormente confermato dal rilievo che l'allegato B del D.M. 367/2003 ha, di fatto, dettato una disciplina
contrastante rispetto agli articoli del D.Lgs. 152/1999 relativi agli scarichi industriali e senza che tale
ultimo decreto contenga alcuna possibilità in tale senso (3). L'allegato B del D.M. 367/2003 imponendo il
rispetto dei limiti a piè di impianto, per esempio, ha di fatto eliminato il relativo potere discrezionale in
capo all'autorità competente e previsto dall'art. 34 del D.Lgs. 152/1999. Inoltre, del tutto
immotivatamente, l'allegato B del D.M. 367/2003, contrariamente al citato art. 34, non tiene in
considerazione l'eventualità, peraltro affatto remota in caso di scarichi industriali, che gli scarichi a piè
d'impianto siano oggetto di successivo trattamento da parte di un depuratore e ciò prima dello scarico
finale.
Il D.M. 367/2003 appare altresì contraddittorio sotto vari aspetti. Esso infatti grava le società titolari di
scarichi industriali di una serie di obblighi economicamente onerosi (si pensi alla separazione delle acque
di processo da quelle di raffreddamento, la posa in opera di misuratori di portata e campionatori ecc.)
senza al contempo indicare con chiarezza il momento in cui tali obblighi diventano cogenti e prevedere
una disciplina transitoria per il periodo necessario all'adeguamento. Al contempo tali previsioni si pongono
in contrasto con quanto stabilito del D.Lgs. 372/1999 (4) (IPPC), senza prevedere alcuna forma di
coordinamento.
Infine, il D.M. 367/2003 si pone in contrasto anche con la normativa comunitaria applicabile, pur se in
teoria esso di fonderebbe proprio sull'esigenza di dare esecuzione alla sentenza della Corte di Giustizia
del 1° ottobre 1998, di condanna all'Italia per la mancata adozione di programmi volti alla riduzione
dell'inquinamento da certe sostanze pericolose. Sul punto bisogna infatti considerare che la direttiva
2000/60/CE contiene, all'art. 16, la procedura per l'adozione di misure specifiche per la riduzione
dell'inquinamento idrico da sostanze pericolose. Al fine della fissazione degli standard di qualità è previsto
un articolato lavoro da parte della Commissione che deve predisporre e presentare le relative proposte di
standard. Nel frattempo l'art. 16 prevede una disciplina transitoria relativamente alle sostanze incluse
negli elenchi di sostanze prioritarie.
In particolare, per quanto riguarda le sostanze incluse nel primo elenco delle sostanze prioritarie, gli Stati
membri, in assenza di un accordo a livello comunitario entro sei anni dall'entrata in vigore della direttiva,
istituiscono standard di qualità ambientale per tutte le acque superficiali e stabiliscono controlli delle fonti
principali di tali scarichi. Per le sostanze incluse nell'elenco delle sostanze prioritarie successivamente, gli
Stati membri, in assenza di un accordo a livello comunitario, intraprendono tale azione cinque anni dopo
l'inclusione nell'elenco. È dunque di tutta evidenza che con il D.M. 367/2003, lo Stato italiano è venuto
meno alle previsioni di cui alla direttiva 2000/60/CE così come integrata anche dalla decisione
2455/2001/CE, istitutivo dell'elenco di 33 sostanze pericolose prioritarie peraltro espressamente
considerate dal D.M. 367/2003 , per le quali gli Stati membri dovevano astenersi per almeno 6 anni
dall'entrata in vigore della direttiva stessa dal dettare normative specifiche, e ciò appunto in attesa di
quella comunitaria.
2. La direttiva 27 maggio 2004.
Come illustrato, il D.M. 367/2003 presenta svariate problematiche non solo giuridiche ma anche
applicative per i gestori degli impianti che rientrano nel relativo campo di applicazione. Proprio le
preoccupazioni suscitate devono aver indotto il Ministero dell'ambiente a svolgere alcune considerazioni
interpretative sui punti più delicati del D.M. stesso.
Con la direttiva 27 maggio 2004 (5), il Ministero dell'ambiente ha dettato alcune disposizioni
interpretative che di fatto tentano di "moderare" quanto contenuto nel D.M. 367/2003. Infatti, precisa il
Ministro che, anzitutto, il D.M. 367/2003 deve essere interpretato ed applicato nel rispetto del quadro
normativo costituito dal sovraordinato D.Lgs. 152/1999. L'ambito di applicazione del D.M. 367/2003 viene
poi circoscritto ai soli stabilimenti che svolgono attività che comportano la produzione, la trasformazione
o l'utilizzazione delle sostanze pericolose e nei cui scarichi sia accertata la presenza di tali sostanze in
quantità o concentrazioni superiori ai limiti di rilevabilità delle metodiche analitiche disponibili.
Più sorprendente è però il prosieguo della direttiva posto che l'obbligo dell'autorità di "comunque" definire
"limiti di emissione più restrittivi" rispetto a quelli fissati dalla normativa generale diventa una facoltà da
esercitarsi tenendo conto della tossicità, della persistenza e della bioaccumulazione della sostanza
considerata nell'ambiente. Così interpretata la disposizione nulla aggiunge rispetto a quanto già indicato
dal D.Lgs. 152/1999 all'art. 34 (6).
Inoltre, mentre il D.M. 367/2003 prevede che a piè d'impianto vi sia il rispetto dei limiti allo scarico, la
direttiva interpretativa precisa che a piè d'impianto o aggiunge rispetto al D.M. all'uscita dell'impianto di
trattamento, si intende fissato il punto di misurazione (cosa diversa questa evidentemente dal pretendere
anche il rispetto di un limite). Sempre la direttiva, conferma, in totale contraddizione con quanto
contenuto nel D.M. 367/2003 che invece prevedeva un obbligo di legge, che la separazione degli scarichi
di processo da quelli delle acque di raffreddamento e l'avvio separato delle acque di prima pioggia
possono essere disposti dall'autorità competente, così come peraltro già previsto dal D.Lgs. 152/1999.
Tali eventuali obblighi, se imposti dall'autorità, devono essere scaglionati per permettere ai titolari delle
attività da cui originano gli scarichi i tempi di adeguamento necessari.
Infine, qualora l'interpretazione sopra fornita non fosse sufficientemente chiara, la direttiva, da ultimo,
ribadisce che "la scelta se attenersi o meno alle indicazioni riportate nell'Allegato B [del D.M. 367/2003]
rientra nelle facoltà delle autorità competenti", cosa questa già integralmente prevista nel D.Lgs.
152/1999. Tale scelta discrezionale dell'autorità, da introdursi in forma di prescrizione nelle eventuali
autorizzazioni allo scarico, "dovrà essere adeguatamente motivata sulla base delle indicazioni contenute
nel piano regionale di tutela" delle acque.
Anche il dubbio di contrasto con la legittimità del D.M. 367/2003 con la direttiva CE 2000/60 è
brillantemente superato da parte del Ministero sulla base delle considerazione che eventuali limiti o
disposizioni più restrittive possono essere imposte dalle autorità competenti nell'esercizio delle proprie
potestà amministrative, senza che al riguardo vi sia alcun obbligo discendente direttamente dalla legge o
dal D.M. 367/2003. Peraltro, precisa sempre il Ministero, la normativa sostanziale attualmente vigente
sarà modificata se del caso quando si tratterà di recepire la direttiva CE 2000/60 stessa.
Conclusivamente, con la direttiva in commento, il Ministero dell'ambiente si "rimangia" in via
interpretativa la maggior parte degli obblighi in materia di scarico di sostanze pericolose introdotte con il
D.M. 367/2003, peraltro di assai dubbia legittimità, e conferma pienamente quanto già disposto dal
D.Lgs. 152/1999. Rimangono alcune perplessità per quanto non preso in considerazione dalla direttiva
interpretativa come, per esempio, il riferimento all'obbligo di adozione delle migliori tecniche disponibili
per la eliminazione o riduzione delle sostanze pericolose presenti negli scarichi e il rispetto dei limiti a piè
di impianto. È da ritenersi tuttavia che in considerazione del generale richiamo al D.Lgs. 152/1999 anche
tali obblighi debbano essere interpretati come una possibile prescrizione che l'autorità competente possa
imporre in sede di autorizzazione agli scarichi.
La direttiva interpretativa, conclusivamente, ha il pregio di risolvere gli anzidetti dubbi sulla legittimità del
D.M. 367/2003, ma sarebbe stata senz'altro auspicabile una maggior ponderazione del contenuto del
D.M. stesso fin dalla sua emanazione anche per una maggior certezza sulle azioni ed interventi da
intraprendere da parte dei gestori degli impianti originanti scarichi contenenti sostanze pericolose.
NOTE
(1) Pubblicato in G.U. 8 gennaio 2004, n. 5. Il testo del decreto è riportato anche su Ambiente, 2004, p.
253.
(2) Sul D.Lgs. 152/1999, recentemente, vedi A. GRATANI, In tema di inquinamento idrico. La situazione
italiana a confronto con quella degli altri Paesi comunitari in materia di inquinamento idrico, in questa
Rivista, 2002, p. 501; G. BOCCI, Superamento dei limiti tabellari e successione di norme in materia di
tutela delle acque dall'inquinamento, in Dir. giur. agraria, 2002, p. 54; G. EQUIZI, La riformulazione del
reato di scarico con superamento dei limiti tabellari e successione di norme penali nel tempo, in Giur. it.,
2003, p. 986; L. RAMACCI, I reati ambientali ed il principio di offensività, in Giur. merito, 2003, p. 1048;
A.L. VERGINE, Reati contro l'ambiente. Inquinamento idrico, in Riv. trim. dir. pen. economia, 2002, p. 445;
F. BENCIVENGA, Gli scarichi extra-tabellari nella nuova disciplina sulle acque, tra depenalizzazione e regime
transitorio, in Urb. e app., 2002, p. 978.
(3) Occorre ricordare che il D.M. 367/2003 risulta emanato in base alla disciplina di cui all'art. 17, comma
3, della legge 400/1988. Tale articolo non conferisce un potere generale di emanare regolamenti ai
ministri ma prevede che di volta in volta sia la legge, od atto ad esso equiparato, a conferire tale potere.
Nel caso di specie, l'art. 3, comma 4, del D.Lgs. 152/1999 prevede la possibilità di emanazione di
regolamenti solo per adeguare gli allegati e non anche gli articoli veri e propri.
(4) Pubblicato in G.U. 26 ottobre 1999, n. 252. In argomento cfr. L. TRICOMI, Attuazione della direttiva
96/61/CE relativa alla prevenzione e riduzione integrate dell'inquinamento (commento al D.Lgs. 4 agosto
1999, n. 372), in Guida al dir., 1999, fsc. 45, p. 24; M. GORI, Attuata la direttiva sulla prevenzione e
riduzione integrate dell'inquinamento, in ambiente, 1999, p. 1117; M. MEDUGNO, Il recepimento da parte
dell'Italia della direttiva 96/61 (c.d. IPPC), in RivistAmbiente, 2001, p. 1100; e mi sia permesso il rinvio
T. MAROCCO, Direttiva IPPC e implementazione in Italia, in questa Rivista, 2004, p. 35.
(5) Pubblicata in G.U. 14 giugno 2004, n. 137.
(6) Prevede infatti l'art. 34 del D.Lgs. 152/1999 che "tenendo conto della tossicità, della persistenza e
della bioaccumulazione della sostanza considerata nell'ambiente in cui è effettuato lo scarico, l'autorità
competente in sede di rilascio dell'autorizzazione può fissare, in particolari situazioni di accertato pericolo
per l'ambiente anche per la coopresenza di altri scarichi di sostanze pericolose, valori-limite di emissione
più restrittivi di quelli fissati ai sensi dell'art. 28, commi 1 e 2".
(*) Dottore di ricerca in Diritto costituzionale e avvocato in Milano.
Archivio selezionato: Dottrina
Il recepimento della direttiva comunitaria sulle acque (2000/60): profili istituzionali
di un nuovo governo delle acque(*)
Riv. giur. ambiente 2004, 02, 209
PAOLO URBANI
1. Il contesto legislativo. - 2. L'inattuazione delle scelte legislative. - 3. Titolo V e distribuzione dei poteri.
- 4. Autorità di distretto e piani di gestione. - 5. Concessioni di derivazione e bilancio idrico.
1. Il contesto legislativo.
L'analisi degli aspetti istituzionali in tema di risorse idriche non può che evocare il concetto di "governo
delle acque" sotto il profilo dei suoi usi, della loro difesa dagli inquinamenti, della difesa dalle acque.
Si tratta di discipline assai risalenti contenute nella legislazione dei primi del Novecento poi riunita nel
T.U. del 1933, via via integrata in rapporto alle varie esigenze - piano generale degli acquedotti (1962),
piani di risanamento delle acque (L. 319/1976) - per arrivare alle L. 183/1989 e 36/1994 che allargano lo
sguardo alla programmazione generale degli usi, alla salvaguardia delle aspettative delle generazioni
future, al risparmio ed al rinnovo della risorsa ai fini della sostenibilità ambientale.
Oggi la politica e la disciplina delle acque non sono più considerate parte a sé, viste come un tempo nella
logica del privilegio degli usi produttivi della risorsa ma fanno parte integrante della politica dell'ambiente
secondo gli indirizzi delle politiche comunitarie.
Cosicché pur essendo la nostra legislazione nazionale specie quella più recente - si allude soprattutto alla
L. n. 183 e alla L. n. 36 - ancorata ad una visione di ampio respiro sulla base di principi fondanti assai
moderni e condivisibili, l'ordinamento comunitario ne arricchisce i contenuti introducendo il principio di
precauzione, quello dell'azione preventiva, della correzione, del recupero dei costi dei servizi idrici
compresi quelli ambientali e delle risorse, del principio chi inquina paga.
Ma come sappiamo la politica comunitaria, attraverso la direttiva 2000/60 ed i numerosi atti ad essi
collegati (1), compie un salto di qualità assai rilevante guardando alle acque in modo unitario e circolare il ciclo integrato dell'acqua - sia di quelle superficiali sia di quelle sotterranee nonché di quelle marine, al
fine di assicurarne un uso sostenibile, equilibrato ed equo basato sull'intervento pubblico nell'economia
idrodipendente (2). Siamo di fronte cioè ad un diritto europeo dell'acqua (3) che impone regole generali
agli ordinamenti interni, ai poteri pubblici, ai produttori ed ai consumatori.
Visti in quest'ottica, il bene pubblico acqua e la sua disciplina incidono trasversalmente sulle molteplici
discipline delle attività umane (dal governo del territorio, allo sviluppo produttivo, all'agricoltura)
fungendo da catalizzatore delle politiche connesse con quelle discipline, così da divenire sempre più
un'invariante del sistema economico e sociale.
2. L'inattuazione delle scelte legislative.
Se si pone mente a queste riflessioni che considerano l'acqua come risorsa finita e come l'incipit dello
sviluppo (4) il governo delle acque implica il coinvolgimento di una pluralità di attori dal centro alla
periferia, pubblici e privati, così come una pluralità di funzioni pubbliche riguardano i profili della
conoscenza prima, della programmazione poi, della direzione o indirizzo, della pianificazione, della
gestione e del controllo.
Sono in realtà profili istituzionali ampiamente consolidati dalla legislazione dell'89 e del '94 ribaditi in ogni
convegno, ma in gran parte inattuati.
Oggi la direttiva 2000/60 ci trova quindi impreparati poiché l'ordinamento comunitario impone - come
sappiamo - una visione prospettica onnicomprensiva del tema acqua, mentre ancor oggi nel nostro
sistema, dal punto di vista dell'organizzazione pubblica, vi è non solo una frammentazione dei soggetti e
delle competenze nell'ambito di funzioni mal distribuite ma vi è anche una separatezza, sancita dalla L.
36/1994, tra usi delle acque per il consumo umano - per intendersi il servizio idrico integrato di cui all'art.
4, lett. f), L. 36/1994 - e gli altri usi plurimi delle acque destinate ad usi lato sensu produttivi (irrigui,
industriali ecc.) (artt. 27-30).
A tale proposito si possono citare ad es. a livello d'apice la separazione di funzioni tra gli aspetti della
tutela e programmazione delle acque di competenza del Ministero dell'ambiente e la realizzazione delle
reti idriche di competenza del Ministero infrastrutture, oppure l'incerta collocazione e le funzioni dei
servizi tecnici nazionali oggi riunificati nell'APAT (con l'obliterazione del servizio geologico nazionale) o
ancora l'assenza di poteri autoritativi del Comitato per la vigilanza sull'uso delle risorse idriche (art. 21, L.
36/1994), così come l'inattuazione - ai sensi dell'art. 89 del D.Lgs. 112/1998 - della cosiddetta "gestione
del demanio idrico" che riguarda il profilo del rilascio delle concessioni di derivazione d'acqua pubblica, la
ricerca, estrazione e utilizzazione delle acque sotterranee nonché la determinazione dei canoni e relativi
proventi - funzioni di cui finora le Regioni non si sono avvalse appieno e che richiederebbero invece una
riconsiderazione complessiva degli usi plurimi delle acque -; gli unici interventi regionali in questo campo
si sono ridotti al mero decentramento del rilascio dei provvedimenti concessori a livello provinciale.
Ma le inattuazioni del dettato legislativo possono rintracciarsi anche solo scorrendo l'art. 4 della L.
36/1994 che prevede la riserva all'amminstrazione centrale delle seguenti funzioni:
- censimento e monitoraggio delle risorse idriche (di cui parla anche la direttiva 2000/60);
- criteri sulla redazione dei bilanci idrici e disciplina dell'economia idrica;
- metodi e regole per determinare il minimo deflusso vitale;
- direttive sulla gestione del demanio idrico;
- linee di programmazione degli usi plurimi delle acque;
- revisione e aggiornamento del piano generale degli acquedotti.
Nonostante il D.P.C.M. 4 marzo 1996, "Disposizioni in materia di risorse idriche", disponga in merito al
contenuto di questi complessi adempimenti tecnico-amministrivi, a parere di molti addetti ai lavori, la loro
concreta attuazione è rimasta quasi completamente inattuata; disposizioni, in qualche caso assai carenti
sotto il profilo tecnico, che integrano quelle assai risalenti che furono emanate dopo la L. 319/1976 da
parte del Comitato interministeriale per la tutela delle acque dall'inquinamento del 4 febbraio 1977.
Ma non mancano altri provvedimenti che dimostrano una particolare sensibilità del legislatore nazionale,
ad esempio, sul tema della salvaguardia delle acque dall'inquinamento: ci si riferisce al D.Lgs. 152/1999
(5) che - cosa assai rara nel panorama degli adeguamenti del nostro ordinamento ai dettati comunitari costituisce per alcuni aspetti già un'anticipazione della direttiva 2000/60, intervenendo sul problema della
garanzia del minimo deflusso vitale, sulla connessa revisione delle concessioni di derivazione senza
indennizzo, sulla previsione dei piani di tutela ecc.
Lascia invece perplessi il progetto di legge di delega ambientale di imminente approvazione parlamentare
che non sembra cogliere le novità della direttiva 2000/60 - che richiede impegni a breve - e che prevede
tra l'altro, in materia di pianificazione di bacino una ridefinizione della disciplina sostanziale e procedurale
dell'attività di pianificazione; di una semplificazione del procedimento di adozione e approvazione degli
strumenti di pianificazione con garanzia della partecipazione dei soggetti istituzionali coinvolti e della
certezza dei tempi del procedimento; del superamento delle sovrapposizioni dei piani territoriali.
Tematiche certamente importanti, alcune delle quali sono peraltro già state ampiamente disciplinate dalla
legislazione vigente - ci si riferisce ad es. al coordinamento dei piani di settore con i piani provinciali (art.
57, D.Lgs. 112/1998) o a quelli della partecipazione dei soggetti istituzionali - vedi la conferenza
programmatoria prevista dalla L. 365/2000 (6) - mentre occorrerebbe occuparsi dei criteri per
l'individuazione dei distretti idrografici, del concetto e dei contenuti dei nuovi piani di gestione, dei poteri
delle nuove Autorità di distretto: tutti profili questi previsti dalla direttiva comunitaria e che avrebbero
richiesto una prima vincolante attuazione già entro il dicembre 2003.
3. Titolo V e distribuzione dei poteri.
Il quadro costituzionale del nostro ordinamento interno è stato poi modificato dal nuovo Titolo V Cost. che
è intervenuto nel ridefinire le competenze legislative di Stato e Regioni: l'acqua sembra essere
riassorbita, coerentemente con l'impostazione comunitaria nella tutela dell'ambiente e dell'ecosistema
(art. 117, lett. s) Cost.) mantenendosi la competenza legislativa esclusiva dello Stato: in realtà come
accade per altre materie non esplicitamente citate dal testo costituzionale occorre procedere ad una
scomposizione dei contenuti delle submaterie per verificare quanto delle funzioni fondamentali attinenti
alle acque sia appannaggio centrale o regionalizzato anche considerando che molte funzioni
amministrative sono già state attribuite alle Regioni e agli enti locali dal D.Lgs. 112/1998 (7): ma non
sembra questo il punto poiché la direttiva 2000/60 ci richiama fortemente al modello cooperativo-solidale
che deve presiedere al settore indipendentemente dalla separazione delle competenze. Ecco perché in
questo quadro il governo delle acque - qui intese come bene primario e risorsa limitata - comporta un
intenso rapporto di leale collaborazione tra Stato, Autorità di bacino, Regioni, enti locali, consumatori e
produttori.
4. Autorità di distretto e piani di gestione.
La direttiva 2000/60 pone numerosi problemi tra i quali la dimensione spaziale e temporale della
pianificazione del distretto - il cosiddetto piano di gestione - e l'autorità di governo del distretto.
È solo una questione di dimensione? O non è invece un problema di contenuti e di poteri diversi?
L'autorità che ha in mente la direttiva è un soggetto dotato di poteri autoritativi oltre quelli di conoscenza
tecnico-scientifica al servizio dei soggetti competenti in materia di usi del territorio; di competenze
gestionali oltre che programmatorie con poteri effettivi di salvaguardia e vigilanza. Tutto il contrario delle
Autorità di bacino, disegnate come autorità deboli serventi specie nell'ultimo D.Lgs. 152/1999 le scelte
"politiche" regionali (8).
In secondo luogo il piano di gestione è piano economico oltre che piano territoriale poiché volge il suo
sguardo essenzialmente alla risorsa idrica ed al suo utilizzo compatibile, ed anche di questo occorre
determinare l'efficacia e la prevalenza sulle pianificazioni sottostanti e sulle attività degli altri poteri
pubblici e dei privati.
Su quest'ultimo aspetto occorre intendersi: il centro delle politiche dell'acqua sta certamente nella
programmazione e nella pianificazione. Ma la pianificazione, specie nel nostro paese, l'abbiamo intesa
come strumento di pianificazione territoriale più per assonanza con la pianificazone urbanistica che per
autonoma consapevolezza sistematica. Orbene, al di là delle scelte di tutela delle acque che trova nel
piano territoriale un ineludibile apporto, non si possono sempre considerare tutti gli altri aspetti degli usi
della risorsa come propri di questo solo strumento e delle procedure previste dalla L. 183/1989. In altre
parole, ci troviamo di fronte all'eccessiva enfatizzazione dello strumento di pianificazione a fronte di altre
modalità dell'esercizio dei pubblici poteri - specie da parte delle Autorità di bacino, organi misti e future
Autorità di distretto - che spesso richiedono da un lato immediatezza ma dall'altro maggiore flessibilità e
concertazione. Quanto al primo aspetto alludo all'esercizio dell'apposizione di misure di salvaguardia
emergenziali, alle ordinanze, ai decreti segretariali, alle direttive e agli indirizzi: provvedimenti che
rientrano nell'ampio menù dell'agire delle pubbliche amministrazioni, senza dover ricorrere al piano
territoriale che in molti casi appare di lunga gestazione, impacciato e inadeguato alle esigenze della
disciplina della materia idrica, i cui contenuti attengono sempre più a profili dinamici che non statici come
nel caso degli assetti urbanistico-territoriali: ne consegue che anche gli strumenti di disciplina devono
rispondere alle stesse finalità (immediatezza, imperatività o flessibilità in rapporto alle fattispecie
disciplinate). Quanto al secondo, la rimodulazione degli usi plurimi delle acque comporta una fase di
concertazione-consultazione e condivisione tra tutti gli attori pubblici e specie privati già utilizzatori della
risorsa idrica, i cui esiti finali possono anche essere ricompresi in un programma ma le cui modalità di
elaborazione ed approvazione non hanno nulla a che fare con il procedimento di formazione del piano di
bacino.
La pianificazione di bacino ha finora toccato aspetti relativi alla difesa idrogeologica del suolo - la difesa
dalle acque - ottenendo un qualche successo nell'imposizione di vincoli a salvaguardia dell'incolumità
delle popolazioni e dei territori, anche se è accettata con fastidio, ma oggi si deve misurare proprio con la
risorsa in sé e la sua utilizzazione: la revisione delle concessioni idriche.
In questi ultimi due anni, peraltro, il processo ben avviato della pianificazione di bacino ha subito un
arresto che esprime tutta la debolezza del governo delle acque man mano che si passa dalla tutela della
difesa del suolo alla riconsiderazione ed al bilanciamento degli usi, poiché si sono adottati piani stralcio ad es. i PAI (piano di assetto idrogeologico) - evitando accuratamente di applicare, contestualmente alle
sue disposizioni, le misure di salvaguardia, rendendo così inutili le prescrizioni in essi contenute, mentre il
procedimento della loro approvazione in molti casi è ancora là da venire.
5. Concessioni di derivazione e bilancio idrico.
E veniamo al regime delle concessioni di derivazione d'acqua pubblica. Se elementi fondamentali
divengono la costruzione del bilancio idrico e l'analisi dell'economia idrica (9) questi non possono che
essere considerati punti di riferimento essenziali per la revisione del concessioni in rapporto alla
compatibilità tra gli usi plurimi delle acque. Ora il problema è che da una concezione tutta quantitativa
degli usi delle acque concessi si deve passare ad un uso anche qualitativo dell'uso esclusivo che tenga
conto anche della garanzia degli scarichi: altrimenti continueremo ad avere catasti separati delle
derivazioni d'acqua e degli scarichi. Per anni abbiamo assistito all'intoccabilità delle concessioni idriche,
alle difficoltà di procedere alla loro revisione, solo oggi intaccata dal D.Lgs. 152/1999 che ne prevede la
revisione per garantire il minimo deflusso vitale, ma la revisione deve avere un raggio più ampio: deve
cioè estendersi alla compatibilità degli usi del bacino. Anche perché - e qui sta il salto qualitativo della
direttiva - l'uso delle acque non può prescindere dall'analisi sullo stato del corpo idrico che non è un
problema di stato qualitativo ma di stato "ecologico", nel senso di prevedere cioè se l'utilizzazione intesa
in senso lato può mantenere nel tempo le funzioni ecologiche primarie. Questioni che oggi sono solo
pallidamente affrontate quando ci s'imbatte nel procedimento di rilascio di nuove concessioni idriche,
nelle quali il parere vincolante dell'Autorità di bacino diviene il parametro per la verifica delle compatibilità
delle richieste con gli aspetti ambientali e territoriali del contesto superficiale e sotterraneo del bacino di
riferimento. La revisione delle concessioni (10) non può certo essere episodica ma deve avere carattere
sistematico e generalizzato sia per evitare contenziosi nei confronti di diritti acquisiti connessi con
specifici impegni convenzionali, sia per riconsiderare complessivamente gli equilibri tra gli usi. Si tratta di
profili giuridici ed economici di enorme importanza che comportano la ridefinizione dei contenuti dei
rapporti convenzionali, della formulazione di nuovi schemi di convenzioni tipo così come previsto per il
servizio idrico integrato, i tempi, le condizioni, i canoni: tutte questioni che non pare siano state ancora
affrontate.
Ma la politica comunitaria anche qui agisce a trecentosessanta gradi poiché introduce una nozione di
"servizio idrico" da intendere in senso esaustivo, comprendente qualsiasi attività di messa a disposizione
di risorse idriche, interne, e marine, per determinati usi. Quindi non più, come prevede l'ordinamento
della L. n. 36, il servizio idrico astretto al sistema acquedottistico per usi civili, ma il complesso delle
attività che dall'acqua dipendono (usi irrigui, zootecnici, piscicoltura, usi industriali, pozzi domestici, reti
drenanti, invasi e condotte funzionali alla produzione energetica, impianti di dissalazione, impianti di vario
uso, acque superficiali e sistemi di ravvenamento delle falde). Al concetto di servizio si affianca quello di
tariffa che non esaurisce il costo complessivo dell'uso idrico, dovendosi contemplare, dal punto di vista
economico, il recupero dei costi di distribuzione, collettamento e depurazione ma soprattutto il sacrificio
di altri usi che, per la limitatezza delle risorse, vengono sacrificati perché impraticabili.
L'intreccio tra direttive centrali per la gestione del demanio idrico, la redazione del bilancio idrico e
l'analisi economica dell'utilizzo idrico, connessa con i poteri impositivi delle Regioni è quindi così
complesso che, visti i tempi consumati nel nostro paese per mettere a punto le procedure per l'avvio del
servizio idrico integrato, si rischia di rinviare sine die questi ulteriori impegni comunitari oltre i limiti
consentiti dalla direttiva 2000/60.
NOTE
(*) Relazione tenuta al Convegno IEFE-Gruppo 183 su "L'attuazione della direttiva comunitaria sulle
acque (2000/60): Sfide e opportunità per una politica sostenibile dell'acqua in Italia", Università Bocconi,
Milano 17 ottobre 2003.
(1) La direttiva scandisce numerosi adempimenti, correzioni, ed integrazioni da parte degli Stati interni
fino al 2024.
(2) F. LETTERA, Pianificazione strategica di bacino ed evoluzione del quadro normativo nazionale ed
europeo, 2003 (bozze di stampa).
(3) Sulla disponibilità della risorsa acqua intesa come diritto o come bene economico nel dibattito
istituzionale internazionale, S. SANDRI, L'acqua: una risorsa strategica?, in questa Rivista, 2003, p. 1. La
stessa direttiva 2000/60 tende, tuttavia, a ricondurre l'acqua tra i beni di mercato.
(4) Basterà citare due casi: il primo, in alcuni piani regolatori generali comunali è previsto che
l'edificabilità è condizionata all'effettivo e duraturo approvvigionamento d'acqua degli insediamenti
residenziali; il secondo che prevede il divieto di colture idroesigenti in particolari aree: vedi il Piano
stralcio di bacino del Lago Trasimeno adottato dall'Autorità di bacino del Tevere e approvato con D.P.C.M.
nel 2002.
(5) Vedi il numero speciale in questa Rivista 6/2000 interamente dedicato al D.Lgs. 152/1999, in part. P.
BRAMBILLA-A. MAESTRONI, La tutela integrata delle acque: obiettivi di qualità, misure di risanamento e
regolamentazione degli usi idrici, p. 883.
(6) Sulla cui natura giuridica vedi P. URBANI, Composizione degli interessi plurimi e differenziati e
pianificazione di bacino, comm. alla sent. Corte Cost. 524/2002, in questa Rivista, 2003, p. 332.
(7) Se si volesse procedere ad un esercizio di analisi delle funzioni si potrebbe dire che: a) la tutela della
qualità delle acque rientra nella competenza esclusiva dello Stato; se ne potrebbe delegare la potestà
regolamentare alle Regioni; (art. 117); b) l'uso produttivo delle acque dovrebbe rientrare nella
competenza esclusiva delle Regioni; c) la difesa del suolo potrebbe rientrare nella competenza esclusiva
dello Stato (organicamente connessa alla tutela dell'ambiente) o ritenere che sia oggetto di competenza
concorrente (afferente al governo del territorio). Per quanto riguarda l'uso potabile saremo in regime di
legislazione concorrente (piano degli acquedotti). Ma tale ripartizione funzionale andrebbe oggi
riconsiderata nell'ambito dei problemi più generali posti dalle politiche comunitarie in materia.
(8) Sia consentito rinviare sul punto a P. URBANI, Modelli organizzatori e pianificazione di bacino nella
legge di difesa del suolo, in Riv. giur. edilizia, 1993, ora anche in Scritti in onore di Alberto Predieri,
Milano, 1996; ID., Le autorità di bacino di rilievo nazionale: pianificazione, regolazione e controllo nella
difesa del suolo, in Riv. giur. edilizia, 1995.
(9) P. URBANI, Bilancio idrico, concessioni di derivazione di acqua pubblica e ruolo delle autorità di bacino,
in questa Rivista, 1997, p. 843.
(10) Perdipiù, lo strumento della concessione amministrativa, anche in questo settore, non sembra più
giustificabile nell'ambito della disciplina dell'ordinamento comunitario, poiché sempre più in contrasto con
il principio di concorrenza e di pari opportunità degli operatori; Autorità Garante della concorrenza e del
mercato, M. D'ALBERTI, Concessioni e concorrenza, in Temi e problemi, n. 8, 1998.
Archivio selezionato: Dottrina
L'applicazione degli standard di qualità dell'acqua negli Stati Uniti(*)
Riv. giur. ambiente 2004, 01, 181
Daniel P. Selmi
1. Introduzione. - 2. Limiti agli effluenti in base alle tecnologie disponibili. - 3. Standard di qualità
dell'acqua. - 4. Total Maximum Daily Load (TMDL). - 5. Il caso Pronsolino. - 6. Spiegazione delle difficoltà
che si incontrano nel percorso che porta agli standard di qualità dell'acqua. - 7. Conclusione.
1. Introduzione.
La normativa ambientale negli Stati Uniti affronta il problema di come ottenere il miglioramento della
qualità dell'ambiente seguendo fondamentalmente due diversi approcci. Inizialmente, il sistema cerca di
determinare il grado di qualità al quale si vuole arrivare, e in un secondo tempo viene delineato un
programma normativo che permetta di raggiungere il risultato desiderato. Questo è il metodo adottato
dalla legislazione quadro sull'inquinamento atmosferico (Clean Air Act) (1).
In alternativa, un sistema normativo può invece porre l'accento almeno in una fase iniziale su un
obiettivo diverso dal raggiungimento di un determinato grado di qualità dell'ambiente. Per esempio, lo
scopo principale potrebbe essere quello di far applicare certi tipi di controlli dell'inquinamento. Questa
tipologia normativa lascia ad una fase successiva la scelta delle misure da adottare. Il diritto ambientale
americano ha scelto questo secondo modello nella regolamentazione della qualità dell'acqua. La legge
sulla qualità dell'acqua (Clean Water Act) ha dapprima richiesto l'applicazione di specifici tipologie di
controllo, rimandando ad un secondo tempo la scelta dei metodi per il raggiungimento di un determinato
livello di qualità dell'acqua. Ora invece, trent'anni dopo l'emanazione della legge quadro sull'acqua, gli
Stati e l'Environmental Protection Agency (EPA) stanno valutando le difficoltà che la scelta del secondo
modello ha comportato.
2. Limiti agli effluenti in base alle tecnologie disponibili.
Nel 1972, il Congresso degli Stati Uniti ha apportato una serie di emendamenti alla legislazione principale
del governo federale relativa all'inquinamento delle acque. Secondo tali emendamenti, al governo
federale, rappresentato dall'EPA, si chiedeva, in primo luogo, di stabilire dei limiti agli effluenti. Si tratta
di specifici limiti numerici imposti agli sversamenti, basati su precise categorie di fonti puntuali. Come
conseguenza, l'EPA ha imposto in seguito limiti agli scarichi industriali basati su diverse tipologie di
industrie (2).
Il punto critico è costituito in questo caso dal fatto che i limiti imposti agli scarichi si basano sulla
tecnologia disponibile in quel momento e valutano se le fonti puntuali sono in grado di sostenere o meno
economicamente il controllo degli scarichi. Per cui, per esempio, il primo gruppo di controlli era
conosciuto come "BPT", ovvero "best practicable control technology currently available" (la miglior
tecnologia per il controllo disponibile a quel momento) (3). Un successivo gruppo di misure era
conosciuto come "BCT" "best conventional technology economically achievable" (la miglior tecnologia
convenzionale a disposizione economicamente sostenibile) (4).
L'adozione di queste tecnologie ha suscitato numerose dispute, in gran parte relative al fatto se l'EPA
disponesse effettivamente del potere di adottare standard vincolanti per singole fonti di inquinamento. La
Suprema Corte degli Stati Uniti ha stabilito che l'EPA era effettivamente titolare di questo potere (5). Le
industrie responsabili dell'inquinamento hanno criticato la decisione obiettando che la tecnologia era
troppo costosa o non era applicata correttamente in caso di certe specifiche categorie. Ma il sistema, nel
complesso, funzionava. L'EPA era in grado di decidere il tipo di tecnologia da applicare e dovendo anche
tener conto anche del costo economico, le effettive limitazioni imposte agli scarichi, benché costose, non
hanno comportato la chiusura di troppi impianti industriali.
Tuttavia, questo tipo di modello non conduce al raggiungimento di un livello costante della qualità
dell'acqua. Il grado di inquinamento che persiste in un corpo idrico sottoposto a controlli basati su una
determinata tecnologia di depurazione dipende da due fattori principali: 1) quanto severi siano davvero i
controlli, e 2) quante fonti di inquinamento gravino su quel particolare corpo idrico. Di conseguenza, un
sistema di controlli basati sulla tecnologia non sempre è in grado di assicurare il risultato desiderato. In
altre parole, anche se questi controlli tecnologici contribuiscono a migliorare la qualità dei corpi idrici del
paese, in molti casi tuttavia l'acqua non risulta sufficientemente depurata.
Per questa ragione, la legislazione degli Stati Uniti sulla qualità dell'acqua ha previsto una seconda fase di
controlli, più avanzati rispetto a quelli semplicemente basati sulla tecnologia. Agli Stati venne così chiesto
di adottare i cosiddetti "standard di qualità dell'acqua" per i vari corsi d'acqua al loro interno.
3. Standard di qualità dell'acqua.
Quando si tratta di stabilire uno standard di qualità dell'acqua, gli Stati per prima cosa decidono quale sia
"l'uso" del corpo idrico in questione. Può trattarsi di acqua per il consumo umano, per impianti ricreativi,
per l'industria o altro. Successivamente devono essere stabiliti dei criteri che permettano di verificare che
effettivamente l'uso sia quello stabilito (6). A differenza degli standard basati sulla tecnologia, gli
standard basati sulla qualità dell'acqua sono messi a punto allo scopo di ottenere il grado di qualità
dell'acqua corrispondente proprio a quell'uso.
Anche se gli emendamenti del 1972 apportati alla legge federale per il controllo della qualità dell'acqua
(Federal Water Pollution Control Act) imponevano agli Stati di adottare precisi standard di qualità
dell'acqua, questi standard tuttavia rivestivano un ruolo secondario. L'Act imponeva infatti all'EPA di porre
soprattutto attenzione all'imposizione di controlli basati sulla tecnologia (7). Come dichiarato da un
tribunale nel 1981, l'Act assegnava una "priorità secondaria" agli standard di qualità dell'acqua mentre
"dava una preponderante importanza sia al programma dei permessi da rilasciare ad una fonte puntuale,
che ai limiti federali agli scarichi basati sulla tecnologia" (8).
Allo stesso tempo, l'Act comprendeva anche misure specifiche da adottare da parte degli Stati nel caso
che, in presenza di controlli basati sulla tecnologia, essi non fossero in grado di far raggiungere ai corpi
idrici gli standard di qualità prefissati.
I legislatori, al momento attuale, devono affrontare il compito di far applicare queste misure.
4. Total maximum Daily Load (TMDL).
Come primo passo in questa seconda fase normativa, gli Stati devono procedere ad identificare quei corpi
d'acqua che, nonostante l'applicazione di misure di controllo basate sulla tecnologia, tuttavia non sono
ancora a norma. Ad esempio, una sezione del Clean Water Act impone agli Stati di individuare "quei corsi
idrici al loro interno per i quali... i limiti agli scarichi... non sono sufficientemente severi da raggiungere
gli standard di qualità richiesti caso per caso..." (9). Come riassunto dai regolamenti applicativi dell'EPA,
l'elenco deve comprendere ogni tratto di acqua che "presumibilmente non soddisfi gli standard
appropriati di qualità dell'acqua, anche dopo l'applicazione dei limiti agli scarichi basati sulla tecnologia
disponibile come stabilito da Clean Water Act" (10). Anche se sono gli Stati a compilare l'elenco,
l'approvazione da parte dell'EPA è necessaria.
Il passo successivo consiste nell'applicazione di un meccanismo normativo denominato "carico massimo
complessivo giornaliero" detto anche TMDL (11) (Total Maximum Daily Load). Si tratta della quantità
massima di inquinanti che possono essere scaricati in un corso d'acqua senza che ne venga pregiudicato
l'uso, come richiesto dallo standard di qualità. Gli Stati hanno il compito di calcolare questo carico che
"sarà stabilito ad un livello tale da permettere il raggiungimento degli standard di qualità da
rispettare" (12).
Quindi, perché un meccanismo TMDL abbia effetto, ogni Stato deve assegnare il carico totale di inquinanti
permesso ad ognuna delle fonti inquinanti in qual particolare corpo idrico. Infine, per ottenere i fondi
federali, gli Stati dovranno mettere a punto piani e programmi tali da permettere agli impianti industriali
con scarichi inquinanti di essere a norma con gli standard di qualità dell'acqua (13).
Il procedimento TMDL rappresenta l'approccio logico alla "seconda fase" di controlli dell'inquinamento
dell'acqua. Tuttavia, a differenza di quanto accaduto con l'imposizione dei controlli basati sulla tecnologia,
l'applicazione del TMDL è risultata notevolmente difficoltosa. Un caso recente, Pronsolino v. Nastri(14) ne
costituisce l'esempio.
5. Il caso Pronsolino.
Il caso Pronsolino riguarda il fiume Garcia, che scorre in una zona rurale della California del Nord.
Appellandosi ai requisiti appena descritti, lo Stato della California aveva segnalato all'EPA un elenco di
corsi d'acqua non conformi agli standard di qualità. Il fiume Garcia però non era presente nella lista.
Dopo aver dato alla California la possibilità di includerlo, cosa che lo Stato si era rifiutato di fare, l'EPA ha
quindi composto un nuovo elenco in cui lo ha inserito (15).
Ciononostante, la California non aveva seguito la procedura TMDL. Di conseguenza, gruppi di
ambientalisti e di pescatori hanno ricorso allo scopo di ottenere che l'EPA applicasse il meccanismo TMDL
per il fiume Garcia, cosa che l'EPA ha quindi effettuato (16).
I proprietari dei terreni lungo il fiume hanno a loro volta ricorso contro la procedura TMDL dell'EPA. Pur
ammettendo che lo standard di qualità dell'acqua del fiume non rispettava la normativa, i ricorrenti hanno
sostenuto che l'EPA non aveva l'autorità di stabilire una TMDL per il fiume. Hanno basato la loro
argomentazione sul fatto che, scorrendo il fiume Garcia in una zona in gran parte rurale, non esistevano
sorgenti puntuali di inquinamento nel fiume e di conseguenza nessun controllo tecnologico era stato
effettuato a carico di sorgenti inquinanti lungo il corso del fiume. Le cause dell'inquinamento erano invece
le cosiddette "sorgenti diffuse", cioè derivanti principalmente dall'allevamento e dall'agricoltura.
Quindi, hanno concluso i ricorrenti, dato che le TMDL erano state messe a punto per i soli corpi idrici nei
quali i controlli basati sulla tecnologia non avevano prodotto il risultato desiderato, il fiume Garcia non era
qualificato per una procedura TMDL. A sostegno di questa posizione i ricorrenti hanno sottolineato che
fino agli inizi degli anni '90, l'EPA non aveva disposto TMDL per corpi idrici che venivano inquinati
unicamente da sorgenti di inquinamento diffuse (17).
La Corte d'Appello ha respinto la tesi dei ricorrenti. In sostanza, la Corte ha sostenuto che la TMDL non
era richiesta solo per quei corpi idrici in cui i controlli basati sulla tecnologia si erano dimostrati
insufficienti. Ha respinto l'idea che l'EPA dovesse trattare in modo diverso le fonti puntuali e quelle
diffuse, ai sensi dell'Act. La Corte ha infatti così dettato: "Gli standard di qualità dell'acqua riflettono gli
usi di un corpo idrico come designati da uno Stato e non dipendono in alcun modo dalle fonti di
inquinamento" (18).
6. Spiegazione delle difficoltà che si incontrano nel percorso che porta agli standard di qualità
dell'acqua.
La lite riguardante il fiume Garcia fa in realtà parte di un insieme molto più vasto di liti riguardanti la
TMDL, succedutesi nel corso degli ultimi anni. Numerosi casi erano stati sollevati da gruppi di cittadini al
fine di obbligare l'EPA ad adottare la TMDL in quei casi in cui gli Stati erano stati poco propensi a farlo
loro. In qualche raro caso, come il Pronsolino, i responsabili dell'inquinamento hanno sostenuto che la
TMDL non era da applicare anche se non era stato raggiunto il grado desiderato di qualità dell'acqua. Per
esempio, in un caso il ricorrente ha sostenuto che non era richiesta la TMDL in quanto i fattori inquinanti
del fiume in questione erano tossici in natura, non inquinanti convenzionali. Proprio come è avvenuto nel
caso Pronsolino, il tribunale ha respinto questa argomentazione (19).
Qual è la ragione di questa forte resistenza ad applicare la TMDL, quando, in quasi tutti i casi era apparso
evidente che i controlli basati sulla pura tecnologia sarebbero stati insufficienti a garantire standard
adeguati di qualità dell'acqua? Due possono essere le ragioni principali.
La prima, che la maggior parte delle procedure TMDL (anche se non nel caso del fiume Garcia) portano
come conseguenza a controlli più severi sulle sorgenti puntuali che causano la violazione degli standard di
qualità dell'acqua. Gli impianti che causano questo inquinamento, in gran parte industriali o di
trattamento degli scarichi fognari, hanno di solito già provveduto ad installare costosi sistemi di controllo
basati sulle tecnologie disponibili. Se venisse applicata la TMDL, dovrebbero sottostare a controlli ancora
più severi. Nuovi controlli potrebbero addirittura richiedere lo studio e sviluppo di nuove tecnologie, al
momento non ancora disponibili. Di fronte a queste prospettive ecco spiegata l'accanita resistenza
all'applicazione della TMDL.
Tuttavia, vi è un aspetto ancora più importante, di cui è un esempio il caso Pronsolino. Tradizionalmente,
il controllo dell'inquinamento dell'acqua è stato effettuato soprattutto sulle fonti dell'inquinamento, in
quanto sono le cause più evidenti e ovvie di contaminazione. Quello che succede è che le fonti puntuali di
solito scaricano da una conduttura. Al contrario le fonti diffuse, quali ad esempio le attività agricole o
quelle legate alla lavorazione del legname, sono fonti meno evidenti di inquinamento, non riconducibili ad
un punto preciso. Queste attività non si considerano come inquinanti e di conseguenza chi ne è
responsabile opporrà una certa resistenza all'osservanza della normativa per la tutela delle acque.
Per le fonti diffuse di inquinamento esiste anche l'incertezza sul tipo di normativa che verrà applicata.
Prevale il timore che, a differenza dei controlli che vengono effettuati sulle fonti puntuali, la normativa
sulle fonti non puntuali porterà inevitabilmente a cambiamenti drastici sul modo di operare, in particolare
per quanto riguarda l'industria agricola e boschiva. Alcuni commentatori hanno sostenuto che questi
timori sono esagerati e che i controlli sulle fonti di inquinamento diffuse sono già disponibili (20). Questo
"timore dell'ignoto" è comunque ancora assai diffuso.
La preoccupazione che la regolamentazione delle fonti diffuse comporti l'adozione di modifiche da
apportare alla maniera corrente di operare viene anche vista sotto un altro aspetto: che cioè il controllo
delle fonti diffuse richieda limiti agli usi del suolo, che invece sono permessi in proprietà adiacenti ai corsi
d'acqua. Negli Stati Uniti, la regolamentazione all'uso del suolo è sempre stata considerata di competenza
dei governi locali, a volte con qualche ingerenza a livello statale. Il governo federale non ha regolato l'uso
del suolo. Tuttavia, gli oppositori alla TMDL sostengono che questa procedura porterà inevitabilmente ad
una regolamentazione indiretta dell'uso del suolo da parte dell'EPA, dato che il controllo delle fonti diffuse
di inquinamento comporterà possibili variazioni all'uso. È questo un argomento che suscita
preoccupazione in quanto si sostiene che l'imposizione della procedura TMDL avrà come conseguenza un
cambiamento fondamentale nella struttura governativa della normativa in questione (21).
Resta da precisare un ultimo punto. La regolamentazione delle fonti puntuali mediante imposizione di
controlli basati sulla tecnologia era il risultato di un processo relativamente lineare. Anche se il dibattito
poteva essere vivace, tuttavia una volta concluso, l'applicazione dei controlli si era rivelato semplice. Gli
Stati al momento del rilascio dei permessi inserivano i limiti agli scarichi adottati dell'EPA.
In contrasto, la procedura di istituzione e applicazione di una TMDL è molto più complessa. Vanno
effettuati vari passaggi: 1) fissare gli standard di qualità dell'acqua; 2) classificare i corpi d'acqua che non
rispettano gli standard; 3) istituire la TMDL per questi corpi idrici; 4) l'attribuzione di un carico
complessivo a singole fonti di inquinamento, sia puntuali che diffuse; 5) trasformare questi carichi
inquinanti in limiti effettivi alle singole fonti.
Ognuna di queste fasi può essere contestata e sottoposta a ricorso. Ad esempio, in un caso recente
avvenuto in California, i ricorrenti hanno sostenuto senza successo che l'agenzia statale responsabile
della qualità dell'acqua doveva valutare i costi economici al momento in cui rilasciava i permessi per il
raggiungimento degli standard di qualità dell'acqua (22).
7. Conclusione.
Non desta quindi sorpresa il fatto che le procedure TMDL siano state di lenta applicazione, considerando
la complessa procedura, le molteplici occasioni di lite, la riluttanza di numerosi Stati a imporre regole
stringenti alle fonti diffuse e la resistenza di queste stesse fonti diffuse a porsi dei limiti. Ed è molto
probabile che anche in futuro veri progressi siano lenti ad avvenire.
NOTE
(*) Traduzione dall'inglese a cura di Alice Winkler.
(1) 42 U.S.C. § 7401 ss. Vedi Whitman v. American Trucking Associations, 431 U.S. 457 (2001).
(2) Vedi, e.g., American Meat Institute v. EPA, 526 F.2d 442 (7th Cir. 1975) (confermando i limiti basati
sulle conoscenze tecnologiche per i macelli e le industrie di imballaggio).
(3) Vedi 33 U.S.C. § 1314(b).
(4) Ibidem.
(5) E.I. duPont de Nemours v. Train, 430 U.S. 112 (1977).
(6) Vedi, e.g., Mississippi Commission on Natural Resources v. Costle, 625 F.2d 1269 (5h Cir. 1980) (che
impugnava lo standard di qualità per un certo corpo idrico).
(7) Vedi Environmental Defense Fund, Inc. v. Costle, 657 F.2d 275, 279 (D.C. Cir. 1981).
(8) Ibidem.
(9) 33 U.S.C. § 1362(11).
(10) 40 C.F.R. § 130.2(j)(2).)
(11) Id. § 1362(d)(1)(C).
(12) Id.
(13) Vedi 33 U.S.C. 1363(e)(3).
(14) 291 F.3d 1123 (9th Cir. 2002).
(15) 291 F.3d at 1129.
(16) Id.
(17) Id. at 1134.
(18) Id. at 1137.
(19) Dioxin/Organochlorine Center v. Clarke, 57 F.3d 1517 (9th Cir. 1995).
(20) OLIVER A. HOUCK, The Clean Water Act TMDL Program: Law, Policy and Implementation, 67, 1999.
(21) L'amministrazione Bush sta attualmente considerando nuove norme che regolino la TMDL. In una
recente audizione avanti un sottocomitato del United States Senate Environment and Public Works
Committee, il vice amministratore per l'acqua dell'EPA ha dichiarato: "Abbiamo bisogno di nuove regole
me deve trattarsi di regole che proibiscano ecisamente qualsiasi ruolo dell'EPA riguardo alle decisioni
sull'uso locale del suolo". "Legislative Action: Inhofe Urges EPA at Senate Hearing to Move Forward on
TMDL Rulemaking," BNA's Toxics L. Rptr. (Sett. 25, 2003), 1.
(22) City of Burbank v. State Water Resources Control Board, 111 Cal. App. 4th 245, 4 Cal. Rptr. 3d 27
(2003).
Archivio selezionato: Note
Un apparente contrasto giurisprudenziale in tema di trattamento penale degli
scarichi di liquami provenienti da frantoi oleari.
Cass. pen. 2004, 1, 223
Stefano D'Arma
Sommario: 1. Premessa. - 2. Acque reflue industriali ed acque reflue domestiche; scarichi di reti
fognarie; utilizzazione agronomica delle acque di vegetazione dei frantoi oleari. - 3. Acque reflue
assimilate alle acque reflue domestiche (art. 28 comma 7 d.lg. cit.). - 4. Acque reflue provenienti da
frantoi oleari «assimilate» alle acque reflue domestiche.
1. (1) 1. Premessa. - La sentenza in commento interviene in una materia (quella dello scarico dei liquami
derivanti dalla molitura delle olive) riguardo alle quale sussistono talune incertezze interpretative.
In una precedente recente decisione, infatti, la Corte suprema aveva enunciato, secondo la massima che
ne era stata tratta, principi almeno apparentemente differenti, affermando che gli scarichi dei liquami
derivanti dalla molitura delle olive senza la prescritta autorizzazione non costituiscono più reato. Infatti, a
norma dell'art. 18 d.lg. 11 maggio 1999, n. 152, e salvo diversa normativa regionale, sono assimilate alle
acque reflue domestiche le acque reflue provenienti dalle imprese che esercitano attività di
trasformazione o di valorizzazione della produzione agricola con materia prima lavorata proveniente per
almeno due terzi esclusivamente dall'attività di coltivazione dei fondi dei quali si abbia, a qualsiasi titolo,
la disponibilità (1).
Nei termini appena descritti, la divergenza tra la decisione in commento e quella da ultima citata appare
evidente: nella prima, infatti, si sostiene, in linea generale, la rilevanza penale degli scarichi di liquami
derivanti da frantoi oleari in mancanza delle autorizzazioni di legge; nella seconda, altrettanto in linea
generale, si giunge a conclusioni opposte.
Tuttavia, dall'attenta lettura delle motivazioni delle sentenze sembrerebbero emergere spunti utili ad
addivenire ad una ricomposizione tra le due conclusioni, tale da superare il contrasto tra le massime che,
rispettivamente, ne sono state tratte.
La successiva analisi, pertanto, sarà dedicata alle diverse questioni affrontate nella motivazione della
decisione in epigrafe, i cui passaggi principali saranno poi confrontati con quelli espressi nel menzionato
precedente del febbraio del 2000; alla luce di tale raffronto si potrà valutare se la diversità dei principi di
diritto affermati sia riconducibile ad una reale differente interpretazione del sistema normativo vigente
ovvero alla disomogeneità delle fattispecie portate all'attenzione degli organi giudicanti (o quanto meno
delle questioni sulle quali i due collegi sono stati chiamati ad esprimersi).
2. Acque reflue industriali ed acque reflue domestiche; scarichi di reti fognarie; utilizzazione agronomica
delle acque di vegetazione dei frantoi oleari. - La fattispecie sottoposta all'attenzione della Corte nella
decisione in commento riguarda un'ipotesi di scarico di acque reflue, provenienti dalla pulizia dei
macchinari relativi ad un frantoio oleario, nella fogna comunale, in assenza dell'autorizzazione prescritta
dall'art. 45 comma 1 d.lg. 11 maggio 1999, n. 152.
Secondo l'imputato ricorrente, condannato in primo grado, il giudice di merito era incorso in una
violazione di legge, poiché, come dedotto nel ricorso de quo, le ipotesi di scarico in fogna in assenza di
autorizzazione non integrerebbero il reato di cui all'art. 59 comma 1 d.lg. cit.
La problematica di diritto sottoposta all'attenzione della corte di legittimità, pertanto, può riassumersi nei
seguenti termini: gli scarichi, in fogna, di acque reflue provenienti dalla pulizia di macchinari relativi a
frantoi oleari, in assenza della prescritta autorizzazione amministrativa, integrano il reato di cui all'art. 59
comma 1 d.lg. 11 maggio 1999, n. 152.
La questione viene affrontata dal collegio tramite lo sviluppo logico e consequenziale delle diverse
tematiche connesse alla medesima.
In primo luogo, osserva la Corte, occorre verificare se le acque reflue provenienti dalla lavorazione dei
frantoi debbano considerarsi quali acque reflue industriali ovvero quali acque reflue domestiche e, a tal
fine, occorre definire e delimitare, rispettivamente, le due figure giuridiche: il d.lg. 11 maggio 1999, n.
152, infatti, prevede espressamente come reato lo scarico di «acque reflue industriali» senza
autorizzazione (art. 59 comma 1), sanzionando così il principio di cui all'art. 45 comma 1 d.lg. 11 maggio
1999, n. 152, secondo il quale tutti gli scarichi devono essere preventivamente autorizzati, ad eccezione
di quelli aventi ad oggetto acque reflue domestiche in reti fognarie. Le due nozioni sono in effetti
complementari, poiché l'art. 2 lett. h) d.lg. n. 152 cit. definisce il concetto di acque reflue industriali, tra
l'altro, secondo un criterio «di chiusura» e di esclusione, alla stregua del quale devono intendersi per tali
tutte le «...acque diverse dalle acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento...».
Orbene, la definizione di acque reflue domestiche è contenuta nell'art. 2 lett. g) d.lg. cit., secondo il quale
sono tali «... le acque reflue provenienti da insediamenti di tipo residenziale e da servizi e derivanti
prevalentemente dal metabolismo umano e da attività domestiche»; i criteri appena descritti portano ad
escludere, senza alcuna incertezza, che le acque reflue provenienti da frantoio possano considerarsi
acque reflue domestiche e, conseguentemente (avuto riguardo al criterio di chiusura sopra tracciato (2),
impone di qualificare le stesse, in linea generale, quali acque reflue industriali.
Ciò posto, la Corte si pone il problema di valutare se, ai fini della configurabilità della contravvenzione di
cui all'art. 59 comma 1 d.lg. cit., assuma rilievo la circostanza che gli scarichi oggetto del procedimento
siano diretti, come nel caso di specie, in fogna. Il dubbio (che oltretutto, nella fattispecie, rappresentava il
tema principale del ricorso avverso la decisione di primo grado) si pone in quanto il c.d. decreto Ronchi
demanda alla disciplina regionale la regolamentazione degli scarichi di acque reflue domestiche e «di reti
fognarie» e sanziona queste due tipologie di scarichi, laddove irregolarmente effettuati, in via meramente
amministrativa (art. 54 comma 2). Orbene, secondo il collegio, gli scarichi di acque reflue industriali (ivi
compresi quelli di acque reflue provenienti da frantoio), in assenza della prescritta autorizzazione,
assumono rilievo penale a prescindere dal luogo di recapito finale: si fa osservare, a tal riguardo, come,
da un punto di vista letterale e concettuale, altro è parlare di scarichi «delle» reti fognarie ed altro di
scarichi «nelle» reti fognarie; la deroga prevista dall'art. 54 comma 2 cit., rispetto alla portata generale
del reato in esame, riguarda soltanto le ipotesi riconducibili alla prima categoria. Gli scarichi illeciti di
acque reflue industriali, provenienti da frantoio oleario, se effettuati in assenza dell'autorizzazione
prescritta, costituiscono pertanto reato, ancorché operati nella rete fognaria.
La successiva questione affrontata dal collegio riguarda le eventuali interferenze sussistenti tra la
disciplina generale, sin qui esaminata, vigente per le acque reflue industriali, e quella prevista dall'art. 38
d.lg. 11 maggio 1999, n. 152 con specifico riferimento alla utilizzazione agronomica delle acque di
vegetazione dei frantoi oleari. Ai fini della suddetta pratica, infatti, la norma in questione non impone il
regime dell'autorizzazione (è sufficiente una semplice comunicazione all'autorità competente); non sono,
di conseguenza, previste sanzioni penali in caso di irregolarità od omissioni. L'incertezza che potrebbe, in
astratto, porsi all'interprete, è quella della parziale sovrapponibilità, delle due fattispecie appena
menzionate ovvero, in altri termini, della sussistenza di un rapporto di specialità tra il concetto di scarico
di acque reflue e quello di «utilizzazione agronomica delle acque di vegetazione dei frantoi oleari»:
l'individuazione di un rapporto di genere a specie tra le due ipotesi, infatti, porterebbe evidentemente ad
escludere la rilevanza penale di alcune fattispecie di scarico di acque reflue da frantoio oleario. In realtà,
secondo la Corte, le due fattispecie non coincidono nemmeno in parte: per «scarico», infatti, deve
intendersi l'immissione diretta tramite condotto, da un determinato insediamento, sul suolo o nel
sottosuolo o nella rete fognaria, di acque reflue, acque liquide, semiliquide o comunque convogliabili nelle
acque superficiali (3); nei suddetti termini, il fenomeno della utilizzazione delle acque reflue provenienti
dalla lavorazione di un frantoio - utilizzazione che può intervenire dopo un'attività di scarico ovvero può
prescindere da essa - costituisce una operazione nettamente distinta, disciplinata in modo specifico,
secondo regole che potranno, in caso, sovrapporsi a quelle previste per gli scarichi ma che non potranno
in alcun modo derogare alle medesime (4).
3. Acque reflue assimilate alle acque reflue domestiche (art. 28 comma 7 d.lg. cit.). - L'ultima questione
che si pone il collegio nella decisione in commento riguarda la possibilità di ricondurre le acque reflue
provenienti da frantoio oleario ad alcune categorie di acque reflue industriali che la legge assimila, anche
agli effetti penali, al regime delle acque reflue domestiche. È proprio questo l'aspetto sotto il quale
sembrerebbe sussistere una divergenza rispetto alle valutazioni di cui al citato precedente del febbraio
2000. Può essere pertanto utile seguire il ragionamento rispettivamente espresso nelle motivazioni delle
due decisioni.
Occorre premettere che, alla stregua dell'art. 28 comma 7 d.lg. 11 maggio 1999, n. 152, salvo diversa
normativa regionale, ai fini della disciplina degli scarichi e delle autorizzazioni, sono assimilate alle acque
reflue domestiche, tra le altre, le acque reflue provenienti dalle imprese dedite esclusivamente alla
coltivazione del fondo o alla silvicoltura o dalle imprese, dedite alla coltivazione del fondo o alla
silvicoltura, che esercitano anche attività di trasformazione o di valorizzazione della produzione agricola,
inserita con carattere di normalità e complementarietà funzionale nel ciclo produttivo aziendale e con
materia prima lavorata proveniente, per almeno due terzi, esclusivamente dall'attività di coltivazione dei
fondi di cui si abbia, a qualunque titolo, la disponibilità. L'assimilazione delle acque reflue appena
descritte alle acque reflue domestiche comporta, ovviamente, l'irrilevanza penale degli scarichi abusivi
che le riguardino.
La questione che si pone all'interprete, pertanto, è quella concernente la riconducibilità delle acque reflue
provenienti da frantoio oleario ad alcuna delle categorie «assimilate» appena descritte.
La prima osservazione che emerge dalla lettura delle motivazioni in esame è che in nessuna delle due
viene espressa una presa di posizione generale sulla questione.
Nella sentenza in commento, in realtà, è contenuta una implicita esclusione in ordine alla utilizzabilità, ai
fini della decisione, delle disposizioni normative relative alle acque «assimilate» (le cui diverse categorie
vengono infatti passate in rassegna dai giudici, in un passaggio della motivazione, in termini di
esclusione). Tuttavia non sembrerebbe possibile trarre dal suddetto implicito riferimento l'enunciazione di
un principio di carattere generale che prescinda dal caso di specie sottoposto all'attenzione del collegio; o
meglio, dai motivi del ricorso limitatamente ai quali la Corte è stata chiamata, ai sensi dell'art. 609 c.p.p.,
ad esprimersi.
Il senso dell'osservazione appena svolta può essere meglio illustrato tornando ad analizzare la precedente
decisione del 18 febbraio 2000, più volte citata, la quale si sofferma in modo più puntuale - per specifiche
ragioni di ordine processuale, come si dirà - sulla tematica delle categorie «assimilate».
Ebbene, secondo il principio espresso in tale decisione, indipendentemente dalla natura dell'attività «a
monte» del singolo scarico, occorrerebbe, in punto di fatto, accertare, di volta in volta, se essa rientri o
no nelle categorie assimilabili alle acque reflue domestiche di cui all'art. 28 cit. ed in particolare se si
tratti di una impresa «... di trasformazione o di valorizzazione della produzione agricola, inserita con
carattere di normalità e complementarità funzionale nel ciclo produttivo aziendale e con materia prima
lavorata proveniente per almeno due terzi esclusivamente dall'attività di coltivazione dei fondi di cui si
abbia a qualunque titolo la disponibilità ...». Secondo i giudici, in particolare, la ricorrenza dell'ultimo
elemento sopra indicato, richiesto per l'assimilazione delle acque di lavorazione a quelle reflue
domestiche (vale a dire che la materia prima lavorata provenga per almeno due terzi esclusivamente
dall'attività di coltivazione dei fondi di cui si abbia a qualunque titolo la disponibilità) postula accertamenti
di fatto preclusi in sede di legittimità, e che non potevano essere svolti nel giudizio nel quale fu
pronunciata la sentenza annullata, poiché la normativa in questione è successiva rispetto alla sentenza di
primo grado.
In sintesi, dalle affermazioni appena descritte possono enunciarsi due principi fondamentali. Il primo, di
carattere sostanziale, è costituito da una constatazione che, invero, appare scontata: non può escludersi,
in linea di principio, che l'attività di un frantoio oleario sia inserita «... con carattere di normalità e
complementarità funzionale nel ciclo produttivo aziendale e con materia prima lavorata proveniente per
almeno due terzi esclusivamente dall'attività di coltivazione dei fondi di cui si abbia a qualunque titolo la
disponibilità...» (art. 28 cit.) e che, pertanto, le acque reflue prodotte dall'attività produttiva siano
assoggettate al regime delle acque reflue «assimilate» (regime, come più volte ribadito, non assistito da
sanzioni penali); la ricorrenza dei caratteri in parola, naturalmente, dovrà essere verificata mediante
accertamenti di fatto preclusi al giudice di legittimità. Il secondo principio, di carattere processuale,
attiene alla censurabilità, da parte della Corte, dell'omesso accertamento, in sede di merito, in ordine alle
caratteristiche in parola: a tal riguardo occorre rilevare come la decisione del 18 febbraio 2000, sia
intervenuta in epoca immediatamente successiva all'emanazione del c.d. «decreto Ronchi», il cui art. 28
comma 7, cit., introducendo la categoria delle «acque reflue assimilate», ha apportato una modifica
rispetto al regime penalistico previgente, alla stregua del quale era stata adottata la decisione di merito
impugnata dal ricorrente; sotto questo profilo, pertanto, i giudici ritengono di poter rilevare di ufficio
(indipendentemente dai motivi dell'impugnazione) l'omesso accertamento, ai sensi dell'art. 609 comma 2
c.p.p., trattandosi di questione che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello proprio a
causa dell'intervenuta modificazione normativa. Di qui la decisione di rinviare gli atti al giudice di merito
affinché compia gli accertamenti di fatto omessi in precedenza (in quanto, come si ripete, non richiesti
dal sistema normativo precedente).
4. Acque reflue provenienti da frantoi oleari «assimilate» alle acque reflue domestiche. - In altre parole
esistono, nella fenomenologia imprenditoriale, frantoi non inseriti in più ampi contesti produttivi (5), a
differenza di altri, in cui la produzione avviene con olive prodotte in fondi di cui il titolare del frantoio ha
la disponibilità. Il trattamento penale, nei due casi, è differente, poiché nella seconda ipotesi (sempre che
sussistano tutti i presupposti enunciati nella disposizione di cui all'art. 28 comma 7, cit.) le acque reflue
derivanti dal ciclo operativo dovranno considerarsi quali acque reflue assimilate a quelle domestiche, con
tutte le conseguenze in precedenza richiamate quanto a trattamento penale degli scarichi abusivi che le
riguardino.
Tali conclusioni, esplicitamente affermate nella sentenza del 18 febbraio 2000, in effetti, non sono in
alcun modo contraddette nella decisione in commento, nel corso della quale i giudici si limitano ad
osservare come le acque reflue provenienti da un frantoio in quanto tale - in mancanza di qualsiasi
deduzione in ordine al suo inserimento in un contesto produttivo quale quello più volte descritto e non
ricorrendo motivi processuali per rilevare di ufficio la questione - costituiscano acque reflue industriali non
assimilabili alle acque reflue domestiche. A ben vedere, infatti, in nessun passaggio della motivazione si
fa riferimento al problema, generale, del regime giuridico delle acque reflue provenienti da frantoi inseriti
in contesti produttivi «assimilabili» ai sensi dell'art. 28 comma 7 cit.: non era un aspetto dedotto nel
ricorso né rilevabile di ufficio e pertanto, in definitiva, si è trattato di una questione irrilevante ai fini della
decisione finale, sulla quale, conseguentemente, il collegio non si è espresso.
Diversamente, nel precedente del 2000, i giudici - per le ragioni processuali sopra delineate, connesse
alla successione di leggi nel tempo - hanno correttamente rilevato come, in astratto, taluni frantoi
possano rientrare nelle realtà produttive descritte dall'art. 28 comma 7, cit. (con tutte le note
conseguenze di carattere sanzionatorio che ne derivano) e che, sulla suddetta questione, di volta in volta,
dovrà pronunciarsi il giudice di merito.
Le due conclusioni, e le motivazioni che le sorreggono, nei termini che si è tentato di esporre, appaiono
dunque reciprocamente compatibili ed ispirate entrambe a principi condivisibili.
NOTE
(1) Sez. III, 18 febbraio 2000, Rossi. La massima sopra riportata è tratta da C.E.D. Cass., n. 215888; la
decisione è pubblicata in Dir. giur. agr.amb., 2001, p. 118, con nota di Mazza, Scarico da frantoio oleario
ed utilizzazione agronomica dei reflui.
(2) Escludendo, ovviamente, qualsiasi possibile assimilazione tra acque reflue da frantoio e acque
meteoriche di dilavamento (art. 2 lett. h), d.lg. cit.).
(3) Sez. III, 17 gennaio 2000, Gobbetti, in Dir. giur. agr.amb., 2001, p. 118.
(4) Nel medesimo senso si era già ripetutamente espressa la suprema Corte, anche nel vigore della
disciplina precedente. Tra le altre, si segnalano le seguenti pronunce: Sez. III, 17 gennaio 2000, cit.,
secondo la quale «... L'autorizzazione allo scarico per i frantoi oleari, insediamenti produttivi, è sempre
necessaria, dovendosi parificare i reflui ad acque reflue industriali, mentre l'utilizzazione agronomica è
sottoposta a disciplina e sanzioni distinte. Una cosa è, infatti, lo scarico, altra cosa è l'utilizzazione
eventualmente successiva a scopo agronomico di tutto o di parte del contenuto dello scarico»; Sez. III, 4
giugno 1997, De Pascalis, in Riv. pen., 1997, p.1124 ed in Dir. giur. agr.amb., 2000, p. 52, con nota di
Pinelli, Sull'autorizzazione dello scarico di acque provenienti da frantoi oleari, secondo la quale « ... lo
smaltimento diretto nel sottosuolo di acque derivanti da ciclo di lavorazione del frantoio oleario è
disciplinato dalla l. n. 319/76, penultimo comma, della stessa legge. Da detta disciplina generale resta
esclusa l'utilizzazione agronomica delle acque di vegetazione residuate dalla lavorazione meccanica delle
olive attraverso lo spandimento controllato su terreni adibiti ad usi agricoli, che trova la sua
regolamentazione nella legge 11 novembre 1996, n. 574». In dottrina, in senso conforme alle conclusioni
descritte, si esprime Mazza, Scarico da frantoio oleario ed utilizzazione agronomica dei reflui, cit. e Pinelli,
Sull'autorizzazione dello scarico di acque provenienti da frantoi oleari, cit.
(5) Notoriamente, i frantoi sono spesso gestiti da cooperative di coltivatori, fattispecie che,
evidentemente, non può in alcun caso essere ricondotta alle ipotesi «assimilabili» di cui si è detto.
Archivio selezionato: Dottrina
IL RISCHIO DA "IGNOTO TECNOLOGICO": UN CAMPO ARDUO - FRA LECITO E
ILLECITO - PER LA TUTELA CAUTELARE E INIBITORIA (*)(1)
Resp. civ. e prev. 2003, 03, 599
Claudio Consolo
Ordinario di diritto processuale civile nell'Università di Padova
SOMMARIO: 1. Un argomento (e un convegno) giuridico in larga parte nuovo: fra elettrosmog e OGM. - 2.
Il provvedimento d'urgenza ex art. 700 c.p.c. e il diritto alla salute come oggetto della causa di merito? 3. Segue: il dibattito sulla "tutela" a fronte dell'elettrosmog. - 4. Segue: le variegate reazioni della
giurisprudenza sia civile sia amministrativa. - 5. Segue: la "nuova", "moderna", ma insidiosa, leggequadro del 22 febbraio 2001, n. 36 e suoi decreti attuativi. - 6. I limiti del ricorrente (ma inane, almeno
nelle fattispecie concrete non solo pianificatorie) invocazione del c.d. Vorsorgeprinzip. - 7. Casi
giurisprudenziali recentissimi di rigetto di ricorsi cautelari d'urgenza. - 8. Segue: decisioni
giurisprudenziali in stato di insuperabile incertezza cognitiva (sul fatto: ossia sulla dannosità e sulla
eziologia delle conseguenze di una certa azione). - 9. Ricadute sistematiche sul rapporto fra illecito e
inibitoria, anche con rivalutazione e aggiornamento del modello concettuale delle antiche nuntiationes. 10. Alcune conclusioni sulla relatività degli standards probatori in relazione ai vari tipi di azioni: in specie
della inibitoria "quia timet" verso azioni ancora future di solo possibile e così non acclarata pericolosità (e
così non definibili "illecite").
1. Il tema prescelto (senza ellissi: quello delle reazioni del diritto a fronte) de "il rischio da ignoto
tecnologico", delle reazioni dell'ordinamento a fronte delle incognite, che con il progredire della scienza
non calano affatto, desta - prima ancora del sottotema relativo alle possibili risposte che ad esso dia il
processo civile, specie nella sua funzione cautelare - perplessità e incomprensioni: e non c'è dubbio che,
muovendo da un perimetro problematico così ampio e coinvolgente, se non è facile andare fuori tema,
certamente non è nemmeno facile rimanervi assolutamente al centro e individuarne il nocciolo
concettuale e, di riflesso, operazionale. Il che non di meno è urgente, posto che è questo che oggi la
società domanda agli addetti ai lavori, giuristi in prima fila: saper concepire un sistema di qualificazioni e
di rimedi moderno e nitido, quale premessa per esperienze psico-collettive meno irrazionali e opache. I
rischi (intesi come "esposizione" a possibilità di danni al fine di poter perseguire risultati invece stimati
favorevoli) non sono mai stati, probabilmente, così diffusi e ingenti, ma essi disegnano sempre più non
tanto eventi sciagurati quanto "assunzioni" - di cui la classe dirigente è o dovrebbe essere consapevole di percentuali di pericolosità rapportate, e quasi "tarate", rispetto a risultati favorevoli in tal modo
perseguibili e/o meglio diffondibili e/o ottenibili a più bassi costi interni al sistema produttivo.
Un problema che non ho visto trattato in precedenza nella letteratura italiana - salvi i primi contributi che
iniziano a venire offerti in ordine al c.d. principio di precauzione, elaborato soprattutto in Germania e nel
diritto della UE (2) - ma che crediamo nei prossimi anni si affaccerà con prepotenza anche da noi,
consiste infatti nel chiedersi cosa accade, nella nostra esperienza giuridica di oggi, e cosa dovrebbe
accadere quando - ed è ricorrenza sempre più frequente - la riflessione scientifica e diagnosticoeziologica sulle incidenze a largo raggio e nel tempo di certi sviluppi tecnologici, evidentemente sempre
più tumultuosi e inediti, non offre e dichiaratamente non sa offrire, momentaneamente o anche nel medio
periodo (per chissà quanti anni a venire), risposte minimamente attendibili e con una base
epistemologica di condivisione affidante in ordine agli effetti di tali tecnologie sulla salute di uomini e
animali (e sulla stessa salubrità dei vegetali) (3). Cosa cioè deve accadere in iure quando in sostanza noi
non abbiamo, nemmeno sul piano delle leggi probabilistiche, una risposta, che abbia già resistito a
bastanti prove di falsificazione, da proporre sul nesso di causalità fra certi antefatti, posti in essere
diffusamente dalla società industrial-tecnologica, e il crescere statistico di patologie e affezioni che
destano allarme sociale e che sono spesso molto gravi e penose. Quid iuris, dunque, quando tutti o quasi
tutti convengono che la riflessione scientifica non offre una certezza al detto riguardo? Ecco in che senso,
secondo me, la parola "ignoto" affiora nel campo visuale del giurista ed evoca subito, in particolare al
processualista, ma in termini qui (come vedremo) notevolmente equivoci, quella nozione antica e
sfrangiata di periculum in mora che ispira e instrada le esperienze del processo cautelare, storicamente
precedute dalla lunga storia dell'istituto - che risulterà così fortemente presago delle esigenze rimediali
"aperte" e neppure rigorosamente probabilistiche che ci impongono i tempi presenti - della figura della
denuncia di danno temuto, finora però rimasta confinata al campo dei danni alle cose e ai beni e da
quella ben più recente dei provvedimenti d'urgenza a tutela del diritto alla salute ed anche a prevenzione
delle immissioni virtualmente venefiche (materiali o immateriali) vietate dall'art. 844 c.c.
2. Qual è infatti il diritto sostanziale che in ultima analisi sostanzia, dal punto di vista civilistico, il nostro
dibattito? È abbastanza evidente: fino ad ora, di fronte o di sguincio, mi pare che si sia sempre trattato
del diritto alla salute, del diritto tanto spesso definito fondamentalissimo ed irrinunciabile di cui all'articolo
32 della Costituzione. Ed è quello solo che effettivamente, in tante esperienze giudiziarie civili, e
soprattutto appunto cautelari ex art. 700 c.p.c., è stato individuato, quando i ricorrenti avevano la cura di
delineare con precisione quale dovesse considerarsi il diritto che avrebbero fatto valere nella causa di
merito, profilandolo come il diritto esposto a rischio altamente plausibile di lesioni e così come
pregiudicando in via "imminente ed irreparabile". In un altro campo, che ascriverei in senso proprio al
tema di oggi, ossia - quello degli effetti scientificamente ancora non ben noti delle nuove tecnologie -,
ossia al campo degli OGM (che contribuiscono financo ad accentuare la separazione fra Europa e Usa e a
porre in tensione il WTO), il diritto leso talora potrebbe essere, per la ricaduta sui cibi, pur sempre quello
alla salute singolarmente considerato di ognuno dei consumatori di quei cibi, con pochi problemi allora a
fronte dell'esigenza di rispetto del canone di legittimazione individualizzata - ma sotto questo angolo
visuale il grado di probabilità di lesioni o compromissioni minimamente significative appare molto basso,
davvero troppo anche per una inibitoria solo precauzionale, e così da non (provato) illecito (4) -; più
spiccato invece il rischio di OGM che conduca a limitazioni delle biodiversità e di riflesso possa menomare
un diritto all'ambiente naturale inteso in senso nuovo e più ampio (5), di cui però nessun singolo - temo sarebbe portatore qualificato distinto dagli omnes e così civilmente legittimato ad agire, salvo il recupero
- che stimerei non peregrino - del diritto certo individuale alla libertà di impostazione della (propria)
impresa agricola.
Il diritto alla propria salute o alla salute dei propri bambini in molti casi è dunque al solito l'ingombrante
protagonista; lo prospettano violato soprattutto i rappresentanti dei minori perché questi ultimi sono questo è un dato, almeno esso, abbastanza certo - più fragili dal punto di vista degli effetti delle dette
immissioni e/o comunque dei riverberi delle nuove tecnologie (ove peraltro esse dovessero ritenersi
davvero dannose).
Sono - sia chiaro - fuori dal nostro circolo problematico i casi, vecchi o nuovi, in cui la risposta della
scienza è nota da gran tempo o è divenuta nota in epoca anche talora molto recente: il fumo, attivo e
passivo; le farine animali; l'inquinamento di polveri più o meno sottili da traffico e da riscaldamento; gli
scarichi industriali aerei e liquidi; la negligente conservazione delle scorie nucleari; etc.: la lista qui è
ancor più lunga e ancor più minacciosa (sia chiaro), ma, eziandio, l'ignoto non vi ha più pressoché alcun
ruolo da svolgere; il calcolo, anche economico oppure edonistico, dei costi e benefici può qui essere
affrontato, innanzitutto dal legislatore e all'occorrenza anche dal giudice, senza sprofondare nella sabbia
mobile dell'imperscrutabile. Il raffinarsi della nozione di principio di precauzione (Vorsorgegrundsatz),
dalle prime elaborazioni soprattutto tedesche a quelle comunitarie e oggi anche italiane, può dare allora i
suoi frutti in una cornice di conoscenze ormai chiare e nette (6).
Tuttavia quel principio di precauzione è tanto più vitale e insostituibile, sia pure sul piano di un canone di
orientamento sviluppa un nucleo quasi lapalissiano, proprio al cospetto del dubbio e delle strategie da
adottare per gestirne - nella esperienza giuridica riguardata in tutti i suoi tre "formanti" (per dirla
saussurianamente alla Sacco) - le zone grigie (quelle, cioè, come diremo, in cui lo stesso confine fra lecito
e illecito si deve piegare a lasciare vaste zone di provvisoria e incerta ascrizione).
Il caso celebre a cui, rientrando in medias res, ci viene subito da pensare, non forse - di nuovo però quel
fastidioso punto interrogativo - perché sia il caso più importante (abbiamo dei rischi anche maggiori
all'orizzonte: OGM, saturazione da telefonia mobile, ingegneria genetica), ma perchè è il caso in cui
sull'arco di un periodo più lungo abbiamo potuto "testare" le reazioni del diritto su questo ordine di
problemi è quello dell'elettrosmog o più precisamente dei campi elettromagnetici. Anche senza la
recentissima decisione di Trib. Roma, sez. I pen., 19 febbraio 2002 (7), sulla immunità giurisdizionale nel
caso degli impianti "fuori-legge" di Radio Vaticana, il tema era accesissimo e non è stato in effetti certo
sedato dalla legge quadro n. 36 del 22 febbraio 2001: esso rifornisce di casi - sempre e soprattutto oggi
(ossia nel 2002 e nel 2003) - di ardua soluzione i giudici amministrativi, civili, penali e financo quelli
costituzionali (8).
3. Nella riunione del comitato editoriale della Trimestrale in cui si è immaginato di organizzare una
riflessione seminariale su questo sfrangiato argomento (9) eravamo, credo, in effetti suggestionati dal
ricordo del vivacissimo (financo - ed è rilevatore - sul terreno ecclesiasticistico) dibattito sull'elettrosmog,
anche perché esso aveva in parte contagiato la campagna elettorale allora in corso: in Italia ogni
questione giuridica importante diviene "politica" (al contrario che nella vita statunitense, secondo la ancor
oggi esatta constatazione del giovane giurista Toqueville). Adesso, capisco (e percepisco da molti suoi
interventi) che dopo l'11 settembre la curvatura di quel nostro seminario possa facilmente essere
risultata tutt'altra e di ben più larga campitura, ma anche di parossistica latitudine. Nonostante tutto,
credo convenga attenersi a quel tipo di ispirazione originaria almeno per le riflessioni deputate al
processualista.
Perché nel caso dell'elettrosmog mi pare si possa dire che abbiamo "in vitro" il problema giuridico - ossia
sia normativo che giudiziario - e la possibilità di un esame diacronico delle risposte del diritto a fronte
dell'ignoto, se non come esempio per eccellenza, almeno posto in modo abbastanza chiaro? Perché, per
come l'ho vista io, magari qualcuno mi smentirà, la ricerca scientifica in quel settore l'elettromagnetismo e la salute (10) - è piuttosto indietro, o meglio ci sono ricerche epidemiologiche non
ancora sufficientemente ampie e organiche per poter trarre conclusioni; mentre ancor più arretrata è la
ricerca dal punto di vista delle ricerche scientifiche in senso più stretto, quelle delle leggi di produzione
causali-eziologiche. Sul primo e ancor più sul secondo terreno, non abbiamo risultati appaganti. Che cosa
accade dunque? Semplicemente che noi non sappiamo se la vicinanza a poche decine di metri rispetto a
questi impianti che vengono costruiti con sempre maggior frequenza (soprattutto per il boom della
telefonia mobile e ora dello UMTS, ma non solo per quella) effettivamente comporti un aumento di rischio
molto rilevante o solo un aumento di rischio piuttosto tenue ed eziologicamente inane, peraltro
relativamente ad una serie di temibili affezioni. Per la verità non sappiamo nemmeno se vi sia un rischio
del tutto, quantomeno per le persone adulte, e quantomeno a certi livelli di distanza.
Quindi, tutto il dibattito sulla misurazione e fissazione delle varie soglie di microtesla a cui abbiamo
assistito è un dibattito che si basa non su certezze e nemmeno su probabilità scientifiche. Forse sbaglio,
ma provo a sintetizzare così il grumo di ... minori incertezze. Ebbene. Diciamo, che a certe distanze,
specie con riguardo a insediamenti scolastici con giochi all'aperto di non breve durata, vi è un aumento
percentuale preoccupante (per la gravità della malattia), pur se lieve, nelle leucemie infantili. Forse ho
semplificato troppo, ma almeno ci serve come ipotesi di lavoro.
Ebbene, a questo punto ipotizziamo che i genitori propongano un ricorso ex art. 700 c.p.c.. Allorché,
innanzitutto, si era ancora in un contesto in cui la disciplina secondaria, regolamentare, era ancora quella
del d.p.c.m. del 23 aprile 1992 n. 104 (emissioni a bassa frequenza da elettrodotti) e poi del d.m. Ronchi
n. 381 del 10 settembre 1998 (sistemi radio-televisivi e impianti fissi di telecomunicazioni), per quanto di
solito rispettatissima da quegli insediamenti. Che cosa si sentivano dire, mediamente, gli attori dai giudici
civili e in particolare dai tribunali, a fronte delle loro apprensioni e in vista delle richieste di inibitoria? Si
sentono dire - in quel periodo: e così attorno all'anno 2000 - qualcosa di molto confortante per loro,
ovvero che "sè, è possibile offrire la tutela cautelare civile", la tutela dell'art. 700 c.p.c., perché, in
sostanza, quelli dei d.p.c.m. e dei d.m. sono limiti di natura amministrativa che non vincolano
evidentemente la discrezionalità del giudice civile: il diritto alla salute dei cives è un diritto primario
incomprimibile; e quindi è ben possibile - così giudicavano molti tribunali - che vi siano almeno il fumus
bonus iuris e un sufficiente periculum in mora per concedere un'inibitoria, cioè per ordinare che non sia
messo in funzione l'impianto di ripetizione o il traliccio di elettroconduzione; non si può ordinare che sia
spostato, ma è chiaro che intimare all'operatore economico di non mettere in funzione l'impianto per
molto tempo, fatalmente (dall'ordinanza ex art. 700 alla sentenza, quanto meno; magari anche dopo, e
per effetto, di essa) a lungo, orbene: è come dirgli di provvedere a spostarlo.
La stessa S.C. (11), all'apice (nel 2000 appunto) di questo periodo di generosa e tutto sommato però
anche agevole responsiveness della giurisprudenza civile, ha sottolineato nel caso Genovese c. Enel che
"la tutela giudiziaria del diritto alla salute in confronto della pubblica amministrazione [o, soggiungiamo,
dei suoi concessionari] può essere preventiva e dare luogo a pronunce inibitorie se, prima ancora che
l'opera pubblica venga messa in esercizio nei modi previsti, sia possibile accertare, considerando la
situazione che si avrà una volta iniziato l'esercizio, che nella medesima situazione è insito un pericolo di
compromissione per la salute di chi agisce in giudizio". La S.C., in grazia dell'enunciato principio di diritto,
che condensava il vorsorge prinzip allo stato mero, ha infatti cassato la sentenza del merito, che invece in quel caso (ma in molti altri l'accoglimento fu immediato) - aveva respinto la domanda sul presupposto
che l'elettrodotto era stato costruito sulla base di provvedimenti legittimi e non impugnati e che, peraltro,
esso non era ancora entrato in funzione, sicché era impossibile accertare la situazione di pericolo che si
sarebbe generata una volta intervenuta la messa in esercizio (12).
Per la verità, infatti, non tutti i giudici civili, nemmeno prima dell'evoluzione di cui parlerò dopo (cioè della
recente legge quadro dell'inizio 2001 e della sua disciplina transitoria), davano questa risposta aperta: vi
erano anche ogni tanto delle risposte negative (anche se è arduo calarle nelle differenti contingenze di
specie (13)), ma abbastanza rare: benché si sarà notato come, per meglio trincerarsi dietro l'equivoco
usbergo del fumus b.i., alle ordinanze cautelari non seguissero quasi mai sentenze (14).
Ad ogni modo i più avveduti ricorrenti facevano un altro, ancor più solido, ragionamento giuridico,
giocando di anticipo almeno allorché era possibile: essi ponevano indirettamente la questione sul piano
urbanistico e così si rivolgevano invece al T.A.R. e impugnavano gli strumenti urbanistici, le autorizzazioni
concessorie varie, che consentivano ai nuovi asili, alle nuove scuole, agli insediamenti infantili in genere
di andarsi a collocare nei pressi dei centri di emissione. O viceversa beninteso. E qui direi "sempre e
regolarmente" i T.A.R. concedevano prima la sospensiva e poi una sentenza conforme. Uno standard di
buona amministrazione degli assetti del territorio, da parte di Comuni, Province, Regioni, postula infatti
una ampia quanto agevole (e tutto sommato neppure troppo costosa) valorizzazione in concreto del
principio di precauzione e della massima limitazione (as low as reasonably achievable) della esposizione a
rischi, anche solo virtuali e non importa neppure se forse putativi ma ancora circondati da margini di
"ignoto". Anche il legislatore regionale si è ritenuto abilitato a disporre previsioni maggiormente
precauzionali in materia rispetto alla vecchia disciplina statale di rango "secondario". E la Consulta ha
approvato. Poi, dopo la legge-quadro del 2001, si constatano subito, anche se su tale "fronte
prodromico" (che pure potrebbe, per noi, ancora reggere: v. oltre), maggiori chiusure (15).
4. Come valutare questa complessa esperienza giudiziaria, che perè è ben presto un bel po' mutata
specie nel settore civile, segnatamente dopo la legge quadro dell'inizio 2001, le cui attese norme
paradossalmente hanno sortito l'effetto di rimuovere questo scudo civilistico (amministrato in via
giudiziaria decentrata) reso disponibile, dal sistema stesso delle fonti, alle ansie e questa realizzazione
decentrata ope iudicis del principio di precauzione? A me sembra che quella giurisprudenza debba essere
valutata provando ad allontanarci da una dicotomia che ci è congeniale, che ci è familiarissima e che
forse invece in questo campo della incertezza scientifica dobbiamo valutare con minor fondamentalistico
rigore, che è la dicotomia fra il campo del lecito e quello dell'illecito: vi è qui una "terra di mezzo" in cui
l'azione risarcitoria non trova posto (perché l'illecito non è sufficientemente provato) e quella inibitoria
talora può essere data perché la soglia di rilevanza del rischio (di un nesso causale fra certe attività e
alcuni paventati rischi di eventi dannosi) è risultata non irrisoria. Il passo ulteriore che probabilmente si
dovrebbe compiere consiste nello svincolare il fondamento sostanziale e sistematico della tutela inibitoria
dalla certezza statistica (Pascal) o filosofica (Bacone) che il fatto che si va ad inibire provocherebbe un
danno. Probabilmente nell'ambito del diritto alla salute la nostra valutazione non può essere basata sulla
conoscenza scientifica esatta delle conseguenze dell'uso di una determinata tecnologia, semplicemente ed ecco perché non potrà però compiersi ancora alcuna ascrizione in termini di illiceità - in quanto in
questa ottica l'attesa della conoscenza potrebbe essere troppo costosa (16). Cosicché la separazione tra
tutela risarcitoria, che segue la normale disciplina, richiedendo un fatto illecito, inteso come fatto
appuratamente dannoso per potersi estrinsecare, e tutela inibitoria, non più vista attraverso il monocolo
della distinzione fra lecito e illecito, ma in una luce prismatica, potrebbe acquistare una identità sua
propria e atipica anche dal punto di vista della situazione giuridica protetta, non limitata ai soli diritti
soggettivi, ma suscettibile di accogliere quelle nuove esigenze, ancora non catalogate tra i diritti
soggettivi pieni e, probabilmente, mai suscettibili di divenire catalogabili in siffatta maniera. Alla stregua
dei sistemi di common law, o dello stesso diritto amministrativo interno, non attendere l'emersione della
fattispecie per tutelare il caso concreto, ma attraverso la tutela, spesso più importante, creare la
fattispecie, anche perché l'impostazione risarcitoria risente di una concezione di danno patrimoniale,
l'unica in origine ammessa, che mal si attaglia a queste nuove esigenze del rischio portato alla persona
(dibattito a parte quanto al danno esistenziale (17)). In tal modo si ovvierebbe alle preoccupazioni e
anche ai possibili fraintendimenti e, comunque, alla difficoltà di tutela effettiva delle ben prospettate
esigenze dinamiche di metamorfosi delle conoscenze scientifiche, che sono fatalmente il prius rispetto alla
possibilità di "prova giudiziaria", che mai la potrà surrogare o anticipare. Allo stato difficilmente un
giudice, in via preventiva è in grado di cogliere queste aspettative, a livello di declaratoria di lesione, o di
diritto soggettivo o di interesse legittimo individuale o collettivo da tutelare, se non capovolgendo l'ottica
attuale: non già una preventiva ricognizione delle fattispecie da tutelare, ma la richiesta di un rimedio, la
cui cauta e previdente concessione finisce con il legittimare le esigenze medesime (18).
Invece, se ad ogni effetto noi vogliamo rimanere ancorati a quella dicotomia fra lecito e illecito (rilevante,
beninteso, sempre agli effetti della responsabilità aquiliana), mi sembra che in questo contesto il ricorso
cautelare prima e la causa di merito dopo non possano che avere una sorte negativa, in assenza di una
valutazione prognostica, sia pure in termini probabilistici, della dannosità del comportamento oggetto di
accertamento giudiziale. E ciò non perché non possa esserci un illecito che non abbia ancora causato
danno, e sia nondimeno oggetto di intervento giurisdizionale repressivo come tale (v. su ciò alla nota 27),
ma perché - ove il grado di probabilità che un dato comportamento sia astrattamente idoneo a causare
effettivamente un danno o sia sì significativo, ma non raggiunga alcuno degli standard probatori a cui
possiamo fare riferimento con qualunque dei criteri di regolamentazione dell'onere della prova e financo
della credibile verosimiglianza adottati di consueto dalle Corti, non solo penali ma anche civili (19) - non
siamo neppure in grado di approntare una qualunque risposta giudiziaria al tradizionale quesito se il
gestore industriale che abbia impiantato quel traliccio oppure quel ripetitore nei pressi magari di un
insediamento infantile abbia commesso un illecito accertabile.
Questo è uno di quei casi in cui sicuramente (non solo il diritto penale, come insiste a farci notare fra noi
Federico Stella) ma anche il diritto civile non può raccogliere in tutto e per tutto la palla, almeno fino a
che esclusivamente, appunto, si gioca sul piano risarcitorio. Non a caso nessuna azione risarcitoria, pur
nei casi in cui ci sono state delle malattie in capo ad insediati nelle "zone esposte", è stata intentata.
Tanto meno sono suscettibili di venire, qui, sensatamente avviati procedimenti penali, anche solo per
reati colposi. Questo è un ordine di casi in cui invece il diritto processuale, prima e più ancora che il
diritto civile, può in qualche misura farsi coinvolgere, perché qui siamo di fronte a situazioni congrue per
l'ammissibilità di una azione e di una tutela inibitoria pura, sganciata da quella risarcitoria o comunque
repressivo-sanzionatoria. Vale a dire in sostanza che una tutela inibitoria solo preventiva, avulsa dal
retroterra della proiezione risarcitoria dell'illecito e probabilmente da un diritto soggettivo sostanziale
comprovatamente leso inteso in senso tradizionale, potrebbe essere la più confacente ricostruzione
strutturale del rimedio offerto al riguardo dal nostro ordinamento nel suo complesso, e così nel sistema
del diritto giurisprudenziale di specificazione (fatalmente un poco a pelle di leopardo) delle soglie
precauzionali in sede inibitoria. È questione, con tutto questo, pur sempre di limiti, da tracciare nei casi
concreti in grazia di regole pur sempre probatorie ma ben più sfacettate di quanto la comune riflessione
sull'art. 2697 c.c. abbia fin qui dettagliato.
Ora, che cosa poi è accaduto nel settore che stavo richiamando? È accaduto che mentre le sospensive del
T.A.R. non avevano evocato, sul piano giuridico, quasi nessun problema ed erano evidentemente
saggissime, perché uno strumento urbanistico regolatore deve porsi al massimo grado il problema del
principio di precauzione, dato che alla fine costa davvero (o relativamente) poco di più mettere da una
parte o dall'altra l'asilo che dev'essere costruito ex novo (è solo questione di fare qualche sforzo in più o
qualche sforzo in meno, di congegnare l'utilizzo del territorio diversamente), è apparso del tutto diverso
dover vietare ad una azienda che avesse costruito con le debite concessioni, nel rispetto dei regolamenti,
di attivare quel certo traliccio o quella data antenna. La tensione e la disomogeneità di risposte
(fatalmente) hanno così avuto un acme e una caduta in questi casi in cui la tutela inibitoria può ormai più
essere puramente preventiva, ma fatalmente ormai aggiudicatoria (sia pure non di sanzioni, per quanto
civili).
5. Il forte dibattito politico, a cui abbiamo assistito nei mesi e negli anni passati, ha partorito pressoché
all'unanimità in Parlamento la legge quadro sull'elettrosmog, già più volte citata.
Quali sono state le conseguenze di questa legge? Sono stati tracciati obiettivi di qualità molto ambiziosi
all'insegna dell'ormai invalso Vorsorgeprinzip, dichiaratamente abbracciato in modo "spinto" (e così con
soglie ben più elevate e severe di quelle note alla UE), ma è stato stabilito - ecco, la coda del diavolo, per
così dire - un periodo transitorio di adeguamento. Periodo di adeguamento tutt'altro che breve, in cui
questa legge (la fondamentale e tanto attesa legge ordinaria del Parlamento, approvata pressoché
all'unanimità) ha ripreso e perpetuato proprio e solo i limiti del vecchio decreto del Presidente del
Consiglio dei ministri del 1992, destinati a costituire limiti validi - ormai per legge e così non più, giusta le
regole sulle fonti, disapplicabili incidenter tantum dai giudici - in un periodo per così dire "transitorio" di
svariati anni (20). Prime conseguenze con riguardo ai nuovi ricorsi cautelari: il rigetto. Il rigetto, si badi,
anche solo delle istanze di inibitoria della attivazione dei nuovi impianti, e tanto più della perdurante
attività dei vecchi, perché - si dice - siccome qui sicuramente non c'è più discrezionalità del giudice,
poiché siamo di fronte ad impianti installati nel rispetto delle prescrizioni transitorie della legge quadro (e
non importa se coincidono con quelle "vecchie" del '92, spesso fino a quel momento disapplicate), il
diritto alla salute semmai e paradossalmente sarebbe stato violato da questa legge del Parlamento,
almeno nella sua disciplina transitoria. Non ci sembra di poter dire però che vi sia una questione non
manifestamente infondata di incostituzionalità: ed invero, almeno ad oggi, la questione non è mai stata
rimessa da alcun Tribunale o Corte di merito - civile o amministrativa - sotto questo profilo alla Corte
Costituzionale anche perché i vecchi limiti del 1992 (pur disattesi in via di tutela cautelare d'urgenza,
specie nel biennio 1999-2000) non si possono appunto dire provatamente insufficienti a tutelare la
salute: di nuovo sempre e solo un punto interrogativo, che le indagini statistico-epidemiologiche non
consentono di rimuovere ma neppure di esaltare fino al tetto dell'illecito dimostrabile in termini di
violazione affermabile giudiziariamente dell'art. 32 Cost. Di qui il rigetto della stessa tutela cautelare
d'urgenza ex art. 700 c.p.c. (21).
Non vi è dubbio che la giurisprudenza formatasi anteriormente all'entrata in vigore della legge n. 36 del
22 febbraio 2001 (22) potesse con minore impaccio - partendo dal presupposto che i limiti imposti dai
DPCM e dai DM (i soli, allora, a regolare la materia) erano stabiliti solo da una tale normativa di rango
secondario - giungere talora a ritenere che il rispetto della disciplina del 1992 non escludesse di per sé
l'intervento inibitorio del giudice. In assenza di norme legislative di rango primario, l'attenzione si
spostava infatti allora sull'accertare se in concreto fosse stata provata la potenzialità lesiva dell'impianto e
l'efficacia causale dell'esposizione, potendosi in passato ipotizzare dagli indagatori più facilmente
contentabili financo un fatto illecito (ex art. 2043 c.c.), incidente sul diritto alla salute costituzionalmente
protetto, nell'ambito di una materia non regolata ex lege(23). È vero che il campo del libero
convincimento, così esaltato a dismisura, è percorso - si è detto - da "formule diffuse, ma di significato
quanto mai incerto: qualche reminiscenza giusnaturalistica o illuministica porta taluno ad evocare la
probabilità e l'induzione, ma in modo del tutto generico ... La realtà è che queste formule servono a
coprire la mancanza di criteri razionali, chiari e diffusamente condivisi, per la valutazione delle
prove" (24), ma in questo settore - a differenza che in quelli in cui non compaiono simili hard cases - la
carenza di razionalità di giudizio non può essere rimossa solo con l'innesto di corrette distinzioni logiche:
è il dato esperienzale, e la sua elaborazione debitamente analitica, che non è ancora maturo e non lo sarà
forse ancora per almeno uno o due lustri.
Dopo l'entrata in vigore della nuova legge sul c.d. "elettrosmog", ad ogni modo, il quadro normativo di
riferimento è totalmente mutato e subito di riflesso la giurisprudenza si è adeguata al nuovo contesto.
Oggi è un fatto indiscutibile che l'art. 16 della legge n. 36 del 2001 abbia recepito in una norma primaria
(sia pure per un periodo transitorio, ma in verità non breve) la fissazione dei limiti di esposizione a tutela
della salute nella misura già indicata dal "secondario" DPCM del 1992; espressamente si è stabilito che,
sino alla definizione di eventuali nuovi parametri, la materia resta regolata - e così ormai per ponderata
(è da credere) scelta della legge dello Stato - in termini coincidenti con la preesistente disciplina di rango
secondario. Altrettanto chiaramente l'art. 9 scandisce i tempi e i modi secondo cui quei limiti del '92
diventeranno via via "incompatibili" con la nuova disciplina, che si caratterizza per un maggiore rigore da
affermarsi secondo una progressione forse sufficientemente celere ma non disgiunta da un certo notevole
gradualismo: e ciò in quanto gli studi che hanno preceduto e fondato la nuova legge non hanno condotto
alla prova di un nesso eziologico naturalistico di causa ed effetto (25), ma hanno segnalato
esclusivamente qualche eventualità appena apprezzabile (ad avviso di molti scienziati in termini
infinitesimali: è il noto punto di vista del "manifesto Veronesi"). Il Parlamento (secondo molti, addirittura
troppo assecondando solo epidermiche e massmediatiche ansiogene apprensioni) ha compiuto una scelta
ipercautelativa, ancorché graduale, dando sì preminenza al principio di cautela ma non accantonando del
tutto gli altri interessi pubblici coinvolti (e vi è già peraltro chi autorevolmente critica la legge parlando di
un incipiente "spreco" di 40.000 miliardi, ossia di una cifra che, spesa su una gamma di altri "fronti"
scientificamente più maturi, potrebbe debellare rischi patogenetici alquanto più rilevanti). A fronte di tale
volontà del Parlamento, e così della valutazione "normativizzata" circa non tanto i limiti quanto i modi
della tutela del diritto alla salute dei cittadini da parte dei loro rappresentanti alle Camere, il Giudice non
può certo più svincolarsi - neppure nel campo della mera tutela di inibizione e pur, come dicevasi, sempre
senza irrogare ricadute sanzionatorio-repressive - da una precisa scelta operata dal Legislatore e
riappropriarsi di spazi di libero sindacato e di "supplenza" che fino a ieri gli sono spettati non certo per
volontà propria ma per il silenzio del Legislatore.
7. Esattamente in questi termini è la decisione emessa dal Tribunale di Catania - sez. dist. di Acireale del 22 marzo 2001. Osserva infatti puntualmente la decisione che, a fronte di una precisa ed espressa
scelta del Parlamento, "il giudice non può sostituirsi al legislatore", poiché "diversamente ragionando,
dovrebbe conferirsi la qualifica di fatto illecito ex art. 2043 c.c. ad una specifica condotta che trova
legittimazione in una norma regolatrice di carattere primario" (sia pure una legittimazione - a seconda dei
valori coinvolti - più o meno transitoria e rectius ancora, dovrebbe dirsi, senza la dimostrazione della
carenza di qualunque dannosità concreta delle azioni temute). Dunque, nel vigore della nuova legge, il
Tribunale di Catania ha giustamente ritenuto che esista oggi una disciplina legislativa che riporta - sul
terreno primario come da tempo da tutti auspicato, ad evitare esiti altalenanti ed episodici - di una
programmata e consapevole azione amministrativa la tutela avanzata e prudenziale non tanto del diritto
alla salute (che non può dirsi, mi pare, almeno direttamente posto in gioco perché non è stata mai
dimostrata, al di là di ogni ragionevole dubbio, la sua compromissione in subjecta materia) quanto
dell'aspettativa sociale, che è cosa ben diversa, alla serenità psicologica a fronte dei rischi dell'ignoto o,
rectius, del non ancora sufficientemente noto e assodato. Conseguentemente la citata decisione, ed una
patavina di poco successiva (26) e nel frattempo (immagino) chissà quante altre, hanno respinto nel
merito la domanda e non hanno neppure minimamente dubitato della violazione dell'art. 32 Cost. da
parte della nuova legge (mentre in caso diverso avrebbe potuto e dovuto, anche ex officio, investire
l'unico organo costituzionalmente competente a svolgere un sì incisivo sindacato ed a svolgerlo con
efficacia per tutti i cittadini posti nelle medesime condizioni).
Ciò vale a maggior ragione se si tiene conto che la legge del Parlamento - a differenza di quanto accadeva
originariamente per il D.P.C.M. del '92 (ossia per una fonte secondaria, con vari scopi) - si prefigge il solo
"proclamato" precipuo scopo di dettare, in forza del principio di precauzione, una disciplina di tutela
"avanzata" della salute dei cittadini, facendosi espressamente e specificamente carico - dopo apposite
ricerche e scadendo un periodo transitorio più tollerante, da una disciplina a regime molto (troppo?)
esigente - delle esigenze a ciò connesse e senza lasciare dunque (più alcun) margine per interventi
eccentrici o derogatori incidenter tantum rispetto alle proprie previsioni. La previgente normativa dettava
delle mere "norme d'azione" (27), intese unicamente a regolare lo svolgimento delle attività industriali
senza darsi ex professo cura dei valori connessi al diritto all'integrità fisica ed alla salute, sì che ben si
lasciava ipotizzare - nello spazio evidentemente non coperto dalla normazione così circoscrittamente
concepita - una supplenza giudiziale allorché queste due posizioni giuridiche di rilevanza costituzionale
apparissero lese o non adeguatamente tutelate dal (su questo punto lacunoso) panorama normativo. La
nuova normativa detta invece delle norme "di relazione", destinate a regolare in via esaustiva e completa
la sfera del lecito agire dei gestori e le sue intersecazioni con quella dei cives e così i rapporti tra il diritto
alla salute dei cittadini e le attività di impresa, sì che più non residuano spazi - dinanzi all'espressione
della volontà del legislatore - per ulteriori interventi da parte dei singoli giudici fondati su un difforme, pur
se magari più ragionevole e sempre solo nell'ottica della inibitoria quia timet, bilanciamento degli
interessi coinvolti.
Il legislatore, anche a seguito di una valutazione di costi-benefici (ma non solo di essa), ha oggi ritenuto
del tutto idoneo a garantire la salute del cittadino il graduale cautelativo c.d. risanamento, in tempi (solo
assai) relativamente brevi, di tutti quegli elettrodotti che, secondo i parametri dallo stesso determinati e
determinandi, sono stati ritenuti, allo stato della attuale conoscenza scientifica, potenzialmente lesivi o
meritevoli di rientrare nei c.d. "obiettivi di qualità". Nel prevedere la fissazione per regolamento
governativo (ex art. 4, comma 2, della nuova legge) dei limiti soglia, il legislatore ha comunque inteso
affidare la regolarizzazione delle fonti elettromagnetiche a dei programmi di risanamento (art. 9) da
definirsi entro tempi certi ma (relativamente) distesi, nel quadro del perseguimento di obiettivi di qualità
coincidenti con una "minimizzazione progressiva" (così espressamente definita dall'art. 3, lett. d) di
fattori di rischio.
Quindi, curiosamente, ciò che è stato percepito dall'opinione pubblica come un passo avanti notevole, si è
riflesso, dal punto di vista della prassi giudiziaria e civile, in quello che i singoli ricorrenti hanno ben
presto sperimentato essere invece un regresso marcato e cocente delle loro percepite dirette possibilità di
"tutela" in sede giudiziale (a fronte del rischio da ignoto, non però di lesioni oggi dimostrabili).
La sentenza n. 9893 del 2000 della S.C., subito prima della legge quadro, aveva distinto tre zone (28): la
zona del sicuramente illecito, la zona del sicuramente lecito, la zona grigia in cui, a prescindere dai limiti
del '92, il giudice deve fare le sue valutazioni discrezionali (abbiamo soggiunto noi però - v. retro - solo in
vista di tutele inibitorie preventive). Quella sentenza è nata vecchia, almeno quanto allo elettrosmog,
perché pochi mesi dopo è arrivata la legge quadro che in notevole misura ha tagliato ad essa l'erba sotto
i piedi quanto alla zona grigia, quanto cioè all'aspetto più interessante.
8. Che tipo di risposta, in questa situazione, si deve cercare di organizzare sul piano concettuale?
Organizzare in astratto, perché molto più di questo non credo che possiamo azzardarci a fare, almeno in
questa sede. A poco vale, per ristabilire il "flusso decisorio rassicurativo" (se così possiamo alludere alla
passata giurisprudenza), opporre che - sul piano della tutela cautelare - basta il fumus bonis iuris, e che
quindi anche una probabilità, poniamo, del 15-20% sarebbe sufficiente (il che è cosa all'evidenza ben
diversa da un'impennata del 15% delle rilevazioni epidemiologiche di nuove patologie insorte, perché
questa sì sarebbe prova rilevante della lesività della immissione); questo magari almeno per un esito
positivo in sede solo cautelare, richiedendosi la prova del "più probabile che no" (e così di almeno il
50,1%) di nuovo poi in sede di merito (ben sapendo già che essa ivi sarà, anche allora, in quella
percentuale solo e meramente probabilistica, allo stato scientifico tout court impossibile). Sì che si
finirebbe per concedere così l'ordinanza d'urgenza, con la riserva mentale che tanto poi al momento della
sentenza, se le perizie non individueranno una probabilità maggiore (e si sa già che questo non potrà
accadere), si rigetterà l'azione, magari facendo arrivare la pronuncia definitiva dopo dieci anni, in modo
tale che nel frattempo la situazione si risolva nei fatti in maniera autonoma. Ma certo non all'insegna di
un qualunque ordine giuridico nel ragionamento processuale giudiziario.
Perché in questo contesto di incertezza allo stato "non dileguabile" per la sorte della salute dei soggetti
continuativamente sottoposti alle onde, si è creato uno stato di disagio generalizzato, che investe
l'aspetto psichico della salute, vessata dalla inquietudine cui anche i mezzi di comunicazione di massa che forniscono una congerie di informazioni tumultuose - sottopongono la psiche insicura e vibratile dei
nostri contemporanei (29).
Ovviamente non può essere questa ultima la risposta coerente e non ipocrita al problema. Piuttosto, è
d'uopo vedere qui nella tutela (cautelare, in senso tecnico-processualistico, solo nel nome) che si va a
richiedere un provvedimento sostanzialmente sommario, preso rebus sic stantibus, in cui il giudice non
può accontentarsi di un grado di probabilità minore di quello richiesto dalla cognizione piena: un
provvedimento cui non segua il giudizio di merito perché esso non può arricchire in nulla il campo visuale,
né il panorama peritale e conoscitivo di cui dispone il giudice (se la scienza, e non già la tipologia o il
"rito" della cognizione endoprocessuale soltanto, non avrà nel frattempo fatto progressi). Un
provvedimento che non tenda a quella verità e certezza - probabilistica, fin che si vuole: magari anche
"verosimiglianza" insomma - che costituisce il risultato tendenziale del processo a cognizione piena, ma
miri unicamente alla "residuale non implausibilità", ovvero ad un risultato di qualità epistemologica di
gran lunga inferiore (30), fatica a trovare cittadinanza sul terreno dell'ordine schiettamente processuale:
ivi sarebbe un monstrum. Occorre lavorare sul terreno - ben diverso - dell'articolazione funzionale dei
presupposti di diversi tipi e contesti di tutele, però anche questo solo se e quando il diritto positivo lo
consente (e la legge del 2001 vi frappone un grosso ostacolo).
9. In sostanza, se questa esperienza dell'elettrosmog (che non è ancora finita, ma che ha avuto questo
curioso tipo di punto e virgola nel 2001) dovesse essere generalizzata, che cosa dovremmo trarne come
ricadute sul piano sostanziale prima, e processuale poi?
Innanzitutto, siccome sono molti i campi della fisica e della chimica (latamente intese) e gli eventuali
processi eziologici con ricadute sulla fisiologia degli uomini (e degli animali) che non sappiamo decifrare
attendibilmente (sebbene forse siano pochi i settori in cui oggidì le evidenze scientifiche hanno dato voce
a una preoccupazione analoga: ma probabilmente ve ne sono molti in cui queste evidenze vengono
crescendo e daranno nei prossimi anni corpo a consimili paure), bisogna al postutto che il civilista prima e
il processualista di riflesso poi, sappiano disfarsi in queste materie, della troppo netta linea di
demarcazione, fondamentale per solito, tra lecito e illecito. Siamo di fronte ad attività delle quali è difficile
dire con certezza se siano lecite o illecite, perché non sappiamo se vi è il rischio della commissione di un
mass tort (se fosse un torto, sarebbe di massa; ma non sappiamo se c'è un torto), non sappiamo la legge
causale che cosa ci indica, non sappiamo talora nemmeno che tipo preciso di danni può essere conseguito
da certe attività nuove e (talora anche sol per ciò) allarmanti. Abbiamo appunto e solo un certo numero
di campanelli di allarme, di elementi sintomatici di "rischio". Quello che merita subito di scartare dal
campo visuale è l'utilità di far riferimento alla no fault liability, all'allargamento dei soggetti responsabili e
così a tutta una serie di conseguimenti dell'ultimo trentennio del diritto civile, e del diritto comparato,
perché, in ultima analisi, purtroppo, il problema non è qui tanto quello di far rispondere (solo) civilmente
anche chi non ha colpa per il danno sicuramente dal suo agire prodotto, ma semmai quello di vedere se,
a fronte di una situazione di incertezza, il diritto privato (che non sia il diritto "eccezionale" che promana
direttamente da un impulso del potere di governo) possa offrire delle risposte preventive e non solo
redistributive (31)(32). Allo stato, l'esame della giurisprudenza mostra che le risposte sono negative e
anzi, l'argomento che veniva utilizzato in passato (basarsi sul fumus bonis iuris, latamente inteso, per poi
vedere se - o recte: illudersi che - nella causa di merito emerga la normale regola probabilistica, quanto
meno quella "liberale" del "più probabile che no") è un argomento di cui abbiamo già sottolineato un
certo qual grado di ipocrisia o quanto meno di elusività. Non si può dare una tutela cautelare sull'assunto
che la sentenza di merito arrivi chissà quando (meglio se mai), ben sapendosi che la sentenza dovrà poi
essere, ex art. 2697 c.c., una sentenza di rigetto a meno che la scienza nel frattempo non segni radicali
novità di esiti nella fissazione dei nessi causali.
In questo contesto di incertezza scientifica, in quali forme l'applicazione del principio di precauzione può
essere rimessa (anche) al giudice civile? Quanto gli può essere affidato in un procedimento contratto,
snello, che potrebbe essere a cognizione (non solo a parole) subito piena se solo la scienza offrisse dei
parametri di risposta soddisfacenti e il legislatore ordinario - con scelte politiche tipiche del potere di
governo e delle connesse gravi responsabilità prognostiche - non lasciasse l'autorità giudiziaria in balìa di
parametri soglia regolamentari, deviandone fatalmente il ruolo in quello di un ammortizzatore sociopsicologico?
In realtà bisogna riconoscere, a mio parere, che cognizione sommaria e cognizione piena, sulla questione
di fondo delle giuste "soglie", non hanno all'interno del processo pressoché alcuno spazio per
differenziarsi. Entrambi i processi possono mirare solo ad una inibitoria basata sulla applicazione degli
standards evincibili dal principio di precauzione (eventualmente attraverso il filtro - felice o meno - di una
legge, non disapplicabile a differenza dei regolamenti) in via di mera azione inibitoria preventiva. Se le
legge statale non è sufficientemente partecipata, si muoverà (33) il legislatore regionale e di nuovo i
giudici - a tal punto soprattutto quelli amministrativi (34), ma in prospettiva anche la Consulta - verranno
investiti dal compito... di "dare un colpo al cerchio ed uno alla botte"; di fare passare in qualche modo la
nottata direbbe (questa volta) Edoardo. Questa si profila quale la più verosimile sorte del pluriennale
"periodo transitorio" voluto dalla legge-quadro, ad esempio.
Ottenuta, se non dallo Stato dal potere di governo locale, una più interventista serie di standards, di
nuovo la palla tornerà al giudice civile e al rimedio (a ben vedere qui pseudo-cautelare, in realtà
sommario) del provvedimento d'urgenza "autonomo". Ma presciudiamo, infine, da queste contingenze
(che ormai rendono "particolare" il contenzioso sull'elettrosmog, divenuto - nel modo che si è detto ormai di interesse più socio-psicologico che schiettamente giuridico) e ritorniamo al problema più
generale delle articolazioni autonome delle tutele al cospetto della prova allo stato impossibile dei nessi
causali e del danno-evento.
Si tratterà dopo tutto di cercare una ben tagliata veste per una sorta di variante alquanto più moderna e
più vitale del modello della azione nunciatoria di danno (solo) temuto e (non del tutto irragionevolmente)
temibile: la reminiscenza del dibattito svoltosi quanto alla vecchia denuncia di danno temuto è
interessante: notava Franchi - nella sua ormai classica monografia del 1968 - che l'art. 699 c.c. 1865 a
proposito dell'oggetto della denuncia di danno temuto parlava di un vero e proprio "diritto alla
prevenzione", espressione questa derivata dallo ius nuntiandi delle fonti del diritto intermedio e più
immediatamente dalle codificazioni prussiana e austriaca (quella francese, nel silenzio delle ordinanze
secentesche, devolve invece queste tutele a procedimenti amministrativi e al loro eventuale riesame
giurisdizionale). Il codice italiano vigente non ha conservato l'espressione, ma ciò non toglie che
l'accertamento autonomo destinato a svolgersi nella fase di merito di tale particolare processo permetta
di ravvisare nella cautela richiesta l'oggetto di un invero particolarissimo tipo di diritto soggettivo del
denunziante, che si confonde quasi con l'azione "concreta".
Anche e già nella "vecchia" denuncia di danno temuto mancava il profilo dell'illecito - notava Franchi - per
i pericoli da fatti naturali imprevedibili, dal collocamento di cose che non possono cadere sulle persone,
dalla vetustà e malattia o lesione per fulmine o colpi di vento dell'albero, degli scavi, etc., etc.; e si
poneva così il problema del fondamento dogmatico dell'azione. Nel rimedio odierno il problema si
ripropone, mutatis mutandis, e si generalizza, perché occorre trovare in ogni caso il fondamento della
soggezione del proprietario del fondo da cui deriva il pericolo alla realizzazione dell'interesse del
denunciante. Quel fondamento non può essere più trovato (come veniva fatto per l'antica denuncia) - sia
chiaro - nella coesistenza dell'interesse dello stesso denunciato a non rispondere in futuro per danni al
fondo del vicino: la protezione è ormai - specie allorchè è in gioco la salute - spostata sull'interesse del
potenziale danneggiato. Ma tout court, in una prospettiva ancor più ampia, la radice di questa nuova
inibitoria "quia timet" si radica nell'esigenza collettiva di minimizzare le chances dannose anche e proprio
perché il risarcimento privato non sovverrebbe mai a sufficienza (visto il valore non monetizzabile della
vita e della stessa salute umana e, oltretutto, non di rado il numero di vite coinvolte) e quello pubblico
sarebbe, oltre che costoso, fatalmente soluzione residuale.
Solo poi se l'azione è esperita, la decisione sia cautelare che di merito (inidonea anche quest'ultima al
giudicato, poiché pronuncianda rebus sic stantibus) preverrà, ove con non sperticata prudenzialità possa
essere di accoglimento, l'attualizzarsi della fonte di rischio; se vi è inerzia dei legittimati, nessun altra
tutela (neppure quella risarcitoria) sarà per loro a posteriori fruttuosamente percorribile poiché, allo stato
delle conoscenze, nessuna dannosità del comportamento riuscirebbero mai a dimostrare.
Del resto la richiesta di danni - quand'anche potesse in sé palesarsi dimostratamente fondata (e
sappiamo che così non sarà, se non sovviene la prova scientifica e quella della colpa cosciente, ossia mai
o quasi) - potrebbe trovare la barriera dell'art 1227, co. 2, c.c., ossia in sostanza della regola di
autoresponsabilità non passiva, chiamata a giocare un fatale ruolo; ancorché qui con ancora maggiori
dubbi che nel campo della nuova tutela risarcitoria degli interessi legittimi amministrativistici (35), per
non aver attivato in tempo l'inibitoria, onde paralizzare gli effetti dannosi. L'inibitoria, perciò, diverrebbe
un'azione necessaria: la ragione di ciò risiede anche nel fatto che il soggetto che dovrà eventualmente
subirla, deve essere messo - il più possibile per tempo - in condizione di non investire alcuna somma
nell'allestimento dell'opera di solo "dubbia" salubrità, appunto attraverso un'inibitoria tempestiva. In
questa ottica, anche chi abbia costruito prima un impianto non sarà costretto a smantellare il tutto, in
sede di inibitoria "retrospettiva" allorché nella zona vengano poi edificate abitazioni o financo scuole.
Saranno queste a dovere essere chiuse e spostate e chi le ha autorizzate a dovere rispondere di incurante
leggerezza.
L'attuazione giudiziale del principio di precauzione si modellerà così su uno schema, a ben vedere da gran
tempo noto e solo da ultimo abbandonato: quello che, in materia di interessi legittimi, prevede l'onere di
una tempestiva azione di demolizione (là di un provvedimento, e qui dell'agere-licere delle imprese che
operano con maggiori rischi). Il provvedimento del giudice serve ad assegnare al generico divieto di porre
in essere attività pericolose un contenuto concreto precedentemente assente - pur in un contesto cui non
è provato un illecito (36) - e perciò a "costituire" essa stessa una illegittimità (mentre - per continuare
nel confronto: l'analogia, dunque, è solo parziale - nel contenzioso amministrativo di illegittimità impediva
la sanatoria per decadenza) e gioca così un ruolo particolarissimo nel sistema della tutela giurisdizionale.
Ecco dunque la tutela reale (di una aspettativa, non di un diritto), senza quella risarcitoria; la tutela
preventiva, senza quella sanzionatorio-repressiva: evidentemente le incertezze per gli studiosi che
vorranno inoltrarsi, con spirito sistematico, in questi temi rimangono molte, ma questi lineamenti - che si
intravedono - disegnano un diritto dinamico volto a regolare in modo "mite" ma costruttivo le crisi e le
sofferenze da incertezza e ansia, ponendo al centro della tutela non già direttamente il diritto alla salute
(37) quanto l'"interesse legittimo" - in una sua metamorfosi pur sempre eminentemente processuale
(quale fu la cifra che segnò la nascita di questa figura nel diritto amministrativo), che abbiamo qui
creduto di poter segnalare a rischio di peccare di candore e di azzardo - alla maggior sopportabile (per la
società, anche "economica") prevenzione e così almeno all'ordinato ridimensionamento della
preoccupazione non implausibile.
NOTE
(1) (*) Questo lavoro - nato da una tavola rotonda organizzata a Milano dalla Trimestrale nel dicembre
2001 e debitore di rilievi e suggerimenti di vari lettori - su un tema nuovo che certo avrebbe stimolato lo
scomparso Amico, è dedicato alla memoria del Prof. Angelo Bonsignori e destinato ai relativi Studi, pur
nella consapevolezza della provvisorietà dei suoi esiti.
(2) Il principio di precauzione e cautela è stato espresso per la prima volta dalla Commissione per la
protezione dell'ambiente, la sanità pubblica e la tutela dei consumatori, in seno al Parlamento europeo
con la risoluzione adottata nella riunione del 5 maggio 1994 a proposito dell'inquinamento
elettromagnetico. Nella motivazione si legge: "Pur non essendo chiaramente delucidati i meccanismi
d'induzione dei danni biologici, si dispone oggigiorno di un numero di elementi sufficiente per adattare
norme e regolamentazioni muovendo da due principi direttori: il primo è quello della precauzione; in caso
di dubbio sul livello del rischio si tratta di adottare l'impostazione più conservativa consistente nel
minimizzare detto rischio, ricorrendo, eventualmente, all'opzione zero". il secondo è il principio ALARA
((as low as reasonable achievable) secondo cui una volta operata la scelta sulla tecnologia, l'esposizione
alle radiazioni deve essere quella più debole possibile". In realtà questi due "principii" a me pare
coincidano, siano cioè due espressioni della stessa "idea" politico-giuridica. Con orizzonte ONU, v. in arg.
già SCOVAZZI, Sul principio precauzionale nel diritto internazionale dell'ambiente, in Riv. dir. int., 1992,
699 ss.
(3) Secondo l'art. 174, par. 2, Tratt. UE, la politica della Comunità in materia ambientale mira a un
elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni della Comunità.
Essa è fondata sui principi di precauzione e dell'azione preventiva, sul principio della correzione, in via
prioritaria della fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché sul principio "chi inquina paga".
Alcuni Paesi hanno già recepito all'interno del loro ordinamento il principio di precauzione. L'art. 200-1
(come modificato dalla l. n. 95-101 del 2 febbraio 1995) del code rural francese stabilisce che: l'absence
de certitude, compte tenu des connaissances scientifiques et tecniques du moment, ne doit pas retarder
l'adoption de mesures effectives et proportionée visant à prevénir un risque de dommages graves et
irréversibles à l'environnement à un coèt èconomiquement accettable.
(4) In arg. v. comunque DONÀ DALLE ROSE, Gli organismi geneticamente modificati e la responsabilità dei
produttori nel diritto francese, in Resp. civ. prev., 2001, 1312 ss.
(5) La nostra legislazione non regolamenta l'immissione sul mercato di OGM, mentre vi è una direttiva
europea a riguardo che prevede un complesso procedimento autorizzatorio. Di esso si è occupata di
recente la Corte UE, 21 marzo 2000, n. 6/99, Association Greenpeace France, in Cons. Stato, 2000, II,
703, in Riv. giur. ambiente, 2000, 457, con nota di GRATANI, La tutela della salute e il rispetto del principio
precauzionale a livello comunitario. Quando le autorità nazionali possono impedire la circolazione di Ogm
all'interno del proprio territorio, in Riv. dir. agr., 2000, II, 223, con nota di BRUNO, Principio di
precauzione e organismi geneticamente modificati, ivi, 2000, II, 118, con nota di COSTATO, Ogm: ora
tocca alla corte, in Giur. it., 2000, 2384, in Foro it., 2001, IV, 29, con nota di PAONE. V. anche CANFORA, in
Dir. e giur. agr. e amb., 2001, 374 ss. e LEME MACHADO, in Riv. giur. amb., 2001, 743 ss. Dalla sentenza
emerge che gli Stati membri sono tenuti a valutare il livello di tutela della salute e della vita delle
persone, che va loro assicurato, attraverso il principio di precauzione, nella stessa misura in cui questo
viene applicato nei confronti delle autorità comunitarie. La Corte consente allo Stato membro nel quale
dovrà essere commercializzato il prodotto - che nel frattempo sia entrato in possesso di nuove
informazioni che lo inducono a ritenere che il prodotto oggetto della notifica alla Commissione UE possa
essere pericoloso per la salute e l'ambiente - a negare il proprio consenso, a condizione che ne informi
immediatamente la Commissione e gli altri stati membri affinché, entro il termine prescritto dall'art. 16 n.
2, della direttiva n. 90/220, sia adottata una decisione in materia secondo il procedimento previsto
dall'art. 21 della direttiva stessa.
(6) In arg. v. da ult. GRATANI, Il principio di precauzione: prime riflessioni, in Riv. dir. civ., 2003, II, 9 ss.,
con amplissima bibliografia.
(7) In Corr. giur., 2002, 645, con nota solo parz. crit. di BOTTA, Elettrosmog, libertà della Chiesa e diritto
alla salute dei cittadini, 649. Di questi giorni è la notizia, poi, della "bocciatura" di quella sentenza ad
opera della Cassazione.
(8) Per il riparto di competenze tra Stato, regioni e comuni, nonché su altre implicazioni di questa legge:
MERUSI, Dal fatto incerto alla precauzione: la legge sull'elettrosmog, in Foro amm., 2001, 221.
(9) Ne è sortito il Convegno milanese del dicembre 2001 di cui al Quaderno n. 5 della Rivista Trimestrale
di dir. e proc. civile, Milano, 2002 con contributi di STELLA, COSTI, CONSOLO, STORTONI, ALPA,
GIORGIANNI e interventi di BIN, CHIARLONI, LUISO, ZUCCONI.
(10) Il punto recente in DI LEGAMI, Antenne per telefonia cellulare, elettrosmog e danno alla salute, in
Danno e responsabilità, 2001, fasc. 4, 408 ss., in nota a due ordinanze cautelari civili di metà 2000. E v.
anche IARIA, in Riv. amm., 1983, 776 ss.
(11) Cass., sez. III civ., 27 luglio 2000, n. 9893 in Danno e resp., 2001, 37 ss., con nota di DE MARZO,
Inquinamento elettromagnetico e tutela inibitoria, nonché in Corriere giur., 2001, 200, con nota di
MATARESE, Il danno da onde elettromagnetiche: la svolta della cassazione e in Urbanistica e appalti, 2001,
161, con nota di MANFREDI, L'"irresistibile" diritto alla salute e la tutela dall'inquinamento
elettromagnetico; e v. già Sez. Un. civ., 20 novembre 1992, n. 12386, in Dir. e giur. agr. e ambientale,
1993, 20.
(12) Si ritiene che i diritti, quali quello alla salute ed all'ambiente salubre, non siano assolutamente
comprimibili dall'attività discrezionale della p. a., e in questa materia sussiste la giurisdizione del giudice
ordinario (cfr. Cass., sez. un., 20 febbraio 1992, n. 2092, in Foro it., 1992, I, 2123, in Corr. giur., 1992,
515, con nota di VIRGA, Ammesse le condanne ad un facere della p. a.?, in Riv. pen. economia, 1992,
225; Cass., 12 giugno 1990, 5714, in Arch. civ., 1991, 819; Cass., 23 giugno 1989, n. 2999, in Giust.
civ., 1989, I, 2298; Pret. Treviso-Conegliano, 10 gennaio 1991, in Rass. giur. energia elettrica, 1992,
152). Il diritto alla salute è un diritto soggettivo forte, che, allorquando la sua tutela sia richiesta nei
confronti della p.a., si sottrae al meccanismo dell'affievolimento, di cui agli artt. 2, 4 e 5, l. 20 marzo
1865 n. 2248 all. E, sulla divisione dei poteri giudiziario e amministrativo: il diritto alla salute esige infatti
una difesa a oltranza contro ogni iniziativa ad esso ostile, per cui il giudice dei diritti ha il potere di
condanna addirittura al facere della p.a. (Pret. Torino, 31 gennaio 1998, in Giur. it., 1998, 1148, con note
di BONA e CASTELNUOVO; Trib. Torino, 16 novembre 1994, in Giur. it., 1995, I, 2, 472; Pret. Cirié, 25 marzo
1993, in Giur. it., 1994, I, 2, 208; Pret. Modica, 31 luglio 1990, in Foro it., 1992, I, 2303, con nota di
GIORGIO; Pret. Roma, 26 ottobre 1989, in Giur. merito, 1991, 269); o comunque al non facere: cioè di
inibitoria alla messa in funzione del nuovo impianto.
(13) V. ad es. Trib. Varese 16 giugno 2000.
(14) E così la S.C. si ebbe a pronunciare una sola volta con la cit. sent. n. 9893/2000: in arg. v., fra le
molte, Trib. Udine-Palmanova, 8 gennaio 2001 e Trib. Verona, 28 marzo 2001, in Giur. it., 2001, 2063,
con nota di DALLA MASSARA, Due pronunce in tema di elettrosmog: ovvero dei ragionevoli limiti di un
approccio generalizzante di fronte alla specificità del caso concreto.
(15) Come nel celebre caso deciso da Tar Veneto 13 febbraio 2001, n. 236, in Resp. civ. prev., 2001,
1262 ss., con nota di U. RUSSO, con molti richiami di giurisprudenza amministrativa precedente. In
precedenza v. Tar Veneto 29 luglio 1999, n. 927, in Guida al dir., 1999 fasc. 38, 17, nota ROCCO e già per l'omologazione costituzionale della legislazione veneta - Corte cost. n. 382 del 1998, in Foro it., 1999,
I, c. 412.
Dopo il 2001, muta la propensione. Più di recente, e specie dopo e per effetto della legge quadro, il
giudice amministrativo è divenuto alquanto più prudente e ritroso: v. così Cons. Stato, sez. VI, 3 giugno
2002, n. 3098, in Riv. giur. ediliz., 2003, 168 ss., con nota di ROLANDO, Inquinamento derivante da onde
elettromagnetiche. Disciplina normativa, profili di riparto di competenze e principio di precauzione. Dice,
in sintesi, il Consiglio di Stato: "...alle competenze dei Comuni dirette ad assicurare il corretto
insediamento urbanistico e territoriale degli impianti, si aggiunge quella di "minimizzare l'esposizione
della popolazione ai campi elettromagnetici" (art. 8, comma 6 della l. n. 36 del 2001). La previsione di
tale competenza in aggiunta a quella urbanistica sembra voler significare che si tratti di una competenza
diversa, che comunque deve essere esercitata nel rispetto del descritto quadro normativo di riferimento:
tali misure non possono quindi in alcun modo prevedere limiti generalizzati di esposizione diversi da quelli
previsti dallo Stato, né possono di fatto costituire una deroga generalizzata o quasi a tali limiti, essendo
invece consentita l'individuazione di specifiche e diverse misure, la cui idoneità al fine della
"minimizzazione" emerga dallo svolgimento di compiuti ed approfonditi rilievi istruttori sulla base di
risultanze di carattere scientifico, come indicato dal T.A.R.". Forse, dunque, carenze di istruttoria nel caso
di specie (in cui l'ente locale aveva resistito all'interesse pretensivo della industria, ma... in qualche
modo) possono avere nuociuto.
(16) Probabilmente per la salute e la vita stessa dell'uomo, oltre a far ricorso ai casi che già si sono
verificati nella pratica per poi intervenire, devono essere adottate misure per mantenersi in quel margine
di sicurezza capace di garantire all'individuo il bene (di diritto soggettivo ad esso può parlarsi molto
atecnicamente ... poiché l'unico "adempiente" si trova ... in excelsis) relativo alla salute. In altre parole,
la tutela deve essere apprestata anche a prescindere dalla certezza che quel fatto provochi quell'evento,
ma deve ritenersi sufficiente il pericolo che quel fatto determini quell'effetto, in maniera tale che se quel
fatto non determina quell'effetto, il diritto alla salute non è stato compromesso, se, invece, quel fatto
determina l'effetto temuto, il diritto alla salute è stato salvaguardato fin dall'inizio e non ha corso pericoli.
Errori ne sono stati commessi già molti, si pensi al caso dell'amianto. L'utilizzo dell'amianto, nonostante
gli allarmi legati al suo impiego lanciati da alcuni studiosi, si è, nel passato, rapidamente diffuso a causa
degli innegabili vantaggi economici immediati, e soltanto a distanza di più di sessant'anni dalle prime
diagnosi di carcinoma compatibile con il prodotto, il legislatore italiano è corso ai ripari mettendo al bando
la fibra con la famosa legge 27 marzo 1992. Gli studi scientifici, relativamente agli effetti
dell'elettrosmog, che hanno raggiunto la certezza per gli effetti prodotti nel breve periodo, nel lungo
periodo, ancorché contrastanti, mostrano che un pericolo per il diritto alla salute c'è ed è reale. Anche per
gli OGM molti scienziati mostrano preoccupazione non basata solo su flebili ansie misoneiste.
(17) La violazione dei diritti fondamentali della persona umana, collocati al vertice della gerarchia dei
diritti costituzionalmente garantiti, deve essere risarcita - al solito, però, solo se provata attendibilmente
quale lesione in sé ed indipendentemente dai suoi profili patrimoniali, non come danno morale, ma come
danno esistenziale e secondo la regola di responsabilità aquiliana contenuta nell'art. 2043 c.c. in
combinato disposto con l'art. 2 cost.: Cass., sez. I, 7 giugno 2000, n. 7713, in Giur. it., 2000, 1352, con
nota di PIZZETTI, Il danno esistenziale approda in cassazione, in Corr. giur., 2000, 873, con nota di DE
MARZO, La cassazione e il danno esistenziale, in Danno e resp., 2000, 835, con nota di MONATERI, "Alle
soglie": la prima vittoria in cassazione del danno esistenziale, e di PONZANELLI, Attenzione: non è danno
esistenziale, ma vera e propria pena privata, in Giust. civ., 2000, I, 2219, in Guida al dir., 2000, fasc. 23,
42, con nota di FINOCCHIARO, in Dir. e giustizia, 2000, fasc. 23, 23, con nota di DOSI, in Foro it., 2001, I,
187, con nota di D'ADDA, Il c.d. danno esistenziale e la prova del pregiudizio.
(18) Il concetto era espresso da DI MAJO, Forme e tecniche di attuazione di tutela, in Processo e tecniche
di attuazione dei diritti, (a cura di MAZZAMUTO), Napoli 1989, I, 11 ss.
(19) In arg. v. oggi la incisiva analisi di STELLA, Giustizia e modernità!, Milano, 2002, spec. 253 ss. e 301
ss.
(20) Con la legge 249/1997 - istitutiva dell'Autorità garante per le telecomunicazioni - si sancisce all'art.
1 comma 6 lett. a) che la stessa "vigila sui tetti di radiofrequenze compatibili con la salute umana e
verifica che tali tetti, anche per effetto congiunto di più emissioni elettromagnetiche, non vengano
superati, ...Il rispetto di tali indici rappresenta condizione obbligatoria per le licenze o le concessioni
all'installazione di apparati con emissioni elettromagnetiche". In questo caso non si fa riferimento alla
norma sui tetti massimi. Su una serie di precedenti esperienze v. SANTONASTASO, Libertà di iniziativa
economica e tutela dell'ambiente, Milano, 1996, spec. 129 ss.
(21) V. ad es. nel 2001, Tribunale di Catania-Acireale 22 marzo 2001 e Tribunale di Padova 24 maggio
2001, in questa Rivista, retro, 205 con nota di D(ALLA M(ASSARA).
(22) PASQUALINI SALSA, Diritto ambientale. Principi, norme, giurisprudenza. D.leg. 18 agosto 2000 n. 267,
V ed. aggiornata alla legge quadro sull'inquinamento elettromagnetico (l. 22 febbraio 2001 n. 36), Rimini,
2001; RAMACCI, MEZZACAPO, BUTTI, TRICOMI, FORLENZA e AMENDOLA, Commento alla l. 22 febbraio 2001 n. 36,
legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici, in Guida
al dir., 2001, fasc. 10, 14; MINGATI, La l. n. 36/2001, prima normativa organica in Europa
sull'elettrosmog, in Ambiente, 2001, 1141; NOBILI, Prime decisioni interpretative della l. n. 36/2001
(legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici) (Nota a
Trib. Catanzaro, 30 maggio 2001, Ruffa c. Enel; Trib. Catania-Acireale, 22 marzo 2001, Maugeri c. Enel;
Trib. Milano, 28 luglio 2001, Cattaneo c. Soc. Aem e T.a.r. Lazio, sez. II, 8 maggio 2001, Enel c. Min.
ambiente), in Rass. giur. energia elettrica, 2001, 276.
(23) Si veda per tutte Cass. 21 luglio 2000, n. 9893, cit.
(24) Così TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, Milano, 1992, 368 ss. Con specificazioni "taglienti" nella
materia dell'elettrosmog, v. MERUSI, Dal fatto incerto alla precauzione: la legge sull'elettrosmog, in Foro
amm., 2001, 221 ss. Ove il pubblicista pisano non a torto nota che: a) di fatto, in questa materia, alto è
il rischio che il ricorso al giudice (specie cautelare) diventi, a sua volta, un azzardo da tentare contro
l'incertezza (con indicazioni giurisprudenziali alle note 2 e 3); b) la legge quadro n. 36 del 2001 - oltre a
raccordarsi male con la coeva riforma costituzionale (quasi-)federalista - sembra mossa dalla sola
constatazione della impossibilità, allo stato, di eliminare - con qualsivoglia procedimento giuridico - una
diffusa convinzione che il fatto sia "incerto" e come tale minaccioso; c) i suoi "valori di
attenzione" (soggiungo, fissati da due decreti del Consiglio dei Ministri nel 2003, in 10 microtesla per i
luoghi ove si soggiorna più di quattro ore al giorno) e i suoi c.d. "obiettivi di qualità" (3 microtesla, per i
nuovi elettrodotti vicini a scuole, aree-gioco, abitazioni) sono estremamente prudenziali - 10 volte
inferiori a quelli di G.B., Francia, Germania (non di meno non così bassi come volevano molte Regioni
italiane) - ma scaglionati nel tempo; d) in particolare, per il c.d. risanamento dei vecchi elettrodotti
(risanamento, però, soggiungo, è termine qui concettualmente impreciso) non si prevede un onere
finanziario statale ma aziendale (e così scaricabile non sui contribuenti, ma sui consumatori: la
coincidenza di conseguenze economiche è solo parziale); c) per il "risanamento" degli impianti
radioelettrici (in 24 mesi dai decreti), costi e problemi giuridici sono minori, ma certo l'obbligo normativo
contiguo di "coprire" il 98% del territorio italiano stride. Contraddizioni al quadrato!
(25) Anche se inizialmente è stato difficile ammettere la tutela della salute per i danni che possono
essere provocati da immissioni di onde elettromagnetiche, prima della legge del 2001 alcuni giudici che
hanno affrontato le problematiche connesse alle onde elettromagnetiche che promanano da elettrodotti,
hanno concesso l'inibitoria nell'ipotesi di costruzione da parte dell'Enel di elettrodotto ad altissima
tensione (anche prima che gli studi scientifici fossero univoci sul punto), a favore degli abitanti della zona
interessata dalla costruzione, e hanno ingiunto all'Enel di non attivare l'elettrodotto, in previsione
dell'esercizio di una inibitoria di merito per la tutela del diritto alla salute, che potrebbe venire
pregiudicato dalla prolungata esposizione al campo elettrico generato dall'elettrodotto, pur quando i
risultati delle indagini epidemiologiche allora in atto non avessero indicato già come assolutamente certa
l'esistenza di un nesso eziologico tra l'esposizione ai campi elettrici ed i danni paventati (insorgenza di
cancro, leucemia, malformazioni genetiche ed altri disturbi), essendo comunque necessario, in attesa del
definitivo responso della comunità scientifica, prendere tutte le misure atte ad evitare che il rischio
ipotizzato si tramuti in danno irrimediabile (così testualmente Pret. Pietrasanta, 8 novembre 1986, in
Foro it., 1987, I, 3372). Più di recente Trib. Milano, sez. XII, 5 ottobre 1999, ord., inedita, in un'analoga
ipotesi di inquinamento elettromagnetico, ha concesso il provvedimento ex art. 700 c.p.c. sul
presupposto che non si può pretendere che i ricorrenti e i loro figli attendano di ammalarsi di cancro o di
leucemia infantile per eliminare la fonte del pericolo di tali mali, al contrario hanno diritto di ottenere la
tutela da parte dell'ordinamento senza dover attendere che il pericolo del danno si concretizzi in danno
effettivo (cfr. anche Tar Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 21 ottobre 1999, n. 507 e Tar Veneto, sez. II,
29 luglio 1999, n. 927, ord., inedite).
(26) V. retro alla nota 20.
(27) Per usare la nitida terminologia di GUICCIARDI, La giustizia amministrativa, Padova, 1957, 33 ss.
(28) Esistono, d'altra parte - anche se, ai nostri fini, non ci sembra che questa categoria fenomenica
acquisti specifico rilievo - i c.d. illeciti di contegno, dei quali si può parlare "quando non vi sia lesione, e il
danno consista in una perdita. La risarcibilità di essa, e quindi la possibilità di addebitarla ad altra
persona troverà la sua ragione nel comportamento di questo" (PIETROBON, Illecito e fatto illecito
inibitoria e risarcim., Padova, 1998, 96). Nei c.d. illeciti di contegno il problema del nesso causale sembra
superato in quanto il danno è addebitato all'autore del fatto non in base (anche) ad un giudizio di
causalità, ma in forza della sola esistenza di un contegno illecito della stessa.
(29) JONAS,Das Prinzip Verantwortung, Frankfurt am Main, 1979, tradotto in Italia con il titolo Il principio
di responsabilità. un'etica per la civiltà tecnologica, Torino 1990, sostiene che la prudenza ecologica è
euristica della paura. TALACCHINI, Ambiente e scienza incerta, in Ambiente e diritto, a cura di GRASSI,
CECCHETTI e ANDRONIO, Firenze, 1999, II, 57 ss., specifica che "l'idea di una scientificità della prudenza,
che si accompagna alla validità ed atipicità della scienza, vuole indicare qualcosa di diverso, una posizione
che non asseconda le paure irrazionali, ma esige la partecipazione di un pubblico consapevole e
informato". V. anche le considerazioni di ANGIONI, Il pericolo concreto come elemento della fattispecie
penale, Milano, 1994, spec. 286 ss. (sui modelli di misura della "possibilità"). Il rapporto ISTISAN 98/31
dell'Istituto Superiore di Sanità ha stilato i risultati di uno studio epidemiologico sui tumori e le patologie
neurodegenerative nei soggetti esposti a campi a 50/60 Hz, allo scopo di fornire una base di dati
scientifici comuni a legislatori, operatori della sanità pubblica e dell'ambiente, amministratori locali,
magistrati, giornalisti e cittadini interessati al problema per conseguire l'espressione di un consenso
informato collettivo nei riguardi dei complessi processi decisionali che dovranno essere formulati su
questa materia. Non parrebbe con molto frutto.
(30) Sulle caratteristiche di questo accertamento, v. da ultimo PROTO PISANI, L'istruzione nei procedimenti
sommari, in Foro It., 2002, V, 17 ss.
(31) Una certa letteratura che si è occupata di queste problematiche suggerisce l'introduzione
dell'inversione dell'onere della prova, sia per gli installatori che dovrebbero ottenere l'autorizzazione solo
a fronte di prova di assoluta non nocività dell'impianto, sia per i produttori, i quali dovrebbero fornire la
prova dell'assoluta non nocività per la salute umana dei prodotti immessi sul mercato e nell'ambiente:
BRUNO, Il principio di precauzione tra diritto dell'Unione europea e World Trade Organization, in Dir. e
giur. agr. e ambiente, 2000, 569; SANTONASTASO, op. cit., 194 ss.; CEVOLIN, L'inquinamento
elettromagnetico, in Dizionario giuridico delle autonomie locali, a cura di MEZZETTI, Padova, 1999, 268. Ma
il problema è quello piuttosto della prova attualmente impossibile.
(32) Il problema dell'"ignoto tecnologico" sembra operare su due fronti: quello del nesso causale - non
essendo certo o, almeno, probabile che il danno verificatosi sia ricollegabile a quell'azione - e quello della
qualificazione del comportamento in termini di illecito colpevole - se anche risulterà dannoso - poiché
all'epoca del suo compimento ciò era ignoto all'agente. Profilo quest'ultimo che, se rileva nell'azione
risarcitoria, non assume alcun peso in quella inibitoria.
(33) Come infatti si è mosso, per ora - rendendo così forse superata T.R.G.A. Trento, 1° marzo 2001, in
Foro amm., 2001, 1262 ss. - in Trentino e in Alto Adige.
(34) I Giudici amministrativi si sono occupati già di tutela della salute dagli effetti dell'elettrosmog. Il
Consiglio di Stato, sez. V, con ordinanza del 7 marzo 2000 n. 1211 (T.I.M. c. Rota, Baldino, e nei confronti
del Comune di Spezzano Piccolo, A.S.L. n. 4), in un caso assolutamente identico, si è così espresso
"tenuto conto, in particolare, delle disposizioni contenute nel D. P. R. 23 aprile 1992, sui limiti massimi di
esposizione a campi elettrici e magnetici, della raccomandazione del Consiglio Europeo del luglio 1999, e
del Decreto del Ministro dell'Ambiente n. 381 del 28 settembre 1998, occorre rispettare il principio di
cautela, a salvaguardia dei possibili effetti a lungo termine sulla salute dei cittadini, che abitano in
prossimità degli impianti in questione"; in base a tale principio di precauzione e cautela il Consiglio di
Stato ha, quindi - accogliendo in pieno la tesi qui prospettata - disposto una Consulenza tecnica d'ufficio
"sulla base dei dati tecnici, concernenti la potenza di emissione, le caratteristiche dell'onda
elettromagnetica emessa, l'intensità e la variabilità, sia in relazione alle condizioni di esercizio, che alla
distanza tra l'impianto e l'abitazione dell'interessata." (Cons. Stato ord. cautelari], sez. V, 7 marzo 2000,
n. 1211, in Cons. Stato, 2000, I, 801). T.a.r. Lazio, sez. I [ord.], 18 dicembre 1996, n. 3806, in Foro it.,
1997, III, 548, in Arch. locazioni, 1997, 875, in Dir. informazione e informatica, 1997, 147, ha stabilito
che in materia di inquinamento elettromagnetico, l'interesse primario alla salute deve considerarsi
prevalente rispetto ad ogni altro interesse giuridicamente protetto, sicché ha accolta la domanda di
sospensione cautelare del provvedimento di dichiarazione di pubblica utilità e urgenza per le opere di
installazione di una stazione radio Gsm. Più di recente, per la posizione del Consiglio di Stato, v. tuttavia
anche retro nota 14.
(35) Ove la norma è da taluni - Clarich, Consolo - ammessa e da altri - Caranta e Luiso - esclusa perché
l'azione di impugnativa sarebbe un mezzo di tutela preventiva troppo costoso. L'onere, per evitare la
diminuzione del danno risarcibile per concorso colposo ex art. 1227 c.c., di impugnare il provvedimento
lesivo dell'interesse legittimo non esclude affatto che subito nasca - coesistendo con l'interesse legittimo
leso e con l'azione giurisdizionale amministrativa di contenuto complesso (caducatorio-preclusivoconformativo) - il diritto di credito al risarcimento del danno, extracontrattuale o ormai (dopo le riforme
della L. n. 241 del 1990: Cass., sez. I, 10 gennaio 2003, n. 157, in Danno e responsabilità, 2003, 477
ss., con nota di CONTI) verosimilmente piuttosto contrattuale che ne sia la natura. L'eventuale
instaurazione della pendenza giurisdizionale avanti al Tar, e i suoi esiti (che il ricorrente cercherà di
ottenere subito: con il cautelare e l'"abbreviato" potenziati dalla L. n. 205/2000), non daranno luogo a
dipendenza processuale con il processo risarcitorio (ove separatamente pendente), ma solo ad influenza
in ordine alla liquidazione del quantum del danno. Chi ammette (non condivisibilmente per noi) invece
una vera e propria in senso tecnico "pregiudiziale amministrativa" dell'impugnativa dell'atto (e sono in
genere gli amministrativisti: v., per tutti, FALCON, Il giudice amministrativo tra giurisdizione di legittimità
e giurisdizione di spettanza, in Dir. proc. amm., 2001, 287; diversamente CARANTA, Il ritorno
dell'irresponsabilità, in Urbanistica e appalti, 2001, 666) può elidere questo problema civilistico. Così la
pensa oggi, discostandosi di netto dalla sent. n. 500 delle Sez. un. della S.C., l'ad. plen. del Cds. sent, n.
5/2003.
(36) Contra LUISO, Intervento, nel Quaderno della Rivista trimestrale di dir. e proc. civ., 5, Milano, 2002,
p. 123, secondo il quale - in confronto dialettico con chi scrive - avremmo un caso (che non sarebbe
neppure l'unico: analogo sarebbe lo spossessamento soggetto a rivendica) di atto illecito non suscettibile
di dar luogo a risarcimento. Non comprendo bene però perché lo spossessamento del proprietario non
sarebbe, quello sì, un vero illecito. Non vedo quindi perché nel caso qui discusso, concordando
sull'esclusione del risarcimento, la qualifica di "illecito" sarebbe confacente.
(37) Sulla cui titolarità passiva superumana e consistenza... solo "teologica" mi sono già espresso: esso
fa il paio (quanto a rigore e serietà giuridica) con il diritto alla felicità che - mi viene detto - trovare posto
nella Costituzione brasiliana. Altra cosa è il diritto (o l'onere per tutti?) di ricercare questi beni ineffabili,
come si limita a garantire la più "sofferta" Costituzione degli USA. A parte ciò. Per qualche spunto sulla
necessità di superare la limitatezza delle categorie tradizionali del raccordo fra tutela d'urgenza e diritti
soggettivi pieni v., fra molti, spec. ANGELONI, Diritto alla salute, risarcimento del danno e provvedimenti ex
art. 700 c.p.c., Rass. dir. civ., 1989, 749, ove altri riferimenti ad un dibattito forse prematuramente
assopitosi. Spunti consonanti con le mie riflessioni trovo, da altro punto di vista, in MERUSI, op. loc. cit. (v.
retro nota 23).
Archivio selezionato: Dottrina
LA TUTELA DELLE ACQUE NELL'ORDINAMENTO INGLESE
PREMESSA
Riv. it. dir. e proc. pen. 2001, 04, 1344
Antonella Madeo
Ricercatore di Diritto penale Università di Genova
Per affrontare in modo corretto lo studio dell'inquinamento delle acque e degli strumenti giuridici di cui un
ordinamento si serve per prevenire questo fenomeno, è necessario fare una premessa fondamentale: in
natura non esiste acqua completamente pura. L'acqua, infatti, presenta sempre un certo grado di
impurità in dipendenza di fattori geologico-ambientali.
Quando si parla di inquinamento delle acque in senso tecnico, però, non ci si riferisce a questo tipo di
impurità, ma a quello determinato dall'uomo nell'opera di modificazione dell'ambiente - e quindi,
direttamente o indirettamente, delle acque - finalizzata a renderlo più consono alle proprie esigenze.
La responsabilità, civile e penale, per l'inquinamento idrico sorge così in conseguenza dell'alterazione
della qualità naturale - di per sé non perfettamente pura - di un corso d'acqua. Alterazione che può
riguardare le caratteristiche fisiche (colore, temperatura, volume), chimiche (durezza, presenza di
determinati elementi chimici quali l'ammonio e l'azoto), biologiche (soprattutto in riferimento ai batteri
che sottraggono ossigeno all'acqua).
Si parla di inquinamento, quindi, quando in conseguenza dell'attività umana si verifichi l'alterazione di
una o più di queste caratteristiche.
Tanti possono essere i fattori che concorrono ad inquinare le acque. Limitandoci ad analizzare i principali,
si possono menzionare le acque di rifiuto (dette anche acque di scarico o, ancora, liquami), gli scarichi
commerciali e industriali, gli scarichi provenienti dall'attività mineraria, nonché dall'attività agricola.
Le acque di rifiuto consistono in liquidi di scarico di origine domestica che, se non vengono sottoposti ad
adeguato trattamento, prima di essere scaricati nei corsi d'acqua o in mare, possono avere un effetto
inquinante di grave entità, in quanto determinano una grave alterazione della qualità biologica dell'acqua.
Esse, infatti, hanno una grande capacità di sottrazione d'ossigeno all'acqua in cui vengono scaricate che,
nei casi più gravi e a lungo andare, può determinare l'asfissia dei pesci e delle altre forme di vita
acquatica.
I rifiuti provenienti dalle attività commerciali e industriali possono essere direttamente scaricati dal
produttore nelle acque, quando vi sia un'autorizzazione statale, altrimenti devono essere, prima,
convogliati attraverso canali di scolo verso le opere fognarie per essere sottoposti ad un trattamento di
depurazione, e poi scaricati nelle acque in qualità di rifiuti trattati.
Se lo scarico di rifiuti commerciali e industriali non avviene in uno di questi modi, sorge il pericolo di gravi
forme di inquinamento, in quanto detti rifiuti possono cagionare forti alterazioni delle qualità fisiche,
chimiche o biologiche dell'acqua, a seconda del tipo di materiale scaricato (1).
I rifiuti dell'attività mineraria (2) consistono nei materiali sedimentosi provenienti dal lavaggio dei
minerali. Lo scarico di essi determina un forte aumento della presenza di corpi solidi nell'acqua e quindi
un'alterazione del volume, oltreché della colorazione, dell'acqua con effetti dannosi per la fauna e per la
flora acquatica. Esistono, inoltre, minerali particolarmente tossici, le cui scorie, se scaricate, hanno
particolari effetti inquinanti sulle acque, soprattutto attraverso la sottrazione di ossigeno.
Anche l'attività agricola può avere effetti inquinanti sull'ambiente idrico. Ciò avviene principalmente in
conseguenza dello scarico dei rifiuti di foraggio. Può accadere, infatti, che il foraggio, a causa di difetti di
costruzione o di manutenzione delle cisterne in cui è conservato, fuoriesca e si riversi nei corsi d'acqua, il
ché può avere un effetto inquinante - in conseguenza della sottrazione d'ossigeno all'acqua da esso
cagionata - pari a 200 volte quello determinato dalle acque di rifiuto domestiche (3).
Ciò nonostante, l'attività agricola - lo si vedrà in seguito - pur quando cagioni l'inquinamento delle acque,
non necessariamente comporta per l'ordinamento inglese una responsabilità civile e/o penale. Anzi fino al
1989 era addirittura coperta da una specifica causa di non punibilità (4).
Il presente lavoro si propone di vedere come l'ordinamento inglese affronta il problema dell'inquinamento
delle acque, sia analizzando la disciplina legislativa, sia verificando l'atteggiamento delle corti
nell'applicazione concreta delle disposizioni in materia.
Sarà data particolare attenzione a questo secondo aspetto, in quanto le corti giocano un ruolo importante
anche laddove un settore sia disciplinato non dalla common law, ma dalla legge scritta (" statute law"),
come nel nostro caso (5): esse, infatti, spesso integrano la disciplina legislativa dove questa appaia
carente, formulando principi fondamentali. Vedremo, ad esempio, che in ordine al titolo di imputazione
del reato di causazione dell'immissione di sostanze inquinanti nelle acque, mancando un'espressa
previsione legislativa, la giurisprudenza ha fissato il principio dell'imputazione oggettiva, basata
sull'accertamento del solo nesso eziologico.
L'analisi dei reati posti a repressione delle condotte inquinanti sarà fondata, quindi, essenzialmente sulle
sentenze più significative in materia, al fine di integrare e coordinare i principi di diritto in esse enunciati
con la disciplina legislativa. Operazione questa non semplice dal momento che in questo settore non
esiste una vera e propria dottrina come la nostra che svolga un lavoro di interpretazione e di critica della
legislazione e della giurisprudenza, salvo qualche sporadica opinione su aspetti peraltro poco significativi.
Ciò spiega la carenza di riferimenti dottrinari nel nostro lavoro, che appunto non dipende da trascuratezza
nei confronti del pensiero giuridico inglese, il quale ci sarebbe anzi stato di grande aiuto nello studio
dell'argomento, bensì dalla presa d'atto della mancanza di esso in questo settore.
SEZIONE PRIMA. - LA DISCIPLINA DEGLI SCARICHI
1. La normativa vigente. - La gestione e la tutela del patrimonio idrico nell'ordinamento inglese sono
ripartite a due livelli, uno politico e uno amministrativo.
A livello politico, la competenza è attribuita al Segretario di Stato per l'ambiente e al Ministro
dell'agricoltura, pesca e alimentazione (6), i quali promuovono la politica nazionale per le acque ed hanno
il compito di assicurare ciascuno l'effettiva realizzazione di una parte di essa: al Segretario di Stato è
affidato primariamente il settore della rete fognaria, nonché del trattamento e dello smaltimento delle
acque di rifiuto; al Ministro quello dell'attività ittica nelle acque interne e costiere e quello degli scarichi
dei rifiuti in mare (7).
A livello amministrativo, bisogna distinguere tra attività di controllo e tutela delle acque da un lato, e
attività di gestione del servizio di erogazione dell'acqua dall'altro.
La prima è affidata alla competenza di un organo amministrativo, l' Environment Agency; la seconda è
svolta da società private di erogazione (8).
La legge attualmente in vigore in materia di tutela delle acque è il Water Resources Act del 1991. Essa è
subentrata, senza peraltro apportare modifiche di rilievo, al Water Act del 1989. Quest'ultimo ha avuto un
ruolo molto importante, in quanto ha rivoluzionato il precedente assetto normativo stabilito dal Control of
Pollution Act del 1974, privatizzando la gestione del servizio di erogazione dell'acqua; non ha invece
cambiato nulla in ordine alla tutela delle acque.
La politica adottata dal legislatore per tutelare le acque si basa su due momenti, quello del controllo
preventivo, tramite la regolamentazione degli scarichi, e quello dell'intervento repressivo successivo ai
fenomeni di inquinamento, tramite Ia previsione di reati.
2. Gli obiettivi di qualità delle acque. - Sul primo versante, il Water Resources Act sancisce il potere in
capo al Segretario di Stato di fissare, mediante regolamenti, degli "obiettivi di qualità delle
acque" ( water quality objectives), vale a dire di determinare dei limiti massimi di concentrazione di certe
sostanze nelle acque, affinché queste possano avere un grado di purezza sufficiente a farle rientrare
entro una determinata classificazione (9), sempre stabilita, mediante regolamento, dal Segretario di
Stato. In tal senso, sono stati al momento (10) emanati due regolamenti di portata generale, vale a dire
applicabili a tutte le acque interne e costiere (11), che stabiliscono il massimo di concentrazione
ammissibile nelle acque di certe sostanze pericolose. Regolamenti ulteriori potranno in futuro fissare per
particolari corsi d'acqua livelli di concentrazione di sostanze pericolose più bassi rispetto a quelli generali.
In mancanza di essi, nell'attuale fase di transizione continuano ad applicarsi per alcuni di questi gli
obiettivi di qualità non regolamentati preesistenti.
3. L'autorizzazione agli scarichi. - Il Segretario di Stato e l' Environment Agency hanno la responsabilità
di controllare che le acque continuino a mantenere inalterate le proprie caratteristiche chimiche e fisiche,
vale a dire a rimanere conformi allo standard relativo alla classificazione in cui rientrano. Per consentire
l'adempimento da parte di questi organi di tale funzione, il Water Resources Act sancisce il principio
secondo il quale lo scarico di certe sostanze o materiali nelle "acque controllate" (12) è vietato - in
ragione della loro attuale o potenziale nocività - a pena di commettere un reato, salvo che avvenga a
seguito di rilascio di un'autorizzazione a scaricare da parte dell' Environment Agency, e in conformità alle
condizioni in essa fissate.
L'autorizzazione può essere incondizionata o condizionata. Quest'ultima è l'ipotesi più frequente, in
quanto offre maggiori garanzie che le acque non vengano inquinate. Le condizioni apposte dall'
Environment Agency possono avere qualunque contenuto, essendo ampia la discrezionalità dell'organo.
In genere, comunque, esse attengono al luogo di scarico, alla temperatura, al volume e alla percentuale
dello scarico, al numero di volte di scarico consentito (13).
L'autorizzazione deve avere una durata minima di quattro anni, durante la quale non può essere revocata
né modificata, per consentire al titolare di svolgere la propria attività con una certa tranquillità (14). Se,
però, durante questo periodo egli non ha rispettato le condizioni contenute nell'autorizzazione per almeno
un anno, l' Environment Agency può revocare l'autorizzazione anche prima della scadenza di detto
periodo (15).
Inoltre, il Segretario di Stato può richiedere all' Environment Agency di revocare, apportare modifiche alle
condizioni o trasformare da incondizionata a condizionata un'autorizzazione, qualora sia necessario per
dare attuazione ad impegni comunitari o comunque internazionali, ovvero per ragioni di tutela della
salute pubblica e della flora e fauna acquatiche (16).
L' Environment Act del 1995 ha messo a disposizione dell' Environment Agency un ulteriore strumento
per meglio garantire il mantenimento delle acque pulite. Ha, infatti, aggiunto nel Water Resources Act
una disposizione che attribuisce all' Environment Agency il potere di emanare un enforcement notice, vale
a dire un atto con il quale egli, nel caso in cui ritenga che il titolare di un'autorizzazione abbia violato o vi
sia il pericolo che violi le condizioni di essa, intima a questo di adottare determinate misure per rimediare
o prevenire la violazione entro un termine perentorio (17). La mancata attuazione delle misure intimate
costituisce reato ed è punibile con la pena detentiva fino a tre mesi e la pena pecuniaria fino a 20.000
sterline, nei casi meno gravi; con la pena detentiva fino a due anni e una pena pecuniaria illimitata (cioè
determinata liberamente dalla Crown Court), nei casi piu gravi.
Il Water Resources Act ha sottratto alla generale disciplina dell'autorizzazione un particolare settore,
quello riguardante soggetti che, per la loro attività o servizio, hanno o intendano avere la custodia o il
controllo di sostanze o materiali velenosi, nocivi o inquinanti.
Tenuto conto del grave pericolo che questo fenomeno può costituire per l'ambiente in generale, e per le
acque in particolare potendo dette sostanze essere smaltite tramite scarico nelle acque, il Water
Resources Act prevede che il Segretario di Stato, con un proprio regolamento, possa proibire la custodia o
il controllo di queste sostanze, salvo che il soggetto che ne ha la disponibilità adotti determinate misure
precauzionali stabilite nel regolamento e finalizzate a prevenire o controllare l'immissione di queste
sostanze nelle acque controllate (18).
L' Environment Agency determina con un proprio atto sia le circostanze in presenza delle quali scatta
l'obbligo di adottare le misure precauzionali, sia il tipo di misura che deve essere presa in ragione della
migliore efficacia relativamente al caso concreto.
La violazione dei suddetti obblighi imposti a colui che ha il controllo o la custodia di dette sostanze nocive
costituisce reato ed è punibile con pene stabilite nel regolamento del Segretario di Stato, che non devono
eccedere i limiti di quelle sancite dall'art. 85 del Water Resources Act per i reati di immissione e di scarico
(19).
4. Il codice di buona pratica agricola per la protezione delle acque. - La purezza delle acque è
maggiormente minacciata quando nelle vicinanze di esse siano situate industrie, aziende agricole o
comunque produttive, dato il pericolo di scarico da parte di queste di sostanze e materiali inquinanti.
In considerazione di ciò, per quanto concerne specificamente l'attività agricola, il Water Resources Act,
oltre alla summenzionata previsione dell'imposizione di misure precauzionali nei confronti di chi ha la
custodia o il controllo di sostanze velenose, nocive o inquinanti, stabilisce all'art. 97 che il Ministro può,
con un proprio atto, approvare un codice di disciplina finalizzato a dare una guida pratica a coloro che
svolgono un'attività agricola, soprattutto quando questa possa intaccare le acque controllate, nonché a
promuovere quelle pratiche che ritenga più consone a prevenire o ridurre l'inquinamento delle acque
stesse.
Il codice può essere in qualunque momento dal Ministro modificato o revocato, sempre con un proprio
atto.
Allo stato attuale è in vigore, dal 22 gennaio 1999, il Code of good agricultural practice for the protection
of water, approvato dal Ministro con il Water (Prevention of pollution) (Code of practice) Order del 1998
(20), che contestualmente ha anche revocato il precedente Code of practice del 1991.
La violazione delle norme del codice di buona pratica agricola non comporta di per sé responsabilità
penale o civile, ma può costituire un presupposto per l'emanazione da parte dell' Environment Agency del
divieto di scarico ex art. 86 del Water Resources Act, la cui violazione, come si vedrà, configura una delle
fattispecie del reato di scarico ai sensi dell'art. 85, nonché una delle circostanze in presenza delle quali
può venire imposta l'adozione di misure precauzionali, ex art. 92, nei confronti di chi ha la custodia o il
controllo di sostanze velenose, nocive o inquinanti.
5. Zone di protezione delle acque. Aree sensibili ai nitrati. - Il pericolo che le attività produttive, agricole
e non, possano intaccare le acque è ulteriormente preso in considerazione dal Water Resources Act nella
parte in cui prevede la creazione delle c.d. "zone di protezione delle acque". II potere di creare queste
zone è attribuito al Segretario di Stato e consiste nell'individuare un'area nella quale si svolgono attività
produttive che possono costituire una minaccia per le acque, al fine di vietare o limitare le stesse in
ragione di detto pericolo.
In genere, il Segretario di Stato delega all' Environment Agency l'individuazione delle attività vietate o
limitate, nonché la determinazione dei limiti cui queste ultime sono soggette (21). Soltanto divieti e
restrizioni possono essere imposti a coloro che svolgono attività su dette zone, mai oneri positivi.
Il mancato rispetto delle condizioni alle quali un'attività è ammessa in una zona di protezione comporta
per l'esercente responsabilità penale: nel regolamento con il quale la zona è stata designata, infatti, il
Segretario di Stato determina anche i reati e le relative pene per la violazione dei divieti e delle restrizioni
(22).
Il rischio di inquinamento è particolarmente elevato per le acque nelle cui vicinanze si svolgano attività
agricole in cui si faccia largo uso di fertilizzanti contenenti nitrati. Ciò in quanto i nitrati, qualora vengano
scaricati nelle acque, provocano, da un lato, un'abnorme crescita di alcune piante acquatiche e, dall'altro,
la distruzione di altri tipi, il che determina un forte squilibrio nella flora acquatica.
In considerazione di ciò, il Water Resources Act prevede, per le zone in cui vi sia questo rischio, la
possibilità di creare vincoli di protezione più intensi rispetto a quelli validi per le " zone di protezione delle
acque".
Le zone in questione vengono chiamate " aree sensibili ai nitrati" (23), e si differenziano dalle " zone di
protezione delle acque" per tre aspetti. In primo luogo, la designazione dell'area spetta al Ministro per
l'agricoltura, pesca e alimentazione, anziché al Segretario di Stato. In secondo luogo, nell'area in
questione non soltanto possono essere imposti divieti e limiti allo svolgimento delle attività rischiose per
l'integrità delle acque, ma possono essere imposti anche oneri positivi a carico degli esercenti, come ad
esempio la costruzione di cisterne per la raccolta delle acque di rifiuto contenenti nitrati, o ancora la
creazione di canali di scolo (24). Infine, in relazione al condizionamento particolarmente intenso che
subiscono gli imprenditori nell'esercizio della propria attività agricola nelle aree in questione, il Water
Resources Act prevede che l'atto col quale il Ministro designa l'area possa anche fissare un indennizzo a
loro favore (25).
Allo stato attuale il Ministro ha designato 12 aree (26), in aggiunta ad altre dieci che aveva già designato
prima dell'entrata in vigore del Water Resources Act(27).
SEZIONE SECONDA. - I REATI
1. Il reato di immissione di sostanze inquinanti nelle acque. - Si è detto all'inizio che la tutela delle acque
è apprestata dal Water Resources Act sia attraverso un'attività di controllo preventivo, sopra illustrata, sia
tramite la previsione di reati per la repressione di condotte inquinanti.
Oltre alla violazione di alcune disposizioni e di obblighi imposti a scopo preventivo, di cui si è poc'anzi
parlato, che costituiscono reati punibili con pene non superiori a quelle fissate dall'art. 85 del Water
Resources Act, quest'ultima disposizione prevede tre reati a tutela delle acque, e precisamente quello di
immissione di sostanze inquinanti, quello di scarico delle stesse e quello di aggravamento
dell'inquinamento. Il primo è previsto dal primo comma dell'art. 85, in base al quale commette il reato di
immissione chiunque " cagiona o consapevolmente permette l'immissione nelle acque controllate di
sostanze velenose, nocive o inquinanti, ovvero di rifiuti solidi".
La condotta è individuata dal legislatore alternativamente nel " cagionare o consapevolmente permettere"
l'immissione. Ciò significa che in realtà due sono i reati, uno consistente nel cagionare l'immissione di
sostanze inquinanti nelle acque, l'altro nel permettere consapevolmente la suddetta immissione.
Già nel vigore del Rivers pollution prevention Act 1876, che prevedeva un reato in buona sostanza
analogo a quello attuale di immissione, la giurisprudenza aveva affermato che le condotte di causazione e
di permissione davano origine a due reati, ed aveva anche tentato di spiegare la differenza tra le due in
modo da individuare due distinte sfere di applicazione.
" Causare - affermava Lord Wright nel caso Mc Leod v.. Buchanan(28) - implica un comando espresso o
reale, ovvero un'autorizzazione da parte di una persona ad un'altra. Permettere è un termine più vago e
indefinito. Può denotare un permesso espresso, generale o particolare, diverso da un comando...
Comunque, è un termine che ricomprende anche i casi di permesso meramente presunto".
È opportuno pertanto procedere ad un'analisi distinta delle due condotte.
1.1. (Segue) La condotta di "cagionare l'immissione di sostanze inquinanti". - Il reato incentrato sulla
"causazione" pone innanzittutto il problema della determinazione della portata di questa condotta, vale a
dire di stabilire se essa richieda necessariamente un atto positivo o possa anche essere realizzata con
un'omissione, con una dimenticanza o con un semplice atto di tolleranza.
Sul punto rappresenta leading case nella giurisprudenza inglese Alphacell Ltd. v. Woodward(29). In tale
caso, un'impresa di produzione cartacea si era installata sulle rive di un fiume per attingere l'acqua
necessaria a lavare i materiali greggi. L'acqua utilizzata, essendo inquinata, veniva poi convogliata,
attraverso apposite pompe, in vasche di sedimentazione per evitare di inquinare il fiume. Le pompe,
dotate di filtri per le foglie e i rami, si spegnevano automaticamente quando l'acqua raggiungeva un certo
livello. Accadde, però, che, un eccessivo deposito di foglie e di rami ostruì i filtri; conseguentemente le
pompe, malfunzionando, continuarono a convogliare, anche dopo il raggiungimento del livello di guardia,
l'acqua sporca che, fuoriuscendo dalle vasche, si riversò nel fiume con grave effetto inquinante.
I responsabili dell'impresa, condannati in primo grado ai sensi dell'art. 2 del Rivers (Prevention of
Pollution) Act del 1951 per aver cagionato l'immissione di sostanze inquinanti nel fiume (30), eccepirono
in appello che non era stata provata a loro carico né la consapevolezza che l'acqua inquinata si era
riversata nel fiume, né una negligenza nel non aver constatato il guasto della pompa: nella specie,
insomma, era mancato sia il dolo che la colpa ( mens rea) (31).
La House of Lords, nel respingere l'appello (32), prese spunto per chiarire il significato di "cagionare"
affermando che " una persona non può essere responsabile del reato di cagionare l'immissione di
sostanze inquinanti in un fiume se non compie almeno un atto positivo nella catena di atti e fatti che
conducono a quel risultato" (33). Per "cagionare" l'immissione, pertanto, è necessario porre in essere
almeno un atto positivo, essendo irrilevante un comportamento meramente passivo (34).
Questo principio si è consolidato nel tempo, in quanto le corti, successivamente chiamate a pronunciarsi
sul punto lo hanno costantemente ribadito, riportando spesso passi della sentenza Alphacell, divenuta
così una pietra miliare della giurisprudenza in tema di reato di immissione di sostanze inquinanti nelle
acque (35).
Così, ad esempio, nel caso Price v. Cormack(36), immediatamente successivo ad Alphacell, e anch'esso
spesso citato dalla giurisprudenza degli anni ottanta e novanta, la Divisional Court ha escluso la
responsabilità per il reato di causazione dell'immissione nei confronti di una persona che aveva accettato
di far costruire da un'impresa due bacini sul suo terreno per la raccolta di effluenti (37). Ciò in quanto il
comportamento di accettazione, vale a dire di semplice tolleranza, non poteva assurgere a causazione
dell'immissione della sostanza inquinante nel fiume, essendo necessario almeno un atto positivo (38).
Dalla casistica presa da noi in considerazione abbiamo constatato che il principio suddetto ha continuato a
venir utilizzato per l'interpretazione della condotta di "cagionare" l'immissione anche quando questo reato
è stato riformulato dal legislatore, all'art. 107 del Water Act del 1989.
Così, ad esempio, nel caso National Rivers Authority v. Yorkshire Water Services Ltd.(39) venne
condannata, ai sensi dell'art. 107 del Water Act del 1989, sia in primo grado sia in appello davanti alla
Crown Court per aver cagionato l'immissione di sostanze inquinanti nelle acque controllate, una società
che svolgeva, con regolare autorizzazione della National Rivers Authority, attività di trattamento di
effluenti industriali con successivo convogliamento degli stessi, tramite una propria rete fognaria, nelle
acque controllate. Ciò in quanto tra gli effuenti che un'industria cliente di detta società convogliava nel
sistema fognario di raccolta e trattamento degli stessi, un giorno venne versata anche una parte
contenente una sostanza altamente inquinante per i fiumi, l'iso-octanolo, per la quale l'autorizzazione di
cui la società di trattamento era titolare prevedeva espressamente il divieto di scarico. La società non si
accorse di questa intrusione e quindi lasciò che il suddetto effluente, insieme agli altri precedentemente
trattati, venisse scaricato nel fiume, con la conseguenza che questo si inquinò.
Il fatto che l'immissione nelle acque controllate fosse dipesa da un versamento illegittimo della sostanza
inquinante effettuato da un terzo all'insaputa della società non venne ritenuto neppure dalla House of
Lords come fattore escludente la responsabilità della società. Secondo la Corte, infatti, l'aver creato un
sistema di trattamento e convogliamento, tramite una propria rete fognaria, di effluenti nelle acque
controllate, costituiva un atto positivo di causazione dell'immissione degli effluenti inquinanti nelle acque
controllate, indipendentemente dal fatto che ad esso si fosse accompagnata una circostanza "speciale",
quale l'inserimento della sostanza inquinante nell'effluente scaricato da parte di un terzo (peraltro
altrettanto responsabile del reato) (40).
L'interpretazione giurisprudenziale sulla condotta di cagionare è stata ribadita anche in riferimento alla
disposizione attualmente in vigore, vale a dire l'art. 85 del Water Resources Act del 1991.
Nel caso Empress Car Co (Abertillery) Ltd. v. National Rivers Authority, ad esempio, una società, che
teneva su un suo terreno adiacente ad un fiume una cisterna contenente carburante, è stata condannata
ai sensi dell'art. 85 del Water Resources Act in primo grado dalla Crown Court per aver cagionato
l'immissione nel fiume del suddetto carburante. Nonostante intorno alla cisterna fosse stato costruito un
argine per trattenere le eventuali fuoriuscite di carburante, accadde, infatti, che qualcuno di nascosto aprì
la valvola della cisterna (cosa facilmente realizzabile dato che essa non era munita di alcun lucchetto),
determinando così un travaso di carburante di tale entità da non poter essere trattenuto dall'argine
circostante, che si riversò nel fiume adiacente con grave effetto inquinante. La House of Lords(41),
chiamata a pronunciarsi in sede di appello, ha confermato la condanna, affermando che per cagionare
l'immissione di sostanze inquinanti nelle acque non è necessario porre in essere la causa immediata, ma
è sufficiente realizzare un atto positivo che sia "una" causa, anche se non quella diretta e anche se
concorrente con altra, come in questo caso. Infatti, l'atto di apertura della valvola da parte di un terzo
(che è sicuramente la causa immediata dell'immissione) non è stato la sola causa, ma si è aggiunto ad un
atto positivo della società, consistente nell'aver installato sul terreno la cisterna e nell'aver adottato
determinate cautele (costruzione dell'argine circostante) per prevenire fuoriuscite di carburante. Pertanto,
quest'ultimo atto può, nella discrezionale valutazione dei fatti da parte del giudice, essere considerato
condotta di causazione dell'immissione nonostante la concomitante presenza dell'atto altrettanto causale
di apertura della valvola da parte del terzo.
Questa casistica mette in luce un altro problema delicato attinente all'accertamento della causazione, vale
a dire il concorso di cause. Si è visto, infatti, come in molti casi le corti abbiano rilevato che accanto alla
condotta dell'imputato si fosse affiancata la condotta di un terzo, sconosciuta e imprevedibile da parte del
primo.
Sulla rilevanza di questo fattore estraneo, umano o naturale che sia, non c'è un indirizzo uniforme in
giurisprudenza.
Alcune sentenze, peraltro risalenti anche se autorevoli, tendono a dare efficacia causale esclusiva alla
concausa quando essa abbia il carattere della obiettiva imprevedibilità, e sempre che abbia un peso così
determinante da rendere " circostanziale" la condotta dell'agente.
Questo principio lo abbiamo rinvenuto, ad esempio, nel caso Impress (Worcester) Ltd. v. Rees(42) in cui
una persona, entrata di notte abusivamente negli stabili di un'impresa, aveva aperto la valvola di una
cisterna contenente nafta, situata vicino ad un fiume, provocando l'inquinamento di questo. La Corte
escluse la responsabilità dell'impresa per il reato di causazione ai sensi dell'art. 2 del Rivers (Prevention
of Pollution) Act 1951, per rottura del nesso causale tra l'attività di questa e l'inquinamento del fiume,
proprio in quanto causa essenziale dell'inquinamento era stata l'apertura della valvola, vale a dire una
condotta completamente priva di collegamento con l'attivita dell'impresa e ragionevolmente imprevedibile
da parte dei responsabili della cisterna.
Il principio, peraltro, ha trovato applicazione anche in qualche sporadico caso recente, giudicato in base al
Water Resources Act. Così è avvenuto nel National Rivers Authority v. Wright Engineering Co Ltd.(43), in
cui una società è stata assolta dal reato di causazione ex art. 85, per l'immissione in un ruscello di
petrolio fuoriuscito da una cisterna, in quanto la fuoriuscita era dipesa dal danneggiamento della cisterna
provocato da atti di vandalismo di un terzo. La causa determinante dell'inquinamento del ruscello doveva,
secondo la Corte, ravvisarsi nell'atto di vandalismo sulla cisterna e non in un malfunzionamento della
stessa imputabile alla società.
In altri casi, molto simili, come il già analizzato Empress Car Co relativo alla fuoriuscita di carburante da
una cisterna per apertura della valvola da parte di uno sconosciuto, viceversa la House of Lords ha
affermato che la concausa, umana o naturale, non esclude il nesso causale per il solo fatto di essere
imprevedibile, ma soltanto nel caso in cui abbia il carattere della straordinarietà, vale a dire quando
fuoriesce totalmente dai "normali fatti della vita". Peraltro se nell'opinione della Corte sia l'atto di
vandalismo del National Rivers Authority v. Wright Engineering Co Ltd., sia l'apertura di nascosto della
valvola di Impress rientrerebbero nei normali accadimenti della vita, non riusciamo ad immaginare quali
circostanze di fatto possano assurgere a fattori di carattere straordinario escludenti il nesso causale.
La questione oltrettutto è particolarmente delicata in quanto determinante per stabilire la sussistenza o
meno della responsabilità penale: il reato di causazione dell'immissione, infatti, è a responsabilità
oggettiva ( strict liability), vale a dire imputato sulla base del solo nesso causale, a prescindere
dall'accertamento del dolo o della colpa ( mens rea).
Questa forma di imputazione, in realtà non è sancita espressamente dalla legge (né dal Rivers
(Prevention of Pollution) Act né dal Water Act, né dal Water Resources Act), ma è stata fissata dalla
giurisprudenza a partire da Alphacell che ha costituito sul punto un precedente.
La House of Lords, infatti, ha rigettato in detto caso l'appello fondato sulla mancata consapevolezza da
parte degli appellanti del malfunzionamento delle pompe e comunque sull'assenza di una loro negligenza,
affermando che, ai fini del reato di causazione di cui all'art. 2, c. °, del Rivers (Prevention of Pollution)
Act 1951, non si richiedeva il dolo né la colpa, ma semplicemente il nesso causale con l'evento dannoso
in quanto, altrimenti, la maggior parte delle condotte inquinanti sarebbe andata esente da pena, data
l'estrema difficoltà di provare in tali situazioni la colpevolezza.
In detta sede Lord Salmon giustificò la scelta della responsabilità oggettiva per tale reato sulla base di
esigenze di " public policy": "se la condanna dovesse farsi dipendere dalla prova che l'inquinamento è
stato provocato intenzionalmente o colposamente, un gran numero di casi rimarrebbe impunito.... con la
conseguenza che molti fiumi si inquinerebbero sempre di più".
È stato, tuttavia, rilevato da parte di certa dottrina (44) con la quale concordiamo, che l'imposizione della
responsabilità oggettiva per il reato di causazione, in virtù del principio " l'inquinatore deve pagare", può
in certi casi portare a risultati irragionevoli.
Un esempio di decisione irragionevole si può trovare in CPC (U.K.) Limited v. National Rivers Authority
(45). Nella specie, la Corte aveva in primo grado condannato i titolari di una fabbrica per il reato di
causazione in quanto, in conseguenza di un difettoso funzionamento delle condutture di scarico, si era
verificato un riversamento di sostanze inquinanti in un fiume. La Corte aveva affermato che a nulla
rilevavano le circostanze che il malfunzionamento era dipeso da un difetto di installazione delle
condutture, che l'installazione era stata fatta prima dell'acquisto della fabbrica da parte degli imputati e
che il difetto non era stato neppure rilevato dai periti di questi ultimi in sede di verifica dello stato della
fabbrica ai fini dell'acquisto.
Questa decisione è chiaramente applicativa dei principi espressi nel precedente Alphacell, in quanto fonda
la responsabilità sul solo nesso causale, vale a dire sul fatto che il riversamento è stato provocato dalle
condutture di scarico malfunzionanti, e in questo modo garantisce il rispetto del principio secondo cui
l'inquinatore deve pagare. Al tempo stesso è indubbio che, tenendo conto di tutte le circostanze del fatto
- il guasto non era stato rilevato al momento dell'acquisto della fabbrica, anche se già presente - essa
susciti non poche perplessità. Ciò spiega come la Corte d'Appello abbia riformato la suddetta sentenza,
pronunciando la piena assoluzione dei titolari della fabbrica. La Corte affermò che l'unica questione
rilevante ai fini della responsabilità degli appellanti era l'accertamento se la fabbrica si trovava sotto il
controllo degli stessi nel momento del riversamento, che sostanzialmente sottintendeva l'accertamento di
una loro culpa in vigilando. Essendo stato provato che la condotta di controllo era stata costantemente
ineccepibile da parte degli appellanti, la Corte d'Appello li assolse ed escluse l'accollo dei costi del
risanamento del fiume.
È evidente il contrasto tra questa decisione d'appello, basata sulla mancanza di colpevolezza e il principio
fissato nel precedente Alphacell secondo il quale il reato di causazione dell'immissione deve essere
considerato a responsabilità oggettiva.
L'atteggiamento "trasgressivo" della Corte d'Appello non è rimasto un episodio isolato. Infatti, nonostante
le corti continuino formalmente a conformarsi al principio fissato in Alphacell, in alcuni casi le decisioni,
formalmente fondate su argomentazioni attinenti al nesso causale, in realtà ci sembrano sostanzialmente
basate sul principio di colpevolezza. In altri termini, a volte, pur avendo il soggetto tenuto un
comportamento attivo nella causazione dell'inquinamento, si è esclusa la sua responsabilità penale
formalmente sulla base dell'intervento di un fattore esterno causale determinante, che in realtà
sottintendeva la mancanza di colpa nel soggetto. Così è avvenuto nel caso sopracitato National Rivers
Authority v. Wright Engeneering Co Ltd., dove si è dato un peso determinante nella catena degli atti che
hanno portato all'inquinamento del ruscello all'atto di vandalismo di terzi estranei; e lo stesso è avvenuto
nell'altro caso già citato Impress dove si è attribuita efficacia determinante ed esclusiva al
comportamento dell'estraneo che ha aperto la valvola di notte.
Al tempo stesso non si dimentichi che nel recente caso Empress Car Co(46), in una vicenda identica alla
succitata Impress, la House of Lords ha escluso la natura straordinaria di fattore causale esclusivo in
relazione all'apertura della valvola della cisterna da parte di un terzo estraneo, ed ha quindi pronunciato
la condanna dell'impresa cui apparteneva la cisterna (47).
L'opinione che ci siamo fatti in seguito all'analisi di questa casistica è che i contrasti giurisprudenziali in
tema di causalità trovino ragione essenzialmente nel fatto che le corti sentono fortemente la pressione
nascente dalle esigenze di far riparare il danno ambientale e di prevenire il fenomeno dell'inquinamento
delle acque (48). Al tempo stesso, tuttavia, in certe situazioni concrete l'inquinamento, pur riconducibile
in senso lato ad un'impresa, è stato provocato direttamente dall'atto imprevedibile di un terzo estraneo
svincolato dall'impresa; ed essendo il terzo in questione ignoto, si è posto per i giudici il problema se dare
comunque prevalenza alle esigenze riparative e preventive dell'inquinamento accollando la responsabilità
all'unico soggetto individuabile e solvibile che in qualche modo appare collegabile al fatto (l'impresa),
oppure riconoscere che l'intervento del fattore estraneo all'impresa è stata l'unica causa diretta e
immediata dell'inquinamento che esclude la responsabilità (oggettiva oltre che colpevole) dell'impresa
con la conseguenza di lasciare il fatto impunito e il danno ambientale non riparato.
1.2. (Segue) La condotta di "consapevolmente permettere l'immissione di sostanze inquinanti". Decisamente meno problematica ci appare l'interpretazione del reato realizzato con la condotta di
"permettere consapevolmente l'immissione".
In ordine ad essa la giurisprudenza ha sempre affermato - già sotto il vigore del Rivers (Prevention of
Pollution) Act 1951 - che "permettere" significa omettere di prevenire l'inquinamento, vale a dire
rimanere inattivi quando si ha il potere di agire (49).
È stato evidenziato in dottrina che con tale reato si intende punire colui che "sa che si sta verificando
l'inquinamento, ha il potere di fare qualcosa per impedirlo, ma non agisce" (50).
Si tratta di una norma scarsamente applicata, non sempre a ragione peraltro. Infatti, come le stesse corti
più volte hanno sottolineato, l'accusa in genere procede nei confronti di soggetti inquinatori ai sensi del
reato di "causazione" piuttosto che di quello di "permissione", anche laddove essi non hanno tenuto una
condotta attiva di cagionamento dell'inquinamento. Conseguentemente si sono verificate a volte
assoluzioni sostanzialmente inaccettabili, ma formalmente ineccepibili, in quanto motivate dal fatto che la
condotta inattiva dell'imputato non poteva assurgere al reato contestato di "cagionare" l'inquinamento,
ma tutt'al più a quello di "consapevolmente permettere l'immissione", che però non era stato contestato
dall'accusa, e per il quale quindi non era possibile pronunciare condanna (51).
Sul piano soggettivo è la stessa norma incriminatrice a richiedere che l'omessa prevenzione sia sorretta
dalla positiva consapevolezza dell'effetto inquinante della condotta. Pertanto, a differenza del reato di
causazione, quello di permettere l'immissione è senza dubbio a responsabilità colpevole. Ciò spiega il
fatto che nel caso Impress (Worcester) Ltd. v. Rees, già citato, si è esclusa la responsabilità degli
imputati: le circostanze di fatto - la valvola della cisterna era stata aperta di notte e da uno sconosciuto
entrato abusivamente nello stabile - inducevano a ritenere impossibile la consapevolezza da parte dei
responsabili della cisterna del comportamento inquinante dello sconosciuto.
La prova della consapevolezza di permettere con la propria inerzia l'immissione è estremamente difficile,
salvo confessione. Pertanto le corti hanno fissato il principio dell'inversione dell'onere della prova,
affermando che la prova del fatto materiale è sufficiente ad inferire anche la consapevolezza di esso,
salvo prova contraria (52).
Questo principio fa eccezione alle normali regole sull'onere della prova degli elementi costitutivi di un
reato. Esso produce l'effetto pratico di disapplicare nella maggior parte dei casi l'imputazione colpevole a
favore di quella oggettiva.
Ci pare, pertanto, che le corti abbiano in questo modo voluto allineare il reato di immissione tramite
permissione a quello di immissione tramite causazione sul piano del titolo di imputazione, probabilmente
sulla base dell'irragionevolezza altrimenti di punire con le stesse pene fatti materialmente simili (di
immissione), ma in un caso a prescindere dalla colpevolezza (causazione), nell'altro no (permissione).
La consapevolezza deve avere ad oggetto soltanto la condotta, vale a dire il permettere, con la propria
inattività, l'immissione. Non deve, invece, coprire anche l'oggetto del reato (sostanze velenose, nocive o
inquinanti). È sufficiente, quindi, che l'agente abbia consapevolmente permesso l'immissione delle
sostanze, anche se non sapeva che queste erano velenose, nocive o inquinanti (53).
1.3. (Segue) L'oggetto del reato. - Il reato di immissione, sia nella forma di causazione sia in quella di
permissione, ha come oggetto della condotta sostanze velenose, nocive o inquinanti, ovvero rifiuti solidi.
Di tale formula non esiste alcuna definizione legislativa.
In dottrina si è affermato che la locuzione usata dal legislatore è di ampio respiro, tanto da includere
anche le sostanze pericolose per la fauna o per la flora, che pur siano innocue per la salute umana (54).
Analizzando il significato dei tre tipi di sostanze, si è messo in evidenza (55) che è " velenosa" la sostanza
che agisce in senso dannoso o pericoloso su qualunque organismo, salvi i casi in cui il quantitativo di essa
sia talmente esiguo da rendere impossibile l'effetto venefico sulle acque in cui la sostanza è stata
immessa (56); è " nociva" una sostanza che in senso lato ha "effetti sgradevoli senza necessariamente
essere pericolosa".
In ordine al significato di sostanza " inquinante" esiste, invece, un'interpretazione giurisprudenziale, che
prende spunto dal caso National Rivers Authority v. Egger U.K. Ltd.(57). Nella specie, una grossa chiazza
marrone con un'estensione di più di 100 metri era apparsa in un fiume in conseguenza dell'immissione di
certe sostanze causata da una fabbrica situata vicino al fiume. La Corte ritenne applicabile il reato di
causazione dell'immissione di sostanze inquinanti ex art. 85, c. °, pur non avendo la chiazza provocato
danni o pericoli effettivi alle acque e alla vita animale e vegetale del fiume, affermando che " inquinante"
deve considerarsi anche una sostanza che provochi semplicemente uno scolorimento delle acque e quindi
un pericolo solo potenziale e non effettivo per le stesse. Ciò in quanto il Water Resources Act del 1991
non stabilisce l'esclusione del reato nel caso in cui la sostanza immessa abbia provocato un semplice
scolorimento delle acque, a differenza della legge precedente e che ne costituisce la matrice, vale a dire il
Rivers (Prevention of Pollution) Act del 1951, nonché della legge precedente a quest'ultima, il Rivers
pollution prevention Act del 1876. L'omessa previsione da parte del Water Resources Act dell'irrilevanza
dello scolorimento delle acque come carattere inquinante di una sostanza è stata intesa, quindi, dalla
corte come una precisa volontà in senso contrario (58).
Per quanto concerne i rifiuti solidi, non si rinviene alcuna definizione legislativa, essendo la formula già di
per sé abbastanza chiara. Rientrano in tale voce tutti i rifiuti materiali, comunemente denominati
immondizie, come contenitori, scatole, involucri, che anziché essere smaltiti secondo i regolari modi delle
discariche pubbliche, vengono scaricati nelle acque. L'immissione di questi corpi solidi nelle acque è dalla
legge vietata di per sé stessa senza richiedere il carattere velenoso, nocivo o inquinante degli stessi
(come fa invece per le sostanze liquide), in quanto la natura solida dei rifiuti costituisce inevitabilmente
causa di contaminazione, di deturpamento, nonché (nel caso di materiali non biodegradabili) di
inquinamento delle acque.
2. Il reato di scarico di effluenti industriali o di fogna, ovvero di altre sostanze vietate nelle acque
controllate. - Come si è poc'anzi analizzato, il reato previsto dal primo comma dell'art. 85 del Water
Resources Act si caratterizza per la condotta di immissione di sostanze in vario senso inquinanti, nelle
acque controllate.
I reati descritti nel secondo, terzo e quarto comma dello stesso articolo sono, invece, realizzati con una
condotta di scarico di effluenti industriali, di effluenti fognari o di altre sostanze vietate.
Il primo reato di scarico si configura quando una persona " cagiona o consapevolmente permette
l'immissione nelle acque controllate di sostanze diverse da effluenti industriali e di fogna, mediante
scarico attraverso condotti in violazione di un divieto imposto in base all'art. 86" (59).
La seconda fattispecie si configura quando un soggetto " cagiona o consapevolmente permette lo scarico
di effluenti industriali o di fogna:a ) nelle acque controllate, ovverob ) da terra, attraverso condotti, nel
mare al di là del limite delle acque controllate" (60).
Il terzo reato si ha quando una persona " cagiona o consapevolmente permette lo scarico di effluenti
industriali o di fogna, in violazione di un divieto imposto in base all'art. 86, da un edificio o da uno
stabile:a ) sul suolo o nel sottosuolo, ovverob ) nelle acque di un lago o di uno stagno che non siano
acque dolci interne" (61).
L'art. 85, c. 2-3-4, prevede quindi una serie di situazioni in cui lo scarico di certe sostanze costituisce un
pericolo per l'ambiente.
Il reato di scarico, in tutte e tre le ipotesi, è caratterizzato da una serie di presupposti di luogo e di
circostanze di fatto, nonché dalla condotta a forma vincolata, che esulano completamente dal reato di
immissione di cui al primo comma. Ciò in quanto lo scarico di per sé stesso non sempre costituisce un
pericolo per le acque, ma soltanto quando avvenga in determinate circostanze e a determinate condizioni
(62). Il reato di immissione, invece, non è vincolato da particolari modalità della condotta, in quanto la
sua incriminazione si fonda sulla pericolosità delle sostanze versate.
Questa differenza di formulazione a nostro giudizio potrebbe spiegare il motivo per il quale nella prassi la
pubblica accusa tende a contestare più frequentemente il reato di immissione piuttosto che quello di
scarico (63): dovrebbe essere più facile, infatti, provare che la condotta di immissione è stata causa
dell'inquinamento delle acque in quanto aveva ad oggetto sostanze inquinanti, nocive o velenose,
piuttosto che la provenienza, la destinazione e le modalità dello scarico che ha determinato
l'inquinamento, oltre naturalmente alla natura pericolosa per le acque delle sostanze scaricate.
Il fatto che questo reato sia strutturato in tre fattispecie, anziché in una sola come avviene nel reato di
immissione, non è stato in alcun modo messo in evidenza e spiegato da parte di dottrina e
giurisprudenza. A noi pare che la ratio stia in ciò, che nel caso in cui la condotta sia di scarico mediante
fogne o altri condotti e non di versamento diretto nelle acque, si possono verificare situazioni tra loro
eterogenee e quindi non ipotizzabili in un'unica norma, tutte pericolose per l'ambiente.
Questa tecnica di formulazione nascerebbe, quindi, dall'esigenza di evitare vuoti di tutela.
Potremmo individuare una prima distinzione normativa a seconda del modo di scarico e dell'oggetto
scaricato: il secondo comma dell'art. 85, infatti, prevede l'ipotesi in cui l'inquinamento delle acque
controllate derivi dallo scarico non attraverso la rete fognaria, ma mediante altri condotti, di sostanze per
le quali, pur non essendo effluenti industriali o di fogna (64) l' Environment Agency ha imposto un divieto
di scarico (65).
Una seconda distinzione potremmo identificarla all'interno dell'ipotesi di scarico di effluenti industriali o di
fogna nella rete fognaria: il terzo comma dell'art. 85, infatti, precisa che è punito non solo lo scarico nelle
acque controllate ma, nel caso in cui provenga da terra, anche lo scarico nel mare al di là del limite delle
acque controllate (66); e il quarto comma che è punito inoltre lo scarico sul suolo, nel sottosuolo o in
laghi o stagni senza sbocco (vale a dire in acque che fuoriescono dalla definizione di corso d'acqua che li
renderebbe annoverabili nelle "acque controllate"), purché proveniente da uno stabile o da un edificio e
sempre che gli effluenti siano scaricati in violazione di un divieto imposto dall' Ennvironment Agency in
ragione della loro pericolosità per l'ambiente.
La condotta, comune a tutte e tre le fattispecie, può assumere, come nel reato di immissione, due forme,
quella di causazione o quella di consapevole permissione. A ciascuna di esse corrisponde un autonomo
reato, per le cui caratteristiche si rinvia all'analisi fatta in precedenza in riferimento al reato di
immissione.
La condotta si realizza col cagionare o consapevolmente permettere lo scarico. Essa ha una portata più
limitata rispetto alla condotta di immissione di cui al primo comma, in quanto il termine "scarico" indica
un modo particolare di versamento di una sostanza nelle acque, vale a dire tramite rete fognaria o
comunque attraverso un qualunque tipo di condotto, tubatura, o canale di scolo.
La condotta di scarico rappresenta, comunque, uno dei possibili modi di immissione nelle acque, avendo
quest'ultima una portata molto ampia comprensiva anche dello stesso scarico, con la conseguenza che tra
i reati di immissione e di scarico esiste un rapporto di genus ad speciem.
La dottrina afferma unanimemente in proposito che il reato di immissione è quello più largamente
utilizzato proprio per la sua maggiore portata, mentre quello di scarico, più specifico, viene meno
utilizzato, e comunque in sede processuale si tende sempre a contestarli entrambi - il reato di scarico in
via principale, il reato di immissione in via sussidiaria - quando vi siano gli estremi per farlo, vale a dire
nel caso in cui un soggetto abbia scaricato nelle acque controllate effluenti che siano nocivi, velenosi o
inquinanti (67).
Nella seconda e terza fattispecie di scarico l'oggetto della condotta è rappresentato da effluenti.
Con questo termine si intende la massa totale dei rifiuti che si elimina attraverso le fognature in corrente
liquida (da qui deriva l'uso del sinonimo liquame), per effetto delle acque meteoriche e di raffreddamento
(c.d effluente bianco) o dell'acqua scaricata dall'interno degli edifici (c.d. effluente nero).
Il tipo di condotta del reato di scarico consistente nel convogliamento tramite fogne o condotti, comporta
che oggetto di essa siano non le sostanze nel loro stato originario, precedente all'uso che di esse venga
fatto, come spesso accade nel reato di immissione, ma i liquidi di rifiuto che restano dopo che di una
sostanza si sia già fatto uso e che vengono eliminati appunto attraverso la rete fognaria.
I tipi di effluente previsti dall'art. 85 come oggetto delle condotte di scarico sono due: effluenti industriali
ed effluenti di fogna. Per "effluenti industriali" si intendono i liquami provenienti da edifici adibiti ad uso
commerciale o agricolo, da vivai, da stabilimenti di ricerca, ad esclusione delle acque reflue domestiche e
delle acque meteoriche; per "effluenti di fogna" si intendono i liquami delle fogne eccetto quelli
provenienti dagli edifici sopraccitati ed eccetto le acque meteoriche, quindi in pratica le acque di rifiuto
domestiche (68).
Gli effluenti oggetto materiale del reato di scarico sono quelli per i quali l' Environment Agency non ha
dato l'autorizzazione allo scarico, ai sensi dell'art. 88 (69), o per i quali ha imposto un divieto ai sensi
dell'art. 86. Quest'ultima ipotesi, che oltre agli effluenti può riguardare anche altre sostanze, si verifica
quando tramite la rete fognaria vengano scaricate sostanze o effluenti che normalmente non sono
pericolosi, non hanno cioè carattere inquinante per le acque, ma che in particolari circostanze possono
diventarlo. In ragione di detta pericolosità, essi sono assoggettati ad un divieto assoluto o condizionato di
scarico da parte dell' Environment Agency. In altri termini, il Water Resources Act, invece di creare una
lunga serie di reati di scarico di specifiche sostanze o di specifiche concentrazioni di sostanze (70), ha
preferito attribuire all' Environment Agency nell'ambito della sua competenza di controllo e tutela delle
acque, il potere di vietare o sottoporre a condizioni, di volta in volta, con un proprio provvedimento, detto
scarico a pena di commettere un reato ai sensi dell'art. 85.
Il provvedimento stabilisce in modo specifico quali sostanze non devono essere scaricate in ragione della
pericolosità di esse, o della loro concentrazione o del processo da cui esse derivano (71).
Soggetto attivo del reato può essere non solo una persona fisica ma anche giuridica. Ciò è disposto
espressamente dalla legge (72) ed è perfettamente in linea con i principi del diritto penale inglese,
secondo cui la responsabilità penale è configurabile tanto in capo a singoli quanto in capo a enti,
associazioni, persone giuridiche (73).
Il fatto che la condotta del reato si configuri come scarico mediante fognature, condotti, tubature o canali
di scolo, pone in alcuni casi il problema di individuazione del soggetto responsabile del reato. Ciò accade
precisamente nei casi in cui lo scarico abbia ad oggetto effluenti di fogna (e non quindi effluenti industriali
e le altre sostanze per le quali sia imposto un divieto di scarico) (74) e l'immissione nelle acque
controllate avvenga tramite fognature facenti capo ad un'impresa privata appaltatrice (c.d. sewerage
undertaker).
L'ipotesi è presa in considerazione espressamente dal Water Resources Act all'art. 87 che dispone - come
sempre con una norma estremamente contorta e complessa - che in questo caso la responsabilità per il
reato di scarico è attribuita all'imprenditore che gestisce la rete fognaria, quando la sostanza inquinante
inclusa nello scarico è stata ricevuta nella propria rete fognaria, sempre che egli fosse tenuto
(incondizionatamente o a condizioni che sono state rispettate) a ricevere quelle sostanze nella propria
rete fognaria e non abbia a sua volta ricevuto questi effluenti da altro gestore di fognature (c.d. gestore
emittente, " sending undertaker"), nel quale ultimo caso responsabile è considerato il gestore emittente,
se era tenuto (incondizionatamente o a condizioni che sono state rispettate) a ricevere l'effluente
contenente la sostanza inquinante.
La responsabilità del gestore della fognatura è concorrente con quella dell'utente della rete fognaria, che
ha effettuato lo scarico in violazione delle condizioni contenute nell'autorizzazione.
Responsabilità concorrente del gestore fognario per il reato di scarico si è avuta, ad esempio, nel caso
Attorney General's Reference (N. 1 del 1994)(75). Il gestore, infatti, riceveva nella sua rete fognaria
rifiuti tossici da parte di una società la quale svolgeva con regolare autorizzazione attività di raccolta e
smaltimento degli stessi. I rifiuti, scaricati nella rete fognaria con apposite pompe la cui manutenzione
era affidata ad una terza società, venivano dal gestore prima sottoposti a trattamento e poi versati in un
fiume. Accadde che, a seguito del malfunzionamento di una pompa (l'unica in uso, peraltro, in quanto
l'altra si era già precedentemente rotta), i rifiuti fuoriuscirono dalla pompa e si riversarono direttamente
nel fiume, provocando una vasta moria di pesci. Vennero pertanto condannate (76) sia la società utente
della rete fognaria, che aveva scaricato i rifiuti tossici nella rete fognaria (in quanto, pur essendo lo
scarico avvenuto nel rispetto dell'autorizzazione, secondo la corte costituiva uno degli atti positivi causa
dell'inquinamento), sia il gestore della rete in quanto tenuto a ricevere i rifiuti e in quanto lo scarico nella
sua rete era avvenuto nel rispetto delle condizioni, sia la società addetta alla manutenzione delle pompe
in quanto non aveva rilevato il cattivo stato della pompa, né quindi provveduto alla sua riparazione e non
aveva sostituito l'altra già rotta (77).
La ratio dell'incriminazione del gestore da parte del Water Resources Act (e da parte del Water Act in
precedenza) a nostro giudizio potrebbe individuarsi nel voler costringere colui che gestisce una rete
fognaria a svolgere questo servizio con la maggior responsabilità possibile, con doverosa diligenza,
predisponendo tutti i mezzi più idonei ad evitare che nelle acque controllate finiscano sostanze pericolose
per l'ambiente, per le quali non sarebbe stata concessa l'autorizzazione allo scarico.
3. I reati di aggravamento dell'inquinamento e di violazione delle condizioni di scarico. - Esistono, infine,
due reati, previsti dal quinto e sesto comma, rispettivamente di aggravamento dello stato di
inquinamento già in atto e di violazione delle condizioni di scarico.
Il primo si verifica quando una persona " cagiona o consapevolmente permette l'immissione di qualunque
sostanza nelle acque dolci interne in modo tale da tendere (direttamente o in combinazione con altre
sostanze) ad impedire il regolare flusso delle acque in un modo che conduca o rischi di condurre, ad un
sostanziale aggravamento:a ) dell'inquinamento dovuto ad altre cause, ovverob ) delle conseguenze di
tale inquinamento".
La norma - per la verità, molto articolata e di tortuosa formulazione, come è tipico della legislazione
scritta inglese - punisce sostanzialmente tutte quelle condotte di immissione di sostanze di qualunque
tipo nelle acque interne che abbiano come effetti a catena l'alterazione del flusso e l'aggravamento
dell'inquinamento già in atto o delle sue conseguenze.
Anche per questo reato è prevista la duplice forma di causazione e di consapevole permissione, che
hanno ad oggetto la condotta più generale di "immissione" anziché di scarico. Pertanto le modalità con le
quali la sostanza può essere versata nel corso d'acqua, sono molteplici, vale a dire sia mediante
versamento diretto sia con scarico tramite condotte.
L'oggetto dell'immissione è altrettanto ampio, in quanto si parla di "qualunque sostanza": non si richiede,
cioè, né che essa rientri in determinate definizioni, come accade nel reato di scarico (effluenti industriali,
di fogna ecc.), né che abbia determinate caratteristiche, come accade nel reato di immissione (sostanze
velenose, nocive, inquinanti).
Un'altra anomalia rispetto alle altre due fattispecie incriminatrici la cogliamo nella struttura di questo
reato, vale a dire nel fatto di essere un reato di evento anziché di pura condotta: si richiede infatti che
l'immissione delle sostanze abbia l'effetto di determinare l'alterazione del flusso delle acque (primo
evento), nonché l'aggravamento dell'inquinamento gia verificatosi per altre cause o delle sue
conseguenze (secondo evento).
Si tratta di un reato che necessariamente presuppone uno stato di inquinamento, e quindi
presumibilmente la commissione di altro reato d'inquinamento (vale a dire o quello di immissione o quello
di scarico).
Finora esso non ha trovato pratica applicazione nelle corti inglesi, continuando ad essere utilizzato con
maggiore frequenza il reato di immissione e in misura inferiore quello di scarico.
4. Cause di non punibilità. - Gli artt. 88 e 89 del Water Resources Act prevedono alcune situazioni in
presenza delle quali i reati di cui all'art. 85 - sia di causazione o permissione dell'immissione sia di
causazione o permissione dello scarico - non sono punibili (78).
Una prima ipotesi (79) si ha quando l'immissione o lo scarico avvenga in conformità alle condizioni
stabilite in un'autorizzazione rilasciata ai sensi della presente legge, ovvero in conformità a
un'autorizzazione rilasciata in base all'I.P.C. (80) o a una licenza per il trattamento e smaltimento dei
rifiuti, o a una licenza per lo smaltimento di effluenti in mare ai sensi del Food and Environment
Protection Act; e in ogni altro caso in cui una legge o un regolamento lo autorizzi.
La ratio di questa defence è da individuarsi nella mancanza nelle suddette ipotesi di pericolo di
inquinamento per le acque che, altrimenti, giustificherebbe l'esistenza del reato e l'applicazione della
pena. Se l'immissione o lo scarico riguarda sostanze consentite e avviene nei modi consentiti da
un'autorizzazione amministrativa, significa che non c'è pericolo di inquinamento delle acque.
Come si è già accennato in precedenza, l'art. 89, al secondo comma, dichiara non punibili gli scarichi in
mare (nel limite delle acque controllate, naturalmente) di effluenti industriali e di fogna effettuati da navi
di piccola stazza (c.d. vessels) (81).
Vi è poi una defence simile al nostro stato di necessità, chiamata emergency(82), che opera quando
l'immissione o lo scarico è cagionato o permesso " per prevenire un pericolo per la vita umana o per la
salute, purché l'agente abbia adottato tutte le misure possibili per contenere l'estensione dell'immissione
o per mitigare i suoi effetti ed abbia immediatamente informato dell'immissione o dello scarico
l'Environment Agency".
Una situazione di questo tipo si potrebbe verificare, ad esempio, nei casi di trasporto fluviale di grossi
quantitativi di sostanze o materiali inquinanti, quando per l'insorgere di un problema grave risulti
necessario versare in acqua le sostanze stesse per salvare le persone a bordo.
Esiste poi una defence che copre il reato di immissione e non quello di scarico, che riguarda il caso in cui
le sostanze immesse provengano da miniere o cave, e si articola in due ipotesi. La prima copre la sola
ipotesi di permissione, quando ha ad oggetto l'immissione di sostanze liquide di rifiuto, provenienti da
miniere abbandonate (83). Questa disposizione, tuttavia, avrà applicazione ancora per poco tempo, in
quanto l' Environment Act del 1995 prevede all'art. 60 che essa venga abrogata a partire dal primo
gennaio 2000 e quindi che si applichi solo alle miniere abbandonate prima di tale data. La seconda si
realizza quando vengano depositati sul suolo rifiuti solidi provenienti da cave o miniere - salvo si tratti di
sostanze tossiche - i quali si riversino in acque dolci senza sbocco, purché vi sia un'autorizzazione dell'
Environment Agency e siano state adottate tutte le precauzioni ragionevoli per evitare l'immissione dei
rifiuti nelle acque (84).
Come si è già avuto modo di far presente in precedenza, non esiste più la defence c.d. della " buona
pratica agricola", che era prevista dal Control of pollution Act del 1974, e che copriva le immissioni
realizzate nell'esercizio dell'attività agricola, purché questa fosse conforme alle regole della buona pratica
agricola stabilite da un codice approvato dal Ministero per l'agricoltura, la pesca e l'alimentazione. Essa è
stata abrogata dal Water Act del 1989.
Vi è, infine, una defence prevista specificamente per gli scarichi di effluenti da parte di navi, che trova
una propria regolamentazione ad hoc in regolamenti (85).
5. Pene e misure preventive. - Per quanto riguarda il trattamento sanzionatorio, i reati di immissione e di
scarico - sia nell'ipotesi di causazione che nell'ipotesi di permissione - sono puniti con la pena detentiva
fino a tre mesi, alternativa o cumulativa ad una pena pecuniaria fino a ventimila sterline, in caso di
summary conviction; e con la pena detentiva fino a due anni, alternativa o cumulativa ad una pena
pecuniaria indefinita (vale a dire, lasciata alla libera determinazione del giudice), in caso di conviction on
indictment(86).
Queste pene, in realtà, non sempre costituiscono un buon deterrente per la " criminalità ambientale".
Dalla casistica analizzata, infatti, si è potuto verificare come nella maggior parte dei casi l'inquinamento
delle acque è provocato non dal gesto occasionale di un singolo, ma nell'ambito di un'attività produttiva,
industriale o agricola che sia. Si sono viste condannare in casi famosi, che spesso sono diventati
precedenti, distillerie, industrie cartacee, industrie del gas e così via.
Nei confronti di detti soggetti ci sembra che la pena pecuniaria (87) non costituisca quasi mai un
deterrente efficace, perché di regola il vantaggio economico che gli imprenditori traggono svolgendo la
loro attività senza l'adozione di particolari sistemi di prevenzione dell'inquinamento - pur tenuto conto
dell'eventuale perdita economica dovuta al pagamento della pena pecuniaria (88) nel caso in cui si
verifichi l'inquinamento - è largamente superiore rispetto a quello che otterrebbero da un'attività
strutturata con l'impiego di costosi sistemi di prevenzione inquinamento.
Una maggiore efficacia preventiva ci sembra che potrebbero avere pene come la chiusura temporanea
dello stabilimento dal quale è stata causata l'immissione di sostanze inquinanti nelle acque, oppure
l'interdizione temporanea dallo svolgimento dell'attività di dirigente di imprese.
In considerazione delle osservazioni suesposte, l' Environment Act del 1995 ha inserito nel Water
Resources Act del 1991 una disposizione, l'art. 161 A, che disciplina il potere dell' Environment Agency di
ordinare al soggetto inquinatore un'azione di prevenzione o di rimedio, ovvero di provvedere egli
direttamente alle operazioni necessarie a prevenire o eliminare gli effetti dell'inquinamento, a spese del
soggetto inquinatore (89).
L' Environment Agency può provvedere direttamente all'adozione delle necessarie misure di prevenzione in caso di pericolo di inquinamento - o alle operazioni di rimedio - in caso di inquinamento già avvenuto soltanto nel caso in cui egli ritenga necessario intervenire immediatamente, ovvero quando, a seguito di
indagini, non si riesca a contattare il soggetto inquinatore. Negli altri casi, l' Environment Agency deve
procedere alla notifica, nei confronti del responsabile dell'inquinamento o del pericolo di inquinamento, di
un'ingiunzione ad adottare specifiche misure di prevenzione ovvero a compiere determinate operazioni di
ripristino dello status quo ante (detta works notice) (90).
Nel caso in cui il soggetto intimato non provveda ad adottare le misure o a compiere le operazioni
richieste nel tempo stabilito, l'Environment Agency provvede direttamente a farlo, a spese del soggetto
inadempiente, il quale si rende in tal modo anche responsabile di un reato punibile alla stessa stregua di
quelli previsti dall'art. 85 del Water Resources Act(91).
L'accollo delle spese di depurazione delle acque, in caso di inquinamento, o di prevenzione
dell'inquinamento, data la loro gravosità, dovrebbe, nelle intenzioni del legislatore, costituire per il futuro
un deterrente più efficace di quanto non lo siano state finora le sanzioni penali nei confronti degli
inquinatori.
6. Reati minori previsti da altre leggi. - Dall'analisi appena ultimata emerge come il fenomeno
dell'inquinamento delle acque controllate sia disciplinato dal Water Resources Act in modo dettagliato e
completo sia dal punto di vista preventivo che da quello repressivo.
Ciò nonostante, continuano a rimanere in vigore alcune disposizioni penali sparse in varie leggi
antecedenti al Water Resources Act, la cui presenza ci pare in realtà del tutto superflua, potendo le
fattispecie da esse previste essere ricomprese nell'ampia formulazione dei reati di immissione e di scarico
previsti dall'art. 85 del Water Resources Act(92). Ci stupisce quindi che il legislatore nel Water Resources
Act, o anche prima nel Water Act non abbia provveduto ad abrogarle espressamente.
Una delle più risalenti è prevista dall'art. 68 del Public Health Act del 1875, il quale prevede il reato di
colui che nell'esercizio di un'attività di produzione di gas cagiona o permette che siano trasportate o
riversate in determinate acque sostanze per il lavaggio o di altro genere prodotte nella lavorazione e
nell'erogazione del gas; ovvero compie dolosamente un atto, connesso con la lavorazione o l'erogazione,
attraverso il quale le acque vengono sporcate.
Il reato è punibile con una pena pecuniaria di 200 sterline, cui si aggiunge il pagamento di quote
giornaliere di 20 sterline per la durata di tutto il periodo in cui permangono le conseguenze dannose del
reato, a decorrere dalla scoperta del fatto. La superfluità di questa disposizione emerge già dall'esiguità
di questa pena, che nel tempo non è stata neppure aggiornata e risulta oggi del tutto sproporzionata e
anacronistica.
L'unica disposizione di un certo rilievo, nonché con qualche applicazione giudiziale, è sancita dall'art. 4 del
Salmon and Freshwater Fisheries Act del 1975 che prevede il reato di chi " cagiona o consapevolmente
permette il fluire, ovvero immette o consapevolmente permette che vengano immesse in acque ittiche o
in affluenti di queste sostanze solide o liquide in quantitativo tale da rendere le acque stesse nocive per i
pesci, per le uova o per il loro nutrimento".
La fattispecie ha la prima parte della condotta in comune con quella prevista dall'art. 85 del Water
Resources Act, vale a dire il cagionare o consapevolmente permettere. La giurisprudenza in proposito
afferma che "cagionare" va inteso con lo stesso significato che essa ha attribuito a partire dal caso
Alphacell al "cagionare" previsto prima dal Rivers (Prevention of Pollution) Act del 1991, poi dal Water Act
del 1989 e infine dal Water Resources Act del 1991. Per cagionare, cioè, è necessario porre in essere
almeno un atto positivo, essendo irrilevante un comportamente meramente passivo; atto che non deve
essere necessariamente sostenuto dall'elemento psicologico del dolo o della colpa ( mens rea),
trattandosi di reato a responsabilità oggettiva, fondato cioè sul solo nesso causale tra la condotta e
l'evento dannoso o pericoloso ( absolute offence) (93).
La seconda parte della condotta si discosta parzialmente da quella prevista dall'art. 85 del Water
Resources Act. Si richiede, infatti, che il cagionare o consapevolmente permettere riguardi il fluire ovvero
l' immettere nelle acque sostanze liquide o solide in quantitativo tale da rendere le acque stesse nocive
per i pesci o per le loro uova. Mentre la condotta di immissione è comune a quella del reato previsto
dall'art. 85 (94), l'altra (cagionare o permettere il fluire) è del tutto estranea sia all'art. 85 del Water
Resources Act, sia alle norme incriminatrici previste dalle leggi che lo hanno preceduto (95). Sulla portata
di questa condotta non si rinviene alcunché né in giurisprudenza né in dottrina.
A ben vedere, ci sembra abbastanza ridotto l'ambito di applicazione di questa parte di disposizione:
infatti, cagionare lo scorrere-fluire di una sostanza significa sostanzialmente immetterla nelle acque, e
quindi finisce per essere un'ipotesi pleonastica rispetto a quella di immissione. Resta, pertanto,
applicabile solo la fattispecie di consapevolmente permettere il fluire di una sostanza inquinante. Questa
rappresenta una condotta cronologicamente successiva rispetto a quella di immissione e serve quindi a
rendere punibile chi, non avendo immesso la sostanza, la lascia scorrere, pur rendendosi conto del
pericolo di inquinamento che comporta, e pur avendo il potere e dovere di impedirlo (96).
In ordine alle condotte di immettere e di consapevolmente permettere l'immissione esiste tra l'art. 4 del
Salmon and Freshwater Fisheries Act e l'art. 85 del Water Resources Act un rapporto di specialità a favore
del primo, in quanto l'immissione deve riguardare sostanze velenose o nocive non per chiunque (uomo,
fauna o flora), ma specificamente per la fauna ittica (pesci o loro uova) e di conseguenza l'immissione
deve avvenire non in qualunque tipo di acque correnti ma solo in quelle dove esista una fauna ittica (97).
Ciò nonostante nelle rare applicazioni giurisprudenziali rinvenute, si nota la tendenza delle corti ad
applicare i due reati in concorso, escludendosi quindi un concorso apparente di norme (98).
Nelle norme di attuazione del Water Resources Act si precisa, ai fini di coordinamento tra l'art. 85 della
stessa legge e l'art. 4 del Salmon and Freshwater Fisheries Act, e per un principio di non contraddizione
dell'ordinamento, che qualora sussistano gli estremi dell'art. 4, esso non si applica nell'ipotesi in cui il
fatto non sia punibile neppure ai sensi dell'art. 85 in quanto l'immissione sia stata cagionata in base e in
conformità ad un'autorizzazione rilasciata ai sensi del Water Resources Act ovvero sia il risultato di
un'azione od omissione conforme alla suddetta autorizzazione (99).
Al di fuori del ricorso della scriminante suesposta, il reato previsto dall'art. 4 del Salmon and Freshwater
Fisheries Act è punito con una pena pecuniaria di 400 sterline, in caso di summary conviction, cui va
aggiunta la somma di 40 sterline al giorno per tutto il periodo in cui permangono le conseguenze dannose
del reato dopo la condanna; con la pena detentiva fino a due anni cumulativa o alternativa ad una pena
pecuniaria discrezionale, in caso di conviction on indictment.
Esistono, infine, due disposizioni che riguardano forme particolari di inquinamento. Si tratta dell'art. 35
dell' Animal Health Act del 1981 e dell'art. 73 dell' Harbours Docks and Piers Clauses Act del 1847.
Il primo prevede il reato di chi senza autorizzazione o altra causa di giustificazione salva prova contraria,
posta a suo carico - getta, immette ovvero cagiona o permette che sia gettata o immessa in un fiume,
torrente, canale o altro corso d'acqua, ovvero nel mare in un raggio di Km. 4,8 dalla costa, la carcassa di
un animale morto o massacrato. Il fatto è punibile con una pena pecuniaria di 400 sterline unitamente ad
una somma di 40 sterline ogni Kg. 508 di peso della carcassa.
Il secondo prevede il reato di chi getta o immette in un porto o in un bacino zavorra, terra, ceneri, pietre
o altri oggetti, salvo che ciò avvenga nel compimento di opere per la conservazione, il recupero o la
bonifica di terreni, ovvero per la protezione di questi dagli straripamenti dei fiumi. Il fatto, data la lieve
entità del danno arrecato, è punibile con una pena pecuniaria di 25 sterline.
Questi reati si distinguono dagli altri perché hanno la caratteristica di causare esclusivamente un tipo di
inquinamento biologico anziché chimico, vale a dire un inquinamento consistente soltanto nello sporcare
le acque con elementi naturali (carcasse di animali, terra, pietre ecc.). Questa naturalità ci induce anzi a
pensare che più che di inquinamento si debba forse più correttamente parlare di deturpamento delle
acque, in quanto non si verifica tanto un'alterazione della composizione delle acque quanto piuttosto del
loro aspetto visivo. Sembra pertanto sproporzionato elevare queste condotte a illeciti penali.
Più propriamente rivolte alla prevenzione e repressione dell'inquinamento in senso tecnico, vale a dire
provocato da materiali o sostanze creati dall'uomo, e quindi difficilmente biodegradabili, sono le norme
previste dal Water Resources Act, dal Salmon and Freshwater Fisheries Act e dal Public Health Act. La
loro natura di illecito penale risulta quindi maggiormente giustificata rispetto alle altre summenzionate
disposizioni.
7. La public nuisance nella common law. - Per la tutela delle acque la common law utilizza sia strumenti
civilistici sia strumenti penalistici. Essa prevede, infatti, una figura, la nuisance, che si presenta in due
forme, la public nuisance e la private nuisance(100).
La public nuisance (turbativa pubblica), che costituisce sia illecito civile sia reato, si configura quando un
soggetto compie " un'azione non autorizzata od omette di adempiere un dovere giuridico da cui deriva un
pericolo per la vita, la salute, la proprietà, la morale, pubbliche, ovvero cagiona un impedimento
all'esercizio o al godimento di diritti comuni a tutti i sudditi di Sua Maestà" (101).
La private nuisance si configura quando un soggetto tiene una condotta, attiva od omissiva, che
interferisce con l'uso o il godimento di un bene immobile o di un diritto su di esso ovvero collegato ad
esso, in danno dell'avente diritto (102).
La differenza tra le due figure si incentra sui beni tutelati e quindi sui soggetti passivi: la condotta di
"disturbo" - che è comune a entrambe le figure - ha ad oggetto beni collettivi (salute e incolumità
pubblica, morale pubblica, proprietà pubblica) e quindi si rivolge contro una generalità di persone, nel
caso della public nuisance; ha ad oggetto un singolo bene immobile e quandi si rivolge contro il titolare di
esso, nel caso della private nuisance.
Sul piano dell'imputazione, inoltre, mentre la private nuisance è attribuita oggettivamente sulla base del
mero nesso di causalità (103), la public nuisance richiede almeno la colpa (104), pur non essendo
necessario il dolo.
Sul piano delle conseguenze, infine, la public nuisance permette a colui che ha subito la turbativa di
ottenere, oltre alla compensazione del danno subito, anche l'ingiunzione alla cessazione della molestia; la
private nuisance comporta solo il risarcimento del danno.
Nell'ipotesi in cui una turbativa privata assurga anche a pubblica, in quanto coinvolga gli interessi di una
pluralità di persone, e abbia provocato un "danno speciale" ad un soggetto, quest'ultimo può scegliere tra
agire per private nuisance o per public nuisance.
Di prassi la scelta cade preferibilmente sulla seconda, sia per la maggiore ampiezza di strumenti di tutela
offerti a favore del danneggiato, sia perché sul piano probatorio la public nuisance, a differenza della
private nuisance, non richiede che venga dimostrato il possesso del diritto leso dalla condotta di
turbativa.
Dato che consiste nella turbativa dell'uso o godimento di un bene immobile o di un diritto su di esso o ad
esso collegato, la nuisance può costituire uno strumento di tutela delle acque. Il diritto di proprietà,
infatti, nell'ordinamento inglese, comporta una serie di facoltà e diritti quali ad esempio il diritto di usare
l'acqua di un corso che scorre in prossimità di un terreno, detto "diritto rivierasco" ( riparian right) e, per
principio generale di common law, quest'ultimo include il diritto di ricevere l'acqua che scorre sul proprio
terreno o adiacente ad esso in uno stato incontaminato, non inquinato. Questo diritto non è esclusivo di
un soggetto, ma in realtà si pone in capo a tutti coloro che hanno una proprietà adiacente ad un corso
d'acqua.
Qualora una condotta di turbativa provochi un danno speciale ad un soggetto che abbia un diritto
rivierasco sulle acque di un corso, questi può agire per public nuisance. La soddisfazione delle sue
richieste, però, non avviene automaticamente dimostrando che c'è stata turbativa nell'uso e godimento
delle acque, ma solo quando la corte, nel bilanciare l'interesse di tale proprietario con quello di altro
titolare del diritto rivierasco su dette acque che ha provocato la turbativa nell'esercitarlo, reputi
prevalente il primo. Ciò per la ragione suddetta che il diritto rivierasco sulle acque di un corso non è mai
esclusivo di un soggetto.
Un esempio di bilanciamento di interessi si è avuto nel caso Young & Co. v. Bankier Distillery Co.(105).
Una distilleria situata sulle sponde di un fiume - sulle cui acque essa aveva un diritto rivierasco - aveva
agito per private nuisance nei confronti di una società, collocata anch'essa in riva a quel fiume (in un
punto più a monte) dove svolgeva attività estrattiva, in quanto gli scarichi della miniera avevano alterato
le caratteristiche naturali delle acque con conseguente mutamento della qualità del whisky prodotto con
quelle acque. La corte, in primo luogo, mise in evidenza che il diritto rivierasco era riconosciuto in capo
ad entrambi i soggetti, in quanto tutti e due avevano un diritto di proprietà su un terreno situato sulle
sponde dello stesso fiume. Si doveva, pertanto, procedere ad un'"azione di bilanciamento" per
determinare se c'era stata turbativa e quale tra i due usi confliggenti dei diritti rivieraschi fosse
ragionevole. La corte, considerando prevalente il diritto rivierasco della distilleria, riconobbe la
responsabilità della società mineraria per private nuisance.
Nel caso in cui la condotta inquinante di un soggetto comporti un danno particolare per il diritto rivierasco
di un singolo, ma coinvolga anche la salute o l'incolumità di una generalità di persone, la tutela delle
acque, come si è già detto, è apprestata anche attraverso l'illecito civile e penale di public nuisance.
Esso è stato ritenuto sussistente ad esempio in un caso (106) in cui una società del gas aveva scaricato i
rifiuti di gas in un fiume, inquinandolo. Gli scarichi, infatti, avevano provocato un grosso danno per la
flora e fauna fluviale (107), nonché un pericolo per la salute pubblica in quanto l'acqua era diventata non
potabile.
Analogamente è stata riconosciuta un'ipotesi di public nuisance in un caso (108) in cui una società - che,
in base ad un'autorizzazione amministrativa, era impegnata a prelevare acqua da alcuni ruscelli per
realizzare un canale - aveva scaricato i propri rifiuti industriali nei suddetti ruscelli, inquinandoli. In
conseguenza degli scarichi, i ruscelli inquinati emanavano effluvii maleodoranti che avevano reso
insalubre l'aria della zona circostante comprendente centri abitati, con conseguente pericolo per la salute
pubblica.
La public nuisance come reato ha natura sussidiaria in quanto - sia in materia di inquinamento sia negli
altri settori nei quali può configurarsi - è contestato soltanto in ordine a quelle condotte per le quali la
statute law non preveda altro reato o lo preveda con una pena inferiore. Alla sua contestazione, inoltre,
viene in genere preferita quella per l'illecito civile di public nuisance in quanto, come si è già detto, ciò
che interessa a coloro che sono stati lesi dalla condotta inquinante è ottenere il ripristino dello status quo
ante, quando possibile o altrimenti il risarcimento del danno, piuttosto che la punizione del soggetto
inquinante (109). Ciò spiega il fatto che la common law si è sviluppata maggiormente nel settore
civilistico piuttosto che in quello penalistico per la tutela delle acque.
NOTE
(1) Nel 1996 è stato rilevato che l'89% dell'inquinamento delle acque inglesi è stato provocato
primariamente da effluenti industriali e di fogna. Il restante 11%, è stato causato da scarichi di
provenienza agricola. I dati sono pubblicati in Code of good agricultural practice for the protection of
water, Ministero dell'agricoltura pesca e alimentazione, Ottobre 1998, p. 2
(2) Nell'ordinamento inglese i rifiuti provenienti dall'attività mineraria sono equiparati ai rifiuti industriali.
Tuttavia, essi sono presi in considerazione in modo autonomo in relazione ad una particolare causa di non
punibilità, che è prevista esclusivamente nei confronti degli scarichi provenienti da una miniera
abbandonata. Vedi infraCAUSE DI NON PUNIBILITÀ
(3) House of Commons Environment Committee, ° Report, 1997
(4) La causa di non punibilità era prevista dall'art. 31. c. °, lett. c), del Control of pollution Act del 1974,
disposizione che è stata abrogata dal Water Act del 1989 (art. 116)
(5) L'ordinamento inglese, notoriamente, è nato come diritto giurisprudenziale ( common law). Negli
ultimi decenni, però, questo ha ceduto gradualmente il passo alla legislazione parlamentare ( statute law)
in molti settori, soprattutto quelli in evoluzione continua, come il diritto ambientale
(6) D'ora innanzi queste due autorità verranno citate, per brevità, con i termini rispettivamente di
Segretario di Stato e di Ministro
(7) Art. 1 del Water Act del 1973
(8) L' Environment Agency ha sostituito - per opera dell' Environment Act del 1995 - un altro organo
amministrativo, la National Rivers Authority. La ripartizione di competenze tra quest'ultimo organo
amministrativo e le società private di erogazione dell'acqua era stata effettuata dal Water Act 1989, una
legge molto importante e di grande risonanza in Inghilterra, in quanto ha privatizzato il servizio di
erogazione dell'acqua, affidandolo a società private e cambiando completamente il precedente assetto
caratterizzato dalla concentrazione delle due attività - di controllo e tutela delle acque da un lato, di
gestione del servizio di erogazione dall'altro - in capo a 10 organi amministrativi regionali, detti water
authorities
(9) Le classificazioni sono determinate in base all'uso-destinazione delle acque stesse. Ad esempio, allo
stato attuale sono previste due classificazioni delle acque, vale a dire "acque balneari" e "acque potabili",
rispettivamente dal Bathing waters (Classification) regulations del 1991 (S.I. 1991, n. 1597) e dal
Surface waters (classification) regulations del 1989 (S.I. 1989, n. 1148)
(10) Si è messo in evidenza in dottrina (Thornton & Beckwith, Environmental law, cit., p. 206) che allo
stato attuale in Gran Bretagna vige ancora un stato di transizione dal vecchio regime sotto il Water Act
del 1989, in cui detti obiettivi erano stati stabiliti in via non regolamentare, a quello del Water Resources
Act del 1991 che, in adeguamento alle direttive europee, richiede una disciplina formalmente
regolamentata
(11) Surface waters (dangerous substances) (Classification) regulations del 1989 (S.I. 1989, n. 2286) e
Surface waters (dangerous substances) (Classifications) regulations del 1992 (S.I. 1992, n. 337)
(12) Le acque controllate, che costituiscono l'oggetto della tutela apprestata dal Water Resources Act, in
base all'art. 104 comprendono le acque dolci interne (laghi, fiumi, torrenti, ruscelli), le acque sotterranee,
il mare nei limiti delle acque territoriali (tre miglia dalla linea costiera) e delle acque costiere, che vanno
dalla terra fino alla linea dell'alta marea (questa segna la linea costiera da cui iniziano le acque
territoriali). Per diritto internazionale, in realtà, le acque territoriali si estendono per dodici miglia dalla
linea costiera, mentre ai fini del Water Resources Act sono rilevanti solo le acque comprese nelle prime
tre miglia
(13) Il Water Resources Act (Sch. 10) elenca, ma solo a titolo esemplificativo, alcune condizioni che
possono essere apposte ad un'autorizzazione, come l'obbligo di tenere un registro degli scarichi, o di
avere appositi recipienti per la raccolta di campioni da esaminare in caso di ispezioni
(14) Art. 8, c. 3, Sch. 10, del Water Resources Act, così come modificato dalla Sch. 22 dell' Environment
Act del 1995. L'art. 8, originariamente, stabiliva un periodo di durata minima dell'autorizzazione di due
anni
(15) Oltre a comportare la revoca, si vedrà tra breve, la violazione delle condizioni per gli scarichi
stabilite nell'autorizzazione costituisce reato
(16) Art. 7. Sch. 10, Water Resources Act
(17) Art. 90 B, Water Resources Act
(18) Art. 92, c. 1, Water Resources Act
(19) Art. 92, c. 2, Water Resources Act
(20) S.I. 1998 n. 3084
(21) L' Environment Agency è l'organo effettivamente competente in materia, in quanto a lui spetta
determinare le zone da proteggere. Una volta individuata una certa area a rischio di inquinamento, l'
Environment Agency predispone un progetto da sottoporre al Segretario di Stato, affinché questi la
designi come "zona di protezione delle acque"
(22) Le pene devono mantenersi entro gli stessi limiti che l'art. 85 del Water Resources Act sancisce per
gli scarichi non autorizzati o in violazione dell'autorizzazione. Per l'entità delle pene vedi infraPENE E MISURE
PREVENTIVE
(23) Art. 94, Water Resources Act
(24) La competenza a designare l'area è stata dalla legge posta in capo al massimo organo
amministrativo in materia (Ministro) anziché al sottoordinato Segretario di Stato, in ragione del fatto che
essa comprende non solo poteri impeditivi e limitativi ma anche il potere di imporre obblighi positivi di
facere
(25) L'indennizzo a favore di chi svolge un'attività rischiosa per la purezza delle acque contrasta in un
certo senso col principio generale " l'inquinatore deve pagare" ( polluter pays principle), ma trova in
realtà una sua giustificazione nel fatto che l'attività agricola subisce in queste aree un sensibile
decremento
(26) Nitrate sensitive areas regulations 1994 (S.I. 1994, n. 1729)
(27) Nitrate sensitive areas (designation) order 1990
(28) 1940, 2 All E.R., 187
(29) 1972. 2 All E.R., 475
(30) Si tratta della norma che, con alcune modifiche relative all'ambito di applicazione, è stata ribadita
prima dall'art. 107 del Water Act e poi dall'art. 85, c. °, del Water Resources Act del 1991.
L'interpretazione data ad essa va pertanto estesa alle disposizioni suddette che successivamente l'hanno
sostituita
(31) Su questo punto si ritornerà tra breve, in quanto a partire da questa sentenza si è affermato che il
reato di causazione dell'immissione è a responsabilità oggettiva
(32) La House of Lords, come si vedrà in seguito, rigettò l'appello affermando che la consapevolezza è
elemento riferito solo alla condotta di permissione, non anche a quella di causazione. Secondo la Corte,
infatti, la legge, avendo affiancato l'aggettivo " consapevolmente" soltanto all'azione di permettere, ha
inteso escludere la sua estensione all'azione di causare, con la conseguenza di rendere il reato di
causazione a responsabilità oggettiva, e non dolosa o colposa. L'appello, fondato sull'assenza di dolo o
colpa, doveva pertanto ritenersi infondato
(33) Lord Cross of Chelsea, p. 489
(34) Il comportamento passivo può comunque assurgere a reato di immissione, come si vedrà in seguito,
nella forma di " consapevolmente permettere"
(35) Leggendo alcune sentenze, infatti, abbiamo potuto constatare come il modus procedendi dei giudici
sia sempre quello di fissare i punti di diritto e di fatto del caso di specie sotto forma di quesiti e di
risolverli utilizzando i principi stabiliti in precedenti vincolanti. A tal fine vengono riportati nella sentenza
lunghi passi di detti precedenti, sulla base dei quali viene poi formulata la risposta (dispositivo) ai quesiti
di specie
(36) 1975, 2 All E.R., 113
(37) Nella specie, parte dell'effluente si era riversato, a causa di due fratture nei muri di contenimento
dei bacini, in un fiume circostante provocandone l'inquinamento. Di tale fatto venne, comunque,
riconosciuta la responsabilità dell'impresa costruttrice dei due bacini per il reato di causazione
dell'immissione
(38) Nello stesso senso, ma in riferimento all'art. 85 del Water Resources Act, vedi anche Wychavon DC
v. National Rivers Authority, 1993, 2 All E.R., 440
(39) 1995, 1 All E.R., 225
(40) In senso conforme a National Rivers Authority v. Yorkshire Water Services Ltd., cfr. Attorney's
General Reference (N. 1 del 1994), Corte d'Appello, 1995, 2 All. E.R., 1007
(41) 1998, 1 All E.R., 481
(42) 1971, 2 All E.R., 357
(43) 1994, 4 All E.R., 281
(44) Thornton & Beckwith, Environmental law, cit., 218-219
(45) The Times, 4 agosto 1994
(46) 1998, già citato
(47) La House of Lords in questa decisione ha tra l'altro affermato che il principio enunciato nel
precedente Alphacell secondo cui il legislatore all'art. 2 del Rivers (Prevention of pollution) Act, riferendo
l'aggettivo " consapevolmente" soltanto alla condotta di permissione e non a quella di causazione, ha
inteso svincolare quest'ultima dall'elemento psicologico della conoscenza e quindi dalla mens rea,
continua ad essere valido anche per l'art. 85 del Water Resources Act in quanto formulato negli stessi
termini
(48) Si rinvia in proposito al passo precedentemente citato della sentenza Alphacell dove si legge
l'argomentazione di Lord Salmon a favore della responsabilità oggettiva dei reati ambientali in base ad
esigenze di public policy
(49) Cfr. Alphacell Ltd. v. Woodward cit., 479. In un caso molto risalente ( Berton v. Alliance Economic
Investment Co. Ltd., 1922, 1 K.B., 759), si era precisato che "permettere" significa sia dare il permesso
di fare qualcosa, senza il quale non sarebbe legalmente possibile, sia omettere di prevenire un atto, pur
avendone il potere
(50) J. Thornton & S. Beckwith, Environmental law, cit., 220
(51) Così ad esempio si è argomentato nel caso già citato Price v. Cromack, del proprietario del fondo che
aveva accettato di far costruire su di esso un bacino, che era stato successivamente causa
dell'inquinamento di un fiume. Analogamente, v. Wychavon D.C. v. Nationai Rivers Authority, 1993, 1
W.L.R., 125
(52) Sweet v. Parsley, 1970, A.C., 164
(53) Ashcroft v. Cambro Waste Products, 1981, 1 W.L.R., 1349
(54) J.F. Garner, Control of pollution Act 1974, Butterworths, Londra, 1975, 17
(55) Burnett, Hall, U.K. Environmental law, Londra, 1995
(56) In termini analoghi si esprimeva la dottrina in riferimento al corrispondente reato previsto dal Rivers
(Prevention of pollution) del 1951: è velenosa - si affermava - la sostanza che comporta la distruzione
della vita, umana o animale (E. Simes, C.E. Scholefield, Lumley's public health law: the public health Acts
annotated, 1ª ed., vol. V, 1954, 5158)
(57) Sentenza inedita della Crown Court del 17 giugno 1992, citata da Burnett, Hall, U.K. Environmental
law, cit., 351-354
(58) Sempre nel senso della rilevanza come " inquinanti" delle sostanze che abbiano provocato un
semplice scolorimento delle acque e che abbiano quindi comportato solo un pericolo potenziale e non
effettivo per le acque, si è espressa anche la Corte d'Appello nel caso R. v. Dovermoss Ltd. (The Times, 3
febbraio 1995)
(59) Art. 85, comma °, del Water Resources Act.
(60) Art. 85, comma °, del Water Resources Act
(61) Art. 85, comma °, del Water Resources Act
(62) Si è visto, infatti, che gli scarichi sono regolamentati dal Water Resources Act attraverso la
previsione di autorizzazioni amministrative. Pertanto solo gli scarichi che fuoriescono dalla
regolamentazione sono pericolosi e quindi puniti
(63) Si tenga presente che sul piano sanzionatorio la contestazione dell'uno o dell'altro reato è
indifferente, in quanto le pene per i due sono identiche
(64) Sul significato di questi termini vedi infraL'OGGETTO MATERIALE DEL REATO
(65) Si tratta di sostanze che, pur non rientrando nella categoria di effluenti industriali o di fogna, i quali
costituiscono sempre un pericolo per l'ambiente (salvo nei limiti dell'autorizzazione) sono considerate, in
via d'eccezione, in ragione di loro composti o di particolari processi da cui derivano o di altre condizioni
particolari (questo verrà meglio esposto nel paragrafo L'OGGETTO MATERIALE DEL REATO) pericolose per le
acque
(66) La specificazione che lo scarico in mare oltre il limite delle acque controllate deve provenire da terra
è dovuta al fatto che, qualora lo scarico provenga da navi, si applica altra disciplina speciale contenuta in
una serie di leggi, distinte a seconda del tipo di scarico effettuato (rifiuti di origine terrestre, rifiuti
prodotti direttamente sulle navi, sversamenti dalle navi di idrocarburi, ecc.). Per un'analisi di questa
legislazione si rinvia al nostro lavoro La tutela penale del mare contro l'inquinamento nell'ordinamento
inglese, in questa Rivista, 1998, 596 ss.
Per completezza. si tenga presente, inoltre, che gli scarichi dalle navi, quando avvengono in mare entro il
limite delle acque controllate, sono puniti in base all'art. 85 del Water Resources Act, salvo si tratti di
scarichi di effluenti industriali o di fogna e provengano da navi di piccole dimensioni (la legge fissa dei
limiti di stazza in proposito), nel qual caso sono coperti dalla scriminante di cui all'art. 89, comma °,
come si vedrà nel paragrafo CAUSE DI NON PUNIBILITÀ
(67) Vedi per tutti J. THORNTON & S. BECKWITH, Environmentai law, cit., 214
(68) Le definizioni sono date dal Water Resources Act all'art. 221
(69) Vedi infraCAUSE DI NON PUNIBILITÀ
(70) La tecnica di legiferazione dettagliata sarebbe stata legislativamente antieconomica, per la
lunghezza dell'elenco di scarichi da vietare, e avrebbe comportato il rischio di lasciare dei vuoti di tutela,
potendo sfuggire all'elenco alcune sostanze o alcune situazioni particolari di scarico
(71) L'art. 86 sancisce: "1. Ai fini dei reati di cui all'art. 85 uno scarico si considera in violazione di un
divieto imposto in base a questa disposizione quando:a ) l'Environment Agency ha dato ad una persona
ingiunzione proibendo di effettuare o a seconda del caso continuare ad effiettuare, lo scarico;b )
l'Environment Agency ha dato ad una persona ingiunzione proibendo di effettuare o a seconda del caso,
continuare ad effettuare lo scarico salvo l'osservanza di specifiche condizioni e dette condizioni non siano
state rispettate.
2. Lo scarico si considera altrettanto in violazione di un divieto imposto ai sensi di questa disposizione
quando l'effluente o la sostanza scaricata:a ) contiene una sostanza prescritta (nel divieto ) o una
concentrazione prescritta di detta sostanza ob ) deriva da un prescritto processo o da un processo che
comporta l'uso di prescritte sostanze o l'uso di sostanze in quantità che eccedono il limite prescritto"
(72) L'art. 217 Water Resources Act sancisce che i reati previsti dalla presente legge possono essere
commessi sia da una persona fisica sia da una persona giuridica: e che qualora essi siano commessi col
consenso o la connivenza di un dirigente, di un responsabile o comunque di un rappresentante della
persona giuridica, ovvero siano attribuibili alla condotta di questi ultimi, dei reati rispondono in concorso
(e sono giudicati in un medesimo procedimento) la persona fisica e quella giuridica
(73) Nulla osta in tal senso, dato che il diritto penale inglese prevede una vasta gamma di pene, diverse
delle quali sono compatibili con la natura fittizia delle persone giuridiche
(74) Il problema riguarda in altri termini le fattispecie previste dal terzo e dal quarto comma dell'art. 86
(75) Corte d'Appello, 1995, 2 All E.R., 1007
(76) La responsabilità, nella specie, è stata fondata sull'art. 108 del Water Act del 1989, disposizione in
vigore all'epoca del giudizio e che è stata poi sostituita, in termini sostanzialmente equivalenti, dall'art.
87 del Water Resources Act attualmente vigente
(77) Nel caso National Rivers Authority v. Yorkshire Water Services Ltd., precedentemente analizzato a
proposito del nesso causale, la corte aveva, viceversa, escluso la responsabilità del gestore della rete
fognaria, in quanto l'effluente scaricato, che aveva provocato l'inquinamento del fiume, conteneva una
sostanza, l'iso-octanolo, che il gestore aveva espressamente escluso come oggetto di scarico nelle
condizioni fissate nel contratto di utenza della sua rete fognaria. La violazione delle condizioni da parte
dell'utente (violazione, peraltro, inconsapevole in quanto l'iso-octanolo era stato versato
clandestinamente da un terzo non identificato) costituiva pertanto una scriminante per il gestore ai sensi
dell'art. 108, comma °, del Water Act del 1989 (norma identica all'art. 87 del Water Resources Act, che la
ha oggi sostituita)
(78) Le situazioni in questione costituiscono una sorta di cause di giustificazione, in quanto in presenza di
esse l'immissione o lo scarico diviene lecito. Nell'ordinamento inglese sono chiamate defences
(79) Art. 88 del Water Resources Act
(80) Con la sigla I.P.C. si intende l' Integrated pollution control che è un sistema di controllo
dell'inquinamento a carattere integrale, vale a dire rivolto a tutela di tutto l'ambiente, atmosferico, idrico,
terrestre, che è stato introdotto dall' Environmental Protection Act del 1990
(81) Questa causa di non punibilità va inoltre coordinata con l'art. 86, comma °, che dispone che gli
scarichi dalle navi di piccola stazza non possono essere vietati dall' Environment Agency pur quando
ricorrano i requisiti per l'emissione del divieto ai sensi del primo comma dell'art. 86, vale a dire quando il
materiale o l'effluente scaricato contiene una determinata sostanza o concentrazione di sostanza ritenuta
pericolosa dall' Environment Agency.
Quindi le navi di piccola stazza possono rispondere solo del reato di immissione di sostanze nocive,
velenose o inquinanti e del reato di aggravamento dell'inquinamento
(82) Art. 89, comma °, del Water Resources Act
(83) Art. 89, comma °, del Water Resources Act
(84) Art. 89, comma °, del Water Resources Act
(85) Questa ipotesi riguarda le condotte tenute in mare dalle navi. Sul punto si rinvia al nostro La tutela
penale del mare contro l'inquinamento nell'ordinamento inglese, in questa Rivista, 1998, 596 ss
(86) Per summary conviction si intende la condanna pronunciata da un organo giudicante senza giuria;
per conviction on indictment si intende la condanna pronunciata da un organo giudicante con giuria. Il
primo tipo di procedimento si attua nei confronti delle summary offences, cioè dei reati punibili con pena
detentiva non superiore a tre mesi; il secondo ai reati di maggiore gravità, detti indictable offences
(87) In realtà, oltre alla pena pecuniaria la legge prevede la pena detentiva, che in relazione alle persone
giuridiche potrebbe essere applicata ai soggetti che abbiano agito nell'interesse delle stesse. Nella prassi,
però, essa non trova mai applicazione
(88) La pena pecuniaria, pur non essendo vincolata a dei limiti edittali, di fatto non è mai irrogata dalle
corti in somme particolarmente elevate, tali da costituire un buon deterrente
(89) L'art. 161 del Water Resources Act del 1991 in realtà, prevedeva già il potere dell' Environment
Agency di adottare misure di prevenzione, in caso di pericolo di inquinamento, e azioni di rimedio, in caso
di inquinamento delle acque; ma non specificava se detto potere poteva concretarsi nell'effettivo
compimento delle operazioni di prevenzione o di rimedio con accollo delle spese al soggetto inquinatore o
se dovesse semplicemente fermarsi ad una fase istruttoria di investigazione sull'esistenza del pericolo o
dell'inquinamento delle acque. L' Environment Act del 1995 ha, pertanto, portato chiarimenti sulla portata
effettiva di detti poteri in capo all' Environment Agency
(90) Art. 161 A, comma 1°
(91) Art. 161 A, comma 1°
(92) Prova ne è il fatto che queste disposizioni non trovano quasi mai applicazione pratica
(93) Per l'estensione al "cagionare" previsto dall'art. 4 del Salmon and Freshwater Fisheries Act
dell'interpretazione giurisprudenziale relativa al reato di "cagionare l'immissione di sostanze velenose,
nocive o inquinanti nelle acque controllate", cfr. National Rivers Authority v. Welsh Development Agency,
Queen's Bench Divional Court, 10 dicembre 1992, 158 J.P. 506
(94) Si noti unicamente che il legislatore nelle due disposizioni usa verbi diversi - " put" nell'art. 4 del
Salmon and Freshwater Fisheries Act, " enter" nell'art. 88 del Water Resources Act -, ma il significato è
sostanzialmente il medesimo. Probabilmente il cambiamento di termini è dipeso dal fatto che il verbo
enter meglio si accosta rispetto al generico put all'oggetto cui si riferisce (acque). Si tenga presente che
gli inglesi danno un certo peso alle sfumature di significato dei termini che usano, fatto abbastanza
curioso e paradossale se si pensa alla povertà del loro vocabolario rispetto al nostro
(95) L'art. 2 del Rivers (Prevention of Pollution) Act del 1951 e l'art. 107 del Water Act del 1989
(96) Si è visto, infatti, a proposito del reato di cui all'art. 85 del Water Resources Act che la condotta di
"permissione" presuppone un potere-dovere di agire e consiste nell'omettere di prevenire l'inquinamento,
vale a dire nel rimanere inattivi quando si ha il potere di intervenire per evitare l'inquinamento
( Alphacell). (Cfr. il paragrafo LA CONDOTTA DI "CONSAPEVOLMENTE PERMETTERE L'IMMISSIONE DI SOSTANZE NOCIVE,
VELENOSE O INQUINANTI"). Dato che la giurisprudenza tende a estendere l'mterpretazione della condotta di
"cagionare" prevista dall'art. 85 a quella prevista dall'art. 4 del Salmon and Freshwater Fisheries Act, si
può dedurre che ciò valga anche per la condotta di "permettere"
(97) Le acque cui si riferisce il reato sono sia quelle interne sia quelle marine. Queste ultime
ricomprendono, ai sensi dell'art. 2, comma °, del Salmon and Freshwater Fisheries Act le acque che dalla
costa si estendono fino ad un raggio massimo di 6 miglia nautiche (c.d. mare territoriale)
(98) Vedi National Rivers Authority v. Welsh Development Agency, cit
(99) Art. 30, Sch 1, del Water Consolidation (Consequential Provisions) Act del 1991
(100) La public nuisance trova origine nella common law, in quanto è stata creata dalla giurisprudenza la sua formulazione, cioè, è stata elaborata dalle corti nel corso del tempo -, ma è attualmente prevista
anche in varie leggi ( statutes) di settori variegati, dalla tutela dell'incolumità pubblica (ad esempio nel
Public Health Act del 1936), a quella dell'ambiente (ad esempio nell' Environmental Protection Act del
1990), le quali puniscono come public nuisance fatti di vario genere, tutti caratterizzati da una condotta
di molestia o disturbo nei confronti di una collettività, che è l'elemento tipico di questa fattispecie
(101) L.F. STURGE, A digest of the criminal law, ª ed., 1947, art. 235
(102) ROGERS, WINFIELD, JOLOWICZ, On tort, 1ª ed., 1994, p. 408
(103) Southport Corpn. v. Esso Petroleum Co. Ltd., 1954, 2 Q.B., 197
(104) Moore, 1832, 3 B. & Ad., 184
(105) 1893, A.C., 691
(106) R. v. Medley, 1834, 6 C. & P., 292
(107) Si era registrata infatti una vasta moria di pesci
(108) R. v. Bradford Navigation co., 1865, 29 J.P., 613
(109) È interessante notare come in Inghilterra l'azione civile per danni derivanti da inquinamento (quindi
conseguenti alla commissione dell'illecito di private nuisance) possa essere intentata direttamente dal
privato che ha subito il danno, a differenza del nostro ordinamento dove ciò non è possibile in quanto
deve costituirsi come attore un ente o un'associazione rappresentante gli interessi di una categoria nella
quale rientri il soggetto che ha subito il danno (ad esempio l'Associazione Consumatori, Legambiente,
Italia Nostra ecc.)
Archivio selezionato: Note
Le immissioni occasionali nel sistema sanzionatorio sulla tutela delle acque
Riv. giur. ambiente 2001, 6, 859
Luca Prati
11. Lo scarico occasionale dopo la legge Merli. - 2. Sversamenti occasionali e sistema sanzionatorio
attuale.
La sentenza in esame tocca molti degli aspetti più dibattuti in tema di inquinamento idrico e, stante il
modo in cui l'immissione del refluo è stata posta in essere nel caso giunto all'esame del Tribunale di
Rovereto, offre lo spunto per qualche osservazione relativa al concetto di scarico (o immissione)
"occasionale", relativo cioè ad uno sversamento posto in essere in modo del tutto episodico. Tale concetto
presenta infatti aspetti problematici, e neppure pare esservi, tanto in dottrina che in giurisprudenza,
completa chiarezza terminologica, venendo lo scarico "occasionale" ad essere talora in parte sovrapposto
allo scarico "indiretto".
In realtà, lo scarico occasionale, od episodico, pur coincidendo spesso in via di mero fatto con uno scarico
"indiretto", deve essere tenuto concettualmente ben separato da quest'ultimo. Ed infatti, mentre lo
scarico indiretto è in pratica tale solo per le modalità con cui lo sversamento avviene (e cioè non per il
tramite di una condotta che dal luogo di produzione del refluo attinge direttamente il corpo recettore), lo
sversamento episodico od occasionale riguarda piuttosto la continuità temporale dell'immissione, ossia il
fatto che essa non venga effettuata in via continuativa o reiterata a cadenze più o meno periodiche.
Possono quindi esservi scarichi indiretti ma non occasionali (ad esempio una costante tracimazione da un
vasca di accumulo) e scarichi diretti ma occasionali (ad esempio, immissione effettuata da una tubazione
proveniente da uno stabilimento per un brevissimo periodo di tempo e non più reiterata).
1. Lo scarico occasionale dopo la legge Merli.
Nel vigore della legge Merli la giurisprudenza aveva spesso affermato che dovessero essere ritenuti
rientrare nel concetto di "scarico", ai fini dell'applicazione della relativa normativa, anche sversamenti
saltuari, episodici od addirittura isolati, provenienti da fonti inquinanti non caratterizzate da continuità nel
tempo. Le Sezioni Unite della Cassazione erano così giunte ad affermare (107) che pure uno sversamento
singolo ed episodico, realizzatosi uno actu, potesse rilevare quale "scarico" ai fini penali, avendo esso
piena attitudine a ledere il bene protetto dalla normativa in materia di inquinamento delle acque.
Di parere contrario alla citata giurisprudenza formatasi nel vigore della L. 319/1976 era invece parte della
dottrina (108), secondo la quale un requisito dello scarico tipicamente regolato dalla legge 319/1976
doveva ritenersi proprio la sua continuità o permanenza nel tempo.
Una importante novità era intervenuta con la riforma della normativa quadro sulla tutela delle acque; con
l'entrata in vigore del D.Lgs. 152/1999 lo sversamento del tutto occasionale era stato infatti chiaramente
espunto dal concetto di "scarico", per venire ad essere ricompreso all'interno della "immissione
occasionale", nuova fattispecie sanzionata rispettivamente in via amministrativa ed in via penale dagli
artt. 54, comma 1, e 59, comma 5, solo per il caso di superamento dei valori limite di emissione. Come
noto, la novella del D.Lgs. 258/2000, correttiva del D.Lgs. 152/1999, ha invece eliminato la neonata
"immissione occasionale" da entrambi gli articoli succitati.
Era stato autorevolmente affermato (109), prima della novella del 2000, che le ragioni poste a
fondamento della tesi che la legge n. 319 fosse inapplicabile allo sversamento isolato, come tale non
controllabile né prima della sua attivazione né durante la fase della sua effettuazione, dovessero essere
ribadite anche nel vigore della nuova normativa. Un'indicazione a sostegno di questa interpretazione
veniva ricavata dalla richiamata dottrina proprio dall'art. 54, comma 1, e dall'art. 59, comma 5, in cui si
prospettava chiaramente la differenza tra "scarico" ed "immissione occasionale". L'aver sottolineato solo
nelle norme relative al mancato rispetto dei valori-limite l'equiparazione tra lo scarico derivante da fonte
stabile e l'immissione occasionale, secondo tale tesi avrebbe potuto essere inteso come il segnale che per
il legislatore del 1999, ai fini della punibilità dell'attivazione dello scarico senza autorizzazione,
rileverebbe solo quello caratterizzato da una continua e regolare immissione di reflui in un corpo
ricettore, restando fermo che l'immissione del tutto isolata, senza superamento dei valori limite di
emissione, sarebbe sempre stata riconducibile alla previsione sanzionatoria di cui all'art. 51 D.Lgs.
22/1997, in relazione all'art. 14 del medesimo decreto.
La Cassazione (110), intervenendo nel merito dello sversamento occasionale in relazione al regime
sanzionatorio ad esso sotteso, aveva affermato, prima della novella, che "il D.Lgs. 152/1999 ha distinto
tra scarico di acque reflue industriali e immissione occasionale. Il primo deve avvenire tramite condotta e,
cioè, a mezzo di qualsiasi sistema stabile anche se non esattamente ripetitivo e non necessariamente
costituito da una tubazione di rilascio delle acque predette, il secondo ha il carattere dell'eccezionalità
collegata con la menzionata occasionalità. Ne deriva che questo secondo comportamento non è più
previsto come reato con riferimento alla mancanza di autorizzazione; mentre è ancora tale in relazione al
superamento dei limiti di accettabilità, perché espressamente disciplinato".
Anche dopo la soppressione delle "immissioni occasionali" operata dal D.Lgs. 258/2000, i dubbi circa la
rilevanza di uno sversamento del tutto episodico ai fini della classificazione dello stesso come "scarico" (e
quindi ai fini del trattamento sanzionatorio correlato alla mancanza di autorizzazione) non vengono certo
meno.
In realtà, la stessa nuova definizione di "scarico", (definito (111) all'art. 2, lett. bb, del D.Lgs. 152/1999
come "qualsiasi immissione diretta tramite condotta di acque reflue liquide, semiliquide e comunque
convogliabili nelle acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla
loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione") prevedendo sempre
una "condotta" (112), nel senso di un sistema appositamente dedicato al passaggio od al deflusso delle
acque reflue, sembra confermare, ai fini della individuazione di uno "scarico" in senso normativamente
proprio, la necessità di un minimo di continuità o permanenza nel tempo dello sversamento stesso,
togliendo quindi rilievo alle immissioni del tutto sporadiche, anche se eccezionalmente attuate mediante
tubature o canalizzazioni.
Del resto, come già affermato anche nel vigore della Merli, un regime autorizzatorio e di controlli del tipo
di quello approntato dalla normativa sulle acque presuppone necessariamente una fonte inquinante
caratterizzata da un minimo di continuità per poter essere ragionevolmente applicato. Nel nuovo come
nel vecchio regime aspetti quali l'obbligo di rendere accessibili per i campionamenti i punti di scarico, il
divieto di diluizione, l'indicazione puntuale degli scarichi nelle richieste di autorizzazione, l'individuazione
della quantità di acqua da prelevare annualmente, costituiscono indici di sicuro rilevo per affermare che la
normativa introdotta dal D.Lgs. 152/1999 presuppone necessariamente, per poter trovare applicazione,
una precisa localizzazione dello scarico e l'agevole individuazione del medesimo, circostanze difficilmente
riscontrabili nell'ipotesi di immissioni del tutto occasionali.
Va però evidenziato come lo scarico occasionale debba essere tenuto ben distinto da quello
semplicemente discontinuo, che non per questo resta escluso dal D.Lgs. 152/1999: la Cassazione (113)
ha affermato che "In tema di tutela delle acque dall'inquinamento, la normativa di cui al D.Lgs. 152/1999
non esclude la rilevanza ai fini penali dello scarico discontinuo cioè collegato ad una particolare attività
produttiva effettuata saltuariamente, sicché si distingue tra scarico occasionale, caratterizzato
dall'effettuazione fortuita ed accidentale, e discontinuo, qualificato dai requisiti dell'irregolarità,
dell'intermittenza e della saltuarietà, ma collegato ad un determinato ciclo produttivo industriale" (nella
massima citata l'" occasionalità" sembra essere necessariamente ricondotta alla " accidentalità",
circostanza che non appare invece scontata, ben potendo l'immissione episodica essere realizzata in
modo volontario).
2. Sversamenti occasionali e sistema sanzionatorio attuale.
Come già sopra ricordato, il D.Lgs. 258/2000 ha eliminato dal sistema sanzionatorio del D.Lgs. 152/1999
la fattispecie, problematica e criticata, dell'immissione occasionale, in precedenza menzionata (ma non
definita) sia all'art. 54, comma 2, che all'art. 59, comma 6.
Ad ogni modo, anche accedendo alla tesi secondo cui l'immissione occasionale non può mai essere punita
come "scarico" abusivo, sarebbe erroneo ritenere che dopo la riforma del D.Lgs. 258/2000 l'immissione di
rifiuti liquidi o semiliquidi, non effettuata per il tramite di condotta, o comunque realizzata in modo del
tutto episodico, resti ora priva di qualsiasi sanzione.
A fronte della scomparsa della fattispecie speciale della "immissione occasionale", si riespande infatti la
fattispecie più generale prevista dal combinato disposto degli artt. 14, 50 e 51 del D.Lgs. 22/1997; l'art.
14 citato primo prevede infatti una norma di chiusura in tema di tutela ambientale in base alla quale
"L'abbandono e il deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo sono vietati. È altresì vietata
l'immissione di rifiuti di qualsiasi genere, allo stato solido o liquido, nelle acque superficiali e sotterranee
".
Gli artt. 50 e 51, comma 2, del D.Lgs. 22/1997 sanzionano la condotta di abbandono di rifiuti sul suolo, o
la loro immissione in acque, rispettivamente in via amministrativa e penale.
L'art. 50 del D.Lgs. 22/1997 prevede infatti che, "fatto salvo quanto disposto dall'art. 51, comma 2,
chiunque in violazione dei divieti di cui agli artt. 14, commi 1 e 2, 43, comma 2, 44, comma 1, e 46,
commi 1 e 2, abbandona o deposita rifiuti ovvero li immette nelle acque superficiali o sotterranee è
punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da lire duecentomila a lire unmilioneduecentomila. Se
l'abbandono di rifiuti sul suolo riguarda rifiuti non pericolosi e non ingombranti si applica la sanzione
amministrativa pecuniaria da lire cinquantamila a lire trecentomila".
L'art. 51, comma 2, prevede invece che si applichino "ai titolari di imprese ed ai responsabili di enti che
abbandonano o depositano in modo incontrollato i rifiuti ovvero li immettono nelle acque superficiali o
sotterranee in violazione del divieto di cui all'art. 14, commi 1 e 2", la pena dell'arresto da tre mesi ad un
anno o l'ammenda da lire cinque milioni a lire cinquanta milioni se si tratta di rifiuti non pericolosi; b) la
pena dell'arresto da sei mesi a due anni e l'ammenda da lire cinque milioni a lire cinquanta milioni se si
tratta di rifiuti pericolosi.
In sintesi, mentre il discrimine tra sanzione penale e sanzione amministrativa per la immissione
occasionale, nel D.Lgs. 152/1999, dipendeva dai valori limite di emissione che venivano ad essere
superati tramite l'immissione nel corpo recettore (restando punita in via penale solo quella che
determinasse il superamento dei limiti fissati nella tabella 3 dell'allegato 5 in relazione alle sostanze
indicate nella tabella 5 ovvero i limiti più restrittivi fissati dalle Regioni o delle Province autonome), dopo
il D.Lgs. 258/2000 e la riespansione della norma generale sui rifiuti l'immissione non canalizzata viene ad
essere perseguita nel seguente modo: 1) in via amministrativa, con la sanzione pecuniaria da lire
duecentomila a lire unmilioneduecentomila, se effettuata da privati o comunque da chiunque non rivesta
la qualifica dei soggetti di seguito menzionati; 2) in via penale, con la pena dell'arresto da tre mesi ad un
anno o l'ammenda da lire cinque milioni a lire cinquanta milioni se si tratta di rifiuti non pericolosi, e la
pena dell'arresto da sei mesi a due anni e l'ammenda da lire cinque milioni a lire cinquanta milioni se si
tratta di rifiuti pericolosi, qualora l'immissione sia imputabile a titolari di imprese o a responsabili di enti.
Nel sistema posteriore al D.Lgs. 258/2000 rimane quindi tendenzialmente irrilevante, ai fini
dell'applicazione della sanzione penale piuttosto che di quella amministrativa, il valore limite
eventualmente superato tramite l'immissione, così come la pericolosità della sostanza scaricata (che
rileva solo ai fini della gravità, ma non della natura, della sanzione), mentre si deve avere riguardo
essenzialmente all'autore, e quindi alla provenienza, dell'immissione, che se effettuata da insediamenti
produttivi sarà per lo più riconducibile a titolari di imprese o a responsabili di enti, e quindi rientrerà nel
regime penale. Tuttavia, qualora l'immissione del rifiuto liquido venga a configurarsi non come semplice
atto di abbandono nell'ambiente, ma come una vera e propria attività di smaltimento di rifiuti non
autorizzata (attività tra le quali, ricordiamo, l'allegato B del D.Lgs. 22/1997 include anche il "Lagunaggio",
esemplificato come " scarico di rifiuti liquidi o di fanghi in pozzi, stagni o lagune, ecc."), la fattispecie
applicabile sarà quella prevista dall'art. 51, comma 1, del D.Lgs. 22/1997, per la quale la sanzione
prevista è sempre quella penale, a prescindere dalla qualifica soggettiva rivestita dall'autore del fatto.
Per quanto attiene poi al concreto trattamento sanzionatorio delle immissioni occasionali poste in essere
prima della novella del D.Lgs. 258/2000 occorre naturalmente, in base ai noti principi dettati per la
successione di leggi penali nel tempo dall'art. 2 del c.p., verificare di volta in volta se, nel caso concreto,
risulti maggiormente favorevole il trattamento sanzionatorio in essere all'epoca del fatto (L. 319/1976 o
D.Lgs. 152/1999 ante novella, a seconda del periodo in cui è stato posto in essere) o quello attuale post
novella (artt. 50 e 51 del D.Lgs. 22/1997). In taluni casi, la fattispecie concreta potrebbe risultare essere
stata depenalizzata nel vigore del D.Lgs. 152/1999 ante novella (per il superamento dei valori tabellari
ricondotti in ambito amministrativo a seguito del D.Lgs. 152/1999) ed essere oggi nuovamente soggetta
a sanzione penale in forza della riespansione dell'art. 51 del D.Lgs. 22/1997, che come detto prescinde
dalla verifica dell'eventuale superamento dei valori limite di emissione ma prevede sempre la sanzione
penale per l'immissione imputabile a titolari di imprese o a responsabili di enti.
NOTE
(107) Cassazione, SS.UU., 13 luglio 1998, M., in Guida al dir., 1998, fasc. 44, p. 94.
(108) F. Giampietro - P. Giampietro, Rassegna critica di giurisprudenza sull'inquinamento delle acque e
del suolo, Tomo I, 1985, p. 826.
(109) V. Paone, Il nuovo decreto sulle acque, in Foro it., 1999, II, c. 558. Tra i molti contributi sul punto
prima dell'entrata in vigore del D.Lgs. 258/2000, F. Giampietro, Scarico, immissione e rifiuto liquido nel
D.Lgs. 152/1999: disciplina complessa o eterogenea?, in Ambiente, 1999, p. 755; F. Anile, Sanzioni
penali e amministrative nel D.Lgs. 152/1999: primi rilievi, in Ambiente, 1999, p. 793; G. Amendola, Le
nuove disposizioni contro l'inquinamento idrico, Milano, 199, p. 33.
(110) Cassazione penale, Sez. III, 14 settembre 1999, n. 2774.
(111) Per un'attenta analisi della definizione, cfr. A.L. De Cesaris, Scarichi di acque reflue: nuove
definizioni, in questa Rivista, 2000, p. 919.
(112) Cfr. Cassazione penale, Sez. III, 1° luglio 1999, in questa Rivista, 2000, p. 1012, in cui si precisa
che "lo scarico di acque reflue deve avvenire tramite condotta e, cioè, a mezzo di qualsiasi sistema
stabile anche se non esattamente ripetitivo e non necessariamente costituito da una tubazione, di rilascio
delle acque predette"; ancora, Cassazione penale, Sez. III, 3 settembre 1999, in questa Rivista, 2000, p.
1013, in cui si dice che "è penalmente sanzionato per difetto di autorizzazione solo il vero e proprio
"scarico", il quale deve avvenire "tramite condotta", e cioè a mezzo di qualsiasi sistema stabile... di
rilascio delle acque reflue".
(113) Cassazione penale, Sez. III, 14 dicembre 2000 (7 novembre 2000), L., in Ambiente, p. 284, con
nota di S. Beltrame.
Archivio selezionato: Note
(1) Scarico di sostanze pericolose e inquinamento idrico.
Riv. it. dir. pubbl. comunit. 2001, 6, 1178
Annamaria De Michele
SOMMARIO: 1. La direttiva n. 76/464/CEE. 2. La sentenza della Corte. 3. L'art. 7 della direttiva quadro: i
programmi.
1. La direttiva n. 76/464/CEE.
1.1. Nella sentenza del 10 maggio 2001, causa C-152/98, la Corte di giustizia delle Comunità europee ha
condannato il Regno dei Paesi Bassi per aver trasposto in modo insufficiente l'art. 7, nn. 1-3, della
direttiva n. 76/464/CEE che concerne l'inquinamento provocato dallo scarico di talune sostanze pericolose
nell'ambiente idrico della Comunità.
La sentenza in questione non assume un rilievo particolare sotto il profilo dell'interpretazione normativa,
dal momento che nulla aggiunge di nuovo in relazione all'interpretazione degli obblighi posti dalla norma
oggetto della contesa. Essa si limita a confermare soluzioni giuridiche già ampiamente esaminate dalla
Corte.
Le ragioni per cui vale la pena di soffermarsi su di essa sono altre: la sentenza del 10 maggio 2001
applica ancora una disciplina che oggi, in gran parte, non esiste più. Infatti, quando la Corte si è
pronunciata contro il Regno dei Paesi Bassi, la direttiva, la cui mancata attuazione costituiva oggetto del
procedimento in questione, aveva già subito ampie modifiche a seguito dell'entrata in vigore della
direttiva n. 96/61/CE (571) sulla prevenzione e riduzione integrate dell'inquinamento.
Inoltre, la nuova direttiva n. 2000/60/CE (572) che istituisce un quadro per l'azione comunitaria in
materia di risorse idriche ha stabilito che la direttiva quadro venga progressivamente abrogata,
sostituendo la vecchia disciplina con una di impostazione decisamente più moderna.
Di tutte le modifiche legislative intervenute in corso di causa, la Corte non ha ovviamente potuto tenere
conto (573). La rilevanza di queste modifiche, e il peso decisivo che hanno rivestito sulla sorte della
direttiva quadro, emergono però tra le righe della decisione della Corte, che non ha potuto esimersi dal
prendere in considerazione le difese del governo olandese concernenti l'inopportunità del ricorso della
Commissione in relazione al nuovo quadro normativo venutosi a determinare.
1.2. La direttiva n. 76/464/CEE (574) fu approvata durante la vigenza del primo programma d'azione in
materia ambientale (1973-1977), che aveva previsto alcune misure prioritarie per combattere il degrado
progressivo delle acque dolci e marine.
Questa definiva le linee generali dell'azione comunitaria nel settore degli scarichi: costituiva, infatti, la
"premessa logica e metodologica" (575) di una serie di direttive, che hanno applicato concretamente i
principi generali che questa aveva stabilito, in relazione a singole sostanze o a singole famiglie di
sostanze, indicate negli elenchi 1 e 2 dell'allegato I della direttiva quadro.
L'ambito di applicazione della direttiva era molto ampio (576): questa disciplinava, infatti, le acque
interne superficiali, le acque marine territoriali, le acque interne del litorale, le acque sotterranee (577).
Ogni tipo di acque era opportunamente definito per agevolarne l'individuazione da parte dell'interprete
ed, in primo luogo, da parte degli Stati che sono chiamati ad applicarla.
Fondamentali erano le definizioni di scarico e di inquinamento, che compaiono, per la prima volta, in
relazione alle risorse idriche.
Lo scarico consisteva nell'immissione nelle acque delle sostanze indicate negli elenchi 1 e 2 dell'allegato
I: sono eccettuati gli scarichi di fanghi di dragaggio, gli scarichi operativi effettuati da navi nelle acque
marine territoriali, l'immersione di rifiuti da parte di navi nelle acque marine territoriali. Correlata alla
nozione di scarico era la nozione di inquinamento: questo è "lo scarico effettuato, direttamente o
indirettamente, dall'uomo nell'ambiente idrico, di sostanze o di energia, le cui conseguenze siano tali da
mettere in pericolo la salute umana, nuocere alle risorse viventi e al sistema ecologico idrico,
compromettere le attrattive o ostacolare altri usi legittimi delle acque" (art. 1, comma 2).
La definizione di inquinamento ruotava intorno a due cardini: l'evento, che coincideva con lo scarico di
sostanze o di energie, e le conseguenze negative che provoca all'uomo, all'ambiente idrico e alle attività
economiche che sono esercitate in quella sede.
La disciplina contenuta nella direttiva, però, teneva conto solo in parte di questa definizione, dal
momento che si preoccupa di regolare gli scarichi, senza occuparsi, invece, della destinazione del bene
protetto, che passa automaticamente in secondo piano (578).
L'allegato I della direttiva quadro conteneva due elenchi.
Il primo indicava una serie di sostanze o di gruppi di sostanze ritenute più pericolose per l'ambiente idrico
a causa della loro tossicità, persistenza e bioaccumulazione, escluse le sostanze biologicamente
inoffensive, o che rapidamente divengono tali. Quest'elenco era stato battezzato "lista nera" (579).
Il secondo, invece, indicava una serie di sostanze o di famiglie di sostanze, che hanno sull'ambiente idrico
effetti nocivi più limitati, e correlati ad una certa zona, alla qualità del corpo recettore o alla sua
localizzazione. Quest'elenco era stato denominato "lista grigia".
Gli elenchi potevano, ovviamente, essere modificati, mediante il passaggio di sostanze dall'uno all'altro, o
integrati, in base alla procedura descritta nell'art. 14, in relazione al progresso delle conoscenze
scientifiche e tecniche, determinanti in questo settore.
In base all'art. 2, gli Stati membri s'impegnavano a eliminare l'inquinamento delle acque causato dalle
sostanze indicate nella lista nera, e a ridurre l'inquinamento causato dalle sostanze elencate nella lista
grigia, nel rispetto delle disposizioni della direttiva quadro, che rappresentavano il primo passo in questa
direzione.
La direttiva quadro individuava due differenti strategie di lotta all'inquinamento, in relazione alla
pericolosità delle sostanze considerate.
Per quanto riguarda le sostanze indicate nell'elenco 1, la direttiva delineava un regime basato sul
meccanismo dell'autorizzazione allo scarico.
In base all'art. 3, tutti gli scarichi nelle acque che potevano contenere sostanze pericolose, dovevano
essere preventivamente autorizzati dalle autorità competenti individuate dagli Stati membri.
L'autorizzazione doveva indicare, in relazione al singolo scarico, le norme di emissione, che l'autore dello
scarico era obbligato a rispettare puntualmente nei termini stabiliti. L'autorizzazione era concessa per un
periodo limitato, e poteva essere rinnovata (580).
Le norme di emissione indicate dalle autorizzazioni dovevano essere uguali o più severe, mai meno
severe di quelle indicate dal Consiglio conformemente alla procedura descritta dall'art. 6.
Soltanto per 18 delle 132 sostanze costituenti il nucleo centrale della lista nera il Consiglio aveva
provveduto a fissare le norme di emissione. Le restanti 114 sostanze per le quali il Consiglio non aveva
provveduto a fissare alcuna norma di emissione erano, conformemente a quanto stabilito nella direttiva,
assoggettate temporaneamente alla disciplina delle sostanze inserite nella lista grigia nella quale
transitavano.
Per quanto concerne le sostanze elencate nella lista grigia, l'art. 7 impostava una strategia di lotta basata
sulla predisposizione di programmi e sulla fissazione di obiettivi di qualità, lasciando alle autorità
competenti dei singoli Stati membri la fissazione dei limiti di emissione.
In base all'art. 7, comma 1, gli Stati dovevano predisporre programmi per ridurre l'inquinamento causato
dalle sostanze indicate nell'elenco 2 dell'allegato 1. Questi fissavano gli obiettivi di qualità per le acque,
tenendo conto di quelli stabiliti dal Consiglio nelle direttive che disciplinano le singole sostanze o i singoli
gruppi di sostanze; potevano, inoltre, contenere prescrizioni particolari in relazione alla composizione o
all'uso di particolari sostanze o prodotti. I programmi indicavano le scadenze per la loro attuazione.
L'art. 7, comma 2, stabiliva che lo scarico nell'ambiente idrico delle sostanze o dei gruppi di sostanze
nella lista grigia doveva essere preventivamente autorizzato dall'autorità competente dello Stato membro
che stabiliva le norme di emissione in relazione a quelle indicate nei programmi.
Gli Stati membri comunicavano alla Commissione, sia pure in forma sintetica, i programmi adottati e
risultati conseguiti a seguito della loro attuazione.
L'art. 7 non indicava alcuna scadenza per la redazione e per la attuazione dei programmi. In una lettera
della Commissione indirizzata agli Stati membri erano individuati seguenti termini: 15 settembre 1982
per l redazione dei programmi, 15 settembre 1986 per l'attuazione (581).
La Commissione organizzava incontri periodici tra gli Stati membri, per metterli in condizione di
confrontare le misure adottate da ciascuno e favorire l'adozione di scelte uniformi. A tal fine proponeva al
Consiglio eventuali provvedimenti d armonizzazione.
2. La sentenza della Corte.
Oggetto del procedimento in questione è la mancata attuazione dell'art. 7 n. 1-3. La Commissione
contesta al Governo olandese di non aver predisposto i programmi finalizzati alla riduzione
dell'inquinamento causato dalle sostanze indicate nella lista grigia e di non aver indicato gli obiettivi di
qualità per le acque.
La prima questione sulla quale si è concentrata l'attenzione della Corte in sede di decisione del ricorso
proposto dalla Commissione concerne l'opportunità e la ricevibilità di esso.
Il Governo olandese rileva che, durante lo svolgimento del procedimento contenzioso, sono intervenute
consistenti modifiche normative che hanno inciso notevolmente sul quadro giuridico delineato dalla
direttiva quadro. La direttiva n. 96/61/CE, alla quale il governo olandese sostiene di essersi pienamente
conformato, avrebbe eliminato la distinzione tra sostanze appartenenti alla lista nera e alla lista grigia per
i settori delle grandi attività industriali.
La direttiva n. 2000/60/CE avrebbe, invece, innovato l'approccio complessivo della politica comunitaria in
materia di scarichi di sostanze pericolose nell'ambiente idrico, privando di qualsiasi valore gli obblighi
imposti dalla precedente disciplina, compresi quelli relativi alla predisposizione dei programmi e alla
fissazione degli obiettivi di qualità.
La Corte, pur riconoscendo l'esistenza di questi mutamenti normativi e concordando sulla loro rilevanza,
non ha ritenuto fondato l'argomento del governo olandese sul presupposto che l'inadempimento di uno
Stato membro debba essere valutato al momento della scadenza del termine assegnato dalla
Commissione per conformarsi al parere motivato di essa.
Ha invece riconosciuto parzialmente irricevibile il ricorso della Commissione dal momento che questa
aveva esteso l'oggetto del giudizio muovendo contestazioni più ampie di quelle rilevate durante il
procedimento precontenzioso (582). Infatti, durante la fase precontenziosa, la Commissione si era
limitata a chiedere informazioni in ordine alla predisposizione dei programmi e alla fissazione degli
obiettivi di qualità relativi al bacino dell'Escaut e ad esprimere un parere motivato sulle risposte
dell'Olanda su questi argomenti. Successivamente, con il ricorso aveva chiesto la condanna del medesimo
Stato in relazione all'inadempimento degli obblighi stabiliti dall'art. 7.
La seconda questione esaminata dalla Corte concerne l'individuazione del regime al quale devono essere
assoggettate le sostanze prioritarie per le quali il Consiglio non abbia fissato alcun valore.
Tali sostanze, secondo la interpretazione della norma (proposta dalla Commissione ed accettata già da
tempo dalla Corte di giustizia), fondata su una lettura rigorosa del testo (583), devono essere sottoposte
al regime dell'art. 7 almeno fino a quando il Consiglio non abbia provveduto a indicare i limiti di
emissione per ciascuna di esse.
Il Governo olandese contesta con argomentazioni piuttosto deboli questa interpretazione. Sostiene,
infatti, che le sostanze prioritarie per le quali i valori non siano stati fissati transitino da un regime più
rigoroso ad uno meno rigoroso soltanto quando il Consiglio abbia espressamente rinunciato alla fissazione
dei relativi valori limite. L'assoggettamento delle sostanze prioritarie ad un regime più blando
costituirebbe, infatti, una deroga alle finalità della direttiva giustificabile soltanto a seguito di una
decisione da parte del Consiglio.
Inoltre, sarebbe impossibile per qualunque Stato fissare valori per tutte le sostanze appartenenti alle
famiglie e ai gruppi dell'elenco I per le quali il Consiglio non ha provveduto. Infine, il Governo olandese
addebita alla lentezza dei processi decisionali delle istituzioni comunitarie le difficoltà incontrate dagli
Stati membri nel dare piena attuazione alle finalità della direttiva in questione.
La Corte respinge con fermezza queste argomentazioni.
Ribadisce che le sostanze dell'elenco I, per le quali il Consiglio non ha ancora provveduto, devono essere
provvisoriamente assoggettate al regime dell'art. 7 della direttiva quadro (584); che, sebbene il regime
delineato dall'art. 7 appaia più blando di quello delineato dall'art 6, poiché il primo tende alla riduzione
dell'inquinamento mediante la predisposizione di programmi, il secondo tende invece alla eliminazione di
esso, non per questo può rivelarsi meno efficace nella lotta all'inquinamento delle risorse idriche, dal
momento che ciò che rileva non è tanto la fissazione dei valori, ma il livello di essi. Niente impedisce al
Governo olandese di individuare obiettivi di qualità più rigorosi per le sostanze prioritarie che si trovano
assoggettate ad un regime diverso da quello stabilito per esse in via principale.
Inoltre, l'obbligo di predisporre i programmi ed individuare gli obiettivi di qualità non riguarda tutte le
famiglie e tutti i gruppi dell'elenco I, ma soltanto le 114 sostanze indicate dalla decisione della
Commissione datata 22 giugno 1982 alla quale la Corte riconosce valore vincolante (585).
Infine, riafferma il principio per cui i ritardi delle istituzioni comunitarie non possono giustificare
l'inadempimento degli Stati membri agli obblighi che su di essi gravano.
La terza questione sulla quale la Corte si è pronunciata concerne la mancata predisposizione dei
programmi e la mancata fissazione degli obiettivi di qualità per taluni gruppi di sostanze indicati
nell'elenco II. La Corte non ha ritenuto di accogliere l'argomento del Regno dei Paesi Bassi per cui
l'inadempimento sarebbe motivato dalle difficoltà di individuazione delle sostanze in questione, ribadendo
il principio per il quale le difficoltà scientifiche o tecniche nelle quali gli Stati membri a volte incorrono non
possono sollevarli dall'adempimento degli obblighi che gravano su di essi. Allo stesso modo, ha respinto
con fermezza l'argomento del Governo olandese secondo il quale l'obbligo di fissare gli obiettivi di qualità
è circoscritto alle sostanze o ai gruppi di sostanze per i quali siano state indicate norme di emissione nelle
autorizzazioni. L'obbligo di fissare gli obiettivi di qualità sussiste per il solo fatto che certe sostanze
vengano scaricate nell'ambiente idrico, a prescindere dal fatto che esse costituiscano successivamente
oggetto di autorizzazione.
3. L'art. 7 della direttiva n. 76/464/CEE: i programmi.
3.1. L'art. 7 della direttiva n. 76/464/CEE ha dato origine ad un amplissimo contenzioso tra la
Commissione e i singoli Stati membri (586).
La Corte di giustizia è stata chiamata più volte a condannare Stati membri per aver trasposto in modo
insufficiente o per non aver trasposto affatto le norme che prescrivono l'adozione dei programmi
finalizzati alla riduzione dell'inquinamento e la fissazione di obiettivi di qualità per i corpi idrici nei quali
recapitano scarichi inquinanti che contengono le sostanze singole o per i gruppi di sostanze indicati
nell'elenco II dell'allegato 1 della direttiva.
La sentenza in esame rappresenta soltanto l'esempio più recente del contenzioso che è sorto intorno a
questa norma. Essa prende in considerazione però soltanto alcune delle questioni interpretative che l'art.
7 della direttiva n. 76/464/CEE pone. Accanto a queste questioni ve ne sono altre non meno interessanti
che può essere utile esaminare al fine di dare un quadro completo del gran numero di problemi che la
norma ha creato e continuerà a creare fino alla sua definitiva abrogazione.
Accanto al problema relativo alla identificazione delle sostanze per le quali sussiste concretamente
l'obbligo di fissare gli obiettivi di qualità, sta un altro problema strettamente collegato a questo:
l'identificazione delle caratteristiche che gli atti ed i documenti che individuano gli obiettivi di qualità
devono presentare per essere definiti programmi.
Numerosi sono stati i ricorsi della Commissione e le condanne della Corte che hanno preso in
considerazione questo tema. Il contenzioso è nato, in qualche caso, a causa della pigrizia dei legislatori
nazionali che non hanno trasposto nei loro ordinamenti giuridici le previsioni relative alla predisposizione
dei programmi (587). Assai più spesso è nato invece a causa della scarsa chiarezza della norma, che ha
creato non pochi dubbi interpretativi in ordine ai requisiti minimi che consentono di individuare i
programmi disciplinati dall'art. 7.
La Corte di giustizia si è sforzata di dare una interpretazione della norma che chiarisse il suo significato
(588). Al fine di individuare i caratteri minimi che i programmi devono presentare, tanto dal punto di
vista sostanziale quanto dal punto di vista formale, può essere pertanto utile esaminare la giurisprudenza
della Corte sul punto.
Dal punto di vista sostanziale, i programmi da stabilire in osservanza dell'art. 7 della direttiva devono
essere specifici.
Secondo la Corte, "il carattere specifico dei programmi di cui trattasi consiste nel fatto che essi devono
rappresentare un approccio globale e coerente, che abbia il carattere di una pianificazione concreta ed
articolata che riguardi l'insieme del territorio nazionale e miri alla riduzione dell'inquinamento causato da
tutte le sostanze dell'elenco II che siano rilevanti nel contesto nazionale di ciascuno Stato membro, in
rapporto con gli obiettivi di qualità delle acque di ricevimento fissati in questi stessi programmi" (589).
Per questa ragione, non possono essere considerati programmi ai sensi dell'art. 7 della direttiva né
provvedimenti nazionali che hanno ad oggetto solo una parte delle sostanze identificate come rientranti
nell'ambito dell'elenco II e che non contengono una pianificazione globale di riduzione dell'inquinamento
in funzione di obiettivi di qualità fissati per le acque di ricevimento, né decreti settoriali e codici di buona
pratica agricola che costituiscono solo misure specifiche e non la realizzazione di un programma globale e
coerente di riduzione dell'inquinamento.
I programmi devono necessariamente fissare gli obiettivi di qualità in relazione a tutte le sostanze
(indicate nell'elenco II) che recapitano in determinato ambiente idrico. Quest'obbligo deve essere
adempiuto a prescindere dal fatto che tali sostanze abbiano determinato un inquinamento effettivo della
acque, ma per il solo fatto che esistano scarichi in grado di contenere tali inquinanti (590).
A tal fine sarebbe necessario realizzare una cartografia delle fonti di inquinamento sull'intero territorio
nazionale, poi localizzare le sostanze appartenenti all'elenco II ed infine adottare le misure necessarie a
ridurre l'inquinamento, tra le quali è indispensabile lo sviluppo di una rete di sorveglianza (591). Sulla
base degli obiettivi di qualità, le autorità competenti degli Stati membri provvederanno ad indicare nelle
autorizzazioni i limiti di emissione per le sostane considerate.
Dal punto di vista formale, la Corte ritiene che gli atti che gli Stati intendono qualificare come programmi
debbano rivestire una veste formale tale da garantire un'agevole comparazione di essi (592). Gli Stati
membri non sono liberi di scegliere la forma o gli strumenti da utilizzare, ma devono individuare forme e
modi che garantiscano la completa attuazione dei fini di cui all'art. 7 nn. 6 e 7 (593).
3.2. L'art. 7 della direttiva n. 76/464/CEE è stato in gran parte modificato prima dalla direttiva n. 96/61/
CE (594) e poi dalla direttiva n. 2000/60/CE (595).
La direttiva n. 96/61/CE concerne la prevenzione e la riduzione integrate dell'inquinamento dell'aria
dell'acqua e del suolo.
Il provvedimento in questione rappresenta un tentativo di superare l'approccio settoriale nella lotta
all'inquinamento, per realizzare, invece una integrazione degli interventi nei settori dell'aria dell'acqua e
del suolo. Nasce dalla presa di coscienza che la lotta all'inquinamento basata su interventi settoriali
spesso si limita a spostare i carichi inquinanti dal settore più tutelato a quello meno tutelato. Una politica
efficiente ed efficace nella lotta al degrado delle risorse naturali può essere perseguita soltanto attraverso
un costante coordinamento degli interventi.
Destinatarie della disciplina delineata dalla direttiva n. 96/61/CE non sono più singole tipologie di scarichi
(nell'aria, nell'acqua e nel suolo) come è stato a partire dall'inizio degli anni '70 e fino al 1996, ma i
grandi impianti industriali che sono i principali responsabili di essi. Questi vengono assoggettati ad
un'unica autorizzazione che disciplina il tipo e l'entità di tutte le prevedibili emissioni dell'impianto in ogni
settore ambientale.
Le autorizzazioni rilasciate secondo le norme della direttiva n. 96/61/CE devono includere valori limite di
emissione fissati per le sostanze inquinanti. Tali valori sono stabiliti dal Consiglio su proposta della
Commissione. Se gli organismi comunitari non provvedono, questi sono individuati mediante
l'applicazione delle direttive comunitarie che disciplinano gli scarichi in acqua, aria e suolo. Per il settore
delle acque, il riferimento è ovviamente alla direttiva quadro e alle singole direttive applicative (596).
L'art. 20 della direttiva n. 96/61/CE ha previsto disposizioni transitorie relative al regime istituito dall'art.
7 n. 2 della direttiva quadro, relativo al rilascio delle autorizzazioni. Per gli impianti esistenti (597), tale
regime transitorio resterà in vigore fino a quando gli Stati membri non abbiano adottato le misure di
autorizzazione e di controllo previste dall'art. 5 della direttiva.
In base all'art. 7 n. 2 della direttiva n. 76/464/CEE, tutti gli scarichi che possono contenere sostanze
indicate nell'elenco II dell'allegato 1 devono essere autorizzati dalle autorità competenti dei singoli Stati
membri che fissano le norme di emissione in base agli obiettivi di qualità indicati nei programmi
predisposti a norma dell'art. 7 n. 1.
L'art. 5 della direttiva sulla prevenzione e riduzione integrata dell'inquinamento modifica questa norma
sostituendo l'autorizzazione da essa descritta con un'altra autorizzazione rilasciata nei termini e alle
condizioni indicate dalla norme della direttiva, che risultano essere piuttosto specifiche e dettagliate in
quanto presuppongono la verifica delle caratteristiche non di un singolo scarico, ma un intero impianto
industriale.
La disciplina della direttiva 96/61/CE incide, inoltre, sulla attribuzione delle competenze relative alla
fissazione dei valori limite delle emissioni che vengono conferite integralmente al Consiglio sia pure in via
principale.
In base alla disciplina della direttiva quadro, l'art. 6 riservava al Consiglio l'indicazione dei limiti di
emissione per le sostanze della lista nera. Questo provvedeva attraverso l'emanazione di apposite
direttive.
Per le sostanze della lista grigia, invece, l'art. 7 attribuiva questi compiti alle autorità competenti
designate dai singoli Stati membri che provvedevano a rilasciare le autorizzazioni nel rispetto degli
obiettivi di qualità fissati nei programmi.
L'art. 18 della direttiva n. 96/61/CE non distingue tra sostanze prioritarie e non prioritarie e conferisce al
Consiglio il potere di fissare i valori limite delle emissioni sia per le sostanze prioritarie costituenti la cd.
lista nera, sia per le sostanze non prioritarie costituenti la cd. lista grigia (598).
Nel caso in cui il Consiglio non provveda nei modi e nei termini stabiliti, troverà ancora applicazione la
previgente disciplina degli art. 6 e 7 della direttiva n. 76/464/CEE.
La direttiva n. 96/61/CE non incide, invece sull'obbligo stabilito dall'art. 7 n. 1 della direttiva quadro per
gli Stati membri di predisporre programmi che fissino obiettivi di qualità per le sostanze indicate nella
lista grigia.
3.3. La direttiva n. 76/464/CEE è destinata ad essere progressivamente abrogata dalla direttiva n.
2000/60/CE.
Per quanto riguarda l'art. 7, che costituisce l'oggetto principale di questa indagine, la nuova direttiva ha
stabilito che, fino a quando la direttiva quadro non sarà definitivamente abrogata (599), gli Stati membri
applicheranno i principi, gli standard di qualità ambientale e le misure prescritte dalla direttiva in
questione (art. 22 n. 3 lett. b).
Una previsione del genere è ovviamente fonte di gravissime incertezze sul piano giuridico, dal momento
che non risulta affatto semplice capire quale sarà la disciplina applicabile fino a quando gli organismi
comunitari e i singoli Stati membri non adotteranno tutte le disposizioni prescritte dalla direttiva n.
2000/60/CE (600).
Appare verosimile che:
1) fino a quando la Commissione non presenterà proposte in ordine alla individuazione delle sostanze
prioritarie, continuerà ad applicarsi la disciplina della direttiva n. 76/464/CEE. In sostanza, la lista grigia
contenuta nell'allegato I costituirà ancora il punto di riferimento principale per l'individuazione delle
sostanze ritenute meno pericolose (601).
Attualmente esiste una proposta modificata di decisione del Parlamento Europeo e del Consiglio relativa
all'istituzione di un elenco di sostanze prioritarie in materia di acque (presentata dalla Commissione in
applicazione dell'articolo 250, paragrafo 2 del trattato CE) datata 18 gennaio 2001, che individua 32
sostanze ritenute prioritarie.
2) La disciplina dei limiti di emissione delle sostanze pericolose e dei controlli sul rispetto di essi sarà
ripartita tra le istituzioni comunitarie che provvederanno in via principale e gli Stati membri, in caso di
inadempienze da parte di questi ultimi, i quali saranno tenuti al rispetto delle norme della direttiva n.
96/61/CE in ordine alla fissazione dei valori limite, alla disciplina delle autorizzazioni e al rispetto delle
condizioni da esse stabilite, conformemente a quanto prescritto dall'art. 10.
3) Gli standard di qualità ambientale continueranno ad essere individuati dagli Stati membri, nel rispetto
degli obiettivi di qualità ambientale stabiliti dall'art. 4 della nuova direttiva, almeno fino a quando la
Commissione non provvederà a formulare proposte in ordine alla definizione di essi nei modi e nei termini
stabiliti dall'art. 16, par. 8 della nuova direttiva (602).
Difficile da stabilire a priori è la sorte dei programmi disciplinati nella direttiva n. 76/464/CEE. L'art. 7 n.
1 della direttiva quadro imponeva agli Stati membri di predisporre programmi finalizzati alla riduzione
dell'inquinamento causato dalle sostanze inserite nella lista grigia. È possibile sostenere che l'obbligo in
questione, non toccato dalla direttiva n. 96/61/CE sia stato invece, abrogato implicitamente dalla nuova
direttiva a partire dal 2009. Da quella data gli Stati membri dovranno predisporre programmi di misure
per ciascun distretto idrografico presente sul loro territorio nazionale.
I programmi indicati dalla direttiva n. 76/464/CEE hanno un oggetto che è innegabilmente più specifico di
quello dei programmi di misure prescritti dalla nuova disciplina. Essi contengono misure dirette alla
riduzione dell'inquinamento causato dalle sostanze inquinanti inserite direttamente o indirettamente
nell'elenco II in funzione stabilite del raggiungimento degli obiettivi qualità stabiliti all'interno di essi. Si
differenziano, invece, perché hanno un ambito di applicazione più vasto esteso all'intero territorio
nazionale.
I programmi di misure indicati dall'art. 11 della direttiva n. 2000/60/CE hanno invece un ambito
territoriale decisamente più ristretto in quanto è limitato al distretto idrografico (603). Il distretto
idrografico, definibile come "un'area di mare o di terra, costituita da uno o più bacini idrografici limitrofi e
dalle rispettive acque sotterranee e costiere", è l'unità principale di gestione delle risorse idriche del
bacino o dei bacini. Quest'ambito ristretto rappresenta il luogo ideale nel quale è possibile concentrare le
azioni dirette alla prevenzione e alla riduzione dell'inquinamento delle risorse idriche.
I programmi tengono conto dei risultati delle analisi e degli studi compiuti in base all'art. 5 della direttiva,
al fine di conseguire gli obiettivi ambientali stabiliti dall'art. 4 per ciascuna tipologia di acque (superficiali,
sotterranee, aree protette) (604).
I programmi contengono una serie di misure dette di base, che ne costituiscono il contenuto minimo, ed
un'altra serie di misure dette supplementari, complementari alle misure di base ed elencate in modo non
esaustivo nell'allegato VI, parte B (605).
Tra le misure di base, ricordiamo, quelle dirette ad attuare la legislazione comunitaria in materia di
acque, in particolare le direttive indicate nell'art. 10 e nella parte A dell'allegato VI. È, pertanto, possibile
che gli standard di qualità ambientale, fissati a livello comunitario o nazionale, e relativi alle sostanze
prioritarie (606) effettivamente presenti nelle acque del bacino idrografico vengano riportati direttamente
nei programmi insieme alle misure necessarie per il loro raggiungimento.
A sostegno di questa interpretazione è possibile invocare il punto g) del par. 3 dell'art. 11, che consente
agli Stati di introdurre misure quali divieti di introdurre inquinanti, ovvero obblighi di autorizzazioni che
attuino i controlli previsti dagli art. 10 e 16. Quest'ultima norma, nel sistema della direttiva quadro è
quella che disciplina la individuazione delle sostanze pericolose e la fissazione degli standard di qualità
ambientale.
I programmi dovranno essere adottati entro 9 anni dall'entrata in vigore della direttiva quadro e tutte le
misure dovranno essere attuate nei successivi 12 anni. L'operatività dei programmi di misure è ritenuta
condizione essenziale per conseguire gli obiettivi ambientali indicati nell'art. 4.
Sul punto ovviamente un ruolo altamente chiarificatore potrà essere svolto dalla giurisprudenza della
Corte di giustizia.
NOTE
(571) Pubblicata in G.U.C.E n. L. 257 del 10 ottobre 1996.
(572) Pubblicata in G.U.C.E. n. L. 327 del 22 dicembre 2000.
(573) Per costante giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità Europee l'inadempimento di uno
Stato membro è valutato alla scadenza del termine assegnato dalla Commissione per conformarsi alle
misure stabilite nel parere motivato. Nel caso in questione il parere datato 23 dicembre 1996 assegnava
un termine di due mesi per conformarsi ad esso. A quella data nessuna delle modifiche alla direttiva n.
76/464 era già intervenuta. Per tutte si veda la più recente: C.G.C.E. del 25 maggio 2000 C-384/97
Commissione/Grecia.
(574) Sulla direttiva n. 76/464 vedi: LETTERA, La disciplina comunitaria dell'ambiente idrico, in Nuovo
diritto agrario, 1987, pag. 238 ss.; CAPRIA, Direttive ambientali Cee. Stato di attuazione in Italia, Milano,
1995, pag. 56 ss.; LUGARESI, Le acque: profili dominicali, di tutela di gestione, Milano, 1995, pag. 160
ss.; GRATANI, La tutela delle acque nell'Unione europea: un confronto tra gli Stati membri, in Rivista
giuridica dell'ambiente, 2000, pag. 150 ss., ove si accenna allo stato di attuazione della direttiva in alcuni
Stati membri.
(575) LETTERA, La disciplina, cit., pag. 218.
(576) A differenza delle direttive che l'hanno preceduta e seguita, la direttiva quadro non disciplina una
sola categoria di acque (ad es. acque di balneazione, acque idonee alla vita dei pesci...), ma un aspetto,
l'inquinamento provocato da talune sostanze pericolose scaricate nell'ambiente idrico, comune a più
categorie di acque.
(577) In base all'art. 4, le acque sotterranee continueranno ad essere disciplinate dalla direttiva quadro
fino all'adozione di una specifica direttiva. Questa direttiva è stata adottata il 17 dicembre 1979, n.
80/68, ed è stata pubblicata in G.U.C.E. L. 20 del 26 gennaio 1980. L'art. 4 stabilisce per le acque
sotterranee una disciplina alquanto diversa da quella riservata alle altre tipologie di acque, anticipando, in
qualche modo le scelte della direttiva da emanare: vieta agli scarichi in acque sotterranee di contenere
sostanze inserite nell'elenco 1, mentre applica alle sostanze dell'elenco 2 la disciplina contenuta bell'art.
7, che affianca alla previsione di programmi redatti dagli Stati membri, l'obbligo per i titolari degli scarichi
di chiedere un'autorizzazione preventiva. Sono esclusi dall'applicazione dell'art. 4 gli scarichi domestici e
quelli che recapitano in falde profonde salate ed inutilizzabili.
(578) LUGARESI, Le acque, cit., pag. 161.
(579) La lista nera è stata ampliata più volte dalla Commissione, in relazione agli elenchi compilati
dall'Agenzia europea dell'ambiente, all'elenco predisposto dalle autorità canadesi, e a catalogo delle
sostanze pericolose per le acque dell'Ufficio per l'ambiente della Repubblica federale tedesca. Ciascuna
sostanza inserita nell'elenco è contraddistinta da un codice numerico. Nelle direttive accanto a questo
codice è riportato anche il codice CAS (Chemical Abstraction Service), LETTERA, La disciplina, cit., pag.
239-240.
Nella comunicazione della Commissione al Consiglio datata 22 giugno 1982, relativa alle sostanze da
inserire nell'allegato I, questa indicava 129 sostanze prioritarie. Il Consiglio ne prendeva atto con una
risoluzione del 7 febbraio 1983 relativa alla lotta contro l'inquinamento idrico. Successivamente la
Commissione individuava altre 3 sostanze, portando a 132 il numero complessivo di esse.
(580) L'art. 11 impone all'autorità competente indicata dallo Stato membro di procedere ad un inventario
degli scarichi che possono contenere le sostanze di cui all'elenco i dell'allegato I.
(581) CAPRIA, Direttive, cit., pag. 56.
(582) Per costante giurisprudenza della Corte di giustizia, l'oggetto del giudizio è limitato in modo
rigoroso dalle contestazioni mosse allo Stato membro durante il procedimento precontenzioso. Per tutte si
veda la più recente C.G.C.E. del 25 maggio 2000, causa C-387/97 Commissione/Grecia.
(583) La norma stabilisce che, ai sensi dell'elenco 2, primo comma, "l'elenco II comprende: le sostanze
appartenenti alle famiglie e ai gruppi di sostanze dell'elenco I per le quali non sono stati determinati i
valori limite di cui all'art. 6 della presente direttiva".
(584) Questo principio è confermato nella C.G.C.E. del 21 gennaio 1999, causa C- 207/97 Commissione/
Belgio. Questa afferma il seguente principio "dal sistema instaurato dalla direttiva 76/464 e dal dettato
del primo trattino dell'elenco II del suo allegato si ricava che, per quanto concerne le sostanze che
rientrano nell'ambito dell'elenco I, ma necessitano di misure di concretizzazione, quali l'adozione di
direttive specifiche da parte del Consiglio, al fine segnatamente della fissazione di loro valori limite di
emissione, finché questi valori non saranno stati determinati relativamente alle dette sostanze, non ci
sarà assolutamente bisogno di provvedimenti ulteriori di concretizzazione affinché le sostanze di cui
trattasi, che sono state individuate, siano trattate dagli Stati membri come sostanze rientranti nell'ambito
dell'elenco II" Cfr. anche C.G.C.E. del 11 novembre 1999, causa C- 184/97 Commissione/Germania.
(585) Nella C.G.C.E. del 21 gennaio 1999 causa C-207/97 Commissione/Belgio, la Corte ha precisato,
rispondendo all'obiezione mossa dal Regno del Belgio circa il carattere giuridicamente non vincolante
della risoluzione del Consiglio 7 febbraio 1983 che individua 132 sostanze prioritarie, che il vincolo non è
costituito dalla risoluzione, di per sé priva di effetti giuridici, ma dal fatto che essa individua sostanze che
con certezza fanno parte dell'elenco I, della cui obbligatorietà non è possibile dubitare.
(586) C.G.C.E. del 11 giugno 1998 C-232/95 e C-233/95 Commissione/Grecia; C.G.C.E. del 1 ottobre
1998 C-285/96 Commissione/Italia; C.G.C.E. 25 novembre 1998 C-214/96 Commissione/Spagna;
C.G.C.E. del 21 gennaio 1999 causa C-207/97 Commissione/Belgio; C.G.C.E. del 11 novembre 1999
C-184/97 Commissione/Germania; C.G.C.E. del 13 luglio 2000 C-261/98 Commissione/Portogallo;
C.G.C.E. del 25 maggio 2000 C-384/97 Commissione/Grecia; C.G.C.E. del 14 giugno 2001 C-230/00
Commissione/Belgio.
(587) È il caso dell'Italia: C.G.C.E. del 1° ottobre 1996, C-285/96.
(588) L'art. 7 della direttiva stabilisce che:
"1. Per ridurre l'inquinamento delle acque di cui all'articolo 1 provocato dalle sostanze dell'elenco II, gli
Stati membri stabiliscono programmi per la cui attuazione ricorreranno in particolare ai mezzi previsti dai
paragrafi 2 e 3.
2. Qualsiasi scarico nelle acque di cui all'articolo 1 che potrebbe contenere una delle sostanze dell'elenco
II è soggetto ad autorizzazione preventiva, rilasciata dall'autorità competente dello Stato membro
interessato, che ne fissi le norme di emissione. Tali norme vanno fissate in funzione degli obiettivi di
qualità stabiliti a norma del paragrafo 3.
3. I programmi di cui al paragrafo 1 conterranno obiettivi di qualità per le acque, stabiliti nel rispetto delle
direttive adottate dal Consiglio quando esse esistono.
4. I programmi potranno contenere particolari disposizioni per la composizione e l'uso di sostanze o
gruppi di sostanze e di prodotti; essi tengono conto dei più recenti progressi tecnici economicamente
realizzabili.
5. I programmi fisseranno le scadenze per la propria attuazione.
6. I programmi e i risultati della loro attuazione verranno comunicati alla Commissione in forma sintetica.
7. La Commissione organizza regolarmente con gli Stati membri un confronto fra i programmi per
assicurarsi che la loro realizzazione sia sufficientemente armonizzata. Quando lo ritenga necessario, la
Commissione presenta al Consiglio a tal fine proposte in materia".
(589) C.G.C.E. del 21 gennaio 1999 C-207/97 Commissione/Belgio.
(590) C.G.C.E. del 11 novembre 1999 C-184/97 Commissione/Germania.
(591) C.G.C.E. del 25 maggio 2000 C-384/97 Commissione/Grecia.
(592) C.G.C.E. 25 maggio 2000 C-384/97 Commissione/Grecia.
(593) Tali norme impongono agli Stati membri di comunicare alla Commissione i programmi. Questa
provvede successivamente ad organizzare incontri che favoriscano la progressiva armonizzazione della
discipline nazionali.
(594) Sulla direttiva n. 96/61/CE vedi: RIGANTI, La nuova direttiva sulla riduzione integrata
dell'inquinamento, in Lavoro e previdenza oggi, 1997, pag. 201-202.
(595) Sulla direttiva n. 2000/60/CE vedi: RIGANTI, Quadro per la politica comunitaria in materia di
acque, in Lavoro e previdenza oggi, 1997, pag. 2000 ss.; RIGANTI, Il quadro della politica comunitaria in
materia di acque, ivi, 1998, pag. 157 ss.; RIGANTI, Ancora sulla politica comunitaria in materia di acque,
ivi, 1998, pag. 849 ss.; BIALE, Siamo alla vigilia di una nuova politica comunitaria sulla gestione e tutela
delle risorse idriche?, ivi, 1998, pag. 1047 ss.; RIGANTI, Politica comunitaria in materia di acque, ivi,
1999, pag. 182 ss.; GRATANI, La tutela dell'acqua nell'Unione europea: un confronto tra gli Stati membri,
in Riv. giur. amb., 2000, pag. 135 ss.; GARVEY, European Water Policy, in La politica dell'acqua in
Europa, Federgasaqua, 1998, pag. 17 ss.; REES, NIXON,ANDREWS, A water framework for the EU - An
effective way to manage water, but at what cost?, ivi, pag. 95 ss.; RIGANTI, La nuova direttiva 2000/60/
CE sulla politica delle acque, in Lavoro e previdenza oggi, 2001; SHEUER, La direttiva quadro dell'Unione
Europea sulla protezione delle acque: si apre una nuova era?, in Riv. giur. amb., 2001, pag. 1101 e ss.
(596) Le direttive di applicazione sono numerose: ricordiamo quella che disciplina gli scarichi di mercurio
provenienti dall'elettrolisi dei cloruri alcalini (n. 82/176/CEE), quella che concerne gli scarichi di mercurio
provenienti da settori diversi (n. 84/156/CEE), quella che si occupano degli scarichi di cadmio (n. 83/513/
CEE), di esaclorocicloesano (n. 491/84/CEE), di tetracloruro di carbonio, DDT, pentaclorofenolo (n.
86/280/CEE), e di altri composti (n. 88/347/CEE e n. 90/415/CEE) ed, infine, le direttive che riguardano
gli scarichi di biossido di titano, non solo nell'acqua, ma anche nell'aria e nel suolo (n. 78/176/CEE, n.
82/883/CEE, n. 83/29/CEE e n. 89/428/CEE).
(597) Tale è un impianto in funzione, o, nell'ambito della legislazione vigente anteriormente alla data
della messa in applicazione della direttiva in questione, un impianto autorizzato o che abbia costituito, a
parere dell'autorità competente, di una richiesta di autorizzazione completa, a condizione che esso entri
in funzione al massimo entro un anno dalla data di messa in applicazione di essa.
(598) Questo argomento è sostenuto anche nella difesa del Governo olandese, par. 19 della sentenza.
(599) L'abrogazione definitiva della direttiva n. 76/464/CEE si verificherà soltanto nel 2013.
(600) SHEUER, La direttiva quadro, cit., pag. 1103.
(601) Allo stesso modo continuerà a trovare applicazione anche la lista nera fino alla sua definitiva
sostituzione.
(602) Questo disciplina modi e tempi nei quali la Commissione presenta le proprie proposte in ordine alla
individuazione degli standard di qualità e dei limiti di emissione.
(603) Art. 2 n. 15.
(604) Relativamente alle acque superficiali, gli Stati s'impegnano ad impedire l'ulteriore deterioramento i
tutti i corpi idrici superficiali, e a proteggere, migliorare e ripristinare lo stato degli stessi al fine di
raggiungere, nel termine di quindici anni dall'entrata in vigore della direttiva quadro, uno stato definibile
buono nel senso indicato nell'allegato V.
Relativamente alle acque sotterranee, gli Stati membri concentrano i loro sforzi per attuare le misure
necessarie ad impedire l'immissione di sostanze inquinanti e a prevenire l'ulteriore deterioramento di esse
e a proteggerle e migliorare sotto il profilo qualitativo e quantitativo per garantire, entro quindici anni,
uno stato buono nel senso precisato nell'allegato V.
Relativamente alle aree protette, il cui registro è disciplinato nell'allegato IV, gli Stati s'impegnano a
rispettare gli obiettivi fissati dai provvedimenti comunitari che istituiscono e disciplinano ciascuna area.
(605) Tra le misure supplementari ricordiamo quelle che consistono in provvedimenti legislativi o
amministrativi, in strumenti economici e fiscali, in accordi negoziati in materia ambientale, in codici di
buona prassi, in progetti di studio e di ricerca, in progetti educativi.
(606) Indicate sia nella lista nera che nella lista grigia finché saranno ancora in vigore, e successivamente
relativi a quelle individuate dal Consiglio su proposta della Commissione.
Archivio selezionato: Dottrina
Sversamenti in mare di rifiuti solidi o liquidi: luci ed ombre ai "confini" tra la
normativa sulle acque e quella sui rifiuti
Riv. giur. ambiente 2001, 02, 223
Serenella Beltrame
1. Introduzione. - 2. La disciplina pregressa per gli scarichi in mare. - 2.1. Criteri direttivi e regole
tecniche per gli scarichi in mare di rifiuti. - 3. La normativa vigente per immissioni e smaltimenti di rifiuti
in ambiente marino. - 4. Il regime transitorio.
1. Introduzione.
Le modifiche di recente introdotte in materia di tutela delle acque (29) e, in particolare, quelle relative al
regime giuridico dell'immersione in mare di materiali di diversa natura impongono alcune riflessioni sul
sistema di protezione dell'ambiente marino dall'inquinamento, pure in considerazione delle novelle
susseguitesi nel tempo frammentariamente e senza soluzione di continuità riguardanti in proposito sia il
D.Lgs. 22/1997 (c.d. decreto "Ronchi") sia la disciplina sulle acque, e che hanno determinato la
formazione di una costellazione di disposizioni inserite in ordine sparso nella legislazione, in parte
riproducenti la pregressa dizione normativa (più probabilmente "per inerzia" che per consapevole utilizzo
dei nuovi schemi normativi e lessicali), il cui coordinamento in carenza dei tanto auspicati quanto negletti
"testi unici in materia ambientale" è rimesso al non semplice compito dell'interprete.
Prima di entrare nel vivo dell'argomento appare indispensabile ripercorrere brevemente le soluzioni
elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza che, pur nel frenetico e scoordinato sovrapporsi di regole,
hanno consentito di individuare la linea di discrimine fra l'applicazione delle norme sulle acque e quelle
sui rifiuti, incidente sotto diversi profili sul sistema giuridico di tutela del mare e sulla quale si innestano
le recenti disposizioni.
La vexata quaestio afferente detto "confine" e riguardante, in particolare, le regole applicabili allo "scarico
indiretto", ovvero all'immissione di reflui (limitatamente, però, a quelli coincidenti con i rifiuti liquidi) (30)
nel corpo recettore posta in essere con mezzi e modalità diverse dalla "condotta", ricompreso nella
generale definizione di "scarico" di cui all'art. 1, comma 1, lett. a), L. 319/1976 (31) ma non escluso dal
campo operativo del D.P.R. n. 915/1982 (32), ha da sempre costituito oggetto di dibattito fra gli studiosi
del settore, originante differenziate opinioni soprattutto a causa dell'utilizzo nell'ambito delle stesse leggi
dei termini di "scarico" e di "smaltimento" con valenza apparentemente equipollente ed interscambiabile.
Com'è noto le Sezioni Unite della Cassazione avevano segnato un importante punto d'arresto che aveva
ricondotto ad unità i difformi orientamenti, enunciando parametri precisi riguardo ai rapporti intercorrenti
fra il D.P.R. 915/1982 e la legge Merli, affermando che "il D.P.R. n. 915 del 1982 disciplina tutte le singole
operazioni di smaltimento (es.: conferimento, raccolta, trasporto, ammasso, stoccaggio) dei rifiuti con
esclusione di quelle fasi, concernenti i rifiuti liquidi (o assimilabili), attinenti allo scarico e riconducibili alla
disciplina stabilita dalla legge n. 319 del 1976, con l'unica eccezione dei fanghi e liquami tossici e nocivi,
che sono, sotto ogni profilo, regolati dal D.P.R. n. 915 del 1982" (33).
Al riguardo, va sottolineato che il D.P.R. 915/1982 costituiva la legge-quadro di protezione
dell'ecosistema per la sua portata generale nel senso di voler ""evitare ogni rischio di inquinamento
dell'aria, dell'acqua, del suolo" (art. 1); perché stabilisce un divieto generale di abbandono dei rifiuti
nell'ambiente, non solo sul suolo, ma anche nelle acque e nell'aria (come si ricava dagli artt. 1 e 9);
perché impone l'obbligo giuridico di "smaltimento" per tutti i rifiuti, come sola modalità autorizzata e
controllata, a precise condizioni (anche economiche, v. artt. 13 e 20); perché solo in via di deroga
consente che alcuni tipi di rifiuti (scarichi ed emissioni) arrivino all'ambiente, alla condizione che vengano
rispettate le leggi di riferimento (legge 319/1976; legge n. 615/1966 e loro modifiche successive);
perché la stessa osservanza della deroga (ossia delle leggi 319/1976, 615/1965, ecc.) si propone come
doveroso controllo attraverso le prescrizioni in sede di autorizzazione per le forme di smaltimento e in
sede di controlli successivi" (34).
Il giudice delle leggi condividendo detto orientamento ha concluso che "la disciplina autorizzatoria degli
impianti di trattamento dei rifiuti liquidi, per conto terzi, debba ricavarsi dalle disposizioni del D.P.R. n.
915, che, in linea generale, impongono un provvedimento abilitativo espresso per tutte le fasi e per tutte
le operazioni delle attività di smaltimento antecedenti ed autonome rispetto allo "scarico" idrico
espressamente previsto, in via esclusiva, dalla legge n. 319" aggiungendo che "in questo stesso senso,
d'altronde, è interpretabile anche il recente decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, che pur abrogando
esplicitamente il D.P.R. 915 del 1982, tuttavia ne mantiene la stessa impostazione rispetto alla
regolamentazione degli scarichi idrici, dato che, all'art. 8, lett. e), ricomprende espressamente nel proprio
ambito disciplinare, distinguendoli dalle "acque di scarico", i "rifiuti allo stato liquido", usando proprio gli
stessi termini dell'art. 2, comma 2, lett. d), della direttiva 75/442/CEE, che appunto il D.P.R. n. 915
recepiva ed attuava" (35).
Il giudice di legittimità ha mantenuto fermo tale indirizzo che, ormai, si può definire costante anche dopo
l'entrata in vigore del decreto 22/1997, che riproduce (con qualche ritocco) il previgente divieto generale
di abbandono di rifiuti nell'ambiente (v. artt. 14, 50 e 51), evidenziando che "nonostante l'art. 8, lett. e),
D.Lgs. 5 febbraio 1997 n. 22, che esclude dal campo di applicazione del decreto "le acque di scarico,
esclusi i rifiuti allo stato liquido", non contenga più un espresso richiamo alla L. n. 319 del 1976, la linea
di discrimine tra le due normative risiede ancora nella nozione di "scarico"; infatti, la locuzione "acque di
scarico" è da ritenersi sinonimo di "scarichi", intesi quali sostanze liquide o comunque convogliabili nei
corpi recettori in condotta, mentre l'esclusione dei rifiuti allo stato liquido serve per ribadire la pregressa
distinzione fra le varie fasi dello smaltimento dei rifiuti; permane dunque quale criterio discretivo quello
secondo cui i due distinti regimi giuridici possono trovare applicazione, ciascuno nel proprio ambito,
anche per i medesimi tipi di reflui e possono talora regolare fasi diverse della medesima operazione, con
la conseguenza, nella specie, che l'accumulo di acque reflue provenienti da frantoi oleari in vasche
interrate, non a tenuta stagna, costituisce scarico sul suolo disciplinato dalla L. 319/76" (36).
Più in generale la valenza di legge-quadro del D.Lgs. 22/1997 nella materia dell'inquinamento si desume
agevolmente dalle disposizioni di principio dello stesso decreto (v. Capo 1 del Titolo 1, dedicato ai
"Principi generali"), di natura cogente per le Regioni (art. 1); il regime delle esclusioni di cui agli artt. 1 e
8, D.Lgs. 22/1997 diventa operativo a condizione che le categorie esonerate dalla normativa sui rifiuti
siano disciplinate da specifiche norme e questo meccanismo trova la sua logica spiegazione con la
necessità di impedire che più discipline speciali regolino la stessa materia.
Ne deriva che quando la legislazione relativa alla categoria di materiali esclusa dall' ambito operativo del
D.Lgs. 22/1997 per effetto dell'art. 8, citato, si presenta carente o lacunosa la disciplina-base sui rifiuti si
"riespande" per regolare le ipotesi non previste "da specifiche disposizioni di legge" (37).
I parametri anzi delineati sono rimasti invariati anche dopo l'emanazione del D.Lgs. 152/1999 che all'art.
2, lett. bb), ha ridefinito la nozione di scarico circoscrivendolo all'immissione dei reflui effettuata nei corpi
recettori tramite condotta, recependo i criteri individuati dalla giurisprudenza e, per molti aspetti,
risolvendo le ambiguità caratterizzanti il regime previgente.
Sul punto è stato sottolineato che la nuova legge "da un lato non contiene alcuna limitazione espressa
circa i soggetti di provenienza (tutte le "acque reflue") e circa la continuità; e dall'altro, invece, limita
l'ambito degli scarichi alle sole "immissioni dirette tramite condotta". In realtà, leggendo le varie
disposizioni, sembra che anche il nuovo testo consideri "scarichi" solo le acque reflue industriali,
domestiche o urbane; e, quanto alla continuità, si deve rilevare che sia l'art. 54, comma 1 sia l'art. 59,
comma 5, sembrano distinguere nettamente gli scarichi dalle "immissioni occasionali" (richiamate
espressamente pur se poi vengono previste le medesime sanzioni). E pertanto la vera, importante novità
rispetto alla Merli è costituita dalla esclusione degli scarichi indiretti o, comunque, non effettuati tramite
condotta, dall'ambito della nuova normativa" (38). Un altro autore ha precisato che "la nuova definizione
di scarico, di cui all'art. 2, D.Lgs. 152/1999, introduce un elemento che sembra innovativo e
caratterizzante la nuova nozione, perché evidenzia la necessità della provenienza dello scarico da una
"condotta", epperciò, da una apparecchiatura oggettiva e duratura, da cui derivi l'immissione diretta delle
acque reflue nei corpi ricettori, innanzi elencati (acque, suolo, sottosuolo, rete fognaria).
Eppertanto, l'espressione "comunque convogliabili" non si riferisce alla nozione di scarico (che resta
quella di immissione diretta tramite condotta), ma alla natura fisica delle acque reflue, semiliquide e
comunque astrattamente convogliabili in una condotta, e quindi alla nozione di acque reflue" (39).
2. La disciplina pregressa per gli scarichi in mare.
Il quadro normativo relativo agli scarichi in mare antecedente all'introduzione del D.Lgs. 22/1997
prospetta la distinzione tra gli scarichi diretti, cioè che recapitano tramite condotta nelle acque del mare,
e le immissioni di rifiuti effettuate a mezzo navi ed aeromobili.
Gli scarichi diretti possono venire effettuati previo rilascio dell'autorizzazione da parte dell'autorità
designata dalla regione territorialmente competente, in conformità alle prescrizioni ed ai limiti di
accettabilità previsti dalla legge Merli (40).
Le immissioni nel mare, sia territoriale che libero, di cui all'art. 11, comma 3, L. 319/1976, riguardano i
rifiuti provenienti da terra (c.d. dumping) come è agevole desumere dalle prescrizioni inerenti l' iter
istruttorio dell'autorizzazione alla quale sono subordinati (meglio chiarite nelle disposizioni attuative della
menzionata norma, vedi infra); il provvedimento abilitativo viene adottato dal Ministero dell'ambiente su
proposta del capo del compartimento marittimo nella cui zona di competenza si trova il porto da cui parte
la nave con il carico dei materiali da scaricare, ovvero il porto più vicino al luogo di discarica, se ad opera
di aeromobili (41).
L'autorizzazione dev'essere conforme alle disposizioni stabilite nelle convenzioni internazionali vigenti in
materia e ratificate dall'Italia (42), alle direttive del Comitato interministeriale, nonché "in armonia", cioè
deve risultare compatibile, con la disciplina generale della legge Merli.
Mentre la violazione della norma concernente gli scarichi diretti in mare segue il regime di tutela ordinario
della legge Merli stabilito per gli scarichi in acque superficiali (43), l'inosservanza delle regole di cui
all'art. 11, comma 3, L. 319/1976 (44) è sanzionata per effetto di una norma ad hoc, ovvero dall'art. 24bis L. 319/1976 per cui "si applica sempre la pena dell'arresto da due mesi a due anni se lo scarico nelle
acque del mare da parte di navi ed aeromobili contiene sostanze o materiali per i quali è imposto il
divieto assoluto di sversamento, ai sensi delle disposizioni contenute nelle convenzioni internazionali
vigenti in materia e ratificate dall'Italia, salvo che siano in quantità tali da essere resi rapidamente
innocui dai processi fisici, chimici e biologici, che si verificano naturalmente in mare.
Resta fermo, in quest'ultimo caso, l'obbligo della preventiva autorizzazione".
Rispetto al sistema normativo anzi delineato va nettamente distinto l'ambito operativo della legge a
difesa del mare (45) che risponde all'esigenza, sino ad allora ignorata, di introdurre un sistema di tutela
per le violazioni alle norme contenute nella Convenzione MARPOL (46) poste in essere dalle navi sia
all'interno che all'esterno del mare territoriale.
La Convenzione MARPOL è finalizzata alla tutela dell'ambiente marino dall'inquinamento causato da
idrocarburi e da altre sostanze nocive provenienti dalle navi, come si desume dal suo preambolo, ed il suo
ambito di applicazione, ovvero l'oggetto dalla stessa disciplinato, viene specificato nella definizione di
"rigetto" inteso come ogni scarico comunque proveniente da una nave (aeronave, piattaforma o altra
opera che si trovi in mare), qualunque ne sia la causa, e comprende ogni scarico, evacuazione,
versamento, fuga, scarico mediante pompaggio, emanazione o spurgo (47).
Rimangono esclusi da quest'ultima nozione e, quindi, dalla tutela accordata dalla Convenzione MARPOL e
dalla legge a difesa del mare, gli scarichi in mare (48) di rifiuti provenienti da terra effettuati a mezzo
nave nonché gli scarichi di sostanze inquinanti derivanti dall'esplorazione, dallo sfruttamento delle risorse
minerali del fondo marino e gli sversamenti inquinanti effettuati ai fini di ricerca scientifica mirante alla
prevenzione dell'inquinamento.
La legge a difesa del mare esplicitamente stabilisce sul punto che la sua disciplina (in particolare il titolo
IV) "non riguarda lo scarico dei rifiuti in mare effettuato a mezzo navi" che rimane assoggettato alle
regole della legge Merli (49).
Infine, va ricordato che in ordine alle ipotesi di scarichi di rifiuti in mare non contemplati dalle regole
sopra indicate (50) trova applicazione il divieto generale di cui agli artt. 9 e 24, D.P.R. 915/1982.
2.1. Criteri direttivi e regole tecniche per gli scarichi in mare di rifiuti. In attuazione dell'art. 11, comma
3, L. 319/1976, sono stati emanati nel corso degli anni diversi provvedimenti di fonte ministeriale. I
criteri generali adottati in esecuzione del disposto citato risalgono al 1978 (51) e successivamente hanno
subito piccoli ma significativi ritocchi (52). Tali regole riguardano gli "scarichi di rifiuti" intesi come "le
immissioni di rifiuti di qualsiasi origine, natura o tipo, effettuate deliberatamente" (53) in mare libero da
qualsiasi tipo di impianto fisso o mobile.
Va evidenziato che l'immissione in mare libero dei rifiuti tossici e nocivi di cui al D.P.R. 915/1982 è vietata
(54).
Lo sversamento di residui diversi dai precedenti ma contenenti determinati sostanze o materiali
inquinanti (55) è pure vietata a meno che non ricorrano determinate condizioni per cui gli stessi vengono
resi rapidamente innocui dai processi fisici, chimici e biologici che si verificano naturalmente in mare. In
quest'ultimo caso ed in quello in cui i materiali (56) contengono altre specifiche sostanze o materiali
l'immissione è subordinata al rilascio di un'autorizzazione condizionata da parte del Ministro
dell'ambiente.
In merito ai presupposti legittimanti l'ammissibilità degli scarichi devesi rilevare che quest'ultimi sono
limitati ai casi in cui:
- "non esistano alternative di smaltimento, trattamento o utilizzazione dei medesimi, tecnicamente
attuabili e tali da comportare minori rischi ambientali";
- i rifiuti non contengano quantità ecologicamente significative, in termini di concentrazione o quantità
complessive, di componenti riconosciuti come tossici per gli organismi marini, bioaccumulabili in quantità
nocive per gli organismi viventi e per l'uomo, o tali da dar luogo a sostanze aventi dette caratteristiche;
- non diano luogo a modificazioni di natura fisica, chimica o biologica dell'ecosistema marino tali da
alterarne gli equilibri ecologici, comprometterne la fruibilità per gli aspetti culturali e turistici, per il
traffico marittimo nonché l'utilizzo sotto il profilo dell'acquacoltura, dell'esercizio della pesca.
Sempre in esecuzione dell'art. 11, comma 3, L. 319/1976, è stato adottato il D.M. 24 gennaio 1996 (57),
contenente le direttive inerenti le attività istruttorie per il rilascio delle autorizzazioni relative allo scarico
nelle acque del mare o in ambienti ad esso contigui, di materiali provenienti da escavo di fondali di
ambienti marini o salmastri o di terreni litoranei emersi, nonché da ogni altra movimentazione di
sedimenti in ambiente marino.
L'attività di scavo dei fondali nelle zone costiere e portuali costituisce una operazione periodica e, talvolta,
necessaria per l'agibilità dei porti al transito e all'attracco delle navi.
È stato osservato che "l'escavazione dei fondali ed il conseguente scarico in mare dei materiali di risulta,
costituisce però un fattore di rischio a causa della possibile diffusione di contaminanti nell'ecosistema. In
aree costiere antropizzate la presenza di fonti di contaminazione (scarichi civili ed industriali, attività
portuali, ecc.) produce nelle acque l'aumento di concentrazione sia di materiale organico (disciolto o
particolato), che di inquinanti; questi, nel tempo, possono essere incorporati nei sedimenti a seguito di
processi di decantazione, precipitazione o adsorbimento. I sedimenti risentono, dunque, della
contaminazione delle acque e costituiscono una importante "fase di accumulo" di inquinanti,
rappresentando così una potenziale sorgente di contaminazione. Gli inquinanti, infatti, non sono
"permanentemente accumulati" nei sedimenti, ma possono essere "riciclati" sia da processi biologici (es.
processi di metilazione o bioaccumulo nelle reti trofiche), che chimico-fisici (es. desorbimento per
risospensione di materiale ad opera di correnti o moti ondosi). Il bioaccumulo nella fauna bentica,
soprattutto negli organismi detritivori, rappresenta un importante fattore di "mobilizzazione" dei
contaminanti. Le modificazioni chimico-fisiche dei sedimenti durante le operazioni di dragaggio e il
relativo scarico dei materiali, possono causare la solubilizzazione degli inquinanti accumulati" (58).
Il decreto ministeriale 24 gennaio 1996, che consta di due articoli e tre allegati, reca importanti
disposizioni fra le quali, oltre a quelle relative agli "scarichi autorizzabili" (vedi Allegato A, punto 3), quelle
inerenti specifici divieti di immissione in mare di materiali di dragaggio (in particolare, quei materiali
classificabili come tossici nocivi ai sensi della Delibera del Comitato interministeriale, 27 luglio 1984,
ovvero contenenti particolari sostanze pericolose in quantità, concentrazione o stato chimico-fisico tali da
poter compromettere l'equilibrio produttivo delle risorse biologiche interessanti la pesca o l'agricoltura o
la fruizione delle spiagge e la balneazione o modificare in senso negativo le qualità organolettiche ed
igienico sanitarie delle produzioni ittiche o alterare significativamente l'equilibrio ecosistemico esistente,
vedi Allegato A, punto 2) nonché di scarico in aree protette e sensibili (v. Allegato A, punto 9).
L'autorizzazione allo scarico in mare di materiali di dragaggio può essere rilasciata solo "quando ne sia
dimostrata l'impossibilità di deposizione o utilizzo a terra con minori rischi ambientali" (vedi Allegato A,
punto 3).
3. La normativa vigente per le immissioni e smaltimenti in ambiente marino.
Come accennato nell'introduzione al presente commento l'attuale normativa sui rifiuti, al pari di quella
abrogata, riveste valenza di legge-quadro nel settore della protezione dell'ambiente, finalizzata al
recupero o smaltimento dei rifiuti senza creare pericolo per la salute dell'uomo e dell'ecosistema nei suoi
diversi elementi, avente una portata generale di prevenzione dall'inquinamento mediante controlli efficaci
e, nel contempo, una funzione che potremmo definire "sussidiaria" di tutela dell' habitat rispetto alle altre
discipline circoscritte a singole componenti del bene-ambiente.
Per quanto riguarda la protezione del mare l'art. 18, comma 2, lett. p-bis), D.Lgs. 22/1997, riproducendo
sostanzialmente l'art. 11, comma 3, L. 319/1976 anche se sostituisce la parola "scarico" con quella
onnicomprensiva di "smaltimento", attribuisce allo Stato "l'autorizzazione allo smaltimento di rifiuti nelle
acque marine in conformità alle disposizioni stabilite dalle norme comunitarie e dalle convenzioni
internazionali vigenti in materia; tale autorizzazione è rilasciata dal Ministro dell'ambiente, sentito il
Ministro delle politiche agricole, su proposta dell'autorità marittima nella cui zona di competenza si trova
il porto più vicino al luogo dove deve essere effettuato lo smaltimento ovvero si trova il porto da cui parte
la nave con il carico di rifiuti da smaltire".
Come già sottolineato in dottrina, tra le operazioni di "smaltimento" è altresì specificata quella
dell'"immersione, compreso il seppellimento nel sottosuolo marino" (59).
L'inosservanza dell'obbligo di autorizzazione di cui all'art. 18, lett. p-bis citato, è ora penalmente tutelato
per effetto dell'art. 59, comma 11- bis, D.Lgs. 152/1999 (60) che delinea due condotte distinte: la prima,
più specifica, attinente alla violazione del regime sui fanghi derivanti dal trattamento delle acque reflue di
cui all'art. 48, comma 3, D.Lgs. 152/1999, che richiama nel suo corpus l'obbligo previsto dalla normativa
sui rifiuti; la seconda, più generale in quanto riferita ai "rifiuti" (e non solo ai fanghi laddove stabilisce "...
o comunque effettua l'attività di smaltimento di rifiuti nelle acque marine...") che innovando il sistema
preesistente (61) punisce l'illecito smaltimento dei rifiuti nelle acque marine posto in essere in carenza di
autorizzazione.
Rispetto a tali regole la normativa sulle acque ha introdotto un regime particolare relativo all'immersione
in mare da navi ovvero aeromobili e da strutture ubicate nelle acque del mare o in ambiti ad esso
contigui dei seguenti residui:
1) materiali di escavo di fondali marini o salmastri o di terreni litoranei emersi;
2) inerti, materiali geologici inorganici e manufatti al solo fine di utilizzo, ove ne sia dimostrata la
compatibilità ambientale e l'innocuità;
3) materiale organico e inorganico di origine marina o salmastra, prodotto durante l'attività di pesca
effettuata in mare o laguna o stagni salmastri.
Riproducendo in parte qua i contenuti delle direttive ministeriali (vedi supra, § 2.1.), l'autorizzazione
all'immersione in mare di materiali di escavo è rilasciata dall'autorità competente, in conformità alle
disposizioni delle convenzioni internazionali vigenti in materia, solo quando è dimostrata, nell'ambito
dell'istruttoria, l'impossibilità tecnica o economica del loro utilizzo ai fini di ripascimento o di recupero
ovvero lo smaltimento alternativo in conformità alle modalità da stabilirsi con decreto del Ministro
dell'ambiente (di concerto con altri dicasteri ecc.), da emanarsi entro 60 giorni dalla data di entrata in
vigore del D.Lgs. 152/1999 (e non ancora adottato).
Mentre l'immissione in mare dei residui relativi all'attività di pesca non è subordinata ad autorizzazione,
quella dei materiali inerti (v. suprasub 2) è assoggettata al previo rilascio di un provvedimento abilitativo
in conformità alle norme delle convenzioni internazionali vigenti in materia, ricorrendo determinate
condizioni (v. art. 35, comma 3, D.Lgs. 152/1999).
Un regime specifico è pure stabilito per la movimentazione dei fondali marini derivante dall'attività di
posa in mare di cavi e condotte (vedi art. 35, comma 5, D.Lgs. 152/1999).
Per la violazione degli obblighi di autorizzazione stabiliti nell'art. 35, citato (62), è prevista l'irrogazione di
una sanzione amministrativa pecuniaria "salvo che il fatto non costituisca reato", ovvero nei casi in cui la
fattispecie concreta non integri altre ipotesi di rilievo penale.
L'art. 59, comma 11, D.Lgs. 152/1999, che riproduce fedelmente la pregressa disposizione di cui all'art.
24- bis, L. 319/1976, sanziona l'inottemperanza al "divieto assoluto di sversamento ai sensi delle
disposizioni contenute nelle convenzioni internazionali vigenti in materia e ratificate dall'Italia...", da
leggersi in coordinamento alle disposizioni della legge a difesa del mare 979/1982 ed alle altre norme
previste dalle convenzioni internazionali (63) che spesso utilizzano il termine "scarico" anziché quello di
"smaltimento" per indicare l'immissione di rifiuti.
Sotto il profilo sanzionatorio, non va dimenticato che i comportamenti sopra delineati possono, altresì,
integrare e concorrere con le fattispecie contravvenzionali previste in tema di bonifica dei siti contaminati
di cui agli artt. 58, D.Lgs. 152/1999, e 17 (64) e 51- bis, D.Lgs. 22/1997 (65), che hanno per oggetto la
tutela di beni giuridici diversi rispetto alle ipotesi anzi descritte.
Infine, la disciplina relativa al divieto di abbandono di rifiuti, di cui agli artt. 14, 50 e 51, D.Lgs. 22/1997,
completa il sistema di protezione di cui si discute.
Per quanto riguarda i rifiuti prodotti dalle navi va ricordato che nelle aree portuali la gestione di tali
materiali "è organizzata dalle autorità portuali, ove istituite, o dalle autorità marittime, che provvedono
anche agli adempimenti di cui agli artt. 11 e 12" (vedi art. 19, comma 4- bis, D.Lgs. 22/1997) (66).
4. Il regime transitorio.
Per quanto riguarda il regime interinale, attinente nello specifico le norme regolamentari e tecniche, va
ricordato che ai sensi dell'art. 62, comma 8, D.Lgs. 152/1999, collocato tra le "regole transitorie e finali",
"le norme regolamentari e tecniche emanate ai sensi delle disposizioni abrogate con l'articolo 63 restano
in vigore, ove compatibili con gli allegati al presente decreto e fino all'adozione di specifiche normative in
materia".
L'art. 63 D.Lgs. 152/1999 (recante "Abrogazione di norme") ha abolito gran parte della legislazione
pregressa tra cui la legge Merli (che ha rappresentato per moltissimi anni il fulcro della disciplina sulla
tutela delle acque) travolgendo, di conseguenza, anche le disposizioni attuative emanate sulla base della
stessa che, però, grazie alla norma transitoria di cui all'art. 62, comma 8, citato, restano in vigore (ove
compatibili con gli allegati al D.Lgs. 152/1999) sino all'adozione dei provvedimenti delegati ai quali
compete dare esecuzione in tutti i suoi molteplici aspetti alla nuova normativa in esame.
Ne deriva, che per effetto di quest'ultima disposizione ed in carenza dei decreti ministeriali attuativi
dell'art. 35, D.Lgs. 152/1999, le norme regolamentari e tecniche (vedi supra § 2.1.) alle quali detto
disposto conferisce ultrattività devono tuttora considerarsi operative in riferimento alle ipotesi di
immissioni di rifiuti in mare (67) stabilite dall'art. 35.
Per quanto concerne il divieto di smaltimento in mare di rifiuti tossici nocivi (68) va rimarcato che lo
stesso devesi ritenere tuttora valido ed operativo in quanto la Delibera del Ministro per l'ecologia del 7
gennaio 1986 che ha introdotto nell'ordinamento tale "divieto", al pari del resto delle altre norme
regolamentari più sopra illustrate, è stata adottata sulla base giuridica dell'art. 11, comma 3, L. 319/1976
(come si legge espressamente nel titolo dell'atto) e, quindi, è ancora in vigore per effetto dell'art. 62,
comma 8, D.Lgs. 152/1999.
Un cenno conclusivo merita la Circolare del Ministero dell'ambiente 28 luglio 2000 (69), che in riferimento
alla classificazione giuridica del materiale inerte proveniente da scavo fornisce i seguenti chiarimenti:
" a) in primo luogo si ritiene che debbano sempre essere considerate rifiuti le terre da scavo che
presentino concentrazioni di inquinanti superiori ai limiti accettabili stabiliti dal D.M. 471/1999 per i siti
con destinazione verde privato, pubblico e residenziale. In tal caso, infatti, si pone l'evidente esigenza di
controllare l'utilizzo delle terre e rocce da scavo al fine di prevenire il trasferimento di inquinanti e
determinare l'inquinamento di altri siti con conseguente obbligo di bonifica dei siti medesimi;
b) si ritiene, invece, che non debbano essere qualificate rifiuto e, di conseguenza, non rientrino nel
campo di applicazione del D.Lgs. 22/1997 le terre da scavo che presentino concentrazioni di inquinanti
inferiori ai limiti accettabili stabiliti dal D.M. 471/1999 per siti ad uso residenziale, verde privato e
pubblico, e che siano destinate al normale ciclo di utilizzo della terra quali, a mero titolo esemplificativo,
sottofondi e rilevati stradali, rimodellamenti morfologici, usi agricoli, riempimenti ecc.;
c) si ritiene, infine, che le terre da scavo possono essere riutilizzate direttamente nel sito dove sono
prodotte a prescindere dalla loro classificazione giuridica. In tale evenienza, infatti, non si determina
alcun rischio di trasferimento di inquinanti in altri siti e quindi non sussistono le esigenze di controllo a fini
di tutela ambientale proprie del regime dei rifiuti. Ovviamente, resta salvo l'obbligo di provvedere alla
bonifica del terreno e del sito quando ne ricorrano le condizioni ed i presupposti ai sensi dell'art. 17,
D.Lgs. 22/1997 e del D.M. 471/1999".
La nozione di "rifiuto" sopra prospettata appare in palese contrasto sia con il dato letterale dell'art. 6, lett.
a), D.Lgs. 22/1997, che non richiama in alcun modo i limiti di accettabilità di cui al D.M. 471/1999, sia
con i criteri interpretativi enunciati costantemente dalla giurisprudenza comunitaria (70) e nazionale.
Senza voler eludere le ben note e complesse difficoltà pratiche connesse alla tematica in esame che
richiederebbero un'analisi che esula dai limiti propri della presente trattazione (e che comunque non
possono essere risolte con una circolare che contra legem introduce parametri normativi non previsti
esponendo incredibilmente, di conseguenza, i destinatari della stessa a gravi rischi sul piano penale e,
soprattutto, di gestione economica dell'impresa latu senso intesa), va precisato che le terre e rocce
vergini (ovvero non contaminate da pregresse attività antropiche) non sono mai state qualificate come
"rifiuti" né dalla giurisprudenza né dalla dottrina, almeno per quanto consta a chi scrive.
NOTE
(29) Vedi artt. 15, 21 e 23, D.Lgs. n. 18 agosto 2000, n. 258, recante "Disposizioni correttive e
integrative del decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152, in materia di tutela delle acque
dall'inquinamento, a norma dell'art. 1, comma 4, della legge 24 aprile 1998, n. 128", in S.o. n. 153/L a
G.U., 18 settembre 2000, n. 218.
(30) Come chiarito dalla Suprema Corte "non sembra esatto affermare (come afferma un obiter dictum,
ripreso da Corte Cost. 173/1998, Cassazione, Sez. Unite, 27 settembre 1995, F.) che la materia dei rifiuti
comprende un'area più vasta in cui "come cerchio concentrico minore si inserisce" la materia attinente
alle acque di scarico, giacché - com'è noto - tra i rifiuti non possono comprendersi alcune acque di scarico
(per esempio le acque meteoriche e quelle di raffreddamento), e inversamente le acque di scarico
comprendono sostanze che non sono qualificabili come rifiuti liquidi (appunto le acque meteoriche e di
raffreddamento). Più esattamente, le due nozioni circoscrivono due aree che non sono concentriche, ma
solo parzialmente sovrapponibili o coincidenti. La porzione coincidente delle due aree è quella dei rifiuti
liquidi.
È proprio l'esistenza di questa porzione comune tra le due aree che impone un' actio finium regundorum
tra la normativa sulla tutela delle acque e quella sui rifiuti" (cfr. Cassazione, Sez. III, 24 giugno 1999 (3
agosto 1999), imp. B., in Foro it. 1999, 12, II, 691).
(31) Ai sensi dell' art. 1, comma 1, lett. a), L. 319/1976, la legge Merli si applica agli "scarichi di qualsiasi
tipo, pubblici e privati, diretti ed indiretti, in tutte le acque superficiali e sotterranee, interne e marine, sia
pubbliche che private, nonché in fognature, sul suolo e nel sottosuolo".
(32) Vedi la definizione di rifiuto di cui all'art. 2, comma 1, D.P.R. 915/1982 che fa riferimento a "qualsiasi
sostanza od oggetto", ivi comprese le sostanze a base acquosa, liquide o semiliquide; l'art. 2, comma 6,
D.P.R. cit. che "fa salva" la legge Merli per quanto concerne la disciplina dello smaltimento nelle acque,
sul suolo e nel sottosuolo dei liquami e dei fanghi... purché non tossici e nocivi, in cui il termine
"smaltimento" viene sostituito a quello di scarico; l'art. 2, comma 7, D.P.R. cit. che esclude dall'ambito
applicativo del decreto gli scarichi disciplinati dalla L. 319/1976, senza peraltro precisare il significato del
termine "scarico". D'altro canto, la L. 319/1976, all'art. 2 lett. e) n. 2) e 3), estende il proprio ambito
operativo alla regolamentazione dello "smaltimento dei liquami sul suolo" nonché dello "smaltimento dei
fanghi residuati dai cicli di lavorazione e dai processi di depurazione", in entrambi i casi senza meglio
chiarire la portata del termine "smaltimento".
(33) Cfr. Cassazione SS.UU., 27 ottobre 1995, F., in Foro it. 1996, II, 150; in dottrina vedi F. GIAMPIETRO,
Rapporti tra la legge Merli sugli scarichi e il D.P.R. n. 915/1982 sullo smaltimento dei rifiuti: le Sezioni
Unite si pronunciano dopo 13 anni di contrasti giurisprudenziali, in Cass. pen., 1996, 6, p. 1759.
(34) Cfr. Cassazione, Sez. III, n. 2208, 22 dicembre 1992, imp.ti F. e altri, in questa Rivista, 1993, p.
289, in materia di incenerimento di rifiuti; rispetto al tema specifico dell'inquinamento marino, ad
analoghe considerazioni circa la valenza di legge quadro del D.P.R. 915/1982 giunge Pret. Sestri Ponente,
n. 40, 22 febbraio 1986, imp. C., in questa Rivista, 1986, p. 367, con nota di F. PERLI, Scarico di rifiuti
tossici in mare, che, dopo un breve excursus delle disposizioni di cui al D.P.R. 915/1982 con particolare
riferimento al rapporto con quelle di cui alla L. 319/1976, conclude che il legislatore, con gli artt. 9 e 24,
ha "inteso dettare una norma di chiusura del sistema, vietando quelle condotte che, pur non integrando
gli estremi di una vera e propria attività di smaltimento (perché compiute al di fuori di un'attività di
impresa o comunque organizzata e sistematica), sono tuttavia pericolose per l'ambiente; si tratta di un
pericolo di minore intensità proprio perché si sostanzia in atti isolati, tanto che l'art. 24 commina per
questa condotta semplici sanzioni amministrative per lo "scarico" di rifiuti urbani o speciali, ed una
modesta sanzione penale per lo "scarico" di rifiuti tossici e nocivi. In pratica la stessa distinzione si può
trovare, nel testo del D.P.R., tra lo scarico incontrollato di un quantitativo di rifiuti urbani, che viene
sanzionato in via amministrativa dagli artt. 9, comma 1, e 24, e l'esercizio sistematico di una vera e
propria discarica... per la quale scattano le severe sanzioni penali previste dall'art. 25, comma 2".
(35) Cfr. Corte Cost., n. 173 del 20 maggio 1998, DI TARANTO, in G.U., 1a s. spec., 1997, n. 17.
(36) Cfr. Cassazione, Sez. III, 23 maggio 1997, ric. B., in Foro it. 1997, II, 762, con nota di V. PAONE e
commento di G. AMENDOLA, Legge Merli e D.Lgs. n. 22 sui rifiuti: la prima pronuncia della Cassazione;
conf. Cassazione, Sez. III, n. 5605 del 11 giugno 1997, B. e altro, in CED RV. 208439, per cui "l'attività di
estrazione di ghiaia rientra nella disciplina del D.P.R. 10 settembre 1982, n. 915 e, dopo la sua
abrogazione, del D.L.G. 5 febbraio 1997, n. 22, per tutte le singole operazioni di smaltimento dei rifiuti,
siano essi solidi o liquidi, con esclusione delle operazioni - concernenti i liquidi - attinenti allo scarico e
riconducibili alla disciplina della legge 10 maggio 1976, n. 319, con l'unica eccezione dei fanghi e liquami
tossici e nocivi, già regolati dal citato D.P.R. n. 915 del 1982 (nella specie, relativa a rigetto di ricorso
avverso sentenza di condanna, la S.C. ha osservato che la decisione impugnata aveva correttamente
considerato scarico la fuoriuscita dalle vasche di decantazione dell'insediamento produttivo di acque
contenenti in sospensione materiali inerti che si riversavano in quelle del fiume con eccedenza dei
parametri fissati nella tabella A della legge Merli, quanto ai solidi sedimentabili ed ai materiali in
sospensione); vedi P. GIAMPIETRO, Quanta ressa (rissa?) ai confini... fra le "acque di scarico" e i "rifiuti", in
Ambiente-Consulenza, 1998, 9, p. 717, ed ivi ulteriori richiami ai quali si rinvia.
(37) Cfr. in questo senso, Cassazione, Sez. III, n. 494, 8 febbraio 1999, P.M. in proc. Lago, in questa
Rivista, 1999, p. 659.
(38) Vedi G. AMENDOLA, Le nuove disposizioni contro l'inquinamento idrico, Milano, 1999, p. 26. La
giurisprudenza è pressoché univoca in tal senso cfr. Cassazione, Sez. III, n. 2358, 24 giugno 1999 (3
agosto 1999), imp. B., in CED RV., 214268, per cui "in tema di tutela delle acque dall'inquinamento, dopo
l'entrata in vigore del D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152, intendendosi per scarico il riversamento diretto nei
corpi recettori, quando il collegamento tra fonte di riversamento e corpo ricettore è interrotto viene meno
lo scarico precedentemente qualificato come indiretto, per fare posto alla fase di smaltimento del rifiuto
liquido. Conseguentemente in tale ipotesi si rende applicabile la disciplina di cui al D.Lgs. n. 22 del 1997 e
non quella della legge n. 319 del 1976, come sostituita dal D.Lgs. n. 152 del 1999 (vedi Corte Cost., sent.
8 maggio 1998, n. 173)", in Foro it., 1999, 12, II, 691, con nota di G. AMENDOLA, Acque di scarico e rifiuti
liquidi: i nuovi confini; ed in Ambiente - Consulenza, 2000, 2, p. 183, con nota di L. RAMACCI, L'annosa
questione dei rapporti tra la disciplina dei rifiuti e quella delle acque; in Riv. pen., 1999, p. 725; tale
pronuncia evidenzia altresì che "in tema di smaltimento di rifiuti, anche dopo l'entrata in vigore del D.Lgs.
5 febbraio 1997, n. 22, per effetto della norma transitoria di cui all'art. 57, comma 1 - che equipara i
rifiuti tossici e nocivi della normativa precedente (D.P.R. 915 del 1982) ai rifiuti pericolosi della normativa
vigente - restano esclusi dalla disciplina sulla tutela delle acque i rifiuti pericolosi", ma in proposito vedi la
motivata critica di G. Amendola; vedi in tema di attività di trasporto e smaltimento dei fanghi,
Cassazione, Sez. III, 30 settembre 1998, ud. 1° settembre 1998, ric.ti B. e altri, in AmbienteConsulenza, 1999, 2, p. 179; cfr. più di recente Cassazione, Sez. III, sent. n. 01383, 29 marzo 2000 (4
maggio 2000), P.M. in proc. Sainato, in CED RV., 216061, che afferma "la nozione di scarico, introdotta
dal D.Lgs. 152/1999 costituisce il parametro di riferimento per stabilire, per le acque di scarico e per i
rifiuti liquidi, l'ambito di operatività delle normative in tema di tutela delle acque e dei rifiuti, sicché solo
lo scarico di acque reflue liquide, semiliquide e comunque convogliabili, diretto in corpi idrici ricettori,
specificamente indicati, rientra in tale normativa; per contro, i rifiuti allo stato liquido, costituiti da acque
reflue di cui il detentore si disfaccia senza versamento diretto nei corpi ricettori, avviandole cioè allo
smaltimento, trattamento o depurazione a mezzo di trasporto su strada o comunque non canalizzato,
rientrano nella disciplina dei rifiuti e il loro smaltimento deve essere autorizzato".
(39) Vedi F. GIAMPIETRO, Scarico, immissione e rifiuto liquido nel D.Lgs. n. 152/1999: disciplina complessa
o eterogenea?, in Ambiente-Consulenza, 1999, 8, p. 751.
(40) Vedi art. 11, comma 1, L. n. 319 del 1976, così come modificato dall'art. 14, L. 24 dicembre 1979,
n. 650.
(41) Vedi art. 11, commi 3 e 4, L. n. 319 del 1976. L'attribuzione al Ministro dell'ambiente della
competenza in materia di rilascio dell'autorizzazione è stata introdotta dall'art. 4 della L. 8 luglio 1986, n.
349, mentre prima era di competenza del Ministro della marina mercantile. Il Ministro dell'ambiente
provvede pure ad effettuare le prescritte notifiche ai competenti organismi internazionali.
(42) Vedi in particolare la L. 25 gennaio 1979, n. 30, con la quale si è resa esecutiva in Italia la
convenzione adottata a Barcellona il 16 febbraio 1976, sulla salvaguardia del mare Mediterraneo; la L. 2
maggio 1983, n. 305, di "Ratifica ed esecuzione della convenzione sulla prevenzione dell'inquinamento
marino causato dallo scarico di rifiuti ed altre materie, con allegati, aperta alla firma a Città del Messico,
Londra, Mosca e Washington il 29 dicembre 1972, come modificata dagli emendamenti allegati alle
risoluzioni adottate a Londra il 12 ottobre 1978"; la L. 2 dicembre 1994, n. 689, di "Ratifica ed
esecuzione della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, con allegati e atto finale, fatta a
Montego Bay il 10 dicembre 1982, nonché dell'accordo di applicazione della parte XI della convenzione
stessa, con allegati, fatto a New York il 29 luglio 1994". Per un approfondimento si rinvia sul punto allo
studio di F. MARONGIU BUONAIUTI, Il Merchant Shipping and Maritime Security Act 1997 e l'adesione del
Regno Unito alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, in questa Rivista, 2000, p. 827; in
riferimento alla Convenzione di Montego Bay vedi M. FABRIZIO, Nuovi poteri agli Stati per la tutela del
mare, in Ambiente - Consulenza, 1995, 9, p. 11; più in generale sul tema, vedi F. Giampietro, Il ruolo
della Comunità europea nella protezione del mediterraneo e la normativa italiana a difesa del mare. Dalla
legge Merli al programma triennale 1989-1991, in questa Rivista, 1991, p. 1, e E. VALENTE, La tutela del
mare contro l'inquinamento da scarichi operati da navi, in Giur. merito, 1986, IV, p. 225.
(43) Sul punto, la Suprema Corte ha precisato che l'autorizzazione di cui all'art. 11 della legge 10 maggio
1976, n. 319, è richiesta per gli scarichi che recapitano "direttamente" in mare, e non per quelli che
recapitano direttamente in corsi d'acqua superficiali o in pubbliche fognature e solo "indirettamente" in
mare. A riprova di questa interpretazione sta l'argomento logico incontestabile, secondo cui la
misurazione della qualità degli scarichi, nei casi in cui recapitino prima in corsi d'acqua o in fognature e
poi in mare, secondo la regola dell'art. 9, comma 3, legge 319/1976, va fatta nel primo recapito e non
nel secondo. L'autorizzazione allo scarico è prevista e rilasciata proprio in relazione a un determinato
recapito e al fine di controllarne la qualità prima che lo scarico si immetta nel recapito stesso. Per questa
ragione, una volta autorizzato lo scarico in un corpo recettore non ha più senso pretendere una seconda o
diversa autorizzazione nel caso in cui lo scarico prosegua e vada a terminare in altro corpo recettore.
(Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che il responsabile di un depuratore comunale, avendo ottenuto
l'autorizzazione a scaricare in un corso d'acqua superficiale, non era obbligato a chiedere anche
l'autorizzazione a scaricare nel mare dove il corso d'acqua andava a sfociare), vedi Cassazione, Sez. III,
n. 06758, 23 febbraio 1994 (13 giugno 1994), imp. P., CED RV., 199717; inoltre, "in tema di tutela delle
acque dall'inquinamento, qualora lo scarico sia diretto nelle acque del mare, esso è sottoposto al regime
autorizzatorio di cui all'art. 11 legge 10 maggio 1976, n. 319, che non consente di distinguere tra scarichi
nuovi o preesistenti alla indicata legge ovvero tra scarichi provenienti da insediamenti produttivi o da
insediamenti civili, poiché, in ogni caso lo scarico in mare richiede l'autorizzazione da parte dell'autorità
competente" (nella specie, relativa a rigetto di ricorso, la S.C., in risposta a motivi nuovi, ha osservato
che "né può dirsi che il fatto addebitato al ... costituisce illecito amministrativo, a seguito di quanto
disposto dall'art. 6 comma secondo legge n. 172 del 1995, poiché tale norma riguarda gli scarichi civili
che richiedono l'autorizzazione di cui all'art. 15 legge 319/76 e non già gli scarichi nelle acque del mare
per i quali vige la particolare disciplina prevista dall'art. 11 della stessa legge 319/76)", cfr. Cassazione,
Sez. III, n. 06243, 10 maggio 1996 (22 giugno 1996), imp. C., in CED RV., 205291.
(44) L'art. 24- bis L. 319/1976 è stato introdotto dall'art. 3 della L. 2 maggio 1983, n. 305, vedi nota
precedente.
(45) La L. 31 dicembre 1982, n. 979, recante "Disposizioni per la difesa del mare", in G.U., S.o. n. 16 del
18 gennaio 1983, è entrata in vigore il 2 febbraio 1983.
(46) La Convenzione internazionale per la prevenzione dell'inquinamento causato da navi (più nota come
Convenzione MARPOL), adottata a Londra il 2 novembre 1973, è entrata in vigore in Italia il 2 ottobre
1983. Detta Convenzione, che sostituisce una precedente per la prevenzione dell'inquinamento delle
acque marine da idrocarburi, adottata a Londra il 12 maggio 1954, è composta da una Convenzione
principale accompagnata da tre protocolli, da cinque allegati, da nove appendici e da sei risoluzioni
adottate nella conferenza di Londra del 1973, alcune delle quali di particolare rilievo in quanto dirette
all'Organizzazione marittima internazionale (IMO) nonché agli Stati aderenti. Con la legge n. 662, del 29
settembre 1980 ( G.U., S.o. n. 292 del 23 ottobre 1980), è stata ratificata e resa esecutiva nel nostro
ordinamento la Convenzione MARPOL nonché il protocollo sull'intervento in alto mare in caso di
inquinamento causato da sostanze diverse dagli idrocarburi, con annessi, adottati a Londra il 2 novembre
1973 e, quindi, con la legge n. 438, del 4 giugno 1982 ( G.U., S.o. n. 193 del 15 luglio 1982), è stata
perfezionata la procedura di adesione ai protocolli relativi alle convenzioni internazionali rispettivamente
per la prevenzione dell'inquinamento causato da navi e per la salvaguardia della vita umana in mare, con
allegati, adottati a Londra il 17 febbraio 1978, e loro esecuzione. Le disposizioni di cui agli artt. 15 della
Convenzione e VI del protocollo 1973, differiscono la data di entrata in vigore di tali atti di dodici mesi
dalla data in cui non meno di 15 Stati, le cui flotte mercantili rappresentino in totale non meno del 50 per
cento del tonnellaggio lordo di tutta la flotta mercantile mondiale, siano divenute parti della Convenzione.
(47) Nella definizione di scarico è pure ricompreso "qualunque affondamento in mare di navi, aeronavi,
piattaforme o altre opere che si trovano in mare" (vedi art. 3 lett. a), n. 305/1983.
(48) Per quanto riguarda i rapporti fra la Convenzione MARPOL e la L. 979/1982 vedi Cassazione, SS.
UU., 24 giugno 1998 (24 luglio 1998), imp.ti M. e P., in questa Rivista, 1999, con nota di A. MERIALDI,
Legge 979/1982 e Convenzione MARPOL: la Cassazione si pronuncia a Sezione Unite, e ivi ulteriori
richiami ai quali si rinvia.
(49) L'art. 15, della L. 31 dicembre 1982, n. 979, "Il presente titolo ha per oggetto le immissioni in mare
di sostanze nocive all'ambiente marino provenienti dalle navi: esso non riguarda lo scarico dei rifiuti in
mare effettuato a mezzo navi disciplinato dall'art. 14 della L. 24 dicembre 1979, n. 650", che ha
sostituito l'art. 11 della L. 319/1976.
(50) Alle quali vanno ad aggiungersi anche quelle previste dal Codice della navigazione, vedi artt. 71 e
77.
(51) Vedi Delibera del Comitato dei Ministri 26 luglio 1978, G.U., 9 agosto 1978, n. 221.
(52) Vedi Delibera del Comitato interministeriale per la tutela delle acque dall'inquinamento del 27 agosto
1984, in G.U., 1° ottobre 1984, n. 221; Delibera del Ministro per l'ecologia del 7 gennaio 1986, in G.U.,
20 gennaio 1986.
(53) Vedi punto 3, della delibera 26 luglio 1978.
(54) Vedi Delibera del Ministro per l'ecologia del 7 gennaio 1986, cit. In proposito, il giudice di legittimità
ha affermato che "dal coordinamento della legge 10 maggio 1976, n. 319 e del D.P.R. 10 settembre
1982, n. 915, si desume che il divieto dello scarico in mare a mezzo naviglio di rifiuti tossici e nocivi,
previsto dall'art. 2 del citato decreto, si pone quale espressa eccezione alla regola generale di cui all'art.
11 legge n. 319; ciò non è contraddetto dall'introduzione di specifica sanzione penale, nella legge del
1976, per lo scarico nelle acque del mare, da parte di navi ed aeromobili, di sostanze o materiali vietati in
modo assoluto dalle convenzioni internazionali (art. 3 della legge 2 maggio 1982 n. 305, di ratifica ed
esecuzione della Convenzione di Londra, che ha aggiunto l'art. 24- bis alla legge n. 319, in adeguamento
della legislazione interna all'art. IV, n. 1 lett. a) della Convenzione)", cfr. Cassazione, Sez. III, n. 042643,
13 febbraio 1991 (15 aprile 1991), imp.ti C. ed altri, CED RV., 187527.
(55) Trattasi delle sostanze o materiali elencati nei punti da 1 a 8 dell'allegato 1/A alla Delibera del
Comitato dei Ministri 26 luglio 1978.
(56) Trattasi delle sostanze o materiali elencati nell'allegato 1/A alla Delibera del Comitato dei Ministri 26
luglio 1978 e che non sono ricompresi fra i "tossici e nocivi" del D.P.R. 915/1982.
(57) Vedi da ultimo il D.M. 24 gennaio 1996, relativo alle "Direttive inerenti le attività istruttorie per il
rilascio delle autorizzazioni di cui all'art. 11 della L. 10 maggio 1976, n. 319, e successive modifiche ed
integrazioni, relative allo scarico nelle acque del mare o in ambienti ad esso contigui, di materiali
provenienti da escavo di fondali di ambienti marini o salmastri o di terreni litoranei emersi, nonché da
ogni altra movimentazione di sedimenti in ambiente marino", in G.U. 7 gennaio 1996, n. 31. L'art. 2 del
D.M. 24 gennaio 1996 abroga la delibera del Comitato interministeriale per la tutela delle acque
dall'inquinamento del 26 novembre 1980.
(58) Vedi N. CARDELLICCHIO, Il dragaggio dei sedimenti in aree portuali: problematiche di impatto
ambientale nell'area di Taranto, caso di specie, dal volume Risanamento di terreni e di sedimenti
contaminati, Milano, 1999, pp. 57 ss.
(59) Vedi l'operazione di cui al punto D7 dell'Allegato B al D.Lgs. 22/1997.
(60) Il comma 11- bis, dell'art. 59, D.Lgs. 152/1999, è stato introdotto dall'art. 23 lett. g) D.Lgs.
258/2000 e stabilisce: "La sanzione di cui al comma 11 si applica anche a chiunque effettua, in violazione
dell'art. 48, comma 3, lo smaltimento dei fanghi nelle acque marine mediante immersione da nave,
scarico attraverso condotte ovvero altri mezzi o comunque effettua l'attività di smaltimento di rifiuti nelle
acque marine senza essere munito dell'autorizzazione di cui all'art. 18, comma 2, lett. p-bis) del D.Lgs. 5
febbraio 1997, n. 22".
(61) Vedi sul punto G. AMENDOLA, Le nuove disposizioni contro l'inquinamento idrico, Milano, 1999, p. 63,
in nota (83).
(62) Vedi l'art. 54, comma 6, D.Lgs. 152/1999.
(63) Vedi in proposito, M. FABRIZIO, Inquinamento marino da idrocarburi: ratificata la Convenzione di
Londra, in Ambiente-Consulenza, 1999, 6, p. 495.
(64) Vedi amplius, G. AMENDOLA, Le nuove disposizioni contro l'inquinamento idrico, cit., pp. 57 ss.
(65) Vedi per un raffronto fra le due discipline L. PRATI, Il danno ambientale nell'art. 58 del nuovo decreto
sulle acque, in Ambiente - Consulenza, 1999, 11, p. 1044; relativamente all'applicazione della fattispecie
di cui all'art. 635 c.p., vedi R. FUZIO, Gli scarichi in mare territoriale: tra la legge "Merli", la legge speciale
n. 963 del 1965 e il reato di danneggiamento, in Giur. merito, 1983, II, p. 161.
(66) Per un'ipotesi particolare di scarico diretto in mare relativo all'attività di prospezione, ricerca e
coltivazione di giacimenti di idrocaruburi liquidi e gassosi, effettuata mediante perforazione in mare vedi
art. 30, commi 4 e 5, D.Lgs. 152/1999.
(67) Vedi ad esempio il punto 3, della delibera 26 luglio 1978, ove per "scarichi di rifiuti" s'intendono "le
immissioni di rifiuti di qualsiasi origine, natura o tipo, effettuate deliberatamente" in mare libero da
qualsiasi tipo di impianto fisso o mobile. Analoghe considerazioni possono prospettarsi per il D.M. 24
gennaio 1996, relativo alle "Direttive inerenti le attività istruttorie per il rilascio delle autorizzazioni di cui
all'art. 11 della L. 10 maggio 1976, n. 319, e successive modifiche ed integrazioni, relative allo scarico
nelle acque del mare o in ambienti ad esso contigui, di materiali provenienti da escavo di fondali di
ambienti marini o salmastri o di terreni litoranei emersi, nonché da ogni altra movimentazione di
sedimenti in ambiente marino" che concerne lo smaltimento dei materiali di dragaggio.
(68) Vedi Delibera del Ministro per l'ecologia del 7 gennaio 1986, supra § 2.1.
(69) Vedi Circolare n. UL/2000/10103, avente ad oggetto: "Applicabilità del D.Lgs. 22/1997 alle terre e
rocce da scavo".
(70) Vedi da ultimo, Corte di Giustizia CE, 15 giugno 2000, ARCO Chemie Nederland Ltd e altri e,
relativamente alla "non tassatività" della lista dei rifiuti pericolosi, Corte di Giustizia CE, 22 giugno 2000,
Fornasar e altri, in questa Rivista, 2000, 5, pp. 691 ss. con nota di A. GRATANI, La nozione comunitaria dei
"rifiuti" e dei "rifiuti pericolosi" di fronte ai giudici nazionali e comunitari.
Archivio selezionato: Dottrina
L'evoluzione del sistema di Ginevra: il nuovo Protocollo riguardante l'acidificazione,
l'eutrofizzazione e l'ozono
Riv. giur. ambiente 2001, 01, 161
Davide De Pietri
1. La Convenzione di Ginevra sull'inquinamento atmosferico transfrontaliero a lunga distanza. - 2. Gli
obblighi di contenuto programmatico. - 3. Gli obblighi specifici previsti dai Protocolli alla Convenzione. 4. Il recente Protocollo di Goteborg. - 5. Conclusioni.
1. La Convenzione di Ginevra sull'inquinamento atmosferico transfrontaliero a lunga distanza.
Negli anni Settanta erano già drammaticamente evidenti i danni che le cosiddette "piogge acide" stavano
causando ai boschi e ai laghi, soprattutto nell'Europa centrale e settentrionale. Perciò, era necessaria
un'azione internazionale che tenesse conto della gravità ed estensione geografica del problema. Il foro
che è stato utilizzato è quello costituito dalla Commissione economica per l'Europa (ECE) del Consiglio
economico e sociale delle Nazioni Unite, poiché garantiva in virtú del suo carattere prevalentemente
tecnico un dialogo sufficente tra i blocchi orientale ed occidentale (254); i negoziati che ebbero luogo in
questa istituzione internazionale portarono all'adozione il 13 novembre del 1979 a Ginevra della
Convenzione sull'inquinamento atmosferico transfrontaliero a lunga distanza che è entrata in vigore il 16
marzo 1983 (255).
Come è stato precisato (256), oltre al suo significato politico, questo strumento convenzionale aveva la
particolarità di essere la prima convenzione multilaterale dedicata interamente all'inquinamento
atmosferico.
Alla Convenzione, che pone obblighi di contenuto prevalentemente programmatico (257), sono seguiti
diversi protocolli più specifici. Il primo, del 1984, risolve il problema del finanziamento a lungo termine
del Programma di cooperazione per il monitoraggio e la valutazione del trasporto a lunga distanza delle
sostanze che inquinano l'atmosfera in Europa ( Cooperative Programme for the monitoring and evaluation
of long-range transmission of air pollutants in Europe: EMEP) (258). Il secondo, del 1985, si riferisce alla
riduzione di almeno il 30% delle emissioni di zolfo e dei loro flussi trasfrontalieri (259). Il terzo, del 1988,
concerne il controllo delle emissioni di ossidi di azoto o dei loro flussi trasfrontalieri (260). Il quarto, del
1991, riguarda il controllo delle emissioni dei composti organici volatili o dei loro flussi trasfontalieri
(261). Il quinto, del 1994, tratta di ulteriori riduzioni delle emissioni di zolfo (262). Nel 1998, sono stati
adottati due protocolli sui metalli pesanti e sulle sostanze organiche inquinanti di carattere persistente
(263). Finalmente, nel 1999, ha visto la luce un nuovo protocollo sull'acidificazione, l'eutrofizzazione e
l'ozono a livello del suolo (264).
2. Gli obblighi di contenuto programmatico.
Durante i negoziati che portarono all'adozione della Convenzione, i paesi scandinavi avevano cercato
invano che nello stesso vi fossero specificati tanto riduzioni percentuali delle emissioni di carattere
obbligatorio (soprattutto riguardo al diossido di zolfo) quanto un calendario per la loro attuazione, o
almeno che fosse indicata, anche se indirettamente, la necessità di non aumentare le emissioni e poi di
ridurle in un secondo momento; in questo ultimo caso si parlava in gergo di clausole standstill e rollback;
invece, soprattutto per la dura opposizione della Germania e della Gran Bretagna, ciò non fu possibile
(265). Infatti, l'articolo 2 della Convenzione si limita a indicare che le parti:
"are determined to protect man and its environment against air pollution and shall endeavour to limit
and, as far as possible, gradually reduce and prevent air pollution including long-range transboundary air
pollution" (i corsivi sono miei).
Gli articoli da 3 a 5 si limitano a disporre che le parti dovranno elaborare politiche e strategie nazionali
come strumenti per combattere le emissioni di sostanze inquinanti, dovranno trasmettersi
reciprocamente le informazioni relative a tali politiche e riguardo alle altre attività scientifiche e misure
tecniche la cui finalità sia quella di combattere le emissioni di sostanze inquinanti, e dovranno consultarsi
tra loro riguardo agli effetti dannosi dell'inquinamento atmosferico transfrontaliero. Questi principi
fondamentali vengono completati dagli articoli da 6 a 8 che prevedono che ogni parte dovrà elaborare le
migliori politiche e strategie che comprendano sistemi di gestione della qualità dell'aria e misure di
controllo delle emissioni, dovranno cooperare nella ricerca e sviluppo di tecnologie per la riduzione delle
emissioni e dovranno trasmettersi i dati relativi alle emissioni.
Per tali ragioni, non soltanto si è sottolineato che la Convenzione costituisce un esempio del passaggio,
nella regolazione dei problemi ambientali, da un contesto meramente transfrontaliero ad una prospettiva
globale, ma anche che essa deve essere considerata come un trattato quadro o cornice che si limita a
stabilire obblighi generali di cooperazione tra gli Stati parti (266). Altri autori hanno invece preferito
parlare di un regime giuridico; anche per essi, comunque, il modello di partenza rimane sotto vari aspetti
quello della Convenzione di Barcellona del 1976 (267).
Ad ogni modo, ciò che è veramente importante a mio avviso è il fatto che sulla corner stone costituita
dalla Convenzione di Ginevra si è costruito un complesso edificio che non soltanto può essere segnalato
come uno dei sistemi normativi più complessi tra quelli riguardanti la protezione dell'ambiente a livello
internazionale, ma anche come un processo aperto ed evolutivo che più di qualsiasi altro è illustrativo
dell'uso di diverse tecniche giuridiche per il raggiungimento del medesimo scopo. A differenza di quanto
poteva dirsi della Convenzione considerata singolarmente, se vi è una caratteristica propria al sistema nel
suo insieme, è quella di prevedere per gli Stati che ne fanno parte obblighi straordinariamente precisi,
anche se, è opportuno ricordarlo, sempre con grande flessibilità.
3. Gli obblighi specifici previsti dai Protocolli alla Convenzione.
Il 21 marzo 1984 ad Ottawa fu creato il cosiddetto Club del 30% i cui soci iniziali erano il Canada e 9
paesi europei (Austria, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Norvegia, i Paesi Bassi, Svezia e
Svizzera) (268). Tali Stati si obbligavano volontariamente a ridurre di almeno il 30 % per il 1993 le loro
emissioni di zolfo del 1980; questo obiettivo fu adottato formalmente l'anno successivo con la firma del
protocollo di Helsinki e divenne obbligatorio due anni più tardi con la sua entrata in vigore. Anche se i
soci del club aumentarono fino a giungere a essere 21 vi furono sempre importanti defezioni come quelle
della Gran Bretagna, della Polonia, della Spagna e degli Stati Uniti. Benché sia stato rimarcato il carattere
arbitrario di una riduzione convenzionale del 30% delle emissioni, non è meno certo che questo obiettivo
è servito al suo scopo; infatti, considerati nel suo insieme gli Stati facenti parte del protocollo hanno
ridotto di più del 50% le loro emissioni di zolfo nel periodo indicato e pure considerati individualmente
hanno adempiuto gli obblighi assunti.
Anche il protocollo relativo agli ossidi di azoto prevede un obiettivo di riduzione delle emissioni, quello di
ritornare nel 1995 ai livelli del 1987, ma introduce contemporaneamente una nuova forma di controllo
delle stesse che utilizza un approccio di tipo tecnologico, cioè, per mezzo del ricorso alle migliori
tecnologie disponibili per ridurre l'inquinamento; un allegato tecnico non obbligatorio precisa quali sono le
tecnologie applicabili. Le parti devono adottare per il 1993 standard nazionali per le emissioni originate
dalle grandi fonti fisse nuove, per le emissioni originate da fonti mobili riguardo alle maggiori categorie di
fonti (quelle che contribuiscono ad almeno il 10% delle emissioni annuali) ed adottare, altresí, misure per
il controllo dell'inquinamento originato dalle grandi fonti fisse già esistenti. L'importanza del controllo
delle emissioni di ossidi di azoto provenienti dai veicoli in circolazione viene ribadita dall'obbligo di
rendere sufficientemente disponibile per il 1993 la benzina senza piombo almeno lungo i più grandi
itinerari di transito internazionale. Secondo i dati ufficiali di cui si dispone la maggior parte degli Stati ha
adempiuto agli obblighi previsti dal protocollo.
Pure il protocollo sui composti organici volatili (VOC) fa riferimento a un obiettivo di riduzione delle
emissioni, quello di ridurre del 30% per 1999 le emissioni del 1988, però in realtà prevede diverse
alternative facendo dello stesso uno strumento particolarmente flessibile dal punto di vista obbligatorio.
Infatti, la prima opzione comporta il raggiungimento dell'obiettivo indicato a livello nazionale, però c'è la
possibilità, come seconda opzione, di stabilire zone di gestione dell'ozono troposferico ( TOMAs:
Tropospheric Ozone Management Areas) e porre in essere tale riduzione soltanto in queste zone a
condizione che le emissioni del 1999 a livello nazionale non siano superiori a quelle del 1988, oppure,
come terza opzione, i paesi, le cui emissioni nel 1988 non erano superiori alle 500.000 tonnellate e 20
kilogrammi per abitante, possono limitarsi a fare in modo che nel 1999 le loro emissioni non superino i
livelli del 1988. La seconda opzione fa perno sull'elemento transfrontaliero dell'inquinamento atmosferico;
infatti, il Canada aveva sostenuto durante i negoziati che era privo di senso ridurre le sue emissioni su
tutto il territorio nazionale perché in realtà soltanto le emissioni originate in una piccola porzione di esso
erano responsabili dell'inquinamento transfrontaliero nel territorio degli Stati Uniti. La terza opzione era
stata pensata soprattutto per i paesi in transizione verso un'economia di mercato. La maggior parte degli
Stati ha comunque scelto la prima opzione. Ad ogni modo, il protocollo mantiene, con carattere
complementare alle alternative suddette, l'approccio tecnologico per il controllo dell'inquinamento
atmosferico (269). È stato segnalato che il protocolo rappresentava un compromesso tra la posizione dei
paesi europei favorevoli ad una riduzione percentuale delle emissioni e quella degli Stati Uniti favorevoli
ad un approccio basato sulla migliore tecnologia disponibile (270). D'altro canto, nel protocollo si concede
sempre più spazio agli aspetti propriamente tecnici del controllo delle emissioni inquinanti come dimostra
il fatto che il corpo degli allegati (quattro, anche se soltanto il primo, relativo alle TOMAs, è di carattere
obbligatorio) costituisce i 3/4 della sua estensione totale. I dati, anche se non sempre completi, indicano
che le emissioni si stanno riducendo in conformità alle misure di controllo previste.
L'ultimo dei protocolli alla Convenzione che sia già entrato in vigore è quello relativo ad ulteriori riduzioni
delle emissioni di zolfo. Questo nuovo testo permette ad ogni Stato di stabilire unilateralmente i propri
obiettivi di riduzione delle emissioni.
Con carattere generale si esprime l'obbligo di controllare e ridurre le emissioni di zolfo in modo tale da
proteggere la salute dell'uomo e l'ambiente dagli effetti dannosi, in particolare dall'acidificazione, e cosí
garantire che le deposizioni dei composti sulfurei ossidati a lungo termine non eccedano i limiti critici di
zolfo; tali limiti, che vengono indicati dall'allegato I suddividendo il continente europeo in diversi riquadri
quadrati il cui lato misura 150 km (271), sono molto diversi tra loro (da 1 a 1700) e dipendono da varie
circostanze compresa la composizione del suolo, per esempio calcarea. Quindi, si prevede come primo
passo e come minimo che le parti dovranno ridurre e mantenere le loro emissioni di zolfo in conformità
alle tabelle e livelli precisati dall'allegato II (272): in esso vengono indicati individualmente per 28 Stati
europei, il Canada e la Comunità europea - mentre gli Stati Uniti sono rimasti al margine anche di questa
iniziativa - i livelli di emissione di zolfo per il 1980, il 1990 ed il 2000 (in alcuni casi anche per il 2005 ed il
2010) e le percentuali di riduzione che i livelli del 2000 (in alcuni casi anche del 2005 e del 2010)
comportano rispetto a quelli del 1980 (273). La maggiore novità introdotta dal protocollo di Oslo riguarda
l'uso di un approccio che fa riferimento ai limiti critici basati sulle conoscenze scientifiche attuali (anche
se ai limiti o livelli critici si faceva già menzione nei due protocolli precedenti); inoltre, si tratta senza
dubbio di un sistema à la carte che presenta però il vantaggio di offrire agli Stati il massimo grado
possibile di flessibilità (274). Infatti, non si limita come il protocollo di Helsinki a prevedere una riduzione
percentuale delle emissioni di zolfo, al contrario insiste sulla necessità di fare uso delle migliori tecnologie
disponibili. Le parti dovranno prendere le misure più efficaci per ridurre le emissioni di zolfo ed, in
particolare, dovranno applicare valori limite determinati alle grandi fonti di combustione fisse nuove e,
non oltre il primo luglio del 2004, valori limite determinati alle grandi fonti di combustione fisse già
esistenti e, non oltre il 5 agosto del 2000, standard nazionali determinati riguardo al contenuto di zolfo
del gasolio. Tali valori limite vengono indicati negli allegati del protocollo (cinque, dei quali soltanto due, il
primo ed il quarto, di carattere non obbligatorio). Si tratta della prima volta in cui si prevede nell'ambito
del sistema di Ginevra l'applicazione di valori limite di emissione di carattere obbligatorio. Anche in
questo protocollo si stabilisce la facoltà di creare zone di gestione degli ossidi di zolfo ( SOMAs: Sulphur
Oxides Management Areas).
Dopo quattro anni senza risultati concreti, sono stati adottati contemporaneamente due protocolli che
però non sono ancora entrati in vigore (per il momento sono stati ratificati soltanto dal Canada).
Innanzitutto, entrambi i protocolli divergono dai precedenti per il fatto di enunciare nell'articolo secondo
le loro finalità consistenti da una parte nel controllare le emissioni di metalli pesanti dovute alle attività
dell'uomo che vengono transportate a lunga distanza nell'atmosfera e possono avere effetti dannosi
importanti per la salute dell'uomo e per l'ambiente, e dall'altra nel controllare, ridurre o eliminare gli
scarichi, emissioni o perdite di sostanze organiche inquinanti di carattere persistente.
Il protocollo sui metalli pesanti riguarda in particolare il cadmio, il piombo e il mercurio; le parti hanno
l'obbligo di ridurre le loro emissioni di questi metalli al di sotto dei livelli del 1990. Il protocollo tratta della
riduzione delle emissioni che traggono la loro origine da attività di tipo industriale, da processi di
combustione e dall'incenerimento di rifiuti. Esso contempla valori limite rigorosi per le emissioni originate
da fonti stazionarie e introduce le migliori tecniche disponibili per tali fonti, quali filtri speciali o depuratori
per le fonti di combustione o processi che non liberano mercurio. Il protocollo prevede l'eliminazione della
benzina con piombo (275). Il protocollo prevede anche misure di controllo dirette a limitare le emissioni
di metalli pesanti da altri prodotti, come il mercurio nelle pile, e altre misure addizionali di gestione dei
prodotti che contengano mercurio, come i componenti elettrici (termostati e commutatori), strumenti di
misura (termometri, manometri e barometri), lampade fluorescenti, amalgami per otturazioni dentarie,
pesticidi e pitture.
Il protocollo sulle sostanze inquinanti organiche di carattere persistente prende in esame cinque tipi di
attività: l'eliminazione della produzione e dell'uso, la restrizione dell'uso, la riduzione delle emissioni, la
gestione dei rifiuti, e raccolta di informazione riguardo alle emissioni, produzione e vendita (276). In
primo luogo, le parti devono prendere misure efficaci per eliminare 12 sostanze organiche inquinanti di
carattere persistente (277) e garantire che la loro eliminazione venga realizzata in maniera compatibile
con la protezione dell'ambiente; inoltre devono limitare il consumo di esaclorocicloesano (lindano). In
secondo luogo, le parti devono ridurre, anche se non si precisa in quale percentuale, le loro emissioni del
1990 di idrocarburi aromatici policiclici, diossine e furani; inoltre dovranno applicare le migliori tecnologie
disponibili e valori limite determinati alle fonti fisse e misure efficaci di controllo alle fonti mobili. In terzo
luogo, le parti dovranno elaborare strategie appropriate per individuare gli articoli ed i rifiuti che
contengano tali sostanze affinché vengano trattati in modo tale che non vi sia pericolo per l'ambiente.
L'elemento che contraddistingue questo protocollo nell'ambito del sistema di Ginevra è quello di
prevedere un'ampia gamma di eccezioni dovute alle esigenze della ricerca scientifica.
4. Il recente Protocollo di Goteborg.
Come viene precisato nella dichiarazione ministeriale adottata a Goteborg il primo dicembre 1999
contestualmente all'apertura alla firma del nuovo protocollo per ridurre l'acidificazione, l'eutrofizzazione e
l'ozono al livello del suolo, esso:
"breaks new ground by:
- Creating a comprehensive effect-based instrument whose application and progressive extension can
reduce emissions to sustainable levels;
- Addressing several effects and several pollutants simultaneously; and
- Providing for cost-effective emission reductions to reach environmental goals" (il corsivo è mio).
Questo nuovo protocollo, che ha visto la luce esattamente vent'anni dopo l'adozione della Convenzione,
viene caratterizzato per il fatto di prendere in considerazione contemporaneamente una pluralità di
sostanze inquinanti e la molteplicità dei loro effetti dannosi. Al riguardo, è stato precisato da Lars
Nordberg, vicedirettore della divisione della ECE competente in materia di ambiente e di insediamenti
umani, che si tratta anche di "the most sophisticated environmental agreement ever negotiated and will
yield great benefits, for both our environment and our health" (278). Esso dovrà sostituire, almeno de
facto, i Protocolli di Helsinki, Sofia, Ginevra ed Oslo, ma dovrà convivere con quelli di Aarhus.
L'articolo 2 indica che il suo obiettivo è quello di:
"to control and reduce emissions of sulphur, nitrogen oxides, ammonia and volatile organic compounds
that are caused by anthropogenic activities and are likely to cause adverse effects on human health,
natural ecosystems, materials and crops, due to the acidification, eutrophication or ground-level ozone as
a result of long-range transboundary atmospheric transport, and to ensure, as far as possible, that in the
long term and in a stepwise approach, taking into account advances in scientific knowledge, atmospheric
depositions or concentrations do not exceed: ... the critical loads of acidity... the critical loads of nutrient
nitrogen... and... the critical levels of ozone...".
Il protocollo stabilisce obiettivi di riduzione per le quattro categorie di sostanze inquinanti che prende in
esame. Per il 2010, le emissioni di zolfo a livello europeo dovranno essere ridotte del 63%, quelle di azoto
del 41%, quelle dei composti organici volatili del 40% e quelle di ammoniaca del 17% paragonandole ai
livelli del 1990. I limiti massimi di emissione per il 2010 vengono indicati per ogni paese, ad eccezione del
Canada e degli Stati Uniti, nelle quattro tabelle riprodotte nel secondo allegato del protocollo, nelle quali
vengono anche precisate le percentuali di riduzione delle emissioni che questi limiti comportano rispetto
ai loro livelli del 1990. La filosofia che deve ispirare questa complessa regolazione è quella consistente nel
fatto che i limiti massimi per ogni paese devono dipendere dall'impatto che le proprie emissioni hanno
riguardo alla salute della popolazione ed alla vulnerabilità dell'ambiente. Inoltre, il protocollo stabilisce
valori limite per determinate fonti di emissione e prescrive l'impiego delle migliori tecniche disponibili per
contenere i livelli di emissione. Dovranno essere ridotte anche le emissioni di composti organici volatili
dovute a determinati prodotti e gli agricoltori dovranno controllare le emissioni di ammoniaca. Si
mantiene la possibilità di designare zone di gestione delle emissioni inquinanti ( PEMAs: Pollutant
Emissions Management Areas).
5. Conclusioni.
Riguardo alla participazione degli Stati, il sistema di Ginevra ha dimostrato l'esistenza di zone d'ombra;
infatti, mentre sono già 45 le parti della Convenzione, molto diverso, e comunque meno della metà, è il
numero dei paesi che hanno ratificato i suoi protocolli (279). Ciò sottolinea che ancora esistono notevoli
reticenze da parte degli Stati a obbligarsi ad attuare obiettivi concreti di riduzione delle emissioni di
sostanze inquinanti. Rimane aperta la questione della participazione che si riuscirà ad ottenere nei
protocolli del 1998, ed in particolare nell'ultimo del 1999.
Dal punto di vista delle tecniche normative utilizzate per la riduzione delle emissioni a livello
internazionale, il panorama è particolarmente interessante. Si tratta di un esempio emblematico di come
la diplomazia internazionale cerca e trova cammini alternativi per giungere allo stesso risultato. Su tali
scelte ha avuto una ripercussione molto importante l'indirizzo seguito da certi Stati o gruppi di Stati nelle
loro politiche interne di riduzione dell'inquinamento atmosferico.
Non è certo ancora possibile stendere un bilancio definitivo del sistema di Ginevra, però non può negarsi
che esso abbia condotto a risultati tangibili nella lotta contro l'inquinamento atmosferico transfrontaliero.
E sembra che con l'adozione dell'ultimo protocollo si sia in certo modo terminato un processo evolutivo; si
sia, per cosí dire, chiuso il cerchio.
NOTE
(254) Riguardo alla ECE si veda BALDI, Le Nazioni Unite che non si conoscono: la Commissione economica
per l'Europa, in La comunità internazionale, vol. 54, 1999, pp. 271-272: "La Commissione, che ha sede a
Ginevra, è stata creata nel 1947 dal Consiglio Economico e Sociale (ECOSOC), e dal 1951 è un organo
permanente delle Nazioni Unite. L'ECE nacque, a titolo sperimentale, con lo scopo di promuovere
un'azione concertata per la ricostruzione economica dell'Europa nel dopoguerra, di conseguenza per lo
sviluppo delle attività economiche, e per rafforzare le relazioni economiche tra i paesi europei, sia fra di
loro che con gli altri paesi del mondo. Tuttavia la cortina di ferro che si era creata tra l'Est e l'Ovest portò
la Commissione, poco dopo la sua creazione, a limitarsi alle questioni di interesse comune per l'Est e per
l'Ovest, che pure esistevano, malgrado la differenza dei sistemi economici e la contrapposizione
ideologica e politica... Nei primi quarant'anni della sua esistenza, fino all'inizio degli anni '90, l'ECE ha
costituito uno dei pochi fori per lo svolgimento di un dialogo economico tra l'Est e l'Ovest europeo che si
fronteggiavano come due blocchi economicamente oltre che politicamente ben distinti. Nel corso degli
anni, l'ECE è quindi diventato un forum a cui partecipano gli Stati dell'Europa occidentale, centrale ed
orientale, dell'Asia centrale e del Nord America. In seguito ai profondi mutamenti politici ed economici
intervenuti sul quadro europeo negli anni Novanta, la Commissione ha dovuto nuovamente rivedere i
propri campi di azione ed i relativi metodi di lavoro in due occasioni successive, nel 1991 e più
recentemente nel 1997". Attualmente sono 55 gli Stati membri della ECE tra i quali vi sono compresi il
Canada e gli Stati Uniti. Riguardo alle attività più recenti della Commissione in materia di protezione
dell'ambiente si veda inter aliaSCHRAGE, United Nations Economic Commission for Europe(ECE), in
Yearbook of International Environmental Law, vol. 8, 1997, p. 535.
(255) Pubblicato in UNTS, vol. 1302, I-21623; il testo viene riprodotto anche in Int. Legal Materials, vol.
18, 1979, p. 1442, oppure in SCOVAZZI e TREVES, World Treaties for the Protection of the Environment,
Milano, 1992, p. 37. In relazione con la participazione all'accordo si veda MAFFEI, PINESCHI, SCOVAZZI e
TREVES, Participation in World Treaties on the Protection on the Environment. A Collection of Data,
London-The Hague-Boston, 1996. Le parti nella Convenzione sono 45: Armenia, Austria, Belarus, Belgio,
Bosnia-Erzegovina, Bulgaria, la Comunità europea, Canada, Croazia, Cipro, la Repubblica Ceca,
Danimarca, Finlandia, Francia, Georgia, Germania, Gran Bretagna, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia,
Iugoslavia, Lettonia, Liechtestein, Lituania, Lussemburgo, la ex Repubblica iugoslava di Macedonia, Malta,
Monaco, la Repubblica Moldova, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Romania, la Federazione
Russa, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Stati Uniti, Svezia, Svizzera, Turchia, Ucraina e Ungheria.
(256) Cfr. KISS, La coopération pan-européenne dans le domaine de la protection de l'environnement, in
Annuaire français de droit international, vol. 25, 1979, p. 721. Riguardo al tema si veda anche
FLINTERMAN, KWIATKOWSKA e LAMMERS, Transboundary Air Pollution, Dordrecht, 1986 e tra i numerosi
contributi che potrebbero essere citati ALBIN, Rethinking justice and fairness: the case of acid rain
emission reductions, in Review of International Studies, vol. 21, 1995, p. 119, CASTILLO DAUDI, La
protección internacional de la atmosfera: de la contaminación transfronteriza al cambio climático, in
Cursos de derecho internacional de Vitoria-Gasteiz, 1994, p. 111, FRAENKEL, The Convention on LongRange Transboundary Air Pollution: Meeting the Challenge of International Cooperation, in Harvard
International Law Journal, vol. 30, 1989, p. 447, LEVY, European Acid Rain: The Power of Tote-Board
Diplomacy, in HAAS, KEOHANE e LEVY (Eds.), Institutions for the Earth, Cambridge(Massachusetts) e
London, 1995, p. 75, LONGCHAMPS DE BERIER, The Role on International Dispute Resolution in
Transboundary Air Pollution Law, in Polish Yearbook of International Law, vol. 21, 1994, p. 249,
PALLEMAERTS, International Legal Aspects of Long-Range Transboundary Air Pollution, in Annuaire de La
Haye, vol. 1, 1988, p. 189, ROSENCRANZ, The ECE Convention on Long-Range Transboundary Air Pollution,
in American Journal of International Law, vol. 75, 1981, p. 975.
(257) Una valutazione in questo senso si trova in SCOVAZZI, Considerazioni sulle norme internazionali in
materia di ambiente, in Riv.dir.int, vol. 72, 1989, p. 603.
(258) Adottato a Ginevra il 28 settembre del 1984 e pubblicato in UNTS, vol. 1491, I-25638. Per il testo
si veda anche Int. Legal Materials, vol. 27, 1988, p. 701, oppure SCOVAZZI e TREVES, op. cit., p. 48. Il
protocolo è entrato in vigore il 28 gennaio 1988 e in esso sono parti la Comunità europea e altri 37 Stati
della ECE, compresa l'Italia.
(259) Adottato a Helsinki l'8 luglio 1985 e pubblicato in UNTS, vol. 1480, I-25247. Per il testo si veda
anche Int. Legal Materials, ibidem, p. 707 oppure SCOVAZZI e TREVES, op. cit., p. 56. Il protocollo è entrato
in vigore il 2 settembre 1987 e in esso sono parti 21 Stati: Austria, Belarus, Belgio, Bulgaria, Canada, la
Repubblica Ceca, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Liechtestein, Lussemburgo, Norvegia, i
Paesi Bassi, la Federazione Russa, Slovacchia, Svezia, Svizzera, Ungheria e Ucraina.
(260) Adottato a Sofia il 31 ottobre 1988 e pubblicato in UNTS, vol. 1593, I-27874. Per il testo si veda
anche Int. Legal Materials, vol. 28, 1989, p. 214 oppure SCOVAZZI e TREVES, op. cit., p. 63. Il protocollo è
entrato in vigore il 14 febbraio 1991 e in esso sono parti la Comunità europea e altri 25 Stati: Austria,
Belarus, Bulgaria, Canada, la Repubblica Ceca, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Gran Bretagna,
Grecia, Irlanda, Italia, Liechtestein, Lussemburgo, Norvegia, i Paesi Bassi, la Federazione Russa,
Slovacchia, Spagna, gli Stati Uniti, Svezia, Svizzera, Ungheria e Ucraina.
(261) Adottato a Ginevra il 18 novembre 1991 ed entrato in vigore il 29 settembre 1997. Per il testo si
veda Int. Legal Materials, vol. 31, 1992, p. 568. Del protocollo sono parti 17 Stati: Austria, Bulgaria, la
Repubblica Ceca, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Liechtenstein,
Lussemburgo, Norvegia, i Paesi Bassi, Spagna, Svezia, Svizzera e Ungheria.
(262) Adottato a Oslo il 14 giugno 1994 e entrato in vigore il 5 agosto 1998. Per il testo si veda Int. Legal
Materials, vol. 33, 1994, p. 1540. Del protocollo sono parti la Comunità europea e altri 21 Stati: Austria,
Canada, Croazia, la Repubblica Ceca, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Grecia,
Irlanda, Italia, Liechtestein, Lussemburgo, Norvegia, i Paesi Bassi, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia e
Svizzera.
(263) Tali strumenti, aperti alla firma ad Aarhus (Danimarca) il 24 giugno 1998, non sono ancora entrati
in vigore. Entrambi sono stati firmati dalla Comunità europea ed altri 35 Stati. Per il testo del Protocollo
sulle sostanze organiche inquinanti di carattere persistente si veda Int. Legal Materials, vol. 37, 1998, p.
511. Il testo del protocollo sui metalli pesanti può essere consultato nel sito della ECE: http://
www.unece.org/env/lrtap.
(264) Adottato a Goteborg (Svezia) il 30 novembre 1999. Il nuovo protocollo è stato firmato da 27 Stati.
Il suo testo vieno riprodotto nel documento EB.AIR/1999/1 del 15 ottobre 1999.
(265) Cfr. in particolare PALLEMAERTS, op. cit., pp. 190-191 e ROSENCRANZ, op. cit., pp. 976-977.
(266) In questo senso si veda SCOVAZZI, Atmosphere, in SCOVAZZI e TREVES, op.cit., p. 33. Riguardo alla
diffusa pratica relativa all'adozione di accordi quadro in materia ambientale cfr. in particolare KISS, Les
traité-cadre: une technique juridique caractéristique du droit international de l'environnement, in
Annuaire français de droit international, vol. 39, 1993, p. 792. L'origine di tale pratica viene ravvisata da
SAND in una proposta della delegazione spagnola, di una legge-quadro ( convenìo-marco) seguito da
protocolli separati, durante i negoziati della Convenzione di Barcellona per la protezione del Mediterraneo
dall'inquinamento; si veda UNCED and the Development of International Environmental Law, in Yearbook
of International Environmental Law, vol. 3, 1992, p. 6.
(267) Al riguardo si veda per esempio LIST e RITTBERGER, Regime Theory and International Environmental
Management, in HURRELL e KINGSBURY (Eds.), International Politics of the Environment, Oxford, 1992, p.
85. Cfr. anche GEHRING, International Environmental Regimes: Dynamic Sectoral Legal Systems, in
Yearbook of International Environmental Law, vol. 1, 1990, p. 35 e HAAS, Epistemic Communities and
the Dynamics of International Environmental Co-Operation, in RITTBERGER (Ed.), Regime Theory and
International Relations, Oxford, 1995, p. 168 (dello stesso autore si veda anche Do regimes matter?
Epistemic Communities and Mediterranean pollution control, in International Organization, vol. 43, 1989,
p. 377).
(268) Per la dichiarazione ministeriale sulle piogge acide di Ottawa si veda Int. Legal Materials, vol. 23,
1984, p. 662. Nell'arco di pochi anni il Canada e la Germania avevano modificato la loro posizione
riguardo al problema delle piogge acide, al riguardo si veda ROSENCRANZ, The acid rain controversy in
Europe and North America: a political analysis, in CARROLL (Ed.), International environmental diplomacy,
Cambridge, 1988, pp. 173-174: "for the last five years, the Norwegians and Swedes have been supported
by environmental officials from West Germany and Canada. West Germany originally opposed the Acid
Rain Convention, even in its toothless form. They were brought to the signing table in Geneva by a
combination of pressures and appeals from Sweden, Norway and fellow members of the EEC. But by
1982, when a multilateral conference on Acidification of the Environment was held in Stockholm, West
Germany officials had become convinced by their scientists and foresters that massive forest death
("Waldsterben") was resulting in Germany and elsewhere in Central Europe from air pollutants, including
sulphur and nitrogen pollutants that are the principal components of acid rain. At about the same time,
Canadian officials became alarmed by the increasing acidification of eastern Canada's lakes and the
expected harsh impact that this would have for tourism. More than half of the pollution thought to be
responsible for acidifying Canada's lakes originates in mid-western industrial region of the US, whose
power stations have generally been held to less stringent emissions standards that have other US power
stations. Since 1982, Canadians and West Germans have joined, and to some extent have replaced, their
Scandinavian colleagues, who may have begun to grow weary of their long and lonely struggle. Morever,
Norway and Sweden import much of their acid rain for other countries, and are therefore classic victim
countries. By contrast, a significant portion of the acid rain falling on Germany and Canada originates in
those countries. West Germany and Canada are both polluters and victims. They import and export the
stuff to and from their neighbors, and are therefore especially deeply concerned with balancing the costs
and benefits of abatement".
(269) Al riguardo, viene previsto che le parti devono adottare per il 1999 standard nazionali per le
emissioni originate dalle fonti fisse nuove, misure nazionali per i prodotti che contengono solventi e
standard nazionali per le emissioni originate dalle fonti mobili nuove. Inoltre, per il 2002, in quelle zone in
cui gli standard nazionali e internazionali per l'ozono troposferico siano superati ovvero da cui abbiano
origine i flussi transfrontalieri, dovranno applicare le migliori tecnologie disponibili alle fonti fisse esistenti
riguardo alle grandi categorie di fonti (quelle che contribuiscono ad almeno l'1% delle emissioni annuali),
e tecniche per la riduzione delle emissioni dovute alla distribuzione di benzina ed alle operazioni di
rifornimento di combustibile dei veicoli a motore.
(270) Si veda la nota introduttiva di NOVELLO in Int.Legal Materials, vol. 31, 1992, p. 569. Per il momento,
comunque, gli Stati Uniti non hanno ancora ratificato il protocollo del 1991.
(271) L'EMEP ha sviluppato anche un sistema che utilizza un tipo di riquadro il cui lato è di 50 km.
(272) Questo allegato può essere oggetto di aggiustamenti seguendo un procedimento simile, anche se
non identico, a quello previsto dal Protocollo di Montreal relativo alle sostanze che sono responsabili
dell'assottigliamento della fascia di ozono stratosferico.
(273) Concretamente l'Austria si è impegnata a ridurre le sue emissioni dell'80%, Belarus del 38%, il
Belgio del 70%, Bulgaria del 33%, il Canada del 30%, Croazia dell'11%, la Repubblica Ceca del 50%,
Danimarca dell'80%, Finlandia dell'80%, Francia del 74%, Germania dell'83%, Gran Bretagna del 50%,
Grecia dello 0% (in realtà ha aumentato del 50% le sue emissioni nel periodo 1980-2000), Irlanda del
30%, Italia del 65%, Liechtenstein del 75%, Lussemburgo del 58%, Norvegia del 76%, i Paesi Bassi del
77%, Polonia del 37 %, Portogallo dello 0% (in realtà ha aumentato di più del 10% le sue emissioni nel
periodo 1980-2000), la Federazione Russa del 38% (anche se soltanto rispetto alla sua porzione europea
coperta dall'EMEP), Slovacchia del 60%, Slovenia del 45%, Spagna del 35%, Svezia dell'80%, Svizzera
del 52%, Ucraina del 40% e la Comunità europea del 62%.
(274) In tale senso, questo nuovo sistema può ricordare quello di pledge and review proposto dal
governo giapponese durante i negoziati relativi all'adozione della Convenzione quadro delle Nazioni Unite
sui cambiamenti climatici. I termini precisi di tale proposta furono indicati nel documento A/AC. 237/Misc.
1/Add.7: "1. Pledge. Each country (or regional group) makes public a pledge, consisting of its past
performance of strategies to limit greenhouse gas emissions and targets or estimates for such emissions
as the result of the strategies. 1) Participating countries (or regional group) must make pledges as soon
as possible (within three months) after the ratification (entry into force) of the Convention. The pledge
will be made public as soon as possible... 2. Review. A review will be conducted periodically for each
country/regional group by a team of experts from different countries/regional groups which will be
submitted to the permanent review committee". Sul tema cfr. in particolare KENEHARA, The significance of
the japanese proposal of "pledge and review" process in growing international environmental law, in The
Japanese Annual of International Law, vol. 35, 1992, p. 1.
(275) Si veda anche la dichiarazione relativa all'eliminazione della benzina con piombo adottata sempre
durante la Conferenza di Aarhus, riprodotta in Environmental Policy and Law, vol. 28, 1998, p. 254, nella
quale gli Stati firmatari proclamano che: "have already phased out or will phase out the use of added
lead in petrol for general use by road vehicles as aerly as possible and not later than 1 January, 2005".
(276) Al riguardo cfr. la nota introduttiva di HILLMAN in Int.Legal Materials, vol. 37, 1998, p. 505.
(277) Elencate nell'allegato I: l'aldrin, il clordano, il clordecone, il DDT, il dieldrine, l'endrin, l'eptacloro,
l'esaclorodifenile, l'esaclorobenzene, il mirex, i PCB ed il toxafeno. Sono previste determinate eccezioni;
per esempio, riguardo all'uso del DDT per salvaguardare la salute pubblica contro la malaria e l'encefalite.
Deve essere anche tenuto presente che l'UNEP ha recentemente promosso la creazione di un Comitato
governativo di negoziato per l'adozione di una convenzione internazionale riguardante le sostanze
inquinanti di carattere persistente; al riguardo si veda GRANDBOIS, UNEP:POP Convention - First
Intergovernmental Negotiating Committee, in Environmental Policy and Law, vol. 28, 1998, p. 227.
(278) Si veda il comunicato stampa ECE/ENV/99/11, Ginevra, 24 novembre 1999, intitolato "New Air
Pollution Protocol to Save Lives and Environment".
(279) 21 se prendiamo in considerazione il Protocollo di Helsinki, 26 per quello di Sofia, 17 per quello di
Ginevra del 1991 e 22 per quello di Oslo.
Archivio selezionato: Dottrina
La tutela integrata delle acque: obiettivi di qualità, misure di risanamento e
regolamentazione degli usi idrici
Riv. giur. ambiente 2000, 06, 883
Paola Brambilla,
Angelo Maestroni
1. Premessa. - 2. Principi generali. - 3. La tutela qualitativa della risorsa idrica: gli obiettivi di qualità
ambientale. - 4. Obiettivi di qualità per specifica destinazione. - 5. Obiettivi di qualità e piani di tutela. 6. Altre forme di tutela qualitativa della risorsa idrica. - 7. La tutela quantitativa della risorsa idrica: la
regolamentazione degli usi idrici.
1. Premessa.
La trattazione del nuovo approccio del legislatore alla tutela integrata delle risorse idriche (1) deve
prendere le mosse non tanto dalla delineazione dei principi generali e delle competenze con cui si apre il
D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152, bensì dalle disposizioni finali contenute negli ultimi due articoli del testo
legislativo, ovvero dall'art. 62, che menziona le direttive comunitarie di cui la normativa nazionale vuole
essere recepimento, e dall'art. 63, che indica espressamente le norme abrogate dalla nuova disciplina,
oltre naturalmente a specificare inutilmente anche l'abrogazione delle norme contrarie o incompatibili con
il decreto medesimo.
Dall'elenco delle direttive attuate (2) e delle normative abrogate emerge infatti una fisionomia della
nuova disciplina sulle acque che non ne fa un testo unico in senso vero e proprio, e ciò non tanto per
l'assenza di una specifica indicazione in tal senso della legge delega, ma soprattutto per la
frammentarietà con cui il decreto legislativo 152/1999, pur in un apprezzabile sforzo di completezza,
regola la materia degli obiettivi qualitativi e quantitativi delle risorse idriche, oltre che degli strumenti di
perseguimento dei predetti obiettivi, in quanto esso si pone non già come sintesi e raccordo della pluralità
dei testi normativi in materia, ma come loro cornice e, quindi, come momento di ulteriore
sovrapposizione e complicazione.
La predetta frammentarietà, in concreto, discende dalla mancata unificazione, all'interno della nuova
normativa, di una serie di disposizioni ad essa correlate, tra cui quelle contenute nelle leggi 5 gennaio
1994, n. 36 e n. 37, rispettivamente in tema di risorse idriche e di tutela ambientale delle aree demaniali
dei fiumi, dei torrenti, dei laghi e delle altre acque pubbliche, alle quali il D.Lgs. 152/1999 pure apporta
significative modifiche, soprattutto per quanto concerne l'argomento della tutela qualitativa e
quantitativa, e degli usi, della risorsa idrica.
Altrettanto vale per le disposizioni di cui al D.P.R. 24 maggio 1988, n. 236, in tema di qualità delle acque
destinate al consumo umano, anch'esse modificate in parte dalla nuova disciplina, ma non trasfuse
interamente in essa; lo stesso discorso infine tocca, sia pure parzialmente, il R.D. 11 dicembre 1933, n.
1775, di cui vengono modificate alcune norme in tema di concessione di derivazioni.
Nel recentissimo D.Lgs. 258/2000, che ha apportato modifiche ed integrazioni al D.Lgs. 152/1999, a dire
il vero, la difficoltà di questa lettura sinottica dei diversi testi è stata in parte affrontata, in quanto le
specifiche norme di questi due corpi normativi, ora citati, toccate da modifica, sono state incorporate nel
decreto, con conseguente abrogazione delle rispettive norme di provenienza all'interno sia del D.P.R.
236/1988 che del R.D. 1775/1933.
Non si è però realizzata quella completa integrazione tra le diverse fonti che, sola, avrebbe potuto
consentire l'elaborazione di un quadro compiuto della tutela delle acque.
Ciò comporta, in definitiva, che per delineare il quadro della nuova tutela delle risorsa idrica, nei suoi
aspetti qualitativi e quantitativi, occorre ancora fare riferimento ad una pluralità di testi normativi, con la
conseguente difficoltà, per l'operatore giuridico, ma soprattutto per la pubblica amministrazione cui è
demandato il perseguimento di tale tutela, di coordinare tra di loro le diverse fonti che concorrono a
normare la materia.
Quindi, scendendo all'esame delle disposizioni rilevanti ai fini della trattazione dello specifico tema della
tutela quali-quantitativa della risorsa idrica, oltre che alle finalità generali indicate dall'art. 1, si devono
prendere in esame, per quanto attiene alla tutela qualitativa, gli artt. da 4 a 15, racchiusi nel Titolo II
della legge, dedicato alla classificazione delle acque e agli obiettivi di qualità, con le sottocategorie degli
obiettivi di qualità ambientale - meglio specificati dall'Allegato 1 - e degli obiettivi di qualità per specifica
destinazione, definiti analiticamente nell'Allegato 2; attinenti al tema della tutela quantitativa della risorsa
ed al risparmio idrico sono invece gli artt. da 22 a 26; infine vi sono le disposizioni dettate in tema di
effettiva tutela dei corpi idrici, contenute negli artt. da 35 a 41, nonché quelle volte ad introdurre specifici
strumenti di tutela, tra cui i c.d. piani di tutela, appunto, normati dagli artt. da 42 a 44 e dall'Allegato 3.
Ciò che contraddistingue la nuova disciplina, invero, è il diverso approccio con cui si è mosso il legislatore,
che, per la prima volta, disciplina la risorsa idrica in primis come bene ambientale e, pertanto, con
specifica attenzione ai profili della qualità ambientale e della tutela della salute umana, aspetti considerati
solo ora inscindibile oggetto di disciplina e quindi di tutela.
Ecco che pertanto le nuove norme finalmente giungono a definire gli obiettivi di qualità delle diverse
risorse idriche, e quindi anche le concentrazioni consentite di inquinanti negli scarichi, in base ad una
classificazione delle acque condotta unitariamente, prima in base ad un modello di qualità ambientale di
carattere generale, poi in base ad una serie di diversi modelli di qualità c.d. per specifica destinazione, in
modo da legare tra di loro i due aspetti della tutela delle acque e delle misure contro l'inquinamento.
Al fine del raggiungimento progressivo degli obiettivi di qualità prefissati il legislatore detta poi tutta una
serie di disposizioni, come si è detto, volte a delineare gli strumenti specifici di tutela delle acque,
pianificatori, autorizzatori e sanzionatori.
2. Principi generali.
La nuova concezione integrata del sistema della tutela delle acque viene già tracciata dall'art. 1 del D.Lgs.
152/1999.
La norma autodefinisce il testo come recante norme volte a dettare una disciplina generale per la tutela
delle acque, così esplicitando la sua vocazione di legge quadro, o meglio di momento di raccordo delle più
disparate disposizioni vigenti nel settore, per poi proseguire nell'elencazione degli obiettivi che il decreto
si prefigge; questi ultimi si trovano però ordinati non già secondo un criterio logico, ma in base a criteri
emergenziali, per cui anziché trovare enunciato prima l'obiettivo del mantenimento della capacità di
autodepurazione e della capacità di sostenere comunità animali e vegetali ampie e ben diversificate (lett.
d) e successivamente quello del perseguimento dell'uso sostenibile e durevole delle risorse idriche (lett.
c), si privilegia invece, e si antepone, quindi, nell'esposizione, l'obiettivo della prevenzione e della
riduzione dell'inquinamento e del risanamento dei corpi idrici inquinati (lett. a) e del miglioramento in
genere delle acque (lett. b).
In funzione di tali obiettivi il legislatore introduce poi una serie di strumenti, che consistono in sistemi di
classificazione delle acque (lett. a, lett. e) e di definizione degli obiettivi di qualità per le stesse (lett. a,
lett. b), da cui discendono logicamente le indicazioni dei valori limite per gli scarichi (lett. c); segue quindi
la previsione di strumenti di pianificazione (lett. b, d, e) volti al raggiungimento degli obiettivi di qualità
prefissati, ed infine di misure volte alla conservazione, risparmio, riutilizzo e riciclo delle risorse idriche
(lett. f).
Viene quindi consacrato un approccio globale ed integrato al sistema delle acque, che per la prima volta
giunge a concepire la lotta all'inquinamento idrico come momento della più generale disciplina della tutela
qualitativa e quantitativa delle acque, finalizzata ad un più alto scopo di recupero e protezione
dell'ambiente ed insieme della salute umana, posto che la risorsa idrica rileva appunto sia per il consumo
umano, sia per la funzione di supporto essenziale alla vita di tutte le specie animali e vegetali e, in ultima
analisi, del pianeta.
3. La tutela qualitativa della risorsa idrica: gli obiettivi di qualità ambientale.
Il Titolo II del decreto è appunto dedicato agli obiettivi di qualità, ambientale e per specifica destinazione.
La lettura delle norme del Titolo, unitamente a quelle dell'Allegato 1 permette di ricostruire l' incipit del
nuovo sistema di tutela, fondato su un peculiare sistema di classificazione delle acque.
I corpi idrici, infatti, vengono suddivisi in via generale in corpi idrici significativi e non significativi, dove
per corpi idrici significativi si intendono quelli più rilevanti a cui si applicano, in sostanza, gli obblighi di
monitoraggio e di valutazione delle condizioni del corpo d'acqua ai fini del successivo raggiungimento
degli obiettivi di qualità prefissati.
La significatività viene definita distintamente per i corsi d'acque superficiali (All. 1, 1.1.1), per i laghi (All.
1, 1.1.2), per le acque marine costiere (All. 1, 1.1.3), per le acque di transizione (All. 1, 1.1.4) e per i
corpi idrici artificiali (All. 1, 1.1.5), nonché per le acque sotterranee (All. 1, 1.2.1).
Per ognuna di tali classi è il legislatore nazionale ad avere direttamente provveduto all'individuazione
delle caratteristiche che attribuiscono al corpo idrico la qualifica di significativo.
Anche se privi delle specifiche caratteristiche di portata o rilevanza che li renderebbe significativi, il
legislatore ha disposto che debbano ugualmente essere soggetti a monitoraggio, controllo e
miglioramento anche i corpi idrici di particolare interesse ambientale sia da un punto di vista naturalistico
o paesaggistico, sia per gli specifici particolari utilizzi cui i medesimi sono sottoposti; l'Allegato non lo
precisa, ma si può pensare tanto a particolari usi, anche faunistici, quanto a corpi d'acqua, anche di
scarsa portata o significatività nel senso sopra descritto, ma localizzati in aree particolarmente aride o
denotate da scarsità di risorse idriche.
Il D.Lgs. 258/2000, modificando l'Allegato 1, ha inoltre incluso nei corpi idrici, anche se non significativi,
soggetti a monitoraggio e classificazione, anche le acque con potenziale o carico inquinante tale da
influire sulle caratteristiche e sullo stato dei corpi idrici significativi.
Di tutti tali corpi idrici, prescrive il legislatore, a seguito del necessario monitoraggio preliminare, deve
essere definito lo stato di qualità ambientale, ovvero lo stato in cui essi si presentano, sia dal punto di
vista ecologico (All. 1, 2.1.1) che da quello chimico (All. 1, 2.1.2).
Detto stato, che deve essere definito dalla Regione, rappresenta un parametro qualitativo che dovrebbe
assolvere a connotare il corpo d'acqua in relazione alla capacità del medesimo di mantenere i processi
naturali di autodepurazione e di supportare comunità animali e vegetali ampie e ben diversificate, come
precisa l'art. 4, comma 2.
Gli stati di qualità ambientale si trovano classificati nella Tabella 2 dell'Allegato 1, secondo una scala
discendente, in cui il primo parametro, dello stato elevato, corrisponde in sostanza alle caratteristiche
ecologiche e chimiche proprie di un corso d'acqua pressoché immune da qualsivoglia impatto antropico;
buono è lo stato del corpo idrico scarsamente alterato dall'attività umana e comunque in cui le alterazioni
registrate non sono tali da arrecare alcun danno alle forme di vita legate al corpo idrico; sufficiente è lo
stato di qualità del corpo idrico che si presenta sensibilmente alterato dall'attività antropica, ma in cui
tuttavia l'alterazione non è in grado di incidere sulle forme di vita proprie dell'habitat di riferimento; la
presenza di alterazioni considerevoli o di alterazioni gravi del corpo idrico e delle forme di vita ad esso
associate corrisponde infine ad uno stato di qualità ambientale rispettivamente scadente, dove l'incidenza
dell'inquinamento si registra solo a medio-lungo termine, mentre lo stato di qualità è definito pessimo,
quando l'inquinamento è in grado di incidere sulle forme di vita già nel breve periodo.
La classificazione dello stato ambientale delle acque sotterranee è parzialmente differente da quella ora
vista, in quanto la Tabella 3 dell'Allegato 1, ad esse dedicata, pone l'accento più che sulle capacità della
risorsa di fornire un habitat alle comunità biologiche che vi sono associate, sulle caratteristiche qualitative
e quantitative della risorsa.
È peraltro decisamente difficile operare una distinzione tra lo stato buono e quello sufficiente, come pure
tra lo stato scadente e quello pessimo, il che rileva, come vedremo, quando il legislatore assegna alle
amministrazioni locali il compito di raggiungere, entro determinate date, proprio detti obiettivi di qualità
ambientale, che quindi si palesano, nella realtà, come alquanto discrezionali, al pari dei correlati obblighi
di risanamento.
Va inoltre sottolineato come lo standard di ottimo, o di elevato, non sia affatto un valore assoluto, bensì
solo paretiano, in quanto, nel sistema in esame, si potranno avere tante nozioni di standard elevato
quante sono le autorità di bacino, o le Regioni: il grado di elevato, infatti, non corrisponde ad un corpo
idrico di riferimento determinato astrattamente dal legislatore, ma da quel corpo idrico di riferimento che
l'autorità di bacino, o la Regione, sceglierà in concreto nel bacino di competenza quale metro di paragone.
Deve trattarsi, è vero, di un corpo idrico relativamente immune da impatti antropici, ma occorre tenere
presente che nella scelta, da parte del singolo ente competente, del corpo idrico di riferimento, l'avverbio
"relativamente", essendo condizionato dallo stato fisio-chimico dei corsi d'acqua del bacino in
considerazione, ma soprattutto dalla scelta concreta del parametro di riferimento da parte dell'ente
competente, potrebbe non solo determinare scostamenti significativi tra gli obiettivi di tutela in concreto
da raggiungere, ma altresì potrebbe suggerire la scelta, quale corpo idrico di riferimento, di acque già
compromesse, per rendere così più facilmente raggiungibile superiori standard di qualità.
Senza dubbio ciò confliggerebbe con la prescrizione dettata dall'art. 4, comma 7, secondo la quale le
Regioni, con riferimento agli obiettivi di qualità ambientale, hanno la possibilità di definire solo obiettivi di
qualità ambientale più elevati, tranne che nelle ipotesi eccezionali di cui all'art. 5, comma 5, che
richiedono: condizioni talmente pessime in partenza del corpo idrico da non poter consentire significativi
miglioramenti dello stesso, oppure condizioni naturali, climatiche, geografiche o meteorologiche tali da
rendere esclusivamente perseguibili obiettivi di qualità meno rigorosi.
Ciò premesso, nella nuova normativa, alla definizione dei criteri classificatori segue la previsione
dell'obbligo di monitoraggio dei corpi idrici al fine dell'attribuzione agli stessi di uno degli stati di qualità
ambientale sopra indicati, attività demandata alle Regioni che dovrebbe esaurirsi in 24 mesi (All. 1,
3.1.1) - c.d. fase conoscitiva - per poi fare spazio ad una fase c.d. a regime, dedicata solo al controllo
delle acque al fine della verifica del progressivo miglioramento.
È stata invece affidata all'ARPA - o alla Regione, nel caso in cui l'ARPA non sia stata ancora costituita - la
predisposizione di un sistema di pronto intervento finalizzato al monitoraggio degli episodi acuti di
inquinamento di natura accidentale o dolosa.
Il termine sopra riferito entro il quale deve compiersi la fase conoscitiva evidenzia la discrasia tra la
nuova formulazione dell'art. 5, comma 1, del D.Lgs. 152/1999, così come risultante dall'intervento del
D.Lgs. 258/2000, e il testo previgente: se i ventiquattro mesi avevano un senso quando l'art. 5, comma
1, appunto prevedeva che entro il 31 dicembre 2001 le Regioni procedessero ad attribuire ad ogni corpo
idrico significativo la classe di qualità ambientale corrispondente, ora che il predetto termine è stato
differito al 30 aprile 2003, è evidente che la fase conoscitiva dovrebbe ritenersi ampliata nei suoi tempi.
Altrettanto evidente è pure il mancato coordinamento dell'Allegato, oltre che con l'art. 5, anche con gli
artt. 42 e 43, che disciplinano l'attività delle Regioni di rilevamento delle caratteristiche del bacino
idrografico, di analisi dell'impatto dell'attività antropica e quindi di esame dello stato di qualità dei corpi
idrici.
Dette norme, inserite nel Titolo IV dedicato agli strumenti di tutela, troverebbero in realtà miglior
allocazione all'interno del Titolo II, in quanto appunto specificano l'attività che le Regioni devono porre in
essere per acquisire le informazioni sui corpi idrici ed il bacino idrografico di loro competenza, e quindi
per formarsi una conoscenza dello stato qualitativo e quantitativo delle acque all'interno del bacino di
riferimento; attività che presuppone, ex art. 42, comma 2, e 43, comma 1, l'elaborazione di programmi
idonei al rilevamento e alla verifica delle condizioni dei corpi idrici, da predisporre entro il 31 dicembre
2000, termine che non ha subito alcun differimento e che appare difficilmente rispettabile.
Vi è inoltre un ulteriore contrasto tra l'art. 42, comma 3, e l'Allegato 1, 3.1.1, che riguarda un elemento
fondamentale, ovvero la tipologia delle informazioni cui potere attingere sia per il monitoraggio delle
acque che per la loro classificazione in base agli standard di qualità ambientale: l'Allegato precisa infatti
che si possono utilizzare a tali fini informazioni pregresse non antecedenti il 1997, in sostituzione o
integrazione delle analisi previste nella fase iniziale del monitoraggio per l'attribuzione dello stato di
qualità - il che appare non corretto ove si consideri l'assoluta non attendibilità di dati così risalenti nel
tempo - mentre l'art. 42, comma 3, dispone che possono essere utilizzati anche dati ed informazioni già
acquisite, con particolare riguardo a quelle preordinate alla redazione dei piani di risanamento delle acque
di cui alla legge 10 maggio 1976, n. 319, nonché a quelle previste dalla legge 18 maggio 1989, n. 183,
senza limitazioni di data.
È evidente la confusione che si ingenererà quanto alla tipologia ed alla datazione delle informazioni e dei
dati riutilizzabili, soprattutto per ciò che concerne quei dati relativi alle caratteristiche biochimiche dei
corpi d'acqua.
4. Obiettivi di qualità per specifica destinazione.
L'art. 5, comma 3, introduce poi il secondo parametro qualitativo previsto dalla riforma, quello della
qualità per specifica destinazione.
Si tratta di una classificazione delle acque, affidata anche in questo caso alle Regioni, condotta in base
alla loro idoneità ad una peculiare utilizzazione da parte dell'uomo ovvero in base all'idoneità delle acque
alla vita dei pesci e dei molluschi; in particolare l'art. 6 include nelle acque a specifica destinazione
funzionale le acque dolci superficiali destinate alla produzione di acqua potabile e alla balneazione per ciò
che riguarda l'uso diretto dell'uomo; le acque destinate alla vita dei pesci e dei molluschi per quanto
riguarda gli altri usi.
Per ognuna di queste categorie sono poi dettate specifiche norme (3).
L'art. 7 definisce le acque superficiali destinate alla produzione di acqua potabile che sono classificate
nelle categorie di qualità decrescente A1, A2, A3 secondo la tabella 1/A dell'Allegato 2, sezione A,
ordinata in base al grado di conformità o di discostamento delle acque in esame ad una serie di parametri
indicati dal legislatore.
In base alle diverse caratteristiche dell'acqua l'art. 7 ne prevede distinti trattamenti, dal meno spinto al
più spinto, vietando, salvo casi eccezionali, l'utilizzo di acque con caratteristiche inferiori a quelle previste
per la classe A3; l'art. 8 consente peraltro limitate deroghe ai valori dei parametri tabellari, riconducibili
solo ad ipotesi di verificazione di circostanze eccezionali, sempre legate ad eventi naturali, meteorologici,
ovvero a peculiari caratteristiche geografiche, fermo restando però che da tali deroghe non possa
derivare pregiudizio per la salute umana.
Anche le acque destinate alla balneazione sono tra le acque con specifica destinazione funzionale,
senonché i relativi obiettivi di qualità rimangono definiti non già dal nuovo testo, ma dal D.P.R. 8 giugno
1982, n. 470, che si pone pertanto tuttora come normativa di riferimento a fianco del D.Lgs. 152/1999.
Il D.Lgs. 152/1999 ha modificato solo in parte la materia disponendo che, in caso di acque non balneabili,
l'informativa regionale sulle relative cause e sulle misure di risanamento non venga più trasmessa al
Ministero della sanità ma al Ministero dell'ambiente, il che risponde all'approccio integrato di matrice
ambientale perseguito dal riformatore, per cui l'acqua diviene, innanzitutto, risorsa ambientale.
Sono infine direttamente individuate dal legislatore tra le altre acque con destinazione funzionale, e
definite come acque dolci che richiedono protezione o miglioramento per essere idonee alla vita dei pesci
(4), tutta una serie di corsi d'acqua, laghi, ed acque dolci superficiali in genere, che sono incluse in
riserve o parchi, in zone umide d'importanza internazionale ai sensi della Convenzione di Ramsar, o che
rivestono particolare interesse a fini naturalistici o ittici (artt. 10-13).
Le acque idonee alla vita dei pesci, così definite (procedimento di designazione), vengono poi classificate
sempre direttamente dal legislatore (procedimento di classificazione) in salmonicole, di maggior pregio, e
ciprinicole, meno pregiate, quando rispondono ai parametri previsti dall'Allegato 2, sezione B.
Alle Regioni spetta poi la designazione e la classificazione concreta dei corpi idrici secondo tale griglia
predeterminata (art. 10, comma 4), come pure l'attività successiva di revisione della designazione e
classificazione già operate, ma nel solo caso in cui ciò si renda necessario in dipendenza di elementi
imprevisti e sopravvenuti (art. 4), dimodoché risulta escluso in capo alla Regione un qualsiasi potere di
interferenza o di ripensamento dei criteri classificatori del legislatore statale.
Delle acque non conformi ai requisiti di qualità stabiliti dall'Allegato 3, Tabella 1/B, deve poi perseguirsi il
miglioramento qualitativo, salvo il caso in cui la Regione stabilisca deroghe ad alcuni dei parametri
tabellari, deroghe però ammesse solo per cause naturali, geografiche o meteorologiche.
Sia l'utilizzo di queste acque con specifica destinazione funzionale, precisa l'art. 10, ultimo comma, sia gli
scarichi ivi afferenti, possono essere oggetto di provvedimenti contingibili ed urgenti, specifici e motivati,
riservati al Presidente della Giunta regionale o al Presidente della Provincia, nell'ambito delle rispettive
competenze, esclusivamente ai fini di una maggiore tutela della loro qualità funzionale dei corpi idrici.
Gli artt. da 10 a 13, in proposito, rappresentano la trasfusione nel nuovo corpo normativo del previgente
D.Lgs. 25 gennaio 1992, n. 130, ora abrogato, in materia di protezione delle acque dolci idonee alla vita
dei pesci, con il che si manifesta la vocazione di testo unico, peraltro non portata a compimento, della
nuova normativa.
Altrettanto accade per il D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 131, sulla protezione delle acque destinate alla vita
dei molluschi, pure esso abrogato in quanto le relative disposizioni hanno fatto ingresso nel D.Lgs.
152/1999, e precisamente negli artt. da 14 a 17.
Tali acque sono designate come quelle acque costiere e salmastre sedi di banchi e popolazioni naturali di
molluschi bivalvi e gasteropodi richiedenti protezione e miglioramento per consentire la vita e lo sviluppo
dei molluschi; di esse viene prescritta una classificazione, condotta sulla scorta della Tabella 1/C
contenuta nell'Allegato 2, sezione C, in base alla relativa qualità; detta classificazione però si limita
all'accertamento o meno della conformità delle acque ai parametri tabellari indicati, in quanto manca in
proposito una vera e propria scala di qualità, per modo che, una volta rilevata la non conformità ai
parametri qualitativi, e sempre che non si assista a deroghe per condizioni meteorologiche e geografiche
eccezionali (art. 16), le regioni devono attivare le misure appropriate.
Orbene, in relazione a questa classificazione delle acque in base alla specifica destinazione, il legislatore
ha disposto, all'art. 6, commi 2 e 3, il perseguimento degli specifici obiettivi di qualità indicati, per ogni
singola fattispecie, dall'Allegato 2 e dalle sue sezioni, eccezion fatta, come si è detto, per le acque di
balneazione.
Il miglioramento qualitativo delle acque con specifica destinazione funzionale viene affidato alle Regioni,
che escono dalla riforma come soggetti garanti in genere del miglioramento dell'ambiente idrico; alle
stesse viene conferito il compito di elaborare programmi destinati a confluire nel piano di tutela e
finalizzati specificamente al mantenimento o al miglioramento delle acque stesse.
Viene inoltre prevista dall'art. 4, comma 7, e ciè è curioso, la possibilità, per le Regioni, di individuare
destinazioni delle acque diverse da quelle già previste a livello nazionale, e di fissare correlati obiettivi di
qualità; tale facoltà, invero, apre non solo spazi interessanti a peculiari forme di tutela di acque
sottoposte ad utilizzi particolari, ma - così sembra - anche alla facoltà di stralciare, appunto in virtù di
questa facoltà di neoclassificazione, nuove categorie da quelle già esistenti, con un correlato potere di
modificazione, anche in peius, dei parametri prescritti.
Il che confliggerebbe con quanto prescritto dal successivo comma 7, che sembra lasciare alle Regioni solo
il potere di definire obiettivi di qualità ambientale più elevati, al di fuori delle ipotesi eccezionali e residuali
di cui all'art. 5, comma 5, di cui è già detto.
5. Obiettivi di qualità e piani di tutela.
Il piano di tutela è appunto lo strumento prescelto dal legislatore per costituire il punto di raccordo delle
conoscenze dello stato delle acque, della programmazione degli interventi di risanamento e della funzione
di prescrizione delle misure di tutela dei corpi idrici necessarie al perseguimento degli obiettivi di qualità
sopra descritti.
Di questo strumento di pianificazione vanno sottolineati in particolare due aspetti significativi: il primo
consiste nel fatto che il piano si sostituisce ad una pluralità di strumenti programmatori, ora soppressi
dalla riforma, il che evidenzia la centralità che il nuovo strumento di pianificazione e nel contempo di
prescrizione e tutela viene ad assumere; il secondo consiste nella pressoché esclusiva competenza
regionale alla sua predisposizione: se si eccettua infatti la verifica sui contenuti del piano - affidata
all'Autorità di bacino per quanto concerne la conformità dello stesso agli obiettivi e priorità degli interventi
che appunto la stessa Autorità di bacino stabilisce - l'integrale predisposizione del piano e la sua
approvazione sono di competenza regionale; ciò che sottolinea l'accentramento degli strumenti di
governo delle acque in capo agli enti locali.
I due aspetti ora evidenziati vanno dunque esaminati sotto la stessa luce, secondo la stessa chiave di
lettura, in quanto danno entrambi atto della mutata prospettiva con cui il legislatore ha normato il settore
della gestione delle risorse idriche, conformemente ai nuovi criteri di riparto delle competenze dettati
dalle c.d. leggi Bassanini.
In ossequio ai dettami del D.Lgs. 112/1998, in particolare, il nuovo testo sulle acque ha sì riservato allo
Stato le funzioni di rilievo nazionale (art. 3, comma 1) e disciplinato direttamente i settori di competenza
statale, specie per quanto concerne le norme tecniche in senso stretto, come si è visto, ma ha soprattutto
ampliato e valorizzato le competenze degli enti locali, facendo in sostanza della Regione l'ente
programmatore e pianficatore, della Provincia l'ente preposto alla gestione delle autorizzazioni e dei
controlli, del Comune l'ente competente alla gestione delle reti idrica e fognaria.
L'implementazione del ruolo regionale trova quindi, per tornare al piano di tutela delle acque, pieno
coronamento nell'attribuzione delle funzioni di elaborazione di tale strumento con valenza normativa/
pianificatoria ed amministrativa.
Soppressi il piano nazionale di risanamento delle acque (art. 79 del D.Lgs. 112/1998), il piano di
risanamento del mare adriatico, il piano degli interventi per la tutela della balneazione, il piano generale
di risanamento delle acque dolci superficiali destinate al consumo umano, allo Stato resta solo la
competenza ad adottare il piano d'azione nazionale, a definire le linee guida per l'elaborazione dei piani
regionali di tutela ( ex art. 80, comma 1, D.Lgs. 112/1998) e a definire il piano generale di difesa del
mare e della costa marina dall'inquinamento, mentre il piano di tutela regionale si eleva a strumento di
governo locale delle acque.
Per quanto riguarda nel dettaglio le finalità ed i contenuti del piano di tutela, essi sono appunto
individuati dall'art. 44 del D.Lgs. 152/2000, il quale prevede al riguardo, al comma 3, che il piano debba
contenere, oltre agli interventi volti ad assicurare il perseguimento delle finalità di tutela e risanamento
delle acque, anche e soprattutto le misure necessarie alla tutela qualitativa e quantitativa del sistema
idrico.
Ecco dunque esplicitato il legame tra obiettivi di qualità e piani di tutela, su cui ora è opportuno
soffermarsi un attimo.
L'esistenza della molteplicità dei parametri di riferimento in base ai quali viene operata la classificazione
delle acque sia per obiettivi di qualità ambientale che per obiettivi di destinazione funzionale, fa sì che si
debba necessariamente affrontare il problema della concorrenza e sovrapposizione degli obiettivi di
qualità ambientali con quelli di qualità per specifica destinazione, anche in vista dell'inclusione di tali
obiettivi all'interno dei piani di tutela delle acque di cui all'art. 44.
Sul punto il legislatore è intervenuto espressamente all'art. 4, comma 5, sancendo che qualora per un
corpo idrico siano designati obiettivi di qualità ambientale e per specifica destinazione che prevedano
parametri e valori limite diversi, debbano essere rispettati quelli più rigorosi.
Dal punto di vista programmatico, inoltre, il comma 6 dello stesso articolo dispone chiaramente che il
piano di tutela debba perseguire finalità elaborate in base al coordinamento degli obiettivi di qualità
ambientale con quelli per specifica destinazione.
Ciò premesso, per quanto attiene ai contenuti uniformi del piano di tutela, esso, così dispone l'art. 4,
comma 4, deve in ogni caso essere finalizzato al raggiungimento dello stato di qualità buono per i corpi
idrici significativi, entro il 31 dicembre 2016, e al mantenimento di quello elevato, ove già presente; deve
inoltre portare al raggiungimento, per le acque a specifica destinazione, dei rispettivi obiettivi di qualità
per specifica destinazione, sempre entro il 31 dicembre 2016.
La gradualità e progressività dell'impegno richiesto si evincono dalla previsione di una tappa intermedia
per il 31 dicembre 2008, data per la quale l'art. 5, comma 3, prescrive il raggiungimento almeno dello
standard qualitativo della sufficienza.
Questi requisiti, contenutistici e programmatori, del piano di tutela, vengono riproposti sia dall'art. 44,
comma 4, che prevede appunto che il piano individui (lett. b) e coordini (lett. d) gli obiettivi di qualità
ambientale e per specifica destinazione e che indichi la cadenza temporale degli interventi e delle relative
priorità (lett. e), sia infine dall'Allegato 4, che specifica appunto nel dettaglio i contenuti dei piani di tutela
delle acque.
In particolare, è evidente come il nuovo piano di tutela delle acque si differenzi notevolmente dal
previgente piano regionale di risanamento delle acque, a cui la legge 10 maggio 1976 n. 319 affidava
quasi esclusivamente il raggiungimento del rispetto dei limiti tabellari degli scarichi, mentre il nuovo
strumento sposta il proprio oggetto dalla mera prevenzione dell'inquinamento e dal risanamento in senso
stretto a finalità di raccolta ed elaborazione dati, conoscitivi e programmatici, in un approccio integrato al
ciclo delle acque che mira a disciplinare l'uso delle stesse, la relativa tutela quantitativa e qualitativa,
l'elaborazione delle misure dirette a garantire l'equilibrio del bilancio idrico (art. 22), il recepimento dei
programmi di miglioramento dell'ambiente idrico (art. 6, comma 3), infine i tradizionali contenuti di
regolamentazione della disciplina degli scarichi (art. 15, comma 7).
Certamente l'espresso conferimento, operato dal legislatore all'art. 44, comma 1, della natura di piano
stralcio funzionale di settore del piano di bacino, ai sensi dell'art. 17, comma 6- ter, della legge 18
maggio 1989, n. 183, comporta una sua pariordinazione rispetto al piano di bacino, ed una sua
sovraordinazione rispetto a tutta una pluralità di differenti strumenti di pianificazione, quali i piani
territoriali, i piani paesistici, i piani di gestione dei rifiuti, i piani generali di bonifica, che per parte della
dottrina (5) non collima con la tradizionale impostazione dei piani stralcio di settore del piano di bacino, di
competenza statale, ma che senza dubbio garantisce in modo rigoroso il perseguimento degli obiettivi di
tutela della risorsa idrica, tra le più importanti per la vita.
6. Altre forme di tutela qualitativa della risorsa idrica.
La riforma del sistema delle acque ha posto in luce, ed affiancato agli strumenti di tutela qualitativa delle
acque poc'anzi trattati, un'ulteriore forma di tutela qualitativa della risorsa idrica, legata ed associata ad
un particolare regime di protezione e disciplina delle aree contigue ai corpi idrici di riferimento.
Si assiste infatti, in proposito, nel D.Lgs. 152/1999, ad una specifica zonizzazione del territorio, con la
definizione di nuovi concetti e la riunificazione, in un solo testo, di queste nuove nozioni con altre, già in
uso, anch'esse rilevanti al fine di una più efficace tutela della qualità delle acque.
Il legislatore, infatti, procede alla delineazione delle c.d. aree sensibili, definite quali aree passibili di
fenomeni di inquinamento, eutrofizzazione o degradazione particolarmente significativi, da sottoporre
pertanto a particolari misure di risanamento o protezione dall'inquinamento.
L'individuazione di tali aree viene affidata alle Regioni, previo parere dell'autorità di bacino, fatta
eccezione per le aree individuate già direttamente nel nuovo testo quali aree sensibili: tra di esse il
legislatore statale ha annoverato le principali aree lagunari del versante adriatico, le zone umide soggette
a specifica tutela in base alla Convenzione di Ramsar, le aree costiere dell'Adriatico nord occidentale (art.
18, comma 2), i laghi posti ad un'altitudine sotto i 1.000 m sul livello del mare e con estensione di
almeno 0,3 km!, oltre ai corpi idrici dove si svolge attività di produzione ittica (Allegato 6).
Per quanto invece concerne la laguna di Venezia, la riforma ha puntualizzato la specialità delle relative
norme di tutela, che rimangono ferme e prevalenti, appunto in ragione di tale specialità, sulle norme del
D.Lgs. 152/2000 (6).
La diretta individuazione legislativa delle più importanti aree sensibili fa sì che di conseguenza l'Allegato 6
fornisca alle Regioni criteri per procedere solo all'individuazione di aree sensibili di minore rilevanza,
evidenziando lo scarso ruolo dell'ente locale, che si vede competente, in definitiva, solo a procedere alla
verifica periodica della classificazione e quindi alla reidentificazione delle aree sensibili stesse (art. 18,
comma 6).
Nelle aree definite come sensibili il D.Lgs. 152/1999 ha previsto l'adozione di un trattamento più spinto
delle acque reflue urbane che vi recapitino, con ciò mirando ad un più veloce recupero delle stesse, posto
che l'art. 18, comma 7, prevede che a tale risultato si pervenga entro sette anni.
Altro esempio di zonizzazione si registra con riferimento alle zone vulnerabili da nitrati di origine agricola
(art. 19), da prodotti fitosanitari (art. 20, comma 1), come pure alle zone vulnerabili da desertificazione
(art. 20, comma 2).
A tali specifiche aree è dedicato l'Allegato 7, il quale ha già proceduto direttamente alla prima
individuazione di tali zone, elaborata peraltro sulla scorta delle precedenti indicazioni consacrate da
provvedimenti regionali; quanto alla futura ulteriore individuazione di tali zone, alla competenza regionale
resta solo il potere di proporre l'aggiornamento dell'elenco delle zone vulnerabili e di procedere ai
successivi controlli finalizzati all'individuazione delle misure di contrasto della specifica fonte inquinante.
In relazione a questi specifici obiettivi di riqualificazione, restano confermati, quali strumenti pianificatori
di tutela e risanamento, da un lato i programmi d'azione obbligatori per la tutela ed il risanamento delle
acque dall'inquinamento causato da nitrati di fonte agricola, oltre ai codici di buon pratica agricola (art. 7,
commi 6 e 7, lett. a), dall'altro, per le zone vulnerabili da prodotti fitosanitari o da altre cause, le
specifiche misure previste nel piano d'azione nazionale già disciplinato dalla deliberazione CIPE del 22
dicembre 1998.
Sono dunque, questi ultimi, strumenti specifici di tutela che si affiancano al piano di tutela delle acque di
cui agli artt. 42-44, e che puntano alla risoluzione dell'effetto inquinante di specifici agenti eziologici tali
da richiedere un intervento più mirato.
Sempre all'ambito della zonizzazione è riconducibile l'inclusione, nel nuovo testo sulle acque, di quelle
definizioni prima contenute negli artt. da 4 a 7 del D.P.R. 24 maggio 1988 n. 236.
A tale inclusione, peraltro, si è giunti solo con il D.Lgs. 258/2000, che ha disposto, all'art. 5, l'inclusione
nell'art. 21 del D.Lgs. 152/1999 delle nuove definizioni, con conseguente abrogazione, prevista dall'art.
26 del D.Lgs. 258/2000, dei corrispondenti articoli del D.P.R. 236/1988.
Il D.Lgs. 152/2000, prima delle recenti modifiche, si limitava invece alla riformulazione di tali articoli del
D.P.R. 236/1999, che rimanevano così formalmente incastonati in quest'ultimo.
Senza dubbio la diretta trasfusione delle norme nel nuovo testo sulle acque rappresenta frutto di
un'ulteriore e rinnovata opera di coordinamento della materia delle acque, la quale rimane però
incompleta in quanto, come già detto, sarebbe stato a questo punto più razionale l'intero assorbimento
del D.P.R. 236/1988 all'interno di quella che vorrebbe essere legge di riforma organica della materia.
Viene così a far parte della zonizzazione a fini di tutela della risorsa idrica anche la nozione di aree di
salvaguardia delle risorse idriche destinate al consumo umano; queste ultime a loro volta sono suddivise
in zone di tutela assoluta - l'area immediatamente circostante le captazioni o derivazioni di acque - zone
di rispetto - circostanti la zona di tutela assoluta, oggetto di prescrizioni dirette alla tutela qualitativa e
quantitativa della risorsa e infine zone di protezione - bacini imbriferi e le aree di ricarica della falda - da
sottoporre a particolari prescrizioni e limitazioni quanto agli insediamenti consentiti.
All'Autorità d'ambito, soggetto che appartiene al quadro normativo della L. 36/94 in tema di gestione del
servizio idrico integrato, viene affidato il potere di proposta per l'individuazione in concreto delle aree di
salvaguardia delle risorse idriche destinate al consumo umano, cui procede poi la Regione (art. 21,
comma 1).
L'affiancamento dei due soggetti in tale attività di ricognizione ed individuazione discende dall'evidente
punto di contatto che si crea, in tale ipotesi, tra la disciplina della L. 36/1994 e quella del D.Lgs.
152/2000.
Pure in tale caso, pertanto, vale giocoforza quanto si è già detto circa la mancata integrazione delle due
normative in un unico testo. Il legislatore ha perso senz'altro una preziosa occasione di semplificazione
normativa.
Ciò comporta, in concreto, che per tali specifici obiettivi di tutela delle risorse idriche destinate al
consumo umano, restano fermi gli specifici obiettivi di qualità previsti dal D.P.R. 236/1988 ed in esso
tuttora contenuti, che prevedono, da un lato, concentrazioni massime ammissibili e prescrizioni
precettive, dall'altro una serie di semplici valori guida finalizzati alla predisposizione degli strumenti di
risanamento.
La specifica disciplina della tutela delle risorse idriche, sotto questo profilo, resta quindi tuttora racchiusa
nel D.P.R. 236/1988, nel quale sono pertanto previsti strumenti ad hoc di programmazione degli
interventi di risanamento e tutela, che si affiancano, anche in questo caso, al piano di tutela delle acque
previsto dal nuovo sistema, e che consistono appunto nei piani regionali di intervento per il risanamento
ed il miglioramento della qualità delle acque previsti dall'art. 9, lett. d) e art. 18, comma 3 del D.P.R.
236/1988; quanto ai concreti rapporti di preordinazione o sovraordinazione sussistenti tra gli strumenti di
tutela previgenti ed il nuovo piano di tutela della acque, la natura regionale dei piani di intervento sembra
renderli strettamente dipendenti, o in altre parole sottordinati, rispetto ai piani di tutela, cui il nuovo
legislatore ha conferito un peculiare rango di cui si è già detto.
Sembra infine potersi ricondurre al concetto di zonizzazione sopra espresso, ovvero alla nuova finalità del
legislatore di tutelare anche indirettamente la risorsa idrica mediante la tutela dell'area circostante alla
stessa, anche la nuova disciplina e tutela del cd. "demanio golenale" di cui alla legge 5 gennaio 1994, n.
37 (7), introdotta dall'art. 41 del D.Lgs. 152/1999, commi 3 e 4, il quale prevede che tali aree demaniali
vengano date in concessione preferenziale ai soggetti che si prefiggono lo scopo di destinare le stesse ad
interventi di recupero o ripristino ambientale.
Di tali aree, inoltre, la riforma, per evitare il rischio di un utilizzo delle stesse in pregiudizio sia
dell'equilibrio idrogeologico, sia della preservazione del corpo idrico che si realizza solo son la tutela delle
sponde e delle ripe, e ne vieta la sdemanializzazione.
Sempre riconducibile a questa tutela indiretta della risorsa idrica è la tutela delle aree di pertinenza dei
corpi idrici introdotta dall'art. 41, comma 1, finalizzato espressamente ad assicurare il mantenimento o il
ripristino della vegetazione spontanea nella fascia immediatamente adiacente i corpi idrici, con funzioni di
filtro per i solidi sospesi e gli inquinanti diffusi, di stabilizzazione delle sponde e di conservazione della
biodiversità, nella misura compatibile con il mantenimento della funzionalità dell'alveo.
A tal fine viene altresì espressamente vietata la copertura dei corsi d'acqua e la realizzazione di impianti
di smaltimento dei rifiuti in tali aree di pertinenza (8).
In questa stessa prospettiva deve essere letta pure la disposizione di cui all'art. 3, comma 6, del D.Lgs.
152/2000, che assegna ai consorzi di bonifica e di irrigazione il compito di concorrere alla realizzazione di
azioni di salvaguardia ambientale e di risanamento delle acque da perseguirsi anche mediante la
rinaturalizzazione dei corsi d'acqua e la fitodepurazione, in controtendenza con la forsennata attività di
cementificazione delle sponde portata avanti per anni da tali enti.
7. La tutela quantitativa della risorsa idrica: la regolamentazione degli usi idrici.
L'aspirazione del D.Lgs. 152/1999, e successive modificazioni, a porsi come fonte principale di disciplina
della tutela del ciclo delle acque emerge dall'analisi di tutte quelle disposizioni volte a disciplinare l'uso
della risorsa idrica ai fini del suo risparmio e, quindi, della sua tutela quantitativa.
Sotto questo profilo, pertanto, la nuova normativa si trova inevitabilmente ad incidere su tutta una serie
di disposizioni in cui si trovavano dispersi i segmenti della regolamentazione dell'uso delle acque: dal
consumo umano delle acque disciplinato dal D.P.R. 236/1988, agli usi produttivi delle risorse idriche di cui
alla legge 5 gennaio 1994, n. 36, al bilancio idrico di cui alla L. 183/1989.
L'art. 22 del nuovo testo normativo, posto nel Capo II del Titolo III, dedicato alla tutela quantitativa della
risorsa e al risparmio idrico, detta appunto disposizioni in materia di pianificazione del bilancio idrico.
Il bilancio idrico, in concreto definito dall'Autorità di bacino, si ricorda, è definito dall'art. 3, commi 1 e 2,
della L. 36/1994 come l'equilibrio tra la disponibilità di risorse reperibili o attivabili nell'area di riferimento
ed i fabbisogni per i diversi usi, da conseguire mediante misure di pianificazione dell'economia idrica in
funzione degli usi cui sono destinate le risorse (9).
La pianificazione del bilancio idrico trova sede elettiva nei piani di tutela, che devono contenere, al
riguardo, come prescrive l'art. 22, comma 2 del D.Lgs. 152/1999, misure idonee ad assicurare l'equilibrio
del bilancio idrico tenendo conto dei fabbisogni d'acqua, delle disponibilità della risorsa, del minimo
deflusso vitale (10), della capacità di ravvenamento della falda, e delle destinazioni d'uso compatibili con
le caratteristiche qualitative e quantitative del corpo idrico.
È noto, infatti, che la quantità di acqua presente nella falda consente anche il mantenimento od il più
agevole raggiungimento di obiettivi qualitativi, grazie al meccanismo della diluizione e
dell'autodepurazione.
È per tali motivi che la tutela quantitativa della risorsa viene valorizzata nella nuova normativa mediante
il conferimento alle Regioni, ad opera segnatamente delle modifiche apportate all'art. 22, comma 3,
dall'art. 6 del D.Lgs. 258/2000, del potere di definire, sulla base delle linee guida predette, gli obblighi di
installazione e manutenzione in regolare stato di funzionamento di idonei dispositivi per la misurazione
delle portate e dei volumi d'acqua pubblica derivati, sia in corrispondenza dei punti di captazione e
prelievo che in corrispondenza dei punti di restituzione, secondo modalità la cui regolamentazione viene
affidata alle Regioni.
Viene inoltre previsto l'obbligo di trasmettere i risultati di tali misurazioni all'ente che ha concesso la
derivazione, all'autorità di bacino e, per il tramite di quest'ultima, all'Anpa, per poi però ritornare alle
Regioni, sia in vista dell'adozione del piano regionale di tutela delle acque, sia in vista della
regolamentazione degli scarichi di acque reflue, che è appunto settore il cui controllo è affidato alle
Regioni ed alle Province.
Le linee guida per la predisposizione del bilancio idrico di bacino vengono fornite dal Ministro dei lavori
pubblici, cui l'art. 22, comma 4, affida tale compito previa concertazione con gli altri Ministri competenti e
quindi, ovviamente, con il Ministro dell'ambiente, oltre che previo parere della Conferenza Stato-Regioni;
sempre con tali modalità la nuova disciplina prevede che si proceda alla definizione del minimo deflusso
vitale, concetto chimerico che la legge 36/1994, all'art. 3, comma 3, definiva come livello di deflusso
necessario alla vita negli alvei sottesi e tale da non danneggiare gli equilibri degli ecosistemi interessati, e
che l'art. 3, comma 1, lett. i) della legge 18 maggio 1989 n. 183, già voleva assicurare prescrivendo il
perseguimento di una razionale utilizzazione delle risorse idriche superficiali e profonde, con una
efficiente rete idraulica, irrigua ed idrica, che garantisse comunque che l'insieme delle derivazioni non
pregiudicasse il minimo deflusso costante vitale negli alvei sottesi nonché la pulizia delle acque.
La garanzia della conservazione agli alvei del minimo deflusso vitale viene perseguita mediante la
previsione, da parte dell'art. 22, comma 6, di un generale censimento e di una conseguenziale revisione
di tutte le utilizzazioni esistenti al fine dell'introduzione di limiti temporali o quantitativi che appunto
assicurino ai corsi d'acqua oggetto di prelievo una portata minima vitale; dette limitazioni non generano
alcun diritto alla corresponsione di indennizzi, ma solo alla riduzione del canone demaniale di
concessione.
Oltre a questa revisione generale, il legislatore dispone, al comma 5, la regolamentazione di tutte le
derivazioni esistenti da parte dell'autorità concedente (11), mediante la previsione di rilasci che
garantiscano il deflusso minimo vitale.
Corollario logico di queste disposizioni è la modifica delle norme in tema di concessioni di derivazione
contenute nel R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775, il cui art. 17, già modificato dal D.Lgs. 152/1999, viene
ulteriormente rivisto dal D.Lgs. 258/2000 che prevede il divieto di derivazione o di utilizzo di acqua
pubblica in difetto di provvedimento autorizzatorio o concessorio, a pena della cessazione dell'utenza
abusiva e dell'irrogazione di sanzioni particolarmente elevate (12).
Anche l'art. 12- bis del R.D. 1775/1933 viene di conseguenza modificato dalla riforma; l'attuale testo
della norma subordina il rilascio del provvedimento di concessione alla verifica dell'assenza di pregiudizio
agli obiettivi di tutela qualitativa del corso d'acqua interessato, per cui si prevede un parere preventivo
dell'autorità di bacino sulla compatibilità con il piano di tutela delle acque (art. 23, comma 1, del D.Lgs.
152/1999), previo naturalmente l'accertamento della persistenza del minimo deflusso vitale.
Quanto all'ipotesi di più domande concorrenti, l'art. 9 del R.D. 1775/1933 viene sostituito dalle nuove
disposizioni che privilegiano il rilascio della concessione alla domanda che contempli la più razionale
utilizzazione delle risorse idriche, valutata in base ai criteri della condivisibilità della risorsa, della pluralità
dei relativi utilizzi e delle caratteristiche quali-quantitative dell'acqua restituita (art. 23, comma 2, del
D.Lgs. 152/1999).
La durata delle concessioni, disciplinata dall'art. 21 del R.D. 1775/1933, viene anch'essa riformata dalle
nuove disposizioni del D.Lgs. 152/1999 e successive modifiche, che ne sanciscono in primo luogo la
temporaneità, e quindi ne riportano ex lege la durata al tempo massimo di trent'anni, quaranta per gli usi
irrigui.
Il legislatore, in proposito, ha espressamente stabilito l'applicazione di questi nuovi termini di durata della
concessione anche ai provvedimenti di concessione già in atto, fatto salvo un particolare regime di
proroghe subordinate alla verifica dell'assenza di pregiudizio all'interesse pubblico.
Le modifiche delle procedure di concessione (13) di derivazione e della regolamentazione degli usi della
risorsa idrica, di notevole rilevanza ai fini dell'attuazione degli obiettivi di una tutela integrata dell'acqua,
pagano però lo scotto della persistenza di una pluralità di fonti di riferimento diverse cui l'operatore
giuridico deve tuttora fare riferimento: la maggior parte delle disposizioni in tema di usi idrici trova infatti
ancora oggi la propria sede principale all'interno della legge 36/94, che all'art. 2 disciplina gli usi delle
acque, definendo prioritario l'uso per il consumo umano e stabilendo che gli altri usi sono ammessi solo
quando la risorsa idrica è sufficiente e non leda la qualità dell'acqua per il consumo umano; è correlata a
tale disposizione, del resto, la nuova previsione dell'assenso del rilascio di concessione di derivazione ad
usi diversi da quello per il consumo umano solo in caso di ampia disponibilità della risorsa o di carenza
accertata di fonti alternative, posta dall'art. 23 del D.Lgs. 152/1999 che ha sostituito l'art. 12- bis,
comma 1, del R.D. 1775/1933.
Restano parimenti disciplinati dalla legge 36/1994, inoltre, gli usi produttivi delle risorse idriche, tra cui
gli usi delle acque irrigue e di bonifica (art. 27), gli usi agricoli delle acque (art. 28), gli usi delle acque
per fini industriali (art. 29), l'utilizzo delle acque ad uso idroelettrico.
Risulta ancora lasciata all'interno della legge 36/1994, e più precisamente nell'art. 5, anche se modificato
dal D.Lgs. 152/1999, la trattazione del risparmio idrico e delle nuove misure volte a favorire al riduzione
dei consumi e l'eliminazione degli sprechi.
La nuova formulazione dell'articolo affida espressamente alle Regioni il compito di dettare norme e misure
dirette a conseguire obiettivi di risparmio idrico mediante il miglioramento delle reti di distribuzione
(comma 1, lett. a), la realizzazione di reti duali di adduzione e collettamento per l'utilizzo anche delle
acque meno pregiate (comma 1, lett. b e comma e, nonché comma 1- bis), l'installazione di contatori per
ogni singola unità abitativa (comma 1, lett. d), e pone in capo ai gestori ed agli utenti in genere della
risorsa idrica l'obbligo di adottare le misure necessarie all'eliminazione degli sprechi ed alla riduzione dei
consumi, all'incremento del riciclo e del riutilizzo.
Specialmente per quanto attiene al riutilizzo, la nuova normativa sulle acque (art. 26) modifica l'art. 14
della legge 36/1994 disponendo una riduzione della tariffa per gli abusi industriali delle acque quando si
faccia utilizzo di acqua reflua o già usata, sostituisce l'art. 6 della stessa legge prevedendo che il
Ministero dell'ambiente definisca le norme tecniche per il riutilizzo delle acque reflue, mentre al Ministro
dei lavori pubblici, di concerto con gli altri Ministri competenti, viene affidata la definizione delle modalità
per l'applicazione della riduzione di canone prevista a favore di chi si avvale del riutilizzo.
Anche le misure di tutela quantitativa della risorsa, dunque, concorrono, unitamente a quelle di tutela
qualitativa della risorsa, a formare il contenuto del piano di tutela (art. 44, comma 4, lett. d), e quindi a
fornire in concreto i parametri dell'azione amministrativa, prima nella fase della pianificazione, e quindi
programmatoria, ed infine, a cascata, nella fase dell'esecuzione, affidata alle diverse autorità ed enti
competenti, nel rispetto del D.Lgs. 112/1998.
È interessante però notare che la tutela della risorsa sotto il profilo quantitativo viene anche affidata non
solo all'intervento pubblico autoritativo, ma anche alla concertazione e all'amministrazione paritetica e
financo all'iniziativa privata, come si evince dalla previsione dei numerosi incentivi economici stabiliti a
favore dei soggetti che riutilizzino, riciclino o comunque adottino azioni di risparmio idrico, nel settore
delle concessioni di derivazione, delle tariffe e via dicendo, come prevedono gli artt. 26 e 27 del D.Lgs.
152/1999 per quanto concerne il riutilizzo di acque reflue da parte delle utenze industriali, l' ex art. 18
della L. 36/1994 per ciò che riguarda la riduzione del canone in presenza di riuso di acque reflue a ciclo
chiuso, ed in tutte le altre ipotesi previste dall'art. 26 e dall'art. 28, comma 10, del D.Lgs. 152/1999, che
appunto dispone, in via generale, la facoltà per le amministrazioni di promuovere e stipulare accordi e
contratti di programma con i soggetti economici interessati, al fine di favorire tutta una serie di misure di
risparmio e riutilizzo della risorsa idrica; sempre all'amministrazione concertata vanno infine ricondotti gli
accordi di programma di cui all'art. 3, comma 6, finalizzati ad integrare l'azione dei consorzi di bonifica
con quella delle Regioni, delle Province e delle Autorità di bacino.
Sotto questo profilo, pertanto, viene lasciato un amplissimo spazio alla discrezionalità amministrativa
nell'ambito di questa programmazione o contrattazione negoziata, finalizzata, in ultima analisi, al
perseguimento di iniziative di risanamento della risorsa idrica (art. 3, comma 6 del D.Lgs. 152/1999), a
cui mirano tutte le incentivazioni del risparmio idrico e del riuso delle acque reflue.
Si tratta di un ulteriore esempio della sempre più crescente diffusione dell'agire amministrativo paritetico
e concertato con i privati nel settore ambientale, caratterizzato dalla maggiore efficacia di tale modulo
procedimentale, atto a valutare anche le effettive esigenze economiche e tecnologiche dei privati e del
mondo produttivo in genere, rispetto all'agire imperativo della P.A. (14).
E che la consapevolezza della necessità di contemperamento tra esigenze economiche e costi sostenibili,
da un lato, e migliore scienza e tecnologia disponibile, dall'altro, al fine della prescrizione degli interventi
necessari per la tutela della risorsa idrica, sia oramai dato acquisito dal legislatore, si evince anche dalla
valutazione di tutta una serie di correttivi in questo senso introdotti nelle varie norme del D.Lgs.
152/1999 dall'ultimo intervento correttivo portato dal D.Lgs. 258/2000.
P. BRAMBILLA-A. MAESTRONI, La tutela integrata delle acque: obiettivi di qualità, misure di risanamento e
regolamentazione degli usi idrici (La nuova disciplina sulle acque - D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152, e
successive modifiche), in Rivista Giuridica dell'Ambiente, Milano, Giuffrè, 2000, n. 6, pp. 883-905.
La nuova riforma in materia di tutela delle acque dall'inquinamento, portata dal D.Lgs. 152/1999 e dal
successivo D.Lgs. 258/2000, ha modificato parzialmente il precedente quadro normativo di riferimento,
non solo per quanto concerne la problematica dell'inquinamento in senso stretto, ma incidendo anche
sulla tutela dei corpi idrici in generale, nell'aspetto qualitativo e quantitativo, con conseguente modifica e
riformulazione di altre normative a latere.
Tale approccio integrato alla gestione della risorsa idrica, che emerge anche dalla differente
configurazione della pianificazione e programmazione degli interventi di tutela, non porta però,
sostengono gli Autori, come sarebbe naturale, alla riunificazione di tutte le norme in materia di acque in
un testo unico, il che accresce la complicazione normativa del settore e le difficoltà di coordinamento tra
le varie amministrazioni chiamate a concorrere alla tutela delle acque.
The new regulation introduced by D.Lgs. 152/1999 and D.Lgs. 258/2000 in the field of the protection of
waters from pollution, has deeply modified the previous legislation, non only for what concerns water
pollution, but especially with regard to the protection of all the waters, both in quality and in quantity
aspects, so that many other regulations have been modified from these laws.
This new approach to water management, carried out even from the different meaning of planning
introduced by the law, is not able, however, to gather all these issues inside the new law, in order to
reunify all the different and spread regulations, thus complicating the legal framework and creating
serious disincentives to the administrative co-operation, which is instead needed and prescribed by the
new law.
NOTE
(1) Per uno sguardo d'insieme alla normativa previgente si rimanda alla voce "Acqua", di TUMBIOLO, del
Codice dell'Ambiente, Giuffrè, 1999, a cura di S. NESPOR e A.L. DECESARIS, p. 365 con ampi riferimenti
bibliografici e giurisprudenziali.
(2) È tuttora valido lo scritto di A. CAPRIA, Direttive ambientali CEE e stato di attuazione in Italia, Milano,
1992, posto che le direttive trasfuse nel nuovo D.Lgs. 152/1999 sono risalenti al più tardi al 1991.
(3) A. CAPRIA, Acque destinate al consumo umano, in Quaderni della Rivista Giuridica dell'Ambiente,
1988, n. 1, p. 37; e sempre ivi: Acque idonee alla vita dei pesci, p. 53; Acque destinate alla
molluschicoltura, p. 56; Acque di balneazione, p. 60.
(4) Per l'aspetto più propriamente attinente alla tutela delle acque funzionale alla protezione della risorsa
ittica, cfr. P. BRAMBILLA, Pesca d'acqua dolce, in Codice dell'Ambiente, cit., p. 1021.
(5) In tal senso P. DELL'ANNO, La tutela delle acque dall'inquinamento, 1999, Maggioli, pp. 41-6.
(6) La tutela della laguna di Venezia è stata infatti definita quale obiettivo di preminente interesse
nazionale già dalla L. 16 aprile 1973, n. 171, che delegava il Governo ad emanare specifici criteri di
trattamento delle acque reflue e limiti di accettabilità degli scarichi in laguna. Facendo uso della delega il
Governo ha emanato il D.P.R. 20 settembre 1973, n. 962, con il quale sono stati definiti i limiti di
accettabilità dei contaminanti presenti negli scarichi recapitanti in laguna.
Solo vent'anni dopo, in seguito al drastico aumento dell'inquinamento lagunare, la L. 31 maggio 1995, n.
206, demandava ai Ministri dell'ambiente e dei lavori pubblici, previo parere della Regione Veneto, la
revisione dei limiti tabellari.
È così venuto alla luce il D.M. 23 aprile 1998, che ha dettato specifiche norme per l'area industriale di
Porto Marghera, fissando obiettivi di qualità delle acque da perseguire per il raggiungimento dell'equilibrio
tra la prosecuzione delle attività produttive in loco e gli altri usi delle acque lagunari; la Corte
Costituzionale, con la sentenza 54/2000, ha in proposito stabilito che la definizione delle migliori
tecnologie disponibili da imporre alle imprese in loco ed il rilascio delle autorizzazioni per la
ristrutturazione degli impianti spetti alla Regione Veneto e non già allo Stato, così giudicando illegittima
l'invasione ministeriale della sfera di competenza regionale.
Sono seguiti quindi il D.M. 16 dicembre 1998, il D.M. 9 febbraio 1999 ed il D.M. 26 maggio 1999, che
hanno revisionato i limiti tabellari degli inquinanti contenuti degli scarichi, in senso più restrittivo e
dettato, sia pure eccedendo i limiti della delega, i criteri per l'individuazione delle migliori tecnologie
disponibili.
Il D.M. 30 luglio 1999, infine, ha sostituito i limiti tabellari dell'originario D.P.R. 962/1973 introducendo
nuovi limiti per gli inquinanti, all'interno di una nuova tabella A, e nuovi metodi di campionamento,
prelievo ed analisi, all'interno dell'Allegato 5, pur affermando l'applicabilità dei principi generali in tema di
modalità di controllo del D.Lgs. 152/1999.
La normativa di fonte statale è infine integrata dall'Accordo di programma per la chimica, firmato dalle
imprese del polo produttivo e dalle autorità locali deputate alla gestione e protezione della laguna di
Venezia, ove i privati si sono assunti precisi impegni di bonifica e di miglioramento delle condizioni
ambientali dell'area di Porto Marghera, consacrati infine dal D.P.C.M. di recepimento del 12 febbraio 1999.
(7) Per un approfondimento del concetto vedi BOSCOLO, Commentario alle norme per la tutela ambientale
delle aree demaniali, dei fiumi, dei torrenti, dei laghi e delle altre acque pubbliche, in Commentario alle
disposizioni in materia di risorse idriche, a cura di POTOTSCHNIG e FERRARI, Cedam, 2000, pp. 359 ss.
(8) Dell'Anno, in proposito, ha sottolineato la pericolosità della norma, che potrebbe essere interpretata
come sostitutiva di quella disposizioni già precedentemente vigenti che vietavano la localizzazione di
impianti di smaltimento rifiuti nelle fasce già soggette a vincolo paesistico, rendendo così possibile la
localizzazione di siffatti impianti, una volta ottenuta l'autorizzazione paesistica, all'interno dei 150 metri
della fascia di rispetto, a condizione che essi non ricadano nella più ristretta area di pertinenza, di soli 10
metri. Così in La tutela delle acque dall'inquinamento, cit., p. 138.
(9) Sul punto, RAMAJOLI, Equilibrio del bilancio idrico, in Commentario alle disposizioni in materia di
risorse idriche, cit., pp. 41 ss.
(10) Sul punto, cfr. DAMIANI, La responsabilità della P.A. per danni derivanti dal mutamento del naturale
deflusso delle acque, in questa Rivista, 1995, p. 478; LIPARI, Alterazione del deflusso naturale di acque e
risarcimento del danno, in Giur. agr., 1987, p. 486.
(11) Ora la competenza al rilascio delle derivazioni è stata attribuita alle Regioni dall'art. 89, comma 1,
lett. i), del D.Lgs. 112/1998.
(12) Solo in casi eccezionali, in ipotesi di particolare tenuità, ed ove non sia pregiudicato l'interesse
pubblico generale ed il buon regime delle acque, può essere consentita in via provvisoria la continuazione
della captazione, come disposto dall'art. 7, lett. b), del D.Lgs. 258/2000, di modifica dell'art. 17 del R.D.
1775/1933.
(13) Sul punto, nell'ambito del quadro normativo previgente, URBANI, Bilancio idrico, concessioni di
derivazione di acqua pubblica e ruolo delle autorità di bacino. In questa Rivista, 1997, p. 843.
(14) Cfr. BRAMBILLA- MAESTRONI, Accordi e contratti di programma in campo ambientale, in Quaderni della
Rivista Giuridica dell'Ambiente, Giuffrè, 1997, n. 9, pp. 75 ss.
Archivio selezionato: Dottrina
Scarichi di acque reflue: nuove definizioni
Riv. giur. ambiente 2000, 06, 919
Ada Lucia De Cesaris
1. Scarico diretto e indiretto. - 2. Le acque reflue. - 3. Le acque meteoriche e di prima pioggia. - 4. Acque
di scarico; gli scarichi da autorizzare e gli scarichi esistenti.
1. Scarico diretto e indiretto.
L'art. 2 del decreto legislativo n. 152 (1) è interamente dedicato alle definizioni: trentaquattro "nozioni"
che dovrebbero consentire una lettura corretta e una applicazione uniforme della normativa.
Nel lungo elenco troviamo sia nozioni tecnico-scientifiche sia definizioni di carattere giuridico, tra tutte un
ruolo principale riveste la definizione di scarico.
L'art. 2, lettere bb) del D.Lgs. n. 152 definisce "scarico": "qual-siasi immissione diretta tramite condotta
di acque reflue liquide, semiliquide convogliabili nelle acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete
fognaria indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di
depurazione. Sono esclusi i rilasci d'acqua previsti all'art. 40".
Una definizione complessa che prevede la concomitanza di diversi requisiti:
a) immissioni, dirette tramite condotta, di acque reflue liquide, semiliquide e comunque convogliabili;
b) immissioni convogliabili in acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria.
A ciò si deve aggiungere che:
c) non rileva la natura inquinante delle immissioni e se queste siano o meno sottoposte a preventivo
trattamento di depurazione;
d) sono esclusi i rilasci d'acqua utilizzati per la produzione idroelettrica, per scopi irrigui e impianti di
potabilizzazione, nonché delle acque derivanti da sondaggi o perforazioni diversi da quelli relativi alla
ricerca ed estrazione di idrocarburi.
Le caratteristiche di cui alle lettere a) e b) introducono importanti elementi di novità rispetto a quanto
previsto dalla legge 319/1976 (legge Merli). Questa aveva infatti per oggetto: "la disciplina degli scarichi
di qualsiasi tipo, pubblici e privati, diretti e indiretti, in tutte le acque superficiali e sotterranee, interne e
marine, sia pubbliche che private, nonché in fognature sul suolo e sul sottosuolo". (art. 1, lettera a) (2).
È evidente l'eliminazione, da parte della nuova normativa, del riferimento agli scarichi indiretti. L'art. 2,
lettera bb), si riferisce esclusivamente alle immissioni dirette tramite condotta e comunque convogliabili;
si riferisce quindi, volendo utilizzare quanto elaborato dalla dottrina e dalla giurisprudenza prima
dell'entrata in vigore del D.Lgs. n. 152, a quelle immissioni che vengono inviate dal luogo di produzione
sino al loro effettivo sversamento nel corpo ricettore, tramite condotta (tubatura, fognatura: tutte quelle
opere che possano farsi rientrare nella nozione di condotta).
La definizione richiede peraltro che tali immissioni siano dirette e convogliabili e cioè che abbiano
particolari caratteristiche di fluidità, al fine di poter scorrere sino al corpo ricettore.
In presenza di tutti i requisiti, secondo la nuova normativa, lo scarico è diretto anche se recapita in
pubblica fognatura, contrariamente a quanto più volte in passato ha ritenuto la giurisprudenza, che
inquadrava questa ipotesi nella tipologia degli scarichi indiretti. Ai sensi della nuova definizione la
tipologia del corpo ricettore non è significativa nella determinazione della natura dello scarico, la
caratterizzazione è data esclusivamente dall'invio di acque reflue liquide e semiliquide tramite condotta,
senza soluzione di continuità, nel corpo ricettore.
Degli scarichi indiretti il D.Lgs. n. 152 non fornisce alcuna definizione, ciò trova giustificazione nel fatto
che, come abbiamo già detto e come vedremo più avanti, la nuova normativa non disciplina questa
tipologia di scarichi (3).
Sulla base della definizione di scarico diretto si può tuttavia concludere che è indiretto lo scarico che non
viene inviato direttamente tramite condotta nel corpo ricettore.
Non è cosa semplice stabilire quando l'immissione è diretta e continua; peraltro, la individuazione delle
ipotesi in cui si ravvisa uno scarico indiretto è rilevante se si tiene conto delle conseguenze normative: lo
scarico diretto è infatti soggetto al D.Lgs. n. 152, mentre per le ipotesi di scarico indiretto interviene la
normativa sui rifiuti.
Un punto di equilibrio potrebbe essere ravvisato nell'equiparazione che abbiamo effettuato tra
"immissione diretta" e "immissione continua".
Si pensi ad esempio ad un percorso nel quale le acque reflue dal luogo di produzione sono prima sversate
in vasche e poi immesse in condotta, oppure al caso di una immissione che, per esigenze di depurazione,
passi per vasche di decantazione o di mero contenimento e poi, anche periodicamente, reimmessa in
condotta, in ambedue i casi lo scarico viene inviato nel corpo ricettore tramite condotta senza mutamenti
di tipo soggettivo (con riferimento alla produzione dello scarico).
La sussistenza della continuità, a nostro avviso, non deve essere valutata astrattamente. Il percorso di
una immissione può essere più o meno complesso, prevedere diverse fasi, ma se il suo tragitto è
comunque tramite condotta e in questo percorso non muta il collegamento con la sua origine lo scarico
deve considerarsi diretto. Il collegamento si spezza con il prodursi di un evento che comporta una vera e
propria interruzione tra il momento di produzione originale dello scarico e la sua immissione nel corpo
ricettore, evento quindi che muta le modalità di invio dell'acqua reflua all'impianto di smaltimento in
alcuni casi intervenendo anche sull'elemento soggettivo, mutando la titolarità dello scarico e quindi la
conseguente responsabilità della gestione.
In questa direzione assume rilievo il contenuto di un'altra norma del D.Lgs. n. 152, l'art. 36, che al 7°
comma prevede che il produttore di rifiuti e il trasportatore di rifiuti costituiti da acque reflue devono
"rispettare la normativa in materia di rifiuti di cui decreto legislativo del 5 febbraio 1997, n. 22, e
successive modifiche e integrazioni". Questa prescrizione concerne due ipotesi: una relativa al caso del
produttore, che invece di inviare in condotta le proprie acque reflue le raccoglie e le trasporta sino ad un
impianto di depurazione e/o smaltimento; l'altra relativa al caso in cui il produttore dello scarico consegna
le proprie acque reflue a un altro soggetto, il trasportatore, che trasporta "rifiuti costituiti da acque
reflue". Nella prima ipotesi è evidente che viene meno il trasferimento della immissione tramite condotta;
nella seconda non solo non vi è invio tramite condotta ma subisce una variazione anche l'elemento
soggettivo, in quanto la titolarità dell'acqua reflua viene trasferita dal produttore ad un terzo. In ambedue
i casi dunque vengono meno gli elementi necessari per lo scarico diretto, configurandosi così uno scarico
indiretto, o meglio, ai sensi della nuova normativa, un rifiuto liquido, da gestire come un vero e proprio
rifiuto.
2. Le acque reflue.
Si è già detto che l'art. 2 lettera bb) definisce lo scarico come qualsiasi immissione diretta tramite
condotta di acqua reflua liquida o semiliquida; l'immissione per realizzare uno scarico deve dunque essere
costituita da acque reflue. L'art. 2 prevede tre tipologie di acque reflue: " domestiche", " industriali" e "
urbane", definite alle lettere g), h) e i) della medesima norma.
Le prime, le acque reflue domestiche sono le acque reflue provenienti da insediamenti di tipo residenziale
e da servizi e derivanti prevalentemente dal metabolismo umano e da attività domestiche. Le seconde, le
acque reflue industriali, sono quelle scaricate da edifici o installazioni in cui si svolgono attività
commerciali o di produzione di beni, diverse dalle acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di
dilavamento. Infine, sono acque reflue urbane "le acque reflue domestiche" oppure il "miscuglio di acque
reflue domestiche, di acque reflue industriali ovvero meteoriche di dilavamento convogliate in reti
fognarie anche separate, e provenienti da agglomerato".
Di rilievo innanzitutto l'inserimento della nuova nozione di acque reflue domestiche, nozione più
restrittiva di quella concernente gli scarichi civili di cui alla precedente legge Merli.
Il D.Lgs. n. 152 ha confermato il principio della assimilazione alle acque reflue domestiche di quelle acque
reflue che presentano caratteristiche qualitative equivalenti; le acque reflue assimilate sono soggette alla
disciplina prevista per le acque reflue domestiche.
La norma introduce quattro ipotesi in cui l'assimilazione è certa, salvo diversa disciplina regionale, ipotesi
per le quali non è necessaria una verifica delle caratteristiche del refluo purché vi siano presenti le
condizioni di cui alle lettere a), b), c), d) e e) previste dal 7° comma dell'art. 28.
La nozione di acque reflue industriali è costituita in parte dalla provenienza della immissione e in parte
dalla verifica delle sue caratteristiche qualitative. La definizione prevede infatti che l'immissione provenga
da una attività commerciale o di produzione di beni e che non sia assimilabile qualitativamente all'acqua
reflua domestica e sia comunque diversa dalle acque meteoriche di dilavamento.
La nozione di acque reflue industriali è stata modificata dal recente D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 258, le
novità concernono l'aggiunta accanto a "scaricate da edifici" di "o installazioni" e la sostituzione della
espressione "attività commerciali o industriali" in "attività commerciali o di produzione di beni".
L'inserimento della espressione "installazioni" comporta l'estensione della applicazione della normativa a
tutte quelle attività commerciali o di produzione di beni che non si svolgono necessariamente nell'ambito
di un edificio e che quindi possano avere carattere temporaneo o essere costituite esclusivamente da
impianti che operano all'esterno. Di più difficile interpretazione pare invece la sostituzione di "attività
industriali" con "produzione di beni". Sicuramente la prima rischiava di riavviare la nota querelle sulla
definizione di attività industriale, con il risultato di passare da interpretazioni eccessivamente restrittive
ad interpretazioni che estendono la nozione ad ogni attività svolta in modo organizzato; tuttavia la
sostituzione con"produzione di beni" non pare risolutiva, vi sono infatti molte attività che certamente non
producono beni ma che comunque producono scarichi con caratteristiche proprie di quelli industriali, basti
pensare ad esempio ad alcune attività di smaltimento. Queste ultime non costituiscono attività
commerciali né, ancor meno, possono ritenersi produttrici di beni e con ciò quindi dovrebbero ritenersi
escluse dalla disciplina che regola le acque reflue industriali.
È vero peraltro che per la individuazione delle acque reflue industriali non è sufficiente verificarne la
provenienza, si richiede infatti che ne vengano valutate anche le caratteristiche qualitative e che quindi
venga verificata l'esistenza di quelle sostanze necessarie per stabilirne la natura di acque reflue
industriali.
C'è da chiedersi a questo punto se la provenienza dell'acqua reflua e la sua qualità debbano ritenersi
elementi di eguale rilievo. Sulla base delle osservazioni fatte sino ad ora in realtà pare che l'elemento
determinante sia rappresentato dall'aspetto qualitativo, solo questo infatti permette di accertare se
veramente l'immissione sia caratterizzata da particolari sostanze inquinanti, quali quelle di cui agli allegati
alla legge. Questa interpretazione si concilia peraltro con la necessità di verificare preventivamente
l'eventuale assimilabilità dello scarico alle acque reflue domestiche e di accertare che non si tratta di
acque meteoriche.
La prevalenza nella definizione dell'aspetto qualitativo pare trovare consenso anche nella giurisprudenza,
secondo la quale la provenienza dello scarico rappresenta un fattore di attenzione, ma l'elemento
determinante per stabilire la reale natura di ogni refluo rimane la caratterizzazione qualitativa dello
scarico, infatti persino acque reflue che per provenienza dovrebbero ritenersi domestiche, sulla base delle
loro caratteristiche possono essere equiparate ad acque reflue industriali (4).
La terza definizione è quella di acque reflue urbane che concerne le acque reflue che provengono da
"agglomerato" (5) e vengono convogliate in "reti fognarie" (6).
Con la modifica apportata dal D.Lgs. n. 258 pare non esservi più alcun dubbio sul fatto che questa
nozione vada riferita alle immissioni che vengono convogliate in rete fognaria (e cioè il sistema di
condotte per la raccolta e il convogliamento delle acque reflue urbane). Sono infatti questi gli scarichi
che, raccogliendo le acque reflue di un agglomerato, possono essere costituiti o da sole acque reflue
domestiche oppure dal miscuglio di acque reflue domestiche, acque reflue industriali o meteoriche di
dilavamento.
3. Le acque meteoriche e di prima pioggia.
Nella definizione di acque reflue industriali e in quella di acque reflue urbane troviamo il riferimento alle
acque meteoriche di dilavamento; per queste la normativa non reca alcuna definizione e non le include
tra le acque "reflue ".
Le acque meteoriche di dilavamento rappresentano infatti la conseguenza di un fenomeno naturale e solo
in alcuni casi, in relazione al luogo dove si riversano e alle modalità con cui vengono raccolte, possono
divenire fattore di attenzione.
Le normative regionali e la prassi ci fanno identificare le acque meteoriche di dilavamento con le acque
piovane che dilavano le superfici. In alcuni casi queste acque vengono raccolte e inviate nella rete
fognaria, in altri casi vengono lasciate disperdersi sul suolo e nel sottosuolo. Nella prima ipotesi, quella in
cui vengono convogliate nella rete fognaria, si mischiano con le acque reflue domestiche e/o industriali e
con queste concorrono a formare ai sensi della nuova normativa, le acque reflue urbane.
Dalle acque meteoriche di dilavamento si ricava poi la nozione delle acque di prima pioggia.
Queste rappresentano quella parte di acque meteoriche che, cadendo all'inizio, vengono per prime a
contatto con superfici sulle quali è probabile che si siano depositate sostanze inquinanti, che vengono così
a contaminarle; ecco perché in alcuni casi, quando le acque meteoriche di dilavamento sono inviate in
condotta, può essere necessario "munire la rete di dispositivi per la raccolta e la separazione delle acque
di prima pioggia".
Alla disciplina delle acque meteoriche di dilavamento e alle acque di prima pioggia è interamente dedicato
l'art. 39, norma sostanzialmente modificata dal recente D.Lgs. n. 258.
Innanzitutto, per le acque meteoriche (che da quanto si è detto comprendono anche le acque di prima
pioggia, almeno sino al momento in cui queste non vengono separate) è stabilito il divieto di scarico o
immissione diretta nelle acque sotterranee: non sarà dunque più possibile incanalarle, per poi farle
disperdere nel sottosuolo. Mentre, ai sensi dell'art. 29, 1° comma lett. e), è consentito lo scarico sul
suolo e sugli strati superficiali del sottosuolo delle acque meteoriche convogliate in reti separate
("fognature separate", cioè quelle reti che ai sensi dell'art. 2, lett. aa-bis) sono costituite da due condotte
e una di queste canalizza solo acque meteoriche di dilavamento e può essere più o meno dotata di un
sistema di separazione delle acque di prima pioggia).
Si rinvia poi alla regolamentazione regionale per:
a) la previsione di eventuali forme di controllo degli scarichi di acque meteoriche nelle ipotesi in cui
queste provengano da reti fognarie separate;
b) l'introduzione di una eventuale autorizzazione per il loro scarico finale;
c) la determinazione dei casi in cui può essere richiesto il convogliamento e la separazione delle acque di
prima pioggia e quindi un eventuale trattamento di queste ultime in impianti di depurazione.
Fuori dalle ipotesi regolate dall'art. 39 e dalla normativa regionale lo scarico di acque meteoriche non è
soggetto alla normativa del D.Lgs. n. 152.
4. Acque di scarico; gli scarichi da autorizzare e gli scarichi esistenti.
La definizione di acque di scarico: "tutte le acque reflue provenienti da uno scarico", non aggiunge nulla a
quanto già detto per la nozione di scarico. Il riferimento dovrebbe riguardare il momento finale dello
scarico, ma l'obiettivo di questa ulteriore definizione sfugge all'interprete. Infatti dalla definizione di
scarico si evince già che questo è composto da una immissione di acqua reflua diretta convogliabile
tramite condotta, quindi ripetere che le acque che fuoriescono da uno scarico sono le acque reflue pare
assolutamente superfluo. Si tenga peraltro conto che la normativa, e in particolare quella concernente le
autorizzazioni, si riferisce prevalentemente agli scarichi e non invece alle acque di scarico.
In proposito una volta individuata la nuova definizione di scarico e quindi tutti gli elementi che ai sensi
della nuova normativa la caratterizzano, così come si è tentato di fare nel paragrafo a) del presente
scritto, è importante metterla in relazione con il principio sancito dal 1° comma dell'art. 45 del D.Lgs. n.
152, secondo il quale "tutti gli scarichi devono essere preventivamente autorizzati". La perentorietà della
dichiarazione non deve far dimenticare che gli scarichi a cui si fa riferimento sono comunque solo quelli di
cui alla definizione dell'art. 2, lett. bb) e che le immissioni prive delle caratteristiche indicate dalla norma
2, non possono ritenersi scarichi diretti e quindi non sono assoggettate alla disciplina prevista per questi.
Infine, va valutata positivamente la scelta operata con il D.Lgs. n. 258 di inserire tra le definizioni anche
quella di scarico esistente (si deve ricordare che nel testo del D.Lgs. n. 152, questa nozione era possibile
ricavarla soltanto attraverso la lettura degli allegati). Definizione di rilievo se si considera che l'esistenza
dello scarico rappresenta la condizione per poter usufruire di un periodo transitorio per l'adeguamento
alla nuova normativa. Con riferimento però agli scarichi di acque reflue industriali non è tuttavia del tutto
condivisibile la scelta di considerare esistenti solo quelli che alla data del 13 giugno 1999 risultavano in
esercizio e già autorizzati. La disposizione infatti rischia di penalizzare coloro i quali si trovavano, alla data
stabilita, ormai alla fine dell' iter procedimentale di autorizzazione, mancando ormai solo l'emissione
formale del provvedimento (che in alcuni casi può aver ritardato anche per negligenza
dell'amministrazione). L'interpretazione letterale della norma per questi richiede che tutto venga rimesso
in discussione con la conseguenza, in molti casi, di dover rinviare l'avvio dell'attività. Più complesso poi è
il problema di tutti coloro che si trovavano in possesso delle autorizzazioni c.d. provvisorie, che
nonostante le previsioni normative le autorità amministrative alla data suddetta non avevano ancora reso
definitive.
A.L. DECESARIS, Scarichi di acque reflue: nuove definizioni, in Rivista Giuridica dell'Ambiente (La nuova
disciplina sulle acque - D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152, e successive modifiche), Milano, Giuffrè, 2000, n.
6, pp. 919-927.
L'articolo prende in considerazione l'art. 2 del D.Lgs. 152/1999 dedicato interamente alle definizioni,
intendendo così fornire una lettura corretta e una applicazione uniforme della normativa.
In particolare l'Autrice si sofferma a considerare la complessa nozione di "scarico" che contiene importanti
elementi di novità rispetto a quanto previsto dalla legge 319/1976 (legge Merli), analizzando
specificamente cosa la normativa preveda per scarichi diretti e indiretti, per acque reflue, per le acque
meteoriche e di prima pioggia.
This paper takes into consideration art. 2 of D.Lgs. 152/1999, totally dedicated to the definition with the
aim of providing a correct reading and a uniform implementation of the regulations.
Specifically the Author considers the complex notion of "dumping", which contains important innovations
compared with the content of Act 319/1976 (legge Merli), examining in particular what the regulations
provide for direct and indirect dumping, for wastewater, for meteoric and first rain water.
NOTE
(1) Per un commento articolo per articolo del D.Lgs. 152/1999 (prima della modifica apportata dal D.Lgs.
18 agosto 2000, n. 258) si veda in particolare L. BUTTI e S. GRASSI, Le nuove norme sull'inquinamento
idrico, in Il sole 24 ore, 1999; G. COCCO (a cura di), La tutela delle acque dopo il D.Lgs. n. 152 del 1999,
G. Giappichelli, 2000; P. DELL'ANNO, La tutela delle acque dell'inquinamento, Maggioli. 1999. In particolare
poi sulla nuova nozione di scarico si veda P. FIMIANI, Acque, rifiuti e tutela penale, Giuffrè, 2000.
(2) Per un commento della legge 319/1976, e in particolare sulla nozione di scarico introdotta da questa
legge, si veda per tutti G. AMENDOLA, La tutela dell'inquinamento idrico, Giuffrè, 1993, nonché il
commento a cura di M. SANNA alla legge 319/1976 nel Codice dell'Ambiente, in la Tribuna, 1999.
(3) Per una interessante ricostruzione delle pronunce della Corte di Giustizia sugli scarichi indiretti si
veda: Lo scarico indiretto nella giurisprudenza CE e il nuovo regime italiano delle acque, con commento di
L. PRATI, in Ambiente 3/2000.
(4) È di interesse la recente sentenza della Cassazione penale, Sez. III, 17 marzo 2000, secondo la quale
la qualificazione di "insediamento produttivo" non può essere esclusa soltanto perché il refluo non
proviene da una attività di produzione di beni in senso stretto, ma deve essere affermata anche per
quelle ipotesi di prestazione di servizi quando lo scarico per le sue caratteristiche qualitative non sia
assimilabile a quello connesso alle acque reflue domestiche.
(5) L'art. 2 lett. m) del D.Lgs. n. 152, modificato dal D.Lgs. n. 258 definisce "agglomerato" l'"area in cui
la popolazione ovvero le attività economiche sono sufficientemente concentrate così da rendere possibile,
e cioè tecnicamente ed economicamente realizzabile anche in rapporto ai benefici ambientali conseguibili,
la raccolta e il convogliamento delle acque reflue urbane verso un sistema di trattamento di acque reflue
urbane o verso un punto di scarico finale".
(6) L'art. 2 lett. aa) definisce "rete fognaria": "il sistema di condotta per la raccolta e il convogliamento
delle acque reflue urbane".
Archivio selezionato: Dottrina
Acque reflue urbane: "standard" e autorizzazioni
Riv. giur. ambiente 2000, 06, 929
Luca Prati
1. Le "acque reflue urbane" nel D.Lgs. 152/1999. - 2. L'adeguamento delle reti fognarie esistenti. - 3. Il
trattamento degli scarichi di acque reflue urbane. - 4. Il trattamento dei rifiuti liquidi delle acque reflue
urbane. - 5. I limiti di accettabilità delle acque reflue urbane. - 6. Campionamenti e controlli. - 7. Le
autorizzazioni allo scarico delle acque reflue urbane.
1. Le "acque reflue urbane" nel D.Lgs. 152/1999.
La definizione di "acque reflue urbane" esprime un concetto relativamente nuovo, ripreso dalla normativa
comunitaria ed introdotto nella normativa nazionale dal D.Lgs. 152/1999. Per individuare l'esatto campo
di applicazione del regime relativo alle acque reflue urbane, rispetto alle altre "acque reflue"
regolamentate dal decreto in questione, occorre preliminarmente rifarsi all'art. 2 del D.Lgs. 152/1999, il
quale riporta, dopo l'intervenuta novella introdotta con il D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 258, le seguenti
definizioni:
- " acque reflue domestiche": acque reflue provenienti da insediamenti di tipo residenziale e da servizi e
derivanti prevalentemente dal metabolismo umano e da attività domestiche;
- " acque reflue industriali": qualsiasi tipo di acque reflue scaricate da edifici o installazioni in cui si
svolgono attività commerciali o di produzione di beni, diverse dalle acque reflue domestiche e dalle acque
meteoriche di dilavamento;
- " acque reflue urbane": acque reflue domestiche o il miscuglio di acque reflue domestiche, di acque
reflue industriali, ovvero meteoriche di dilavamento convogliate in reti fognarie, anche separate, e
provenienti da agglomerato.
In prima battuta le acque reflue urbane, la cui definizione ricalca quella della direttiva 91/271, si
contrappongono quindi alle acque reflue industriali, potendo le prime essere costituite 1) o da sole acque
reflue domestiche, 2) o dal mix di acque reflue domestiche con acque industriali o di dilavamento, con la
condizione, aggiunta dalla novella del D.Lgs. 258/2000, del fatto di dover prevenire da un agglomerato
(così come ridefinito dalla successiva lettera l). Non è però ancora del tutto chiaro, a livello concettuale, il
rapporto delle "acque reflue urbane" con le "acque reflue domestiche", dato che queste ultime
sembrerebbero in parte coincidere con le "acque reflue urbane", quando provengano da agglomerato.
Il rapporto tra le tre diverse nozioni di acque domestiche, industriali e urbane riveste comunque
importanza fondamentale, stante la differenza di regime normativo che si accompagna alle tre differenti
tipologie di acque.
Il D.Lgs. 152/1999, per distinguere tra le suddette categorie di acque, sembra comunque voler superare
la tradizionale distinzione operata esclusivamente sulla base della provenienza degli scarichi da
insediamento produttivo piuttosto che civile, abbandonando le corrispondenti definizioni contenute nella
legge Merli e puntando invece l'attenzione sulla tipologia oggettiva delle acque.
Detto superamento è però solo parziale, in quanto permane pur sempre il riferimento alle acque "
provenienti da insediamenti di tipo residenziale e da servizi", contrapposte a quelle "scaricate da edifici o
installazioni in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni" (queste ultime, prima della
novella, semplicemente definite industriali).
L'art. 28 novellato prevede al comma 7, lett. e, che, ai fini della disciplina degli scarichi e delle
autorizzazioni, sono assimilate alle acque reflue domestiche quelle aventi caratteristiche qualitative
equivalenti a quelle domestiche e indicate dalla normativa regionale. Sono perciò assimilate alle acque
reflue domestiche quelle che presentano le medesime caratteristiche di qualità, pur provenendo da
attività produttive, sia industriali che artigianali o commerciali, ma, e questa è la novità introdotta dal
D.Lgs. 258/2000, purché preventivamente individuate dalla normativa regionale.
La nuova normativa mantiene inoltre l'assimilabilità agli scarichi di acque reflue domestiche degli scarichi
derivanti da aziende agricole, in precedenza individuate tramite la nozione offerta a suo tempo dalla L.
690/72 e dalla delibera 8 maggio 1980 del Comitato interministeriale per la tutela delle acque
dall'inquinamento, e per le quali occorre ora far riferimento all'art. 28, comma 7, che le individua anche
tramite l'impiego di parametri qualitativi e quantitativi.
Nel caso quindi l'esercizio dell'attività agricola, come definita dall'art. 28 comma 7, dia luogo a scarico
diretto (come definito all'art. 2 del D.Lgs. 152/1999) si applicano il regime autorizzativo ed i limiti di
emissione stabiliti ai sensi dell'articolo 28 per le acque reflue domestiche.
Delle definizioni contenute nell'art. 2 e del criterio di assimilabilità si deve tenere conto per determinare
quando il regime applicabile attenga a quello delle acque reflue urbane miste piuttosto che a quello delle
acque industriali.
Anche dopo la novella, in virtù delle suddette definizioni, sembrerebbe che ci si trovi in presenza di uno
scarico di acque reflue urbane piuttosto che di acque reflue industriali anche quando tutte le acque che
concorrano a formare detto scarico provengano da insediamenti produttivi, quando anche solo alcune di
dette acque reflue siano assimilabili a quelle domestiche, con la condizione che dette acque provengano
da "agglomerato".
Ciò in particolare avverrà quando si vengano a mescolare - eventualmente in aggiunta ad acque
industriali in senso stretto - acque provenienti da aziende agricole, come definite dall'art. 28, comma 7,
ovvero acque provenienti da attività produttive o commerciali che tuttavia presentino i caratteri
dell'assimilabilità alle acque reflue domestiche in virtù delle caratteristiche qualitative possedute e dalla
conseguente assimilazione operata dalla Regione.
La definizione di acque reflue urbane come mix di acque domestiche ed industriali prescinde inoltre da
ogni parametro quantitativo; anche quindi nel caso in cui l'apporto di acque reflue industriali appaia
preponderante sotto il profilo quantitativo in rapporto ai reflui domestici che confluiscono nello scarico, il
tenore letterale della definizione legale porta a ritenere che debba restare interamente applicabile il
regime relativo alle acque reflue urbane, quando dette acque provengano da agglomerato.
Tuttavia, l'allegato 5 del decreto n. 152/1999, al paragrafo 1.1., mantiene una distinzione tra gli scarichi
di acque reflue urbane domestiche da quelli di acque reflue miste (e cioè che raccolgano anche scarichi di
insediamenti industriali) stabilendo che nel secondo caso devono essere rispettati i limiti di tabella 3,
ovvero quelli stabiliti dalle Regioni ai sensi dell'articolo 28 comma 2, in aggiunta a quelli stabiliti dalle
tabelle 1 e 2 del medesimo allegato, reintroducendo per tale via una disciplina parzialmente differenziata
(vedi sul punto anche infra) (1).
2. L'adeguamento delle reti fognarie esistenti.
L'art. 27 del D.Lgs. 22/1997, nel dare attuazione alla direttiva comunitaria 91/271 sulle acque reflue
urbane, ha recepito anche i tempi ivi previsti per l'adeguamento delle reti fognarie degli "agglomerati",
definiti all'art. 2 lett. m) come quelle aree "in cui la popolazione ovvero le attività economiche sono
sufficientemente concentrate così da rendere possibile la raccolta e il convogliamento delle acque reflue
urbane verso un sistema di trattamento di acque reflue urbane o verso un punto di scarico finale".
Il comma 1 dell'art. 27 prevede che "gli agglomerati" debbano essere provvisti di reti fognarie per le
acque reflue urbane:
a) entro il 31 dicembre 2000 per quelli con un numero di abitanti equivalenti superiore a 15.000;
b) entro il 31 dicembre 2005 per quelli con un numero di abitanti equivalenti compreso tra 2.000 e
15.000.
In base al comma 2 dell'art. 27, per le acque reflue urbane che si immettono in acque recipienti
considerate "aree sensibili" (2) gli agglomerati con oltre 10.000 abitanti equivalenti devono essere
provvisti di rete fognaria "senza ritardo".
Il successivo comma 3 prevede poi che la progettazione, la costruzione e la manutenzione delle reti
fognarie si effettui adottando le tecniche migliori che non comportino costi eccessivi; viene quindi ripreso
anche in questa sede il richiamo alle best available technologies come criterio guida del livello tecnico da
perseguire negli interventi in campo ambientale, che nel caso in questione devono in particolare tenere
conto: a) del volume e delle caratteristiche delle acque reflue urbane; b) della necessità di prevenire
eventuali fuoriuscite; c) della limitazione dell'inquinamento delle acque recipienti, dovuto a tracimazioni
causate da piogge violente.
Continua a non venire previsto, anche dopo la novella, accanto all'obbligo di realizzare la rete fognaria,
quello di dotarla di un impianto di depurazione, anche se un tale obbligo risulta implicito quando ciò sia
necessario per il rispetto dei limiti di emissione.
È stato rilevato come la formulazione delle nuove scadenze possa in prima battuta apparire in contrasto
con la c.d. standstill clause, in base alla quale dall'applicazione di nuove norme comunitarie non può mai
derivare un abbassamento del livello di tutela ambientale preesitente.
Ciò in quanto nel regime previgente al D.Lgs. 152/1999 gli scarichi in fognatura restavano pur sempre
soggetti ai limiti tabellari della legge Merli, e nel regime successivo alla legge 172/1995 l'ammissibilità di
scarichi fognari non assistiti da depuratore, la cui mancanza avesse provocato l'inosservanza dei limiti di
accettabilità, era consentita solo se i pubblici amministratori alla data di accertamento della violazione
disponessero di progetti esecutivi cantierabili finalizzati alla depurazione delle acque (3).
Il rispetto dei valori tabellari previgenti è comunque assicurato dall'art. 62, comma 12, in base al qual
coloro che effettuano scarichi esistenti (4) di acque reflue, sono obbligati, fino al momento nel quale
devono osservare i limiti di accettabilità stabiliti dal D.Lgs. 152/1999, ad adottare le misure necessarie a
evitare un aumento anche temporaneo dell'inquinamento, e sono comunque tenuti a osservare le norme,
le prescrizioni e i valori limite stabiliti, secondo i casi, dalle normative regionali ovvero dall'autorità
competente ai sensi dell'art. 33 vigenti alla data di entrata in vigore del D.Lgs. 152/1999 (inclusi quindi i
valori limite fissati dalle stesse).
I tempi di adeguamento per la realizzazione delle reti fognarie non possono quindi essere intesi nel senso
di consentire arretramenti rispetto al livello di tutela ambientale esistente.
Il comma 4 dell'art. 27 prevede infine, nel testo novellato, che per gli insediamenti, installazioni o edifici
isolati che scaricano acque reflue domestiche le Regioni identificano sistemi individuali o altri sistemi
pubblici o privati adeguati secondo i criteri di cui alla delibera indicata al comma 7 dell'articolo 62, che
raggiungono lo stesso livello di protezione ambientale, indicando i tempi di adeguamento. Viene così
eliminata, nel nuovo testo, la possibilità di ricorrere a detta identificazione alternativa solo nei casi in cui
la realizzazione di una rete fognaria non appaia giustificata, o perché non presenti vantaggi dal punto di
vista ambientale o perché comporti costi eccessivi, come prescritto invece nell'originaria versione del
D.Lgs. 152/1999.
3. Il trattamento degli scarichi di acque reflue urbane.
L'art. 31 del D.Lgs. 152 /1999 individua la tempistica per sottoporre a trattamento gli scarichi di acque
reflue urbane che ad oggi ne siano ancora sprovvisti. Viene quindi previsto che le acque reflue urbane
debbano essere sottoposte, prima dello scarico, ad un trattamento secondario (5) o ad un trattamento
equivalente in conformità con le indicazioni dell'allegato 5 e secondo le seguenti cadenze temporali:
a) entro il 31 dicembre 2000 per gli scarichi provenienti da agglomerati con oltre 15.000 abitanti
equivalenti;
b) entro il 31 dicembre 2005 per gli scarichi provenienti da agglomerati con un numero di abitanti
equivalenti compreso tra 10.000 e 15.000;
c) entro il 31 dicembre 2005 per gli scarichi in acque dolci ed in acque di transizione, provenienti da
agglomerati con un numero di abitanti equivalenti compreso tra 2.000 e 10.000.
Viene poi previsto che gli scarichi di acque reflue urbane che confluiscono nelle reti fognarie, provenienti
da agglomerati con meno di 2.000 abitanti equivalenti e recapitanti in acque dolci ed in acque di
transizione, e gli scarichi provenienti da agglomerati con meno di 10.000 abitanti equivalenti, recapitanti
in acque marino-costiere, siano sottoposti ad un "trattamento appropriato," (6) in conformità con le
indicazioni dell'allegato 5, entro il 31 dicembre 2005.
Alle Regioni viene poi riservato il potere di dettare una specifica disciplina per gli scarichi di reti fognarie
provenienti da agglomerati a forte fluttuazione stagionale degli abitanti, fermo restando il conseguimento
degli obiettivi di qualità (art. 31 comma 5).
Infine, viene previsto che gli scarichi di acque reflue urbane in acque situate in zone d'alta montagna, al
di sopra dei 1.500 metri sul livello del mare, dove a causa delle basse temperature è difficile effettuare un
trattamento biologico efficace, possano essere sottoposti ad un trattamento meno spinto di quello
previsto al comma 3, purché studi dettagliati comprovino che non vi siano ripercussioni negative
sull'ambiente (art. 31 comma 6).
4. Il trattamento dei rifiuti liquidi negli impianti di trattamento delle acque reflue urbane.
Il nuovo articolo 36, novellato con il D.Lgs. 258/2000 e rubricato Trattamento di rifiuti presso impianti di
trattamento delle acque reflue urbane, introduce importanti modifiche rispetto alla versione originaria
della norma.
Al comma 1 si continua a prevedere che "Salvo quanto previsto ai commi 2 e 3 è vietato l'utilizzo degli
impianti di trattamento di acque reflue urbane per lo smaltimento di rifiuti"; il primo comma dell'art. 36
esprime quindi ancora il principio generale in base al quale i rifiuti (ovviamente liquidi) non possono
essere conferiti agli impianti di trattamento di acque reflue urbane, la cui destinazione deve essere
dedicata e mantenuta, in via prioritaria, alla depurazione delle acque .
Al comma 2 si prevede però che "In deroga al comma 1, l'autorità competente ai sensi del D.Lgs. del 5
febbraio 1997, n. 22, in relazione a particolari esigenze e nei limiti della capacità residua di trattamento
può autorizzare il gestore del servizio idrico integrato [che nel novellato art. 1 comma 1 lett. o- bis) è il
soggetto che in base alla convenzione di cui all'art. 11 della legge 5 gennaio 1994, n. 36, gestisce i
servizi idrici integrati e, soltanto fino alla piena operatività del servizio idrico integrato, il gestore
esistente del servizio pubblico] a smaltire nell'impianto di trattamento di acque reflue urbane rifiuti liquidi
limitatamente alle tipologie compatibili con il processo di depurazione".
Nella previgente versione dell'art. 36, l'autorizzazione poteva invece essere concessa, in via più generale,
a qualunque "gestore di impianti di trattamento di acque reflue"; con la novella viene quindi esclusa una
tale possibilità, ed è chiarito che l'autorizzazione deve essere rilasciata in base alla normativa sui rifiuti. Il
nuovo comma 3 dispone quindi che "Il gestore del servizio idrico integrato, previa comunicazione
all'autorità competente ai sensi dell'articolo 45 è, comunque, autorizzato ad accettare in impianti con
caratteristiche e capacità depurative adeguate che rispettino i valori limite di cui all'articolo 28, commi 1 e
2 e purché provenienti dal medesimo ambito ottimale di cui alla legge 5 gennaio 1994, n. 36:
a) rifiuti costituiti da acque reflue che rispettino i valori limite stabiliti per lo scarico in fognatura;
b) rifiuti costituiti dal materiale proveniente dalla manutenzione ordinaria di sistemi di trattamento di
acque reflue domestiche previsti ai sensi del comma 4 dell'articolo 27;
c) materiali derivanti dalla manutenzione ordinaria della rete fognaria nonché quelli derivanti da altri
impianti di trattamento delle acque reflue urbane, nei quali l'ulteriore trattamento dei medesimi risulti
tecnicamente o economicamente irrealizzabile".
Il gestore del servizio idrico integrato gode di una autorizzazione ex lege, che viene però subordinata,
dopo il D.Lgs. 258/2000, ad una preventiva comunicazione diretta all'autorità competente al rilascio
dell'autorizzazione allo scarico, affinché questa possa esercitare un controllo a posteriori sull'attività del
gestore. Il successivo comma 5 prevede infatti che nella comunicazione prevista al comma 3 il gestore
del servizio idrico integrato deve indicare la capacità residua dell'impianto e le caratteristiche e quantità
dei rifiuti che intende trattare. L'autorità competente può indicare quantità diverse o vietare il
trattamento di specifiche categorie di rifiuti. L'autorità competente provvede altresì all'iscrizione in
appositi elenchi dei gestori di impianti di trattamento che hanno effettuato la comunicazione di cui al
comma 3.
Viene per tale via introdotto un regime di preventiva comunicazione e successiva iscrizione, sostitutiva
dell'autorizzazione espressa, similare a quello previsto dagli artt. 31, 32 e 33 (procedure semplificate) del
D.Lgs. 22/1997, in relazione alle operazioni di autosmaltimento e recupero dei rifiuti preventivamente
identificati dalla apposita normativa tecnica (7).
All'art. 59 viene quindi aggiunto dal D.Lgs. 258/2000 un nuovo comma, il 6- bis, in base al quale "Al
gestore del servizio idrico integrato che non ottempera all'obbligo di comunicazione di cui all'articolo 36,
comma 3, o non osserva le prescrizioni o i divieti di cui all'articolo 36, comma 5, si applica la pena di cui
all'articolo 51, comma 1, del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22": l'illecito viene quindi ricondotto,
come è logico che sia, al sistema sanzionatorio previsto dalla disciplina sui rifiuti.
La novella ha però perso l'occasione per un importante chiarimento; il terzo comma dell'art. 36, lett. a)
continua infatti a contrapporre "i rifiuti costituiti da acque reflue" ai "rifiuti liquidi". La demarcazione dei
primi rispetto ai semplici "rifiuti liquidi" è tutt'altro che agevole, ed ha già suscitato perplessità.
Ad ogni modo, a prescindere dai parametri cui attenersi per ricostruire il concetto di " rifiuti costituiti da
acque reflue", l'autorizzazione al trattamento degli stessi al gestore è data direttamente dalla legge.
Riassumendo, gli impianti di trattamento delle acque reflue urbane:
a) non possono accettare rifiuti liquidi (e non potranno quindi essere a ciò autorizzati);
b) i soli impianti gestiti dal gestore del servizio idrico integrato possono sempre accettare, senza
necessità di autorizzazione, ma a seguito di preventiva comunicazione all'autorità competente, i rifiuti
liquidi costituiti da "acque reflue" e dalle altre tipologie di rifiuto individuate dall'art. 36, purché ricorrano
le condizioni di cui al comma 3 dell'art. 36
c) i soli impianti gestiti dal gestore del servizio idrico integrato possono comunque essere autorizzati, in
base alla normativa sui rifiuti, ad accettare rifiuti liquidi anche diversi dalle acque reflue, purché ricorrano
le condizioni di cui al comma 2 dell'art. 36.
Il quarto comma prevede poi una nuova (e piuttosto oscura) disposizione secondo cui l'attività di cui ai
commi 2 e 3 può essere consentita purché non sia compromesso il riutilizzo delle acque reflue e dei
fanghi.
La novella ha infine cercato di chiarire la disposizione, oltremodo problematica, contenuta nel previgente
comma 5 (ora comma 7), il quale prevede adesso che "Il produttore dei rifiuti di cui al comma 2 e 3 e il
trasportatore dei rifiuti sono tenuti al rispetto della normativa in materia di rifiuti prevista dal D.Lgs. del 5
febbraio 1997, n. 22 e successive modifiche e integrazioni, fatta eccezione per il produttore dei rifiuti di
cui al comma 3 lettera b) che è tenuto al rispetto dei soli obblighi di cui all'articolo 10 del medesimo
decreto. Il gestore del servizio idrico integrato che, ai sensi dei precedenti commi 3 e 5, tratta rifiuti è
soggetto ai soli obblighi di cui all'articolo 12 del D.Lgs. del 5 febbraio 1997, n. 22". Si precisa ora (ma è
evidente) che anche chi conferisce rifiuti al gestore del servizio idrico integrato debba rispettare gli
obblighi del D.Lgs. 22/1997, con l'eccezione di chi conferisca rifiuti costituiti dal materiale proveniente
dalla manutenzione ordinaria di sistemi di trattamento di acque reflue domestiche previsti ai sensi del
comma 4 dell'articolo 27, il quale è solo tenuto al rispetto degli obblighi di cui all'art. 10 (in sostanza,
l'obbligo relativo al conferimento ad un soggetto autorizzato e agli adempimenti connessi al formulario di
accompagnamento dei rifiuti) (8).
Si prevede altresì, chiarendo un'ambiguità del testo precedente, che il gestore del servizio idrico integrato
[e solo lui, con esclusione di qualsiasi altro operatore] è soggetto ai soli obblighi di cui all'articolo 12 del
decreto legislativo del 5 febbraio 1997, n. 22, ma solo quando tratti i rifiuti di cui ai precedenti commi 3 e
5. Si conferma quindi quella giurisprudenza secondo cui "in via generale non è consentito che i depuratori
(impianti di trattamento delle acque reflue urbane) siano utilizzati per smaltire rifiuti, anche liquidi. Ove
ciò accada in via eccezionale, occorre l'autorizzazione regionale tipica dello smaltimento di rifiuti" (9).
Neanche la sentenza citata prende però in esame la distinzione tra semplici rifiuti liquidi e rifiuti liquidi
costituiti da acque reflue.
Resta quindi la mancata chiarezza di fondo insita nell'approssimativo linguaggio utilizzato dal legislatore.
5. I limiti di accettabilità delle acque reflue urbane.
La nuova normativa struttura la disciplina generale degli scarichi tramite una combinazione tra limiti di
emissione e obiettivi di qualità. Si configura perciò ex novo rispetto alla pregressa legislazione un sistema
di limiti di emissione costituito dai limiti fissati dallo Stato, da un lato, e dai limiti fissati dalle Regioni e
dalle Province autonome, nell'ambito dei piani di tutela e sulla base degli obiettivi di qualità, dall'altro.
I limiti fissati localmente sono diversificati per ogni corpo idrico superficiale in relazione al carico
sopportabile per raggiungere l'obiettivo di qualità. I limiti devono essere espressi anche in termini di
carico, cioè di massa dell'unità di tempo (per esempio, chilogrammi/mese), oltre che di concentrazione. I
limiti di emissione fissati in sede centrale sono riportati, anche per le acque reflue urbane, nell'allegato 5.
Il D.Lgs. 152/1999 attribuisce poi alle Regioni il potere di definire, tramite leggi regionali, i valori limite di
emissione degli scarichi, sia industriali che delle acque reflue urbane; in base al comma 2 dell'art. 28,
così come novellato, le Regioni, nell'esercizio della loro autonomia, tenendo conto dei carichi massimi
ammissibili e delle migliori tecniche disponibili, definiscono i valori-limite di emissione, diversi da quelli di
cui all'allegato 5, sia in concentrazione massima ammissibile sia in quantità massima per unità di tempo
in ordine a ogni sostanza inquinante e per gruppi o famiglie di sostanze affini. Le Regioni non possono
stabilire valori limiti meno restrittivi di quelli fissati nell'allegato 5:
a) nella tabella 1 relativamente allo scarico di acque reflue urbane in corpi idrici superficiali;
b) nella tabella 2 relativamente allo scarico di acque reflue urbane in corpi idrici superficiali ricadenti in
aree sensibili;
c) nella tabella 3/A per i cicli produttivi ivi indicati;
d) nelle tabelle 3 e 4, per quelle sostanze indicate nella tabella 5 del medesimo allegato
Le Regioni possono quindi introdurre sia limiti più restrittivi, purché ciò corrisponda a specifiche esigenze
di tipo ambientale, sia limiti più permissivi, purché ciò avvenga nel rispetto dei carichi massimi
ammissibili nel corpo ricettore e nel rispetto dei valori inderogabili - in senso meno restrittivo - richiamati
dal novellato art. 28, comma 2.
L'allegato 5, dopo la novella, prevede poi che gli scarichi provenienti da impianti di trattamento delle
acque reflue urbane di cui all'articolo 31, comma 2, devono conformarsi, secondo le cadenze temporali
indicate al medesimo articolo, ai valori limite definiti dalle Regioni e, nelle more, alle leggi regionali
vigenti alla data di entrata in vigore del decreto.
Gli scarichi provenienti da impianti di trattamento delle acque reflue urbane di cui all'articolo 31, comma
3, devono invece rispettare le seguenti scadenze:
-- se esistenti, devono conformarsi secondo le cadenze temporali indicate al medesimo articolo alle
norme di emissione riportate nella tabella 1
-- se nuovi devono essere conformi alle medesime disposizioni dalla loro entrata in esercizio.
Gli scarichi provenienti da impianti di trattamento delle acque reflue urbane di cui all'articolo 32, devono
essere conformi alle norme di emissione riportate nelle tabelle 1 e 2.
Si intendono già esistenti alla data di entrata in vigore del D.Lgs. 152/1999 anche quegli scarichi
provenienti dal trattamento di acque reflue urbane per i quali alla data del 13 giugno 1999 fossero state
completate tutte le procedure relative alle gare di appalto e all'assegnazione lavori (vedi nota n. 4). In
sostanza si deve trattare di situazioni in cui sia già stato esaurito l' iter amministrativo procedimentale
diretto alla scelta dell'assegnatario dei lavori in regime di pubblico appalto d'opera, in qualche modo
equiparabili ai "progetti cantierabili" introdotti dalle L. 172/1995.
Si tratta di un criterio opinabile, in quanto equipara impianti già effettivamente operanti, e che quindi
necessitano di un termine di adeguamento, a quelli esistenti solo sulla carta, per i quali apparirebbe più
razionale prevedere un'immediata applicazione dei valori limite dal momento dell'entrata in funzione degli
stessi.
Resta ferma la clausola di stand still contenuta all'art. 62, comma 12, del decreto, di cui si è già detto
(vedi supra), che vieta l'aumento anche temporaneo dell'inquinamento per coloro che effettuavano
scarichi già esistenti di acque reflue all'atto dell'entrata in vigore della nuova normativa, e pertanto il
periodo di adeguamento non potrà comunque comportare un arretramento della tutela esistente.
Nel caso di fognature miste che raccolgano (anche) scarichi di insediamenti industriali, devono poi essere
rispettati i limiti della tabella 3 dell'allegato 5, ovvero quelli stabiliti dalle regioni ai sensi dell'articolo 28,
comma 2, in aggiunta a quelli fissati dalle tabelle 1 e 2.
Quest'ultima distinzione è stata criticata in quanto ritenuta in contrasto sia con la definizione comunitaria
di acque reflue urbane, sia con quella dell'art. 2 lett. i) del decreto (10).
6. Campionamenti e controlli.
Va sottolineato che il D.Lgs. 152/1999 ha radicalmente mutato la definizione dei valori limite da rispettare
nello scarico delle acque reflue urbane, passando dalla rigidità della tabella A della legge Merli ai
parametri più aperti dell'allegato 5, rapportati tra l'altro alla media giornaliera, alla media annua, alla
concentrazione ed alla percentuale di riduzione del carico inquinante, ed ammettendo altresì un numero
massimo consentito di campioni non conformi, (più alta è la frequenza dei campionamenti, maggiore è il
numero di superamenti dei valori tabellari consentito).
L'allegato 5 prevede un numero minimo annuo di campionamenti per i parametri di cui alle tabelle 1 e 2,
fissato in base alla dimensione dell'impianto di trattamento.
Il campionamento deve essere effettuato dall'autorità competente, ma può essere fatto direttamente dal
gestore qualora questi garantisca un sistema di rilevamento e di trasmissione dati all'autorità di controllo,
ritenuto idoneo dalla stessa con prelievi ad intervalli regolari nel corso dell'anno, effettuati in base alla
potenzialità dell'impianto ed al numero dei campioni eventualmente non conformi prelevati nel corso
dell'anno precedente.
I gestori degli impianti devono inoltre comunque assicurare un sufficiente numero di autocontrolli sugli
scarichi dell'impianto di trattamento e sulle acque in entrata.
I parametri della tabella 3 devono invece essere analizzati dall'autorità competente, con una frequenza
minima rapportata alla potenzialità dell'impianto
Non tutti i parametri di tabella 3 devono essere controllati, ma solo quelli che le attività presenti sul
territorio possono scaricare in fognatura; la scelta presuppone probabilmente una conoscenza effettiva
del territorio da parte dell'autorità di controllo piuttosto ottimistica e non sempre rispondente alla realtà.
I risultati delle analisi di autocontrollo effettuate dai gestori degli impianti devono essere messi a
disposizione degli enti preposti al controllo. I risultati dei controlli effettuati dall'autorità competente e di
quelli effettuati a cura dei gestori devono poi essere archiviati su idoneo supporto informatico secondo le
indicazioni riportate in un emanando decreto attuativo, previsto all'articolo 3, comma 7 del decreto.
Il punto di prelievo per i controlli, ai sensi dell'articolo 28, comma 3, deve essere sempre il medesimo e
deve essere posto immediatamente a monte del punto di immissione nel corpo recettore. Nel caso di
controllo della percentuale di riduzione dell'inquinante, deve essere previsto un punto di prelievo anche
all'entrata dell'impianto di trattamento. Va segnalato che il D.Lgs. 152/1999, come la normativa
anteriore, permane difforme dalle normativa comunitaria (inclusa la direttiva 271/1991 sulle acque reflue
urbane) che prevede che il campionamento debba essere effettuato "allo sbocco" (e quindi subito
all'uscita) dello scarico.
Per il controllo della conformità dei limiti indicati nelle tabelle 1 e 2, e per quelli stabiliti in sede locale,
l'allegato 5 prevede che vadano considerati i campioni medi ponderati nell'arco di 24 ore. Per i valori della
tabella 3, viene invece previsto un campionamento medio prelevato nell'arco delle tre ore, ma a
differenza che nell'originaria versione nel nuovo testo, successivo al D.Lgs. 258/2000, la previsione di un
campionamento medio è stata prevista come indicazione di massima, ma non esclusiva e vincolante. Il
testo è stato quindi modificato, stabilendosi che con motivazione scritta, espressa nel verbale di prelievo,
l'autorità preposta al controllo possa effettuare il campionamento su tempi diversi.
Recentemente la cassazione aveva comunque già affermato che "Il prelievo istantaneo eseguito in base
alla legge 319 del 1976 è da ritenersi valido per i procedimenti attivati prima dell'entrata in vigore del
D.Lgs. 152 del 1999, in quanto all'epoca dei fatti era consentito sia il campionamento medio che quello
istantaneo, e gli scarichi giuridicamente esistenti, perché autorizzati, sono tenuti ad adeguarsi alla nuova
disciplina entro tre anni dalla entrata in vigore della legge 152, con la conseguenza che restano in vigore
le norme regolamentari e tecniche preesistenti" (11).
7. Le autorizzazioni allo scarico delle acque reflue urbane.
L'art. 45 al comma 1 ribadisce l'obbligo generale dell'autorizzazione preventiva per tutti gli scarichi, senza
distinzione.
L'autorizzazione è rilasciata al titolare dell'attività da cui origina lo scarico; nel caso dello scarico di acque
reflue urbane, si tratterà per lo più del gestore del depuratore che assiste la pubblica fognatura, da cui
origina lo scarico finale.
L'art. 45, comma 3, dispone altresì che il regime autorizzatorio degli scarichi di acque reflue domestiche e
di reti fognarie, siano o meno servite da impianti di depurazione delle acque reflue urbane, è definito
dalle Regioni, nell'ambito della disciplina di cui all'articolo 28, commi 1 e 2 (su cui vedi supra)
Unica deroga ammessa al comma 1 è quella prevista per gli scarichi di acque reflue domestiche in reti
fognarie, che sono sempre ammessi (ossia sono autorizzati ex lege) purché osservino i regolamenti fissati
dal gestore del servizio idrico integrato; la disposizione sembra precludere alle regioni la possibilità di
subordinare l'immissione in rete fognaria ad autorizzazione.
La novella ha poi eliminato l'ultima parte del comma 4 dell'art. 45, secondo cui, per gli insediamenti le cui
acque reflue non recapitano in reti fognarie, il rilascio della concessione edilizia veniva ritenuto
comprensivo dell'autorizzazione dello scarico.
L'autorità competente deve pronunciarsi sulla domanda di autorizzazione entro 90 giorni dalla ricezione
della stessa; la mancata pronuncia dell'autorità nei termini di legge, nel silenzio del decreto, non integra
né assenso né diniego, ma legittima l'interessato alla formale messa in mora dell'amministrazione ai sensi
della legge 241/1990, ed al successivo ricorso, decorsi trenta giorni, al giudice amministrativo, nonché a
quello penale in relazione al reato di omissione di atti d'ufficio ex art. 328 c.p.
Come nel previgente regime, l'autorizzazione, fatto salvo quanto previsto dal D.Lgs. 4 agosto 1999, n.
372 (che recepisce la direttiva 96/61/CE sulla prevenzione e riduzione integrale dell'inquinamento), è
valida per quattro anni dal momento del rilascio, con obbligo di richiederne il rinnovo un anno prima della
scadenza; lo scarico può essere però provvisoriamente mantenuto in funzione, nel rispetto delle
prescrizioni contenute nella precedente autorizzazione, fino all'adozione di un nuovo provvedimento, a
condizione che la domanda di rinnovo sia stata presentata entro il predetto termine. La disciplina
regionale può poi prevedere per specifiche tipologie di scarichi di acque reflue domestiche, forme di
rinnovo tacito della medesima
Oltre alle prescrizioni legali, l'autorizzazione allo scarico può prevedere ulteriori prescrizioni tecniche volte
a garantire che gli scarichi e le operazioni ad essi funzionalmente connesse, siano effettuati in conformità
alle disposizioni legali e senza pregiudizio per il corpo ricettore, per la salute pubblica e l'ambiente, in
relazione alle caratteristiche tecniche dello scarico, alla sua localizzazione e alle condizioni locali
dell'ambiente interessato (art. 45, commi 8 e 9). L'ampiezza del potere prescrittivo concesso
all'amministrazione è stata ritenuta eccessiva, e passibile di sfociare nella vera e propria arbitrarietà (12).
Per quanto riguarda in particolare gli impianti di depurazione delle acque reflue urbane, viene prevista,
dall'art. 47, la competenza delle Regioni a disciplinare le modalità di approvazione dei progetti degli
impianti di depurazione, che devono tenere conto dei criteri di cui all'allegato 5 e della corrispondenza tra
la capacità dell'impianto e le esigenze delle aree asservite, nonché delle modalità delle gestioni, che
devono assicurare il rispetto dei valori limite degli scarichi.
Le Regioni disciplinano altresì le fasi di autorizzazione provvisoria agli scarichi degli impianti di
depurazione delle acque reflue per il tempo necessario al loro avvio, e si precisa altresì che le
autorizzazioni provvisorie, prodromiche all'autorizzazione prevista dall'art. 45 di durata quadriennale,
possono essere rilasciate anche per lotti funzionali.
L'art. 47 fa comunque salve le disposizioni in materia di valutazione di impatto ambientale, per la quale
occorre fare riferimento al D.P.R. 12 aprile 1966 che richiede alle regioni di sottoporre alla procedura di
v.i.a. gli impianti di depurazione delle reti fognarie superiori alla potenzialità ivi prefissata, facendo salva
la potestà regionale di estendere la procedura anche ad opere minori.
L. PRATI, Acque reflue urbane: "standard" legali e autorizzazioni dopo il D.Lgs. 258/2000 (La nuova
disciplina sulle acque - D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152, e successive modifiche), in Rivista Giuridica
dell'Ambiente, Milano, Giuffrè, 2000, n. 6, pp. 929-944.
La definizione di "acque reflue urbane" (definite come "acque reflue domestiche o il miscuglio di acque
reflue domestiche, di acque reflue industriali ovvero meteoriche di dilavamento") costituisce un concetto
nuovo ripreso dalla normativa comunitaria ed introdotto nella normativa nazionale con il D.Lgs.
152/1999. Nel nuovo decreto legislativo le acque reflue urbane sono per lo più soggette ad una propria
autonoma disciplina.
The definition of "urban waste water" ("domestic waste water or a mixture of domestic waste water with
industrial waste water and/or run-off rain water") has been implemented by Decree 152/1999 following
the EU legislation. In the new decree urban wastewaters are largely subject to autonomous regulation.
NOTE
(1) Nonostante la parziale commistione concettuale operata dal legislatore, le acque reflue domestiche,
intese come acque principalmente derivanti dal metabolismo umano e dalle attività domestiche (es.
pulizia di abitazioni civili), il cui regime non costituisce oggetto specifico di questo contributo, sono
comunque soggette a disposizioni loro proprie (ad esempio, per quanto attiene al regime autorizzatorio),
e richiedono quindi un approccio interpretativo almeno in parte distinto. Per quanto riguarda la distinzione
delle acque reflue domestiche da quelle industriali, deve poi essere evidenziato come un'attività
commerciale od industriale che scarichi anche acque reflue domestiche (ad esempio, dalle strutture
sanitarie predisposte per i dipendenti), debba tenere ben distinte dette acque da quelle più propriamente
industriali, differenziando attentamente ciò che può attenere ad attività domestiche in senso stretto,
sebbene svolte in un contesto produttivo, da ciò che per natura od origine non vi può essere equiparato.
(2) Per la definizione di aree sensibili, si veda l'art. 18 del D.Lgs. 152/1999.
(3) P. DELL'ANNO, La tutela delle acque dall'inquinamento, Rimini, 2000, p. 106.
(4) Definiti ora, alla lettera cc-bis) dell'art. 2 "gli scarichi di acque reflue urbane che alla data del 13
giugno 1999 sono in esercizio e conformi al regime autorizzativo previgente ovvero di impianti di
trattamento di acque reflue urbane per i quali alla stessa data siano già state completate tutte le
procedure relative alle gare di appalto e all'assegnazione lavori; gli scarichi di acque reflue domestiche
che alla data del 13 giugno 1999 sono in esercizio e conformi al regime autorizzativo previgente; gli
scarichi di acque reflue industriali che alla data del 13 giugno 1999 sono in esercizio e già autorizzati".
(5) Ai sensi dell'art. 2 lett. ff), "trattamento secondario" è il trattamento delle acque reflue urbane
mediante un processo che in genere comporta il trattamento biologico con sedimentazioni secondarie, o
un altro processo in cui vengano rispettati i requisiti di cui alla tabella 1 dell'allegato 5.
(6) "Trattamento appropriato", ai sensi dell'art. 2 lett. dd) è definito il trattamento delle acque reflue
urbane mediante un processo ovvero un sistema di smaltimento che dopo lo scarico garantisca la
conformità dei corpi idrici recettori ai relativi obiettivi di qualità ovvero sia conforme alle disposizioni del
presente decreto.
(7) A tale proposito deve essere ricordato che ai sensi della direttiva 75/442/CEE, modificata dalla
direttiva 91/156/CEE, ai fini dell'applicazione degli articoli 4, 5 e 7 della direttiva stessa tutti gli
stabilimenti o imprese che effettuano le operazioni di smaltimento (elencate nell'allegato II A della
direttiva e dall'allegato del D.Lgs. 22/19997) debbono ottenere l'autorizzazione dell'autorità competente.
In base alla direttiva succitata possono essere dispensati dall'autorizzazione soltanto: a) gli stabilimenti o
le imprese che provvedono essi stessi allo smaltimento dei propri rifiuti nei luoghi di produzione; b) gli
stabilimenti o le imprese che recuperano rifiuti. Gli stabilimenti o le imprese esentati sono comunque
soggetti a iscrizione presso le competenti autorità.
Anche dopo la novella, per i rifiuti liquidi costituiti da acque reflue permane una eccezione all'obbligo
generale di autorizzazione non prevista dalla direttiva, in quanto gli impianti di depurazione non
costituiscono certo un'impresa o stabilimento in cui vengano condotte attività di recupero o di
autosmaltimento dei rifiuti.
(8) Nella relazione ministeriale alla novella, si legge che "Nell'ambito dei chiarimento degli obblighi
previsti, si è precisato al comma 5 che il produttore dei rifiuti di cui all'art. 36 comma 3 lett. b, attesa la
natura e l'origine domestica degli stessi è tenuto solo all'obbligo previsto dall'art. 10 del D.Lgs. 22/19997
che, in caso ad esempio di smaltimento con autospurgo, consisterà nella restituzione dei formulario che
attesti la correttezza dell'operazione avvenuta.
La previsione è motivata proprio dalle frequenti violazioni in questo settore delle modalità di smaltimento
che, con questo semplice riscontro, si intende evitare".
(9) Cfr. Corte Cass., Sez. III penale, 5 gennaio 2000, P., in Ambiente 2000, p. 387.
(10) P. DELL'ANNO, op. cit., p. 124.
(11) Corte Cass., Sez. III penale, 16 dicembre 1999 (UD.08/11/1999), P., sul sito internet
www.lexambiente.com, aprile 2000, ed in Ambiente 5/2000, p. 478, con nota di S. BELTRAME.
(12) P. DELL'ANNO, op. cit., p. 149.
Archivio selezionato: Dottrina
La nuova disciplina degli scarichi industriali
Riv. giur. ambiente 2000, 06, 947
Antonella Capria
1. Valori limite di emissione. - 1.1. Limiti e deroghe. - 1.2. Misurazione degli scarichi. - 1.3. Scarichi
indiretti. - 1.4. Modalità di campionamento. - 1.5. Acque di raffreddamento. - 1.6. Scarichi assimilabili ai
domestici. - 1.7. Scarichi sul suolo. - 1.8. Scarichi in acque superficiali. - 1.9. Scarichi in rete fognaria. 1.10. Scarichi di sostanze pericolose. - 1.11. Acque meteoriche e di prima pioggia. - 1.12. Controllo degli
scarichi. - 2. Procedure di autorizzazione. - 2.1. Criteri generali. - 2.2. Autorizzazione integrata
ambientale. - 3. Modifiche degli scarichi. - 4. Disciplina transitoria.
La nuova disciplina degli scarichi industriali è contenuta negli artt. 28, 29, 31, 33, 34, 39, 45, 46, 50, 51,
52 e 62 e nell'Allegato V del D.Lgs. n. 152.
1. Valori limite di emissione.
1.1. Limiti e deroghe. - L'art. 28 del D.Lgs. n. 152 obbliga al rispetto dei valori limite di emissione di cui
all'Allegato 5 e dei valori limite di emissione, diversi da quelli di cui all'Allegato 5 ma non meno restrittivi,
che verranno fissati dalle Regioni. Questo vincolo, per le Regioni, non è assoluto, ma riguarda solo alcune
- sia pur significative - tipologie di scarichi: quelli riportati nella tabella 3/A, che fissa i valori limite di
emissione per unità di prodotto riferiti a specifici cicli produttivi, e quelli riportati nelle tabelle 3 e 4, per le
sostanze indicate dalla tabella 5 dello stesso Allegato. In pratica, si tratta delle sostanze e lavorazioni più
pericolose, per le quali già in passato la normativa non ammetteva alcun tipo di deroga. Dobbiamo
tuttavia notare che, in base al disposto di cui all'articolo 28.10, le autorità competenti possono
promuovere e stipulare accordi e contratti di programma con i soggetti economici interessati, anche al
fine di "... fissare, per le sostanze ritenute utili, limiti agli scarichi in deroga alla disciplina generale, nel
rispetto comunque delle norme comunitarie e delle misure necessarie al conseguimento degli obiettivi di
qualità". Il riferimento alla "disciplina generale" fa ritenere che sia ora possibile introdurre in via
convenzionale deroghe anche per sostanze precedentemente escluse da questo più favorevole regime. Il
ricorso ad accordi e contratti di programma era già previsto da altre normative di settore
(sull'inquinamento atmosferico, e più di recente, in quelle sulla gestione dei rifiuti di cui al D.Lgs.
22/1997), ma è la prima volta, a quanto ci risulta, che questi strumenti vengono utilizzati in funzione di
deroga agli standard ambientali. Le due note alla tabella 5 introducono inoltre ulteriori deroghe per
alcune delle sostanze indicate, per gli scarichi in acque superficiali con una portata complessiva media
giornaliera inferiore a 50 m!, e per gli scarichi in fognatura, su proposta del gestore del servizio idrico
integrato.
Più in particolare, e per quanto di nostro interesse, l'Allegato 5 introduce i nuovi limiti di emissione per gli
scarichi industriali, attraverso un'articolata serie di tabelle che sostituiscono integralmente gli allegati alla
legge Merli e al D.Lgs. 133/1992, ora abrogati; disciplina inoltre i tempi e le modalità di controllo, di
campionamento e analisi (1). In sostanza, si tratta di modifiche irrilevanti, che non incidono sul
previgente regime tabellare, salvo per la possibilità accordata alle Regioni, tenuto conto dei carichi
massimi ammissibili e delle migliori tecniche disponibili, di definire i valori limite di emissione, diversi da
quelli di cui all'Allegato 5, sia in concentrazione massima ammissibile sia in quantità massima per unità di
tempo in ordine a ogni sostanza inquinante e per gruppi o famiglie di sostanze affini.
1.2. Misurazione degli scarichi. - L'articolo 28 mantiene, in conformità a quanto già previsto dall'art. 9
della legge Merli, la misurazione dello scarico "subito a monte del punto di immissione" nel corpo
ricettore. L'unica rilevante eccezione a questo principio è contenuta nell'art. 34.4, che fissa il punto di
misurazione dello scarico per le acque reflue industriali contenenti le sostanze della tabella 5 dell'Allegato
5 "subito dopo l'uscita dallo stabilimento o dall'impianto di trattamento che serve lo stabilimento stesso".
Peraltro, per queste stesse sostanze, l'art. 11 del D.Lgs. 133/1992 già indicava che i valori limite di
emissione si dovessero normalmente applicare "al punto in cui le acque di scarico [...] fuoriescono dal
singolo impianto industriale", ovvero, "se le acque di scarico contenenti tali sostanze sono canalizzate e
trattate fuori dell'impianto industriale in un impianto di trattamento destinato alla depurazione delle
stesse e/o di altre analoghe, i valori limite sono applicati al punto in cui le acque escono dall'impianto di
trattamento". Ricordiamo che secondo la nuova definizione contenuta nell'articolo 2.1. gg) del D.Lgs n.
152, si intende per stabilimento industriale, o semplicemente stabilimento, qualsiasi stabilimento nel
quale si svolgono attività commerciali o industriali che comportano la produzione, la trasformazione
ovvero l'utilizzazione delle sostanze di cui alla tabella 3 dell'Allegato 5 ovvero qualsiasi altro processo
produttivo che comporti la presenza di tali sostanze nello scarico.
Può essere interessante richiamare, a sottolineare la maggiore sensibilità del legislatore in questa
materia, la diversa e più ampia definizione contenuta nel D.Lgs 22/1997, che introduce per "luogo di
produzione dei rifiuti" il concetto di "uno o più edifici o stabilimenti o siti infrastrutturali collegati tra loro
all'interno di un'area delimitata in cui si svolgono le attività di produzione ...", e quella riportata dal D.P.R.
203/1988 sulle emissioni in atmosfera, come interpretata dal D.P.C.M. 21 luglio 1989, secondo cui si
intende per stabilimento uno o più impianti, e per impianto (soggetto ad autorizzazione) l'insieme delle
linee produttive finalizzate ad una specifica produzione.
La dottrina (2) ha tuttavia già rilevato che la scelta del punto di misurazione a monte del punto di
immissione si pone nuovamente in contrasto con la normativa comunitaria in materia, che
concordemente indica il punto di campionamento, indipendentemente dal punto di immissione, subito
all'uscita dallo stabilimento industriale o dall'impianto di trattamento. Il principio comunitario era stato
recepito in Italia solo con riferimento agli scarichi di sostanze pericolose, e con questa sola eccezione è
stato nuovamente confermato.
1.3. Scarichi indiretti. - Il D.Lgs. 152/1999 esclude gli scarichi indiretti, o comunque non convogliabili, dal
campo di applicazione della normativa sulle acque. In base all'articolo 2.1. bb), si intende infatti ora per
scarico qualsiasi "immissione diretta tramite condotta" di acque reflue nei corpi ricettori. Al riguardo, si
segnala una recente decisione della Cassazione penale, Sez. III, 14 settembre 1999, n. 2774) che
interviene nel merito di questa nuova definizione: "il D.Lgs. 152/1999 ha distinto tra scarico di acque
reflue industriali e immissione occasionale. Il primo deve avvenire tramite condotta e, cioè, a mezzo di
qualsiasi sistema stabile anche se non esattamente ripetitivo e non necessariamente costituito da una
tubazione di rilascio delle acque predette, il secondo ha il carattere dell'eccezionalità collegata con la
menzionata occasionalità. Ne deriva che questo secondo comportamento non è più previsto come reato
con riferimento alla mancanza di autorizzazione; mentre è ancora tale in relazione al superamento dei
limiti di accettabilità, poiché espressamente disciplinato". Si noti che la Corte di Giustizia (Sentenza 29
settembre 1999, n. C-231/1997) diversamente argomentando, ha incluso con riferimento alla direttiva
76/464 nella nozione di scarico anche quelli indiretti o comunque non effettuati tramite condotta (nel
caso di che si tratta, l'emissione di vapori inquinati che si condensano e cadono su acque di superficie),
ritenendo di doverli assoggettare all'obbligo di autorizzazione preventiva. Peraltro, secondo alcuni
commentatori, "considerata la casi-stica amministrativa e giurisprudenziale sviluppatasi prima del D.Lgs.
152/1999, forme di immissione dell'inquinante nel corpo recettore attuate tramite rilascio o ricaduta di
particelle ben difficilmente sarebbero state considerate rientrare nella definizione di scarico, sia pure
indiretto (in genere riferito all'immissione tramite autobotte, o per percolazione), anche nel vigore della
previgente e più ampia definizione legale contenuta nel D.Lgs. 133/1992" (3). Dal punto di vista pratico,
la diversa definizione, come si evince dalla giurisprudenza citata, non dovrebbe comportare modifiche
rilevanti del regime di regolamentazione degli scarichi industriali, soprattutto per quanto riguarda le
autorizzazioni.
1.4. Modalità di campionamento. - L'Allegato 5 non introduce significative novità sulle modalità di
campionamento. Si precisa che le determinazioni analitiche ai fini del controllo di conformità degli scarichi
di acque reflue industriali sono di norma riferite ad un campione medio prelevato nell'arco di tre ore, ma
che l'autorità di controllo può, con motivazione espressa nel verbale di accertamento, effettuare il
campionamento su tempi diversi al fine di ottenere il campione più adatto a rappresentare lo scarico
qualora lo giustifichino particolari esigenze quali quelle derivanti dalle prescrizioni contenute
nell'autorizzazione dello scarico, dalle caratteristiche del ciclo tecnologico, dal tipo di scarico (in relazione
alle caratteristiche di continuità dello stesso), dal tipo di accertamento (di routine, di emergenza, ecc). Si
tratta di una disposizione analoga a quella già contenuta nella previgente normativa sulle acque, e che
sostanzialmente recepiva le elaborazioni della giurisprudenza sull'obbligo di motivazione e l'uso
processuale degli accertamenti analitici sui campioni degli scarichi. Ad analoghe conclusioni, circa la
continuità con la legge Merli, si arriva anche con riferimento alle garanzie difensive per le fasi del
campionamento e delle analisi, che discendono da principi di carattere assolutamente generale.
1.5. Acque di raffreddamento. - L'articolo 28 del D.Lgs. 152/1999 introduce altresì la facoltà per l'autorità
competente di prescrivere in sede di autorizzazione la separazione delle acque di raffreddamento, di
lavaggio, ovvero impiegate per la produzione di energia dallo scarico terminale di stabilimento, misura
questa già introdotta da alcune normative locali, ma adesso espressamente prevista quale oggetto di
disciplina regionale. L'autorità competente per il controllo può inoltre richiedere che determinati scarichi
parziali (segnatamente quelli contenenti alcune delle sostanze indicate dalla tabella 5 dell'Allegato 5)
subiscano un trattamento particolare prima della loro confluenza nello scarico generale. La precisazione
contenuta nell'articolo, secondo cui tale richiesta può essere effettuata dall'autorità competente per il
controllo e non da quella competente per l'autorizzazione fa ritenere ad una prima lettura che una simile
prescrizione possa essere imposta a seguito di una visita ispettiva sulle condizioni che danno luogo alla
formazione degli scarichi, e non anche in via generale. Si tratta tuttavia di una norma rilevante, che
rafforza il divieto di diluizione degli scarichi già contenuto nell'articolo 9 della legge Merli.
1.6. Scarichi assimilabili ai domestici. - L'articolo 28 innova, da ultimo, alla definizione di acque reflue
assimilate alle acque reflue domestiche, mantenendo in un più ristretto numero di casi rispetto alla
previgente normativa il criterio della provenienza (acquacoltura, piscicoltura, ecc.), e per il resto
confermando il criterio qualitativo ("sono assimilate alle acque reflue domestiche quelle che presentano
caratteristiche qualitative equivalenti").
Al riguardo, il D.Lgs. 152/1999 opera, all'articolo 2.1 g) e h), una distinzione generale fra scarichi
domestici e scarichi industriali. Le acque reflue domestiche sono definite come "acque reflue provenienti
da insediamenti di tipo residenziale e da servizi e derivanti prevalentemente dal metabolismo umano e da
attività domestiche", mentre le acque reflue industriali comprendono "qualsiasi tipo di acque reflue
scaricate da edifici o installazioni in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni, diverse
dalle acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento".
Poiché la normativa è di recente introduzione, la giurisprudenza non ha ancora avuto modo di intervenire
sul punto. Tuttavia, possiamo ritenere che le Corti, nell'interpretare le norme del D.Lgs. 152/1999 in
materia di classificazione degli scarichi, non dovrebbero ragionevolmente discostarsi dall'applicazione del
criterio della "assimilabilità", che era stato adottato nella vigenza della legge Merli.
In relazione a tale criterio, e con specifico riferimento all'art. 1- quater del D.L. 10 agosto 1976, n. 544,
che aveva definito le nozioni di insediamento civile e di insediamento produttivo, la giurisprudenza ha
argomentato che la distinzione deve essere fondata sulla natura dello scarico e non sulla natura
dell'attività esercitata. Può pertanto presumersi, in linea di principio, che l'attività di produzione di beni
dia luogo a scarichi inquinanti e che l'attività di prestazione di servizi, per contro, dia luogo in genere a
scarichi assimilabili a quelli civili. Ma, in concreto, attività produttive o di prestazione di servizi possono
essere ricondotte a insediamenti civili soltanto quando si accerta che gli scarichi hanno le stesse
caratteristiche di quelli degli insediamenti abitativi. Dunque, in ogni caso, la classificazione degli
insediamenti tra quelli civili dipende non dal tipo di insediamento, ma sempre dalla natura e qualità dei
reflui (Cassazione, Sez. III penale, 10 novembre 1982, n. 421; Cassazione, Sez. III penale, 6 ottobre
1986, n. 13146; Cassazione, Sez. Un. Penali, 16 novembre 1987, n. 11594; Cassazione, Sez. III penale,
23 maggio 1989, n. 7598).
1.7. Scarichi sul suolo. - L'articolo 29.1 c) ammette, come già la legge Merli, il recapito degli scarichi
industriali sul suolo o negli strati superficiali del sottosuolo, ma espressamente nei soli casi in cui sia
accertata l'impossibilità tecnica o l'eccessiva onerosità a recapitare in corpi idrici superficiali, purché gli
stessi siano conformi ai criteri e ai valori limite di emissione fissati a tal fine dalle regioni e, sino
all'emanazione delle norme regionali, ai valori limite di emissione della tabella 4 dell'Allegato 5. Gli
scarichi esistenti alla data di entrata in vigore del decreto devono conformarsi ai sopra indicati limiti entro
tre anni, e rispettare in questi tre anni i valori limite regionali o in mancanza i limiti della tabella 3
dell'Allegato 5. L'art. 12 della legge Merli prevedeva che fino all'emanazione della normativa nazionale e
regionale, il recapito fosse ammesso nel rispetto delle norme igieniche stabilite dalle autorità sanitarie
locali.
1.8. Scarichi in acque superficiali. - L'articolo 31.1 impone il rispetto dei valori limite di emissione fissati
dalle Regioni in funzione del perseguimento degli obiettivi di qualità.
1.9. Scarichi in rete fognaria. - L'art. 33 del D.Lgs. 152/1999, ferma restando l'inderogabilità dei valorilimite di emissione per le sostanze della tabella 3/A e della tabella 3 (limitatamente ai parametri di cui
alla nota 2 della tabella 5 dell'Allegato 5), sottopone gli scarichi di acque reflue industriali che recapitano
in reti fognarie alle norme tecniche, alle prescrizioni regolamentari, e ai valori limite di emissione emanati
dai gestori del servizio idrico integrato (e, fino alla piena operatività del servizio idrico integrato, dal
gestore esistente del servizio pubblico) e approvati dall'amministrazione pubblica responsabile. Lo stesso
articolo inoltre dispone che gli scarichi di acque reflue domestiche (come sopra definite, ricordiamo, e
quindi comprensive delle acque assimilate alle urbane) che recapitano in reti fognarie sono sempre
ammessi purché osservino i regolamenti emanati dal gestore dell'impianto di depurazione. Vieta, da
ultimo, lo smaltimento dei rifiuti, anche se triturati, in fognatura.
1.10. Scarichi di sostanze pericolose. - L'art. 34 disciplina gli scarichi di sostanze pericolose, con
riferimento agli stabilimenti nei quali si svolgono attività che comportano la produzione, la trasformazione
o l'utilizzazione delle sostanze di cui alle tabelle 3/A e 5 dell'Allegato 5. Per queste sostanze, l'autorità
competente può fissare valori limite più restrittivi, tenuto conto della tossicità, della persistenza e della
bioaccumulazione nell'ambiente, a condizione che vi sia una "particolare situazione di accertato pericolo
per l'ambiente anche per la compresenza di altri scarichi di sostanze pericolose". Per le sostanze di cui
alla tabella 3/A dell'Allegato 5, derivanti dai cicli produttivi ivi indicati, le autorizzazioni stabiliscono anche
la quantità massima della sostanza espressa in unità di peso per unità di elemento caratteristico
dell'attività inquinante e cioè per materia prima o per unità di prodotto.
Come si è già visto, per le acque reflue industriali contenti le sostanze della tabella 5 dell'Allegato 5, il
punto di misurazione dello scarico è fissato subito dopo l'uscita dallo stabilimento o dall'impianto di
trattamento che serve lo stabilimento. Sempre per queste sostanze, l'autorità competente può chiedere
che gli scarichi parziali siano tenuti separati dallo scarico generale e disciplinati come rifiuti, ai sensi del
D.Lgs. 22/1997. Di particolare interesse la prescrizione contenuta al quarto comma, in base alla quale
l'impianto di trattamento di acque reflue industriali che tratta le sostanze pericolose di cui alla tabella 5
dell'Allegato 5 e riceve sostanze provenienti da altri stabilimenti o scarichi di acque reflue urbane,
contenenti sostanze diverse non utili a una modifica o riduzione delle sostanze pericolose deve ridurre
opportunamente i valori limite di emissione indicati nella tabella 3 dell'Allegato 5 per ciascuna delle
sostanze pericolose indicate in tabella 5 "tenendo conto della diluizione operata dalla miscelazione dei
diversi scarichi". L'art. 11 del D.Lgs. 133/1992 prevedeva, al contrario, che "se le acque di scarico si
mescolano con altre che fuoriescono da altro impianto e modificano la sostanza inquinante, i valori limite
sono applicati al punto in cui le acque fuoriescono dallo scarico comune".
1.11. Acque meteoriche e di prima pioggia. - La disciplina degli scarichi o immissioni di acque meteoriche
e di dilavamento è di competenza regionale, e non viene sostanzialmente innovata. Le Regioni
disciplinano i casi in cui può essere richiesto che le acque di prima pioggia e di lavaggio delle aree esterne
siano convogliate e opportunamente trattate in impianti di depurazione per particolari ipotesi nelle quali,
in relazione alle attività svolte, vi sia il rischio di dilavamento dalle superfici impermeabili scoperte di
sostanze pericolose o di sostanze che creano pregiudizio per il raggiungimento degli obiettivi di qualità
dei corpi idrici. Resta comunque vietato lo scarico o l'immissione diretta di acque meteoriche nelle acque
sotterranee.
1.12. Controllo degli scarichi. - Per quanto riguarda il controllo degli scarichi, l'art. 50 prescrive che il
soggetto incaricato del controllo sia autorizzato a effettuare le ispezioni, i controlli e i prelievi necessari
all'accertamento del rispetto dei valori limite di emissione, delle prescrizioni contenute nei provvedimenti
autorizzatori o regolamentari e delle condizioni che danno luogo alla formazione degli scarichi. Il titolare
dello scarico è tenuto a fornire le informazioni richieste e a consentire l'accesso ai luoghi dai quali origina
lo scarico.
Per gli scarichi contenenti le sostanze di cui alla tabella 5 dell'Allegato 5, l'autorità competente nel
rilasciare l'autorizzazione può prescrivere, a carico del titolare, l'installazione di strumenti di controllo in
automatico, nonché le modalità di gestione degli stessi e di conservazione dei relativi risultati, che devono
rimanere a disposizione dell'autorità competente al controllo per un periodo non inferiore a tre anni dalla
data di effettuazione dei singoli controlli.
In caso di inosservanza delle prescrizioni dell'autorizzazione, l'autorità competente, in base all'articolo 51
del D.Lgs. 152/1999, procede secondo la gravità dell'infrazione alla diffida, stabilendo un termine entro il
quale devono essere eliminate le irregolarità, alla diffida con contestuale sospensione dell'autorizzazione
per un tempo determinato ove si manifestano situazioni di pericolo per la salute pubblica e per
l'ambiente, e alla revoca dell'autorizzazione, in caso di mancato adeguamento alle prescrizioni imposte
con la diffida e in caso di reiterate violazioni che determinano situazioni di pericolo per la salute pubblica
e per l'ambiente.
Questo sistema di graduazione dei provvedimenti che l'autorità competente per il controllo è tenuta ad
adottare è largamente mutuato dalla disciplina in materia di emissioni in atmosfera contenuta del D.Lgs.
203/1988; è tuttavia significativo che il potere di revoca, diversamente che per questo caso, sia
attribuito, a quanto è dato capire ad una prima lettura della norma, alla stessa autorità di controllo.
2. Procedure di autorizzazione.
2.1. Criteri generali. - L'art. 45 del D.Lgs. 152/1999 disciplina le procedure di autorizzazione agli scarichi.
In base all'art. 45, tutti gli scarichi devono essere preventivamente autorizzati. L'autorizzazione è
rilasciata al titolare dell'attività da cui origina lo scarico. Ove tra più stabilimenti sia costituito un
consorzio per l'effettuazione in comune dello scarico delle acque reflue provenienti dalle attività dei
consorziati, l'autorizzazione è rilasciata in capo al consorzio medesimo, ferme restando le responsabilità
dei singoli consorziati e del gestore del relativo impianto di depurazione in caso di violazione delle
disposizioni di legge.
L'autorizzazione è espressa, in conformità a quanto indicato dalla Corte di Giustizia (cfr. ad esempio la
sentenza 28 febbraio 1992), che aveva sanzionato il regime di silenzio assenso instaurato dalla legge
Merli anche per gli scarichi industriali e in sostanza mai più modificato dalle numerose leggi di modifica.
Sono tuttavia previste alcune ipotesi di deroga anche dalla nuova disciplina (per gli scarichi di acque
reflue domestiche in reti fognarie), di rinnovo tacito (per specifiche tipologie di scarichi di acque reflue
domestiche, se soggette ad autorizzazione, in base alla disciplina regionale), e di proroga automatica (per
gli scarichi industriali che non contengono sostanze pericolose, dietro presentazione di una domanda di
rinnovo, in attesa dell'emanazione di un nuovo provvedimento). Ma nel complesso, il D.Lgs. 152/1999
accoglie l'indicazione, più volte rappresentata nelle sedi comunitarie, di far prevalere un sistema di
protezione ambientale su uno di semplificazione amministrativa. Esemplare, al riguardo, è la prescrizione
relativa al silenzio rifiuto sul rinnovo di autorizzazione allo scarico di sostanze pericolose, come vedremo
meglio in seguito.
La domanda di autorizzazione è presentata alla Provincia, ovvero al Comune se lo scarico è in pubblica
fognatura. Sembrano dunque passate alla Provincia anche le competenze relative al rilascio delle
autorizzazioni agli scarichi in acque sotterranee, precedentemente attribuite alla Regione. L'autorità
competente provvede entro novanta giorni dalla ricezione della domanda. L'autorizzazione è valida per
quattro anni dal momento del rilascio. Un anno prima della scadenza ne deve essere chiesto il rinnovo. Lo
scarico può essere provvisoriamente mantenuto in funzione del rispetto delle prescrizioni contenute nella
precedente autorizzazione, fino all'adozione di un nuovo provvedimento, se la domanda di rinnovo è stata
tempestivamente presentata. Per gli scarichi contenenti sostanze pericolose, il rinnovo deve essere
concesso in modo espresso entro e non oltre sei mesi dalla data di scadenza e trascorso tale termine, lo
scarico dovrà cessare immediatamente.
Come si è visto sopra, viene finalmente disciplinata l'ipotesi di scarico consortile. In teoria, la legge
ammette dunque la possibilità che non venga attribuita al titolare dell'autorizzazione la responsabilità
(anche penale) per eventuali superamenti dei valori-limite agli scarichi. Dobbiamo tuttavia sottolineare
che la giurisprudenza ha finora attribuito una responsabilità concorrente al titolare del singolo scarico
industriale e dell'impianto consortile, nel presupposto che competa a quest'ultimo una funzione di
supervisione e controllo sulla qualità delle acque conferite all'impianto. "... il gestore del depuratore
collabora e coopera semplicemente con il titolare dello scarico alla gestione dello stesso nel punto
terminale del trattamento dei liquami in sede di impianto di depurazione" (Pretura pen. Terni, 6 dicembre
1993, n. 989). E questo sebbene la Cassazione abbia ammesso l'ipotesi di una responsabilità non
concorrente del gestore dell'impianto: "nel caso in cui... il depuratore consortile non presenti alcuna
anomalia costruttiva e di funzionamento e sia in perfetta efficienza, l'inquinamento finale sia stato
cagionato esclusivamente dal superamento dei limiti delle acque confluite nel depuratore stesso... non
può la condanna del gestore del depuratore consortile basarsi sull'obbligo generico di provvedere alla
depurazione, ma, valutato il suo comportamento, devono essere specificati in fatto i suoi obblighi in
concreto e, in caso di affermazione di responsabilità, deve essere spiegato quali siano stati violati in
modo tale da integrare gli estremi del reato contestato" (Cassazione, Sez. III penale, 23 marzo 1994, n.
319). I contratti tra le singole società industriali e la società consortile potranno dunque regolare gli
aspetti relativi alla limitazione della responsabilità civile, e le conseguenti reciproche garanzie, ma di
norma non anche limitare o escludere l'accertamento delle responsabilità penali per il caso di
superamento dei valori limite.
Come già previsto dall'articolo 5.3 della legge Merli, la domanda di autorizzazione, le cui spese di
istruttoria sono a carico del richiedente, dovrà essere accompagnata dal deposito di una somma di
denaro, provvisoriamente determinata dall'amministrazione, la quale costituisce condizione di
procedibilità della stessa.
Interessante la prescrizione contenuta nell'articolo 45.8, secondo cui per gli scarichi in un corso d'acqua
che ha portata naturale nulla per oltre 120 giorni ovvero in un corpo idrico non significativo,
l'autorizzazione tiene conto del periodo di portata nulla e della capacità di diluizione del corpo idrico e
stabilisce prescrizioni e limiti al fine di garantire le capacità autodepurative del corpo recettore e la difesa
delle acque sotterranee. Riteniamo, al di là di ogni possibile ipotesi interpretativa, che la norma richieda,
ai fini della sua corretta attuazione, un'adeguata istruttoria; in altri termini, riteniamo che la valutazione,
caso per caso o in via generale, sulle effettive portate fluviali o sulla rilevanza delle stesse, debba essere
rimessa alla competenza legislativa regionale, ovvero ad atti amministrativi di carattere generale che
meglio possono garantire una parità di trattamento tra le imprese. In ogni caso, la decisione sulla
significatività dei corpi idrici non pensiamo possa essere allocata all'interno delle singole istruttorie
relative al rilascio delle autorizzazioni, per evitare prescrizioni contraddittorie o incongruenti.
Ai sensi dell'art. 45.9, l'autorità competente può introdurre, in sede di autorizzazione, ulteriori
prescrizioni tecniche "volte a garantire che gli scarichi, ivi comprese le operazioni ad esso funzionalmente
connesse, siano effettuati in conformità alle disposizioni del presente decreto e senza pregiudizio per il
corpo recettore, per la salute pubblica e per l'ambiente". Non è chiaro quali possano essere queste
ulteriori prescrizioni tecniche, posto che nel nuovo regime l'autorità competente ha vasti poteri di
controllo; può infatti fissare valori limite più restrittivi e quantità massime di emissione per materia prima
o per unità di prodotto, può obbligare a smaltire determinati reflui come rifiuti liquidi, può chiedere la
separazione degli scarichi parziali, prescrizioni queste già relative allo scarico. Si noti peraltro che ulteriori
prescrizioni non possono che riguardare gli scarichi, restando preclusa all'autorità competente la
possibilità di imporre misure relative all'esercizio della produzione.
Ai sensi dell'art. 46, la domanda di autorizzazione agli scarichi di acque reflue industriali deve essere
accompagnata dall'indicazione delle caratteristiche quantitative e qualitative dello scarico, della quantità
di acqua da prelevare nell'anno solare, del corpo ricettore e del punto previsto per il prelievo al fine del
controllo, dalla descrizione del sistema complessivo di scarico, ivi comprese le operazioni ad esso
funzionalmente connesse, dall'eventuale sistema di misurazione del flusso degli scarichi, ove richiesto,
dalla indicazione dei mezzi tecnici impiegati nel processo produttivo e nei sistemi di scarico, nonché
dall'indicazione dei sistemi di depurazione utilizzati per conseguire il rispetto dei valori limite di emissione.
Nel vigore della legge Merli, le informazioni da presentare in sede di autorizzazione erano di gran lunga
meno dettagliate, e riguardavano soltanto le caratteristiche qualitative e quantitative degli scarichi e le
quantità di acque da prelevare nell'anno solare.
Nel caso di scarichi di sostanze di cui alla tabella 3/A dell'Allegato 5 derivanti dai cicli produttivi indicati
nella medesima tabella, la domanda deve altresì indicare la capacità di produzione del singolo
stabilimento industriale che comporta la produzione ovvero la trasformazione ovvero l'utilizzazione delle
sostanze di cui alla medesima tabella ovvero la presenza di tali sostanze nello scarico. La capacità di
produzione deve essere indicata con riferimento alla massima capacità oraria moltiplicata per il numero
massimo di ore lavorative giornaliere e per il numero massimo di giorni lavorativi. La domanda deve poi
anche indicare il fabbisogno orario di acque per ogni specifico processo produttivo. Rispetto al D.Lgs.
133/1992, su questo specifico punto non si notano differenze significative.
2.2. Autorizzazione integrata ambientale. - Una diversa disciplina degli scarichi è contenuta nel D.Lgs. n.
372 del 4 agosto 1999 sulla prevenzione e riduzione integrate dell'inquinamento, per gli stabilimenti
compresi nel suo campo di applicazione. Al riguardo, l'art. 5 del decreto prevede che l'autorizzazione
debba includere valori limite di emissione per determinate sostanze inquinanti, che possono essere
emesse dall'impianto in misura significativa, in considerazione della loro natura, e delle loro potenzialità
di trasferimento dell'inquinamento da un elemento ambientale all'altro, ma che questi valori limite di
emissione non possano comunque essere meno rigorosi di quelli fissati dalla vigente normativa nazionale
o regionale.
3. Modifiche degli scarichi.
Per gli insediamenti, edifici o installazioni la cui attività sia trasferita in altro luogo ovvero per quelli
soggetti a diversa destinazione, ad ampliamento, a ristrutturazione da cui derivi uno scarico avente
caratteristiche qualitativamente o quantitativamente diverse da quelle dello scarico preesistente deve
essere richiesta, in base all'art. 45, comma 11, una nuova autorizzazione allo scarico, ove prevista. Nelle
ipotesi in cui lo scarico non abbia caratteristiche qualitative o quantitative diverse, deve essere data
comunicazione all'autorità competente, la quale, verificata la compatibilità dello scarico con il corpo
ricettore, può adottare i provvedimenti che si rendessero eventualmente necessari.
Già l'art. 10 della legge n. 319 del 1976 prevedeva che un insediamento produttivo dovesse essere
munito di una nuova autorizzazione allo scarico, quando fosse oggetto di sostanziali modifiche.
All'autorità competente per il controllo era demandata "la certificazione di nuovo insediamento sulla base
della documentazione presentata o di ogni altro accertamento ritenuto utile qualora, in relazione alla
ristrutturazione o all'ampliamento dell'insediamento produttivo, abbia origine uno scarico avente
caratteristiche qualitativamente o quantitativamente diverse da quelle dello scarico preesistente". Gli
elementi di valutazione della novità di un insediamento produttivo, oggetto anche di attenta elaborazione
giurisprudenziale, risultano rispecchiati nel disposto dell'art 45, comma 11; tuttavia, il mancato richiamo
alla "certificazione di nuovo insediamento" da parte dell'autorità, prevista dall'art. 10 della legge Merli
allarga ulteriormente il discorso in ordine all'accertamento delle innovazioni e alla pregnanza del possibile
sindacato del giudice penale.
La giurisprudenza con riferimento al previgente regime giuridico ha affermato che il titolare deve chiedere
una nuova autorizzazione ogni volta che introduca "mutamenti di struttura, di funzione o di luogo
all'insediamento stesso" (Cassazione, Sez. III penale, sent. 9 aprile-11 giugno 1997, n. 5533), ovvero
"mutamenti di attività produttiva" (Cassazione, Sez. II penale, 6 aprile 1991, n. 3852); e ha chiarito che
tali mutamenti devono "dare origine a uno scarico avente caratteristiche qualitativamente o
quantitativamente diverse da quelle dello scarico preesistente" (Cassazione, Sez. III penale, 16 febbraio
1983, n. 2046).
Sempre sul punto, una circolare del Comitato dei Ministri in data 30 dicembre 1977 ha precisato che "le
modifiche apportate al complesso produttivo mediante affinamenti tecnologici, ammodernamenti delle
attrezzature, più razionali collegamenti tra i vari reparti di produzione, non sono da considerare veri e
propri ampliamenti o ristrutturazioni qualora rimangano immutate le caratteristiche qualitative e
quantitative degli scarichi in atto [...]. Per i settori industriali (per esempio chimico) caratterizzati da
frequenti modifiche torna utile ancorare le nozioni di ampliamento e ristrutturazione ad un criterio
oggettivo e di facile accertamento e cioè all'entità dell'aumento della capacità produttiva globale degli
insediamenti [...]. In particolare, le modifiche che comportino un incremento, comunque ottenuto, della
capacità produttiva globale dell'insediamento fino al 10% di quella della data di entrata in vigore della
legge, non sono da considerare veri e propri ampliamenti o ristrutturazioni".
Può essere interessante ricordare l'analoga e sofferta elaborazione giurisprudenziale in tema di modifiche
degli impianti esistenti con riferimento alle emissioni in atmosfera. L'art. 15 del D.P.R. 203/1988, così
come integrato dal punto 21) del D.P.C.M. 21 luglio 1989, sottopone a preventiva autorizzazione la
modifica sostanziale dell'impianto che comporti variazioni qualitative e/o "significative" variazioni
quantitative in aumento delle emissioni inquinanti.
Si noti che la nuova disciplina non impone la richiesta di una nuova autorizzazione nel caso di mutamento
del titolare. Nel previgente regime, la Cassazione penale (Sez. III, sentenza 29 aprile 1997, n. 6304, Sez.
III, sentenza 25 maggio 1982, n. 8850) aveva affermato la valenza oggettiva dell'autorizzazione. Una
indiretta conferma si desumerebbe dall'elenco delle ipotesi nelle quali viene imposto il rinnovo
dell'autorizzazione, tutte riferibili a modificazioni oggettive dello scarico, e dal tipo di informazioni, di
natura strettamente tecnica, sulle caratteristiche dello scarico che accompagnano la domanda di
autorizzazione (4). A nostro avviso, tuttavia, anche se si tratta di un'autorizzazione operativa che viene
rilasciata con riferimento all'insediamento e non allo specifico titolare che ne faccia richiesta, è opportuno,
in caso di modifiche nella titolarità dello scarico, e in attesa di un chiarimento giurisprudenziale, darne
comunicazione alle amministrazioni competenti, posto che l'autorizzazione serve anche ad identificare il
soggetto, all'interno dello stabilimento che ha la rappresentanza della società ad ogni fine di legge,
incluso quello informativo. E ciò anche in considerazione di una discordante, seppur precedente,
giurisprudenza della Cassazione (Sez. III, sentenza 23 marzo 1983, n. 5011, e Sez. III, sentenza 30
novembre 1990, n. 949).
4. Disciplina transitoria.
Da ultimo, l'art. 62.11 del D.Lgs. 152/1999 dispone che, fatte salve le disposizioni specifiche previste dal
decreto, i titolari degli scarichi esistenti devono adeguarsi alla nuova disciplina entro tre anni dalla data di
entrata in vigore del decreto (vale a dire entro il 13 giugno 2002), anche nel caso di scarichi per i quali
l'obbligo venga introdotto ex novo dalla presente normativa. I titolari degli scarichi esistenti e autorizzati
procedono alla richiesta di autorizzazione in conformità alle nuove disposizioni allo scadere
dell'autorizzazione e comunque non oltre quattro anni dall'entrata in vigore del decreto.
La Cassazione ha confermato (Sez. III, 16 giugno 1999) che "restano in vigore sia le norme
regolamentari (sono tali ad esempio quelle relative ai profili formali autorizzatori), sia quelle tecniche
(sono tali, ad esempio, quelle attinenti al controllo ed ai limiti di accettabilità) purché sussista il requisito
della "compatibilità" con la nuova disciplina".
Circa la distinzione tra scarichi nuovi ed esistenti, l'articolo 2.1. cc-bis) qualifica come esistenti gli scarichi
di acque reflue industriali che alla data del 13 giugno 1999 sono in esercizio e già autorizzati. Gli scarichi
esistenti, ma non ancora autorizzati, sono comunque tenuti, in base all'articolo 62.12, ad adottare le
misure necessarie a evitare un aumento anche temporaneo dell'inquinamento, e a osservare le norme, le
prescrizioni e i valori limite stabilite secondo i casi dalle normative regionali o dalle autorità competenti. Il
decreto di modifica del 4 agosto 2000 ha introdotto una specifica sanzione per il caso in cui questa
disposizione venga violata.
La Cassazione (Sez. III penale, 14 giugno 1999, n. 2215) ha precisato che gli scarichi esistenti ma non in
regola con l'autorizzazione sono da considerarsi giuridicamente come dei nuovi scarichi, ai quali si applica
immediatamente la disciplina del D.Lgs. 152/1999. Ricordiamo che l'inosservanza dell'obbligo di adottare
misure per evitare un aumento anche temporaneo dell'inquinamento è stata interpretata dalla
giurisprudenza, secondo i consueti principi della responsabilità per colpa, sia come obbligo di adottare tali
misure, sia di mantenere in continua efficienza le misure che siano state adottate.
A. CAPRIA, La nuova disciplina degli scarichi industriali (La nuova disciplina sulle acque - D.Lgs. 11 maggio
1999, n. 152, e successive modifiche), in Rivista Giuridica dell'Ambiente, Milano, Giuffrè, 2000, n. 6, pp.
947-961.
L'Autrice esamina in dettaglio la nuova disciplina degli scarichi industriali, mediante una precisa ed
accurata analisi delle più rilevanti disposizioni del D.Lgs. 152/1999. La prima parte dell'articolo è dedicata
ad una specifica analisi delle norme in materia di valori limite di emissione, partendo dal tema dei limiti e
delle deroghe a tali valori limite, per passare poi alle questioni del punto di misurazione degli scarichi,
delle modalità di campionamento degli stessi, della disciplina applicabile ai vari tipi di scarichi industriali e
del controllo degli stessi. Nella seconda parte l'attenzione si sposta sulle procedure di autorizzazione degli
scarichi industriali. Nella terza parte viene considerata la questione delle modifiche agli scarichi. La quarta
ed ultima parte è infine dedicata ad una analisi della disciplina transitoria prevista per l'adeguamento
degli scarichi esistenti alla nuova normativa.
The Author provides a detailed examination of the new discipline applicable to industrial waste water
discharges, by means of a precise and accurate analysis of the most relevant provisions of the Legislative
Decree No. 152/1999. The first part of the article is devoted to a specific analysis of the norms on limit
values for waste water discharges, starting with the issue of the limits and the exceptions to the limits
values, and then dealing with the issues of the point of measurement of the discharges, of the modalities
for sampling the discharges, of the discipline applicable to the different categories of industrial discharges
and of their checks by the authorities. In second part, the attention is focused on the authorisation
procedures for industrial discharges. In the third part, the issue of the modification of the discharges is
considered. Finally, the fourth and last part of the article is devoted to the analysis of the transitional
discipline foreseen for bringing the existing industrial waste water discharges in conformity with the new
legislation.
NOTE
(1) L'Allegato 5 al punto 1.2 e 2 disciplina i tempi e le modalità di controllo degli scarichi industriali in
corpi d'acqua superficiali e sul suolo, al punto 2.1 elenca le sostanze per cui esiste il divieto di scarico sul
suolo e nel sottosuolo, e quelle per le quali è previsto anche lo specifico divieto di scarico diretto nelle
acque sotterranee, al punto 4 i metodi di campionamento e analisi; la tabella 3 fissa i valori limite di
emissione in acque superficiali e in fognatura (con alcune modifiche di scarso rilievo rispetto alla tabella A
e C della legge Merli che analizzeremo qui di seguito; la tabella 3/A i limiti di emissione per unità di
prodotto riferiti a specifici cicli produttivi (si tratta degli stessi settori industriali già regolati dal D.Lgs
133/1976, ora abrogato); la tabella 4 i limiti di emissione per le acque reflue urbane ed industriali che
recapitano sul suolo; la tabella 5 indica le sostanze per le quali non possono essere adottati da parte delle
Regioni o da parte del gestore della fognatura limiti meno restrittivi di quelli indicati in tabella 3 per lo
scarico in acque superficiali e in fognatura o di quelli indicati in tabella 4 per lo scarico sul suolo.
Ad un primo confronto tra la tabella 3 e le corrispondenti tabelle A e C della legge Merli si notano queste
principali differenze: viene soppresso il parametro relativo ai materiali sedimentabili e quello sui metalli e
non metalli tossici; viene sostituito il cromo trivalente con cromo totale; gli oli totali con idrocarburi totali;
i pesticidi clorurati con nuovi parametri relativi a aldrin, dieldrin, endrin, isodrin; i coliformi totali, fecali e
gli streptococchi con escherichia coli; viene infine introdotto un nuovo test per il saggio di tossicità.
Per quanto riguarda invece gli scarichi di sostanze pericolose, viene eliminato il riferimento alle
concentrazioni.
(2) G. AMENDOLA, Le nuove disposizioni contro l'inquinamento idrico, in Quaderni della Rivista Giuridica
dell'Ambiente, Giuffrè, 1999, n. 10, p. 37.
(3) L. PRATI, Lo scarico indiretto nella giurisprudenza CE e il nuovo regime italiano delle acque, in
Ambiente, n. 3/2000.
(4) M.G. CASENTINO, L'autorizzazione agli scarichi nel T.U. sulle acque, in Ambiente, n. 8/1999.
Archivio selezionato: Dottrina
Recenti sviluppi giurisprudenziali in materia di acque
Riv. giur. ambiente 2000, 06, 1007
Adabella Gratani
La rassegna approntata in materia di inquinamento idrico è diretta ad illustrare, per argomenti,
l'evoluzione degli orientamenti giurisprudenziali che si sono succeduti nel tempo nell'ambito della
complessa disciplina sulle acque.
Il materiale selezionato e massimato qui di seguito è stato reperito sia direttamente presso le cancellerie
degli organi giudicanti, sia nelle riviste giuridiche, sia attraverso l'ausilio di internet ed in particolare della
banca dati C.E.D. Le differenti fonti di accesso, se, da un lato, sono state utili elementi di conoscenza,
dall'altro lato, non hanno consentito sempre di essere completi nella indicazione dei riferimenti delle
pronunce. Così, talvolta, non è stato possibile segnalare, ad esempio, la persona del presidente e del
relatore o estensore, o la data dell'udienza diversamente da quella della pubblicazione e, quindi,
rispettare i canoni seguiti dalla Rivista Giuridica dell'Ambiente.
La rassegna, che riporta una settantina di sentenze emanate negli ultimi due anni (1999-2000), non ha
pretese di completezza ma vuole individuare solo talune delle più significative pronunce che sono state
emanate nel settore idrico e che vedono l'applicazione, diretta ed indiretta, del decreto legislativo
152/1999, nonché dei settori oggetto delle recenti modifiche apportate con il decreto legislativo
258/2000.
Allo scopo, vengono prese in considerazione anche quelle pronunce che, sebbene emanate sotto la
previgente normativa (legge 319/1976), possono essere utili elementi di confronto, di interpretazione e di
coordinamento con la nuova disciplina. Il lavoro svolto vuole essere un agevole strumento per gli
operatori del diritto e per quanti interessati alla tematica che desiderino addentrarsi e comprendere, nei
tratti essenziali, non solo la previgente ma, soprattutto, la nuova e complessa normativa.
Le difficoltà incontrate sono state avvertite non solo nel reperimento del materiale ma, principalmente,
nella composizione della rassegna e nella ripartizione delle pronunce nell'ambito di precisi argomentichiave. Sovente, come è noto, le fattispecie sottoposte agli organi giudicanti concernono e controvertono
l'applicazione di più disposizioni normative o di più parti di una stessa disposizione, tali da richiedere
parimenti una pronuncia su ognuna delle questioni trattate o sollevate dalle parti processuali. Il
panorama che ne deriva, di conseguenza, non consente di incasellare facilmente le pronunce esaminate
in rigide categorie o tematiche giuridiche.
La rassegna, pertanto, per ragioni di esposizione e di raggruppamento degli argomenti macro è stata
suddivisa in cinque parti e poi in sezioni, laddove è sembrato utile evidenziare le differenti trattazioni o
esaminare casistiche tipo. Le pronunce sono quindi riportate in ordine cronologico e di grado.
Riprendendo il modus legiferandi comunitario, anche il D.Lgs. 152/1999 esordisce nei suoi primi articoli
con l'individuazione di una serie di (più o meno) precise definizioni dei termini giuridici diretti a costituire
il lessico essenziale della disciplina nel settore delle acque che si pretende unitaria. Lo scopo di un tal
procedere vorrebbe essere quello di semplificare la normativa cosicché essa, nelle sue varie
stratificazioni, possa presentarsi - almeno nei presupposti di partenza - chiara e di facile applicazione per
i destinatari e tale da evitare difficoltà di comprensione e di interpretazione da parte del cittadino.
Nonostante tale buon proposito, dalle modifiche apportate recentemente al Testo Unico del 1999, emerge
come il legislatore delegato non sembri affatto soddisfatto del proprio operato e giunga a richiedere, dopo
circa un anno dall'emanazione del decreto legislativo 152/1999, una correzione ed implementazione dei
termini precedentemente individuati.
Prendendo spunto da un tal procedere si è ritenuto in questa sede, nella Parte prima della rassegna, di
vagliare l'evoluzione giurisprudenziale che analizza, nelle sue varie sfaccettature, la nozione di "scarico",
di cui all'art. 2 lett. bb del testo unico sulle acque; definizione, peraltro, non oggetto di novellazione con il
D.Lgs. 258/2000. Analizzando la fattispecie giurisprudenziale dello "scarico di acque reflue industriali", si
comprende come il decreto legislativo dell'11 maggio 1999, n. 152, abbia modificato la precedente
disciplina di cui alla legge 10 maggio 1976, n. 319, ed abbia richiesto espressamente per la sua
configurazione, diversamente dalla fattispecie di "immissione occasionale", la presenza di una condotta o
di altro sistema stabile idoneo ad essere utilizzato per il rilascio delle acque predette, "anche se non
esattamente ripetitivo e non necessariamente costituito da una tubazione".
Anche se la nozione di "scarico" non è stata oggetto di attenzione con il D.Lgs. 258/2000, tuttavia occorre
prendere atto che il passaggio dalla vecchia (L. 319/1976) alla nuova normativa ha creato la necessità di
identificare quando possa delinearsi la fattispecie di "scarico nuovo" e di "scarico esistente". La
distinzione non è di poco conto se si considera che, nel primo caso, trova applicazione immediata la
nuova normativa, mentre, nel secondo caso, vige il termine di tre anni per consentire di adeguare i vecchi
scarichi alla nuova disciplina - sempre che siano stati autorizzati durante la previgente normativa,
altrimenti si dovrà ravvisare la figura di "scarichi nuovi" -. In questo contesto, si avverte che il legislatore
delegato, col manipolare per la seconda volta il testo unico sulle acque e coll'introdurre all'art. 2, la
lettera cc-bis rubricata "scarichi esistenti", ha recepito e fatto proprio l'orientamento giurisprudenziale
tempestivamente formatosi medio tempore (vedi: Parte prima, Sezione III, Corte Cass., III sez. penale,
del 16 febbraio 2000, n. 1774).
Dall'esposizione delle argomentazioni e delle pronunce che precedono si comprende, quindi, come e
quando debba rinvenirsi la nuova tipologia di "scarico di acque reflue" e come questa si contrapponga a
quella di "immissione occasionale" e segni la scomparsa della figura di origine giurisprudenziale di
"scarico indiretto", ovvero di scarico di rifiuti liquidi che non versano direttamente nei corpi recettori. Con
la nuova normativa si apprende, inoltre, che solo "lo scarico di acque reflue liquide, semiliquide e
comunque convogliabili, diretto in corpi idrici ricettori, specificamente indicati", rientra nella normativa
acque e non in quella dei rifiuti.
Dopo aver posto i paletti di confine tra normativa acqua e normativa rifiuti (vedi D.Lgs. 22/1997
anch'esso oggetto di più "ripensamenti"), discipline che poggiano entrambe sul connotato di "sca-rico",
l'attenzione viene posta sui caratteri generali che configurano la tipologia degli illeciti penali e
amministrativi in materia (luogo di consumazione, reato di pericolo, danno presunto, rapporto tra illecito
amministrativo e quello penale, principio di irretroattività della legge penale).
Alla luce di quanto esaminato sopra si è ritenuto parimenti interessante evidenziare lo stretto connubio
esistente tra la condotta dello "scarico di acque reflue industriali" e gli ambiti o stabilimenti (insediamenti
civili e industriali) in cui lo scarico recapita. Così, attraverso l'enucleazione di una casistica
giurisprudenziale è stato possibile conoscere quali sono i requisiti che aiutano a connotare un
insediamento come "industriale" tale da essere oggetto di controllo e di autorizzazione nonché di
disciplina sanzionatoria. Una volta appreso quando si versi nella nuova fattispecie di "scarico", il sistema
autorizzatorio di cui agli artt. 45 e seguenti del D.Lgs. 152/1999 fa subito capitolino nei suoi tratti
generali e conclude assieme alla tematica dei depuratori comunali la Parte prima della rassegna. È
doveroso sottolineare che la disciplina autorizzatoria è stata oggetto anche delle pronunce che precedono.
Assegnandole una sezione apposita (la VII), si è voluto solo focalizzare l'imperativo incontroverso che gli
scarichi da insediamento produttivo-industriale devono essere tutti autorizzati e devono rispettare gli
specifici valori limite di emissioni previsti negli allegati al decreto legislativo 152/1999 e oggetto di
recente modifica. Anche i depuratori comunali meritano una separata analisi (sezione VIII) considerata
anche l'attenzione che la Corte comunitaria ha avuto occasione di prestare nei confronti del nostro
ordinamento.
La Parte seconda della rassegna giurisprudenziale viene dedicata ad un'altra importante e complessa
tematica: il superamento dei limiti tabellari. Proprio al fine di armonizzare e considerare unitariamente la
disciplina sulle acque, i giudici nazionali hanno cercato di confrontare e rapportare la nuova alla
previgente normativa pervenendo a ravvisare che le tabelle allegate al decreto legislativo 152/1999 non
sono comparabili sul piano tecnico con quelle a corredo della legge 319/1976. Si presenta quindi
indispensabile, oltre all'analisi attenta dei nuovi parametri presi in considerazione nelle tabelle allegate al
testo unico sulle acque, anche l'accertamento della decorrenza del termine transitorio di tre anni (di cui
all'art. 62, comma 11, D.Lgs. 152/1999) per consentire l'adeguamento alla nuova disciplina degli
"scarichi esistenti". Si apprende in tal modo come, al fine della configurazione del reato di superamento
dei limiti tabellari, fattispecie che sussiste anche in caso di diluizione, la valutazione del rispetto dei limiti
di accettabilità debba essere eseguita alla fine del periodo transitorio di tre anni e debba prendere a
riferimento non un singolo parametro bensì necessiti un confronto incrociato dei valori indicati nelle
tabelle allegate al D.Lgs. 152/1999, oltre ad esigere il rispetto di precise modalità di campionamento
(istantaneo o medio). È opportuno ricordare, poi, che il panorama qui delineato deve essere aggiornato
alla luce delle recenti modifiche apportate all'art. 62 (rubricato "norme transitorie") col nuovo D.Lgs.
258/2000.
La Parte terza della rassegna raggruppa tutte quelle pronunce che affrontano la dibattuta questione della
responsabilità e della delega delle funzioni nel campo specifico del controllo degli scarichi. In questo
contesto, l'orientamento giurisprudenziale sembra presentarsi rigido e richiedere l'avveramento di
numerose condizioni per rendere effettivo il trasferimento delle funzioni e per circoscrivere l'imputabilità
delle annesse "responsabilità ambientali". Mentre la Parte quarta vuole abbracciare le pronunce
concernenti il Testo Unico sulle acque e sugli impianti elettrici (R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775,
normativa oggetto di attenzione all'art. 23 del D.Lgs. 152/1999 e di recente novellazione) nonché
l'utilizzo in senso ampio delle acque pubbliche, l'ultima Parte (la V) prende in esame la dichiarata
illegittimità del decreto del Ministro dell'ambiente del 23 aprile 1998 (Requisiti di qualità delle acque e
caratteristiche degli impianti di depurazione per la tutela della Laguna di Venezia) nonché le conseguenze
che si producono quando gli scarichi che versano nella Laguna veneta non siano stati regolarmente
autorizzati.
Se è vero che il decreto legislativo 152/1999 ordisce la propria trama sulle esperienze legislative
precedenti (le leggi 319/1976, 183/1989 e 36/1994), riorganizzando e completando in alcuni tratti la
materia in modo più unitario nonché armonizzando il tessuto normativo alla luce delle disposizioni
comunitarie, risulta apertamente dalle recenti modifiche apportate e dalla casistica giurisprudenziale
esaminata che si tratta di un disegno non ancora ultimato e perfezionato e non esente da latenti critiche.
Archivio selezionato: Note
Sulla disciplina giuridica delle acque meteoriche: il concetto di acque reflue nel
D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152, quale limite positivo alla sua applicazione
Riv. giur. ambiente 2000, 5, 806
GiandomenicoDodaro
1. Premessa. - 2. La vicenda processuale. - 3. La qualificazione giuridica delle acque meteoriche di
dilavamento nel diritto giurisprudenziale. - 4. Il percolato naturale di discarica non costituisce scarico per
il D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152. - 5. Il percolato naturale di discarica come immissione di rifiuti ex
D.Lgs. 5 febbario 1997, n. 22.. - 6. La disciplina delle acque meteoriche dopo le novità introdotte dal
D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 258.
1. Premessa.
Il D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152, contenente le nuove disposizioni sulla tutela delle acque
dall'inquinamento idrico, formula per la prima volta in maniera esplicita (art. 2, comma 1, lett. ( bb) la
definizione di scarico, statuendo che ai fini del presente decreto si intende per scarico "qualsiasi
immissione diretta tramite condotta di acque reflue liquide, semiliquide e comunque convogliabili nelle
acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura
inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione [...]" (1). La definizione fa il punto
su una delle più dibattute questioni interpretative della precedente legislazione di settore, codificando la
nozione di scarico consolidatasi nel recente "diritto vivente" (2). Rispetto alla definizione ricavabile
indirettamente dall'art. 1, comma 1, lett. a) della legge Merli, conserva sicuramente, al di là delle
importanti novità, il nucleo forte del concetto, che pone nel carattere refluo delle acque sversate l'essenza
dello scarico.
La corretta intelligenza della nozione passa, quindi, inevitabilmente e preliminarmente per la
comprensione del concetto di acque reflue.
2. La vicenda processuale.
La sentenza che si annota affronta la questione interpretativa della definizione di scarico ex art. 2,
comma 1, lett. bb), del D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152, con riferimento alla immissione in acque
superficiali di acque meteoriche di dilavamento. È quest'ultima un'ipotesi marginale, all'interno della
tipologia delle immissioni inquinanti, ma offre lo spunto ad una serie di riflessioni, mirate a circoscrivere il
concetto di refluo, quale oggetto dello scarico, e con ciò a definire in termini di maggior puntualità e
chiarezza la sfera di applicazione della vigente normativa sulle acque.
La vicenda processuale prende spunto da alcuni degli addebiti mossi all'amministratore delegato di una
impresa, che effettuava attività di lavorazione di pirite per violazione dell'art. 21, commi 1 e 3, della
legge 10 maggio 1976, n. 319 ed ora dell'art. 59, commi 1 e 5, del D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152
(scarico abusivo di acque reflue industriali e superamento dei valori limite). L'accusa trae origine dalla
constatazione che le acque meteoriche piovute sui fini di pirite, raccolti in discarica (3), si diffondevano
sull'area circostante, in parte ristagnando in pozzanghere, in parte immettendosi in un canale di raccolta
delle acque piovane, costeggiante il sito medesimo.
Il giudicante ha escluso la configurabilità del reato di scarico non autorizzato ex art. 59, comma 1, D.Lgs.
11 maggio 1999, n. 152, sulla base della considerazione che alla luce dell'art. 2, comma 1, lett. h), dello
stesso decreto non potessero qualificarsi "reflui industriali" le acque meteoriche di dilavamento di fini di
pirite, mancando qualsiasi collegamento, sotto forma di diretta derivazione, dal ciclo produttivo di un
insediamento commerciale o industriale. A conferma dell'ipotesi interpretativa è stato richiamato anche
l'art. 29 del medesimo decreto, che escludendo dal divieto generale di scarico le acque derivanti, tra
l'altro, dagli impianti di lavaggio delle sostanze minerali, sembra di conseguenza ed a maggior ragione
escludere dal divieto anche il "lavaggio naturale" frutto delle sole precipitazioni atmosferiche. Il Tribunale
ha, pertanto, mandato assolto l'imputato perché il fatto non sussiste.
3. La qualificazione giuridica delle acque meteoriche di dilavamento nel diritto giurisprudenziale.
Uno scarico composto unicamente da acque meteoriche e di dilavamento non costituisce uno scarico in
senso tecnico-giuridico ai sensi né della previgente legge 10 maggio 1976, n. 319, né del D.Lgs. 11
maggio 1999, n. 152; le acque meteoriche sono acque di pioggia e restano tali dalla loro precipitazione al
suolo fino al loro sversamento in un corpo recettore (4) e, di regola, non richiedono una
regolamentazione giuridica per la mancanza di capacità inquinante. L'esigenza di una loro disciplina (5) si
pone, invece, insistentemente in tutti quei casi, in cui tali acque vengono a combinarsi sinergicamente
con i residui di un'attività di produzione, commerciale, residenziale o di servizi, perdendo la loro originaria
purezza, divenendo anch'esse fattori di rischio ambientale.
L'Autorità giudiziaria nei pochi casi in cui è stata chiamata de iure condito a porsi l'interrogativo, di quale
fosse il modello istituzionale di gestione di questa particolare forma di immissione che qui si esamina, ha
offerto soluzioni interpretative non soddisfacenti e condivisibili, in quanto non sufficientemente articolate
secondo la varietà fenomenica dello sversamento, conseguente alla diversa origine delle acque
componenti lo scarico.
In particolare si sono profilati due distinti orientamenti, divergenti nelle soluzioni proposte, ma concordi
nel risolvere la questione ermeneutica unicamente nell'ambito del D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152.
Secondo il primo orientamento, in linea con l'ampia definizione di scarico invalsa nella giurisprudenza di
legittimità, deve ritenersi che, se un'acqua meteorica va a "lavare" un'area adibita ad attività produttiva e
trasporta con sé elementi residuali di tale attività, cessa la sua natura pura e semplice di acqua meteorica
e diviene uno scarico vero e proprio (6).
Per il secondo orientamento, invece, è da escludersi la sussistenza di uno scarico, inteso come acque
reflue da insediamenti produttivi o residenziali, nel caso in cui lo sversamento sia composto da acque mai
state passate od utilizzate in alcun processo di lavorazione o di abitazione (7). In questo senso si è
orientato il Tribunale di Grosseto nella vicenda in oggetto.
Infine, in relazione all'ipotesi più frequente di confluenza delle acque piovane nelle acque di uno scarico
preesistente, è stato concordemente sostenuto che è configurabile uno scarico, anche quando l'acqua
piovana viene a mescolarsi in un riversamento comune con le acque di scarico, fisiologicamente prodotte
da un'azienda, atteso che per scarico debba intendersi il liquido proveniente dall'insediamento produttivo
nella sua totalità, nell'inscindibile composizione dei suoi elementi confluenti nel corpo ricettore, ancorché
composto in parte anche da liquidi non direttamente derivanti da processo produttivo, come appunto le
acque meteoriche (8).
4. Il percolato naturale di discarica non costituisce scarico per il D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152.
Tra le due alternative interpretative il Tribunale di Grosseto ha accolto, nella sentenza che si commenta,
quella che esclude la possibilità di ricondurre il percolato naturale di discarica al concetto di scarico. Pare
la scelta pienamente condivisibile, non solo sotto il profilo dell'ermeneutica letterale della definizione di
scarico, ma anche nell'ottica delle scelte di politica ambientale sottese alla recente normativa sulla tutela
delle acque.
La definizione di scarico, di cui alla lett. bb) dell'art. 2, pone nel carattere refluo delle acque immesse in
bacino l'essenza del concetto e fa, quindi, di tale origine qualificata un limite positivo all'applicazione del
D.Lgs. 10 maggio 1999, n. 152.
Acque reflue è espressione di comune dominio ed identifica uno sversamento di acque c.d. di processo
(9), nel senso di acque collegate necessariamente e funzionalmente ad un ciclo produttivo o
all'attivazione di un insediamento civile o di pubblica fognatura, acque che dopo essere state utilizzate in
attività domestiche, industriali, agricole e simili, vengono restituite dall'impianto che le ha sfruttate al
sistema idrografico, da cui sono state precedentemente attinte (10). Carattere peculiare della acque
reflue è, pertanto, non la loro mera provenienza "geografica" da un sito industriale o domestico (11),
bensì la loro stretta connessione strumentale allo svolgimento delle attività che le scaricano (12).
Rebus sic stantibus, le acque piovane di dilavamento piovute sui fini di pirite non possono venir
considerate acque reflue, non essendo state mai né attinte per le esigenze di alcun processo industriale,
né mai adoperate in esso (13); tanto meno diventano reflui a seguito di semplice mescolanza occasionale
con residui solidi minerari giacenti sull'area di caduta delle precipitazioni, per la ragione che anche in
questa ipotesi nessun utilizzo necessario e funzionale ad un ciclo produttivo è stato fatto della stessa
(14).
La possibilità di qualificare come scarico il percolato naturale va esclusa anche alla luce delle funzioni e
dell'impianto di tutela ambientale, così come delineati nel decreto stesso. Il decreto disciplina un sistema
di gestione ambientale che passa per una serie di momenti istituzionali (art. 1, comma 2: individuazione
di obbiettivi di qualità ambientale e per specifica destinazione dei corpi idrici; la tutela integrata degli
aspetti qualitativi e quantitativi nell'ambito di ciascun bacino idrografico ed un adeguato sistema di
controlli e sanzioni; il rispetto dei valori limite agli scarichi fissati dallo Stato, nonché la definizione di
valori limite in relazione agli obiettivi di qualità del corpo ricettore; l'individuazione di misure per la
prevenzione e la riduzione dell'inquinamento nelle zone vulnerabili e nelle aree sensibili), mirati ex art. 1
a prevenire e ridurre l'inquinamento e attuare il risanamento dei corpi idrici inquinati, a conseguire il
miglioramento dello stato delle acque ed adeguate protezioni di quelle destinate a particolari usi, a
perseguire usi sostenibili e durevoli delle risorse idriche, mantenere la capacità di autodepurazione dei
corpi idrici, nonché la capacità di sostenere comunità animali e vegetali ampie e ben diversificate.
Si tratta in tutta evidenza di un sistema organico di gestione ambientale, che richiede un complesso di
informazioni certe, o quantomeno attendibili, in merito alle caratteristiche dei bacini idrografici da
preservare ed all'impatto esercitato sugli stessi dalle attività umane ad esso direttamente ed
indirettamente afferenti.
Basti soffermarsi sulla disciplina autorizzatoria degli scarichi prevista dal decreto per rendersene conto. Il
contenuto della domanda di autorizzazione allo scarico di acque reflue industriali consta, infatti, ex art.
46, tra l'altro, dell'indicazione delle caratteristiche quantitative e qualitative dello scarico, della quantità di
acqua da prelevare nell'anno solare, della descrizione del sistema complessivo di scarico, ivi comprese le
operazioni ad esso connesse, quale il sistema di misurazione del flusso degli scarichi.
Alla stregua di quanto sin qui riportato, pare possa concludersi che il D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152 si
interessa unicamente dei flussi di acque funzionalmente collegate e necessarie ad un processo produttivo
o ad un'attività residenziale, in ragione dei loro caratteri di prevedibilità, controllabilità e prevenibilità
(15). Il percolamento di discarica, causato dal dilavamento delle acque piovane, qualificato da una
inevitabile incertezza sull' an e sul quantum del verificarsi, resta perciò fuori dal governo istituzionale
degli scarichi voluto dal legislatore del 1999.
5. Il percolato naturale di discarica come immissione di rifiuti ex D.Lgs. 5 febbario 1997, n. 22.
L'assunto accolto dal Tribunale di Grosseto, fondato sui limiti esegetici dell'espressione acque reflue, porta
ad escludere l'applicazione del D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152 al percolamento naturale di discarica;
resta da chiedersi se questo caso di inquinamento sia riconducibile sotto una diversa normativa o se al
contrario resti privo di qualsiasi regolamentazione giuridica.
È realisticamente difficile ritenere, come indirettamente fa il Tribunale di Grosseto, che gli effluenti
naturali di una discarica possano essere lasciati privi di qualsiasi disciplina giuridica, data la loro
dimostrata idoneità a danneggiare le acque superficiali in cui vanno a riversarsi (16); di talché a fronte di
evidenti esigenza di tutela ambientale è necessario presupporre che le immissioni inquinanti, di cui si
tratta, debbano opportunamente trovare un precipuo luogo di regolamentazione giuridica.
Procedendo in questa direzione, si tratta di considerare lo specifico oggetto della immissione, oltreché le
modalità della stessa, per individuare la legislazione concretamente applicabile.
Si rammenta che la vicenda processuale, oggetto della sentenza annotata, aveva riguardo ad una
discarica, in cui erano stati raccolti e smaltiti i residui minerari della lavorazione della pirite, che a causa
del dilavamento provocato dalla caduta di acqua piovana venivano trasportati in un canale di raccolta.
Posto che è da escludere in questo caso la sussistenza di uno scarico per tutte le ragioni su esposte,
considerato che l'acqua piovana ha costituito unicamente vettore dei fini di pirite, supporto della
movimentazione dei rifiuti depositati in discarica e della loro immissione nell'ambiente (17), fattore
accidentale, esterno ed estraneo all'attività che tali rifiuti ha prodotto, è alla natura di rifiuto del materiale
solido immesso nell'ambiente, che si deve far riferimento per individuare la normativa applicabile alla
vicenda di specie. Così procedendo, non si può che sostenere la riconoscibilità del percolato naturale alla
disciplina sui rifiuti (18), di cui al D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 ed in particolare all'art. 14, comma 2, che
"vieta l'immissione di rifiuti di qualsiasi genere, allo stato solido o liquido, nelle acque superficiali e
sotterranee"; l'art. 50, comma 2, del medesimo decreto prevede le pene per il titolare di impresa o per i
responsabili di enti, che violano le disposizioni dell'art. 14, commi 1 e 2.
La disposizione richiamata non trova ostacoli alla sua applicazione agli effluenti naturali di discarica. La
condotta vietata dalla norma consiste, infatti, nell'introdurre rifiuti in un acque superficiali o sotterranee;
non essendo prevista una forma vincolata dell'immissione, questa può ben essere integrata tanto da una
condotta commissiva, quanto da una condotta omissiva; in questa seconda ipotesi, sarebbe potuto
rientrare il caso all'esame del Tribunale di Grosseto e la responsabilità dell'amministratore dell'azienda si
sarebbe incardinata per il fatto di non aver adottato tutte le misure necessarie ad impedire l'effusione di
materiale solido depositato in discarica nelle acque superficiali, ancorché per l'azione di agenti
atmosferici.
6. La disciplina delle acque meteoriche dopo le novità introdotte dal D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 258.
Il D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 258 (19), innova il decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152,
introducendo, tra l'altro, importanti integrazioni alla disciplina delle acque meteoriche di dilavamento.
Innanzitutto le sottrae al divieto generale di scarico sul suolo e sottosuolo, nel caso in cui siano
convogliate in reti fognarie separate (art. 29, comma 1, lett. e) e vieta nelle zone di rispetto la
dispersione nel sottosuolo di acque meteoriche provenienti da piazzali e strade (art. 21, comma 5, lett.
d). Tramite l'art. 39, poi, riconosce alle Regioni il potere di sottoporle a forme di controllo ed a particolari
prescrizioni, compresa l'autorizzazione; definisce con maggior puntualità i limiti entro i quali può essere
richiesto il loro trattamento in impianti di depurazione; ed infine proclama espressamente il divieto di
scarico ed immissione diretta di acque meteoriche nelle acque sotterranee. Gli artt. 54 e 59 arricchiscono
il sistema sanzionatorio del decreto sulle acque, prevedendo rispettivamente sanzioni amministrative e
penali per l'inosservanza della disciplina dettata dalle Regioni ai sensi dell'art. 39.
Con riferimento alla qualificazione giuridica della vicenda oggetto della sentenza che si annota, la recente
novella non ha introdotto novità, atteso che il termine scarico viene, comunque, utilizzato sempre e solo
in relazione ad acque meteoriche caratterizzate da una provenienza qualificata (es. rete fognarie).
L'interpretazione che si è voluto sostenere nei paragrafi precedenti non risulta, quindi, affatto scalfita. Al
più sarà la normativa di origine regionale ad incidere sulla disciplina delle immissioni di acque meteoriche
di dilavamento, ma solamente per quanto riguarda la previsione di particolari prescrizioni ed obblighi di
depurazione.
NOTE
(1) Per un commento al decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152: R. TUMBIOLO, Acqua, in S. NESPOR
- A.L. DE CESARIS (a cura di), Codice dell'ambiente, (Aggiornamento), 1999, p. 1; P. FICCO - R. RIFICI M. SANTOLOCI, La nuova tutela delle acque. Gli obblighi, gli obiettivi e gli strumenti previsti dal D.Lgs.
152/1999, 1999; G. AMENDOLA, Il decreto legislativo n. 152/1999 e l'inquinamento delle acque, in
Questione giustizia, 1999, p. 632; L. BUTTI, Il nuovo D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152, sulla tutela delle
acque dall'ínquinamento, in Giur. mer., 1999, p. 946; M. SANTOLOCI - S. MAGLIA, La nuova normativa
sull'inquinamento idrico, in Riv. pen., 1999, p. 519; V. PAONE, Il nuovo decreto sulle acque, in Foro. it.,
11, 1999, 558.
(2) Si fa riferimento in particolare a Cass., SS.UU., 27 settembre 1995, F., in questa Rivista, 1996, p.
678, con nota di P. Giampietro, Le Sezioni Unite segnano lo spartiacque fra scarichi idrici e rifiuti ed a
Corte Cost., 20 maggio 1998, n. 173, in RTDPE, 1998, p. 671.
Sulla definizione giurisprudenziale di scarico, per tutti: G. Amendola, La tutela penale dall'inquinamento
idrico, 1996.
(3) Per una vicenda riguardante un percolamento da discarica, non causato da agenti atmosferici, vedi
Pret. Civitanova Marche, 9 agosto 1989, S., in Foro it., 1990, II, 281.
(4) Trib. Terni, 23 novembre 1999, B., in Riv. pen., 2000, p. 53.
(5) Si veda, infatti, l'art. 39 del D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152: "Le Regioni disciplinano i casi in cui può
essere richiesto, che le acque di prima pioggia e di lavaggio delle aree esterne non recapitanti in reti
fognarie siano convogliate e opportunamente trattate in impianti di depurazione per particolari
stabilimenti nei quali vi sia il rischio di deposizione di sostanze pericolose sulle superfici impermeabili
scoperte".
(6) Cass., III, 30 settembre 1999, n. 12186, B., in Riv. pen., 1999, p. 1093; Trib. Terni, 23 novembre
1999, cit. In dottrina, cfr. P. Giampietro, op. cit., p. 691.
(7) App. Trento, 22 gennaio 1993, R., in Riv. pen., 1993, p. 735 e in questa Rivista, 1993, p. 531;
interpretazione implicitamente confermata in, Cass., 1° giugno 1984, T., in Riv.pen., 1985, p. 717.
(8) Cass., III, 5 ottobre 1984, B., in Giust. pen., 1985, p. 417; Cass., 6 novembre 1990, n. 7449, G., in
Riv. pen., 1991, p. 301; nello stesso senso anche di recente, Trib. Terni, 23 novembre 1999, cit.
L'orientamento giurisprudenziale in queste ultime ipotesi è assolutamente condivisibile, in ragione del
fatto che le acque piovane si fondano con le acque di una immissione già di per sè qualificabile come
scarico.
(9) Cass., SS.UU., 27 settembre 1995, F., cit.
(10) Che per acque reflue devono intendersi acque attinte da un bacino, si ricava dall'art. 46 del D.Lgs.
11 maggio 1999, n. 152, che individuando il contenuto informativo della domanda di autorizzazione agli
scarichi di reflui industriali, elenca anche la quantità di acqua da prelevare nell'anno solare.
(11) Dalla recente normativa sulla tutela delle acque viene superata la definizione degli scarichi secondo
la provenienza, sicché viene abbandonata la nozione di insediamento produttivo o civile, sulle quali era
stata stabilita una differenzazione di disciplina degli scarichi e si passa ad una distinzione per tipi di acque
di scarico.
(12) Cfr., P. Ficco-M. Santoloci, Acque di scarico e rifiuti allo stato liquido: dov'è il confine?, in Rifiuti Bollettino di informazione normativa, 1999, n. 54.
L'interpretazione che qui si sostiene trova conferma anche nella Relazione governativa al decreto, in cui si
dichiara di aver accolto la definizione di scarico elaborata dalle sentenze Cass., SS.UU., 27 settembre
1995, F., già cit. e da Corte Cost., 20 maggio 1998, n. 173, cit., p. 671, che hanno ricondotto appunto la
nozione di scarico a quella di acque di processo immesse in corpi idrici o nel suolo, includendovi tutte le
operazioni allo stesso strettamente finalizzate.
Per un esempio di cosa debba intendersi per acque funzionalmente collegate ad un ciclo produttivo, vedi
Pret. Poggibonsi, 27 settembre 1989, in Toscana lav. giur., 1990, p. 247, secondo cui è penalmente
rilevante lo scarico continuativo in acque pubbliche di reflui che, pur non derivando direttamente e
funzionalmente dallo svolgimento dell'attività produttiva, sia con questa strettamente connesso, come ad
esempio le acque provenienti dal frequente lavaggio delle mani dei lavoratori di un'azienda produttrice di
materiali per edilizia.
(13) Che un'acqua, per essere qualificata reflua, presupponga la fase del passaggio ed utilizzazione in un
processo di lavorazione o produzione viene affermato anche in App. Trento, 22 gennaio 1993, cit.
(14) Pret. Agusta, 29 ottobre 1980, V. (inedita).
Si ricorda che diversamente si sarebbe dovuto concludere qualora l'acqua piovana fosse confluita in uno
scarico già esistente, retro.
(15) Cfr. Cantore- Febbraio- Fiore, Relazione introduttiva al Convegno di Urbino 30 ottobre 1976, in
Prevenzione e repressione dell'inquinamento idrico nella L. 10 maggio 1976, n. 319, 1977, ove, tra l'altro,
si sostiene che "risulterebbe... non plausibile gran parte della regolamentazione dettata dalla legge se
non presupponendo i necessari riferimenti a scarichi che per tipologia e modalità di effettuazione siano
non solo geograficamente localizzabili, ma anche materialmente realizzati in modo stabile e comunque
non precario, mediante opere dirette ad assolvere esigenze durevoli e comunque non occasionali...
Sembra quindi doversi concludere che restino fuori dal campo di applicazione della legge gli scarichi e
sversamenti attuati in maniera precaria, saltuaria e occasionale nonché quelli che pur essendo prodotti da
attività umane organizzate non possono riferirsi ad insediamenti civili, ad attività produttive o a servizi
pubblici".
In questo senso anche, F. Giampietro, Requisiti oggettivi e soggettivi dello scarico nella legge Merli e li
smaltimento dei rifiuti solidi nel D.P.R. 915 del 1982 (nota a Cass., III, 25 febbraio 1981, M.), in Cass.
pen., 1982, p. 2081 e P. Ficco-M. Santoloci, Acque di scarico e rifiuti allo stato liquido: dov'è il confine?,
cit.
(16) È stato accertato mediante i campionamenti degli ispettori dell'ARPAT che "le acque del canale di
raccolta, dopo aver ricevuto l'apporto delle acque meteoriche cadute sulla pirite, presentavano elevate
concentrazioni di metalli pesanti nonché bassi livelli di pH, parametri tutti superiori a quelli previsti dalla
tabella A allegata alla legge 319/1976; peraltro, che le acque in questione presentino evidenti segnalidi
anomalia, è dato che si ricava anche superficialmente dalla semplice visione dell'intenso colore "rosso", a
riprova di una forte presenza di sostanza minerale al loro interno".
(17) La vicenda non è neppure riconducibile al caso di uno scarico recante materiali solidi in sospensione;
identica dal punto di vista naturalistico, quest'ultima ipotesi, infatti, si caratterizza sotto il profilo della
qualificazione funzionale delle acque sversate, che sono comunque reflui di un processo produttivo. Vedi,
Cass., III, 15 ottobre 1990, n. 15495, R., in Riv. pen., 1991, p. 849, secondo la quale integra lo scarico
anche l'acqua reflua superficiale contenente particelle solide, come materiali grossolani, sedimentabili e in
sospensione (nella fattispecie si trattava di polvere di marmo); cfr. Cass., III, 17 dicembre 1999, n. 1774,
S., r.v. 215607.
(18) È opinione ampiamente condivisa che il decreto in esame si pone come norma di chiusura del
sistema generale di tutela dell'ambiente nelle componenti del suolo, acqua e aria, riferibile a qualsiasi
attività relativa ad ogni genere di rifiuto; rispetto ad essa la normativa di settore si pone in termini non di
netta separazione, ma di concorrenza ed integrazione e la sua efficacia deve essere sempre compatibile
con i principi e le disposizioni della normativa sui rifiuti, cui occorre far riferimento per tutto ciò che non è
da essa disciplinato (Cass., III, 8 febbraio 1999, in Foro it., 1999, 365, con nota di G. Amendola).
Posta la parziale coincidenza dell'ambito applicativo delle normative sui rifiuti e sulle acque, dovuta al
fatto che nella definizione di rifiuto di cui al D.Lgs. n. 22 del 1997 sono compresi anche i rifiuti allo stato
liquido, la linea di discrimine tra la disciplina dei rifiuti e quella sull'inquinamento delle acque è ormai, per
consolidata interpretazione giurisprudenziale, segnata dalla nozione di scarico. Per tutte, dopo l'entrata in
vigore del D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152, Cass., III, 24 giugno 1999, n. 2358, in Riv. pen., 1999, p. 725,
con nota di S. Maglia e M. Santoloci.
(19) Cfr. G.U., Suppl. Ord. n. 153/L del 18 settembre 2000.
Archivio selezionato: Note
Nuovo regime delle acque: la Cassazione recupera lo "scarico indiretto"
Riv. giur. ambiente 2000, 5, 745
LucaPrati
Nelle prime decisioni che hanno seguito l'emanazione del D.Lgs. 152/1999 la Corte di Cassazione aveva
decisamente sostenuto che, con l'entrata in vigore del nuovo regime, si dovesse ritenere essenzialmente
superata la soggezione alla normativa sulle acque dello scarico indiretto (concetto presente invece nella
Merli), nel senso che dovendosi intendere per "scarico" lo sversamento diretto del refluo nei corpi
recettori, quando il collegamento tra punto di emissione e corpo recettore venga interrotto, verrebbe
meno anche lo scarico stesso e resterebbe quindi interamente applicabile la sola normativa sui rifiuti.
In particolare, in una delle primissime pronunce successive all'entrata in vigore del nuovo Decreto sulle
acque (1) la Corte ha testualmente affermato che: "...non sembra dubitabile la scomparsa di quello che
la giurisprudenza qualificava come scarico indiretto, ovvero la sua trasformazione in rifiuto liquido. Più
esattamente, dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. 152/1999, se per scarico si intende il riversamento
diretto nei corpi recettori, quando il collegamento tra fonte di riversamento e corpo ricettore è interrotto,
viene meno lo scarico (indiretto) per far posto alla fase di smaltimento del rifiuto liquido".
La conclusione della Corte sopra citata trova il suo presupposto nella definizione di scarico offerta dal
D.Lgs. 152/1999, nella quale infatti, a differenza che nella legge Merli, non compare più, accanto al
termine scarico, l'aggettivo "indiretto", evidenziandosi al contrario, nella nuova definizione legale, una
precisa limitazione alle immissioni dirette tramite condotta. Lo scarico, nell'art. 2, comma 2, lett. bb), del
D.Lgs. 152/1999, è infatti definito come "qualsiasi immissione diretta tramite condotta di acque reflue
liquide, semiliquide e comunque convogliabili nelle acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete
fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di
depurazione".
La conseguenza di questi rilievi era apparsa essere, ai primi commentatori del D.Lgs. 152/1999, la
necessaria riconduzione di ogni tipo di scarico indiretto (come quello effettuato tramite autobotti, o quello
che si origina per percolamento o tracimazione da una vasca in cui siano stati versati rifiuti liquidi)
nell'ambito della disciplina del D.Lgs. 22/1997 sullo smaltimento dei rifiuti, con l'eccezione della
(discussa) "immissione occasionale" prevista dagli artt. 54 comma 1 e 59 comma 5 del D.Lgs. 152/1999.
Nonostante detti rilievi, va evidenziato come la Cassazione, in una differente pronuncia (2), quasi
contemporanea di quella sopra richiamata, avesse comunque ribadito la necessità di autorizzazione per lo
sversamento di reflui effettuato da autobotti in una vasca a tenuta stagna (che in quanto tale potrebbe
tutt'al più presentare il pericolo di uno scarico "indiretto"), e ciò, evidentemente, anche dopo l'entrata in
vigore della nuova definizione legale di scarico, ravvisando tra l'altro la Suprema Corte, nel caso in
questione, una sostanziale continuità tra le fattispecie rispettivamente previste dall'art. 21 della legge
319/1976 e dall'art.59, comma 1, del D.Lgs. 152/1999, entrambe relative allo scarico non autorizzato di
acque industriali.
Nella pronuncia che qui si commenta la Corte, riconfermando la (peraltro opinabile) necessità di
autorizzazione anche per lo scarico di reflui in vasche a tenuta stagna, dichiara altresì espressamente
l'assoggettamento anche degli "scarichi indiretti" al D.Lgs. 152/1999, in chiara controtendenza rispetto
alla citata sentenza del giugno 1999.
Ed infatti nella decisione su estesa il collegio giudicante, spostando la propria attenzione dal concetto di
"scarico" esplicitato nell'art. 2, comma 2, lett. bb) del D.Lgs. 152/1999 a quello di "inquinamento",
definito dalla lett. z) del medesimo comma, come "lo scarico effettuato direttamente o indirettamente
dall'uomo nell'ambiente idrico di sostanze o di energia le cui conseguenze siano tali da mettere in pericolo
la salute umana, nuocere alle risorse viventi e al sistema ecologico idrico, compromettere le attrattive o
ostacolare altri usi legittimi delle acque", afferma che anche lo scarico "indiretto", effettuato in una vasca
a tenuta stagna (3), resterebbe soggetto alla nuova normativa sulle acque, con l'eccezione della sola fase
di trasporto del refluo, che ricade nel campo di applicazione della legge sui rifiuti (salvo riproporsi il
problema dell'autorizzazione allo scarico dopo il trasporto, quando il collegamento funzionale con il corpo
recettore viene ripristinato).
È opportuno ricordare che l'inclusione dello scarico "indiretto" nel campo di applicazione della disciplina
sulle acque è stata recentemente affermata dalla Corte di giustizia delle Comunità europee, ed in specie
nelle sentenze (4) van Rooij (C - 231/97) e Nederhoff (C - 232/97) proprio sulla base delle definizione di
"inquinamento" contenuta nella direttiva 76/464/CEE (art. 1, n. 2, lett. e), ed identica a quella trasposta
nel D.Lgs. 152/1999 (che, dopo l'abrogazione del D.Lgs. 133/92, deve intendersi dare attuazione anche
alla succitata direttiva 76/464) (5).
La sentenza che qui si annota certamente suscita un certo stupore, se si considera la chiara definizione di
scarico "tramite condotta" prevista dal nuovo regime ed il fatto che la eliminazione dello scarico
"indiretto" pareva essere uno dei pochi capisaldi certi del D.Lgs. 152/1999. Tuttavia, la pronuncia in
questione ha l'effetto di ridurre la discrasia che pare essersi creata tra definizione nazionale e definizione
comunitaria di "scarico" dopo le due recenti sentenze della Corte di giustizia sopra citate, esplicitamente
volte a dichiarare la rilevanza dello scarico "indiretto" ai fini dell'applicazione della normativa sulle acque,
in apparente contrasto con la definizione nazionale di scarico limitata alle immissioni "tramite condotta".
Va da sé che la riproposizione delle incertezze sulla definizione di "scarico" rende inevitabilmente più
fluida la linea di discrimine tra la normativa sulle acque e quella sui rifiuti, discrimine che ha costituito
una annosa questione che sembra ancora lontana dal trovare la sua conclusione definitiva, e che rende il
diritto vigente in materia pericolosamente incerto (6).
La sentenza si segnala infine in quanto ribadisce la natura industriale degli scarichi provenienti da
mattatoi, già affermata dal precedenti decisioni (7).
La demarcazione tra le diverse nozioni di acque domestiche ed industriali riveste infatti importanza
fondamentale anche nel D.Lgs. 152/1999, considerando il differente regime normativo applicabile.
Va comunque evidenziato come il D.Lgs. 152/1999, per distinguere tra le suddette categorie di acque,
sembri voler superare la tradizionale distinzione operata esclusivamente sulla base della provenienza
degli scarichi da insediamento produttivo piuttosto che civile, abbandonando le corrispondenti definizioni
contenute nella legge Merli e puntando invece l'attenzione sulla natura, e quindi sulla tipologia oggettiva
dei reflui, venendo le acque domestiche ad essere individuate in quelle derivanti prevalentemente dal
metabolismo umano e da attività domestiche.
NOTE
(1) Corte di Cassazione, Sez. III penale, 24 giugno 1999, in Foro it., 1999, II, 691, con nota di G.
Amendola, Acque di scarico e rifiuti liquidi: i nuovi confini.
(2) Corte di Cassazione, Sez. III penale, 14 giugno 1999, in questa Rivista, 2000, p. 84.
(3) La sentenza in questione peraltro, pur dichiarando l'assoggettamento al D.Lgs. 152/1999 anche degli
scarichi "indiretti", afferma la natura di "immissione diretta" dello sversamento del refluo nella vasca a
tenuta stagna; l'affermazione suscita perplessità, in quanto i corpi recettori sono, per definizione legale,
costituiti soltanto dalle acque superficiali, dal suolo, dal sottosuolo e dalla rete fognaria, che solo
indirettamente (per tracimazione o percolamento dovuto a perdita della tenuta) possono essere attinti dai
reflui scaricati in una vasca a tenuta stagna, e non certo tramite un'immissione diretta tramite
"condotta".
(4) Le massime possono essere lette in Ambiente, 1999, p. 1181. In tema, vedi anche Ambiente, 2000,
pp. 267 ss.
(5) Anche nella direttiva 91/676, formalmente recepita dal D.Lgs. 152/1999, per "inquinamento", si
intende "lo scarico effettuato direttamente o indirettamente nell'ambiente idrico di composti azotati di
origine agricola, le cui conseguenze siano tali da mettere in pericolo la salute umana, nuocere alle risorse
viventi e all'ecosistema acquatico, compromettere le attrattive o ostacolare altri usi legittimi delle acque".
(6) Tra i numerosi contributi in materia, si veda P. Giampietro, Quanta ressa (rissa?) ai confini tra le
"acque di scarico" e i "rifiuti", in Ambiente, 1998, p. 717, e G. Amendola, Acque di scarico e rifiuti liquidi:
i nuovi confini, cit.
(7) Recentemente, Cass. 4 febbraio 1999, S., inedita. Vedi anche Cass., Sez. III penale, 13 marzo 1996,
in Foro it., 1997, II, 94.
Archivio selezionato: Note
Scarichi industriali "indiretti" e scarichi industriali "nuovi" dopo il D.Lgs. 152/99
Riv. giur. ambiente 2000, 1, 91
LucaPrati
Nel vigore della legge Merli il versamento di reflui in vasche effettuato tramite autobotti o dal quale si
potessero originare scarichi indiretti nel suolo e sottosuolo per filtrazione, tracimazione o percolamento
veniva per lo più ricondotto dalla giurisprudenza (1) al campo di applicazione della stessa legge n.
319/76, legge che si prefiggeva (art. 1) di disciplinare gli "scarichi di qualsiasi tipo... diretti o indiretti, in
tutte le acque superficiali e sotterranee, interne e marine, nonché in fognature, sul suolo e nel
sottosuolo" (2).
Qualche perplessità in relazione ad un tale tipo di soluzione era sorta dopo l'entrata in vigore del D.Lgs.
22/97, avendo la stessa Corte di Cassazione (3) individuato un nuovo campo di possibile interferenza tra
la normativa sui rifiuti e quella sulle acque: il D.Lgs. 22/97, nel descrivere le operazioni dirette allo
smaltimento ed al recupero dei rifiuti, ne individua infatti alcune (quali il "lagunaggio", definito come
"scarico di rifiuti liquidi o di fanghi in pozzi, stagni o lagune, ecc.") che sembravano riguardare attività
precedentemente ricondotte nella sfera di applicazione della L. 319/76. Ciononostante, si era affermato,
la disciplina della Merli avrebbe continuato a trovare piena applicazione, specie quando dall'operazione di
lagunaggio (o comunque di accumulo in vasche) si origini comunque uno scarico indiretto per
percolazione del refluo, dovuto alla mancanza di tenuta stagna della vasca di accumulo stessa (4).
Il quadro sembrerebbe però drasticamente mutato a seguito dell'entrata in vigore del D.Lgs. 152/99, il
quale all'art. 2, lett. bb), ha dato la seguente definizione di "scarico": qualsiasi immissione diretta tramite
condotta di acque reflue liquide, semiliquide e comunque convogliabili nelle acque superficiali, sul suolo,
nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a
preventivo trattamento di depurazione. Sono esclusi i rilasci di acque previsti all'articolo 40; al successivo
punto cc) vengono invece definite le "acque di scarico" come tutte le acque reflue (domestiche,
industriali, urbane) provenienti da uno scarico.
La definizione di "scarico" data dall'art. 2 lett. bb) del D.Lgs. 152/99 contiene quindi un significativo
elemento di novità rispetto alla legge Merli. Infatti, nella definizione di "scarico" provveduta dalla nuova
normativa sulle acque vi è una precisa limitazione alle immissioni dirette tramite condotta (5). Pertanto,
ogni tipo di scarico indiretto (come quello effettuato tramite autobotti, o quello che si origina per
percolamento o tracimazione da una vasca in cui siano stati versati rifiuti liquidi) dovrebbe ora, in via
generale, ricadere integralmente nell'ambito della disciplina del decreto Ronchi sullo smaltimento dei
rifiuti (6), con l'eccezione della "immissione occasionale" prevista dagli artt. 54, comma 1, e 59, comma
5, del D.Lgs. 152/99 (7). È infatti opportuno ricordare che l'art. 8, comma 1, lett. e) del decreto Ronchi
prevede che rimangano esclusi dal campo di applicazione del decreto stesso le acque di scarico, esclusi i
rifiuti allo stato liquido": venendo meno la natura di "acque di scarico" dei reflui, torna a trovare piena
applicazione la legge quadro sui rifiuti.
Sembrerebbe pertanto conseguirne che per reati integrati tramite l'effettuazione di scarichi indiretti non
autorizzati, posti in essere anteriormente all'entrata in vigore del D.Lgs. 152/99 e per i quali a tale data
non sia ancora intervenuta sentenza irrevocabile, si verifichi un fenomeno di successione di leggi penali
nel tempo (dalla legge Merli al decreto Ronchi), e che quindi l'art. 21, primo comma, della L. 319/76, in
forza dell'art. 2, comma 3, del c.p., continui a trovare applicazione solo e nei limiti in cui risulti in
concreto norma più favorevole rispetto alle fattispecie previste dall'art. 51 del D.Lgs. 22/97 per le ipotesi
di illecito smaltimento, gestione e/o immissione in acqua di rifiuti. Il fenomeno di successione di leggi
penali nel tempo ben può infatti verificarsi anche quando, a seguito dell'abrogazione o riformulazione di
una norma, venga a riespandersi una diversa fattispecie di carattere più generale, che ricomprendeva al
suo interno l'ipotesi più specifica venuta meno (8). Nella sentenza in esame, la Corte di Cassazione ha
invece ritenuto di dover porre a confronto le fattispecie rispettivamente previste dall'art. 21 della L.
319/1976 e dall'art. 59, comma 1, del D.Lgs. 152/99, entrambe relative allo scarico non autorizzato di
acque industriali, identificando nella prima la legge più favorevole all'imputato.
La sentenza si segnala inoltre (analogamente alla sentenza della Corte di Cassazione n. 2215 emessa
nella stessa data e pubblicata subito prima di quella che qui si annota) per avere preso posizione su ciò
che debba essere considerato "scarico nuovo" ai sensi del D.Lgs. 152/99. Richiamando la nota in calce
all'allegato 5, viene evidenziato come, per la acque reflue industriali, siano da considerare esistenti "gli
scarichi di acque reflue industriali in esercizio e già autorizzati". Solo gli scarichi già autorizzati all'entrata
in vigore del D.Lgs. 152/99 possono perciò ritenersi "esistenti" (in senso giuridico, e non solo fisico) e
quindi avvalersi dei tempi previsti per l'adeguamento alle nuove prescrizioni (fatto salvo l'obbligo di "
stand still" ex art. 62, comma 12).
La conferma giurisprudenziale sembra perciò risolvere quei problemi interpretativi opportunamente
evidenziati (9) dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. 152/99 in relazione all'art. 62, comma 11, del decreto
stesso (10), il cui primo periodo menziona tra gli scarichi esistenti anche quelli per i quali l'obbligo di
autorizzazione è stato introdotto dal D.Lgs. 152/99, mentre il secondo si riferisce a scarichi esistenti e
autorizzati; i termini impropriamente usati dal legislatore (che finisce per contrapporre gli scarichi
esistenti a quelli esistenti ed autorizzati) avrebbero potuto comportare la possibilità di una lettura delle
norme transitorie tale da consentire una generalizzata sanatoria per tutti gli scarichi abusivi esistenti (in
senso fisico, e non giuridico) alla data di entrata in vigore della nuova normativa), per i quali poteva
apparire essere stato concesso dal legislatore un termine triennale di adeguamento.
In definitiva, la Corte chiarisce come il possesso dell'autorizzazione sia il solo elemento che consenta di
considerare lo scarico "esistente", e quindi soggetto al regime transitorio di adeguamento, mentre per gli
scarichi solo "fisicamente" esistenti la legge non ha concesso alcuna tolleranza, imponendo
immediatamente il rispetto integrale delle nuove prescrizioni (11).
NOTE
(1) Cassazione penale, Sez. III, 4 dicembre 1995, n. 479 in Cass. pen. 1998, p. 236 (s.m.); Cassazione
penale, Sez. III, 4 dicembre 1995, n. 479, in Riv. pen. economia 1997, p. 112 (s.m.); Cassazione penale,
Sez. III, 20 novembre 1993, in Dir. giur. agr. 1996, p. 58 ed in Giust. pen. 1996, II, p. 557; Cassazione
penale, Sez. III, 23 settembre 1993, in Foro it. 1994, II, p. 596 con nota di V. Paone, ed in Giust. pen.
1994, II, p. 545; Pretura Vallo Lucania 29 ottobre 1987, in Giur. merito 1990, p. 652; Cassazione penale,
Sez. III, 17 febbraio 1988, in Cass. pen. 1989, p. 2076 (s.m.); Cassazione penale, Sez. III, 17 novembre
1980, in Cass. pen. 1982, 2074 (secondo Cass., Sez. III, 7 maggio 1996, Cilento, in questa Rivista, 1997,
p. 108, ed in Foro it., 1997, II, 33, la legge Merli non sarebbe però stata applicabile nel caso di vasche a
tenuta stagna, non potendosi in questi casi configurare uno scarico, neppure indiretto, nel suolo o nel
sottosuolo).
(2) Cfr. per la differenza tra scarichi disciplinati dalla L. 319/76 e sversamento di rifiuti, G. Amendola, La
tutela dell'inquinamento idrico, Milano, 1993, p. 56; A. Jazzetti, La normativa in materia di rifiuti, Milano
1993, p. 33. Per la giurisprudenza, confronta per tutte Cassazione, Sez. Unite, 27 settembre 1995,
Forina, in questa Rivista, 1996, p. 678, con nota di P. Giampietro.
(3) Cassazione penale, Sez. III, 23 maggio 1997, Bacchi, in questa Rivista, 1998, p. 289, con nota di L.
Prati.
(4) Cassazione penale, Sez. III, 23 maggio 1997, Bacchi, cit.; Cassazione penale, Sez. III, 15 luglio
1997, n. 9172, in Cass. pen. 1998, p. 3402 (s.m.), in Riv. trim. dir. pen. economia 1998, p. 681 (s.m.),
ed in Giust. pen. 1998, I, p. 722 (s.m.); Cassazione penale, Sez. III, 23 maggio 1997, n. 1245, in Foro it.
1997, II, 762 con nota di G. Amendola.
(5) Tuttavia la Corte di giustizia delle Comunità europee, nelle sentenze rese il 29 settembre 1999 nei
procedimenti C - 231/97, van Rooij, e C - 232/97, L. Nederhoff & Zn., ha affermato che rientrerebbe nella
nozione di scarico rilevante ai sensi della direttiva 76/494/CEE (già recepita dall'abrogato D.Lgs. 133/92)
ogni atto imputabile ad un soggetto, attraverso il quale, direttamente o indirettamente, viene introdotta,
nelle acque alle quali si applica tale direttiva, una delle sostanze pericolose enumerate nell'elenco I o
nell'elenco II del suo allegato. L'interpretazione della Corte, dando rilievo agli scarichi indiretti ai fini della
applicazione della direttiva 76/494/CEE, contrasta con la scelta operata dal legislatore italiano con il
D.Lgs. 152/99.
(6) In tal senso, Corte di Cassazione, Sez. III penale, sent. dep. 3 agosto 1999 n. 2358, inedita.
(7) La "immissione occasionale" da cui derivi il superamento dei limiti tabellari è prevista ma non definita
dal D.Lgs. 152/99, e sembra essere costituita da una ipotesi speciale di immissione episodica di rifiuti
liquidi in un corpo recettore.
(8) Vedi G. Fiandaca - E. Musco, Diritto penale, parte generale, Bologna 1995, p. 78.
(9) F. Fonderico, La disciplina transitoria del decreto sulle acque: cenni preliminari, in Ambiente 1999, pp.
898 ss.
(10) L'art. 62, comma 11, dispone che "fatte salve le disposizioni specifiche previste dal presente decreto,
i titolari di scarichi esistenti devono adeguarsi alla nuova disciplina entro tre anni dalla data di entrata in
vigore del presente decreto, anche nel caso di scarichi per i quali l'obbligo di autorizzazione è stato
introdotto dalla presente normativa. I titolari degli scarichi esistenti e autorizzati procedono alla richiesta
di autorizzazione in conformità alla presente normativa allo scadere dell'autorizzazione e comunque non
oltre quattro anni dall'entrata in vigore del presente decreto".
(11) Nell'identico senso delle sentenze annotate, cfr. G. Amendola, Il nuovo decreto sulle acque: regime
transitorio e nozione di scarico esistente, in Ambiente e Sicurezza, 1999, n. 13, pp. 70 ss.
Tutti i diritti riservati - © copyright 2002 - Dott. A. Giuffrè Editore S.p.A.
Norme in materia di
gestione dei rifiuti e
bonifica dei siti contaminati
Fra Calvino e la Normandia
Geografia della Parte
Quarta
-
-
-
-
-
Titolo V Bonifica dei siti contaminati
Titolo IV Tariffa per la gestione dei rifiuti urbani
Titolo III Gestione di particolari categorie di rifiuti
Titolo II Gestione degli imballaggi
Titolo I Principi generali e competenze, Capo I Disposizioni
generali, Capo II Competenze, Capo III Servizio di gestione
integrata dei rifiuti, Capo IV Autorizzazioni ed iscrizioni,
Capo V Procedure semplificate
Sul piano topografico:
-
Titolo VI Sistema sanzionatorio e disposizioni transitorie e
finali, Capo I Sanzioni, Capo II Disposizioni transitorie e finali
Premessa
Dalle cose ai beni e dai beni alle cose: il problema
di un approccio funzionale ed invece la gioiosa
gloria di una considerazione analitica: 214-bis.
Sgombero della neve - Le attività di sgombero
della neve effettuate dalle pubbliche
amministrazioni o da loro delegati, dai
concessionari di reti infrastrutturali o
infrastrutture non costituisce detenzione ai fini
della lettera a) comma 1 dell'articolo 183 (734)
(734) Articolo aggiunto dal comma 1 dell’art. 28,
D.Lgs. 3 dicembre 2010, n. 205.
Necessità di un approccio logico e sintetico
Disposizioni
generali e
disciplina generale
-
-
Attività di pubblico interesse
Bonifiche e rifiuti: una difficile
coesistenza
Campo di applicazione
e Finalità
-
Precauzione, prevenzione,
proporzionalità, responsabilizzazione e
cooperazione fra tutti i soggetti coinvolti
nella produzione, nell’utilizzo e nel
consumo dei beni da cui si originano i
rifiuti
Responsabilità estesa
del produttore (178 Bis)
Decreti del Mamb, sentita Conferenza Unificata e Soggetti
interessati
Responsabilità estesa del produttore del prodotto, inteso come
qualsiasi persona fisica o giuridica che professionalmente
sviluppi, fabbrichi, trasformi, tratti, venda o importi prodotti,
nell’organizzazione del sistema di gestione dei rifiuti, e
nell’accettazione dei prodotti restituiti e dei rifiuti che restano
dopo il loro utilizzo
I costi della gestione dei rifiuti siano sostenuti parzialmente o
interamente dal produttore del prodotto causa dei rifiuti. Nel caso
il produttore del prodotto partecipi parzialmente, il distributore
del prodotto concorre per la differenza fino all’intera copertura di
tali costi
Questo sistema non può determinare oneri per la finanza pubblica
Gerarchie (179)
a) Prevenzione;
b) Preparazione per il riutilizzo;
c) Riciclaggio;
d) Recupero di altro tipo;
e) Smaltimento.
Con riferimento a singoli flussi di rifiuti è consentito discostarsi, in via
eccezionale, dall’ordine di priorità qualora ciò sia giustificato, nel
rispetto del principio di precauzione e sostenibilità, in base ad una
specifica analisi degli impatti complessivi della produzione e della
gestione di tali rifiuti sia sotto il profilo ambientale e sanitario, in termini
di ciclo di vita, che sotto il profilo sociale ed economico, ivi compresi la
fattibilità tecnica e la protezione delle risorse (Decreto Mamb)
Autosufficienza e prossimità (182 bis)
Definizioni
Rifiuto: qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o l’bbligo
di disfarsi (Pericoloso - Urbano - Speciale)
Sottoprodotto (184 bis): qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa tutte le seguenti
condizioni:
a) la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte
integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto;
b) è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo
processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;
c) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore
trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
d) l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico,
tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e
non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana.
Possono essere adottate misure per stabilire criteri qualitativi o quantitativi da soddisfare
affinché specifiche tipologie di sostanze o oggetti siano considerati sottoprodotti e non rifiuti,
con uno o più decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, ai
sensi dell’ articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, in conformità a quanto
previsto dalla disciplina comunitaria [le ceneri di pirite]
Le materie prime
secondarie
[•] (Articolo aggiunto dall’art. 2, comma 18bis, D.Lgs. 16 gennaio 2008, n. 4 e poi
abrogato dal comma 3 dell’art. 39, D.Lgs. 3
dicembre 2010, n. 205)
La cessazione della
qualità di rifiuto
Un rifiuto cessa di essere tale, quando è stato sottoposto a
un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio e la preparazione
per il riutilizzo, e soddisfi i criteri specifici, da adottare nel
rispetto delle seguenti condizioni:
a) la sostanza o l’oggetto è comunemente utilizzato per scopi
specifici;
b) esiste un mercato o una domanda per tale sostanza od oggetto;
c) la sostanza o l’oggetto soddisfa i requisiti tecnici per gli scopi
specifici e rispetta la normativa e gli standard esistenti
applicabili ai prodotti;
d) l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà a impatti
complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana
La responsabilità per
la gestione dei rifiuti
Sistri: qualora il produttore iniziale, il produttore
e il detentore siano iscritti ed abbiano adempiuto
agli obblighi del sistema di controllo della
tracciabilità dei rifiuti (SISTRI) di cui all’articolo
188-bis, comma 2, lett. a), la responsabilità di
ciascuno di tali soggetti è limitata alla rispettiva
sfera di competenza stabilita dal predetto sistema
Registro di carico e scarico - Formulario di
identificazione
Catasto dei rifiuti
Autorizzazioni ed
iscrizioni
Principio generale: Autorizzazione unica
Impianti di ricerca e sperimentazione
Albo nazionale gestori ambientali
Procedure semplificate: Con decreti del Ministro dell'ambiente e della tutela
del territorio e del mare, di concerto con i Ministri dello sviluppo
economico, della salute e, per i rifiuti agricoli e le attività che generano i
fertilizzanti, con il Ministro delle politiche agricole e forestali, sono adottate
per ciascun tipo di attività le norme, che fissano i tipi e le quantità di rifiuti
e le condizioni in base alle quali le attività di smaltimento di rifiuti non
pericolosi effettuate dai produttori nei luoghi di produzione degli stessi e le
attività di recupero di cui all'Allegato C alla parte quarta del presente
decreto sono sottoposte alle procedure semplificate
=> Autosmaltimento
=> Operazioni di recupero
Competenze
Centralità delle
province (197)
a) il controllo e la verifica degli interventi di bonifica ed il monitoraggio ad
essi conseguenti;
b) il controllo periodico su tutte le attività di gestione, di intermediazione
e di commercio dei rifiuti, ivi compreso l'accertamento delle violazioni
delle disposizioni di cui alla parte quarta del presente decreto;
c) la verifica ed il controllo dei requisiti previsti per l'applicazione delle
procedure semplificate, con le modalità di cui agli articoli 214, 215, e 216;
d) l'individuazione, sulla base delle previsioni del piano territoriale di
coordinamento di cui all'articolo 20, comma 2, del decreto legislativo 18
agosto 2000, n. 267, ove già adottato, e delle previsioni di cui all'articolo
199, comma 3, lettere d) e h), nonché sentiti l'Autorità d'ambito ed i
comuni, delle zone idonee alla localizzazione degli impianti di smaltimento
dei rifiuti, nonché delle zone non idonee alla localizzazione di impianti di
recupero e di smaltimento dei rifiuti.
Il piano regionale di gestione dei rifiuti e gli ato per i rifiuti urbani
Gestione degli
imballaggi
Le foreste si oppongono al riutilizzo
Responsabilità
condivisa e concorrenza
Il presente titolo disciplina la gestione degli imballaggi e dei rifiuti di
imballaggio sia per prevenirne e ridurne l'impatto sull'ambiente ed
assicurare un elevato livello di tutela dell'ambiente, sia per
garantire il funzionamento del mercato, nonché per evitare
discriminazioni nei confronti dei prodotti importati, prevenire
l'insorgere di ostacoli agli scambi e distorsioni della concorrenza e
garantire il massimo rendimento possibile degli imballaggi e dei
rifiuti di imballaggio
tutti gli imballaggi immessi sul mercato nazionale e di tutti i rifiuti
di imballaggio derivanti dal loro impiego, utilizzati o prodotti da
industrie, esercizi commerciali, uffici, negozi, servizi, nuclei
domestici, a qualsiasi titolo, qualunque siano i materiali che li
compongono. Gli operatori delle rispettive filiere degli imballaggi nel
loro complesso garantiscono, secondo i principi della "responsabilità
condivisa", che l'impatto ambientale degli imballaggi e dei rifiuti di
imballaggio sia ridotto al minimo possibile per tutto il ciclo di vita
Il Chi inquina paga
degli imballaggi
il costo della raccolta differenziata, della valorizzazione e
dell'eliminazione dei rifiuti di imballaggio deve essere sostenuto
dai produttori e dagli utilizzatori in proporzione alle quantità di
imballaggi immessi sul mercato nazionale
i produttori possono alternativamente:
a) organizzare autonomamente la gestione dei propri rifiuti
di imballaggio su tutto il territorio nazionale;
b) aderire ad uno dei consorzi di cui all'articolo 223;
c) attestare sotto la propria responsabilità che è stato messo
in atto un sistema di restituzione dei propri imballaggi,
mediante idonea documentazione che dimostri
l'autosufficienza del sistema, nel rispetto dei criteri e delle
modalità di cui ai commi 5 e 6.
Particolari
categorie di rifiuti
Analiticamente
Rifiuti elettrici ed elettronici, rifiuti sanitari, veicoli fuori uso e prodotti contenenti
amianto
Pneumatici fuori uso: è fatto obbligo ai produttori e importatori di pneumatici di
provvedere, singolarmente o in forma associata e con periodicità almeno annuale, alla
gestione di quantitativi di pneumatici fuori uso pari a quelli dai medesimi immessi sul
mercato e destinati alla vendita sul territorio nazionale
Rifiuti derivanti da attività di manutenzione delle infrastrutture
Veicoli fuori uso
Rifiuti prodotti dalle navi e residui di carico
Consorzio nazionale di raccolta e trattamento degli oli e dei grassi vegetali ed animali
esausti
Consorzio nazionale per il riciclaggio di rifiuti di beni in polietilene
Consorzio nazionale per la raccolta ed il trattamento delle batterie al piombo esauste e
dei rifiuti piombosi
Consorzio nazionale per la gestione, raccolta e trattamento degli oli minerali usati
Tariffa
Principi generali e competenze
Presupposti ed
oggetto
Chiunque possegga o detenga a qualsiasi titolo locali, o
aree scoperte ad uso privato o pubblico non costituenti
accessorio o pertinenza dei locali medesimi, a qualsiasi
uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale,
che producano rifiuti urbani, è tenuto al pagamento di
una tariffa. La tariffa costituisce il corrispettivo per lo
svolgimento del servizio di raccolta, recupero e
smaltimento dei rifiuti solidi urbani
La tariffa per la gestione dei rifiuti è commisurata alle
quantità e qualità medie ordinarie di rifiuti prodotti per
unità di superficie, in relazione agli usi e alla tipologia
di attività svolte, sulla base di parametri, che tengano
anche conto di indici reddituali articolati per fascedi
utenza e territoriali
Bonifiche
La potenza di un lemma
Prima cornice logica
Il principio chi inquina paga
Compensation
Punishment
Deterrence
Prima cornice logica
Risarcimento in forma specifica ed
impatto sulle funzioni della
Responsabilità da inquinamento
Seconda cornice
logica
Il problema dei brown fields:
inadeguatezza della prima cornice logica
La funzione sociale della proprietà come
seconda cornice logica
Conseguenze
dell’approccio
Il proprietario può essere considerato
incolpevole ma irresponsabile?
Il limite della responsabilità come
arricchimento ingiustificato ovvero il
limite della proprietà come indennizzo
commisurato al valore venale secondo lo
schema espropriativo?
Criteri di allocazione
della responsabilità
Beyond any reasonable doubt
More likely than not (i.e. Id quod
plerumque accidit)
Altre coordinate
La definizione di onere reale
La definizione di privilegio speciale
immobiliare
Sistema?
239. Princìpi e campo di applicazione.
240. Definizioni.
241. Regolamento aree agricole.
242. Procedure operative ed amministrative.
243. Acque di falda.
244. Ordinanze.
245. Obblighi di intervento e di notifica da parte dei soggetti non responsabili
della potenziale contaminazione.
246. Accordi di programma.
247. Siti soggetti a sequestro.
248. Controlli.
249. Aree contaminate di ridotte dimensioni.
250. Bonifica da parte dell'amministrazione.
251. Censimento ed anagrafe dei siti da bonificare.
252. Siti di interesse nazionale.
I principi
Il più importante è una esclusione:
L’Abbandono dei rifiuti e Le bonifiche
disciplinate da leggi speciali
Il resto è un riferimento al Polluter pays
piuttosto vago e tendenzialmente equivoco
Definizioni
sito: l'area o porzione di territorio, geograficamente definita e determinata,
intesa nelle diverse matrici ambientali (suolo, sottosuolo ed acque
sotterranee) e comprensiva delle eventuali struttore edilizie e impiantistiche
presenti
concentrazioni soglia di contaminazione => caratterizzazione
concentrazioni soglia di rischio (livelli di accettabilità del sito) => bonifica
(bonifica: l'insieme degli interventi atti ad eliminare le fonti di inquinamento
e le sostanze inquinanti o a ridurre le concentrazioni delle stesse presenti nel
suolo, nel sottosuolo e nelle acque sotterranee ad un livello uguale o inferiore
ai valori delle concentrazioni soglia di rischio (CSR)
misure di riparazione: qualsiasi azione o combinazione di azioni, tra cui
misure di attenuazione o provvisorie dirette a riparare, risanare o sostituire
risorse naturali e/o servizi naturali danneggiati, oppure a fornire
un'alternativa equivalente a tali risorse o servizi [è ancora risarcimento in
forma specifica?]
messa in sicurezza (d’emergenza, operativa e permanente)
Superamento csc
E’ una valutazione
non solo tecnica
E’ una valutazione
tecnica
Individuazione delle
soglie di rischio
Il procedimento di
notifica
Al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il
sito, il responsabile dell'inquinamento mette in opera entro ventiquattro ore le
misure necessarie di prevenzione e ne dà immediata comunicazione. La
medesima procedura si applica all'atto di individuazione di contaminazioni
storiche che possano ancora comportare rischi di aggravamento della
situazione di contaminazione.
Indagine preliminare sul superamento CSC ed eventuale autocertificazione
Se superamento CSC, Piano di caratterizzazione ed approvazione in sede di
conferenza di servizi
Il Piano di caratterizzazione consente l’analisi del rischio che viene approvata
da una conferenza di servizi = Individuazione CSR
Se i parametri caratterizzati sono inferiori alle CSR, il procedimento si conclude
(eventualmente Piano di monitoraggio)
Se superamento CSR, progetto operativo degli interventi di bonifica o di messa
in sicurezza operativa o permanente e delle altre misure di riparazione
ambientale
Postille
Ai soli fini della realizzazione e dell'esercizio degli impianti e delle
attrezzature necessarie all'attuazione del progetto operativo e per il
tempo strettamente necessario all'attuazione medesima,
l'autorizzazione regionale di cui al presente comma sostituisce a tutti gli
effetti le autorizzazioni, le concessioni, i concerti, le intese, i nulla osta, i
pareri e gli assensi previsti dalla legislazione vigente compresi, in
particolare, quelli relativi alla valutazione di impatto ambientale, ove
necessaria, alla gestione delle terre e rocce da scavo all'interno dell'area
oggetto dell'intervento ed allo scarico delle acque emunte dalle falde.
L'autorizzazione costituisce, altresì, variante urbanistica e comporta
dichiarazione di pubblica utilità, di urgenza ed indifferibilità dei lavori.
1 criteri per la selezione e l'esecuzione degli interventi di bonifica e
ripristino ambientale, di messa in sicurezza operativa o permanente,
nonché per l'individuazione delle migliori tecniche di intervento a costi
sostenibili (B.A.T.N.E.E.C. - Best Available Technology Not Entailing
Excessive Costs)
Supera CSC: Misure di
prevenzione e di messa in
sicurezza di emergenza
Non supera CSC:
autocertificazione che conclude il
procedimento
Inquinamento
Misure necessarie di prevenzione e
Notifica
Indagine Preliminare
Piano di caratterizzazione
Procedura di analisi del rischio
specifica per il Sito
Documento di analisi del rischio
specifica
Se non sono superate CSR: Piano di
monitoraggio
Se superamento CSR: Piano
operativo di Bonifica, ovvero Messa
in sicurezza permanente ovvero
Messa in sicurezza operativa e
Misure di riparazione ambientale
Procedura di analisi del rischio
specifica per il Sito
Viene approvato in CdServizi:
Necessaria valutazione del
dissenso
Individua le CSR
Al fine di minimizzare e
ridurre ad accettabilità il rischio
derivante dalla contaminazione
Conferenza di Servizi
La procedura di approvazione della caratterizzazione
e del progetto di bonifica si svolge in Conferenza di
servizi convocata dalla regione e costituita dalle
amministrazioni ordinariamente competenti a
rilasciare i permessi, autorizzazioni e concessioni per
la realizzazione degli interventi compresi nel piano e
nel progetto. La relativa documentazione è inviata ai
componenti della conferenza di servizi almeno venti
giorni prima della data fissata per la discussione e, in
caso di decisione a maggioranza, la delibera di
adozione deve fornire una adeguata ed analitica
motivazione rispetto alle opinioni dissenzienti
espresse nel corso della conferenza
Ordinanze
1. Le pubbliche amministrazioni che nell'esercizio delle proprie funzioni
individuano siti nei quali accertino che i livelli di contaminazione sono
superiori ai valori di concentrazione soglia di contaminazione, ne danno
comunicazione alla regione, alla provincia e al comune competenti.
2. La provincia, ricevuta la comunicazione di cui al comma 1, dopo aver
svolto le opportune indagini volte ad identificare il responsabile
dell'evento di superamento e sentito il comune, diffida con ordinanza
motivata il responsabile della potenziale contaminazione a provvedere
ai sensi del presente titolo.
3. L'ordinanza di cui al comma 2 è comunque notificata anche al
proprietario del sito ai sensi e per gli effetti dell'articolo 253.
4. Se il responsabile non sia individuabile o non provveda e non
provveda il proprietario del sito né altro soggetto interessato, gli
interventi che risultassero necessari ai sensi delle disposizioni di cui al
presente titolo sono adottati dall'amministrazione competente in
conformità a quanto disposto dall'articolo 250
Il soggetto non
responsabile (245)
1. Le procedure per gli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di
ripristino ambientale disciplinate dal presente titolo possono essere
comunque attivate su iniziativa degli interessati non responsabili.
2. Fatti salvi gli obblighi del responsabile della potenziale
contaminazione di cui all'articolo 242, il proprietario o il gestore
dell'area che rilevi il superamento o il pericolo concreto e attuale del
superamento della concentrazione soglia di contaminazione (CSC)
deve darne comunicazione alla regione, alla provincia ed al comune
territorialmente competenti e attuare le misure di prevenzione
secondo la procedura di cui all'articolo 242. La provincia, una volta
ricevute le comunicazioni di cui sopra, si attiva, sentito il comune, per
l'identificazione del soggetto responsabile al fine di dar corso agli
interventi di bonifica. È comunque riconosciuta al proprietario o ad
altro soggetto interessato la facoltà di intervenire in qualunque
momento volontariamente per la realizzazione degli interventi dì
bonifica necessari nell'ambito del sito in proprietà o disponibilità.
Accordi di
programma (246)
I soggetti obbligati agli interventi di cui al
presente titolo ed i soggetti altrimenti
interessati hanno diritto di definire
modalità e tempi di esecuzione degli
interventi mediante appositi accordi di
programma stipulati, entro sei mesi
dall'approvazione del documento di analisi
di rischio di cui all'articolo 242, con le
amministrazioni competenti ai sensi delle
disposizioni di cui al presente titolo
Controlli (248)
1. La documentazione relativa al piano della caratterizzazione del
sito e al progetto operativo, comprensiva delle misure di
riparazione, dei monitoraggi da effettuare, delle limitazioni d'uso e
delle prescrizioni eventualmente dettate ai sensi dell'articolo 242,
comma 4, è trasmessa alla provincia e all'Agenzia regionale per la
protezione dell'ambiente competenti ai fini dell'effettuazione dei
controlli sulla conformità degli interventi ai progetti approvati.
2. Il completamento degli interventi di bonifica, di messa in
sicurezza permanente e di messa in sicurezza operativa, nonché la
conformità degli stessi al progetto approvato sono accertati dalla
provincia mediante apposita certificazione sulla base di una
relazione tecnica predisposta dall'Agenzia regionale per la
protezione dell'ambiente territorialmente competente.
3. La certificazione di cui al comma 2 costituisce titolo per io
svincolo delle garanzie finanziarie di cui all'articolo 242, comma 7
Bonifica da parte
dell’amministrazione (250)
Qualora i soggetti responsabili della contaminazione
non provvedano direttamente agli adempimenti
disposti dal presente titolo ovvero non siano
individuabili e non provvedano né il proprietario del
sito né altri soggetti interessati, le procedure e gli
interventi di cui all'articolo 242 sono realizzati d'ufficio
dal comune territorialmente competente e, ove questo
non provveda, dalla regione, secondo l'ordine di priorità
fissati dal piano regionale per la bonifica delle aree
inquinate, avvalendosi anche di altri soggetti pubblici o
privati, individuati ad esito di apposite procedure ad
evidenza pubblica. Al fine di anticipare le somme per i
predetti interventi le regioni possono istituire appositi
fondi nell'ambito delle proprie disponibilità di bilancio
Censimento (251)
a) l'elenco dei siti sottoposti ad intervento di
bonifica e ripristino ambientale nonché degli
interventi realizzati nei siti medesimi;
b) l'individuazione dei soggetti cui compete la
bonifica;
c) gli enti pubblici di cui la regione intende
avvalersi, in caso di inadempienza dei soggetti
obbligati, ai fini dell'esecuzione d'ufficio, fermo
restando l'affidamento delle opere necessarie
mediante gara pubblica ovvero il ricorso alle
procedure dell'articolo 242
CDU (251)
Qualora, all'esito dell'analisi di rischio sito
specifica venga accertato il superamento
delle concentrazioni di rischio, tale
situazione viene riportata dal certificato di
destinazione urbanistica, nonché dalla
cartografia e dalle norme tecniche di
attuazione dello strumento urbanistico
generale del comune e viene comunicata
all'Ufficio tecnico erariale competente
SIN (252)
I siti di interesse nazionale, ai fini della bonifica, sono individuabili in relazione alle
caratteristiche del sito, alle quantità e pericolosità degli inquinanti presenti, al rilievo
dell'impatto sull'ambiente circostante in termini di rischio sanitario ed ecologico, nonché di
pregiudizio per i beni culturali ed ambientali
All'individuazione dei siti di interesse nazionale si provvede con decreto del Ministro
dell'ambiente e della tutela del territorio (955), d'intesa con le regioni interessate, secondo i
seguenti principi e criteri direttivi:
a) gli interventi di bonifica devono riguardare aree e territori, compresi i corpi idrici, di
particolare pregio ambientale;
b) la bonifica deve riguardare aree e territori tutelati ai sensi del decreto legislativo 22
gennaio 2004, n. 42;
c) il rischio sanitario ed ambientale che deriva dal rilevato superamento delle
concentrazioni soglia di rischio deve risultare particolarmente elevato in ragione della
densità della popolazione o dell'estensione dell'area interessata;
d) l'impatto socio economico causato dall'inquinamento dell'area deve essere rilevante;
e) la contaminazione deve costituire un rischio per i beni di interesse storico e culturale di
rilevanza nazionale;
f) gli interventi da attuare devono riguardare siti compresi nel territorio di più regioni.
Perimetrazione
SIN (252)
Competenza Mamb
Nel caso in cui il responsabile non provveda o non sia individuabile
oppure non provveda il proprietario del sito contaminato né altro
soggetto interessato, gli interventi sono predisposti dal Ministero
dell'ambiente e della tutela del territorio, avvalendosi dell'Agenzia per la
protezione dell'ambiente e per i servizi tecnici (APAT), dell'Istituto
superiore di sanità e dell'E.N.E.A. nonché di altri soggetti qualificati
pubblici o privati.
L'autorizzazione del progetto e dei relativi interventi sostituisce a tutti
gli effetti le autorizzazioni, le concessioni, i concerti, le intese, i nulla
osta, i pareri e gli assensi previsti dalla legislazione vigente, ivi
compresi, tra l'altro, quelli relativi alla realizzazione e all'esercizio degli
impianti e delle attrezzature necessarie alla loro attuazione.
L'autorizzazione costituisce, altresì, variante urbanistica e comporta
dichiarazione di pubblica utilità, urgenza ed indifferibilità dei lavori.
Siti di preminente interesse
pubblico per la riconversione
industriale (252 bis)
Progetti di riparazione dei terreni e delle acque contaminate assieme ad
interventi mirati allo sviluppo economico produttivo
Gli oneri connessi alla messa in sicurezza e alla bonifica nonché quelli
conseguenti all'accertamento di ulteriori danni ambientali sono a carico del
soggetto responsabile della contaminazione, qualora sia individuato, esistente
e solvibile. Il proprietario del sito contaminato è obbligato in via sussidiaria
previa escussione del soggetto responsabile dell'inquinamento
Gli accordi di programma assicurano il coordinamento delle azioni per
determinarne i tempi, le modalità, il finanziamento ed ogni altro connesso e
funzionale adempimento per l'attuazione dei programmi
I provvedimenti relativi agli interventi di cui al comma 3 sono approvati ai
sensi del comma 6 previo svolgimento di due conferenze di servizi, aventi ad
oggetto rispettivamente l'intervento di bonifica e l'intervento di
reindustrializzazione. La conferenza di servizi relativa all'intervento di
bonifica è indetta dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del
mare, che costituisce l'amministrazione procedente. La conferenza di servizi
relativa all'intervento di reindustrializzazione è indetta dal Ministero dello
sviluppo economico, che costituisce l'amministrazione procedente
Il proprietario
incolpevole (253)
In ogni caso, il proprietario non responsabile dell'inquinamento può
essere tenuto a rimborsare, sulla base di provvedimento motivato e
con l'osservanza delle disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n.
241, le spese degli interventi adottati dall'autorità competente
soltanto nei limiti del valore di mercato del sito determinato a
seguito dell'esecuzione degli interventi medesimi. Nel caso in cui il
proprietario non responsabile dell'inquinamento abbia
spontaneamente In ogni caso, il proprietario non responsabile
dell'inquinamento può essere tenuto a rimborsare, sulla base di
provvedimento motivato e con l'osservanza delle disposizioni di cui
alla legge 7 agosto 1990, n. 241, le spese degli interventi adottati
dall'autorità competente soltanto nei limiti del valore di mercato del
sito determinato a seguito dell'esecuzione degli interventi medesimi.
Nel caso in cui il proprietario non responsabile dell'inquinamento
abbia spontaneamente provveduto alla bonifica del sito inquinato, ha
diritto di rivalersi nei confronti del responsabile dell'inquinamento
per le spese sostenute e per l'eventuale maggior danno subito
Il limite del finanziamento
pubblico (253)
Gli interventi di bonifica dei siti inquinati
possono essere assistiti, sulla base di
apposita disposizione legislativa di
finanziamento, da contributi pubblici entro
il limite massimo del cinquanta per cento
delle relative spese qualora sussistano
preminenti interessi pubblici connessi ad
esigenze di tutela igienico-sanitaria e
ambientale o occupazionali
Chi inquina paga ma:
Misure di riparazione
Il proprietario incolpevole
Arricchimento o indennità?
Il finanziamento pubblico come semisomma
Archivio selezionato: Note
LA CORTE COSTITUZIONALE E LA DEFINIZIONE DI RIFIUTO: NUOVO CAPITOLO DI
UNA COMPLESSA VICENDA DI ILLEGITTIMITÀ COMUNITARIA
Cass. pen. 2011, 1, 117
Dario Franzin
Dottorando in Diritto penale dell'economia e dell'ambiente Università di Teramo
Sommario 1. Campo d'indagine: la sentenza n. 28 del 2010 della Corte costituzionale e il quadro
risolutivo dei conflitti triadici tra diritto interno e diritto comunitario. La questione della possibilità di
sindacato sulle norme incriminatrici. - 2. Le nozioni di rifiuto e di sottoprodotto tra diritto interno e fonti
comunitarie. - 3. Il differente volto della materia nei due ordinamenti: tendenze tipizzanti del legislatore
italiano e approccio funzionale del legislatore comunitario - 4. (Segue) L'illegittimità comunitaria della
previsione delle ceneri di pirite come sottoprodotto. Accertamento caso per caso e abbandono di
meccanismi presuntivi. - 5. Il ricorso alla Corte costituzionale come modalità per risolvere i conflitti fra
diritto penale e diritto comunitario. - 6. (Segue) La decisione della Corte costituzionale: esclusione del
giudizio di ragionevolezza e tenuta della legalità penale.
1. CAMPO D'INDAGINE: LA SENTENZA N. 28 DEL 2010 DELLA CORTE COSTITUZIONALE E IL
QUADRO RISOLUTIVO DEI CONFLITTI TRIADICI TRA DIRITTO INTERNO E DIRITTO
COMUNITARIO. LA QUESTIONE DELLA POSSIBILITÀ DI SINDACATO SULLE NORME
INCRIMINATRICI
La sentenza in commento rappresenta il punto di approdo della complessa vicenda dell'illegittimità
comunitaria e costituzionale della definizione di "rifiuto" e, nello specifico, dell'inclusione delle ceneri di
pirite tra i c.d. sottoprodotti, operata dall'art. 183, comma 1, lett. n), quarto periodo del d.lg. n. 152 del
2006 (1). Da questo punto di vista essa non è che l'ultimo, risolutivo, sviluppo di una questione che si
pone all'attenzione del dibattito penalistico oramai da tempo (2).
Con questa decisione, la Consulta ha inteso affermare il proprio ruolo chiave nella risoluzione dei conflitti
di natura triadica(3) tra diritto comunitario e diritto penale nazionale (4), con ciò escludendo le altre,
possibili vie in tal senso esperibili, vale a dire la disapplicazione diretta della normativa non conforme al
dettato comunitario, ovvero il ricorso pregiudiziale alla Corte di giustizia.
A parte il profilo esegetico strettamente attinente alle "ceneri di pirite", numerosi sono gli spunti che
questa sentenza presenta per il penalista. Essa infatti, da un lato costituisce un significativo punto di
riferimento in merito alla portata dei c.d. obblighi comunitari di tutela penale (5), tema che segna, a sua
volta, il punto di massima frizione nelle relazioni nomodinamiche tra fonti interne e produzione normativa
di matrice europea ("un campo attraversato da tensioni politiche e giuridiche non compiutamente
componibili" (6)); dall'altro fornisce importanti notazioni in merito alla più ampia problematica del
sindacato del giudice costituzionale in materia penale e dei c.d. effetti inmalam partem(7).
Nelle pagine che seguono cercheremo di ripercorrere i passaggi argomentativi fondamentali, mettendone
in luce lo specifico contributo che essa apporta alle due tematiche sopra evidenziate.
2. LE NOZIONI DI RIFIUTO E DI SOTTOPRODOTTO TRA DIRITTO INTERNO E FONTI
COMUNITARIE
Come accennato, all'attenzione della Corte era stata portata la delicata questione della qualificazione
come sottoprodotto (quindi come non rifiuto) delle "ceneri di pirite" operata alla lett. n) del già citato
quarto periodo dell'art. 183 d.lg. n. 152 del 2006 (Norme in materia ambientale).
Trattasi di una questione piuttosto complessa che va inquadrata nella più ampia problematica della
definizione del concetto di "rifiuto" (snodo, a sua volta, fondamentale della disciplina della tutela
dell'ambiente) la cui analisi necessita pertanto di un, sia pur breve, riassunto del quadro normativo e
giurisprudenziale che le fa da sfondo. Due in particolare i riferimenti generali da tenere presenti.
a) Nell'ordinamento comunitario le fonti susseguitesi sull'argomento sono, nell'ordine, la direttiva 75/442/
CEE, la direttiva 91/156/CEE e la direttiva 2006/12/CEE (8); atti questi da ritenersi peraltro già a loro
volta "superati" dalla direttiva 2008/98/CE il cui scopo è proprio quello di abrogare e sostituire, a partire
dal dicembre 2010, le prime tre (9). Quanto invece al nostro legislatore nazionale, egli ha sottoposto il
concetto di "rifiuto" a diverse riformulazioni nel corso degli ultimi anni: all'inizio, la definizione era
contenuta nell'art. 6 d.lg. 5 febbraio 1997, n. 22 (noto come decreto Ronchi); in seguito, questa
disposizione era stata oggetto di un'interpretazione autentica assai controversa operata dall'art. 14 d.l. 8
luglio 2002, n. 138, conv. in l. 8 agosto 2002, n. 178. Altra modifica significativa risale al gennaio 2008 a
seguito dell'approvazione del d.lg. n. 4/2008. Da ultimo la materia è stata nuovamente modificata con il
d.lg. n. 205/2010 in attuazione della citata direttiva n. 98/2008.
b) Simile complesso (ed a volte farraginoso) intreccio di fonti nazionali e sovranazionali non ha però
impedito il formarsi nel tempo di una nozione tendenzialmente unitaria ed omogenea della materia dello
smaltimento dei rifiuti. In generale, infatti, la nozione di rifiuto enucleata dal legislatore comunitario e
recepita dall'art. 183 d.lg. n. 152 del 2006, si basa sul concetto di "disfarsi" (10) (volontario o
obbligatorio) del bene da parte del suo titolare. Elemento centrale, dunque, è l'inutilizzabilità successiva
del materiale o della sostanza da parte del produttore (11).
Lo stesso art. 183 d.lg. n. 152/2006, (anche qui in armonia con la normativa comunitaria), fa inoltre
riferimento, con l'intento di differenziarla da quello di "rifiuto", alla nozione di "sottoprodotto" e cioè
(secondo una classificazione via via maturata in giurisprudenza) a quei materiali realizzati dall'impresa
stessa, senza la necessità di ulteriori trasformazioni preliminari (12), e che siano oggetto di certa
riutilizzazione economica (13), direttamente da parte dell'impresa oppure attraverso la
commercializzazione a condizioni economicamente favorevoli (14). In seguito all'ultima modifica della
materia attuata nel dicembre 2010 (in particolare v. l'art. 184-bis t.u. ambiente introdotto dall'art. 12 del
d.lg. n. 205 del 2010) alla nozione di "sottoprodotto" è stato dedicato un articolo autonomo nel testo
unico ambientale (art. 184-bis) che, tenendo conto tra l'altro delle caratteristiche ora esposte, stabilisce
che un prodotto non può essere considerato un rifiuto ai sensi della lett. a) dell'art. 183 d.lg. n. 152/2006
ma va incluso tra i sottoprodotti quando: "a) la sostanza o l'oggetto è originato da un processo di
produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza
od oggetto; b) è certo che la sostanza o l'oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo
processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi; c) la sostanza o l'oggetto può
essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
d) l'ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l'oggetto soddisfa, per l'utilizzo specifico, tutti i requisiti
pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell'ambiente e non porterà a impatti
complessivi negativi sull'ambiente o la salute umana" (15).
La distinzione fondamentale, scaturente dal quadro normativo appena delineato, è dunque quella fra
"rifiuto" e "sottoprodotto". È evidente che la sottrazione dei "sottoprodotti" dalla disposizione a cui sono
assoggettati i "rifiuti", produce conseguenze importanti anche relativamente alla disciplina penale che ai
rifiuti si riferisce. Tutti gli obblighi cautelari sulla cui osservanza si basano i reati ambientali hanno, infatti,
espressamente ad oggetto i rifiuti; e dunque ricondurre questo o quel prodotto alla categoria dei "rifiuti"
o a quella dei "sottoprodotti" significa, essenzialmente, distinguere cosa è punibile da cosa non lo è.
Ebbene, di fronte ad una simile (almeno tendenziale) linearità del quadro normativo, le questioni che si
presentavano alla Corte costituzionale erano essenzialmente due. La prima, relativa ad un contrasto tra
fonti interne e comunitarie riguardava proprio le modalità di inclusione di un certo materiale (nel caso
specifico la classificazione delle ceneri di pirite come sottoprodotto) nella categoria dei rifiuti o dei
sottoprodotti. Infatti, la scelta di definire già "in astratto" (cioè in quanto tali) le ceneri di pirite come
sottoprodotto operata dall'art. 183 d.lg. n. 152/2006, contravviene con quanto stabilito in sede
comunitaria - tanto a livello di interventi normativi che giurisprudenziali (16) - circa la modalità di
accertamento della natura di rifiuto o sottoprodotto di un determinato materiale; simile accertamento
secondo le intenzioni del legislatore comunitario deve essere compiuto in concreto, caso per caso (17) e
non mediante il ricorso ad un meccanismo lato sensu "presuntivo", tale cioè da vincolare il giudice (anche
penale) a schemi di valutazione operati una volta per tutte dal legislatore e non sindacabili in sede
processuale.
La seconda questione (evidentemente estranea all'ordinanza di remissione e dunque solo "indotta" dal
quadro venutosi a creare in precedenza) era quello del rimedio da esperire per risolvere le antinomia fra
ordinamento interno e comunitario quali quelle relativa alle "ceneri di pirite". Problema questo che si era
già posto proprio con riferimento ai limiti concettuali della nozione di rifiuto e alla modalità di
accertamento dello stesso in seguito all'entrata in vigore del d.lg. n. 138/2002, col quale (art. 14) si era
cercato di fornire un'interpretazione autentica della definizione di rifiuto operata dal d.lg. n. 22/1997
(18). La questione dell'illegittimità comunitaria dell'art. 14 del succitato art. 14 d.lg. n. 138/2002 era,
infatti, stata portata all'attenzione, rispettivamente, della Corte costituzionale e della Corte del
Lussemburgo mentre, in altri casi, la normativa nazionale era stata direttamente disapplicata dai giudici
di merito (19).
3. IL DIFFERENTE VOLTO DELLA MATERIA NEI DUE ORDINAMENTI: TENDENZE TIPIZZANTI
DEL LEGISLATORE ITALIANO E APPROCCIO FUNZIONALE DEL LEGISLATORE COMUNITARIO
Quanto alla prima problematica, in particolare, il rinvio alla Corte di giustizia aveva condotto alla c.d.
sentenza Niselli (20). Questa può considerarsi un leading case in materia di obblighi comunitari di tutela
penale, (insieme al successivo Berlusconi (21) relativo alla presunta illegittimità comunitaria delle false
comunicazioni sociali, dove come noto, la Corte ha ritenuto procedere con maggiore prudenza salvando la
norma dalla censura di illegittimità comunitaria).
Nella sentenza Niselli, pur prendendo una posizione "defilata" (22) (nel senso di non avallare un nuovo
meccanismo di interferenza dei rapporti tra fonti), la Corte di giustizia aveva fornito comunque
un'interpretazione delle direttive vigenti al momento del giudizio, tale da ritenere illegittima la nozione di
rifiuto come specificata dalla norma interna avente finalità interpretativa, con ciò pervenendo ad una
soluzione diametralmente opposta a quella offerta dalla sentenza Berlusconi.
Nel confrontare brevemente le due coeve sentenze della Corte di giustizia, relative ai rifiuti e alle false
comunicazioni sociali, ciò che consente di spiegare la differente soluzione adottata per i due casi è la
natura dell'obbligo contenuto nella fonte comunitaria apparentemente violata dalla norma interna di
recepimento. Nel caso della definizione di rifiuto, appunto, il legislatore comunitario avrebbe predisposto
nelle sue direttive in materia ambientale una vera e propria regola, mentre, nel caso della trasparenza dei
bilanci, l'obbligo espresso dalla direttiva consisterebbe in uno standard minimo di tutela che non
potrebbe, al contrario, ritenersi disatteso dalle scelte operate con il d.lg. n. 61 del 2002 (23).
Il caso Niselli e quello relativo all'esclusione delle ceneri di pirite - oggetto della sentenza in commento presentano stringenti analogie. In particolare, in entrambi i casi, l'illegittimità della norma interna deriva
da una modalità di ricezione del precetto comunitario che disattende la ratio stessa della regola
definitoria posta dall'Unione europea in materia di rifiuti.
Dall'analisi degli atti legislativi di conio comunitario e dalla costante attività interpretativa della Corte con
sede a Lussemburgo si delineava, infatti, una nozione di rifiuto di matrice funzionale. Con questa
espressione si intende sintetizzare la natura dell'approccio da sempre prediletto dalle fonti comunitarie:
un approccio basato su una considerazione della natura dei rifiuti non già come una categoria da
cristallizzare in una definizione stringente, ma come un'entità da descrivere attraverso una categoria
aperta, capace di fornire un metro concreto di giudizio idoneo a risolvere il caso singolo. Questa tecnica
ricorre di frequente nelle tipizzazioni operate a livello comunitario, spesso destinate a qualificare
normativamente l'esistente fornendolo di un velo legislativo di matrice europea (24). A puntellare questo
approccio funzionale aveva contribuito la giurisprudenza della Corte di giustizia (25) affermando più volte
la necessità di considerare in maniera estensiva il concetto - centrale nell'economia della definizione - del
"disfarsi" volontario o meno del residuo.
Ebbene, il decreto del 2002, recante l'interpretazione autentica ricordata in precedenza, oggetto della
censura operata dalla sentenza dell'11 novembre 2004, veniva proprio a confliggere con la natura elastica
del precetto comunitario in materia di rifiuti, poiché stabiliva un meccanismo di accertamento presuntivo,
incompatibile con l'approccio casistico e funzionale prediletto dal legislatore comunitario (26).
4. (SEGUE) L'ILLEGITTIMITÀ COMUNITARIA DELLA PREVISIONE DELLE CENERI DI PIRITE
COME SOTTOPRODOTTO. ACCERTAMENTO CASO PER CASO E ABBANDONO DI MECCANISMI
PRESUNTIVI
Come si è detto, l'esclusione delle ceneri di pirite, operata ope legis dal legislatore nazionale, poggia su
un ragionamento lato sensu presuntivo, privo, pertanto, di ogni sintonia con i trend stabiliti dal suo
interlocutore europeo. La normativa comunitaria sembrerebbe, invece, imporre agli Stati membri
l'abbandono di queste tipologie di accertamenti in materia di rifiuti e sottoprodotti. La natura elastica
della definizione stabilita a livello europeo ha come obiettivo proprio il superamento di ogni meccanismo
di stampo presuntivo, valorizzando, come detto in precedenza, un approccio caso per caso, allargando
quindi il terreno della discrezionalità del giudice. Lo stesso legislatore italiano aveva provveduto, con
l'ultima modifica effettuata con il d.lg. 16 gennaio 2008, n. 4 (art. 2), a riformulare l'art. 183 del testo
unico ambientale provvedendo ad espungere il riferimento alle ceneri di pirite (27) e cancellando così,
nelle more del giudizio di fronte alla Corte costituzionale, il passaggio della disposizione che aveva
generato l'antinomia con il diritto dell'Unione europea e introducendo nel testo attualmente vigente una
definizione di "sottoprodotto" più restrittiva e in sintonia con il dettato comunitario.
Ciò non di meno, con la sentenza in commento la Corte, pur prendendo atto della modifica e dopo aver
vagliato (come vedremo) i possibili rimedi esperibili per risolvere l'antinomia, dichiara l'illegittimità
costituzionale - richiamando gli artt. 11 e 117 Cost. come "norme-parametro" violate (28) - dell'art. 183,
comma 1, lett. n), del d.lg. n. 152/2006, nel testo precedente alle modiche introdotte dall'art. 2, comma
20, del citato d.lg. n. 4/2008 e da quelle del dicembre 2010, nella parte in cui prevede che: "rientrano
altresì tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta del presente decreto le
ceneri di pirite, polveri di ossido di ferro, provenienti dal processo di arrostimento del minerale noto come
pirite o solfuro di ferro per la produzione di acido solforico e ossido di ferro, depositate presso stabilimenti
di produzione dismessi, aree industriali e non, anche se sottoposte a procedimento di bonifica o di
ripristino ambientale".
L'argomento su cui la Corte fa leva nella sentenza è proprio quello della conformità del diritto interno al
diritto comunitario; un argomento sicuramente "forte" e incontestabile, di estrema chiarezza e linearità e
che dunque, in questa sede, non possiamo che condividere. Resta tuttavia sullo sfondo un interrogativo,
che certo la Corte non poteva sciogliere, ma che la vicenda, pur nella sua specificità, pone con forza e su
cui anche in futuro, a nostro sommesso avviso, la scienza penalistica sarà costretta a tornare: fino a che
punto, di fronte al principio di prevalenza del diritto dell'Unione europea possono essere sacrificate le
stringenti esigenze di certezza giuridica e dunque di determinatezza del precetto penale che pure
avevano spinto il legislatore italiano a sottrarre la valutazione delle ceneri di pirite al giudice in favore di
una definizione generale ed astratta? Da qui in poi potrebbe, dunque, aprirsi un ulteriore possibile terreno
di frizione tra sistema penale e diritto dell'Unione europea: una differente concezione della
determinatezza della fattispecie e del margine di discrezionalità che deve concedersi all'autorità chiamata
in concreto all'applicazione delle norme comunitarie.
In questo caso, più che ad un attacco alla riserva di legge sembrerebbe assistersi a una modificazione, da
parte delle fonti comunitarie, della portata del principio di determinatezza in materia penale (29). Il
concetto di "rifiuto" possiede - come detto - un carattere definitorio fondamentale per l'integrazione di
tutta la galassia di reati concernenti lo smaltimento dei rifiuti e la distonia tra i due sistemi pare proprio
ritrovarsi nella costante tentazione del legislatore italiano a tipizzare sempre di più una materia che
l'Unione europea spinge affinché resti volutamente estranea a meccanismi di accertamento presuntivi e
predeterminati a monte.
La normativa comunitaria, dal canto suo, vuole evitare che una stringente specificazione imbrigli
eccessivamente la libertà del giudice di considerare fattori estrinseci parimenti rilevanti quali i
comportamenti concreti tenuti dal soggetto agente. Con questa tecnica di accertamento, insomma, il
legislatore comunitario intende salvaguardare gli scopi della direttiva, rafforzando la capacità di
penetrazione della disciplina attraverso un giudizio in concreto che non tralasci alcuna circostanza (30).
Il punctum dolens della dialettica tra legislatore nazionale e legislatore comunitario si sostanzia, dunque,
in una differente valutazione della determinatezza della fattispecie e del potere discrezionale da lasciare
nelle mani del giudice (31). Demandare questo tipo di accertamenti al processo significa,
sostanzialmente, rafforzare ancora di più il ruolo della consulenza peritale in sede di giudizio. È verosimile
pensare, pertanto, che i processi in materia di rifiuti si risolvano in un confronto fra consulenti, dove il
giudice potrà esclusivamente, e nelle ipotesi migliori, svolgere quel ruolo di peritus peritorum che già gli è
stato consegnato in materia di causalità, ma che troppo spesso nella pratica sembra essere rimasto
lettera morta.
Il tema della modalità di implementazione del dettato comunitario da parte del legislatore interno è
destinato a diventare ancora di più il nucleo centrale dei possibili contrasti tra il diritto nazionale e quello
dell'Unione europea anche dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona. L'assetto delle competenze
della nuova Unione in materia penale, infatti, è stato da un lato esplicitato per alcune tipologie di delitti,
ma temperato, dall'altro, sul piano delle fonti limitando alla sola direttiva - adottata secondo la procedura
legislativa ordinaria - la possibilità di intervenire in materia penale (32). Questa fonte consente, rispetto
al regolamento, di salvaguardare maggiormente la discrezionalità del legislatore nazionale, ma
permangono gli spazi per queste tipologie di lost in translation nella ricezione interna dei precetti
comunitari. Differenti soluzioni che derivano da sensibilità legislative diverse e che si risolvono in forme di
illegittimità comunitaria come nel caso della sentenza qui annotata.
5. IL RICORSO ALLA CORTE COSTITUZIONALE COME MODALITÀ PER RISOLVERE I CONFLITTI
FRA DIRITTO PENALE E DIRITTO COMUNITARIO
Per quanto riguarda il rimedio da esperire in caso di antinomia tra diritto penale e diritto comunitario, la
Corte costituzionale, con la sentenza in commento, ha una posizione chiara circa il metodo da seguire per
risolvere eventuali contrasti tra diritto comunitario e diritto penale nazionale.
L'incertezza derivava dalla coesistenza di svariate forme di rimedio per ottenere la risoluzione delle
interferenze fra la normativa di cornice predisposta dal legislatore comunitario e la disciplina sancita da
quello interno. Come noto, le possibilità per il giudice a quo che veniva a trovarsi di fronte ad una
sospetta situazione di contrasto fra una fonte comunitaria e una fonte interna erano, sostanzialmente,
tre: la disapplicazione diretta della norma interna contraria al principio comunitario, il ricorso alla Corte di
giustizia oppure la remissione della questione alla Corte costituzionale per violazione degli artt. 11 e 117
Cost.
La Corte nel suo argomentare compie una ricognizione molto precisa dei tre possibili rimedi, fornendo un
preciso "itinerario" da seguire per azionare i conflitti tra norme di questa natura. In particolare, il Giudice
delle leggi fa notare come in questo caso non sarebbe possibile procedere alla diretta disapplicazione
della normativa interna dimostratasi in conflitto col principio comunitario, dato che una simile possibilità è
concessa al giudice a quo quando la normativa comunitaria violata consiste in una direttiva c.d.
autoapplicativa(33). Questa particolare capacità di penetrazione delle direttive sarebbe riscontrabile
laddove la fonte comunitaria fosse in grado di creare un diritto in capo al singolo, diritto, a sua volta,
azionabile nei confronti dello Stato inadempiente (34). Questo peculiare carattere, nella ricostruzione
operata dalla Corte, sarebbe da escludere completamente nel caso di specie, poiché dagli - eventuali effetti diretti della direttiva deriverebbe una responsabilità per il cittadino e non un diritto. La natura
dell'atto legislativo, quindi, condizionerebbe la possibilità di esperire questo rimedio. Nel caso affrontato
nella sentenza in commento, la direttiva richiamata non presenterebbe questa caratteristica.
Coerentemente, pertanto, la Corte ritiene inopportuno il ricorso alla diretta disapplicazione della legge
contraria al dettato comunitario, avallando in toto le argomentazioni proposte dal giudice remittente.
Dall'altra parte la Corte censura l'eventuale possibilità di esperire un rinvio pregiudiziale alla Corte di
giustizia dell'Unione europea essendo questo rimedio superfluo, dato che non vi sarebbe alcun dubbio
interpretativo da chiarire, stante il palese contrasto con i principi comunitari della previsione sulla natura
di sottoprodotto delle ceneri di pirite.
La strada che rimane praticabile per censurare queste interferenze rimane pertanto il ricorso alla Corte
costituzionale per violazione degli artt. 11 e 117, comma 1, Cost. (35).
6. (SEGUE) LA DECISIONE DELLA CORTE COSTITUZIONALE: ESCLUSIONE DEL RICORSO AL
GIUDIZIO DI RAGIONEVOLEZZA E TENUTA DELLA LEGALITÀ PENALE
La soluzione congegnata dalla Corte costituzionale sembra essere quella preferibile, proprio in virtù della
presenza dell'art. 117 che ristabilisce ulteriormente il ruolo della Consulta quale organo competente a
risolvere i contrasti fra nome interne e norme comunitarie non direttamente applicabili (36).
Con l'affermazione del ruolo primario della Corte costituzionale nell'eventualità di un conflitto tra norme
interne e principi comunitari il problema invade lo spinoso territorio dei limiti al vaglio di costituzionalità
in materia penale. Il tema costituisce - come già ricordato - un "classico" del diritto penale costituzionale
dove, inevitabilmente, collidono questioni decisive come la ragionevolezza dell'intervento penalistico, la
political choice e, in generale, la portata del principio del favor rei.
L'atteggiamento della Corte costituzionale a proposito della materia penale ha raggiunto una tendenziale
uniformità di portata, culminando nella declaratoria di incostituzionalità di una norma penale che stabiliva
un trattamento più mite rispetto alla precedente sulla base dell'irragionevolezza della dosimetria
sanzionatoria.
Senza entrare nel dettaglio delle note pronunce che hanno aperto all'efficacia inmalam partem del vaglio
costituzionale, ci limitiamo qui a richiamare il principio espresso dalla sentenza n. 394 del 2006 che ha
ammesso la sindacabilità delle norme penali di favore, ossia di quelle norme che, trovandosi in rapporto
di specialità sincronica con la disciplina generale, creano una situazione di privilegio per una parte ridotta
della collettività (37). Al momento pare essere questo il confine che il Giudice costituzionale si è dato
nella possibilità di emanare provvedimenti ablativi in materia penale.
Un dato fondamentale della sentenza n. 28 del 2010 qui annotata consiste nell'attenta ricostruzione
argomentativa compiuta della Corte tesa a distinguere la tipologia di decisione emessa in questo caso
rispetto alle precedenti pronunce in materia penale.
In particolare, la Consulta sembra soffermarsi sul mancato riferimento al criterio della ragionevolezza
come fondamentale distinzione tra questa decisione e le ultime emesse in materia, come quella sui delitti
in materia di falso elettorale (38).
Nella sua ricostruzione, invero, la Corte riporta tutte le acquisizioni finora maturate nelle sentenze
concernenti norme penali, in particolare riprende la soluzione raggiunta per superare la possibile impasse
derivante dal difetto di rilevanza nel giudizio pendente, richiamando i consolidati principi in tema di
rilevanza dello stesso almeno per quanto riguarda la portata della formula assolutoria.
La questione di maggior interesse riguarda la comprensione del procedimento decisorio della Corte, nello
specifico: il significato della sottolineatura dell'esclusione della ragionevolezza come tertium
comparationis nel giudizio. La ragionevolezza come metro di valutazione sembra, infatti, attestarsi quale
vera e propria misura della discrezionalità manipolativa della Consulta (39).
In effetti, pare condivisibile rintracciare una distinzione nella norma parametro richiamata nella ratio
decidendi, ma, ciononostante, la questione potrebbe risultare diversa passando ad analizzare il piano
degli effetti. Da quel punto di vista la Corte sembra, inevitabilmente, ricadere nel "campo minato" degli
effetti inmalam partem edel limes delle sue competenze.
L'operazione compiuta dal Giudice delle leggi è, al contrario, tesa a valorizzare l'importanza delle norme
parametro sulle quali fa poggiare l'impalcatura della motivazione: gli artt. 11 e 117 Cost. (40).
Nell'economia della decisione, le norme di rango costituzionale richiamate hanno un peso specifico
notevole, poiché consentono alla Corte - come detto - di separare questa decisione da quelle
precedentemente emesse in materia penale, proprio in virtù del mancato richiamo alla ragionevolezza
quale principio di rango superiore forzato dalla disposizione sottoposta al vaglio di costituzionalità.
In conclusione, la scelta di escludere la ragionevolezza dal quadro del procedimento decisorio utilizzato
della Corte appare, a maggior ragione, coerente se si guarda alla natura triadica della vicenda sottoposta
al controllo di legittimità (41). Il giudizio di ragionevolezza, infatti, pare - per sua natura - sganciato dal
canonico schema a struttura triangolare, basandosi, invero, sul confronto tra le scelte operate dal
legislatore, al fine di censurarne l'irragionevolezza.
Il ragionamento basato sulla ragionevolezza, pertanto, si avrà esclusivamente in seguito al raffronto tra
due norme, attraverso il quale si esaurirà il vaglio della tenuta costituzionale della modifica normativa
operata (42).
Dal punto di vista della sentenza annotata, pertanto, la forzatura della visione classica della riserva di
legge non viene certamente dal versante dell'intervento della Corte costituzionale, che rimane confinato
entro parametri consolidati basati su una relazione triangolare fra norme e non su valutazioni
discrezionali di opportunità della scelta legislativa.
Con questa decisione la Consulta non si attribuisce, perciò, un potere normativo, ma semplicemente
opera da strumento per l'attuazione del potere dell'Unione europea in una materia di competenza
comunitaria.
Questa ricostruzione, pertanto, circoscrive sensibilmente la portata della lesione apportata alla legalità
penale, essendo qui la Corte il medium necessario per risolvere un conflitto tra fonti inammissibile alla
luce dell'attuale assetto istituzionale del nostro ordinamento giuridico nella cornice dell'UE. Lo stesso
ruolo del Giudice delle leggi consente, a ben vedere, di ricomporre anche l'eventuale strappo nei confronti
del principio di legalità dal fronte comunitario. Permangono, invece, i dubbi sollevati in precedenza circa
la possibile divergenza intorno alla portata del principio di determinatezza.
La Corte costituzionale, infine, sembra essere il perfetto interlocutore per la ricomposizione di questo tipo
di conflitti di natura comunitaria. A questa conclusione si giunge valutando, da un lato, il suo ruolo
centrale e irrinunciabile tra gli organi partecipanti alla dialettica interna ad un sistema democratico inteso
secondo l'accezione più moderna (43) e, dall'altro, per le importanti acquisizioni raggiunte in tema di
dottrina dei controlimiti e di controllo di costituzionalità delle norme di favore.
I parametri di valutazione forniti dalla giurisprudenza costituzionale consentono di prevedere i margini di
manovra entro i quali la Corte dovrebbe muoversi, portando così a escludere, a rigor di logica, eccessive
deviazioni da un fisiologico canone di aggiornamento della natura del principio di legalità (44).
Con la sentenza in esame si giunge, pertanto, alla fine della complicata questione dei rifiuti che, come
chiarito in precedenza, gravitava da anni nel fuoco dello scrutinio di costituzionalità sia a livello nazionale
che comunitario, senza che il contraccolpo trasformi l'aggiornamento dei tratti fondamentali delle
relazioni tra fonti in un epocale "assalto al Palazzo d'inverno" del principio di legalità in materia penale
(45).
NOTE
(1) La questione era stata sollevata dal Trib. Venezia, sez. dist. Dolo, ord. 20 settembre 2006, in Corr.
merito, 2007, p. 225 ss. con commento di GATTA.
(2) Per quanto riguarda la ventennale querelle della compatibilità tra la nozione penalistica di rifiuto e il
diritto comunitario v. ex multisGIUNTA, La nozione penalistica di rifiuto al cospetto della giurisprudenza
CE, in Dir. pen. proc., 2003, p. 1029 ss., VAGLIASINDI, La definizione di rifiuto tra diritto penale
ambientale e diritto comunitario, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2005, p. 959 ss. (I parte); 2006, p. 157 ss.
(II parte). La questione è anche evidenziata come caso sintomatico dello stato delle relazioni fra fonti
nazionali e fonti sovranazionali da EPIDENDIO, Diritto penale comunitario e diritto penale interno, guida
alla prassi giurisprudenziale, Giuffrè, 2007, p. 296 ss. e da SOTIS, Il diritto senza codice, uno studio sul
sistema penale europeo vigente, Giuffrè, 2007, p. 143 ss.
(3) Con l'aggettivo triadico si sintetizzano comunemente quei conflitti derivanti da un'antinomia che
poggia a sua volta su tre norme: quella di fonte comunitaria, quella interna che impone l'adeguamento al
dettato comunitario e l'adempimento dell'obbligo, e, da ultima, un'altra norma interna (penale o meno)
che si pone in contrasto con il principio espresso dalla normativa comunitaria. Cfr. SOTIS, Il diritto senza
codice, cit., 103.
(4) Sui rapporti fra diritto penale e diritto comunitario si rimanda ai fondamentali lavori di RIZ, Diritto
penale e diritto comunitario, Cedam, 1984, passim, GRASSO, Comunità europee e diritto penale, Giuffrè,
1988, passim, SGUBBI, voce Diritto penale comunitario, in Dig. d. pen., vol. IV, 1990, p. 89 ss.,
FIORELLA, I principi generali del diritto penale dell'impresa, in Trattato di diritto commerciale e di diritto
pubblico dell'economia, a cura di Galgano, vol. XXV, Cedam, 2001, p. 137 ss.; più di recente v.
BERNARDI, L'europeizzazione del diritto e della scienza penale, Giappichelli, 2004, passim. Nella dottrina
straniera v. AMBOS, Internationales Strafrecht, 2ª ed., 2008, Beck, p. 341 ss., HECKER, Europäisches
Strafrecht, 2ª ed. Springer, passim, SATZGER, Internationales und Europäisches Strafrecht, 3ª ed.,
Nomos, 2009, p. 90 ss.
(5) Sul tema rimandiamo a SICURELLA, Diritto penale e Competenze dell'Unione Europea, Giuffrè, 2005,
p. 200 ss.; SOTIS, Obblighi comunitari di tutela e opzione penale: una dialettica perpetua?, in Riv. it. dir.
e proc. pen., 2002, p. 171 ss., nonché alla monografia Il diritto senza codice, cit., passim; VIGANÒ,
Recenti sviluppi in tema di rapporti tra diritto comunitario e diritto penale, in Dir. pen. proc., 2005, p.
1433 ss. Per una lettura della tematica degli obblighi comunitari in relazione alla crisi del "legicentrismo"
v. INSOLERA, Democrazia, ragione e prevaricazione, Giuffrè, 2003, passim, MAZZACUVA, A proposito di
"interpretazione creativa" tra diritto penale, principi costituzionali e direttive comunitarie, in
www.giurcost.it; MEZZETTI, Gli "obblighi" comunitari di tutela penale in una recente pronuncia della
Corte di Giustizia UE, in Giust. amm., 2005, p. 7 ss. Per una rilettura del diritto penale comunitario alla
luce delle innovazioni del c.d. Trattato di Lisbona v. SOTIS, Il Trattato di Lisbona e le competenze penali
dell'Unione Europea, in questa rivista, 2010, p. 1146 ss. e nella letteratura straniera ex
multisMITSILEGAS, EU Criminal Law, Hart, 2009, passim. Rifacendoci a quanto proposto da Sotis circa la
portata del Trattato possiamo dire che L'Unione è competente a svolgere il giudizio sulla necessità della
pena senza, però, vedersi riconosciuto un compiuto esercizio della potestà punitiva.
(6) La chiosa dubitativa è di PULITANÒ, Diritto penale, 3ª ed., Giappichelli, 2009, p. 147 ed è indicativa
dello scenario di incertezza che circonda la categoria.
(7) Tra la copiosa letteratura sul punto si rimanda a GALLO, La "disapplicazione" per invalidità
costituzionale della legge penale incriminatrice, in Riv. it. dir. pen., 1956, p. 723 ss.; MARINUCCIDOLCINI, Corso di diritto penale, 3ª ed., Giuffrè, 2001, p. 83 ss.; PARODIGIUSINO, Effetti della
dichiarazione di incostituzionalità delle leggi penali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1982, p. 915 ss.;
PULITANÒ, La non punibilità di fronte alla Corte costituzionale, in Foro it., 1983, c. 1800 ss.; STORTONI,
Profili costituzionali della non punibilità, Riv. it. dir. e proc. pen., 1984, p. 625 ss., 633 s. più di recente v.
BELFIORE, Giudice delle leggi e diritto penale, Giuffrè, 2005, passim; MARINUCCI, Il controllo di
legittimità costituzionale delle norme penali: diminuiscono (ma non abbastanza) le zone franche, in Giur.
cost., 2006, p. 4166 ss., DI GIOVINE, Il sindacato di ragionevolezza della Corte costituzionale in un caso
facile, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2007, p. 100 ss.; GAMBARDELLA, Specialità sincronica e specialità
diacronica nel controllo di costituzionalità delle norme penali di favore, in questa rivista, 2007, p. 467 ss.;
PALAZZO, Offensività e ragionevolezza nel controllo di costituzionalità sul contenuto delle leggi penali, in
Riv. it. dir. e proc. pen., 1998, p. 360 ss; PULITANÒ, Principio d'uguaglianza e norme penali di favore, in
Corr. merito, 2007, p. 209 ss.; PULITANÒ, Giudizi di fatto nel controllo di costituzionalità di norme penali,
in Riv. it. dir. e proc. pen., 2008, p. 1004 ss.; VASSALLI (a cura di), Diritto penale e giurisprudenza
costituzionale, ESI, 2006, passim.
(8) Nonostante l'aggiornamento normativo i precetti, le definizioni e le nozioni fondamentali sono rimaste
praticamente analoghe a quelle previste nel 1975.
(9) Il telos dell'intervento è quello di ridurre sempre di più l'impatto ambientale, rafforzando la disciplina
mediante un'ulteriore specificazione delle definizioni fondamentali e ritornando su concetti chiave quali
quello di sottoprodotto e sulla problematica della "cessazione della qualifica di rifiuto" (dal dicembre 2010
oggetto specifico dell'art. 184-ter t.u. ambiente). Sotto il profilo sanzionatorio è previsto un ampliamento
dell'arsenale delle misure di prevenzione, e si rinnova l'invito agli Stati membri - con il consueto refrain a predisporre sanzioni adeguate, proporzionate e dissuasive nei confronti di persone fisiche o giuridiche
che si occupino della loro gestione e smaltimento. La direttiva, inoltre, toglie ogni funzione al CER
(Catalogo Europeo dei Rifiuti) valorizzando sempre di più la natura funzionale dell'accertamento,
alleggerendo così il sistema da modalità di accertamento predeterminate. Vedi infra, § 3.; cfr. anche
MAGRI, Rifiuto e sottoprodotto nell'epoca della prevenzione: una prospettiva di soft law, in Ambiente &
Sviluppo, 2010, p. 31.
(10) Art. 183, comma 1, lett. a), d.lg. n. 152/2006 ""rifiuto": qualsiasi sostanza od oggetto di cui il
detentore si disfi o abbia l'intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi". Secondo quanto chiarito in
giurisprudenza "Disfarsi di un rifiuto significa avviarlo alla sua normale destinazione costituita dal
recupero o dallo smaltimento". Così Sez. III, 19 febbraio 2008, n. 7466, in www.lexambiente.it; sul
concetto v. anche Sez. III, 9 ottobre 2008, n. 38409, ivi. In ambito comunitario fondamentale la
decisione C. giust. CE, 18 aprile 2002, C-9/00, Palin Granit Oy, in Foro it., 2002, IV, c. 576.
(11) L'art. 1, comma 1, della direttiva 2006/12/CE definisce rifiuto "qualsiasi sostanza od oggetto che
rientri nelle categorie riportate nell'allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione di disfarsi o
l'obbligo di disfarsi". La definizione è ripresa pedissequamente dal legislatore italiano all'art. 183, comma
1, lett. a) d.lg. n. 152 del 2006.
Dal punto di vista del diritto penale e delle sue tecniche di incriminazione, il concetto di rifiuto deve
essere considerato una vera e propria norma definitoria. La funzione dell'art. 183 del testo unico
ambientale è quindi quella di descrivere ex lege l'elemento costitutivo delle fattispecie penali relative ai
rifiuti. In tal senso GIUNTA, La nozione penalistica di rifiuto, cit., p. 1029 s. Per l'inquadramento di tutte
le tecniche legislative utilizzate nella materia ambientale, si v. CATENACCI, La tutela penale
dell'ambiente, contributo all'analisi delle norme penali a struttura "sanzionatoria", Cedam, 1996, passim.
VAGLIASINDI, La definizione di rifiuto tra diritto penale ambientale, cit., p. 966, qualifica la nozione di
rifiuto come "la "porta d'ingresso" della disciplina amministrativa e penale relativa alla gestione dei rifiuti
[...]". Per una precisa distinzione tra norme extrapenali integratrici e non integratrici v. per tutti
ROMANO, sub art. 47, in Commentario sistematico del Codice penale, vol. I, Giuffrè, 2004, p. 495 ss. Per
la distinzione tra elementi normativi e categorie contigue v. PULITANÒ, L'errore di diritto nella teoria del
reato, Giuffrè, 1976, p. 237 s. e, più di recente, MASUCCI, "Fatto" e "Valore" nella definizione di dolo,
Giappichelli, 2004, p. 219 ss., RISICATO, Gli elementi normativi della fattispecie penale, Giuffrè, 2004, p.
87 ss.
(12) In tal senso Sez. III, 22 luglio 2009, n. 30393, in www.lexambiente.it, secondo la Corte "il
sottoprodotto non è assoggettato a trattamento per una riutilizzazione successiva, visto che in tale
categoria rientra solo ciò che non nuoce all'ambiente ed è immediatamente utilizzato come materia prima
secondaria, senza previa trasformazione [...]". In generale sulla categoria dei sottoprodotti v. anche Sez.
III, 7 aprile 2008, n. 14323, in www.lexambiente.it
(13) Sul concetto di riutilizzazione v. Sez. III, 22 aprile 2010, n. 15375, in www.lexambiente.it; Sez. III,
28 novembre 2007, n. 44295, ivi. Sulla riutilizzazione in un diverso ciclo produttivo v. Sez. III, 29 luglio
2008, n. 31462, ivi.
(14) Come è stato chiarito dalla giurisprudenza della suprema Corte, inoltre, i requisiti ora elencati
devono sussistere contestualmente, la mancanza di uno di essi il residuo deve essere considerato rifiuto
V. Sez. III, 19 dicembre 2008, n. 47085, in www.lexambiente.it. La definizione è stata ulteriormente
specificata dal d.lg. 16 gennaio 2008, n. 4, e si allinea a consolidate posizioni della giurisprudenza
comunitaria v., ad esempio, C. giust. CE, C-457/02, 11 novembre 2004, Niselli, in Foro it., 2005, IV, c.
16, nota di AMENDOLA. La modifica del 2008 è stata rivalutata dal remittente a seguito dell'ordinanza n.
83 del 2008 con la quale la Corte costituzionale restituiva gli atti al giudice a quo in virtù dello ius
superveniens, ciononostante la modifica del legislatore nazionale, sia pur ottemperando ai trend
comunitari, non faceva altro che rafforzare la presunzione in capo al rimettente dell'illegittimità
dell'inclusione delle ceneri di pirite fra i sottoprodotti.
(15) Così letteralmente art. 184-bis d.lg. n. 152/2006.
(16) In giur. cfr. le sentenze C. giust. CE, C-9/00, Palin Granit Oy, cit. e C. giust. CE, 11 settembre 2003,
C-114/01, Avesta Polarit Chrome Oy, in Foro it., 2003, IV, c. 510.
(17) Di approccio "caso per caso" parla anche la stessa Commissione europea nella sua Interpretative
Communication on waste and by-products, 21/2/2007(59), in http://eur-lex.europa.eu.
(18) La situazione successiva all'entrata in vigore del decreto aveva dato vita ad una "babele
interpretativa" circa il rimedio da esperire per censurare l'antinomia fra ordinamenti. In questi termini v.
SOTIS, Il diritto senza codice, cit., p. 144 ss.
(19) Tra i vari provvedimenti ricordiamo le ordinanze di remissione alla Corte costituzionale del Tribunale
di Terni, 2 febbraio 2005, in Corr. merito, 2005, p. 692, con nota di BASSI, e Sez. III, 14 dicembre 2005,
Rubino, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2006, p. 359, con nota di PAONESSA.
(20) C. giust. CE, 11 novembre 2004, C-457/02, Niselli, cit. In questo caso la Corte di giustizia aveva
ritenuto contraria all'art. 1, lett. a), comma 1 della direttiva 75/442 l'interpretazione autentica della
nozione di rifiuto contenuta nell'art. 14 del citato decreto n. 138/2002. Il contrasto evidenziato dalla
Grande Sezione del Tribunale del Lussemburgo era determinato dall'esclusione dell'insieme dei residui di
produzione o di consumo che possono essere, o sono, riutilizzati in un ciclo di produzione o di consumo,
anche in assenza di trattamento preventivo e senza arrecare danni all'ambiente. Secondo la Corte, la
possibilità di considerare una sostanza come sottoprodotto e sottrarla alla categoria dei rifiuti deve essere
prevista nella legislazione interna tenendo conto dei criteri stabiliti dalla Corte stessa alla luce
dell'obiettivo di protezione ambientale sulla base dell'adozione delle direttive europee e partendo dal
presupposto che esiste un indizio significativo dell'esistenza di rifiuti se si è in presenza di un residuo di
produzione.
(21) C. giust. CE, 3 maggio 2005, C-387/2002, in Guida dir., 2005, Berlusconi, n. 20, p. 93, nota di DI
MARTINO e anche in questa rivista, 2005, p. 2764, con nota di MANES-INSOLERA, La sentenza della
Corte di giustizia sul "falso in bilancio": un epilogo deludente?; v. anche MANES, Il nuovo "falso in
bilancio" al cospetto della normativa comunitaria, ivi, 2003, p. 1329 ss.; RIONDATO, Il falso in bilancio e
la sentenza della Corte di Giustizia CE: un accoglimento travestito da rigetto, in Dir. pen. proc., 2005, p.
910 ss.
(22) L'espressione che ben descrive l'atteggiamento della Corte è di VIGANÒ, Recenti sviluppi, cit., p.
1436.
(23) Le sentenze sono analiticamente confrontate da Sotis, il quale fornisce una convincente chiave di
lettura per capire la portata dei due giudicati. Nello specifico v. SOTIS, Il diritto senza codice, cit., p. 123.
Differente chiave di lettura è fornita da MANACORDA, "Oltre il falso in bilancio": i controversi effetti in
malam partem del diritto comunitario sul diritto penale interno, in Dir. Un. eur., 2006, p. 235 ss. L'A.
analizza le due sentenze sul piano temporale, distinguendo la tipologia di interferenza in diacronica e
sincronica.
(24) Compiendo un salto in un settore completamente diverso dalla materia penale si può prendere ad
esempio la categoria degli Organismi di diritto pubblico, creata ad hoc per "descrivere l'esistente" con la
finalità di sottoporre determinate categorie di enti pubblici che in base alla compresenza di alcuni requisiti
possono essere sottoposti alla disciplina comunitaria in materia di appalti. Il paragone non suoni come un
azzardo pindarico, l'accostamento nasce esclusivamente dalla comune tecnica legislativa c.d. redazionale,
utilizzata dal legislatore comunitario, che si riverbera nel nostro ordinamento in settori completamente
diversi. In generale sugli Organismi di diritto pubblico v. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, 10ª
ed., Giuffrè, p. 98 s.
(25) Ex multis v. sentenze della C. giust. CE, C-9/00, Palin Granit Oy, cit. e C. giust. CE, 11 settembre
2003, C-114/01, Avesta Polarit Chrome Oy, cit. Nella sentenza in commento, per questa ricostruzione, v.
il punto 3.2.
(26) Sulla necessità di esperire un giudizio in concreto nell'accertamento della qualità di rifiuto v. nella
giurisprudenza della suprema Corte, Sez. III, 24 luglio 2008, n. 31165, in www.lexambiente.it.
(27) Dal punto di vista della successione di leggi penali nel tempo, a seguito dell'ultima modifica, la
sentenza in commento riguarda una c.d. lex intermedia (sul tema cfr. PECORELLA, Legge intermedia:
aspetti problematici e prospettive de lege ferenda, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, a cura di
Dolcini-Paliero, vol. I, Giuffrè, 2006, p. 611 ss., nonché da ultimo a proposito del caso Scoppola v.
GAMBARDELLA, Il "caso Scoppola": per la Corte europea l'art. 7 CEDU garantisce anche il principio della
legge penale più favorevole, in questa rivista, 2010, p. 2023 ss. Nella manualistica cfr. PULITANÒ, Diritto
penale, cit., p. 665 ss.). Con questa espressione si fa riferimento a una disposizione sopravvenuta più
mite rispetto a quella vigente al momento del compimento dei fatti, ma sostituita mediante un nuovo
intervento, meno favorevole, al momento del giudizio. La legge intermedia continua, in generale, ad
avere validità in virtù delle regole sull'ultrattività della disposizione più mite stabilite al 4 comma dell'art.
2 c.p.
Nonostante l'abrogazione, pertanto, la legge intermedia si continuerà ad applicare per i fatti precendenti
alla sua entrata in vigore, salvo non sia dichiarata incostituzionale o sia contenuta in un decreto legge
non convertito. Il fenomeno così come delineato attiene a vicende successorie tipiche dei periodi di
instabilità normativa, ponendo dei problemi per quanto riguarda eventuali norme di favore come quelle
c.d. ad personam (in generale sull'argomento cfr. DOLCINI, Leggi penali ad personam, riserva di legge e
principio costituzionale di eguaglianza, in Riv. it. dir. e pen. proc., 2004, p. 50). La validità del
meccanismo di funzionamento delle legge intermedia si giustifica in base al principio di uguaglianza, ma
ciò non toglie che disparità di trattamento permangano anche adottando questa impostazione, laddove,
ad esempio, si possa essere giudicati mediante una disciplina prive di attualità. Per la disamina di questi
aspetti problematici si rimanda a PECORELLA, Legge intermedia, cit. p. 629 ss. L'A., in particolare,
propone come soluzione de iure condendo il ripristino del carattere eccezionale della lex intermedia, per
arginare alcune derive patologiche proprie della disciplina vigente, v. in particolare p. 645 ss.
(28) Sul punto v. infra, par. 6.
(29) In generale sul principio di determinatezza si rimanda a PALAZZO, Il principio di determinatezza nel
diritto penale, Cedam, 1979, passim. In maniera parzialmente diff. parlano di principio di precisione
MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., p. 119 ss.; sul bilanciamento tra principio della riseva
di legge e principio di determinatezza v. ROMANO, Commentario sistematico, cit., p. 42, e CATENACCI, La
tutela penale dell'ambiente, cit., p. 183 ss. Sul principio di tipicità si rimanda a RONCO, Il principio di
tipicità della fattispecie penale nell'ordinamento vigente, Giappichelli, 1979, passim.
(30) C. cost., sent. 28 gennaio 2010, n. 28, cit., punto 4. V. anche in tal senso, C. giust. CE, 18 dicembre
2007, C-194/05, Commissione c. Repubblica italiana, in Amb. e svil., 2008, n. 3, p. 264.
(31) Di "cadute di determinatezza" a proposito della definizione di rifiuto a seguito della censura mossa
nei confronti del decreto di interpretazione autentica parlava GIUNTA, La nozione penalistica di rifiuto,
cit., p. 1034. Più in generale è lo spettro del "sistema senza fattispecie" evocato da INSOLERA,
Democrazia, ragione e prevaricazione, cit., p. 75. V. anche la ricostruzione della problematica da parte di
PAONESSA, La discrezionalità del legislatore nazionale nella cornice dei vincoli comunitari di tutela, in
Criminalia, 2007, p. 377 ss.
(32) Si discute sulla portata dell'art. 83 del Trattato di Lisbona, il quale attribuisce all'Unione la
competenza di stabilire norme minime per quanto riguarda le definizioni e le sanzioni di crimini
particolarmente gravi e aventi una capacità di impatto transnazionale. Alcune tipologie di crimini sono
elencati dal Trattato stesso, ma la lista può essere integrata dal Consiglio all'unanimità, previo consenso
del Parlamento europeo. In particolare risulta controverso e ancora da verificare in seguito all'attuazione
se la competenza penale risulta esplicitata ma ridotta rispetto alla dubbia estensione che aveva assunto
attraverso gli atti di terzo pilastro. Di questa opinione MITSILEGAS, EU Criminal Law, cit., p. 107 s. Per
una chiara ricostruzione delle novità apportate dal Trattato v. SOTIS, Il Trattato di Lisbona e le
competenze penali dell'Unione Europea, cit., p. 1151 ss. In particolare, il dibattito penalistico si sta
soffermando sulla possibilità di riconoscere nella tutela degli interessi finanziari una competenza "quasi
diretta" dell'Unione europea. La teoria, che poggia su un'interpretazione del secondo comma dell'art. 86
del Trattato è proposta da SOTIS, Le novità in tema di diritto penale europeo, in La nuova Europa dopo il
Trattato di Lisbona, a cura di Bilancia-D'amico, Giuffrè, 2009, p. 154 ss. Per una critica a questa
ricostruzione v. PAONESSA, Gli obblighi di tutela penale. La discrezionalità legislativa nella cornice dei
vincoli costituzionali e comunitari, ETI, 2009, p. 237 ss.
(33) Favorevole alla disapplicazione si era detto EPIDENDIO, Reati ambientali e ordinamento comunitario,
in Corr. merito, 2005, p. 1194 ss. nota critica a Tribunale di Palermo, 23 giugno 2005 (ord.).
(34) Sul problema della disapplicazione contrapposta al giudizio di legittimità costituzionale v. CARTABIA,
La Convenzione europea dei diritti dell'uomo e l'ordinamento italiano, in Giurisprudenza europea e
processo penale italiano, a cura di Balsamo-Kostoris, Giappichelli, 2008, p. 51 ss.
(35) C. cost. n. 28/2010, p. 6. La stessa Corte cita come precedenti le sentenze C. cost. n. 170/1984, in
Giur. it., 1984, I, p. 1521, nota di BERRI; C. cost., n. 317/1996, in Dir. pen. proc., 1996, p. 1196 e C.
cost. n. 284/2007, in www.giurcost.it.
(36) La posizione è condivisa da PUGIOTTO, Vite parallele? "Rifiuti" e "falso in bilancio" davanti alle Corti
costituzionali e di giustizia, in Ai confini del Favor rei. Il falso in bilancio davanti alle Corti costituzionale e
di giustizia, Giappichelli, 2005, p. 330; da SOTIS, Il diritto senza codice, cit. p. 145 s. che enuclea tre
ragioni chiare a favore di questa soluzione, in particolare: l'appiglio normativo fornito dall'art. 117 Cost.
novellato, l'acquis giurisprudenziale consolidato negli anni da parte della Corte stessa nonché, da ultima,
la stessa ordinanza di restituzione degli atti operata dalla Corte costituzionale con l'ord. n. 288/2006, in
www.giurcost.it, poiché se avesse voluto indirettamente investire il Giudice a quo del potere di
disapplicare avrebbe potuto direttamente pronunciare una sentenza di inammissibilità.
(37) Il criterio è ben descritto da GAMBARDELLA, Specialità sincronica e specialità diacronica, cit., p. 475.
Le norme di favore suscettibili di giudizio di costituzionalità sarebbero "[...] soltanto quelle norme
(speciali) che si trovano in rapporto di specialità di tipo sincronico: rapporto che si instaura fra due norme
che coesistono nel sistema penale allo stesso tempo. Nella visuale sincronica, la relazione fra le norme
viene presa in considerazione facendo un taglio sull'asse del tempo, e guardando a come esse si
presentano in un dato momento agli occhi dell'osservatore, prescindendo dalla loro evoluzione temporale
e dai mutamenti che si sono avuti.". In parte critico nei confronti di questa impostazione scelta dalla
Corte risulta MANES, Norme penali di favore, no della Consulta, in Dir. e giust., 2006, p. 30 ss.
(38) In generale sulla ragionevolezza cfr. PALADIN, voce Ragionevolezza (principio di), in Enc. dir., Agg.,
vol. I, Giuffrè, 1997, p. 900 ss. In materia penale per la ricostruzione del concetto di ragionevolezza. v. in
particolare DI GIOVINE, Il sindacato di ragionevolezza, cit., p. 114 ss.; MANES, Attualità e prospettiva del
giudizio di ragionevolezza in materia penale, in Riv. it. dir. e pen. proc., 2007, p. 739 ss.; INSOLERA,
Principio di eguaglianza e controllo di ragionevolezza sulle norme penali, in AA.VV., Introduzione al
sistema penale, vol. I, Giappichelli, 2000, p. 288 ss. e INSOLERA, Controlli di ragionevolezza e riserva di
legge in materia penale: una svolta nella sindacabilità delle norme di favore?, in Dir. pen. proc., 2007, p.
670 ss.; nonché INSOLERA, Democrazia, ragione e prevaricazione, cit., p. 34 ss.; PULITANÒ, Giudizi di
fatto, cit.
(39) Lo stesso parametro della ragionevolezza è utilizzato in maniera differente dalla Corte a seconda
dell'argomento. Ad esempio, in materia di reati di pericolo astratto l'approccio del Giudice delle leggi
appare molto più soft rispetto ai profili inerenti al trattamento sanzionatorio. V. sul punto CATENACCI, I
reati di pericolo presunto fra diritto e processo penale, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, a cura di
Dolcini-Paliero, vol. II, Giuffrè, 2006, p. 1416 ss. In generale sulla ragionevolezza come criterio
giurisprudenziale v. BELFIORE, Giudice delle leggi e diritto penale, cit., p. 270 ss.
(40) Sul ruolo di questi articoli come norme parametro v. l'incisiva ricostruzione di MARINUCCI, Il
controllo di legittimità costituzionale delle norme penali, cit., p. 4168 ss.
(41) Sulla natura triadica del conflitto in esame nella sentenza annotata v. supra, § 1.
(42) Nella giurisprudenza costituzionale come esempio di sentenza motivata in base al giudizio di
ragionevolezza v. C. cost., 18 giugno 2008, n. 215, in Giur. cost., 2008, p. 2399, con nota di
GAMBARDELLA, Retroattività della legge penale favorevole e bilanciamento degli interessi costituzionali.
In dottrina per la ricostruzione di un modello di giudizio separato dallo schema triadico tipico della
ragionevolezza-uguaglianza v. GAMBARDELLA, Il "caso Scoppola", cit., p. 2037 ss., MANES, Attualità e
prospettiva del giudizio di ragionevolezza, cit., p. 741.
(43) Troviamo pienamente persuasiva la ricostruzione del ruolo della Corte costituzionale compiuta da DI
GIOVINE, Il sindacato di ragionevolezza, cit., p. 111 ss. L'A. in particolare muove da autorevoli
acquisizioni della dottrina giusfilosofica, in particolare richiamando il pensiero di Mauro Barberis.
(44) Sulla separazione tra legalità e riserva di legge v. le considerazioni di ROMANO, Corte costituzionale
e riserva di legge, in Diritto penale e giurisprudenza costituzionale, a cura di Vassalli, cit., p. 30.
(45) La chiosa potrebbe sembrare vagamente retorica, ma il raffronto poggia sulla notissima, e
citatissima, riconduzione della legalità nel novero delle mitologie giuridiche contemporanee compiuta da
GROSSI, Mitologie giuridiche della modernità, Giuffrè, 2001.
Archivio selezionato: Note
Impianti a biomasse zootecniche: impianti energetici o di trattamento dei rifiuti
Riv. giur. ambiente 2010, 3-4, 0589
Federico Vanetti
Il T.A.R. Emilia-Romagna, con sentenza n. 3296 del 2008, è intervenuto pronunciandosi in merito
all'apertura di un impianto di produzione di energia alimentato a biogas, attraverso l'utilizzo di biomasse
vegetali e liquami animali.
L'impianto veniva autorizzato ai sensi dell'art. 12 del D.Lgs. 387/2003 (autorizzazione unica), senza
preventivo assoggettamento del progetto alla procedura di VIA (1), necessaria invece per gli impianti di
recupero dei rifiuti.
Il T.A.R. è stato quindi chiamato a decidere se i liquami animali e gli scarti vegetali impiegati come
biomassa dovessero classificarsi come rifiuti.
La classificazione di queste sostanze come rifiuto è stata preferita, atteso che i residui zootecnici (in
particolare la materia fecale) compaiono espressamente nell'elenco dei rifiuti di cui al D.Lgs. 152/2006.
I suddetti residui, inoltre, non sarebbero potuti essere considerati sottoprodotti "in quanto il loro utilizzo
per produrre energia richiedeva, appunto, la trasformazione in biogas e, quindi, una trasformazione
tramite un successivo processo produttivo" e ciò risulterebbe incompatibile con le condizioni necessarie
ex lege per classificare una sostanza "sottoprodotto" ("non debbano essere sottoposti a trattamenti
preventivi").
Rispetto, poi, all'espresso riferimento compiuto dall'art. 185 del D.Lgs. 152/2006 ai materiali fecali quali
sottoprodotti, il T.A.R. ne esclude l'applicabilità in quanto la norma sarebbe stata introdotta dal D.Lgs.
4/2008, ossia successivamente al rilascio dell'autorizzazione unica contestata e non avrebbe portata
retroattiva, laddove l'art. 185 "non include automaticamente i liquami tra i sottoprodotti ma soltanto
qualora siano soddisfatte le condizioni di cui alla lettera p)", non verificate in sede di rilascio
dell'autorizzazione impugnata.
Inoltre, ove anche sussistessero i presupposti per considerare le sostanze sopra indicate quali
sottoprodotti, secondo il T.A.R., dovrebbe essere verificato un ulteriore requisito imposto dal diritto
comunitario, ossia "se per riutilizzo occorrono operazioni di deposito che possono avere una certa durata,
e quindi rappresentare un onere per il detentore nonché essere potenzialmente fonte di quei danni per
l'ambiente che la direttiva mira specificamente a limitare, esso non può essere considerato certo e né
prevedibile solo a più o meno lungo termine, cosicchè la sostanza di cui trattasi deve essere considerata,
in linea di principio, come rifiuto" (2).
Le caratteristiche tecniche dell'impianto avvalorerebbero tale interpretazione, in quanto il "digestato"
risultante dalla trasformazione del biogas in energia, costituirebbe comunque un rifiuto, non solo perché
ancora una volta espressamente considerato nell'allegato D) alla parte quarta del Codice dell'ambiente,
ma anche perché lo stesso sarebbe frutto di un preventivo trattamento e, quindi, non idoneo a soddisfare
le condizioni per essere classificato sottoprodotto.
Il T.A.R. dà evidenza di conoscere anche l'orientamento giurisprudenziale comunitario che ha considerato
i liquami quali sottoprodotti (3), ma ritiene non applicabile al caso in esame tale interpretazione, in
quanto la differenza sostanziale tra la fattispecie considerata dal Giudice comunitario e quella sottoposta
al Tribunale amministrativo bolognese consisterebbe nei tempi di riutilizzo del residuo.
Nel caso comunitario i liquami sarebbero stati immediatamente riutilizzati, viceversa, nel caso italiano, i
residui fecali necessitavano di un deposito preliminare e di un preventivo trattamento.
Il T.A.R., dunque, equiparando gli impianti di smaltimento dei rifiuti a quelli di recupero, ha annullato
l'autorizzazione unica, trattandosi infatti di impianto di recupero dei rifiuti avrebbe dovuto essere
preceduta da VIA.
La decisione di primo grado è stata riformata dal Consiglio di Stato con la decisione in commento, che,
con una motivazione breve e netta, ha escluso i liquami impiegati come biomasse dal novero dei rifiuti ed
ha affermato che: "nella specie non si tratta affatto di impianti che smaltiscano o trattino in qualche
modo rifiuti; si tratta, invece, di impianti che producono energia, mediante quel particolare procedimento
che si concreta nel cosiddetto biogas, per cui vengono inizialmente introdotti elementi organici che
procedono ad un'attività riproduttiva rispetto alle sostanze immesse, donde la caratteristica relativamente
alla quale i residui in parola non sono utilizzati per essere smaltiti o in qualche modo trattati, ma servono
solo per iniziare l'attività di decomposizione delle sostanze immesse, ai fini della produzione energetica".
Secondo il Consiglio di Stato, dunque, "le sostanze organiche suddette, lungi dall'essere l'oggetto del
trattamento, ne sono invece uno strumento operativo, con il quale l'impianto funziona, alla stregua di un
meccanismo di messa in moto".
L'interpretazione del Consiglio di Stato non è tuttavia ancora idonea a fornire una lettura chiara ed
univoca della questione in esame, rispetto alla quale anche la stessa Corte di Giustizia non sembra essere
giunta a una conclusione definitiva (4).
Ad avviso di chi scrive, la questione qui trattata merita un ulteriore approfondimento.
Non vi è dubbio, infatti, che la biomassa ben può essere anche un rifiuto e che, quindi, l'impiego della
stessa quale combustibile non necessariamente può escludere il residuo da tale classificazione.
È, infatti, lo stesso art. 2 del D.Lgs. 387/2003 a includere tra le biomasse anche i rifiuti ("la parte
biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui provenienti dall'agricoltura (comprendente sostanze vegetali e
animali) e dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali
e urbani") (5).
Il D.Lgs. 152/2006, poi, considera tra le possibili operazioni di trattamento dei rifiuti anche l'uso degli
stessi quali combustibili.
Pertanto, non sembra che la classificazione dei residui animali e vegetali tra i rifiuti o i sottoprodotti possa
dipendere solo dall'uso fatto degli stessi, atteso che l'impiego di tali residui quale biomassa in impianti
energetici è previsto tanto dalla normativa sulle fonti rinnovabili, quanto da quella sui rifiuti.
Occorrerebbe, invece, soffermarsi maggiormente sull'elemento soggettivo della definizione di "rifiuto",
ossia sull'obbligo o sulla volontà di volersi disfare del residuo.
È, infatti, nel momento in cui nasce l'obbligo o si manifesta la volontà di disfarsi di un residuo, che questo
viene classificato come rifiuto (6).
Se, dunque, il produttore del residuo non ha già programmato un diverso reimpiego dello stesso a
condizioni economiche favorevoli, la sostanza non può che essere qualificata come rifiuto, in caso
contrario, invece, la stessa può anche essere identificata come un sottoprodotto, essendo previsto il suo
riutilizzo in un impianto energetico (7).
La Corte di Giustizia, peraltro, ha chiarito che "una sostanza può non essere considerata rifiuto ai sensi
della direttiva 75/442 se viene utilizzata con certezza per il fabbisogno di operatori diversi da chi l'ha
prodotta" (8).
Sotto altro profilo, invece, è necessario verificare come il residuo possa essere riutilizzato, ossia se possa
essere immediatamente reimpiegato così come viene prodotto ovvero se richieda un preventivo
trattamento (9).
Sul punto, la comunicazione della Commissione CE al Parlamento del 21 febbraio 2007, avente ad
oggetto il rapporto tra la nozione comunitaria di "rifiuto", contenuta nell'art. 1 della direttiva 2006
dicembre CE, e quella, sempre comunitaria ma di origine giurisprudenziale, di "sottoprodotto", offre
ulteriori indicazioni (10).
In particolare, secondo questa interpretazione, i residui di produzione per poter essere qualificati come
sottoprodotti non devono necessariamente essere reimpiegati "tal quali" (ossia come ottenuti dal ciclo
produttivo), ma possono anche essere trattati (essiccati, lavati, ecc.) a condizione che i trattamenti
costituiscano parte integrante del ciclo produttivo originario.
Ad esempio, secondo la Commissione, "se il materiale, per essere ulteriormente trasformato, viene
spostato dal luogo o dallo stabilimento in cui è stato prodotto, è verosimile ritenere che le operazioni
necessarie alla sua trasformazione non facciano più parte dello stesso processo di produzione".
Secondo parte della dottrina (11), dunque, la condizione fondamentale per poter classificare come
sottoprodotti e non come rifiuti i residui di produzione non è tanto il fatto che questi ultimi vengano o
meno sottoposti ad un'operazione di trasformazione al fine di poter essere successivamente reimpiegati,
ma che questa operazione avvenga nel corso del processo produttivo di origine: occorre dunque
distinguere il momento della formazione del "sottoprodotto" da quello del suo "riutilizzo".
Non a caso, l'art. 185 del D.Lgs. 152/2006 considererebbe i materiali fecali o vegetali quali sottoprodotti,
se reimpiegati in impianti "aziendali o interaziendali", ossia nel caso in cui sia lo stesso produttore del
residuo ad utilizzarlo.
Pertanto, nel caso degli impianti aziendali e interaziendali, l'eventuale fase di pretrattamento non
rileverebbe, atteso che la trasformazione del residuo avverrebbe sempre e comunque all'interno del
medesimo ciclo produttivo aziendale, inteso in senso ampio. Nel caso di residui zootecnici conferiti ad
impianti gestiti da imprese terze, invece, l'eventuale fase di pretrattamento della "biomassa"
rappresenterebbe il discrimine tra rifiuto e sottoprodotto, con conseguente esonero o assoggettamento
dell'impianto alla disciplina dei rifiuti a seconda del ciclo produttivo specifico (12).
Una ulteriore e conclusiva riflessione è offerta dalla direttiva 2008/98/CE, che, all'art. 2, esclude dal
proprio ambito di applicazione le materie fecali utilizzate per la produzione di energia da biomasse
"mediante processi o metodi che non danneggiano l'ambiente né mettano in pericolo la salute umana".
L'esclusione, tuttavia, non è automatica, ma ancora una volta condizionata al processo produttivo, che
deve garantire la tutela ambientale e della salute.
Tra l'altro, la stessa direttiva continua a includere tra le attività di recupero l'utilizzazione del rifiuto come
combustibile per produrre energia o come sostanza organica per i processi di gassificazione e pirolisi.
Come si può facilmente comprendere, la materia qui trattata risulta particolarmente complessa e legata
intrinsecamente agli aspetti tecnici della singola fattispecie.
NOTE
(1) Per approfondimenti, cfr. LAURACORTI, Nota in materia di impianti di produzione di energia alimentati
da biomasse e procedura autorizzatoria, in questa Rivista, 2009, n. 6, p. 1019.
(2) Corte di Giustizia CEE, Sez. III, 18 dicembre 2007, causa C-263/05.
(3) Corte di Giustizia CEE, 8 settembre 2005, causa C-416/02.
(4) Le sentenze già citate del 2005 e del 2007.
(5) La definizione di biomasse introdotta dalla direttiva 2001/77/CE risulta così ampia da ricomprendere
anche i rifiuti utilizzati come fonti energetiche, purché gli Stati membri rispettino la normativa
comunitaria vigente in materia di gestione dei rifiuti. Cfr. VITTORIOBARTOLELLI, Disponibilità di biomasse sul
territorio Italiano e aspettative reali di sfruttamento (ITABIA - Italian Biomass Association - 2003).
(6) La già citata sentenza della Corte di Giustizia, 8 settembre 2005 (causa C-416/02), ricorda che
l'ambito di applicazione del termine rifiuto dipende dal significato del termine "disfarsi".
(7) Non a caso, la Regione Veneto nel recepire la direttiva sui nitrati, ha bandito la realizzazione di diversi
progetti di impianti a biomasse zootecniche, la cui fattibilità presupponeva specifici accordi di fornitura tra
i produttori agricoli della zona e i gestori degli impianti.
(8) Cfr. cit. sentenza della Corte di Giustizia del 2005.
(9) Cfr. EMANUELEPOMINI, Rifiuti e sottoprodotti: la "trasformazione preliminare", in questa Rivista, 2009,
5, p. 709.
(10) Cfr. EMANUELEPOMINI, Rifiuti, residui di produzione e sottoprodotti alla luce delle linee guida della
Commissione CE, della (proposta di) nuova direttiva sui rifiuti e della riforma del decreto legislativo
152/2006: si attenua il divario tra Italia ed Unione Europea?, in questa Rivista, 2008, 2, p. 355.
(11) Cfr. EMANUELEPOMINI, cit.
(12) Da qui, la non manifesta infondatezza della sentenza del T.A.R. Emilia Romagna in commento, la
quale aveva individuato nel prolungato deposito delle sostanze un trattamento dei liquami.
Archivio selezionato: Note
Rifiuti metallici o materie prime secondarie?
Riv. giur. ambiente 2010, 5, 816
Federico Vanetti
1. Premessa. - 2. La qualificazione del rottame ferroso. - 3. Il commerciante e l'intermediario di rifiuti.
1. Premessa.
Con la sentenza in esame, il tribunale di Brescia è stato chiamato a pronunciarsi in merito alla qualifica di
alcuni rottami ferrosi acquistati da presunti commercianti e, quindi, ceduti a terzi per il loro recupero o
riutilizzo, senza che i commercianti fossero muniti delle autorizzazioni per la gestione dei rifiuti.
In particolare, è stato accertato che le società facenti capo agli imputati si frapponessero tra il produttore
del rottame e le aziende siderurgiche che avrebbero riutilizzato il rottame all'interno del proprio processo
produttivo.
Le difese in giudizio hanno posto in dubbio la qualifica di rifiuto di tali materiali, ritenendoli invece materie
prime secondarie.
Il Collegio giudicante, però, giunge alla conclusione opposta, rilevando che gli imputati avrebbero
"commerciato in rottami di cui altri soggetti si erano "disfatti" avviandoli, anche secondo l'ormai inattuale
definizione di cui all'art. 14 del D.L. 138/2002, ad operazione di recupero".
A prescindere dagli specifici ragionamenti logici e di fatto che supportano le conclusioni raggiunte dal
tribunale (1) e a prescindere dalle contestazioni di natura fiscale (2), la sentenza in esame offre un
ulteriore spunto di riflessione tanto rispetto alle differenze tra rifiuto, sottoprodotto e materia prima
secondaria, quanto rispetto alla figura dell'intermediario o commerciante di rifiuti.
2. La qualificazione del rottame ferroso.
L'art. 1, comma 26, della legge 308/2004 (oggi abrogato) riconosceva come "sottoposti al regime delle
materie prime e non a quello dei rifiuti, [...], i rottami di cui al comma 25 dei quali il detentore non si
disfi, o non abbia deciso o non abbia l'obbligo di disfarsi e che quindi non conferisca a sistemi di raccolta
o trasporto di rifiuti ai fini del recupero o dello smaltimento, ma siano destinati in modo oggettivo ed
effettivo all'impiego nei cicli produttivi siderurgici o metallurgici" (3).
La Corte di Giustizia nella causa C-457/02 (4) aveva escluso i rottami metallici dalla categoria di
sottoprodotti e materie prime secondarie nel caso in cui gli stessi necessitassero di preventive
trasformazioni per il loro riutilizzo.
Proprio in considerazione del precedente comunitario, il tribunale di Brescia riconosce che "i rottami
ferrosi effettivamente potrebbero perdere la qualificazione di rifiuto, per assumere quella di "materie
prime secondarie" in presenza di determinate circostanze la cui dimostrata (si chiarirà oltre da chi)
sussistenza conduce all'applicazione di quello che, a tutti gli effetti, può essere definito un regime
derogatorio rispetto a quello "base-standard" che, al contrario, condurrebbe a qualificare i rottami ferrosi
come rifiuti".
Secondo la sentenza in commento, colui che commercia il rottame, per poterlo qualificare materia prima
secondaria, dovrebbe provare (5) (i) la sua provenienza, (ii) le sue caratteristiche specifiche o gli
eventuali trattamenti subiti e, quindi, (iii) la rispondenza a determinate specifiche per il suo riutilizzo.
Invero, la decisione del tribunale bresciano parrebbe correttamente motivata rispetto al quadro normativo
ante D.Lgs. 4/2008, risultando, invece, contraddittoria rispetto alla disciplina oggi vigente.
Il citato D.Lgs. 4 del 2008, infatti, ha introdotto specifiche definizioni per le materie prime secondarie
(art. 181-bis D.Lgs. 152/2006) e per i sottoprodotti (art. 183, comma 1, lett. p) del D.Lgs. 152/2006).
Le prime sono i materiali che derivano da un'operazione di riutilizzo, riciclo o recupero di rifiuti, ossia
sono il prodotto commerciabile di un rifiuto trattato (6).
I sottoprodotti, invece, non sono mai stati rifiuti, ma sono materiali immediatamente riutilizzabili (senza
alcun preventivo trattamento) (7).
Ne consegue, quindi, che colui che commercia la materia prima secondaria deve aver acquistato tale
materia da un soggetto autorizzato a recuperarla, ovvero il commerciante stesso deve essere autorizzato
a trattare il rifiuto da cui la materia prima secondaria è originata.
Il produttore del rottame non immediatamente riutilizzabile, pertanto, è obbligato a conferire tale
materiale solo ad un soggetto autorizzato al trattamento dei rifiuti, affinché quest'ultimo trasformi il
rottame in materia prima secondaria, rivendibile sul mercato.
Il rottame, dunque, non può essere liberamente commercializzato come materia prima secondaria senza
un preventivo trattamento.
Viceversa, qualora fosse possibile un immediato riutilizzo del rottame metallico senza alcun preventivo
trattamento, questo potrebbe essere qualificato come sottoprodotto e, come tale, potrebbe essere
venduto liberamente a terzi.
Invero, nel caso di cessione del sottoprodotto ad un commerciante (ossia ad un soggetto che non
riutilizza direttamente il materiale, ma a sua volta lo rivende a terzi), potrebbe venir meno uno dei
requisiti stessi del sottoprodotto, ossia la necessità che "il loro impiego sia certo, sin dalla fase della
produzione, integrale e avvenga direttamente nel corso del processo di produzione o di utilizzazione
preventivamente individuato e definito".
Occorrerà, quindi, dimostrare che la frapposizione del commerciante tra il produttore e il riutilizzatore
garantisca comunque l'impiego certo del sottoprodotto in un determinato processo produttivo
preventivamente individuato dal commerciante medesimo.
3. Il commerciante e l'intermediario di rifiuti.
Proprio ricollegandosi alla figura del "commerciante", la sentenza offre indirettamente un ulteriore spunto
di riflessione.
Il tribunale di Brescia, infatti, contesta che i rottami metallici qualificabili come rifiuti siano stati ceduti a
commercianti non muniti delle necessarie autorizzazioni.
Volendo prescindere dal caso in cui i commercianti abbiano "trattato" fisicamente il rifiuto o lo abbiano
inviato a operazioni di recupero (fattispecie in questione), si consideri invece l'ipotesi di commercio e/o
intermediazione di rifiuti puro e semplice.
In tal caso - allo stato - il commerciante o intermediario di rifiuti non sarebbe tenuto ad ottenere alcuna
autorizzazione per il commercio o l'intermediazione.
La figura dell'intermediario o commerciante di rifiuti, invero, non è chiaramente disciplinata
nell'ordinamento italiano, ma è stata recentemente introdotta dalla direttiva 2008/98/CE, secondo cui è
commerciante "qualsiasi impresa che agisce in qualità di committente al fine di acquistare e
successivamente vendere rifiuti, compresi i commercianti che non prendono materialmente possesso dei
rifiuti", mentre è intermediario "qualsiasi impresa che dispone il recupero o lo smaltimento dei rifiuti per
conto di altri, compresi gli intermediari che non prendono materialmente possesso dei rifiuti" (8).
La normativa italiana, pur ponendo a carico degli intermediari e dei commercianti determinati obblighi
(tenuta dei registri, annotazione su formulari, MUD e iscrizione al SISTRI), non definisce espressamente
tali figure.
A livello attuativo, il Ministero ha comunque previsto una apposita sezione dell'Albo Gestori Rifiuti
espressamente dedicata agli intermediari, senza però prevedere le relative garanzie finanziare e, quindi,
rendendo di fatto impossibile l'iscrizione all'Albo per tali soggetti (9).
Poiché la valida iscrizione all'Albo costituisce autorizzazione ad esercitare il commercio o l'intermediazione
di rifiuti, deve ritenersi che - ad oggi - i commercianti e gli intermediari di rifiuti, non potendosi iscrivere
all'Albo, possano operare anche in assenza di autorizzazione.
Ciò non toglie, che tali figure siano comunque obbligate alla tenuta dei registri, alla annotazione sui
formulari e alla comunicazione annuale, nonché - di recente - anche all'iscrizione al SISTRI, in corso di
attuazione.
Con riferimento alla sentenza in esame, dunque, la contestazione circa la mancata autorizzazione in capo
ai commercianti di rifiuti sarebbe corretta solo nel caso in cui tali commercianti "trattassero" anche il
rifiuto o lo avviassero a operazioni di recupero e non, invece, nel caso in cui si limitassero al semplice
commercio o alla semplice intermediazione di rifiuti.
Con il SISTRI, comunque, lo scenario è destinato a mutare rapidamente e sostanzialmente, in quanto le
previsioni attuative del nuovo sistema permettono già la registrazione anche per gli intermediari di rifiuti.
NOTE
(1) Il Collegio rileva come i materiali, se fossero realmente stati pronti all'immediato riutilizzo, non
sarebbero dovuti essere "intermediati" e comunque non avrebbero necessitato di operazioni intermedie di
selezione, stoccaggio o messa in riserva.
(2) Sul punto, cfr. A. PIEROBON, La scorretta attività di "intermediazione" di rifiuti rileva anche fiscalmente,
in www.lexambiente.it.
(3) Previsione abrogata dal D.Lgs. 4/2008.
(4) Decisione richiamata anche dalla sentenza in commento.
(5) Tale onere della prova sarebbe stato riconosciuto anche dalla Suprema Corte di Cassazione (n.
41836/2008), secondo cui "in materia di gestione dei rifiuti, ai fini della qualificazione come sottoprodotti
di sostanze e materiali, incombe sull'interessato, anche successivamente alla modifica dell'art. 183,
comma primo, lett. p), D.Lgs. 152 del 2006 ad opera del D.Lgs. 4 del 2008, l'onere di fornire la prova che
un determinato materiale sia destinato con certezza, e non come mera eventualità, ad un ulteriore
utilizzo".
(6) In tal senso, l'art. 6 della direttiva 2008/98/CE (Cessazione della qualifica di rifiuto) chiarisce che
"taluni rifiuti specifici cessano di essere tali...quando siano sottoposti a un'operazione di recupero, incluso
il riciclaggio, e soddisfino criteri specifici...".
(7) Sul punto, cfr. E. POMINI, Rifiuti, residui di produzione e sottoprodotti alla luce delle linee guida della
Commissione CE, della (proposta di) nuova direttiva sui rifiuti e della riforma del decreto legislativo
152/2006: si attenua il divario tra Italia ed Unione Europea?, in questa Rivista, 2008, 2, p. 355.
(8) Con riferimento agli intermediari di rifiuti, cfr. F. VANETTI, Rifiuti: la figura dell'intermediario, obblighi e
responsabilità, in Ambiente&Sviluppo, 2010, 6; S.R. CERUTTO, L'intermediario senza detenzione di rifiuto,
in www.ambientediritto.it; G. TAPETTO, Considerazioni sulla intermediazione di rifiuti, in
www.lexambiente.it; A. PIEROBON, op. cit.
(9) Con delibera n. 3 del 4 aprile 2000, il Ministero dell'ambiente ha stabilito i requisiti per l'iscrizione
all'Albo dei Gestori di rifiuti per la categoria 8, intermediatori e commercianti. Tuttavia, l'efficacia della
delibera è subordinata alla determinazione delle garanzie finanziarie da prestare, allo stato non ancora
definite.
Archivio selezionato: Note
L'Italia seppellita dai rifiuti della Campania, dinanzi alla Corte di Giustizia UE
Riv. giur. ambiente 2010, 5, 773
Marcello Adriano Mazzola
Dopo qualche decennio di imbarazzante gestione del sistema di raccolta e di smaltimento dei rifiuti in
Campania che è costato ai contribuenti una voragine finanziaria (1) ed una situazione grottesca, è giunta
la inevitabile condanna per l'Italia nella causa C-297/08, nella quale la Commissione ha contestato la
mancata creazione in Campania di una rete di impianti in grado di garantire l'autosufficienza nello
smaltimento dei rifiuti. Un inadempimento talmente grave da costituire un serio pericolo per la salute
dell'uomo e dell'ambiente.
La Corte di Giustizia delle Comunità Europee, con la causa C-297/08 pubblicata il 4 marzo 2010, ha così
condannato la Repubblica italiana, ai sensi dell'art. 226 CE, per la violazione degli obblighi ad essa
incombenti in forza degli artt. 4 e 5 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 5 aprile 2006,
2006/12/CE, relativa ai rifiuti, per non avere adottato per la Regione Campania, tutte le misure idonee.
In particolare la Corte ha ritenuto ingiustificato invocare a propria discolpa le proteste della popolazione,
oppostasi all'installazione di alcuni impianti di smaltimento dei rifiuti, non potendo essere eccepita da uno
Stato membro come situazione interna idonea a creare difficoltà di attuazione emersa nella fase di
esecuzione di un atto comunitario, fino a giustificare l'inosservanza degli obblighi e termini imposti dal
diritto comunitario.
Al pari la presenza di organizzazioni criminali, attive nel settore della gestione dei rifiuti, non può
giustificare una analoga violazione da parte di tale Stato membro.
La sentenza è ineccepibile e condensa in varie pagine una brutta pagina del nostro paese. Essa espone
l'Italia al pubblico ludibrio comunitario ed esalta negativamente il vizio italiano di accampare
giustificazioni per i propri inadempimenti. L'auspicio è che sia di monito per il futuro.
NOTE
(1) Si legga Corte Conti, Sez. Giur. Regione Campania, 9 dicembre 2009, n. 1492, con mia nota, in
pubblicazione in questa Rivista, nella quale scrissi che "come è noto il caso c.d. rifiuti Campania ha
voracemente inghiottito e depauperato le risorse statali, regionali, provinciali e comunali, per qualche
decennio, peraltro senza mai giungere ad una definitiva soluzione. Un danno gravissimo all'erario e di
riflesso un grave danno alla collettività, chiamata a compensare la voragine finanziaria, senza ricevere
alcun (fondamentale) servizio. Invero, ai maggiori costi sostenuti per la mancata differenziazione dei
rifiuti vanno peraltro aggiunte le gravose spese affrontate per il trasporto fuori Regione o all'estero dei
rifiuti, nonché il discredito dell'immagine dell'intero Paese che si è ripercosso certamente sull'indotto del
turismo. Dunque a ben vedere un danno di rimbalzo causato dalla mala gestio amministrativa".
Archivio selezionato: Note
Raccolta differenziata dei rifiuti e responsabilità amministrativa e contabile
Riv. giur. ambiente 2010, 3-4, 0617
Marcello Adriano Mazzola
La sentenza della Sezione giurisdizionale della Campania scolpisce un principio fondamentale in seno alla
materia della raccolta differenziata dei rifiuti nel territorio comunale dinanzi alla mala gestio imperante di
varie Amministrazioni della Campania. Si pone dunque come monito per il futuro per i poco diligenti
amministratori pubblici e per i tecnici comunali in genere, esposti d'ora in poi alla responsabilità
patrimoniale personale. Infatti in caso di mancato avvio e di scarso ricorso alla raccolta differenziata dei
rifiuti si arreca un danno erariale, che deve essere risarcito.
In realtà ci sorprendiamo come un tale principio non sia già stato svelato da tempo, posto che come è
noto il caso c.d. rifiuti Campania ha voracemente inghiottito e depauperato le risorse statali, regionali,
provinciali e comunali, per qualche decennio, peraltro senza mai giungere ad una definitiva soluzione. Un
danno gravissimo all'erario e di riflesso un grave danno alla collettività, chiamata a compensare la
voragine finanziaria, senza ricevere alcun (fondamentale) servizio.
Invero, ai maggiori costi sostenuti per la mancata differenziazione dei rifiuti vanno peraltro aggiunte le
gravose spese affrontate per il trasporto fuori Regione o all'estero dei rifiuti, nonché il discredito
dell'immagine dell'intero Paese che si è ripercosso certamente sull'indotto del turismo. Dunque a ben
vedere un danno di rimbalzo causato dalla mala gestio amministrativa.
L'occasione della sentenza e di attenta riflessione ha interessato uno tra i tanti comuni campani, ove la
raccolta differenziata dei rifiuti negli anni 2003/2005 non aveva raggiunto le percentuali minime previste.
Dacché la Procura regionale ha contestato la violazione degli obblighi prescritti dal D.Lgs. 5 febbraio
1997, n. 22 (c.d. decreto Ronchi), e dalle ordinanze del Ministero dell'Interno, Protezione Civile,
riguardanti l'emergenza rifiuti nella Regione Campania, che imponevano ai Comuni della Regione
Campania di attuare una percentuale minima di raccolta differenziata, convenendo nel giudizio di
responsabilità in primis il Sindaco, e poi il Responsabile dell'Ufficio gestione rifiuti, il Capo Servizio
ambiente, ecologia e tutela del territorio e il Dirigente del Settore urbanistica, ambiente, ecologia e tutela
del territorio, per rispondere del danno pubblico conseguente al mancato rispetto degli obblighi inerenti al
raggiungimento da parte del Comune delle percentuali minime di raccolta differenziata dei rifiuti.
Responsabilità che poi venivano acclarate.
Con il c.d. decreto Ronchi del 1997 e la successiva normativa del 2006, regolante la gestione dei rifiuti
solidi urbani, è stato prescritto alle amministrazioni locali di ridurre la quantità di rifiuti per mezzo del
reimpiego e del riciclaggio, garantendo incentivi alle aziende che utilizzano prodotti realizzati con
materiale riciclato. Tale percorso, peraltro indotto dalla attuazione di numerose direttive comunitarie, ha
originato Comuni virtuosi, Comuni diligenti, Comuni inadempienti, determinando notevoli disparità tra i
primi e gli ultimi, che non hanno alcuna giustificazione, se non fondata tale diversità, tra buona gestione
dell'Amministrazione pubblica e pessima gestione amministrativa. In tale cuneo si è quindi inserita la
Corte dei Conti.
La sentenza riporta peraltro quanto osservato dall'Agenzia per la protezione dell'ambiente e per i servizi
tecnici (APAT), secondo cui l'analisi dei costi riguardanti la raccolta differenziata consentiva di affermare
che la raccolta differenziata non determina un aggravio dei costi di gestione per l'Amministrazione,
ponendosi come un vero e proprio investimento di sistema, perché si evita l'intasamento delle discariche
e si offrono alle imprese interessate materie prime per il ciclo produttivo, oltre ai benefici che si traggono
dal combustibile da rifiuto. Ciò al fine di smentire la diceria secondo la quale una eccessiva raccolta
differenziata dei rifiuti sia economicamente sconveniente.
Il Collegio dei giudici contabili ha quindi valutato la sussistenza del danno pubblico patrimoniale materiale
determinato dalla mancata o insufficiente realizzazione della raccolta differenziata, con i requisiti della
certezza, della concretezza e dell'attualità. La quantificazione del danno patrimoniale arrecato è avvenuta
in via equitativa, ancorché fondata su dati oggettivi.
Ne consegue quindi che non svolgere proficuamente la raccolta differenziata costituisce un danno
pubblico e mediante l'azione di responsabilità amministrativa possono ben essere sanzionati tali condotte
illecite produttive di danno ingiusto. L'auspicio è che la mala gestio amministrativa non passi più
impunemente sotto lo sguardo della collettività.
Archivio selezionato: Dottrina
Pneumatici o rifiuti?
Riv. giur. ambiente 2010, 3-4, 453
NOVELIO FURIN ed ,
ENRICO DE NEGRI
1. Evoluzione storica, dato normativo ed introduzione alla questione. - 2. È ora pacifico che gli pneumatici
ricostruibili non sono rifiuti. Critica all'indirizzo giurisprudenziale contrario che, in verità, non menziona il
dato normativo. - 3. Come stabilire il momento in cui lo pneumatico usato non è più ricostruibile, bensì
fuori uso e a chi spetta effettuare tale classificazione. - 4. Conclusioni.
1. Evoluzione storica, dato normativo ed introduzione alla questione.
Appena entrato in vigore il D.Lgs. 22/1997, tutti gli pneumatici usati, venivano inclusi nell'elenco dei
rifiuti non pericolosi, indipendentemente dal fatto che fossero ricostruibili (1) o fuori uso (2). Il codice
CER attribuito a questi materiali era il 16.01.03 intitolato "pneumatici usati".
Inoltre, il D.M. 5 febbraio 1998, in tema di recupero agevolato dei rifiuti non pericolosi, all'Allegato 1,
Suballegato 1, prevedeva due voci: il punto 10.2, dedicato agli pneumatici non ricostruibili e il punto
10.3, relativo agli pneumatici ricostruibili. Sia gli uni che gli altri, quindi, erano sottoposti alle procedure
semplificate di recupero previste dagli artt. 31 e 33 del D.Lgs. 22/1997.
Tuttavia, ci si accorse che aver inserito gli pneumatici usati ricostruibili tra i rifiuti era stato un errore con
gravi ripercussioni sul piano ambientale (3). Infatti, l'appesantimento normativo e burocratico non
incentivava la ricostruzione, ma favoriva il conferimento degli pneumatici in discarica, circostanza che
comporta pesanti conseguenze ambientali, tra i quali, tempi di decomposizione molto lunghi (anche più di
cento anni) e problemi di "galleggiamento" per gli altri rifiuti accatastati, con pericolo d'instabilità per
l'intera discarica (4). Tutto ciò a fronte del fatto che la gomma è un materiale recuperabile con un
notevole risparmio sia di energia che di materia prima (5). Vi era, quindi, un'antitesi evidente tra le
potenzialità di impiego dello pneumatico usato ricostruibile e la sua destinazione a smaltimento, contrasto
accentuato dal fatto che proprio il D.Lgs. 22/1997 assumeva come prioritario il recupero e il riciclo nella
strategia di gestione dei rifiuti.
Per incentivare il riutilizzo degli pneumatici, si pensò che la soluzione potesse essere quella di considerarli
un bene e non un rifiuto, sottraendoli, quindi, a tutti gli adempimenti burocratici connessi alla normativa
in materia. Le sollecitazioni per una modifica del quadro normativo hanno iniziato a trovare
riconoscimento a partire dal 2000.
Con decisione 3 maggio 2000, 2000/532/CE, entrata in vigore il 1° gennaio 2002, l'Unione Europea ha
riformulato i codici rifiuto. In particolare, il codice CER 16.01.03, pur rimanendo invariato, ora non è più
intitolato "pneumatici usati", bensì "pneumatici fuori uso".
La novità è stata recepita nell'ordinamento interno con la L. 31 luglio 2002, n. 179 che, all'art. 23,
intitolato "Modifiche al decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22", ha stabilito che al decreto Ronchi
fossero apportate le seguenti modifiche: "... l) all'allegato A) le parole:"16 01 03 pneumatici usati"sono
sostituite dalle seguenti:"16 01 03 pneumatici fuori uso"".
Inoltre, il secondo comma della norma in esame ha autorizzato il Ministro dell'ambiente a correggere il
D.M. 5 febbraio 1998, che, come detto, individuava ai punti 10.2 e 10.3 sia gli pneumatici ricostruibili che
quelli non ricostruibili come rifiuti non pericolosi sottoposti alle procedure semplificate di recupero. Scopo
di questa modifica, quindi, era di coordinare quanto previsto dal nuovo codice CER con quanto contenuto
nel D.M. 5 febbraio 1998, al fine di eliminare ogni possibile residuo dubbio per gli interpreti ed i
destinatari della norma.
Dando seguito a tale previsione, il Ministero dell'ambiente, con D.M. 9 gennaio 2003, esplicitamente
intitolato "Esclusione degli pneumatici ricostruibili dall'elenco di rifiuti non pericolosi", ha soppresso la
voce 10.3 dell'Allegato 1, Suballegato 1, del D.M. 5 febbraio 1998, relativo agli pneumatici ricostruibili, i
quali, quindi, sono esclusi dall'elenco dei materiali sottoposti a recupero semplificato.
Viceversa, è stato correttamente mantenuto solo il punto 10.2 che individua gli pneumatici non
ricostruibili.
Tale distinzione è stata ripresa anche dal D.Lgs. 152/2006 (Codice dell'ambiente), il quale, nel Titolo III
della Parte IV, dedicato alla gestione di particolari categorie di rifiuti, all'art. 228 impone ai produttori ed
importatori degli pneumatici l'obbligo di recuperare annualmente, singolarmente o in forma associata,
una quantità dgli pneumatici fuori uso, almeno pari a quella degli pneumatici immessi sul mercato e
destinati alla vendita sul territorio nazionale (6). Ciò anche al fine di incentivare il recupero degli
pneumatici fuori uso, con una chiara valenza ambientale.
In sintesi, a seguito delle citate modifiche legislative, si è creata una nuova e diversa classificazione degli
pneumatici, così suddivisa: 1. da un lato, gli pneumatici fuori uso, considerati rifiuto a tutti gli effetti,
destinati ad attività di recupero o smaltimento (codice CER 16.01.03, punto 10.2 D.M. 5 febbraio 1998 e
art. 228 D.Lgs. 152/2006); 2. dall'altro, gli pneumatici usati, non considerati rifiuto e che possono essere
destinati ad un'attività di ricopertura o, eventualmente, anche di riutilizzo diretto secondo le modalità
previste dalla normativa di settore.
Questi ultimi, quindi, possono essere compravenduti come beni e trasferiti con D.D.T.
Infine, si osservi che il legislatore aveva vietato il conferimento degli pneumatici interi fuori uso in
discarica, ai sensi dell'art. 6, lett. o), del D.Lgs. 36/2003 (7) e del D.M. 3 agosto 2005 (8). In realtà, tale
divieto all'inizio era in vigore per le discariche nuove. Per le discariche già autorizzate è divenuto efficace
solo dopo diverse proroghe e precisamente dal 1° gennaio 2010 (9).
2. È ora pacifico che gli pneumatici ricostruibili non sono rifiuti. Critica all'indirizzo
giurisprudenziale contrario che, in verità, non menziona il dato normativo.
La dottrina ha assunto una posizione favorevole ad escludere gli pneumatici usati ricostruibili dalla
disciplina dei rifiuti, in conformità al dato legislativo (10).
Per quanto riguarda la giurisprudenza costituzionale, il giudice delle leggi ha espressamente affermato
che lo pneumatico ricostruibile non è rifiuto (11).
Con riferimento alla giurisprudenza di legittimità, l'orientamento più recente ed attento si è adeguato alle
norme prima esaminate e ha confermato che gli pneumatici usati ricostruibili non sono rifiuti (12).
Sebbene il tenore della norma sia inconfutabile e ad esso si adeguino la dottrina e la giurisprudenza ora
citate, va registrato, per completezza, anche l'orientamento contrario, ormai risalente, di parte della
giurisprudenza. Infatti, vi sono alcune decisioni della Suprema Corte che, sebbene siano state
pronunciate dopo gli interventi del legislatore del 2002 e del 2003, non hanno colto la portata delle
riforme legislative e hanno continuato a qualificare come rifiuti tutti gli pneumatici usati, compresi quelli
ricostruibili (13).
È interessante notare che queste pronunce non fanno riferimento alle norme prima esaminate (14).
Ovvero, tali sentenze ignorano sia la L. 179/2002 che il D.M. 9 gennaio 2003 e affrontano la problematica
solo in relazione all'art. 14, D.L. 8 luglio 2002, n. 138, convertito in L. 8 agosto 2002, n. 178, norma oggi
abrogata e superata (15).
Come evidenziato dalla dottrina, sorprende il mancato riferimento alla normativa che ha escluso la natura
di rifiuto degli pneumatici ricostruibili, in virtù della quale la Suprema Corte avrebbe dovuto decidere in
senso esattamente contrario a quello che ha fatto (16).
3. Come stabilire il momento in cui lo pneumatico usato non è più ricostruibile, bensì fuori uso
e a chi spetta effettuare tale classificazione.
Dunque, ai sensi dell'art. 23, L. 31 luglio 2002, n. 179 e del D.M. 9 gennaio 2003, solo gli pneumatici
fuori uso sono da considerarsi rifiuti.
Al contrario, in seguito ai provvedimenti legislativi appena indicati, non sono più soggetti alla normativa
sui rifiuti gli pneumatici usati ricostruibili, ovvero suscettibili di reimpiego, salvo il caso, ovviamente, che
il detentore voglia disfarsene.
L'intervento del legislatore, peraltro, pone due questioni di notevole importanza: a partire da quale
momento, gli pneumatici non possano più essere considerati ricostruibili; su quale soggetto gravi l'onere,
con le relative responsabilità penali, civili e amministrative, di classificare lo pneumatico usato come
ricostruibile e, quindi, come bene, oppure fuori uso, vale a dire, rifiuto.
Per rispondere ai quesiti imposti dal presente paragrafo, bisogna distinguere due casi: quello in cui lo
pneumatico si presenti fuori uso ad una semplice ed immediata occhiata (ad es. perché lacerato in vari
pezzi) e tutte le altre ipotesi, nelle quali, pur in presenza di un pneumatico più o meno degradato, non si
possa definirlo fuori uso solo con una superficiale valutazione visiva.
Nel primo caso, a nostro parere, lo pneumatico è da considerarsi rifiuto nel momento stesso in cui sia
visivamente riconoscibile come fuori uso. Il primo criterio per qualificare un pneumatico come rifiuto e
trattarlo come tale va ravvisato, quindi, nella manifesta evidenza dell'impossibilità di procedere ad una
ricostruzione.
Dal punto di vista del detentore (gommista, ecc.), ciò significa che, nel momento in cui lo pneumatico è,
ictu oculi, non ricostruibile, tale soggetto è tenuto a conferirlo ad un operatore autorizzato, potendo, in
caso contrario, incorrere nel reato di cui all'art. 256, primo comma lett. a), D.Lgs. 152/2006 (17).
Spetta, quindi, al gommista, effettuare la prima selezione, eliminando tutti gli pneumatici evidentemente
fuori uso. Egli, in questa ipotesi, assume la qualifica di produttore-detentore di rifiuti. In tale veste, egli
può giovarsi delle norme che regolano il deposito temporaneo e, quindi, può trattenere presso di sé
pneumatici fuori uso secondo i limiti temporali e quantitativi fissati dall'art. 183, lett. m), D.Lgs.
152/2006, evitando, in tal modo, che si realizzi il fatto di reato sopra indicato.
Dal punto di vista del ricostruttore, questi non può ritirare lo pneumatico che si presenti in modo
manifesto fuori uso, salvo il fatto che sia in possesso delle autorizzazioni al trasporto e/o alla gestione dei
rifiuti, quale recuperatore.
In assenza di tali autorizzazioni, nessuno dei due soggetti potrebbe andare esente da responsabilità
penali, in quanto sia il produttore-detentore di rifiuti che lo ha conferito, sia il ricostruttore che lo ha
ritirato, risponderebbero in concorso del reato, appena menzionato, di trasporto illecito e/o gestione
abusiva di rifiuti, nella situazione specifica non pericolosi (18).
Esclusa l'ipotesi, sopra enunciata, in cui lo pneumatico risulti fuori uso in modo evidente, in tutti gli altri
casi, va certamente affermato che gli pneumatici usati non sono rifiuti al momento del ritiro dal
detentore, bensì vanno eventualmente qualificati come tali, solo a seguito di un esame tecnico che
unicamente il ricostruttore, con i mezzi di cui dispone, può effettuare (19).
L'esame tecnico del ricostruttore, quindi, diviene il secondo criterio per stabilire il momento in cui un
pneumatico usato divenga rifiuto e vada trattato di conseguenza (20).
In altre parole, gli pneumatici usati ritirati dai ricostruttori e depositati presso di loro, a parte i casi prima
citati in cui la natura di rifiuto sia di manifesta evidenza, sono dei beni, in quanto potenzialmente
ricostruibili e, quindi, riutilizzabili, e restano tali fino a quando i ricostruttori non individuino mediante una
propria indagine tecnica quelli fuori uso.
Inoltre, in questa ipotesi, è il ricostruttore e non più il detentore originario che assume la qualità di
produttore di rifiuti, potendo avvalersi dei limiti quantitativi e temporali in tema di deposito temporaneo.
Peraltro, è impensabile che un ricostruttore si attrezzi per distinguere gli pneumatici ricostruibili da quelli
fuori uso presso ogni detentore, in quanto dovrebbe dotarsi di un servizio tecnico itinerante che permetta
di valutare a domicilio l'idoneità degli pneumatici alla ricostruzione (21). Inoltre, gli pneumatici usati
rappresentano una fonte di guadagno e tale circostanza vale a stimolare lo sviluppo tecnologico e la
ricostruzione del maggior numero degli pneumatici possibili (22).
Si garantisce anche un maggior controllo ambientale rispetto agli pneumatici fuori uso, in quanto i
ricostruttori sono relativamente pochi e trattano grosse partite degli pneumatici, mentre gli utilizzatori
degli pneumatici sono numerosissimi e disparati e non offrono sempre la garanzia di un corretto
smaltimento o recupero (23).
In sintesi, al di là dei casi in cui emerga in modo manifesto la non ricostruibilità dello pneumatico,
nessuno pneumatico usato è rifiuto, se non dopo che sia stato valutato come tale dal ricostruttore.
4. Conclusioni.
Gli pneumatici usati non sono rifiuti.
Ai sensi dell'art. 23, L. 31 luglio 2002, n. 179 e del D.M. 9 gennaio 2003, sono rifiuti solo gli pneumatici
fuori uso, ovvero quelli dei quali sia accertata la non ricostruibilità.
Il dato normativo prende atto in modo razionale sia degli interessi economici che delle esigenze di tutela
ambientale, in quanto sottrarre la ricostruzione del pneumatico agli onerosi adempimenti della disciplina
sui rifiuti, agevola la ricostruzione e consente un importante risparmio di materie prime e risorse
ambientali.
Questa tesi è sostenuta dalla dottrina, dalla giurisprudenza costituzionale e, ora, anche da quella di
legittimità.
Lo pneumatico diviene rifiuto in due diversi momenti, a seconda che esso sia fuori uso in modo del tutto
manifesto ad un esame visivo sommario, oppure a seguito dell'esame tecnico che lo qualifichi come non
ricostruibile.
Una prima selezione va effettuata dal gommista, che deve conferire ad operatore specializzato tutti gli
pneumatici evidentemente fuori uso e, in tal caso, può usufruire dei limiti temporali e quantitativi previsti
in tema di deposito temporaneo. Viceversa, egli potrebbe essere perseguito per attività di gestione di
rifiuti non autorizzata ex art. 256, primo comma, lett. a) D.Lgs. 152/2006. Peraltro, anche il privato o
l'Ente i quali, anziché far sostituire gli pneumatici fuori uso dei propri mezzi o conferirli ad operatore
autorizzato, se ne disfino illecitamente, incorrono in sanzioni, il primo di natura amministrativa (art. 255,
primo comma, D.Lgs. 152/2006) ed il secondo penale [art. 256, primo comma, lett. a), D.Lgs. 152/2006]
(24).
In tutti gli altri casi, è il ricostruttore a divenire produttore di rifiuti, con conseguente obbligo di affidare
ad operatore specializzato gli pneumatici che abbia individuato come fuori uso dopo averli esaminati e
fatti sempre salvi i termini quantitativi e temporali fissati per il deposito temporaneo, di cui, stavolta, sarà
egli a potersi avvantaggiare.
NOTE
(1) Lo pneumatico ricostruito è uno pneumatico al quale è stato sostituito il battistrada usurato con
materiale nuovo, dalle caratteristiche del tutto simili all'originale. La materia prima di questo processo è
rappresentata dagli pneumatici usati che conservano integre le loro caratteristiche strutturali. La
ricostruzione è possibile perché la struttura di uno pneumatico ha una vita utile molto più lunga del
battistrada. I processi di ricostruzione sono severissimi, tecnologicamente avanzati e certificati in
conformità ai protocolli fissati dalle norme ECE ONU 108 (autovetture) e 109 (veicoli commerciali). Dal 13
settembre 2006 non è più possibile commercializzare in tutto il territorio dell'Unione Europea pneumatici
ricostruiti non conformi alle norme ECE ONU 108 e 109. Lo prevede la decisione 2006/443/CE del
Consiglio europeo pubblicata sulla G.U.UE del 4 luglio 2006. Per un approfondimento tecnico sulla
ricostruzione, si visiti il sito dell'AIRP (Associazione italiana ricostruttori pneumatici), www.asso-airp.it.
(2) Questi sono gli pneumatici che possono essere avviati a smaltimento o a recupero della gomma. Una
forma di recupero degli pneumatici non ricostruibili e delle camere d'aria non riparabili consiste in
operazioni di lavaggio del rifiuto, nella successiva separazione meccanica delle sue varie componenti
(ferro, acciaio, gomma) e nella triturazione della gomma fino ad ottenere un granulato e/o una polvere di
gomma, destinati a realizzare molteplici manufatti: campi di tennis e di calcio, suole di scarpe, pannelli
fonoassorbenti, tappetini antishock, manti in erba sintetica, ecc.). In alternativa, vi è il recupero
energetico mediante l'invio a cementifici o a inceneritori di gomme. Sull'argomento, si veda GIAMPIETRO, Il
regime giuridico del recupero degli pneumatici non ricostruibili e dei granulati di gomma, in Ambiente,
2004, n. 5, pp. 433 e ss.
(3) Nel 1997, la Commissione Ambiente della Camera dei Deputati approvava una risoluzione sul
recupero e sul riciclaggio degli pneumatici fuori uso (atto Camera 9/7328/46, proposto dagli on.
Gerardini, Zagatti, Vigni), denunciando che il problema del loro smaltimento già da anni stava assumendo
in tutto il mondo proporzioni allarmanti. Riciclare pneumatici usati era, quindi, diventato un imperativo
categorico in molti Stati. Inoltre, ad avviso dell'ONU, si sarebbero dovute introdurre agevolazioni fiscali e
legislative per aumentare il rapporto di ricostruibilità del prodotto, poiché la ricostruzione veniva e viene
ritenuta la forma di riutilizzo più conveniente per l'economia di un paese anche in relazione ai suoi effetti
ritardanti la produzione di rifiuti. Infatti, per le sue benemerenze ecologiche ed economiche, il settore
della ricostruzione godeva e gode di particolari agevolazioni fiscali ed amministrative in molti paesi tra
cui: USA, Germania, Francia, Olanda. La risoluzione impegnava il Governo ad adottare una serie di
provvedimenti tesi a promuovere iniziative per valorizzare i benefici ambientali della ricostruzione,
favorendo la ricerca di nuove tecniche di recupero degli pneumatici usati e lo studio di specifiche
agevolazioni fiscali e amministrative. In ordine al rapporto con i produttori, la risoluzione raccomandava
la stipula in tempi brevi di un accordo di programma sulla base dell'articolo 25, D.Lgs. 22/1997. Cfr.
FICCO, Gli pneumatici usati non sono più rifiuti se vengono destinati alla ricostruzione, in Ambiente &
Sicurezza, 2003, n. 5, p. 86.
(4) Cfr. SCARDACI, L'attività di recupero degli pneumatici usati e le procedure semplificate, in Ambiente,
2004, n. 4, p. 369.
(5) Se si considera la povertà di materie prime presenti nel nostro paese e la saturazione del territorio
con la necessità di evitare il più possibile il conferimento in discarica, si comprende l'importanza che
assume la ricostruzione degli pneumatici usati e lo sviluppo della tecnologia in questo settore. Si veda, in
proposito, l'ineccepibile ragionamento di PERES, La nozione di rifiuto, in Ambiente & Sicurezza, Il Sole 24
ore, 2001, n. 23, Inserto, p. 28.
(6) Vi è da precisare che la disposizione è, al momento, inapplicabile, in quanto manca il decreto del
Ministero dell'ambiente previsto dal secondo comma della norma stessa e destinato a disciplinare tempi e
modi di attuazione dell'obbligo in esame. In ogni caso, la previsione di una norma specificamente
dedicata alla gestione degli pneumatici fuori uso rappresenta un'importante novità introdotta dal D.Lgs.
152/2006. Per facilitare l'adempimento in questione, il Codice dell'ambiente prevede che i produttori e gli
importatori dgli pneumatici siano esonerati dall'obbligo di tenere il registro di carico e scarico (art. 190,
ottavo comma) e di iscriversi all'Albo nazionale gestori ambientali (art. 212, quinto comma), a condizione
che comunque dispongano di evidenze documentali o contabili che provino il ritiro di talgli pneumatici
fuori uso.
(7) Ad eccezione, stabilisce la norma, degli pneumatici usati come materiale di ingegneria e degli
pneumatici fuori uso triturati a partire da tre anni da tale data, esclusi in entrambi i casi quelli per
biciclette e quelli con un diametro esterno superiore a 1400 mm.
(8) Si tratta del D.M. del Ministero dell'ambiente 3 agosto 2005 (in G.U. 30 agosto, n. 201), intitolato
"Definizione dei criteri di ammissibilità dei rifiuti in discarica". Tale decreto stabilisce i criteri e le
procedure di ammissibilità dei rifiuti nelle discariche, in conformità a quanto stabilito dal D.Lgs. 36/2003.
(9) Si veda l'art. 5, comma 1-bis, D.L. 28 dicembre 2008, n. 208, nel testo coordinato con le modifiche
apportate dalla legge di conversione 27 febbraio 2009, n. 13.
(10) Si veda RONCHI e SANTOLOCI, La riforma dei rifiuti. I nodi critici, Roma, 2004, p. 183; VERGINE, Nota a
Cass., Sez. III, 19 gennaio 2005, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2005, p. 538; FICCO, cit., p. 86; COVIELLO,
Sulla distinzione fra "pneumatici fuori uso" e "pneumatici ricostruibili" ai fini dell'applicabilità della
disciplina sui rifiuti, in Dir. e giur. agr., 2008, n. 5, p. 357; D'ALESSANDRIS, Pneumatici ricostruibili e
normativa applicata. Aspetti normativi e operativi, in www.ambiente.it; DRAGANI, Dagli pneumatici "usati"
agli pneumatici "fuori uso". L'evoluzione normativa, in www.reteambiente.it.
(11) Cfr. Corte Cost., sent. 30 dicembre 2003, n. 378, in Foro it., 2005, I, 288. Nella motivazione, il
giudice delle leggi ha dato anche un significato ambientale alla propria decisione, affermando che
"...risulta quindi evidente la finalità ecologica delle operazioni di ricostruzione, che appunto mirano a
prevenire e, nello stesso tempo, a ridurre l'inquinamento ambientale derivante dal deposito,
dall'accumulo e dallo smaltimento degli pneumatici usati...".
(12) Cfr. Cass. pen., Sez. III, 23 gennaio 2007, V., in Cass. pen., 2008, n. 4, p. 1553 e in Dir. e giur.
agr., 2007, n. 5, p. 357, con nota di COVIELLO. Tale sentenza afferma espressamente che "...la nozione di
rifiuti è attualmente ristretta ai solgli pneumatici "fuori uso" (rimanendone invece esclusi, come noto, i
cd. pneumatici ricostruibili)".
(13) Si vedano: Cass. pen, Sez. III, 19 maggio 2006, C., in Riv. pen., 2007, n. 2, p. 171; Cass. pen, Sez.
III, 19 gennaio 2005, S., in Riv. trim. dir. pen. ec., 2005, p. 538, con nota critica di VERGINE; Cass. pen,
Sez. III, 20 aprile 2004, V., in Cass. pen., 2005, p. 1356. Per la giurisprudenza di merito, cfr. Trib.
Grosseto, 17 maggio 2007, in Dir. e giur. agr., 2008, n. 5, p. 357; Trib. Sassari, 29 marzo 2005, in
Corriere del merito, 2005, p. 818. Per il periodo precedente all'entrata in vigore delle riforme legislative a
cavallo tra 2002 e 2003, si vedano Cass. pen., Sez. III, 10 gennaio 2000, V., in Riv. pen., 2000, p. 591;
Cass. pen., Sez. III, 28 aprile 1997, A., in Ragiusan, 1998, p. 127; nella giurisprudenza di merito, si
osservi Trib. Parma, 31 ottobre 1998, in Giur. merito, 1999, n. 2, p. 308 con nota di DEAMICIS, Rifiuti e
"pneumatici usati": una coincidenza non necessaria. Da ultimo, si segnala che anche l'AIRP (Associazione
italiana ricostruttorgli pneumatici) ha preso da tempo posizione sul punto, affermando in modo netto che
gli pneumatici usati destinati ad essere ricostruiti non sono più rifiuti. Si veda il comunicato stampa
dell'AIRP Gli pneumatici da ricostruire non sono rifiuti. Un decreto del Ministro dell'ambiente li cancella
dall'elenco, in www.asso-airp.it.
(14) In particolare, si notino le motivazioni delle seguenti sentenze: Cass., Sez. III, 19 maggio 2006, cit.;
Cass., Sez. III, 19 gennaio 2005, cit.; Cass., Sez. III, 20 aprile 2004, cit. Si riporta, per tutte, il seguente
passo di Cass., Sez. III, 19 maggio 2006: "In proposito questa Corte (Cass., Sez. III, 19 gennaio 2005-9
febbraio 2005, n. 4702) ha già affermato - e qui ribadisce - che gli pneumatici usati dei quali il detentore
si disfa o che vende a terzi perché siano riutilizzati previa rigeneratura o ricopertura non rientrano nella
deroga alla nozione di rifiuto di cui al D.L. 8 luglio 2002, n. 138, art. 14, convertito con L. 8 agosto 2002,
n. 178...". Cfr. anche Cass., Sez. III, 20 aprile 2004, cit., che ha qualificato gli pneumatici usati come
rifiuti speciali, ancorché non pericolosi, che possono essere avviati al recupero attraverso le procedure
semplificate di cui al D.Lgs. 22 febbraio 1997, n. 22, art. 33.
(15) Tale norma aveva fornito un'interpretazione autentica della definizione di rifiuto da parte del
legislatore nazionale, volta a restringere tale nozione e, quindi, a limitare l'applicabilità della normativa in
tema di rifiuti. Oltre a stabilire quale fosse il significato delle espressioni "si disfi", "abbia deciso di
disfarsi" e "abbia l'obbligo di disfarsi", la norma in questione chiariva che i residui di produzione e di
consumo, di cui forniva altresì il significato, non erano da considerarsi rifiuti, bensì sottoprodotti. Lo
pneumatico ricostruibile, secondo la Cassazione, non poteva essere considerato né residuo di produzione
né di consumo e, quindi, in base a tale norma, doveva essere classificato come rifiuto. La Corte di
Giustizia ha statuito la parziale incompatibilità di questa norma con il diritto comunitario. In ogni caso, la
problematica appare superata con l'entrata in vigore della L. 179/2002 e del D.M. 9 gennaio 2003.
Sull'art. 14 appena citato, nonché sull'influenza e sulla portata della sentenza della Corte di Giustizia
europea ora menzionata, si sono espressi diversi autori. Per un approfondimento, si rinvia a GIAMPIETRO,
La nozione comunitaria di rifiuto e i suoi effetti penali: la Corte CE va oltre la sentenza Niselli, in
Ambiente, 2005, n. 6, p. 505; GIUNTA, Commento all'art. 50, comma 1, D.Lgs.22/1997, in Codice
commentato dei reati e degli illeciti ambientali, a cura di GIUNTA, Padova, 2005, p. 960; VERGINE, Quel
"pasticciaccio brutto" dei rottami ferrosi (prima parte), in Ambiente, 2005, p. 10; FURIN e DENEGRI, Rifiuto
e sottoprodotto: un nuovo intervento della Cassazione tra D.Lgs. 22/1997 e D.Lgs. 152/2006, in questa
Rivista, 2006, p. 471; PAONE, Residui, sottoprodotti e rifiuti: quale futuro?, in Ambiente, 2005, n. 6, p.
553; PALLOTTA, Art. 14 sulla interpretazione autentica di rifiuto: la Corte Europea di giustizia accoglie il
ricorso del Tribunale di Terni: clamorosi risvolti su tutto il sistema di applicazione della norma a livello
nazionale, in www.lexambiente.it, AMENDOLA, Bocciatura autentica della interpretazione autentica della
nozione di rifiuto. Quali conseguenze?, in www.dirittoambiente.com; SANTOLOCI, Rifiuti, acque e altri
inquinamenti: tecniche di controllo ambientale, Roma, 2005.
(16) Cfr. VERGINE, cit., p. 539.
(17) Trattasi del reato di attività di gestione non autorizzata di rifiuti non pericolosi, punito con la
sanzione alternativa e, quindi, oblazionabile, dell'arresto da tre mesi ad un anno o con l'ammenda da
duemilaseicento euro a ventiseimila euro.
(18) Cfr. Cass. pen., Sez. III, 27 marzo 2007, in Cass. pen., 2008, n. 5, p. 2093.
(19) Pneumatici apparentemente inservibili, ad un esame attento, potrebbero rivelarsi ricostruibili, con il
conseguente risparmio di risorse naturali. Ogni pneumatico destinato alla ricostruzione è sottoposto a
diversi controlli per accertare la sua idoneità ad un'altra vita. Il primo controllo è quello tattilo/visivo,
effettuato da un esperto operatore che ispeziona accuratamente lo pneumatico, sia all'esterno che
all'interno, per mezzo di specifici strumenti. Il controllo dell'operatore è integrato da quello strumentale
con diverse tecnologie quali ad esempio la shearografia che consente di individuare eventuali
deformazioni della carcassa. Superato il primo esame, lo pneumatico viene sottoposto alla raspatura.
Essa consiste nell'asportazione del battistrada residuo e nella preparazione della superficie che dovrà
accogliere il nuovo battistrada. Anche in questa fase, vengono svolti ulteriori controlli sull'idoneità al
recupero della carcassa.
(20) Non è, quindi, possibile parlare di rifiuti, prima di questa indagine tecnica e, solo a seguito di essa, il
ricostruttore è tenuto ad avviare gli pneumatici individuati come fuori uso a recupero dei materiali, a
recupero energetico o a smaltimento, mediante formulario e incarico a ditta specializzata.
(21) Contra, sostiene che la selezione dovrebbe essere effettuata a monte, D'ALESSANDRIS, Pneumatici
ricostruibili e normativa applicata. Aspetti normativi e operativi, in www.ambiente.it.
(22) Peraltro, senza che ciò vada a scapito della qualità o dell'affidabilità del pneumatico ricostruito,
poiché la normativa prima citata ECE ONU 108 e 109 fissa standard di assoluta severità e sicurezza.
(23) I ricostruttori italiani sono circa un'ottantina, mentre solo i rivenditori autorizzati sono oltre 10.000.
Così si evince dal Libro bianco degli pneumatici ricostruiti, 2005, in www.asso-airp.it. Peraltro, si osservi
che l'art. 228 D.Lgs. 152/2006, norma che per il momento non è ancora efficace in attesa
dell'emanazione di un D.M. attuativo, si propone di semplificare il ritiro e l'avvio a recupero degli
pneumatici fuori uso da parte dei produttori e degli importatori, esonerando questi ultimi dall'obbligo di
registrare tali rifiuti nei registri di carico e scarico.
(24) Viceversa, non incorrono in alcuna sanzione, il privato o l'Ente che detengano semplicemente
pneumatici usati, ma non fuori uso.
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Archivio selezionato: Note
"CHI INQUINA PAGA": IL PUNTO SU RESPONSABILITÀ DELL'INQUINATORE E
PROPRIETARIO INCOLPEVOLE NELLA BONIFICA DEI SITI INQUINATI
Resp. civ. e prev. 2010, 9, 1885
Andrea Carapellucci
Dottorando di ricerca in diritto amministrativo nell'Università La Statale di Milano
Sommario: 1. Premessa: bonifica e danno ambientale. 2. La ricostruzione del fatto. 3. La posizione del
responsabile dell'inquinamento e quella del proprietario del fondo nella giurisprudenza. 4. La regola
probatoria del "più probabile che non". 5. Conclusioni.
1. PREMESSA: BONIFICA E DANNO AMBIENTALE
Le norme in materia di bonifica dei siti inquinati rappresentano probabilmente il principale strumento
applicativo del principio "chi inquina paga" nell'ordinamento italiano (1). Il sistema di responsabilità per
danno all'ambiente configurato dalla Direttiva 2004/35/CE è fondato infatti sull'assunto che il risultato
primario da perseguire sia il ripristino della condizione originale dell'ambiente contaminato, relegando il
risarcimento per equivalente ai soli casi in cui il recupero o le altre forme di compensazione non risultino
possibili (2). Ciò basterebbe a spiegare la particolare rilevanza della disciplina in parola, oggi codificata
negli artt. 239 ss. del d.lgs. n. 152/2006.
Tuttavia, il tema del rapporto tra la disciplina delle bonifiche e quella, più generale, del risarcimento del
danno all'ambiente, ha suscitato l'attenzione della dottrina italiana anche per altre ragioni. Constatato che
la contaminazione dei suoli e delle acque, attraverso l'immissione di rifiuti e scarichi inquinanti,
rappresenta una delle fattispecie più tipiche di danno all'ambiente, ci si è interrogati sui rapporti tra
obbligo di bonifica e risarcimento del danno ambientale, evidenziando la parziale sovrapponibilità delle
due discipline (3). Nel periodo precedente all'entrata in vigore del d.lgs. n. 152/2006, la dottrina aveva
intuito come le disposizioni di cui all'art. 17 del d.lgs. n. 22/1997, che attribuivano all'"inquinatore"
l'obbligo di procedere agli interventi di messa in sicurezza e bonifica del sito contaminato e
all'Amministrazione il potere di diffidarlo, mediante provvedimenti di carattere ordinatorio, fossero
destinate ad affermarsi come strumento più efficace rispetto alla generale azione civile di responsabilità
per danno all'ambiente (allora disciplinata dall'art. 18 della l. n. 349/1986). In particolare, proprio la
previsione di poteri autoritativi in capo all'Amministrazione era considerata un elemento decisivo per la
qualificazione del rimedio della "diffida a bonificare" come maggiormente incisivo rispetto alla generale
azione di risarcimento (4).
La ricollocazione delle due normative nell'ambito del Codice dell'ambiente è stata accompagnata da una
loro parziale riscrittura. Da un lato, la possibilità di intervenire mediante ordinanza amministrativa (5) è
stata estesa anche alla disciplina generale del risarcimento, confermando la validità delle intuizioni della
dottrina (6). Dall'altro, la disciplina delle bonifiche è stata modificata introducendo alcuni chiarimenti
rilevanti. La nuova formulazione, in particolare, distingue in modo più netto la posizione dei due principali
soggetti interessati: il responsabile dell'inquinamento e il proprietario incolpevole del fondo.
Secondo la disciplina attuale, l'obbligo di attuare gli interventi di bonifica grava sul responsabile
dell'inquinamento, ovvero sull'Amministrazione, nel caso in cui i soggetti responsabili non vi provvedano
(art. 250). L'onere economico degli interventi di recupero è parimenti destinato a ricadere sul
responsabile e può essere accollato al proprietario incolpevole (cioè che non abbia concorso a
determinare la contaminazione, ipotesi nella quale anch'esso rileverebbe innanzitutto come responsabile
dell'inquinamento) soltanto in ipotesi circoscritte ed entro limiti predefiniti (7).
"Il privilegio e la ripetizione delle spese" recita infatti l'art. 253, comma 3, "possono essere esercitati, nei
confronti del proprietario del sito [...] solo a seguito di provvedimento motivato dell'autorità competente
che giustifichi, tra l'altro, l'impossibilità di accertare l'identità del soggetto responsabile ovvero che
giustifichi l'impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro
infruttuosità". Il proprietario incolpevole è quindi chiamato a sostenere il costo della bonifica solo nel caso
in cui il responsabile dell'inquinamento non sia individuabile, ovvero risulti incapiente e l'Amministrazione
abbia pertanto provveduto in sua vece. L'azione di rivalsa è poi esercitabile "nei limiti del valore di
mercato del sito determinato a seguito dell'esecuzione degli interventi medesimi" (art. 253, comma 4).
Il descritto modello di allocazione dei costi della bonifica si presta ad alcune critiche. Come è stato
osservato, il significato fondamentale del principio "chi inquina paga" è che gli effetti negativi
dell'inquinamento (più precisamente: i costi della decontaminazione), normalmente esternalizzati a
danno della collettività o di singoli soggetti incolpevoli, devono essere ricondotti dall'ordinamento in capo
agli inquinatori. Se questo è l'obiettivo da perseguire, non appare del tutto coerente che il proprietario
incolpevole possa essere chiamato a sostenere i costi della bonifica effettuata dalla P.A. nei limiti
dell'intero valore del fondo, rilevato a seguito della bonifica, e non invece della differenza tra il valore
dello stesso prima e dopo la bonifica(8). Il proprietario incolpevole non ha l'obbligo di provvedere al
recupero: qualora si attivi spontaneamente, la legge gli riconosce il diritto di rivalersi nei confronti del
responsabile per tutte le spese sostenute e l'eventuale maggior danno (art. 254, comma 4). Nel caso
contrario, tuttavia, la sua (pur legittima) inerzia apre la strada all'intervento (doveroso)
dell'Amministrazione, che potrà rivalersi su di lui, nei casi descritti, ben oltre i limiti dell'arricchimento
determinato dalla bonifica. Di conseguenza, la facoltà riconosciuta dalla legge al proprietario si configura,
in realtà, piuttosto come un onere.
Il rapporto tra la posizione dell'inquinatore e quella del proprietario del fondo ha dominato l'attenzione
della dottrina e della giurisprudenza in materia di bonifica dei siti contaminati (9). La sentenza in
commento si inserisce in una lunga catena di arresti giurisprudenziali che contribuiscono a chiarire le
posizioni dei due soggetti: tema rilevante in quanto, come si è tentato di illustrare, l'allocazione del costo
degli interventi di recupero ambientale costituisce un essenziale riscontro dell'effettiva attuazione del
principio "chi inquina paga".
2. LA RICOSTRUZIONE DEL FATTO
La sentenza in commento interviene nell'ambito di una vicenda per molti versi tipica, ma complessa.
La contaminazione riguarda un fondo di proprietà di un soggetto diverso dal responsabile
dell'inquinamento ed è il prodotto dell'illecito abbandono di rifiuti industriali ("fusti" contaminati). Il
responsabile dell'abbandono dei rifiuti (e quindi, presumibilmente, dell'inquinamento) signor S. era
titolare di un azienda di lavorazione di prodotti chimici. La ditta aveva acquistato alcuni fusti di materiale
plastico per procedere alla loro "rigenerazione" solo pochi mesi prima di fallire. Subito dopo l'acquisto, i
fusti erano stati abbandonati sul terreno di proprietà di un terzo, apparentemente senza che questi ne
fosse a conoscenza, su invito di un conoscente del titolare signor B. che aveva in gestione, per l'esercizio
di un'attività industriale, l'area interessata dal deposito. Molti anni più tardi, il responsabile
dell'abbandono dei fusti, sottoposto ad indagine per il reato di discarica abusiva, aveva provveduto a
rimuoverli, senza preoccuparsi, tuttavia, della contaminazione nel frattempo provocata dagli stessi sul
fondo. Il procedimento penale era stato poi archiviato a seguito dalla rimozione dei rifiuti.
L'Amministrazione, tuttavia, aveva avviato accertamenti sullo stato del terreno e, rilevato il superamento
delle soglie di inquinamento, adottato l'ordinanza di cui all'art. 244 del d.lgs. n. 152/2006, diffidando a
procedere alla bonifica del terreno tre diversi soggetti: il signor S., quale responsabile dell'inquinamento;
il signor. B., attuale gestore dell'area e corresponsabile; e la proprietaria del terreno.
L'individuazione dell'effettivo responsabile si presentava quindi difficoltosa. Con ogni probabilità, la
contaminazione era da ricondurre alla discarica abusiva allestita dal signor S. su di un terreno altrui, con
il consenso del gestore (non proprietario) di quest'ultimo. Tuttavia erano trascorsi molti anni, la società
che aveva abbandonato i rifiuti responsabili dell'inquinamento era fallita da tempo ed il suo ex titolare
non aveva (così come non aveva mai avuto, in effetti) alcun titolo giuridico per accedere al fondo
interessato. La Guardia di Finanza, svolte le necessarie indagini, aveva identificato la proprietaria del
terreno e i due soggetti di cui sopra, qualificandoli come gestori dell'area e ritenendoli entrambi
responsabili della contaminazione.
Nell'impugnare l'ordinanza con la quale veniva diffidato a procedere alla bonifica, il signor S. lamentava,
innanzitutto, il fatto che l'Amministrazione non avesse adeguatamente dimostrato il nesso di causalità tra
l'abbandono dei rifiuti e la contaminazione, sottolineando la posizione dell'altro responsabile, effettivo
possessore del fondo, e l'esistenza di una culpa in vigilando nella condotta del medesimo (oltre che in
quella della proprietaria).
All'attenzione del giudice si ponevano quindi, essenzialmente, due questioni.
In primo luogo, era necessario stabilire se dall'attività istruttoria compiuta dall'Amministrazione, e
richiamata nel provvedimento, emergesse in modo sufficientemente certo la responsabilità sotto il profilo
oggettivo del ricorrente per la contaminazione rilevata.
Alcune pronunce avevano affermato che il provvedimento di diffida dovesse contenere elementi tali da
individuare il responsabile dell'inquinamento "senza possibilità di dubbio" (10) (sic): l'ordinanza in
questione veniva quindi censurata, sotto il duplice profilo dell'insufficienza dell'istruttoria e della
motivazione, per non aver adeguatamente provato il nesso di causalità tra la condotta del ricorrente e il
danno all'ambiente.
Si poneva poi il problema di individuare la sussistenza di eventuali responsabilità in capo agli altri due
soggetti coinvolti (e parimenti diffidati): il possessore del terreno e la sua proprietaria. Il ricorrente
lamentava infatti di aver avuto, a differenza di questi ultimi, un rapporto meramente occasionale con il
fondo e di non avere alcun titolo giuridico per accedervi.
3. La posizione del responsabile dell'inquinamento e quella del proprietario del fondo nella
giurisprudenza
"Nell'attuale sistema normativo, l'obbligo di bonifica dei siti inquinati grava in primo luogo sull'effettivo
responsabile dell'inquinamento stesso, che le competenti Autorità amministrative hanno l'obbligo di
individuare e ricercare, mentre la mera qualifica di proprietario o detentore del terreno inquinato non
implica di per sé l'obbligo di effettuazione della bonifica, con la conseguenza che esso può essere posto a
suo carico solo se responsabile o corresponsabile dell'illecito abbandono". Così il TAR Piemonte, con
riferimento alle affermazioni del ricorrente circa la responsabilità del proprietario e del gestore dell'area
oggetto dell'abbandono dei rifiuti.
Il combinato disposto degli artt. 244 e 253 cod. ambiente, quindi, nel prevedere che il provvedimento di
diffida sia notificato "comunque [...] anche al proprietario del sito", prevede un regime di responsabilità
nettamente distinto per i due soggetti: il proprietario può certamente provvedere di sua iniziativa alla
bonifica, ma non ha alcun obbligo di farlo. Nei suoi confronti, inoltre, potrà essere esercitata azione di
rivalsa soltanto nei casi e nei limiti già analizzati nel primo paragrafo.
La giurisprudenza più recente (11), in effetti, pare univoca sul punto. Essa ha anzi espressamente
chiarito che l'unica funzione della notifica dell'ordinanza al proprietario è quella "di metterlo in condizione
di assolvere all'onere [di procedere alla bonifica]" al fine di "mantenere l'area libera da vincoli" (12). I
vincoli in questione sono quelli previsti dall'art. 253 cod. ambiente: onere reale e privilegio speciale
immobiliare costituiti a garanzia delle spese sostenute dall'Amministrazione per provvedere d'ufficio al
recupero del terreno.
Al problema della configurabilità di una culpa in vigilando in capo al proprietario, sollevato dal ricorrente,
viene qui dedicato un semplice cenno, affermandosi in sostanza che la sua invocazione non può
comunque incidere sulla posizione del soggetto qualificato come diretto responsabile (13).
La questione non cessa tuttavia di essere posta all'attenzione della giurisprudenza, specialmente in
materia di danni all'ambiente provocati dall'abbandono e dal trattamento illecito di rifiuti.
In una pronuncia di poco precedente a quella in esame, il TAR Campania (14) ha affermato che non è
sufficiente una "generica culpa in vigilando" da parte del proprietario perché sorga in capo ad esso
l'obbligo di provvedere alla messa in sicurezza di un terreno sul quale sono stati abusivamente depositati
dei rifiuti. In questo caso, viene infatti in rilievo la disposizione di cui all'art. 192 cod. ambiente, che
prevede, come presupposto per il coinvolgimento del proprietario, l'imputabilità al medesimo della
violazione delle norme sul trattamento dei rifiuti "a titolo di dolo o di colpa". Sulla scorta di tale
previsione, il Consiglio di Stato (15) aveva in effetti chiarito che il dovere di vigilanza del proprietario sul
proprio fondo non si estende fino ad obbligarlo ad una vigilanza costante e che più importante ancora gli
illeciti in materia di rifiuti costituiscono un'ipotesi speciale, tale da escludere l'applicabilità dei generali
criteri codicistici di responsabilità per negligenza, imprudenza o imperizia. Tuttavia, con una recente
sentenza delle Sezioni Unite, la Corte di cassazione ha assunto una posizione diversa, affermando che il
requisito della colpa previsto dall'art. 192 può ben ritenersi sussistente anche in caso di omissione di
quegli accorgimenti che l'"ordinaria diligenza" suggerisce per "realizzare un'efficace custodia
dell'area" (16).
Il TAR Piemonte, allineandosi alla giurisprudenza del Consiglio di Stato, non ha preso in considerazione gli
elementi di novità introdotti da quest'ultima pronuncia, che sembra destinata ad inaugurare un nuovo
corso nell'ambito della giurisdizione ordinaria.
Nonostante le fattispecie considerate dalla Cassazione siano distinte da quelle in esame, infatti, non si
vede come vi possa essere, per l'obbligo di bonifica di cui alla Parte Quarta, Titolo V, del Codice, una
disciplina della responsabilità del proprietario diversa da quella configurata dall'art. 192 per l'obbligo di
"ripristino allo stato dei luoghi" a seguito di abbandono illecito di rifiuti (17). La vicenda in esame è, in
proposito, esemplare: la bonifica si è resa necessaria proprio per la violazione delle norme sullo
stoccaggio dei rifiuti e la posizione del proprietario è venuta in causa sia nella prima fase della procedura
(rimozione dei rifiuti) che nella seconda (bonifica del terreno) (18).
Infine, anche la questione del fallimento dell'impresa responsabile della contaminazione, sollevata dal
ricorrente, viene rapidamente superata dai giudici piemontesi: "il fatto che, nello stesso 1988, la ditta del
ricorrente sia stata dichiarato fallita non priva di responsabilità il ricorrente medesimo per l'abbandono
abusivo dei predetti fusti, da lui stesso ammesso e oggetto, nel 2001, di una sua attività volta alla loro
rimozione". In effetti, ai fini dell'obbligo di effettuare la bonifica il fallimento sembra poter rilevare sotto
un unico profilo: la comparsa di un nuovo soggetto, il curatore, la cui posizione è per certi versi
assimilabile a quella del proprietario incolpevole (19), sotto il profilo della eventuale culpa in vigilando.
4. La regola probatoria del "più probabile che non"
Il TAR Piemonte ha ritenuto sufficientemente provata, nel caso in esame, la responsabilità del ricorrente
per la contaminazione del fondo in base alle seguenti considerazioni: il signor S., "avendo gestito l'area
nel 1988, avendo in tale veste abbandonato i predetti fusti, non preoccupandosi, nello smaltirli, di
verificare che essi non inquinassero, né segnalando tali rischi al curatore fallimentare, per attivare le
procedure di bonifica tempestivamente" ha "autonomamente concorso a determinare, con la sua
condotta, la situazione di superamento dei livelli di contaminazione nel terreno de quo, assumendo a tutti
gli effetti, le vesti di responsabile dell'inquinamento".
Vengono così riassunti gli elementi rilevanti, sotto il profilo della "rimproverabilità", della condotta del
ricorrente: aver violato le norme sullo smaltimento dei rifiuti, realizzando così un primo illecito, aver
provveduto a smaltirli, a distanza di anni, senza verificare gli eventuali danni dagli stessi prodotti e non
aver segnalato il rischio di contaminazione al curatore una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento
della propria impresa. Con ciascuna di queste condotte, attive ed omissive, il ricorrente ha realizzato, in
effetti, la violazione di obblighi o divieti previsti dal d.lgs. n. 152/2006 o da altre fonti: esse possono
pertanto integrare l'elemento soggettivo della colpa intesa come violazione di specifiche norme (20).
Ciò che ancora manca, tuttavia, è la dimostrazione che l'abbandono dei fusti abbia determinato la
contaminazione del fondo: che sussista cioè il necessario nesso di causalità, elemento oggettivo
dell'illecito, tra la principale delle condotte contestate e il danno all'ambiente.
Sul punto, i giudici piemontesi, argomentano che "nel terreno oggetto dei campionamento, sono state
riscontrate tracce intollerabili di idrocarburi e metalli pesanti tipicamente riconducibili al deposito ed alla
movimentazione sul suolo di rifiuti industriali, quali quelli depositati da parte ricorrete e successivamente
rimossi". Ciò consente di riscontrare "facilmente [...] in via presuntiva" il nesso di causalità tra la
condotta e il danno, in virtù dell'applicazione della regola probatoria del "più probabile che non" o della
"preponderanza dell'evidenza".
In altri termini: il fatto che l'inquinamento riscontrato sia "tipicamente riconducibile" all'abbandono di
rifiuti industriali del genere in questione è sufficiente a provare che la condotta del ricorrente (non
contestata dal medesimo) abbia determinato la contaminazione. Ciò in quanto afferma il Tribunale non è
richiesta, nell'ambito della responsabilità civile, la prova "oltre ogni ragionevole dubbio", propria del
sistema penale (la quale, applicata al caso di specie, avrebbe probabilmente impedito di dichiarare la
responsabilità del ricorrente: non sembra infatti irragionevole ipotizzare che la contaminazione del fondo
sia scaturita dall'attività industriale condotta dall'effettivo gestore del terreno, piuttosto che
dall'abbandono dei fusti).
I giudici piemontesi confermano così la loro nota tesi (21), la cui validità è stata peraltro confermata dal
Consiglio di Stato in una importante decisione del 2009, vero punto di svolta in materia (22). Essa ha
infatti riconosciuto la possibilità di accertare la responsabilità dell'inquinatore "in via indiretta", attraverso
il meccanismo delle presunzioni semplici ex art. 2727 c.c., qualora sussistano indizi "gravi precisi e
concordanti" e sulla base del principio dell'"id quod plerumque accidit".
In aggiunta a quanto statuito in precedenza, la sentenza in commento richiama ora espressamente la
regola probatoria del "più probabile che non", affermandone la sicura applicabilità alla materia
ambientale. Su quest'ultimo punto è opportuno spendere qualche considerazione.
È ampiamente condiviso, in dottrina, l'assunto che l'accertamento del nesso di causalità ai fini della
responsabilità civile si distingua da quello ai fini della responsabilità penale essenzialmente per
l'applicazione di due diverse regole probatorie (23): meno rigorosa nell'ambito della prima, più
nell'ambito della seconda. La regola del "più probabile che non" è oggi richiamata dalla giurisprudenza in
una molteplicità di settori: da quello della responsabilità medica (24) (nel quale intervenne il leading case
citato nella sentenza in commento (25)), a quello degli incidenti stradali (26), a quello della
responsabilità per danno erariale (27). La Suprema Corte ne ha trattato in termini assolutamente
generali, affermando che la sua applicazione costituisce uno dei riflessi "dell'autonomia del processo civile
rispetto a quello penale" (28).
Non sorprende quindi la sua invocazione nell'ambito della responsabilità per danno da inquinamento.
Va rilevato, piuttosto, che le espressioni "più probabile che non" e "preponderanza dell'evidenza",
alternativamente impiegate per esprimere lo stesso concetto, si riferiscono in realtà a due regole
probatorie diverse (29). La prima mette in relazione una singola ipotesi (A è causa di B?) con le prove
che la sostengono, per accertare il "grado" di conferma da queste conferito (esprimibile in termini
numerici, ad esempio in percentuale): per ritenersi confermata, l'ipotesi dovrà quindi ricevere un grado di
conferma superiore al 50% ("più probabile che non"). La seconda riguarda invece la presenza di più
ipotesi in conflitto (B è causato da A o C o D?) e prescrive di considerare fondata l'ipotesi che fra tutte, in
termini relativi, ha la più alta probabilità logica (anche se questa fosse soltanto, in ipotesi, del 30%).
In entrambi i casi, è piuttosto evidente che il livello di certezza (probabilistica) richiesta ai fini
dell'accertamento della responsabilità può essere almeno in astratto estremamente ridotto.
5. CONCLUSIONI
"Il nuovo mantra è: nel penale vale la regola beyond any reasonable doubt, nel civile more likely than
not": così si è espresso uno dei commentatori (30) della nota sentenza delle Sezioni Unite cui i giudici
piemontesi hanno fatto riferimento per l'applicazione della regola del "più probabile che non", criticando
la estrema vaghezza dei criteri invocati e la persistente confusione tra i diversi modelli di causalità
adoperati dai giudici civili.
In effetti, tutta la giurisprudenza fin qui esaminata sembra esaurire la propria creatività nella
declamazione dell'autonomia e del minor rigore del regime probatorio del processo civile rispetto a quello
penale.
Come è stato acutamente osservato (31), il problema del nesso causale e della sua dimostrazione è
strettamente connesso a quello della funzione che si vuole attribuita alla responsabilità civile: in
particolare, la scelta di una regola probatoria più o meno rigorosa incide sulla possibile funzione di
deterrenza assunta della stessa.
In campo ambientale, il principio "chi inquina paga" esprime la necessità, come si è visto, di ricondurre i
costi dell'inquinamento (tipico esempio di esternalizzazione nella scienza economica) in capo al suo
responsabile. La collettivizzazione dei costi va considerata, sempre e comunque, un'ipotesi infausta (32)
nel sistema di responsabilità per danno all'ambiente e ciò deve far ritenere che la funzione di deterrenza
della responsabilità civile meriti, in questo settore, il massimo sviluppo.
Deve perciò essere salutata con favore l'evoluzione giurisprudenziale (v. par. 4), confermata dalla
sentenza in commento, che ha alleggerito l'onere probatorio gravante sull'Amministrazione in sede di
emanazione delle ordinanze che diffidano ad effettuare gli interventi di bonifica.
Ciò che non convince del tutto è però la nettezza con la quale i giudici amministrativi hanno relegato sullo
sfondo, dopo il passaggio dalla disciplina del d.lgs. n. 22/1997 a quella del Codice dell'ambiente, la
posizione del proprietario del terreno.
Come si è visto, la Suprema Corte ha di recente riconosciuto (v. par. 3) che il proprietario è tenuto ad
esercitare una "funzione di protezione e custodia" finalizzata a prevenire l'utilizzo del proprio fondo per
attività (come l'abbandono dei rifiuti) che possono produrre danni all'ambiente. Ciò appare coerente con
la ratio sottesa all'attuale disciplina, che mira a responsabilizzare al massimo tutti i soggetti coinvolti nelle
attività rischiose. I principi fondamentali della tutela ambientale richiedono infatti che ad ogni livello, ogni
soggetto coinvolto agisca, ai fini della prevenzione del danno, secondo i dettami della prudenza.
È necessario, in altri termini, che l'attuazione del principio "chi inquina paga" nell'allocazione dei costi
delle bonifiche non conduca ad una eccessiva deresponsabilizzazione dei soggetti che con una ordinaria
diligenza hanno la possibilità di scongiurare alla radice il pericolo di un danno all'ambiente.
NOTE
(1) Sulla particolare rilevanza delle bonifiche, definite "via italiana al risarcimento in forma specifica del
danno ambientale" si v. il recente intervento di F. GOISIS,Caratteri e rilevanza del principio comunitario
"chi inquina paga" nell'ordinamento nazionale, in Foro amm. CdS, 2009, 2711. È stato inoltre rilevato che
"le verifiche di legittimità operate dai giudici amministrativi rispetto alle ordinanze per la bonifica dei siti
contaminati hanno assorbito gran parte delle discussioni sulle misure rimediali nelle situazioni di danno
ambientale": così A. GIADROSSI,Danno ambientale: nel 2007 al centro dell'attenzione la bonifica dei siti
contaminati, in questa Rivista, 2008, 1482.
(2) Si v. innanzitutto l'art. 6 della Direttiva 2004/35/CE, rubricato "Azione di riparazione". La
trasposizione della Direttiva nell'ordinamento italiano è alla base della disposizioni di cui all'art. 311,
comma 2, del d.lgs. n. 152/2006: "chiunque [...] arrechi danno all'ambiente [...] è obbligato all'effettivo
ripristino a sue spese della precedente situazione e, in mancanza, all'adozione di misure di riparazione
complementare e compensativa di cui alla Direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio,
del 21 aprile 2004, secondo le modalità prescritte dall'Allegato II alla medesima Direttiva, da effettuare
entro il termine congruo di cui all'articolo 314, comma 2, del presente decreto. Quando l'effettivo
ripristino o l'adozione di misure di riparazione complementare o compensativa risultino in tutto o in parte
omessi, impossibili o eccessivamente onerosi ai sensi dell'articolo 2058 del codice civile o comunque
attuati in modo incompleto o difforme rispetto a quelli prescritti, il danneggiante è obbligato in via
sostitutiva al risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato [...]" (corsivo nostro).
L'articolo 311 è stato così modificato dal d.l. n. 135/2009 (conv. con mod. in l. n. 166/2009), per porre
rimedio alla procedura di infrazione (n. 2007/4679) avviata a carico dell'Italia per incompleta attuazione
della Direttiva. La Commissione aveva rilevato, infatti, che la versione precedente del testo non
conteneva riferimento alcuno alle "misure di riparazione complementare e compensative" previste dalla
normativa comunitaria. Sul problema della "monetizzazione" del danno all'ambiente si v. in particolare: L.
VILLANI,Il danno ambientale e le recenti modifiche del Codice dell'Ambiente nel sistema della
responsabilità civile, in questa Rivista, 2008, 2177.
(3) C. VIVIANI, Bonifica dei siti contaminati e danno ambientale, in P.M. VIPIANA-C. VIDETTA, La bonifica dei
siti inquinati: aspetti problematici, Padova, 2002, 169; F. GIAMPIETRO, Danno all'ambiente e bonifica dei
siti inquinati: due discipline a confronto, in Riv. giur. amb., 2002, n. 649.
(4) C. VIVIANI,ivi, 182.
(5) Le disposizioni attuali (si v. in particolare gli artt. 311 e 315, d.lgs. n. 152/2006), com'è noto,
contemplano due vie distinte per ottenere il risarcimento per equivalente del danno ambientale: l'azione
di risarcimento davanti al giudice ordinario, promossa dal Ministro dell'Ambiente, ovvero l'adozione, da
parte di quest'ultimo, di un'ordinanza che quantifica direttamente, in via autoritativa, il quantum dovuto e
ne ingiunge il pagamento. È significativo che la scelta, da parte del Ministro, di una delle soluzioni,
determini la giurisdizione competente a conoscere della controversia: nel primo caso il giudice ordinario,
nel secondo il giudice amministrativo. Per alcune riflessioni critiche sul sistema "a doppio binario" si
segnala D. BARBIERATO,La tutela risarcitoria del danno ambientale, in questa Rivista, 2009, 1412.
(6) Va rilevato, tuttavia, che a parere di alcuni Autori, l'attuale procedura per l'adozione dell'ordinanza
ministeriale, ed in particolare i brevi termini decadenziali previsti per la sua emanazione (si v. in
particolare, art. 313 cod. ambiente), finirebbero per rendere il risarcimento "per via amministrativa"
meno efficace della tradizionale azione risarcitoria: così B. POZZO,La responsabilità civile per danno
all'ambiente tra vecchia e nuova disciplina, in Danno resp., 2008, 819; sembra condividere D. BARBIERATO,
op. cit., 1418.
(7) Al contrario, la disciplina previgente (d.lgs. n. 22/1997, artt. 17 ss.) prevedeva la possibilità
dell'esecuzione d'ufficio della bonifica da parte dell'Amministrazione unicamente in danno del soggetto
proprietario (e non invece del responsabile dell'inquinamento). Il proprietario incolpevole, di
conseguenza, poteva essere costretto a sostenere interamente i costi dell'intervento in tutti i casi in cui il
responsabile, ancorché individuato, non vi provvedesse: si v. R. MONTANARO,Esecuzione d'ufficio e
conseguenze patrimoniali, in P.M. VIPIANA-C. VIDETTA,op. cit., 131.
(8) F. GOISIS, op. cit., 2722. Il problema, peraltro, sembra essere stato colto anche dai compilatori della
Direttiva 2004/35/CE: all'art. 8, paragrafo 2, è contenuta, tra le righe, la seguente previsione: "l'Autorità
competente recupera [...] i costi da essa sostenuti [per il recupero dei siti inquinati]. Tuttavia, l'Autorità
competente ha la facoltà di decidere di non recuperare la totalità dei costi qualora [...] l'operatore (cioè
l'inquinatore, n.d.r.) non possa essere individuato". Si può forse ritenere che di fronte all'alternativa tra la
collettivizzazione del costo e la sua esternalizzazione ad un soggetto non responsabile, la Direttiva
comunitaria propenda per la prima? Curiosamente, l'ipotesi dell'impossibilità di individuare il responsabile
viene qui accostata a quella dell'eccessivo costo del recupero. Anche il diciottesimo considerando, in
proposito, è piuttosto vago: "Secondo il principio "chi inquina paga", l'operatore che provoca un danno
ambientale [...] dovrebbe di massima (corsivo nostro) sostenere il costo delle necessarie misure di
prevenzione o di riparazione. Quando l'autorità competente interviene direttamente o tramite terzi al
posto di un operatore, detta autorità dovrebbe far sì che il costo da essa sostenuto sia a carico
dell'operatore".
(9) Si v., in particolare: L. PRATI, La giurisprudenza in tema di bonifiche dopo il d.lgs. 152/2006, in Riv.
giur. amb., 2008, 838; A. VALLETTI,Bonifica dei siti inquinati e responsabilità "oggettiva" del proprietario,
anche incolpevole, in Dir. giur. agraria, 2002, 554; M. SANTOLOCI,La responsabilità soggettiva del
proprietario del terreno per la bonifica dei siti inquinati, ivi, 2001, 742; A.L. DE CESARIS, Smaltimento di
rifiuti. Gli obblighi di bonifica del proprietario incolpevole, in Riv. giur. amb., 2000, 338.
(10) Si v. ad esempio TAR Lombardia, Milano, Sez, I, 27 marzo 2001, n. 2653, in www.giustiziaamministrativa.it.
(11) Da ultimo, TAR Lombardia, Milano. Sez. IV, 27 aprile 2010, n. 1159, in www.giustiziaamministrativa.it. Si v. anche Cons. Stato, Sez. V, 16 giugno 2009, n. 3885, che confermava una
sentenza dello stesso TAR Piemonte, Sez. II (n. 2207/2004), anch'esse ivi reperibili.
(12) TAR Toscana, Sez. II, 17 settembre 2009, n. 1448, in www.giustizia-amministrativa.it. Cfr. anche
Cons. Stato, Sez. VI, 5 settembre 2005, n. 4525, in Riv. giur. amb., 2006, 319, con nota di A. AMORUSO.
(13) "Né può valere ad escluderne la responsabilità la considerazione che, non essendo egli proprietario
del terreno e non potendone materialmente disporre, non sarebbe addebitabile nei suoi confronti alcuna
culpa in vigilando atteso che, come detto, il ricorrente è il diretto responsabile della contaminazione, per
aver abbandonato abusivamente rifiuti industriali sul terreno [...]".
(14) TAR Campania, Napoli, Sez. V, 4 marzo 2010, n. 1315, in www.giustizia-amministrativa.it.
(15) Cons. Stato., Sez. V, 8 marzo 2005, n. 935, in Riv. giur. amb., 2005, 828, con nota di A. L. DE
CESARIS; e Cons. Stato, Sez. V, 25 agosto 2008, n. 4061, in www.giustizia-amministrativa.it.
(16) Sez. Un. civ., 17 febbraio 2009, in Riv. giur. amb., 2009, 976, con nota di G. TADDIA, che parla in
proposito di "problema irrisolto". Il Consiglio di Stato aveva, invero, assunto una posizione analoga in una
pronuncia del 2006, rimasta però isolata: Cons. Stato, Sez. V, 29 agosto 2006, n. 5045, in Foro amm.
CdS, 2006, 2216. Si v. in proposito anche P. CERBO,La responsabilità solidale del proprietario per i rifiuti
abbandonati sul fondo, in Urb. app., 2009, 996.
(17) Sulla responsabilità del proprietario per abbandono illecito di rifiuti si v., da ultimo, la rassegna di
giurisprudenza a cura di F. LUCIANI, Abbandono di rifiuti e responsabilità del proprietario, in questa Rivista,
2010, 1252.
(18) La posizione del proprietario del fondo nel quadro delle norme sul trattamento dei rifiuti è già stata
analizzata da M. BENOZZO,Sulla presunta responsabilità del terreno in cui sono stati abbandonati rifiuti, in
questa Rivista, 2006, 948. Sui profili penali si v. G. DE SANTIS, Bonifica dei siti contaminati. Profili di
responsabilità penale - I parte, in questa Rivista, 2009, 1478.
(19) In proposito si v. le recentissime TAR Toscana, Sez. II, 2 aprile 2010, n. 910; e TAR Toscana, Sez. II,
19 marzo 2010, n. 700, in www.giustizia-amministrativa.it, analizzate da S. DI ROSA, Quando meno te lo
aspetti ti vien detto di bonificare..., in www.ambientediritto.it, 2010.
(20) Sulle diverse concezioni della colpa nell'ambito della responsabilità civile, e sulla inevitabile
connessione tra queste e l'elemento del nesso di causalità si v. P.G. MONATERI,La responsabilità civile, in
Trattato di diritto civile, diretto da R. Sacco, Torino, 1998, 77 s.
(21) Per tutte: TAR Piemonte, Sez. II, 11 ottobre 2004, n. 2207, inwww.giustizia-amministrativa.it.
Proprio dall'impugnazione di questa pronuncia è scaturita la decisione del Consiglio di Stato che ha aperto
le porte alla dimostrazione "in via indiretta" della responsabilità dell'inquinatore (v. nota 22). Tra la
vicenda attualmente in esame e quella affrontata dal TAR Piemonte nel 2004 si riscontrano, peraltro,
numerose analogie.
(22) Cons. Stato, Sez. V, 16 giugno 2009, n. 3885, in Urb. app., 2009, 1328, con nota di D. DIMA, che
sottolinea la cesura con il precedente orientamento.
(23) Si v. i recenti interventi di M. IAPPELLI,Causalità "adeguata" al processo civile, in Giur. merito, 2009,
2728; e R. BLAIOTTA, Causalità e colpa: diritto civile e diritto penale si confrontano, in Cass. pen., 2009,
78. In particolare, quest'ultimo afferma (ivi, 94) che "ciò che muta tra processo penale e processo civile è
la regola probatoria, in quanto nel primo caso vige la regola della prova oltre ogni ragionevole dubbio
mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell'evidenza o del più probabile che non".
(24) Cass. civ., 2 febbraio 2010, n. 2354, in Red. Gius. civ. Mass., 2010, 2.
(25) Sez. Un. civ., 11 gennaio 2008, n. 581, in questa Rivista, 2008, 841, con nota di F. GRECO; e in
Danno resp., 2008, 1022, con nota di R. SIMONE.
(26) Trib. Milano, Sez. X, 20 ottobre 2009, n. 12415, in Giust. a Milano, 2009, 80.
(27) Corte conti, Sez. giur. Emilia-Romagna, 5 ottobre 2009, n. 771, in Riv. Corte conti, 2009, 101.
(28) Cass. civ., 5 maggio 2009, n. 10285, in Giust. civ. Mass., 2009, 717.
(29) Si v. sul punto R. BLAIOTTA, op. cit., 97.
(30) R. SIMONE,Equivoci della causalità adeguata e contaminazione dei modelli di spiegazione causale, in
Danno resp., 2008, 1011.
(31) R. SIMONE,ivi, passim.
(32) Si v. sul punto: N.O. RASON, La disciplina dell'ambiente nella pluralità degli ordinamenti giuridici, in
Diritto dell'ambiente, Bari, 2008, 47; e M. CAFAGNO, Principi e strumenti di tutela dell'ambiente, Torino,
2007, 249.
Archivio selezionato: Note
Profili procedimentali nella bonifica dei siti contaminati di interesse nazionale: tra
disciplina generale e disciplina di settore.
Foro amm. TAR 2010, 7-8, 2377
Valentina Cingano
1. Premessa. I principi di diritto enunciati nella sentenza in rassegna. - 2. Il quadro normativo di
riferimento. L'articolo 252 del codice dell'ambiente e la bonifica dei siti di interesse nazionale. - 3.
Partecipazione procedimentale e adeguatezza dell'istruttoria nella sentenza in rassegna e secondo la
Grande Sezione della Corte di Giustizia. - 3.1. La partecipazione del soggetto interessato al procedimento
di bonifica. - 3.2. L'adeguatezza dell'istruttoria e della motivazione ai fini dell'individuazione delle
prescrizioni per evitare la diffusione dell'inquinamento. - 3.3. Oneri procedimentali e completezza
dell'istruttoria secondo la Corte di Giustizia. - 4. L'individuazione del soggetto responsabile cui devono
essere addossati gli oneri di bonifica, nella sentenza in rassegna e secondo il Consiglio di Stato. - 4.1. La
responsabilità del proprietario tra obblighi di bonifica e onere di rimozione dei rifiuti abbandonati. - 4.2. Il
Consiglio di Stato distingue tra oneri che fanno capo al proprietario e oneri che fanno capo al soggetto
che abbia cagionato l'inquinamento del sito, in applicazione del previgente art. 17 del d.lg. n. 22/1997. 4.3. Oneri che gravano sul responsabile dell'inquinamento e oneri che gravano sul proprietario dell'area,
alla luce del codice dell'ambiente.
Abstract: L'Autrice analizza alcuni profili procedimentali relativi al decreto che impone prescrizioni ai fini
della bonifica di siti di interesse nazionale. In particolare, è presa in considerazione la sentenza del TAR
Toscana, n. 2316 del 2010, che stabilisce come il provvedimento in questione deve essere adottato a
seguito di un'adeguata istruttoria, che permetta la partecipazione dei soggetti interessati e che individui
le prescrizioni idonee a fronteggiare la situazione di inquinamento, da porre a carico del soggetto
responsabile dell'inquinamento medesimo, per avervi dato causa a titolo di dolo o colpa. L'Autrice verifica
come i principi di diritto espressi nella sentenza annotata possano contribuire a definire la struttura dei
procedimenti in questione, anche alla luce delle recenti decisioni della Corte di Giustizia. Focusing on the
decision of the administrative court of Toscana n. 2316/2010, the Author analyses the administrative
proceedings for adopting remedial measures to restore environmental damage in areas of national
interest. The Author ensures how the principles affirmed in the commented judgment bear on the
structure of these proceedings, also according to recent verdicts of Justice Court of Europe Union. The
Author concludes that the competent Authority shall decide remedial measures with the cooperation of
the relevant operator, according to the gravity of the various instance of environment damage.
Furthermore, the operator who provoked the environmental damage shall take the necessary remedial
action and bear costs of the preventive and remedial actions taken.
1. Premessa. I principi di diritto enunciati nella sentenza in rassegna.
La sentenza in esame offre l'occasione per analizzare alcune questioni che interessano la bonifica dei siti
inquinati di interesse nazionale. Il TAR Toscana si è soffermato, infatti, su quattro profili relativi al
procedimento disciplinato dagli articoli 239 ss. e 252 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, noto
come codice dell'ambiente: la competenza ad emanare i provvedimenti di bonifica; la partecipazione
procedimentale dei soggetti interessati; gli adempimenti istruttori necessari; l'individuazione del soggetto
cui addossare gli oneri di bonifica.
a) In astratto, si possono individuare due organi come competenti ad adottare i provvedimenti che
dettano le misure necessarie per la bonifica di un sito di interesse nazionale: il dirigente, qualora si
qualifichi il provvedimento in questione come mero atto di gestione, ovvero il Ministro, qualora, al
contrario, si sussuma il provvedimento medesimo tra gli atti che concernono le scelte di fondo in materia
di bonifica. Il TAR Toscana, così conformandosi alla prevalente giurisprudenza (1) ed applicando il
principio di separazione tra politica ed amministrazione, qualifica il decreto come di competenza
dirigenziale, poiché lo stesso ha ad oggetto la prescrizione di un intervento di messa in sicurezza
d'emergenza e, poi, di bonifica.
b) La partecipazione al procedimento dei soggetti interessati viene ritenuta necessaria, per permettere la
realizzazione del contraddittorio ai fini della determinazione dei contenuti del progetto di bonifica.
L'onerosità degli obblighi imposti agli interessati, infatti, impone di instaurare con questi ultimi un ampio
contraddittorio. Come noto, in base alla disciplina generale della l. 7 agosto 1990, n. 241, l'utilità della
partecipazione del privato potrebbe essere esclusa:
i. invocandosi esigenze di celerità connesse alle misure di messa in sicurezza di emergenza, tali da
giustificare l'omissione della comunicazione di avvio del procedimento. Il TAR toscano rileva che tale
motivo di esclusione della partecipazione non ricorre in riferimento al procedimento di bonifica,
soprattutto quando è prevista la realizzazione di interventi che richiedono tempi non brevi per il loro
completamento.
ii. Sul fondamento dell'articolo 21 octies, comma 2, della l. n. 241/1990, si potrebbe escludere l'onere
della previa comunicazione di avvio del procedi mento in esame, ma solamente qualora la P.A. fornisca in
giudizio la dimostrazione che, anche con la partecipazione della controparte, il provvedimento finale non
avrebbe potuto avere un contenuto differente da quello contestato.
In mancanza di tale prova, la partecipazione al procedimento dei soggetti interessati e la previa
comunicazione di avvio risultano necessarie ai fini della legittima adozione del provvedimento finale
impositivo delle misure per la bonifica.
c) Tra gli adempimenti procedimentali che devono essere realizzati dall'amministrazione nel procedimento
di bonifica, rientra un'istruttoria adeguata e proporzionata agli interventi che devono essere posti in
essere, in rapporto all'onerosità ed alla complessità tecnica di questi. La P.A., infatti, è tenuta ad
accertare l'inefficacia di misure meno invasive e a valutare la realizzabilità di alternative per raggiungere
gli obiettivi finali, nonché i tempi di esecuzione e la loro compatibilità con l'urgenza del provvedere e
l'impatto rispetto all'ambiente circostante gli interventi.
d) I requisiti soggettivi per l'adozione dei provvedimenti di bonifica riguardano principalmente
l'individuazione dei soggetti che possono essere destinatari delle misure di ripristino e, per quanto
concerne il proprietario dell'area su cui devono essere realizzati gli interventi, l'imputabilità al medesimo
della condotta sotto il profilo soggettivo (dolo o colpa). Il Collegio fiorentino osserva come l'obbligo di
effettuare gli interventi di recupero ambientale, anche di carattere emergenziale, debba essere addossato
al responsabile dell'inquinamento, che potrebbe non coincidere con il proprietario ovvero il gestore
dell'area interessata. A carico del proprietario dell'area inquinata, che non sia altresì qualificabile come
responsabile dell'inquinamento, non incombe alcun obbligo di porre in essere gli interventi in parola, ma
solo la facoltà di eseguirli per mantenere l'area interessata libera da pesi.
e) Come anticipato, l'affermazione della competenza dirigenziale in riferimento all'individuazione delle
misure di ripristino per la bonifica dei siti di interesse nazionale risulta conformi al consolidato
orientamento giurisprudenziale (2).
Alla luce dei più recenti sviluppi, registratisi nelle decisioni del Consiglio di Stato ed in quelle della Corte
di Giustizia, in riferimento ai procedimento di bonifica dei siti di interesse nazionale, risulta
particolarmente interessante soffermarsi sull'analisi degli ulteriori principi di diritto espressi dal Collego
toscano, inerenti all'istruttoria ed all'individuazione del soggetto cui addossare gli oneri di ripristino.
Non si può prescindere, in via preliminare, da una sintetica ricostruzione del quadro normativo di
riferimento.
2. Il quadro normativo di riferimento. L'articolo 252 del codice dell'ambiente e la bonifica dei siti di
interesse nazionale.
La disciplina relativa alla bonifica dei siti contaminati è oggi prescritta dagli articoli 239 e seguenti del
d.lg. n. 152/2006, a seguito dell'abrogazione della disciplina dettata dall'articolo 17 del d.lg. 5 febbraio
1997, n. 22 (3).
Il Titolo V del codice dell'ambiente si occupa degli interventi di bonifica e ripristino ambientale dei siti
contaminati, per definire le procedure, i criteri e le modalità per lo svolgimento delle operazioni
necessarie per l'eliminazione delle sorgenti dell'inquinamento e comunque per la riduzione delle
concentrazioni di sostanze inquinanti, in armonia con i principi e le norme comunitarie, con particolare
riferimento al principio chi inquina paga(4).
Vengono disciplinati, dunque, l'insieme degli interventi atti ad eliminare le fonti di inquinamento e le
sostanze inquinanti o a ridurre le concentrazioni delle stesse presenti nel suolo, nel sottosuolo e nelle
acque sotterranee ad un livello uguale o inferiore ai valori delle concentrazioni soglia di rischio (5),
nonché gli interventi di riqualificazione ambientale e paesaggistica, anche costituenti complemento degli
interventi di bonifica o messa in sicurezza permanente, che consentono di recuperare il sito alla effettiva
e definitiva fruibilità per la destinazione d'uso conforme agli strumenti urbanistici (6).
Il codice dell'ambiente disciplina gli interventi di bonifica, dettando una disciplina speciale rispetto a
quella generale sul procedimento amministrativo, ai sensi della l. n. 241/1990. Per quanto non
specificamente regolato dalle norme di settore - cui si sta per fare riferimento - la procedura rimane
sottoposta alla disciplina generale. L'iter istruttorio appare compatibile, infatti, con il quadro offerto dalle
norme contenute nella l. n. 241/1990, non presentando peculiarità tali da comportare l'inapplicabilità del
modello generale (7).
Dopo aver disciplinato gli interventi di bonifica (8), il codice dedica un insieme di norme agli interventi
relativi a siti di interesse nazionale (art. 252), proponendo una disciplina che si differenzia in parte da
quella previgente (9).
I siti di interesse nazionale, ai fini della bonifica, sono individuabili in relazione alle caratteristiche
dell'area, alle quantità e pericolosità degli inquinanti presenti, al rilievo dell'impatto sull'ambiente
circostante in termini di rischio sanitario ed ecologico, nonché di pregiudizio per i beni culturali ed
ambientali (10).
Essenzialmente, rispetto alla disciplina dettata dall'articolo 242 del codice dell'ambiente, mutano il
presupposto oggettivo per l'individuazione del sito su cui effettuare l'intervento e la competenza per
svolgere la procedura.
La procedura di bonifica, infatti, è attribuita alla competenza del Ministero dell'ambiente (11), sentito il
Ministero dello sviluppo economico. Il Ministero dell'ambiente può avvalersi anche dell'Agenzia per la
protezione dell'ambiente e per i servizi tecnici (A.P.A.T.), delle Agenzie regionali per la protezione
dell'ambiente delle Regioni interessate e dell'Istituto superiore di sanità nonché di altri soggetti qualificati
pubblici o privati.
Nel caso in cui il responsabile non provveda o non sia individuabile oppure non provveda il proprietario
del sito contaminato né altro soggetto interessato, gli interventi sono predisposti dal Ministero
dell'ambiente, avvalendosi dell'Agenzia per la protezione dell'ambiente e per i servizi tecnici (A.P.A.T.),
dell'Istituto superiore di sanità e dell'E.N.E.A. nonché di altri soggetti qualificati pubblici o privati.
3. Partecipazione procedimentale e adeguatezza dell'istruttoria nella sentenza in rassegna e secondo la
Grande Sezione della Corte di Giustizia.
3.1. La partecipazione del soggetto interessato al procedimento di bonifica.
Tanto sinteticamente premesso in ordine alla disciplina normativa di riferimento e volgendo l'attenzione
alla motivazione della sentenza in rassegna, si è già anticipato come il TAR toscano accolga il motivo di
ricorso fondato sul mancato rispetto, nella fattispecie in esame, delle garanzie di partecipazione
procedimentale di cui agli artt. 7 e ss. della l. n. 241/1990, senza che vi fossero ragioni idonee per
derogarvi.
Secondo il Collegio, appare evidente la necessità e l'utilità di un contrad dittorio procedimentale, anche
nella determinazione dei contenuti del progetto di bonifica.
Viene ribadito, in tal modo, l'orientamento giurisprudenziale già consolidatosi sul punto: nei procedimenti
in materia di bonifica ambientale, è necessario che la P.A. consenta ai destinatari delle prescrizioni
stabilite dalla stessa P.A. di partecipare al relativo procedimento. Il contraddittorio procedimentale si
appalesa necessario in particolare per gli accertamenti analitici. L'onere di effettuare gli accertamenti in
contraddittorio con le parti interessate, infatti, risponde a ragioni di trasparenza e pubblicità, principi del
diritto vivente cui la P.A. si deve uniformare in ogni momento della propria azione, oltre che all'interesse
pubblico e all'imparzialità dell'azione amministrativa (12).
Nella fattispecie in esame, inoltre, non sussistono profili di incompatibilità tra il procedimento di bonifica e
la necessaria comunicazione di avvio del procedimento, ai sensi degli articoli 7 e 8 della l. n. 241/1990,
né sotto il profilo dell'urgenza a provvedere né sotto quello del contenuto vincolato dell'atto.
Invero, la tempistica dell'azione amministrativa smentisce già di per se stessa l'attendibilità di ogni
giustificazione basata sull'urgenza del provvedere, all'uopo non potendo certo bastare la mera tipologia
emergenziale degli interventi imposti: tale (pretesa) tipologia è, peraltro, in radice contraddetta dalla
stessa natura degli interventi (la barriera fisica, ma anche quella idraulica), che richiedono certamente
tempi non brevi per il loro completamento.
Nemmeno è invocabile, sul punto, l'art. 21 octies, comma 2, della l. n. 241/1990, non avendo la P.A.
fornito in giudizio la prova che, anche con la partecipazione della controparte, il provvedimento finale non
avrebbe potuto avere un contenuto differente da quello contestato.
3.2. L'adeguatezza dell'istruttoria e della motivazione ai fini dell'individuazione delle prescrizioni per
evitare la diffusione dell'inquinamento.
Il Giudice toscano accoglie i motivi di ricorso riferiti alle singole prescrizioni impartite dall'amministrazione
ai fini del ripristino dello stato dei luoghi, poiché le stesse impongono misure prive di adeguata istruttoria
e di una motivazione in grado di giustificarne l'adozione.
Per il corretto inquadramento di tale affermazione è necessario individuare la natura del potere esercitato
dall'amministrazione nella definizione delle prescrizioni per la bonifica del sito ed i principi cui l'esercizio
del potere si deve conformare.
L'imposizione delle prescrizioni per la bonifica costituisce esercizio di discrezionalità tecnica.
L'amministrazione, infatti, nel definire le prescrizioni necessarie per la bonifica del sito, esercita
discrezionalità tecnica: nel provvedere su un determinato oggetto, deve essere applicata la norma tecnica
alla quale una norma giuridica conferisca rilevanza diretta o indiretta (13).
Per quanto specificamente concerne l'individuazione delle prescrizioni da imporre al responsabile
dell'inquinamento, l'esercizio della discrezionalità tecnica deve conformarsi al principio generale di
proporzionalità.
Tale principio si attaglia particolarmente alla materia della limitazione del diritto di proprietà, della attività
di autotutela, delle ordinanze di necessità ed urgenza, delle irrogazione di sanzioni e, appunto, della
tutela ambientale (14): in base ad esso la Pubblica Amministrazione deve adottare la soluzione idonea ed
adeguata, comportante il minor sacrificio possibile per gli interessi compresenti. Le autorità comunitarie e
nazionali non possono imporre, né con atti normativi né con atti amministrativi, obblighi e restrizioni alle
libertà del cittadino, tutelate dal diritto comunitario in misura superiore, cioè sproporzionata, a quella
strettamente necessaria nel pubblico interesse per il raggiungi mento dello scopo che l'autorità è tenuta a
realizzare; in modo che il provvedimento emanato sia idoneo, cioè adeguato all'obiettivo da perseguire e
necessario, nel senso che nessun altro strumento ugualmente efficace, ma meno negativamente
incidente, sia disponibile (15).
In questo contesto è lo stesso art. 242 del codice dell'ambiente che fa riferimento, sotto il versante delle
tecniche di intervento, all'importanza del principio comunitario della sostenibilità dei costi: principio
correlato a quello di proporzionalità.
Alla stregua del principio di precauzione, inoltre, che trova origine nei procedimenti comunitari posti a
tutela dell'ambiente, è consentito all'amministrazione procedente adottare i provvedimenti necessari
laddove essa paventi il rischio di una lesione ad un interesse tutelato anche in previsione di un rischio:
questo secondo principio deve armonizzarsi, sul versante della concreta applicazione, con il primo, cioè
con il principio di proporzionalità.
Corollario delle considerazioni svolte è che tutte le decisioni adottate dalle competenti autorità in materia
ambientale, e, segnatamente (per quello che qui rileva) in materia di bonifica, devono essere assistite in relazione alla pluralità ed alla rilevanza degli interessi in giuoco - da un apparato motivazionale
particolarmente rigoroso, che tenga conto di una attività istruttoria parimente ineccepibile.
Ebbene, coerentemente con i ricordati principi, nella sentenza in rassegna il TAR osserva che le misure
prescritte dalla P.A. procedente non risultano supportate, negli atti impugnati, da adeguati accertamenti
tecnici o da altre spiegazioni, che le indichino come l'unico od il miglior sistema per evitare la diffusione
dell'inquinamento. L'obbligo di un'esaustiva motivazione della prescrizione - rimasto inadempiuto discende anche dalla rilevante onerosità e complessità tecnica di questa, che necessita di tempi
notevolmente lunghi per il suo completamento (16).
L'accertata omissione, da parte dell'amministrazione procedente, della doverosa indicazione degli
elementi tecnici in base ai quali si era ritenuto di prescrivere l'intervento determina l'illegittimità della
decisione assunta, giacché viziata da un uso arbitrario della discrezionalità tecnica. La sindacabilità della
scelta di siffatte misure si correla al ricordato principio per il quale il giudice amministrativo ha poteri di
controllo della discrezionalità tecnica, che si spingono fino alla verifica diretta dell'attendibilità delle
operazioni tecniche, in relazione alla loro correttezza sotto gli aspetti del criterio tecnico e del
procedimento applicativo, ma senza sostituirsi alla P.A. nell'effettuazione di valutazioni opinabili.
3.3. Oneri procedimentali e completezza dell'istruttoria secondo la Corte di Giustizia.
L'importanza della partecipazione del privato al procedimento e dell'adeguatezza dell'istruttoria ai fini
della definizione del contenuto del provvedi mento che imponga le misure di ripristino è stata
recentemente ribadita anche dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea, in riferimento ad una serie di
ricorsi promossi da alcune società avverso decisioni di autorità amministrative italiane, che avevano
imposto obblighi di riparazione dell'inquinamento accertato in un sito di interesse nazionale (17).
Le ricorrenti nelle cause principali contestavano essenzialmente alle autorità amministrative di aver agito
unilateralmente nella definizione delle misure di riparazione dei danni ambientali provocati al sito. In
particolare, le ricorrenti contestavano alle P.A. di aver modificato, in modo radicale e senza consultare gli
interessati, alcuni progetti di intervento già approvati in precedenza.
a) La Corte di Giustizia osserva come, nel sistema normativo comunitario di riferimento, definito dagli
artt.6 e 7 della direttiva 2004/35 (18), spetta in linea di principio all'operatore che sia all'origine del
danno ambientale di prendere l'iniziativa di proporre misure di riparazione che esso reputi adeguate alla
situazione (19). In considerazione della conoscenza che si pensa che l'ope ratore abbia della natura del
danno provocato all'ambiente dalla sua attività, un sistema del genere può consentire la definizione ed
esecuzione rapide di misure di riparazione ambientale opportune (20).
L'autorità competente è parimenti legittimata a modificare, anche d'ufficio, ossia persino in mancanza di
una proposta iniziale da parte dell'operatore, misure di riparazione ambientale precedentemente
disposte: può accadere, infatti, che le misure inizialmente disposte si rivelino inefficaci e che ne siano
necessarie altre per porre rimedio a un determinato inquinamento ambientale.
In tale evenienza, tuttavia, deve tenersi conto del XXIV Considerando della direttiva 2004/35 che, in sede
di applicazione ed esecuzione di mezzi efficaci diretti ad applicare il regime di responsabilità ambientale
previsto dalla direttiva medesima, stabilisce che occorre garantire un'adeguata tutela dei legittimi
interessi degli operatori e delle altre parti interessate.
A prescindere dallo specifico dato normativo di riferimento (21), infatti, il principio del contraddittorio, di
cui la Corte garantisce il rispetto, impone all'autorità pubblica di sentire gli interessati, prima
dell'adozione di una decisione che li riguardi (22). Pertanto, benché un diritto dell'operatore interessato
ad essere ascoltato in qualsiasi caso non sia stato espressamente citato dal dato normativo, si deve
riconoscere che la disposizione non può essere interpretata nel senso che in sede di definizione delle
misure di riparazione l'autorità competente non sia tenuta ad ascoltare detto operatore.
b) La Corte si sofferma anche sui dati che la P.A. deve prendere in considerazione in sede di applicazione
delle misure di riparazione necessarie.
Con affermazioni che possono assumere portata generale, in riferimento alla disciplina delle bonifiche, il
Giudice comunitario ha stabilito che spetta all'autorità competente valutare la rilevanza dei danni e
decidere le misure, conformemente all'allegato II alla direttiva, che stabilisce i criteri comuni che
l'autorità competente deve applicare per scegliere le misure più idonee ad assicurare la riparazione dei
danni ambientali (23).
Il legislatore dell'Unione non ha definito in modo preciso e dettagliato la metodologia esatta che l'autorità
competente deve seguire in sede di decisione delle misure di riparazione. Ciò dipende dal fatto che al fine
di adempiere i compiti ad essa attribuiti, detta autorità deve poter disporre di un potere discrezionale
adeguato al fine di valutare la rilevanza dei danni e determinare le misure di riparazione da adottare
(24).
Tuttavia, l'allegato II alla stessa direttiva elenca, a tal fine, alcuni elementi giudicati rilevanti dal
legislatore che devono essere tenuti in considerazione dall'autorità competente, senza però che siano
indicate le conseguenze che quest'autorità debba ricavarne in un'ipotesi concreta di inquinamento.
A questo proposito, la Corte ribadisce come, allorché l'autorità competente, nell'esercizio delle sue
attribuzioni, è chiamata a compiere valutazioni complesse, il potere discrezionale di cui gode si applica
parimenti all'accertamento degli elementi in fatto alla base della sua azione (25). Inoltre, nell'esercizio di
questo potere discrezionale, l'autorità ha l'obbligo di esaminare in modo accurato e imparziale tutti gli
elementi rilevanti della fattispecie (26).
Alla luce di ciò, quando sorge il problema della scelta tra diverse opzioni di riparazione, spetta all'autorità
competente valutare ogni singola opzione in esito ad un procedimento in contraddittorio svolto in
collaborazione con gli operatori interessati. La stessa autorità deve indicare, nella decisione che adotta, le
ragioni specifiche che motivino la sua scelta nonché, eventualmente, quelle in grado di giustificare il fatto
che non fosse necessario o possibile effettuare un esame circostanziato alla luce dei detti criteri a causa,
ad esempio, dell'urgenza della situazione ambientale (27).
4. L'individuazione del soggetto responsabile cui devono essere addossati gli oneri di bonifica, nella
sentenza in rassegna e secondo il Consiglio di Stato.
Il TAR fiorentino accoglie anche il motivo di ricorso relativo all'illegittimità dell'ordine di bonifica dei terreni
e delle acque dalla contaminazione dei metalli pesanti per la mancata individuazione di profili di
responsabilità nella suddetta contaminazione (28).
Secondo il Collegio, infatti, tanto la disciplina di cui al d.lg. n. 22/1997 (art. 17, comma 2), quanto quella
introdotta dal d.lg. n. 152/2006 (artt. 239 e segg.), si ispirano al principio secondo cui l'obbligo di
adottare le misure, sia urgenti che definitive, idonee a fronteggiare la situazione di inquinamento, è a
carico unicamente di colui che di tale situazione sia responsabile, per avervi dato causa a titolo di dolo o
colpa. L'obbligo di bonifica o di messa in sicurezza non può essere, invece, addossato al proprietario
incolpevole, ove manchi ogni sua responsabilità.
L'amministrazione non può, perciò, imporre ai privati che non abbiano alcuna responsabilità diretta
sull'origine del fenomeno contestato, ma che vengano individuati solo quali proprietari del bene, lo
svolgimento delle attività di recupero e di risanamento.
L'enunciato è conforme al principio chi inquina, paga, cui si ispira la normativa comunitaria (cfr. art. 191
TFUE, ex art. 174 TCE), la quale impone al soggetto che fa correre un rischio di inquinamento di
sostenere i costi della prevenzione o della riparazione.
Il TAR, nella sentenza in rassegna, aggiunge che a carico del proprietario dell'area inquinata, che non sia
altresì qualificabile come responsabile dell'inquinamento, non incombe alcun obbligo di porre in essere gli
interventi in parola, ma solo la facoltà di eseguirli per mantenere l'area interessata libera da pesi.
Dal combinato disposto degli artt. 244, 250 e 253 del Codice ambiente si ricava, infatti, che, nell'ipotesi
di mancata esecuzione degli interventi ambientali in esame da parte del responsabile dell'inquinamento,
ovvero di mancata individuazione dello stesso - e sempreché non provvedano né il proprietario del sito né
altri soggetti interessati - le opere di recupero ambientale sono eseguite dalla P.A. competente, che potrà
rivalersi sul soggetto responsabile nei limiti del valore dell'area bonificata, anche esercitando, ove la
rivalsa non vada a buon fine, le garanzie gravanti sul terreno oggetti dei medesimi interventi (29).
Le spese per gli interventi di bonifica non possono gravare sulla P.A. Di conseguenza, detti oneri gravano,
in primo luogo, sul responsabile dell'inquinamento e, se questi non provveda o non sia individuabile,
comunque ricadono in via indiretta sul proprietario ancorché incolpevole, attraverso l'individuazione
dell'onere reale e del privilegio speciale immobiliare sulle aree, ai sensi dell'articolo 253 del codice.
4.1. La responsabilità del proprietario tra obblighi di bonifica e onere di rimozione dei rifiuti abbandonati.
Le opzioni ermeneutiche cui aderisce il TAR nella sentenza in esame sono conformi all'orientamento
maggioritario della giurisprudenza, avallato anche in dottrina (30).
Si può aggiungere, anzi, come per gli interpreti la posizione del proprietario sia la medesima, tanto in
riferimento alla contaminazione di aree quanto in rapporto all'abbandono di rifiuti da parte di terzi: è
necessario il previo accertamento della responsabilità in capo al destinatario dei provvedimenti adottati
dall'amministrazione per la bonifica del sito o la rimozione dei rifiuti abbandonati, non sussistendo
viceversa alcun obbligo a carico del proprietario incolpevole (31).
L'individuazione dei soggetti tenuti all'effettuazione degli interventi di ripristino è in entrambi i casi
subordinata all'accertamento di una responsabilità colposa, pur dovendosi - evidentemente - distinguere
sotto il profilo oggettivo le due fattispecie (32).
La violazione del divieto di abbandono e di deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e nel suolo determina
il conseguente obbligo di procedere alla rimozione dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi a carico
dell'autore della violazione, con obbligo solidale del proprietario, solo se imputabile della violazione a
titolo di dolo o colpa.
Il vero e proprio inquinamento di un determinato sito, invece, comporta gli obblighi di intervento e
bonifica disciplinati dagli articoli 239 e ss. del codice dell'ambiente.
Stante i divergenti presupposti oggettivi, coincide l'addebitabilità soggettiva: le misure concernenti il
ripristino dell'area non possono essere addossati indiscriminatamente al proprietario per tale sua qualità,
essendo necessario un comportamento (anche omissivo) di corresponsabilità e quindi un coinvolgimento
doloso o quantomeno colposo del proprietario all'inquinamento.
Il legislatore non ha strutturato la responsabilità del proprietario in termini meramente oggettivi - ossia in
assenza di alcun riferimento all'elemento soggettivo della fattispecie. L'interprete, di conseguenza, non
può ravvisare l'obbligazione di ripristino a carico del titolare di un diritto di godimento sul bene quale
obbligazione propter rem di diritto pubblico (in quanto funzionale al pubblico interesse e coercibile da
parte dell'amministrazione nell'ambito dei suoi poteri di polizia amministrativa), a carico del proprietario o
del titolare di un diritto reale sul fondo (ed estesa anche ai titolari di un diritto personale di godimento,
nel caso in cui il contenuto di questo conferisca al suo titolare i poteri di disposizione necessari per
provvedere alla rimozione), per il caso in cui non sia stato accertato il responsabile dell'inquinamento.
Il legislatore ha definito le fattispecie in esame in termini soggettivi, radicando solo sulla riscontrata
presenza di colpevolezza del proprietario la sua responsabilità. In difetto di una accertata condotta
colpevole del proprietario del fondo, non sarebbe dato ricavare alcuna sua responsabilizzazione per la
bonifica da effettuare.
E, coerentemente ai principi ricostruiti, nel caso di specie, il Collegio fiorentino conclude riconoscendo che
la P.A. non aveva proceduto ad alcuna verifica della sussistenza, in capo alla ricorrente, del requisito della
responsabilità colpevole, con conseguente illegittimità del decreto impugnato.
4.2. Il Consiglio di Stato distingue tra oneri che fanno capo al proprietario e oneri che fanno capo al
soggetto che abbia cagionato l'inquinamento del sito, in applicazione del previgente art. 17 del d.lg. n.
22/1997.
Secondo l'orientamento giurisprudenziale richiamato, pertanto, l'obbligo di bonifica e di messa in
sicurezza non può essere addossato al proprietario incolpevole, ove manchi ogni sua responsabilità. Tale
impostazione risulta, come detto, dagli artt. 240 e segg. del d.lg. n. 152/2006.
Il Consiglio di Stato, in una decisione coeva a quella in rassegna, ha esplicitamente analizzato i diversi
presupposti giuridici su cui si fondano (e le diversa natura che presentano) la responsabilità
dell'inquinatore e quella del proprietario (33).
È bene da subito evidenziare che la citata decisione del Consiglio di Stato, benché coeva a quella del TAR
in commento, si fonda sull'applicazione ratione temporis del d.lg. n. 22/1997.
a) Ai sensi della disciplina previgente, la responsabilità dell'autore dell'inquinamento costituirebbe una
vera e propria forma di responsabilità oggettiva per gli obblighi di bonifica, messa in sicurezza e ripristino
ambientale conseguenti alla contaminazione delle aree inquinate. La natura oggettiva della responsabilità
in questione sarebbe desumibile dal fatto che, ai sensi dell'art. 17 del d.lg. n. 22/1997, l'obbligo di
effettuare gli interventi di legge sorge in connessione con una condotta anche accidentale, ossia a
prescindere dall'esistenza di qualsiasi elemento soggettivo doloso o colposo in capo all'autore
dell'inquinamento.
Ai fini della responsabilità in questione sarebbe comunque pur sempre necessario il rapporto di causalità
tra l'azione (o l'omissione) dell'autore dell'inquinamento ed il superamento - o pericolo concreto ed
attuale di superamento - dei limiti di contaminazione, in coerenza col principio comunitario chi inquina
paga.
b) Sensibilmente diversa si presenta, invece, la posizione del proprietario del sito, per la responsabilità
del quale occorre fare riferimento al comma 10 dell'art. 17 del d.lg. n. 22/1997, che dispone che gli
interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale costituiscono onere reale sulle aree
inquinate; il comma 11 del medesimo articolo dispone poi altresì che le spese sostenute per la messa in
sicurezza, la bonifica e il ripristino ambientale sono assistite da privilegio speciale immobiliare sulle aree
medesime, esercitabile anche in pregiudizio dei diritti acquistati dai terzi sull'immobile.
Ne consegue che chi subentra nella proprietà del bene subentra anche negli obblighi connessi all'onere
reale, indipendentemente dal fatto che ne abbia avuto preventiva conoscenza. Quella posta in capo al
proprietario dall'art. 17, commi 10 e 11, è pertanto una responsabilità da posizione, non solo svincolata
dai profili soggettivi del dolo o della colpa, ma che non richiede neppure l'apporto causale del proprietario
responsabile al superamento o pericolo di superamento dei valori limite di contaminazione.
Ne discende, quindi, che il proprietario del suolo - che non abbia apportato alcun contributo causale,
neppure incolpevole, all'inquinamento - non si trova in alcun modo in una posizione analoga od
assimilabile a quella dell'inquinatore, essendo tenuto a sostenere i costi connessi agli interventi di
bonifica esclusivamente in ragione dell'esistenza dell'onere reale sul sito, nei limiti del valore dell'area.
Il responsabile diretto e principale della bonifica, messa in sicurezza e ripristino ambientale è, invece,
individuato esclusivamente in colui che abbia cagionato l'inquinamento.
Il proprietario del sito a cui non sia imputabile, neppure in parte, la contaminazione dello stesso, non è
pertanto tenuto né ad attivare di propria iniziativa il procedimento previsto dall'art. 17 comma 2, né ad
ottemperare all'ordinanza comunale che imponga la bonifica del sito notificatagli, come si è detto, solo in
ragione dell'esistenza dell'onere reale.
4.3. Oneri che gravano sul responsabile dell'inquinamento e oneri che gravano sul proprietario dell'area,
alla luce del codice dell'ambiente.
Il Consiglio di Stato, nella decisione analizzata nel precedente paragrafo, sembra distinguere nettamente
tra la posizione del responsabile dell'inquinamento e quella del proprietario dell'area inquinata.
Il primo è il destinatario degli interventi di bonifica, come disciplinati dal legislatore e come
eventualmente stabiliti dall'amministrazione. Il secondo, invece, ha solo un onere di intervento
facoltativo, rimanendo sottoposto, in caso di inerzia, all'onere reale e al privilegio speciale immobiliare.
L'obbligo di bonifica dei siti inquinati, infatti, grava in primo luogo sull'effettivo responsabile
dell'inquinamento stesso, che le competenti autorità amministrative hanno l'obbligo di individuare e
ricercare, mentre la mera qualifica di proprietario o detentore del terreno inquinato non implica di per sé
l'obbligo di effettuazione della bonifica, con la conseguenza che esso può essere posto a suo carico solo
se responsabile o corresponsabile dell'illecito abbandono (34).
Diversi sarebbero anche i presupposti dei rispettivi oneri.
L'onere reale ed il privilegio speciale, infatti, sorgono in capo al proprietario in base alla previsione
legislativa, senza che sia necessario accertare una responsabilità del medesimo proprietario (in termini né
oggettivi né soggettivi). La ratio, come pare, è di evitare che i costi di ripristino rimangano a carico della
P.A., qualora il diretto responsabile dell'inquinamento non sia individuato. Il proprietario, pertanto, ove
non sia responsabile dell'inquinamento, ha non tanto l'obbligo, quanto piuttosto l'onere di provvedere agli
interventi di bonifica, se intende evitare le conseguenze derivanti dai vincoli che graverebbero sull'area
come onere reale e privilegio speciale immobiliare (35).
Il responsabile dell'inquinamento, invece, secondo il Consiglio di Stato, dovrebbe essere individuato sulla
sola base del nesso di causalità (36), senza accertare una sua responsabilità in termini di dolo o colpa,
diversamente da quando stabilisce il modello generale di responsabilità aquiliana ex art. 2043 del codice
civile (che subordina espressamente l'addebito di responsabilità all'accertamento dell'elemento soggettivo
del dolo o della colpa).
Tale divergenza dal regime generale sarebbe possibile sul fondamento della norma di specifico
riferimento, ossia l'art. 17 del previgente d.lg. n. 22 del 1997 (applicata dal Consiglio di Stato ratione
temporis nella fattispecie sottoposta al suo scrutinio), che - come ripetuto - accolla l'evento a chi l'abbia
cagionato anche per caso fortuito (ossia accidentalmente), così individuando un'ipotesi di responsabilità
oggettiva.
Ebbene, tale conclusione non sembra potersi confermare alla luce del dato normativo vigente.
L'art. 240 del codice dell'ambiente, infatti, non fa più riferimento alla responsabilità accidentale nella
causazione del danno.
Di conseguenza, e sulla scorta dell'orientamento giurisprudenziale maggioritario esaminato nei precedenti
paragrafi, si può concludere come, alla luce del diritto vigente, il soggetto su cui gravano gli oneri di
bonifica deve essere individuato sulla base di un suo contributo non solo causale, ma almeno colposo (se
non doloso) alla determinazione dell'inquinamento. Simile esito interpretativo risulta conforme anche al
sistema normativo comunitario di riferimento, che si fonda sul ricordato principio chi inquina, paga (37).
Quanto alla responsabilità del proprietario, la posizione dello stesso coinciderà con quella del responsabile
dell'inquinamento, se ne sia accertato il contributo oggettivo e soggettivo alla causazione dello stesso.
In assenza di tale responsabilità in capo al proprietario, il medesimo non sarà tenuto ad effettuare gli
interventi di bonifica, ma risponderà nei limiti dell'onere reale e del privilegio speciale stabiliti dalla legge.
NOTE
(1) Si rinvia ai riferimenti giurisprudenziali citati nella nota successiva.
(2) Il Collegio rileva, infatti, come, secondo l'art. 252, comma 4 del codice, la procedura di bonifica dei
siti di interesse nazionale è attribuita alla competenza del Ministero dell'ambiente, sentito il Ministero
dello sviluppo economico. Il Giudice valorizza il dato normativo per dare continuità ad un orientamento
giurisprudenziale che si può ormai ritenere consolidato: il decreto impugnato costituisce espressione di
attività di gestione (e non di indirizzo politico-amministrativo). Per conseguenza, risulta corretta la sua
adozione da parte del dirigente del settore interessato, e non da parte del Ministro. L'art. 252 del codice
dell'ambiente, infatti, distingue tra atti ed attività di competenza del Ministro dell'ambiente ed atti e
attività facenti capo al Ministero. Rientra tra i primi l'individuazione, ai fini della bonifica, dei siti di
interesse nazionale, atto attinente all'indirizzo politico-amministrativo in materia di bonifica.
Diversamente, secondo il Giudice fiorentino l'impugnato decreto di recepimento della conferenza di servizi
costituisce un mero atto di gestione, di competenza dirigenziale e non del Ministro, atteso che esso
certamente non concerne le scelte di fondo che la P.A. è chiamata a compiere nel settore in esame (come
ad es., la mappatura dei siti di interesse nazionale), avendo invece ad oggetto la prescrizione di un
singolo intervento di messa in sicurezza d'emergenza e, poi, di bonifica. Tale opzione interpretativa risulta
conforme a quanto affermato dalla giurisprudenza recente, cfr. ad esempio, TAR Lombardia, Brescia, sez.
I, 9 ottobre 2009, n. 1738, in Ragiusan, 2009, 307-308, 144; TAR Toscana, sez. II, 16 ottobre 2008, n.
2287, in Foro amm. Tar, 2008, 10, 2734; TAR Friuli-Venezia Giulia, sez. I, 28 gennaio 2008, n. 90, cit.
(3) L'abrogazione della normativa previgente è avvenuta ad opera dall'articolo 264 del sopravvenuto
codice dell'ambiente. Si soffermano sull'analisi della disciplina previgente, per tutti, GIAMPIETRO F. (a cura
di), La bonifica dei siti contaminati, Giuffrè Editore, 2001; DE CESARIS A. L., La disciplina per la bonifica e
il ripristino dei siti contaminati, in Rivista Giuridica dell'Ambiente, 2002, 355 ss. Per un'analisi delle norme
di riferimento anteriormente all'entrata in vigore del decreto legislativo n. 22/1997, si rinvia a MOSCHELLA
A., voce Bonifica, in Enciclopedia del Diritto, 1959, V, 531 ss. Interessanti anche le riflessioni di
GIAMPIETRO F., Bonifica dei siti contaminati: prime idee per un'iniziativa legislativa, in Rivista Giuridica
dell'Ambiente, 1994, 581 ss.
(4) Art. 239 del d.lg. n. 152/2006. Per una ricostruzione sistematica del quadro normative, cfr. MARIOTTI
E.-IANNUNTUONI M., Il nuovo diritto ambientale, Maggioli Editore, 2009, 345 ss. Si soffermano sulle
differenze tra disciplina previgente e disciplina attuale, CERRUTO S. R., La bonifica dei siti contaminati:
disciplina previgente, disciplina attuale e prospettive di riforma, in Rivista Giuridica dell'Ambiente, 2007,
259 ss.; RONCELLI P., I procedimenti di bonifica tra vecchie e nuove regole, in Rivista Giuridica
dell'Ambiente, 2008, 992 ss.; GIAMPIETRO F., Gli orientamenti del giudice amministrativo sulla bonifica nel
passaggio tra il vecchio ed il nuovo regime, in Ambiente e Sviluppo, 2008, 3, 205 ss.
(5) Le concentrazioni soglia di rischio (CSR) sono definiti dall'articolo 239 del codice come i livelli di
contaminazione delle matrici ambientali, da determinare caso per caso con l'applicazione della procedura
di analisi di rischio sito specifica secondo i principi illustrati nell'allegato 1 alla parte quarta del decreto e
sulla base dei risultati del piano di caratterizzazione, il cui superamento richiede la messa in sicurezza e la
bonifica. I livelli di concentrazione così definiti costituiscono i livelli di accettabilità per il sito.
Diversamente, le concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) rappresentano i livelli di contaminazione
delle matrici ambientali che costituiscono valori al di sopra dei quali è necessaria la caratterizzazione del
sito e l'analisi di rischio sito specifica, come individuati nell'allegato 5 alla parte quarta del decreto.
Pertanto, sempre ai sensi del citato articolo 239, un sito è potenzialmente contaminato quando uno o più
valori di concentrazione delle sostanze inquinanti rilevati nelle matrici ambientali risultino superiori ai
valori di concentrazione soglia di contaminazione (CSC), in attesa di espletare le operazioni di
caratterizzazione e di analisi di rischio sanitario e ambientale sito specifica, che ne permettano di
determinare lo stato o meno di contaminazione sulla base delle concentrazioni soglia di rischio (CSR). Un
sito, invece, è contaminato quando i valori delle concentrazioni soglia di rischio (CSR), determinati con
l'applicazione della procedura di analisi di rischio di cui all'allegato 1 alla parte quarta del decreto sulla
base dei risultati del piano di caratterizzazione, risultano superati. Un sito non è contaminato quando la
contaminazione rilevata nelle matrice ambientali risulti inferiore ai valori di concentrazione soglia di
contaminazione (CSC) oppure, se superiore, risulti comunque inferiore ai valori di concentrazione soglia
di rischio (CSR) determinate a seguito dell'analisi di rischio sanitario e ambientale sito specifica.
(6) Tale definizione di ripristino ambientale è dettata dal ripetuto articolo 239 del codice dell'ambiente.
(7) In tal senso, cfr. Cons. St., sez. VI, 11 novembre 2008, n. 5620, in Ambiente e Sviluppo, 2009, 4,
371.
(8) L'articolo 242 del codice dell'ambiente delinea le procedure per le bonifiche, individuando un iter più
complesso rispetto a quello prima definito del decreto legislativo n. 22/1997. In estrema sintesi, quanto
alle procedure operative ed amministrative come disciplinate dall'articolo 242 del d.lg. n. 152/2006,
possono essere distinte una prima fase di caratterizzazione, una seconda di progettazione ed una terza di
analisi del rischio (quest'ultima non prevista dalla previgente disciplina). Al verificarsi di un evento che sia
potenzialmente in grado di contaminare il sito, il responsabile dell'inquinamento deve mettere in opera,
entro ventiquattro ore, le misure necessarie di prevenzione e darne immediata comunicazione al Comune,
alla Provincia ed alla Regione, nonché al Prefetto. Il responsabile dell'inquinamento, attuate le necessarie
misure di prevenzione (ossia le iniziative per contrastare l'evento, l'atto o l'omissione che ha creato una
minaccia imminente per la salute o per l'ambiente, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale
minaccia), svolge, nelle zone interessate dalla contaminazione, un'indagine preliminare sui parametri
oggetto dell'inquinamento. La legge prevede poi diversi adempimenti, a seconda che tale indagine accerti
o meno un superamento del livello di concentrazione della soglia di contaminazione. Ove il responsabile
dell'inquinamento accerti che il livello delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) non sia stato
superato, provvede al ripristino della zona contaminata, dandone notizia, con apposita autocertificazione,
al Comune ed alla Provincia competenti per territorio entro quarantotto ore dalla comunicazione.
L'autocertificazione conclude il procedimento di notifica, ferme restando le attività di verifica e di controllo
da parte dell'autorità competente da effettuarsi nei successivi quindici giorni. Qualora l'indagine
preliminare accerti l'avvenuto superamento delle soglie di contaminazione anche per un solo parametro, il
responsabile dell'inquinamento ne dà immediata notizia al Comune ed alla Provincia competenti per
territorio con la descrizione delle misure di prevenzione e di messa in sicurezza di emergenza adottate (la
messa in sicurezza d'emergenza è costituita da ogni intervento immediato o a breve termine, da mettere
in opera nelle condizioni di emergenza, in caso di eventi di contaminazione repentini di qualsiasi natura,
atto a contenere la diffusione delle sorgenti primarie di contaminazione, impedirne il contatto con altre
matrici presenti nel sito e a rimuoverle, in attesa di eventuali ulteriori interventi di bonifica o di messa in
sicurezza operativa o permanente). Nei successivi trenta giorni, presenta alle predette amministrazioni,
nonché alla Regione territorialmente competente, il piano di caratterizzazione. Entro i trenta giorni
successivi la Regione, convocata la Conferenza di Servizi, autorizza il piano di caratterizzazione con
eventuali prescrizioni integrative. Sulla base delle risultanze della caratterizzazione, al sito è applicata la
procedura di analisi del rischio sito specifica per la determinazione delle concentrazioni soglia di rischio.
Entro sei mesi dall'approvazione del piano di caratterizzazione, il soggetto responsabile presenta alla
Regione i risultati dell'analisi di rischio. La Conferenza di Servizi convocata dalla Regione, a seguito
dell'istruttoria svolta in contraddittorio con il soggetto responsabile, cui è dato un preavviso di almeno
venti giorni, approva il documento di analisi di rischio entro i sessanta giorni dalla ricezione dello stesso.
Nuovamente, vi è differenza a secondo che gli esiti della procedura dell'analisi di rischio dimostrino che la
concentrazione dei contaminanti presenti nel sito è inferiore alle concentrazioni soglia di rischio ovvero
superiore. Qualora gli esiti della procedura dell'analisi di rischio dimostrino che la concentrazione dei
contaminanti presenti nel sito è inferiore alle concentrazioni soglia di rischio, la Conferenza dei Servizi,
con l'approvazione del documento dell'analisi del rischio, dichiara concluso positivamente il procedimento.
In tal caso la Conferenza di Servizi può prescrivere lo svolgimento di un programma di monitoraggio sul
sito circa la stabilizzazione della situazione riscontrata in relazione agli esiti dell'analisi di rischio e
all'attuale destinazione d'uso del sito. A tal fine, il soggetto responsabile, entro sessanta giorni
dall'approvazione di cui sopra, invia alla Provincia ed alla Regione competenti per territorio un piano di
monitoraggio nel quale sono individuati: a) i parametri da sottoporre a controllo; b) la frequenza e la
durata del monitoraggio. La Regione, sentita la Provincia, approva il piano di monitoraggio entro trenta
giorni dal ricevimento dello stesso. Alla scadenza del periodo di monitoraggio il soggetto responsabile ne
dà comunicazione alla Regione ed alla Provincia, inviando una relazione tecnica riassuntiva degli esiti del
monitoraggio svolto. Nel caso in cui le attività di monitoraggio rilevino il superamento di uno o più delle
concentrazioni soglia di rischio, il soggetto responsabile dovrà avviare la procedura di bonifica. Qualora gli
esiti della procedura dell'analisi di rischio dimostrino che la concentrazione dei contaminanti presenti nel
sito è superiore ai valori di concentrazione soglia di rischio, il soggetto responsabile sottopone alla
Regione, nei successivi sei mesi dall'approvazione del documento di analisi di rischio, il progetto operativo
degli interventi di bonifica o di messa in sicurezza, e, ove necessario, le ulteriori misure di riparazione e di
ripristino ambientale, al fine di minimizzare e ricondurre ad accettabilità il rischio derivante dallo stato di
contaminazione presente nel sito. La Regione, acquisito il parere del Comune e della Provincia interessati
mediante apposita Conferenza di Servizi e sentito il soggetto responsabile, approva il progetto, con
eventuali prescrizioni ed integrazioni entro sessanta giorni dal suo ricevimento. Con il provvedimento di
approvazione del progetto sono stabiliti anche i tempi di esecuzione, indicando altresì le eventuali
prescrizioni necessarie per l'esecuzione dei lavori ed è fissata l'entità delle garanzie finanziarie, in misura
non superiore al cinquanta per cento del costo stimato dell'intervento, che devono essere prestate in
favore della Regione per la corretta esecuzione ed il completamento degli interventi medesimi.
(9) Cfr. VIPIANA PERPETUA P.M., La bonifica dei siti contaminati: considerazioni sui profili procedimentali, in
Urbanistica e Appalti, 2010, 8, 915 ss.; MILONE A., Bonifica dei siti di interesse nazionale: le recenti
pronunce del giudice amministrativo, in Ambiente e Sviluppo, 2009, 11, 1010 ss.
(10) All'individuazione dei siti di interesse nazionale si provvede con decreto del Ministro dell'ambiente,
d'intesa con le Regioni interessate, secondo i seguenti principi e criteri direttivi: a) gli interventi di
bonifica devono riguardare aree e territori, compresi i corpi idrici, di particolare pregio ambientale; b) la
bonifica deve riguardare aree e territori tutelati ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42; c)
il rischio sanitario ed ambientale che deriva dal rilevato superamento delle concentrazioni soglia di rischio
deve risultare particolarmente elevato in ragione della densità della popolazione o dell'estensione
dell'area interessata; d) l'impatto socio economico causato dall'inquinamento dell'area deve essere
rilevante; e) la contaminazione deve costituire un rischio per i beni di interesse storico e culturale di
rilevanza nazionale; f) gli interventi da attuare devono riguardare siti compresi nel territorio di più
Regioni. Ai fini della perimetrazione del sito sono sentiti i Comuni, le Province, le Regioni e gli altri enti
locali, assicurando la partecipazione dei responsabili nonché dei proprietari delle aree da bonificare, se
diversi dai soggetti responsabili.
(11) Come è noto, la denominazione corretta è Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del
mare. Per brevità, nel testo si indicherà come Ministero dell'ambiente.
(12) TAR Toscana, sez. II, 6 maggio 2009, n. 762, in Rivista Giuridica dell'Ambiente, 2009, 5, 768, con
nota di FRIGERIO L.; TAR Lombardia, Milano, sez. I, 19 aprile 2007, n. 1913, in Rivista Giuridica
dell'Ambiente, 2007, 5, 830, con note di DE CESARIS A. L., L'amministrazione fa male all'ambiente e
all'impresa; PANNINI M., Inquinamento storico e obblighi attuali di bonifica; PRATI L., La giurisprudenza in
tema di bonifiche dopo il d.lg. n. 152/2006. Cfr. altresì, nel vigore della previgente disciplina, TAR FriuliVenezia Giulia, 27 luglio 2001, n. 488, in www.giustizia-amministrativa.it. Ad avviso di altra
giurisprudenza, in materia, sarebbe applicabile l'art. 223 disp. att. c.p.p., secondo cui, qualora, nel corso
di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti, si debbano eseguire analisi di campioni per le
quali non è prevista la revisione, l'organo procedente deve, anche oralmente, dare avviso all'interessato
dell'ora e del luogo di effettuazione delle analisi, in funzione del diritto dello stesso di presenziare a
queste, di persona o tramite persona di fiducia da lui designata, eventualmente con l'assistenza di un
consulente tecnico. Cfr. TAR, Lombardia, sez. I, 11 novembre 2003, n. 4982, in www.giustiziaamministrativa.it, che, in proposito, ricorda l'orientamento della Corte di cassazione, per cui la
disposizione è applicabile anche alle analisi di campioni finalizzate a verificare l'esistenza di illeciti puniti
con sanzioni amministrative.
(13) La discrezionalità tecnica, infatti, deve essere distinta dal merito amministrativo (caratterizzato da
un operato dell'amministrazione che deve svolgersi secondo criteri di opportunità). La discrezionalità
tecnica non gode di uno statuto peculiare di impermeabilità al sindacato del giudice, ma va sindacata in
relazione alla natura del giudizio tecnico espresso nel caso particolare ed allo stato della scienza applicata
(il che comporta la necessità di modulare il controllo giudiziario in modo più o meno penetrante a seconda
della controllabilità del giudizio, secondo i dettami della scienza applicata), in guisa che si avrà un
sindacato forte, in presenza di una discrezionalità tecnica ordinaria, e un sindacato debole, a fronte di
una discrezionalità tecnica pura o assoluta (quest'ultima riconducibile a cd. merito amministrativo). Da
ciò deriva che se quella discrezionalità - che si manifesta attraverso i giudizi espressi in base alle cd.
scienze sociali, connotate da un'ampia componente di giudizi valoriali opinabili - comporta un necessario
self restraint da parte del giudice amministrativo (che può solo verificare la logicità, congruità e
ragionevolezza delle statuizioni amministrative e correttezza della loro motivazione, ma non sostituire con
i propri giudizi di merito le valutazioni effettuate in sede amministrativa), non v'è dubbio che tale limite
non sussiste nei confronti dei giudizi tecnici, per loro natura, connotati da un maggior grado di estrinseca
controllabilità. Cfr. Cons. St., sez. VI, 7 novembre 2005, n. 6152, in Foro amm. C.d.S.,2005,11,3360.
Nella fattispecie, trattatavasi di giudizio tecnico di tipo medico-antropometrico: misurazione dell'altezza di
un candidato a prove concorsuali.
(14) Cfr. Cons. St., sez. IV, 22 marzo 2005, n. 1195, in www.giustizia-amministrativa.it. In dottrina, sul
principio di proporzionalità, cfr. per tutti Cfr. GALETTA D. U., La proporzionalità quale principio generale
dell'ordinamento, in Giornale dir. amm., 2006, 10, 1106. In generale, cfr. SANDULLI A., La proporzionalità
dell'azione amministrativa, 1998; GALETTA D. U., Principio di proporzionalità e sindacato giurisdizionale nel
diritto amministrativo, 1998; SALA G., Potere amministrativo e principi dell'ordinamento, 1993. Per una
riflessione sul ruolo dei principi generali in materia ambientale a livello comunitario e nazionale, cfr.
VIDETTA C., La tassa sui rifiuti e il principio comunitario « chi inquina paga », nota a TAR Liguria, sez. I, 23
febbraio 2005, n. 286, in Foro amm. Tar, 2005, 4, 1969. Si permetta il richiamo ai riferimenti
giurisprudenziali e dottrinali effettuati da CINGANO V., La potestà regolamentare del Comune in materia di
rifiuti e il principio di proporzionalità (nota a TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 22 dicembre 2008), in Foro
amm. Tar, 12/2008, 3287 ss.
(15) Cfr., ex pluribus, Cons. St., sez. VI, 6 marzo 2007, n. 1736, in www.giustizia-amministrativa.it; TAR
Friuli-Venezia Giulia, sez. I, 28 gennaio 2008, n. 90, cit.
(16) TAR Toscana, sez. II, 14 ottobre 2009, n. 1540, in Foro amm. Tar, 2009, 10, 2798; id., 18 dicembre
2009, n. 3973, in www.giustizia-amministrativa.it; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 11 giugno 2007, n. 2247, in
Rivista Giuridica dell'Ambiente, 2007, 5, 834.
(17) Corte Giustizia dell'Unione Europea, grande sez., 9 marzo 2010, cause riunite C-379/08 e C-380/08,
ERG e a., in Ambiente e Sviluppo, 2010, 6, 557.
(18) La direttiva 2004/35, sulla responsabilità ambientale in tema di prevenzione e riparazione del danno
ambientale, regola unitariamente settori sottoposti a discipline diverse nell'ordinamento interno (suolo e
sottosuolo, acque, ecosistemi protetti). Il d.lg. n. 152/2006, nel recepire la direttiva, mantiene la
distinzione tra le procedure, senza sottoporre a criteri comuni le discipline settoriali in materia di
responsabilità ambientale. Si sofferma sul coordinamento tra la disciplina sulle bonifiche dei siti e quella
sulla responsabilità ambientale, SALANITRO U., La bonifica dei siti contaminati nel sistema della
responsabilità ambientale, in Giornale Dir. Amm., 11/2006, 1263 ss.
(19) L'art.2, punto 11, della direttiva 2004/35 definisce le « misure di riparazione » come « qualsiasi
azione o combinazione di azioni, tra cui misure di attenuazione o provvisorie dirette a riparare, risanare o
sostituire risorse naturali e/o servizi naturali danneggiati, oppure a fornire un'alternativa equivalente a
tali risorse o servizi, come previsto nell'allegato II ». L'art.7 della direttiva 2004/35, intitolato «
determinazione delle misure di riparazione », così dispone: « 1. Conformemente all'allegato II, gli
operatori individuano le possibili misure di riparazione e le presentano per approvazione all'autorità
competente, a meno che questa non abbia intrapreso un'azione a norma dell'articolo 6, paragrafo 2,
lettera e), e paragrafo 3. 2. L'autorità competente decide quali misure di riparazione attuare
conformemente all'allegato II e, se necessario, in cooperazione con l'operatore interessato. 3. Se una
pluralità di casi di danno ambientale si sono verificati in modo tale che l'autorità competente non è in
grado di assicurare l'adozione simultanea delle misure di riparazione necessarie, essa può decidere quale
danno ambientale debba essere riparato a titolo prioritario. Ai fini di tale decisione, l'autorità competente
tiene conto, fra l'altro, della natura, entità e gravità dei diversi casi di danno ambientale in questione,
nonché della possibilità di un ripristino naturale. Sono inoltre presi in considerazione i rischi per la salute
umana. 4. L'autorità competente invita le persone di cui all'articolo 12, paragrafo 1 e, in ogni caso, le
persone sul cui terreno si dovrebbero effettuare le misure di riparazione a presentare le loro osservazioni
e le prende in considerazione ». L'allegato II alla direttiva 2004/35, intitolato « riparazione del danno
ambientale », contenente un punto 1.3 dedicato alla scelta delle opzioni di riparazione, è del seguente
tenore: « (...) 1.3.1. Le opzioni ragionevoli di riparazione dovrebbero essere valutate, usando le migliori
tecnologie disponibili, qualora siano definite, in base ai seguenti criteri: l'effetto di ciascuna opzione sulla
salute e la sicurezza pubblica;il costo di attuazione dell'opzione; la probabilità di successo di ciascuna
opzione;la misura in cui ciascuna opzione impedirà danni futuri ed eviterà danni collaterali a seguito
dell'attuazione dell'opzione stessa; la misura in cui ciascuna opzione giova a ogni componente della
risorsa naturale e/o del servizio; la misura in cui ciascuna opzione tiene conto dei pertinenti aspetti
sociali, economici e culturali e di altri fattori specifici della località; il tempo necessario per l'efficace
riparazione del danno ambientale;la misura in cui ciascuna opzione realizza la riparazione del sito colpito
dal danno ambientale; il collegamento geografico al sito danneggiato. (...) ».
(20) Dall'art.6, n.1, della direttiva 2004/35 si ricava che, quando si sia prodotto un danno ambientale,
l'operatore informa senz'indugio l'autorità competente e adotta, in particolare, le misure di riparazione
necessarie, conformemente all'art.7 della direttiva. Tuttavia, a norma del n.2 del medesimo art.6,
l'autorità può obbligare, in qualsiasi momento, l'operatore ad adottare le misure di riparazione
necessarie, dargli le istruzioni da seguire per realizzare le medesime o addirittura, in mancanza di altre
alternative, adottare essa stessa queste misure. Inoltre, ai sensi dell'art.7, n.2, della direttiva 2004/35,
l'autorità competente decide le misure di riparazione da attuare conformemente all'allegato II alla
direttiva e ciò, se necessario, in cooperazione con l'operatore interessato.Secondo l'art.11 di detta
direttiva, l'obbligo di determinare le misure di riparazione da adottare a norma dell'allegato II alla citata
direttiva spetta, in ogni caso e in ultima istanza, all'autorità competente.
(21) Nel caso sottoposto all'esame della Corte, l'art.7, n.4, della direttiva obbliga l'autorità competente,
in qualunque caso, ad invitare le persone sui cui terreni devono essere eseguite misure di riparazione a
presentare le loro osservazioni, di cui essa deve tener conto. Lo stesso art.7, n.2, tuttavia, non contiene
una formula analoga riguardo all'operatore interessato dalle misure di riparazione che detta autorità
programmi di imporgli.
(22) Cfr. nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, le sentenze 13 settembre 2007, cause riunite
C-439/05 P e C-454/05 P, Land Oberösterreich e Austria/Commissione, in www.curia.eu.
(23) Il punto 1.3.1 dell'allegato, nel dettaglio, afferma che le opzioni di riparazione « dovrebbero essere
valutate usando le migliori tecnologie disponibili », qualora siano definite in base a una serie di criteri
specificati nel medesimo punto.
(24) Come si evince dal XXIV Considerando della direttiva 2004/35.
(25) La Corte cita, per analogia, le sentenze 29 ottobre 1980, causa 138/79, Roquette Frères/Consiglio,
punto 25; 21 gennaio 1999, causa C-120/97, Upjohn, punto 34; 15 ottobre 2009, causa C-425/08,
Enviro Tech (Europe), punto 62. Tutte le decisioni sono consultabili sul sito www.curia.eu.
(26) La Corte cita, per analogia, le sentenze 21 novembre 1991, causa C-269/90, Technische Universität
München, punto 14; 6 novembre 2008, causa C-405/07 P, Paesi Bassi/Commissione, punto 56. Tutte le
decisioni sono consultabili sul sito www.curia.eu.
(27) In particolare, l'autorità competente deve vigilare affinché l'opzione accolta, alla fine consenta
realmente di raggiungere risultati migliori dal punto di vista ambientale, senza con ciò esporre gli
operatori interessati a costi manifestamente sproporzionati rispetto a quelli che essi dovevano o
avrebbero dovuto sostenere nel quadro della prima opzione accolta da detta autorità. Considerazioni
siffatte non valgono però quando quest'ultima è in grado di dimostrare che l'opzione inizialmente accolta
si è rivelata comunque inadeguata a riparare, risanare o sostituire le risorse naturali danneggiate o i
servizi deteriorati ai sensi dell'art.2, punto 11, della direttiva 2004/35.
(28) Nella fattispecie concreta, inoltre, la P.A. aveva individuato la società ricorrente come obbligata agli
interventi in quanto titolare dell'area. Il Collegio rileva, invece, che la società stessa non era proprietaria
dell'area, ma solo affittuaria (e proprietaria del solo impianto di distribuzione collocato sul sito). Tale
circostanza era stata del tutto trascurata in sede istruttoria.
(29) L'art. 244 del codice dell'ambiente stabilisce che le pubbliche amministrazioni che nell'esercizio delle
proprie funzioni individuano siti nei quali accertino che i livelli di contaminazione sono superiori ai valori di
concentrazione soglia di contaminazione, ne danno comunicazione alla Regione, alla Provincia e al
Comune competenti. La Provincia, ricevuta tale comunicazione, dopo aver svolto le opportune indagini
volte ad identificare il responsabile dell'evento di superamento e sentito il Comune, diffida con ordinanza
motivata il responsabile della potenziale contaminazione a provvedere ai sensi del titolo. L'ordinanza è
comunque notificata anche al proprietario del sito ai sensi e per gli effetti dell'articolo 253. Se il
responsabile non sia individuabile o non provveda e non provveda il proprietario del sito né altro soggetto
interessato, gli interventi che risultassero necessari sono adottati dall'amministrazione competente in
conformità a quanto disposto dall'articolo 250. L'articolo 250 prevede la bonifica da parte
dell'amministrazione, stabilendo quanto segue: « 1. Qualora i soggetti responsabili della contaminazione
non provvedano direttamente agli adempimenti disposti dal presente titolo ovvero non siano individuabili
e non provvedano né il proprietario del sito né altri soggetti interessati, le procedure e gli interventi di cui
all'articolo 242 sono realizzati d'ufficio dal Comune territorialmente competente e, ove questo non
provveda, dalla Regione, secondo l'ordine di priorità fissati dal piano regionale per la bonifica delle aree
inquinate, avvalendosi anche di altri soggetti pubblici o privati, individuati ad esito di apposite procedure
ad evidenza pubblica. Al fine di anticipare le somme per i predetti interventi le Regioni possono istituire
appositi fondi nell'ambito delle proprie disponibilità di bilancio ». L'articolo 253 stabilisce che gli interventi
disciplinati, cui si è fatto riferimento, costituiscono onere reale sui siti contaminati qualora effettuati
d'ufficio dall'autorità competente ai sensi dell'articolo 250. Inoltre, le spese sostenute per tali interventi
sono assistite da privilegio speciale immobiliare sulle aree medesime, ai sensi e per gli effetti dell'articolo
2748, secondo comma, del codice civile. Detto privilegio si può esercitare anche in pregiudizio dei diritti
acquistati dai terzi sull'immobile. Il comma terzo dell'articolo 250 aggiunge che « il privilegio e la
ripetizione delle spese possono essere esercitati, nei confronti del proprietario del sito incolpevole
dell'inquinamento o del pericolo di inquinamento, solo a seguito di provvedimento motivato dell'autorità
competente che giustifichi, tra l'altro, l'impossibilità di accertare l'identità del soggetto responsabile
ovvero che giustifichi l'impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto
ovvero la loro infruttuosità ». Ai sensi del comma quarto, « in ogni caso, il proprietario non responsabile
dell'inquinamento può essere tenuto a rimborsare, sulla base di provvedimento motivato e con
l'osservanza delle disposizioni di cui alla l. 7 agosto 1990, n. 241, le spese degli interventi adottati
dall'autorità competente soltanto nei limiti del valore di mercato del sito determinato a seguito
dell'esecuzione degli interventi medesimi. Nel caso in cui il proprietario non responsabile
dell'inquinamento abbia spontaneamente provveduto alla bonifica del sito inquinato, ha diritto di rivalersi
nei confronti del responsabile dell'inquinamento per le spese sostenute e per l'eventuale maggior danno
subito ». In giurisprudenza, cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 10 luglio 2007, n. 5355, in www.giustiziaamministrativa.it; TAR Toscana, sez. II, 17 settembre 2009, n. 1448, in Ragiusan, 2009, 307-308, 141.
(30) Cfr., ex multis, TAR Toscana, sez. II, 11 maggio 2010, n. 1397; id., 3 marzo 2010, n. 594; id., 6
maggio 2009, n. 762; id., 17 aprile 2009, n. 665; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 26 luglio 2007, n. 1254.
Tutte le decisioni sono consultabili sul sito www.giustizia-amministrativa.it. Nel vigore della precedente
disciplina, cfr. TAR Veneto, sez. II, 2 febbraio 2002, n. 320, in Foro amm. Tar, 2002, 429. Per un
approfondimento nella trattazione del controverso tema, si rinvia all'ampia indagine della dottrina sul
punto: tra i molti, cfr. di recente FRIGERIO L., Il punto sulla responsabilità del proprietario in materia di
bonifica e abbandono di rifiuti, in Rivista Giuridica dell'Ambiente, 2010, 1, 153 ss.; CREMONA C., nota a
TAR Toscana, sez. II, 13 gennaio 2009, n. 6, in Rivista Giuridica dell'Ambiente, 2009, 5, 738 ss.; CORTESE
F., Bonifica dei siti inquinati e responsabilità de proprietario, in Giornale dir. amm., 9/2008, 986 ss.; PRATI
L., I criteri di imputazione delle responsabilità per la bonifica dei siti contaminati dopo il d.lg. n.
152/2006, in Commento al Testo Unico ambientale, a cura di GIAMPIETRO F., IPSOA, 2006, 157 ss.;
FONDERICO F., Rischio e precauzione ne nuovo procedimento di bonifica dei siti inquinati, in Rivista
Giuridica dell'Ambiente, 2006, 419 ss.; TAINA M.-MAGLIA S., La figura del proprietario incolpevole tra
abbandono di rifiuti e bonifica dei siti contaminati, in Ambiente e Sviluppo, 2006, 3, 211; PERES F.,
Obbligo di bonifica e proprietario non responsabile, in Rivista Giuridica dell'Ambiente, 2006, 38 ss. Nel
vigore della precedente disciplina, in dottrina, cfr. CHINELLO D., Bonifica ambientale ex art. 17 del decreto
Ronchi: responsabilità del proprietario e onere reale sul bene contaminato, in Foro amm. Tar, 2005, 1921
ss.; GOIS F., La natura dell'ordine di bonifica e ripristino ambientale ex art. 17 d.lg. n. 22/1997: la sua
retroattività e la posizione del proprietario non responsabile della contaminazione, in Foro amm. C.d.S.,
2004, 567 ss.
(31) Di recente, effettua un confronto tra la responsabilità del proprietario ai fini della bonifica del sito e
quella in relazione all'abbandono di rifiuti FRIGERIO L., Il punto sulla responsabilità del proprietario in
materia di bonifica e abbandono di rifiuti, cit. Sull'ordinanza che ordina la rimozione di rifiuti abbandonati,
sia consentito rinviare alla giurisprudenza richiamata da CINGANO V., I presupposti applicativi per
l'adozione dell'ordinanza sindacale di rimozione dei rifiuti abbandonati e per il ripristino dello stato dei
luoghi, ai sensi dell'articolo 192 del d.lg. n. 152 del 2006, cit. Per l'orientamento minoritario, che in
riferimento all'ordinanza sindacale di rimozione dei rifiuti individua una responsabilità oggettiva del
proprietario, cfr. TAR Veneto, sez. III, ordinanza 28 marzo 2007, n. 227, in www.giustiziaamministrativa.it.
(32) Cfr. Cons. St., sez. IV, 5 settembre 2005, n. 4525, in Ambiente e Sviluppo, 2007, 4, 281, con nota di
GIAMPIETRO F., Bonifica di siti contaminati: obblighi e diritti del proprietario incolpevole nel t.u.a.
(33) Cons. St., sez. VI, 15 luglio 2010, n. 4561, in www.giustizia-amministrativa.it.
(34) Cfr. Cons. St., sez. V, 16 giugno 2009, n. 3885, in Urbanistica e appalti, 2009, 11, 1328 con nota di
DIMA D., Bonifica dei siti inquinati: criteri di imputazione e mezzi di accertamento della responsabilità. In
base alla disciplina contenuta nell'art. 17, d.lg. n. 22/1997 e nell'art. 8 del d. m. 25 ottobre 1999, n. 471
- ed oggi negli artt. 242 e 244 d.lg. n. 152/2006 - l'obbligo di bonifica dei siti inquinati grava sull'effettivo
responsabile dell'inquinamento, mentre il proprietario del terreno inquinato ha una mera facoltà di
effettuare la bonifica. L'imputazione dell'inquinamento ad un determinato soggetto può avvenire sia per
condotte attive che per condotte omissive e la relativa prova può essere data in forma diretta o indiretta;
in quest'ultimo caso la Pubblica Amministrazione può avvalersi anche di presunzioni semplici ex art. 2727
c.c., prendendo in considerazione elementi di fatto da cui si traggano indizi gravi, precisi e concordanti:
sulla base di tali indizi deve risultare verosimile che si sia verificato un inquinamento e che questo sia
attribuibile a determinati autori.
(35) TAR Campania, sez. I, 11 gennaio 2010, n. 38, in www.giustizia-amministrativa.it.
(36) Quanto ai criteri per l'accertamento del profilo causale, anche in campo amministrativo-ambientale
vale la regola, codificata nel processo civile (nel leading case di cui alla pronuncia della Corte di
cassazione civile, sez. un., 11 gennaio 2008, n. 581) del più probabile che non. Secondo tale regola, ai
sensi degli art. 40 e 41 del codice penale, un evento è da considerarsi causa di un altro se, ferme
restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo. L'applicazione di
tale principio, temperato dalla regolarità causale, ai fini della ricostruzione del nesso eziologico, va
applicata alla peculiarità delle singole fattispecie normative di responsabilità civile o amministrativa, dove
muta la regola probatoria. Pertanto, mentre ai fini della responsabilità penale vige la regola della prova
oltre il ragionevole dubbio, nel processo civile, così come nel campo della responsabilità civile o
amministrativa, vige la regola della preponderanza dell'evidenza o del più probabile che non.
Esplicitamente sul punto, cfr. TAR Piemonte, sez. I, 24 marzo 2010, n. 1575, in www.giustiziaaministrativa.it.
(37) Cfr. in tal senso anche il XX Considerando della direttiva 2004/35/CE, ai sensi del quale non si
dovrebbe chiedere ad un operatore di sostenere i costi di misure di riparazione o prevenzione adottate in
situazioni in cui il danno o la minaccia imminente di esso derivino da eventi indipendenti dalla sua
volontà.
Archivio selezionato: Note
L'azione di bonifica non grava sul proprietario incolpevole del sito contaminato
Riv. giur. ambiente 2010, 2, 380
Roberto Francesco Iannone
La sentenza in esame ruota attorno al principio della responsabilità ambientale, che deve essere ricercata
e accertata dalla Pubblica amministrazione mediante una rigorosa attività istruttoria ex artt. 242 e 244
del D.Lgs. 152/2006.
Nella vicenda in esame, si tratta di stabilire, in caso di mancata o impossibile individuazione del
responsabile dell'inquinamento, su chi grava l'azione di bonifica qualora il proprietario del fondo risulta
incolpevole.
Nel corso degli anni il legislatore ha previsto espliciti divieti e diverse tipologie di sanzioni, al fine di
contrastare un fenomeno in grado di compromettere la qualità del suolo e delle acque superficiali e
sotterranee, creando, quindi, seri pericoli per l'ambiente e la salute pubblica.
La rilevanza riconosciuta all'ambiente dal nostro ordinamento si evince dal nuovo titolo V della
Costituzione, in cui emerge la sua natura di "disciplina trasversale": questa rientra tra le materie di
potestà esclusiva dello Stato (art. 117 Cost., comma 2, lett. s), ma anche tra quelle riservate alla potestà
concorrente: "valorizzazione dei beni culturali e ambientali", insieme alla tutela della salute e al governo
del territorio (art. 117, comma 3). Il D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 è la prima norma che disciplina la
materia della bonifica in maniera compiuta (1).
Il pregio di tale disposizione di legge, inoltre, è di aver fatto proprio nella disciplina dei criteri di
responsabilità per i siti contaminati, il principio "chi inquina paga" (2).
Non meno importante, nel corso degli anni, è stato il processo di costituzionalizzazione della tutela
ambientale che ha segnato un passo importante nel riconoscimento all'ambiente quale valore di rango
costituzionale (3).
Per tale ragione il D.Lgs. 152/2006 (testo unico ambientale) sottolinea che il responsabile del danno
ambientale è soggetto agli atti di ripristino e risarcitori, per qualunque fatto illecito, realizzato mediante
atti omissivi o commissivi con dolo o colpa.
La pronuncia in esame si sofferma, pertanto, sulla natura della responsabilità per i danni ambientali,
situandola nell'alveo di quella aquiliana ex art. 2043 c.c., escludendo una qualsiasi forma di responsabilità
oggettiva.
La considerazione appare supportata dal fatto che la responsabilità oggettiva rappresenta sempre una
eccezione, dato che la norma dell'art. 2043 c.c. contiene una regola generale (4).
L'art. 242 del testo unico ambientale individua nel responsabile dell'inquinamento l'unico destinatario
degli obblighi contemplati dalla norma medesima. Il legislatore ha operato, dunque, una scelta di favor
ripudiando qualsiasi forma di responsabilità oggettiva (5).
Ciò comporta che la necessità di individuare il responsabile dell'inquinamento si traduce nel rifiutare ogni
automatismo ponendo l'accento sul dovere da parte delle amministrazioni locali di svolgere un'adeguata
istruttoria preliminare (6).
Ne consegue che, al termine dell'istruttoria, qualora l'Amministrazione non sia in grado di individuare il
responsabile dell'inquinamento, essendo tutrice dell'interesse pubblico, grava su di essa l'obbligo di
intervento in sostituzione dell'autore dell'illecito (7).
Il proprietario incolpevole non può dunque, essere obbligato a provvedere al ripristino dello stato dei
luoghi a proprie cure e spese (8).
Tuttavia, garantita dal privilegio speciale immobiliare, la Pubblica amministrazione potrà recuperare le
somme versate nel limite dell'arricchimento di valore, previamente notificando il provvedimento di
bonifica al proprietario incolpevole, rendendolo edotto del suindicato onere reale. A tal proposito occorre
distinguere l'ipotesi di abbandono dei rifiuti dalla responsabilità per gli obblighi di bonifica ex art. 239
D.Lgs. 152/2006 (9).
Gli istituti dell'onere reale e del privilegio speciale hanno talvolta realizzato una notevole pressione nei
confronti del proprietario (10).
Alla luce delle considerazioni svolte, risulta evidente che il proprietario di un'area inquinata, ove non sia
responsabile del medesimo inquinamento, non ha l'obbligo di provvedere direttamente alla messa in
sicurezza e bonifica, ma solo l'onere di farlo se intende evitare le conseguenze derivanti dai vincoli che
gravano sull'area sub specie di onere reale e di privilegio immobiliare per le spese per la realizzazione
d'ufficio dei relativi interventi (11).
L'intervento da parte del proprietario "incolpevole" resta volontario ma non vi è dubbio che una volta
intrapreso il procedimento sorgerà in capo allo stesso un obbligo di seguire le modalità della procedura
non restando immune da sanzioni per omissioni o ritardi nell'espletamento della bonifica dei luoghi.
Tale scelta, operata dal proprietario incolpevole, non porta ad una equiparazione rispetto al soggetto
responsabile ponendo così l'interrogativo sulla sussistenza di limiti all'esposizione del proprietario dal
punto di vista patrimoniale.
L'atto volontario di impegno all'intervento di messa in sicurezza implica l'assunzione di un sacrificio
patrimoniale, da contenere però nei limiti della normalità, e cioè della prevedibilità. Il contenuto del
giudizio (di prevedibilità) attiene in questo caso alla misura del proprio intervento come conseguenza
probabile dell'iniziativa assunta. In altri termini non si può ritenere che mediante la comunicazione ex art.
17, comma 13-bis del D.Lgs. n. 22 del 1997 e 9 del D.M. n. 471 del 1999, il proprietario incolpevole si
renda disponibile all'esecuzione di qualsiasi intervento, ma solo di quelli in quel momento prevedibili,
secondo criteri di normalità. E ciò tanto più ove, a fronte della presentazione di un piano di
caratterizzazione che prevede un semplice monitoraggio, si ordini come misura di messa in sicurezza di
emergenza un intervento che ha effetti permanenti, pienamente assimilabili alla definitiva bonifica del
sito inquinato (12).
NOTE
(1) Regolamento di attuazione è il D.M. 25 ottobre 1999, n. 471. Sul regime delle bonifiche introdotto
dall'art. 17 del D.Lgs. 22/1997 vedi, F. GIAMPIETRO, Bonifica dei siti contaminati: prime note sul
regolamento n. 471/1999, in Ambiente, 2000, n. 2, p. 145; L. PRATI, Danno ambientale, inquinamento da
rifiuti responsabilità ripristinatorie, in Ambiente, 1999, p. 443; A.L. DE CESARIS, Gli obblighi di bonifica del
proprietario incolpevole, in questa Rivista, 2000, p. 340 ss.; L. BUTTI, Rifiuti, in S. NESPOR, A.L. DE CESARIS
(a cura di), Codice dell'ambiente, Milano, 2003, p. 1571.
(2) Il principio è stato menzionato come raccomandazione generale per la prima volta nella dichiarazione
finale della Conferenza delle Nazioni Unite sull'ambiente di Stoccolma nel 1972 ed enunciato con
formulazione più compiuta nella Conferenza di Rio de Janeiro del 1992. Accanto al principio di chi inquina
paga si pone anche il principio di precauzione. Nella Dichiarazione di Rio si legge: "In order to protect the
environment, the precautionary approach shall be widely applied by States accordino to their capability.
Where there are threats of serius or irreversibile damage, lack of full scientific certainty shall not be used
as a reason for postponing cost-effestive measures to prevent environmental degradation". Riferimenti al
principio di precauzione sono anche contenuti nelle due Convenzioni internazionali concluse nel quadro
dei negoziati di Rio: la Convenzione sui Cambiamenti Climatici e quella sulla Biodiversità; F. ACERBONI,
Contributo allo studio del principio di precauzione: dall'origine nel diritto internazionale a principio
generale dell'ordinamento, in Il diritto della Regione - Regione Veneto, 2000, p. 246. Il principio di
precauzione viene posto dal Trattato UE a fondamento della politica ambientale comunitaria, vedi, Corte
Giustizia CE, 14 aprile 2005, n. 6: "Essa è fondata sui principi della precauzione e dell'azione preventiva,
sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché sul
principio "chi inquina paga''", in Foro amm.-C.d.S., 2005, 4, p. 962. A.M. PRINCIGALLI, Il principio di
precauzione: danni "gravi e irreparabili" e mancanza di certezza scientifica, in Dir. agr., 2004, p. 145 ss.
La parte sesta del Codice dell'ambiente recepisce la direttiva 2004/35/CE, del Parlamento europeo e del
Consiglio del 21 aprile 2004 sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del
danno ambientale, in G.U.CE n. L 143/56 del 30 aprile 2004, introducendo nella legislazione ordinaria il
principio di chi inquina paga. Sul processo evolutivo che ha portato a una serie di interventi comunitari
fino all'adozione della direttiva menzionata, vedi, G. TUCCI, Tutela dell'ambiente e diritto alla salute nella
prospettiva del diritto uniforme europeo, in Cont. Impr./Eur., 2003, p. 1141 ss.
(3) Fino alla riforma approvata con la legge costituzionale n. 3 del 2001, la Costituzione non conteneva
alcuna disposizione specifica sull'ambiente. Pertanto era necessario richiamare con una interpretazione
estensiva le altre norme costituzionali tra cui gli artt. 2, 9 e 32. Fondamentale nel processo di
costituzionalizzazione è stato il ruolo assunto dalla giurisprudenza costituzionale. L'ordinanza della Corte
del 22 giugno 1983, in Giur. cost., 1983, I, p. 977, ritenne l'ambiente un bene rilevante
costituzionalmente. Sulla stessa scia si collocano numerose sentenze successive della Corte in materia di
ambiente, tutte relative a diverse problematiche all'interno dei parchi regionali e riserve marine, fra le
tante vedi Corte Cost., 15 luglio 1987, n. 167, in Foro it., 1988, I, 331, con nota di F. GIAMPIETRO. In
dottrina vedi, M. CECCHETTI, Princípi costituzionali per la tutela dell'ambiente, Milano, 2000, pp. 1 ss.; P.
PERLINGIERI, Il diritto civile nella legalità costituzionale, Napoli, 2006, p. 751. Sul processo di
costituzionalizzazione della tutela ambientale, vedi V. CORRIERO, La funzione sociale della proprietà nelle
aree protette, Napoli, 2005, pp. 29 ss.
(4) S. RODOTÀ, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1964.
(5) La Cassazione penale ha osservato, a riguardo, che non è possibile ravvisare la prova della colpa nella
mera conoscenza, vedi Cass. pen., 1° luglio 2002, n. 32158, in Cass. pen., 2003, 3930.
(6) L'importanza di svolgere un'approfondita istruttoria in ordine all'accertamento delle responsabilità,
non rappresenta certo una novità in quanto risulta già espressa in una serie di pronunce dei giudici
amministrativi. In precedenza, il T.A.R. Valle d'Aosta, aveva ritenuto illegittima l'imputazione di
responsabilità nei confronti del proprietario del sito contaminato desunta esclusivamente sulla base delle
risultanze del verbale di sopralluogo del corpo forestale sul sito ed aveva osservato che l'amministrazione
comunale "avrebbe invece dovuto esperire opportuni ed autonomi accertamenti, volti a verificare il profilo
soggettivo dell'evento rilevato, ed avrebbe dovuto, altresì, dare piena e particolareggiata contezza
dell'attività istruttoria così esperita e delle motivazioni a sostegno dell'individuazione del responsabile".
T.A.R. Valle d'Aosta, 20 febbraio 2003, n. 17, in questa Rivista, 2003, pp. 854 ss.; T.A.R. Piemonte, Sez.
II, 26 marzo 2004, n. 17, in www.ambientediritto.it.
(7) Cons. Stato, 16 novembre 2005, n. 6406, in Foro amm., 2005, 11, p. 3307. Sull'obbligo di istruttoria
e motivazione dell'ordine di bonifica vedi T.A.R. Toscana, 3 marzo 2004, n. 662, in
www.ambientediritto.it.; in senso analogo T.A.R. Puglia, Bari, 25 marzo 2004, n. 55, in
www.ambientediritto.it.
(8) T.A.R. Lombardia, Milano, 2 aprile 2008, n. 791, in Foro amm.-T.A.R., 2008, 4, p. 949.
(9) La norma presuppone un fenomeno di vera e propria contaminazione dei luoghi e non un semplice
abbandono di rifiuti. Sulla bonifica dei siti contaminati vedi, G. DE SANTIS, Bonifica dei siti contaminati, in
Resp. civ. prev., 2009, p. 1478; W. D'AVANZO, La responsabilità del proprietario del fondo nella disciplina
dell'art. 14 del D.Lgs. 22/97. Confronto con l'art. 17 e obbligo di bonifica dei siti inquinati, in Dir. giur.
agr., 2006, I, p. 335; G. MANFREDI, La bonifica dei siti inquinati tra sanzioni, misure ripristinatorie e
risarcimento del danno all'ambiente, in questa Rivista, 2002, p. 667; S. BAIONA, Nessuna responsabilità
oggettiva in capo al proprietario "incolpevole" per l'abbandono di rifiuti sul fondo di sua proprietà, in
Resp. civ. prev., 2009, p. 2127.
(10) Osserva come spesso il proprietario del sito sia indotto ad eseguire interventi di bonifica per non
vedersi espropriare il sito, P. GIAMPIETRO, La nuova gestione dei rifiuti, Milano, 2009, p. 320.
(11) Cons. Stato, 5 settembre 2005, n. 4525, in Dir. e giur. agr., 2006, 1, p. 66; in Riv. giur. edilizia,
2005, 6, p. 1963; recentemente T.A.R. Veneto, 25 maggio 2005, n. 5473, in www. ambientediritto.it, nel
solco dell'orientamento pressoché unanime seguito dalla giurisprudenza amministrativa, ha ribadito che
"gli interventi di messa in sicurezza, bonifica e di ripristino ambientale, devono essere posti a carico dei
"responsabili"; cioè di coloro che, con la loro condotta commissiva od omissiva, abbiano causato, o
concorso a causare, il superamento dei limiti di accettabilità della contaminazione ambientale, in
relazione alla specifica destinazione d'uso dei siti, vedi Cons. Stato, 16 luglio 2002, n. 3971, in questa
Rivista, 2003, p. 807, con nota di A.L. DE CESARIS; T.A.R. Veneto, Venezia, 2 febbraio 2002, n. 320, in
Foro amm.-T.A.R., 2002, p. 429; Cons. Stato, 16 luglio 2002, n. 3971, in questa Rivista, 2003, p. 807;
T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. I, 7 dicembre 1995, n. 1442, in questa Rivista, 1996, p. 727, con nota di
S. NESPOR, nella quale sono richiamate tutte le pronunce precedenti.
(12) T.A.R. Lombardia, Brescia, 18 marzo 2006, n. 291, in Foro amm.-T.A.R., 2006, 3, p. 903.
Archivio selezionato: Note
Nota a TAR, sez.I, 16 luglio 2009 n.7027
Riv. giur. ambiente 2010, 2, 383
Roberto Gubello
1. Con la prima sentenza qui annotata il T.A.R. Lazio si è pronunciato sulla legittimità di taluni
provvedimenti adottati dal Sottosegretario di Stato per l'emergenza dei rifiuti nella Regione Campania,
nominato in attuazione del D.L. 90/2008 (convertito nella L. 14 luglio 2008, n. 123) (1).
I predetti provvedimenti avevano ad oggetto cumuli di rifiuti indifferenziati abbandonati da ignoti su un
raccordo autostradale campano, gestito dall'ANAS. Con essi il Sottosegretario di Stato, dopo aver diffidato
il Comune alla rimozione dei rifiuti, aveva provveduto al conferimento diretto di apposito incarico in
favore di società privata, imputandone i relativi costi sulle risorse dell'Amministrazione comunale.
Tanto faceva in forza dell'art. 2, comma 12, D.L. 90/2008 secondo cui "nel caso di indisponibilità, anche
temporanea, del servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti derivante da qualsiasi causa, il Sottosegretario
di Stato è autorizzato al ricorso ad interventi alternativi anche attraverso il diretto conferimento di
incarichi ad altri soggetti idonei, a valere sulle risorse dei comuni interessati già destinate alla gestione
dei rifiuti".
Il T.A.R. ha concluso per l'illegittimità dei predetti provvedimenti inquadrando le diverse disposizioni
potenzialmente coinvolte nella vicenda e fornendone un'interpretazione sistematica coerente con la
finalità stessa delle disposizioni e con la precedente elaborazione giurisprudenziale.
Innanzitutto il T.A.R. chiarisce che il presupposto per l'esercizio legittimo dei poteri sopra menzionati (2)
debba essere ravvisato nella situazione di indisponibilità del servizio di raccolta e trasporto da parte del
Comune, a prescindere dalle ragioni che in concreto l'abbiano determinata. Solo al ricorrere di tale
condizione è configurabile l'attività sostitutiva del Sottosegretario di Stato per l'emergenza rifiuti in
Campania e, quindi, l'imputazione dei relativi costi in danno delle casse comunali (3).
Accogliendo le argomentazioni formulate dal Comune, il T.A.R. ha ritenuto che, nel caso di specie, i poteri
straordinari previsti dal comma 12 del menzionato art. 2 operassero nei soli casi in cui la regolare
gestione del servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti da parte del Comune fosse in qualche modo
compromessa, senza che l'esistenza di tali poteri possa giungere in qualche modo ad alterare il riparto
generale di competenze (o, forse meglio, di "competenza") nella gestione del ciclo dei rifiuti.
Sicché, ogni onere collegato all'avvio della procedura sostitutiva dovrà necessariamente essere imputato
al Comune nei soli casi in cui la mancata rimozione dei rifiuti sia riconducibile ad una qualsivoglia
situazione di indisponibilità del servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti ove gravante sull'Amministrazione
comunale stessa.
Così chiarito l'ambito applicativo della norma, assume rilievo pregnante, al fine di valutare la legittimità
dell'operato dell'Amministrazione nel caso di specie, individuare il soggetto concretamente tenuto
all'espletamento del servizio pubblico di raccolta e trasporto dei rifiuti abbandonati lungo il raccordo
autostradale.
Valorizzando la consolidata giurisprudenza sul punto, il T.A.R. ha ribadito il rapporto di specialità che
connota l'art. 14 D.Lgs. 285/1992 (c.d. Codice della strada) laddove attribuisce alla competenza degli Enti
proprietari delle strade o ai concessionari (4) "la manutenzione, gestione e pulizie delle strade, delle loro
pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi" rispetto alla disciplina generale
contenuta dal D.Lgs. 152/2006. Tale rapporto di specialità può essere apprezzato tanto con riferimento
all'art. 198, che attribuisce ai comuni le competenze circa la complessiva gestione dei rifiuti urbani ed
assimilati, quanto rispetto all'art. 192, laddove collega gli obblighi di rimozione e ripristino dei luoghi al
necessario accertamento dell'elemento soggettivo, nella forma del dolo o della colpa.
Per quanto attiene ai rapporti tra l'art. 14 del D.Lgs. 285/1992 e l'art. 198 D.Lgs. 152/2006, il punto
centrale della sentenza può essere individuato nella sottolineatura, al fine di delimitare l'ambito
applicativo delle due disposizioni, non solo del diverso ambito oggettivo delle due disposizioni, quanto del
diverso profilo finalistico. Secondo l'impostazione del T.A.R. e della giurisprudenza amministrativa
precedente (5), la disposizione del Codice della strada risulta specificamente dettata al fine di garantire la
funzionalità dell'infrastruttura e la sicurezza della viabilità, compito che per sua natura non può che
gravare sul soggetto proprietario o gestore delle strade.
Sotto altro profilo, il T.A.R. ha rilevato che la specialità dell'art. 14 D.Lgs. 285/1992 rispetto all'art. 192
D.Lgs. 152/2006 (6) si sostanzia nel fatto che la prima disposizione, a differenza della seconda, trova
applicazione a prescindere dall'accertamento di ogni profilo di natura soggettiva. Non è, cioè, rilevante
che l'abbandono di rifiuti sia imputabile al proprietario, al concessionario o, comunque, all'affidatario delle
strade, a titolo di dolo o colpa, perché gli si possa ordinare la rimozione dei rifiuti ivi presenti (7).
L'applicazione dei predetti principi al caso di specie ha indotto il T.A.R. a pronunciarsi per l'illegittimità dei
provvedimenti con i quali il Sottosegretario di Stato pretendeva di far gravare sulle casse comunali le
spese sostenute per far fronte alla raccolta e trasporto di rifiuti abbandonati su un'area stradale, ad una
attività cioè di competenza dell'ente gestore e non, invece, dell'Amministrazione comunale.
2. La seconda sentenza qui annotata consente invece di approfondire maggiormente l'aspetto relativo
all'elemento psicologico che deve sussistere in capo al proprietario di un'area interessata da un fenomeno
di inquinamento perché possa legittimamente essere destinatario di un ordine di rimozione dei rifiuti ivi
depositati (8).
Il T.A.R. Piemonte si pronuncia sul ricorso proposto da una società immobiliare avverso alcuni
provvedimenti con i quali il Sindaco del Comune di Cameri (9) aveva ordinato la messa in sicurezza di
un'area di proprietà della ricorrente, la rimozione dei cumuli terrosi ivi presenti e la predisposizione di un
piano di caratterizzazione teso ad accertare i livelli di inquinamento del suolo.
Tralasciando taluni profili affrontati dalla sentenza circa eccezioni preliminari, in un interessante caso in
cui il procedimento amministrativo si intreccia con il procedimento penale, il T.A.R. ha puntualizzato
l'autonomia tra i due procedimenti, anche con riferimento ai giudizi che devono sottendere le eventuali
decisioni giurisdizionali.
Il punto centrale della sentenza riguarda però l'interpretazione della norma di cui all'art. 14 D.Lgs.
22/1997 (ora trasfuso nell'art. 192 D.Lgs. 152/2006) nella parte in cui sancisce il divieto di abbandono e
di deposito incontrollato dei rifiuti (commi 1 e 2) ed attribuisce all'Amministrazione il potere di ordinare ai
soggetti responsabili la rimozione, l'avvio a recupero o allo smaltimento e la riduzione in pristino di aree
comunque interessate dalla presenza di rifiuti abbandonati o depositati senza controllo (comma 3).
In particolare, la sentenza, rifacendosi ad un orientamento piuttosto consolidato, precisa che il potere di
ordinanza sussiste nei confronti del soggetto che concretamente ha posto in essere la condotta vietata
nonché, in solido con quest'ultimo, nei confronti del proprietario o dei titolari di diritti reali o personali di
godimento sull'area, a condizione però che sussista un loro coinvolgimento a titolo di dolo o colpa (10).
Ciò implica che, in tutti i casi in cui l'esecutore materiale della condotta non coincida con il proprietario o
con il soggetto che abbia una qualsivoglia "signoria" sull'area, l'ordine impartito nei loro confronti sarà
legittimo esclusivamente laddove sia ravvisabile a loro carico un qualche profilo di responsabilità a titolo
di dolo o di colpa (11).
Il giudizio di responsabilità sufficiente, tuttavia, non deve essere condotto secondo i parametri penalistici;
l'ordine di cui all'art. 14 D.Lgs. 22/1997 potrà legittimamente intervenire anche al di fuori di condotte che
integrino gli estremi di un fatto penalmente rilevante.
Ai fini della legittimità del provvedimento amministrazione assunto, in forza dell'art. 14 D.Lgs. 22/1997,
nei confronti del proprietario dell'area interessata dal fenomeno di inquinamento è sufficiente ravvisare
una responsabilità colposa omissiva sotto il profilo civilistico, così rilevando non solo la culpa in vigilando
ma anche la culpa in eligendo. È cioè tenuto tanto il proprietario che tollera il deposito di rifiuti da parte
di ignoti, quanto colui che civilisticamente risponde del fatto illecito del proprio ausiliario o preposto per
non averne controllato debitamente l'operato (12).
In considerazione di ciò il T.A.R. ha ritenuto che legittimamente l'Amministrazione avesse provveduto ad
impartire l'ordine di rimozione dei rifiuti in capo alla società ricorrente in quanto proprietaria dell'area
interessata da un accumulo incontrollato di rifiuti; ciò a prescindere dalla ricostruzione delle vicende
societarie interne e sulla base del semplice fatto che il fenomeno di inquinamento si è verificato per la
mancata attivazione, da parte di un preposto della società medesima, delle cautele opportune al fine di
evitare il fenomeno medesimo (13).
NOTE
(1) Per una fattispecie analoga, riferita sempre all'emergenza rifiuti in Campania, si veda T.A.R.
Campania, Napoli, Sez. I, 21 marzo 2001 n. 1431, in questa Rivista, 2001, p. 823, con commento di S.
BELTRAME.
(2) O forse dovrebbe parlarsi di presupposti per l'esistenza stessa dei predetti poteri straordinari.
(3) Più precisamente le spese della procedura sostitutiva prevista dal comma 12 dell'art. 2 D.L. 90/2008
gravano sulle somme specificamente destinate dal Comune al servizio di gestione dei rifiuti.
(4) Parificati agli enti proprietari dal comma 3 del richiamato art. 14.
(5) Per tutti si vedano T.A.R. Campania, Sez. V, 11 luglio 2006, n. 7428 e T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, 18
giugno 2008 n. 487, in www.giustizia-amministrativa.it.
(6) La disposizione richiamata attribuisce l'obbligo di provvedere all'avvio a recupero e allo smaltimento
dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in capo agli autori dell'illecito nonché, in solido con essi, del
proprietario e del titolare di diritti reali e personali di godimento sull'area, purché tale violazione sia loro
imputabile a titolo di dolo o colpa.
(7) Si veda T.A.R. Basilicata, 10 dicembre 2003, n. 1038, in www.giustizia-amministrativa.it.
(8) Sul punto si veda T.A.R. Sardegna, Sez. II, 19 luglio 2004, n. 1076, in questa Rivista, 2004, p. 355,
con nota di L. CASERTANO, Verso la definizione dei limiti e delle funzioni della responsabilità del proprietario
del sito.
(9) Sui profili di competenza all'emanazione dell'ordinanza di cui all'art. 14 D.Lgs. 22/1997 si veda: T.A.R.
Sardegna, Sez. II, 4 novembre 2009, n. 1598, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Basilicata, Sez.
I, 9 luglio 2008, n. 388, ivi.
(10) Deve quindi escludersi che la norma in questione possa veicolare nell'ordinamento una qualche
forma di responsabilità oggettiva in capo al proprietario del terreno. S. BAIONA, Nessuna responsabilità
oggettiva in capo al proprietario"incolpevole"per l'abbandono di rifiuti sul fondo di sua proprietà, in Resp.
civ. prev., I, 2009, p. 2127.
(11) Sul punto si segnalano A. NATALINI, Deposito incontrollato di rifiuti: nessuna responsabilità omissiva
del proprietario del terreno, in Dir. e giust., 2007; V. ITALIA, I rifiuti abbandonati ed i provvedimenti
amministrativi di diffida, in Foro amm.-T.A.R., 2007, p. 3921; A.L. DE CESARIS, Abbandono di rifiuti e
bonifiche: tante conferme e qualche novità, in questa Rivista, 2005, p. 828, nonché Gli obblighi del
proprietario dell'area tra sversamento di rifiuti e contaminazioni, ivi, 2003, p. 815; Cons. Stato, Sez. V, 2
aprile 2001, n. 1904, ivi, 2001, p. 267, con nota di P. BRAMBILLA, I poteri di ordinanza in materia di rifiuti
nei confronti dei proprietari incolpevoli; T.A.R. Lombardia, Sez. I, 7 giugno 2000, n. 1891, ivi, 2001, p.
791, con nota di L. PRATI, Il giudice amministrativo "salva" dall'obbligo di bonifica il proprietario estraneo
all'inquinamento, ivi, 2001, p. 791; T. MAROCCO, Bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati: la
giurisprudenza delimita i criteri di imputazione della responsabilità, ivi, 2001, p. 490; S. NESPOR, Vittima o
colpevole? Sulla responsabilità del proprietario per discarica abusiva sul suo fondo, in questa Rivista,
1996, p. 729.
(12) Sulla individuazione delle misure idonee al fine di evitare l'evento si veda T.A.R. Napoli, Campania,
Sez. V, 17 maggio 2005, n. 6348, in Foro amm.-T.A.R., 2005, p. 1644; T.A.R. Piemonte, Sez. II, 12
gennaio 2002, n. 27, ivi, 2002, p. 3.
(13) Con riferimento all'onere di motivazione del provvedimento e si veda Cons. Stato, Sez. II, parere 7
novembre 2007 n. 2231 in www.giustizia-amministrativa.it.
Archivio selezionato: Dottrina
CARATTERI E RILEVANZA DEL PRINCIPIO COMUNITARIO "CHI INQUINA PAGA"
NELL'ORDINAMENTO NAZIONALE
Foro amm. CDS 2009, 11, 2711
Francesco Goisis
SOMMARIO: 1. Introduzione: attualità della questione. - 2. La giuridicità del principio. - 3. Un significato
positivo ed uno negativo; la giurisprudenza comunitaria. - 4. Gli orientamenti giurisprudenziali italiani. 5. Analisi critica della legislazione e prassi giurisprudenziale italiana alla luce del principio « chi inquina
paga ». - 6. Un diretto rilievo anche nei rapporti privatistici?
1. Introduzione: attualità della questione.
L'art. 3-ter del Codice dell'ambiente, nel codificare i principi generali del diritto dell'ambiente (1), come
tali vincolanti non solo per il legislatore regionale, ma altresì per l'esercizio di poteri amministrativi
emergenziali (cfr. comma 2 dell'art. 3-ter cit.), statuisce che « La tutela dell'ambiente e degli ecosistemi
naturali e del patrimonio culturale deve essere garantita da tutti gli enti pubblici e privati e dalle persone
fisiche e giuridiche pubbliche o private, mediante una adeguata azione che sia informata ai principi della
precauzione, dell'azione preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati
all'ambiente, nonché al principio « chi inquina paga » che, ai sensi dell'articolo 174, comma 2, del
Trattato delle unioni europee, regolano la politica della comunità in materia ambientale ». La
valorizzazione di quest'ultimo principio (assieme agli altri del diritto comunitario dell'ambiente), d'altro
canto, era prescritta anche dalla relativa legge delega: all'art. 1, comma 8, lett. f), l. n. 308 del 2004, si
parla difatti, quale criterio direttivo, di « affermazione...del principio « chi inquina paga » ».
La direttiva comunitaria sul danno ambientale (2004/35/CE), poi, coerentemente con il suo secondo e
diciottesimo considerando (ove si legge, rispettivamente, che « La prevenzione e la riparazione del danno
ambientale dovrebbero essere attuate applicando il principio « chi inquina paga », quale stabilito nel
trattato...Il principio fondamentale della presente direttiva dovrebbe essere quindi che l'operatore la cui
attività ha causato un danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno sarà considerato
finanziariamente responsabile in modo da indurre gli operatori ad adottare misure e a sviluppare pratiche
atte a ridurre al minimo i rischi di danno ambientale » e che « Secondo il principio « chi inquina paga »,
l'operatore che provoca un danno ambientale o è all'origine di una minaccia imminente di tale danno
dovrebbe di massima sostenere il costo delle necessarie misure di prevenzione o di riparazione. Quando
l'autorità competente interviene direttamente o tramite terzi al posto di un operatore, detta autorità
dovrebbe far si che il costo da essa sostenuto sia a carico dell'operatore »), afferma, all'art. 1, che il
sistema della responsabilità per danno ambientale deve essere generalmente conformato proprio al
principio chi inquina paga (« La presente direttiva istituisce un quadro per la responsabilità ambientale,
basato sul principio « chi inquina paga », per la prevenzione e la riparazione del danno ambientale »).
Emerge, dunque, fin dalla parte « introduttiva » del principale testo legislativo ambientale italiano, in
dichiarata adesione al diritto comunitario pattizio e derivato, la rilevanza centrale del principio chi inquina
paga.
Scopo di questo contributo è anzitutto approfondire la portata, per il diritto comunitario e così nazionale,
del principio, e, quindi, capire fino a che punto, al di là delle enunciazioni astratte, esso trovi reale e
coerente applicazione.
Ciò specie in relazione al settore che più direttamente ad esso dovrebbe conformarsi: ossia quello delle
bonifiche, in ordine alle quali, del resto, l'art. 239, comma 1, d.lg. n. 152 del 2006 di nuovo,
specificamente, richiama il principio (« Il presente titolo disciplina gli interventi di bonifica e ripristino
ambientale dei siti contaminati e definisce le procedure, i criteri e le modalità per lo svolgimento delle
operazioni necessarie per l'eliminazione delle sorgenti dell'inquinamento e comunque per la riduzione
delle concentrazioni di sostanze inquinanti, in armonia con i principi e le norme comunitari, con
particolare riferimento al principio "chi inquina paga" »).
Le bonifiche, inoltre, costituiscono un indubbio strumento di (materiale) risarcimento (in forma specifica)
del danno ambientale. Sicché con i principi stabiliti dalla relativa direttiva comunitaria dovrebbero
comunque risultare coerenti. Basti pensare all'espresso riconoscimento della (peraltro intuitiva)
circostanza della materiale coincidenza di obiettivi e beni tutelati tra disciplina sul danno ambientale e,
rispettivamente, sulle bonifiche, contenuto nell'art. 252 bis, comma 7, d.lg. n. 152 del 2006, in tema di
bonifiche di « siti di preminente interesse pubblico per la riconversione industriale » (2), nonché alla
assimilazione, ai fini delle transazioni sul danno ambientale, tra obblighi nascenti dalla disciplina sul
danno ambientale e sulle bonifiche (3). In termini più generali, poi, l'art. 303, comma 2, lett. i), d.lg. n.
152 del 2006, esclude l'applicabilità della disciplina sul danno ambientale « alle situazioni di inquinamento
per le quali siano effettiva mente avviate le procedure relative alla bonifica, o sia stata avviata o sia
intervenuta bonifica dei siti nel rispetto delle norme vigenti in materia, salvo che ad esito di tale bonifica
non permanga un danno ambientale », di nuovo esplicitando, così, che la bonifica può ben tener luogo,
almeno parzialmente, del risarcimento del danno ambientale in senso stretto.
2. La giuridicità del principio.
A dire il vero, la ripetuta riaffermazione del principio chi inquina paga nella normativa sia comunitaria che
nazionale potrebbe far apparire perfino vagamente ozioso occuparsi della questione, pur spesso, specie in
passato, sollevata, della effettività precettività-giuridicità della regola. E ciò in particolare in un
ordinamento, quale quello italiano, in cui è tradizionale un dibattito sulle norme (costituzionali) c.d.
programmatiche, da tempo ritenute pacificamente giuridiche e vincolanti (seppure, con sicurezza, solo
per il legislatore) (4).
In altri termini, finché tale principio era confinato nel Trattato CE e in alcuni pochi altri atti di diritto
comunitario derivato, si poteva forse comprendere l'interrogativo se esso non esprimesse, più che un
vero e proprio precetto, una assai generale indicazione di razionalità economica (più che giuridica) nel
senso della tendenziale (perché affidata alla necessaria mediazione di scelte discrezionali legislative),
internalizzazione dei costi ambientali. Questi ultimi visti quali esternalità negative, che (come spiega il
secondo considerando alla direttiva sul danno ambientale), una volta adeguatamente considerati quali
costi dall'imprenditore, verranno presumibilmente meglio prevenuti (5).
Insomma, secondo quanto con nettezza ipotizzato anche dalla dottrina italiana (peraltro sulla scorta di
analoghe riflessioni in altri ordinamenti), il principio chi inquina paga avrebbe rappresentato una
previsione in realtà riconducibile a « clausole giuridiche indeterminate...che risultano prove di un valore
precettivo, mentre costituiscono un criterio ordinatore dell'azione delle istituzioni comunitarie » (6).
Oggi, invece, è ben più arduo negare che il legislatore, comunitario come nazionale, sembri valorizzare,
quale e vera e propria regola giuridica, il principio. Quest'ultimo, difatti, costituisce niente di meno che la
base (e non solo la generica ragione) del sistema di responsabilità ambientale comunitariamente voluto
(7). Inoltre, ci dice il legislatore nazionale, esso vincola l'azione sia dei soggetti pubblici (anche al di là
dell'esercizio di poteri normativi) che di quelli privati. Trattasi dunque di una vera e propria regola
giuridica, vincolante sia nei rapporti verticali che, sembra di capire, orizzontali (8).
Lo stesso Consiglio di Stato, nel rendere il suo parere sul d.lg. n. 4 del 2008, in relazione alla novità
rappresentata dalla valorizzazione, all'art. 3-ter cit., della precettività dei principi dell'art. 174 del Trattato
CE, ha dichiarato di apprezzare tale sviluppo. E ciò proprio perché capace di rendere certamente
vincolanti, per i soggetti dell'ordinamento nazionale (e specialmente per quelli privati), dei principi (quelli
comunitari pattizi sull'ambiente) prima, in tesi, precettivi solo per le istituzioni comunitarie, ed oggi,
invece, rivolti a tutti i soggetti dell'ordinamento nazionale, pubblici come privati (9).
In realtà, si può dubitare che, prima del d.lg. n. 4 del 2008, tali principi non fossero direttamente
invocabili dai soggetti privati nei confronti delle autorità pubbliche nazionali, e la giurisprudenza italiana
che esamineremo ci fornisce significativi esempi di una simile applicazione diretta. Certo è che, però,
oggi, anche grazie al d.lg. n. 4 del 2008, apparirebbe davvero arduo negare la sempre più solida e
generale rilevanza normativa assunta, fra gli altri, dal principio chi inquina paga.
Ciò, mi pare, deve spingere l'interprete non solo a più non dubitare della piena giuridicità del precetto,
ma altresì a, coerentemente, ricercarne un significato non solo (genericamente) programmatico, ma
anche più direttamente precettivo. Un valore meramente programmatico, difatti, non si comprende come
potrebbe risultare coerente con la dichiarata precettività, per tutti i soggetti dell'ordinamento, oggi voluta
ed affermata dal legislatore per la regola chi inquina paga.
3. Un significato positivo ed uno negativo; la giurisprudenza comunitaria.
Nella prospettiva della ricerca di un soddisfacente valore precettivo per il principio chi inquina paga,
sembra doversi anzitutto distinguere tra un'accezione positiva ed una negativa della regola. La prima più
di carattere programmatico, la seconda dotata di una più incisiva portata regolatrice.
In effetti, il comando chi inquina paga, visto come fonte di responsabilità per l'inquinatore, deve pur
trovare la sua concreta realizzazione in una norma più specifica, capace di soddisfare il principio di
legalità. Dunque, tale accezione della regola, per la sua stessa genericità, finisce per rivolgersi più al
legislatore (o comunque a chi esercita poteri normativi), che, in concreto, ai (diversi) soggetti
dell'ordinamento.
Insomma, come ricordato, in tema di responsabilità per lo smaltimento dei rifiuti, dall'avvocato generale
Kokott, il principio in questione, se visto come fonte di responsabilità, non reca « una disciplina chiara e
tassativa della responsabilità finanziaria », e, quindi « può e deve essere tradotto in disposizioni concrete
», tale compito spettando « in via prioritaria al legislatore » (10).
Altrettanto non può dirsi per il significato negativo del principio.
Se è vero che il risultato della internalizzazione del danno ambientale può realizzarsi in vario modo, per
esempio facendo dell'inquinamento un illecito (a cui si ricollega una sanzione anche pecuniaria o
risarcitoria) oppure un atto lecito (da cui però consegue un obbligazione di pagamento o di intervento),
secondo diverse scelte normative lasciate alla discrezionalità legislativa, una cosa, almeno, sembra
sicura: ossia che se il danno è invece fatto internalizzare a chi inquinatore non è, l'obiettivo indicato dalla
norma viene frustrato. In altri termini, il meccanismo di imputazione del danno all'inquinatore si inceppa,
e, così, l'obiettivo di interesse generale a che gli operatori economici pienamente considerino i costi
ambientali (internalizzandoli e quindi cercando di minimizzarli) viene vanificato.
Se ciò è vero, il principio chi inquina paga lascia sì al legislatore ampi spazi di discrezionalità in punto di
disciplina della responsabilità per danno ambientale (accezione positiva). Tuttavia, vieta di assegnarne la
internalizzazione a chi inquinatore non è (se non, eventualmente, nei limiti del suo effettivo e specifico
vantaggio, a seguito del ripristino e quindi più proficua utilizzabilità dei luoghi, e quindi per una ragione
diversa rispetto alla internalizzazione del danno ambientale): se così non fosse, difatti, si rinuncerebbe a
raggiungere l'obiettivo di internalizzazione a carico dell'inquinatore del costo delle risorse ambientali
compromesse. Per l'inquinatore, invero, la circostanza che il danno ambientale sia (o possa essere)
attribuito ad altri (ossia, evidentemente, a chi non ha causato, o contribuito a causare, l'inquinamento),
significa (salvo immaginare improbabili duplicazioni del risarcimento), farla (o poterla fare) franca. Essa
costituisce così un obiettivo disincentivo a un comportamento ambientalmente attento, cioè un fattore di
debolezza dello scopo di prevenzione del danno, in insanabile contrasto con la finalità di (a voler
riprendere le parole della direttiva 2004/35/CE) « indurre gli operatori ad adottare misure e a sviluppare
pratiche atte a ridurre al minimo i rischi di danno ambientale. ».
D'altra parte, il significato negativo del principio ha già trovato enunciazione nella giurisprudenza
comunitaria.
Ciò da ultimo emerge, con particolare chiarezza, nelle conclusioni presentate il 23 aprile 2009 nella causa
C-254/08. Ivi si osserva come « « Il principio « chi inquina paga » è inoltre inteso a ripartire equamente i
costi legati all'inquinamento dell'ambiente. Essi non vengono addossati ad altri, e segnatamente alla
collettività, o semplicemente ignorati, bensì vengono imputati a colui che è responsabile
dell'inquinamento. La Corte ha pertanto considerato il principio « chi inquina paga » come un'espressione
del principio di proporzionalità. Non sarebbe infatti opportuno addossare i costi per lo smaltimento dei
rifiuti a qualcuno che non li ha prodotti. » (punto 32). In altri termini, nella lettura dei precedenti
comunitari proposta dall'Avvocato generale, « La Corte ritiene da un lato incompatibile con il principio «
chi inquina paga » la possibilità per i soggetti coinvolti nella produzione di rifiuti di sottrarsi ai loro
obblighi finanziari come previsti dalla direttiva quadro sui rifiuti; dall'altro, nessuno dovrebbe essere
obbligato ad addossarsi oneri legati all'eliminazione di un inquinamento al quale non ha contribuito. La
Corte ha originariamente riferito quest'ultima affermazione all'inquinamento delle acque; essa è tuttavia
trasponibile allo smaltimento dei rifiuti ». Nette, dunque, le conclusioni: « Ne ho tratto la conseguenza
che non si devono sopportare i costi per lo smaltimento di rifiuti prodotti da altri ». Osserva in specie
l'Avvocato generale che « Questi altri produttori di rifiuti verrebbero infatti esonerati dagli obblighi loro
imposti dal principio « chi inquina paga ». In conclusione, il principio « chi inquina paga »
potrebbe...essere inteso quale disciplina precisa dell'imputazione dei costi, in maniera analoga, per
esempio, al criterio del nesso causale nel diritto della responsabilità extracontrattuale » (punti 34-36)
(11).
Nella sentenza 24 giugno 2008, in causa C-188/07 (12), poi, la Corte di giustizia, nell'occuparsi di un
danno ambientale da sversamento di idrocarburi in mare, ha ricordato come « conformemente al
principio « chi inquina paga », il produttore può essere tenuto a farsi carico di tali costi solo se, mediante
la sua attività, ha contribuito al rischio che si verificasse l'inquinamento prodotto dal naufragio della nave
» (punto 83).
Precedentemente, con sentenza 29 aprile 1999, in causa C-293/97, i giudici del Lussemburgo, nel
sindacare la legittimità di una disciplina che imputava agli agricoltori costi di disinquinamento dei nitrati
(direttiva 91/676), l'hanno ritenuta legittima proprio perché essa non imponeva oneri estranei ad un
effettivo contributo causale alla produzione di inquinamento: « Per quanto riguarda il principio « chi
inquina paga », è sufficiente rilevare che la direttiva non implica che gli esercenti di aziende agricole
debbano assumere a proprio carico oneri inerenti all'eliminazione di un inquinamento al quale non hanno
contribuito. Come è stato osservato nei punti 46 e 48 di questa sentenza, tocca agli Stati membri
prendere in considerazione, nell'attuare la direttiva, le altre fonti di inquinamento e, alla luce delle
circostanze, non accollare agli esercenti di aziende agricole oneri di eliminazione dell'inquinamento non
necessari. In tale prospettiva il principio « chi inquina paga » appare come l'espressione del principio di
proporzionalità sul quale la Corte si è già pronunciata (punti 46-50 di questa sentenza) » (punti 51 e 52).
Come è stato recentemente notato, insomma, in tale sentenza emerge, per la prima volta e con tutta
chiarezza, che « The ECJ thus held that the principle does not allow legislation to impose liability for
damages that a person has not caused » (13).
Tale accezione negativa del principio (ossia quella per cui non si può colpire chi non ha inquinato, perché,
altrimenti, secondo le parole dell'Avvocato generale nella causa C-254/08, i veri inquinatori finirebbero
per essere « esonerati dagli obblighi loro imposti dal principio... »), se certamente si rivolge anzitutto al
legislatore nazionale e comunitario, può trovare, direttamente, applicazione altresì in concrete fattispecie,
senza che ostacolo alcuno sia derivabile da una pretesa genericità. Quest'ultima, difatti, riguarda solo
l'accezione positiva del principio. Ma niente di più preciso si potrebbe, a ben vedere, richiedere alla regola
negativa.
È dunque bene ipotizzabile che, per esempio, un cittadino a cui si chieda di sopportare i costi di una
bonifica per un danno ambientale che non ha provocato, possa invocare il principio, quale scudo contro
una richiesta che non solo ingiustamente lo colpisce, ma, altresì, è in grado di inceppare il meccanismo di
internalizzazione e i suoi obiettivi di interesse generale.
Tutto ciò, naturalmente, come emerge dalla giurisprudenza comunitaria, sia in relazione a fattispecie di
responsabilità da atto lecito che da atto illecito. Che l'internalizzazione del danno ambientale sia imposta
in via sanzionatoria (ossia come risposta ad un illecito) ovvero attraverso un tributo-tariffa, ovvero
ancora mediante un atto ablatorio della Amministrazione che fa seguito ad un comportamento in sé
lecito, poco cambia: sempre deve ricercarsi il presupposto dell'effettivo contributo alla esternalità
negativa. E anzi l'effettivo contributo a tale esternalità dovrebbe altresì segnare i limiti della legittima
partecipazione al costo ambientale. Ossia dovrebbe incidere sia sull'an che sul quantum (in conformità,
tra l'altro, al principio di proporzionalità) della legittima imposizione di un obbligo di internalizzazione.
Insomma, che, per esempio, la soggezione ad un obbligo di bonifica sia vista come una reazione-sanzione
in relazione ad un illecito, o, al contrario, esclusivamente quale responsabilità da atto lecito, resta il fatto
che tale soggezione do vrebbe presupporre una effettiva causazione dell'inquinamento, rimanendo entro i
relativi limiti (14).
Né, d'altro canto, a tale impostazione dovrebbe essere consentito di sfuggire attraverso « generose »
individuazioni di un nesso di causalità tra inquinamento e comportamento dell'agente. Ed allora, ad
esempio, forme di responsabilità (in sostanza) da posizione, a carico del proprietario-gestore del sito a
fronte di altrui inquinamenti andrebbero evitate. Laddove un terzo inquini (o abbia in passato
contaminato) l'altrui fondo, pretendere il ripristino (o il risarcimento per equivalente) da chi non ha
inquinato, sulla base, per esempio, di forme di pretesa responsabilità omissiva (culpa in vigilando, magari
sub specie di responsabilità da custodia (15)) rischia di implicare l'esenzione del vero responsabile della
contaminazione dai suoi obblighi verso la collettività. In altri termini, il meccanismo della
internalizzazione, in un tale vicenda, non si realizzerebbe affatto, e così verrebbe violato il principio chi
inquina paga, nella sua, fondamentale e, come si è cercato di mostrare, direttamente precettiva,
accezione negativa.
4. Gli orientamenti giurisprudenziali italiani.
Venendo alla giurisprudenza nazionale, essa, pur nelle diverse e non sempre condivisibili interpretazioni
del principio chi inquina paga, tuttavia mostra una diffusa consapevolezza in ordine alla piena precettività
della regola; precettività, invero, riconosciuta anche ben prima della introduzione dell'art. 3-ter cit.
Se è vero difatti che Consiglio di Stato, 23 febbraio 2004, n. 709, segnalava i « problemi derivanti
dall'assenza, nel principio de quo, di una specificità sufficiente a consentirne la immediata applicazione
» (16), mentre TAR Campania, sez. V, 5 luglio 2007, n. 6526 (17), affermava che « Il principio « chi
inquina paga » stabilito dall'art. 130 del Trattato di Maastricht, ha carattere meramente programmatico,
necessitando, per divenire operativo, del successivo intervento del Legislatore; esso non è, pertanto,
direttamente applicabile al diritto interno, potendo essere utilizzato in funzione interpretativa ma non già
della creazione di una regola specifica per la soluzione del caso non regolato. », è altresì innegabile che la
gran parte della giurisprudenza era ed è ben conscia del significato concretamente precettivo del
principio, una volta visto nella sua accezione negativa.
Così, per limitarsi alle prese di posizione più recenti e significative, è sulla base di una lettura orientata al
principio chi inquina paga della disciplina delle bonifiche che il Consiglio di Stato, sez. V, 16 giugno 2009
n. 3885, ha negato la soggezione all'ordinanza di bonifica del curatore fallimentare, « poiché
ciò...determinerebbe un sovvertimento del principio « chi inquina paga » scaricando i costi sui creditori
che non presentano alcun collegamento con l'inquinamento ». TAR Toscana, sez. II. 17 aprile 2009 n.
665, ha osservato, poi, che « l'obbligo di adottare le misure, sia urgenti che definitive, idonee a
fronteggiare la situazione di inquinamento, è imposto solo a carico di colui che di tale situazione sia
responsabile, per avervi dato causa. Tale impostazione, peraltro, è stata confermata e specificata dagli
artt. 240 e ss. del d.lg. n. 152 del 2006 ed è in armonia con il principio « chi inquina paga » (art. 174, ex
art. 130/R del Trattato CE), cui si ispira la legislazione comunitaria », sicché « l'Amministrazione non può
imporre lo svolgimento di attività di recupero e di risanamento ambientale a privati, in capo ai quali non
sia stata accertata alcuna responsabilità diretta sull'origine del fenomeno di inquinamento contestato, ma
che vengano individuati solo in quanto proprietari del bene ».
Secondo TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 5 febbraio 2008 n. 39 e 15 maggio 2009 n. 1038, poi, addirittura
il principio chi inquina paga avrebbe consentito, a fronte di un quadro normativo - quello pre Ronchi indubbiamente frammentario ed incompleto, di trovare una solida indicazione in ordine alla posizione (di
irresponsabilità) del proprietario incolpevole: « l'opinione maggioritaria mutuava le proprie ragioni
giuridiche - in presenza di una normativa non puntualmente diffusa sul profilo delle responsabilità dall'art. 130/R del Trattato dell'Unione Europea introdotto dall'Atto Unico Europeo del 1986 (attualmente
l'art. 174 dopo i trattati di Amsterdam e di Nizza): esso sancisce il noto principio per cui "chi inquina
paga", mentre l'art. 18 della l. 349 del 1986 offriva la conferma della regola per cui la responsabilità per
danno ambientale consegue al compimento di fatti dolosi o colposi e non già alla mera qualità di
proprietario dell'area (cfr. TAR. Toscana, sez. II, 2 agosto 2000 n. 1775). ».
Particolarmente estese sono poi le motivazioni offerte da TAR Sicilia, Catania, sez. II, 20 luglio 2007 n.
1254. Anzitutto, si dà conto della circostanza per cui « prima della riforma della materia operata per
mezzo del d.lg. 3 aprile 2006 n. 152...non mancavano oscillazioni tra pronunce tese a sostenere che tale
principio avesse meramente valore programmatico e fosse insuscettibile di trovare applicazione
nell'Ordinamento statuale interno, e pronunciamenti di segno opposto, questi ultimi prevalenti soprattutto
nella giurisprudenza penale (cfr. TAR Emilia Romagna Bologna, sez. I, 03 marzo 1999, n. 86, in tema di
tassa sullo smaltimento dei rifiuti; TAR Emilia Romagna, Bologna, I, 05 aprile 2001 nr. 300; favorevole,
Cass. Penale, III, 24 aprile 1995, nr. 7690; 13 ottobre 1995, nr. 11336) ». Subito dopo, però, i giudici
siciliani passano a riconoscere la valenza innovativa del Codice dell'ambiente, anche nella versione
precedente al d.lg. n. 4 del 2008: « Essendo stato però introdotto, anche formalmente, con il predetto
d.lg. 152 del 2006, nell'Ordinamento statuale interno, in recepimento di specifica direttiva comunitaria,
(direttiva 2004/35/CE del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e
riparazione del danno ambientale, che, in vista di questa finalità, « istituisce un quadro per la
responsabilità ambientale » basato sul principio « chi inquina paga », a sua volta fondata sull'art. 174,
comma 2, del Trattato istitutivo delle Comunità Europee), il principio « chi inquina paga », proprio in
quanto principio, deve trovare applicazione in tutti i procedimenti amministrativi in corso, laddove non si
sono prodotti diritti quesiti o comunque effetti definitivi ». Infine, di tale principio viene colta la portata
negativa, come tale direttamente precettiva: « Quando, pertanto, la decisione amministrativa inerisce ad
una ripartizione di oneri finanziari...anche a voler tenere fermi i modi della bonifica, i relativi costi devono
essere addossati ai responsabili dell'inquinamento... ».
Numerose sono poi le sentenze in materia di tasse e contribuzioni ambientali con cui la Cassazione e i
giudici tributari mostrano di ben comprendere la rilevanza diretta (e invalidante) del principio, a fronte di
pretese impositive non accettabilmente proporzionali all'effettivo contributo di ciascuno all'inquinamento.
Come ricorda, da ultimo, Cass., sez. un., 15 giugno 2009 n. 13894, alla luce della pronuncia comunitaria
sul caso Standley, solo una tariffa (e non una tassa non effettivamente proporzionale alla produzione dei
rifiuti) appare funzionale « ad una disciplina precisa dell'imputazione dei costi », quale richiesta dal
principio comunitario (18).
Insomma, anche l'esame della giurisprudenza nazionale mostra come il principio chi inquina paga, ove
visto in negativo, può essere (ed in effetti è) utilizzato per sindacare scelte normative come
amministrative, nella prospettiva di garantire chi non ha inquinato da ingiustificate pretese delle
pubbliche autorità.
5. Analisi critica della legislazione e prassi giurisprudenziale italiana alla luce del principio « chi inquina
paga ».
È giunto il momento di capire quanto la legislazione italiana davvero si conformi al principio in esame.
In particolare, esamineremo la materia delle bonifiche, ossia quella ha costituito, nella prassi, la vera via
italiana a (un risultato materialmente coincidente con) il risarcimento (in forma specifica) del danno
ambientale.
Come noto, la nuova disciplina del 2006 ha meglio esplicitato la distinzione tra proprietario (incolpevole)
ed inquinatore. Solo il secondo è propriamente soggetto all'obbligo di bonifica. Il primo, invece, è
chiamato a farsi coattivamente (parziale) carico dei relativi costi, esclusivamente ove il secondo si
dimostri non individuabile, o comunque incapiente (art. 242 ss., d.lg. n. 152 del 2006 e, specialmente,
art. 253, comma 2, d.lg. n. 152 del 2006: « Il privilegio e la ripetizione delle spese possono essere
esercitati, nei confronti del proprietario del sito incolpevole dell'inquinamento o del pericolo di
inquinamento, solo a seguito di provvedimento motivato dell'autorità competente che giustifichi, tra
l'altro, l'impossibilità di accertare l'identità del soggetto responsabile ovvero che giustifichi l'impossibilità
di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità »). Inoltre,
anche laddove sia consentito procedere avverso il proprietario incolpevole, ciò può avvenire « soltanto nei
limiti del valore di mercato del sito determinato a seguito dell'esecuzione degli interventi medesimi » (art.
253, comma 4, d.lg. n. 152 del 2006).
Proprio quest'ultima previsione, tuttavia, non soddisfa. Ed infatti, come si era accennato, il principio della
necessaria internalizzazione delle esternalità ambientali non può, di per sé, ammettere che il proprietario
incolpevole si faccia carico di qualcosa di più dell'accresciuto valore del sito. Ossia della differenza tra
valore-utilità (per il proprietario) prima e dopo bonifica (ovviamente non considerando sempre
incorporato, in negativo, nel valore pre bonifica, il costo della stessa, almeno nella misura in cui esso solo
rifletta, come di norma, il costo di eliminazione delle esternalità negative ambientali, che attengono
all'utilità sociale, e non a quella del proprietario). Non sembra compatibile invece con una responsabilità
che, pur non illimitata, è però estesa all'intero valore post bonifica.
Vero è che il proprietario ha azione di rivalsa verso l'inquinatore per quanto pagato per la bonifica (art.
253, comma 4, d.lg. n. 152 del 2006). Ma essa azione è (almeno espressamente) data solo in caso di
bonifica volontaria da parte del proprietario incolpevole. Anche a considerare ciò solo come un difetto di
tecnica legislativa, tale rivalsa, poi, sia o meno relativa ad un diritto indisponibile, potrebbe non essere
esercitata. La scelta del non esercizio, d'altro canto, sarebbe del tutto razionale: le stesse ragioni che
portano l'ente pubblico a cercare di soddisfarsi sul proprietario, invece che sull'inquinatore (impossibilità o
difficoltà di individuare o far pagare l'inquinatore), difatti, costituirebbero un evidente disincentivo anche
all'azione del privato. Sicché la previsione di tale azione rappresenta sì un correttivo, ma non sufficiente,
ad una regola difficilmente compatibile con (ed anzi opposta a) l'idea della internalizzazione del danno
ambientale da parte di chi lo ha causato.
Né, d'altro canto, basterebbe a ciò replicare che, essendo l'inquinatore per definizione non individuabile e
comunque incapiente, comunque quest'ultimo non potrebbe internalizzare i costi ambientali. Sicché
facendo pagare chi non è inquinatore non si rinuncerebbe a colpire l'inquinatore, ma semplicemente si
prenderebbe atto della relativa impossibilità, evitando che i costi ricadano sull'intera collettività.
Anzitutto, come si è visto, il principio qui in questione non mira genericamente ad evitare la
collettivizzazione delle esternalità ambientali. Piuttosto, l'obiettivo è la loro internalizzazione in capo ad
un privato non genericamente inteso, ma individuato in quanto effettivo inquinatore.
Dunque, o si interpreta la impossibilità di cui parla l'art. 253 cit. come del tutto assoluta e permanente
(l'inquinatore non è obiettivamente individuabile e non può pagare, né è ragionevole che mai si potrà
individuare e/o sarà in condizione di pagare), ovvero, l'attuazione coerente del principio chi inquina paga
esigerebbe anche in casi di impossibilità non (senza incertezza alcuna) assoluta e permanente, di puntare
comunque a colpire l'inquinatore, senza (troppo facili ed ingiusti) ripieghi sul proprietario.
Del resto, nella prospettiva della internalizzazione delle esternalità negative ambientali in capo
all'inquinatore, è facile comprendere come la assunzione di tali costi in capo ad un soggetto pubblico sia
preferibile in quanto:
- l'ente pubblico ha non semplicemente la facoltà, ma piuttosto il dovere (per il carattere funzionale della
sua missione, in attuazione dell'art. 97 cost., nonché nello stesso perseguimento degli obiettivi, di
interesse pubblico, discendenti dal principio chi inquina paga), di tentare di trasferire tali costi ambientali
all'inquinatore; il soggetto privato razionale, invece, tenterà tale trasferimento solo se (e fin quando) i
costi presumibili di tale operazione appaiano inferiori a quanto realisticamente recuperabile;
- l'ente pubblico può (dovrebbe) essere investito di idonei poteri pubblicistici, che favoriscano e rendano
meno costoso detto trasferimento; mentre l'assegnazione di simili poteri ablatori al privato in quanto tale
(ossia nella sua veste di proprietario incolpevole) sembra molto più complicato;
- infine, la prospettiva di doversi far carico davvero dei costi delle bonifiche indurrà gli enti pubblici ad
una maggior cura nella prevenzione degli inquinamenti e nella effettiva (e non meramente formale e
quindi inefficace) ricerca delle (reali) responsabilità. Il che, come ovvio, rappresenta una condizione
essenziale per l'effettività del principio chi inquina paga, segnalando, anche sotto questo altro profilo, la
stretta connessione tra la sua accezione negativa e positiva, la prima funzionale alla realizzazione della
seconda.
Se ciò è vero, la disciplina sulle bonifiche appare comunitariamente illegittima (e quindi in violazione
dell'art. 117, comma 1, attesa la rilevanza di norme interposte delle discipline comunitarie, oltre che
dell'art. 76 cost., visto che il principio chi inquina paga era anche criterio di delega (19)), nella parte in
cui ammette la imposizione al proprietario incolpevole di un onere di farsi carico della bonifica (realizzata
d'ufficio):
- al di là dell'effettiva differenza tra valore-utilità (per il proprietario) del sito inquinato e, rispettivamente,
bonificato;
- e comunque, anche a non voler considerare tale profilo, al di là dei casi di impossibilità del tutto e
permanentemente assoluta di far pagare, da parte dell'ente pubblico, l'inquinatore.
Insomma, tesi come quella di recente sostenuta dal Consiglio di Stato, sez. V, 28 maggio 2009 n. 3318,
secondo cui a fronte di inquinamenti storici (per i quali, non è ben chiaro perché, varrebbe una sorta di
prescrizione del danno ambientale a favore dell'inquinatore), sarebbe del tutto compatibile con il principio
chi inquina paga imporre il costo della bonifica al mero proprietario incolpevole, perché « se il principio
comunitario invocato dovesse operare con caratteri di esclusività, dovrebbe dedursi che per tale
inquinamento nessuno paga, giusta il lungo periodo intercorso, che renderebbe comunque operante la
prescrizione lunga (tra la fine del contegno illecito e la richiesta di ristoro e di rimessa in pristino sono
decorsi quasi cinquant'anni) » non convincono. Ammesso e non concesso che (nonostante la permanenza
dell'inquinamento) sia ipotizzabile una prescrizione delle obbligazioni di bonifica, se, per la inerzia delle
autorità, chi ha inquinato non è stato tempestivamente richiesto di pagare, al suo posto non dovrebbe
esser consentito far pagare un terzo soggetto. Ben più coerente con il principio comunitario è che, in una
tale vicenda, il costo della bonifica sia assunto dagli enti locali, così sollecitati, in futuro, a maggiore cura
(e celerità) nell'affrontare le contaminazioni dei siti. Come si è ricordato, difatti, il principio chi inquina
paga non mira a trasferire genericamente al privato costi altrimenti ricadenti sulla collettività. L'obiettivo
è molto più specifico: quello di trasferire al privato (solo se ed in quanto) inquinatore tali oneri. Colpire un
privato non inquinatore significa allora non solo non soddisfare il principio, ma, più radicalmente, porsi
con esso in contrasto. In tal modo, infatti, si crea una condizione che obiettivamente preclude la
responsabilizzazione dell'inquinatore, per di più inducendo le autorità pubbliche alla ricerca della
soluzione per esse più comoda, al posto di quella più ambientalmente efficiente, oltre che (sia consentito
notarlo) equa.
Ancor più gravi ragioni di dubbio sono riferibili alla già menzionata disciplina di cui all'art. 252-bis, comma
2, cit.: « Gli oneri connessi alla messa in sicurezza e alla bonifica nonché quelli conseguenti
all'accertamento di ulteriori danni ambientali sono a carico del soggetto responsabile della
contaminazione, qualora sia individuato, esistente e solvibile. Il proprietario del sito contaminato è
obbligato in via sussidiaria previa escussione del soggetto responsabile dell'inquinamento » (20). Qui,
apparentemente, manca addirittura ogni limite quantitativo alla possibile responsabilità (« sussidiaria »)
del proprietario incolpevole, di cui, per di più, è affermata la vera e propria soggezione ad un obbligo.
Frutto probabilmente di un difetto di tecnica legislativa, ma nondimeno, parrebbe, indicativo della scarsa
sensibilità per il principio chi inquina paga, è poi la regola per cui solo in caso di inquinatore « individuato
» (invece che « individuabile »), il proprietario incolpevole potrebbe non essere coinvolto nei costi di
bonifica. Come è già stato ipotizzato, quindi, la norma appare costituzionalmente illegittima, per
violazione del principio chi inquina paga (21) e da disapplicare, perché anticomunitaria.
In contrasto con il principio appare altresì l'imposizione al proprietario-gestore del dovere di farsi carico
(anche economicamente) delle c.d. azioni di prevenzione (art. 245, comma 2, d.lg. n. 152 del 2006: « il
proprietario o il gestore dell'area che rilevi il superamento o il pericolo concreto e attuale del
superamento della concentrazione soglia di contaminazione (CSC) deve darne comunicazione alla
regione, alla provincia ed al comune territorialmente competenti e attuare le misure di prevenzione
secondo la procedura di cui all'articolo 242 »). Ora, che il proprietario possa, meglio di altri, curare quelle
misure di contenimento che, subito dopo l'incidente ambientale, possano dirsi necessarie, ben si
comprende. Tuttavia, in un sistema rispettoso del principio, tali costi dovrebbero ricadere sull'ente
pubblico, chiamato poi a trasferirli sull'inquinatore. Non su un proprietario incolpevole che, si direbbe, in
buona sostanza, per definizione, da esse non potrà trarre particolari vantaggi patrimoniali (e che
comunque solo nei limiti di questi ultimi dovrebbe poter esser chiamato a farsene carico).
Parimenti non condivisibile, specie dopo che l'art. 3-ter ha esplicitato che anche i poteri di ordinanza
extra ordinem sono soggetti al principio chi inquina paga, è poi la posizione, talvolta emergente nella
giurisprudenza amministrativa, per cui se è vero che il proprietario incolpevole non potrebbe subire
direttamente l'ordinanza di bonifica, attività simili (quantomeno emergenziali) sarebbero però ben
imponibili in via di ordinanza contingibile ed urgente (22). Invero, anche in questo caso, ciò che può
ammettersi non è che l'impresa venga assoggettata ad un onere economico, ma semmai, ad un mero
dovere di realizzare-consentire lavori ed interventi resi strettamente necessari da un urgente necessità di
pubblico interesse. I costi degli stessi dovranno però rimanere a carico dell'inquinatore, ovvero, in sua
mancanza, dell'ente pubblico, che dovrà impegnarsi per il relativo trasferimento all'inquinatore.
6. Un diretto rilievo anche nei rapporti privatistici?
Rimane infine da interrogarsi su un importante profilo di connessione tra diritto pubblico e diritto privato:
ossia se il principio chi inquina paga possa considerarsi, specie ex art. 3-ter, d.lg. n. 152 del 2006, norma
imperativa, come tale inderogabile nei rapporti privatistici.
La questione è di imponente rilievo pratico: i (frequenti) accordi tra privati con cui si trasferisca il costo
del danno ambientale, della bonifica, a chi non lo abbia prodotto (in genere all'acquirente), sono validi,
oppure, ledendo il principio, debbono ritenersi nulli, per violazione di norma imperativa?
Per arrivare a un risultato coerente con il principio chi inquina paga occorre, a mio giudizio, partire dalla
sua ratio. Il punto, allora, non è se sia possibile trasferire il danno ambientale. Ma a che condizioni ciò
possa avvenire. Difatti se tale trasferimento trova adeguato corrispettivo, non costituisce di per sé un
problema (il danno viene comunque internalizzato dall'inquinatore, sub specie di minor prezzo).
Altrimenti sì, perché lede l'interesse pubblico a che la esternalità ambientale venga internalizzata
pienamente da chi l'ha prodotta.
Un'applicazione coerente del principio dovrebbe dunque essere nei seguenti termini: l'ente pubblico sarà,
in linea di principio, chiamato ad ammettere alla bonifica un terzo incolpevole, solo dopo aver accertato
che esso abbia ricevuto adeguato corrispettivo dall'inquinatore. Ovvero, ancora, laddove il terzo abbia
una specifica necessità di, volontariamente, farsi carico della contaminazione, per, ad esempio, procedere
al proficuo utilizzo economico dell'area (sicché diversi interessi pubblici e privati, prevalenti su quello
all'internalizzazione dal danno ambientale, siano in gioco).
D'altra parte, nei rapporti privatistici, sempre in linea di massima, chi si è assunto l'onere ambientale
dovrebbe poter ottenere la dichiarazione di nullità di tale assunzione, ove non adeguatamente pagata in
via corrispettiva.
Certo il giusto corrispettivo per l'acquisto di un'area lo stabiliscono le parti.
Ma tale prezzo è determinabile solo avendo un'esatta idea delle condizioni ambientali, cioè di quanto
inquinamento si stia parlando.
In caso in cui tale informazioni non siano state adeguatamente date all'acquirente, dovrà dunque ritenersi
nulla (o parzialmente nulla) la clausola di trasferimento dei costi di bonifica. Ciò salvo, naturalmente, che
non risulti che le parti hanno consapevolmente pattuito un contratto con assunzione del rischio-incertezza
sullo stato del sottosuolo da parte dell'acquirente, che di ciò ha tenuto, quindi, conto, in sede di
formulazione del prezzo.
In tal senso, dunque, andrebbero interpretati sia l'art. 3-ter, comma 2, cit., che il diritto di rivalsa nei
confronti dell'inquinatore di cui all'art. 253, comma 4, cit. Previsione, quest'ultima, che, del resto,
altrimenti non avrebbe granché senso, visto che un tale diritto era enucleabile anche precedentemente, in
forza dei comuni principi privatistici: quindi la sua espressa codificazione nel 2006 sembra acquistare un
vero significato innovativo solo se introduttiva di una disposizione inderogabile nei rapporti privatistici.
In specie, nella lettura qui ipotizzata, l'art. 3-ter, comma 2, cit. impone (ai soggetti pubblici come privati)
- nell'ambito di quella « adeguata azione che sia informata ai principi della precauzione, dell'azione
preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché al
principio « chi inquina paga » » - di ammettere alla bonifica il non inquinatore, solo nei limiti di una sua
adeguata retribuzione per i costi trasferitigli ovvero di specifici interessi alla utilizzazione dell'area.
L'art. 253, comma 4, cit., è invece da interpretare quale riconoscimento di un diritto - nei limiti precisati,
indisponibile - ad esercitare comunque la rivalsa nei confronti dell'inquinatore. Ciò pur in presenza di
pattuizioni che tale diritto tendano, in vario modo (in termini di an, quantum, o quando) a precludere o
comunque limitare.
NOTE
(1) Su di cui, CERBO, I « nuovi » principi del codice dell'ambiente, in Urb. app., 2008, 533 ss.; SALANITRO,
I principi generali nel codice dell'ambiente, in Giorn. dir. amm., 2009, 103 ss., GIAMPIETRO, I principi
ambientali del D.lgs. n. 152/2006: dal T.U. al Codice dell'ambiente ovvero le prediche inutili?, in
Ambiente & svil., 2008, 505 ss.; CAFAGNO, Commento all'art. 3.ter, Principio dell'azione ambientale, in
Codice dell'ambiente, Milano, 2008, 81 ss. e MELI, Il principio comunitario « chi inquina paga » nel codice
dell'ambiente, in Danno e resp., 2009, 811 ss.
(2) Ove si legge che « In considerazione delle finalità di tutela e ripristino ambientale perseguite dal
presente articolo, l'attuazione da parte dei privati degli impegni assunti con l'accordo di programma
costituisce anche attuazione degli obblighi di cui alla direttiva 2004/35/CE e delle relative disposizioni di
attuazione di cui alla parte VI del presente decreto ».
(3) L'art. 2, comma 1, d.l. n. 208 del 2008 parla difatti di « transazioni globali...in ordine alla spettanza e
alla quantificazione degli oneri di bonifica, degli oneri di ripristino, nonché del danno ambientale di cui agli
articoli 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349, e 300 del decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152 ».
(4) Fin dalla sua prima sentenza, 14 giugno 1956, n. 1, difatti, la Consulta ha chiarito che una norma
legislativa ordinaria in contrasto con norma costituzionale programmatica è illegittima, sicché la seconda
è pienamente giuridica: « la nota distinzione fra norme precettive e norme programmatiche può essere
bensì determinante per decidere della abrogazione o meno di una legge, ma non è decisiva nei giudizi di
legittimità costituzionale, potendo la illegittimità costituzionale di una legge derivare, in determinati casi,
anche dalla sua non conciliabilità con norme che si dicono programmatiche ». Cfr. sul punto, CASINI , La
prima sentenza della Corte costituzionale: le memorie processuali, in Riv. trim. dir. pubbl., 2006, 13 ss.
(5) Sull'origine e significato primariamente economico del principio, fra gli altri, BUGGE, The principle of
polluter pays in economics and law, in Law and Economics of the Environment, a cura di EIDE e VAN DEN
BERGH, Oslo, 1996, 53 ss.; BUGGE, The polluter pays principle: dilemmas of justice in national and
international contexts, in Environmental Law and Justice in Context, a cura di EBBESSON e OKOWA,
Cambridge, 2009, 411 ss.; BODER, Environmental Principles and Policies: An Interdisciplinary
Introduction, Sydney, 2006, 32 ss.; LARSONN, The Law of environmental damage, Dordrecht, 1999, 90
ss.; BUTTI, L'ordinamento italiano e il principio « chi inquina paga », in Riv. giur. amb., 1990, 411 ss.;
VIVIANI, Le origini e le linee evolutive del principio « chi inquina paga » nell'ordinamento comunitario, in
Resp. Civ. prev., 1992, 752 ss.; GRECO, Nascita, evoluzione ed attuale valore del principio "chi inquina
paga", in Studi parlamentari e di politica costituzionale, 1991, 23 ss.; DE LUCA , L'evoluzione del principio
'chi inquina paga' nel diritto dell'Unione Europea: questioni in attesa di soluzione uniforme in vista del
Libro bianco della Commissione, in Contr. impr. Europa, 2000, 287 ss.; KRAMER, Manuale di diritto
comunitario per l'ambiente, Milano, 2002, 87 ss. PALOMBINO, Il significato del principio 'chi inquina paga'
nel diritto internazionale, in Riv. giur. amb., 2003, 871 ss., che peraltro sostiene che nello stesso diritto
internazionale pubblico esso avrebbe assunto un secondo significato, diverso dalla mera indicazione a
favore della internalizzazione delle esternalità negative ambientali: ossia il significato di norma costitutiva
di un diritto degli individui al risarcimento del danno ambientale e CAFAGNO, Principi e strumenti di tutela
dell'ambiente come sistema complesso, adattativo, comune, Torino, 2007, 249, che rileva come «
l'imposizione dell'onere della riparazione è...diretta (e comunque destinata) ad influire sulla condotta dei
consociati, inducendoli, con la prospettiva della responsabilità, a atener conto, nei rispettivi calcoli di
convenienza, dei costi di ripristino ambientale ».Sulla sua progressiva attuazione e rilevanza nel campo
della responsabilità civile, DE SADELEER, Polluter pays, Precautionary Principles and Liability, in
Environmental Liability in the Eu: the 2004 directive compared with Us and member state law, a cura di
BETLEM e BRANS, Londra, 2006, 89 ss. e, dello stesso Autore, Les Principes du pollueur-payeur, de
prevention et de precaution: essai sur la genese et la portee juridique de quelques principes du droit de
l'environnement, Bruylant, 1999. Peraltro, come ben rilevato da HOLDER e LEE, Environmental Protection,
Law and Policy, Cambridge, 2007, 36, « there is a certain amount of ambiguity as to the extent that the
principle rests on economic efficiency as opposed to intuitive notions of justice... ».Sulla progressiva
attuazione dei principi comunitari dell'ambiente nei vari ordinamenti europei, si vedano i contributi
presenti in Principles of European Environmental Law, a cura di MACRORY, Londra, 2004, nonché, con
specifica attenzione al principio di precauzione, DE LEONARDIS, Il principio di precauzione
nell'amministrazione di rischio, Milano, 2005, spec. 22 ss., il quale, con riguardo al principio chi inquina
paga, nota come esso sia « il portato di un'amministrazione di tipo risarcitorio ».
(6) DELL'ANNO, Principi del diritto ambientale europeo e nazionale, Milano, 2004, 122. Adesivamente,
FALCONE, Principi ambientali di diritto comunitario, in Codice dell'ambiente e normativa collegata, a cura di
BUONFRATE, Torino, 2008, 13 ss., 15 e GIAMPIETRO, Codice dell'ambiente: l'(incoerente) attuazione dei
principi in materia di bonifica e danno ambientale, in Ambiente & svil., 2009, 333 ss. Un'ampia riflessione
sul tema, a cui si rinvia anche per una completa rassegna delle voci dottrinali fino a quel momento
espressesi, in MELI, Il principio comunitario « chi inquina paga », Milano, 1996, spec. 81 ss.. Ivi
l'osservazione per cui il principio sarebbe certamente giuridico, anche se con efficacia essenzialmente
programmatica-interpretativa. L'opinione viene ribadita anche dopo la codificazione del principio nel
Codice dell'ambiente, in MELI, Il principio comunitario « chi inquina paga » nel codice dell'ambiente, cit.,
814. Su tali tematiche, altresì, fra gli altri, KRAMER, Observations sur le droit communautaire de
l'environnement', in Actualite juridique Doit administratif, 1994, 618; ELZEAR DE SABRAN PONTEVES, Le
principe pollueur payeur en droit communautaire', Revue Europeenne de droit de l'environnement, 2008,
59 ss. e, dello stesso Autore, Les transcriptions juridiques du principe pollueur-payeur, Marsiglia, 2007.
Sul dibattito, cfr. anche i vari contributi apparsi in La forza normativa dei principi. Il contributo del diritto
ambientale alla teoria generale, a cura di AMIRANTE, Padova, 2006, e in specie DE SADELEER, I principi
ambientali fra diritto moderno e post-moderno, 17 ss. e WINTER, La natura giuridica dei principi
ambientali nel diritto internazionale, nell'Unione europea ed in alcuni ordinamenti nazionali, 89 ss.
(7) Tuttavia dubita della capacità della Direttiva sul danno ambientale di dare effettiva attuazione al
principio, DE SMEDT, Is Harmonisation always effective? The Implementation of the Environmental Liability
Directive, in European Energy and Environmental Law Review, 2009, 2 ss. Troppe sarebbero difatti le
eccezioni ad un'effettiva responsabilizzazione dell'inquinatore.
(8) Sul punto, interessanti rilievi in CERBO, op. cit., che in particolare osserva come « i principi introdotti
nel codice dell'ambiente hanno una portata che, lungi dall'essere meramente ricognitiva, è fortemente
innovativa ». (540), finendo per coinvolgere direttamente l'esercizio non solo della discrezionalità
amministrativa, ma anche dell'autonomia privata (tanto che, con riguardo ai principi di cui all'art. 3-ter,
non sarebbe « azzardato ipotizzare che siano ormai assurti a principi generali per un verso del diritto
amministrativo e per altro verso dell'autonomia privata », 536). Contra, per la limitata rilevanza dell'art.
3 ter, in tesi incapace di rendere più direttamente precettivo il principio chi inquina paga, MELI, Il principio
comunitario « chi inquina paga » nel codice dell'ambiente, cit., 814.
(9) Cons. St., sez. cons., 5 novembre 2007 n. 3838, ove si legge che « L'opportunità dell'inserimento va
ravvisata anche nel fatto che le relative norme del Trattato Europeo non hanno efficacia vincolante per i
legislatori degli Stati membri... In effetti l'unico modo affinché i principi comunitari penetrassero
nell'azione concreta delle amministrazioni pubbliche era dato dal nuovo articolo 1, commi 1 e 1-ter, della
legge n. 241 del 1990. Ma esso aveva comunque un'efficacia parziale, dato che non era applicabile nei
confronti dei soggetti privati ».
(10) Conclusioni presentate il 13 marzo 2008, nella causa C-188/07, Commune de Mesquer contro Total
France Sa e Total International Ltd, punto 120.
(11) Con sentenza 16 luglio 2009, la Corte ha accolto le conclusioni dell'Avvocato generale, osservando
peraltro come « al fine del calcolo di una tassa sullo smaltimento dei rifiuti, una differenziazione tributaria
fra categorie di utenti del servizio di raccolta e di smaltimento di rifiuti urbani, alla guisa di quella operata
dalla normativa nazionale di cui trattasi nella causa principale fra le aziende alberghiere e i privati, in
funzione di criteri obiettivi aventi un rapporto diretto col costo di detto servizio, quali la loro capacità
produttiva di rifiuti o la natura dei rifiuti prodotti, può risultare adeguata per raggiungere l'obiettivo di
finanziamento di detto servizio » (punto 54).
(12) In Dir. pubbl. com. comp., 2008, 2065 ss., con commento di PAPPALARDO, Nozione di rifiuti e principio
« chi inquina paga » nella giurisprudenza della Corte di giustizia.
(13) BOCKEN, Alternative Financial Guarantees for Environmental Liabilities under the Eld , in European
Energy and Environmental Law Review, 2009, 146 ss., 157.
(14) Sul punto, mi permetto di rinviare a quanto ipotizzato in GOISIS, La natura dell'ordine di bonifica e
ripristino ambientale ex art. 17 d.lg. 22/1997: la sua "retroattività" e la posizione del proprietario non
responsabile della contaminazione, in questa Rivista, 2004, 567 ss., ove ho ipotizzato la riconducibilità
delle ordinanze di bonifica alla categoria dei provvedimenti ablatori. Per alcuni rilievi critici alla mia
impostazione, PANNI, Inquinamento storico e obblighi attuali di bonifica, in Riv. giur. ambiente, 2007, 844
ss., ove peraltro, pur nell'ambito di un'analisi interessante, alla qualificazione come potere ablatorio mi
sembra vengono opposti argomenti riconducibili ad una visione troppo restrittiva e parziale della
categoria, in sostanza riferita alle sole espropriazioni per pubblica utilità: in particolare, non è ben chiaro
perché i provvedimenti ablatori dovrebbero, secondo questo Studioso, sempre riferirsi al bene e non al
soggetto, e prevedere un equo indennizzo. Basti pensare, quali contrari esempi, agli obblighi di
prestazione gratuita imposti ad alcuni professionisti, per finalità di interesse generale, da sempre
correttamente ricondotti ad una natura ablatoria.
(15) Per es., Cons. St., sez. V, 7 settembre 2007 n. 4718, in tema di ordinanza contingibile urgente di
bonifica. Più condivisibilmente, Cons. St., sez. V, 8 marzo 2005 n. 935, che, sempre in tema di ordinanze
di bonifica, osserva come: « L'art. 2051 c.c. (« responsabilità per danno cagionato da cose in custodia
»)...non è affatto espressione di un principio di carattere generale dell'ordinamento né da essa può
inferirsi siffatto principio di generale applicazione ». Sullo stato della giurisprudenza in materia, altresì
CORTESE, Bonifica di siti inquinati e responsabilità del proprietario, in Giorn. dir. amm., 2008, 983 ss.
(16) In questa Rivista, 2004, 491 ss. Peraltro, significativamente, la pronuncia riguarda una vicenda in
cui si trattava di porre il principio alla base di una pretesa di responsabilità per lo smaltimento di rifiuti, e
dunque un caso in cui la regola era vista nella sua accezione positiva. Anzi, lo stesso Consiglio sembra
consapevole dell'immediata precettività del significato negativo del principio, visto che esclude,
comunque, che esso possa riguardare il mero trasportatore dei rifiuti, che non li abbia prodotti (« tale
principio risulta indirizzato (cfr. art. 15 della citata direttiva 75/442) ad addossare i costi dello
smaltimento dei rifiuti esclusivamente al "detentore" (o ai " precedenti detentori") o al "produttore" degli
stessi, tra i quali, in base alla definizione dell'art. 1 della stessa direttiva, non può ascriversi il
trasportatore, il quale interviene, invece, nella fase di "gestione" dei rifiuti »).
(17) In tema di modalità di quantificazione della tassa sui rifiuti.
(18) Su tali tematiche, VIDETTA, La tassa sui rifiuti e il principio comunitario « chi inquina paga », in
questa Rivista-Tar , 2005, 1969 ss. e VERRIGNI, La rilevanza del principio comunitario « chi inquina paga »
nei tributi ambientali, in Rassegna tributaria, 2003, 1614 ss.
(19) Vedi difatti, sulla possibile illegittimità costituzionale del Codice dell'ambiente ove in contrasto con il
principio, C. cost., 24 luglio 2009 n. 247.
(20) Su tale disciplina, specificamente, BENEDETTI, Siti di preminente interesse pubblico per la
riconversione industriale: le novità introdotte dall'art. 252 bis del Tua , in Amb. Svil., 2008, 468 ss., la
quale condivisibilmente osserva come « la responsabilità sussidiaria del proprietario del sito prevista dal
comma 2 dell'art. 252 bis, rappresenta, pur nell'ambito del solo istituto regolato dall'articolo in
commento, una deroga rilevante alla disciplina generale (e di sistema), sulla responsabilità del
proprietario del sito contaminato, come definita nella parte IV e VI del medesimo t.u. ».
(21) BUTTI e PERES, Commento all'art. 252-bis, in Codice dell'ambiente, cit., 2037 ss., 2041.
(22) Fra le tante, Cons. St., sez. V, 7 settembre 2007 n. 4718, cit.: « L'ordinanza contingibile e urgente
con la quale il sindaco impone al proprietario di un'area di bonificarla dalla situazione di degrado, che
attenti alla salute pubblica, non ha carattere sanzionatorio, di tal che non è dipendente dalla
individuazione di responsabilità del proprietario in relazione alla situazione inquinante, ma solo
ripristinatorio, per essere diretta esclusivamente alla rimozione dello stato di pericolo e prevenire danni
alla salute pubblica. Ne consegue che l'ordinanza legittimamente è indirizzata al proprietario dell'area,
cioè a chi si trova con questa in rapporto tale da consentirgli di eliminare la riscontrata situazione di
pericolo, ancorché tale situazione non possa essergli imputata » e Cons. St., sez. V, 16 novembre 2005 n.
6406: « L'ordinanza contingibile d urgente, con la quale il sindaco impone al proprietario dell'area di
bonificarla in relazione a rifiuti speciali tossici e nocivi su essa giacenti, non ha carattere sanzionatorio,
nel senso che non è diretta ad individuare e punire i soggetti ai quali è da attribuire la responsabilità
civile e/o penale della situazione abusiva, ma solo ripristinatorio, per essere rivolta essenzialmente ad
ottenere la rimozione dell'attuale stato di pericolo e a prevenire ulteriori danni all'ambiente circostante e
alla salute pubblica; pertanto, detta ordinanza può essere legittimamente indirizzata all'attuale
proprietario dell'area, cioè a colui che si trova con quest'ultima in un rapporto tale da consentirgli di
eseguire gli interventi ritenuti necessari al fine di eliminare la riscontrata situazione di pericolo, ancorché
essa sia da imputarsi ad altro soggetto o al precedente proprietario »; ambedue le pronunce sono state di
recente adesivamente citate da TAR Lombardia, sez. IV, 16 luglio 2009 n. 4379, secondo cui, dunque, « Il
provvedimento contingibile ed urgente che impone interventi su un'area inquinata prescinde dalla
responsabilità del proprietario nel cagionare l'inquinamento, a differenza di quanto previsto per i
provvedimenti bonifica di cui al d.lg. 152 del 2006, che ha sostituito il d.lg. 22 del 1997 ».
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Norme in materia di tutela
dell'aria e di riduzione delle
emissioni in atmosfera
Una disciplina grigio Londra
Geografia della Parte
Quinta
-
-
Titolo III Combustibili
Titolo II Impianti termici civili
Titolo I Prevenzione e limitazione delle
emissioni in atmosfera di impianti e
attività
Sul piano topografico:
-
Premessa
Dalle industrie insalubri, alla legge 615, al
d.p.r. 203/1988, al codice dell’ambiente
Una disciplina comunque articolata per tre
settori, come nel 1966
La persistenza delle industrie insalubri,
come collegamento fra ambiente ed
urbanistica o come esempio di autonomia
locale?
Prevenzione e
limitazione delle
emissioni in atmosfera
di impianti e attività
-
autorizzazione integrata ambientale
impianti, inclusi gli impianti termici civili
non disciplinati dal titolo II, e le attività
che producono emissioni in atmosfera.
Stabilisce i valori di emissione, le
prescrizioni, i metodi di campionamento
e di analisi delle emissioni ed i criteri per
la valutazione della conformità dei valori
misurati ai valori limite
Campo di applicazione
e Finalità
-
Definizioni
Inquinamento atmosferico: ogni modificazione dell'aria atmosferica, dovuta all'introduzione nella stessa di
una o di più sostanze in quantità e con caratteristiche tali da ledere o da costituire un pericolo per la salute
umana o per la qualità dell'ambiente oppure tali da ledere i beni materiali o compromettere gli usi legittimi
dell'ambiente;
emissione: qualsiasi sostanza solida, liquida o gassosa introdotta nell'atmosfera che possa causare
inquinamento atmosferico
emissione convogliata: emissione di un effluente gassoso effettuata attraverso uno o più appositi punti
emissione diffusa: emissione diversa da quella convogliata
stabilimento: il complesso unitario e stabile, che si configura come un complessivo ciclo produttivo,
sottoposto al potere decisionale di un unico gestore, in cui sono presenti uno o più impianti o sono effettuate
una o più attività che producono emissioni attraverso, per esempio, dispositivi mobili, operazioni manuali,
deposizioni e movimentazioni. Si considera stabilimento anche il luogo adibito in modo stabile all'esercizio
di una o più attività
valore limite di emissione: il fattore di emissione (rapporto tra massa di sostanza inquinante emessa e unità
di misura specifica di prodotto o di servizio), la concentrazione (rapporto tra massa di sostanza inquinante
emessa e volume dell'effluente gassoso), la percentuale (rapporto tra massa di sostanza inquinante emessa
e massa della stessa sostanza utilizzata nel processo produttivo, moltiplicato per cento) o il flusso di massa
(massa di sostanza inquinante emessa per unità di tempo) di sostanze inquinanti nelle emissioni che non
devono essere superati. I valori di limite di emissione espressi come concentrazione sono stabiliti con
riferimento al funzionamento dell'impianto nelle condizioni di esercizio più gravose e, salvo diversamente
disposto dal presente titolo o dall'autorizzazione, si intendono stabiliti come media oraria
Migliori tecniche
disponibili
La più efficiente ed avanzata fase di sviluppo di attività e relativi metodi di
esercizio indicanti l'idoneità pratica di determinate tecniche ad evitare ovvero,
se ciò risulti impossibile, a ridurre le emissioni; a tal fine, si intende per:
1) tecniche: sia le tecniche impiegate, sia le modalità di progettazione,
costruzione, manutenzione, esercizio e chiusura degli impianti e delle attività;
2) disponibili: le tecniche sviluppate su una scala che ne consenta l'applicazione
in condizioni economicamente e tecnicamente valide nell'ambito del pertinente
comparto industriale, prendendo in considerazione i costi e i vantaggi,
indipendentemente dal fatto che siano o meno applicate o prodotte in ambito
nazionale, purché il gestore possa avervi accesso a condizioni ragionevoli;
3) migliori: le tecniche più efficaci per ottenere un elevato livello di protezione
dell'ambiente nel suo complesso (268).
N.B. In presenza di particolari situazioni di rischio sanitario o di zone che
richiedono una particolare tutela ambientale, l'autorità competente dispone la
captazione ed il convogliamento delle emissioni diffuseanche se la tecnica
individuata non soddisfa il requisito della disponibilità (270, II)
L’autorizzazione
(269)
Per tutti gli stabilimenti che producono emissioni deve essere richiesta una
autorizzazione
L'autorizzazione è rilasciata con riferimento allo stabilimento
I singoli impianti e le singole attività presenti nello stabilimento non sono oggetto di
distinte autorizzazioni (Effetto bolla)
L’autorizzazione è riferita (concetto di modifica sostanziale) a:
a) progetto dello stabilimento in cui sono descritti gli impianti e le attività, le
tecniche adottate per limitare le emissioni e la quantità e la qualità di tali emissioni,
le modalità di esercizio, la quota dei punti di emissione individuata in modo da
garantire l'adeguata dispersione degli inquinanti, i parametri che caratterizzano
l'esercizio e la quantità, il tipo e le caratteristiche merceologiche dei combustibili di
cui si prevede l'utilizzo, nonché, per gli impianti soggetti a tale condizione, il minimo
tecnico definito tramite i parametri di impianto che lo caratterizzano
b) una relazione tecnica che descrive il complessivo ciclo produttivo in cui si
inseriscono gli impianti e le attività ed indica il periodo previsto intercorrente tra la
messa in esercizio e la messa a regime degli impianti
Prosegue
Procedimento: Conferenza di servizi /Raccordo con competenze 380/2001 e 1265/1934
Contenuto:
a) per le emissioni che risultano tecnicamente convogliabili, le modalità di captazione e di convogliamento;
b) per le emissioni convogliate o di cui é stato disposto il convogliamento, i valori limite di emissione, le
prescrizioni, i metodi di campionamento e di analisi, i criteri per la valutazione della conformità dei valori
misurati ai valori limite e la periodicità dei controlli di competenza del gestore, la quota dei punti di emissione
individuata tenuto conto delle relative condizioni tecnico-economiche, il minimo tecnico per gli impianti soggetti
a tale condizione e le portate di progetto tali da consentire che le emissioni siano diluite solo nella misura
inevitabile dal punto di vista tecnologico e dell'esercizio; devono essere specificamente indicate le sostanze a cui
si applicano i valori limite di emissione, le prescrizioni ed i relativi controlli;
c) per le emissioni diffuse, apposite prescrizioni finalizzate ad assicurarne il contenimento.
L'autorizzazione può stabilire, per ciascun inquinante, valori limite di emissione espressi come flussi di massa
annuali riferiti al complesso delle emissioni, eventualmente incluse quelle diffuse, degli impianti e delle attività di
uno stabilimento
Durata: 15 anni
Modifiche sostanziali e trasferimento
I valori limite di emissione si riferiscono alla quantità di emissione diluita nella misura che risulta inevitabile dal
punto di vista tecnologico e dell'esercizio
I valori limite di emissione si applicano ai periodi di normale funzionamento dell'impianto, intesi come i periodi in
cui l'impianto è in funzione con esclusione dei periodi di avviamento e di arresto e dei periodi in cui si verificano
Effetto bolla (270, IV)
Se più impianti con caratteristiche tecniche e
costruttive simili, aventi emissioni con caratteristiche
chimico-fisiche omogenee e localizzati nello stesso
stabilimento sono destinati a specifiche attività tra loro
identiche, l'autorità competente, tenendo conto delle
condizioni tecniche ed economiche, può considerare gli
stessi come un unico impianto disponendo il
convogliamento ad un solo punto di emissione.
L'autorità competente deve, in qualsiasi caso,
considerare tali impianti come un unico impianto ai fini
della determinazione dei valori limite di emissione.
Valori limite e
prescrizioni per attività
Con decreto da adottare ai sensi dell'articolo
281, comma 5, sono individuati, sulla base
delle migliori tecniche disponibili, i valori di
emissione e le prescrizioni da applicare alle
emissioni convogliate e diffuse degli impianti
ed alle emissioni diffuse delle attività presso
gli stabilimenti anteriori al 1988, anteriori al
2006 e nuovi
Impianti e attività in deroga
Autorizzazioni
generali
Per specifiche categorie di stabilimenti, individuate in relazione al tipo
e alle modalità di produzione, l'autorità competente può adottare
apposite autorizzazioni di carattere generale, relative a ciascuna
singola categoria, nelle quali sono stabiliti i valori limite di emissione,
le prescrizioni, anche inerenti le condizioni di costruzione o di
esercizio e i combustibili utilizzati, i tempi di adeguamento, i metodi di
campionamento e di analisi e la periodicità dei controlli
Almeno quarantacinque giorni prima dell'installazione il gestore degli
stabilimenti di cui al comma 2, presenta all'autorità competente o ad
altra autorità da questa delegata una domanda di adesione
all'autorizzazione generale corredata dai documenti ivi prescritti.
L'autorità che riceve la domanda può, con proprio provvedimento,
negare l'adesione nel caso in cui non siano rispettati i requisiti previsti
dall'autorizzazione generale o i requisiti previsti dai piani e dai
programmi o dalle normative di cui all'articolo 271, commi 3 e 4, o in
presenza di particolari situazioni di rischio sanitario o di zone che
richiedono una particolare tutela ambientale.
Poteri di ordinanza
(278)
1. In caso di inosservanza delle prescrizioni contenute
nell'autorizzazione, ferma restando l'applicazione delle sanzioni di cui
all'articolo 279 e delle misure cautelari disposte dall'autorità giudiziaria,
l'autorità competente procede, secondo la gravità dell'infrazione:
a) alla diffida, con l'assegnazione di un termine entro il quale le
irregolarità devono essere eliminate;
b) alla diffida ed alla contestuale temporanea sospensione
dell'autorizzazione con riferimento agli impianti e alle attività per i quali
vi è stata violazione delle prescrizioni autorizzative, ove si manifestino
situazioni di pericolo per la salute o per l'ambiente;
c) alla revoca dell'autorizzazione con riferimento agli impianti e alle
attività per i quali vi è stata violazione delle prescrizioni autorizzative, in
caso di mancato adeguamento alle prescrizioni imposte con la diffida o
qualora la reiterata inosservanza delle prescrizioni contenute
nell'autorizzazione determini situazioni di pericolo o di danno per la
salute o per l'ambiente
Impianti termici
civili
Titolo II
Campo di applicazione
Il presente titolo disciplina, ai fini della
prevenzione e della limitazione dell'inquinamento
atmosferico, gli impianti termici civili aventi
potenza termica nominale inferiore a 3 MW. Sono
sottoposti alle disposizioni del titolo I gli impianti
termici civili aventi potenza termica nominale
uguale o superiore.
2. Un impianto termico civile avente potenza
termica nominale uguale o superiore a 3 MW si
considera in qualsiasi caso come un unico impianto
ai fini dell'applicazione delle disposizioni del titolo I
Installazione e
modifica
Nel corso delle verifiche finalizzate alla dichiarazione
di conformità prevista dal decreto ministeriale 22
gennaio 2008, n. 37, per gli impianti termici civili di
potenza termica nominale superiore al valore di
soglia, l'installatore verifica e dichiara anche che
l'impianto è conforme alle caratteristiche tecniche di
cui all'articolo 285 ed è idoneo a rispettare i valori
limite di cui all'articolo 286. Tali dichiarazioni devono
essere espressamente riportate in un atto allegato
alla dichiarazione di conformità, messo a disposizione
del responsabile dell'esercizio e della manutenzione
dell'impianto da parte dell'installatore entro 30 giorni
dalla conclusione dei lavori.
Caratteristiche
tecniche
Gli impianti termici civili di potenza termica
nominale superiore al valore di soglia devono
rispettare le caratteristiche tecniche
previste dalla parte II dell'Allegato IX alla
parte quinta del presente decreto pertinenti
al tipo di combustibile utilizzato e le ulteriori
caratteristiche tecniche previste dai piani e
dai programmi di qualità dell'aria previsti
dalla vigente normativa, ove necessarie al
conseguimento ed al rispetto dei valori e
degli obiettivi di qualità dell'aria
Valori limite di
emissione
Le emissioni in atmosfera degli impianti termici civili di
potenza termica nominale superiore al valore di soglia devono
rispettare i valori limite previsti dalla parte III dell'Allegato IX
alla parte quinta del presente decreto e i più restrittivi valori
limite previsti dai piani e dai programmi di qualità dell'aria
I valori di emissione degli impianti di cui al comma 1 devono
essere controllati almeno annualmente dal responsabile
dell'esercizio e della manutenzione dell'impianto nel corso
delle normali operazioni di controllo e manutenzione. I valori
misurati, con l'indicazione delle relative date, dei metodi di
misura utilizzati e del soggetto che ha effettuato la misura,
devono essere allegati al libretto di centrale previsto dal
decreto del Presidente della Repubblica 26 agosto 1993, n. 412
Abilitazione alla
conduzione
Il personale addetto alla conduzione degli
impianti termici civili di potenza termica
nominale superiore a 0.232 MW deve essere
munito di un patentino di abilitazione
rilasciato da una autorità individuata dalla
legge regionale, la quale disciplina anche le
opportune modalità di formazione nonché le
modalità di compilazione, tenuta e
aggiornamento di un registro degli abilitati
alla conduzione degli impianti termici.
Combustibili
Titolo III
Campo di applicazione
Il presente titolo disciplina, ai fini della
prevenzione e della limitazione
dell'inquinamento atmosferico, le
caratteristiche merceologiche dei
combustibili che possono essere utilizzati
negli impianti di cui ai titoli I e II ed i
combustibili per uso marittimo
Norme tecniche
Semplicemente norme tecniche
Archivio selezionato: Dottrina
EMISSIONI DI ODORI E TUTELA AMBIENTALE (1)
Giur. merito 2002, 4-5, 1180
LUCIANO BUTTI
SOMMARIO: 1. GLI ODORI COME PROBLEMA SANITARIO O COME MOLESTIA. - 2. IL RUOLO DELLE EMISSIONI ODORIGENE
NELLA NORMATIVA EUROPEA. - 3. IL RUOLO DELLE EMISSIONI ODORIGENE NELL'ORDINAMENTO ITALIANO: CONSIDERAZIONI
GENERALI. - 4. LE EMISSIONI ODORIGENE NELLA NORMATIVA ITALIANA AMBIENTALE DI SETTORE. - 5. GLI STRUMENTI
SANZIONATORI PREVISTI DAL CODICE PENALE: ESISTONO EMISSIONI, ANCHE ODORIGENE, CHE, PUR RISPETTANDO NORME E
PRESCRIZIONI VIGENTI, SONO TUTTAVIA «ILLECITE»? - 6. GLI STRUMENTI CAUTELARI PREVISTI DAL CODICE DI PROCEDURA
PENALE. - 7. GLI STRUMENTI DI TUTELA (RISARCITORI E CAUTELARI) PREVISTI DAL CODICE CIVILE. - 8. I POTERI
DELL'AUTORITÀ AMMINISTRATIVA E IL SINDACATO DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO. - 9. LA DIFFICILE INDIVIDUAZIONE DEL
LIVELLO DI ODORE «INTOLLERABILE»: QUANDO UN ODORE VIENE CONSIDERATO «MOLESTO» DAL GIUDICE? - 10.
CONCLUSIONI: ATTRIBUIRE UN RUOLO DECISIVO ALLA NOZIONE DI «MIGLIORE TECNOLOGIA DISPONIBILE».
1. Gli odori come problema sanitario o come molestia.
Il tema degli odori non è certo nuovo, ed in particolare per quanto riguarda la Toscana possiamo
richiamare gli studi di Carlo Cipolla sulla storia sanitaria del '600 che ci ricordano il timore per «miasmi ed
umori, velenosissimi ed appiccicaticci». Su questo argomento Cipolla richiama anche testimonianze
dirette, come quella di Lorenzo Lucini, Capomastro, che nel 1607 così si espresse: «...tenghono il
concime di loro stalle fuori in sulla strada accanto alle mura il quale ribolle facendo gran fetore».
Sin dal passato si è cercato di eliminare o di ridurre gli odori sgradevoli, ma non in quanto fonte di
«molestia», bensì in ragione del fatto che gli odori costituivano un (presunto) specifico problema
sanitario. Infatti i miasmi erano considerati una fonte diretta, tramite l'inalazione o il contatto da parte
delle persone, del contagio pestilenziale. Considerato quindi l'allarme sociale collegato agli odori nella
società di un tempo, si può comprendere la drasticità dei rimedi adottati (come ad esempio la parziale
demolizione del castello di Bientina «acciò che i venti potessero entrare e uscire») o, più semplicemente,
proposti a carico dei responsabili («sarebbe bene farne gastigare qualcuno acciò che la molta clemenza
non generi disprezzo»).
Oggi invece le emissioni odorigene vengono per lo più considerate fonte di «molestia» e, tuttavia, in
alcuni casi possono causare una «molestia» tanto grave da determinare persino l'insorgere di patologie.
Permane tuttavia la difficoltà, che si è da sempre incontrata, consistente nel misurare l'odore. Anche se si
è fortunatamente abbandonata l'idea (riscontrabile negli scritti di Cartesio e Lucrezio) secondo la quale
taluni odori deriverebbero dalla forma «spigolosa e pungente» delle molecole.
2. Il ruolo delle emissioni odorigene nella normativa europea.
La difficoltà principale nell'inquadramento di questa tematica all'interno della normativa europea è
costituita dalla mancanza di una disciplina specifica e «trasversale» sugli odori.
Il rischio di molestia olfattiva è tuttavia considerato - ma con generiche disposizioni di indirizzo - nelle
principali direttive di settore.
Ad esempio in materia di rifiuti la Direttiva 1999/31/ CE del Consiglio, del 26 aprile 1999, relativa alle
discariche, nell'Allegato I (requisiti generali per tutte le discariche), punto 5 (disturbi e rischi), stabilisce
che: «si devono adottare misure che riducano al minimo i disturbi e i rischi provenienti dalla discarica
causati da: - emissioni di odori e polveri».
Oppure, in materia di marchio comunitario di qualità ecologica agli ammendanti del suolo e ai substrati di
coltivazione la Decisione della Commissione n. 2001/688/ CE, del 28 agosto 2001 riporta tra le
caratteristiche (Allegato - punto 5, lett. c): « I prodotti non devono generare odori sgradevoli in seguito
all'applicazione al suolo».
3. Il ruolo delle emissioni odorigene nell'ordinamento italiano: considerazioni generali.
La mancanza di una disciplina di settore sugli odori caratterizza non solo la normativa comunitaria, ma
anche la normativa italiana. Pertanto non rimane che valutare gli interventi del legislatore in relazione al
rischio di molestia olfattiva nelle principali discipline di settore.
L'art. 674 del c.p., rubricato «getto pericoloso di cose», costituisce la norma di riferimento all'interno del
codice penale in materia di molestia olfattiva. Come verrà in seguito esposto, l'utilizzazione di un reato di
carattere generale, che punisce tutte quelle immissioni che siano «atte a offendere o imbrattare o
molestare persone», ha portato ad una controversa applicazione giurisprudenziale dell'articolo richiamato.
Il codice civile regola la materia degli odori molesti sia sotto il profilo del risarcimento del danno causato
alle persone, sia sotto il profilo dei rimedi inibitori. In particolare, in relazione al primo aspetto, gli articoli
presi a riferimento dalla giurisprudenza sono l'art. 2043 c.c., cardine della responsabilità aquiliana, e l'art.
2050 c.c., sulla responsabilità per l'esercizio di attività pericolose.
Per quanto riguarda invece la tutela inibitoria, l'art. 844 c.c. consente al proprietario di far cessare quelle
immissioni che superino la «normale tollerabilità» rivolgendosi all'autorità giudiziaria, la quale a sua volta
dovrà contemperare, per espressa previsione del legislatore, «le esigenze della produzione con la ragione
della proprietà».
Si deve infine ricordare che la molestia olfattiva può costituire oggetto di provvedimenti dell'autorità
amministrativa finalizzati a prevenire ed a contenere gli odori. Ne consegue che il giudice amministrativo,
chiamato a dirimere le controversie sulla legittimità dei provvedimenti della pubblica amministrazione,
potrà anch'esso intervenire in questo settore.
4. Le emissioni odorigene nella normativa italiana ambientale di settore.
La prima questione che nasce dall'analisi della disciplina italiana di settore può essere riassunta nella
seguente domanda: la legge quadro sull'inquinamento atmosferico (d.P.R. 24 maggio 1988, n. 203)
disciplina anche gli odori?
La risposta viene fornita dal testo dell'art. 2 che così definisce l'«inquinamento atmosferico»: «ogni
modificazione della normale composizione o stato fisico dell'aria atmosferica, dovuta alla presenza nella
stessa di una o più sostanze in quantità e con caratteristiche tali da alterare le normali condizioni
ambientali e di salubrità dell'aria; da costituire pericolo ovvero pregiudizio diretto o indiretto per la salute
dell'uomo; da compromettere le attività ricreative e gli altri usi legittimi dell'ambiente».
Pertanto, pur non parlando espressamente dell'odore, la definizione di «inquinamento atmosferico»
indirettamente lo considera, poiché certamente la molestia olfattiva costituisce un possibile fattore di
«alterazione della salubrità dell'aria», e può certo «compromettere le attività ricreative e gli altri usi
legittimi dell'ambiente».
Dunque, in sede di rilascio dell'autorizzazione, la Regione (o la Provincia delegata), dovendo accertare
che siano previste «tutte le misure appropriate di prevenzione dell'inquinamento atmosferico» (art. 7,
comma 1, lettera a), è tenuta a considerare anche il rischio di molestia olfattiva, alla luce, naturalmente,
del concetto di «migliore tecnologia disponibile» (del quale si dirà oltre).
La conseguenza diretta dell'inclusione degli odori all'interno della legge quadro sull'inquinamento
atmosferico è che (pur mancando, come vedremo, precisi «valori di accettabilità» per gli odori) le
sanzioni previste dalla legge quadro per l'inosservanza delle prescrizioni di autorizzazione (art. 24,
comma 4, e 25, comma 2) potranno riguardare anche prescrizioni finalizzate al contenimento degli odori.
In questo senso si è espressa la Cassazione, sez. I, n. 5702 del 7 giugno 1996 (UD. 12 aprile 1996) RV.
205270, IMP. P.M. in proc. Mazzi: «Il d.P.R. 24 maggio 1988, n. 203, assume un concetto ampio di
inquinamento atmosferico, con la conseguenza che sono sottoposte alla normativa indicata tutte le
attività da cui derivi anche soltanto uno degli effettivi contemplati: alterazione della salubrità, pericolo o
danno alla salute, compromissione di usi legittimi da parte di terzi (In applicazione di detto principio la
Corte ha ritenuto la natura di emissione sottoposta alla disciplina di cui al d.P.R. n. 203 del 1988,
all'espulsione nell'atmosfera, tramite ventilatori, dell'aria interna di un capannone destinato
all'allevamento di conigli)».
Una volta stabilito che gli odori vengono disciplinati dal d.P.R. n. 203 del 1988, non rimane che verificare
se altre leggi quadro di settore contemplano il rischio di molestia olfattiva.
La risposta a questa domanda non può che essere affermativa in quanto:
- l'art. 2, comma 2, d.lg. n. 22 del 1997 (legge quadro sui rifiuti) prevede che: «I rifiuti devono essere
recuperati o smaltiti ... senza causare inconvenienti da rumori o odori» (trasposizione dell'art. 4 direttiva
75/442/ CEE, come modificata da direttiva 91/156/ CEE e seguita da norme analoghe nei decreti
attuativi);
- l'Allegato 5 del d.lg. n. 152 del 1999 (legge quadro sugli scarichi), al punto 4 della Tabella 3 contempla
espressamente il parametro «odore», che «non deve essere causa di molestie» (tanto per lo scarico in
acque superficiali come per quello in rete fognaria): pertanto la generica definizione di «inquinamento»
contenuta nell'art. 2z) della legge, pur non menzionando espressamente la molestia olfattiva, va intesa
come riferita anche a questo rischio.
5. Gli strumenti sanzionatori previsti dal codice penale: esistono emissioni, anche odorigene, che, pur
rispettando norme e prescrizioni vigenti, sono tuttavia «illecite»?
L'art. 674 del codice penale (Getto pericoloso di cose) prevede che: «Chiunque getta o versa, in un luogo
di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare
o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di
fumo, atti a cagionare tali effetti, è punito con l'arresto fino a un mese o con l'ammenda fino a lire
quattrocentomila».
Secondo la tesi prevalente in giurisprudenza (v. per tutti: C. cost. n. 127 del 1990; Cass. Pen., sez. III, n.
11295 del 1 ottobre 1999 (UD. 25 giugno 1999) RV. 214633, Zompa; Cass. pen., sez. III, 24 giugno
1985, Boni Brivio; Cass. pen., sez. I, 9 maggio 1995, n. 5215, Silvestro) questo reato trova applicazione
anche nel caso l'attività (molesta per i terzi, ad esempio perché fonte di odori) sia amministrativamente
regolare, in quanto cioè autorizzata in base al d.P.R. n. 203 del 1988 ed inferiore ai limiti tabellari e di
autorizzazione. Pertanto l'unica condizione per configurare il reato previsto dall'art. 674 c.p. è che «siano
derivate molestie alle persone dalla mancanza di accorgimenti tecnici possibili e doverosi» (Cass., sez.
III, n. 6598 del 3 giugno 1994, Roz Gastaldi).
Un opposto orientamento è stato però sostenuto inizialmente dalla dottrina (Fuzio, D'Angelo) e
successivamente accolto da una recentissima decisione della suprema Corte: Cass., sez. I, n. 8094 del 7
luglio 2000 (UD. 16 giugno 2000), secondo la quale: «Ai fini della configurabilità del reato previsto
dall'art. 674 c.p. (emissione di gas, vapori o fumi atti a molestare le persone), l'espressione «nei casi non
consentiti dalla legge» costituisce una precisa indicazione circa la necessità che tale emissione avvenga in
violazione delle norme che regolano l'inquinamento atmosferico (nella specie, del d.P.R. n. 203 del 1988).
Perciò non basta che le emissioni stesse siano astrattamente idonee ad arrecare fastidio, ma è
indispensabile la puntuale e specifica dimostrazione che esse superino gli standards fissati dalla legge
(nel quale caso il reato previsto dall'art. 674 c.p. concorre con quello eventualmente previsto dalla legge
speciale), mentre quando, pur essendo le emissioni contenute nei limiti di legge, abbiano arrecato e
arrechino concretamente fastidio alle persone, superando la normale tollerabilità, si applicheranno le
norme di carattere civilistico contenute nell'art. 844 c.c. (Fattispecie concernente l'emissione di fumo
dagli impianti di un oleificio)».
Si può quindi concludere constatando che, secondo la tesi prevalente, l'art. 674 prevede una diretta
tutela penale anche per le molestie olfattive, mentre secondo una diversa tesi la tutela è data
prevalentemente in sede civile (e rientra nel campo penale solo quando specifiche misure di prevenzione
degli odori siano inserite fra le prescrizioni di autorizzazione).
6. Gli strumenti cautelari previsti dal codice di procedura penale.
In tutti i casi nei quali è ipotizzabile un reato penale, le conseguenze più pesanti non derivano dalla
diretta applicazione delle sanzioni penali, assai modeste sia per quanto riguarda l'art. 674 c.p. (l'arresto
fino a un mese o l'ammenda fino a lire quattrocentomila), sia per quanto previsto dal d.P.R. n. 203 del
1988 (l'arresto sino ad un anno o l'ammenda sino a lire due milioni), soprattutto dopo la sentenza n. 234
del 1997 della Corte costituzionale.
Per entrambi i tipi di reato, inoltre, la regolarizzazione della situazione secondo le prescrizioni dell'autorità
amministrativa consente già oggi l'oblazione e, una volta attuata la delega prevista dalla recentissima
legge «emersione», verrà prevista una ulteriore causa estintiva del reato.
Come spesso accade nei reati ambientali, le conseguenze più serie per le imprese discendono dalla
possibile applicazione di misure di cautela, quale il sequestro degli impianti, la cui revoca può essere
condizionata all'adozione delle misure suggerite dalle «migliori tecnologie disponibili».
7. Gli strumenti di tutela (risarcitori e cautelari) previsti dal codice civile.
Come precedentemente anticipato, i principali strumenti di tutela previsti dalle leggi civili - ed applicabili
anche alle molestie olfattive - possono riassumersi (v. anche Cass., sez. un. civili, 15 ottobre 1998, n.
10186) in queste tre voci:
- risarcimento del danno ( ex art. 2043 e 2050 c.c.);
- azione inibitoria ( ex art. 844 c.c.);
- ordine del giudice di adeguare gli impianti.
Sia l'azione inibitoria che l'ordinanza del giudice si basano su dei criteri di non facile identificazione e
delimitazione quali, rispettivamente, la «normale tollerabilità» e le «migliori tecnologie disponibili». A
complicare ulteriormente la disciplina dello strumento inibitorio si aggiunge poi il bilanciamento richiesto
al giudice tra le ragioni dell'ambiente salubre e quelle, spesso configgenti, della produzione.
8. I poteri dell'autorità amministrativa e il sindacato del giudice amministrativo.
La pubblica amministrazione può intervenire a regolare le immissioni di odore a diversi livelli e sulla base
di differenti norme.
La Regione, o la Provincia eventualmente delegata, in sede di autorizzazione ex d.P.R. n. 203 del 1988,
può dettare prescrizioni anche per la prevenzione della molestia olfattiva (Cass., sez. I, n. 5702 del 7
giugno 1996 (UD. 12 aprile 1996) RV. 205270 IMP. P.M. in proc. Mazzi, già citata).
Inoltre il Sindaco - in presenza di un pericolo per la salute - può dettare ordinanze urgenti che impongano
l'adozione di misure volte a contenere gli odori (secondo Cons. Stato, sez. V, 15 febbraio 2001, n. 766, «il
sindaco è titolare di un'ampia potestà di valutazione della tollerabilità o meno delle lavorazioni provenienti
dalle industrie, classificate «insalubri», ... anche in epoca successiva all'attivazione dell'impianto
industriale. A seguito dell'avvenuta constatazione dell'assenza di interventi per prevenire ed impedire il
danno da esalazioni, il Sindaco può disporre, con la revoca del nulla-osta, la cessazione dell'attività»).
La legittimità di entrambi i tipi di provvedimenti - e la conseguente possibilità di annullamento da parte
del giudice amministrativo - dipendono dalla dimostrazione che gli interventi imposti rientrino o meno in
quelli suggeriti dalle migliori tecnologie disponibili.
9. La difficile individuazione del livello di odore «intollerabile»: quando un odore viene considerato
«molesto» dal giudice?
Come abbiamo visto sino a questo momento, per la molestia olfattiva mancano non solo valori limite, ma
anche sistemi ufficiali di rilevamento (nonostante siano possibili: la determinazione chimica dei principali
composti volatili «incriminati»; sensori elettrochimici del tipo «naso elettronico»; strumenti di analisi
olfattometrica con misura diretta dell'odore da parte di una commissione di «rino-analisti»).
Un discutibile orientamento della giurisprudenza attribuisce un ruolo decisivo alle percezioni soggettive
dei soggetti esposti, persino contro le risultanze obiettive sulle tecnologie adottate.
Così ad esempio, secondo Cass. pen., sez. I, 14 gennaio 2000, n. 407, Samengo: «In tema di getto o
emissioni pericolose, laddove trattandosi di odori manchi la possibilità di accertare obiettivamente, con
adeguati strumenti, l'intensità delle emissioni, il giudizio sull'esistenza e sulla non tollerabilità delle
emissioni stesse ben può basarsi sulle dichiarazioni dei testi, soprattutto se si tratta di persone a diretta
conoscenza dei fatti, come i vicini, o particolarmente qualificate, come gli agenti di polizia e gli organi di
controllo della Usl. Ove risulti l'intollerabilità, non rileva, al fine di escludere l'elemento soggettivo del
reato, l'eventuale adozione di tecnologie dirette a limitare le emissioni, essendo evidente che non sono
state idonee o sufficienti ad eliminare l'evento che la normativa intende evitare e
sanziona» (analogamente: Cass., sez. III, 16 dicembre 1999, Greppi).
Un sistema più ragionevole per determinare quale sia il grado di precauzione richiedibile agli operatori
consiste invece, a nostro avviso, nel fare riferimento alla nozione di «migliori tecnologie disponibili».
Conclusioni: attribuire un ruolo decisivo alla nozione di «Migliore Tecnologia Disponibile».
Dall'analisi compiuta emerge che - anche per la mancanza di valori e metodi ufficiali riguardanti l'odore la nozione fondamentale per assicurare equilibrio fra le ragioni della produzione e quelle dell'ambiente
salubre è quella di «migliore tecnologia disponibile» (M.T.D.).
Essa infatti è nella sostanza decisiva nei tre àmbiti del diritto (civile, penale ed amministrativo) che
disciplinano gli odori molesti.
Infatti, grazie alla nozione di «migliore tecnologia disponibile», si individuano innanzitutto le specifiche
cautele che possono essere imposte alle imprese con provvedimenti amministrativi, e si può determinare
l'esito del successivo eventuale contenzioso.
La stessa nozione consente inoltre di accertare la configurabilità dei reati penali e delle pesanti misure
cautelari possibili in sede penale, nonché, per finire, di individuare le misure che il giudice civile può
imporre ai sensi dell'art. 844 c.c..
La prima definizione di M.T.D. è contenuta nell'art. 2, n. 7 d.P.R. n. 203 del 1988: «sistema tecnologico
adeguatamente verificato e sperimentato che consenta il contenimento e/o la riduzione delle emissioni a
livelli accettabili per la protezione della salute e dell'ambiente, sempreché l'applicazione di tali misure non
comporti costi eccessivi». Rispetto a tale definizione la Corte costituzionale (sentenza n. 127 del 1990) ha
precisato che l'eccessività dei costi va valutata con riferimento alla media delle imprese di una categoria
(e non ad una singola impresa), e che essa non rileva quando debbano essere evitate specifiche e gravi
patologie.
La seconda definizione rilevante è contenuta nell'art. 2 del d.lg. n. 372 del 1999, attuativo della direttiva
96/61/ CE sulla prevenzione e controllo integrato degli inquinamenti: «la più efficiente e avanzata fase di
sviluppo di attività e relativi metodi di esercizio indicanti l'idoneità pratica di determinate tecniche a
costituire, in linea di massima, la base dei valori limite di emissione intesi ad evitare oppure, ove ciò si
riveli impossibile, a ridurre in modo generale le emissioni e l'impatto sull'ambiente nel suo complesso. Nel
determinare le migliori tecniche disponibili, occorre tenere conto in particolare degli elementi di cui
all'allegato IV. In particolare si intende per:
a) «tecniche», sia le tecniche impiegate sia le modalità di progettazione, costruzione, manutenzione,
esercizio e chiusura dell'impianto;
b) «disponibili», le tecniche sviluppate su una scala che ne consenta l'applicazione in condizioni
economicamente e tecnicamente valide nell'àmbito del pertinente comparto industriale, prendendo in
considerazione i costi e i vantaggi, indipendentemente dal fatto che siano o meno applicate o prodotte in
àmbito nazionale, purché il gestore possa avervi accesso a condizioni ragionevoli;
c) «migliori», le tecniche più efficaci per ottenere un elevato livello di protezione dell'ambiente nel suo
complesso».
Da notare, nella definizione del d.lg. n. 372 del 1999, oltre ad una assai più analitica definizione di
ciascun elemento dell'espressione «migliore tecnologia disponibile», un chiaro riferimento al fatto che
essa riguarda sia gli impianti tecnologici (l'hardware della prevenzione ambientale), sia le cautele
gestionali (il software della prevenzione ambientale).
Questa innovazione, che dimostra la crescente importanza dello sviluppo, all'interno dell'impresa, dei
Sistemi di Gestione Ambientale (SGA), trova con ferma anche nella giurisprudenza della Corte
costituzionale sugli ambienti di lavoro (sentenza n. 412/1996) (2)
Quest'ultimo punto merita un approfondimento.
La disponibilità di un SGA è utile sia in fase preventiva, per diminuire il rischio di inquinamenti (nel nostro
caso, collegati alla molestia olfattiva), sia in fase probatoria, poiché si dispone - nel caso comunque un
inconveniente (molestia olfattiva) si verifichi - di adeguata documentazione circa l'avvenuta utilizzazione
delle migliori tecnologie disponibili.
Quanto affermato assume maggior significato qualora si tenga presente che - per l'attività di impresa viene sempre più frequentemente applicato il criterio di responsabilità basato sull'art. 2050 c.c. (attività
pericolose).
In base a questo criterio non è il danneggiato a dover provare la colpa del (presunto) danneggiante,
bensè è il (presunto) danneggiante a dover fornire la prova positiva (e documentale) di aver fatto tutto il
possibile per evitare il danno.
Pertanto, documentare la conformità alla definizione di «migliore tecnologia disponibile» degli impianti e
delle procedure costituisce lo strumento migliore per evitare di incorrere nelle misure previste a livello
penale, civile ed amministrativo.
NOTE
(1) L'articolo costituisce il testo adattato di una relazione tenuta il 15 novembre 2001 a Firenze
nell'ambito del convegno «Tutela ambientale e molestia olfattiva » promosso dall'Istituto Calamandrei.
(2) La Corte ha infatti in questa sentenza esplicitamente riferito la nozione di Migliori Tecnologie
Disponibili, che l'impresa ha l'obbligo di adottare, non soltanto alle «applicazioni tecnologiche
generalmente praticate», ma anche agli «accorgimenti organizzativi e procedurali altrettanto
genericamente acquisiti»: e ciò con specifico riferimento alle «misure concretamente attuabili» di cui al d.
lg. n. 277 del 1991, ma con affermazioni di valenza potenzialmente assai più ampia.
Tutti i diritti riservati - © copyright 2002 - Dott. A. Giuffrè Editore S.p.A.
Archivio selezionato: Note
Industrie insalubri: chiariti i poteri attribuiti al Sindaco
Riv. giur. ambiente 2001, 2, 630
Barbara Giuliani,
Francesco Marzari
La pronuncia che si commenta ribadisce principi ormai consolidati e si presenta coerente con le
affermazioni della prevalente giurisprudenza in tema di industrie insalubri.
Come noto, l'articolo 216 del R.D. 27 luglio 1934, n. 1265, nel disciplinare le cosiddette lavorazioni
insalubri di prima classe (tra le quali rientra anche l'allevamento di pollame oggetto della controversia)
(61), prevede che esse debbano essere isolate in campagna, lontano dalle abitazioni, al fine di assicurare
la salubrità e la sicurezza di queste ultime; esse, tuttavia, possono essere autorizzate anche nei centri
abitati allorché l'imprenditore dimostri che, "per l'introduzione di nuovi metodi o speciali cautele",
l'esercizio dell'industria non arreca pregiudizio alcuno alla salute degli abitanti.
L'unanime giurisprudenza, nel confermare tale assunto, si dà cura di precisare che ricorrendo le suddette
condizioni di salubrità e sicurezza sarebbe vieppiù illegittimo l'eventuale diniego di ubicazione
dell'industria opposto dalla competente autorità così come sarebbe illegittimo, per violazione dell'art. 97
della Costituzione, il provvedimento che impedisse all'imprenditore di adottare quelle precauzioni
antinquinamento che, assicurando salubrità e sicurezza, legittimerebbero la permanenza dell'industria
nell'abitato.
La decisione che qui si annota, tuttavia, più che su quest'aspetto della norma, si sofferma sull'ampiezza
dei poteri attribuiti al Sindaco, sinteticamente delineati dalla disciplina normativa posta dal Testo unico
delle leggi sanitarie.
In primo luogo, afferma il Consiglio di Stato, la competenza del Sindaco in materia di lavorazioni insalubri
non appare mutata a seguito di provvedimenti legislativi quali il D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, o la legge
23 dicembre 1978, n. 833, quest'ultima istitutiva del Servizio sanitario nazionale.
I poteri sindacali, in particolare, non sono solo preventivi (sia in sede cautelare che autorizzatoria) ma
anche di vigilanza e repressivi. In altri termini, il Sindaco gode del potere, discrezionale (T.A.R. Sicilia,
Catania, 5 maggio 1997, n. 661 in T.A.R., 1997, I, 2839) ed esercitabile in ogni tempo (T.A.R. Emilia
Romagna, Bologna, Sez. II, 3 settembre 1997, n. 480, in T.A.R., 1997, I, p. 4003), di:
a) non autorizzare l'esercizio di un'industria insalubre nel centro abitato, quando non sia dimostrato che
essa non è pericolosa per la salute dei cittadini;
b) impedire la prosecuzione di tale lavorazione, se sono nel frattempo mutate le condizioni di fatto e
ambientali;
c) prescrivere speciali accorgimenti relativi allo svolgimento dell'attività, volti a prevenire, a tutela
dell'igiene e della salute pubblica, situazioni di inquinamento;
d) revocare tout court l'autorizzazione originariamente concessa, sempre che sia stata vanamente
prescritta l'adozione di cautele e misure idonee.
Il Sindaco, pertanto, può esercitare il proprio potere di tutela del diritto alla salute della cittadinanza in
qualsiasi momento e con la massima discrezionalità al fine di scegliere la soluzione più opportuna nel
caso concreto, in relazione al pubblico interesse ambientale. Deve escludersi, a questo proposito, che
l'amministrazione possa essere "gravata" da un interesse individuale dell'imprenditore alla prosecuzione
della sua attività né da un affidamento di questi ad una determinata localizzazione dell'impianto: prevale
il diritto costituzionalmente garantito alla salute dei cittadini.
Con un secondo passaggio argomentativo, la decisione dei magistrati di Palazzo Spada puntualizza che il
Sindaco, nell'esercitare i propri poteri, si avvale del supporto di un organo tecnico, l'Azienda sanitaria
locale, il cui parere ha natura "consultiva e endoprocedimentale" e non è vincolante (T.A.R. Lombardia,
Brescia, 1 settembre 1992, n. 946, in T.A.R., 1992, I, p. 4311) ma riveste particolare importanza sia per
la "diagnosi" degli eventuali pregiudizi arrecabili alla salute pubblica che per la promozione, in positivo,
degli strumenti di tutela della stessa (si vedano, in tal senso, T.A.R. Lombardia, Brescia, 12 giugno 1996,
n. 701 in T.A.R., 1996, I, p. 3132; T.A.R. Piemonte, Torino, Sez. I, 5 giugno 1996, n. 440 in T.A.R., 1996,
I, p. 3046).
Ciò premesso, si impongono ora alcune brevi notazioni.
La classificazione di una industria come insalubre dà luogo soltanto ad una presunzione iuris tantum di
insalubrità o pericolosità, sì che essa non può mai costituire una ragione sufficiente per bandire in
assoluto dal territorio comunale un'attività produttiva: in altri termini, la pericolosità deve essere
considerata non già in astratto, bensì in concreto, avendo riguardo alle tecnologie concretamente
impiegate dall'imprenditore, tecnologie che possono rendere priva di ogni pericolosità un'attività
potenzialmente nociva.
Sotto tale profilo, l'adozione da parte del Sindaco di misure repressive, tra le quali l'ordine di
allontanamento dell'abitato di una industria insalubre, è legittima solo se preceduta da una adeguata
istruttoria e supportata da una ampia ed articolata motivazione. In ogni caso, l'ordine di delocalizzazione
rappresenta un rimedio che può essere legittimamente prescritto solo qualora non sia possibile adottare
nuove tecnologie o precauzioni antinquinamento.
Inoltre, secondo la prevalente giurisprudenza, è irrilevante, ai fini della legittima adozione del
provvedimento di chiusura dello stabilimento, l'"avvicinamento" progressivo del centro abitato
all'impianto (una sorta, si potrebbe dire, di localizzazione superveniens), perché l'interesse cui risponde
quest'ultimo è sempre cedevole rispetto alle esigenze di protezione del primo. Anzi, a giudizio del
Consiglio di Stato, l'esigenza del Comune di "adeguare lo sviluppo urbanistico alle esigenze della
comunità amministrata" è senz'altro prevalente.
I poteri attribuiti al Sindaco comprendono, come si è visto, la revoca dell'autorizzazione originariamente
concessa, talché se ne può agevolmente desumere che quest'ultima non ha e non può avere valore "a
tempo indeterminato" ma, giusto al contrario, la sua attualità, validità e, si potrebbe aggiungere,
"sostenibilità" devono essere costantemente monitorate nel tempo: del resto, come già sottolineato, la
stessa inclusione di una determinata lavorazione negli elenchi delle industrie insalubri non è di per sé
dimostrativa della attuale pericolosità delle stesse, che deve essere invece valutata dall'autorità
amministrativa caso per caso.
L'esercizio di una lavorazione insalubre, pertanto, è lecito ed assentibile sino a quando si mantiene entro i
limiti della normale tollerabilità e non arreca nocumento alla salute dei cittadini: non appena vengano
meno queste condizioni, il Sindaco ha il potere ( rectius: il dovere) di fermare l'attività nociva, dando
adeguata prova e motivazione delle pericolosità dell'industria.
In ogni caso, prima di adottare provvedimenti cessazione o sospensione dell'attività produttiva, il Sindaco
dovrà previamente indicare le dettagliate e puntuali misure tecniche finalizzate ad eliminare i riscontrati
inconvenienti o a ridurli entro i limiti della tollerabilità.
Ciò significa, in buona sostanza, che l'esercizio del potere di prescrivere le norme tecniche da applicare
per prevenire o ridurre il danno o il pericolo per la salute pubblica presuppone una particolare
valutazione, condotta in maniera penetrante e specifica, della tollerabilità o meno dell'industria, in
relazione alle particolari condizioni del luogo ed eventualmente delle cautele tecniche necessarie a
renderle tollerabili (valutazione che non potrà limitarsi al semplice richiamo ad un elenco di industrie da
considerarsi insalubri in via teorica).
NOTE
(61) Gli allevamenti degli animali sono stati inclusi tra le lavorazioni insalubri di prima classe in
considerazione dei cattivi odori, rumori, rifiuti solidi e liquidi che essi comportano (si vedano D.M. 12
febbraio 1971, voce n. 35; D.M. 23 dicembre 1976, voce n. 31). La definizione "allevamenti di animali" va
inquadrata nel disposto dell'art. 216, T.U.L.S., al quale i suddetti decreti danno attuazione. Sebbene la
lettera della norma appaia generica e onnicomprensiva, poiché i termini "manifatture" e "fabbriche" non
escludono alcuna attività, appare però decisivo, ai fini di una corretta esegesi della norma, lo scopo da
questa perseguito, che è quello di impedire che dallo svolgimento di certe attività derivi pericolo per la
salute dei cittadini. Appare così estranea alla ratio della norma la contrapposizione (che rileva ad altri
effetti) tra attività industriali ed attività agricole, assumendo invece determinante rilevanza che si tratti di
lavorazioni insalubri. Sotto tale profilo, in considerazione degli scopi perseguiti dal legislatore, l'inclusione
degli "allevamenti di animali" tra le "industrie insalubri di prima classe" non può esser resa vana da
argomenti di natura lessicale.
Tutti i diritti riservati - © copyright 2002 - Dott. A. Giuffrè Editore S.p.A.
all'ambiente: l'intervento in giudizio degli enti territoriali e delle associazioni ambientaliste, in Riv. giur.
amb., 2002, I, 129, nota a Trib. Venezia, 12 giugno 2001: "La giurisprudenza civile ha risolto il quesito
nel senso che gli enti territoriali vantano, in virtù delle disposizioni in esame che contengono l'esplicita
configurazione del danno ambientale, la legittimazione all'esercizio dell'azione risarcitoria anche degli enti
territoriali e l'espressa attribuzione della competenza giurisdizionale al giudice ordinario, una posizione
qualificabile come di diritto soggettivo legittimante, quindi, l'azione di danno come concorrente con quella
dello Stato".
(38) "Le associazioni di protezione ambientale a carattere nazionale e quelle presenti in almeno cinque
regioni sono individuate con decreto del Ministro dell'ambiente sulla base delle finalità programmatiche e
dell'ordinamento interno democratico previsti dallo statuto, nonché della continuità dell'azione e della sua
rilevanza esterna, previo parere del consiglio nazionale per l'ambiente da esprimere entro 90 giorni dalla
richiesta. Decorso tale termine senza che il parere sia stato espresso, il Ministro dell'ambiente decide".
(39) Per una recente sentenza sul ruolo delle associazioni ambientaliste, cfr. TAR Piemonte, Sez. II, 26
maggio 2008, n. 1217, in www.lexambiente.it.
(40) Art. 18, comma 5, "le associazioni individuate in base all'art. 13 della presente legge possono
intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per
l'annullamento di atti illegittimi"; comma 4, "le associazioni di cui al precedente art. 13 e i cittadini, al
fine di sollecitare l'esercizio dell'azione da parte di soggetti legittimati, possono denunciare i fatti lesivi di
beni ambientali dei quali siano a conoscenza".
(41) La finanziaria non faceva alcun cenno alla regolamentazione delle associazioni ambientaliste, quindi,
si deduce che esse potessero adire giudice ordinario e giudice amministrativo (e ovviamente ricorso
presso il Presidente della Repubblica), ma è molto difficile trovare un raccordo tra i due giudizi: l'art. 440
non istituiva una correlazione tra le due controversie, se non sancendo che il fatto del ripristino o del
pagamento del ristoro impediva ulteriori aggravi di costo (la norma mira ad impedire, pur senza abrogare
l'art. 18 della l. n. 349/1986, una duplicazione di ristoro).
(42) Nella vicenda dei fanghi rossi di Scarlino (Corte conti, Sez. I, 9 ottobre 1979, n. 81, in Foro it.,
1979, III, 593; Corte conti, Sez. riun., 10 giugno 1984, n. 378/A, in Foro it., 1985, 37, con nota di
VERRIENTI), concernente il giudizio di responsabilità promosso dal Procuratore generale della Corte dei
conti contro il Comandante pro tempore della capitaneria di Porto di Livorno ed il direttore del Laboratorio
centrale di idrobiologia del Ministero dell'agricoltura e delle foreste, per avere autorizzato scarichi in mare
di residui altamente inquinanti, derivanti dalla produzione del biossido di titanio dello stabilimento di
Scarlino della Montacatini Edison S.p.A., si nega la giurisdizione contabile della Corte dei conti per pretese
risarcitorie nei confronti di funzionari che abbiano dolosamente o colposamente cagionato pregiudizio
all'ambiente, trattandosi di azioni devolute alla cognizione del giudice ordinario. Importante a questo
proposito è, inoltre, la vicenda Seveso, 10 luglio 1976 (Corte conti, Sez. I, 19 gennaio 1979, in Foro it.,
1979, III, 138); nel caso in questione la fuoriuscita di diossina da uno stabilimento industriale aveva
causato un danno all'ambiente, ma un danno anche agli abitanti e lavoratori della zona: Sez. Un. civ., 21
febbraio 2002, n. 2515, in questo Rivista, 2002, 727, con nota di FEOLA, Il prezzo dell'inquietudine: il caso
"Seveso" torna in Cassazione. Per un approfondimento del concetto di disastro ambientale, cfr. COCCO, Il
disastro ambientale (art. 434 c.p.), in questa Rivista, 2008, 1334.
(43) Cfr. nota n. 2; in questa sentenza la Corte costituzionale afferma la immaterialità del danno
ambientale come diritto assoluto, la sua rilevanza economica, il suo carattere pubblicistico.
(44) In Giur. cost., 2007, 6.
(45) FERRARI,Il danno ambientale in cerca di giudice e di interpretazione: l'ipotesi dell'ambiente valore, in
Regioni, 1988, 525; ed anche Trib. Venezia, 12 giugno 2001, in Riv. giur. amb., 2002, 124, con nota di
BELTRAME.
Archivio selezionato: Dottrina
Le politiche ambientali in Italia nella transizione del Ventesimo secolo
Riv. giur. ambiente 2008, 05, 755
JOSÉ LUIS BERMEJO LATRE (*)
1. Percorso evolutivo e valutazione generale. 2. I principali indicatori della normativa ambientale italiana.
2.1. Qualità dell'aria e monitoraggio dell'inquinamento atmosferico. 2.2. Inquinamento acustico. 2.3.
Qualità delle acque e protezione del suolo contro l'erosione e l'inquinamento. 2.4. Gestione,
valorizzazione e smaltimento dei rifiuti. 2.5 La tutela del paesaggio. 2.6. La protezione della biodiversità:
fauna, flora e spazi naturali protetti. 2.7. Inquinamento elettromagnetico. 2.8. Inquinamento radioattivo.
3. L'organizzazione amministrativa italiana nell'ambito della tutela dell'ambiente: analisi dell'evoluzione e
funzioni, organi di rappresentazione e partecipazione. 4. Conflitti ambientali e stato delle risorse naturali.
1. Percorso evolutivo e valutazione generale.
Negli anni Sessanta e Settanta del XX secolo si assiste alla nascita e al consolidamento delle prime norme
ambientali in Italia sulla scia di uno scenario di crescente preoccupazione ecologica in ambito mondiale
(plasmato dall'entrata in vigore nel 1970 dell'Environmental Policy Act statunitense, la Conferenza
dell'ONU a Stoccolma nel 1972, il "Rapporto sui limiti dello sviluppo" diretto da Dennis Meadow nel 1972,
l'inserimento dell'articolo 30 sulla protezione, conservazione e valorizzazione dell'ambiente nella "Carta
dei diritti e doveri economici degli Stati" adottata dall'ONU nel 1974) e grazie al ruolo trainante dell'allora
Comunità Economica Europea (I Programma di azione ambientale del 1973, promulgazione della direttiva
79/409/CEE, del Consiglio, del 2 aprile concernente la Conservazione di uccelli selvatici).
Una delle specificità del Diritto ambientale italiano risiede nella distinzione tra i beni naturali o
paesaggistici e l'ambiente, concepiti come oggetti differenziati di tutela giuridica, avvalendosi i primi di
un'espressione normativa iniziale risalente al 1939 con antecedenti negli anni Venti del secolo XX e una
menzione specifica nell'articolo 9 della Costituzione italiana e di strutture amministrative specifiche che
ne curano la gestione (nel 1974 venne istituito, su richiesta del Ministro Spadolini, il Ministero per i beni
culturali ed ambientali che, divenuto Ministero per i beni e le attività culturali, convive dal 1986 con il
Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio).
Tuttavia, pur considerando l'innegabile proiezione ambientale del paesaggio (associata alla sua spiccata
componente culturale e urbanistica), è necessario insistere su quanto sia relativamente recente la
promulgazione di una normativa ambientale in senso stretto, che, innestata nel corpus della Costituzione
come diramazione dell'articolo 32 (che considera la "tutela della salute come fondamentale diritto
dell'individuo ed interesse della collettività"), sarà consacrata giuridicamente solo attraverso il processo di
regionalizzazione generalizzata, come analizzeremo nel capitolo dedicato all'evoluzione organica
dell'amministrazione ambientale in Italia.
In effetti, il primo riferimento normativo formale e preciso all'ambiente si trova in un decreto del
Presidente della Repubblica del 13 febbraio 1964, sulla protezione contro le radiazioni nucleari. A partire
da questo momento, le riforme della legislazione urbanistica del 1967 e del 1968 introducono una
menzione ai "complessi ambientali" e alle "zone di carattere ambientale", mentre la legge 23 dicembre
1978 in materia di riforma del Servizio Sanitario Nazionale esprime l'aspirazione ad una pianificazione
urbanistica ambientalmente compatibile e attribuisce alle Unità Sanitari Locali la facoltà di verificare la
compatibilità degli strumenti di pianificazione urbanistica con la tutela dell'ambiente e della salute.
Contemporaneamente, viene approvata la legge 10 maggio 1976 sulla tutela delle acque
dall'inquinamento (c.d. "legge Merli") che sottopone gli scarichi ad autorizzazione amministrativa.
Tuttavia è solo nella prima delega delle competenze alle appena costituite Regioni che si deve ricercare il
fattore scatenante del successo delle politiche ambientali. Il decreto del Presidente della Repubblica del
24 luglio 1977 (D.P.R. 616/1977) si riferisce alla valorizzazione dell'ambiente naturale come sinonimo di
difesa della natura, superando le precedenti concezioni riduzioniste e integrando la protezione
dell'ambiente nel corpus urbanistico, mantenendo e confermando la categoria concettuale dei beni
ambientali come espressione emblematica (insieme alle aree naturali protette) dell'attenzione del
legislatore per la natura. Conformemente a quanto sancito in questa norma, allo Stato spetta unicamente
l'esercizio diretto di una serie di funzioni amministrative tassative, si limita il suo intervento nei restanti
casi alle funzioni di direzione e coordinazione e si identificano le linee fondamentali dell'ordinamento del
territorio nazionale, con particolare riferimento all'articolazione territoriale degli interventi di interesse
statale, alla tutela ambientale ed ecologica del territorio e alla difesa del suolo. La regionalizzazione delle
competenze ambientali ha rappresentato un punto di forza nei confronti della difesa della natura, nella
misura in cui si è moltiplicata l'attività pubblica (legislativa, ma anche amministrativa) a beneficio della
salvaguardia ambientale. Un caso esemplificativo è rappresentato dalla dichiarazione degli spazi protetti:
nel 1983 le Regioni avevano dichiarato Parco Naturale circa 476.000 ettari, superficie di un terzo
superiore a quella coperta dai Parchi Nazionali (circa 316.000 ettari).
Dalla metà degli anni Ottanta in poi, la trasposizione delle direttive comunitarie e l'adempimento degli
impegni internazionali assunti in materia ambientale sono divenuti fattori determinanti dell'orientamento
delle politiche ambientali in Italia, come dimostra l'origine della maggior parte dei testi fondamentali del
Diritto ambientale italiano, derivati dalla ratifica di Convenzioni internazionali o dall'incorporazione al
diritto interno delle direttive comunitarie. L'Italia si trova tra i Paesi che hanno ratificato sin dal loro inizio
tutte le Convenzioni internazionali sottoscritte in materia di tutela dell'ambiente: inquinamento
atmosferico attraverso le frontiere a lunga distanza (Ginevra), cambiamento climatico (ONU, con i
fondamentali Protocolli di Montreal, Kyoto e Göteborg), inquinamento marittimo causato da navi (la serie
di Londra), sicurezza nucleare (Vienna), protezione e utilizzazione dei corsi d'acqua transfrontalieri e dei
laghi internazionali (Helsinki), protezione della biodiversità (Rio de Janeiro), informazioni e partecipazione
in materia ambientale (Aarhus). Ugualmente, nonostante i continui ritardi e le lacune rilevate dalla
Commissione europea e sanzionate dalla Corte di Giustizia la trasposizione delle direttive comunitarie in
materia ambientale ha sostanziato i blocchi tematici quantitativamente più significativi dell'Ordinamento
ambientale italiano: come nel caso del decreto legislativo n. 351 del 4 agosto 1999 (in attuazione della
direttiva 96/62/CE in materia di valutazione e di gestione della qualità dell'aria ambiente), della legge n.
36 del 5 gennaio 1994 (c.d. "legge Galli", in attuazione delle direttive 91/271/CEE concernente il
trattamento delle acque reflue urbane e 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque
dall'inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole) e del decreto legislativo n. 22 del 15
febbraio 1997 (c.d. "decreto Ronchi" in attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui
rifiuti pericolosi e 94/62/CE in materia di imballaggi e rifiuti di imballaggio).
Oltre alle esperienze di carattere squisitamente normativo, le politiche ambientali hanno utilizzato anche
altri veicoli di promozione, programmatici, finanziari e fiscali: ad esempio, l'introduzione dell'ecotassa
"carbon tax" sul consumo di idrocarburi fossili prevista dalla legge Finanziaria 1999 per orientare il
mercato energetico e industriale verso una maggiore efficienza e migliori condizioni ambientali;
l'approvazione della Strategia d'azione ambientale per lo sviluppo sostenibile in Italia da parte del
Comitato interministeriale per la Pianificazione economica attraverso la sua deliberazione n. 57 del 2
agosto 2002 (con il proposito di integrare la tutela ambientale alle politiche economiche e industriali),
l'approvazione del Piano nazionale trasporti o l'istituzione di premi per stimolare l'innovazione ambientale,
le tecnologie pulite, le città sostenibili e le città per bambini e bambine.
Il caos che ha sommerso la normativa ambientale nel corso di questi anni, derivato dell'accumulazione di
norme provenienti da diverse fonti sia formali che funzionali (Parlamento, Assemblee regionali; testi
rivisti; regolamenti presidenziali, governativi, ministeriali; Accordi di programma, norme di bilancio e
finanziarie, penali ed amministrative), non coinvolge solo questa materia. Ma è proprio agli inizi del XXI
secolo che si sviluppa il tentativo di rispondere al problema con soluzioni efficaci, alla luce della patente
insufficienza del processo di semplificazione amministrativa avviato nel 1997 dal Ministro Bassanini.
Pertanto, su richiesta del Ministro Matteoli, il Parlamento delegò al Governo il riordino, la coordinazione e
l'integrazione della legislazione ambientale (legge n. 308 del 15 dicembre 2004), con l'obiettivo di
redigere un Codice dell'ambiente attraverso l'approvazione di una serie di testi unici nei quali si riassume
l'azione normativa ambientale articolata in blocchi tematici: gestione dei rifiuti e bonifica dei siti inquinati;
difesa del suolo contro l'erosione e lotta alla desertificazione, tutela delle acque dall'inquinamento e
gestione delle risorse idriche; gestione degli spazi protetti e conservazione di specie protette di flora e
fauna; responsabilità civile per danni all'ambiente; procedure per la valutazione d'impatto ambientale
(VIA), valutazione ambientale strategica (VAS) e autorizzazione ambientale integrata (IPPC); tutela
dell'aria e riduzione delle emissioni in atmosfera.
L'impostazione adottata per la stesura del Codice si impernia su quattro profili strategici: integrazione
delle direttive comunitarie ancora non recepite dalla legislazione italiana, accorpamento di tutte le
disposizioni in vigore in ciascun settore, ordinamento della disciplina di tutte le autorizzazioni ambientali
(ad eccezione di quelle previste per le grandi opere pubbliche) e unificazione della disciplina generale
concernente la valutazione ambientale sotto la responsabilità di una Commissione specifica che opera
nell'ambito del Ministero dell'ambiente. Tra le principali novità del testo emerge l'introduzione di
meccanismi più incisivi per la riscossione immediata dei crediti vantati in materia di risarcimento dei
danni ambientali, l'istituzione della "Autorità di Vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti" in sostituzione
del "Comitato di vigilanza sull'uso delle risorse idriche" e dell'"Osservatorio nazionale dei rifiuti", la
revisione delle tariffe sui rifiuti, l'aggregazione delle attuali Autorità di bacino all'interno delle Autorità di
distretto incaricate di elaborare Piani idrologici di riferimento; l'introduzione dell'analisi di rischio per le
operazioni di bonifica di siti inquinati, ecc. Che il riordino e la semplificazione normativa attuati dal Codice
possa alterare la tendenza al degrado ambientale di cui soffre l'Italia è piuttosto improbabile. Infatti,
nonostante l'alto grado di sedicente sensibilità dei cittadini ai problemi dell'ambiente, i dati oggettivi che
potrebbero indicare una preoccupazione reale per la conservazione della natura non sono affatto
incoraggianti (valga come esempio il 18% circa delle edificazioni realizzate nel paese senza licenza
edilizia). Questa inclinazione all'inosservanza dell'Ordinamento giuridico, e in particolare di quello in
materia ambientale, diviene ancora più palese se ricollegata al piano istituzionale, dove si verifica una
permanentemente tardiva trasposizione delle direttive comunitarie. Non invano nel corso del periodo
analizzato, l'Italia ha accumulato oltre trenta condanne della Corte di Giustizia (di fronte alle quasi venti
imposte alla Spagna) per il mancato adeguamento del diritto interno in materia di qualità delle acque per
la coltura dei molluschi, limiti delle emissioni sonore di macchine industriali, dichiarazione di aree di tutela
per gli uccelli, protezione delle acque dall'inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole,
valutazione dell'impatto ambientale di alcune infrastrutture (caso della variante "Lotto zero" TeramoGiulianova), custodia di animali selvatici nei giardini zoologici, incenerimento di rifiuti, smaltimento di
fanghi di depurazione, gestione dei rifiuti in numerose discariche.
Quanto considerato delinea un quadro in netto contrasto con l'intensa attività sviluppata dal Terzo Settore
italiano dedicato alla tutela dell'ambiente, tessuto nel quale si inseriscono Enti quasi secolari, come il Club
Alpino Italiano, organizzazione a carattere turistico-sportivo ma con un'innegabile vocazione ambientale,
una pleiade di associazioni in ambito locale e regionale dedicate specificamente a determinati problemi
ambientali, associazioni di tipo professionale (Associazione analisti ambientali), enti di settore (Lega
Italiana dei Diritti dell'animale) e sezioni nazionali di organizzazioni generaliste che si sviluppano in
ambito globale (Green Cross, WWF, Greenpeace, Birdlife).
Tre associazioni tra tutte meritano una menzione speciale, proprio perché si sono consolidate nel periodo
analizzato: in primo luogo, il Fondo per l'Ambiente Italiano, fondazione privata per la salvaguardia del
patrimonio artistico e naturalistico, fondata nel 1975 sul modello dei National Trust britannici, per
l'iniziativa, tra altri, del Professore di Diritto amministrativo e noto ambientalista Alberto Predieri, che
conta oggi 62.000 aderenti e gestisce 36 beni paesaggistici. Poi la Lega Italiana Protezione Uccelli, attiva
dal 1965 e riconosciuta dal 1985, che, sostenuta da 42.000 aderenti, gestisce una rete di circa 60 aree
protette minori e centri recupero di uccelli, oltre a sviluppare progetti di conservazione, ricerca scientifica,
consulenza, sensibilizzazione ed educazione ambientale, lobby e monitoraggio. Infine, è d'obbligo citare
Legambiente, l'associazione ambientalista più diffusa in Italia, con oltre 110.000 membri e sostenitori
sparsi capillarmente su tutto il territorio in circoli locali e comitati regionali. Questa associazione svolge
importanti attività di informazione e sensibilizzazione sull'ambiente, promovendo campagne che sin dal
loro titolo rivelano l'attenzione prestata ai diversi ambiti sensibili dell'ambiente (Goletta verde, Treno
verde, Salvalarte, Mal'aria, Cambio di clima). È, inoltre, responsabile delle pubblicazioni annuali Ambiente
Italia, Rapporto sulle ecomafie, Ecosistema urbano, Mare monstrum, Comuni ricicloni e della rivista
mensile La Nuova Ecologia.
In generale, si potrebbe affermare che le politiche ambientali sviluppate in Italia negli ultimi trent'anni
sono caratterizzate da un equilibrio paradossale a tutti i livelli: l'ipertrofia e la complessità normativa
riflettono una volontà politica di esaurire il campo delle possibili soluzioni ai problemi dell'ambiente; la
leadership mondiale sul piano della salvaguardia dell'intorno naturalistico è offuscata dal ritegno mostrato
al momento di mettere in pratica gli obiettivi proposti dalle norme internazionali in materia; il
decentramento delle competenze ha favorito il sorgere di formule e di istanze per la prevenzione e il
monitoraggio delle aggressioni all'ambiente, spesso in detrimento dell'efficacia della normativa, esposta
al rischio di dispersione e debolezza burocratica. Non solo, il paradosso si manifesta anche
nell'atteggiamento dell'industria e dei cittadini nei confronti della conservazione della natura nella misura
in cui in entrambe si riscontra un'ottima risposta formale ai temi ambientali accompagnata, però, da una
attuazione lacunosa: l'industria ambientale italiana (mezzi di trasporto ecologici e puliti, fonti di energia
rinnovabili, nuovi combustibili, sistemi avanzati di trattamento di acque reflue, sistemi di gestione
integrata e riciclaggio di rifiuti) è ai primi posti, ma rimane in coda rispetto alla Germania, registrando un
fatturato pari al 20% di quello tedesco; l'utilizzo delle eco-certificazioni e dello eco-etichette è scarso,
mentre il consumo di territorio e di risorse idriche è elevatissimo, come la produzione dei rifiuti urbani
(più di mezza tonnellata pro-capite, della quale più della metà viene eliminata) e i trasporti continuano ad
essere effettuati essenzialmente su strada (circa due terzi nei percorsi superiori a 50 km). In un simile
contesto possiamo solo augurarci che lo sviluppo economico in l'Italia possa avvalersi delle nuove fonti di
profitto per l'agricoltura, l'industria ed il turismo offerte dalla tutela dell'ambiente e mettersi al servizio
della sua salvaguardia e rigenerazione.
2. I principali indicatori della normativa ambientale italiana.
2.1. Qualità dell'aria e monitoraggio dell'inquinamento atmosferico. La normativa italiana inerente alla
protezione della qualità dell'aria è il risultato dell'adesione dell'Italia alle Convenzioni internazionali in
materia di inquinamento atmosferico transfrontaliero e lotta contro le emissioni di componenti organici
volatili, protezione della cappa di ozono, inquinanti organici persistenti e, ultimamente, cambio climatico.
In tal senso, sin dagli inizi degli anni Ottanta si sono promulgate leggi di ratifica e attuazione dei rispettivi
Trattati, come le leggi n. 289 del 27 aprile 1982 (Ginevra I 1979), n. 146 del 12 aprile 1995 (Ginevra II
1991), n. 277 del 4 luglio 1988 (Vienna, 1985), n. 549 del 28 dicembre 1993 (Protocollo di Montreal,
1987) e, più recentemente e particolarmente ragguardevole, la legge n. 120 del 1° giugno 2002
(Protocollo di Kyoto). In modo simile, l'internalizzazione delle successive direttive sulla protezione della
qualità dell'aria (molte delle quali provenienti dalla ratifica da parte dell'Unione Europea delle citate
Convenzioni internazionali) ha configurato il contenuto della normativa e della politica sulla protezione
contro l'inquinamento atmosferico.
Di fatto tutte le norme italiane in materia, sin dal D.P.C.M. 28 marzo 1983 (che fissa i limiti massimi di
accettabilità delle concentrazioni e delle esposizioni ad inquinanti dell'aria e i relativi metodi di prelievo e
analisi dei dati) si sviluppano sulla base di questi stessi principi orientativi, che sottendono anche al
provvedimento che più essere considerato una autentica pietra miliare: il decreto legislativo 4 agosto
1999, n. 351 in attuazione della direttiva 96/62/CE (valutazione e gestione della qualità dell'aria) e il
corrispondente regolamento di attuazione (D.M. n. 60 del 2 aprile 2002, in recepimento della direttiva
figlia 1999/30/CE relativa a SO2, NOx, piombo e particelle PM10; 2000/69/CE relativa a benzene e CO e
2002/03/CE relativa a ozono troposferico). Negli anni Ottanta e Novanta si sono succedute le norme
regolamentari corrispondenti in virtù delle quali si precisavano e aggiornavano i valori massimi di
concentrazione di inquinanti e i termini di applicazione, che in alcuni casi oltrepassano il periodo
esaminato.
A grandi linee, la politica di protezione della qualità dell'aria si sostenta sull'esistenza di reti di
monitoraggio e controllo dell'inquinamento atmosferico in grado di promuovere lo scambio di informazioni
e la costituzione della rete europea Euroairnet; l'individuazione di valori massimi e soglie d'allarme il cui
superamento determina l'attivazione di misure di pianificazione (piani regionali di tutela e risanamento) e
della limitazione a livello comunale di circolazione dei veicoli; l'adozione di modalità di progressiva
sospensione della produzione, commercializzazione e uso di sostanze nocive per l'ozono; l'imposizione di
soglie massime di benzene e idrocarburi aromatici nella benzina; l'obbligo di controllo periodico delle
emissioni sia di alcune industrie ed impianti sia di ogni tipo di veicoli a motore, ecc. Inoltre, a partire dalla
fine degli anni Novanta si cominciano ad introdurre strumenti alternativi quali la promozione di soluzioni
innovative per la mobilità urbana ("domeniche senza automobile", car sharing), oltre a misure finanziarie
per la rinnovazione del parco automobilistico, per la riconversione dei veicoli a gas e metano o per la
promozione dei biocarburanti.
Ultimamente si sta prestando una speciale attenzione ai problemi derivati dalle emissioni di CO2 a
seguito della ratifica del Protocollo di Kyoto. Il "Piano nazionale per la riduzione delle emissioni di gas
responsabili dell'effetto serra, 2003-2010" è stato adottato con la delibera 19 dicembre 2002 del
Comitato interministeriale per la Pianificazione economica e successivamente si è intrapresa
l'assegnazione delle quote di emissione in virtù della legge n. 316 del 30 dicembre 2004. L'obiettivo di
riduzione, come si vedrà più avanti, risulta troppo ambizioso rispetto allo sforzo industriale esigibile,
fattore che rischia di comprometterne i risultati se non si rafforzano le politiche di energia e trasporto
(che si rivelano, per il momento, le più lesive nei confronti dell'atmosfera e, al contempo, dimostrano una
maggiore rigidezza).
2.2. Inquinamento acustico. L'attenzione nei confronti di questo problema di inquinamento ambientale è
relativamente recente, risale, infatti, alla legge quadro n. 447 del 26 ottobre 1995 sull'inquinamento
acustico, norma che distingue le sorgenti sonore in due categorie (fisse e mobili) e introduce, come
parametri e obiettivi generali di prevenzione e tutela, diversi valori limite ("di emissione", "di immissione
assoluta o differenziale", "di attenzione", "di qualità").
La legge obbliga i Comuni a classificare il proprio territorio in base al profilo acustico (azione già
promossa dal D.P.C.M. dell'1 marzo 1991) applicando i criteri definiti dalle leggi regionali. Inoltre, viene
imposto ai Comuni che superino i valori di attenzione, l'obbligo di approvare piani di risanamento acustico
e ai Comuni con una popolazione superiore ai 50.000 abitanti di presentare una relazione biennale sullo
stato acustico del proprio territorio. Si configurano, inoltre, un Piano regionale triennale di risanamento
acustico, la valutazione di impatto acustico e di clima acustico di alcune attività e le modalità di rilascio
delle autorizzazioni comunali per lo sviluppo di attività temporanee rumorose.
Per quanto riguarda le altre aree tematiche, questa legge viene affiancata da una serie di decreti di
applicazione (D.M. del 31 ottobre 1997, D.P.C.M. del 14 novembre 1997, D.P.C.M. del 5 dicembre 1997,
D.P.R. del 18 novembre 1998, D.M. del 16 marzo 1998, D.P.C.M. del 16 aprile 1999, D.M. del 3 dicembre
1999, D.M. del 29 novembre 2000, D.P.R. del 30 marzo 2004) che stabiliscono le soglie limite delle
sorgenti sonore e le tecniche per il rilevamento e la misurazione dell'inquinamento acustico, stabiliscono i
requisiti acustici passivi degli edifici, dispongono le metodologie di misurazione del rumore e l'adozione da
parte di commissioni specifiche di procedure antirumore in ogni aeroporto civile, adottano misure di
prevenzione dall'inquinamento acustico derivante dal traffico veicolare e del traffico ferroviario (mediante
l'installazione di dispositivi di sorveglianza e contenimento sui binari e l'adozione di piani di abbattimento
del rumore) e determinano i requisiti acustici delle sorgenti sonore nei luoghi di intrattenimento danzante
e di pubblico spettacolo.
Un tale quadro normativo, basato su una legislazione regionale attuativa della normativa statale e
dell'orientazione delle attività comunali di prevenzione e risanamento, pianificazione multilivello e
strumenti di controllo preventivo vincolati al rilascio di alcune licenze per costruire da sviluppare in aree
particolarmente sensibili, risulta complicato e rigido, determinando un livello piuttosto carente di
esecuzione e adempimento (in termini di scarsezza di piani acustici municipali approvati). La direttiva
2002/49/CE del 25 giugno, trasposta nell'Ordinamento italiano dal decreto legislativo n. 194 del 19
agosto 2005, prosegue in questa ottica di prevenzione e abbattimento degli effetti nocivi del rumore
ambientale. Alla citata legge quadro vengono incorporati ulteriori strumenti (mappature acustiche
strategiche, piani operativi, modalità di misurazione, obblighi di concertazione ed informazione al
pubblico), in una prospettiva che sembra complicare lo scenario delle tecniche di protezione contro il
rumore.
2.3. Qualità delle acque e protezione del suolo contro l'erosione e l'inquinamento.L'Italia è un paese ad
elevato rischio idrogeologico: ne sono prova le inondazioni degli ultimi anni Novanta che hanno motivato
l'attivazione di 109 interventi urgenti di Protezione Civile nel 1998 e 678 nel 1999 o il numero di Comuni
a rischio idrogeologico molto elevato (1173 su 8104) ed elevato (2498) che riflette la mappa nazionale.
Pertanto, la normativa in materia di protezione delle acque e del suolo risponde a parametri comuni, in
modo da consentire una più agevole interazione tra entrambi i meccanismi di tutela. L'inquinamento per
infiltrazione di elementi chimici colpisce sia le masse idriche sia il suolo, di conseguenza la sua
considerazione deve essere unitaria.
Erede della citata "legge Merli" (basata principalmente sulla regolamentazione delle concentrazioni di
sostanze chimiche presenti negli scarichi, ma indifferente rispetto ad altri aspetti cruciali quali il carico
globale degli scarichi, la qualità della massa idrica ricevente o le fonti diffuse di inquinamento) il "paletto"
normativo più significativo del periodo analizzato in materia di risorse idriche è la legge n. 36 del 5
gennaio 1994 (c.d. "legge Galli"), che provvede all'attuazione delle direttive 91/271/CEE concernente
acque reflue urbane e 91/676/CEE in materia di inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti
agricole. In seguito questa norma verrà profondamente modificata dal decreto legislativo n. 152 dell'11
maggio 1999, che introduce importanti riforme, riorganizzando il sistema di tutela della qualità delle
acque e disciplinando gli scarichi.
In questo senso, si potrebbe affermare che la normativa si adegua agli obiettivi ambientali predisposti
dalle direttive comunitari tramite la fissazione dei termini e dei limiti soglia di carico per la depurazione
degli scarichi di acque reflue urbane, l'approvazione del Piano regionale di tutela delle acque (un Piano
parziale settoriale del Piano di bacino), la classificazione dello stato ambientale delle risorse idriche
superficiali e sotterranee e la messa a punto correlata di misure di tutela, la formulazione di misure e
direttive per favorire il risparmio idrico, l'assetto delle autorizzazioni agli scarichi (provinciali se non
intervengono infrastrutture pubbliche e comunali se lo scarico è allacciato alle pubbliche fognature) e la
determinazione di acque non idonee alla balneazione.
Alle Autorità di bacino spetta l'obbligo della elaborazione di Piani stralcio sulla qualità delle acque e della
riduzione del rischio idraulico per ogni fiume in ambito nazionale, interregionale e regionale, dal punto di
vista dell'offerta, mentre le Autorità di ambito territoriale ottimale (unità territoriale di riferimento dei
servizi idrici legati al ciclo integrale dell'acqua basata su criteri idrografici) si incaricano di realizzare la
gestione sostenibile dell'acqua per il consumo, dal punto di vista della domanda. La qualità delle acque di
balneazione compete alla Regioni, che, conformemente al D.P.R. n. 470 dell'8 giugno 1982
(successivamente modificato in recepimento della normativa comunitaria) devono eseguire i
corrispondenti controlli con campionamento nel periodo tra aprile e settembre, disponendo
temporaneamente programmi di miglioramento e recupero delle aree non idonee. Risulta evidente che si
tratta di un sistema competenziale complesso e che agli strumenti di pianificazione e programmazione
sfugge, ad esempio, un problema di enorme rilevanza quale il sovrasfruttamento degli acquiferi
sotterranei.
In materia di protezione del suolo dall'erosione e dall'inquinamento, la legge n. 183 del 18 maggio 1989
relativa alla protezione del suolo, si avvale praticamente delle stesse istituzioni della normativa in materia
di acque: basilarmente, il Piano di bacino e i Piani di assetto idrogeologico, per fronteggiare frane,
alluvioni e valanghe (la legge è attualmente in fase di elaborazione, ad oggi vi sono 20 articoli approvati,
13 progetti adottati e 5 predisposti), oltre ai programmi di intervento puntuali sul piano idraulico,
idrogeologico e forestale. È la Provincia, sin dal 1990, l'Ente responsabile per quanto riguarda le
competenze amministrative per la tutela del suolo espressamente identificate nel Piano territoriale di
coordinamento. Le Regioni eseguono il censimento dei siti inquinati al fine di promuovere l'adozione di
Piani di bonifica la cui realizzazione registra un perenne ritardo... Ancora una volta, la fitta trama
intessuta complica la situazione, in particolare se si considera l'ulteriore presenza di piani anche a livello
statale (il Programma di azione nazionale per la lotta contro la siccità e la desertificazione del 1999,
predisposto dalla legge n. 170 del 4 giugno 1997, in attuazione della Convenzione delle Nazioni Unite del
1994 in materia).
Per concludere, anche la normativa relativa al settore minerario contiene considerazioni di tipo
ambientale, come la necessità di adottare un piano straordinario di bonifica e recupero ambientale delle
zone estrattive abbandonate (prevista dalla legge n. 388 del 23 dicembre 2000) o l'esigenza di uno studio
di massima di valutazione ambientale dei lavori derivati dalle concessioni di coltivazione per alcune
risorse disposto dalla legge n. 896 del 9 dicembre 1986.
2.4. Gestione, valorizzazione e smaltimento dei rifiuti.Nello scenario italiano le politiche legate alla
gestione dei rifiuti non spiccano per la loro rilevante originalità, derivano, infatti, integralmente dalla
normativa comunitaria, alla quale aderiscono con coerenza. La norma più significativa è il decreto
legislativo 5 febbraio 1997 n. 22 ("decreto Ronchi") che sancisce i principi di responsabilità del produttore
di rifiuti, di prevenzione nella produzione, di riutilizzo, riciclaggio e recupero energetico e di smaltimento
in discarica come soluzione residua. Il maggiore apporto di questa legge è la sostituzione della T.A.R.S.U.
(Tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, mera applicazione di una quota municipale diversificata
unicamente in funzione dell'utenza, moltiplicata per la superficie occupata) con un sistema tariffario
calcolato sulla base di vari fattori (numero dei membri del nucleo familiare, dimensioni dell'abitazione
occupata e una parte variabile da calcolare sul peso dei rifiuti prodotti) determinati in relazione alle
componenti del costo integro del servizio. Tale sostituzione, inizialmente prevista per il 2001 è stata
successivamente posticipata fino al momento in cui l'entrata in vigore del Codice dell'ambiente ne ha
frustrato definitivamente l'attuazione, riproponendo la filosofia della "tassa".
In Italia si accumula un totale di circa 125 milioni di tonnellate di rifiuti (54 tonnellate di rifiuti speciali, di
cui quasi 5 pericolose 30 urbane e 37 di detriti), dato che non può essere dissociato dal dimensionamento
demografico (circa 58 milioni di abitanti) e macroeconomico (si tratta della sesta economia del mondo,
con un PIL di 1600 trilioni di dollari). Nel corso del periodo analizzato si è registrata una riduzione della
crescita della produzione di rifiuti urbani, ma un aumento del 10% nella produzione di rifiuti speciali, in
particolare di quelli pericolosi (un 28% del citato 10%).
Risulta, inoltre, rilevante la creazione nel 1998 del Consorzio nazionale imballaggi, pool composto da
1.400.000 aziende per l'avviamento del Sistema integrato di gestione degli imballaggi e rifiuti di
imballaggio previsto dalle direttive comunitarie. Grazie ai suoi interventi, sono stati compiuti notevoli
progressi in materia di riciclaggio, con il recupero di circa il 60% degli imballaggi introdotti nel mercato
(6,7 milioni di tonnellate).
2.5. La tutela del paesaggio.L'attuale politica di tutela discende dalla legge 29 giugno 1939, n. 1497, sulla
tutela delle bellezze paesaggistiche, modificata sostanzialmente dall'importante "paletto" legislativo
rappresentato dalla c.d. "legge Galasso" (legge 8 agosto 1985, n. 431) la quale sancì un ampliamento
dell'oggetto della tutela paesaggistica nell'assoggettare genericamente a vincolo di immodificabilità
porzioni di territorio sensibili paesaggisticamente (territori costieri compresi in una fascia di 300 metri; le
rive dei laghi fino a 300 metri; corsi d'acqua; montagne al di sopra dei 1.200 metri per la catena
appenninica e per le isole o al di sopra dei 1.600 metri sul livello del mare per la catena alpina; ghiacciai
e circoli glaciali; parchi, riserve nazionali e/o regionali e territori di protezione esterna; boschi; le aree
assegnate alle comunità agrarie e le zone gravate da usi civici; zone umide; vulcani e zone di interesse
archeologico), per i quali richiede l'adozione di strumenti di pianificazione di taglio urbanistico.
L'ambizione della "legge Galasso" in materia di tutela e pianificazione paesaggistica, nonostante
l'indiscutibile validità della tecnica e dei principi, ha comportato la mancata applicazione delle sue
previsioni, ostacolata anche dalla forte polemica sociale suscitata. La frammentazione delle competenze a
livello regionale ha condotto a un'asincronia nell'attuazione dei suoi postulati. Quindi, nel contesto globale
di semplificazione dei testi normativi intrapreso dalla c.d. "legge Bassanini II" n. 127 del 15 maggio 1997,
quanto disposto dalle due leggi fu successivamente accorpato nel Capo II (articoli dal 138 al 165) del
"Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali" (TUBCA), adottato con
decreto legislativo n. 490 del 29 ottobre 1999, testo che conservava, debitamente aggiornato, lo schema
tradizionale della legislazione statale paesaggistica precedente. Tuttavia, il TUBCA fu rapidamente
superato sia dall'approvazione della Convenzione Europea sul Paesaggio nel 2000 alla cui preparazione
partecipò attivamente l'Italia sia dalla nuova distribuzione delle competenze ambientali tra lo Stato e le
Regioni scaturita dalla riforma costituzionale del 2001. Tali fattori motivarono l'approvazione del nuovo
Codice dei beni culturali e del paesaggio per decreto legislativo n. 42 del 22 gennaio 2004, in vigore dal
1° maggio dello stesso anno. Gli articoli dal 131 al 182 del Codice si mantengono fedeli alla filosofia delle
leggi paesaggistiche anteriori, sebbene introducano una serie di novità all'ordinamento tradizionale per
consentire il recepimento della Convenzione Europea del Paesaggio (ad esempio, il rafforzamento della
pianificazione paesaggistica e la possibilità che sia elaborata di comune intesa tra l'Amministrazione
statale e regionale, l'integrazione del restauro e recupero dei paesaggi degradati all'interno delle azioni di
tutela e pianificazione e la possibile esternalizzazione delle attività e dei servizi pubblici di valorizzazione,
ecc.).
Il sistema per la tutela del paesaggio parte dall'individuazione di determinate aree di particolare bellezza
naturale o singolarità geologica e altri luoghi panoramici attraverso una dichiarazione amministrativa
singola oppure tramite la designazione ex lege (nel caso dei c.d. "beni Galassini", cioè enumerati
genericamente dalla legge). La dichiarazione dei beni paesaggistici come tali comporta l'obbligo da parte
delle Amministrazioni regionali di approvare piani paesaggistici o piani urbanistico-territoriali con specifica
considerazione dei valori paesaggistici. Entrambi i piani, soggetti allo stesso ordinamento giuridico,
definiscono le trasformazioni del territorio compatibili con i valori paesaggistici, le azioni di recupero degli
immobili e delle aree sottoposte a tutela e gli interventi di valorizzazione del paesaggio. Per rafforzare il
meccanismo di pianificazione, il Codice prevede l'accordo tra le Amministrazioni regionali, il Ministero per
i beni e le attività culturali e il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio per l'elaborazione
d'intesa dei piani o per la loro attuazione e monitoraggio.
I piani paesaggistici suddividono il territorio in aree in funzione dei valori paesaggistici presenti,
attribuiscono obiettivi di qualità paesaggistica e prescrivono gli elementi costitutivi, le tipologie e i
materiali costruttivi ammissibili; prevedono le linee di sviluppo urbanistico compatibili con i diversi livelli
di valore riconosciuti per preservare il valore paesaggistico del territorio e dispongono il recupero degli
immobili e delle zone sottoposte a tutela degradate al fine di reintegrare i valori preesistenti o per
realizzare nuovi valori paesaggistici coerenti ed integrati. Nella misura in cui i piani non precisino le
condizioni per la trasformazione del territorio, l'autorizzazione paesaggistica assume nuovamente un
senso pregnante, poiché si sancisce l'obbligo da parte dei proprietari di immobili soggetti a tutela di
sottoporre i progetti delle opere e edificazioni che intendano eseguire all'autorizzazione
dell'Amministrazione regionale. L'esigenza di autorizzazione paesaggistica è eccezionale, infatti il Codice
si ispira ad una filosofia di semplificazione e snellimento delle procedure amministrative, nella misura in
cui i piani paesaggistici consentono l'utilizzo programmato e regolato del territorio e, pertanto, la
trasformazione armonica del paesaggio. Così la protezione dinamica, basata sulla tecnica di pianificazione
e programmazione dell'uso del territorio in chiave estetica, culturale e ambientale, si combina con una
tutela statica, basata sull'esecuzione e il monitoraggio puntuale di alcuni usi del territorio avvalendosi
della figura dell'autorizzazione paesaggistica.
Attualmente, la normativa italiana protegge circa 141.000 km# di territorio con valore paesaggistico,
quasi il 48% della superficie nazionale. Si tratta di una percentuale molto significativa, soprattutto se
confrontata con il 10% circa del territorio occupato da diverse tipologie di spazi naturali protetti.
2.6. La protezione della biodiversità: fauna, flora e spazi naturali protetti. In un primo momento, la
protezione delle specie della fauna e della flora si è articolata sulla base di leggi dettate dalla esigenza di
recepire all'interno dell'Ordinamento italiano gli obblighi derivati dalle Convenzioni internazionali ratificate
dall'Italia in materia di tutela di specie animali e vegetali in pericolo di estinzione, uccelli e specie
migratorie, aree protette del Mediterraneo, zone umide di importanza internazionale, patrimonio culturale
e naturalistico mondiale, conservazione della vita selvatica e dell'ambiente naturale in Europa... In questo
senso, si sono promulgate le leggi n. 874 del 19 dicembre 1975 (Washington), n. 184 del 6 aprile 1977
(Parigi) 1972, n. 812 del 24 novembre 1978 (Parigi 1950), n. 30 del 25 gennaio 1979 (Barcellona I), n.
42 del 25 gennaio 1983, (Bonn) n. 127 del 5 marzo 1985, (Ginevra), D.P.R. n. 448 del 13 marzo 1976
(Ramsar) e n. 503 del 5 agosto 1981 (Berna).
A partire da queste norme, in cui i meccanismi penali di protezione si alternano a quelli strettamente
amministrativi, il corpus più rilevante della tutela faunistica è costituito dalla disciplina della caccia,
contenuta nella legge n. 157, dell'11 febbraio 1992 per "la protezione della fauna selvatica omeoterma e
per il prelievo venatorio" e le leggi regionali di applicazione . Tale legge definisce la fauna selvatica come
bene pubblico statale, sottoponendo l'attività venatoria a severe norme di tutela simili a quelle in vigore
in Spagna (necessità di licenza, disposizioni restrittive e proibizioni, divieto di caccia di determinate
specie, creazione di aree destinate alla riproduzione e al ripopolamento di specie, ecc.). La legge
pretende di ridurre la pressione antropica sugli habitat naturali e la sua introduzione ha comportato una
riduzione del numero di cacciatori, consentendo il recupero della popolazione di alcune specie minacciate.
La fauna piscicola ha cominciato a ricevere attenzione normativa a partire dagli anni Ottanta, quando si
sono evidenziati sintomi di minaccia: infatti la legge n. 41 del 17 febbraio 1982 prevede la stesura di
piani per la razionalizzazione e lo sviluppo della pesca marittima, in particolare i Piani triennali di pesca e
acquicoltura che contemplano il riposo biologico, l'impiego di sistemi selettivi di pesca e la progressiva
riduzione di questa attività.
Eppure, malgrado la normativa, oltre il 70% dei vertebrati (soprattutto pesci, anfibi e rettili) continua ad
essere minacciato, mentre la situazione degli invertebrati è preoccupante. Nel contesto della Convenzione
di Rio de Janeiro sulla protezione della biodiversità (ratificata dalla legge n. 124 del 14 febbraio 1994) e
della linea di azione "Natura e biodiversità: proteggere una risorsa unica" prevista dal VI Programma di
azione per l'Ambiente, si è recentemente adottata la Strategia di azione per la protezione della
biodiversità, con l'obiettivo di fermare la perdita di biodiversità prima del 2010 (iniziativa Countdown
2010).
La protezione degli spazi naturali rappresenta un importante strumento di lotta contro la perdita degli
habitat e delle specie e si fonda su una normativa relativamente recente, la legge quadro n. 394 del 6
dicembre 1991 sulle aree protette. La promulgazione di questa legge è stata preceduta da un'intensa
attività delle Regioni sin dal momento della loro creazione (alla metà degli anni Settanta) volta ad
incrementare la superficie e il numero delle aree protette di ambito regionale. La legge statale ha
confermato la vocazione regionale di questa disciplina, benché riservi allo Stato vaste competenze in
materia di protezione degli spazi marittimi, oltre all'individuazione di obiettivi unitari di qualità e sicurezza
per tutti gli spazi protetti e alla gestione dei propri spazi. La legge stabilisce le diverse tipologie di
protezione (Parco Nazionale, Parco Naturale Regionale e Riserva Naturale Nazionale e Regionale, che
integrano l'Elenco Ufficiale delle Aree Naturali Protette, aggiornata annualmente) ne definisce le
caratteristiche generali e le chiavi per la gestione, attraverso strumenti di pianificazione territoriale e
programmazione socioeconomica multilivello: Programma triennale statale, Linee fondamentali di assetto
del territorio statali, Piani delle aree (Piano per il parco e Piano pluriennale economico e sociale, Piani
provinciali di miglioramento ambientale per la riproduzione della fauna selvatica. La legge privilegia i
Parchi rispetto alle Riserve e altre categorie minori, che vengono considerati strumenti meno efficaci).
In un paese mediterraneo, nella rotta migratoria di innumerabili uccelli, oltre alle aree protette
conformemente alla normativa specifica glossata è necessario menzionare le zone Ramsar, la cui tutela
dipende D.P.R. 13 marzo 1976, n. 448. Queste zone umide di importanza internazionale possono essere
designate dalle Amministrazioni regionale in base a diverse categorie, al fine di imporre maggiori
restrizioni agli scarichi immessi nelle acque superficiali appartenenti al bacino idrografico interessato. Il
successo è notevole: se nel 1976 si sono individuate 18 zone umide di circa 12.600 ettari, la superficie
protetta ha registrato un notevole incremento nel corso degli anni e, attualmente, vi sono 50 zone umide
protette per un totale di 58.500 ettari.
Paese a vocazione marittima, l'Italia vanta anche una normativa specifica per la protezione del mare
(legge n. 979 del 31 dicembre 1982), grazie alla quale è possibile dichiarare Aree naturali marine protette
e Riserve naturali marine determinati territori della costa. La superficie marina protetta rappresenta meno
del 3% delle acque costiere nazionali, ma raggiunge il 30% se si considera anche il Santuario per i
mammiferi marini, creato ai sensi della Convenzione di Barcellona nel 1999, insieme a Francia e
Principato di Monaco, che occupa un'estensione di circa 100.000 km#.
Allo scenario delle disposizioni legislative per la protezione degli spazi naturali già tratteggiato si deve
aggiungere il processo di implementazione della Rete Natura 2000, in attuazione delle direttive su Uccelli
e Habitat. La trasposizione della direttiva sugli Uccelli è stata ritardata fino all'approvazione della legge
sulla caccia del 1992, mentre la direttiva sugli habitat è stata inserita nell'Ordinamento italiano grazie al
D.P.R. n. 357 dell'8 settembre 1997 (modificato dal D.P.R. n. 120 del 12 marzo 2003 e completato dal
decreto del 3 settembre 2002 che contiene le linee guida per la gestione degli spazi della Rete). In questo
contesto di ritardo generalizzato, sfociato nel 1993 in una procedura di infrazione avviata dalla
Commissione, la designazione delle prime Zone di Protezione Speciale (ZPS) risalente al 1988 si è
sviluppata direttamente sulla base della normativa comunitaria e si è incrementata solo nel 1995. Oggi
esistono 504 ZPS in totale, che coprono una superficie complessiva di circa 2.500.000 ettari (8,2% del
territorio nazionale). Per quanto riguarda le Zone Speciali di Conservazione (ZSC), il processo di
individuazione e proposta alla Commissione europea si sviluppa a partire dal 1996, attraverso il "Progetto
Bioitaly". Attualmente, rispetto all'obiettivo comunitario che prefigura l'individuazione di un totale di
3.600.000 ettari di Zone Speciali di Conservazione, l'Italia presenta un totale di 2.256 spazi inseriti nella
Rete Natura 2000, che occupano 4.500.000 ettari, un 14,6% del territorio nazionale. Queste cifre sono
soggette a fluttuazioni, nella misura in cui viene espressamente previsto che le Regioni eseguano una
valutazione periodica dell'adeguamento delle ZSC agli obiettivi della direttiva sugli habitat. Si considera
che un 35,5% degli habitat a livello nazionale presenti uno stato di conservazione buono e un 5,8% uno
stato di conservazione medio.
Nell'ambito di questo capitolo merita, infine, una speciale attenzione la massa forestale, che riveste
un'importanza specifica come habitat di specie e come somma delle specie stesse, oltre a svolgere un
ruolo di vitale rilevanza nella minimizzazione degli impatti prodotti dal cambio climatico. L'Italia conta su
una superficie forestale di 7 milioni di ettari, costantemente incrementata grazie alla riforestazione e
all'espansione naturale del bosco nelle aree agricole marginali. Oggi il valore ambientale di questa risorsa
botanica si misura in relazione all'impatto sull'inquinamento atmosferico: si stima, infatti, che i boschi
italiani siano in grado di fissare circa 1.000 milioni di tonnellate di carbonio. La prevenzione dagli incendi
forestali si trasforma, pertanto, in un capitolo importante delle politiche ambientali ed è al centro della
legge quadro n. 353 del 21 novembre 2000 in materia di incendi forestali. Tale legge prevede l'adozione
di Piani regionali di previsione, prevenzione e lotta attiva contro gli incendi, piani che non sono riusciti
però a palliare il disastro annuale che comporta l'incendio costante di circa 100.000 ettari (127.000 nel
1978; 91.000 nel 2003).
2.7. Inquinamento elettromagnetico. L'alta densità delle stazioni radiofoniche unita alla vertiginosa
introduzione della telefonia mobile in Italia, ha rivelato immediatamente l'alto potenziale inquinante degli
impianti legati a queste tecnologie, che trascende il mero impatto visivo. La prima attenzione normativa a
questa sorgente emergente di inquinamento, conosciuta come "elettrosmog" avviene grazie ad una
norma regolamentare, il D.M. n. 381 del 10 settembre 1998, che fissa le soglie di radiofrequenza
compatibili con la salute umana. In seguito, la legge quadro n. 36 del 22 febbraio 2001 sulla protezione
dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici e i relativi regolamenti di attuazione
(D.P.C.M. dell'8 luglio 2003) hanno confermato tali limiti massimi di esposizione (da 20 a 60 V/m in
qualsiasi situazione e 6 V/m in luoghi adibiti a permanenze non inferiori a 4 ore) introducendo il concetto
di "valori di attenzione" e di "obiettivi di qualità". Il superamento dei limiti massimi obbliga i titolari degli
impianti emittenti di campi magnetici da 100 kHz a 300 GHz e delle reti di trasporto dell'energia elettrica
(50 Hz) ad intraprendere azioni di risanamento; mentre le autorità regionali possono determinare le aree
di rispetto all'interno delle quali si proibisce la costruzione di edifici adibiti a permanenze non inferiori a 4
ore.
La legge quadro sancisce la creazione di un Catasto nazionale delle sorgenti fisse e mobili di campi
elettromagnetici (impianti di telefonia mobile, radioelettrici e di radiodiffusione, tracciati degli elettrodotti
con tensione superiore a 150 Kw) a partire dagli inventari regionali. Le Autorità regionali sono
responsabili dell'attività di controllo in fase preventiva e di funzionamento degli impianti soggetti alla
legge, ma anche dell'adozione di strumenti e azioni per il raggiungimento degli obiettivi di qualità
elettromagnetica.
La determinazione dei limiti di radiofrequenza è stata regolata, inoltre, da una circolare emessa
congiuntamente dal Ministero dell'ambiente, dal Ministero delle comunicazioni e dal Ministero di sanità nel
1999, sostituita nel 2001 da norme tecniche procedurali per la misurazione e valutazione dei campi
elettromagnetici negli intervalli di frequenza contemplati volte a offrire modelli per l'installazione
rispettosa di antenne radiotrasmittenti. Il protagonismo della normativa tecnica in questa materia rivela
la dipendenza delle Amministrazioni pubbliche dallo stato della ricerca scientifica, comune a tutti gli Stati
e logica in un contesto di incertezza nell'abbordare queste sorgenti inquinanti "di confine".
2.8. Inquinamento radioattivo.Benché si potrebbe affermare grosso modo che l'Italia sia un paese
denuclearizzato, dopo il referendum del 1987 e il successivo annullamento nel 1990 del programma
energetico nucleare, non va ignorato il rischio di contaminazione radiologica. Nonostante la chiusura
definitiva, le quattro centrali nucleari e i rispettivi impianti di fabbricazione di combustibile sono in attesa
di smantellamento, processo destinato a generare residui radioattivi la cui gestione dovrà essere
affrontata in breve. Vi sono, inoltre, quattro reattori nucleari dedicati alla ricerca fisica e biomedica
(Costanza, TRIGA RC-1, TAPIRO y TRIGA MARK II), ai quali dobbiamo aggiungere gli impianti ospedalieri
che impiegano questa tecnologia. Oltre alla protezione dall'inquinamento nucleare proveniente da fonti
artificiali, la normativa interviene anche sul piano della radioattività originata da fonti naturali presenti
nell'atmosfera, nel suolo e negli alimenti risultante dalla persistenza degli effetti residuali delle esplosioni
belliche e di incidenti come quello della centrale di Chernobyl e dalla presenza nell'ambiente di gas radon
(la cui concentrazione media indoor supera dell'80% la media mondiale).
La normativa in materia è rappresentata dal decreto legislativo n. 230 del 1995 in attuazione delle
direttive Euratom 80/836, 84/467, 84/466, 89/618, 90/641 e 92/3, modificato poi dal decreto legislativo
n. 241 del 2000 in attuazione della direttiva 1996/29/EURATOM e 257/01. Da tale quadro normativo si
evince la necessità di un nulla osta preventivo per gli impianti, stabilimenti, laboratori o gabinetti medici
adibiti ad attività che comportino l'uso di materiali o apparecchiature radioattive e per la gestione e
immagazzinamento dei rifiuti radioattivi generati. Si incorpora ad ogni autorizzazione concessa la
fissazione dei limiti massimi di radioattività. Infine, per il controllo della radioattività naturale si è formata
una Rete nazionale di vigilanza della radioattività ambientale, attiva dal 1987. In questo senso, alle
Regioni compete l'obbligo di identificare le aree ad alta probabilità di concentrazione di radon, di
sviluppare campagne e attività di controllo in merito e di ridurre l'esposizione al gas quando si riscontri il
superamento delle soglie determinate. Le Agenzie regionali e provinciali assolvono in modo disuguale
questi obblighi, il cui monitoraggio dovrà essere intensificato alla luce dell'avvio dei lavori di
smantellamento degli impianti nucleari inattivi.
3. L'organizzazione amministrativa italiana nell'ambito della tutela dell'ambiente: analisi
dell'evoluzione e funzioni, organi di rappresentazione e partecipazione.
Come è noto, la Costituzione italiana ha adottato nel 1947 un modello di decentramento politico e
amministrativo regionale divenuto effettivo solamente dopo alcuni decenni. Tale modello si basa sulla
distinzione tra Regioni "a Statuto speciale" (Sicilia, Sardegna, Trentino-Alto Adige, Valle d'Aosta e FriuliVenezia Giulia, istituite dal proprio legislatore costituente e con Statuti che garantivano un'autonomia
particolare), e "a Statuto ordinario" (raccolte nell'art. 131 della Costituzione, prive dei rispettivi Statuti
fino all'inizio degli anni Settanta). L'art. 117 della Costituzione raccoglieva il sistema originale di
distribuzione di competenze, concedendo alle Regioni la potestà di promulgare norme legislative su
determinate materie, nel quadro dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi statali e nel rispetto
dell'interesse nazionale e delle rimanenti Regioni. Tra le materie enumerate dal testo dell'articolo non si
trova l'ambiente (si citano, però, materie ad esso legate o passibili di incidere sull'ambiente, come
l'assetto urbanistico, l'agricoltura e i monti, le miniere, la caccia e la pesca in acque interne), che non
veniva menzionato neppure negli Statuti delle Regioni speciali, in linea con l'ignoranza giuridica del
concetto di ambiente regnante al momento della loro costituzione.
Il conferimento degli Statuti alle Regioni ordinarie a partire dal 1971 e la promulgazione della legge del
22 luglio 1975 sulla delega di competenze a beneficio delle Regioni (legge sviluppata grazie al
fondamentale D.P.R. n. 616 del 24 luglio 1977) segnarono l'inizio dell'attuazione del programma
costituzionale di regionalizzazione dell'Italia. La legge delega e il decreto 616/1977 (in particolare gli artt.
80 e 82) coincidono nell'attribuire alla sfera regionale le competenze amministrative in materia di tutela
dell'ambiente e dei beni naturali, vincolandola all'urbanistica e all'ordinamento del territorio. La volontà di
trasferire le competenze ambientali alle Regioni e agli Enti locali si è finalmente concretizzata grazie al
decreto legislativo n. 112 del 31 marzo 1998, che, dando compimento al programma di regionalizzazione
proposto dalla legge n. 59 del 15 marzo 1997 ("legge BASSANINI I"), dedica un intero capo al riassetto
delle funzioni in materia di ordinamento del territorio, protezione dell'ambiente e urbanistica. Il decreto
aderisce coerentemente al principio di riservare allo Stato una ristretta serie di funzioni, affidando
automaticamente quelle rimanenti alle Regioni, che, a loro volta, delegheranno agli Enti locali tutte le
competenze che possano prescindere dal proprio intervento omologante. Questa norma supera
l'impostazione originale di distribuzione delle competenze, che attribuiva il peso maggiore allo Stato, al
quale consentiva, comunque, la delega di parte delle competenze alle Regioni.
I postulati del decreto 112 del 1998 sanciscono che allo Stato compete il compito definire gli obiettivi di
qualità ambientale (in parte derivati dalle condizionanti comunitarie) e le linee guida generali delle
politiche ambientali settoriali la cui implementazione compete, però, alle Regioni (che a sua volta hanno
la facoltà di delegarla in modo più o meno significativo alle Province). Alle Province e ai Comuni si
attribuiscono competenze in materia di vigilanza e applicazione delle norme. La programmazione
settoriale, e in particolare quella strategica, viene ricondotta alla sfera competenziale regionale, mentre lo
Stato conserva le competenze generali relative alle direttrici e i criteri generali di programmazione. La
regionalizzazione delle funzioni di programmazione ambientale esige da parte dello Stato l'assunzione di
una funzione di coordinazione e integrazione delle politiche che, sia pure nel totale rispetto
dell'autonomia regionale, garantisca il raggiungimento degli impegni derivanti dalle direttive comunitarie
e assicuri uno standard minimo comune di tutela delle risorse per evitare che si configurino situazioni di
competenza negativa tra le Regioni (ossia situazioni di dumping ambientale rispetto alla localizzazione di
impianti industriali). L'Amministrazione statale sviluppa pertanto un ruolo di garante della coordinazione e
della omogeneità sul piano della tutela del paesaggio, in virtù del singolare interesse generale che questa
rappresenta per l'insieme della nazione.
Attualmente ci troviamo in un contesto di riaffermazione costituzionale del modello descritto risultante
dalla riforma operata dalle leggi costituzionali n. 3 del 18 ottobre 2001 e n. 131 del 5 giugno 2003. Oggi
l'art. 117 della Costituzione è stato emendato e la nuova formulazione della lettera s) riserva allo Stato la
competenza esclusiva sulla legislazione in materia di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema che
comprende, a sua volta, la potestà legislativa, comunque delegabile alle Regioni , mentre altre materie
collegate, quali la tutela della salute, l'ordinamento del territorio e la valorizzazione dei beni ambientali
sono di competenza legislativa concorrente di Stato e Regioni. In tale ottica, la legislazione statale fissa
principi fondamentali da sviluppare da parte delle legislazioni regionali, mentre "le funzioni
amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, siano conferite a
Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base del principio di sussidiarietà, differenziazione e
adeguatezza. I Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari delle funzioni amministrative
proprie e di quelle conferite loro da leggi statali o regionali. D'altra parte, la valorizzazione dei beni
ambientali rimane relegata a livello di competenza concorrente con lo Stato.
Come già evidenziato, la preminenza dei beni paesaggistici sull'ambiente come oggetto di protezione
giuridica ha comportato la coesistenza di due strutture ministeriali dedicate specificamente alla gestione
delle politiche ambientali: il Ministero per i beni e le attività culturali (l'antico Ministero per i beni culturali
e ambientali istituito dal decreto-legge n. 657 del 14 dicembre 1974) e il Ministero dell'ambiente e della
tutela del territorio (l'antico Ministero dell'ambiente creato in osservanza della legge n. 349 dell'8 luglio
1986, che è ha, per altro, veicolato il recepimento della direttiva sulla Valutazione dell'Impatto
Ambientale).
Quest'ultimo Ministero si avvale di un Consiglio Nazionale per l'Ambiente, organo consultivo con mandato
triennale, presieduto dal Ministro al quale partecipano rappresentanti di Regioni, Comuni e Province, i cui
compiti prevedono la presentazione di pareri e proposte in materia di riconoscimento di associazioni
ambientaliste e iniziative per la realizzazione di studi. Dal Ministero dipendono una serie di Comitati
amministrativi dedicati al supporto tecnico su temi specifici: "Comitato Ecolabel-Ecoaudit", istituito nel
1995; "Comitato di Lotta alla siccità e/o la desertificazione", istituito nel 1997; "Comitato di Vigilanza
sull'uso delle risorse idriche", configurato come organo indipendente dell'Amministrazione pubblica,
istituito nel 1994; "Comitato di valutazione dell'impatto ambientale" per le dichiarazioni di competenza
statale, oltre alla Commissione tecnico-scientifica del Ministero, creata nel 1991 e ultimamente incaricata
della valutazione tecnico-economica degli investimenti pubblici a impatto ambientale, mediante i "Nuclei
di valutazione degli investimenti pubblici" (i cosiddetti "Nuval"). Dipendono inoltre dal Ministero
l'"Osservatorio nazionale sui rifiuti" e l'"Albo Nazionale delle imprese che effettuano la gestione dei rifiuti",
entrambi in fase di imminente sostituzione con l'Autorithy creata dal futuro Codice dell'ambiente, oltre al
Corpo forestale (proveniente dal Ministero di politica agricola e forestale, accorpato al Ministero
dell'ambiente dal 1999) un Comando dei Carabinieri preposto alla tutela ambientale e una sezione del
Corpo delle Capitanerie di Porto incaricata dell'ambiente marino.
D'altra parte, il tratto caratterizzante più significativo del Ministero dell'ambiente è l'adozione del modello
di amministrazione ambientale per agenzie, la cui configurazione si ispira all'Agenzia Europea per
l'Ambiente, operativa dal 1994. Così, l'Agenzia per la Protezione dell'Ambiente e per i Servizi Tecnici
(APAT, sorta nel 2002 dalla fusione tra l'Agenzia Nazionale per la Protezione dell'Ambiente ANPA, creata a
sua volta dal decreto legislativo n. 300 del 30 luglio 1999 e il Dipartimento per i Servizi Tecnici Nazionali
della Presidenza del Consiglio dei Ministri) svolge compiti e attività tecnico-scientifiche di interesse
nazionale per la protezione dell'ambiente, la tutela delle risorse idriche e la difesa del suolo dall'erosione,
operando sulla base di una programmazione con obiettivi e priorità triennali e sviluppa attività di
collaborazione, consulenza, servizio e supporto alle altre Amministrazioni pubbliche, definite con apposite
convenzioni.L'APAT realizza le sue funzioni in un contesto di autonomia tecnico-scientifica e finanziaria,
benché sia sottoposta ai poteri di indirizzo e vigilanza del Ministero dell'ambiente e della tutela del
territorio e al controllo della Corte dei Conti.
A sua volta, le Regioni hanno riprodotto il modello statale, disponendo di Assessorati dipendenti
dell'Amministrazione regionale (Assessorati all'ambiente) e creando Agenzie regionali omologhe che
collaborano con l'APAT.
Infine, l'Amministrazione statale periferica in materia di tutela del paesaggio, in osservanza del decreto
legislativo n. 3 dell'8 gennaio 2004, è composto da una Direzione generale per i beni culturali e
paesaggistici dalla quale dipendono le Direzioni regionali pertinenti operanti nelle Regioni a Statuto
ordinario, Friuli-Venezia Giulia e Sardegna quindi, tutte le regioni tranne la Sicilia, la Valle d'Aosta e le
province autonome di Trento e Bolzano . Le Direzioni Regionali coesistono con le ventotto Soprintendenze
incaricate di interventi puntuali inerenti la tutela paesaggistica nell'ambito di alcune Province.
4. Conflitti ambientali e stato delle risorse naturali.
Secondo i successivi Rapporti pubblicati dalla l'Organizzazione per la Cooperazione allo Sviluppo
Economico (OCSE) sulle performance ambientali nel periodo dal 1984 al 2002, l'Italia vanta un buon
livello di efficienza energetica, conta su una superficie considerevole di spazi naturali protetti, è leader in
agricoltura biologica e ha raggiunto gli obiettivi nazionali e internazionali di riduzione di emissioni di SO2,
metalli pesanti e sostanze organiche persistenti. I punti deboli riguardano la qualità dell'aria urbana, la
polvere in sospensione e l'ozono troposferico, la qualità delle acque e la loro depurazione, la quantità di
rifiuti e il loro smaltimento in discariche fuori norma e l'elevato numero di specie animali minacciate di
estinzione.
In materia di qualità dell'aria, nel corso degli anni Novanta si è potuta registrare una notevole
diminuzione di emissioni inquinanti (riduzione del 46% di ossidi nitrosi, 22% di monossido di carbonio,
53% di benzene e 50% di diossine e furani). Nel 1990 si sono fissati i limiti per le emissioni di ossidi
nitrosi e solforosi per tutti gli impianti industriali, comprese le centrali elettriche. L'ozono troposferico
resta uno dei problemi più pressanti e i giorni in cui si sono superati i valori limite in diversi Comuni sono
stati piuttosto numerosi (soprattutto a Roma, Milano e Palermo). Le polveri sottili respirabili PM10
costituiscono una seria minaccia, infatti il valore limite per questo agente inquinante è stato superato in
molte città (Brescia, Firenze, Milano, Roma, Taranto, Torino e Venezia). Le reti di monitoraggio sulla
qualità dell'aria non sono ancora omogeneamente distribuite sul territorio.
I prelievi pro capite d'acqua sono di 980 m3 all'anno. Le tariffe dell'acqua per uso domestico sono quasi
raddoppiate durante gli anni Novanta, pur mantenendosi ancora basse rispetto agli standard OCSE (ad
esempio, a Roma l'acqua costa 0,29 dollari al metro cubo). La qualità delle acque superficiali è migliorata
in misura trascurabile negli anni Novanta, mentre quella delle acque di balneazione si è notevolmente
elevata. Il trattamento delle acque reflue urbane raggiunge il 63%, lasciando al margine il "caso di
Milano" il cui sistema di depurazione si prevede possa entrare in funzione in breve e gli scarichi
direttamente in mare delle acque reflue urbane lungo le coste dell'Emilia Romagna e dell'Adriatico
settentrionale, nel golfo di Taranto, nel Mar Tirreno e alle foci dell'Arno e del Tevere, avvenuti fino a poco
tempo fa.
Rispetto alla gestione e smaltimento dei rifiuti l'Italia non ottiene, invece, la sufficienza: la produzione di
rifiuti urbani e speciali è, infatti, aumentata negli anni Novanta. La discarica rimane il principale sistema
di smaltimento per il 75% dei rifiuti. Alcune discariche, soprattutto nell'area meridionale, offrono bassi
costi di smaltimento (30 euro per tonnellata) e con troppa frequenza non soddisfano i requisiti tecnici
richiesti. La raccolta differenziata è in considerevole aumento, così come il recupero e il riciclaggio. Per
orientare la gestione dei residui sono state adottate misure economiche e fiscali (un'imposta sulle
discariche e i contributi pagati dai produttori, importatori e utilizzatori di materiale da imballaggio per
coprire i costi della raccolta differenziata). L'Italia, sebbene continui ad essere colpita dal traffico illegale
di rifiuti, realizza notevoli sforzi per la bonifica dei siti inquinati.
In materia di protezione della natura e della biodiversità, la superficie delle aree protette si è raddoppiata
in dieci anni, in modo proporzionale all'aumento della spesa destinata a tale scopo. Solo il 30% delle
coste non ha subito urbanizzazione, in compenso le riserve marine esistenti sono gestite correttamente.
L'agricoltura biologica è cresciuta rapidamente, rendendo l'Italia uno dei Paesi leader in questo settore (il
9% delle terre agricole sono dedicate a coltivazione organica). Persiste il rischio di estinzione di molte
specie animali, nonostante i programmi di protezione per mammiferi di grossa taglia (lupo, orso, lince).
Continuano a essere minacciati un 40% dei mammiferi, un 20% degli uccelli e un 35% dei rettili. Il 5,5%
del territorio è a rischio di desertificazione, ma è stato predisposto un piano nazionale per affrontare
questo problema.
Per quanto concerne i trasporti, il numero di auto private è cresciuto del 16% negli anni '90,
raggiungendo le 56 auto ogni 100 persone nel 2000. La politica di incentivi fiscali ha permesso un rinnovo
del parco automobilistico e una riduzione delle emissioni inquinanti ancora non del tutto soddisfacente
alla luce delle percentuali di camion e pullman con oltre dieci anni (50 e 60% rispettivamente). Il
Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio stanziò 7,7 milioni di euro all'anno per potenziare
l'acquisizione di nuovi veicoli a metano, gas e elettrici nel corso del biennio 2001-2003 e promuove in
generale l'introduzione di carburanti ecologici e l'aumento delle stazioni di servizio a metano, anticipando
il recepimento delle direttive comunitarie. Pur registrandosi una drastica riduzione delle emissioni dovute
al trasporto su strada, le emissioni di CO2 sono aumentate del 16% negli anni Novanta, malgrado
l'adozione di misure innovative per la mobilità sostenibile, come restrizioni del traffico, bollini blu, vigili
elettronici, car sharing e altre tecnologie per la gestione del traffico. Attualmente, l'Italia è ben lontana
dal raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra: le emissioni superano del 15%
l'obiettivo nazionale di riduzione del 13% rispetto all'anno di riferimento, il 1990.
Dopo aver tracciato questa panoramica a 360° sullo stato delle risorse naturali e dei problemi di massima
associati alla salvaguardia dell'ambiente, un tema particolare che rischia di compromettere il successo
delle politiche ambientali italiane merita qualche riflessione.
In effetti la subsidenza di Venezia e l'inquinamento della laguna veneta causato dagli scarichi del polo
petrolchimico rappresentano una questione critica e vitale per lo scenario ambientale italiano, alla luce
delle implicazioni che rivestono sul piano storico-artistico, ma anche turistico ed economico. Il complesso
palustre urbano, formato da 118 isole in una laguna aperta al mare in vari punti, è colpito dal fenomeno
dell'"acqua alta" almeno due volte al mese e ha subito una perdita altimetrica di 24 cm nel secolo XX. Per
evitare che il salnitro corroda le palafitte di legno su cui si edifica la città e ne acceleri la decadenza, si è
avviato un sistema di 72 dighe mobili che entro il 2011 dovrebbe consentire di chiudere la laguna al mare
(Progetto M.o.S.E., gestito dal Consorzio Venezia Nuova, un pool formato dalle principali imprese di
costruzione e società di ingegneria della regione, del quale è stato eseguito il 20%). L'irreversibilità del
sistema e il rischio di provocare il ristagno dell'acqua della laguna hanno suscitato aspre critiche, infatti la
chiusura delle dighe durante le maree molto alte comporterà danni all'ecosistema acquatico. L'idea di
chiudere con uno sbarramento i corridoi che collegano la laguna al mare ha preso corpo in seguito alle
disastrose inondazioni del 1966, quando la piazza di San Marco è rimasta seppellita sotto un metro e
mezzo d'acqua. Attualmente la società municipale Insula si incarica del drenaggio dei 90 chilometri di
canali interni, di restaurare ponti e facciate, di proteggere la fognatura e le reti di servizi, elevando a poco
a poco le zone più basse della città. Le maree abituali elevano il livello dell'acqua di circa 120 cm.
All'interno dello stesso contesto di impatto ambientale e sugli ecosistemi, non si è ancora esaurita la
polemica riguardante la costruzione di alcune infrastrutture rilevanti sia viarie (collegamento ad alta
velocità del tratto ferroviario Torino-Lione attraverso la Val di Susa, autostrada della Valtellina,
Tangenziale Est Esterna di Milano) che di altro tipo, quali l'ampliamento dell'aeroporto di Malpensa
(Milano), la costruzione e successivo ampliamento di un impianto per l'immagazzinamento sotterraneo di
residui tossici industriali a Collegno (Torino), il funzionamento dal 1998 di una centrale comunale a ciclo
combinato a Brescia, l'installazione nel 2001 negli Appennini dei primi aerogeneratori, visibili dal Parco
Nazionale dei Monti Sibillini, il progetto di creazione di un impianto sciistico a Moso in Passiria (Bolzano)
in un'area classificata SIC e ZPS o il prelievo di acqua dal lago Trasimeno (Umbria) per uso agricolo e di
consumo, che ha comportato l'abbassamento del livello dell'acqua e la degradazione degli habitat.
Altre questioni di non minore importanza hanno evidenziato le difficoltà ad attivare una tutela ambientale
compatibile con lo sviluppo economico, come la polemica creazione di alcuni spazi protetti (ad esempio,
l'area marina di Punta Campanella il cui processo si è protratto dal 1982 al 1997 a causa della mancanza
di partecipazione delle collettività locali interessate) o l'esercizio di alcune attività economiche tradizionali
locali che ostacolano la protezione ambientale (ad esempio, la pesca del pesce spada con sistemi vietati
nelle coste sud-occidentali della Sardegna, a causa della difficoltà di monitorare l'osservanza della
normativa). Infine, si riscontra il sorgere di nuove e importanti fonti di inquinamento, come le radiazioni
elettromagnetiche ("elettrosmog"), evidenziate dal caso dell'installazione di una serie di antenne
radiofoniche e televisive nell'area densamente abitata, e di notevole interesse archeologico, sulla collina
di Monte Mario a Roma (antenne sulla cui eliminazione proseguono accese controversie sin dal 1994).
NOTE
(*) Professore associato di Diritto amministrativo presso l'Università di Saragozza (Spagna). Membro
dell'Osservatorio di politiche ambientali dal cui primo volume è stato estratto e redatto il presente saggio
nel quale viene analizzato il periodo 1978-2005.
Archivio selezionato: Note
Nota a Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 20 marzo 2008 n.15399
Riv. giur. ambiente 2008, 5, 793
Elena Tanzarella
1. Con questa decisione la Corte europea dei diritti dell'uomo si è pronunciata su cinque ricorsi promossi
contro la Russia da sei cittadini, reclamanti la responsabilità della Autorità statale per la morte di un
congiunto di uno dei ricorrenti, nonché per i danni morali e materiali a tutti loro derivati dalla colata di
fango accaduta tra il 18 e il 25 luglio 2000 nella città di Tyrnauz, nel Caucaso centrale.
La cittadina di Tyrnauz, attraversata da due affluenti del fiume Baksan, è frequentemente colpita da
esondazioni, la più importante delle quali (prima di quella del 2000) si verificò nel 1960: proprio in esito a
tale evento fu costruito un collettore del fango, completato nel 1965, ammodernato nel 1977 e quindi
completamente ristrutturato nel 1982. Infine, nel 1999, allo scopo di potenziare le capacità e la sicurezza
del collettore, le Autorità locali costruirono una diga a monte del collettore di fango: struttura che venne
tuttavia immediatamente danneggiata da una frana, causando il pronto allarme della Autorità
competente, la quale non esitò a sollecitare il Ministero responsabile dei soccorsi in ipotesi di disastro
ambientale, affinché provvedesse all'immediato restauro della diga e nel contempo si preoccupasse di
organizzare con sollecitudine un sistema di allarme alla popolazione per l'ipotesi di ulteriore esondazione.
Nel gennaio del 2000, la stessa Autorità lanciò nuovamente lo stato di emergenza espressamente
dichiarando che, attesa la gravità dei danni subiti dalla diga e l'impossibilità di porvi rimedio nel breve
termine, l'unico modo per evitare vittime probabili atteso l'incrementato rischio di colate di fango in esito
a esondazioni in quella stagione sarebbe stato quello di istituire dei punti di osservazione, che
garantissero la possibilità di immediato avvertimento della popolazione al verificarsi dell'evento: ragione
per cui l'Autorità chiedeva espressamente lo stanziamento di fondi. L'allarme per la probabilità del
Norme in materia di
tutela risarcitoria contro
i danni all'ambiente
La chiusura del sistema
Geografia della Parte
Sesta
Sul piano topografico:
-
-
Titolo II Prevenzione e ripristino
ambientale
Titolo I Ambito di applicazione
Conclude il Codice dell’Ambiente
-
Titolo III Risarcimento del danno
ambientale
Premessa
Compensation
Punishment
Prevention
____ ?
Ambito di
applicazione
-
-
L'azione ministeriale si svolge normalmente in
collaborazione con le regioni, con gli enti locali e con
qualsiasi soggetto di diritto pubblico ritenuto idoneo
Il Ministero dell’ambiente per il tramite della
Direzione generale per il danno ambientale
Competenze
ministeriali
-
il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio,
con proprio decreto, di concerto con i Ministri
dell'economia e delle finanze e delle attività
produttive, stabilisce i criteri per le attività
istruttorie volte all'accertamento del danno
ambientale e per la riscossione della somma dovuta
per equivalente patrimoniale
Il danno ambientale
È danno ambientale qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa
naturale o dell'utilità assicurata da quest'ultima
La direttiva 2004/35/CE
Analiticamente (ed esemplificativamente), il danno:
a) alle specie e agli habitat naturali protetti dalla normativa nazionale e comunitaria di cui alla legge 11
febbraio 1992, n. 157, recante norme per la protezione della fauna selvatica, che recepisce le direttive
79/409/CEE del Consiglio del 2 aprile 1979; 85/411/CEE della Commissione del 25 luglio 1985 e 91/244/
CEE della Commissione del 6 marzo 1991 ed attua le convenzioni di Parigi del 18 ottobre 1950 e di Berna
del 19 settembre 1979, e di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357,
recante regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli
habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche, nonché alle aree naturali
protette di cui alla legge 6 dicembre 1991, n. 394, e successive norme di attuazione;
b) alle acque interne, mediante azioni che incidano in modo significativamente negativo sullo stato
ecologico, chimico e/o quantitativo oppure sul potenziale ecologico delle acque interessate, quali definiti
nella direttiva 2000/60/CE, ad eccezione degli effetti negativi cui si applica l'articolo 4, paragrafo 7, di
tale direttiva;
c) alle acque costiere ed a quelle ricomprese nel mare territoriale mediante le azioni suddette, anche se
svolte in acque internazionali;
d) al terreno, mediante qualsiasi contaminazione che crei un rischio significativo di effetti nocivi, anche
indiretti, sulla salute umana a seguito dell'introduzione nel suolo, sul suolo o nel sottosuolo di sostanze,
preparati, organismi o microrganismi nocivi per l'ambiente.
Danno e principio di
precauzione
In applicazione del principio di precauzione di cui all'articolo 174, paragrafo 2,
del Trattato CE, in caso di pericoli, anche solo potenziali, per la salute umana e
per l'ambiente, deve essere assicurato un alto livello di protezione
Valutazione scientifica obiettiva
Obbligo di informazione
Il Ministro dell’ambiente, in base al principio di precauzione, può disporre
misure che siano:
a) proporzionali rispetto al livello di protezione che s'intende raggiungere;
b) non discriminatorie nella loro applicazione e coerenti con misure analoghe già
adottate;
c) basate sull'esame dei potenziali vantaggi ed oneri;
d) aggiornabili alla luce di nuovi dati scientifici.
Informazione al pubblico
Esclusioni
Difesa della patria e conflitti armati
Eventi naturali catastrofici
Danni previsti in convenzioni internazionali
Nucleare
Con riferimento al tempo:
(a) non si applica al danno causato da un'emissione, un evento
o un incidente verificatisi prima della data di entrata in vigore
del Codice;
(b) non si applica se sono passati più di trenta anni dall’evento
Bonifica, se sono iniziate le operazioni di bonifica
Rapporto con le
bonifiche
Ne bis in idem?
La questione dell’entrata in vigore (analogia
o argomento a contrario?)
Prevenzione e
ripristino ambientale
Titolo II
Prevenzione
Quando un danno ambientale non si è ancora verificato, ma
esiste una minaccia imminente che si verifichi, l'operatore
interessato adotta, entro ventiquattro ore e a proprie spese,
le necessarie misure di prevenzione e di messa in sicurezza
Per "operatore" s'intende qualsiasi persona, fisica o
giuridica, pubblica o privata, che esercita o controlla
un'attività professionale avente rilevanza ambientale
oppure chi comunque eserciti potere decisionale sugli
aspetti tecnici e finanziari di tale attività, compresi il
titolare del permesso o dell'autorizzazione a svolgere detta
attività (302, IV)
Interessato significa responsabile?
Prevenzione: il
procedimento
Comunicazione (Tale comunicazione deve avere
ad oggetto tutti gli aspetti pertinenti della
situazione, ed in particolare le generalità
dell'operatore, le caratteristiche del sito
interessato, le matrici ambientali
presumibilmente coinvolte e la descrizione degli
interventi da eseguire)
E’ il possesso delle informazioni necessarie per
una efficace azione preventiva che definisce la
responsabilità: un nuovo modello di
responsabilità?
Prevenzione: il
procedimento
La comunicazione vale come abilitazione agli
interventi che vi sono rappresentati (non semplice
dia, ma vera e propria abilitazione)
Sanzione non > 3kEuro non < 30kEuro per ogni giorno
di ritardo
Mamb può sempre: (a) chiedere informazioni; (b)
imporre specifiche misure di prevenzione; (c)
realizzare specifiche misure di prevenzione
Se manca l’operatore interessato, o questi non intende
provvedere, provvede il Mamb approvando la nota
spese
Ripristino ambientale
Quando si è verificato un danno all’ambiente, l’operatore (non
l’operatore “Interessato”):
(a) lo comunica;
(b) adotta tutte le misure necessarie per limitare il danno;
(c) adotta le misure di ripristino
Mamb ha gli stessi poteri che può esercitare in materia di azione
preventiva (può chiedere informazioni; può impartire
prescrizioni; può eseguire gli interventi che non vengono posti in
essere “approvando la nota spese”)
diritto di rivalsa esercitabile verso chi abbia causato o comunque
concorso a causare le spese stesse, se venga individuato entro il
termine di cinque anni dall'effettuato pagamento
La determinazione delle misure
di ripristino ambientale
Gli operatori individuano le possibili misure per il ripristino
ambientale che risultino conformi all'allegato 3 alla parte
sesta del presente decreto e le presentano per
l'approvazione al Ministro dell'ambiente e della tutela del
territorio senza indugio e comunque non oltre trenta giorni
dall'evento dannoso, a meno che questi non abbia già
adottato misure urgenti, a norma articolo 305, commi 2 e 3.
Il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio decide
quali misure di ripristino attuare, in modo da garantire, ove
possibile, il conseguimento del completo ripristino
ambientale, e valuta l'opportunità di addivenire ad un
accordo con l'operatore interessato nel rispetto della
procedura di cui all'articolo 11 della legge 7 agosto 1990, n.
241.
Notificazione
Le decisioni che impongono misure di
precauzione, di prevenzione o di ripristino,
adottate ai sensi della parte sesta del
presente decreto, sono adeguatamente
motivate e comunicate senza indugio
all'operatore interessato con indicazione dei
mezzi di ricorso di cui dispone e dei termini
relativi
=> C’era bisogno di dirlo e, se si è scelto di
dirlo, che cosa significa averlo detto?
Il recupero dei costi
Il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio recupera, anche attraverso
garanzie reali o fideiussioni bancarie a primacrichiesta e con esclusione del beneficio
della preventiva escussione, dall'operatore che ha causato il danno o l'imminente
minaccia, le spese sostenute dallo Stato in relazione alle azioni di precauzione,
prevenzione e ripristino adottate a norma della parte sesta del presente decreto
Può decidere di non recuperare la totalità dei costi qualora la spesa necessaria sia
maggiore dell'importo recuperabile o qualora l'operatore non possa essere individuato
In ogni caso, non sono a carico dell'operatore i costi delle azioni di precauzione,
prevenzione e ripristino adottate conformemente alle disposizioni di cui alla parte
sesta del presente decreto se egli può provare che il danno ambientale o la minaccia
imminente di tale danno:
a) è stato causato da un terzo e si è verificato nonostante l'esistenza di misure di
sicurezza astrattamente idonee;
b) è conseguenza dell'osservanza di un ordine o istruzione obbligatori impartiti da una
autorità pubblica, diversi da quelli impartiti a seguito di un'emissione o di un incidente
imputabili all'operatore; in tal caso il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio
adotta le misure necessarie per consentire all'operatore il recupero dei costi sostenuti
Esclusione di
responsabilità
Nessuna responsabilità a carico dell’operatore, qualora dimostri che non
gli è attribuibile un comportamento doloso o colposo e che l'intervento
preventivo a tutela dell'ambiente è stato causato da:
a) un'emissione o un evento espressa mente consentiti da
un'autorizzazione conferita ai sensi delle vigenti disposizioni
legislative e regolamentari recanti attuazione delle misure
legislative adottate dalla Comunità europea di cui all'allegato 5 della
parte sesta del presente decreto, applicabili alla data dell'emissione
o dell'evento e in piena conformità alle condizioni ivi previste;
b) un'emissione o un'attività o qualsiasi altro modo di utilizzazione
di un prodotto nel corso di un'attività che l'operatore dimostri non
essere stati considerati probabile causa di danno ambientale
secondo lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche al momento
del rilascio dell'emissione o dell'esecuzione dell'attività
Principio di autonomia delle iniziative tipizzate dalla Parte VI rispetto
alla piena responsabilità del Trasgressore interessato
La denunzia popolare
Le regioni, le province autonome e gli enti locali, anche associati, nonché le persone
fisiche o giuridiche che sono o che potrebbero essere colpite dal danno ambientale o che
vantino un interesse legittimante la partecipazione al procedimento relativo
all'adozione delle misure di precauzione, di prevenzione o di ripristino previste dalla
parte sesta del presente decreto possono presentare al Ministro dell'ambiente e della
tutela del territorio (1202), depositandole presso le Prefetture - Uffici territoriali del
Governo, denunce e osservazioni, corredate da documenti ed informazioni, concernenti
qualsiasi caso di danno ambientale o di minaccia imminente di danno ambientale e
chiedere l'intervento statale a tutela dell'ambiente a norma della parte sesta del
presente decreto.
Le organizzazioni non governative che promuovono la protezione dell'ambiente, di cui
all'articolo 13 della legge 8 luglio 1986, n. 349, sono riconosciute titolari dell'interesse
di cui al comma 1.
Il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio valuta le richieste di intervento e le
osservazioni ad esse allegate afferenti casi di danno o di minaccia di danno ambientale e
informa senza dilazione i soggetti richiedenti dei provvedimenti assunti al riguardo.
In caso di minaccia imminente di danno, il Ministro dell'ambiente e della tutela del
territorio, nell'urgenza estrema, provvede sul danno denunciato anche prima d'aver
risposto ai richiedenti ai sensi del comma 3.
La azione popolare
Le regioni, le province autonome e gli enti locali,
anche associati, nonché le persone fisiche o
giuridiche che sono o che potrebbero essere colpite
dal danno ambientale sono legittimati ad agire,
secondo i princìpi generali, per l'annullamento degli
atti e dei provvedimenti adottati in violazione delle
disposizioni di cui alla parte sesta del presente
decreto nonché avverso il silenzio inadempimento del
Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e
per il risarcimento del danno subito a causa del
ritardo nell'attivazione, da parte del medesimo
Ministro, delle misure di precauzione, di prevenzione
o di contenimento del danno ambientale.
Il risarcimento del
danno ambientale
Titolo III
Azione risarcitoria
(311)
Il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio agisce, anche esercitando
l'azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale in
forma specifica e, se necessario, per equivalente patrimoniale, oppure procede
ai sensi delle disposizioni di cui alla parte sesta del presente decreto
Chiunque realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o comportamenti
doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o di provvedimento
amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di norme
tecniche, arrechi danno all'ambiente, alterandolo, deteriorandolo o
distruggendolo in tutto o in parte, è obbligato all’effettivo ripristino a sue
spese della precedente situazione e, in mancanza, all’adozione di misure di
riparazione complementare e compensativa, da effettuare entro il termine
congruo di cui all’articolo 314, comma 2, del presente decreto
Quando l’effettivo ripristino o l’adozione di misure di riparazione
complementare o compensativa risultino in tutto o in parte omessi, impossibili
o eccessivamente onerosi ai sensi dell’articolo 2058 del codice civile o
comunque attuati in modo incompleto o difforme rispetto a quelli prescritti, il
danneggiante è obbligato in via sostitutiva al risarcimento per equivalente
patrimoniale nei confronti dello Stato
per il drenaggio e di ricarica delle acque freatiche. In sentenza, confermando la tendenziale
giurisprudenza intesa ad interpretare in senso ampio il campo applicativo della procedura di VIA, si
precisa (ai paragrafi 23-31) che un progetto come quello in esame rientra nell'allegato II della direttiva
85/337 (punto 10, lett. l) a prescindere dalla destinazione finale delle falde freatiche e quindi anche se sia
escluso un successivo utilizzo delle medesime acque.
(2) Come si apprende dalla sentenza, il diritto svedese prevede che le domande di autorizzazione in
materia di drenaggio e ricarica artificiale delle falde freatiche vengono esaminate e decise da sezioni
specializzate in materia ambientale del tribunale locale, impugnabili dinanzi a Corti d'Appello, anch'esse
specializzate, le cui decisioni sono ricorribili per cassazione.
(3) Si veda ad esempio Cons. Stato, Sez. VI, 19 ottobre 2007, n. 5453, in Riv. giur. edilizia 2008, p. 371,
con riferimento all'interesse all'impugnazione, da parte di privati proprietari di aree e di Comuni, di
provvedimenti autorizzatori di una discarica di rifiuti. In termini Cons. Stato, Sez. V, 14 aprile 2008, n.
1725, in Riv. giur. edilizia 2008, p. 1157, secondo cui anche i Comuni viciniori debbono fornire elementi
concreti atti a dare prova della idoneità della discarica a produrre disagi e conseguenze negative sulla
salute della popolazione.
(4) Si veda in tal senso T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, 5 febbraio 2008 n. 358; in Foro amm.-TAR 2008, p.
590; in termini ID., Sez. II, 29 dicembre 2008, n. 3758, in Foro amm.-TAR 2008, p. 3453.
(5) Su tali tematiche si rinvia a A. MAESTRONI, Associazioni ambientaliste e interessi diffusi, in S. NESPOR,
A.L. DECESARIS (a cura di), Codice dell'ambiente, III ed., Milano 2009, pp. 435 ss. e alla giurisprudenza ivi
citata.
(6) Cfr. ad esempio da ultimo T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. I, 10 dicembre 2008, n. 1739, in Foro
amm.-TAR, 2008, p. 3281; nonché T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, Sez. I, 26 novembre 2007, n. 3365,
in questa Rivista, 2008, n. 3-4, p. 650, con nota in calce di L. FRIGERIO, Impugnazione di atti
amministrativi: legittimazione delle associazioni ambientaliste e rapporto tra AIA e VIA.
(7) Si veda ad esempio T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 1 aprile 2009, n. 3481, in Foro amm.-TAR, 2009, p.
1087.
(8) Da ultimo sembra impostare nei corretti termini la questione T.A.R. Calabria, Catanzaro, Sez. I, 30
aprile 2009, n. 378, in Foro amm.-TAR 2009, p. 1590; nonché T.A.R. Emilia Romagna, Parma, 3 giugno
2008, n. 304 e T.A.R. Toscana, Sez. I, 23 giugno 2008, n. 1651, entrambe in questa Rivista, 2009, n. 1,
pp. 200 ss. con nota in calce.
(9) Su tali argomenti si veda ad esempio R. LAI, Alta amministrazione e VIA: tra discrezionalità tecnica e
discrezionalità politica, in questa Rivista, 2006, pp. 515 ss.
(10) Cons. Stato, Sez. V, 16 giugno 2009, n. 3849, su cui si veda la nota di V. STEFUTTI, Tra il divieto di
frazionamento del progetto e il principio di effettività della normativa comunitaria, in
www.dirittoambiente.net
(11) Per la verità, a leggere il precedente paragrafo 23 della sentenza della Corte di Giustizia, non
parrebbe che il PDA irlandese recasse una previsione vincolante per i giudici nazionali, ma semplicemente
esortativa.
(12) L'assenza di dati statistici sull'argomento non rende men vere le suddette circostanze che rientrano
nell'esperienza di ogni operatore giuridico del settore.
(13) Così la relazione alla proposta di legge AC n. 2271, "Modifica all'articolo 18 della legge 8 luglio 1986,
n. 349, in materia di responsabilità processuale delle associazioni di protezione ambientale": si tratta
della c.d. proposta di legge "blocca-processi ambientali" presentata il 10 marzo 2009 alla Commissione
Giustizia della Camera dei deputati, primo firmatario l'on. Michele Scandroglio.
(14) E ciò malgrado la dottrina ritenga i ricorsi delle associazioni esenti dal contributo unificato in forza
del disposto dell'art. 10 del ricordato T.U. sulle spese di giustizia che esclude dall'obbligo del versamento
per i procedimenti già esenti dall'imposta di bollo (tra i quali rientrano tutti gli atti posti in essere da
ONLUS ex art. 27-bis Tabella B) del D.P.R. 642/1972 sulla disciplina dell'imposta di bollo): si veda. A
MAESTRONI, cit., pp. 471 ss.
(15) A. MAESTRONI, cit., p. 473.
Archivio selezionato: Dottrina
La direttiva 2004/35/CE e il suo recepimento in Italia (*)
Riv. giur. ambiente 2010, 01, 1
BARBARA POZZO
1. La fattispecie "danno ambientale". - 2. Il principio "chi inquina paga" come principio fondante della
responsabilità civile in campo ambientale. - 3. La prospettiva italiana: le scelte operate con la L.
349/1986. - 3.1. Il criterio di responsabilità per colpa nell'illecito ambientale. - 3.2. L'eccezione alla
responsabilità solidale. - 3.3. La tipicità dell'illecito ambientale. - 3.4. L'irretroattività della responsabilità
in campo ambientale. - 3.5. Il legittimato attivo all'azione di danno ambientale. - 4. Le novità introdotte
dal decreto Ronchi (decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22). - 5. Le strategie del legislatore europeo in
relazione ai siti contaminati. - 6. La valutazione delle risorse ambientali nel panorama internazionale ed
europeo. - 7. La direttiva 2004/35/CE. - 7.1. Una responsabilità per attività selezionate e identificabili. 7.2. Il problema del nesso causale. - 7.3. Il criterio di imputazione della responsabilità. - 7.4. Le scelte in
materia di responsabilità solidale. - 7.5. Il danno ambientale preso in considerazione dalla direttiva. - 7.6.
La legittimazione attiva. - 7.7. I criteri di risarcimento del danno ambientale. - 8. L'impatto della direttiva
sulla precedente situazione italiana. - 9. Le novità introdotte dalla Parte Sesta del D.Lgs. 152/2006. - 9.1.
La nozione di danno ambientale. - 9.2. Il legittimato attivo. - 9.3. Il soggetto responsabile. - 9.4. Il
criterio di imputazione della responsabilità nella Parte Sesta del D.Lgs. 152/2006. - 9.5. Coordinamento
con i criteri di imputazione della responsabilità previsti nella Parte Quarta del D.Lgs. 152/2006. - 9.6.
Principi in materia di responsabilità solidale. - 9.7. Il problema del nesso causale. - 9.8. I criteri di
risarcimento del danno ambientale. - 10. L'apertura di una procedura di infrazione da parte della
Commissione Europea nei confronti dell'Italia. - 11. Le modifiche apportate dal D.L. 25 settembre 2009,
n. 135, "Disposizioni urgenti per l'attuazione di obblighi comunitari e per l'esecuzione di sentenze della
Corte di Giustizia delle Comunità Europee" e le questioni ancora "aperte".
Lo studio che qui si presenta intende analizzare i principali sviluppi che si sono avuti nella disciplina della
responsabilità per danni ambientali in Italia nell'ultimo ventennio.
In particolare, la ricerca copre il periodo che si estende dall'entrata in vigore della legge n. 349 dell'8
luglio 1986 (1) fino ai giorni nostri, tenendo conto delle innovazioni introdotte con D.Lgs. 152/2006 (2).
Seppur concentrata sulle vicende italiane, essa mira a mettere in luce i principî e le regole comunitarie,
con particolare riguardo a quelle contenute nella direttiva 2004/35/CE del 21 aprile 2004 sulla
responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale(3).
1. La fattispecie "danno ambientale".
Come si articolerà più dettagliatamente in seguito, le diverse discipline succedutesi nel tempo possono
essere considerate come tentativi volti a definire la fattispecie del danno ambientale, dalla cui struttura
dipende l'impostazione delle singole questioni più frequentemente ricorrenti.
Certamente anche la struttura della fattispecie "danno ambientale" deve essere tratta dalle norme che la
disciplinano, ma ciò non toglie che i problemi essenziali sottesi a detta fattispecie possano essere
individuati a priori. Del resto, il problema generale della tutela dell'ambiente non nasce, storicamente,
dall'intervento legislativo, ma dalle sollecitazioni pressantemente imposte dai formanti culturali
dell'ordinamento giuridico: dottrina (4) e giurisprudenza (5).
Il problema del danno ambientale proposto dalle fonti culturali implica la pre-individuazione di una serie
di punti nodali che costituiscono l'ossatura della fattispecie, anche se poi ciascuno di essi deve essere
affrontato e risolto mediante scelte di policy da parte del legislatore.
Giova quindi assumere come punto di partenza la semplice locuzione: "danno ambientale" per
esaminarne analiticamente le implicazioni problematiche.
È però da osservare preliminarmente come la locuzione suddetta possa collocarsi in diversi contesti
discorsivi e come sia essenziale scindere il contesto retorico-argomentativo da quello tecnico-giuridico.
Infatti, nel mondo del diritto, ma in particolare in dottrina ed anche in giurisprudenza, questi due tipi di
discorsi si trovano spesso intrecciati. Tuttavia, nel contesto dei discorsi di tipo retorico-argomentativo la
locuzione "danno ambientale" non sottende direttamente alcun tipo di problema, in quanto essa designa
qualsiasi alterazione dell'ambiente circostante che sia considerata insopportabile dall'autore del discorso,
il quale è poi chiamato ad utilizzare le normali tecniche retoriche per persuadere il più vasto numero
possibile di ascoltatori che tale sentimento soggettivo merita di essere condiviso.
Solo quindi in un contesto discorsivo di tipo tecnico-giuridico la locuzione "danno ambientale" può essere
oggetto di svolgimento analitico.
Iniziando dal sostantivo danno si può osservare come qualsiasi ordinamento giuridico reagisce ad un
qualunque evento dannoso in modo variegato e complesso, utilizzando cioè una lunga tastiera di rimedi
che l'esperienza storica ha posto a sua disposizione. Ciò consente di escludere dalla disamina il grado
zero al quale non corrisponde alcuna reazione dell'ordinamento.
Infatti, la soluzione di lasciare i danni là ove essi cadono, pur largamente praticata, implicando un
detrimento cui non corrisponde alcun rimedio giuridico, esclude che si possa parlare di danno, parola che
inizia ad avere un significato all'interno dei discorsi di tipo giuridico solo quando al manifestarsi di un
evento negativo corrisponde una reazione almeno potenziale da parte dell'ordinamento stesso. In questa
direzione il passo successivo consiste nel distinguere le reazioni ordinamentali, che si avvalgono dei
meccanismi pertinenti a diversi settori del diritto secondo le categorie ordinanti comunemente accolte
nella tradizione giuridica occidentale e che quindi pertengono ai settori del diritto penale, del diritto
amministrativo, o del diritto civile.
Quest'ultima considerazione, pur rimanendo confinata nella banalità dell'ovvio, è tuttavia foriera di
qualche indicazione, poiché nel reagire al "danno ambientale" gli ordinamenti attuali hanno posto mano a
tutti gli strumenti disponibili, sia di natura penale che amministrativa che civile, ma gli interpreti non si
sono sempre dati carico della inevitabile polisemia che la parola danno riceve dal suo collegarsi con le
categorie ordinanti, e i correlati modi di pensare, che ciascuna branca del diritto ha ormai messo a punto
per proprio conto.
In ciò si manifesta anche una certa preponderanza dell'interprete esegetico, il quale si aspetta che la
sintesi ordinamentale, anziché essere oggetto della sua cura e in definitiva della sua responsabilità, gli sia
scodellata come già belle che pronta dal legislatore e quindi è propenso a credere che la parola danno
abbia nei testi legislativi un senso univoco, salvo prestargliene uno a caso in base al ben noto
meccanismo della precomprensione(6) in cui - in genere - si manifesta la formazione culturale
dell'autore, la quale però non viene rivelata al lettore essendone l'autore stesso incosciente.
Richiamato ciò, è da avvertire che qui di seguito si farà riferimento esclusivamente al "danno ambientale"
risarcibile, e quindi al settore del solo diritto civile (7).
In tale direzione, posto che il risarcimento deve essere equivalente alla lesione sofferta da altri, la stringa
linguistica: danno ambientale risarcibile evoca i seguenti problemi:
a) come possa individuarsi il bene la cui lesione provoca la reazione dell'ordinamento;
b) quale tipo di pregiudizio apportato al bene, identificato sub a), possa essere sufficiente a provocare la
reazione ordinamentale risarcitoria;
c) chi sia legittimato a reclamare a proprio favore l'attivazione della reazione ordinamentale risarcitoria;
d) chi sia chiamato a rispondere alla pretesa esperita dal soggetto identificato sub c).
Se i problemi suddetti emergono da una analisi della proposizione linguistica, si deve rimarcare come la
loro traduzione in elementi strutturali di una fattispecie giuridica, richiedendo il passaggio dal cognitivo al
deontico, non possa prescindere dal riferimento ad un principio informatore di natura deontica nonché, in
seguito, dal confronto con la normativa in vigore.
2. Il principio "chi inquina paga" come principio fondante della responsabilità civile in campo
ambientale.
Senza indulgere in problematizzazioni qui non necessarie né utili, si può assumere che il principio
deontico informatore che regge la materia del danno ambientale risarcibile sia rintracciabile nel principio
comunitario: chi inquina paga(8).
È comunemente accettato, ma è anche agevolmente dimostrabile in base alla teoria delle fonti, come
detto principio costituisca il fondamento delle risposte ordinamentali europee al fatto "danno
ambientale" (9).
Dalla locuzione "chi inquina paga" è facile dedurre che elementi costitutivi indefettibili della fattispecie
danno ambientale risarcibile, sono: un soggetto individuato; un fatto definito come inquinamento (o, in
senso ampio: danno) ambientale; un nesso di causalità che colleghi strutturalmente la condotta del
soggetto al fatto.
È evidente dunque che risultano impregiudicati altri elementi costitutivi della fattispecie.
La condotta del soggetto implicato nella espressione: "chi inquina paga" non viene infatti connotata dai
classici attributi che integrano l'elemento soggettivo dell'illecito civile: imperizia, imprudenza, negligenza,
violazione di leggi e di regolamenti; ma nemmeno tali connotazioni sono escluse a favore di una forma di
responsabilità senza colpa (10). Alcuni illustri studiosi hanno al contrario sostenuto che la responsabilità
per colpa sia l'unica possibile concretizzazione del principio "chi inquina paga" (11).
Analoghe considerazioni possono essere sviluppate in ordine all'effetto della fattispecie, che viene
designato in modo generico, indicando solo l'insorgenza di un obbligo risarcitorio, senza però dare alcuna
indicazione circa l'ammontare di esso e, soprattutto, senza indicare a favore di chi l'obbligo risarcitorio
deve essere assolto (12).
Va a questo proposito ricordato come ai tempi della prima formulazione del principio in analisi non si era
ancora formato in Europa (13), ed in parte difetta tuttora (14), un consenso generale circa
l'individuazione esatta della posizione soggettiva tutelanda in caso di danno ambientale.
A ben vedere queste lacune sono il sintomo di una lacuna strutturale più vistosa.
La locuzione "chi inquina paga", pur richiamando indubbiamente lo schema generico della responsabilità
aquiliana, omette infatti di indicare quale sia la posizione soggettiva tutelata (15).
Simili lacune non debbono sorprendere perché fa istituzionalmente parte dell'assetto comunitario il fatto
che gli organi preposti alla formulazione di regole generali o principî direttivi si ispirino al criterio di
sussidiarietà ai sensi degli artt. 2 (16) e 5 (17) del Trattato dell'Unione Europea, lasciando che siano i
singoli Stati membri ad operare le scelte di policy più idonee a colmare le lacune (18).
Non deve quindi sorprendere che, nel particolare settore della responsabilità ambientale, un'autorevole
dottrina abbia prediletto la tesi secondo cui debba essere demandata al legislatore nazionale la scelta del
regime di responsabilità più appropriato (19).
Piuttosto è da sottolineare come il principio "chi inquina paga", benché incompleto, abbia tuttavia una
portata precettiva che va colta in armonia con l'assetto delle fonti comunitarie.
Infatti, detto principio esclude che uno Stato membro possa introdurre regole in base alle quali del danno
ambientale possa essere chiamato a rispondere un soggetto la cui condotta non sia causalmente
connessa con il fatto inquinamento ed esclude inoltre che la somma che il soggetto responsabile è tenuto
a pagare non sia rapportabile al fatto dannoso da lui causato (20). Simili esclusioni che ovviamente si
richiamano al principio della supremazia del diritto comunitario, non solo sono rese evidenti da una
interpretazione sintattica della locuzione: "chi inquina paga", ma sono imposte anche dalla sua ratio legis
(21).
Approfonditi studi (22) hanno posto in rilevo che la gran parte dell'inquinamento ambientale dipende
dalle tecnologie utilizzate. Le tecnologie in uso sono molto spesso sostituibili con altre che provocano un
minor impatto ambientale, ma che - a sostanziale parità di rendimento - sono anche più costose e,
soprattutto, richiedono un più rapido avvicendamento delle tecnologie precedenti anche in contrasto con
l'economicità degli ammortamenti (23).
In questa situazione la responsabilità civile per danno ambientale acquista la solita funzione di ridurre le
esternalità negative (24), sì che il carico risarcitorio renda economicamente conveniente l'adozione di
tecnologie con minor impatto ambientale. Il che è come dire che la funzione essenziale della
responsabilità civile in campo ambientale è la funzione deterrente (25), mentre la funzione indennitaria
(26) rimane del tutto marginale.
La teoria elementare della responsabilità civile suggerisce, però, che la funzione deterrente svanisce
immediatamente ove le probabilità di vedersi addossato un obbligo risarcitorio risulti scollegata sia nell'an
che nel quantum rispetto alle condotte esigibili dal soggetto agente (27).
In tale ipotesi, infatti, il costo dell'assicurazione della responsabilità civile per danno ambientale risulta
tendenzialmente eguale sia per il soggetto che attraverso un cambio di tecnologie riduce le esternalità
negative sia per colui che non attua alcun cambio di tecnologie risparmiando così i costi di rimpiazzo.
Assunto che, almeno in un mercato ideale, il costo della polizza di responsabilità civile per danno
ambientale non è altro che la misura ex ante del potenziale carico risarcitorio, ne discende che ogni
deviazione dalla logica della funzione deterrente, induce i potenziali inquinatori a non adottare le cautele
necessarie per ridurre l'inquinamento, contraddicendo così alla ratio profonda del principio "chi inquina
paga".
In questa prospettiva si colloca quella manualistica di espressione inglese, ma ben radicata nei sistemi di
civil law, che esclude possa essere riconosciuta al principio "chi inquina paga" una funzione punitiva nei
confronti dell'inquinatore, mentre lo stesso principio dovrebbe essere piuttosto letto e interpretato come
criterio di efficiente gestione delle risorse ambientali (28).
3. La prospettiva italiana: le scelte operate con la L. 349/1986.
Se si assume che la struttura della fattispecie del danno ambientale è solo parzialmente delineata dal
principio comunitario chi inquina paga, se ne deve dedurre che una completa individuazione dei suoi
elementi costitutivi richiede un esame della normativa nazionale e comunitaria.
Per quanto riguarda l'Italia è da ricordare come si siano succedute nel tempo due normative principali con
il contorno di altri interventi meno rilevanti.
La prima fonte normativa principale è data dall'art. 18 della legge 349/1986 (29); la seconda, che
sostituisce la prima, è quella contenuta nella Parte Sesta del D.Lgs. 152/ 2006 (30) la quale si prefigge di
recepire la direttiva 2004/35/CE del Parlamento e del Consiglio sulla responsabilità ambientale in materia
di prevenzione e riparazione del danno ambientale(31).
Il testo dell'art. 18 della L. 349/1986 (32), oggetto di innumerevoli analisi dottrinali (33), manifesta già
da una prima lettura le scelte di policy fondamentali compiute dal legislatore nazionale, che in quella sede
aveva voluto dettare una norma specifica di responsabilità civile rispetto a quelle presenti nel Codice
civile, le quali erano inidonee a regolare la fattispecie "danno ambientale".
In effetti, la dottrina italiana aveva sin dall'inizio messo in evidenza le fondamentali differenze tra illecito
ambientale ex art. 18 della legge 349/1986 e la norma di cui all'art. 2043 del nostro Codice civile.
In particolare si era sottolineato come oltre al criterio della tipicità presente nell'art. 18, che già appare
come elemento fortemente differenziante rispetto alla formula del neminem laedere di cui all'art. 2043
c.c., mancasse il riferimento alla ingiustizia del danno, che in questa fattispecie verrebbe assorbita dalla
violazione di norme(34).
Le novità rispetto al sistema codicistico, però, non finivano qui. L'art. 18 nel dettare le norme sul
risarcimento del danno introduceva infatti alcune notevoli eccezioni rispetto al sistema di diritto comune,
come la regola per cui il risarcimento dovesse avvenire in forma specifica, a meno che questo non fosse
tecnicamente più fattibile, ribaltando la regola di cui all'art. 2058 c.c. che - come è noto - prevede il
risarcimento per equivalente come principio generale (35).
Veniva inoltre osservato come anche il principio della solidarietà, previsto dall'art. 2055 c.c. patisse
un'ampia eccezione in quanto che ai sensi dell'art. 18, comma 7, ciascuno rispondeva nei limiti della
propria responsabilità individuale (36).
Queste divaricazioni rispetto al sistema codicistico unitamente al fatto che il legittimato attivo era un ente
pubblico avevano reso arduo un possibile inserimento dell'art. 18 della L. 349/1986 negli schemi della
responsabilità aquiliana generale.
In effetti, alcune scelte compiute dal legislatore del 1986 hanno bisogno di qualche ulteriore
approfondimento.
3.1. Il criterio di responsabilità per colpa nell'illecito ambientale. - In primo luogo giova riflettere sulla
valorizzazione dell'elemento soggettivo costitutivo della fattispecie danno ambientale, che l'art. 18
identificava nella colpa o nel dolo dell'agente e nella violazione di specifiche norme poste a tutela
dell'ambiente.
A questo proposito è da ricordare come l'attenzione degli interpreti si sia fissata sull'endiadi: colpa o dolo,
per sottolineare come la responsabilità civile in campo ambientale sia essenzialmente una responsabilità
per colpa e non già una responsabilità oggettiva.
Tale sottolineatura pare però più un effetto di trascinamento della lunga diatriba dottrinale tra i fautori
della responsabilità per colpa e quelli della responsabilità oggettiva, che non il portato di un'effettiva
incidenza operativa verificata attraverso l'analisi giurisprudenziale.
La ragione del dubbio è presto detta.
La responsabilità civile in campo ambientale è una responsabilità cosiddetta unilaterale e non relazionale
(37). Come è noto questa importante distinzione concettuale serve a distinguere le ipotesi in cui la
causazione del danno è imputabile alla condotta di un solo soggetto, da quelle in cui, almeno in astratto,
la causazione del danno è imputabile sia alla condotta del soggetto agente sia a quella della vittima del
danno, ciò nel senso, piuttosto banale, che entrambi possono fare qualcosa per evitare l'evento di danno
(38).
In campo ambientale è piuttosto ovvio che le vittime di un inquinamento possano fare ben poco per
evitare il fatto inquinante. Bisognerà quindi tenere presenti le caratteristiche che contraddistinguono il
danno derivante da unilateral accident da quelle - ad esempio - presenti nei casi di inquinamento
acustico, ove anche il danneggiato avrebbe qualche possibilità di reagire al verificarsi del danno, cercando
di prevenirlo in qualche modo (39).
Quando si verta nel settore della responsabilità unilaterale, l'elemento della colpa si sovrappone al criterio
della esigibilità della condotta che avrebbe potuto evitare il danno. Inoltre in campo ambientale le
condotte dei soggetti agenti sono strettamente collegate all'uso di certe tecnologie e non di altre ed al
ricorso, o mancato ricorso, a certi accorgimenti. È facile, in una epoca di aspettative quasi illimitate circa
le risorse tecnologiche, che la valutazione della condotta esigibile scivoli nel corto circuito logico cui
presiede il criterio della res ipsa loquitur, in cui è l'evento dannoso ciò che costituisce l'evidenza
insormontabile della colpa.
Naturalmente è sempre possibile recuperare uno spazio di effettiva incidenza dell'elemento soggettivo
della colpa; ciò accade ove il giudizio di esigibilità della condotta alternativa sia informato a criteri
razionali come la Learned Hand formula(40).
Tuttavia si constata come simili criteri siano stati trascurati dalla giurisprudenza italiana per
contaminazione di due fattori: uno generale ed uno specifico.
Il fattore specifico nasce dal fatto che i danni ambientali sono facilmente collegabili con i danni alla salute
e quando si verte in tema di tutela della salute la nostra giurisprudenza mostra una tendenza alla
assolutizzazione che lascia ben poco spazio ai ragionamenti economici.
Il fattore generale si collega al fatto che la valutazione attorno alla colpa rinvia necessariamente ad una
valutazione basata sulle circostanze del caso singolo ed in definitiva alla valutazione, necessariamente
complessa, svolta dal soggetto cui la decisione sul caso è istituzionalmente demandata. Ciò stimola le
parti contrapposte dalla dialettica processuale a ricorrere alle armi della retorica per attrarre la simpatia
del decisore alle rispettive tesi. La popolarità del criterio della colpa nel mondo forense si spiega in gran
parte con l'esaltazione delle qualità retoriche dei patroni, qualità di cui l'avvocatura italiana non ha mai
difettato, ed è inevitabile che l'aspetto teatrale del processo trovi poi riscontro nelle motivazioni delle
decisioni giurisprudenziali, predisponendole ad una deriva divergente rispetto ai più ostici calcoli della
ragione economica.
Non deve stupire, quindi, se si constata che nelle decisioni giurisprudenziali si mascherino spesso con il
linguaggio della colpa rationes decidendi che con la colpa in senso classico non hanno nulla a che
spartire.
Tuttavia se si cala il sipario sull'aspetto teatrale del processo e con quanto è ad esso connesso o derivato,
ci si avvede facilmente che la menzione del criterio della colpa nel testo dell'art. 18 legge 349/1986 ha
avuto la funzione di rendere imprescindibile l'analisi del nesso di causalità, il quale imprescindibile lo
sarebbe per suo conto, ma che talvolta è prescisso da non pochi di coloro che praticano il criterio della
responsabilità oggettiva.
3.2. L'eccezione alla responsabilità solidale. - Deve inoltre essere ben sottolineato come la scelta di policy
sottesa alla formulazione della norma di cui all'art. 18 legge 349/1986 fosse ben evidenziata dalla
previsione di cui al comma 7 (41), ove si derogava espressamente al criterio della responsabilità solidale
prevedendo che in caso di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno rispondesse nei limiti della
propria responsabilità individuale.
Tale previsione ha un valore sistematico pregnante perché evidenzia la funzione esclusivamente
deterrente della responsabilità civile in campo ambientale, rendendo quindi priva di ogni fondamento
normativo l'attribuzione alla stessa di una funzione indennitaria cui la solidarietà è ontologicamente
connessa.
A questo proposito è opportuno effettuare una precisazione: l'eccezione alla responsabilità solidale in
campo ambientale introdotta dal nostro legislatore del 1986 si basava su rationes condivise da quegli
illustri studiosi che, più tardi, anche formulando il desiderio di una riforma della legge 349/1986,
predicavano il mantenimento della responsabilità parziale (42).
In particolare, veniva sottolineato come la responsabilità solidale contrasti con le finalità deterrenti della
responsabilità civile in materia ambientale, in quanto la regola della solidarietà potrebbe essere
giustificata solo se i responsabili possono incidere l'uno sull'operato dell'altro ed in qualche modo
influenzarlo, non invece in campo ambientale dove l'inquinamento da parte di un'impresa non può
considerarsi collegato a quello prodotto da un'altra.
La responsabilità solidale in campo ambientale potrebbe infatti contrastare in modo lampante con gli
scopi e le funzioni ascritte alla responsabilità civile in campo ambientale, prima fra tutte la sua funzione
deterrente.
Si immagini di imporre la solidarietà dell'obbligazione risarcitoria in capo all'impresa che adotta costose
tecnologie per evitare di inquinare l'ambiente: in questo caso la regola della solidarietà svolgerà effetti
negativi e disincentivanti in capo all'impresa virtuosa, in quanto questa si troverà a sopportare il rischio di
essere escussa prima dell'impresa inadempiente nei confronti degli obblighi di tutela ambientale e che
omette di ottemperare agli obblighi imposti dalla legge, forse perché già si trova in una situazione
finanziaria precaria.
Ed allora si profila un panorama per nulla stimolante per l'impresa adempiente che sarà disincentivata ad
adottare misure costose di anti-inquinamento, non potendo in alcun modo influenzare l'operato delle altre
imprese del settore (43).
Per lo stesso motivo, come si avrà modo di analizzare in seguito, in sede europea la solidarietà in campo
ambientale è stata tacciata di perseguire scopi di "deep pocket", a discapito delle finalità di prevenzione
della responsabilità in campo ambientale (44).
3.3. La tipicità dell'illecito ambientale. - Da quanto è stato fin qui osservato si ricava che l'effettivo criterio
politicamente rilevante espresso dall'art. 18 legge 349/1986 è dato dal richiamo alla violazione di leggi e
regolamenti posti a tutela dell'ambiente. La dottrina ha sottolineato che in tal modo la responsabilità
civile in campo ambientale diviene una responsabilità tipica in contrapposizione alla atipicità (45) della
clausola generale di cui all'art. 2043 c.c.
Ciò è vero, ma ci si può chiedere se tale caratterizzazione sia espressa in modo felice.
È noto che la contrapposizione tra tipicità ed atipicità dell'illecito nasce sul piano del raffronto
comparatistico tra il modello francese ed il modello tedesco (46).
Il primo, grazie alla giusnaturalistica formula dell'art. 1382 del Code Napoléon(47), viene accreditato
come il capostipite dei sistemi che sposano la soluzione della atipicità dell'illecito civile; il secondo,
incarnato dal § 823 del Bürgerliches Gesetzbuch (BGB), in ciò fedele alla tradizione nata dalla lex Aquilia,
ha mantenuto fermo il riferimento all'elemento obiettivo dell'illecito indicando quali sono i beni della vita,
la cui lesione è suscettibile del rimedio risarcitorio (48).
È noto altresì come l'esperienza giuridica italiana abbia ibridato i due modelli, poiché a lungo dottrina e
giurisprudenza furono concordi nel ritenere che l'art. 2043 c.c. (come il suo antecedente storico: l'art.
1151 del Codice civile italiano del 1865) (49) fosse norma di secondo grado, nel senso che essa
interveniva solo laddove fosse stata violata una norma proibitiva di una condotta specifica. Poi si rilevò
come questa impostazione, che è perdurata a lungo in dottrina ed in giurisprudenza, capovolgesse il
sistema legale trasformandolo da atipico in tipico (50).
Sicché a fronte di una norma come l'art. 18 della legge 349/1986, che prevedeva la responsabilità per
danno ambientale solo a fronte di una violazione di norme specifiche, si è parlato di tipicità. Ma i due
discorsi non sono affatto omologhi. Infatti altro è la tipicità del BGB che è ancorata alla elencazione dei
beni della vita suscettibili di fondare il rimedio risarcitorio aquiliano, ed altro è il rinvio a norme prime. È il
rinvio a beni della vita elencati tassativamente che configura una vera tipicità dell'illecito (sebbene
attenuata da altre disposizioni normative), mentre il rinvio a norme prime non configura di per sé nulla, e
tutto dipende da come tali norme proibitive sono formulate. Se sono formulate ad un livello di grande
specificità, elencando tutti gli elementi costitutivi della fattispecie proibita, allora si può dire che il modello
della tipicità dell'illecito è sostanzialmente accolto; ma se anche una sola delle norme prime proibitive è
formulata a livello di grande astrattezza semantica, ad esempio vieta tutto ciò che può nuocere
all'ambiente, allora è il modello della atipicità ad essere finitimo.
Se si fa astrazione dalle più o meno felici caratterizzazioni sintetiche che la dottrina ha affibbiato alla
previsione legale di cui all'art. 18 legge 349/1986, è più facile avvedersi della rilevante portata normativa
della previsione in esame, rilevanza tanto più notevole quanto più sia esatto quanto prima rimarcato circa
la facile aggirabilità dell'elemento della colpa.
3.4. L'irretroattività della responsabilità in campo ambientale. - Sotto un profilo storico tutte le società
industriali sono transitate da periodi in cui la promozione dello sviluppo faceva aggio su qualsiasi altra
considerazione e che perciò erano estremamente tolleranti rispetto alla creazione di esternalità negative,
essendo coscienti che accanto ad esse vi erano esternalità positive che spaziavano dal riequilibrio della
bilancia dei pagamenti all'addestramento di mano d'opera industriale, alla promozione di stili di vita
maggiormente desiderabili (51).
Naturalmente, una volta esaurita la fase di decollo industriale, la tolleranza verso le esternalità negative è
fortemente e rapidamente scemata ed essa viene oggi considerata su scala europea come una forma di
sussidio occulto alle imprese nazionali, il che, agli occhi della Commissione europea, equivale ad indicare
quanto di più peccaminoso può immaginarsi.
Sennonché i danni da inquinamento hanno, per loro natura, un periodo di latenza prolungato (52), sicché
è facile a chi sia in preda al vizio esegetico trascurare il dato storico e valutare alla luce dei criteri
rigoristici successivi, condotte poste in essere in periodi di tolleranza (53).
Indicando la violazione di norme vigenti al momento in cui la condotta inquinante è stata posta in essere
come elemento costitutivo della condotta colpevole ed in definitiva come elemento costitutivo della
fattispecie del danno ambientale risarcibile, il testo dell'art. 18 evita di cadere in simili trappole che il
discorso retorico-sofistico potrebbe promuovere.
A ben vedere infatti una interpretazione logica e sistematica dell'art. 18 avrebbe dovuto condurre ad
identificare la violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che
compromettano l'ambiente come riferita a quelle norme il cui scopo fosse appunto la tutela dell'ambiente
in senso lato; sicché in nessun caso la responsabilità può affermarsi senza che si possa indicare con
precisione la singola norma ambientale violata al tempo in cui la condotta colpevole è stata posta in
essere.
Sino a qui si deve osservare come la disposizione di cui all'art. 18 della legge 349/1986 fosse
perfettamente allineata con il principio "chi inquina paga" (sintomatico al riguardo risulta essere la
esclusione della solidarietà) anche se detto principio non era ancora stato formulato a livello di Atto Unico
Europeo.
3.5. Il legittimato attivo all'azione di danno ambientale. - Il legislatore nazionale è stato chiamato con la
legge 349/1986 a dare una risposta circa l'individuazione del soggetto creditore dell'obbligo risarcitorio.
Tale scelta sottintende una più precisa individuazione del bene della vita che è stato leso. In altri termini
occorre sobbarcarsi, almeno in una certa misura, l'incerta fatica di chiarire che cosa si intende per
ambiente.
Sino al 2004 tale aspetto era lasciato totalmente aperto alle scelte nazionali. La ricordata scelta del
legislatore italiano era quindi perfettamente legittima sotto il profilo del rispetto della gerarchia delle
fonti. Più dubbio il fatto che anche dopo la legge 349/1986 gli interpreti nazionali italiani si siano sentiti
totalmente liberi di intendere la nozione di ambiente ciascuno a proprio modo sino ad individuarlo come
"un valore, un bene, un attributo fondamentale di ogni persona umana: uno spazio dell'anima, un modo
di essere tipico, fisico e morale insieme" (54), proposizione che riflette la familiare attrazione che le belle
lettere, ed anche la lirica, hanno esercitato sul ceto dei giuristi piuttosto che un discorso giuridico in
senso proprio.
Lasciando da canto la dispersione dei concetti prodotta da una dottrina attratta dalla novità del tema, si
può osservare come la nozione di ambiente fruibile ai fini di un discorso incentrato sul danno ambientale
risarcibile possa ispirarsi a due archetipi.
Il primo archetipo considera che un fatto inquinante provoca una lesione a persone ed a beni fisici
individuati. Anche se è ormai assodato che certi fenomeni inquinanti sono globali, nel senso che
diffondono i loro perniciosi effetti in ogni parte del globo, tuttavia la localizzazione dei fenomeni negativi
rimane collegata alla loro misurabilità nel senso che ogni luogo presenta un tasso di inquinamento
specifico diverso da un altro. Ciò sia in senso meramente quantitativo che in senso qualitativo.
A questo archetipo si ispira ad esempio la legislazione tedesca in materia di responsabilità per danni da
inquinamento: l'Umwelthaftungsgesetz del 1991 (55), che prende in considerazione solamente i danni
tradizionali, ossia i danni arrecati a cose e persone da specifici fenomeni di inquinamento (56).
Questo primo modello ovvia al problema della definizione di danno all'ambiente, limitandosi ad inasprire il
regime di responsabilità per quei danni causati da fenomeni di inquinamento che rechino danno a beni
tradizionalmente tutelati dall'ordinamento, quali la vita, la salute, la proprietà (57).
Un secondo approccio al medesimo problema definitorio valorizza invece le interconnessioni tra i diversi
elementi. Potremmo designare questo secondo approccio come organicistico, in contrapposizione
all'atomismo del primo, con ciò riallacciandosi ad una contrapposizione che in altri settori delle scienze
sociali pare infinita.
Tuttavia, va subito chiarito come in realtà il pomo della discordia sia costituito dal modo in cui si
intendono i beni pubblici(58). Nessuno dubita infatti che chi spande polveri di cemento sull'orto del vicino
debba essere chiamato a risarcire il danno provocato dalle sue immissioni, ove queste superino la soglia
della normale tollerabilità. Ove il suolo e l'acqua inquinati siano oggetto di una situazione di appartenenza
di tipo privatistico la reazione ordinamentale è scontata da oltre duemila anni, essendo solo il riflesso
della nozione fondamentale di proprietà.
I problemi nascono quando vengano alterati da fenomeni inquinanti a causa antropica beni che, secondo
la classificazione economica, sono considerati beni pubblici, ossia beni aperti alla fruizione collettiva su
base non rivale (59). L'aria atmosferica così essenziale per la sopravvivenza delle persone umane (e non
solo), è da sempre un ovvio esempio di bene pubblico ed accanto ad essa, in forma gradata, compaiono
le acque correnti e lacustri, nonché quelle del lido del mare e via elencando, sino a comprendere le
biodiversità.
Le scienze della natura che si sono ampiamente dedicate ai problemi ambientali hanno messo in rilevo
come molti fenomeni di degrado ambientale siano collegati tra loro tramite specifiche reazioni chimiche
che però si sviluppano in modo caotico e quindi non sono predicibili ex ante, ma che tuttavia rimangono
innegabili nella loro evidenza misurabile ex post.
Anche l'incendio di un bosco di proprietà privata, che potrebbe essere un fatto non risarcibile ove l'autore
dell'incendio sia il proprietario stesso, provoca un dannoso accrescimento del CO2 che deve essere
giuridicamente considerato separatamente dalla lesione della proprietà privata. Perciò si concepisce
l'ambiente come un valore a sé stante non corrispondente alla somma delle sue parti fisiche.
A differenza di quanto accade attualmente nel campo delle scienze sociali in senso stretto, ove le visioni
organicistiche appaiono in netto ribasso, nel campo ambientale l'approccio organicistico ha non poche
frecce nel suo arco, quasi tutte fornite dalle scienze della natura.
In ogni caso, è evidente che quando si voglia accogliere la visione atomistica il problema della
individuazione del soggetto creditore in rapporto all'obbligo risarcitorio che è fatto gravare sull'inquinatore
cessa di essere un problema, essendo sufficiente ricalcare le diverse situazioni di appartenenza sui beni
della natura.
In un modello astratto il fiume, il lago ed anche le acque prospicienti il lido del mare possono sempre
avere un soggetto che volgarmente potremmo designare come proprietario e che normalmente coincide
con lo Stato, ma che potrebbe essere anche la Regione (o lo Stato federato negli ordinamenti federali), il
Comune, o la Comunità montana, ed anche ovviamente un privato.
Alla stessa conclusione si perverrebbe se anziché ragionare rozzamente in termini di proprietà, si
ragionasse in termini di titolarità sulle utilità generate dai beni. Anche le forme di inquinamento
atmosferico, limitatamente peraltro ai danni che si manifestano in prossimità delle sorgenti inquinanti,
possono essere ricondotte a forme di titolarità individuali in riferimento al diritto alla salute.
I problemi maggiori nascono ove si accolgano visioni organicistiche che considerano l'ambiente nel suo
insieme, in quanto somma di tutte le interazioni positive e negative che intervengono nel ciclo ecologico
inteso come fenomeno dinamico. A ben vedere infatti la nozione organicistica di ambiente ammette la
risarcibilità del danno ambientale indipendentemente dalla violazione di altri diritti individuali quale la
proprietà privata o la salute individuale, anche se, ad onor del vero, va detto che simile ipotesi appare più
teorica che realistica, ed in ogni caso, concepisce il bene leso come una entità ontologicamente diversa
dalla somma dei suoi addendi (60).
È inevitabile che la concezione organicistica del bene ambiente ponga maggiori problemi di tipo cognitivo
quando si tratti di determinare l'ammontare del danno ambientale (61).
La tecnica giuridica interviene però a semplificare la complessità intrinseca a codesta visione individuando
come soggetto creditore del danno ambientale l'Ente esponenziale istituzionalmente più elevato, il quale
quindi è il più adatto a rappresentare tutti gli interessi individuali lesi e le loro interrelazioni dinamiche,
senza che sia necessario misurare il danno particolare sofferto da ciascuno (62).
Sin da quando il discorso attorno alla fattispecie del danno ambientale ha preso avvio, si è avanzata
l'obiezione per cui attribuire solo all'Ente esponenziale più elevato il diritto di credito nascente dalla
lesione dell'ambiente significava, in sostanza, attribuire solo allo Stato la legittimazione attiva all'azione
risarcitoria, con conseguente pericolo di inerzia totale.
Infatti lo Stato è soggetto esponenziale cui fanno capo non solo interessi alla tutela dell'ambiente, ma
anche molti altri interessi di diversa natura. Si pensi, ad esempio, all'interesse allo sviluppo economico, al
mantenimento di situazioni occupazionali soddisfacenti.
Tuttavia si è compreso piuttosto rapidamente che la legittimazione ad agire può essere dissociata dalla
posizione creditoria, aprendo la prima anche a quei soggetti che inizialmente furono detti nonhohfeldelian plaintiffs(63), proprio perché non titolari di posizioni soggettive sostanziali lese dall'esercizio
di attività inquinanti.
L'art. 18 della legge 349/1986 prevedeva che in campo ambientale titolare del diritto di credito correlato
all'obbligo risarcitorio siano unicamente lo Stato e gli Enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del
fatto lesivo, stabilendo altresì una limitata legittimazione ad agire in capo ad altri soggetti, tra cui le
associazioni ambientalistiche (64), cui sono conferite possibilità di denuncia e di partecipazione al
processo (65), ma non diritti di credito correlati al danno.
È facile quindi dedurre che la legislazione nazionale del 1986 aveva accolto in pieno la visione che qui si è
detta organicistica dell'ambiente, traducendo tale accoglimento in un insieme di regole logicamente
coerenti con tale visione ed unicamente con essa, evitando di stilare una definizione legislativa del
concetto di ambiente.
Da quanto qui si è esposto emerge dunque che la legislazione nazionale dal 1986 in poi è stata dotata di
una disciplina compatta, ma sistematicamente coerente che colmava perfettamente le lacune del
principio informatore europeo in modo organico.
I capisaldi di tale disciplina erano dunque dati dalla caratterizzazione della responsabilità del soggetto che
causava un inquinamento danneggiando o degradando l'ambiente, fondata sull'elemento, tenue, della
colpa soggettiva e sull'elemento, significativo, della violazione di specifiche norme a tutela dell'ambiente,
nonché dalla previsione per cui il debito risarcitorio era unicamente a favore dello Stato nazionale, anche
se altri soggetti pubblici o privati potevano essere legittimati ad agire per la tutela dell'ambiente e per
stimolare l'azione dello Stato. In tale contesto l'ambiente era definito come un tutt'unico, ossia un
insieme che non corrisponde esattamente alla somma delle sue parti, ma che in una certa misura le
trascende.
Si deve però anche osservare a titolo di chiosa che la nozione di ambiente ricavabile dal testo dell'art. 18
legge 349/1986 rappresentò un esempio isolato in Europa, ove invece prevalevano a livello di legislazioni
nazionali altri modelli tra cui quello tedesco cui si è fatto cenno.
4. Le novità introdotte dal decreto Ronchi (decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22).
Dal 1986 sino alla trasposizione nell'ordinamento italiano della direttiva 2004/35/CE, si è assistito ad una
evoluzione normativa che - per quanto superata - mette conto di segnalare in quanto foriera di
orientamenti interpretativi che possono perdurare.
In particolare, merita menzione una norma speciale di responsabilità ambientale in materia di
inquinamento di siti inquinati: l'art. 17 del D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 (c.d. decreto Ronchi) (66), al
quale è stata attribuita una profonda diversità rispetto alla fattispecie prevista nell'art. 18 della L.
349/1986.
La fattispecie di responsabilità contenuta al secondo comma dell'art. 17 del decreto Ronchi, ora abrogata
dal D.Lgs. 152/2006, si riferiva al superamento, anche accidentale, dei limiti di accettabilità della
contaminazione dei suoli, delle acque superficiali e delle acque sotterranee in relazione alla specifica
destinazione d'uso dei siti stabiliti in forza del medesimo articolo, ovvero al pericolo concreto ed attuale di
superamento dei limiti medesimi.
Stabiliva infatti il comma 2 della norma in commento che "Chiunque cagiona, anche in maniera
accidentale, il superamento dei limiti di cui al comma 1, lettera a), ovvero determina un pericolo concreto
ed attuale di superamento dei limiti medesimi, è tenuto a procedere a proprie spese agli interventi di
messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali
deriva il pericolo di inquinamento".
Il legittimato passivo rimane indifferenziato come nell'art. 18 della L. 349/1986, ma il criterio di
imputazione subisce uno spostamento dal criterio della colpa soggettiva all'area del rischio di impresa. In
effetti se si intende il criterio della colpa come canone di riprovevolezza morale della condotta dell'autore
del danno, è evidente come l'aggettivo "accidentale" elimini la rilevanza di tale elemento della fattispecie.
Tuttavia, è anche da osservare come la nozione di accidentalità sia non poco ambigua. Nel diritto delle
assicurazioni, tale concetto è comunemente impiegato per delimitare, secondo una consolidata prassi
negoziale, l'area dei sinistri oggetto di copertura, intendendo così escludere tutti gli eventi dannosi che
siano provocati consapevolmente dall'assicurato. In tale ambito la nozione di accidentalità (67) deve
essere però coordinata con la parimenti tradizionale esclusione di eventi causati da guerre, sommosse,
atti di terrorismo, rischi atomici. In effetti esistono eventi accidentali che hanno natura di catastrofe e per
i quali è necessario prevedere una apposita copertura assicurativa. La ragione fondamentale di ciò è che
gli eventi catastrofici non rientrano nell'area del rischio di impresa come criterio di imputazione della
responsabilità civile. Infatti tale criterio di imputazione è razionale, come ha dimostrato la dottrina, a
condizione che un programma di azione più sicuro, anche se meno profittevole, possa confrontarsi con un
programma di azione meno sicuro, ma più profittevole, a livello di scelte individuali. Anche se si tratta di
una connotazione del fatto che deve essere verificata in concreto, nel caso di eventi catastrofici, come
terremoti su vasta scala o atti di terrorismo, è piuttosto raro che il singolo disponga ex ante di una
effettiva possibilità di scegliere un programma di azione più sicuro, né sarebbe socialmente augurabile
introdurre regole che incentivino ad eliminare i depositi di carburante dall'intero Stato della California o
dall'area vesuviana (68). Il che spiega perché in simili casi intervenga lo Stato con leggi e provvedimenti
speciali.
In definitiva, quindi, la "accidentalità" cui faceva riferimento la norma citata, dovendo essere circoscritta
ad un rischio controllabile individualmente, era assai più circoscritta di quanto a tutta prima la lettera
della legge facesse immaginare. Nei casi in cui si potesse escludere il concorso con altre normative aveva
però l'indubbio vantaggio di eliminare le spesso superflue discussioni circa il grado di colpevolezza
dell'agente essendo invece rilevante il superamento dei limiti di contaminazione, sulla base però del
nesso causale tra la condotta tenuta dal convenuto e l'evento dannoso.
Quest'ultimo, come si è visto, si estendeva anche a situazioni in cui un effettivo danno ambientale non si
era ancora verificato, ma esisteva il pericolo concreto ed attuale di superamento dei medesimi limiti, la
cui definizione è stata rimessa al successivo D.M. 471/1999.
L'art. 2 lett. b) del D.M. 471/1999 prevedeva a questo proposito che lo spazio contaminato dovesse
presentare "livelli di contaminazione o alterazioni chimiche, fisiche o biologiche del suolo o del sottosuolo
o delle acque superficiali o delle acque sotterranee tali da determinare un pericolo per la salute pubblica o
per l'ambiente naturale o costruito".
In effetti il D.Lgs. 22/1997 rimandava la sua piena operatività all'emanazione del D.M. 471/1999 (69),
che in particolare disciplinava:
a) i limiti di accettabilità della contaminazione dei suoli, delle acque superficiali e delle acque sotterranee
in relazione alla specifica destinazione d'uso dei siti;
b) i criteri generali per la messa in sicurezza, la bonifica ed il ripristino ambientale dei siti inquinati,
nonché per la redazione dei relativi progetti;
c) i criteri per le operazioni di bonifica di suoli e falde acquifere che facciano ricorso a batteri, a ceppi
batterici mutanti, a stimolanti di batteri naturalmente presenti nel suolo;
d) il censimento dei siti potenzialmente inquinati, l'anagrafe dei siti da bonificare e gli interventi di
bonifica e ripristino ambientale effettuati da parte della Pubblica amministrazione;
e) i criteri per l'individuazione dei siti inquinati di interesse nazionale.
In un certo senso, la norma in esame semplificava la fattispecie del danno ambientale in materia di
contaminazione dei suoli e delle acque, imperniandola sul superamento del livello di contaminazione
considerato accettabile ai sensi della legge e dei provvedimenti successivi. Rimaneva però ben chiaro che
tale superamento doveva essere ricollegato mediante appropriato nesso causale alla condotta del
convenuto.
Infatti la lettera della norma si apriva con la locuzione: "Chiunque cagiona (...) il superamento...".
Oltre alla lettera della legge soccorreva la logica giuridica, essendo evidente che il superamento, o il
concreto pericolo di superamento dei limiti di accettabilità predefiniti con atto normativo, introduce un
criterio di misurabilità riferibile allo stato fisico dei luoghi che connota l'evento dannoso, ma non può
esaurire la fattispecie di responsabilità che rimane una fattispecie complessa.
Pertanto solo mediante una sineddoche si è potuto asserire che gli obblighi risarcitori imposti dalla
norma: la messa in sicurezza, la bonifica ed il ripristino ambientale, dipendevano dalla presenza di un sito
inquinato, essendo tale elemento di fatto solo uno degli elementi costitutivi della fattispecie e rimanendo
invece inalterata l'essenziale presenza di un nesso causale tra la condotta di un soggetto che cagiona il
superamento dei limiti prescritti e l'ascrizione della relativa responsabilità.
Ciò rende incredibili alcune prassi amministrative che si sono sviluppate in seguito, con il velato sostegno
per il vero di dottrina poco accorta. Tali prassi derivano anche da una sciatteria del linguaggio legislativo.
Va ricordato infatti come l'art. 14 del decreto Ronchi includesse espressamente nella categoria dei
soggetti responsabili il "proprietario e i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area ai quali tale
violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa".
Il richiamo al criterio della colpa che faceva seguito al criterio per cui la responsabilità era fondata sulla
creazione del rischio, dava origine ad una patente antinomia, che sarebbe stata grave se il criterio della
colpa fosse stato un criterio effettivo; ma, per il resto la menzione specifica del proprietario era solo un
tuziorismo, essendo evidente che la titolarità del diritto dominicale, salvo i casi di canalizzazione come
quelli previsti dagli artt. 2052, 2053 e 2054, comma 3, c.c., è sempre elemento neutro nella fattispecie di
responsabilità civile, la quale sussiste o non sussiste, in egual misura, sia che il soggetto agente sia
proprietario delle cose implicate nella causazione del danno sia che se ne serva senza titolo.
Nella prassi però l'idea grezza della responsabilità oggettiva assieme alla menzione espressa del
proprietario come possibile responsabile, ha creato l'illusione che fosse possibile canalizzare sul
proprietario la responsabilità derivante dal mero superamento dei limiti di accettabilità riscontrabili in
loco.
La giurisprudenza amministrativa ha fatto argine a simile stortura (70), ed in ciò ha giovato la lettera
della legge che, come si è visto, parlava espressamente di responsabilità del proprietario per colpa o
dolo; ma in realtà si deve sottolineare come quella che le Pubbliche amministrazioni, specie locali,
tendevano a configurare era una pura responsabilità posizionale, che andava persino oltre i criteri di
canalizzazione previsti dalle citate norme del Codice civile.
Infatti, anche la classica fattispecie della responsabilità del proprietario per rovina di edificio di cui all'art.
2053 c.c. richiede che sia identificato il proprietario al momento della rovina stessa, escludendosi che in
ambito aquiliano il legittimato passivo possa essere identificato con il proprietario dell'edificio al momento
della domanda di risarcimento, ossia mediante un criterio ambulatorio.
Invece, nelle prassi ricordate avveniva proprio che, specie in caso di danno temuto, venisse chiamato ad
attuare le misure cautelari il proprietario del momento in cui il provvedimento veniva assunto, senza
riflettere che lo schema ambulatorio, tipico della azione di rivendicazione, è notoriamente contrapposto
allo schema della responsabilità aquiliana (71).
Gioverebbe anche ricordare come la obnubilazione di quanto appena rilevato è stata giustificata anche in
altro modo, che prescinde dalle sciatterie del linguaggio legislativo.
Si è infatti sostenuto che un sito inquinato è, per ciò stesso, fonte di un pericolo permanente e che
rispetto a tale pericolo il proprietario assume una posizione di garanzia nei confronti del bene ambiente la
cui violazione giustificherebbe l'onere di bonifica e messa in sicurezza che gli viene addossato. La
responsabilità sarebbe quindi la conseguenza di una omissione. Questa ingegnosa costruzione appare ictu
oculi dimenticare l'esistenza dell'art. 23 della nostra Costituzione secondo il quale "nessuna prestazione
personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge"; legge che nel caso non è dato
rintracciare. Essa sembra anche dimenticare come il concetto di garanzia, anche quando è collegato,
come qui sembrerebbe, all'idea di garanzia di sicurezza, implica pur sempre un dovere accessorio ad un
obbligo di prestazione e non può essere essa stessa fonte di dovere primario.
Sicché anche a prescindere dall'ostacolo rappresentato dall'art. 23 Cost., si ha l'impressione che
l'ingegnosa costruzione in parola si fondi su un artificio verbale, mediante il quale si tenta di ribaltare il
principio, peraltro frequentemente richiamato in giurisprudenza, per cui affinché una condotta omissiva
possa essere assunta come fonte di responsabilità per danni, non basta riferirsi al solo principio del
neminem laedere o ad una generica antidoverosità sociale della condotta del soggetto che non abbia
impedito l'evento, ma occorre individuare, caso per caso, a suo carico, un vero e proprio obbligo giuridico
di impedire l'evento lamentato, il quale può derivare, o direttamente da una norma, ovvero da uno
specifico rapporto negoziale o di altra natura intercorrente fra il titolare dell'interesse leso e il soggetto
chiamato a rispondere della lesione (72); sicché di nuovo si torna a contemplare una costruzione
sprovvista di base normativa ogni qual volta non si riesca ad individuare una norma che istituisce il
dovere del proprietario in quanto tale di attivarsi per rimediare alla situazione pregressa.
Né, infine, può giovare il richiamo agli articoli 2050, 2053 c.c., sia perché pare oltremodo difficile la
dimostrazione che è legittima l'applicazione analogica di tali norme alla fattispecie del danno ambientale,
sia perché, comunque, l'invocazione di tali norme non gioverebbe, per la ragione già spiegata, a
legittimare la prassi qui evocata, la quale avrebbe comunque il vizio di rendere ambulatoria la
legittimazione passiva a fronte di una fattispecie di responsabilità.
Non si dedica altra attenzione alla tesi qui criticata perché, come si vedrà subito, gli obblighi di bonifica
che possono essere posti a carico del proprietario non autore del danno ambientale sono ormai
diversamente regolati dalla legge in conformità con i principî dell'arricchimento.
Come si dirà più diffusamente a suo luogo, nell'art. 253 D.Lgs. 152/2006, si stabilisce infatti che il
proprietario incolpevole può essere tenuto a rifondere all'ente che ha attuato la bonifica dei suoli le spese
sostenute, ma nei limiti del suo arricchimento; sicché, per chiudere le porte ad un ritorno verso tesi
fantasiose, basterà osservare che l'arricchimento è sistema rimediale alternativo rispetto alla
responsabilità civile. Pertanto la scelta - legislativa - dell'uno esclude la possibilità di invocare l'altro.
5. Le strategie del legislatore europeo in relazione ai siti contaminati.
Sin dal 1975 (73), le prime politiche comunitarie in campo ambientale avevano messo in luce come allo
scopo di evitare che gli scambi e l'ubicazione degli investimenti venissero pregiudicati da distorsioni di
concorrenza - il che sarebbe stato incompatibile con il buon funzionamento del mercato comune - si
rendeva auspicabile che in tutta la Comunità si applicassero gli stessi principi per l'imputazione dei costi
della protezione dell'ambiente contro l'inquinamento.
Ciò è ben esplicitato nella normativa comunitaria, già a partire dalla prima Proposta di direttiva
concernente i rifiuti tossici e pericolosi, dove si metteva chiaramente in luce come diverse regole
ambientali potessero avere un effetto negativo sui meccanismi della libera concorrenza tra imprese
europee (74).
Gli stessi principi vennero ripresi più tardi dal Libro Verde sul risarcimento dei danni all'ambiente(75), in
cui l'esistenza dei diversi regimi di responsabilità ambientale esistenti nei diversi paesi della CEE
diventava momento di ripensamento critico alla luce del fatto che tale eterogeneità di criteri potesse
compromettere le regole della concorrenza tra imprese all'interno del mercato comunitario.
Questa considerazione portò la Commissione ad accentuare l'esigenza di un minimo comune
denominatore tra i diversi Stati-membri, così come a tenere conto degli insegnamenti derivanti dai
fallimenti di esperienze straniere(76).
Nel Quinto Programma d'azione in campo ambientale adottato dalla Commissione il 18 marzo 1992
intitolato "Per uno sviluppo durevole e sostenibile" (77), in particolare, si prendeva in considerazione un
nuovo approccio alle problematiche ambientali, caratterizzato da uno spirito di "responsabilità
condivisa" (78).
In questa prospettiva la Comunità Europea riconosceva che porre a carico dell'industria scelte di politica
ambientale irrazionali avrebbe potuto determinare una distorsione del mercato in grado non solo di
estromettere molti operatori, ma anche di compromettere la possibilità di un utilizzo razionale delle
risorse economiche che tali soggetti destinano alla tutela dell'ambiente (79).
Nel Sesto Programma d'azione in campo ambientale(80), che copre il periodo 2002-2010, uno degli scopi
della politica ambientale comunitaria è quello di indurre il mercato a lavorare per l'ambiente: attraverso
una migliore collaborazione con il mondo imprenditoriale, introducendo programmi premiali per le aziende
con le migliori prestazioni ambientali, promuovendo un'evoluzione verso prodotti e processi più verdi,
incentivando l'adozione di marchi ecologici che permettano ai consumatori di confrontare prodotti
analoghi in base alla prestazione ambientale.
Questo "approccio strategico integrato" mira all'introduzione "di nuove modalità di interazione con il
mercato", al fine di coinvolgere "i cittadini, le imprese e altri ambienti interessati, per indurre i necessari
cambiamenti dei modelli di produzione e di consumo pubblico e privato che incidono negativamente sullo
stato dell'ambiente e sulle tendenze in atto" (81).
In questo particolare contesto, dovrà ricordarsi che la Commissione della Comunità Europea, unitamente
all'Agenzia Europea dell'Ambiente, avevano istituito sin dal 1994 il Common Forum on Contaminated
Land, che - tra l'altro - mirava a formulare delle raccomandazioni per la gestione e la regolamentazione
dei siti contaminati e per un'efficace, ed economicamente efficiente, riabilitazione dei siti contaminati in
Europa, valutando le questioni sia di carattere tecnico che quelle di tipo socio-economico.
Come risultato di una delle prime riunioni del Common Forum(82), venne promosso un progetto su scala
europea per la stima dei rischi determinati dai siti contaminati, che ha portato - successivamente - al
concretizzarsi di due ulteriori iniziative: il Concerted Action on Risk Assessment for Contaminated Land
(CARACAS) (83) e il Contaminated Land Rehabilitation Network for Enviromental Techonologies in Europe
(CLARINET) (84).
Il risultato di tali approfondimenti (85) è stato quello di mettere in evidenza le potenzialità di un modello
per la gestione dei siti contaminati, in grado di individuare soluzioni che garantiscono
contemporaneamente un adeguato livello di tutela dell'ambiente e della salute umana così come scelte
economicamente efficienti. Secondo tale modello, denominato Risk based Land Management (RBLM),
l'analisi di rischio (risk assessment) diventa parte integrante del processo decisionale che conduce alla
gestione dei siti contaminati e favorisce, inoltre, soluzioni flessibili e che meglio si adeguano alle
peculiarità e alle specifiche del sito (86).
Per comprendere pienamente il quadro teorico che sta dietro l'attività del Common Forum on
Contaminated Land e, soprattutto, per comprendere le ragioni che hanno portato a considerare l'analisi di
rischio quale strumento idoneo a gestire correttamente i siti contaminati, è necessario partire seguendo
lo stesso percorso seguito dalla Comunità Europea nella elaborazione dei principi in materia di gestione di
siti contaminati.
Tale percorso ha avuto inizio sostanzialmente a partire dalla stessa presa di consapevolezza da parte
della Comunità Europea della dimensione del problema riguardante la gestione dei siti contaminati (87).
La visione realistica della Comunità Europea ha consentito, infatti, di chiarire come la contaminazione dei
siti sia nella maggior parte dei casi una problematica ereditata da decenni di politica ambientale assente
o carente sotto l'aspetto della tutela del territorio e che essa sia ormai diventata strutturale (88).
La prima conclusione derivante dalla presa d'atto della dimensione, sia quantitativa sia qualitativa, del
problema attinente la gestione dei siti contaminati quale conseguenza di una politica spesso assente e
carente, è che vi debbano essere criteri che garantiscano che non si addossi al proprietario di un sito, per
il semplice fatto di essere tale, le conseguenze di una contaminazione a cui non ha contribuito e che, in
sostanza, è stata determinata da lacune legislative passate.
Principale preoccupazione della Comunità Europea è stata quindi quella di coniugare la riduzione dei costi
della gestione dei siti contaminati senza compromettere la salute pubblica e la qualità delle risorse
ambientali (89).
Tuttavia le questioni relative ai costi e quelle relative alla dimensione quantitativa delle aree interessate
non sono le uniche considerazioni di cui tener conto nell'affrontare i problemi connessi alla gestione dei
siti contaminati.
Le questioni connesse alla bonifica dei siti contaminati sono state affrontate in sede comunitaria, avendo
sempre ben presente la necessità che la tutela dell'ambiente deve essere supportata con scelte che siano
razionali ed efficienti e, fra l'altro, con la consapevolezza che tale approccio di politica legislativa sia
l'unico che consenta di non influenzare in modo negativo e ingiustificato le imprese ed il mercato in cui
esse operano.
Per realizzare tali esigenze, gli studi condotti in questo ambito - sia a livello comunitario che a livello di
singoli paesi membri - sottolineano come lo strumento prediletto nelle procedure di indagine e bonifica
dei siti contaminati sia l'analisi di rischio (90), intesa come processo decisionale che include diverse fasi,
ed in particolare: a) la definizione delle priorità di intervento; b) la definizione di valori guida generici; c)
la stima dei rischi e degli obiettivi di bonifica sito-specifici (91).
L'analisi di rischio è tesa a garantire una corretta e realistica stima degli impatti della contaminazione
sulla salute umana e sull'ambiente e ad assicurare l'idoneità del sito all'uso cui viene concretamente
destinato (92).
È stato sottolineato come l'analisi di rischio, quale parte fondamentale nei processi decisionali di gestione
dei siti contaminati, debba considerarsi una conquista scientifica che è stata fatta propria non solo e non
tanto dalla prassi, ma che ha assunto dignità di strumento e procedura istituzionale nell'ambito dei singoli
Stati membri (93).
In particolare, l'analisi della normativa degli Stati europei presi in considerazione nell'ambito delle
iniziative comunitarie ha evidenziato come l'analisi di rischio sia stata impiegata sia per la contaminazione
dei suoli che per la contaminazione delle acque di falda, e sia stata collegata all'uso specifico che si vuole
fare del sito da ripristinare (94).
Tale cambiamento di prospettiva è stato sostanzialmente determinato dall'acquisita consapevolezza
dell'ampiezza della problematica legata alla bonifica del siti contaminati (95).
Ovviamente tale approccio non può giustificare un peggioramento della contaminazione per il solo fatto
che, ad esempio, un terreno sia destinato ad uso industriale (96).
Lo studio condotto nell'ambito del Concerted Action on Risk Assessment for Contaminated Land
(CARACAS), inoltre, non si limita a riconoscere a livello europeo la diffusione dell'analisi del rischio quale
principale strumento per decidere le migliori modalità per gestire i siti contaminati, ma ne raccomanda
l'uso (97).
La politica legislativa della Comunità Europea è, infatti, da tempo giunta alla conclusione che sia
preferibile una policy volta alla soluzione delle problematiche ambientali, in modo da non creare
distorsioni ingiustificate del mercato, evitando che si determinino condizioni per l'uscita dallo stesso di
soggetti economici ed evitando distorsioni della concorrenza nei vari paesi europei.
6. La valutazione delle risorse ambientali nel panorama internazionale ed europeo.
Analoghe considerazioni stanno alla base delle iniziative comunitarie sviluppate in relazione al problema
della valutazione e dei criteri di quantificazione del danno all'ambiente, che è stato posto al centro del
dibattito delle istituzioni internazionali ed europee sin dall'inizio degli anni '80, quando si era resa palese
la necessità di colmare i precedenti sistemi di protezione dell'ambiente basati su norme command-control
con regimi di responsabilità ambientale (98).
Si deve a questo proposito osservare come la difficoltà di addivenire a criteri economici condivisi per la
quantificazione del danno recato alle risorse naturali fosse stato più volte evidenziato dai diversi studi
emersi in questo settore (99). Le incertezze circa le metodologie da selezionare a questo proposito
avevano fatto prediligere, a livello istituzionale, forme di restitutio in integrum, volte a realizzare
l'effettiva possibilità di fruire delle risorse ambientali da parte dei cittadini.
In questo contesto si colloca la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla responsabilità civile per danno
all'ambiente da attività pericolose ratificata a Lugano nel giugno del 1993 (100).
Uno dei tratti più innovativi della Convenzione era quello relativo alla concezione di danno all'ambiente.
Questo risultava espressamente definito dalla Convenzione stessa, come deterioramento dell'ambiente,
nella misura in cui questo non consistesse in un danno alle cose od alle persone, ma a condizione che tale
deterioramento causi una perdita di guadagno economico (101).
Secondo tale impostazione il danno diretto all'ambiente veniva a coincidere con il costo delle misure
preventive e di rimessa in pristino, adottate per contenere, minimizzare o ripristinare la situazione
antecedente all'illecito. Ove la restitutio in integrum fosse stata tecnicamente impossibile, poteva essere
imposta al danneggiante l'introduzione nell'ambiente di risorse equivalenti a quelle distrutte (102).
In particolare, nel caso in cui la restitutio in integrum non fosse stata più possibile perché il danno aveva
causato la scomparsa definitiva di una specie animale o vegetale, la Convenzione escludeva che si
potesse far luogo ad un risarcimento di tipo pecuniario.
Nell'Explanatory Report(103) che accompagnava il testo della Convenzione si leggeva a questo proposito
che il danno diretto all'ambiente, ossia all'ambiente fine a se stesso, non è suscettibile di valutazione
economica: "such damage cannot be evaluated financially".
Dato però che le difficoltà di valutare finanziariamente l'ambiente non dovevano portare all'assenza
completa di un risarcimento, la Convenzione optava per un metodo innovativo, quello di ricreare un
ambiente equivalente, nell'impossibilità di ripristinare quello danneggiato o distrutto.
Successivamente, con il Libro Bianco sulla responsabilità per danni all'ambiente presentato dalla
Commissione europea nel febbraio del 2000 (104), il dibattito si era arricchito con i numerosi studi voluti
dalla Commissione UE sulla valutazione ed il ripristino del danno ambientale nell'ambito del programma di
elaborare un regime comunitario di responsabilità ambientale (105).
Da questi studi emergono con chiarezza alcune variabili fondamentali nella discussione dei criteri di
quantificazione del danno all'ambiente che dovranno essere tenuti presenti per meglio comprendere le
indicazioni che ci provengono ora dalla direttiva 2004/35, che del Libro Bianco appare essere la
concretizzazione.
In particolare, si evidenziava che il regime di responsabilità ambientale voluto dalla Commissione si
caratterizzava per il suo scopo compensativo e non punitivo(106). Per questo motivo, i criteri di
valutazione del danno ambientale dovevano essere strutturati in modo tale da rappresentare
esclusivamente il valore delle risorse naturali e dei servizi perduti (107).
7. La direttiva 2004/35/CE.
La concretizzazione delle iniziative appena menzionate si ha con l'elaborazione della direttiva 2004/35/
CE, cui è stato dato recepimento in Italia con la Parte Sesta del D.Lgs. n. 152 del 2006.
Già nella Proposta della direttiva (108) si evidenziava come la contaminazione dei siti venisse considerato
un problema di primaria importanza "in quanto rappresenta una minaccia per la salute umana e
l'ambiente a seguito del rilascio di contaminanti nelle acque sotterranee o di superficie, l'assorbimento da
parte delle piante, l'esposizione diretta delle persone ad incendi o all'esplosione di gas di discarica"(109).
Veniva inoltre sottolineato come nella Comunità fossero già stati individuati come contaminati definitivamente o potenzialmente - circa 300.000 siti (110) e che pur non essendo possibile quantificare i
rischi posti da questa contaminazione, i costi di risanamento potevano conferire un'idea dell'entità del
problema.
La Proposta di direttiva riferiva le stime pubblicate dall'Agenzia Europea dell'Ambiente che situavano i
costi di risanamento parziale (soltanto per alcuni Stati membri o regioni e alcuni siti) tra 55 e 106 miliardi
di euro - pari, rispettivamente allo 0,6 e all'1,25% del PIL dell'UE (111).
La Commissione auspicava quindi l'elaborazione di regole di responsabilità per impedire un'ulteriore
contaminazione e garantire l'applicazione del principio "chi inquina paga" ogniqualvolta si fosse verificata
una contaminazione malgrado le misure preventive adottate (112).
Tenuto quindi presente che la direttiva intende applicare rigorosamente il principio "chi inquina paga" dal
quale ripete la propria base giuridica (113), la normativa comunitaria procede verso una migliore
individuazione della funzione della responsabilità civile in campo ambientale con una più precisa
definizione dei suoi confini, rispetto ad altri strumenti istituzionali, repressivi e preventivi dei
danneggiamenti ambientali.
È in particolare da rilevare che la Proposta di direttiva fosse accompagnata da una "valutazione
economica" (114), che prendeva in considerazione le principali questioni di efficienza sollevate dalle
stesse iniziative comunitarie, e che in particolare teneva conto dei vantaggi e dei costi, compresa la
distribuzione dei costi tra i soggetti economici e il previsto impatto sulla competitività industriale.
Tra gli obiettivi della Proposta venivano quindi evidenziati quelli dell'efficienza economica e dell'equità
sociale (115).
Per questo motivo, la Proposta, delineando il quadro di riferimento della futura legislazione comunitaria,
specificava che questa avrebbe potuto non applicarsi alle emissioni consentite nelle autorizzazioni, né al
danno che non potesse essere previsto sulla base delle attuali conoscenze scientifiche e tecniche al
momento del rilascio delle emissioni o dello svolgimento delle attività.
Inoltre veniva specificato che l'obiettivo primario a livello comunitario dovesse essere quello di garantire
soluzioni efficienti. Nel caso di danno alle risorse naturali, l'obiettivo di riparazione della Proposta era
quindi quello realizzare soluzioni equivalenti anziché riprodurre, a prescindere dal costo, la situazione
prima dell'incidente.
La Proposta mirava quindi a delineare un quadro normativo caratterizzato da "spese finanziarie
abbordabili" (116), che possono essere stimate e collocate entro un quadro strategico di impresa,
assicurazione finanziaria e valutazione del danno ambientale.
In questo senso è da valorizzare il contributo di chiarezza che la direttiva ha apportato, grazie anche al
fatto che la tecnica legistica comunitaria prevede che il testo normativo vero e proprio sia accompagnato
da "Considerando", grazie ai quali la ratio legis è agevolmente identificabile.
In questo contesto va ricordato che anche nel testo definitivo della direttiva, al terzo Considerando,
ancora una volta si sottolinea l'importanza dell'elemento economico nella valutazione delle problematiche
ambientali ponendosi quale obiettivo di "... istituire una disciplina comune per la prevenzione e
riparazione del danno ambientale... a costi ragionevoli...".
Nell'ambito dei principi generali le singole novità previste dalla nuova fonte possono essere così
sintetizzate:
7.1. Una responsabilità per attività selezionate e identificabili. - La direttiva introduce in primo luogo un
sistema di selezione delle attività cui ha senso applicare un regime, necessariamente speciale, di
responsabilità per danno ambientale. In essa, si stabilisce infatti che non ogni e qualsiasi attività che
produca immissioni nocive per l'ambiente incorre nelle responsabilità stabilite dalla disciplina comunitaria,
che intende invece selezionare determinate attività, che per le loro qualità intrinseche di pericolosità per
l'ambiente, siano già state oggetto di disciplina da parte del legislatore comunitario.
Le attività assoggettate al regime della direttiva sono quelle "professionali", il cui svolgimento comporta
un rischio potenziale o reale per la salute umana e l'ambiente (117).
La nozione di attività professionale, è molto ampia, posto che si deve intendere per attività professionale
qualsiasi attività svolta nel corso di un'attività economica, commerciale o imprenditoriale,
indipendentemente dal fatto che abbia carattere pubblico o privato o che persegua o meno fini di lucro
(118).
Ma ciò che rileva è che tali attività dovrebbero essere identificate con riferimento alla legislazione
ambientale già in vigore a livello comunitario, che sottoponga lo svolgimento di tali attività a determinate
condizioni, quali l'ottenimento di una autorizzazione o di una apposita registrazione, l'adozione di certe
precauzioni o altro. La direttiva elenca in un apposito Allegato III, quali sono le norme da prendere in
considerazione a questo fine (119). Si prevedeva quindi un elenco, normativamente sancito, di attività
professionali ambientalmente pericolose e come tali soggette ad un regime speciale che le differenzia
dalle generiche attività economiche.
Solo in uno specifico caso, quello relativo al danno causato alla biodiversità (120), la direttiva richiede
che la responsabilità sia estesa a qualsiasi attività professionale, anche a quelle non direttamente
identificabili dalla legislazione comunitaria già in vigore, purché se ne possa dimostrare la colpa o la
negligenza (121).
Il campo di applicazione della direttiva appare quindi più delimitato rispetto a quanto preso in
considerazione dall'art. 18 della L. 349/1986, che, come si è visto, si rivolgeva a sanzionare ogni e
qualunque attività, purché posta in essere "in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti
adottati in base a legge". In luogo di un soggetto indifferenziato la direttiva impone una selezione di
soggetti, e soprattutto di attività, rispetto alle quali il rimedio risarcitorio è considerato adeguato ed
efficace. In questo senso è da sottolineare come la ratio della direttiva debba intendersi in riferimento ad
un più consapevole calcolo dell'efficacia della responsabilità civile come istituto idoneo a controllare e
ridurre le esternalità negative; calcolo che invece non era presente nel sistema dell'art. 18, in cui si
faceva affidamento sull'efficacia dell'onere risarcitorio senza eccessive riflessioni; con la conseguenza di
aprire la strada ad interpretazioni, anche giurisprudenziali, che riprendevano rationes diverse da quelle
indicate a livello comunitario.
Questo primo caposaldo delle scelte di policy sottese alla direttiva, costituisce di per sé un indizio dello
spostamento del criterio di imputazione della responsabilità dal criterio della colpa al criterio del rischio
creato, ossia intrinseco a determinate attività. Vero è che quello qui evocato è nulla più che un indizio, di
per sé insufficiente a sostenere una ipotesi ermeneuticamente corretta, però in Europa ci si è ormai
convinti che la responsabilità civile, specie quando abbia funzione prevalentemente deterrente, è tanto
più efficace quanto più il soggetto cui essa è imputabile sia in grado di svolgere il calcolo economico ex
ante e sia sensibile a tale calcolo. Ciò porta ad identificare nel "professionista" il soggetto più adatto
anche del tutto indipendentemente dal criterio soggettivo od oggettivo di imputazione.
In ogni caso è certamente vero, perché espressamente dichiarato, che in sede comunitaria la
responsabilità civile è stata riconosciuta come strumento efficace nelle politiche ambientali, a condizione
che gli inquinatori siano soggetti identificabili, il danno concreto e misurabile e l'accertamento del nesso
causale fattibile.
7.2. Il problema del nesso causale. - Già nella Proposta di direttiva, si era sottolineato come fosse stato
ritenuto inopportuno optare per un regime dove i principi usuali in termini di onere della prova e di nesso
causale sarebbero stati significativamente alterati (122).
Nel sistema delineato dalla direttiva questo caposaldo rimane intangibile.
In questo senso dispone infatti il 13° Considerando della direttiva, specificando chiaramente che: "A non
tutte le forme di danno ambientale può essere posto rimedio attraverso la responsabilità civile. Affinché
quest'ultima sia efficace è necessario che vi siano uno o più inquinatori individuabili, il danno dovrebbe
essere concreto e quantificabile e si dovrebbero accertare nessi causali tra il danno e gli inquinatori
individuati. La responsabilità civile non è quindi uno strumento adatto per trattare l'inquinamento a
carattere diffuso e generale nei casi in cui sia impossibile collegare gli effetti ambientali negativi a atti o
omissioni di taluni singoli soggetti".
Il principio è ripreso dall'art. 4 (Eccezioni), comma 5 della direttiva, che condiziona l'applicazione della
normativa comunitaria al danno ambientale o alla minaccia imminente di tale danno causati da
inquinamento di carattere diffuso alla concreta possibilità di accertare un nesso causale tra il danno e le
attività di singoli operatori.
Ciò non deve sorprendere posto che la direttiva richiama il principio "chi inquina paga" come sua base
giuridica all'art. 1 (123). Si è visto infatti che tale principio, pur essendo incompleto per quanto attiene
l'identificazione della struttura della fattispecie del danno ambientale, tuttavia comporta alcune esclusioni.
In applicazione di detto principio la direttiva 2004/35/CE richiede che sia l'effettivo responsabile del
danno a sopportare i costi della prevenzione e della riparazione del danno, stabilendo altresì che qualora
l'iniziativa sia stata presa dall'Autorità competente, questa possa recuperare dall'operatore attraverso
idonee garanzie (reali o finanziarie), i costi sostenuti in relazione alle azioni di prevenzione e riparazione
(124).
In linea più generale, occorrerà sottolineare come i rigorosi principi dettati dalla direttiva in ordine al
nesso causale, recepiscano appieno le elaborazioni svolte a questo proposito dalla dottrina europea
(125), secondo la quale il problema del nesso di causalità non è tema che può essere trattato
disgiuntamente da quello degli scopi che ci si ripromette di raggiungere con lo strumento della
responsabilità civile in questo settore. La scelta di una regola causale piuttosto che di un'altra viene
infatti ad incidere direttamente sulle modalità e sui livelli di svolgimento di una determinata attività,
ampliando o restringendo l'area dei rischi che possono essere imputati ad un operatore, non
diversamente da quanto avviene con la scelta di un determinato tipo o regime di responsabilità.
L'esame sui criteri per determinare il nesso di causalità tra una determinata attività imprenditoriale ed un
danno all'inquinamento dovrà dunque tener presente il fatto che si tratta sempre di un problema di
opportunità in relazione al momento in cui smettere di ripercorrere a ritroso lo svolgimento causale
(126).
Essendo il nesso di causalità finalizzato a selezionare le conseguenze dannose di una determinata azione
o attività, la sua identificazione dovrà essere affrontata tenendo conto dello scopo e dei propositi che
hanno le norme la cui violazione ha portato al verificarsi del danno (127).
Le soluzioni da adottare in materia di nesso di causalità non potranno quindi astrarre dagli scopi che si
prefigge la responsabilità civile in campo ambientale e dovranno quindi essere elaborate in sintonia con
questi ultimi.
Tali soluzioni dovranno in particolare essere poste in riferimento con gli scopi di prevenzione e di
deterrenza che la responsabilità civile si propone di raggiungere nel settore ambientale, affinché la
problematica del nesso di causalità non vanifichi gli intenti perpetrati con lo strumento della
responsabilità civile, ma - anzi - si ponga in linea con gli obiettivi di quest'ultima (128).
Secondo una parte della dottrina appare chiaro, e conseguente a quanto appena detto, che la disciplina
del nesso di causalità si atteggerà in modo differente a seconda che si tratti di identificare il nesso di
causalità nel caso di danni derivanti da una azione illecita, oppure da attività rischiosa, ma lecita (129).
Essendo infatti diverse le funzioni dei due tipi di responsabilità, diversa dovrebbe essere anche la
disciplina del nesso di causalità. Mentre infatti le funzioni svolte dalla responsabilità civile per atto illecito
sono quelle della reintegrazione del patrimonio del danneggiato da un lato e, dall'altro, quella di
sanzionare determinati comportamenti così da prevenirli per il futuro, la responsabilità oggettiva per
rischio lecito, pur condividendo la prima di queste due funzioni, pone l'accento soprattutto sulla funzione
di razionalizzazione dell'attività economica pericolosa, costituendo una pressione economica nei confronti
dell'imprenditore in questo senso (130). Ponendosi il problema della selezione delle conseguenze dannose
risarcibili secondo questa dottrina si dovranno profilare diversamente anche i criteri limitativi di queste
ultime. Se infatti è vero che non sono riscontrabili differenze sostanziali in relazione ai criteri limitativi
derivanti dalla prima delle due funzioni della responsabilità civile, ossia quella reintegrativa (131), diversi
sono i limiti reputati connessi con l'altra funzione della responsabilità, che nel caso della responsabilità
per atto illecito dovrebbe essere di tipo sanzionatorio e preventivo, mentre nel caso della responsabilità
oggettiva di mera distribuzione economica del rischio (132).
In definitiva, ove l'attività inquinante sia stata autorizzata, non potranno essere presi in considerazione
danni solo arduamente riconducibili all'attività posta in essere dell'operatore, così come espressamente
richiamato dalla direttiva.
7.3. Il criterio di imputazione della responsabilità. - Circa il criterio di imputazione della responsabilità, si
è detto che nella direttiva il criterio di imputazione della responsabilità per danno ambientale, cui
soggiacciono le attività professionali prese in considerazione dalla direttiva, riprende quanto già delineato
nel Libro Bianco sulla responsabilità per danni all'ambiente del 2000 (133).
In particolare, il Libro Bianco concludeva che la soluzione più appropriata sarebbe stata quella di
introdurre un criterio di responsabilità oggettiva per i danni causati da attività pericolose regolamentate a
livello comunitario, abbinato ad eccezioni per i danni tradizionali e all'ambiente, e un criterio di
responsabilità per colpa per i danni alla biodiversità causati da attività non pericolose (134).
Questo sistema previsto inizialmente dal Libro Bianco è stato successivamente oggetto di un
ripensamento critico sotto diversi profili.
In primo luogo, e come si avrà modo di ribadire in seguito (135), sono stati esclusi i danni tradizionali.
In secondo luogo, la direttiva ha delimitato e circoscritto le ipotesi di responsabilità (136), lasciando
ampia discrezionalità agli Stati membri per quanto concerne la scelta dei criteri soggettivi di imputazione.
Il 20° Considerando della direttiva dispone infatti che: "Non si dovrebbe chiedere ad un operatore di
sostenere i costi di misure di prevenzione o riparazione adottate conformemente alla presente direttiva in
situazioni in cui il danno in questione o la minaccia imminente di esso derivano da eventi indipendenti
dalla volontà dell'operatore. Gli Stati membri possono consentire che gli operatori, di cui non è accertato
il dolo o la colpa, non debbano sostenere il costo di misure di riparazione in situazioni in cui il danno in
questione deriva da emissioni o eventi espressamente autorizzati o la cui natura dannosa non era nota al
momento del loro verificarsi".
L'elemento della volontà dell'operatore assurge dunque a criterio discretivo delle ipotesi di responsabilità,
tanto che la direttiva prevede esplicitamente che gli Stati membri possano consentire che gli operatori di
cui non è accertato il dolo o la colpa, non debbano sostenere il costo di misure di riparazione in situazioni
in cui il danno in questione deriva da emissioni o eventi espressamente autorizzati o la cui natura
dannosa non era nota al momento del loro verificarsi.
In questo senso dispone l'art. 8, comma 4, lett. a) della direttiva, prevedendo che gli Stati membri
abbiano facoltà di consentire che l'operatore non sia tenuto a sostenere i costi delle azioni di riparazione
intraprese conformemente alla direttiva, qualora dimostri che non gli è attribuibile un comportamento
doloso o colposo e che il danno ambientale è stato causato da un'emissione o un evento espressamente
autorizzati da un'autorizzazione conferita o concessa ai sensi delle vigenti disposizioni legislative e
regolamentari nazionali.
Un'ulteriore delimitazione della responsabilità ai sensi della direttiva deriva inoltre dal successivo art. 8,
comma 4, lett. b), secondo cui gli Stati possono altresì consentire che l'operatore non sia tenuto a
sostenere i costi delle azioni di riparazione, nel caso in cui il danno ambientale sia stato causato da
un'emissione, da un'attività o qualsiasi altro modo di utilizzazione di un prodotto nel corso di un'attività,
che l'operatore dimostri non essere state considerate probabile causa di danno ambientale secondo lo
stato delle conoscenze scientifiche e tecniche al momento del rilascio dell'emissione o dell'esecuzione
dell'attività.
Il legislatore comunitario, che richiama il principio di sussidiarietà al 3° Considerando della direttiva come
principio-guida, sembra dunque declinarlo nello specifico settore della responsabilità, lasciando che siano
i singoli Stati membri ad operare le scelte di policy più idonee a colmare le lacune (137), in ciò
supportato dalla dottrina che di questi temi si era ampiamente occupata (138).
Ciò corrisponde a quanto auspicato già in sede di redazione di Libro Bianco, ove l'esplicito richiamo ai
principi di sussidiarietà e di proporzionalità, fungevano da punti di riferimento per l'elaborazione di un
sistema comunitario concepito come un regime quadro contenente i requisiti minimi essenziali, che,
secondo un approccio graduale, avrebbero potuto essere integrati - nel tempo - da altri elementi che
dovessero rivelarsi necessari sulla base dell'esperienza acquisita durante il periodo iniziale di applicazione
(139).
7.4. Le scelte in materia di responsabilità solidale. - Del pari, la direttiva non si pronuncia sul profilo della
responsabilità solidale.
In effetti, in sede comunitaria si era molto discusso circa la possibile regolamentazione della
problematica.
Già nel Libro Verde sul risarcimento dei danni all'ambiente(140), si metteva in luce come la responsabilità
solidale potesse causare notevoli problemi nel particolare settore della responsabilità ambientale, tra cui
l'eccessivo proliferare delle richieste risarcitorie (141).
Veniva inoltre sottolineato come nel caso di responsabilità solidale, le vittime del danno sarebbero state
incentivate ad agire contro l'inquinatore con maggiori mezzi finanziari, piuttosto che contro il responsabile
della maggior parte del danno ambientale e che questo effetto "deep pocket" avrebbe dovuto essere
evitato (142).
Successivamente, nella Proposta di direttiva (143) veniva previsto all'art. 11, che nel caso in cui il danno
fosse stato causato da più responsabili, e qualora vi fosse un sufficiente grado di plausibilità e probabilità
che il danno fosse stato causato da più soggetti, si potesse considerare tutti solidalmente responsabili,
oppure stabilire in modo equo e ragionevole l'onere risarcitorio che ognuno di questi doveva sopportare.
Per converso, il soggetto che fosse stato in grado di dimostrare l'effettivo contributo della sua attività al
verificarsi del danno, sarebbe stato obbligato a sostenere i soli costi inerenti al ripristino di tale parte di
danno (144).
Nella stesura definitiva, tuttavia, si è operata una scelta minimale che rinvia a quanto disposto dai diritti
nazionali.
La direttiva 2004/35, nella sua stesura finale, prevede infatti al suo articolo 9, rubricato come
"Imputazione dei costi nel caso di pluralità di autori del danno" che: "La presente direttiva lascia
impregiudicata qualsiasi disposizione del diritto nazionale riguardante l'imputazione dei costi nel caso di
pluralità di autori del danno, in particolare per quanto concerne la ripartizione della responsabilità tra
produttore e utente di un prodotto".
Per comprendere questa rinunzia è però necessario richiamarsi all'evoluzione dei diritti europei in tema di
responsabilità solidale. Ben pochi sistemi infatti conservano inalterata fiducia nel principio della solidarietà
tra i coautori dell'illecito al di fuori dell'ipotesi della cooperazione tra loro. Anzi, l'orientamento prevalente
è rivolto alla non solidarietà dell'obbligo risarcitorio, al fine di non distorcere le funzioni della
responsabilità civile, specie ove si faccia riferimento alle ipotesi c.d. di successive joint torts(145). Il che
non toglie che vi sia una ipotesi la quale, per ragioni più che altro pratiche, continua ad essere
intensamente discussa ed è quella che riguarda l'ipotesi della ripartizione della responsabilità tra
produttore ed utilizzatore di prodotti complessi, ove la scissione delle responsabilità risulta spesso
impraticabile.
Sicché il problema della solidarietà tra co-autori del danno ambientale deve essere risolto dai singoli
diritti nazionali, ma - naturalmente - senza contraddire i principi generali della disciplina europea. In
particolare non sembra ammissibile conformare la solidarietà tra i coautori dell'illecito in modo tale che
l'onere risarcitorio non abbia connessioni causali con l'attività inquinante.
7.5. Il danno ambientale preso in considerazione dalla direttiva. - A differenza di quanto era stato
proposto nel Libro Bianco, che prevedeva di prendere in considerazione congiuntamente il danno
all'ambiente e i c.d. danni tradizionali, e a differenza di quanto previsto nella nostra previgente
legislazione, la direttiva copre solo alcune fattispecie di danno all'ambiente.
L'art. 3.3. della direttiva esclude infatti la risarcibilità delle posizioni individuali, stabilendo che: "Ferma
restando la pertinente legislazione nazionale, la presente direttiva non conferisce ai privati un diritto a
essere indennizzati in seguito a un danno ambientale o a una minaccia imminente di tale danno".
Il dato essenziale per poter cogliere le novità che la direttiva impone al nostro ordinamento interno è che
non contiene alcuna indicazione che possa far intendere l'ambiente come un bene unitario, secondo la
declinazione che era stata data dall'art. 18 legge 349/1986. Al contrario essa identifica tre specifiche
risorse ambientali:
1. il danno alle specie e agli habitat naturali protetti, così come disciplinati dalle direttive 92/43/CEE
(146) e 79/409/CEE (147);
2. il danno alle acque, vale a dire qualsiasi danno che incida in modo significativamente negativo sullo
stato delle acque, così come definito dalla direttiva 2000/60/CE;
3. il danno al terreno, vale a dire qualsiasi contaminazione del terreno che crei un rischio significativo di
effetti negativi sulla salute umana a seguito dell'introduzione diretta o indiretta nel suolo, sul suolo o nel
sottosuolo di sostanze, preparati, organismi o microrganismi nel suolo.
Per cogliere questo aspetto appare necessario ricordare che, come accennato, il modello italiano è
rimasto isolato nel contesto europeo.
Inoltre, come si avrà modo di vedere, il diritto vivente italiano sembra aver intrapreso una strada del
tutto diversa rispetto alla fattispecie legale in cui erano cancellati tutti i profili logicamente deducibili dal
principio europeo chi inquina paga, salvo quello della colpa dell'agente. Non stupisce quindi che l'apporto
dell'esperienza italiana in sede di elaborazione della normativa europea sia stato pressoché nullo.
Va infatti ricordato come in sede comunitaria la nozione di danno ambientale sia stata al centro di un
lungo dibattito che trova nel Libro Verde sul risarcimento dei danni all'ambiente del 1993 (148) un ampio
studio di riferimento sui principali sistemi di responsabilità ambientale, e nel Libro Bianco sulla
responsabilità per danni all'ambiente del 2000 (149) un documento strategico per le future scelte della
Commissione europea.
La direttiva del 2004 pur non pronunciandosi, comprensibilmente, sulla nozione di ambiente sotto un
profilo ontologico, tuttavia fornisce direttamente la nozione di "danno" da impiegarsi all'interno del
sistema di responsabilità da essa delineato, per cui si deve intendere "un mutamento negativo misurabile
di una risorsa naturale o un deterioramento misurabile di un servizio di una risorsa naturale, che può
prodursi direttamente o indirettamente" (150).
Sempre ai sensi della direttiva per "servizio" deve intendersi "la funzione svolta da una risorsa naturale a
favore di altre risorse naturali e/o del pubblico" (151).
Emerge da tale disposizione l'importanza del criterio della misurabilità del detrimento ambientale, che la
nozione di cui all'art. 18 legge 349/1986 lasciava del tutto nell'ombra. Sia chiaro che la misurabilità cui fa
riferimento la direttiva non significa quantificazione in senso economico del danno, e, quindi, del relativo
obbligo risarcitorio; significa, invece, misurabilità in senso fisico secondo i normali metodi quantitativi
delle scienze della natura. Ma perché siano applicabili tali criteri occorre che sia identificata la risorsa
ambientale lesa, come appunto fa la direttiva rivolgendosi esclusivamente alle acque, ai suoli (nei limiti
anzidetti) e alla biodiversità.
Esiste quindi un nesso sistematico forte tra la nozione di misurabilità della lesione ambientale e
l'identificazione di precise risorse ambientali, nesso sistematico che esclude nozioni vaghe ed
omnicomprensive di ambiente e, conseguentemente, di danno ambientale.
Così intesa, la nozione di danno ambientale di cui alla direttiva in esame comporta alcune notevoli
conseguenze.
La prima è la più evidente: non è più riproponibile l'idea di ambiente come bene immateriale, che si era
affacciata da noi sia in dottrina che in giurisprudenza, ove anzi essa è prevalente grazie all'autorevolezza
delle Corti che l'hanno accolta. Per quanto autorevole sia la giurisprudenza sul punto il suo insegnamento
non può perpetuarsi in un diverso quadro normativo, specie se si tratta di un quadro normativo europeo.
La seconda è che senza contraddire necessariamente la nozione di ambiente come bene unitario, tuttavia
il criterio di misurabilità del detrimento ambientale impedisce di scollegare la lesione del bene ambiente
dalla lesione di specifici beni.
Tuttavia, al fine di comprendere meglio quali modifiche la direttiva comporti per la esperienza italiana
occorrerà analizzare più in dettaglio quali siano i criteri di risarcimento del danno fatti propri dalla stessa
direttiva.
Prima di fare ciò è tuttavia necessario riferire attorno alla nozione di singola risorsa che, come predetto,
integra un certo grado di novità rispetto al modello nazionale.
Si è già osservato come dalla direttiva emerge una nozione di danno ambientale tripartita che prende in
considerazione: le acque, la biodiversità e i suoli, che vengono definite ai sensi della precedente
legislazione comunitaria già in vigore.
Solo nell'ambito dell'ipotesi concernente l'inquinamento dei suoli viene invece presa in considerazione la
nocività del danno all'ambiente per la salute umana.
Occorre infine sottolineare come nella versione definitiva della direttiva, il 4° Considerando specifichi che
il danno ambientale "include altresì il danno causato da elementi aerodispersi nella misura in cui possono
causare danni all'acqua, al terreno o alle specie e agli habitat naturali protetti".
La direttiva non si applica invece, per espressa disposizione, a quei danni causati da inquinamenti di
carattere diffuso, a meno che non sia accertabile un nesso causale tra il danno e le attività dei singoli
operatori (152).
Per quanto concerne la minaccia di danno, la direttiva prevede che il sistema di responsabilità ambientale
si applichi non solo al danno vero e proprio, ma anche qualsiasi minaccia di danno imminente.
La minaccia imminente di danno viene definita come il rischio sufficientemente probabile che si verifichi
un danno ambientale in un futuro prossimo.
Per misure di prevenzione si devono intendere, ai sensi della direttiva, le misure prese per reagire a un
evento, un atto o un'omissione che ha creato una minaccia imminente di danno ambientale, al fine di
impedire o minimizzare tale danno. Il senso di tale disposizione è che anche le azioni di danno temuto, o
analoghi provvedimenti, debbono avere, pur operando all'interno di un ragionamento prognostico, come
dato di riferimento sostanziale gli stessi elementi costitutivi della fattispecie di danno ambientale che si
sono appena esaminati.
7.6. La legittimazione attiva. - Alla nozione di ambiente come appena esaminata, che esclude la
risarcibilità delle posizioni individuali (153), doveva fare seguito una disciplina specifica in materia di
legittimazione attiva che infatti la direttiva 2004/35/CE prevede agli artt. 11, 12 e 13.
Ai sensi dell'art. 11 della direttiva, la legittimazione attiva spetta innanzitutto alle "Autorità competenti".
In omaggio al principio di sussidiarietà, queste vengono definite come quegli enti che gli Stati membri
devono indicare come responsabili per l'adempimento degli obblighi scaturenti dalla direttiva (154).
All'Autorità competente spetterà comunque il compito (155):
a) di individuare l'operatore che ha causato il danno o la minaccia imminente di danno;
b) di valutare la gravità del danno;
c) di determinare le misure di riparazione da prendere.
La direttiva stabilisce inoltre che siano gli Stati membri a provvedere affinché l'Autorità competente possa
delegare o chiedere a terzi di attuare le misure di prevenzione o di riparazione necessarie (156).
Le decisioni adottate ai sensi della direttiva che impongono misure di prevenzione o di riparazione
dovranno essere motivate con precisione. Tali decisioni sono notificate senza indugio all'operatore
interessato, il quale è contestualmente informato dei mezzi di ricorso di cui dispone secondo la legge
vigente dello Stato membro in questione, nonché dei termini relativi a detti ricorsi (157).
La direttiva non prevede la possibilità di singoli o associazioni ambientali di agire direttamente nei
confronti dell'inquinatore, ma disciplina una specifica "Richiesta di azione" da parte di altri soggetti,
stabilendo che persone fisiche o giuridiche (158):
a) che sono o potrebbero essere colpite dal danno ambientale, o
b) che vantino un interesse sufficiente nel processo decisionale in materia di ambiente concernente il
danno o, in alternativa,
c) che facciano valere la violazione di un diritto, nei casi in cui il diritto processuale amministrativo di uno
Stato membro esiga tale presupposto,
siano legittimate a presentare all'Autorità competente osservazioni concernenti qualsiasi caso di danno
ambientale o minaccia imminente di danno ambientale di cui siano a conoscenza e a chiedere all'Autorità
competente di intervenire a norma della direttiva stessa (159).
Tuttavia, anche in questo caso la determinazione di quali siano gli elementi costitutivi dell'interesse
sufficiente e della violazione di un diritto spetti agli Stati membri (160).
L'Autorità competente deve tener conto delle richieste di azione e delle osservazioni ad esse allegate che
mostrino con verosimiglianza l'esistenza di un caso di danno ambientale. In tali circostanze l'Autorità
competente deve lasciare la possibilità all'operatore interessato di far conoscere le proprie opinioni circa
la richiesta di azione e le osservazioni allegate (161).
Quanto prima, e comunque conformemente alle pertinenti disposizioni della legislazione nazionale,
l'Autorità competente informa le persone di cui al paragrafo 1, che hanno presentato osservazioni
all'Autorità, della sua decisione di accogliere o rifiutare la richiesta di azione e indica i motivi della
decisione (162).
La direttiva prevede altresì che le decisioni delle Autorità competenti possano essere sottoposte a
procedure di riesame (163) su iniziativa dei soggetti legittimati ai sensi dell'articolo 12, dinanzi a un
tribunale, o qualsiasi altro organo pubblico indipendente e imparziale, ai fini del riesame della legittimità
della procedura e del merito delle decisioni, degli atti o delle omissioni dell'Autorità competente ai sensi
della direttiva.
7.7. I criteri di risarcimento del danno ambientale. - Degno della massima attenzione è il profilo attinente
alla disciplina che la direttiva impone circa le modalità di risarcimento del danno ambientale.
Come si è già evidenziato, anche in questo caso il testo definitivo della direttiva risente del dibattito
pregresso che è transitato attraverso tappe intermedie significative tra le quali la Convenzione del
Consiglio d'Europa sulla responsabilità civile per danno all'ambiente da attività pericolose ratificata a
Lugano il 21-22 giugno 1993 (164) ed il Libro Bianco sulla responsabilità per danni all'ambiente
presentato dalla Commissione europea nel febbraio del 2000 (165); quest'ultimo documento, assieme
all'Explanatory Report(166) alla Convenzione di Lugano, costituiscono una guida preziosa per chi voglia
seguire l'andamento del dibattito europeo.
In generale è da osservarsi subito come dalla direttiva emerga la squalificazione del criterio della
valutazione equitativa del danno. In effetti il rimettere al giudice la valutazioni di danni di incerta
quantificazione in termini è una comoda soluzione per i legislatori, ma presenta il difetto di contraddire lo
scopo ultimo delle regole di diritto uniforme quali sono appunto le direttive comunitarie. Rifiutata la
soluzione più comoda la direttiva, seguendo in ciò le orme del dibattito pregresso, si riallaccia ai criteri
suggeriti dalla lunga stagione della analisi costi e benefici, e delinea quindi una serie articolata di criteri
che ruotano attorno alla nozione di ripristino delle risorse ambientali danneggiate.
Prima di ricordare tale articolazione nei suoi dettagli è però opportuno porre in rilievo come essi siano
coerenti con il regime di responsabilità ambientale voluto dalla Commissione, il quale si caratterizza per il
suo scopo ripristinatorio e non afflittivo (167). Per questo motivo, i criteri di valutazione del danno
ambientale dovevano essere così strutturati da rappresentare esclusivamente il valore delle risorse
naturali e dei servizi perduti (168), senza aprire le porte a criteri che mirano alla punizione del reo. Ciò,
del resto, discende immediatamente dall'idea per cui la responsabilità in campo ambientale ha di mira
l'internalizzazione delle esternalità negative secondo i noti schemi dell'economia del benessere, mentre
sarebbe discorsivo introdurre criteri di cosiddetta over-deterrence, perché in tal modo si creerebbero
squilibri inefficienti nella allocazione delle risorse speculari a quelli che si ottengono lasciando che i costi
delle esternalità negative siano pagati da soggetti terzi.
In ogni caso, la direttiva determina all'art. 7 ("Determinazione delle misure di riparazione") ed in un
apposito Allegato II i criteri che gli operatori e le Autorità competenti dovranno seguire per la riparazione
del danno all'ambiente (169), distinguendo analiticamente le diverse ipotesi di danno ambientale a
seconda che si tratti di danno arrecato all'acqua e agli habitat naturali protetti, oppure al terreno.
Per l'ipotesi di danno alle acque ed alle specie ed agli habitat naturali protetti la riparazione è conseguita
riportando l'ambiente danneggiato alle condizioni originarie tramite misure di riparazione primaria,
complementare e compensativa, da intendersi come segue: per riparazione "primaria" dovrà intendersi
qualsiasi misura di riparazione che riporta le risorse e/o i servizi naturali danneggiati alle o verso le
condizioni originarie; qualora le risorse naturali e/o i servizi danneggiati non tornino alle condizioni
originarie, sarà intrapresa la riparazione "complementare", espressione con la quale deve intendersi
qualsiasi misura di riparazione intrapresa in relazione a risorse e/o servizi naturali per compensare il
mancato ripristino completo delle risorse e/o dei servizi naturali danneggiati.
Lo scopo della riparazione "complementare" è di ottenere, se opportuno anche in un sito alternativo, un
livello di risorse naturali e/o servizi analogo a quello che si sarebbe ottenuto se il sito danneggiato fosse
tornato alle condizioni originarie. Laddove possibile e opportuno, il sito alternativo dovrebbe essere
geograficamente collegato al sito danneggiato, tenuto conto degli interessi della popolazione colpita.
Infine, la riparazione "compensativa" è avviata per compensare la perdita temporanea di risorse naturali
e servizi in attesa del ripristino. La compensazione consiste in ulteriori miglioramenti alle specie e agli
habitat naturali protetti o alle acque nel sito danneggiato o in un sito alternativo. Essa non è una
compensazione finanziaria all'ente pubblico esponenziale.
La ratio profonda di tali criteri è quella di escludere nella massima misura possibile la compensazione
puramente pecuniaria, in cui si contempli lo Stato incassare risarcimenti spesso cospicui, ma
necessariamente - data la struttura delle finanza pubblica - non finalizzati alla preservazione
dell'ambiente.
Ciò spiega anche la ragione per cui la direttiva sottolinea che a titolo di riparazione primaria si debba
considerare la possibilità di intraprendere azioni per riportare direttamente le risorse naturali e i servizi
alle condizioni originarie in tempi brevi, oppure quella di lasciare che ciò avvenga attraverso il ripristino
naturale, ove le fonti dell'inquinamento siano cessate; ed anche la ragione per cui sia introdotto altresì
l'obbligo di spendere il risarcimento in misure ripristinatorie (170).
L'Allegato II alla direttiva prevede inoltre che se non è possibile usare, come prima scelta, i metodi di
equivalenza risorsa-risorsa o servizio-servizio, si devono utilizzare tecniche di valutazione alternative.
L'Autorità competente può prescrivere il metodo per determinare la portata delle necessarie misure di
riparazione complementare e compensativa.
Se la valutazione delle risorse e/o dei servizi perduti è praticabile, ma la valutazione delle risorse naturali
e/o dei servizi di sostituzione non può essere eseguita in tempi o a costi ragionevoli, l'Autorità
competente può scegliere misure di riparazione il cui costo sia equivalente al valore monetario stimato
delle risorse naturali e/o dei servizi perduti.
In riferimento all'ipotesi di danno al terreno, la direttiva prevede che si debbano adottare le misure
necessarie per garantire, come minimo, che gli agenti contaminanti pertinenti siano eliminati, controllati,
circoscritti o diminuiti in modo che il terreno contaminato, tenuto conto del suo uso attuale o approvato
per il futuro al momento del danno, non presenti più un rischio significativo di causare effetti nocivi per la
salute umana.
Anche in questo caso, la direttiva infine sottolinea che vada presa in considerazione un'opzione di
ripristino naturale, ossia un'opzione senza interventi umani diretti nel processo di ripristino.
8. L'impatto della direttiva sulla precedente situazione italiana.
Si è già detto come la direttiva imponga più di un ripensamento alle tendenze interpretative e
giurisprudenziali sviluppatesi in Italia a partire dal 1986.
Giova quindi ricordare quali siano tali tendenze.
Un primo punto riguarda la costruzione del bene ambiente come bene immateriale.
Al riguardo la Cassazione ha definito l'ambiente come un "bene immateriale ma giuridicamente
riconosciuto e tutelato nella sua unitarietà", che "può essere scomposta e che secondo corrente accezione
dottrinaria riguardano: l'ambiente come assetto del territorio; l'ambiente come ricchezza di risorse
naturali; l'ambiente quale paesaggio nel suo valore estetico e culturale; l'ambiente quale condizione di
vita salubre" (171).
La Suprema Corte aveva più tardi specificato come per "ambiente in senso giuridico va considerato come
un insieme che, pur comprendendo vari beni o valori, quali la flora, la fauna, il suolo, l'acqua etc., si
distingue ontologicamente da questi in quanto si identifica in una realtà priva di consistenza materiale,
ma espressiva di un autonomo valore collettivo costituente, come tale, specifico oggetto di tutela da
parte dell'ordinamento con la L. 8 luglio n. 349, rispetto ad illeciti, la cui idoneità lesiva va valutata con
specifico riguardo a siffatto valore ed indipendentemente dalla particolare incidenza verificatasi su una o
più di dette componenti, secondo un concetto di pregiudizio che, sebbene riconducibile a quello di danno
patrimoniale, si caratterizza, tuttavia per una più ampia accezione, dovendosi avere riguardo - per la sua
identificazione - non tanto alla mera differenza tra il salso attivo del danneggiato prima e dopo l'evento
lesivo" (172).
Come si è detto tale qualificazione è ormai incompatibile con il diritto comunitario e deve ritenersi
superata.
Del pari superata deve ritenersi l'idea per cui la responsabilità ambientale scaturisce dalla mera violazione
di norme poste a presidio dell'ambiente che pur in passato aveva caratterizzato una certa giurisprudenza
italiana. In effetti le specificazioni apportate dalla direttiva impediscono di immaginare che sotto
l'etichetta di danno ambientale possano collocarsi ipotesi di illecito solo formali. La centralità della
nozione di misurabilità in senso fisico del danno è infatti incompatibile con tale ipotesi ove verrebbe
necessariamente a mancare uno dei pilastri della fattispecie.
In passato, infatti, la Corte di Cassazione penale ha ritenuto sussistere danno all'ambiente nelle ipotesi di
"specifica violazione di norme poste a tutela del bene patrimoniale e immateriale dell'ambiente" (173). Va
peraltro sottolineato che il trend argomentativo della giurisprudenza penale della Corte di Cassazione è
stato piuttosto altalenante, tanto che in una successiva sentenza del 1992, i giudici delle sezioni penali
avevano sostenuto il più esatto concetto che "solo dalla compromissione del bene può derivare il diritto al
risarcimento, non essendo sufficiente né la violazione di una o più delle finalità perseguite con la
normativa antinquinamento, né la semplice esposizione al pericolo" (174).
Infine, la Corte di Cassazione penale aveva affermato che "Non danno luogo a risarcimento - di regola violazioni meramente formali. La stessa lesione dell'immagine dell'ente, il quale, dalla commissione di
reati vede compromesso il prestigio derivante all'affidamento di compiti di controllo o di gestione,
costituisce danno non risarcibile autonomamente, in tal caso il risarcimento deve essere riconosciuto
soltanto quando sia stato concretamente accertato il suddetto danno ambientale, al quale di collegata
come aspetto non patrimoniale, la menomazione del rilievo istituzionale dell'ente" (175).
Anche le Sezioni civili della Cassazione hanno elaborato, nel corso degli anni, una concezione che si
distaccava nettamente da quella consistente nella mera violazione di un precetto, stabilendo che: "Il
concetto di danno ambientale... accoglie il concetto di "compromissione o torto ambientale", consistente
nell'alterazione, deterioramento, distruzione, in tutto o in parte, dell'ambiente. In altri termini non basta
la violazione puramente formale della normativa in materia di inquinamento, ..., ma occorre che lo Stato
o gli enti territoriali, ..., deducano l'avvenuta compromissione dell'ambiente" (176).
Sotto il profilo indicato quindi la direttiva rafforza una tendenza che si è già manifestata in giurisprudenza
e squalifica definitivamente una lettura della fattispecie che è già stata corretta dalla medesima fonte
giurisprudenziale. D'ora in poi comunque è indubbio che solo la possibilità di considerare con esattezza il
detrimento arrecato all'ambiente, può consentire di fare riferimento alla fattispecie del danno ambientale,
mentre, a tale titolo, la mera violazione di norme non può essere foriera, in campo civile, di alcuna
reazione risarcitoria.
Più rilevante è segnalare come vi sia ormai incompatibilità tra il sistema della direttiva ed alcune,
corpose, tendenze giurisprudenziali che sono state seguite in Italia nel tentativo di riassorbire la
fattispecie del danno ambientale ex art. 18 legge 349/1986 nella formulazione generale di cui all'art.
2043 c.c.
Già con la sentenza 19 giugno 1996, n. 5650 la Corte di Cassazione aveva avuto modo di osservare che
"l'ambiente come bene giuridico non trova la sua fonte genetica nella citata legge del 1986 (che si occupa
piuttosto della ripartizione della tutela tra Stato, enti territoriali ed associazioni protezionistiche) ma
direttamente nella Costituzione, considerata dinamicamente, come diritto vigente e vivente, attraverso il
combinato disposto di quelle disposizioni (quali gli articoli 2, 3, 9, 41 e 42) che concernono l'individuo e la
collettività nel suo habitat economico, sociale, ambientale; tali disposizioni primarie elevano l'ambiente
ad interesse pubblico fondamentale, primario ed assoluto, imponendo allo Stato (come Stato
ordinamento, comprensivo dello Stato persona e degli altri enti territoriali) una adeguata predisposizione
di mezzi di tutela, per le vie legislative, amministrative ed anche giudiziarie" (177).
Le argomentazioni appena esposte sono state poi sostanzialmente riprese da successiva giurisprudenza
della Corte di Cassazione (178).
In realtà già prima della direttiva la maggior parte della dottrina aveva rilevato come tale indirizzo non
potesse approvarsi per una serie di ragioni ognuna delle quali appare esauriente.
Così si è posto in luce come il riferimento alla Costituzione consente, caso mai, di predicare il danno
ambientale in termini di ingiustizia di cui all'art. 2043 c.c., ma non può costituire la base per configurare
una posizione giuridica soggettiva protetta da porsi in capo allo Stato. Quest'ultima infatti è la creazione
della norma di cui all'art. 18 legge 349/1986 e la norma legislativa non può essere surrogata da una
interpretazione delle norme costituzionali o codicistiche.
Sempre in tale direzione si deve porre in rilievo come il riferimento all'art. 2043 c.c. dia luogo ad una
fattispecie di danno ambientale che è priva di quelle caratteristiche strutturali di cui invece la fattispecie
prevista dall'art. 18 legge 349/1986 era munita. Ed infine si urta contro il principio della calcolabilità della
responsabilità per danno ambientale che invece svolge una funzione centrale nel sistema della legge
italiana e, soprattutto nel sistema comunitario così come è andato costruendosi.
Giova rimarcare come in effetti la costruzione giurisprudenziale possa essere difesa solo nelle ipotesi in
cui la tutela dell'ambiente sia strettamente connessa con la tutela del diritto alla salute; ma in tale ipotesi
si fuoriesce dalla fattispecie del danno ambientale in senso proprio. Simile confusione terminologica e
concettuale non è tuttavia più riproponibile dopo il recepimento della direttiva, la quale, come si è visto,
distingue assai bene tra la lesione dell'ambiente ed anche della biodiversità, e la lesione, o il pericolo per
la salute umana al quale, specie con riguardo all'inquinamento dei suoli si ricollegano specifiche
prescrizioni e non già il rifluire della fattispecie del danno ambientale in una clausola generale.
La ragione più evidente per cui l'impostazione in esame appare oggi imponibile è però legata alla natura
della sua fonte. Il danno ambientale ex art. 2043 c.c. è infatti, anche a prescindere dalla dubbia logica
che dovrebbe sorreggere tale figura, una creazione del diritto giurisprudenziale italiano. Ora, la direttiva
destinata a regolare sul piano europeo le ipotesi di danno ambientale ha una insopprimibile funzione di
armonizzazione dei diritti nazionali in materia ambientale; sicché non si possono ammettere creazioni
giurisprudenziali concorrenti con le disposizioni della direttiva a pena di contraddirne la funzione
essenziale ed in definitiva di consumare una violazione palese dei principi cardinali dell'ordinamento
comunitario. Né basta ad evitare simile contrasto il rilevo per cui la direttiva non esclude che i singoli
Stati membri possono adottare legislazioni più protettive dell'ambiente; perché tale clausola di stile deve
essere interpretata alla luce della giurisprudenza comunitaria la quale ha più volte sottolineato come tale
tipo di clausola consente deroghe limitate ad una direttiva che si proponga di armonizzare la situazione
giuridica nei diversi Stati membri ed in particolare non "possa essere inteso come diretto a lasciare agli
Stati membri la possibilità di mantenere un regime generale di responsabilità (nel caso specifico per
danno da prodotti difettosi) che differisca da quello previsto dalla direttiva" (179).
9. Le novità introdotte dalla Parte Sesta del D.Lgs. 152/2006.
Come anticipato, la direttiva 2004/35 è stata recepita in Italia con il D.Lgs. 152/2006 ed in particolare,
per quanto qui rileva, dalla Parte Sesta.
Le novità, rispetto alla situazione pregressa, sono notevoli, pur mantenendosi la disciplina italiana
ancorata al principio di responsabilità per colpa, già prevista dalla previgente legislazione.
Nonostante l'esplicita abrogazione dell'art. 18 della L. 349/1986 (fatto salvo il suo comma 5 in materia di
legittimazione attiva delle associazioni ambientali) (180), i suoi criteri informatori verranno infatti in gran
parte richiamati dalla nuova disciplina.
9.1. La nozione di danno ambientale. - In riferimento alla nozione di danno ambientale il D.Lgs. 152/2006
ha dato attuazione alla direttiva con la norma contenuta nell'art. 300 del D.Lgs. 152/2006, che deve
essere considerata centrale nella nuova architettura della disciplina della responsabilità ambientale,
indicando cosa si debba intendere per danno all'ambiente in generale, nonché stabilendo quali siano le
risorse naturali che ne fanno parte.
La norma riprende alla lettera le indicazioni che provengono dalla direttiva 2004/35/CE.
La nozione di danno che il D.Lgs. 152/2006 fa propria al primo comma dell'articolo 300 riecheggia
chiaramente quello indicato dalla direttiva all'art. 2.2. ("un mutamento negativo misurabile di una risorsa
naturale o un deterioramento misurabile di un servizio di una risorsa naturale, che può prodursi
direttamente o indirettamente"), sottolineando che il mutamento debba essere "significativo". Tale
elemento della significatività non appare nel testo definitivo della direttiva, anche se era presente nella
Proposta di direttiva (181).
Lo stesso può dirsi per l'indicazione delle risorse ambientali che fanno parte della nozione di ambiente.
Anche in questo caso, infatti, la norma contenuta nel comma secondo dell'art. 300 riprende le indicazioni
fornite dalla direttiva, tanto che ne esplicita nel testo un chiaro riferimento ("Ai sensi della direttiva
2004/35 costituisce danno ambientale"). L'inclusione di specifiche risorse naturali all'interno della nozione
di ambiente discende dalla direttiva, da cui emerge una nozione di danno ambientale tripartita che
prende in considerazione: il danno alle specie e agli habitat naturali protetti, il danno alle acque, il danno
al terreno.
Solo nell'ambito della terza ipotesi (danno al terreno) viene presa in considerazione la nocività del danno
all'ambiente per la salute umana. Viene inoltre a cadere quello schema di lavoro cui si era abituati sotto il
vigore del decreto Ronchi e del D.M. 471/1999, ed in particolare il riferimento a specifici limiti tabellari
per determinare la soglia dell'inquinamento rilevante per determinare la responsabilità dell'operatore.
L'attuale normativa apre invece ad una concreta analisi di rischio da intraprendere volta per volta (182).
Occorre infine sottolineare come nella direttiva, il 4° Considerando avesse specificato che il danno
ambientale "include altresì il danno causato da elementi aerodispersi nella misura in cui possono causare
danni all'acqua, al terreno o alle specie e agli habitat naturali protetti". Tale indicazione non è stata
ripresa dalla norma in esame, introducendo così una restrizione notevole sia nei confronti della
precedente disciplina italiana, così come nei confronti della legislazione comunitaria.
9.2. Il legittimato attivo. - Nella Parte Sesta del D.Lgs. 152/2006 si evidenzia chiaramente la volontà del
legislatore italiano di delegare interamente al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio tutte le
funzioni e i compiti che la direttiva 2004/35 prevede in capo all'Autorità competente.
In particolare, la nuova disciplina stabilisce all'art. 299 D.Lgs. 152/2006 un accentramento delle
competenze in capo al Ministero dell'ambiente, mentre viene notevolmente ridimensionata la
legittimazione ad agire degli enti locali, così come delle associazioni ambientali.
La stessa disciplina delle azioni di prevenzione e di riparazione, prevista agli artt. 304 e 305, in perfetta
sintonia con quanto disciplinato dalla direttiva, palesa ulteriormente il ruolo del Ministero come quello
riservato nel contesto comunitario all'Autorità competente.
Al Ministero sono inoltre delegate le funzioni spettanti allo Stato in materia di tutela, prevenzione e
riparazione dei danni all'ambiente, limitando ad una mera "collaborazione" il ruolo ed il rilievo che le
regioni, gli altri enti locali, così come qualunque altro soggetto pubblico ritenuto idoneo, possano avere a
questo proposito (183).
Per quanto concerne specificatamente l'azione di danno ambientale, l'art. 311, comma 1, prevede che sia
il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio ad agire, anche esercitando l'azione civile in sede
penale, per il risarcimento del danno ambientale in forma specifica e, se necessario, per equivalente
patrimoniale (184).
9.3. Il soggetto responsabile. - Per quanto concerne il soggetto responsabile, il D.Lgs. 152/2006
recepisce solo parzialmente le indicazioni provenienti dalla sede comunitaria.
Da un lato identifica - al pari della direttiva - nell'"opera-tore", il soggetto che deve sostenere "i costi
delle iniziative statali di prevenzione e di ripristino ambientale adottate secondo le disposizioni di cui alla
parte sesta del presente decreto" (185).
Dall'altro riprende - alla lettera - la nozione di operatore già prevista nella direttiva (186), nel nuovo art.
302, comma 4 (187), secondo cui per "operatore" si deve intendere "qualsiasi persona, fisica o giuridica,
pubblica o privata, che esercita o controlla un'attività professionale avente rilevanza ambientale oppure
chi comunque eserciti potere decisionale sugli aspetti tecnici e finanziari di tale attività, compresi il
titolare del permesso o dell'autorizzazione a svolgere detta attività".
Questa pedissequa citazione dei principali articoli della direttiva predispone solo un limitato recepimento
dei principi cardine della direttiva, in quanto nel D.Lgs. 152/2006 manca una specifica indicazione, come
era stato previsto dalla normativa comunitaria, delle norme ambientali da prendere in considerazione per
selezionare le attività sottoposte al particolare regime di responsabilità ambientale (188).
Sicché da selezionate, le attività sottoposte al regime di responsabilità previsto dal D.Lgs. 152/2006,
ridiventano indifferenziate, così come sta a evidenziare il secondo comma dell'art. 311, rubricato "azione
risarcitoria in forma specifica e per equivalente patrimoniale", che esplicitamente prevede: "Chiunque
realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o comportamenti doverosi, con violazione di legge, di
regolamento, o di provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di
norme tecniche, arrechi danno all'ambiente, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in
parte, è obbligato al ripristino della precedente situazione e, in mancanza, al risarcimento per equivalente
patrimoniale nei confronti dello Stato".
Essendo il soggetto indifferenziato, ben si comprende come mai la scelta in ordine al criterio di
imputazione della responsabilità sia caduta su di un regime che predilige la colpa.
9.4. Il criterio di imputazione della responsabilità nella Parte Sesta del D.Lgs. 152/2006. - La disciplina
della responsabilità ambientale contenuta nel D.Lgs. 152/2006 richiama i principi informatori della
direttiva 2004/35 (189), facendo proprie le delimitazioni della fattispecie che il testo comunitario lasciava
alla discrezionalità degli Stati.
In particolare gli obblighi di prevenzione e di ripristino dell'operatore sono delineati agli artt. 304 e 305
della Parte Sesta. L'art. 304 (azione di prevenzione) (190) è una fedele trasposizione dell'art. 5 della
direttiva 2004/35 e deve - allo stesso tempo - considerarsi come norma speculare a quella introdotta
dall'articolo successivo in materia di azione di ripristino (191), che ripete i dettami dell'art. 6 dello stesso
testo comunitario.
L'azione di cui all'art. 304 stabilisce tutti gli obblighi dell'operatore e le facoltà di cui dispone il Ministero
nel caso in cui il danno non si sia ancora verificato, mentre l'art. 305 detta una disposizione di egual
tenore nel caso in cui il danno si sia già prodotto.
L'art. 308, primo comma, del D.Lgs. 152/2006, che riprende alla lettera l'art. 8 della direttiva, enuncia
come principio generale che l'operatore debba sostenere i costi delle iniziative di prevenzione e di
ripristino, sia che siano fatte direttamente dall'operatore, sia che invece siano state sostenute dallo Stato
(192).
Da ciò tuttavia non è possibile dedurre che la responsabilità ambientale insorgerebbe per il mero fatto
che si sia verificato il danno e che questo sia ascrivibile all'attività dell'operatore. A parte la necessaria
indagine sull'esistenza di un nesso causale, su cui il testo normativo italiano si sofferma ampiamente
(193), la norma rinvia agli elementi costitutivi previsti in seguito.
È lo stesso art. 308, comma 5, lett. a), con lo stesso tenore letterale dell'art. 8.3. della direttiva 2004/35,
a stabilire infatti che l'operatore non può essere ritenuto responsabile se non gli è attribuibile un
comportamento doloso o colposo e se l'intervento preventivo a tutela dell'ambiente è stato causato da
un'emissione o un evento espressamente consentiti da un'autorizzazione (194).
Del pari, l'operatore non potrà essere ritenuto responsabile per i danni causati da un'emissione o
un'attività o qualsiasi altro modo di utilizzazione di un prodotto nel corso di un'attività che l'operatore
dimostri non essere stati considerati probabile causa di danno ambientale secondo lo stato delle
conoscenze scientifiche e tecniche al momento del rilascio dell'emissione o dell'esecuzione dell'attività
(195).
Ulteriori delimitazioni alla responsabilità, anch'esse già previste in ambito comunitario (196), derivano
dalle eccezioni poste all'art. 308, comma 4, che stabilisce che non siano a carico dell'operatore i costi
delle azioni di ripristino adottate, se egli può provare che il danno ambientale e la minaccia imminente di
tale danno è stato causato da un terzo e si è verificato nonostante l'esistenza di misure di sicurezza
astrattamente idonee ad evitarlo (197).
Pertanto l'elemento soggettivo dell'illecito ambientale caratterizzato dalla colpa o dal dolo dell'agente
ritorna a far parte della fattispecie di responsabilità per danno ambientale, indipendentemente
dall'esplicita abrogazione dell'art. 18 della L. 349/1986 (198).
L'abrogato art. 18 echeggia ancora maggiormente in altra disposizione del D.Lgs. 152/2006, in quanto
l'art. 311 prevede ora che "Chiunque realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o comportamenti
doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o di provvedimento amministrativo, con negligenza,
imperizia, imprudenza o violazione di norme tecniche, arrechi danno all'ambiente, alterandolo,
deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, è obbligato al ripristino della precedente situazione e,
in mancanza, al risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato".
In definitiva, il legislatore italiano riprende nella Parte Sesta del D.Lgs. 152/2006 e negli ambiti consentiti
dalla legislazione comunitaria, il principio di responsabilità per colpa per danno all'ambiente che si era
tradizionalmente affermato nel sistema previgente.
In questo senso si è espressa anche la recente giurisprudenza (199), secondo la quale il legislatore del
2006 avrebbe operato una scelta decisa in favore della riconduzione della responsabilità per i danni
all'ambiente nell'alveo della "tradizionale" responsabilità extracontrattuale soggettiva, con il conseguente
ripudio di una qualsiasi forma di responsabilità oggettiva.
Ciò tuttavia necessita ancora di ulteriori approfondimenti per quanto concerne il coordinamento con le
norme stabilite nella Parte Quarta del D.Lgs. 152/2006 ("Norme in materia di gestione dei rifiuti e di
bonifica dei siti inquinati"), nonché per le ulteriori problematiche salienti in materia di danno ambientale,
ovvero per le questioni inerenti la solidarietà dell'obbligazione passiva, nonché il nesso causale.
9.5. Coordinamento con i criteri di imputazione della responsabilità previsti nella Parte Quarta del D.Lgs.
152/2006. - Il D.Lgs. 152/2006, nella sua Parte Quarta ("Norme in materia di gestione di rifiuti e di
bonifica dei siti inquinati"), prevede una nuova disciplina per quanto concerne le responsabilità scaturenti
dall'inquinamento del sito, che sostituisce la normativa contenuta nel D.Lgs. 22/1997, abrogata dalla
nuova legislazione (200).
Il coordinamento tra la disciplina della bonifica dei siti contaminati e quella sulla responsabilità
ambientale trova i suoi principi guida negli artt. 303, lettera h), e 313, comma 1.
Ai sensi dell'art. 303, lettera h), le norme che regolano la responsabilità ambientale non si applicheranno
alle situazioni di inquinamento per le quali siano state effettivamente avviate le procedure relative alla
bonifica o sia stata avviata o sia intervenuta bonifica dei siti nel rispetto delle discipline vigenti, salvo che
ad esito di tale bonifica permanga un danno ambientale.
Va peraltro specificato a questo proposito che ai sensi dell'art. 313, comma 1, nel caso in cui il
responsabile non abbia attivato le procedure di bonifica e sia stato accertato un danno ambientale, il
Ministero dell'ambiente possa avviare la procedura amministrativa fondata sull'ordinanza ingiuntiva del
ripristino dello stato dei luoghi (201) nonché, in caso di ulteriore omissione, del pagamento di una
somma di denaro a titolo di risarcimento del danno per equivalente.
Tuttavia, occorrerà ricordare che il comma 5 dell'art. 299, che prevede l'esperibilità dell'ordinanza in
questi casi, stabiliva che entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. 152/2006,
dovessero essere disciplinati, con altro decreto, i criteri per le attività istruttorie volte all'accertamento del
danno ambientale, nonché per la riscossione della somma dovuta per equivalente patrimoniale ai sensi
del Titolo III della Parte Sesta. Il decreto in questione non è mai stato pubblicato e lo strumento previsto
all'art. 299 appare in definitiva privo della sua potenzialità applicativa.
La volontà del nostro legislatore di approntare un coordinamento tra le norme contenute nella Parte
Quarta e quelle predisposte dalla Parte Sesta, si evince - inoltre - già da una prima lettura delle norme di
apertura del Titolo V della Parte Quarta, concernente la bonifica dei siti inquinati.
L'art. 240, infatti, contenente le definizioni salienti per l'applicazione di questo Titolo, stabilisce in materia
di misure di prevenzione e di misure di riparazione alcune definizioni che echeggiano chiaramente quelle
contenute negli artt. 304 e 305 della Parte Sesta.
L'art. 304 in particolare viene espressamente richiamato dall'art. 242, primo comma, che specifica che al
"verificarsi di un evento potenzialmente in grado di contaminare il sito, il responsabile dell'inquinamento
mette in opera 24 ore le misure necessarie di prevenzione e ne dà immediata comunicazione ai sensi e
con le modalità dell'art. 304, comma 2".
Maggiori e più rilevanti problemi si profilano invece in ordine ai criteri di imputazione della responsabilità.
Come si è avuto modo di ricordare (202), la previgente disciplina in materia di bonifica posta dall'art. 17
del D.Lgs. 22/1997 stabiliva che era tenuto a procedere al ripristino a proprie spese chiunque avesse
cagionato anche in maniera accidentale il superamento dei limiti di accettabilità della contaminazione del
suoli e delle acque in relazione alla specifica destinazione d'uso dei siti.
Nella disciplina della Parte Quarta del D.Lgs. 152/2006, si richiama ora la figura del responsabile
dell'inquinamento, ma non si precisa quale sia il criterio di imputazione della responsabilità.
Emerge pertanto il dubbio se la formula esprima il medesimo criterio della disciplina abrogata,
intendendo per "responsabile dell'inquinamento" colui che ha cagionato la contaminazione, ovvero se si
debba fare riferimento ai criteri di imputazione di carattere generale imperniati sull'elemento soggettivo
in applicazione del principio "chi inquina paga", specificatamente richiamato dall'art. 239, ossia dalla
norma di apertura del Titolo V della Parte Quarta, dedicato alla bonifica dei siti contaminati.
Come è già stato evidenziato, le prime pronunce giurisprudenziali hanno interpretato il portato della
riforma del 2006, nel senso di ricondurre la responsabilità per i danni all'ambiente nell'alveo della
responsabilità per colpa (203).
Con riferimento alla disciplina in materia di bonifiche, in particolare, la stessa giurisprudenza ha
argomentato che "se, nel vigore del D.Lgs. 22/1997, poteva dubitarsi sulla natura della responsabilità
(soggettiva o, al contrario, oggettiva) di colui che determina un inquinamento (chiamato a provvedere al
ripristino, come visto, anche se il superamento dei valori standard è cagionato accidentalmente, con
conseguente possibile configurazione di un obbligo di intervento che prescinde dallo stato soggettivo
dell'agente, essendo rilevante anche la mera causalità della produzione dell'evento lesivo), ciò è invece
sicuramente da escludersi nella disciplina attuale.
Infatti, il D.Lgs. n. 152 del 2006 all'art. 311, comma 2, disciplina la responsabilità per danni all'ambiente,
prevedendo che "chiunque realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o comportamenti doverosi,
con violazione di legge, di regolamento, o di provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia,
imprudenza o violazione di norme tecniche, arrechi danno all'ambiente, alterandolo, deteriorandolo o
distruggendolo in tutto o in parte, è obbligato al ripristino della precedente situazione e, in mancanza, al
risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato" (204).
Nella giurisprudenza appena riportata, la disposizione di cui all'art. 311 deve considerarsi norma quadro
in punto alla situazione giuridica soggettiva di responsabilità e serve quindi ad orientare l'interprete nella
ricostruzione dell'istituto più generale del ripristino dei siti inquinati. Quando dunque nelle norme della
Parte Quarta si fa riferimento al "responsabile dell'inquinamento", non si potrà che, logicamente,
considerare tale colui il quale è "responsabile" ai sensi del citato art. 311, a meno di non voler sostenere
l'illogica prospettazione della esistenza di due tipologie di responsabilità, ossia quella soggettiva ex art.
311 cit. ed una sorta di "responsabilità oggettiva parallela" ex art. 242 e ss. aventi tuttavia identico
contenuto quanto all'obbligo di ripristino.
Va inoltre ricordata la specifica disciplina ora predisposta dalla Parte Quarta per il proprietario incolpevole
del sito contaminato.
In particolare l'art. 245 del D.Lgs. 152/2006 stabilisce attualmente che il proprietario (o il gestore del sito
inquinato), incolpevole dell'inquinamento, sia tenuto, in presenza di un pericolo concreto ed attuale di
superamento delle concentrazioni soglia di contaminazione a darne comunicazione alla Regione, alla
Provincia, al Comune ed al Prefetto, nonché ad adottare le misure di prevenzione previste dall'art. 304,
comma 2 (205).
Il proprietario (ed il gestore) incolpevole dell'inquinamento del sito è quindi gravato di un obbligo ex lege
(ai sensi dell'art. 304, comma 2) di informativa e di adozione delle misure preventive(206).
In ordine a tale problematica, tuttavia, la soluzione che era stata accolta dalla precedente giurisprudenza
amministrativa in materia (207), oggi non sarebbe più proponibile.
Il comma 3 dell'art. 253 D.Lgs. 152/2006 stabilisce infatti che il privilegio e la ripetizione delle spese
possano essere esercitati nei confronti del proprietario incolpevole ("dell'inquinamento o del pericolo
dell'inquinamento") soltanto a seguito di un provvedimento motivato dell'Autorità competente che
giustifichi, tra l'altro, l'impossibilità di accertare "l'identità del soggetto responsabile, ovvero che
giustifichi l'impossibilità di esercitare ogni azione di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la
loro infruttuosità" (208).
Inoltre, il successivo comma 4 precisa che "in ogni caso" il medesimo proprietario potrà essere tenuto a
rimborsare, sulla base di provvedimento motivato le spese anticipate dall'Autorità competente per gli
interventi di bonifica e ripristino ambientale "soltanto nei limiti del valore di mercato del sito determinato
a seguito dell'esecuzione degli interventi medesimi".
In conclusione, ai sensi della nuova normativa l'Amministrazione competente non potrà più pretendere
dal proprietario se non l'aumento effettivo di valore del sito conseguente all'esecuzione delle opere di
bonifica e ripristino ambientale. Le quali ultime potrebbero essere di importo più elevato dell'aumento del
valore del fondo bonificato, ma per la parte eccedente quest'ultimo, non risultano più rimborsabili.
All'inverso, ove il proprietario, dopo aver spontaneamente provveduti alla bonifica e ripristino ambientale
del sito inquinato agisca in rivalsa contro il responsabile dell'inquinamento, potrà chiedere il rimborso
integrale delle spese sostenute e gli eventuali maggiori danni sofferti (comma 4, seconda parte, dell'art.
253).
9.6. Principi in materia di responsabilità solidale. - Il testo del D.Lgs. 152/2006, nella sua Parte Sesta,
non contiene nessuna disciplina particolare in materia di pluralità di responsabili.
D'altro lato l'art. 18, comma 7, della legge 349/1986 che dettava, come si è visto (209), una specifica
eccezione alla solidarietà passiva di cui all'art. 2055 c.c., deve ritenersi abrogato.
Ciò crea un problema interpretativo derivante da lacuna.
Occorre tuttavia guardarsi dal concludere frettolosamente che in mancanza di indicazioni legislative
diviene applicabile il principio generale sancito all'art. 2055 c.c.
In effetti occorre verificare se tale principio è coerente con il sistema della responsabilità ambientale così
come disegnato dalla direttiva europea.
Al riguardo si deve osservare come la risposta non possa che essere tendenzialmente negativa, alla luce
delle già menzionate perplessità espresse in sede europea a questo riguardo (210), volte a mettere in
luce come l'effetto deep pocket enfatizzato dalla regola della solidarietà avrebbe sostanzialmente
contrastato con le finalità deterrenti e preventive della responsabilità civile in campo ambientale.
Si ribadirà a questo proposito che il principio chi inquina paga è infatti logicamente incompatibile con la
solidarietà risarcitoria nel caso di agenti successivi; altrettanto deve dirsi in riferimento alla azione
congiunta di più soggetti che agiscano in contemporanea, ma non in accordo tra loro.
Al riguardo il rigore con cui la direttiva impone di ricercare nessi di causalità individuali è sufficiente a
smentire che sia possibile por mano alla norma di cui all'art. 2055 c.c., così come viene interpretata dalla
maggioranza della giurisprudenza, mentre potrebbero aprirsi le porte ad una valutazione assai più
articolata, quale quella proposta da una parte della dottrina sulla scia delle esperienze giuridiche più
avanzate.
9.7. Il problema del nesso causale. - Circa il nesso di causalità, il D.Lgs. 152/2006 ribadisce i principi
informatori della legislazione comunitaria ancorando il regime della responsabilità ambientale ivi prevista
alla prova del nesso causale da parte dell'attore.
In particolare, l'art. 303, lettera h), del D.Lgs. 152/2006 riprende alla lettera quanto disposto dalla
direttiva all'art. 4, stabilendo che la Parte Sesta del testo di legge "non si applica al danno ambientale o
alla minaccia imminente di tale danno causati da inquinamento di carattere diffuso, se non sia stato
possibile accertare in alcun modo un nesso causale tra il danno e l'attività di singoli operatori".
La giurisprudenza che ha fornito una prima interpretazione della normativa di cui al D.Lgs. 152/2006 ha
stabilito che, in tema di inquinamento "diffuso", ossia in quei casi in cui detto accertamento non sia
possibile, la bonifica resta a carico della P.A. ed i relativi vantaggi dei privati proprietari o detentori dei
fondi bonificati, in termini di aumento di valore del fondo, potranno costituire giusta causa di recupero
delle corrispondenti somme a carico dei titolari dei diritti reali sui fondi medesimi, nei limiti ordinari delle
azioni di arricchimento; in ogni caso è da ritenersi necessaria ed inderogabile la partecipazione dei privati
titolari di diritti reali sui fondi oggetto di bonifica (o comunque sui fondi nei quali sono localizzate o
localizzabili le fonti di inquinamento) al procedimento amministrativo per l'adozione dei provvedimenti di
bonifica e disinquinamento, sia al fine dell'accertamento della responsabilità, che a quello della
determinazione delle modalità e dei costi della bonifica (211).
Dovranno quindi ritenersi illegittime le determinazioni amministrative che pongono in tutto o in parte a
carico del proprietario o del detentore di un fondo i costi e gli oneri di bonifica dei suoli o dell'ambiente
dai danni derivanti dall'inquinamento se non ne viene accertata rigorosamente la responsabilità e quindi
al di fuori dello specifico apporto causale all'inquinamento riconducibile alla sua attività (212).
9.8. I criteri di risarcimento del danno ambientale. - Il D.Lgs. 152/2006 disciplina i criteri per il ripristino
e il risarcimento del danno ambientale agli articoli 305, 306 e 307, seguendo lo schema indicato dalla
direttiva agli articoli 6 e 7.
L'articolo 306, in particolare, stabilisce che le possibili misure per il ripristino debbano essere conformi a
quelle predisposte da uno specifico Allegato tecnico (Allegato 3 alla Parte Sesta), che introduce notevoli
novità rispetto alla disciplina pregressa, eliminando il giudizio di equità precedentemente previsto
dall'articolo 18 della L. 349/1986 ed i relativi criteri di quantificazione.
Tuttavia, le misure contenute nell'Allegato 3 non fanno altro che riportare gli stessi criteri di cui alla
direttiva, senza preoccuparsi di sviluppare appositi criteri per la quantificazione del danno all'ambiente,
che potrebbero essere impiegati per dare concreta applicazione sia agli articoli 305, 306 e 307, così come
al comma 2 dell'art. 311.
Questo dato legislativo dovrà essere letto nella prospettiva delle policies ambientali comunitarie che
riconoscono:
1. che il regime di responsabilità deve intendersi come compensativo dei danni ambientale, e non
punitivo nei confronti delle imprese;
2. un favor a quelle misure che siano effettivamente in grado di restituire l'ambiente alla collettività che
ne fruisce, anche se ciò significa prevedere dei miglioramenti ambientali in altro sito, rispetto a quello
danneggiato;
3. che il risarcimento per equivalente debba intendersi solo come modalità eventuale e debba comunque
essere vincolato a interventi di miglioramento della qualità ambientale, e non come sanzione.
10. L'apertura di una procedura di infrazione da parte della Commissione europea nei confronti
dell'Italia.
In data 31 gennaio 2008 la Commissione europea ha avviato una procedura d'infrazione nei confronti
dello Stato Italiano per la non corretta trasposizione della direttiva 2004/35/CE sulla responsabilità
ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale (213).
La Commissione ha infatti ritenuto che il decreto legislativo n. 152 del 3 aprile 2006, nella sua Parte IV
(recante "Norme in materia di tutela risarcitoria contro i danni all'ambiente"), Titolo V ("Bonifica dei siti
contaminati"), e della Parte VI (recante "Norme in materia di gestione dei rifiuti e di bonifica dei siti
inquinati"), non abbia correttamente recepito la direttiva 2004/35.
In particolare i profili che la Commissione ha individuato per sostenere la non conformità della norma
italiana di trasposizione della direttiva, sono i seguenti:
a) Violazione degli artt. 3 e 6 della direttiva, i quali stabiliscono un regime di responsabilità oggettiva per
il danno ambientale causato dalle attività professionali elencate nell'Allegato III della direttiva (art. 3) e,
nel caso in cui il danno si sia verificato, prevedono una serie di obblighi per gli operatori e per le Autorità
competenti, compreso l'obbligo di adottare misure di riparazione (art. 6). Al contrario, a parere della
Commissione il D.Lgs. 152/2006 àncora la responsabilità per danno ambientale ai requisiti del dolo e
della colpa (utilizzati dalla direttiva, solo per il danno alle specie ed habitat naturali protetti, causato da
attività professionali non inserite nell'allegato III della direttiva), restringendo indebitamente il campo di
applicazione della direttiva.
b) Violazione dell'art. 4 della direttiva, poiché l'art. 303 del D.Lgs. 152/2006, nell'elencare le esclusioni
dall'ambito di applicazione della Parte sesta del decreto, stabilisce che essa non si applica "alle situazioni
di inquinamento per le quali siano effettivamente avviate le procedure relative alla bonifica, o sia stata
avviata o sia intervenuta bonifica dei siti nel rispetto delle norme vigenti in materia, salvo che ad esito di
tale bonifica non permanga un danno ambientale". Tale eccezione non risulta dall'art. 4 della direttiva.
c) Violazione degli artt. 1 e 7 e dell'Allegato II della direttiva. L'art. 7 della direttiva stabilisce che in caso
di danno ambientale gli operatori individuano le possibili misure di riparazione e le Autorità competenti
decidono quali misure siano da attuare conformemente all'Allegato II della direttiva. Questo stabilisce una
gerarchia di misure, che vede al primo posto la riparazione primaria e solo laddove essa non sia possibile,
prevede la necessità di individuare misure di riparazione complementare e compensativa, per individuare
le quali è previsto il ricorso a metodi di equivalenza risorse-risorse o servizio-servizio e metodi alternativi
di valutazione. Benché la direttiva preveda in alcuni casi l'utilizzo di tecniche di valutazione monetaria,
queste sono da utilizzarsi allo scopo di determinare la portata delle misure di riparazione complementare
e compensativa, e non allo scopo di sostituire tali misure (o le misure di riparazione primaria) con
risarcimenti pecuniari. Contrariamente a quanto sopra esposto, varie disposizioni del D.Lgs. 152/2006
consentono che le misure di riparazione possano essere sostituite da risarcimenti per equivalente
pecuniario (artt. 311, 312, 313 del decreto). In particolare, l'art. 311 (2) consente che le misure di
riparazione possano essere sostituite da risarcimento per equivalente patrimoniale anche laddove la sola
riparazione primaria non sia possibile. La Commissione rinviene, pertanto, nella normativa italiana una
lacuna relativa all'obbligo di individuare adeguate misure di riparazione complementare e compensativa
(art. 7 della direttiva), laddove il ripristino della precedente situazione (riparazione primaria) non sia
possibile.
11. Le modifiche apportate dal D.L. 25 settembre 2009, n. 135, "Disposizioni urgenti per
l'attuazione di obblighi comunitari e per l'esecuzione di sentenze della Corte di Giustizia delle
Comunità Europee" e le questioni ancora "aperte".
Per far fronte alle censure provenienti dalla sede comunitaria è stato infine varato l'art. 5-bis del D.L. 25
settembre 2009, n. 135, "Disposizioni urgenti per l'attuazione di obblighi comunitari e per l'esecuzione di
sentenze della Corte di Giustizia delle Comunità Europee" (214).
La norma, rubricata come "Attuazione della direttiva 2004/35/CE - Procedura di infrazione n. 2007/4679,
ex articolo 226 Trattato CE", dispone ora:
"1. Ai fini di un ulteriore adeguamento a quanto previsto dal punto 1.2.3 dell'Allegato II alla direttiva
2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, al decreto legislativo 3 aprile
2006, n. 152, sono apportate le seguenti modifiche:
a) all'articolo 311, al comma 2, le parole da: "al ripristino" fino alla fine del comma sono sostituite dalle
seguenti: "all'effettivo ripristino a sue spese della precedente situazione e, in mancanza, all'adozione di
misure di riparazione complementare e compensativa di cui alla direttiva 2004/35/CE del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, secondo le modalità prescritte dall'Allegato II alla medesima
direttiva, da effettuare entro il termine congruo di cui all'articolo 314, comma 2, del presente decreto.
Quando l'effettivo ripristino o l'adozione di misure di riparazione complementare o compensativa risultino
in tutto o in parte omessi, impossibili o eccessivamente onerosi ai sensi dell'articolo 2058 del codice civile
o comunque attuati in modo incompleto o difforme rispetto a quelli prescritti, il danneggiante è obbligato
in via sostitutiva al risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato, determinato
conformemente al comma 3 del presente articolo, per finanziare gli interventi di cui all'articolo 317,
comma 5";
b) all'articolo 311, comma 3, sono aggiunti, in fine, i seguenti periodi: "Con decreto del Ministro
dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, da emanare entro sessanta giorni dalla data di
entrata in vigore della presente disposizione, ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto
1988, n. 400, sono definiti, in conformità a quanto previsto dal punto 1.2.3 dell'Allegato II alla direttiva
2004/35/CE, i criteri di determinazione del risarcimento per equivalente e dell'eccessiva onerosità,
avendo riguardo anche al valore monetario stimato delle risorse naturali e dei servizi perduti e ai
parametri utilizzati in casi simili o materie analoghe per la liquidazione del risarcimento per equivalente
del danno ambientale in sentenze passate in giudicato pronunciate in ambito nazionale e comunitario. Nei
casi di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità
personale. Il relativo debito si trasmette, secondo le leggi vigenti, agli eredi nei limiti del loro effettivo
arricchimento. Il presente comma si applica anche nei giudizi di cui ai commi 1 e 2.";
c) all'articolo 303, al comma 1, lettera f), sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: "i criteri di
determinazione dell'obbligazione risarcitoria stabiliti dall'articolo 311, commi 2 e 3, si applicano anche alle
domande di risarcimento proposte o da proporre ai sensi dell'articolo 18 della legge 18 luglio 1986, n.
349, in luogo delle previsioni dei commi 6, 7 e 8 del citato articolo 18, o ai sensi del titolo IX del libro IV
del codice civile o ai sensi di altre disposizioni non aventi natura speciale, con esclusione delle pronunce
passate in giudicato; ai predetti giudizi trova, inoltre, applicazione la previsione dell'articolo 315 del
presente decreto;";
d) all'articolo 317, al comma 5, alinea, le parole da: "sono versate" fino a: "della spesa" sono sostituite
dalle seguenti: "affluiscono al fondo di cui all'articolo 7-quinquies, comma 1, del decreto-legge 10
febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2009, n. 33, per essere destinate
alle seguenti finalità";
e) all'articolo 317, il comma 6 è abrogato.
2. All'articolo 2 del decreto-legge 30 dicembre 2008, n. 208, convertito, con modificazioni, dalla legge 27
febbraio 2009, n. 13, il comma 7 è sostituito dal seguente: "7. I soli proventi di spettanza dello Stato,
derivanti dalle transazioni di cui al presente articolo, introitati a titolo di risarcimento del danno
ambientale, affluiscono al fondo di cui all'articolo 7-quinquies, comma 1, del decreto-legge 10 febbraio
2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2009, n. 33"".
Da una prima lettura si evince subito che, nonostante lo sforzo di adeguare al normativa italiana alle
indicazioni comunitarie, rimane ancora aperta la questione, di centrale importanza concernente il criterio
di imputazione dell'illecito ambientale, che secondo la normativa italiana rimane ancorato al criterio della
responsabilità per colpa, mentre, come ben evidenziato anche nella procedura di infrazione, la normativa
comunitaria vorrebbe ancorata al criterio di responsabilità oggettiva.
NOTE
(*) Nel prossimo fascicolo verrà pubblicato uno studio di Barbara Pozzo sul recepimento della direttiva in
alcuni paesi europei.
(1) Legge 8 luglio 1986, n. 349, "Istituzione del Ministero dell`ambiente e norme in materia di danno
ambientale", in G.U. n. 162 del 15 luglio 1986.
(2) Decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, "Norme in materia ambientale", in G.U. n. 88 del 14 aprile
2006.
(3) Pubblicata in G.U.CE. del 30 aprile 2004, L 143/56.
(4) Il problema si è posto in tutti gli ordinamenti appartenenti alla Western Legal Tradition, che si sono
dovuti confrontare con il problema degli usi alternativi e - spesso - confliggenti della risorsa ambientale.
Cfr. ALPA, BESSONE, GAMBARO, Aspetti privatistici della tutela dell'ambiente: l'esperienza americana e
francese, in AA.VV., La tutela degli interessi diffusi nel diritto comparato, a cura di GAMBARO, Milano, 1976,
p. 295 ss.; SERIO, Le immissioni nel fondo del vicino nell'esperienza giuridica inglese, in Rass. dir. civ.,
1983, p. 88; DIGIOVANNI, Strumenti privatistici e tutela dell'ambiente, Padova, 1982; PATTI, La tutela civile
dell'ambiente, Padova, 1979, p. 55 ss. Per la discussione all'interno dei sistemi di common law si vedano:
STRAND, The Inapplicability of traditional Tort Analysis to Environmental Risk: The Example of toxic Waste
Pollution Victim Compensation, in 35 Stanford Law Review, p. 575 ss (1983); RABIN, Environmental
Liability and the Tort System, in 24 Houston Law Review, p. 27 ss. (1987); FURROW, Governing Science:
Public Risks and Private Remedies, in 131 University of Pennsylvania Law Review, p. 1403 ss. (1983);
NEUSTADTER, The Role of the Judiciary in the Confrontation with the problems of environmental quality, in
17 UCLA 1070 (1970); DEWEES, TREBILCOCK, The Efficacy of the Tort System and its alternatives: a review
of empirical evidence, in 30 Osgood Hall Law Journal 1 (1992). Per l'ordinamento tedesco si vedano:
RONELLENFITSCH/WOLF, Ausbau des Individualschutzes gegen Umweltbelastungen als Aufgabe des
bürgerlichen und des öffentlichen Rechts?, in NJW 1986, p. 1955; ADAMS, Zur Aufgabe des
Haftungsrechts im Umweltschultz, in ZZP, 1986, vol. 99, p. 129; BRANDNER, Umweltschutz und
Privatrecht- Bericht über das fünfte Trierer Kolloquium zum Umwelt und Technikrecht, in DVBl., 1989, p.
1244; BAUMANN, Die Haftung für Umweltschäden aus zivilrechtlicher Sicht, in JuS, 1989, p. 433; JAUERNIG,
Zivilrechtlicher Schutz des Grundeigentums in der neueren Rechtsentwicklung, in JZ, 1986, p. 605; BAUR,
Zur Entstehung des Umweltschutzes aus dem Sachenrecht des BGB, in Jz, 1987, p. 317; WAGNER,
Umweltschutz mit zivilrechtlichen Mitteln, in NuR 1992, p. 201; MEDICUS, Zivilrecht und Umweltschutz, in
JZ 1986, p. 778 ss.; Id., Umweltschutz als Aufgabe des Zivilrechts aus zivilrechtlicher Sicht, in, NuR,
1990, p. 145. GERLACH, Die Grundstrukturen des privaten Umweltrechts im Spannungsverhältnis zum
öffentlichen Rechts, in JZ, 1988, p. 161; DIEDERICHSEN, Umweltschutz durch Privatrecht, in,
Verhandlungen des 56. deutschen Juristentages, Berlino, 1986, vol. II, p. 148, Monaco 1986; KETTELER,
Instrumente des Umweltrechts, I parte, in JuS 1994, p. 826, e II parte in JuS 1994, p. 909, in particolare
p. 913 ss.; KNEBEL, Überlegungen zur Fortentwicklung des Umwelthaftungsrechts, in UTR, vol. 5, p. 261.
Per le soluzioni sviluppate in Francia cfr. LUNEL, BRAUN, FLANDIN-BLETY, TEXIER, Pour une histoire du droit de
l'environnement, in Revue Juridique de l'Environnement, 1986, p. 41 s.; MARTIN, Droit civil de
l'environnement, in RJE, 1983, p. 330 ss.; CABALLERO, Essai sur la notion juridique de nuisance, Parigi,
1981, p. 195; GIROD, La réparation du dommage ècologique, Parigi, 1974, p. 89.
(5) Per quanto concerne l'evoluzione della giurisprudenza si cfr. FORTE, Per una lettura alternativa dell'art.
844 del Codice civile, in Dir. e giur. 1976, p. 641; KLEINDIENST, Der privatrechtliche Immissionenschutz
nach §906 BGB, Tübingen, 1964; CAPOULADE, Les troubles de voisinage, in La protection du voisinage et
de l'environnement, Travaux de l'Association Henri Capitant, Tome XXVII, 1976, p. 93 ss.
(6) Sul concetto di "Vorverständnis" si veda ESSER, Vorverständnis und Methodenwahl in der
Rechtsfindung, Rationalitätsgrundlagen richterlicher Entscheidungspraxis, Kronberg, 1975; trad it. a cura
di PATTI e ZACCARIA, Precomprensione e scelta del metodo nel processo di individuazione del diritto:
fondamenti di razionalità nella prassi decisionale del giudice, Napoli, 1983. Cfr. inoltre MONATERI,
Interpretazione del diritto, in Digesto Diritto civile, Torino, 1993, vol. X, p. 31 s.
(7) Il che, ovviamente, non implica affatto che saranno prese in considerazione unicamente le fonti di
diritto civile in senso stretto.
(8) Il principio, introdotto dall'Atto Unico Europeo del 1987, esisteva a livello comunitario già dagli anni
'70. In particolare nel 1975 il Consiglio aveva adottato la Raccomandazione 75/436 (G.U.CE. 1975 L
194/1), nella quale venivano discusse le fondamenta di questo principio.
(9) Si vedano ROMI, Droit international et européen de l'environnement, Paris, 2005, p. 67; VANLANG,
Droit de l'environnement, Paris, 2002, p. 72; DESADELEER, Environmental Principles, From Political Slogans
to Legal Rules, Oxford, 2002, p. 21 ss.; KRÄMER, Polluter-Pays Priciple in Community Law: The
Interpretation of Article 130r of the EEC Treaty, in Focus on European Law, London, 1997, p. 244. MELI,
Le origini del principio "chi inquina paga" e il suo accoglimento da parte della CEE, in questa Rivista,
1989, p. 217.
(10) In questo senso DESADELEER, in Environmental Principles, From Political Slogans to Legal Rules, cit.,
p. 50.
(11) In particolare KRÄMER, esponente di spicco della DG-Ambiente della Commisione Europea, ha
sostenuto che non sia possibile dedurre dal principio "chi inquina paga" la preferibilità di un criterio di
responsabilità oggettiva per i danni causati all'ambiente, ma che i legislatori debbano essere considerati
liberi di prediligere un principio di responsabilità per colpa. In questo senso Polluter-Pays Prnciple in
Community Law: The Interpretation of Article 130r of the EEC Treaty, in Focus on European Law, cit. p.
257. Sul punto si veda anche DESADELEER, in Environmental Principles, From Political Slogans to Legal
Rules, cit., p. 51.
(12) DESADELEER, in Environmental Principles, From Political Slogans to Legal Rules, cit., p. 24, nota infatti
a questo proposito: "However, the victim may not obtain compensation, or may not obtain in full, if the
liability of the operator cannot be established of has been limited".
(13) Si veda KRÄMER, Manuale di diritto comunitario per l'ambiente, Milano, 2000, p. 65: "L'"ambiente",
intestazione del Titolo XVI e termine usato negli articoli 174, 175, 176 (...), non è definito".
(14) Sulla frammentazione della nozione di ambiente in generale cfr. DECESARIS, NESPOR, Introduzione al
diritto dell'ambiente, Milano, 2003, p. 31. Per la discussione in seno al contesto comunitario cfr. quanto
ribadito dal Libro Bianco sulla responsabilità per danni all'ambiente, 9 febbraio 2000, in COM (2000) 66
def., p. 16.
(15) MELI, Le origini del principio "chi inquina paga" e il suo accoglimento da parte della CEE, in questa
Rivista, 1989, p. 217.
(16) Art. 2, ultimo comma TUE: "Gli obiettivi dell'Unione saranno perseguiti conformemente alle
disposizioni del presente trattato, alle condizioni e secondo il ritmo ivi fissati, nel rispetto del principio di
sussidiarietà definito all'articolo 5 del trattato che istituisce la Comunità europea".
(17) Art. 5, secondo comma, TUE: "Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità
interviene, secondo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell'azione
prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo
delle dimensioni o degli effetti dell'azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario".
(18) Sul contenuto del principio di sussidiarietà in materia ambientale si veda EGELUNDOLSEN, The
Subsidiarity Principle and its Impact on Regulation, in Regulation in the EU, a cura di EGELUNDOLSEN,
Sørensen, Copenhagen, 2006, p. 35 ss.
(19) Come sottolinea DESADELEER, in Environmental Principles, From Political Slogans to Legal Rules, cit.,
p. 51, spetta al legislatore nazionale decidere quale sia il regime di responsabilità più appropriato in
campo ambientale: "... it is up to the legislator to decide if operators must compensate all harmful
consequences of their activities even if no fault attaches to them".
(20) In questo senso DESADELEER, in Environmental Principles, From Political Slogans to Legal Rules, cit.,
p. 53.
(21) Ibidem, p. 54.
(22) Sul problema della definizione e dell'applicazione delle migliori tecnologie disponibili (Best Available
Technology) e delle migliori tecnologie disponibili a costi sostenibili (Best Available Technology Not
Entailing Excessive Costs), così come sugli incentivi economici ad adottarle si veda: New Instruments for
Environmental Policy in the EU, a cura di J. GOLUB, ROUTLEDGE, London-New York, 1998, p. 4 ss.
(23) In tema cfr. KEMP, OLSTHOORN, OOSTERHUIS, VERBRUGGEN, Policy Instruments to Stimulate Cleaner
Technologies, in Economic Incentives and Environmental Policies, a cura di OPSCHOOR, Kluwer Academic
Press, Dordrecht, Bostron, London, 1994, p. 20 ss.
(24) Sul concetto di esternalità cfr. MISHAN, Il concetto di esternalità, in Interpretazione Giuridica ed
Analisi Economica, Milano, 1982, p. 33 ss.; sul principio "chi inquina paga" come criterio-guida per
l'internalizzazione delle diseconomie esterne in campo ambientale si veda DESADELEER, Environmental
Principles, From Political Slogans sto Legal Rules, cit., p. 21 s.
(25) Sulle funzioni della responsabilità civile cfr. MONATERI, La responsabilità civile, Torino, 1998, p. 19 ss.
ALPA, Responsabilità civile e danno, Bologna, 1992, p. 53 s. Per una visione della problematica che tenga
conto della prospettiva comparatistica cfr. PONZANELLI, La responsabilità civile - Profili di diritto comparato,
Bologna, 1992. Per un'impostazione giuseconomica della problematica si vedano: CALABRESI, Il costo degli
incidenti. Analisi economico-giuridica, trad.it., Milano, 1975, e TRIMARCHI, Rischio e responsabilità
oggettiva, Milano, 1961. In particolare, sulla funzione deterrente della responsabilità civile cfr. SCHWARTZ,
Reality in the Economic Analysis of Tort Law: Does Tort Law Really Deter? in 42 UCLA L.R. 377 (1994).
(26) Che sia la funzione deterrente della responsabilità civile a prevalere in campo ambientale è
sottolineato anche dal Libro Verde sul risarcimento dei danni all'ambiente, presentato come
Comunicazione della Commissione del 14 maggio 1993 (COM (93) 47 definitivo) al Consiglio, al
Parlamento e al Consiglio Economico e Sociale in cui viene suggerito (punto 1.0. della Introduzione) che:
"Imponendo ai responsabili il risarcimento delle spese derivate dal danno da essi causato, la
responsabilità civile assolve alle importanti funzioni indirette di imporre standard di comportamento e di
prevenire pertanto che si provochino ulteriori danni in futuro. La responsabilità civile figura oggi quindi
all'ordine del giorno della politica di protezione ambientale della Comunità Europea".
(27) Sul problema della quantificazione del danno secondo il principio chi "inquina-paga" si sofferma
DESADELEER, Environmental Principles, From Political Slogans to Legal Rules, cit. p. 42 ss.
(28) Si veda il già citato manuale DESADELEER, Environmental Principles, From Political Slogans to Legal
Rules, cit. p. 42 ss., che esclude che vi possa essere una funzione punitiva del principio nei confronti
dell'inquinatore, ma piuttosto quella di efficiente gestione delle risorse ambientali ("efficient management
of natural resources").
(29) Legge 8 luglio 1986, n. 349, "Istituzione del Ministero dell'ambiente e norme in materia di danno
ambientale", in G.U. n. 162 del 15 luglio 1986.
(30) Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152, "Norme in materia ambientale", in G.U. n. 88 del 14 aprile
2006.
(31) Pubblicata in G.U.CE. 30 aprile 2004, L 143/56.
(32) Il testo era il seguente: "qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di
provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l'ambiente, ad esso arrecando danno,
alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l'autore del fatto al risarcimento
nei confronti dello Stato".
(2. omissis)
"3. L'azione di risarcimento del danno ambientale, anche se esercitata in sede penale, è promossa dallo
Stato, nonché dagli enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo.
4. Le associazioni di cui al precedente art. 13 e i cittadini, al fine di sollecitare l'esercizio dell'azione da
parte dei soggetti legittimati, possono denunciare i fatti lesivi di beni ambientali dei quali siano a
conoscenza.
5. Le associazioni individuate in base all'art. 13 della presente legge possono intervenire nei giudizi per
danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l'annullamento di atti illegittimi".
(33) Per una ricostruzione delle varie posizioni cfr. FRANCARIO, Il risarcimento del danno all'ambiente dopo
la L. 349/1986, in Riv. crit. dir. priv., 1987, p. 479; CENDON, ZIVIZ, L'art. 18 della legge n. 349/86 nel
sistema di responsabilità civile, in Riv. crit. dir. priv., 1987, anno V, p. 521; BIGLIAZZIGERI, Quale futuro
per l'art. 18 legge 8 luglio 1986, n. 349?, in Riv. crit. dir. priv., 1987, p. 685; MAZZAMUTO, Osservazioni
sulla tutela reintegratoria di cui all'art. 18, L. 349/86, in Riv. crit. dir. priv., 1987, p. 699; COCCO, Tutela
dell'ambiente e danno ambientale. Riflessioni sull'art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349, in questa
Rivista, 1986, p. 485; ALBAMONTE, Danno ambientale nella L. 349/86, in Cons. Stato, 1988, III, p. 1927;
GIAMPIETRO, La valutazione del danno all'ambiente: i primi passi dell'art. 18 L. 349 del 1986, in Foro
amm., 1989, III, p. 2958; COMPORTI, La responsabilità per danno ambientale, in Foro it., 1987, III, 266;
DECUPIS, La riparazione del danno all'ambiente: risarcimento o pena, in Riv. dir. civ., 1988, II, p. 401;
COSTANZO, VERARDI, La responsabilità per danno ambientale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1988, p. 691;
BORGONOVORE, Contributo allo studio del danno ambientale, in questa Rivista, 1992, p. 257; D'ORTA,
Ambiente e danno ambientale: dalla giurisprudenza della Corte dei Conti alla legge sul Ministero
dell'ambiente, in Riv. trim. dir. pubbl., 1987, anno XXXVII, p. 60; CAVALLO, Profili amministrativi della
tutela dell'ambiente: il bene ambientale tra tutela del paesaggio e gestione del territorio, in Riv. trim. dir.
pubbl., 1990, p. 397.
(34) CASTRONOVO, Il danno all'ambiente nel sistema di responsabilità civile, in Riv. crit. dir. priv., 1987,
512.
(35) MOSCARINI, Responsabilità aquiliana e tutela ambientale, in Riv. dir. civ., I, 1990, 505.
(36) Sul tema cfr. PATTI, La valutazione del danno ambientale, in Riv. dir. civ., II, 1992, 449.
(37) Per questa distinzione capitale cfr. SHAVELL, Economic Analysis of Accident Law, Harvard, 1987.
(38) In particolare si vuole qui differenziare tra le fattispecie ove l'ambiente è oggetto di tutela diretta ed
immediata da parte di norme giuridiche e quelle ove le norme, proteggendo in via diretta ed immediata
altri beni giuridici, tutelino indirettamente anche l'ambiente, anche se solo in via mediata. Se si prende in
considerazione solo la prima serie di norme allora il danno all'ambiente dovrà essere considerato per
definizione uno unilateral accident in senso proprio, ossia un danno ove solo il comportamento del
danneggiante può incidere sulla probabilità del suo verificarsi.
(39) Ove il danno sia - nella impostazione di Shavell - di tipo bilateral si dovrà infatti tenere anche
presente il comportamento del possibile danneggiato ed interverranno altre variabili, come la contributory
negligence da parte di quest'ultimo. Nel caso in cui si voglia far valere una tutela indiretta del bene
ambientale, ossia mediante una tutela diretta di altri beni giuridici, interverranno tutte quelle istanze che
gli autori di analisi economica hanno sviluppato soprattutto sul terreno della products liability. Sul tema
mi sia permesso di rinviare solo a: SHAVELL, cit., p. 9 ss.; CALABRESI, HIRSCHOFF, Towards a Test for Strict
Liability in Torts, in 81 Yale L.J., 1972, p. 1055 ss.; POSNER, Tort Law, Cases and Economic Analysis,
Boston-Toronto, 1982, p. 633; PRIEST, The Invention of Enterprise Liability: A Critical History of the
Intellectual Foundations of Modern Tort Law, in 14 J. Leg. Stud., 1985, 461 ss.; apparso in versione
italiana con il titolo La scoperta della responsabilità d'impresa: una storia critica delle origini intellettuali
del moderno sistema di responsabilità civile, in Resp. civ. prev., 1985, p. 275; cfr. inoltre, in generale,
PONZANELLI, La responsabilità civile, cit., p. 61 ss.
(40) Sulla Learned Hand Formula in Italia cfr. MATTEI, Comparative Law and economics, Ann Arbor, 1997,
p. 93, che rinvia alle fondamentali tesi elaborate da TRIMARCHI, in Rischio e responsabilità oggettiva,
Milano, 1961.
(41) Che, come anticipato, prevedeva: "Nei casi di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno
risponde nei limiti della propria responsabilità individuale".
(42) In particolare si veda il volume a cura di TRIMARCHI, Per una riforma della responsabilità civile per
danno all'ambiente, Milano, 1994.
(43) Cfr. TRIMARCHI, Per una riforma della responsabilità civile per danno ambientale, in AA.VV., Per una
riforma della responsabilità civile per danno all'ambiente, cit., p. 244. Tale autore afferma che "se il
danno è molto grave ed esteso, l'applicazione della regola della responsabilità solidale potrebbe portare di
fatto ad una ripartizione del risarcimento fra le imprese responsabili non coerente con gli scopi della
responsabilità civile per danno ambientale, la quale richiede una pressione economica proporzionale al
rischio creato, non insufficiente, ma neppure eccessiva e distruttiva per la singola impresa".
(44) In questo senso il Libro Verde sul risarcimento dei danni all'ambiente, presentato come
Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento e al Comitato Economico e Sociale della
UE nel 1993: COM (93) 47, Bruxelles, 14 maggio 1993, in G.U.CE. n. C/149 del 29 maggio 1993, p. 8,
sub 2.1.4.
(45) BIGLIAZZIGERI, Quale futuro dell'art. 18 legge 8 luglio 1986, n. 349?, in Riv. crit. dir. priv., 1987,
686; CASTRONOVO, Il danno all'ambiente nel sistema di responsabilità civile, in Riv. crit. dir. priv., 1987,
512; NATOLI, Osservazioni sull'art. 18 legge 349/86, in Riv. crit. dir. priv., 1987, 703.
(46) Su cui MONATERI, La responsabilità civile, cit., p. 52.
(47) Art. 1382 Code Napoléon: "Tout fait quelconque de l'homme qui cause à autrui un dommage oblige
celui par la faute duquel il est arrivé à le réparer".
(48) Il § 823 del BGB dispone che: "Wer vorsätzlich oder fahrlässig das Leben, den Körper, die
Gesundheit, die Freiheit, das Eigentum oder ein sonstiges Recht eines anderen widerrechtlich verletzt, ist
dem anderen zum Ersatze des daraus entstehenden Schadens verpflichtet" ("Chiunque con dolo o colpa
rechi danno alla vita, al corpo, alla salute, alla libertà, alla libertà o ad un altro diritto analogo in modo
contrario all'ordinamento è obbligato al risarcimento dei danni che ne derivano nei confronti del
danneggiato").
(49) L'art. 1151 del Codice civile del 1865 recitava, al pari del suo archetipo napoleonico: "Qualunque
fatto dell'uomo che arreca danno ad altri, obbliga quello per colpa del quale è avvenuto, a risarcire il
danno". Si veda ROTONDI, Dalla Lex Aquilia all'art. 1151 c.c., in Riv. dir. comm., 1917, I, p. 280.
(50) SACCO, Définitions savantes et droit appliqué dans les systèmes romanistes, in Revue Internationale
Droit Comparé, 1965, p. 827.
(51) Paradigmatica a questo proposito l'evoluzione della norma contenuta nel § 906 del BGB in tema di
immissioni, forgiata inizialmente a tutela delle posizioni dell'industria tedesca in via di sviluppo alla fine
del XIX secolo, e poi "corretta" per venire incontro ad esigenze di salvaguardia di altri interessi. Sul punto
mi sia permesso il rinvio a POZZO, Danno ambientale ed imputazione della responsabilità, Esperienze
giuridiche a confronto, Milano, 1996, p. 71 ss.
(52) In particolare il danno all'ambiente può presentarsi come il risultato di un inquinamento graduale,
ovvero per l'effetto dello stratificarsi di immissioni, che - prese in considerazione singolarmente - non
possono essere ritenute lesive dell'ambiente o di altro diritto individuale. Le modalità con cui il danno
all'ambiente può venire alla luce sono particolarmente insidiose, in quanto i suoi effetti possono venire
alla luce solo dopo un periodo di latenza molto lungo dal verificarsi dell'azione inquinante. Sul problema
dell'inquinamento graduale e degli effetti a lunga scadenza si veda POZZO, Il danno ambientale, Milano,
1998, p. 48 ss.
(53) Sui costi di una policy sbagliata, che reintroduca celatamente percorsi di applicazione retroattiva
della norma in materia di responsabilità ambientale cfr. MONTI, La responsabilità delle imprese in campo
ambientale, a cura di GAMBARO, Milano, 1997.
(54) POSTIGLIONE, Ambiente: suo significato giuridico unitario, in Riv. trim. dir. pubbl., 1985, p. 32, in
particolare p. 45.
(55) L'Umwelthaftungsgesetz (UmweltHG) tedesco del 10 dicembre 1990, entrato in vigore il 1° gennaio
1991.
(56) Per una visione d'insieme mi sia permesso il rinvio a POZZO, La responsabilità per danni all'ambiente
in Germania, in Riv. dir. civ., 1991, I, p. 599. Per il resto, i commenti da parte della letteratura tedesca
sono stati copiosi. Cfr. DIEDERICHSEN, Die Haftung für Umweltschäden in Deutschland, in PHI, 1992, p.
162. ID., BR-Deutschland: Industriegefährdung durch Umweltgefährdunegshaftung?, in PHI, 1990, p. 78.
SCHMIDT-LEITHOFF, Auswirkungen des neuen Umwelt-Haftungsrechts auf die Industrie, in VP 1991, p. 204;
SCHMIDT-SALZER, Kommentar zum Umwelthaftungsrecht, Heidelberg, 1992; LANDSBERG, LÜLLING, Das neue
Umwelthaftungsgesetz, in DB 1990, p. 2205; ID., Umwelthaftungsrecht, Köln-Stuttgart, 1991;
DIEDERICHSEN, WAGNER, Das UmweltHG zwischen gesetzgeberischer Intention und interpretatorischer
Phantasie, in VR 1993, p. 641 ss.; HAGER, Das neue Umwelthaftungsgesetz, in NJW 1991, p. 136.
(57) Il § 1 dell'Umwelthaftungsgesetz dispone che vengano risarciti tutti quei danni causati alla salute,
all'integrità fisica sia delle persone che delle cose che siano la conseguenza di una immissione nociva
nell'ambiente
(58) Le risorse naturali si presentano il più delle volte come entità non appropriabili, come public goods,
per cui il mercato non è in grado di esprimere un valore di scambio ed è destinato a non operare
correttamente come meccanismo di allocazione ottimale di tali risorse. Quello che preme sottolineare è
che nei confronti delle risorse naturali, in assenza di una specifica attribuzione di property rights, il
sistema dei prezzi non è stato generalmente in grado di inviare gli impulsi corretti al sistema produttivo,
al fine di costituire una guida per quest'ultimo nel raggiungimento di un consumo efficiente di tali risorse.
Sulla problematica dei public goods mi sia concesso il rinvio a POZZO, Danno ambientale e imputazione
della responsabilità, cit., p. 117 ss.
(59) Cfr. BOGNETTI, Aspetti economici di gestione delle risorse naturali, in BOGNETTI e GERELLI (a cura di),
Beni pubblici. Problemi teorici e di gestione, Milano, 1974; COOTER-ULEN, Law and Economics, USA, 1988,
p. 46.
(60) Il che non significa che il proprietario, o titolare, dei singoli beni lesi venga lasciato privo di tutela;
ma la tutela di cui è munito è quella, classica, fornita dai rimedi a tutela delle situazioni di appartenenza,
che non deve confondersi con la tutela ambientale, proprio perché la fattispecie del danno ambientale è,
necessariamente, una fattispecie a se stante non confondibile con quelle che da secoli integra la
fattispecie aquiliana.
(61) Il problema delle stime è particolarmente percepibile là ove manchi per una intera classe di beni un
parametro costituito dai prezzi di mercato, mediante il quale le tecniche estimatorie possono operare con
un accettabile grado di approssimazione. In particolare le difficoltà derivanti dall'assenza di mercati per i
beni ambientali rendono ardua la ricerca di criteri che possano essere utilizzati in sede giurisdizionale per
addivenire alla quantificazione del danno ambientale. le difficoltà derivanti dall'assenza di mercati per i
beni qui oggetto di tutela rendono ardua la ricerca di criteri che possano essere utilizzati in sede
giurisdizionale per addivenire alla quantificazione del danno ambientale. Sul problema della individuabilità
di criteri per la quantificazione del danno ambientale il rinvio è a POZZO, Danno ambientale e imputazione
della responsabilità, cit., p. 187 ss.
(62) Vicino a questo esito è il modello di tutela ambientale introdotto nell'esperienza americana con il
Comprensive Environmental Response Compensation and Liability Act (CERCLA) del 1980, su cui POZZO,
Danno ambientale e imputazione della responsabilità, cit., p. 150 ss.
(63) Cfr. GAMBARO (a cura di), Gli interessi diffusi in diritto comparato, Milano, 1976.
(64) Sulla legittimazione attiva all'azione di risarcimento per danno ambientale cfr. GIAMPIETRO, Danno
all'ambiente e legittimazione al giudizio dello Stato, degli enti territoriali e delle associazioni
protezionistiche (art. 18 della legge n. 349/1986), in questa Rivista, 1987, p. 541.
(65) MEDUGNO, Sulla legittimità ad agire delle associazioni di protezione dell'ambiente e di singoli cittadini
in sede di giurisdizione amministrativa, in questa Rivista, 1991, p. 98.; MONTECCHIARI, Danno ambientale
e legittimazione di associazioni ambientaliste a costituirsi parti civili nei processi penali, in GI, 1995, I, 2,
p. 857; TARUFFO, La legittimazione ad agire e le tecniche di tutela nella nuova disciplina del danno
ambientale, in RCDP, 1987, p. 429.
(66) Decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, "Attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/
CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio", in G.U. n. 38 del 15
febbraio 1997 (c.d. decreto Ronchi).
(67) Sulla nozione di accidentalità del danno, si veda CANDIAN, Responsabilità civile ed assicurazione,
Milano, 1993, p. 71 ss.
(68) In genere si prevede che nei luoghi sismici i manufatti debbano avere requisiti di sicurezza
aggiuntivi, ma una volta accertato che essi rispondono ai requisiti tecnici fissati con leggi e regolamenti
(ed in caso contrario la responsabilità deriva dalla loro violazione) non si vogliono aggravare le posizioni
individuali.
(69) D.M. 25 ottobre 1999, n. 471: "Regolamento recante criteri, procedure e modalità per la messa in
sicurezza, la bonifica e il ripristino ambientale dei siti inquinati, ai sensi dell'art. 17 del D.Lgs. 5 febbraio
1997, n. 22 e successive modificazioni e integrazioni", pubblicato in G.U. 15 dicembre 1999, n. 293.
(70) Il T.A.R. Lombardia, Milano, con sentenza n. 1442, del 7 dicembre 1995, in Trib. amm. reg., 1996, I,
p. 478 e in questa Rivista, 1996, p. 727, con nota di NESPOR, aveva deciso nel di ritenere "illegittima
l'ordinanza sindacale di smaltimento di rifiuti tossici adottata nei confronti del proprietario di un terreno
sul quale detti rifiuti sono stati depositati ma che col proprio comportamento non ha in alcun modo
contribuito a causare l'illecito". Nel medesimo senso T.A.R. Toscana, 1 luglio 1994, n. 414; T.A.R.
Lombardia, Brescia, 17 ottobre 1994, n. 580; T.A.R. Sicilia, Sez. Catania, 15 dicembre 1994, n. 2773, in
Rass. T.A.R., 1994, I, 4421.
(71) Per una efficace contrapposizione tra schema aquiliano e schema petitorio cfr. A. GAMBARO, La
legittimazione passiva alle azioni possessorie, Milano, 1979.
(72) Cass., Sez. III, 28 giugno 2005, n. 13892, in causa De Juliis c. Com. Buonalbergo.
(73) Si veda, ad esempio, la Raccomandazione del Consiglio del 3 marzo 1975 n. 75/436 (G.U.CE. 1975 L
194/1). In tema cfr. KLATTE, Environmental and Economic Integration in the EC, in OWENLOMAS (a cura di),
Frontiers of Environmental Law, London, 1991, p. 37 ss., in particolare p. 38 ss.
(74) Proposal for a Council Directive on toxic and dangerous wastes, English version, in OJ 1976, C
194/2, 19 agosto 1976, in cui si leggeva, al primo considerando "Whereas national provisions on toxic
and dangerous wastes disposal differ from one Member State to another, thus making unequal conditions
of competition and consequently directly affecting the function of the Common Market; whereas it is
therefore necessary to approximate laws in this field".
(75) Commissione delle Comunità Europee, COM (93) 47, Bruxelles, 14 maggio 1993, in G.U.CE. n. C/
149 del 29 maggio 1993.
(76) Che vengono espressamente prese in considerazione come pietra di paragone sia nel Libro verde del
1993, così come nel successivo Libro Bianco sulla responsabilità per danni all'ambiente del 2000 (COM
(2000) 66 final). In particolare si è tenuto conto degli errori incorsi negli Stati Uniti, ove l'iniziale intento
del Comprehensive Environmental Response Compensation and Liability Act (CERCLA) del dicembre del
1980 era stato quello di rimuovere completamente la contaminazione, anche quando questa non fosse
legata a casi d'inquinamento singoli e ben specifici, ma a contaminazioni strutturali.
(77) Il Quinto Programma è stato pubblicato inG.U.CE. C 138/5, 17 maggio 1993.
(78) I nuovi strumenti di politica ambientale e il concetto di "responsabilità condivisa" vengono esaminati
al punto 7 del Quinto Programma d'azione, G.U.CE. C 138/70, 17 maggio 1993.
(79) In questo senso deve essere letto il punto 20 dell'Introduzione al Quinto Programma, in cui si
ribadiva che "... nell'elaborazione degli strumenti atti a garantire un'attività sostenibile da parte del
settore industriale si terrà in particolare conto la situazione delle piccole e medie imprese e il problema
della competitività internazionale...".
(80) Si veda la Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento Europeo, al Comitato
Economico e Sociale e al Comitato delle Regioni sul Sesto Programma di azione per l'ambiente della
Comunità Europea "Ambiente 2010: il nostro futuro, la nostra scelta" - Sesto programma di azione per
l'ambiente, Bruxelles, 24 gennaio 2001, COM (2001) 31 definitivo; si veda inoltre la Decisione n.
1600/2002/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 luglio 2002 che istituisce il Sesto
Programma comunitario di azione in materia di ambiente, in G.U.CE. 10 settembre 2002 L 242/1.
(81) Vedi il 6° considerando della decisione 1600/2002 che istituisce il Sesto Programma d'azione in
campo ambientale.
(82) In particolare, quella di Bonn del 1994.
(83) Il Concerted Action on Risk Assessment for Contaminated Land (CARACAS) ha in particolare operato
dal 1996 sulle seguenti aree: metodologie di risk assessment; caratterizzazione dei siti e loro analisi.
(84) Il Contaminated land Rehabilitation Network for Enviromental Technologies in Europe (CLARINET) ha
operato a partire dal 1998 e sino al 2002; il suo scopo principale è stato quello di sviluppare e diffondere
raccomandazioni tecniche per consentire corrette decisioni in materia di bonifica e gestione dei siti
contaminati in particolare relazione a quanto stabilito dal Quinto Programma d'azione della Comunità
Europea in campo ambientale.
(85) Su cui FERGUSON, Assessing Risks from Contaminated Sites: Policy and Practice in 16 European
Countries, Land Contamination & Reclamation, 7 (2), 1999, EPP Publications.
(86) In particolare i risultati del Concerted Action on Risk Assessment for Contaminated Land (CARACAS)
sono stati pubblicati in due volumi: Risk Assessment for Contaminated Sites in Europe, Volume 1,
Scientific Basis, LQM Press, Nottingham, 1998; Risk Assessment for Contaminated Sites in Europe,
Volume 2, Policy Frameworks, a cura di FERGUSON e KASAMAS, LQM Press, Nottingham, 1999.
(87) Si pensi, ad esempio, che la European Enviroment Agency ha stimato che nella sola Europa sono
presenti circa 300.000 siti che sono stati identificati come contaminati o potenzialmente contaminati, ed è
stato inoltre stimato che le spese per eventuali oneri di bonifica potrebbero ammontare ad una cifra
compresa fra 55 e 106 bilioni di euro (Management of contaminated sites in Western Europe, EEA, giugno
2000). Il numero relativo ai siti contaminati pare destinato a crescere in eccesso, come indicato nello
studio redatto da CARACAS (ove il numero dei siti contaminati sarebbero 750.000). A ciò si deve
aggiungere come si stia progressivamente individuando con sempre maggior chiarezza, all'interno della
problematica dei siti contaminati, quella relativa ai cosiddetti megasiti (si tratta di situazioni di
compromissione ambientale ereditate dal passato che riguardano aree molte estese, sulle quali si sono
svolte attività attinenti, ad esempio, a basi militari, ovvero a miniere: ebbene il numero dei cosiddetti
megasiti presenti nella Comunità Europea sarebbe stimato fra i 10.000 e i 100.000). Cfr. Risk Assessment
for Contaminated Sites in Europe, Volume 1, Scientific Basis, LQM Press, Nottingham, 1998, p. 1 e ss.
(88) Si vedano a questo proposito i risultati raggiunti nell'ambito dal programma CARACAS e riportati in
Assessing risks from contaminated sites in Europe, a cura di FERGUSON, KASAMAS (Volume 2, Policy
Frameworks, LQM Press, Nottingham, 1999). In particolare lo studio afferma che, a differenza di quanto
accadeva venti o più anni fa, la percezione dell'ambiente e del territorio da parte della Comunità Europea
non viene più considerata associata ad eventi particolari o a determinati incidenti, ma, viene considerata
quale fenomeno strutturale.
(89) FERGUSON, Assessing Risks from Contaminated Sites: Policy and Practice in 16 European Countries,
cit.
(90) Cfr. Risk Assessment for Contaminated Sites in Europe, Volume 1, Scientific Basis, cit., p. 7: "Risk
assessment is considered a very useful tool in environmental policy because it promises a rational and
objective basis for priority setting and decision making".
(91) In questo ambito il modello paradigmatico è stato quello statunitense, fornito dal U.S. National
Research Council (NRC) in, Risk Assessment in the Federal Government: Managing the Process, National
Academy Press, Washington D.C., 1983. Sul punto cfr. Risk Assessment for Contaminated Sites in Europe,
Volume 1, Scientific Basis, cit., p. 8.
(92) Sul concetto di "fitness for use", o "suitable for use", ossia di idoneità del sito all'uso, cfr. Risk
Assessment for Contaminated Sites in Europe, Volume 1, Scientific Basis, cit., p. 14.
(93) Sul tema sono particolarmente rilevanti le conclusioni a cui perviene lo studio Risk Assessment for
Contaminated Sites in Europe, Volume 1, Scientific Basis, cit., p. 7, laddove si afferma che "Risk
assessment is considered a very useful tool in environemntal policy because it promises a rational and
objective basis for priority setting and decision making. The application of risk assessment to
cpntaminated land problems is widely advocated by many regulators, industries and land developers...".
(94) In questo senso Risk Assessment for Contaminated Sites in Europe, Volume 1, Scientific Basis, cit.,
p. 16: "Where groundwaters are historically polluted, site specific approaches based on groundwater use
are always preferred".
(95) Così viene ricordato che nei Paesi Bassi, ossia il paese con la più ampia esperienza sulle tecniche di
bonifica, ci si orientasse alla fine degli anni '90 decisamente verso una metodologia sito-specifica: "The
Netherlands, in common with many other participating countries, is currently changing its policy towards
a more landuse-based approach for the remediation of contaminated soils". Così in Risk Assessment for
Contaminated Sites in Europe, Volume 1, Scientific Basis, cit., p. 13.
(96) Cfr. Risk Assessment for Contaminated Sites in Europe, Volume 1, Scientific Basis, cit., p. 14, ove si
puntualizza che "It is important to emphasize, therefore, that the terms suitable for use and landusebased do not imply an approach narrowly focused on the human activities taking place at a site. The key
point is that risks are considered in the context of the specific circumstances of the land in question, and
include prevention of water pollution and protection of the wider environment".
(97) In particolare, lo studio mette in evidenza come prima di decidere di investire importanti somme di
denaro per azioni di bonifica, sarebbe bene investire in più dettagliate analisi di rischio sito specifiche.
Secondo tale approccio, le decisioni sono prese mediante una comparazione delle concentrazioni di
contaminanti nel suolo e nelle acque di falda misurate nel sito con criteri che si relazionano all'attuale uso
ed a quello che s'intende fare del sito. Se questi criteri sono superati la bonifica è necessaria, essendo
l'obiettivo della bonifica assicurare che i criteri che determinano la qualità del suolo e dell'acqua per l'uso
attuale o per quello che s'intende fare non siano più superati. In questo senso Risk Assessment for
Contaminated Sites in Europe, Volume 1, Scientific Basis, cit., p. 15.
(98) Per il dibattito inerente alla rivalutazione della responsabilità civile nella tutela dell'ambiente, rispetto
al contributo offerto dal diritto pubblico, cfr. MATTEI, I modelli di tutela dell'ambiente, in Riv. dir. civ.,
1985, II, p. 390; ROSE, Rethinking Environmental Controls: Management Strategies for Common
Resources, 1991, in Duke L.J., 1; SALVIA, Gli strumenti giuridici della tutela ambientale, in questa Rivista,
1993, p. 209; KETTELER, Instrumente des Umweltrechts, JuS, 1994, p. 826; PANTHER, Zivilrecht und
Umweltschutz, in ökonomische Probleme des Zivilrechts, Berlin-Heidelberg, 1991, p. 267 ss.; GERLACH,
Die Grundstrukturen des privaten Umweltrechts im Spannungsverhältnis zum öffentlichen Rechts, in JZ,
1988, p. 161.
(99) NUTI, L'analisi costi-benefici, Bologna, 1987; PEARCE, TURNER, Economia delle risorse naturali e
dell'ambiente, Bologna, 1991; BARDE, PEARCE, Valutare l'ambiente. Costi e benefici nella politica
ambientale, Bologna, 1993.
(100) Sulla Convenzione, cfr. GIAMPIETRO, La responsabilità civile per danni all'ambiente. Il Commento alla
Convenzione del Consiglio d'Europa sulla responsabilità civile per danno all'ambiente da attività pericolose
ratificata a Lugano il 21-22 giugno 1993, in Ambiente. Consulenza e pratica per l'Impresa, 1993, p. 8.
(101) L'art. 2.7., lett. c) e d) prevedeva a questo proposito tale nozione: "loss or damage by impairment
of the environment in so far as this is not considered to be damage within the meaning of subparagraphs
a or b above, provided that compensation for impairment of the environment, other than for loss of profit
from such impairment, shall be limited to the costs of measures of reinstatement actually undertaken or
to be undertaken; the costs of preventive measures and any loss or damage caused by preventive
measures".
(102) Cfr. GIAMPIETRO, Responsabilità per danno all'ambiente: la Convenzione di Lugano, il Libro verde
della Commissione CEE e le novità italiane, cit., in questa Rivista, 1994, p. 23.
(103) Consiglio europeo, documento n. 1 del 26 gennaio 1993.
(104) Libro Bianco sulla responsabilità per danni all'ambiente, in COM (2000) 66 final. Sul Libro Bianco
cfr. POZZO, Verso una responsabilità civile per danni all'ambiente in Europa: il nuovo Libro Bianco della
Commissione delle Comunità Europee, in questa Rivista, 2000, p. 623.
(105) Gli studi pubblicati a cura della Commisione Europea, Direzione Generale Ambiente, si suddividono
in Background Papers for EU White Paper on Environmental Liability, che fungono da base al Libro Bianco
del 2000, e Follow-Up Studies to EU White Paper on Environmental Liability, che vennero invece
commissionati subito dopo la pubblicazione del Libro Bianco su particolari problematiche di preminente
interesse comunitario. Tra i primi si ricorda lo studio commissionato alla Erasmus University di Rotterdam
dal titolo Liability for damage to natural resources, del 17 settembre 1997 e, tra i secondi, lo Study on
the Valuation and Restoration of Damage to Natural Resources for the Purpose of Environmental Liability,
del maggio 2001. Tutti questi studi sono stati pubblicati sul sito della Commissione europea:
www.europa.eu.int/comm/environment/liability.
(106) Libro Bianco sulla responsabilità per danni all'ambiente, cit., p. 47.
(107) Liability for damage to natural resources, Erasmus University Rotterdam, 17 settembre 1997, p.
13.
(108) Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulla responsabilità ambientale in
materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, Bruxelles, 23 gennaio 2002, COM(2002) 17
definitivo.
(109) Proposta di direttiva, cit., p. 4.
(110) In questo senso l'analisi condotta dalla Comunità e pubblicata in Management of contaminated
sites in Western Europe, EEA, giugno 2000.
(111) Ed in particolare la Proposta di direttiva, cit., p. 4, evidenzia i seguenti dati: per l'Austria, 1,5
miliardi di EUR, 300 siti prioritari; per le Fiandre, 6,9 miliardi di EUR, totale costi di risanamento; per la
Danimarca, 1,1 miliardi di EUR, totale costi di risanamento; per la Finlandia, 0,9 miliardi di EUR, totale
costi di risanamento; per la Germania/Baviera, 2,5 miliardi di EUR, totale costi di risanamento; per la
Germania/Sassonia-Anhalt 1,6-2,6 miliardi di EUR, risanamento su vasta scala; Germania/SchleswigHolstein 0,1 miliardi di EUR, 26 siti prioritari; Germania/Turingia 0,2 miliardi di EUR, 3 progetti su vasta
scala; per l'Italia, 0,5 miliardi di EUR, 1 250 siti prioritari; per la Spagna, 0,8 miliardi di EUR, risanamento
parziale; Svezia, 3,5 miliardi di EUR, totale costi di risanamento; per il Regno Unito, 13-39 miliardi di
EUR, 10 000 ettari di terreno contaminato (da Management of contaminated sites in Western Europe,
EEA, giugno 2000).
(112) Proposta, cit., p. 5
(113) In questo senso il 2° Considerando della direttiva, che recita: "La prevenzione e la riparazione del
danno ambientale dovrebbero essere attuate applicando il principio "chi inquina paga", quale stabilito nel
Trattato e coerentemente con il principio dello sviluppo sostenibile. Il principio fondamentale della
presente direttiva dovrebbe essere quindi che l'operatore la cui attività ha causato un danno ambientale o
la minaccia imminente di tale danno sarà considerato finanziariamente responsabile in modo da indurre
gli operatori ad adottare misure e a sviluppare pratiche atte a ridurre al minimo i rischi di danno
ambientale". Lo stesso principio viene fatto proprio dall'art. 1 della Direttiva ("La presente direttiva
istituisce un quadro per la responsabilità ambientale, basato sul principio "chi inquina paga", per la
prevenzione e la riparazione del danno ambientale"). Cfr. infra.
(114) Proposta, cit., p. 6.
(115) Proposta, cit., p. 7.
(116) In questo senso la Proposta, cit., p. 7.
(117) Cfr. 8° Considerando della direttiva.
(118) Art. 2 (7) della direttiva.
(119) Così dispone l'art. 3 della direttiva: "La presente direttiva si applica: a) al danno ambientale
causato da una delle attività professionali elencate nell'Allegato III e a qualsiasi minaccia imminente di
tale danno a seguito di una di dette attività".
(120) Su cui infra.
(121) Così dispone l'art. 3 al comma 1, lettera b): "La presente direttiva si applica: b) al danno alle
specie e agli habitat naturali protetti causato da una delle attività professionale non elencata nell'Allegato
III e a qualsiasi minaccia imminente di tale danno a seguito di una di dette attività, in caso di
comportamento doloso o colposo dell'operatore".
(122) Proposta, cit., p. 17, sub paragrafo 5.
(123) Art. 1 - Oggetto: "La presente direttiva istituisce un quadro per la responsabilità ambientale,
basato sul principio "chi inquina paga", per la prevenzione e la riparazione del danno ambientale".
(124) Già dalla presentazione della Proposta della direttiva, il principio "chi inquina paga" veniva
esplicitamente richiamato per indicare che fossero i veri responsabili a dover sopportare i danni
ambientali da loro causati.
(125) Vedi CAEMMERER, Das Problem des Kausalzusammenhanges im Privatrecht, Freiburg, 1956, p. 12
ss.; ESSER, Schuldrecht, 2ª ed., Karlsruhe, 1960, p. 245; WILBURG, Begrenzung der Haftung für schuldhaft
verursachte Schaden?, in Verhandlungen des 43. deutschen Juristentages, II, Tübingen, 1960, p. 27 s.;
TRIMARCHI, Causalità e danno, Milano, 1967.
(126) TRIMARCHI, Causalità e danno, cit., p. 24.
(127) Cfr. HART, HONORÉ, Causation in the Law, 2nd ed., Oxford, 1985; cfr. anche MALONE, Ruminations on
Cause-in-Fact, 9 Stan.L.R. 60 (1956), soprattutto a p. 64, dove tale autore sostiene: "simple causation is
not merely an abstract issue of fact... the resolution of the cause problem depends largely upon the
purpose for which cause is to be used"TRE It is through the process of selecting what is to be regarded as
a cause for the purpose of resolving a legal dispute that considerations of policy exert their influence in
deciding an issue of cause-in-fact".
(128) Cfr. CALABRESI, Concerning Cause and the Law of Torts: An Essay for Harry Kalven Jr., in 43 UCLR
69,106 (1975).
(129) Che la giurisprudenza, ad esempio, valuti diversamente il nesso di causalità a seconda che si tratti
di illeciti di dolo od illeciti di colpa è stato messo in luce da CENDON, Il dolo nella responsabilità civile
extracontrattuale, Torino, 1976, p. 44 ss.
(130) TRIMARCHI, Danno e causalità, cit., p. 134.
(131) Il criterio limitativo derivante dalla funzione reintegrativa della responsabilità civile sia per atto
lecito che per atto illecito, è quello che esclude che la responsabilità possa portare ad un arricchimento
del danneggiato, nel senso che dalla responsabilità devono essere esclusi i rischi ai quali il danneggiato
sarebbe stato comunque esposto. Cfr. a questo proposito TRIMARCHI, cit., p. 56 ss. e p. 138.
(132) TRIMARCHI, Danno e causalità, cit., p. 141.
(133) Per una prima valutazione di questa problematica si veda La responsabilità ambientale. La nuova
direttiva sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, a
cura di POZZO, Milano, 2005.
(134) Libro Bianco sulla responsabilità per danni all'ambiente, cit., p. 5.
(135) Cfr. infra, in questo stesso capitolo sub 7.5.
(136) Si vedano a questo proposito le "Eccezioni" previste dalla direttiva all'art. 4.
(137) Come del resto era già stato messo in evidenza nella dottrina europea. Cfr. a questo proposito,
supra, sub 2.
(138) Cfr. il già citato DESADELEER, Environmental Principles, From Political Slogans to Legal Rules, cit., p.
51, secondo cui spetta al legislatore nazionale decidere quale sia il regime di responsabilità più
appropriato in campo ambientale: "... it is up to the legislator to decide if operators must compensate all
harmful consequences of their activities even if no fault attaches to them".
(139) Libro Bianco, cit., p. 29.
(140) Cfr. il già citato Libro Verde sul risarcimento dei danni all'ambiente della Commissione delle
Comunità Europee, COM (93) 47, Bruxelles, 14 maggio 1993, in G.U.CE. n. C/149 del 29 maggio 1993.
(141) Libro Verde sul risarcimento dei danni all'ambiente, cit., p. 8, sub 2.1.4.
(142) Libro Verde sul risarcimento dei danni all'ambiente, cit., p. 8, sub 2.1.4.
(143) La Proposta era stata pubblicata il 23 gennaio 2002, Bruxelles, COM(2002) 17 definitivo.
(144) L'art. 11 della Proposta era così formulato: "Imputazione dei costi nel caso di pluralità di autori del
danno.
1. Fatto salvo il paragrafo 2, quando l'autorità competente può accertare con un grado sufficiente di
verosimiglianza e probabilità che lo stesso danno è stato causato da azioni o omissioni di una pluralità di
operatori, gli Stati membri possono prevedere la responsabilità finanziaria in solido per tale danno oppure
che l'autorità competente ripartisca i costi tra i diversi operatori, secondo criteri di equità e
ragionevolezza.
2. Sono a carico degli operatori che possano provare l'entità del danno imputabile alle loro attività, i soli
costi relativi a tale parte del danno.
3. La presente direttiva fa salva qualsiasi disposizione del diritto nazionale riguardante i diritti di
contributo o di regresso".
(145) Gli argomenti economici al riguardo sono stati avanzati da LANDES e POSNER, Joint and Multiple
Tortfeasors: an Economic Analysis, in Journal of Legal Studies, 517(1980); per una analisi completa cfr.
FREZZA, PARISI, Rischio e causalità nel concorso di colpa, in Riv. dir. civ., 1991, I, 233.
(146) Direttiva del Consiglio del 21 maggio 1992 relativa alla conservazione degli habitat naturali e
seminaturali e della flora e della fauna selvatiche.
(147) Direttiva del Consiglio del 2 aprile 1979 concernente la conservazione degli uccelli selvatici.
(148) Libro Verde sul risarcimento dei danni all'ambiente, COM (93) 47, Bruxelles, 14 maggio 1993, in
G.U.CE. n. C/149 del 29 maggio 1993.
(149) Libro Bianco sulla responsabilità per danni all'ambiente, in COM (2000) 66 final.
(150) Art. 2, 2).
(151) Art. 2, 13).
(152) Così dispone l'art. 4, comma 5: "La presente direttiva si applica al danno ambientale o alla
minaccia imminente di tale danno causati da inquinamento di carattere diffuso unicamente quando sia
possibile accertare un nesso causale tra il danno e le attività di singoli operatori".
(153) Cfr. art. 3.3. della direttiva e comunque quanto già evidenziato supra, sub 8.5.
(154) Articolo 11, comma 1: "Gli Stati membri designano l'autorità competente o le autorità competenti
ai fini dell'esecuzione dei compiti previsti dalla presente direttiva".
(155) Art. 11, comma 2, della direttiva 2004/35.
(156) Art. 11, comma 3, della direttiva 2004/35.
(157) Art. 11, comma 4 della direttiva 2004/35.
(158) Art. 12 della direttiva 2004/35.
(159) La richiesta di azione dovrà essere corredata di tutti i dati e le informazioni pertinenti a sostegno
delle osservazioni presentate in relazione al danno ambientale in questione. Art. 12, comma 2 della
direttiva 2004/35.
(160) A tal fine, l'interesse di organizzazioni non governative che promuovono la protezione dell'ambiente
e che sono conformi a tutti i requisiti previsti dal diritto nazionale è considerato sufficiente ai fini della
lettera b). Tali organizzazioni sono altresì considerate titolari di diritti che possono subire violazioni ai
sensi della lettera c).
(161) Art. 12, comma 3 della direttiva 2004/35.
(162) Art. 12, comma 4 della direttiva 2004/35.
(163) Art. 13 della direttiva 2004/35.
(164) Sulla Convenzione, cfr. GIAMPIETRO, La responsabilità civile per danni all'ambiente - Il Commento
alla Convenzione del Consiglio d'Europa sulla responsabilità civile per danno all'ambiente da attività
pericolose ratificata a Lugano il 21-22 giugno 1993, in AMBIENTE, Consulenza e pratica per l'Impresa,
1993, p. 8.
(165) Libro Bianco sulla responsabilità per danni all'ambiente, in COM (2000) 66 final. Sul Libro Bianco
cfr. POZZO, "Verso una responsabilità civile per danni all'ambiente in Europa: il nuovo Libro Bianco della
Commissione delle Comunità Europee", in questa Rivista, 2000, p. 623.
(166) Consiglio europeo, documento n. 1 del 26 gennaio 1993.
(167) Libro Bianco sulla responsabilità per danni all'ambiente, cit., p. 47.
(168) Liability for damage to natural resources, Erasmus University Rotterdam, 17 settembre 1997, p.
13.
(169) Allegato II - Riparazione del danno ambientale.
(170) "Where compensation is paid for environmental damage, there is to be an obligation to spend the
money in restoration". In questo senso Study on the Valuation and Restoration of Damage to Natural
Resources for the Purpose of Environmental Liability", cit., p. 1.
(171) Cass., 25 gennaio 1989, n. 440, in Corr. giur., 1989, 508 con nota di GIAMPIETRO e in Giust. civ.,
1989, I, 560, con nota di POSTIGLIONE.
(172) Cass., 9 aprile 1992, n. 4362, in Mass. giust. civ., 1992, 588.
(173) Cass. pen., 31 luglio 1990, Nuova giur. civ. comm., 1991, I, 535, con nota di PISAPIA.
(174) Cass. pen., 25 maggio 1992, Cons. amb., 1993, 65, con nota di GIAMPIETRO e PAGLIATA.
(175) Cass., Sez. III, 14 gennaio 2002, n. 1145.
(176) Cass., 1 settembre 1995, n. 9211, in Resp. civ. prev. 1996, 108, con nota di FEOLA; in Giust. civ.,
1996, I, 777, con nota di GIAMPIETRO; Corr. giur., 1995, 1146, con nota di BATÀ.
(177) In Danno e Resp. 1996, 693, con nota di COLONNA; in questa Rivista, 1997, 679, con nota di
BORASI.
(178) Cass., 3 febbraio 1998, n. 1087, in Foro it., 1998, I, 1143 con nota di POZZO.
(179) Così Corte di Giustizia CE Commissione c. Repubblica francese, 25 aprile 2002, C-52/00; nello
stesso senso cfr. Corte di Giustizia, Commissione contro Repubblica ellenica, 25 aprile 2002, C-154/00.
(180) L'art. 18 della L. 349/1986 è esplicitamente abrogato dall'art. 318, comma 2 a).
(181) Cfr. la già citata Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulla responsabilità
ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, Bruxelles, 23 gennaio 2002,
COM(2002) 17 definitivo, ed in particolare l'Allegato II, p. 52 ss., ove si fa esplicito riferimento al
risarcimento del danno ambientale significativo.
(182) Così come definita all'art. 242 e ss. D.Lgs. 152/2006.
(183) In questo senso dispongono i commi 2 e 4 dell'art. 299 del D.Lgs. 152/2006: "2. L'azione
ministeriale si svolge normalmente in collaborazione con le regioni, con gli enti locali e con qualsiasi
soggetto di diritto pubblico ritenuto idoneo.
4. Per le finalità connesse all'individuazione, all'accertamento ed alla quantificazione del danno
ambientale, il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio si avvale, in regime convenzionale, di
soggetti pubblici e privati di elevata e comprovata qualificazione tecnico-scientifica operanti sul territorio,
nei limiti delle disponibilità esistenti".
(184) Art. 311, comma 1, D.Lgs. 152/2006: "Il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio agisce,
anche esercitando l'azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale in forma
specifica e, se necessario, per equivalente patrimoniale, oppure procede ai sensi delle disposizioni di cui
alla parte sesta del presente decreto".
(185) Art. 308, 1 comma, D.Lgs. 152/2006 ("Costi dell'attività di prevenzione e di ripristino").
(186) Art. 2, comma 6 della direttiva.
(187) Art. 302 comma, D.Lgs. 152/2006 ("Definizioni"), comma 4.
(188) La direttiva predisponeva questo richiamo della selezione delle norme rilevanti all'art. 3: "La
presente direttiva si applica: a) al danno ambientale causato da una delle attività professionali elencate
nell'Allegato III e a qualsiasi minaccia imminente di tale danno a seguito di una di dette attività".
(189) A parte il generico richiamo alla normativa comunitaria contenuto nell'art. 299, comma 3 ("L'azione
ministeriale si svolge nel rispetto della normativa comunitaria vigente in materia di prevenzione e
riparazione del danno ambientale"), l'art. 301 prevede esplicitamente l'attuazione del principio di
precauzione in relazione al possibile verificarsi di ipotesi inquinamento. Come si ricorderà, a livello
comunitario, il principio di precauzione trova riferimento esplicito nel Trattato CE grazie alle modifiche
apportate con il Trattato di Maastricht (1992), affiancandosi ai già sanzionati principi: chi inquina paga,
prevenzione e correzione dei danni alla fonte. Di particolare rilevanza, ai fini dell'applicazione del principio
di precauzione, sono le indicazioni fornite dalla Comunicazione 2 febbraio 2000 della Commissione CE sul
principio di precauzione (COM(2000) 1 def. del 2 febbaio 2000). In letteratura cfr. BUTTI, Il principio di
precauzione, in Quaderni di questa Rivista, n. 19. Per il dibattito internazionale si cfr. inoltre KOURILSKI,
VINEY, Le principe de précaution, Paris, 2000; ROSNER, MARKOWITZ, Industry Challenges to the Principle of
Prevention in Public Health: the Precautionary Principle in Historical Perspective, 117 PUB. HEALTH REP.
501-12 (2002).
(190) Art. 304, azione di prevenzione: "1. Quando un danno ambientale non si è ancora verificato, ma
esiste una minaccia imminente che si verifichi, l'operatore interessato adotta, entro ventiquattro ore e a
proprie spese, le necessarie misure di prevenzione e di messa in sicurezza.
2. L'operatore deve far precedere gli interventi di cui al comma 1 da apposita comunicazione al comune,
alla provincia, alla regione, o alla provincia autonoma nel cui territorio si prospetta l'evento lesivo, nonché
al Prefetto della provincia che nelle ventiquattro ore successive informa il Ministro dell'ambiente e della
tutela del territorio. Tale comunicazione deve avere ad oggetto tutti gli aspetti pertinenti della situazione,
ed in particolare le generalità dell'operatore, le caratteristiche del sito interessato, le matrici ambientali
presumibilmente coinvolte e la descrizione degli interventi da eseguire. La comunicazione, non appena
pervenuta al comune, abilita immediatamente l'operatore alla realizzazione degli interventi di cui al
comma 1. Se l'operatore non provvede agli interventi di cui al comma 1 e alla comunicazione di cui al
presente comma, l'autorità preposta al controllo o comunque il Ministero dell'ambiente e della tutela del
territorio irroga una sanzione amministrativa non inferiore a mill e euro né superiore a tremila euro per
ogni giorno di ritardo.
3. Il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, in qualsiasi momento, ha facoltà di:
a) chiedere all'operatore di fornire informazioni su qualsiasi minaccia imminente di danno ambientale o su
casi sospetti di tale minaccia imminente;
b) ordinare all'operatore di adottare le specifiche misure di prevenzione considerate necessarie,
precisando le metodologie da seguire;
c) adottare egli stesso le misure di prevenzione necessarie.
4. Se l'operatore non si conforma agli obblighi previsti al comma 1 o al comma 3, lettera b), o se esso
non può essere individuato, o se non è tenuto a sostenere i costi a norma della parte sesta del presente
decreto, il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio ha facoltà di adottare egli stesso le misure
necessarie per la prevenzione del danno, approvando la nota delle spese, con diritto di rivalsa esercitabile
verso chi abbia causato o concorso a causare le spese stesse, se venga individuato entro il termine di
cinque anni dall'effettuato pagamento".
(191) Arti. 305, azione di ripristino: "1. Quando si è verificato un danno ambientale, l'operatore deve
comunicare senza indugio tutti gli aspetti pertinenti della situazione alle autorità di cui all'articolo 304,
con gli effetti ivi previsti, e, se del caso, alle altre autorità dello Stato competenti, comunque interessate.
L'operatore ha inoltre l'obbligo di adottare immediatamente:
a) tutte le iniziative praticabili per controllare, circoscrivere, eliminare o gestire in altro modo, con effetto
immediato, qualsiasi fattore di danno, allo scopo di prevenire o limitare ulteriori pregiudizi ambientali ed
effetti nocivi per la salute umana o ulteriori deterioramenti ai servizi, anche sulla base delle specifiche
istruzioni formulate dalle autorità competenti relativamente alle misure di prevenzione necessarie da
adottare;
b) le necessarie misure di ripristino di cui all'articolo 306.
2. Il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, in qualsiasi momento, ha facoltà di:
a) chiedere all'operatore di fornire informazioni su qualsiasi danno verificatosi e sulle misure da lui
adottate immediatamente ai sensi del comma 1;
b) adottare, o ordinare all'operatore di adottare, tutte le iniziative opportune per controllare,
circoscrivere, eliminare o gestire in altro modo, con effetto immediato, qualsiasi fattore di danno, allo
scopo di prevenire o limitare ulteriori pregiudizi ambientali e effetti nocivi per la salute umana o ulteriori
deterioramenti ai servizi;
c) ordinare all'operatore di prendere le misure di ripristino necessarie;
d) adottare egli stesso le suddette misure.
3. Se l'operatore non adempie agli obblighi previsti al comma 1 o al comma 2, lettera b) o c), o se esso
non può essere individuato o se non è tenuto a sostenere i costi a norma della parte sesta del presente
decreto, il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio ha facoltà di adottare egli stesso tali misure,
approvando la nota delle spese, con diritto di rivalsa esercitabile verso chi abbia causato o comunque
concorso a causare le spese stesse, se venga individuato entro il termine di cinque anni dall'effettuato
pagamento".
(192) Art. 318, primo comma: "L'operatore sostiene i costi delle iniziative statali di prevenzione e di
ripristino ambientale adottate secondo le disposizioni di cui alla parte sesta del presente decreto".
(193) Il D.Lgs. 152/2006 riprende i principi in materia di nesso causale già specificati nella direttiva.
(194) Cfr. art. 308, comma 5, lett. a) D.Lgs. 152/2006.
(195) In particolare l'art. 308, comma 5, stabilisce che "L'operatore non è tenuto a sostenere i costi delle
azioni di cui al comma 5 intraprese conformemente alle disposizioni di cui alla parte sesta del presente
decreto qualora dimostri che non gli è attribuibile un comportamento doloso o colposo e che l'intervento
preventivo a tutela dell'ambiente è stato causato da:
a) un'emissione o un evento espressamente consentiti da un'autorizzazione conferita ai sensi delle vigenti
disposizioni legislative e regolamentari recanti attuazione delle misure legislative adottate dalla Comunità
Europea di cui all'allegato 5 della parte sesta del presente decreto, applicabili alla data dell'emissione o
dell'evento e in piena conformità alle condizioni ivi previste;
b) un'emissione o un'attività o qualsiasi altro modo di utilizzazione di un prodotto nel corso di un'attività
che l'operatore dimostri non essere stati considerati probabile causa di danno ambientale secondo lo
stato delle conoscenze scientifiche e tecniche al momento del rilascio dell'emissione o dell'esecuzione
dell'attività".
(196) Cfr. art. 8, comma 3, della direttiva 2004/35.
(197) L'art. 308, comma 4, prevede: "Non sono a carico dell'operatore i costi delle azioni di precauzione,
prevenzione e ripristino adottate conformemente alle disposizioni di cui alla parte sesta del presente
decreto se egli può provare che il danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno:
a) è stato causato da un terzo e si è verificato nonostante l'esistenza di misure di sicurezza astrattamente
idonee;
b) è conseguenza dell'osservanza di un ordine o istruzione obbligatori impartiti da una autorità pubblica,
diversi da quelli impartiti a seguito di un'emissione o di un incidente imputabili all'operatore; in tal caso il
Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio adotta le misure necessarie per consentire all'operatore
il recupero dei costi sostenuti".
(198) Che, come già rammentato, è stato abrogato dall'art. 318, comma 2, lett. a), D.Lgs. 152/2006.
(199) T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. II, 20 luglio 2007, sentenza n. 1254.
(200) Il D.Lgs. 22/1997 viene abrogato dall'art. 264 del D.Lgs. 152/2006.
(201) Ordinanza prevista dall'art. 299. Tuttavia, occorrerà ricordare che il comma 5 di tale articolo,
prevedeva che entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del D.Lgs 152/2006, dovessero essere
stabiliti con altro decreto i criteri per le attività istruttorie volte all'accertamento del danno ambientale,
nonché per la riscossione della somma dovuta per equivalente patrimoniale ai sensi del Titolo III della
Parte Sesta. Il decreto in questione non è peraltro mai stato pubblicato e lo strumento previsto all'art.
299 appare privo della sua potenzialità applicativa.
(202) Cfr., supra, sub 4.
(203) T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. II, 20 luglio 2007, sentenza n. 1254.
(204) T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. II, 20 luglio 2007, sentenza n. 1254.
(205) L'art. 304 è una fedele trasposizione dell'art. 5 (azione di prevenzione) della direttiva 2004/35. Si
noti che l'art. in questione è inserito nella Parte Sesta del D.Lgs. 152/2006 (quella concernente il danno
ambientale, non nella Parte Quarta che riguarda specificatamente gli obblighi di bonifica) e che prende in
considerazione le misure di prevenzione da adottare in presenza di una minaccia imminente che un danno
all'ambiente si verifichi. Nel nuovo contesto legislativo la prevenzione implica che l'operatore, quando il
danno non si sia ancora verificato, ma esiste una minaccia imminente che questo si verifichi, debba
prendere autonomamente tutte le misure di prevenzione e di messa in sicurezza necessarie. Per misure
di prevenzione si devono intendere, ai sensi delle definizioni indicate sub art. 302, tutte "le misure prese
per reagire a un evento, un atto o un'omissione che ha creato una minaccia imminente di danno
ambientale, al fine di impedire o minimizzare tale danno".
(206) E quindi indipendentemente da qualunque provvedimento sindacale contingibile ed urgente, ex art.
54 T.U. Enti locali.
(207) Si veda Consiglio di Stato, sentenza n. 4525 del 2005, concernente una bonifica effettuata da un
proprietario incolpevole a seguito di una ordinanza sindacale, ritenuta illegittima, ai sensi dell'art. 17 del
decreto Ronchi, e che di seguito richiedeva al Comune il risarcimento del danno per le spese relative alla
bonifica. In quella sede il Consiglio aveva ritenuto che le spese sostenute dal proprietario incolpevole per
la bonifica del sito, illegittimamente ordinata dal Sindaco, fossero escluse dal risarcimento del danno nei
confronti del Comune, ritenendo legittima l'ordinanza sindacale emessa ai sensi dell'art. 54 T.U. Enti locali
(D.Lgs. n. 267/2000), applicabile a chi è, comunque, nel possesso della cosa, e che intimava al
proprietario incolpevole dell'inquinamento, l'esecuzione di misure di messa in sicurezza, prescindendo
dall'accertamento della responsabilità, i cui tempi sarebbero, in molti casi, incompatibili con l'urgenza di
garantire la sicurezza del sito. Nella specie, le ordinanze sindacali erano state considerate illegittime nella
parte in cui ordinavano la bonifica al proprietario del sito, perché non recavano elementi di prova, ma solo
presunzioni, in ordine alla responsabilità del medesimo. Tuttavia, il Collegio aveva rigettato la domanda
risarcitoria del proprietario nei confronti del Comune per tre ordini di motivi: 1. perché le spese di
bonifica sarebbero comunque ricadute sul medesimo in forza del meccanismo degli oneri reali e del
privilegio immobiliare, ex art. 17 decreto Ronchi, e quindi avrebbe comunque dovuto rimborsare
l'Amministrazione delle spese da questa anticipate; 2. perché non poteva essere posta a carico della
Amministrazione comunale l'individuazione del soggetto responsabile in una situazione "complessa",
quale quella in esame; 3. perché il proprietario non aveva dedotto il danno per aver sostenuto
"immediatamente" i costi della bonifica.
(208) Così il comma 3 dell'art. 253 D.Lgs. 152/2006.
(209) Cfr. supra, sub 3.
(210) Come si ricorderà tali perplessità erano state messe a fuoco già in sede di elaborazione di Libro
Verde sul risarcimento dei danni all'ambiente della Commissione delle Comunità Europee, COM (93) 47,
Bruxelles, 14 maggio 1993.
(211) T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. II, 20 luglio 2007, sentenza n. 1254.
(212) T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. II, 20 luglio 2007, sentenza n. 1254.
(213) P.I. 2007/4679 ex art. 226 del Trattato nei confronti del Governo italiano.
(214) Pubblicato in G.U. 25 settembre 2009, n. 223, convertito con modifiche dalla L. 20 novembre 2009,
n. 166, in G.U. 24 novembre 2009, n. 274, s.o., n. 215.
Archivio selezionato: Note
La Valutazione di Impatto Ambientale come strumento di better regulation ed i
problemi applicativi nell'ordinamento italiano
Riv. it. dir. pubbl. comunit. 2010, 1, 339
Maria Luce Mariniello
SOMMARIO: Premessa. 1. I termini della questione. 2. Finalità ed effetti della VIA. 3. Il bilanciamento di
interessi nella VIA dei parchi eolici. 4. Partecipazione procedimentale e conferenza di servizi nella VIA.
Premessa.
La compatibilità della realizzazione di un parco eolico con il vincolo paesistico può essere legittimamente
negata da un'amministrazione comunale, in assenza di contraddittorio tra i soggetti interessati? E quali
effetti produce tale dichiarazione di incompatibilità ai fini dell'espletamento della procedura di VIA?
Con la sentenza in commento il giudice amministrativo torna a pronunciarsi sulla dimensione procedurale
della valutazione di impatto ambientale (VIA), evidenziandone la funzione di strumento conformativo
dell'esercizio di potestà tecnico-discrezionali nei procedimenti di rilevanza ambientale. In particolare, il
T.A.R. Umbria si concentra sull'obbligo di condurre la VIA dei parchi eolici attraverso un'adeguata
istruttoria tecnica, che è tale quando la discrezionalità spettante alla pluralità di amministrazioni titolari di
poteri, in relazione all'autorizzazione di tali opere, è esercitata attraverso il metodo della conferenza di
servizi e con l'apporto partecipativo dei privati interessati.
Nell'affermare siffatto principio, la sentenza offre interessanti spunti di riflessione sulla garanzia del
contraddittorio nella procedura di VIA che, nel diritto europeo, integra un più ampio complesso di regole e
principi in cui si sostanzia il diritto dei privati a una buona amministrazione. Al contempo, mette in
evidenza come l'arretratezza della legge sul procedimento amministrativo in materia di partecipazione
abbia influito negativamente sull'adozione di alcune legislazioni regionali di settore, in cui si ravvisa un
utilizzo improprio della conferenza di servizi: in effetti, le direttive comunitarie sulla VIA ed oggi anche la
disciplina nazionale di attuazione delineano una procedura preordinata a finalità di apertura dei
procedimenti alle istanze del pubblico interessato attraverso il ricorso a specifici moduli strutturali, come
l'inchiesta pubblica, diretti ad attenuare l'unilateralità delle decisioni amministrative. Pertanto,
un'interpretazione giurisprudenziale tendente a concepire la conferenza di servizi quale unico momento di
confronto e sintesi degli interessi coinvolti nell'attività amministrativa complessa rischia di assecondare il
fenomeno, frequente nella prassi, di assorbimento degli istituti partecipativi della VIA in moduli
procedimentali strutturalmente inadeguati ad assicurarne la funzione.
Tra i possibili effetti riconducibili a questa prassi applicativa non vi è solo il rischio di snaturare le finalità
proprie degli obblighi di partecipazione e trasparenza dettati dalle direttive comunitarie in materia di VIA.
(67) Sulla ratio di una partecipazione fortemente incidente in termini di istruttoria, cfr. S. COGNETTI,
«Quantita» e «qualità» della partecipazione, cit. 7; G. TROPEA, La partecipazione al procedimento, cit.,
234; M. T. SERRA, Contributo ad uno studio sull'istruttoria del procedimento amministrativo, Milano, 1991,
244.
(68) E. M. MARENGHI, C'era una volta la partecipazione, cit., 46 ss.
(69) Sui modi di essere della qualificazione del procedimento coniugando partecipazione e interesse
pubblico, cfr. F. FIGORILLI, Il contraddittorio nel procedimento amministrativo, Napoli, 1996, 205; G. VIRGA,
La partecipazione al procedimento amministrativo, Milano, 1998, 19 ss.; S. COGNETTI, «Quantità» e
«qualità» della partecipazione, cit. 125; M. E. SPASIANO, La partecipazione al procedimento amministrativo
quale fonte di legittimazione dell'esercizio del potere: un'ipotesi ricostruttiva, in La partecipazione negli
enti locali, Problemi e prospettive, cit., 183: sullo specifico della qualificazione della volontà preposta
all'esercizio di una funzione pubblica, cfr. M. D'ALBERTI, in La visione e la voce: le garanzie di
partecipazione ai procedimenti amministrativi, in Riv. trim. dir. pubbl., 2000, 33.
(70) Sulla ricostruzione virtuale del provvedimento ex art. 21-octies cfr. A. PUBUSA, Forma e sostanza nel
procedimento. Considerazioni sull'art 21-octies nella l. n. 241/1990, in Studi in ricordo di M.T. Serra,
Napoli, 2007, 200; E. FOLLIERI, La giurisdizione del giudice amministrativo a seguito dell'art. 21-octies
della l. n. 7 agosto 1990, ivi 83 s.
(71) Cfr. A. PUBUSA, Forma e sostanza nel procedimento. Considerazioni sull'art. 21-octies nella l. n.
241/1990, cit., 196 ss.
(72) Cfr. M. CAMMELLI, Amministrazione di risultato, in Annuario 2002 dell'Associazione italiana dei
professori di diritto amministrativo, Milano, 2003, 114 ss.
Archivio selezionato: Dottrina
IL DANNO AMBIENTALE E LE RECENTI MODIFICHE DEL CODICE DELL'AMBIENTE
(d.lgs. n. 152 del 3 aprile 2006) NEL SISTEMA DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE
Resp. civ. e prev. 2008, 10, 2173
Livia Villani
Università di Bologna
SOMMARIO: 1. Il danno ambientale nel Codice dell'ambiente e sue successive modifiche. - 2. Le modalità di
riparazione e risarcimento del danno ambientale ed il problema della sua "monetizzazione". - 3. Criteri di
imputazione della responsabilità: il criterio della responsabilità oggettiva e della conseguente
assicurabilità del danno ambientale. - 4. Legittimazione processuale ad agire tra Codice dell'ambiente e
Direttiva 2004/35/CE. - 5. Conclusioni.
1. Il danno ambientale nel Codice dell'ambiente e sue successive modifiche
L'inarrestabile industrializzazione che produce ricchezza è anche una minaccia per la salute dell'uomo e
dell'ambiente (1); ciò ha comportato la necessità, per l'Italia e l'Europa, di un riordino e di una
regolamentazione del danno ambientale.
Già in alcune sentenze (Corte cost., 30 dicembre 1987, n. 641, e Sez. Un. civ., 25 gennaio 1989, n. 440)
(2), per la prima volta, si considerava l'ambiente come un bene fondamentale da tutelare quale valore di
rango costituzionale, anticipando un percorso interpretativo che negli anni Novanta ha comportato una
rivalutazione dei diritti fondamentali della Costituzione (3): "l'ambiente è protetto come elemento
determinativo della qualità della vita. La sua protezione non persegue astratte finalità naturalistiche o
estetizzanti, ma esprime l'esigenza di un habitat naturale nel quale l'uomo vive ed agisce e che è
necessario alla collettività e, per essa, ai cittadini, secondo valori largamente sentiti; è imposta anzitutto
da precetti costituzionali (artt. 9 e 32 Cost.), per cui esso assurge a valore primario e assoluto".
Anche il primo Considerando della Direttiva 2004/35/CE (4) precisa quale sia l'importanza dell'ambiente,
infatti, "visto che nella Comunità esistono attualmente molti siti contaminati, che comportano rischi
significativi per la salute, e negli ultimi decenni vi è stata una forte accelerazione della perdita di
biodiversità, il non intervento potrebbe provocare in futuro ulteriori contaminazioni dei siti e una perdita
di biodiversità ancora maggiore. La prevenzione e la riparazione, nella misura del possibile, del danno
ambientale contribuisce a realizzare gli obbiettivi e i principi della politica ambientale comunitaria, stabiliti
nel trattato".
Questa necessità, sia pur con difficoltà ed incertezze (5), è stata assolta dal Codice dell'ambiente.
Quest'ultimo accoglie in sé i principi stabiliti nella Direttiva 2004/35/CE (6) e nella legge finanziaria n.
266 del 23 dicembre 2005 (7), che ha anticipato le linee dell'intervento di riordino, affidato allo schema di
decreto legislativo approvato dal Consiglio dei Ministri in via preliminare il 18 novembre 2005,
riguardante norme in materia di tutela risarcitoria contro i danni all'ambiente.
Si precisa che, dopo una prima stesura, il Codice dell'ambiente è stato più volte modificato attraverso
decreti correttivi, ultimo dei quali è il d.lgs. n. 4 del 16 gennaio 2008.
In quest'ultimo si riscrivono le norme in materia di VIA e VAS (Valutazione d'Impatto Ambientale e
Valutazione Ambientale Strategica), si riordinano i principi di gestione dei rifiuti, vi è una nuova disciplina
nel settore dei consorzi che sono lo strumento attraverso cui i produttori gestiscono i rifiuti e gli
imballaggi da essi prodotti. Il Governo, inoltre, ha introdotto gli artt. 3-bis-3-sexies nella Parte I del
Codice. I nuovi articoli introducono alcuni principi generali in tema di tutela dell'ambiente: sulla
produzione del diritto ambientale (art. 3-bis) (8); quelli desumibili dalle norme del d.lgs. n. 152 (art. 3quinquies, comma 1) (9); i principi derivanti dal Trattato delle Unioni europee, posti a base delle politiche
ambientali (precauzione, azione preventiva, chi inquina paga) e dello sviluppo sostenibile (art. 3-ter e 3quater) (10); ridefiniscono quelli di sussidiarietà e di leale collaborazione nei rapporti tra Stato e
autonomia regionali-locali (art. 3-quinquies, comma 2 e 3) (11); infine, l'art. 3-sexies(12) richiama il
diritto di accesso alle informazioni ambientali (13).
Nonostante le recenti modifiche, tutte le incertezze sulla quantificazione e conseguentemente sulla
monetizzazione e assicurabilità del danno ambientale permangono.
Il danno ambientale (14) è descritto all'art. 300 del Codice e riguarda "qualsiasi deterioramento
significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell'utilità assicurata da
quest'ultima"; esso è un danno causato all'acqua, al terreno, o alle specie e agli habitat naturali.
Il danno ad habitat o a specie protette (15) si computa in base a precisi criteri: al numero di individui,
loro densità ed area coperta, ruolo di determinati individui in relazione alla specie, capacità di
rigenerazione della specie, capacità di rigenerazione della specie dopo che il danno si è verificato, ma
anche facendo riferimento alla lesione dello stato di conservazione.
Ovviamente saranno esclusi tutti i casi in cui il danno non supera la normale tollerabilità e non viene
dichiarato significativo (16) (per esempio, nel caso di variazioni negative dovute a fluttuazioni naturali
risultanti da interventi connessi con la normale gestione dei siti oppure danno a specie o habitat che si
ripristineranno in breve tempo) ed anche i danni espressamente autorizzati (art. 6 par. 3 e 4, art. 16
Direttiva 92/43/CEE a tutela della fauna e della flora; art. 9 Direttiva 79/409/CE a tutela degli uccelli
selvatici).
La definizione di danno ambientale del Codice va intesa sempre in senso non tradizionale (17) e dal punto
di vista economico, infatti, nel momento in cui l'ambiente viene considerato come una risorsa primaria (e
non di riflesso: dopo o insieme alla tutela, per esempio, del diritto alla salute) i potenziali fruitori/
danneggiatori dovranno considerare anche il prezzo di quest'ultima, "internalizzando" i costi delle
"esternalità" negative create dall'esercizio della loro attività.
2. Le modalità di riparazione e risarcimento del danno ambientale ed il problema della sua
"monetizzazione"
In caso di minaccia imminente di danno ambientale, l'operatore dovrebbe apportare tutte le misure
preventive e di riparazione idonee per evitare il danno, in stretta collaborazione e in contatto continuo
con il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio (18) (artt. 304-310, prevenzione e ripristino
ambientale, parte VI, titolo II, del Codice). Se non interviene l'operatore, intervengono le autorità
competenti (Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio) sia nei confronti dell'autore del danno sia
per il ripristino con diritto di rivalsa. Nel Codice viene descritto una sorta di sistema di allerta che prevede
che, nel caso di danno ambientale imminente e non, l'operatore avverta subito Regioni, Province o
Comuni, a loro volta questi, avvertano il Prefetto che contatta, entro 24 ore, il Ministero dell'ambiente e
della tutela del territorio (art. 301 del Codice).
Il titolo III del Codice riguarda, invece, il risarcimento del danno ambientale, preferibilmente in forma
specifica, se ciò non è possibile per equivalente. Il Ministro agisce emanando un'ordinanza(19), tranne
nel caso in cui abbia esercitato azione in sede civile o azione civile in sede penale (artt. 313, 314, 315,
316, 317 del Codice)(20) e tranne nel caso in cui la giurisdizione appartenga alla Corte dei conti(21), ma
precedentemente è necessaria un'istruttoria nella quale si svolge una investigazione sul danno
ambientale e sulle sue possibili cause, anche attraverso una consulenza tecnica, nel sito colpito.
Dopo l'istruttoria, che ovviamente serve anche a quantificare il danno ambientale oltre ad accertarne le
cause, viene emessa ordinanza con quantificazione del danno e identificazione dei responsabili che
dovranno ripristinare la situazione antecedente al danno, oppure se ciò non è possibile o eccessivamente
oneroso (art. 2058 c.c.), pagare una somma equivalente. Fondamentale a questo proposito è l'art. 314
che precisa che, nel caso in cui non sia possibile un'esatta quantificazione del danno, "il danno per
equivalente, si presume fino a prova contraria, di ammontare non inferiore al triplo della somma
corrispondente alla sanzione pecuniaria amministrativa (le regioni, le altre province autonome e gli altri
enti devono comunicarle al Ministero) oppure alla sanzione penale, in concreto applicata. Se sia stata
erogata una pena detentiva, al fine della quantificazione del danno di cui al presente articolo, il
ragguaglio fra la stessa e la somma da addebitare a titolo di risarcimento del danno ha luogo calcolando
400 " per ciascun giorno di pena detentiva (sarà la cancelleria del giudice a trasmettere copia della
sentenza al Ministero)" (22). Contro l'ordinanza del Ministro dell'ambiente può essere fatto ricorso al TAR
entro 60 giorni ed al Presidente della Repubblica entro 120 giorni.
La quantificazione (diretta o per equivalente) del danno però è necessaria soprattutto per il rapporto tra
danno e guadagno del produttore: ove la quantificazione fosse troppo bassa rispetto al risparmio od al
guadagno ricavato dal polluter con una determinata attività inquinante, tale da non costituire un valido
incentivo per il danneggiante ad evitare il medesimo danno in futuro, si verrebbe a vanificare anche il
criterio di imputazione della responsabilità: in questo senso interviene la funzione preventiva della
responsabilità civile (23), in secondo piano è posta, invece, la funzione di compensation.
Tale funzione si esplica soprattutto nel caso in cui chi impiega, nelle attività produttive o nella vita
privata, mezzi che sono di per sé fonti di pericolo, accetta sia l'eventualità di cagionare danni ad altri sia
di assumere il rischio di doverli risarcire anche se non li avrà cagionati per colpa. Se poi si assicura contro
il rischio della responsabilità civile sarà l'assicuratore a risarcire il danno: il sistema assicurativo vale a
ripartire fra tutti coloro che usano mezzi pericolosi e per piccole quote il rischio, cui ciascuno di essi è
esposto, il danno ad altri cagionato (24) (vedi par. 3).
3. Criteri di imputazione della responsabilità: il problema della responsabilità oggettiva e della
conseguente assicurabilità del danno ambientale
Nel caso di danno all'ambiente sarebbe necessaria un'applicazione oggettiva della responsabilità (25)
(oltre agli strumenti propri del Ministero dell'ambiente descritti precedentemente): l'autorità competente
non è costretta a graduare la colpa (si precisa che all'art. 311, comma 2, del Codice, si fa riferimento ad
un fatto compiuto con negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di norme tecniche), i danneggiati
non devono provare la responsabilità del polluter anche perché in quest'ultima ipotesi il danneggiato
dovrebbe essere informato sugli strumenti di controllo di uno specifico processo produttivo. Attraverso la
responsabilità oggettiva, inoltre, si costringono i danneggianti a modulare il proprio livello di attività in
funzione della probabilità di causare un danno e di conseguenza si internalizzerebbero tutti i costi sociali e
non solo quelli causati da negligenza (26).
La necessità di utilizzo di una responsabilità oggettiva e non basata sulla colpa (27) si trova al
Considerando n. 13 della Direttiva dove si afferma che il sistema della responsabilità civile "tradizionale"
non risolve questioni riguardanti la presenza di uno o più inquinatori, di un danno che non è concreto e
quantificabile, del nesso causale e delle conseguenze del danno che possono venire alla luce dopo molto
tempo (28).
Per quanto riguarda il Codice dell'ambiente, l'art. 311 al comma 2 (richiamando in parte (29) l'art. 18
della l. n. 349/1986) stabilisce che "chiunque realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o
comportamenti doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o di provvedimento amministrativo, con
negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di norme tecniche, arrechi danno all'ambiente,
alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, è obbligato al ripristino della precedente
situazione e, in mancanza, al risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato".
L'art. 311 del Codice si differenzia dall'art. 18, in quanto, l'azione civile in sede penale e in sede civile
spetta al solo Ministro dell'ambiente (che può anche procedere ex art. 312 con l'istruttoria per
emanazione dell'ordinanza ministeriale), mentre nell'art. 18 si faceva riferimento oltre che allo Stato
anche agli enti territoriali sui quali incidono i beni oggetto del fatto lesivo osservando il principio di
sussidiarietà previsto all'art. 117 Cost., che trova fondamento nel fatto che questi enti abbiano una
funzione di tutela della collettività, della comunità, dell'equilibrio economico, biologico e sociologico del
territorio.
Esso configura un'ipotesi di illecito civile extra-contrattuale (tutela che potrebbero usare solo i singoli
vista la possibilità del Ministro dell'ambiente di agire attraverso gli strumenti precedentemente descritti) il
cui modello di riferimento è costituito dall'art. 2043 c.c. (30); ultimamente la giurisprudenza ha propeso,
però, per una rilettura del dato legislativo introducendo una forma di responsabilità oggettiva anche in
questa materia (31): secondo un trend che non manca di investire anche altri settori dell'ordinamento (si
pensi al danno da prodotto), il danneggiato non dovrà dimostrare la colpa del soggetto agente, ma dovrà
provare il nesso di causalità esistente tra la condotta ed il danno ambientale (32) (cfr. nota n. 19).
In conclusione, se da una parte il concetto di responsabilità oggettiva facilita la prova del danno
ambientale, rimane comunque molto difficoltosa la quantificazione di quest'ultimo a fini assicurativi (33);
infatti, è complicato stabilire il momento in cui ha avuto inizio l'azione dannosa, dal momento che può
essere un'emissione continua e non un accadimento accidentale e imprevedibile (gradual pollution),
intensità dell'inquinamento, azione sinergica di più polluters, lo stabilire massimali, la carenza di
informazioni che l'assicurato dà all'assicuratore (34).
La copertura assicurativa non deve essere "una sorta di licenza ad inquinare", ma lo scopo
dell'assicurazione per danno all'ambiente dovrebbe essere quello di garantire ai danneggiati il
risarcimento, anche qualora la momentanea situazione finanziaria del danneggiante non lo permetta, e
non quella di coprire i comportamenti illeciti dell'inquinatore. La funzione di deterrence (e di conseguenza
di compensation) della responsabilità civile dovrebbe essere potenziata attraverso accorgimenti
assicurativi, responsabilità oggettiva, corretta monetizzazione del danno all'ambiente e, quindi, incidere
favorevolmente sul meccanismo di prevenzione predisposto dalla responsabilità civile (35).
4. Legittimazione processuale ad agire tra il Codice dell'ambiente e Direttiva 2004/35/CE
Nel Considerando n. 25 della Direttiva viene illustrato chiaramente il principio secondo cui "Le persone
che sono state o che possono essere pregiudicate da un danno ambientale dovrebbero essere legittimate
a chiedere all'autorità competente di agire. La protezione dell'ambiente è tuttavia un interesse diffuso,
per il quale i singoli non sempre agiscono o sono in grado di agire. Si dovrebbe quindi dare l'opportunità
ad organizzazioni non governative che promuovono la protezione dell'ambiente di contribuire in maniera
adeguata all'efficace attuazione della presente Direttiva", anche perché l'art. 3 par. 3 non dà la possibilità
ai privati di essere indennizzati.
All'art. 309 del Codice viene descritto il possibile intervento diretto delle regioni, province, enti locali,
persone fisiche e giuridiche che vantino un interesse legittimante o colpite da un danno ambientale per
prevenire o attuare azione di ripristino dell'ambiente; infatti, esse possono fare denunce ed osservazioni
che però devono passare al vaglio del Ministero dell'ambiente. Questi ultimi possono anche attuare ricorsi
ex art. 310, ma solo per "annullamento degli atti e dei provvedimenti adottati in violazione delle
disposizioni di cui alla parte sesta del presente decreto nonché avverso il silenzio inadempimento del
Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e per il risarcimento del danno subito a causa del
ritardo nell'attivazione, da parte del medesimo ministro, delle misure di precauzione, di prevenzione o di
contenimento del danno ambientale".
Mentre il Codice non approfondisce né valorizza la funzione delle associazioni ambientaliste (36), come
voluto dalla Direttiva, è la l. n. 349/1986 che le descrive (37); esse sono definite dall'art. 13 (38),
comma 1 (richiamato all'art. 309, comma 2, del Codice), mentre l'art. 18, riguardante i poteri di queste
ultime, è stato abrogato dal Codice (tranne il comma 5, che prevede che queste ultime possano
intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per
l'annullamento di atti illegittimi) (39). Con quest'ultimo si conferiva alle associazioni ambientaliste
riconosciute un duplice ruolo nel processo amministrativo e in quello che si svolge innanzi al giudice
ordinario per il risarcimento del danno ambientale ossia la facoltà di intervenire in giudizio per danno
ambientale e ricorrere in sede amministrativa per l'annullamento di atti illegittimi. Queste potevano anche
sollecitare l'esercizio dell'azione processuale per il risarcimento del danno ambientale da parte dei
soggetti legittimati (lo Stato o gli enti territoriali sui quali insistono i beni oggetto del fatto lesivo) (40).
Nel Codice dell'ambiente non viene data la possibilità a soggetti diversi dal Ministero dell'ambiente di
intervenire o dar vita ad un processo ordinario penalizzando grandemente la loro libertà di agire (41).
5. CONCLUSIONI
In passato l'incertezza riguardava chi avrebbe dovuto pronunciarsi sul danno all'ambiente se il giudice
ordinario o quello amministrativo (non la possibilità o meno di agire e partecipare alla fase processuale
delle associazioni ambientaliste, Regioni, Province, Comuni): il problema veniva superato attraverso le
sentenze della Cassazione e Corte costituzionale (Cass. civ., 28. ottobre 1998, n. 10733, Sez. Un. civ., 25
gennaio 1989, n. 440 (42); Corte cost., 30 dicembre 1987, n. 641 (43); e, per una sentenza più recente,
Corte cost., 14 novembre 2007, n. 378 (44)) che, elevando l'ambiente a valore e bene assoluto,
proteggevano quest'ultimo allo stesso modo dei diritti fondamentali presenti nella Costituzione. Il Giudice
Ordinario, quindi, diveniva giudice "naturale" dei diritti soggettivi: il danno all'ambiente diventava una
perdita finanziaria per la collettività, un danno pubblico (45) e non un detrimento dell'erario. Alla Corte
dei conti spettava esclusivamente la giurisdizione sul danno erariale (art. 22 del d.P.R. 10 gennaio 1957,
n. 3).
Oggi, invece, gli enti territoriali e le associazioni ambientaliste hanno meno possibilità di intervenire a
difesa dell'ambiente per adire il giudice ordinario, infatti, l'azione civile in sede penale e in sede civile
spetta al solo Ministro dell'ambiente (che può anche procedere ex art. 312 con l'istruttoria per
emanazione dell'ordinanza ministeriale), mentre nell'art. 18 della l. n. 349/1986 si faceva riferimento
anche agli enti territoriali sui quali incidono i beni oggetto del fatto lesivo. Questi ultimi oggi possono solo
fare denunce ed osservazioni che devono passare al vaglio del Ministro dell'ambiente e ricorsi ex art. 310
del Codice dell'ambiente per annullamento di atti, silenzio inadempimento e ritardo del Ministero.
La limitazione della libertà di agire per le associazioni ambientaliste e gli enti territoriali si intreccia,
nonostante le recenti modifiche, con tutte le incertezze sulla definizione, quantificazione e
conseguentemente sulla monetizzazione e assicurabilità del danno ambientale (cfr. par. 2 e 3) ed il
rapporto con la funzione di deterrence e preventiva della responsabilità civile.
Tali problematiche potranno essere risolte solo attraverso i principi di prevenzione, "chi inquina paga" e
precauzione propri della politica comunitaria volti ad assicurare una efficace protezione contro i rischi per
la salubrità e sicurezza dell'ambiente, attuando una "interpretazione che si evolve col tempo" delle norme
comunitarie e, ovviamente, attraverso la prassi giurisprudenziale.
NOTE
(1) Molto importante è il rapporto tra industrializzazione e danno ambientale e a sua volta tra
quest'ultimo e il danno alle persone che vivono nell'ambiente colpito. Esse non subiranno solo un danno
alla salute, ma anche un danno esistenziale. Quindi è fondamentale tenere presente tutte le conseguenze
dirette e indirette che vivere in un ambiente inquinato o insalubre può provocare; POZZO, Danno
esistenziale e danno ambientale, in CENDON-ZIVIZ, Il danno esistenziale, Milano, 2000.
(2) Corte cost., 30 dicembre 1987, n. 641, in Foro it., 1988, I, 694, con nota di GIAMPIETRO, Il danno
all'ambiente innanzi alla Corte costituzionale; ibidem, 1988, I, 1057, con nota di PONZANELLI, Corte
costituzionale e responsabilità civile: rilievi di un privatista; ed anche in Corr. giur., 1988, 234, con nota
di GIAMPIETRO; Sez. Un. civ., 25 gennaio 1989, n. 440, in Corr. giur., 1989, 505, con nota di GIAMPIETRO, Il
risarcimento del danno ambientale davanti alle Sezioni Unite civili.
(3) Risultato di questo trend interpretativo è, per esempio, il riconoscimento e la tutela del danno
esistenziale, danno da mobbing, danno da vacanza rovinata, danno al diritto alla privacy; inoltre, in
perfetta sintonia con l'evoluzione giurisprudenziale della Suprema Corte di cassazione e con le linee guida
dettate dalla Corte costituzionale in tema di danno non patrimoniale, i giudici hanno ritenuto che, anche
nell'ipotesi di responsabilità oggettiva del produttore, ai sensi del d.P.R n. 224/1988 (ed oggi ai sensi
degli artt. 114-127 cod. cons.) debba essere riconosciuto all'utilizzatore, qualora vi sia stata lesione dei
diritti inviolabili della persona, il risarcimento del danno non patrimoniale inteso sia come sofferenza
psicologica, sia come compromissione del rapporto familiare (VILLANI, Il danno da prodotto: casi più
recenti e nuovi utilizzi della Direttiva della Comunità Europea n. 374/1985, in Resp. civ., 2005, 848).
(4) GIAMPIETRO, La direttiva 2004/35/Ce sul danno ambientale e l'esperienza italiana, in Ambiente, 2004,
8; GIAMPIETRO,Prevenzione e riparazione del danno ambientale: la nuova direttiva n. 2004/35/Ce, ibidem,
905; QUARANTA,L'evoluzione della disciplina del danno ambientale nella politica comunitaria, ibidem, 919;
POZZO, Verso una responsabilità civile per danni all'ambiente in Europa: il nuovo libro bianco della
Commissione delle Comunità europee, in Riv. giur. amb., 2000, 623; POZZO, La responsabilità
ambientale: la nuova Direttiva sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del
danno ambientale, Milano, 2005; POZZO, Responsabilità per i danni all'ambiente: valutazioni giuridiche ed
economiche, in Quaderni Crasl S10/2003/finale; VILLANI, Responsabilità, danno e assicurazione tra il
Codice dell'ambiente (d.lg. 3 aprile 06, n. 152) e Dir. 35/2004CE, in Resp. civ., 2007, 258; G. GRECO, Il
danno ambientale tra innovazioni legislative ed applicazioni giurisprudenziali, in questa Rivista, 2007,
1262.
(5) Come precisato anche da Cass. pen., Sez. III, 2 maggio 2007, n. 16575, in Ambiente & Sviluppo,
2007, 1051, con nota di GIAMPIETRO, La responsabilità per danno all'ambiente nel TUA: un passo avanti e
due indietro.
(6) Preceduta dal Libro Verde sul risarcimento dei danni all'ambiente, dove è fondamentale l'affermazione
per cui la responsabilità civile è un mezzo che costringe coloro che causano l'inquinamento a sostenere i
costi del danno conseguente; seguito poi dalla Convenzione di Lugano sulla responsabilità civile per
danno all'ambiente da attività pericolose e dal Libro Bianco sulla responsabilità per danni all'ambiente in
cui vengono valutate le diverse opzioni per un'azione della Comunità nel campo della responsabilità per
danni all'ambiente.
(7) Nel contesto di accordi di programma tra Ministero dell'ambiente con Regioni, Province e Comuni per
la bonifica di aree sottoposte a fallimento viene fatto riferimento al danno ambientale, più specificamente
si rimanda quasi totalmente alla Direttiva oltre che per la definizione di danno ambientale anche per tutta
la sua disciplina.
(8) Principi sulla produzione del diritto ambientale: 1. I principi posti dal presente articolo e dagli articoli
seguenti costituiscono i principi generali in tema di tutela dell'ambiente, adottati in attuazione degli artt.
2, 3, 9, 32, 41, 42 e 44, 117 commi 1 e 3 Cost. e nel rispetto del Trattato dell'Unione europea. 2. I
principi previsti dalla presente Parte Prima costituiscono regole generali della materia ambientale
nell'adozione degli atti normativi, di indirizzo e di coordinamento e nell'emanazione dei provvedimenti di
natura contingibile ed urgente. 3. I principi ambientali possono essere modificati o eliminati soltanto
mediante espressa previsione di successive leggi della Repubblica italiana, purché sia comunque sempre
garantito il corretto recepimento del diritto europeo.
(9) Principi di sussidiarietà e di leale collaborazione: 1. I principi desumibili dalle norme del decreto
legislativo costituiscono le condizioni minime ed essenziali per assicurare la tutela dell'ambiente su tutto il
territorio nazionale.
(10) Principio dell'azione ambientale (art. 3-ter): 1. La tutela dell'ambiente e degli ecosistemi naturali e
del patrimonio culturale deve essere garantita da tutti gli enti pubblici e privati e dalle persone fisiche e
giuridiche pubbliche o private, mediante una adeguata azione che sia informata ai principi della
precauzione, dell'azione preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati
all'ambiente, nonché al principio "chi inquina paga" che, ai sensi dell'art. 174, comma 2, del Trattato delle
unioni europee, regolano la politica della comunità in materia ambientale.
Principio dello sviluppo sostenibile (art. 3-quater): 1. Ogni attività umana giuridicamente rilevante ai
sensi del presente codice deve conformarsi al principio dello sviluppo sostenibile, al fine di garantire che il
soddisfacimento dei bisogni delle generazioni attuali non possa compromettere la qualità della vita e le
possibilità delle generazioni future. 2. Anche l'attività della pubblica amministrazione deve essere
finalizzata a consentire la migliore attuazione possibile del principio dello sviluppo sostenibile, per cui
nell'ambito della scelta comparativa di interessi pubblici e privati connotata da discrezionalità, gli interessi
alla tutela dell'ambiente e del patrimonio culturale devono essere oggetto di prioritaria considerazione. 3.
Data la complessità delle relazioni e delle interferenze tra natura e attività umane, il principio dello
sviluppo sostenibile deve consentire di individuare un equilibrato rapporto, nell'ambito delle risorse
ereditate, tra quelle da risparmiare e quelle da trasmettere, affinché nell'ambito delle dinamiche della
produzione e del consumo si inserisca altresì il principio di solidarietà per salvaguardare e per migliorare
la qualità dell'ambiente anche futuro. 4. La risoluzione delle questioni che involgono aspetti ambientali
deve essere cercata e trovata nella prospettiva di garanzia dello sviluppo sostenibile, in modo da
salvaguardare il corretto funzionamento e l'evoluzione degli ecosistemi naturali dalle modificazioni
negative che possono essere prodotte dalle attività umane.
(11) Principi di sussidiarietà e di leale collaborazione: 2. Le regioni e le province autonome di Trento e di
Bolzano possono adottare forme di tutela giuridica dell'ambiente più restrittive, qualora lo richiedano
situazioni particolari del loro territorio, purché ciò non comporti un'arbitraria discriminazione, anche
attraverso ingiustificati aggravi procedimentali. 3. Lo Stato interviene in questioni involgenti interessi
ambientali ove gli obiettivi dell'azione prevista, in considerazione delle dimensioni di essa e dell'entità dei
relativi effetti, non possano essere sufficientemente realizzati dai livelli territoriali inferiori di governo o
non siano stati comunque effettivamente realizzati. 4. Il principio di sussidiarietà di cui al comma 3 opera
anche nei rapporti tra regioni ed enti locali minori.
(12) Diritto di accesso alle informazioni ambientali e di partecipazione a scopo collaborativo: 1. In
attuazione della l. 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni, e delle previsioni della Convenzione
di Aarhus, ratificata dall'Italia con la l. 16 marzo 2001, n. 108, e ai sensi del decreto legislativo 19 agosto
2005, n. 195, chiunque, senza essere tenuto a dimostrare la sussistenza di un interesse giuridicamente
rilevante, può accedere alle informazioni relative allo stato dell'ambiente e del paesaggio nel territorio
nazionale".
(13) Per un commento critico cfr. GIAMPIETRO, I principi ambientali nel d.lgs. n. 152/2006: dal TU al
Codice dell'ambiente ovvero prediche inutili, in Ambiente & Sviluppo, 2008, 5050; GIADROSSI, Danno
ambientale: nel 2007 al centro dell'attenzione le bonifiche dei siti contaminati, in questa Rivista, 2008,
1486.
(14) Cfr. POZZO, Responsabilità per i danni all'ambiente: valutazioni giuridiche ed economiche, cit., 3:
all'art. 2 della Direttiva viene sicuramente descritto un danno non tradizionale o danno ambientale (anche
se in alcuni punti della Direttiva ci sono ancora riferimenti al danno alla salute e di riflesso al danno
ambientale) come nella legge statunitense CERCLA (Comprehensive Enviromental Response,
Compensation and Liability Act del 1980) dove si dispone la risarcibilità del danno causato alle risorse
naturali, indipendentemente dalla lesione di altri diritti individuali.
(15) Allegato 4 del Codice dell'ambiente.
(16) Il 14° considerando della Direttiva dispone che per danno significativo (Significant Enviromental
Damage-SED) si intende un danno che compromette lo stato favorevole di conservazione della
biodiversità, l'inquinamento delle acque, il danno che pregiudica la salute dell'uomo in seguito ad una
delle due precedenti categorie o per contaminazione terrestre.
(17) Cfr. POZZO, Responsabilità per i danni all'ambiente: valutazioni giuridiche ed economiche, cit., 6-9,
nota 2 e par. 3 di questo articolo.
(18) Ora denominato Ministero dell'Ambiente e della tutela del territorio e del mare.
(19) Essa si può definire come "espressione di un potere di autotutela, quale potere della Pubblica
Amministrazione di perseguire, in via coattiva, il soddisfacimento dei propri diritti senza il previo ricorso
all'autorità giudiziaria", BENEDETTI, Il risarcimento del danno ambientale tra tutela giurisdizionale e poteri
di autotutela amministrativa, in Ambiente e sviluppo, n. 5/2006, 467.
(20) L'art. 439 legge finanziaria stabiliva, invece, in maniera approssimativa, che, nel caso in cui si
accerti un danno ambientale e non siano avviate le procedure di ripristino ai sensi della normativa
vigente, il Ministro dell'ambiente deve emettere ordinanza immediatamente esecutiva per il risarcimento
in forma specifica o per il ripristino della situazione ambientale preesistente. Se ciò non è possibile,
oppure eccessivamente oneroso ex art. 2058 c.c., o il danneggiante non provveda al ripristino nel termine
prescritto, pagherà una somma pari al valore economico del danno accertato (contra cfr. Sez. Un. civ., 25
gennaio 1989, n. 440, in Corr. giur., 1989, 505, con nota di GIAMPIETRO, Il risarcimento del danno
ambientale davanti alle Sezioni Unite civili).
Il ricorso contro l'ordinanza del Ministero dell'ambiente poteva essere fatto al TAR entro 60 gg. o al
Presidente della Repubblica entro 160 g.
(21) GIAMPIETRO, La responsabilità per danno all'ambiente: la concorrenza delle giurisdizioni, in Danno
resp., 2007, 725.
(22) È fondamentale ribadire che l'ambiente deve essere valutato come bene e valore in sé, non i singoli
beni nei quali si sostanzia (v. nota 2 e par. 3 di questo articolo), per questa ragione si criticava il metodo
di monetizzazione che era previsto nella finanziaria ed anche la mancanza di spunti per una sua
autonoma quantificazione. Il Codice dell'ambiente cerca di dare una soluzione a tale problematica, cfr. DE
MARZO, Il risarcimento del danno ambientale nella legge finanziaria 2006, in Danno resp., 2006, 121;
GIAMPIETRO, La minidisciplina del danno ambientale nella legge finanziaria n. 266/2005, in Ambiente &
Sviluppo, 2006, 2, 107; GIAMPIETRO, La responsabilità per danno all'ambiente in Italia: sintesi di leggi e di
giurisprudenza messe a confronto con la Direttiva 2004/35/CE e con il T.U. Ambientale, in Riv. giur.
amb., 2006, I, 32. Anche l'originario schema di decreto legge conteneva uno spunto interessante, infatti,
come parametro della valutazione equitativa del giudice si collocava anche il profitto del trasgressore, che
dimostrava un avvicinamento ad una logica riparatoria più che sanzionatoria e punitiva, in LIGUORI, Il
risarcimento del danno ambientale tra indicazioni comunitarie e prospettive di recepimento, in Danno
resp., 2005, 1165. Soluzioni in questo senso sono state dettate nel Libro Bianco che riprende a sua volta
un principio presente nella Convenzione di Lugano, stabilendo che la qualificazione del danno debba
basarsi sui costi delle soluzioni alternative, finalizzate all'introduzione nell'ambiente di risorse equivalenti
a quelle distrutte e, quindi, non un semplice risarcimento del danno.
(23) Cfr. BESSONE, Prodotti dannosi e responsabilità dell'impresa, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1974, 138
ss., per cui "è significativo constatare che i principi di responsabilità obiettiva per defective products (nel
nostro caso per quanto riguarda il danno all'ambiente) maturano negli anni in cui un ulteriore incremento
della redditività delle industrie rende tollerabile ulteriori oneri, assicurando al pubblico una più ampia
tutela che modifica l'equilibrio tra ricavi e costi delle imprese, senza tuttavia renderne antieconomica la
gestione. In questa prospettiva, con l'accreditarsi dei principi di responsabilità oggettiva, si concreta una
disciplina legale che concentra i suoi strumenti in un meccanismo di reintegrazione del patrimonio dei
danneggiati più efficiente di quanto non lo siano le misure preventive. Infatti, è vero che la sopportazione
del costo dei danni provocati in passato esercita sull'impresa una forte pressione perché in futuro ne sia
ridotto il volume, ma è anche vero che il divario tra ricavi e costi favorito da processi produttivi accelerati
dall'assenza di controlli e resi più economici dal ricorso a tecniche rischiose talvolta può assicurare
margini di profitto tali da compensare le passività dovute al risarcimento dei danni causati. In questo
senso un regime di larga compensation (sollevare la vittima dalla perdita che ha subito) dei danneggiati
denuncia un limitato potere di deterrence (potere deterrente del soggetto responsabile). A veder bene, lo
squilibrio tra compensation e deterrence tradisce ancora una volta l'incidenza delle strutture economiche
sul sistema di responsabilità civile. In astratto non è difficile ideare misure di controllo capaci di esercitare
una deterrence maggiore di qualsiasi onere di risarcimento. La più razionale risposta all'esigenza di
contenere il costo sociale delle imprese sta appunto nel ridurre quanto più possibile l'entità di ricchezza
distrutta nei vari rami di industria, ma l'economia del sistema dimostra che un'alternativa al regime
attuale esiste solo in apparenza. La singola impresa non può, infatti, spingere il controllo al di là di certi
limiti senza che l'accrescersi degli oneri di gestione si traduca in aumento dei prezzi tale da renderne
scarsamente competitivi i prodotti. In questo senso un miglior regime di prevenzione potrebbe essere
assicurato solo da controlli imposti all'insieme delle imprese in ciascun ramo dell'industria".
(24) GALGANO, Le obbligazioni e i contratti, vol. II, Diritto civile e commerciale, Padova, 1999.
(25) Per responsabilità oggettiva si intende una responsabilità che prescinde dal dolo e dalla colpa e che
richiede il solo rapporto di causalità tra il fatto proprio e l'altrui evento dannoso, rapporto che si basa
sulla regolarità statistica che rende prevedibile un dato effetto come conseguenza del verificarsi di una
causa.
(26) Cfr. POZZO, Responsabilità per i danni all'ambiente: valutazioni giuridiche ed economiche, cit., 20-23,
nella legge tedesca si è introdotto un sistema di responsabilità oggettiva per tutti i danni causati alla
salute e all'integrità sia delle persone che delle cose, che siano state la conseguenza di una immissione
nociva nell'ambiente, tranne nel caso di forza maggiore oppure quando vi sia un danno irrilevante o
prevedibile date le condizioni locali. Per quanto riguarda la legislazione americana il CERCLA prevede una
responsabilità di tipo oggettivo (strict), solidale (joint & several) e retroattiva (retroactive) nei confronti
del potentially responsible parties; la legislazione americana è molto severa e i produttori saranno quindi
responsabili, oltre che per i costi di clean up, anche per i danni arrecati alle risorse naturali (natural
resouorces damages) e gli unici casi in cui non saranno responsabili sono quelli di forza maggiore, guerra,
atto vandalico.
(27) Anche se in alcuni casi nella Direttiva 2004/35/CE si introduce una responsabilità per dolo o colpa
"per quanto riguarda i danni alle specie e gli habitat protetti causati da una attività non compresa
nell'allegato III e a qualsiasi minaccia imminente di tale danno a seguito di una di dette attività, in caso
di comportamento doloso o colposo dell'operatore" e nel caso in cui il danno sia stato causato da
un'emissione autorizzata o che il polluter provi non essere stato causa del danno ambientale (art. 8,
comma 4, lett. a), b).
(28) Cfr. POZZO, Responsabilità per i danni all'ambiente: valutazioni giuridiche ed economiche, cit., 23. La
giurisprudenza americana ha introdotto profondi cambiamenti per risolvere il problema del nesso di
causalità: innanzitutto ha creato la alternative liability theory per cui "nell'ipotesi in cui la condotta di due
o più soggetti è illecita, se è provato che il danno è stato causato alle vittime da uno solo di essi, ma vi è
incertezza in ordine a chi lo abbia causato, ognuno dei soggetti ha l'onere di provare che egli non abbia
causato il danno: si potrebbero coinvolgere nel procedimento gli eventuali inquinatori od emittenti di
determinate sostanze nell'ambiente, senza però dover provare chi fossero i responsabili in
concreto" (caso Summer).
Nel caso in cui i danneggianti non siano tutti identificabili si può introdurre una joint and several liability
in capo a coloro che avessero agito d'accordo o seguendo un piano comune per commettere un atto
illecito; anche nel caso in cui solo alcuni di questi soggetti fossero realmente gli autori del danno sulla
scorta dell'argomentazione che, anche colui che fosse dichiarato responsabile non fosse il vero autore, la
sua azione avrebbe dovuto in ogni modo ritenersi agevolatrice di quella del vero colpevole.
Da ultimo è stata applicata la preponderance of the evidence rule per cui l'attore deve fornire i mezzi in
base ai quali la giuria si possa convincere che l'esistenza del fatto contestato è più probabile della sua
inesistenza (market share liability); nel caso di donne ammalatesi di cancro in seguito all'esposizione al
farmaco Des si profilò un'inversione dell'onere della prova, ma con la differenza che il convenuto, che non
avesse potuto provare la sua estraneità, dovesse essere considerato responsabile in proporzione alla
quota di mercato del prodotto incriminato. Alcuni hanno parlato di pollution share liability ovvero il
danneggiato doveva citare in giudizio più emittenti possibili e questi sarebbero stati responsabili per una
quota di inquinamento da loro provocata.
(29) Per un confronto tra l'art. 18 e l'art. 2043 c.c. cfr. SALVI, La tutela civile dell'ambiente alla luce del
testo unico ambientale, in questa Rivista, 2007, 657; FRANZONI, Il danno all'ambiente, in Contratto impr.,
1992, III, 1019; PRATI, Le criticità del nuovo danno ambientale: il confuso approccio del "Codice
dell'Ambiente", in Danno resp., 2006, 1049.
(30) SALANITRO, Danni temporanei all'ambiente e tutela degli interessi privati: un problema di ingiustizia
del danno, in Danno resp., 2008, 416; SALVI, La tutela civile dell'ambiente alla luce del testo unico
ambientale, cit.
(31) ANTOLISEI, Il rapporto di causalità nel diritto penale, Padova, 1934; STELLA, Leggi scientifiche e
spiegazione causale nel diritto penale, Milano, 1990; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, V ed., Bologna,
2004; FORCHIELLI, Il rapporto di causalità nell'illecito civile, Padova, 1960; TRIMARCHI, Causalità e danno,
Milano, 1967; REALMONTE, Il problema del rapporto di causalità nel risarcimento del danno, Milano, 1967;
CARBONE, Il rapporto di causalità, in ALPA-BESSONE (a cura di), La responsabilità civile, una rassegna di
dottrina e giurisprudenza, Torino, 1987, 139; MONATERI, Nesso causale e determinazione della
responsabilità, nota a Cass. civ., 19 luglio 1982, n. 4236, in questa Rivista, 1983, 456. Per quanto
riguarda la responsabilità oggettiva per danno ambientale cfr.: Cass. civ., 1 settembre 1995, n. 9211, con
nota di FEOLA, Discarica abusiva e danno all'ambiente: applicazione retroattiva dell'art. 18 L. 349/86 e
responsabilità (solidale) dei produttori di rifiuti e del proprietario locatore della discarica, in questa
Rivista, 1996, 112; TRIMARCHI, Per una riforma della responsabilità civile per danno all'ambiente, Milano,
1994; BRIGANTI, Considerazioni in tema di danno ambientale e responsabilità oggettiva, in Rass. dir. civ.,
1987, 289; POZZO, Verso una responsabilità civile per danni all'ambiente in Europa: il nuovo libro bianco
della Commissione delle Comunità europee, in Riv. giur. amb., 2000, 623; CENDON-ZIVIZ, L'art. 18 della l.
n. 346/1989 nel sistema della responsabilità civile, in Riv. crit. dir. priv., 1987, 538.
(32) Suggestiva è la tesi del Comporti: "il ricorso alla tutela civilistica aquiliana in materia di inquinamenti
non è solo il mezzo di riparazione dei danni subiti dalle vittime ma anche una notevole remora contro gli
inquinatori per gli oneri economici dei risarcimenti dovuti, oneri che possono essere di rilevante entità,
generalmente superiore a quella delle sanzioni pecuniarie amministrative o penali. Il fatto dannoso
inquinante deve essere imputato, in vista dell'effetto risarcitorio ad un soggetto che ha subito un danno
(danno alla vita nell'ambiente) attraverso i criteri di imputazione stabiliti dall'ordinamento. Si tratta allora
di scegliere i criteri e le concezioni più moderne in tema di responsabilità civile, abbandonando l'unicità
del criterio della colpa", COMPORTI, in Responsabilità civile e inquinamento, in Tecniche giuridiche e
sviluppo della persona, a cura di LIPARI, Bari, 1974.
(33) MONTI, L'assicurabilità del rischio ambientale in prospettiva europea, in La nuova responsabilità civile
per danno all'ambiente: le problematiche italiane alla luce delle iniziative dell'Unione Europea, a cura di
POZZO, Milano, 2002, 207; POLI,Assicurazione e danni da inquinamento nelle Convenzioni Internazionali e
nella Direttiva Comunitaria, in Danno resp., 2005, 701; POZZO, Responsabilità per i danni all'ambiente:
valutazioni giuridiche ed economiche, cit., 32 ss.
(34) Cfr. MONTI,op. cit.: può succedere che a causa delle poche informazioni il premio assicurativo, fissato
in base alla media dei rischi, verrà considerato eccessivo per quei soggetti che pongono un rischio
inferiore alla media e molto conveniente da chi, rispetto alla media, è più a rischio. Inoltre la mancanza di
informazioni durante il contratto assicurativo può far sì che l'assicurato, disincentivato dalla sicurezza
derivante dalla copertura, abbassi la guardia nella prevenzione dei danni (moral hazard).
(35) Cfr. POZZO, Responsabilità per i danni all'ambiente: valutazioni giuridiche ed economiche, cit., 32 ss.;
e MANDÒ, L'assicurazione per i danni da inquinamento ambientale dopo l'art. 18 della l. 349/86, in Riv.
crit. dir. priv., 1988, 809.
(36) Come confermato anche da Trib. Napoli, 12 gennaio 2007, in Giur. merito, 2007, 802, che però
precisa "i molteplici profili di valenza del danno all'ambiente secondo l'art. 300 non escludono in astratto
ulteriori connotazioni di danno riconducibili ad altri titolari, per i quali, pertanto, non può elidersi in via
pregiudiziale la legittimazione attiva degli stessi enti territoriali, associazioni, singolo o privati". Quindi, va
osservato che la riserva in capo al Ministero dell'ambiente disposta dalla nuova normativa non è poi così
assoluta.
(37) Sul ruolo delle associazioni ambientaliste nella l. n. 349/1886, cfr.; LANDI, La tutela processuale
dell'ambiente, Padova, 1991, 40; AINIS, Questioni di "democrazia ambientale": il ruolo delle associazioni
ambientaliste, in Riv. giur. amb., 1995, 217; TARUFFO, La legittimazione ad agire e le tecniche di tutela
nella nuova disciplina del danno ambientale, in Riv. crit. dir. priv., 1987, 429; BELTRAME, Danno
all'ambiente: l'intervento in giudizio degli enti territoriali e delle associazioni ambientaliste, in Riv. giur.
amb., 2002, I, 129, nota a Trib. Venezia, 12 giugno 2001: "La giurisprudenza civile ha risolto il quesito
nel senso che gli enti territoriali vantano, in virtù delle disposizioni in esame che contengono l'esplicita
configurazione del danno ambientale, la legittimazione all'esercizio dell'azione risarcitoria anche degli enti
territoriali e l'espressa attribuzione della competenza giurisdizionale al giudice ordinario, una posizione
qualificabile come di diritto soggettivo legittimante, quindi, l'azione di danno come concorrente con quella
dello Stato".
(38) "Le associazioni di protezione ambientale a carattere nazionale e quelle presenti in almeno cinque
regioni sono individuate con decreto del Ministro dell'ambiente sulla base delle finalità programmatiche e
dell'ordinamento interno democratico previsti dallo statuto, nonché della continuità dell'azione e della sua
rilevanza esterna, previo parere del consiglio nazionale per l'ambiente da esprimere entro 90 giorni dalla
richiesta. Decorso tale termine senza che il parere sia stato espresso, il Ministro dell'ambiente decide".
(39) Per una recente sentenza sul ruolo delle associazioni ambientaliste, cfr. TAR Piemonte, Sez. II, 26
maggio 2008, n. 1217, in www.lexambiente.it.
(40) Art. 18, comma 5, "le associazioni individuate in base all'art. 13 della presente legge possono
intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per
l'annullamento di atti illegittimi"; comma 4, "le associazioni di cui al precedente art. 13 e i cittadini, al
fine di sollecitare l'esercizio dell'azione da parte di soggetti legittimati, possono denunciare i fatti lesivi di
beni ambientali dei quali siano a conoscenza".
(41) La finanziaria non faceva alcun cenno alla regolamentazione delle associazioni ambientaliste, quindi,
si deduce che esse potessero adire giudice ordinario e giudice amministrativo (e ovviamente ricorso
presso il Presidente della Repubblica), ma è molto difficile trovare un raccordo tra i due giudizi: l'art. 440
non istituiva una correlazione tra le due controversie, se non sancendo che il fatto del ripristino o del
pagamento del ristoro impediva ulteriori aggravi di costo (la norma mira ad impedire, pur senza abrogare
l'art. 18 della l. n. 349/1986, una duplicazione di ristoro).
(42) Nella vicenda dei fanghi rossi di Scarlino (Corte conti, Sez. I, 9 ottobre 1979, n. 81, in Foro it.,
1979, III, 593; Corte conti, Sez. riun., 10 giugno 1984, n. 378/A, in Foro it., 1985, 37, con nota di
VERRIENTI), concernente il giudizio di responsabilità promosso dal Procuratore generale della Corte dei
conti contro il Comandante pro tempore della capitaneria di Porto di Livorno ed il direttore del Laboratorio
centrale di idrobiologia del Ministero dell'agricoltura e delle foreste, per avere autorizzato scarichi in mare
di residui altamente inquinanti, derivanti dalla produzione del biossido di titanio dello stabilimento di
Scarlino della Montacatini Edison S.p.A., si nega la giurisdizione contabile della Corte dei conti per pretese
risarcitorie nei confronti di funzionari che abbiano dolosamente o colposamente cagionato pregiudizio
all'ambiente, trattandosi di azioni devolute alla cognizione del giudice ordinario. Importante a questo
proposito è, inoltre, la vicenda Seveso, 10 luglio 1976 (Corte conti, Sez. I, 19 gennaio 1979, in Foro it.,
1979, III, 138); nel caso in questione la fuoriuscita di diossina da uno stabilimento industriale aveva
causato un danno all'ambiente, ma un danno anche agli abitanti e lavoratori della zona: Sez. Un. civ., 21
febbraio 2002, n. 2515, in questo Rivista, 2002, 727, con nota di FEOLA, Il prezzo dell'inquietudine: il caso
"Seveso" torna in Cassazione. Per un approfondimento del concetto di disastro ambientale, cfr. COCCO, Il
disastro ambientale (art. 434 c.p.), in questa Rivista, 2008, 1334.
(43) Cfr. nota n. 2; in questa sentenza la Corte costituzionale afferma la immaterialità del danno
ambientale come diritto assoluto, la sua rilevanza economica, il suo carattere pubblicistico.
(44) In Giur. cost., 2007, 6.
(45) FERRARI,Il danno ambientale in cerca di giudice e di interpretazione: l'ipotesi dell'ambiente valore, in
Regioni, 1988, 525; ed anche Trib. Venezia, 12 giugno 2001, in Riv. giur. amb., 2002, 124, con nota di
BELTRAME.
Archivio selezionato: Dottrina
Le politiche ambientali in Italia nella transizione del Ventesimo secolo
Riv. giur. ambiente 2008, 05, 755
JOSÉ LUIS BERMEJO LATRE (*)
1. Percorso evolutivo e valutazione generale. 2. I principali indicatori della normativa ambientale italiana.
2.1. Qualità dell'aria e monitoraggio dell'inquinamento atmosferico. 2.2. Inquinamento acustico. 2.3.
Qualità delle acque e protezione del suolo contro l'erosione e l'inquinamento. 2.4. Gestione,
valorizzazione e smaltimento dei rifiuti. 2.5 La tutela del paesaggio. 2.6. La protezione della biodiversità: