Seminario
Illusione
Il «fare finta»,
il verosimile
e l’arte
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Motivi di meraviglia
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Enigmi filosofici
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Intersezioni tra filosofia e scienze
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Per leggere il mondo contemporaneo
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Attraverso i linguaggi
La parola italiana «illusione» deriva dal
latino illudere, in cui si riconosce la
combinazione della proposizione in con il
termine ludo, «in gioco». Tra i significati del
verbo latino troviamo: scherzare, giocare;
prendersi gioco, farsi beffa di qualcuno;
non rispettare, danneggiare, maltrattare;
scherzare, giocare su; schernire, ingannare;
insultare. Etimologicamente, «illudere» e
«illusione» si riferiscono alla condizione di
chi è all’interno di una cornice di gioco o di
«finzione»: in effetti, in molti dei significati
del verbo latino sono implicite le idee di un
«fingere» e di un «fare finta che». Tali aspetti
sono fondamentali anche in molti giochi di
bambini o nei modi in cui gli adulti
mettono in scena storie, dal teatro a tutto
ciò che oggi si definisce – appunto – fiction.
Così concepito, il terreno dell’illusione è
una terra di mezzo in cui emerge una
singolare tensione tra vero e falso, tra
credenze vere e credenze false.
Titolo paragrafo paragrafo paragrafo paragrafo
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Motivi di meraviglia
Dai cavalli a dondolo
al teatro di Shakespeare
N
ell’Enrico V di Shakespeare, il coro invita gli spettatori a vedere nell’angusta
«O di legno» della scena i campi estesi della Francia, a prendere per nutrite
schiere di soldati i pochi attori lì presenti e ad immaginare cavalli scalpitanti quando questi vengono semplicemente nominati. Partendo da questo esempio, il
filosofo Alfonso Maurizio Iacono (1949-) richiama l’attenzione sul fatto che l’invito di
Shakespeare non si riferisce solo alla sospensione temporanea e volontaria dell’incredulità che il poeta e filosofo inglese Samuel Taylor Coleridge (1772-1834) poneva alla base della fede poetica: non si tratta soltanto di quell’abbandonarsi alla
finzione su cui richiamava l’attenzione lo scrittore e poeta argentino Jorge Luis Borges (1899-1986) pensando al teatro, al cinema e al fatto che noi «ci persuadiamo» che
un attore è Amleto, anche se sappiamo che non è Amleto.
La possibilità che questo accada è condizione dell’illusione, dell’esperienza in cui
credere e non credere vanno insieme: io credo che l’attore non è Amleto e al tempo stesso, abbandonandomi alla finzione, lo prendo per Amleto.
Il coro dell’Enrico V evidenzia piuttosto un legame tra la possibilità dell’illusione
e un’altra operazione richiesta allo spettatore attivo: l’operazione di sostituzione che
consiste nell’integrare ciò che si vede e si sente con la «forza dell’immaginazione».
Sulla scena c’è posto soltanto per pochi attori, ma le loro parole e i loro gesti devono aiutarmi a vedere, immaginando, nutrite schiere di soldati e cavalli scalpitanti.
Se la facoltà di illudersi e di sostituire è caratteristica delle nostre menti, non solo di
quelle dei bambini, cosa ci dice questa circostanza a proposito dei modi in cui, in generale, un uomo conosce e può entrare in relazione con gli altri? C’è una qualche differenza tra l’illudersi e il fenomeno apparentemente affine dell’ingannarsi?
Riprendendo un esempio su cui si era soffermato lo storico dell’arte austriaco
Ernst Gombrich (1909-2001), Iacono prende spunto dall’hobby horse, il giocattolo costituito da un bastone con la testa di cavallo, o semplicemente da un manico di scopa, con cui un bambino può giocare «facendo finta» di cavalcare: l’attività del bambino diventa così un caso di studio esemplare per approfondire come l’illusione (il far
finta, il prendere qualcosa per qualcos’altro, il farsi «sostituti» di cose assenti) sia costitutiva dell’esperienza cognitiva ed emotiva umana.
Non è peraltro cosa scontata definire il rapporto tra il
manico di scopa e il cavallo che dovrebbe esserne il referente. Cosa significa vedere il manico di scopa come cavallo? Che rapporto c’è tra i due? Quando un bambino agisce facendo finta di cavalcare un bastone che non somiglia
ad un cavallo, il riferimento al cavallo è del tutto assente?
Iacono (2010, p. 3) osserva che, prendendo il
bastone per un cavallo, il bambino che sa fare finta
entra in un mondo intermedio: «è così che sorgono
i mondi intermedi, mondi che imitano quelli già esi-
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ILLUSIONE
stenti, che imitandoli li sostituiscono e che sostituendoli continuano a farvi riferimento». Il gioco, il teatro e il cinema sono casi esemplari dell’esperienza cognitiva ed
emotiva dell’illusione: essa nasce quando il credere e il non credere stanno insieme,
mentre l’inganno sorge quando si perde consapevolezza della finzione e della cornice. L’illusione non è inganno: ci si inganna, ad esempio, quando si crede che un attore sia davvero il personaggio di cui prende le sembianze. Così qualcuno può ingannarci facendosi passare per qualcun altro, con un espediente classico del farsi
beffa (altro significato dell’illudere latino) e persino del truffare.
Il filosofo tedesco Moses Mendelssohn (1729-1786) riteneva che un’illusione estetica – il genere di illusione prodotto da un’opera d’arte – può considerarsi riuscita e
ben fatta quando, a livello dei sensi, fa prendere l’imitazione per il modello; a livello
dell’intelletto, tuttavia, lo spettatore crede e non crede, rendendosi conto che l’imitazione non è il modello. Il piacere estetico starebbe proprio nell’esperire tale oscillazione tra il credere e il non credere: una condizione di duplicità che lo spettatore prova al teatro o al cinema quando, ad esempio, guardando l’attore impegnato nella scena, «vede» il personaggio più che l’attore, pur sapendo che si tratta di un attore, emozionandosi per l’azione rappresentata, pur sapendo che si tratta di una finzione.
Vediamo altri esempi. Nell’Amleto di Shakespeare il protagonista, che è il giovane
principe erede al trono di Danimarca, dopo che lo spettro di suo padre gli appare sugli spalti del castello di Elsinore rivelandogli di essere stato ucciso dal proprio fratello Claudio, decide di fingersi folle per scoprire, senza destare sospetti, tutti i responsabili e i complici del crimine. Nel frattempo, la vedova regina Gertrude ha sposato
proprio Claudio, lo zio di Amleto accusato dallo spettro. In un passaggio della tragedia, quando la regina dice che Amleto sembra che soffra, questi ribatte di avere dentro di sé una cosa che va ben oltre quel che si può fingere e di cui si può «far mostra»:
Sembra, signora? È, io non so di «sembra». Non è il mio mantello d’inchiostro, o il ricco abito nero di circostanza, non sono singhiozzi o sospiri forzati, né il fiume copioso dagli occhi, né un viso compunto, buona madre, con ogni forma, guisa, mostra di
sofferenza, che possono farmi giustizia. Cose che l’uomo può fingere, di queste diciamo «sembrano»; ma dentro io ho cosa che passa la mostra. L’altro è frangia, livrea
del dolore.
W. Shakespeare
Laurence Olivier
ed Eileen Herlie
interpretano Amleto
e la regina Gertrude.
Hamlet, 1948.
W. Shakespeare, Amleto, Atto I, scena II, p. 643
Motivi di meraviglia
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In seguito, però, il tema della recitazione e dell’effetto reale della simulazione torna insistentemente come elemento centrale del dramma. Ad un certo punto, Amleto
chiede agli amici Orazio e Marcello di fingere di ritenere incomprensibile ciò che egli
in futuro farà, l’umore inquieto e stranito che assumerà (Atto I, scena V). Quando al
castello arriva una compagnia di attori, Amleto pensa di far mettere in scena una storia che ricordi il crimine commesso da Claudio, per scoprire i sentimenti dello zio e
della madre dalla loro reazione a teatro. All’arrivo degli attori, Amleto esclama:
Non è mostruoso che un attore, nient’altro che per un simulacro di passione, un sogno, si immedesimi tanto nella parte che il suo aspetto cambia, il volto gli si sbianca,
gli occhi umidi, la voce spezzata, e in lui tutto incarna sentimenti suggeriti. E questo
per niente! Per Ecuba! Che cos’è Ecuba a lui o lui a Ecuba, che debba piangerne?
W. Shakespeare, Amleto, Atto II, scena II, p. 667
L’ultima battuta coglie una specie di paradosso della situazione dell’attore, che riesce a piangere per le vicende di Ecuba, personaggio di una tragedia scritta secoli
prima: cos’è Ecuba per l’attore, affinché l’attore debba piangerne? E cos’è Ecuba – si
potrebbe aggiungere – per lo spettatore, perché debba commuoversi ed emozionarsi per la sua storia rappresentata sulla scena? Subito dopo Amleto paragona se stesso
a un’infima comparsa, a una marionetta di fango, ed aggiunge:
Ho inteso dire che altri criminali, sedendo in teatro, si sono fatti prendere così profondamente dalla verità della rappresentazione che hanno proclamato le loro malefatte […]. Lo spettro che vidi poteva essere un diavolo, il diavolo può assumere forme
ingannatrici, è noto, e con due potenti alleate, la mia debolezza e la mia malinconia,
forse mi provoca per dannarmi. Mi occorrono prove più manifeste. La recita è la trappola in cui farò cadere la coscienza del re.
W. Shakespeare, Amleto, p. 668
Qui già si nota il paradosso della rappresentazione: non solo l’attore si immedesima così tanto nel personaggio da cambiare aspetto, ma anche lo spettatore può
essere per così dire rapito dalla «verità della rappresentazione». Più tardi, Amleto inviterà la madre ad assistere allo spettacolo per vedervi, come in uno specchio, la propria parte più riposta (Atto III, scena IV). È proprio pensando all’efficacia della rappresentazione sullo spettatore che Amleto dà indicazioni all’attore sul modo migliore per recitare la battuta da lui aggiunta (Atto III, scena II):
AMLETO Dì la battuta, mi raccomando, come io te l’ho letta, varia, giocata sulla lingua:
per sentirla berciare, come troppi fanno, tanto varrebbe affidassi i miei versi al banditore di piazza. E non trinciare l’aria con le mani, così, ma gestisci con garbo, perché
nel torrente, nella tempesta, nel turbine, diciamo, della passione, sta in voi trovare e
rendere una misura che le dia grazia. Oh, mi ferisce fino in fondo all’anima sentire un
guitto imparruccato snaturare una passione, metterla in pezzi, in proiettili, per spaccare i timpani degli spettatori, i quali generalmente d’altro non sono avidi che di inesplicabili contorsioni e rumori. Merita la frusta chi vuole farsi più stentoreo di Stèntore, più Erode di Erode. Ve ne prego, no.
I ATTORE Vostro onore si lasci servire.
AMLETO Attento però a non restarmi in sottotono. Lasciate che il gusto sia la vostra guida; misurate il gesto sulla parola, la parola sul gesto, con la regola di non soverchiare
mai la modestia di natura. Perché l’errore di chi vuol fare troppo è estraneo al con-
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ILLUSIONE
cetto dell’arte drammatica la quale, in origine come ora, aveva ed ha lo scopo di porgere, diciamo, uno specchio alla vita, mostrando alla virtù la sua immagine, al vizio la
sua guisa, e alla società la sua struttura come il tempo la determina. Invece l’esagerazione o la sciatteria, se muovono al riso il pubblico della domenica, non possono che
spiacere all’intenditore, della cui censura dovete fare più conto che degli applausi di
un teatro esaurito. Ci sono attori che ho visto recitare, e ho udito il prossimo coprirli
di lodi eccelse, per non dire sacrileghe, che non avendo accento di cristiani, né grinta di cristiani, o di pagani, o di uomini, si gonfiavano e spolmonavano tanto, che io
credetti qualche manovale della natura li avesse impastati alla meglio, così pietosamente essi imitavano l’umanità.
W. Shakespeare, Amleto, Atto III, scena II, pp. 672-673
Che nesso c’è tra la realtà, l’imitazione e l’illusione possibili a teatro? Quanto e come sono reali (o irreali) i turbamenti dello spettatore e le emozioni che prova
osservando una rappresentazione? E quanto è reale, nella recitazione, ciò che l’attore prova immedesimandosi in una storia e trasformandosi?
Domande come queste colgono uno degli aspetti del più ampio problema dell’illusione estetica. Si possono fare numerosi esempi tratti anche dall’antichità. Si
racconta ad esempio che Alessandro di Fere (Tessaglia), tiranno della città dal 369
a.C. e ucciso 11 anni dopo, durante una rappresentazione delle Troiane di Euripide
abbandonò il teatro per non mostrare ai suoi cittadini d’essersi commosso di fronte
alle tristi vicende di Ecuba e Andromaca, lui che non aveva mai mostrato pietà per
coloro che aveva realmente messo a morte (lo racconta Plutarco nella Vita di Pelopida, XXIX). Andromaca vide il padre, il marito Ettore e sette fratelli morire uccisi da
Achille, Ecuba fu ridotta in schiavitù dagli Achei e perdette la figlia, sacrificata sulla
tomba di Achille: assistendo a tali sciagure, il tiranno si commuove. Tale commozione segnala che l’illusione prodotta dalla rappresentazione teatrale ha provocato in lui
un coinvolgimento e un «contagio emotivo», una specie di «partecipazione» al dolore rappresentato sulla scena. Forse per questi effetti della rappresentazione la messa in scena della Presa di Mileto fu proibita ad Atene, perché induceva un eccesso di
immedesimazione (Erodoto VI, 21). Così, nel luglio 2009, numerose associazioni statunitensi per l’infanzia e per le adozioni hanno lanciato appelli al boicottaggio del
film Orphan, un horror incentrato sull’inquietante figura di una bambina undicenne
adottata da una coppia che ha già perso un figlio: secondo le associazioni impegnate in questo settore, il film scoraggerebbe l’adozione di bambini non piccolissimi e in
particolare degli adolescenti, e per questo qualcuno ha chiesto di rimediare inserendo, alla fine della proiezione, un messaggio di supporto ai centri per le adozioni.
Un altro caso è quello dell’horror Paranormal activity, attorno al quale sono nate polemiche perché nel febbraio 2010 avrebbe provocato malori e persino ricoveri
in ospedale: episodi dei quali peraltro si può dubitare, ipotizzando invece che possano essere elementi di una campagna di marketing non convenzionale. Il film è un
horror realizzato con un budget limitato (15.000 dollari), nello stile del falso documentario, e propone una serie di temi classici del genere. Protagonista è una coppia
di giovani fidanzati che convivono a San Diego, in California. La ragazza, da quando
aveva otto anni, ritiene di essere seguita da un’entità soprannaturale e il ragazzo decide di chiarire la vicenda, filmando tutto ciò che accade e lasciando la telecamera
puntata anche durante la notte, nella speranza di registrare segni della «presenza» che
sarebbe all’origine di fenomeni quali il lampeggiare di luci, l’aprirsi e il chiudersi di
rubinetti e altri eventi apparentemente inspiegabili. Le vicende si susseguono in un
lento crescendo di tensione che, senza effetti speciali, tende a «magnetizzare» l’attenzione dello spettatore.
Motivi di meraviglia
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Si ha illusione quando lo spettatore sente qualcosa che non c’è come se ci fosse,
fino ad esaltarsi o commuoversi, anche se sa di trovarsi davanti a una finzione: lo
spettatore di teatro, come chi va al cinema, sa che la storia a cui assiste non sta accadendo realmente sotto i suoi occhi, perché ci sono attori, copioni e ruoli. Eppure, lo
spettatore può dimenticarsi di essere in presenza di una finzione o, come diceva Samuel Taylor Coleridge, può scegliere di «sospendere l’incredulità» (suspension of disbelief) e quindi iniziare «a credere».
Non è facile dire fino a che punto quella di credere o di sospendere l’incredulità sia
una scelta. Guardiamo alla pittura: l’espressione francese trompe-l’oeil, che alla lettera significa «inganna l’occhio», designa in particolare una tecnica artistica che consente di
provocare percezioni fortemente ambigue: ad esempio, con immagini bidimensionali
che sembrano diventare tridimensionali, uscendo dalla superficie su cui sono dipinte.
Quando viene applicato alla decorazione di facciate o di interni, può essere difficile, per
chi guarda da una certa distanza, distinguere se certe immagini (colonne, finestre, persiane ecc.) sono soltanto dipinte o se sono elementi architettonici di un edificio.
L’antichità ci offre alcuni celebri esempi. Plinio racconta ad esempio di una gara
di pittura tra Zeusi e Parrasio: il primo dipinse dei grappoli così ben fatti che persino
gli uccelli li presero per veri e volarono a beccarli, restando evidentemente delusi;
Parrasio sembrava ormai sconfitto, ma quando Zeusi si avvicinò a una tenda disposta sul dipinto del suo rivale per vedere cosa avesse disegnato, provando a sollevare
il drappo, si accorse con gran sorpresa che proprio il drappo era il disegno.
Nel XVI secolo, Giorgio Vasari ci racconta invece l’episodio di Giotto, capace di
ingannare il maestro Cimabue con una mosca disegnata sul naso di un ritratto. Si tratta di esempi semplici: qui l’accuratezza di una raffigurazione pittorica fa sì che la
si prenda per un qualche oggetto reale a cui essa farebbe riferimento, per il suo
referente.
La storia prosegue con l’uso della prospettiva in pittura, una tecnica che permette di colpire lo sguardo dell’osservatore dando l’illusione della profondità. Combinando psicologia della percezione e storia dell’arte, lo psicologo statunitense sperimentale Michael Kubovy (1940-) ha scritto un libro sull’argomento, a partire dalla
significativa immagine di un dipinto di Mantegna:
Nel Martirio di san Cristoforo di Andrea Mantegna (primo episodio: «Arcieri che tirano a san Cristoforo») c’è un impressionante particolare in cui si vede un uomo che è
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ILLUSIONE
stato appena colpito a un occhio da una freccia. Considero questa freccia nell’occhio
come una metafora dell’arte della prospettiva, e ho buone ragioni per ritenere che fosse tale anche per il Mantegna.
Perché Mantegna avrebbe incorporato in un affresco una metafora dell’arte della prospettiva? In primo luogo, perché la prospettiva svolgeva un ruolo centrale fra gli interessi intellettuali ed estetici degli artisti del Rinascimento.
Michael Kubovy
M. Kubovy, La freccia nell’occhio, p. 1
L’immagine dell’occhio colpito dalla freccia diventa metafora dell’arte della prospettiva, la quale, appunto, «colpisce» l’occhio di chi la osserva, orientandolo a concentrarsi su un «punto di fuga» rispetto al quale gli oggetti rappresentati su una superficie bidimensionale sembrano assumere «profondità», quasi come se fossero disposti
in uno spazio tridimensionale. Tra i motivi per i quali la prospettiva «colpisce l’occhio»,
Kubovy evidenzia che essa ebbe la funzione ovvia di «razionalizzare la rappresentazione dello spazio», dando perciò «agli artisti del Rinascimento i mezzi per produrre
una efficace illusione di profondità». E ancora: «oltre a razionalizzare la rappresentazione dello spazio e a fornire un’illusione di profondità, la prospettiva fornì i mezzi
per attirare l’occhio dello spettatore sulla figura o l’azione chiave del dipinto». Considerando più in dettaglio i modi in cui una raffigurazione pittorica riesce a illuderci, Kubovy distingue tra i dipinti a trompe-l’oeil, che ingannano l’occhio (e che in tal senso
ricordano il demone di Cartesio, sempre pronto a ingannarci a nostra insaputa), e
quelli che richiedono una qualche «collusione» dello spettatore con l’artista, cioè la
disponibilità dello spettatore a lasciarsi illudere, una sorta di complicità con l’artista. Egli scrive infatti:
A. Mantegna,
Il martirio di
san Cristoforo (part.),
1431-1506, Padova,
Cappella Ovetari.
Motivi di meraviglia
211
Che cosa c’è di tanto interessante nell’illusione creata dai dipinti trompe l’oeil? Dopo
tutto, dopo che l’illusione si è dileguata, non c’è nulla di affascinante in un dipinto
trompe l’oeil, e molto spesso l’opera ha soltanto un interesse estetico minimo. Godiamo dell’esaminare un oggetto dotato del potere di farci entrare in uno stato illusorio
dopo che esso ci ha svelato il suo segreto; guardarlo ci manda un brivido giù per la
spina dorsale metafisica in modo molto simile a come rabbrividiamo pensando a un
incidente nel quale siamo quasi stati coinvolti; lo fissiamo come fisseremmo la carcassa di un animale selvaggio che ha quasi avuto la meglio su di noi. Un quadro trompe l’oeil è un rischio epistemologico dal quale ce la siamo cavata per un pelo, un memento che il diavoletto di Cartesio che ci riempie continuamente di errore può travestirsi nei panni di un benevolo pittore. Il punto che vorrei far notare è perciò che ciò
che c’è d’interessante in un dipinto trompe l’oeil nasce nella nostra mente dopo che il
dipinto ha cessato di tromper il nostro oeil; è quando abbiamo cessato di essere gli inconsapevoli bersagli di uno scherzo, e abbiamo deciso di riflettere sull’esperienza che
abbiamo appena avuta, che il dipinto acquista il suo significato.
Guardare un dipinto trompe l’oeil dopo che la delusione è svanita è affascinante perché
dimostra quanto ridicola sia la famosa idea dell’«occhio innocente» di Ruskin. Si cerca invano di essere delusi di nuovo; ma non è possibile; nel migliore dei casi, siamo colpiti da
un’illusione che otteniamo cooperando attivamente con gli artifici escogitati dall’artista.
M. Kubovy, La freccia nell’occhio, pp. 92-94
La nozione di «collusione mentale con l’artista» designa in Kubovy una condizione analoga a quella trattata da Coleridge, quando si riferisce alla temporanea e volontaria «sospensione dell’incredulità» da parte dello spettatore teatrale, seppure con
una differenza di grado:
La volontaria sospensione dell’incredulità si riferisce a un’operazione cognitiva, una
volontaria adozione di un certo atteggiamento estetico; per «collusione mentale con
l’artista» intendo un’operazione molto più vicina alle radici della percezione, più dell’ordine di una suggestione che di uno stato d’animo.
Il concetto di collusione mentale compare anche in contesti percettivi non estetici.
Certe illusioni ottiche, per esempio, hanno luogo solo dopo che l’osservatore è stato
informato di che cosa ci si aspetta che veda. Ma, una volta ricevuta questa informazione, l’osservatore può far ben poco per sfuggire al suo effetto.
M. Kubovy, La freccia nell’occhio, pp. 96-97
Ma le immagini (quelle della pittura, quelle in movimento del cinema) e i corpi
(quelli degli attori sulla scena di un teatro) possono in molti altri modi far cadere nell’illusione. Il filosofo Sergio Givone (1944-) osserva:
Sergio Givone
È capitato a tutti, una volta o l’altra. A teatro, al cinema, in un museo. O in un angolo
qualsiasi di città o di campagna. Qualcuno, qualcosa si mostra, appare, e ci scuote nel
profondo, lasciandoci stupefatti, turbati, commossi. Non importa che si tratti di un’opera d’arte, di un paesaggio, di un volto. Piuttosto importa questo irrompere nel nostro campo visivo di una realtà che ci sorprende e ci seduce, inaspettatamente […]. Da
dove provenga questa scossa non sapremmo dire. E tantomeno in che consista. Certo è indicativo il fatto che un autore come Walter Benjamin abbia parlato a questo proposito di shock, di urto che investe l’individuo. E del resto Benjamin aveva preso il
concetto da Baudelaire. Il quale se n’era servito per definire qualcosa di inedito. Ossia ciò che prova l’individuo moderno nel cuore di una metropoli come Parigi.
S. Givone, Prima lezione di estetica, pp. 13-14
212
Enigmi filosofici
L’arte dell’attore
tra immedesimazione e distacco
I
n apertura abbiamo visto come Amleto si riferisse all’attore e alla sua capacità di cambiare aspetto e di simulare immedesimandosi nella parte. Come si
apprende tale capacità, e quali accorgimenti sono necessari per esercitarla? Il
tema è stato particolarmente dibattuto da chi ha elaborato teorie della recitazione
e della regia, teatrale o cinematografica; ma anche i filosofi si sono talvolta occupati del problema, trattando di questioni di estetica e poetica.
Nel Paradosso sull’attore (Paradoxe sur le comédien, scritto attorno al 1773), il filosofo francese Denis Diderot (1713-1784), inserendosi in un dibattito di lunga data, sostiene che l’attore deve essere distaccato dal personaggio che recita; non deve cioè
immedesimarsi, ma recitare conservando freddezza e tranquillità (portavoce dell’autore è «Il primo» dei due interlocutori):
Denis Diderot
Il Primo. – Ma il punto importante […] sono le qualità fondamentali di un grande attore. Io gli chiedo di avere molta intelligenza; voglio che quest’uomo sia uno spettatore freddo e tranquillo; di conseguenza ne esigo perspicacia, e nessuna sensibilità,
l’arte di imitare tutto, o, ciò che in fondo è lo stesso, una eguale disposizione ad ogni
sorta di caratteri e di parti.
Il Secondo. – Nessuna sensibilità!
Il Primo. – Nessuna. […]
Se l’attore fosse sensibile, gli sarebbe veramente possibile recitare due volte una stessa
parte con lo stesso calore e con lo stesso successo? Sarebbe tutto ardore alla prima rappresentazione, ma svuotato e freddo come il marmo alla terza. Ma, imitatore attento e cosciente discepolo della natura, la prima volta che si presenterà sulla scena sotto il nome
di Augusto, di Cinna, di Orosmane, di Agamennone, di Maometto, rigoroso copista di se
stesso e dei propri studi, osservatore assiduo delle nostre sensazioni, la sua recitazione,
lungi dall’indebolirsi, si avvarrà delle nuove riflessioni che egli avrà raccolto.
Ciò che mi conferma nella mia opinione è la resa ineguale degli attori che recitano di
sentimento.
D. Diderot, Paradosso sull’attore, pp. 5-6
Il portavoce dell’autore nel dialogo passa dagli attori ai poeti e in generale a «tutti i grandi imitatori della natura», universalizzando la propria tesi fino a sostenere che
la «sensibilità» non rientra tra le qualità del genio:
Enigmi filosofici
213
Il Primo – I grandi poeti, i grandi attori, e forse in generale tutti i grandi imitatori della natura, quali che siano, dotati di una bella immaginazione, di una grande intelligenza, di un tatto fine, di un gusto infallibile, sono gli esseri meno sensibili. Sono
ugualmente adatti a troppe cose; sono troppo occupati a guardare, a riconoscere, a
imitare, per poter essere scossi fortemente dall’intimo. Mi par di vederli col taccuino
sulle ginocchia e la matita in mano.
Noi sì, sentiamo; loro osservano, studiano e rappresentano. Lo devo dire? E perché
no? La sensibilità non è propriamente la qualità di un grande genio.
D. Diderot, Paradosso sull’attore, pp. 8-9
Diderot propone di riflettere sulla differenza tra le reazioni – anzitutto a livello
emotivo e di espressione corporea – provocate da un avvenimento tragico di cui si è
testimoni «realmente» e quelle associabili all’ascolto di un racconto commovente:
Il Primo – Vi è mai successo di riflettere sulla differenza che passa tra le lagrime suscitate da un avvenimento tragico e quelle suscitate da un racconto commovente? Se
sentiamo raccontare una bella cosa, a poco a poco la testa ci si confonde, il sangue ci
si agita, e scorrono le lagrime. Invece, alla vista di un caso tragico, il fatto, la sensazione e l’effetto fanno tutt’uno, in un momento ci sentiamo tutti sconvolti, gettiamo un
grido, perdiamo la testa, e scorrono le lagrime; questa volta arrivano tutto a un tratto,
mentre nel primo caso arrivavano a poco a poco. Ecco il vantaggio di un colpo di scena naturale e vero rispetto a una scena eloquente: produce a un tratto ciò che la scena eloquente fa attendere; ma è molto più difficile determinarne la suggestione, perché un particolare falso, mal reso, basta a distruggerla. Le intonazioni di voce si
imitano meglio dei movimenti, ma i
movimenti colpiscono di più. Sta
in questo il fondamento di una
regola alla quale non credo che ci sia eccezione:
finire con l’azione, non
con un racconto, se non
si vuole riuscire freddi.
D. Diderot, Paradosso
sull’attore, p. 12
Le considerazioni precedenti
forniscono supporto all’argomento secondo cui, nel teatro,
«seguire il vero» non significa «mostrare le cose come sono in natura»:
Il Primo – Pensate un momento a
ciò che in teatro si dice seguire
il vero. Vuol dire forse mostrare le cose come sono
in natura? Niente affatto.
Il vero, in questo senso,
non sarebbe che l’ordinario. Che cosa è dunque il vero sulla scena?
214
ILLUSIONE
È la conformità delle azioni, dei discorsi, delle espressioni, della voce, del movimento, del gesto a un modello ideale immaginato dal poeta e spesso esagerato dall’attore.
Ed ecco il meraviglioso. Quel modello non influisce soltanto sul tono, ma modifica
perfino i movimenti e gli atteggiamenti. Ecco perché l’attore per la strada e l’attore sulla scena sono due personaggi diversi, che stentiamo a riconoscere.
D. Diderot, Paradosso sull’attore, 15
DA CHE PARTE STAI?
Prendi posizione sulla questione affrontata da Diderot: raccogli dapprima le tue ipotesi elaborate individualmente, e
poi discutine con i compagni.
Illusione non è inganno
C
ome abbiamo precisato, il concetto di illusione e quello di inganno devono essere tenuti distinti, per quanto possano apparire affini: un primo elemento di differenza sta nel grado di consapevolezza con cui si entra o si
sta nella «finzione».
Nel 1777 Immanuel Kant (1724-1804) fu chiamato a discutere la relazione di Johann
Gottlieb Kreutzfeld, aspirante professore di arte poetica all’Albertus-Universität di
Königsberg, che propose alla commissione una Dissertazione filologico-poetica sui
princìpi più generali delle invenzioni poetiche. Rispondendo alle tesi di Kreutzfeld,
che fu tra l’altro uno degli animatori del «Circolo dei poeti» della cittadina, Kant scrive una relazione in cui introduce la distinzione tra inganno e illusione:
Vi sono alcune apparenze delle cose con le quali la mente gioca, ma dalle quali non
è ingannata […]. Se in tali apparenze vi è qualcosa che, come si dice, inganna, dovrà
piuttosto essere chiamata illusione.
M.T. Catena, Inganno e illusione, p. 44
Kant precisa che l’inganno, una volta scoperto il gioco di apparenze che lo
produce, non ottiene più lo stesso effetto e svanisce: è il caso del gioco di prestigio, che inganna fintantoché non si scopre il trucco; quando il trucco è stato scoperto, si può continuare ad apprezzare l’abilità del prestigiatore nel nascondere alla percezione alcuni movimenti cruciali dell’esibizione, ma non ci si stupisce più come prima, né si è propriamente ingannati. L’apparenza illusoria, al contrario, persiste
anche quando si è consapevoli del modo in cui essa compare: è il caso del cucchiaino che appare spezzato, una volta immerso nell’acqua di un bicchiere riempito
a metà. Siamo consapevoli del fatto che il cucchiaino non è spezzato e che appare
tale perché la luce subisce una rifrazione dovuta al passaggio tra due mezzi trasparenti (aria e acqua) a densità diversa: nonostante ciò, esso continua ad apparirci spezzato nel punto di contatto con l’acqua e la mente rimane, come scrive Kant, «quasi
fluttuante al confine tra errore e verità»:
L’apparenza che inganna, percepita nella sua stessa futilità e illusorietà, svanisce; quella
che illude, al contrario, poiché il fenomeno non è nient’altro che verità, permane, anche
quando sia stata riconosciuta la stessa realtà; al contempo essa muove piacevolmente l’animo, quasi fluttuante al confine tra errore e verità e accarezza con meravigliosa dolcezza quello conscio della sua sagacia contro le seduzioni dell’apparenza.
M.T. Catena, Inganno e illusione, p. 44
Enigmi filosofici
PER
215
PENSARE
Di che genere è, a tuo avviso, l’illusione estetica? È più propriamente illusione o inganno, stando alla distinzione proposta da Kant? Bisogna introdurre ulteriori distinzioni tra tipologie e ambiti dell’illusione estetica (es.: pittura, teatro,
scultura, cinema, ecc.)? Sapresti trovare controesempi e obiezioni alla distinzione proposta da Kant, oppure la condividi? Argomenta la tua posizione.
Illusione e imitazione (mímesis)
Q
uali sono le cause che hanno dato origine alla poesia? Perché gli uomini
recitano e sentono il bisogno di mettersi in scena? Nella sua Poetica, Aristotele (384-322 a.C.) cerca le cause nella «natura umana», individuando
più precisamente nell’imitazione (mimesi) un istinto di natura comune a tutti gli
uomini.
Aristotele arriva a sostenere che, tra tutti gli esseri viventi, l’uomo è quello «più inclinato all’imitazione» e aggiunge che, per questa ragione, gli uomini iniziarono a poetare e a mettere in scena situazioni improvvisando. Naturalmente, a partire dalle improvvisazioni dei primi tempi, le arti si sono sviluppate in maniera complessa:
216
ILLUSIONE
Aristotele
L’epica, dunque, e la poesia tragica, inoltre la commedia […] sono tutte, nel complesso, imitazioni: ma differiscono l’una dall’altra per tre aspetti: o per il fatto di imitare
con mezzi diversi, o cose diverse, o diversamente e non nello stesso modo. Infatti, come alcuni imitano molti oggetti facendone immagini con colori e figure [...] e altri ancora mediante la voce, così anche nelle arti ricordate: tutte compiono l’imitazione mediante il ritmo, la parola e la musica, ma usando questi [mezzi] o separatamente o in
combinazione.
Aristotele, Poetica, 1447a
All’origine dell’arte poetica Aristotele individua due cause naturali, l’inclinazione all’imitazione e il piacere ad essa associato, che s’intreccia con il piacere di imparare:
Sembra che due cause in generale abbiano fatto nascere l’arte poetica; e, queste, entrambe naturali. Infatti l’imitare è connaturato agli uomini fin dalla fanciullezza ed è
proprio per questo che essi si differenziano dagli altri animali, perché [l’uomo] è il più
incline all’imitazione e le sue prime acquisizioni cognitive le compie mediante l’imitazione; e [connaturato] è il piacere che tutti hanno dell’imitazione. Segno ne è quel
che accade nei fatti: le immagini di quelle cose che in sé vediamo con fastidio, quando siano eseguite con la massima accuratezza le contempliamo con piacere, per esempio le figure degli animali più spregevoli e dei cadaveri. C’è una causa anche di questo, che imparare è piacevolissimo non solo per i filosofi, ma anche ugualmente per
gli altri, senonché questi ne partecipano in piccola misura. Per questa ragione, infatti,
si prova piacere nel vedere le immagini, perché accade che nel vederle si impari e si
concluda con il ragionamento che cosa è ciascun oggetto, per esempio che «costui è
quell’uomo».
Aristotele, Poetica, 1448b
Nella ricostruzione di Aristotele, la poesia nacque dalle improvvisazioni di coloro che
erano particolarmente inclini all’imitazione, all’armonia e al ritmo. Costoro poi la svilupparono poco a poco, determinando l’origine di forme rappresentative come la
commedia e la tragedia:
La commedia è, come dicevamo, imitazione di persone moralmente inferiori, tuttavia
non secondo ogni vizio, ma [suo oggetto] è la parte ridicola del brutto. Il ridicolo è infatti una sorta di errore e una bruttezza senza sofferenza né tale da far danno, come,
per un esempio di immediata evidenza, la maschera comica è qualcosa di brutto e di
stravolto senza sofferenza. Ora, i mutamenti della tragedia e coloro che ne sono all’origine non sono ignoti, ma la commedia rimane oscura perché non ottenne da principio una considerazione seria. Infatti, anche l’arconte concesse piuttosto tardi il coro
dei comici, mentre [inizialmente] erano volontari. Coloro che sono detti i suoi poeti
sono ricordati da quanto essa già aveva certe sue forme; rimane ignoto chi introdusse
le maschere, o il prologo, o il numero degli attori e le altre cose simili, ma la composizione del racconto venne da principio dalla Sicilia, mentre dei poeti ateniesi Cratete
fu il primo che, abbandonando la forma del giambo, cominciò a comporre storie e
racconti di valore universale.
Aristotele, Poetica, cap. V, 1449a-b
Enigmi filosofici
PER
217
SCAMBIARE IDEE
In che modo questi brani, che riguardano l’origine e le forme dell’esperienza estetica possibile a teatro, rientrano nel quadro più ampio delle discussioni sulla «sospensione dell’incredulità» e sulla «simulazione incarnata», ovvero sulla capacità dello spettatore di rivivere
internamente ciò a cui assiste? Rispondi concentrandoti sulla loro «origine naturale», come
sottolinea Aristotele. Lavora prima individualmente, quindi confronta il tuo punto di vista
con quello dei compagni.
Il paradossale piacere della finzione
G
ià Aristotele, nella Poetica, aveva segnalato il fatto che «le immagini di
quelle cose che in sé vediamo con fastidio, quando siano eseguite con la
massima accuratezza le contempliamo con piacere, per esempio le figure degli animali più spregevoli e dei cadaveri». Ciò significa che l’arte – ad esempio quella di un pittore o di un poeta – può suscitare piacere con rappresentazioni di scene e situazioni che, viste direttamente, susciterebbero fastidio, disgusto e
orrore. Com’è possibile che la finzione artistica ottenga un tale effetto, che ribalta
i vissuti comunemente associati a certe figure e immagini, o che fa coesistere sentimenti contrastanti, come l’afflizione e la consolazione?
Secoli dopo, il filosofo inglese David Hume (1711-1776) solleva il problema di un genere di piacere che «sembra inesplicabile»:
David Hume
Il piacere che gli spettatori di una tragedia ben scritta traggono dal dolore, dal terrore, dall’angoscia e dalle altre passioni in se stesse sgradevoli e penose, sembra inesplicabile. Più sono commossi e colpiti, maggiore è il diletto che lo spettacolo dona
loro: e non appena le passioni penose cessano di operare, la rappresentazione è ormai giunta alla fine. Ogni composizione di tal genere può contenere, al massimo, una
sola scena di gioia, di contentezza, di serenità piene, e certamente sarà sempre quella conclusiva.
D. Hume, La tragedia, p. 41
218
ILLUSIONE
Hume ricorda una tesi dell’abate Jean-Baptiste Dubos (1670-1742), autore di influenti Riflessioni critiche sulla poesia e la pittura (1719), secondo cui gli uomini rifuggono dagli stati di «perfetta quiete», cercando «tutto ciò che è atto a suscitar passioni», quali che siano, quasi a voler «distogliere da sé» la propria attenzione:
L’abate Dubos, nelle sue riflessioni sulla poesia e la pittura, afferma che generalmente nulla è più spiacevole allo spirito di quello stato languido e indifferente in cui cade
quando sia privo di ogni passione e di ogni occupazione. Per liberarsi da una tale penosa situazione esso cerca qualunque divertimento e qualsiasi svago: gli affari, il gioco, gli spettacoli, le esecuzioni, e tutto ciò che è atto a suscitar passioni e distogliere
da sé la sua attenzione. Non importa di che passione si tratti: sia essa sgradevole, affliggente, malinconica, perturbante, è pur sempre preferibile a quell’insulso languore
che deriva dalla perfetta tranquillità e dalla perfetta quiete.
D. Hume, La tragedia, pp. 41-42
Hume cita poi un brano delle Riflessioni sulla poetica dello scrittore Bernard Le
Bovier de Fontenelle (1657-1757), che evidenzia come nello spettatore di una tragedia rappresentata a teatro siano compresenti l’afflizione per le sventure dell’eroe e la
consolazione suscitata dalla consapevolezza che tali sventure sono fittizie:
Noi piangiamo per la sventura dell’eroe a cui siamo affezionati; ma, nello stesso istante, ci confortiamo riflettendo che è solo una finzione. È precisamente questa miscela
di sentimenti che suscita un dolore gradevole e lacrime che ci danno diletto. Ma poiché quell’afflizione, che è causata dagli oggetti esteriori e sensibili, è più forte della
consolazione che deriva dalla riflessione interna, sono gli effetti e i sintomi del dolore che dovrebbero predominare nella composizione.
D. Hume, La tragedia, p. 43
Hume vuole andare più a fondo e si concentra sull’«eloquenza stessa con cui
viene rappresentata la penosa scena». C’è un piacere che deriva dal non trovarsi in
uno stato «indifferente» e, in effetti, una tragedia piace perché coinvolge, suscitando una complessa miscela di sentimenti nello spettatore, che non può restare indifferente alla rappresentazione e che tuttavia si tiene, per così dire, a «distanza di
sicurezza» dagli eventi tragici rappresentati, in quanto tali eventi non lo coinvolgono direttamente.
PER
SCAMBIARE IDEE
Com’è possibile che gli spettatori di una tragedia ne traggano un qualche piacere? Com’è possibile che la rappresentazione di una tragedia «piaccia», spesso tanto più quanto più gli eventi rappresentati sono commoventi e «colpiscono» lo spettatore? Rifletti individualmente sull’enigma formulato da Hume e confrontati successivamente con i
tuoi compagni.
Enigmi filosofici
219
Il fenomeno del riso
F
inora abbiamo parlato dello spettatore considerandolo prevalentemente in
situazioni di commozione e turbamento, quali si possono provare quando
viene rappresentata una tragedia o quando le immagini riescono a provocare lacrime. Dobbiamo però considerare anche la commedia e, più in generale,
il fenomeno del riso.
Tra i filosofi che hanno affrontato l’argomento, citiamo Immanuel Kant e Henri
Bergson (1859-1941).
Il primo se ne occupa in un paragrafo della Critica del giudizio (1790); il secondo
dedica all’argomento un intero saggio. Nel paragrafo 54 della terza Critica, Kant scrive:
Immanuel Kant
In tutto ciò che deve suscitare un vivace scoppio di risa deve esserci qualcosa di assurdo (in cui dunque l’intelletto in sé non può trovarvi alcun compiacimento). Il riso
è un affetto che sorge dall’improvviso trasformarsi in nulla della tensione di un’aspettativa. Proprio questo trasformarsi, che certo non rallegra l’intelletto, rallegra però indirettamente, per un istante, in modo molto vivace. La causa deve dunque consistere
nell’influsso della rappresentazione sul corpo e nella sua azione reciproca sull’animo;
e ciò non certo in quanto la rappresentazione è obiettivamente un oggetto di soddisfacimento (come potrebbe infatti soddisfare un’aspettativa delusa?), ma unicamente
poiché essa, in quanto semplice gioco delle rappresentazioni, produce nel corpo un
equilibrio delle forze vitali.
I. Kant, Critica del Giudizio, par. 54, pp. 361-362
Nel seguente brano, Kant precisa che il divertimento richiede «qualcosa che per
un attimo possa illudere» e interpreta il riso come effetto di un rapido susseguirsi di
tensione e distensione, suscitato nell’animo dal rapido alternarsi di due punti di vista
in contrasto, in modo analogo a quanto accade per la rapida alternanza tra distensione e rilassamento che si verifica in alcune parti del corpo di chi soffre il solletico:
È degno di nota che in tutti questi casi il divertimento deve sempre contenere in sé
qualcosa che per un attimo possa illudere; è per questo motivo che, quando la parvenza svanisce in nulla, l’animo si volge nuovamente indietro per provarci ancora una
220
ILLUSIONE
volta, e così, mediante un rapido susseguirsi di tensione e distensione, viene sballottato avanti e indietro e posto in un’oscillazione la quale, siccome ciò che per così dire teneva tirata la corda è saltato all’improvviso (non allentandosi gradualmente), deve causare un moto dell’animo e in armonia con esso un moto del corpo, che si prolunga involontariamente e affatica, ma nel contempo anche rasserena (sono questi gli
effetti di un moto che favorisce la salute).
Infatti, se si ammette che con tutti i nostri pensieri è nel contempo armoniosamente collegato un qualche movimento negli organi del corpo, si comprenderà a sufficienza come a quel repentino trasporsi dell’animo, ora nell’uno ora nell’altro punto di vista, per
considerare il proprio oggetto possa corrispondere una reciproca alternanza di tensione
e di rilassamento delle parti elastiche delle nostre viscere che si comunica al diaframma
(come accade a chi soffre il solletico), mentre i polmoni espellono l’aria a intervalli che
si susseguono velocemente, producendo così un movimento propizio alla salute, ed è
soltanto questo movimento, e non ciò che avviene prima nell’animo, ad essere la vera
causa del soddisfacimento per un pensiero che in fondo non rappresenta nulla.
I. Kant, Critica del Giudizio, par. 54, p. 365
Maschera tragica
e maschera comica
(part.), III sec. d.C.,
Roma, Musei Capitolini.
Come si può notare, nel brano compare un riferimento all’illusione. Citando Voltaire, secondo il quale per compensare le pene della vita abbiamo la speranza e il
sonno, Kant suggerisce di aggiungere il riso, «se solo i mezzi per suscitarlo nelle persone assennate fossero altrettanto a portata di mano e l’arguzia o l’originalità dell’umore che si richiedono a tal scopo non fossero così tanto rare». L’umorismo è in relazione con la possibilità di valutare in modo diverso qualcosa che venga fatto oggetto di una «esibizione vivace per mezzo di un contrasto».
Nel saggio Il riso (1901), Henri Bergson si interroga sul «significato del comico» e
sui motivi che ne stanno alla base:
Ecco un primo punto degno d’attenzione. «Non v’è nulla di comico al di fuori di ciò
che è propriamente umano».
Henri Bergson
H. Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico, p. 4
Enigmi filosofici
221
L’effetto comico sembra aver luogo in modo privilegiato «su una superficie di anima molto calma e uniforme»: per chi osserva come spettatore indifferente, senza lasciarsi influenzare da affezioni o emozioni particolari, «molti drammi diventeranno
commedie». Per rendersene conto basta pensare a cosa accadrebbe turandosi le orecchie in un salone da ballo: secondo Bergson, i danzatori apparirebbero ben presto ridicoli. La stessa cosa accadrebbe secondo il filosofo per la maggior parte delle azioni umane, se si volesse osservarle in modo distaccato o lasciandosi coinvolgere meno di quanto facciamo abitualmente:
Il comico esige dunque, per produrre tutto il suo effetto, qualcosa come un’anestesia
momentanea del cuore: si dirige alla pura intelligenza.
Solamente, tale intelligenza deve sempre rimanere in contatto con altre intelligenze.
Ecco il terzo fatto al quale convien prestare attenzione: noi non gusteremmo il comico se ci sentissimo isolati.
Può diventare comica ogni difformità che una persona ben conformata arrivi a contraffare.
Automatismo, rigidità, piega contratta e conservata, ecco i dati per cui una fisionomia
ci fa ridere.
Passiamo, ora, dal comico delle forme a quello dei gesti e dei movimenti. Enuncio subito la legge che mi sembra dirigere i fatti di tale categoria. Essa, d’altronde, si deduce dalle considerazioni già svolte. Le attitudini, i gesti, i movimenti del corpo umano
sono risibili nelle stesse proporzioni in cui esso corpo ci fa pensare ad un semplice meccanismo.
Dove la persona altrui non più ci commuove, là solamente può cominciare la commedia e questa comincia con ciò che si potrebbe chiamare l’irrigidimento contro la
vita sociale. È comico qualunque individuo che segua automaticamente il suo cammino, senza darsi pensiero di prendere contatto con gli altri. Il riso è là per correggere la sua distrazione e per svegliarlo dal suo sogno.
Da ciò il carattere equivoco del comico. Esso non appartiene né completamente all’arte, né completamente alla vita. Da un lato i personaggi della vita reale non ci farebbero mai ridere se noi non fossimo capaci d’assistere alle loro vicende come a spettacolo visto dall’alto di una loggia; essi sono comici ai nostri occhi solo perché ci danno la commedia. Ma d’altra parte, anche a teatro, il piacere di ridere non è puro, cioè
esclusivamente estetico, assolutamente disinteressato. Vi si associa sempre un pensiero occulto che la società ha per noi quando non l’abbiamo noi stessi; vi è sempre l’intenzione non confessata di umiliare e con ciò, è vero, di correggere, almeno esteriormente; perché la commedia è molto più vicina del dramma alla vita reale.
H. Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico, pp. 5-89
PER
PENSARE
Alla luce del dibattito sull’illusione estetica, discuti quello che Bergson definisce «carattere equivoco del comico», il
suo non appartenere «completamente all’arte, né completamente alla vita».
222
ILLUSIONE
CHI L’HA DETTO
?
Leggendo i seguenti brani, che ci portano dalla filosofia
antica a quella contemporanea, avrai modo di riconoscere alcuni approcci all’analisi del ruolo della finzione e della sostituzione nella rappresentazione. Il tema dell’illusione attraversa il campo della riflessione sull’esperienza
estetica e quello delle indagini più generali su condizioni
e limiti della conoscenza umana. Fin da Platone, la filosofia si interroga sul valore cognitivo del mito e sull’intreccio
tra vero e falso che esso propone. Sono esempi di sostituzione anche le metafore, a cui già Aristotele dedica spazio
nei suoi trattati su retorica e poetica: mitologia e metafore sono poi fonte di ispirazione per i pittori, suggerendo
intrecci tra poetica, retorica e pittura, che furono evidenziati e teorizzati in modo esplicito durante il Rinascimento. Da Spinoza a William James, il tema dell’illusione e
delle finzioni dell’immaginazione s’intreccia con una discussione più generale sul rapporto tra le credenze umane
e il «senso di realtà», che dipende dall’orientamento delle credenze. In un filosofo come Wittgenstein, l’impostazione di tali considerazioni generali, che mettono in relazione più o meno diretta il fenomeno dell’illusione e le facoltà conoscitive umane complessivamente prese, risentono della riflessione sul «vedere come», sulla possibilità
umana di vedere forme e figure (ad esempio immagini
tracciate sulla carta) «come» particolari oggetti.
Aiutandoti con il manuale, prova ad associare a ciascun
brano il nome del relativo autore. Le soluzioni si trovano
a fine Seminario.
u❘ VOLUMI 1-2-3 PLATONE • ARISTOTELE • LEON BATTISTA
ALBERTI • SPINOZA • DIDEROT • WILLIAM JAMES • LUDWIG WITTGENSTEIN
1. Non comprendi che ai bambini raccontiamo anzitutto favole? E questo è in genere un falso, non
scevro però di cose vere.
3. Concepiamo un ragazzo che immagina un cavallo
con le ali e non percepisce nient’altro. Poiché questa immaginazione implica l’esistenza del cavallo e
il ragazzo non percepisce alcunché che tolga l’esistenza del cavallo, egli contemplerà necessariamente il cavallo come esistente; né potrà dubitare
della sua esistenza, sebbene non sia certo di essa.
Sperimentiamo questo quotidianamente anche nei
sogni, e non credo che vi sia alcuno che ritenga di
avere la libera facoltà di sospendere il giudizio,
mentre sogna, intorno alle cose che sogna e di far
sì da non sognare le cose che sogna di vedere; e
tuttavia accade che nei sogni sospendiamo il giudizio, e cioè quando sogniamo di sognare.
...........................................................................
4. Prendiamo di nuovo l’esempio del cavallo con le
ali. Se io sogno semplicemente un cavallo con le
ali, il mio cavallo non interferisce con qualcos’altro
e non è contraddetto. Quel cavallo, le sue ali e la
sua posizione, sono tutti egualmente reali. Quel
cavallo non esiste in un altro modo, se non alato,
ed è per di più realmente là, poiché il luogo in cui si
trova non esiste se non come il luogo di quel cavallo e non comporta ancora alcuna connessione con
altri luoghi nel mondo. Se tuttavia, con questo cavallo, faccio un’incursione nel mondo conosciuto
altrimenti, e dico, per esempio: «Questa è la mia
vecchia giumenta, Maggie, a cui è cresciuto un
paio d’ali mentre se ne stava nella stalla», il caso
muta completamente, dal momento che ora il cavallo e il luogo sono identificati con un cavallo e un
luogo altrimenti conosciuti, e ciò che si conosce circa gli ultimi oggetti è incompatibile con quanto si
percepisce dei primi. «Maggie nella sua stalla con
le ali? Mai!». Le ali sono irreali, quindi sono un’allucinazione. Ho sognato una falsità a proposito di
Maggie nella sua stalla.
...........................................................................
...........................................................................
2. Noi apprendiamo soprattutto dalle metafore […].
Anche le similitudini dei poeti ottengono lo stesso
effetto […]. La similitudine è infatti […] una metafora che differisce perché vi è aggiunto qualcosa
[…] essa non identifica i due termini, quindi la
mente non esamina la relazione.
...........................................................................
5. Consiglio ciascuno pittore molto si faccia famigliare ad i poeti, retorici e agli altri simili dotti di lettere, già che costoro doneranno nuove invenzioni, o
certo aiuteremo a bello componere sue storie, per
quali certo acquisteranno in sua pittura molte lodi
e nomi. Fidias, più che gli altri pittori famoso, confessava avere imparato da Omero poeta dipingere
Chi l’ha detto?
223
Iove con molte divine maestà. Così noi, studiosi
d’imparare più che di guadagno, dei nostri poeti
impareremo più e più cose utili alla pittura.
noi osserviamo un film, ad esempio, e seguiamo
con partecipazione tutto ciò che succede: come se
avessimo davanti persone reali.
...........................................................................
...........................................................................
6. È ben curioso il fatto che non abbiamo alcuna difficoltà a vedere un volto in una figura come questa
, per quanto sia grande la diversità tra uno degli
angoli e un naso, tra un altro degli angoli e una
fronte, ecc., o, viceversa, per piccola che sia tale somiglianza. Noi non abbiamo – come abbiamo detto
– alcuna difficoltà a riconoscere un volto umano in
questi tratti; ci viene voglia di dire: «Un volto del genere esiste». O anche: «Questa è sì la caricatura di
un volto umano, ma di un volto che comunque può
esistere nella realtà». Proprio come non si ha alcuna
difficoltà a vedere il volto umano in una fotografia
in bianco e nero. – E che cosa vuol dire questo? Che
7. Più tutto è falso, più si ama il vero; più tutto è corrotto, e più lo spettacolo si purifica. Il cittadino che
si presenta all’ingresso della Comédie, lascia fuori
tutti i suoi vizi, per riprenderli soltanto all’uscita. Là
è giusto, imparziale, buon padre, buon amico, sicuro amico della virtù; e spesso mi sono visto accanto delle canaglie profondamente indignate
contro azioni che non avrebbero esitato a commettere se si fossero trovate nelle medesime circostanze in cui il poeta aveva posto il personaggio
che essi detestavano.
...........................................................................
G.B. Tiepolo, Bellerofonte su Pegaso (part.), 1747.
224
Intersezioni
tra filosofia e scienze
FISICA
BIOLOGIA
PSICOLOGIA
NEUROSCIENZE
ANTROPOLOGIA
SOCIOLOGIA
Immagini che emozionano
S
ul finire del XX secolo, filosofi, storici dell’arte e studiosi di neuroscienze
hanno iniziato a confrontarsi sul modo in cui le immagini – statiche o in movimento – sono in grado di provocare reazioni emotive: reazioni che coinvolgono al tempo stesso mente e corpo. In inglese è stata coniata, e gode di buona diffusione in questo ambito di ricerca, la locuzione embodied mind («mente incorporata» o «incarnata»), che permette di evitare la tendenza a parlare di mente e
di corpo come due entità disgiunte: asserire che la mente è «incarnata» significa richiamare l’attenzione sul fatto che essa è indisgiungibile dal corpo, in relazione ai
cui vincoli essa è capace di apprendere, conoscere, emozionarsi, comunicare e
rappresentare.
Intersezioni tra filosofia e scienze
225
Uno storico dell’arte che si è particolarmente impegnato nel confronto interdisciplinare è David Freedberg (1948-), professore di Storia dell’arte alla Columbia University, che già nel 1989, in un saggio intitolato Il potere delle immagini, aveva iniziato
a descrivere una gamma di risposte emotive e corporee alle opere d’arte. Il suo primo passo fu quello di raccogliere le testimonianze su risposte emotive e «viscerali» alle immagini, concentrandosi per così dire sui «sintomi della risposta»; in seguito affrontò il problema dello studio sistematico della relazione tra le risposte provocate
dalle immagini e il modo in cui esse appaiono.
Sui processi in base ai quali le immagini riescono a stimolare emozioni intervengono fattori biologici, ma anche aspetti culturali non trascurabili. Tuttavia, nota
Freedberg:
Sebbene nella seconda metà del XIX secolo e all’inizio del XX la teoria dell’arte tedesca si sforzasse di occuparsi a fondo del problema delle risposte emotive all’arte,
la sua rilevanza per le concezioni moderne dell’emozione è stata quasi totalmente
trascurata dai grandi studiosi tedeschi che hanno dominato la storia dell’arte del XX
secolo.
D. Freedberg, Empatia, movimento ed emozione, p. 25
David Freedberg
Secondo Freedberg, sono stati fatti dei significativi passi avanti quando è stata superata la dicotomia fra dimensione cognitiva e dimensione emotiva. Nel seguente
brano, c’è un riferimento a James Elkins (1954-), storico e critico dell’arte, docente
presso la School of the Art Institute di Chicago, autore di un saggio dedicato alle reazioni «forti» suscitate da alcuni dipinti nel corso della storia su spettatori di epoche e
mondi diversi:
Pochissimi storici e teorici dell’arte hanno iniziato a considerare seriamente le emozioni, tra questi James Elkins. Tuttavia, né il suo Pictures of the Body, Pain and Metamorphosis, ricco delle illustrazioni più orribili e opprimenti, né il suo Dipinti e lacrime: storie di gente che ha pianto davanti a un quadro, che descrive un ampio numero di risposte decisamente emotive alle immagini, accennano minimamente al cervello o alle neuroscienze. Tali libri sono tutti relativi alle emozioni e alle emozioni generate da immagini; tuttavia, non offrono alcuna spiegazione sulla modalità con la quale sorgono, né propongono una seppur vaga ipotesi relativa al fatto che talvolta esse
sono collegate in qualche modo a coinvolgimenti corporei, né, infine, dicono da dove arrivano, o quale possa essere la connessione tra l’espressione di un’immagine e la
risposta emotiva che essa provoca.
D. Freedberg, Empatia, movimento ed emozione, p. 27
Dal momento che la risposta emotiva alle immagini è radicata nel corpo, le ricerche condotte nel campo delle neuroscienze possono dirci qualcosa di più sull’argomento. In particolare, appaiono interessanti e pertinenti le ricerche relative alle
aree del cervello deputate ad attivarsi come se stessimo facendo le azioni che stiamo
osservando. Un processo in parte analogo è quello dell’allodinia, il provar dolore in
un punto del corpo (dito, arto) quando si vede un’altra persona subire un trauma improvviso in quel punto. Questi fenomeni sono stati descritti da alcuni con il termine
«risonanza».
Con il termine inglese gating (dall’inglese gate, «porta», indica il controllo sull’apertura/chiusura di un canale) si designa invece quel fenomeno per cui, di fronte ad
opere d’arte di vario genere, le nostre risposte emotive vengono per così dire «bloccate», «attenuate», «contenute» o «sostituite» con risposte distaccate. Osservando un
226
ILLUSIONE
quadro che rappresenta una scena truce, ad esempio, l’impressione di orrore che
posso provare viene più o meno rapidamente sostituita da un’impressione più tenue,
collegata all’atteggiamento di contemplazione distaccata che assumo pensando di essere di fronte ad un’opera d’arte. Come scrive Freedberg:
Qualunque sia la risposta emotiva a un’immagine in una galleria, questa viene soppiantata quasi istantaneamente da una risposta estetica più distaccata, una risposta
normalmente – e giustamente – considerata come interamente cognitiva. Scoperte simili, credo, devono assolutamente essere messe in relazione ai modi in cui valutiamo
l’abilità con cui un artista impegna l’attenzione dell’osservatore.
D. Freedberg, Empatia, movimento ed emozione, p. 53
Prima di procedere oltre su questi argomenti, è il caso di precisare che quando si
parla di «attivazione» di una parte della corteccia cerebrale in determinate situazioni,
in genere si fa riferimento a ricerche condotte con l’ausilio di tecniche di neuroimaging, cioè di visualizzazione dell’attività cerebrale. Tra queste spicca la risonanza magnetica funzionale (fMRI), così descritta dallo scienziato Marco Iacoboni (1960-), professore presso la Facoltà di Medicina dell’Università della California e Los Angeles,
uno degli studiosi che hanno contribuito a dimostrare l’esistenza del sistema dei cosiddetti «neuroni-specchio» nella corteccia cerebrale umana:
Marco Iacoboni
Lo strumento adottato fu la fMRI, una grossa macchina che impiega un potente magnete per generare un campo magnetico. Il modo in cui la fMRI misura l’attività del
cervello, nello specifico, è relativamente semplice. Supponete di voler muovere le dita della vostra mano destra. Per fare questo, alcune cellule della vostra corteccia motoria scaricano dei potenziali d’azione che inviano segnali elettrici al midollo spinale
e ai muscoli delle vostre dita. Questa attivazione neuronale richiede energia: allo scopo di fornire alle cellule cerebrali l’ossigeno di cui necessitano quando scaricano (un
po’ come il motore dell’automobile che ha bisogno di benzina per andare avanti), il
sangue che scorre nel cervello e che porta la proteina detta ossiemoglobina affluisce
alla corteccia motoria. Le cellule cerebrali si prendono l’ossigeno di questa proteina,
che diventa così deossiemoglobina, vale a dire, emoglobina senza ossigeno. Per la
fMRI, il fattore chiave è dato dal fatto che ossiemoglobina e deossiemoglobina hanno
proprietà magnetiche differenti e si comportano in modo diverso nel campo magnetico creato dal magnete dello scanner MRI. Inoltre, il flusso sanguigno che si dirige in
un’area cerebrale attivata (la corteccia motoria, in questo caso) è in eccesso rispetto al
bisogno, quindi la proporzione di ossiemoglobina e deossiemoglobina nel sangue varia quando si attiva una determinata area del cervello. Un’area attivata ha una quantità superiore di ossiemoglobina, ragione per cui il livello di ossigenazione del sangue
è un buon indicatore dell’attività cerebrale in un cervello sano. Grazie alla contingenza dell’insieme di tutti questi fenomeni naturali, è possibile impiegare, in maniera non
invasiva, la fMRI per tracciare l’attività di tutto il cervello mentre i soggetti eseguono
svariati compiti.
M. Iacoboni, I neuroni specchio, pp. 57-58
Il neuroscienziato italiano Vittorio Gallese (1959-), spiegando il ruolo dei «neuroni-specchio» e il radicamento sul piano corporeo e motorio della nostra comprensione delle azioni altrui e delle loro espressioni emotive, ha dato particolare risalto al
concetto di «simulazione incarnata», con il quale ci si riferisce al seguente fenomeno: ci sono neuroni della corteccia cerebrale che si attivano quando vediamo eseguire un’azione come se noi stessi la stessimo eseguendo. Il «come se» indica non l’i-
Intersezioni tra filosofia e scienze
227
dentità perfetta tra l’attivazione della corteccia cerebrale di chi compie l’azione e
quella di chi la osserva, ma una specie di simulazione indotta nella corteccia dell’osservatore. Per questa ragione Gallese può dire che noi comprendiamo le azioni altrui
anche attraverso questo processo di simulazione, che in qualche modo ci consente
di farcene dei modelli: il legame che la simulazione instaura tra agente e osservatore
è «anonimo» e «neutrale», perché emerge in modo non consapevole e senza la mediazione del linguaggio:
Vittorio Gallese
Il nostro cervello è infatti dotato di neuroni – i neuroni-specchio […] – localizzati nella corteccia premotoria e parietale posteriore, che si attivano sia quando compiano
un’azione che quando la vediamo eseguire da altri. Sia le predizioni che riguardano le
nostre azioni, sia quelle che riguardano le azioni altrui, possono quindi essere caratterizzate come processi di modellizzazione fondati sulla simulazione. La stessa logica
che presiede alla modellizzazione delle nostre azioni presiede anche a quella delle
azioni altrui. Percepire un’azione – e comprenderne il significato – equivale a simularla internamente. Ciò consente all’osservatore di utilizzare le proprie risorse per penetrare il mondo dell’altro mediante un processo di modellizzazione che ha i connotati di un meccanismo non conscio, automatico e pre-linguistico di simulazione motoria. Questo meccanismo instaura un legame diretto tra agente e osservatore, in
quanto entrambi vengono mappati in modo, per così dire, anonimo e neutrale. […]
I neuroni-specchio – originariamente scoperti nel cervello del macaco – mappano in
modo costitutivo una relazione tra un agente e un oggetto […]. È quindi esclusivamente la relazione agente-oggetto a evocare l’attivazione dei neuroni-specchio.
V. Gallese, Corpo vivo, simulazione incarnata e intersoggettività, pp. 304-405
Possiamo anche immaginare un’azione e simularla, per così dire, «mentalmente».
Anche in questo caso si possono rilevare attivazioni della corteccia motoria, ma il caso differisce da quello in cui si osserva l’azione altrui, perché questa induce «automaticamente» la propria simulazione:
Se comprendere significa simulare, quale differenza sussiste tra comprendere un’azione osservata e immaginarla? La simulazione alla base della comprensione delle
228
ILLUSIONE
azioni altrui differisce sotto molti punti di vista dai processi che sottendono l’immaginazione visiva e motoria. L’osservazione dell’azione altrui induce automaticamente in
modo obbligato la simulazione della stessa. Nell’immaginazione mentale, invece, il
processo di simulazione è evocato da un atto della volontà: si decide di proposito
d’immaginare di fare o vedere qualcosa.
V. Gallese, Corpo vivo, simulazione incarnata e intersoggettività, p. 305
Gallese parla di un «processo di simulazione incarnata […] automatico in quanto
obbligato, non conscio e pre-dichiarativo», non mediato dal linguaggio: tutti possibili spunti per indagare il rapporto con l’interrogare filosofico.
PER
PENSARE
Concentrati su una questione di metodo. Può la scienza rispondere a domande che la filosofia ha lasciato in sospeso, oppure ha riformulato nel corso del tempo? O meglio: può la scienza mettere fine alla riformulazione filosofica
delle domande? Che genere di collaborazione può esserci tra un filosofo e uno studioso di neuroscienze?
FISICA
BIOLOGIA
PSICOLOGIA
NEUROSCIENZE
ANTROPOLOGIA
SOCIOLOGIA
La persistente illusione
della distinzione tra mente e corpo
G
li scienziati impegnati nelle ricerche sui processi della vita mentale condividono perlopiù l’idea che la distinzione cartesiana tra mente e materia
abbia prodotto e continui a produrre una sorta di illusione prospettica
circa l’autonomia della mente rispetto alle sue basi corporee; fondamentali divergenze emergono, tuttavia, quando si tratta di definire e indagare in modo circostanziato il rapporto di relativa dipendenza tra mente e materia.
Colwyn Trevarthen, professore emerito di Psicologia infantile e Psicobiologia all’Università di Edimburgo, descrive l’ambito della biologia della mente e sottolinea
la necessità di instaurare un fecondo rapporto di reciproca ispirazione e integrazione tra biologia e psicologia, annunciando una «psicobiologia ideale». Il punto
non è quello di ridurre la psicologia alla biologia: tra i fenomeni mentali e quelli
più generalmente definiti biologici, infatti, interviene un «salto» a livello dei sistemi
e dei processi coinvolti, e tale salto richiede l’adozione di modalità descrittive differenti. In altri termini, gli episodi della vita mentale non possono essere compresi
dando la mera descrizione degli eventi biologici ad essi corrispondenti.
Un analogo «salto» di livello si manifesta anche in altri ambiti: i processi fisiologici di un organismo, ad esempio, coinvolgono elementi fisici (atomi, molecole
ecc.) presenti anche nel mondo inorganico, eppure manifestano dinamiche proprie, in qualche misura «indipendenti» da quelle osservabili nel dominio del non vivente. Nella ricerca contemporanea persistono, quindi, le difficoltà nella mediazione tra il livello d’osservazione del biologo e quello dello psicologo, che pure trattano fenomeni in qualche modo correlati, se si ammette che la vita psicologica della persona emerge sull’insieme dei processi biologici dell’organismo e dalla sua
storia. Persistendo le difficoltà di trovare mediazioni e correlazioni tra i livelli, resi-
Intersezioni tra filosofia e scienze
229
ste anche la distinzione cartesiana – che in molti definiscono «illusoria» – tra il corpo come «estensione materiale» e la mente come «sostanza pensante», non estesa e
spirituale:
Colwyn Trevarthen
Definiamo una psicobiologia ideale come la scienza delle strutture e dei processi della vita mentale. L’obiettivo specifico di questa scienza è quello di scoprire i principi
biologici nel comportamento degli animali e nelle concezioni e nelle esperienze che
guidano ciò che gli animali fanno. Dovrebbe abbracciare, all’interno di un unico insieme di principi, la coscienza dell’uomo e tutti i suoi sentimenti, le emozioni, le intuizioni e le intenzioni che motivano le varie forme adattive della comprensione umana. Non è necessario che si verifichi una riduzione della psicologia a una biologia a
essa subordinata. Allo stesso modo in cui i sistemi fisiologici ottengono un’indipendenza permanente dai loro fondamenti nella fisica e nella chimica inorganica, i sistemi psicologici si liberano dalla biologia «vegetativa» di organismi che agiscono attraverso la crescita e la forma, ma non con il comportamento. Abbiamo bisogno dei livelli anatomici e fisiologici corretti, e della giusta psicologia.
[…] l’abisso che c’è fra i processi centrali astratti che gli psicologi aspirano a comprendere e le strutture e funzioni osservate dai biologi rimane ancora enorme. Per colmare questa frattura, avremo bisogno di costruire nuovi modi di vedere i sistemi che
organizzano gli atti mentali genuinamente intelligenti. Soltanto allora la distinzione
cartesiana fra materia (res extensa) e mente (res cogitans) avrà finalmente perso di significato, come logicamente vorrebbero gli obiettivi scientifici della fisiologia.
C. Trevarthen, Empatia e biologia, 1998, p. 53
PER
PENSARE
Tenendo presente quanto scrive Trevarthen, rifletti su come la distinzione cartesiana tra materia e mente persista negli usi quotidiani del linguaggio, nelle espressioni che comunemente si utilizzano per riferirsi alla mente, al corpo e
più in generale alla materia.
M.C. Escher,
Vincolo di unione,
1956.
230
Per leggere il mondo
contemporaneo
La vita sullo schermo
Secondo Nicholas Mirzoeff, studioso americano di comunicazione, media e cultura,
«la nostra vita ha luogo sullo schermo». Cosa ne consegue?
Nicholas Mirzoeff
La vita nei paesi industrializzati è sempre più vissuta sotto la costante sorveglianza di
telecamere: dagli schermi sugli autobus a quelli negli shopping malls, da quelli sulle
autostrade o sui ponti a quelli accanto ai bancomat. Sono sempre più le persone che
tornano a guardare il passato affidando i propri ricordi a strumenti che vanno dalle
tradizionali macchine fotografiche a videocamere e Webcam. Allo stesso tempo, lavoro e tempo libero sono sempre più imperniati sui media visivi, dai computer ai videodischi digitali. L’esperienza umana è adesso più visuale e visualizzata di quanto lo sia
mai stata nel passato: dalle immagini satellitari a quelle mediche delle sonde ecografiche che possono penetrare nel corpo umano. Nell’era degli schermi visuali il nostro
punto di vista è cruciale.
Per la maggior parte delle persone negli Stati Uniti, la vita è mediata dalla televisione
e, in misura minore, dai film. Il diciottenne medio americano vede solo otto film l’anno, ma guarda quattro ore di televisione al giorno. Oggigiorno queste forme di visualizzazione sono messe a dura prova da media visivi interattivi, come Internet e le applicazioni della realtà virtuale.
N. Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale, p. 27
Il seguente articolo di quotidiano offre degli spunti per pensare la questione, resa sempre più complessa e pervasiva dalla rapida evoluzione delle piattaforme mediali e delle applicazioni tecnologiche.
Per leggere il mondo contemporaneo
231
Dalla smart car alle connessioni superveloci: le tecnonovità in arrivo.
Al Research@Intel in California presentate le applicazioni tecnologiche
che vedremo entro due anni.
•
dal nostro inviato MARCO LETIZIA
SANTA CLARA (USA) – «La migliore
cosa da fare per il futuro? È inventarlo». Justin Rattner, chief technology
officer di Intel, ostenta sicurezza
mentre parla in una stanza nel cuore
della Silicon Valley, in California. [...]
NOVITÀ – Diversi i campi in cui si
vedranno i maggiori progressi. Per
citarne alcuni, gestione dell’energia,
sicurezza, elettronica, software,
computer grafica, applicazioni per
tablet e pc, internet in auto. Cominciamo dal fronte del divertimento.
Nei prossimi due anni avremo uno
sviluppo delle possibilità offerte dai
giochi online. I nuovi chip permetteranno di moltiplicare di circa 20
volte il numero di partecipanti ai
mondi virtuali teatro dei giochi con,
quindi, diverse centinaia di migliaia
di giocatori in contemporanea. Inoltre la qualità della grafica migliorerà
sensibilmente verso un realismo senza precedenti. Questo sarà dovuto a
un progresso sostanziale della potenza di calcolo che permetterà uno
sviluppo del cosiddetto visual computing. Avremo scene e oggetti visualizzabili in altissima definizione
(man mano che nuovi tipi di schermi
saranno disponibili), cosa che avrà
una ricaduta non solo sul piano dell’intrattenimento, ma anche in settori
diversi come la medicina ad esempio. Passi avanti anche sul fronte
della sicurezza informatica. Una
dimostrazione faceva vedere come
attraverso la telecamera del proprio
computer e l’assistenza di un service
provider era possibile garantire la
reale presenza del cliente in operazioni delicate come le transazioni
bancarie. Un settore ancora tutto da
esplorare è invece quello dell’internet in auto. Nei prossimi anni, infatti, avremo le prime cosiddette smart
car. Ma le esigenze degli utenti in
mobilità sono del tutto diverse da
quelle di chi si trova a casa davanti a
uno schermo e a una tastiera. Per capirle Intel ha messo al lavoro un’intera squadra di persone. [...] Novità
in arrivo anche sul fronte delle vendite. I negozi di abbigliamento e i
centri commerciali nel giro di un anno potranno infatti dotarsi del Magic Mirror, uno schermo ad altezza
uomo completo di telecamera e guidato di uno speciale software in cui
un avatar con le nostre forme e misure può indossare decine di vestiti
per farci vedere quello che ci sta meglio evitando di far svuotare il magazzino alla commessa. Poi c’è il settore casa-ambiente-energia. Con
edifici in cui speciali computer consentono di programmare la massima
efficienza degli apparati elettrici presenti in casa.
M. Letizia, Dalla smart car
alle connessioni superveloci: le tecnonovità
in arrivo, www.corriere.it, 16 luglio 2011
TRACCE
Esponete in forma di saggio breve il vostro punto di
vista sulle questioni affrontate da Mirzoeff, rifletten-
do alla luce delle esperienze futuribili prospettate dall’articolo riportato sopra.
232
ILLUSIONE
Pubblicità ingannevole
L’idea che alcune pubblicità possano essere ingannevoli, e che i «consumatori» debbano essere perciò tutelati, solleva il problema del confine tra tecniche persuasive e
vero e proprio inganno. In un opuscolo pubblicato dall’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato (Agcm), intitolato Pubblicità ingannevole e comparativa (Piccola guida per la tutela del consumatore), leggiamo quanto segue: «Non tutti […] utilizzano la pubblicità correttamente: c’è chi approfitta del fatto che il consumatore non
ha modo di verificare la veridicità delle informazioni in essa contenute se non tramite l’acquisto del prodotto e, dunque, troppo tardi e a proprie spese».
Curiosamente, viene richiamato l’episodio di Pinocchio, ingannato dal Gatto e
dalla Volpe, che gli sottraggono le monete d’oro facendogli credere che esse potevano raddoppiare nel Campo dei miracoli. Secondo l’opuscolo, il ricorso alle tecniche
di persuasione in pubblicità è in generale legittimo, ma
cessa di esserlo quando si supera quella soglia oltre la quale la persuasione si trasforma in inganno (ad esempio, è lecito avvalersi di dati presentati come scientifici, purché siano veritieri; è lecito identificare il prodotto con uno stile di vita gradevole, purché non si spinga tale operazione fino alla promessa che il prodotto di per sé è in grado di garantirlo.
Segue la citazione del decreto 94/92, secondo cui la pubblicità è ingannevole
quando «induce o può indurre in errore»: «in parole povere – prosegue il testo – è ingannevole ogni comunicazione che direttamente o indirettamente, crea nei consumatori un’idea errata sul prodotto o servizio offerto». Segue la citazione di vari casi di
studio, ispirati a casi reali ma con l’utilizzo di nomi di fantasia, in modo che «qualsiasi riferimento a società o marchi esistenti» sia «puramente casuale». Ne menzioniamo
due:
Inserzione su quotidiano nazionale: «Corri in Internet con Spark e scoprirai i vantaggi
della velocità di collegamento di 56 K. Spark ti permette di navigare senza perdere
tempo e di arrivare subito dove vuoi arrivare. Spark accelera il tuo divertimento».
L’Autorità garante ritenne ingannevole il messaggio, poiché Spark poteva garantire la connessione a 56K effettivi soltanto all’inizio della navigazione, quando l’utente si connette al proprio Internet Service Provider; nel corso nella navigazione, molti altri fattori incidono sulla velocità di connessione effettiva e Spark non poteva promettere una navigazione costante a 56K.
Da un quotidiano locale: «Talenti in erba. Vuoi entrare nel mondo della moda e della
pubblicità? Fashion Tequila seleziona giovani ambosesso età 15/25 anni da lanciare
come: indossatrice/ore, fotomodella/o. I prescelti verranno proposti a casting di moda – pubblicità – spettacolo – sfilate di moda».
Le istruttorie disposte dall’Autorità garante evidenziarono che Fashion Tequila,
mentre prometteva di aiutare i giovani ad entrare nel mondo del lavoro, in realtà dopo un incontro iniziale di selezione li invitata a partecipare a un corso a pagamento,
senza garantire nulla sulle successive opportunità di impiego.
L’articolo seguente evidenzia, invece, come gli interventi possano cambiare da
paese a paese.
Per leggere il mondo contemporaneo
233
In Norvegia il difensore civico scende in campo e vieta qualsiasi spot
che associ concetti di ecologicità alle macchine: «Inquinano tutte».
Vietato dire che l’auto è «verde». In Norvegia è pubblicità ingannevole.
di VINCENZO BORGOMEO
Tempi duri per i pubblicitari del
mondo dell’auto: non possono parlare di velocità, non possono inneggiare troppo alle prestazioni e devono dichiarare le emissioni di C02. E
fra poco sarà vietato associare qualsiasi automobile a qualsiasi concetto
ecologico.
le auto inquinano, sia pure in modo
diverso.
Oeverli è stato chiaro, anzi chiarissimo: «Le auto non possono fare niente di buono per l’ambiente, a parte
arrecare un minor danno rispetto ad
altre auto». In Norvegia, si sa, le correnti ambientaliste sono forti, fortissime, e non è un caso che lo slogan
più famoso per le auto è proprio il
La crociata è partita da Bente Oeverli, difensore civico [...] norvegese che
ha espressamente vietato associare
aggettivi pulito, verde, ecologico o
amica dell’ambiente, a qualsiasi automobile, da quelle ibride a quelle
con motore a benzina. Motivo? È
pubblicità ingannevole perché tutte
classico «la macchina più pulita è
quella che non guidi...». Ma c’è poco
di che stare allegri anche per gli altri
Paesi europei: l’idea dell’ombudsman norvegese potrebbe essere ripresa presto da altri suoi colleghi
perché i problemi ambientali sono
ormai i più sentiti.
E c’è dell’altro: le pubblicità di auto
in Norvegia non solo avranno il divieto di dire che una macchina è
ecologica, ma se vorranno spiegare
che un determinato modello è più
pulito di un altro dovranno raccontare nel dettaglio come e perché.
V. Borgomeo, Vietato dire che l’auto è «verde». In Norvegia è pubblicità ingannevole,
www.repubblica.it, 14 febbraio 2008
TRACCE
Tenendo conto del dibattito filosofico su illusione e inganno, analizza la distinzione tra comunicazione persuasiva non ingannevole e comunicazione ingannevole.
Dove tracceresti il confine? Ritieni che siano in qualche
misura ingannevoli, ad esempio, le immagini dei panini
dei fast-food, così diverse dall’aspetto del panino che
viene effettivamente servito, o le immagini che molti politici fanno circolare, non solo durante le campagne elettorali, spesso risalenti a molti anni prima oppure sottoposte ad abbondanti dosi di foto-ritocco?
234
Attraverso i linguaggi
LETTERATURA
PITTURA
SCULTURA
TEATRO
MUSICA
CINEMA
Cosa può accadere
su una piccola «O di legno»?
Nel Prologo dell’Enrico V, Shakespeare invita gli spettatori a integrare con la forza dell’immaginazione ciò che non sarà possibile rappresentare sulla scena: lì, nella piccola «O
di legno» della scena, non si potranno portare né i campi di Francia né un numero di attori pari ai guerrieri che presero parte a una battaglia. Eppure, in qualche modo, i campi di Francia e la battaglia saranno evocati dalle parole e dai gesti degli attori, cosicché
gli spettatori arriveranno a pensare e a visualizzare mentalmente paesaggi e azioni non
visti. Shakespeare attribuisce così un ruolo attivo allo spettatore teatrale e alla sua immaginazione, sostenuta dalle parole, dai movimenti e dai gesti degli attori: ciò che ne
consegue, l’illusione teatrale, è l’effetto congiunto dell’opera del drammaturgo, della
recitazione degli attori e dell’attività immaginativa degli spettatori, che integrano mentalmente, amplificano e sostituiscono quanto vedono sulla scena:
Prologo, entra il CORO:
Oh per una Musa di fuoco, che ascendesse al cielo
Più luminoso dell’invenzione, un regno per palcoscenico,
principi per attori, e sovrani a guardare da spettatori
la scena gloriosa! […]
Ma voi, signori tutti, perdonate
Gli spiriti pedestri e piatti che hanno osato
portare su questo indegno palco un tema così grande.
Può questa misera arena contenere i vasti
campi di Francia? E possiamo, questa O di legno,
inzepparla qui dei soli cimieri che atterrirono l’aria
ad Agincourt? Oh, perdonate! Come una cifra sbilenca
può contenere in breve spazio un milione, permettete a noi,
zeri di questa grande somma, di lavorare sulla forza
della vostra immaginazione. Supponete dunque che nella cerchia
di questi muri siano ora confinate due
potenti monarchie le cui alte fronti sporgenti
separa la strettoia del periglioso mare. Rimediate
coi vostri pensieri alle nostre imperfezioni: dividete
un solo uomo in mille parti e create
un’armata immaginaria. Quando parliamo di cavalli
pensate di vederli che stampano gli zoccoli alteri
235
Attraverso i linguaggi
Battaglia di Agincourt,
Londra,
Lambeth Palace
Library.
sulla soffice terra; sono i vostri pensieri che ora
debbono addobbare i nostri re, portarli
di qua e là scavalcando i tempi, chiudendo
le gesta di molti anni nel giro di una clessidra.
W. Shakespeare, Enrico V
PER
PENSARE
Fai altri esempi della «forza dell’immaginazione» nel senso inteso da Shakespeare, riferendoti anche, ma non soltanto, ai giochi dei bambini e alla loro capacità di inventarsi scenari e situazioni per semplice immaginazione (un esempio
classico è quello del manico di scopa usato come cavallo o come fucile, con cui abbiamo aperto questo Seminario).
LETTERATURA
PITTURA
SCULTURA
TEATRO
MUSICA
CINEMA
Sottili differenze
Il pittore belga René Magritte (1898-1967) ha dedicato un ciclo di lavori alla condizione
umana, raffigurando tele che coprono parzialmente i paesaggi che rappresentano. L’immagine sulla tela e il paesaggio da essa nascosto sembrano proseguire l’una nell’altro fino a coincidere e confondersi: eppure Magritte, dipingendo il margine della tela, segnala
sempre l’esistenza di una sottile differenza tra la rappresentazione dell’artista e il «mondo» che essa sembra includere. Così facendo, il pittore suggerisce (1) che ogni nostra
rappresentazione rimane differente dal mondo e non può diventarne la copia perfetta e
che (2), non essendo il mondo perfettamente rispecchiabile dalle rappresentazioni che
ne facciamo, la nostra conoscenza del mondo non consiste nel suo «rispecchiamento».
Scrivendo a proposito del ciclo di dipinti La condizione umana (vedi la gallery del sito
http://www.magritte.be/ o le immagini reperibili in internet), René Magritte dichiara:
La condizione umana fu la soluzione al problema della finestra. Misi di fronte a una finestra, vista dall’interno di una stanza, un quadro rappresentante esattamente la par-
236
ILLUSIONE
te di paesaggio nascosta alla vista dal quadro. Quindi l’albero raffigurato nel quadro
nascondeva alla vista l’albero vero dietro di esso, fuori della stanza. Esso esisteva per
lo spettatore, per così dire, simultaneamente nella sua mente, come dentro la stanza
nel quadro, e fuori nel paesaggio reale. Ed è così che vediamo il mondo: lo vediamo
come al di fuori di noi anche se è solo d’una rappresentazione mentale di esso che
facciamo esperienza dentro di noi. Allo stesso modo a volte situiamo nel passato una
cosa che accade nel presente. Il tempo e lo spazio perdono così il loro significato
grossolano, l’unico di cui l’esperienza quotidiana tenga conto.
R. Magritte, La linea della vita, p. 185
PER
PENSARE
Discuti l’idea di Magritte utilizzando il concetto di illusione. Prova a proporre, con un disegno o una foto, una «variazione sul tema» dell’idea di Magritte.
R. Magritte,
La condizione umana,
1933, Washington,
National Gallery of Art.
Attraverso i linguaggi
237
Trompe-l’oeil
Esistono diverse raccolte di opere d’arte, per lo più pittoriche, basate sull’illusione ottica: una di queste è intitolata Trompe-l’oeil ed è curata dal critico d’arte italiano Flaminio Gualdoni, che si sofferma sulla prospettiva come caso di studio esemplare dell’illusione e della finzione possibili in arte. Ecco le considerazioni di Gualdoni a questo proposito:
La concezione della prospettiva, somma tra le rivoluzioni rinascimentali, si colloca al
crocevia tra scienza della visione e artificio ingannevole. Che un sistema ordinato e logico di proporzioni conduca a raffigurare compiutamente su due dimensioni ciò che
i nostri occhi vedono collocato in tre, e che ciò avvenga non per abilità illusionistica
del singolo artista, ma per sapere teorizzato e condiviso, è frutto da un lato del pensiero razionale che presiede a tutta l’arte rinascimentale «la quale – ci avverte Leonardo Da Vinci – con filosofica e sottile speculazione considera tutte le qualità delle forme», ma allo stesso tempo fa rinascere il sogno di un virtuosismo il cui scopo sia non
convincere l’intelletto, ma meravigliare gli occhi: Giovanni Santi, il padre di Raffaello,
elogia in rima Andrea Mantegna perché «fa stupire / qualunque i scorti suoi vede e remira, / che inganan l’occhio e l’arte fan gioire».
Mantegna dà prova dei propri talenti in questo ambito nella Camera picta, o Camera
degli Sposi, del Palazzo Ducale di Mantova, un ambiente di non grandi dimensioni in
cui l’artista, grazie a un complesso gioco di architetture dipinte che si aprono su paesaggi, finge una stanza di dimensioni ben maggiori culminante nell’oculo, la finta
apertura sul cielo sovrastante da cui s’affacciano figure, che noi vediamo come apertura verso l’infinito del cielo e che invece è realizzata su una volta quasi piatta.
F. Gualdoni, Trompe l’oeil, pp. 12-13
PER
SCAMBIARE IDEE
Discuti dell’argomento con i tuoi compagni, gli insegnanti di filosofia e di storia dell’arte, tenendo presente la distinzione concettuale tra illusione e inganno.
Sguardi dalla finestra
Sulla prospettiva è interessante considerare la posizione di Leon Battista Alberti
(1404-1472) e di Leonardo da Vinci (1452-1519). Il primo, nel suo trattato De Pictura, scrive che il pittore, per raffigurare le forme delle cose vedute su una superficie,
traccia i contorni con le sue linee e riempie gli spazi di colore come se la superficie
fosse di vetro trasparente, in modo tale che la «piramide visiva» passi attraverso quel
vetro da una certa distanza e da una certa posizione di centro. Forse si può disegnare in perfetta prospettiva, riproducendo esattamente il reale e l’impressione visiva
che produce, tracciando su una tavoletta trasparente i contorni delle cose vedute? Ecco come il tema della prospettiva in Alberti e Leonardo viene introdotto in un libro
di Marco Piccolino e Nicholas J. Wade, professori rispettivamente di Fisiologia generale all’Università di Ferrara e di Psicologia visiva all’Università di Dundee in Scozia:
La tavoletta trasparente utilizzata viene indicata ora come «finestra di Alberti». La prospettiva lineare si basa sui principi dell’ottica descritti dal matematico greco Euclide.
Alcuni dei diagrammi ottici di Euclide somigliano in effetti a quelli che illustrano il De
238
ILLUSIONE
Pictura dell’Alberti. La grande innovazione dell’Alberti fu l’adozione di un punto di vista fisso di osservazione della piramide visiva. […]
Leonardo da Vinci (1452-1519) adattò la finestra dell’Alberti (a tal punto che essa viene a volte indicata come «finestra di Leonardo») e si rese ben conto che le pitture in
prospettiva potevano presentare distorsioni. Se il punto di stazione utilizzato per realizzare l’immagine differiva dal punto da cui questa veniva osservata, allora l’oggetto
poteva essere difficile da riconoscere. La forma più comune di queste prospettive distorte era quella in cui il punto di stazione non era situato centralmente rispetto all’oggetto da rappresentare ma corrispondeva a una posizione nettamente laterale. Leonardo […] era pienamente cosciente delle differenze percettive che potevano nascere
tra la visione delle scene reali e dei dipinti che le rappresentavano, particolarmente in
rapporto al problema del punto di vista. Vedeva in questo un aspetto del contrasto tra
la visione monoculare e binoculare. In altri termini, la prospettiva era per Leonardo il
frutto dell’osservazione con un solo occhio, mentre nella realtà la percezione è essenzialmente basata sull’uso dei due occhi.
Leonardo fece esperimenti utilizzando una camera oscura, e stabilì un’analogia tra le
operazioni di questo apparato e l’occhio. Senza eguali erano certamente le sue doti di
osservatore, e insuperate sono rimaste le sue creazioni di una «realtà virtuale» sulla tela del dipinto. Tuttavia, in più punti del Trattato della pittura, egli mette in evidenza
come l’immagine del dipinto non potrà mai acquistare il rilievo visibile nella scena
reale con i due occhi, e potrà solo avvicinarsi all’impressione percepibile nella visione monoculare. […] Questo perché la percezione della profondità in un quadro non
può che essere parziale e incompleta rispetto a quella che si ottiene osservando la scena reale con entrambi gli occhi.
A lungo e in modo sofferto Leonardo si dedicò all’analisi delle differenze tra visione
monoculare e binoculare. Era riuscito a utilizzare i principi della finestra dell’Alberti
che permetteva di ottenere una precisa corrispondenza geometrica tra il dipinto e la
scena visiva osservata con un solo occhio. Ma cosa accadeva utilizzando due occhi?
Leonardo si pose questo problema molte volte osservando da distanza ravvicinata un
oggetto di piccole dimensioni collocato in rapporto a uno sfondo. Ritornò più volte
sul problema, come appare dai numerosi diagrammi da lui disegnati. Ogni volta la visione con due occhi era diversa da quella monoculare sia dal punto di vista ottico che
fenomenologico. L’esempio da lui utilizzato, di una sfera di diametro minore della distanza che separa i due occhi, rifletteva una condizione già analizzata da Euclide, ma
Leonardo aggiunse l’accorgimento di osservare l’oggetto in rapporto a uno sfondo
[…].
239
Attraverso i linguaggi
Ogni volta che riprendeva in mano il problema, Leonardo finiva per giungere alla conclusione che egli non poteva dipingere sulla tela tutto quello che vedeva con i due occhi. La procedura dell’Alberti per rappresentare gli angoli visivi sulla superficie piana
del dipinto simulava il mondo visivo monoculare, ma non quello percepito con i due
occhi.
M. Piccolino e N.J. Wade, Insegne ambigue, pp. 14-16
La proposta di Alberti è stata illustrata da Albrecht Dürer (1471-1528), massimo
esponente della pittura tedesca rinascimentale, nel suo trattato teorico Underweysung der Messung (o Institutiones geometricae, del 1525). Rispetto alla descrizione
della finestra fatta da Alberti, Dürer aggiunge l’asta verticale utilizzata dall’uomo seduto per traguardare la figura davanti a lui, attraverso il reticolo.
PER
SCAMBIARE IDEE
Discuti le ricerche di Alberti e Leonardo confrontandoti con i tuoi compagni e con gli insegnanti di filosofia e di storia dell’arte sul tema della riproducibilità del visibile. Prova anche, sullo sfondo di tale questione, a elaborare un punto di vista sulle differenze tra visione monoculare e visione binoculare.
LETTERATURA
PITTURA
SCULTURA
LETTERATURA
MUSICA
CINEMA
Abbandonarsi alla finzione
Jorge Luis Borges (1899-1986), scrittore e poeta argentino, ha saputo tradurre in personaggi e situazione narrative alcune tra le aporie e i paradossi più profondi e persistenti della tradizione filosofica. Il tema dell’illusione, nelle sue implicazioni più varie, è uno dei più ricorrenti nella sua opera. A questo proposito Borges ha scritto considerazioni teoriche in forma di saggio, come quelle del seguente brano:
Quando assistiamo a una rappresentazione teatrale sappiamo che sul palcoscenico ci
sono uomini mascherati che ripetono le parole che Shakespeare, Ibsen o Pirandello
hanno messo loro in bocca. Ma noi ci persuadiamo che quelli non sono uomini mascherati; che quell’uomo mascherato che monologa lentamente nell’anticamera della
vendetta è realmente Amleto, il principe di Danimarca; ci abbandoniamo alla finzione. Al cinema il meccanismo è ancora più curioso, perché quelle che vediamo non sono nemmeno persone mascherate, ma fotografie di mascherati; e tuttavia, finché dura la proiezione, crediamo alla loro realtà.
J.L. Borges, Nove saggi danteschi, p. 118
PER
PENSARE
Individua un’opera che ti ha portato ad «abbandonarti alla finzione»: pittura, scultura, film, racconto o
altro.
Trovi delle differenze nel tipo di esperienza che un racconto può dare, rispetto a un film oppure a un quadro
o a un affresco? Il contesto può influire? Ci si abban-
dona ugualmente alla finzione guardando un film al cinema, a luci spente, o su una televisione messa per intrattenimento in un luogo pubblico?
Elenca quelli che, a tuo avviso, possono essere considerati fattori influenti sull’esperienza dell’«abbandonarsi
alla finzione».
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ILLUSIONE
LETTERATURA
PITTURA
SCULTURA
TEATRO
MUSICA
CINEMA
Il film Essere John Malkovich (USA, 1999), di Spike
Jonze, solleva in modo originale la domanda: cosa si
prova a essere un altro? Il protagonista del film è un
burattinaio molto abile, ma non se la passa bene economicamente. Sembra che la sua vita possa cambiare
quando trova lavoro per una società che ha i propri
uffici tra il 7° e l’8° piano di un palazzo di Manhattan.
In questo luogo bizzarro, egli scopre una porta che
conduce direttamente… nella testa dell’attore John
Malkovich. È il primo passo per mettere su un’originale attività imprenditoriale e guadagnare quattrini,
ma anche, appunto, per pensare cosa si prova a essere un altro, in un caleidoscopico gioco d’illusioni.
Matrix (USA, 1999), di Andy e Larry Wachowski, è
un film di fantascienza ricco di citazioni filosofiche
più o meno esplicite: il mito della caverna di Platone
e il dubbio cartesiano sono evidentemente sullo
sfondo. Il protagonista è un tranquillo impiegato dalla «doppia vita»: di notte, con il nick name «Neo», diventa un formidabile hacker. Un’affascinante e misteriosa donna, Trinity, presenta Neo ad un altro hacker, il leggendario Morphèus, grazie al quale Neo
scopre che quella che egli reputava «realtà» è solo apparenza: il mondo solido e concreto nel quale egli
era vissuto è un ambiente virtuale prodotto da potentissimi computer, controllati da un’intelligenza artificiale evolutasi al punto da prendere il sopravvento sull’uomo. Gli uomini nascono e crescono, «in
realtà», all’interno di incubatrici che li proiettano in
quella «realtà» virtuale. Neo dovrà dar prova di essere «l’eletto», per liberare l’umanità dalla prigionia inconsapevole in cui si trova: come il prigioniero liberato della caverna platonica, ha il privilegio di rendersi conto che ciò che tutti gli altri vivono e vedono
è un’illusione. Cosa cambierebbe, per gli uomini, sapendo che la realtà in cui vivono è «artificiale»?
Monty Python (e il sacro Graal) (Gran Bretagna,
1975), di Terry Gilliam e Terry Jones, è un film comico che chiede allo spettatore di far uso di molta immaginazione per «integrare» quel che non si vede, a
partire dalla scena iniziale, quando un rumore di
zoccoli preannuncia l’arrivo di un cavaliere: poco
dopo, compare re Artù nell’atto di mimare una cavalcata, seguito da uno scudiero che produce il rumore degli zoccoli battendo due gusci di cocco. La
trama del film racconta con uno stile dissacrante le
avventure di Artù e dei suoi cavalieri alla ricerca del
santo Graal, proponendo avventure bizzarre e incontri ai limiti dell’assurdo.
Attraverso i linguaggi
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Attività
Esercizio di scrittura
Nel libro intitolato Dipinti e lacrime, James Elkins ha raccontato «storie di gente che ha pianto
davanti a un quadro», interrogandosi sul significato e sulla fenomenologia del turbamento,
della commozione e dell’empatia che si possono provare davanti ad opere d’arte.
Prendi spunto dagli esempi fatti in questo Seminario e discuti dei diversi livelli di «coinvolgimento» e «illusione» possibili, a tuo avviso, di fronte a quadri, a teatro, al cinema o alla
televisione (distinguendo anche per genere: ad esempio drammi e thriller, film d’azione e
documentari e così via). Raccogli immagini ed esempi da proporre come casi esemplari.
Esercizio di documentazione visuale
Considerando l’esperienza di uno spettatore teatrale, che sta nell’illusione, segue la storia
e ne è rapito e coinvolto, ma non s’inganna – non è totalmente immerso nella storia, al
tempo stesso «crede» e «non crede» – il filosofo Alfonso Maurizio Iacono propone una
«teoria della coda dell’occhio»:
La credenza in una realtà assoluta è la condizione estrema dei prigionieri incatenati della caverna
di Platone. Normalmente noi viviamo in mondi intermedi. Quando ci immergiamo in un universo
di significato non abbandoniamo gli altri universi: è come se li percepissimo con la coda dell’occhio, poco al di là della cornice. [...] Questa capacità di saper vivere nella compresenza di più universi in termini tali che l’immersione in un mondo non implica l’esclusione di altri mondi, ma la loro percezione, per così dire, laterale, è ciò che io chiamo TEORIA DELLA CODA DELL’OCCHIO.
A.M. Iacono, Gli universi di significato e i mondi intermedi, pp. 10-11
Secondo Iacono, la «coda dell’occhio» aiuta a comprendere la capacità dell’uomo di stare
in «mondi intermedi», di attraversare mondi: chi si immerge nell’«universo di significato»
di una storia vista sulla scena, non per questo abbandona totalmente l’universo di significato ordinario, anche se lo dimentica o lo lascia sullo sfondo, percependolo per così dire
con la «coda dell’occhio», nel momento in cui sospende l’incredulità ed è rapito dalla storia. Pensa ad altre situazioni in cui l’attivazione della coda dell’occhio, come sopra definita,
ti sembra particolarmente evidente, provando a documentarle con fotografie e video: ad
esempio, i casi in cui l’attenzione è orientata principalmente in una direzione (studiare o
leggere un libro, seguire ciò che accade in uno schermo, fantasticare ecc.), senza tuttavia
«ignorare» ciò che accade attorno. Cosa succede quando ciò che accade attorno distrae o
disturba la concentrazione dell’attenzione?
Esercizio di narrazione e documentazione
Dove fai esperienza dell’arte? Individua luoghi e occasioni (raccontandoli per iscritto, con
fotografie o in altro modo) in cui ritieni di vivere l’arte come esperienza, rifacendoti criticamente ai seguenti brani del filosofo statunitense John Dewey (1859-1952):
Le arti che oggi hanno maggiore vitalità per l’uomo medio sono cose che egli non considera
arti: ad esempio, il cinema, la musica jazz, le strisce umoristiche e, fin troppo di frequente, i resoconti giornalistici di intrecci amorosi, omicidi e imprese banditesche. Infatti, dal momento
che ciò che egli riconosce come arte è confinato in musei e gallerie, l’impulso indomabile verso esperienze in se stesse godibili trova solo gli sbocchi che offre l’ambiente di tutti i giorni.
J. Dewey, Arte come esperienza, p. 33
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ILLUSIONE
Il ringhio di un cane accovacciato sopra il suo cibo, il suo guaito quando è perso e solo, il suo
scodinzolare al ritorno dell’amico umano, sono espressioni dell’implicazione di un essere vivente in un medium naturale che include l’uomo insieme agli animali che ha addomesticato.
Ogni bisogno, la voglia di aria fresca come quella di cibo, è una carenza che denota almeno
un’assenza temporanea di adattamento adeguato con l’ambiente circostante. Ma è anche una
richiesta, un tendere la mano verso l’ambiente per colmare le lacune e ripristinare l’adattamento stabilendo almeno un equilibrio temporaneo. La vita stessa consiste di fasi in cui l’organismo perde il passo della marcia delle cose circostanti e poi torna all’unisono con essa – o
attraverso uno sforzo, o per un qualche caso fortunato. E in una vita in crescita il ripristino non
è mai il ritorno a uno stato precedente, poiché essa è arricchita dallo stato di sperequazione e
resistenza attraverso il quale è dovuta passare con successo. Se la discrasia tra organismo e ambiente è troppo ampia, la creatura muore. Se la sua attività non è sollecitata da una temporanea alienazione, essa non fa che sussistere. La vita cresce quando una momentanea aritmìa
comporta una transizione verso un equilibrio più ampio delle energie dell’organismo con quelle delle condizioni sotto cui esso vive.
Queste ovvietà biologiche sono qualcosa di più che luoghi comuni; giungono alle radici dell’estetico nell’esperienza. Il mondo è pieno di cose che sono indifferenti o addirittura ostili alla vita; gli stessi processi mediante cui la vita si conserva tendono a farla espellere dal suo ambiente circostante.
J. Dewey, Arte come esperienza, p. 40
L’uomo si contraddistingue per la consapevolezza dell’alternanza tra perdita e ripristino
dell’integrazione. La riflessione può essere un risvolto della disarmonia. In questa concezione, il «momento estetico» e il «pensare» riguardano parimenti l’artista e il ricercatore
scientifico, seppur in modo diverso:
La strana idea per cui un artista non pensa e un ricercatore scientifico non fa che pensare deriva dal fatto di prendere una differenza di cadenza e di accento per una differenza di genere. Il
pensatore ha il suo momento estetico quando le sue idee cessano di essere mere idee e diventano i significati incarnati di oggetti. L’artista ha i suoi problemi e pensa mentre è all’opera. Ma
il suo pensiero prende corpo più immediatamente nell’oggetto.
J. Dewey, Arte come esperienza, pp. 42-43
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STRUMENTI SOTTOMANO
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