ON MELCHIOR CESAROTTI’S SAGGIO SULLA
FILOSOFIA DELLE LINGUE
Rainer Guggenberger
Universidade Federal do Rio de Janeiro
Rio de Janeiro, RJ – Brasil
ORCID 0000-0003-0543-2606
Riassunto
Melchior Cesarotti è stato uno dei protagonisti illustri che si sono occupati della
Questione della Lingua nel tempo dell’Illuminismo Italiano. Facendo una lettura
attenta di tipo close reading utilizzando il metodo dell’analisi del discorso, questo articolo ricalca le tesi centrali e le motivazioni di Cesarotti e dimostra la loro
importanza nel processo dello sviluppo di una lingua nazionale italiana. Il merito
del Cesarotti non è di avere superato il linguaggio delle tre corone fiorentine come
modello di lingua scritta, ma di avere introdotto la libertà di arricchirlo con termini
nuovi, derivanti dalla parte nobile di tutti gli idiomi italiani e stranieri.
Parole chiave: Cesarotti; Saggio Sulla Filosofia Delle Lingue; Questione Della
Lingua; Storia Della Lingua Italiana; Lingua Nazionale.
Resumo
Abstract
Melchior Cesarotti foi um dos protagonistas ilustres que trataram da chamada
Questione della Lingua no tempo do
Iluminismo Italiano. Realizando uma
leitura atenta do tipo close reading
e utilizando o método da análise do
discurso, este artigo resume as teses
centrais e as motivações de Cesarotti e
demonstra a sua importância no processo do desenvolvimento de uma língua
nacional italiana. O mérito de Cesarotti
Melchior Cesarotti was among the most
famous protagonists who contributed
to the Questione della Lingua during
the Italian Enlightenment. Through a
close reading process, using the method
of discourse analysis, this paper aims
to retrace the central theses and the
motivations of Cesarotti, and to show
their importance within the process of
the development of a national italian
language. The merit of Cesarotti was
1 Ringrazio Prof. Mauro Rombi di avere corretto il testo.
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RAINER GUGGENBERGER | Sul saggio sulla filosofia...
https://dx.doi.org/10.1590/1517-106X/211343359
ARTIGOS
SUL SAGGIO SULLA FILOSOFIA DELLE
LINGUE DI MELCHIOR CESAROTTI1
não é de ter superado a linguagem das
tre corone fiorentine como modelo da
língua escrita, mas sim de ter introduzido a liberdade de enriquecê-la com
novos termos que derivassem das partes
nobres de todos os idiomas italianos e
estrangeiros.
not to have excelled the language of the
tre corone fiorentine as model of written
language, but to have come up with the
freedom to enrich the italian language
with new terms, deriving from the
noble part of all idioms spoken in the
Italian territory.
Palavras-chave: Cesarotti; Saggio Sulla
Filosofia Delle Lingue; Questione Della
Lingua; História Da Língua Italiana;
Língua Nacional.
Keywords: Cesarotti; Saggio Sulla
Filosofia Delle Lingue; Questione
Della Lingua; History Of The Italian
Language; National Language.
Studiando la linguistica italiana, e soprattutto la storia della
lingua italiana con la sua assai discussa questione della lingua, si vede
apparire qua e là il nome di uno studioso del Settecento, che è introdotto nelle diverse “storie della lingua italiana” molto spesso in modo
superficiale2, tanto che si sa su di lui quasi soltanto il fatto che ha
contribuito alla questione della lingua.3 L’accesso alle sue opere è scarso
e difficile, ragione per cui abbiamo scelto di citare per esteso, come si
vede nelle note a piè di pagina.
Stiamo parlando del padovano Melchior (o Melchiorre) Cesarotti, che, nato nel 1730 e morto nel 1808, fu professore di retorica
e di lingua greca ed ebraica. Scrisse il suo Saggio sulla filosofia delle
lingue, di cui vuole trattare questo articolo, nel 1785. La versione
più vecchia che abbiamo trovato è quella del 1800, anno in cui il
Saggio fu pubblicato nella sua stesura rivista e definitiva. L’edizione
di Sansoni del 1943, da noi usata, è coincidente con quella del 1800,
salvo qualche variazione grafica. A causa del Saggio sulla filosofia delle
2 Raramente il suo nome compare anche in saggi: per esempio in Natali, 1962, p. 127.
3 Che Cesarotti era anche un importante traduttore dimostra per esempio Costa, 1981, p.
3. Rispetto al ruolo della traduzione Denes Rosser espone: “In the eighteenth century, in
fact, the questione della lingua went through one of its most lively and productive phases.
While Italian scholars struggled to give their language a national uniformity and identity,
they resorted to translations in order to have a clearer view of what were the actual limits
of their own mother tongue and of what kind of improvements they could expect from
such a comparison with other languages.” (1986, p. 48).
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lingue, il Cesarotti merita senz’altro di essere considerato un lucido
proto-sociolinguista.
Con il Cesarotti ci troviamo in un periodo in cui la letteratura italiana, già da quasi 200 anni, non poteva più vantare di avere
un letterato di grande prestigio.4 Lo spazio della lingua italiana nella
letteratura internazionale del Settecento era quasi limitata ai libretti
delle opere e alle commedie dialettali. Soprattutto nell’ambito della
scienza, dopo Galilei, non si trovavano pubblicazioni degli italiani in
italiano, e la situazione nelle lettere – soprattutto nel rapporto con
la feconda Francia –, a parte Vico, non fu molto migliore: “La prosa
italiana non è […] giunta all’apica di gloria conseguito dalla poesia.”
(SCHIAFFINI, 1937, p. 289).
Nell’opinione del Cesarotti tutto questo ebbe in gran parte
a che fare con la lingua letteraria antiquata, dovuta a una politica
linguistica molto rigida. Che la lingua volgare, usata quasi esclusivamente dagli scrittori di certe regioni dell’Italia di oggi, ebbe una
patina di parole obsolete, che la rese inadeguata per servire a tutti i
bisogni degli scrittori, fu una convinzione di tanti intellettuali del
Settecento.5 Confrontato con il fatto che pure gli scrittori avvertissero di scrivere in una lingua morta, che impediva di esprimere le
proprie idee, formulate in un’età moderna che non aveva molto in
comune con il Trecento medievale, quasi unica fonte della lingua
volgare, Cesarotti presentò le sue proposte con lo scopo di combattere
le opinioni che “impediscono costantemente il miglioramento della
lingua“ (CESAROTTI, 1943, p. 7), la qual cosa credette necessaria
per il progresso illuminista e la modernizzazione della società italiana.
“La diffusione della mentalità e della cultura illuministica, con le
loro esigenze di razionalità, di chiarezza, di efficacia, di divulgabilità,
4 “Carlo Botta […] dice […] che la letteratura italiana, verso il 1789, ‘non era che una
servile e sconcia imitazione della letteratura francese’, e ne dà ingiustamente colpa a ‘un
uomo cui la natura aveva dato un ingegno smisurato, e che poteva essere il ristauro, e
pure fu quasi del tutto la ruina dell’italiana letteratura’. Non si peritava il Foscolo di unire
quest’uomo, che è il Cesarotti, al Parini e all’Alfieri, giudicandolo benemerito del rinnovamento letterario.” (NATALI, 1964, p. 482).
5 “L’Algarotti [nella metà del Settecento; R.G.] lamenta che la lingua dei nostri antichi,
quella che fu perfezionata da Dante, Boccaccio, Villani, Petrarca e dai loro seguaci del
Cinquecento, non sia mai diventata comune a tutta l’Italia, ma ai soli studiosi e letterati,
e oggi suoni agli orecchi di ‘tutte le ben educate persone, e ben nate’, e specialmente delle
donne, come morta o straniera.” (PUPPO, 2011, senza paginazione).
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aveva fatto avvertire in maniera sensibile la inadeguatezza della prosa
letteraria tradizionale” (PUPPO, 1969, p. 13).
La prima parte del Saggio sulla filosofia delle lingue:
La relazione fra i dialetti e le lingue nazionali
Il Saggio sulla filosofia delle lingue consiste in quattro parti, di cui saranno prese in considerazione la prima e la quarta per
dare un’idea concreta delle riflessioni di partenza e per presentare le
proposte e conclusioni definitive di Cesarotti riguardo alla questione
della lingua. La prima parte, intitolata “Si confutano alcuni pregiudizj
(sic) che regnano intorno le lingue”, nomina sei errori, ossia false opinioni, che circolavano e circolerebbero ancora fra i dotti italiani dal
Trecento, e soprattutto nel Cinquecento, fino al Settecento. Seguono
poi queste opinioni e le rettificazioni del Cesarotti.
In primo luogo si suddividono le lingue in due campi: le
lingue di alto prestigio, che si parlano nelle nazioni di alta cultura; e
il resto delle lingue, che sono considerate “barbare”.6 Qui, il Cesarotti
ancora non parla dei dialetti o delle zone privilegiate dell’Italia stessa.
La risposta del Cesarotti è che “[n]iuna lingua originariamente non
è né elegante né barbara, niuna non è pienamente e assolutamente
superiore ad un’altra: poiché tutte nascono allo stesso modo“ (CESAROTTI, 1943, p. 8). Le lingue, dice il Cesarotti, sono sempre formate
dal popolo.7 Sembra che il Cesarotti abbia applicato i principi della
rivoluzione francese – si pensi che la prima edizione del suo Saggio fu
pubblicata nel 1785, e l’edizione definitiva nel 1800 – alla natura delle lingue: tutte sono uguali e come fratelli abili ad una socializzazione
e mescolanza. Per questo il Cesarotti postula che
[...] tutte [le lingue; R.G.] servono ugualmente agli usi
comuni della nazion (sic) che parla, tutte sono piacevoli
agli orecchi del popolo per cui son fatte, tutte sono suscettibili di coltura e di aggiustatezza […] tutte si vincono
6 “fra le lingue altre abbiano qualche peccato d’origine, altre il privilegio speciale della nobiltà […] per la sola ragione che appartengono a qualche privilegiata nazione; […] le
altre […] incapaci d’essere abbastanza civilizzate, o purgate della loro intrinseca ruggine”
(CESAROTTI, 1943, p. 7-8).
7 “ogni lingua è sempre formata dal popolo” (CESAROTTI, 1943, p. 9).
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e si cedono reciprocamente in qualche pregio particolare,
tutte infine hanno difetti che danno luogo a qualche
bellezza (CESAROTTI, 1943, p. 9).
Siccome tutte le lingue hanno, per il Cesarotti, in fondo
lo stesso valore o almeno la potenzialità di averlo, non ha senso di
litigare se l’una o l’altra, se le antiche o le moderne, o se la propria o la
lingua straniera8 siano le migliori. (CESAROTTI, 1943, p. 8)
In secondo luogo “si confonde colla lingua il dialetto
dominante nella nazione” (CESAROTTI, 1943, p. 17). Il Cesarotti
chiarifica che “[l]a lingua appartiene alla nazione, il dialetto alla provincia. La lingua si forma di ciò ch’ella ha di comune, il dialetto di ciò
che v’è di particolare. La lingua scritta è sempre più colta e più nobile
di qualunque dialetto.” (CESAROTTI, 1943, p. 17). I fattori distintivi del dialetto da un lato e della lingua dall’altro sono quindi: a) lo
spazio regionalmente limitato dell’uso del dialetto; b) che il dialetto
è particolare, ossia sui generis, mentre la lingua (nazionale) dovrebbe
consistere dalle parti più nobili di dialetti vari; c) che stilisticamente
la lingua (nazionale) dovrebbe essere più ricercata in confronto a ogni
dialetto.
In terzo luogo “si credono tutti gli altri [idiomi; R.G.]
indegni di confluire all’incremento ed abbellimento” di una certa
lingua perché “si suppone che tutte le lingue siano reciprocamente
insociabili” (CESAROTTI, 1943, p. 8) e in quarto luogo si crede
“che il […] massimo pregio [delle lingue; R.G.] sia la purità” (CESAROTTI, 1943, p. 8), da dove viene il quinto errore, cioè che “si fissa
la perfezione d’ogni lingua ad un’epoca particolare per lo più remota,
dalla quale quanto più si scosta, tanto più si degrada” (CESAROTTI,
1943, p. 8). Il Cesarotti quindi attacca le sentenze centrali dei classicisti e dei puristi e dichiara come contropostulato: “La lingua scritta
dee considerarsi come il compimento e la perfezione della parlata, dovendo essa aggiungere alla regolarità ed alla scelta che le sono proprie,
8 “L’apertura europeistica è legata nel Cesarotti al vivace sentimento della libertà dello scrittore, il quale, per esprimere nella maniera piú precisa ed efficace il suo pensiero, ha il diritto di attingere le proprie espressioni a qualsiasi fonte ritenga opportuna. Si può anzi dire
che la coscienza della vita inesauribile del linguaggio e la difesa della libertà dello scrittore
siano i due motivi fondamentali del Saggio sulla filosofia delle lingue. Essi sono strettamente connessi, perché il primo costituisce la premessa del secondo.” (PUPPO, 1969, p. 14).
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la franchezza e la fecondità che caratterizzano l’altra.” (1943, p. 18)
La lingua scritta deriva dalla parlata, cioè originariamente dai dialetti
che spesso erano mal visti dai classicisti e dai puristi: perfezionandola,
è necessario servirsi della franchezza e fecondità della parlata.9 Contro
la pretesa della purezza da parte dei classicisti e dei puristi, il Cesarotti
constata che:
[...] [n]iuna lingua è pura […] poiché una lingua nella
sua primitiva origine non si forma che dall’accozzamento
di varj idiomi […] Questa originaria mescolanza d’idiomi nelle lingue si prova ad evidenza dai sinonimi delle
sostanze, dalla diversità delle declinazioni e conjugazioni,
dall’irregolarità dei verbi, dei nomi, della sintassi, di cui
abbondano le lingue più colte. Quindi la supposta purità
delle lingue, oltre che è affatto falsa, è inoltre un pregio
chimerico, poiché una lingua del tutto pura sarebbe la
più meschina e barbara di quante esistono, e dovrebbe
dirsi piuttosto un gergo che una lingua (CESAROTTI,
1943, p. 10).
Da ciò risulta che le lingue non possono essere “insociabili”
tra di loro10 e dunque possono d’altra parte anche servire per l’abbellimento e l’incremento reciproco. L’interscambio delle lingue è visto
come un tipo di promiscuità produttiva e come mezzo di integrare
democraticamente un crescente numero di parlanti dentro un’unione
nazionale.
Per capire meglio come il Cesarotti si figura l’origine delle
lingue serve una sua nota a piè di pagina, dove spiega:
Finché una famiglia, o una tribù vive isolata, non ha che
un idioma povero, e pressoché un gergo. Pochi nomi, e
molto linguaggio d’azione bastano a‘ suoi scarsi bisogni
[…] Convien che molte tribù s’accostino insieme e
formino un popolo, perché ne risulti una vera lingua.
Quindi ella fin dal suo nascere è una mescolanza d’idiomi
9 Il Cesarotti voleva formare “di tutti gli elementi stranieri e indigeni della conversazione
italiana una lingua animata, armonica, vicina al linguaggio parlato, intelligibile dall’un
capo all’altro d’Italia.” (DE SANCTIS, 1961, p. 767).
10 “Poiché […] molti idiomi confluirono a formar ciascheduna lingua, è visibile che non
sono tra loro insociabili“ (CESAROTTI, 1943, p. 10).
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talora dissonanti e discordi. (CESAROTTI, 1943, p. 10,
nota a piè di pagina 1)
La purezza quindi non si può trovare nel Trecento11 ma,
semmai, in un periodo non documentato con mezzi di registrazione, quindi molto prima dell’invenzione della scrittura. Il Cesarotti
enfatizza che il volgare, che presso i puristi è creduto l’essenza della
purezza della lingua volgare d’Italia, non sia che un mero risultato
della storia delle lingue, una confusione di tanti idiomi12. L’illusione
della purezza e l’adorazione della lingua letteraria del Trecento non
darebbero fastidio al Cesarotti se non ne risultasse che “s’immagina
che [la lingua; R.G.] giunta a quell’epoca [cioè al Trecento; R.G.] […]
sia ricca abbastanza per supplire a tutti i bisogni dello spirito”, con
l’effetto che “si declama contro qualunque innovazione, e si pretende
che la lingua possa e debba rendersi in ogni sua parte inalterabile”
(CESAROTTI, 1943, p. 8). È questo il grande danno che i puristi
causano: sbagliando nella convinzione che la lingua classica già basti
per soddisfare tutti i bisogni degli scrittori – perfino quelli degli scrittori moderni e innovatori –, non consentono delle novità linguistiche
necessarie per le innovazioni in tanti campi della vita, come vedremo
più tardi.
In sesto luogo, molti studiosi, e soprattutto l’Accademia
della Crusca, errano – secondo il Cesarotti – quando dichiarano che
“i termini […] non hanno veruna bellezza intrinseca, ma tutto il loro
pregio dipende dal trovarsi registrati in un qualche libro canonico”
(1943, p. 8). Secondo il Cesarotti esiste una bellezza intrinseca delle
parole che le persone e particolarmente gli scrittori con “orecchio,
sentimento, e giudizio proprio” (1943, p. 12) sono capaci di trovare.13
11 “[...] siamo avvezzi a riguardarle [cioè le parole del Trecento; R.G.] come italiane, ma non
potevano assaporarsi come tali dai coetanei che sapevano l’una esser provenzale, l’altra
francese o lombarda, oltre infinite latine.” (CESAROTTI, 1943, p. 134).
12 Inoltre sembra che il Cesarotti ritenga che quello che i grammatici qualificano irregolarità della sintassi, della composizione delle parole e della coniugazione sia il risultato di
questo processo di mescolanza d’idiomi che già sempre formò, forma e formerà le lingue.
13 Purtroppo, il Cesarotti non spiega come si sviluppi il buon gusto e in qual modo vengano
accertate le bellezze intrinseche delle cose. Senza dubbio, in questo caso l’Accademia della
Crusca, i puristi e i classicisti con i loro libri canonici hanno a disposizione un criterio
molto più concreto di quello di un invisibile gusto fatto con i giudizi vaghi e dipendenti
da colui che giudica. I giudici dei puristi sono i grammatici – anche il loro giudizio ri-
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Il problema che il Cesarotti ha con i grammatici è quello dei
loro principi14 e dell’illegittima autoreferenzialità nel loro processo di
stabilire le parole e la sintassi accettabili per fare parte del Vocabolario
della Crusca o delle grammatiche. Verso la fine della prima parte il
Cesarotti riassume il processo della codificazione della lingua volgare
nel Cinquecento e le sue conseguenze. Tutto comincia quando le
opere di alcuni scrittori di genio “diventano soggetto, non di esame,
ma di adorazione. Non basta che le loro parole, i loro tornj siano
felici e convenienti; devono essere gli ottimi fra tutti i possibili, anzi
gli unici assolutamente […] quindi se ne formano canoni” (CESAROTTI, 1943, p. 17). Gli adepti di questi scritti e scrittori quindi
creano un meccanismo letterario regolativo assoluto. Il problema è
che nonostante si riferiscano agli scritti spesso creativissimi e ai capolavori, bloccano quasi ogni innovazione linguistica quando trattano
quelle opere letterarie non soltanto come esemplari ma come ideali
assoluti e danno come regola incontestabile il fatto che non si deve
differire dalle espressioni da loro usate. Come se fosse impossibile che
anche un’altra epoca, e non solo il Trecento, fosse capace di offrire un
proprio stile. Purtroppo, i grammatici praticamente si vantarono della
loro mancanza di creatività. Ciò vuol dire che praticavano un conservatorismo linguistico assoluto, ponendo in pratica le loro regole
rigorosamente, quasi senza eccezione.15 “Quindi negli scritti predomina l’aria imitativa, la lingua non ha che un colore ed un tuono, e
ad onta della sua facoltà vitale e generativa, diventa sterile e morta.”
(CESAROTTI, 1943, p. 17).
Le principali critiche del Cesarotti
Il Cesarotti polemizza contro i grammatici che mantengono
una lingua artificialmente in vita, impedendo così ogni necessaria
modernizzazione della lingua italiana per quasi 300 anni. Tenta somane sempre parziale, ma almeno basato su testi già scritti, conosciuti e consolidati dal
tempo e dal giudizio di tanti scrittori e lettori.
14 “[...] finalmente si stabilisce per principio fondamentale che l’uso, l’esempio, e l’autorità
dei grammatici sono i legislatori inappellabili in fatto di lingua.” (CESAROTTI, 1943,
p. 8).
15 “[...] si fanno sostenitori di queste leggi, […] fanno loro un merito di non aver d’originale nemmeno un termine“ (CESAROTTI, 1943, p. 17).
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prattutto di confutare filosoficamente la ragionevolezza della prassi
dei grammatici di fare derivare tutta la lingua attuale da un uso del
passato, cioè dall’uso dei grandi scrittori del Trecento.
La lingua scritta, nella scelta delle parole e delle espressioni non dee nemmeno aderir ciecamente all’uso degli
scrittori approvati, né farsi una legge di non dipartirsi
dal loro esempio: perché non tutti gli scrittori furono
ugualmente colti, riflessivi, diligenti in fatto di lingua
(CESAROTTI, 1943, p. 18-19).
Partendo da questo fatto, il Cesarotti non soltanto sostiene
che non tutti gli scrittori approvati dall’Accademia della Crusca possedevano l’arte di scrivere bene, ma, implicitamente, mette in dubbio
il gusto dell’Accademia della Crusca per quanto riguarda la scelta di
alcuni scrittori. Il Cesarotti enfatizza come anche gli scrittori canonici
non avrebbero voluto che le loro opere avessero menomato la libertà
della lingua: “gli scrittori originali non intesero né di ricever la legge
né di darla agli altri, ma di far uso della comun libertà e del loro
proprio giudizio, senza pretender di togliere lo stesso diritto a quelli
che verrebbero dopo” (CESAROTTI, 1943, p. 19).
La lingua deve avere la libertà di adattarsi “ai bisogni dello spirito e della lingua.” (CESAROTTI, 1943, p. 19) Invece, che
cosa fanno i grammatici? “[N]iegano la cittadinanza ad una folla di
vocaboli moderni […] per la sola ragione che sono stranieri, o non
prima usati.” (CESAROTTI, 1943, p. 19) Per questo l’uso (letterario)
non deve essere mai l’unico e decisivo criterio di una lingua scritta,
perché altrimenti non ci sarebbero delle innovazioni, perché l’uso
deriva la sua autorità soltanto dal passato e perché ogni nuova parola
(oppure ogni nuovo significato di una parola già esistente) quando
appare o si presenta per la prima volta non avrebbe come fondo di
legittimazione la sua storia e quella del suo uso. Paradossalmente,
dunque, non soltanto i classicisti e puristi impediscono le innovazioni linguistiche, ma altrettanto lo fanno quelli che giudicano una
lingua soltanto dalla prospettiva dell’uso – come fece per esempio il
Manzoni che non prese abbastanza in considerazione il fatto che “[l]
a lingua scritta non dee ricever la legge assolutamente dall’uso volgare
del popolo.” (CESAROTTI, 1943, p. 18) L’uso, secondo il Cesarotti,
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“deve dominar nella lingua parlata, non nella scritta”, perché “[s]e
l’uso dovesse prendersi per norma verrebbero ad autorizzarsi tutte le
sconcordanze, le irregolarità, e le storpiature della pronunzia” (CESAROTTI, 1943, p. 18), da ciò risulterebbe anche un conflitto dei
vari usi. – Il Cesarotti critica anche il fatto che mentre i grammatici
venerano gli scrittori classici che hanno coniato termini nuovi, fanno
“per qualche strana metamorfosi ciò ch’era un merito negli antichi
[…] un delitto nei nostri” (CESAROTTI, 1943, p. 20), giustificando
questo paradossale comportamento con il richiamo all’epoca e alla
provincia a cui appartenevano.16
Nella terza parte del Saggio Cesarotti spiega che gli scrittori
moderni possono coniare termini nuovi sotto le seguenti promesse:
Quando un termine è conveniente all’idea, quando rappresenta vivamente l’oggetto o colla struttura de’ suoi
elementi, o con qualche somiglianza o rapporto; quando
inoltre è ben derivato, analogo nella formazione, non
disacconcio nel suono, di qualunque autore egli siasi, a
qualunque data appartenga, sia esso parlato, o scritto, o
immaginato, sarà sempre ottimo, e da preferirsi ad altri
insignificanti, strani, disadatti, che non abbiano altra
raccomandazione che quella del Vocabolario. (CESAROTTI, 1969, p. 68)
Inoltre il Cesarotti sottolinea che non fu la lingua nazionale
che gli scrittori classici usarono ma soltanto il dialetto dominante. Per
quanto riguarda il predominio di un dialetto, il Cesarotti ci presenta
un inventario dei suoi benefici e svantaggi:
Esso giova 1.° perché fissa in qualche modo l’anarchia
della pronunzia; 2.° perché accerta un sistema di costruzione, essendo meglio finalmente una sintassi, qualunque
siasi, che cento; 3.° perché comincia a render la lingua più
polita, invitando i più colti ad esercitarvisi; 4.° perché ne
facilita l’intelligenza agli stranieri, a cui basta d’apprender
un solo dialetto per profittar di ciò che in esso si scrive, e
16 “[...] gli scrittori approvati ebbero questo diritto perché appartenevano alla provincia del
dialetto dominatore” (CESAROTTI, 1943, p. 20).
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per intendere, ed esser inteso dalla classe più ragguardevole (CESAROTTI, 1943, p. 13)17.
Ciò che cominciava come una raccomandazione ossia una
giustificazione dell’uso di un dialetto dominante come lingua nazionale (scritta), finisce in rifiutare la prassi di imporre un dialetto a una
nazione, perché esso
[...] pregiudica per molti capi alla lingua. 1.° Perché
abbandona al volgo, e condanna all’incoltura e al dispregio altri dialetti non punto inferiori ad esso, e forse
talor più pregevoli; 2.° impoversice l’erario della lingua
nazionale, defraudandola d’una quantità di termini e di
espressioni necessarie, opportune, felici, energiche, che si
trovano negli altri dialetti; 3.° […] introduce le simpatie
e le antipatie grammaticali; 4.° autorizza le irregolarità e i
difetti già preesistenti in quel dialetto […] e produce false
nozioni d’urbanità e di barbarismo, deducendo le une e
le altre non dalla ragione, ma dall’uso (CESAROTTI,
1943, p. 13-14).
Primariamente dunque il dialetto predominante sarebbe
un’ingiustizia nei confronti degli altri dialetti, secondariamente non
offre al popolo di una nazione tutte le possibilità di esprimersi, terzo
si fa un modello di lingua autoritaria senza prendere come base dei
giudizi razionali. È interessante ragionare, partendo da queste osservazioni del Cesarotti, sulla natura delle grammatiche e dei loro effetti su
noi stessi. Perché rivela che gran parte dei nostri giudizi di correttezza
e incorrettezza di un’espressione, ossia la capacità di esprimerci in una
certa lingua – particolarmente anche nella propria madrelingua – non
sono basati su altro che su una simpatia e antipatia estratte dall’uso,
cioè su come abbiamo imparato la lingua, ma anche soprattutto sulle
simpatie e antipatie dei grammatici di cui ci serviamo come padroni
di una lingua corretta.
17 Bisogna sottolineare che un dialetto dominante come lingua nazionale non soltanto facilita “l’intelligenza” agli stranieri, ma anche agli italiani stessi per la varietà dei loro dialetti.
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La quarta parte del Saggio sulla filosofia delle
lingue: La lingua italiana
La quarta e ultima parte del Saggio sulla filosofia delle lingue
è intitolata “Della lingua italiana, e dei modi d’ampliarla, e perfezionarla”. Come già suggerisce il titolo, è qui che Cesarotti si occupa
della lingua italiana e non più delle lingue in generale. Vi formula il
postulato di una lingua comune a tutta l’Italia ricorrendo a un comune destino passato, condiviso dall’Italia intera.18
Sebbene la lingua nazionale sia più nobile dei dialetti, sono
questi ultimi la condizione sine qua non e la base di ogni lingua.19 Linguisticamente interessante è che, sebbene il Cesarotti ormai conosca
bene la linea linguistica “Massa-Senigallia” (nota, meno correttamente,
come “Linea La Spezia-Rimini, che divide le “lingue romanze dell’est”
da quelle “dell’ovest”), sostiene che i vari dialetti d’Italia hanno non
soltanto una medesima base, ma anche che i cittadini si potrebbero
capire parlando ognuno nel proprio dialetto20 – un’affermazione complicata, visto che ancora oggi, nei tempi dei mass media, con la loro
tendenza accomunante, un italiano del nord ha bisogno dei sottotitoli
per capire quello che viene detto in un dialetto meridionale. Poi, a
che cosa servirebbe una lingua comune normativa se gli italiani in
ogni caso si capissero utilizzando ciascuno il proprio dialetto? Sarebbe
dunque la lingua nazionale soltanto un desiderio degli stranieri per
poter comunicare con un qualsiasi italiano? Certamente no. Come
mai allora il Cesarotti può parlare di una base comune di tutti i dialetti
18 “[...] comuni all’Italia furono le rivoluzioni politiche, comuni le cagioni che le produssero, comune l’antica lingua che vi dominava, comune ancora doveva riuscir il nuovo
idioma che ne derivò.” (CESAROTTI, 1943, p. 123).
19 “Non v’è lingua senza dialetto, come non v’è sostanza senza i suoi modi” (CESAROTTI,
1943, p. 123).
20 “Ora in ogni città d’Italia regna lo stesso sistema di costruzione e di reggimento anche
nella bocca del volgo; comune è la maggior parte de’ vocaboli, e comunemente intesa,
perché le radicali o sono le stesse, o affini tra loro. La differenza in questa parte sta solo
nelle desinenze; perché i Lombardi sino a Rimini, ed alcuni altri troncano le parole nel
fine, sicché vengono a terminare nelle consonanti: i Toscani all’opposto e pressoché tutti
gli altri da Rimini sino al confine dell’Italia, e i Veneti parimente conservano la terminazione vocale, terminazione sana e legittima, e riconosciuta per tale da quegli stessi che non
l’osservano esattamente.” (CESAROTTI, 1943, p. 123)
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italiani e di soltanto poche e piccole cose che li distinguono?21 I dialetti siciliani, per esempio, sintatticamente e lessicalmente, non sono più
vicini all’italiano scolastico o a quello in cui hanno scritto le tre corone
fiorentine che lo spagnolo o il portoghese. Sarebbe da investigare se
il Cesarotti abbia conosciuto la maggior parte dei dialetti soltanto
nella loro forma scritta, e se, perciò, abbia verificato la tesi che in un
qualsiasi dialetto d’Italia si nasconda una specie di italiano standard e
comune. Altrimenti rimarrebbe la possibilità – se pensiamo che, per
il Cesarotti, lingua nazionale sia quella che è parlata all’interno d’una
certa unità politica ossia in una nazione (CESAROTTI, 1943, p. 11)
– che anche tutti gli altri dialetti dei paesi romanzi siano potenzialmente italiani, soltanto che non lo diventarono perché non fecero
parte della nazione italiana. È probabile che il tipo di dialetto da cui
il Cesarotti parte non sia un dialetto qualsiasi, ma soltanto quella
parte di dialetto che lui ritiene colto e che per essere colto è inteso
da tutte le persone colte di tutta l’Italia. Ed è soltanto questa parte
del dialetto che può contribuire a una lingua nazionale. Quando dice
che tutti i dialetti hanno potenzialmente la possibilità di contribuire
a una lingua comune usata nella scrittura, sono menzionati soltanto i
dialetti purgati – non come li si parlano nei ceti non colti.
[N]iun dialetto popolare, come precisamente si parla, può
prendersi come modello di lingua scritta; niuno ve n’ha
che possa essere correntemente inteso da un capo all’altro
d’Italia; niuno finalmente che purgato dagl’idiotismi plebei, emendato colle regole d’una giudiziosa grammatica,
e maneggiato da scrittori illustri non possa contribuire
alla ricchezza e all’ornamento della lingua scelta d’Italia,
che sola deve dominare nelle scritture [rilievo R.G.] più
nobili (CESAROTTI, 1943, p. 125).
21 “Le provincie d’Italia hanno dunque comuni tutte le parti costitutive della lingua, ed
hanno perciò tutte un diritto originario ed inalterabile sopra di essa. Tutte però hanno
parimente i loro termini particolari forse intelligibili, come attinti a una fonte comune,
non però usati, né intesi prontamente dagli altri: tutte hanno alcune proprietà che le
distinguono tra loro, altre buone, altre indifferenti, altre viziose. Se alcuni popoli peccano
nella terminazione, altri anche de’ più riputati guastano le parole in altra guisa, troncando
le sillabe intere, omettendo o permutando le lettere, o intrudendone (sic) di soverchie”
(CESAROTTI, 1943, p. 124-125).
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Per non guastare quella potenzialità di cui ho parlato sopra,
il Cesarotti è contro il predominio assoluto di un dialetto, anche se
riconosce in campo letterario le superiori qualità dell’idioma toscano,
e soprattutto del fiorentino.22
La ragione per cui i volgari scritti sono più nobili e più degni
dei volgari parlati è che “i più svegliati spiriti” li civilizzano “scegliendo
come meglio potevano l’ottimo da tutti gl’idiomi, formarono il primo
fondo della lingua italiana più nobile, che doveva esser quella degli
scrittori.” (CESAROTTI, 1943, p. 126) La lingua nazionale quindi,
come concentrato degli ormai purgati idiomi parlati, è la forma più
colta di tutte. Questa lingua nazionale, nel nostro caso l’italiano, è,
secondo Cesarotti, la medesima che già Dante descrisse chiamandola:
[...] aulica e cortigiana, perché nelle corti [la; R.G.] usa la
parte meglio educata, e più colta delle nazioni, la quale si
fa uno studio di distinguersi nel favellare e nello scrivere
con politezza. Con ciò Dante venne a rispondere anticipatamente all’obiezione del Bembo, che questa specie di
lingua non si parla in veruna città, poiché la lingua scritta
servendo, come abbiamo osservato altrove, ad usi diversi,
non è necessario che sia precisamente la stessa colla parlata, come non lo fu forse mai presso verun popolo, né lo
è nemmeno tra i Fiorentini medesimi, bastando che sia
intesa comunemente dalla nazione (CESAROTTI, 1943,
p. 130).
Il Cesarotti riprendendo l’idea di Dante della lingua cortigiana, che è la lingua che usano gli scrittori e gli uomini più colti,
indebolisce le obiezioni del Bembo e spiega l’esigenza di una lingua
scritta (ma non soltanto letteraria23) che venga intesa dalla nazione
intera.
22 “[...] niun dialetto particolare è così perfetto che possa scambiarsi per la lingua, avvene però alcuno presso ogni nazione che più degli altri s’accosta alla perfezione. Sarebbe
ingiusto e insensato chi non riconoscesse in Italia l’idioma toscano per più corretto ed
elegante, e degnissimo del primato sopra d’ogn’altro; quindi lo scriver esattamente e nobilmente è pei Toscani un’attenzione, per noi uno studio.” (CESAROTTI, 1943, p. 126).
23 Cesarotti “[...] mirava ad evitare […] ogni forma di conservatorismo che imbalsamasse la
lingua riducendola a uno strumento solo letterario” (PETRONIO, 1972, p. 501).
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L’antinomia nelle tesi del Cesarotti
Accettando il primato relativo dell’idioma delle tre corone
fiorentine, il Cesarotti finisce nell’antinomia che nonostante si tratti
di un colto idioma italiano, non è inteso comunemente da tutti gli
italiani – come ha sostenuto prima – ma che il linguaggio dei grandi
scrittori soltanto “s’apprende collo studio” (CESAROTTI, 1943, p.
131). Se, però, tutti gli italiani hanno bisogno dello studio per capire
quel linguaggio, è confermato non soltanto che la lingua italiana non
fu mai il dialetto fiorentino – perché derivava sempre da un fondo
comune ai colti scrittori d’Italia –, ma anche che questo italiano ha
la caratteristica principale di una lingua morta. Diciamo “antinomia”
perché in realtà il sistema e le tesi del Cesarotti non avrebbero dovuto
fallire: questo “fallimento” è dovuto al fatto che egli prende come base
un linguaggio passato, che non è più parlato o non è mai stato parlato
pienamente in questa forma, mentre le sue osservazioni e tesi valgono
soltanto sul piano sincronico ma non diacronico. La parola “studio”,
usata dal Cesarotti senza ulteriori spiegazioni, indica che è necessaria
la conoscenza di un altro idioma per acquistare quella delle tre corone
fiorentine. Diciamo questo perché in senso stretto ogni idioma ha bisogno di uno studio per essere acquisito, anche la madrelingua, ossia
l’idioma dell’infanzia, soltanto che di solito questo processo iniziale
non viene chiamato “studio”.
Conclusione
Il merito del Cesarotti non è di avere superato il linguaggio
delle tre corone fiorentine come modello di lingua scritta, ma di avere
introdotto la libertà di arricchirlo con termini nuovi, derivanti dalla
parte nobile di tutti gli idiomi italiani e stranieri, per “soddisfare ai
bisogni progressivi e indefinibili di chiunque scrive, sente, e ragiona.”
(CESAROTTI, 1943, p. 133) Le intenzioni del programma linguistico del Cesarotti sono dunque radicalmente diverse da quello dei
settecentisti e ottocentisti che volevano soltanto correggere qualche
parte del Vocabolario della Crusca.
Non si tratta d’un aumento precario di vocaboli, si tratta
di libertà; ma d’una libertà permanente, universale,
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feconda24, lontana dalle stravaganze, fondata sulla ragione, regolata dal gusto, autorizzata dalla nazione in cui
risiede la facoltà di far leggi. È tempo ormai che l’Italia
si affranchi per sempre dalla gabella delle parole bollate
(CESAROTTI, 1943, p. 144).
Riflettendo sulle lingue, il Cesarotti utilizza un approccio
assai moderno, quando, come istanza costitutiva della lingua, parte dagli scrittori come esseri che pensano e riflettono sull’uso della
propria lingua e che hanno ognuno i propri bisogni, che si devono
rispecchiare nella lingua: una lingua che deve avere la prerogativa di
adattarsi ai bisogni degli scrittori.25
Italiani, voleva io dire, che aspirate al titolo d’illustri
scrittori […], non v’è eloquenza senza stile né stil senza
lingua […] voi non sarete piú schiavi né dei dizionari né
dei grammatici, non sarete né antichisti né neologisti, né
francesisti né cruscanti, né imitatori servili né affettatori
di stravaganze; sarete voi; voglio dire italiani moderni
che fanno uso con sicurezza naturale d’una lingua libera
e viva e la improntano delle marche caratteristiche del
proprio individual sentimento (CESAROTTI, 1969,
p. 154-155)26.
Per quanto riguarda l’influenza del Cesarotti alla questione
della lingua, va detto che i suoi scritti “[...] furono riconosciuti nel
loro doppio valore, rappresentativo e originale, durante l’Ottocento,
dal Manzoni e soprattutto dai teorici di educazione idealistica, che
ancor oggi vedono il Cesarotti sul grande cammino dal Vico al De
Scantis.” (MARZOT, 1961, p. 2144). Il Manzoni però respinse “[...]
la dottrina metafisica del Cesarotti, giungendo alla conclusione di
un moderato empirismo: ‘il buon uso’ nella sfera della fiorentinità.”
(MARZOT, 1961, p. 2165).
24 “Lo spirito tutto dell’illuminismo […] doveva portare naturalmente e necessariamente
a riproporre la questione della lingua in termini assai diversi da quelli, moderatamente
innovatori, di quei trattatisti del primo Settecento che avevano [soltanto; R.G.] auspicato
un purismo meno angusto e qualche timida innovazione nel vocabolario.” (PETRONIO,
1972, p. 499).
25 “[...] la visione progressiva del linguaggio ha i suoi piú sistematici e fecondi sviluppi nel
Saggio sulla filosofia delle lingue.” (PUPPO, 1969, 12).
26 Dalla lettera dell’Ab. Cesarotti al Sig. Conte Gian-Francesco Galeani Napione.
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Riferimenti
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. Saggio sulla filosofia delle lingue. A cura di Mario Puppo. Milano:
Marzorati, 1969.
COSTA, G. Melchiorre Cesarotti, Vico, and the Sublime. Italica, v. 58, n.
1, 1981, p. 3-15.
DENES ROSSER, M. A Consideration of the Interrelationship between
Language and Translation Studies in Eighteenth-Century Italy.
Italica, v. 63, n. 1, 1986, p. 48-58.
de SANCTIS, F. Opere. La letteratura italiana 56. A cura di Niccolò Gallo.
Milano, Napoli: Riccardo Ricciardi, 1961.
MARZOT, G. Melchiorre Cesarotti. In:
. Letteratura Italiana: I minori. Milano: Marzorati, 1961. p. 2127-2168.
NATALI, G. Una lacuna nella storia linguistica d’Italia. Italica, v. 39, n. 2,
1962, p. 127-130.
. Storia letteraria d’Italia. v. 2: Il Settecento. 6. ed. Milano: Dr. Francesco Vallardi, 1964.
PETRONIO, G. L’attività letteraria in Italia. Storia della letteratura. Milano: Palumbo, 1972.
PUPPO, M. Il “Saggio” del Cesarotti e le polemiche linguistiche del ‘700.
Disponibile in: <http://spazioinwind.libero.it/letteraturait/analisi/
settecento/saggio.htm>. Accesso il 30 di marzo 2011.
PUPPO, M. Il “Saggio sulla filosofia delle lingue”. In: CESAROTTI, M.
Saggio sulla filosofia delle lingue. A cura di Mario Puppo. Milano:
Marzorati, 1969.
SCHIAFFINI, A. Aspetti della crisi linguistica italiana del Settecento. Zeitschrift für romanische Philologie, v. 57, 1937, p. 275-295.
Rainer Guggenberger. Professor de Letras Clássicas da Faculdade de Letras da
Universidade Federal do Rio de Janeiro. Tem Mestrado em Italianística, Filosofia e
Grego (Universidade de Viena) e Doutorado em Letras Clássicas (Universidade de
Viena). E-mail:
[email protected]
Recebido em: 01/05/2018
Aceito em: 20/09/2018
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