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War on terror : un bilancio
— Andrea Beccaro
The War on Terror concept has justified several military interventions during the first fifteen years of the 21st century and
consequently has led to an evolution of US strategic thinking.
The aim of this paper is to outline, first, some elements of
the War onTerror strategy that inevitably influenced Western
military operations in the short term; secondly, to analyze
geopolitical theaters of war (particularly Iraq) where the War
on Terror has developed.
terrorismo
SOF
droni
COIN
ISIS
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S
ono circa le ore 1:00 del mattino del 2 maggio 2011. Ad Abbotabad,
città di medie dimensioni nel nord est del Pakistan a poche decine di
chilometri dalla capitale Islamabad, il silenzio notturno viene infranto dal
rumore dei rotori di due elicotteri americani decollati da una base aerea a
Jalalabd nell’est dell’Afghanistan con a bordo due squadre di Navy SEAL.
Una volta sull’obiettivo, un elicottero, per motivi non chiariti (fuoco nemico? problema tecnico? scarsa portanza delle pale?), ha dovuto effettuare un atterraggio di emergenza proprio nel giardino della casa-obiettivo.
Mentre una squadra di SEAL occupava un edificio secondario, l’altra si è
diretta all’interno dell’abitazione principale, ha ucciso due uomini prima
che due militari giungessero nella camera da letto in cui si trovavano un
uomo e una donna. Quest’ultima è rimasta ferita, mentre l’uomo è caduto
a terra mortalmente ferito alla testa e al petto (cfr. Inkster 2011; Bowden
2012; Bergen 2012).
A migliaia di chilometri di distanza, il presidente degli Stati Uniti ha
assistito con il fiato sospeso a questi eventi in presa diretta, finché non è
arrivata la conferma della morte dell’obiettivo del raid: Osama bin Laden.
Dopo una rapida perlustrazione della casa, i SEAL si sono ritirate portando con sé il cadavere che, non senza critiche, è poi stato tumulato in mare.
In tutto l’operazione è durata quaranta minuti, più altri ottanta circa
di volo tra andata e ritorno. Centoventi minuti per chiudere una caccia
iniziata il 20 agosto 1998, quando l’allora amministrazione Clinton decise di rispondere con il lancio di alcuni missili cruise su sei diversi siti in
Afghanistan e Sudan all’attacco alle ambasciate americane a Dar es Salaam
e a Nairobi. Bisogna però sottolineare che se l’operazione in sé è stata relativamente breve, il lavoro di intelligence precedente è stato, invece, molto
lungo e composto da interrogatori, analisi, voli di ricognizione e sorveglianza continua con droni sulla casa-obiettivo.
La morte dello sceicco del terrore poteva significare l’atto conclusivo
di quella che il presidente Bush aveva definito War on Terror (cfr. Bozzo
2011) e che era stata lanciata a seguito degli attacchi dell’11 settembre a
New York e Washington. In realtà la morte di bin Laden costituisce certamente un momento importante di quel conflitto, ma non ne rappresenta
la fine, né probabilmente un momento particolarmente rilevante se non
in termini mediatici. I conflitti aperti sotto la bandiera della War on Terror
rimangono ancora in corso, seppur in forme diverse, e le riflessioni strategiche di questi anni non hanno certo subito stravolgimenti a seguito di
quell’operazione.
Nel presente saggio non ci occuperemo delle ripercussioni della morte
di bin Laden su al-Qaeda (cfr. Stevenson 2011; Mendelsohn 2011; Hoffman
2013; Moghadam 2013), che senza dubbio da quel momento ha perso parte
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del suo “appeal”. Conseguenza di questa minore attrazione è poi lo sviluppo dello Stato Islamico che ad al-Qaeda ha usurpato il ruolo di gruppo
di riferimento all’interno del movimento jihadista globale. L’obiettivo del
presente saggio è quello di delineare, da un lato, alcuni elementi della strategia della War on Terror che inevitabilmente hanno influenzato le operazioni militari occidentali nel brevemedio termine; dall’altro, di impiegare
uno sguardo geopolitico per analizzare i teatri di guerra (in particolare
l’Iraq) dove la War on Terror si è sviluppata.
Riflessioni strategico-militari
Prendendo spunto dal raid ad Abbottabad appena descritto, sono due gli
elementi strategici che vengono messi in luce e che vogliamo considerare come componenti fortemente esplicative sia della War on Terror per sé,
sia di un nuovo modello di impiego della forza militare da parte americana
e occidentale in genere. Ci riferiamo in particolare all’impiego delle Forze
speciali (Special Operations Forces, SOF) e dei droni, ovvero dei velivoli a
pilotaggio remoto (UAV, Unmanned Aerial Vehicle).
Le Special Operations Forces (SOF)
Le opzioni praticabili per uccidere bin Laden una volta individuato erano
almeno tre: lancio di missili; bombardamento di precisione con aviazione; raid di truppe speciali. La scelta non appare così ovvia perché, dopo
i fallimenti di Eagle Claw in Iran il 24 aprile 1980 per la liberazione degli
ostaggi dell’ambasciata americana a Teheran e quello del 3 ottobre 1993 a
Mogadiscio per catturare il generale Aidid, operazioni similari erano state
lasciate a strumenti puramente tecnologici applicando la cosiddetta strategia della decapitazione, ovvero eliminare il leader decapitando così la
sua organizzazione. Nel 1991, la guerra del Golfo aveva visto l’applicazione
di una strategia di decapitazione della leadership attraverso i bombardamenti delle residenze presidenziali; nel 2003 l’operazione Iraqi Freedom
si era aperta in anticipo rispetto al previsto perché il 19 marzo notizie di
intelligence segnalavano la presenza di Saddam Hussein a Dora Farms che,
infatti, era il primo obiettivo colpito con missili Tomahawk e con due F-117
(cfr. Cordesman 2003; Murray & Scales 2003; Fotenot, et al. 2004). Sempre
in Iraq, il 7 giugno 2006, la Task Force 145 aveva circondato una casa nei
pressi di Haibhib, vicino a Baquba, e un F-16 aveva sganciato due bombe
distruggendola. Tra le vittime era stato rinvenuto il cadavere di Zarqawi,
il leader di al- Qaeda in Iraq responsabile degli attacchi più sanguinosi
dell’insorgenza irachena (Cordesman 2008, 337).
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L’operazione del 2 maggio 2011 ad Abbottabad rappresenta dunque
più una frattura che una continuità rispetto al modus operandi del passato. Ciò può essere spiegato attraverso due riflessioni. Da un lato, l’impiego di SOF, pur comportando rischi, aveva il vantaggio di dare la certezza
che bin Laden fosse stato realmente ucciso; dall’altro, non distruggendo la
casa, l’intelligence americana è potuta entrare in possesso di una quantità
enorme di dati (alcuni pc, svariate memorie, dvd, chiavi USB e dischetti).
La scelta delle SOF si spiega anche con il loro intensivo impiego durante la War on Terror nei più disparati contesti e nelle più svariate modalità
operative. Per esempio erano state un elemento cardine dell’operazione
Enduring Freedom in Afghanistan che ha avuto inizio il 7 ottobre 2001 utilizzando una combinazione di potere aereo e una manciata di SOF sul terreno. Per Friedman quella dell’Afghanistan è stata una “guerra marittima”
perché le basi principali da cui sono partiti i bombardieri erano le portaerei: circa i tre quarti delle missioni aeree, infatti, sono state condotte dalla marina e il restante dall’USAF (Friedman 2003, 159-161). Inoltre anche
la creazione ad opera dei Marines di Camp Rhino, nei pressi di Kandahar,
a fine novembre 2001, utile per coprire il fronte sud, è da leggersi sotto
questa luce, visto che si trovava a 400 miglia nautiche dalle basi di partenza, ovvero le navi. Per questo si può dire che Enduring Freedom è stata
l’operazione anfibia più a lungo raggio della storia dei Marines (Friedman
2003, 192-194).
I “successi” ottenuti nell’autunno 2001 da un così ridotto contingente
di uomini a terra sono stati esaltati dall’allora capo del Pentagono Donald
Rumsfeld (cfr. Rumsfeld 2002) facendo nascere il concetto di “Afghan
Model”: una tipologia di intervento militare che promette la vittoria senza
impiegare un massiccio numero di truppe, poiché a esclusione di alcuni
elementi delle Forze speciali, il grosso della fanteria è offerto dai combattenti locali appoggiati dal letale e preciso potere aereo occidentale. Questo
modello era già stato impiegato in Kosovo e si è pensato di riproporlo in
Iraq nel 2003, specie nella zona curda a nord. Più recentemente è stato impiegato in Libia contro Gheddafi nel 2011 e parzialmente in “Siraq” contro
l’IS (cfr. Biddle 2002 e 2005).
In Iraq le SOF hanno operato in modo più convenzionale affiancando
e anticipando le truppe regolari durante l’avanzata verso Baghdad nella
primavera 2003, mentre hanno svolto ruoli di consiglieri militari, addestratori, oppure condotto raid contro presunti terroristi e capi dell’insorgenza
negli anni successivi con diversi livelli di impiego.
Questo ampio uso delle SOF in svariate operazioni ha reso l’amministrazione americana più confidente verso il loro impiego e in parte ciò
spiega sicuramente la scelta del raid del 2 maggio 2011.
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I droni nella lotta al terrorismo
L’aspetto del raid ad Abbottabad più misconosciuto è certamente quello
relativo all’intelligence necessaria per l’individuazione dell’obiettivo e della sua sorveglianza, quest’ultima avvenuta grazie a uno degli strumenti
tecnologici simbolo della War on Terror: il drone. Per le operazioni di ricognizione era uno strumento bellico già utilizzato negli anni Novanta, ma è
con il nuovo millennio che il suo ruolo è diventato centrale anche in operazioni offensive (cfr. Olsen 2010), in particolare dopo l’elezione di Barak
Obama. Infatti, il premio Nobel per la Pace passerà indubbiamente alla storia come il primo presidente ad aver eletto i droni arma in teatri operativi
e per di più non formalmente in guerra (cfr. Regazzoni 2013).
Il numero di operazioni dimostra questa tendenza; nella sola area di
confine tra Afghanistan e Pakistan queste sono le cifre indicative: un’operazione nel 2004, una nel 2005, tre nel 2006, cinque nel 2007, 35 nel 2008,
53 nel 2009, 117 nel 2010, 64 nel 2011, 46 nel 2012, 28 nel 2013, 24 nel
2014 e otto a giugno 2015 (cfr. Long War Journal 2015a). Malgrado una
decantata precisione, il Long War Journal stima in 138 i morti civili totali
e in 2150 i terroristi uccisi dal 2006 al 2011 (cfr. Long War Journal 2015b);
mentre Sluka parla di un totale di 2205 morti civili tra il 14 gennaio 2006
e l’8 aprile 2009 (cfr. Sluka 2011).
Se le operazioni in Pakistan potrebbero sembrare un “naturale” sconfinamento di quelle in Afghanistan, ciò non può essere vero per altre aree.
Infatti, lo Yemen dimostra proprio come l’amministrazione Obama abbia
utilizzato i droni quali strumento di politica estera, poiché nell’area si sono
registrati i seguenti attacchi: uno nel 2002, due nel 2009, quattro nel 2010,
dieci nel 2011, 41 nel 2012, 26 nel 2013, 23 nel 2014, 8 al giugno 2015 (cfr.
Long War Journal 2015c). A questi dati sicuramente parziali vanno poi aggiunte le operazioni in Somalia, Libia e in “Siraq”.
Benché l’impiego dei droni ponga seri problemi relativi al diritto internazionale e sulla definizione di che cosa sia guerra (cfr. Etzioni 2010),
essi sono ormai uno strumento militare imprescindibile. Infatti, un UAV
può operare a distanze e per periodi decisamente più lunghi dei tradizionali aerei limitati dalle possibilità del pilota. Queste capacità hanno fatto sì che l’equazione “trova, attacca, finisci” si riducesse dalle dieci ore di
Desert Storm ai pochi minuti durante Enduring Freedom. Inoltre nel 2011
il Predator ha totalizzato 800.000 ore di volo, mentre il suo cugino più giovane, il Reaper, più di 120.000, e il Global Hawk 35.000 (cfr. Deptula 2011)
; ne è conseguito che nel 2009 l’USAF ha addestrato più piloti per i droni
che per i tradizionali aerei (cfr. Sluka 2011). Senza dilungarci oltre, facciamo notare che ormai anche l’impiego di mezzi terrestri robotici è largamente entrato nell’uso comune delle moderne operazioni militari: gli UGV
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(Unmanned Ground Vehicles) impiegati dall’esercito degli Stati Uniti sono
più di 3000 (cfr. Cruz 2011).
Resta comunque poco chiaro quanto tali mezzi possano incidere sulla
capacità operativa dei gruppi come al-Qaeda o più recentemente ISIS, che
può essere ridotta da questo genere di operazioni in un’area limitata, ma
non lo può essere ovunque (cfr. Pantucci 2009). L’idea di uccidere selettivamente leader nemici è stata presa in prestito dalla strategia operativa di
Israele che, secondo Byman, ha degradato le capacità operative dei leader
dei gruppi terroristi grazie ai droni. Ciò è una conseguenza del fatto che
questi attacchi richiedono un preventivo lavoro di intelligence che, a sua
volta, produce l’effetto di costringere i possibili obiettivi a nascondersi, a
limitare i contatti con la famiglia e l’organizzazione stessa. Inoltre Israele,
colpendo i leader, non ha permesso ai gruppi terroristici di riorganizzarsi in maniera adeguata. Infatti, se è vero che tali organizzazioni possono
contare su un numero elevato di volontari, non è detto che essi siano addestrati ed esperti come i loro predecessori. Questo è dimostrato dal fatto
che, malgrado gli attacchi di Hamas siano aumentati dal 2001 al 2005, le
perdite israeliane sono diminuite, perché le operazioni erano mal coordinate o pianificate oppure perché le bombe erano mal progettate e realizzate: tutti campi in cui conoscenza pratica ed esperienza maturata negli
anni sono essenziali (cfr. Byman 2006).
Secondo Byman la frequenza degli attacchi e la costante sorveglianza
dell’intera Striscia di Gaza sono i fattori centrali per realizzare questa progressiva degradazione dei gruppi terroristici. Questi stessi elementi, però,
non sono presenti nella strategia americana che opera in aree estremamente vaste su cui l’intelligence non ha che un minimo controllo e manca
quasi totalmente di elementi a terra (cfr. Byman 2009; Williams 2010). Ciò
è anche vero per quanto riguarda le operazioni in “Siraq” contro lo Stato
Islamico, con la differenza che in Iraq, infatti, la presenza di SOF e di alleati
locali (Peshmerga curdi, milizie, esercito regolare) sul terreno è conclamata e di sicuro essi possono essere, anche se non sempre, utili strumenti di
intelligence; in Siria, invece, non esistono alleati locali e la presenza di SOF
è, per quanto ne sappiamo, esclusivamente limitata a singoli raid offensivi,
come quelli condotti per la liberazione di ostaggi.
Geopolitica della War on Terror
La War on Terror si è combattuta su vari livelli (politico, economico, militare, mediatico) e in diversi teatri di cui i principali sono stati senza dubbio
l’Afghanistan e l’Iraq. Qui non possiamo occuparci di entrambi perciò, dopo
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un breve cenno al primo, ci dedicheremo all’analisi e alle conseguenze del
secondo, una scelta dettata anche dalla vicinanza geografica e dalle indubbie ripercussioni politico-militari che stiamo vivendo in questi ultimi anni.
L’Afghanistan ha rappresentato non solo il primo fronte operativo, ma
anche quello dove le truppe occidentali sono rimaste coinvolte più a lungo. Malgrado questo prolungato impegno esse hanno sempre controllato solo ristrette porzioni del territorio afghano, che spesso erano le zone
urbane e quelle circostanti le basi militari, a causa del numero ridotto di
truppe impiegate in proporzione al territorio da controllare (cfr. Dobbins
2003). Il problema in Afghanistan dipendeva dal fatto che non era mai stato un paese economicamente fiorente e i vent’anni di guerra precedenti il
2001 non potevano certo avere migliorato la situazione (Collins 2001, 63).
Senza riassumere le vicende dell’intera insorgenza afghana (cfr. Bertolotti
2010b), ci limitiamo qui a sottolineare due aspetti centrali per la comprensione della natura e delle forme dei conflitti contemporanei. Per prima cosa,
la commistione tra attività criminali e guerra: è un aspetto tipico di tutti
i teatri bellici attuali (cfr. Williams 2009) e molto radicato in Afghanistan
che, malgrado il coinvolgimento occidentale, resta il massimo produttore
mondiale di oppio con circa 6,6 milioni di tonnellate prodotte nel solo 2014,
ovvero più dell’80% della produzione mondiale (cfr. World Drug Report
2015). Secondariamente, l’Afghanistan come l’Iraq ha dimostrato l’ampio
utilizzo dell’attacco suicida come tattica nei conflitti irregolari moderni
(cfr. Beccaro & Bertolotti 2015). Esso non è una novità, poiché fu impiegato
all’inizio degli anni ’80 da Hezbollah in Libano, né una peculiarità del conflitto afghano, nel quale è stato introdotto a seguito del “successo” in Iraq
dove è stato ampiamente impiegato da al-Qaeda. Tosini calcola in 1321 gli
attacchi suicidi compiuti in Iraq dal 2003 al giugno 2010; pochi rispetto a
tutte le altre attività violente dell’insorgenza, ma si tratta comunque di una
media di molto superiore a quella delle precedenti campagne (Hezbollah,
Tigri Tamil, Hamas) (cfr. Tosini 2009 e 2012; Hafez 2007). In Afghanistan
questa tecnica offensiva ha registrato un’impennata a partire dal 2005
fino a toccare una media di tre/quattro attacchi alla settimana (Bertolotti
2010a, 101-102).
L’Iraq
Se l’Afghanistan non può certo considerarsi un successo della politica
americana e occidentale in generale, un giudizio del tutto similare deve
essere dato alla gestione del teatro iracheno che ha portato anche a una
degenerazione complessiva della stabilità nell’area mediorientale e mediterranea. L’Operazione Iraqi Freedom (cfr. Beccaro 2013) prese avvio il 19
marzo 2003, Baghdad venne conquistata il 9 aprile, mentre il primo maggio
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il presidente Bush dichiarò la fine delle ostilità. In realtà, già nell’estate
2003 il generale Abizaid parlava di guerriglia in atto e con l’autunno la violenza crebbe enormemente. Il 2004 verrà ricordato per lo scoppio della
rivolta sciita, per la campagna di decapitazioni di Zarqawi e del suo gruppo al-Qaeda, in Iraq primo nucleo di ciò che oggi è l’ISIS, e per le battaglie
di Falluja (4 aprile – primo maggio; 7 novembre – 23 dicembre). Due sono
le ragioni principali di questo caos. Primo, la scellerata decisione di Paul
Bremer, all’epoca capo della CPA (Coalition Provisional Authority), di sciogliere nel maggio 2003 le forze armate e di polizia irachene. Il paese è stato così lasciato senza elementi in grado di mantenere la sicurezza interna,
visto che, ed è questa la seconda ragione, gli americani e gli alleati erano
numericamente troppo ridotti. Questo vuoto è stato riempito da un’insorgenza molto varia al suo interno (cfr. Hashim 2006). Malgrado i “progressi”
in campo politico (elezioni e costituzione), il declino della sicurezza del
paese era palese, tanto che il febbraio 2006 sancì l’evidenza della guerra
civile tra sciiti e sunniti con più di 30.000 morti, una violenza che si protrasse fino al 2007 quando, un po’ per esaurimento delle parti, un po’ per
una presa di coscienza della situazione da parte dei sunniti e un po’ per
merito di una rinnovata strategia americana (il cosiddetto surge guidato
dal generale Petraeus), la situazione fu messa parzialmente sotto controllo
(cfr. Ollivant 2011). Dopo il 2007, sia la sicurezza (con il dispiegamento di
più uomini e la loro collocazione più vicina alla popolazione), sia l’addestramento (grazie all’istituzione di 31 PRT in cui soldati americani e iracheni
pattugliavano e vivevano insieme) sono migliorati. Aspetto fondamentale
di questo percorso è stato l’Anbar Awakening, ovvero il movimento con
cui diverse tribù della provincia di al-Anbar si ribellarono ad al-Qaeda e
appoggiarono le operazioni di controinsorgenza guidate dagli americani.
In questo modo quelle stesse tribù sunnite decisero di collaborare anche
con il governo sciita di Baghdad in cambio di un loro maggiore coinvolgimento nella politica del Paese e della promessa di assorbire nelle forze di
polizia o nell’esercito iracheno i combattenti sunniti che avevano deciso di
abbandonare l’insorgenza. Il fatto che entrambi questi pilastri dell’accordo siano stati negli anni seguenti ampiamente disattesi dal premier Maliki
(solo circa il 25% dei Sons of Iraq è stato integrato nelle ISF, Iraqi Security
Forces) spiega bene il malcontento sunnita che ha poi permesso all’ISIS di
radicarsi e prosperare in ampie regioni del Paese.
Tra il 2008 e il 2010 la violenza nel Paese è rimasta sotto controllo spingendo il presidente Obama a rispettare i trattati firmati dal suo predecessore per il ritiro delle truppe entro il 2011. Tre elementi vanno però tenuti
a mente. Primo, dopo le elezioni del marzo 2010, l’Iraq è entrato in un fase
di stallo politico che rifletteva la crisi interna del Paese (cfr. Visser 2010)
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tanto che i ministeri degli Interni e della Difesa rimasero vacanti per un
anno, una mossa del premier Maliki per instaurare una sorta di regime (cfr.
Dodge 2012; Sullivan 2013). Va infatti ricordato che, già nel novembre 2011
(prima che il fenomeno ISIS prendesse piede), la rivista Foreign Policy posizionava il Paese al nono posto del Failed States Index (cfr. Foreign Policy
2011), anche perché la corruzione era ed è dilagante (cfr. Transparency
International 2014). Il regime di Maliki si basava anche sul fatto che egli
controllava direttamente molti elementi delle ISF, senza supervisioni del
parlamento e scavalcando la normale catena di comando, accusate anche
di arresti mirati di oppositori politici (cfr. International Crisis Group 2010).
Secondo, l’Iraq si trova in una grave crisi energetica, poiché l’elettricità
non è disponibile per tutti i bisogni della popolazione, il che ha dato adito
a molte proteste popolari rinnovate ancora nell’agosto 2015 (cfr. Alkadiri
2011). Terzo, la violenza pur calata non era scomparsa del tutto: nel 2006
si contavano 36.591 vittime (civili, poliziotti e militari iracheni), escludendo quindi i soldati della Coalizione, gli insorgenti e contractors; nel 2011,
data del ritiro americano definitivo, invece, le vittime civili sono state “solo”
1578 (cfr. Brookings Institution 2011). Questo calo della violenza era direttamente correlato alle operazioni condotte dai militari americani e dai
loro alleati iracheni che però erano addestrati e guidati dai primi. Infatti,
si calcola che, nel corso del 2010, 34 dei 42 leader di al-Qaeda in Iraq siano stati uccisi e, malgrado la loro rapida sostituzione, il movimento aveva
indubbiamente perso personaggi di spicco e con una notevole esperienza
operativa (cfr. International Crisis Group 2010; Pollack & Sargsyan 2010).
Il problema legato alle ISF, poi evidenziato in modo palese nel giugno
2014 con l’avanzata dell’ISIS su Mosul, è che non rappresentano l’unità del
Paese bensì la sua divisione. Il conflitto iracheno si era caratterizzato per
una forte componente civile che ha visto opporsi, con tattiche di vera pulizia etnica, le fazioni sciite a quelle sunnite. Tale divisione è stata accentuata proprio dalle politiche americane implementate sin dal 2003 e oggi
fa da sfondo al conflitto con l’ISIS. Nell’esercito le unità sono omogenee dal
punto di vista religioso e operano in zone a loro affini, questo per esempio è uno dei problemi nella provincia di Anbar dove i sunniti locali che si
oppongono all’ISIS guardano con sospetto le milizie sciite che operano a
fianco dell’esercito regolare, il quale a sua volta non incorpora volentieri
gli elementi sunniti.
Gli attacchi suicidi, quelli con IED, autobombe, scontri a fuoco sono
sempre rimasti un elemento della quotidianità irachena e nella fase di minor virulenza (2009-2011) tale violenza era rivolta contro elementi di spicco, ovvero era mirata e precisa con l’obiettivo di colpire chi appoggiava
il governo e, quindi, preparare sostanzialmente il terreno all’espansione e
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al radicamento dell’ISIS (cfr. Whiteside 2014a e 2014b). Senza il sostegno
americano le ISF si sono dimostrate del tutto inadeguate ad affrontare il
ritorno dell’insorgenza. Il ritiro americano ha significato la fine di un’operazione che sotto forme diverse (guerra aperta, controinsorgenza, peacekeeping, no-fly-zone) è durata 21 anni con costi chiaramente molto elevati.
Malgrado questo impegno il ritiro non ha lasciato in eredità basi (come
invece avvenne in Europa al termine della Seconda guerra mondiale o in
Arabia Saudita dopo Desert Storm) e ha sicuramente indebolito il potere
di deterrenza americano nell’area (cfr. Zenko 2011). Ciò si è dimostrato
drammaticamente vero durante le Primavere arabe scoppiate proprio in
concomitanza con le ultime fasi del ritiro dall’Iraq (cfr. Locatelli & Parsi
2013). Una situazione di instabilità che poi ha costretto gli Stati Uniti a
tornare per almeno rallentare l’avanzata dell’ISIS.
Non va poi dimenticato il ruolo centrale dell’Iran che sin dall’inizio ha
interpretato l’invasione americana come un’opportunità appoggiando fin
da subito le milizie sciite. Sono noti i contatti tra queste ultime e le Quds
Forces, ovvero l’ala delle Guardie della Rivoluzione iraniane destinate a
operare all’estero, le quali hanno offerto sia addestramento che congegni
esplosivi, come le famigerate EFPs (Explosively Formed Projectiles), utili
per rendere più complicata e difficoltosa l’occupazione da parte degli Stati
Uniti evitando un confronto diretto con essi, ma combattendoli in modo
indiretto. L’interessamento iraniano alla politica interna irachena si è fatto poi più intenso con il miglioramento della sicurezza interna del paese
a seguito del surge del 2007 e col rafforzamento delle pressioni iraniane
su Maliki in occasione della firma del SOFA (Status of Forces Agreement),
trattato firmato nel 2008 per determinare le modalità del ritiro americano
dall’Iraq. In questo documento, insieme a tempistiche molto precise, era
contenuta una postilla che vietava agli Stati Uniti di utilizzare il territorio
iracheno e il suo spazio aereo per operazioni offensive contro paesi terzi.
Qui il riferimento all’Iran è chiaro (cfr. Milani 2010).
Con l’esplodere poi della guerra civile in Siria e il concomitante ritiro
americano dall’Iraq, la strategia dell’Iran ha potuto non solo radicarsi maggiormente nell’area, ma ha anche ampliato il suo raggio d’azione. Da un
lato, il conflitto con l’ISIS ho posto l’Iran in una posizione vantaggiosa visto
che ha potuto sfruttare il caos generato dal crollo iracheno per ampliare e
rafforzare i suoi contatti nel Paese e in generale nella regione, diventando,
insieme alle milizie curde con cui in alcuni casi ha collaborato, l’unica forza di terra credibile contro il jihadismo estremista sunnita. Dall’altro lato,
però, l’Iran si è trovato una minaccia tutt’altro che minoritaria a ridosso
dei propri confini, che ha messo a rischio direttamente i propri interessi
nell’intero Medio Oriente.
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L’ISIS non è certamente stato una sorpresa per chi si occupava di Iraq
visto che le spaccature settarie su cui fa presa sono una dinamica della
regione da ormai 10 anni e che la violenza in Siria e in Iraq non solo era di
matrice simile, ma, soprattutto in Iraq, era anche costantemente aumentata dal 2011 in poi, come testimonia l’operazione Breaking the Walls (cfr.
Lewis 2013) che tra il 2012 e il 2013 permise a ISI, ovvero ciò che poi diventerà ISIS, di riconquistare le posizioni perdute dopo le operazioni controterroristiche americane.
Conclusioni
Questo quadro complessivo, ma sicuramente non esaustivo, sulla War on
Terror deve condurre la nostra riflessione sulla guerra moderna a fare un
ulteriore passo. Quando essa ha avuto inizio nel 2001, il pensiero strategico americano era dominato dal concetto di RMA (Revolution in Military
Affairs), ovvero da quell’insieme di teorie che considerano la tecnologia
come l’elemento centrale della guerra (cfr. Locatelli 2011; Shimko 2010).
Dai campi di battaglia afghano e iracheno, invece, si sono levate voci critiche che evidenziavano i limiti di una pianificazione basata esclusivamente
sui precetti della RMA. Ci riferiamo in particolare al tema della Counterinsurgency (COIN) che dal 2004 ha occupato sempre un maggior spazio nel
pensiero strategico occidentale. Qui ovviamente non abbiamo lo spazio per
analizzare approfonditamente questo dibattito (cfr. Kilcullen 2009; Beccaro 2012) e ci limitiamo a osservare due aspetti
Il primo è che tale forma di guerra (insorgenza, guerriglia o guerra irregolare) è vecchia quanto la storia militare stessa anzi, secondo Gastone
Breccia, essa la precede (cfr. Breccia 2010) ; è dunque alquanto curioso che
nell’enorme bibliografia dedicata alla RMA si sia dimenticato un fenomeno
bellico che, invece, è sempre stato una costante. Il problema consiste nella
scarsa attenzione dedicatavi da parte delle analisi più legate agli studi storici, come già evidenziò Bernard Brodie nel lontano 1949 (cfr. Brodie 1949).
Il secondo aspetto che vogliamo sottolineare riguarda una radicale differenza tra l’approccio alla guerra della RMA e quello della COIN. Mentre il
primo punta a una guerra veloce, rapida in cui la presenza umana è bassa
così come le perdite (cfr. Shaw 2006), la dottrina della COIN si presenta
radicalmente diversa in alcuni tratti caratteristici. Per prima cosa il tempo:
una COIN può essere vinta solo nell’arco di diversi anni, non è un conflitto che può concludersi con un attacco mirato o con la decapitazione del
gruppo avversario. Una seconda differenza risiede nella dimensione umana
della guerra. Qui ci riferiamo a un duplice aspetto: da un lato, a quelli che
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Clausewitz definì i fattori morali, poiché in tali contesti non è importante
la distruzione materiale dei mezzi degli irregolari, che per definizione sono
pochi, ma il colpire il loro morale così come essi cercano di fare ai danni
delle truppe regolari attraverso cecchini, IED, attentatori suicidi. Dall’altro
lato, la COIN è una guerra di fanteria nel senso più pieno della parola e
prescrive: l’impiego di uomini sul terreno in piccoli contingenti nei singoli
villaggi per controllare il territorio e non lasciarlo in mano agli irregolari;
quotidiane pattuglie a piedi con un costante contatto con la popolazione
di cui è necessario guadagnarsi la fiducia e il rispetto, perché solo così si
possono ricavare le migliori informazioni sugli insorgenti. Acquista dunque un’importanza centrale la HUMIT (HUMan InTelligence) che necessita
di interpreti, antropologi, esperti di area e che si distanzia molto dall’intelligence tecnologica ipotizzata dalla RMA.
Infine, la War on Terror ha messo ancora una volta in evidenza come
una qualsiasi arma (dalla fionda fino al drone, dal virus informatico ai missili cruise) sia solo uno strumento la cui efficacia deve essere valutata in
base al progetto politico che si vuole realizzare utilizzando quello strumento. In Iraq, e in questo senso nell’intero Medio Oriente, l’assenza di un
progetto politico resta evidente sia nel come l’ISIS ha conquistato terreno
sia nel come viene ora affrontato.
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