SigMa
rivista di letterature comparate,
teatro e arti dello spettacolo
Vol. 3/2019
ISSN 2611-3309
Claudio ViCentini
Il comico e la teoria della recitazione
The Comicality and the Acting Theory
Sommario | abStract
Nell’ambito della recitazione comica ancor oggi praticata, il saggio distingue e studia due
pratiche: quella per cui l’attore prende le distanze dal personaggio ridicolo che rappresenta
(ad esempio ridendo di lui), vicina ai meccanismi della satira, e l’altra in cui aderisce invece
del tutto al suo ruolo, secondo una modalità in cui la distanza comica dello spettatore dal
personaggio si può combinare con l’identificazione.
In the context of the comic acting still practiced today, the essay distinguishes and studies
two practices: one for which the actor distances himself from the ridiculous character he
represents (for example, laughing at him), close to the mechanisms of satire, and the other
where it adheres entirely to its role, in a way in which the comic distance of the viewer from
the character can be combined with identification.
Parole chiave | KeywordS
pratica della recitazione comica, tecnica del “distacco”, trasgressione, identificazione
comic acting practice, detachment technique, transgression, identification
Associazione Sigismondo Malatesta
Claudio ViCentini
Il comico e la teoria della recitazione
Due luoghi comuni
Sulla recitazione comica esistono diversi luoghi comuni. Il
primo, che è probabilmente il più diffuso, riguarda la convinzione che l’attore per far davvero ridere il pubblico non debba
mai mostrarsi lui stesso divertito da ciò che rappresenta. L’esibizione dell’atteggiamento personale dell’interprete verso la
figura che produce ne corroderebbe irreparabilmente l’efficacia. A simbolo e icona di questa certezza è in genere assunta
l’immagine di Buster Keaton, con il suo volto rocciosamente
impassibile nell’incrocio delle più esilaranti situazioni.
Ma poi sulla scena le cose spesso non vanno così. Talvolta
l’interprete comico “sfuma” dalla parte, scivolandone fuori per
istituire una linea di comunicazione personale con gli spettatori
e testimoniare il suo atteggiamento verso ciò che rappresenta.
Per ricorrere a esempi recentissimi, è un’operazione che nei suoi
monologhi compie volentieri Paolo Rossi: con un mezzo sorriso
ammicca agli spettatori fingendo una timida, quasi vergognosa
ma divertita consapevolezza dell’assurda stupidità delle cose
che dice. Crozza esce sovente dalla figura che sta parodiando e
mostra il proprio intimo divertimento per l’efficacia della cari-
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Vol. 3/2019
ISSN 2611-3309
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Claudio Vicentini
catura. Il che non rovina affatto l’effetto comico, anzi lo rafforza
e in genere innesca l’applauso. In modo ancora più clamoroso
Albanese, nella sua celebre creazione del politico malavitoso,
becero e arrogante, Cetto Laqualunque, nel momento stesso in
cui giunge all’acme della volgarità del personaggio, si ferma,
prolunga la pausa, poi come se non riuscisse a restare nella trivialità della parte, abbozza un timido sorriso e a mezza voce,
rivolto agli spettatori, confessa: “è che fondamentalmente mi
vergogno come una bestia a fare questa persona”. Il pubblico si
scatena, conquistato. Poi Albanese finge di riprendersi, “rientra”, e “prosegue”.
Tutto ciò – la tecnica del “distacco” del comico da ciò che va
raffigurando – appare in sintonia con un secondo luogo comune, con l’idea che l’arte dell’attore comico tocchi il suo vertice
quando riesce a mescolare il riso con il pianto. È un’idea nutrita
dal fascino che l’immaginazione popolare attribuisce alla figura
del clown che dentro – si sa – è sempre triste, mentre si sforza di
far ridere il pubblico, e del buffone che si impegna a rallegrare
gli spettatori mentre la sua anima è lacerata da personalissime
pene. È il disperato fascino del “ridi pagliaccio” che chiude il
primo atto dei Pagliacci di Leoncavallo. Ed è interessante notare che tutto questo, l’irresistibile suggestione esercitata dall’intreccio del riso con il pianto, segnerebbe solo i vertici dell’arte
comica e non riguarderebbe affatto la recitazione tragica. L’idea
di un attore onestamente soddisfatto per le proprie faccende
personali, costretto dalla parte a disperarsi sulla scena non impressiona nessuno. Dunque, carattere proprio della recitazione
comica sarebbe l’estremo vantaggio che otterrebbe nel presentarsi stagliata su uno sfondo “altro”, per distanza (la differenza
che separa la persona dell’attore dalla figura del personaggio)
o per contrasto (la particolare suggestione del riso collocato accanto alle lacrime).
Il comico e la teoria della recitazione
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Le perplessità della teoria
Questo tessuto di immagini più o meno confuse della recitazione comica trova una precisa corrispondenza nella trattatistica che tra il Settecento e l’Ottocento s’impigliava in alcuni
nodi capitali discutendo i modi per rendere il ridicolo sulla scena. Agli inizi dell’Ottocento August Wilhelm Iffland formulava
una regola precisa: l’interprete doveva sempre nascondere agli
spettatori la sua consapevolezza delle qualità comiche della
parte. Ne spiegava le ragioni in un saggio La rappresentazione
del malvagio e del macchinatore:
Se la comicità in questi ruoli è veramente una peculiarità
del personaggio, questi, e quindi l’attore che li interpreta,
non deve sapere di possederla. Una tale caratteristica deriva da uno stato d’eccitazione, da un sentimento dominante,
un’abitudine, e non è possibile che chi la possieda la ostenti
con consapevolezza. Egli deve abbandonarsi ad essa involontariamente, deve diventare inscindibile dal suo modo
di essere e di pensare, come il respiro con la vita. Quanto
più questi aspetti vengono rappresentati naturalmente, e il
bizzarro accade inaspettatamente e seriamente, tanto più la
rappresentazione riesce a rallegrare il cuore. Se si esagera
nella caratterizzazione del personaggio, è come se l’attore
uscisse dalla maschera, palesasse il suo travestimento e non
potrebbe che gridare al pubblico: “È vero che la mia maschera è comica? Lo ammettano per favore” – “Oh, sì!”, “Bene,
allora rientro in lei, e continuo a divertire”. (Iffland 1815, ed.
2012: 299).
L’interprete che mostra di divertirsi per la comicità del suo
personaggio, dunque, “esce” dalla parte e rovina gli effetti comici che questa dovrebbe produrre.
Pochi anni dopo il principio opposto era sostenuto da Charles
Lamb in un articolo pubblicato sul London Magazine. Per rendere davvero efficace la rappresentazione di diversi personag-
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gi, spiegava Lamb, l’attore deve mantenere un tacito canale di
comunicazione con il pubblico in cui mostri di non essere (o
non essere del tutto) quello che sta rappresentando. Ciò, proseguiva, sembra proprio della recitazione comica. Nella resa dei
personaggi tragici una manifesta distanza dell’interprete dalla
parte apparirebbe invece nociva (Lamb 1828, ed. 1903: 185-187).
Le due posizioni apparivano ovviamente contraddittorie. La
tentazione oggi, in una prospettiva storica, sarebbe sciogliere la
contraddizione ammettendo l’esistenza di due diverse tecniche
della recitazione comica, fondate rispettivamente sull’impiego
della piena aderenza dell’attore alla figura rappresentata, oppure sul ricorso a un esplicito distacco. Ma non è così facile.
Prima di tutto perché l’individuazione di queste due tecniche
non è finora avvenuta. Poi perché nei capisaldi stessi della moderna teoria attorica, stabiliti nel corso del Settecento, si ritrova
l’imperiosa esigenza di cogliere nella resa comica, e solo nella
resa comica, le due modalità dell’adesione e della distanza intimamente collegate in un unico inestricabile intreccio
A metà del Settecento l’opera canonica della corrente emozionalista, Le comédien di Pierre Rémond de Sainte-Albine, collocando il baricentro della recitazione, tragica o comica che fosse, nella capacità dell’interprete di provare davvero i sentimenti
richiesti dalla parte stabiliva che nessun attore comico potesse
rendere un personaggio davvero divertente se non si divertiva
lui stesso a raffiguralo.
Quando si recita un personaggio comico senza prendervi
piacere, si è visti come un mercenario che esercita il mestiere
di comédien per impossibilità di procurarsi altre fonti di sostentamento. Invece, quando si condivide il piacere con gli
spettatori, si è quasi sempre sicuri di piacere loro. L’allegria
è il vero Apollo degli attori comici. Se sono gioiosi, quasi
necessariamente hanno feu e genio.
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Ma aggiungeva subito dopo:
Non dimentichiamo tuttavia di avvertirli [gli attori] che noi
desideriamo leggere ordinariamente soltanto nella loro recitazione e non sul loro volto, la gaiezza che i ruoli ispirano
loro […] un comédien che si propone di farci gioire, ci apparirà spesso tanto più comico quanto più ostenterà di apparire serio. Io direi senz’altro agli attori tragici: “Piangete se volete che io pianga”. A quelli comici dico. “Non ridete quasi
mai se volete che io rida” (Sainte-Albine 1747, ed. 2012: 298).
Dunque l’attore doveva inequivocabilmente manifestare il proprio piacere, la propria “allegria”, nel rendere la comicità della
parte, restando nello stesso tempo assolutamente serio.
Tre anni dopo, l’Art du théâtre di Antoine-François Riccoboni,
testo capostipite della teoria antiemozionalista, sviluppava su
quasi tutti gli aspetti della recitazione argomenti ovviamente
opposti a quelli di Rémond de Sainte-Albine. Ma almeno su un
punto si mostrava in fondo d’accordo: riguardo alla recitazione
comica. Finiva infatti con il riproporre, sia pure in altri termini,
l’esigenza dello stesso singolare intreccio tra serietà e allegria.
L’interprete comico, scriveva Riccoboni, deve assumere “un’aria gioiosa e tranquilla” perché “un volto contento dispone lo
spettatore al riso” (Riccoboni 1750: 60). Ma aggiungeva, poche
pagine dopo:
L’attore comico deve soprattutto osservare che quanto più
ciò che dice è divertente, tanto meno deve prendere parte al
divertimento. È un grave difetto, quasi insopportabile, che
rida lui stesso quando deve far ridere gli altri, perché questo
errore distrugge l’illusione (Riccoboni 1750: 74-75).
Nello scontro tra le due principale correnti della dottrina
attorica settecentesca un punto appariva quindi evidente: comunque la recitazione venisse impostata, in chiave emoziona-
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lista o antiemozionalista, era indispensabile che per far ridere
il pubblico l’attore esibisse un atteggiamento “personale” verso
la prestazione che offriva (apparisse allegro e divertito per il
divertimento che produceva) e contemporaneamente nascondesse questo suo atteggiamento, in modo che nulla trasparisse che
non fosse assolutamente aderente all’umore, alle disposizioni,
al carattere del personaggio rappresentato.
L’attore comico non è una persona per bene
La chiave per comprendere questa contraddizione risiede
probabilmente in un’altra sensazione diffusa, oggi ancora viva
anche se nascosta, quasi rimossa e comunque inconfessata: che
la recitazione comica sia per qualche misteriosa ragione inferiore alla recitazione drammatica. Affermazione che, posta in
questi termini, non troverebbe l’esplicito consenso di nessuno.
Eppure è un dato di fatto che per un attore comico raggiungere
il riconoscimento della sua piena qualità di artista, quale che sia
il successo di pubblico e di botteghino, è assai più difficile che
per un attore del repertorio drammatico. All’interprete tragico
basta a volte un semplice grande successo, di cinema o teatro,
per una superlativa interpretazione di un personaggio tormentato, afflitto e lacerato dalle più aggrovigliate passioni, perché
sia immediatamente innalzato dal pubblico e dalla critica a
grande, grandissimo artista della scena. Per l’attore comico il
cammino è in genere assai più lento, e a dimostrarlo è sufficiente percorrere la storia della critica dei massimi comici del Novecento. Una serie di lunghe e sempre più rifinite prestazioni è
quasi sempre necessaria perché l’eccellenza delle sue doti e la
perfezione della sua tecnica vengano pienamente apprezzate.
Ma c’è di peggio. Sempre in forma segreta, ormai di fatto
inconscia, permane una strisciante percezione della professione
del comico come un’attività più o meno sconveniente. Le prove, anche clamorose, non mancano. Quando nel febbraio del
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2013 un esponente della scena politica tedesca, Peer Steinbrück,
esprimeva il suo disappunto per i recenti risultati delle elezioni
politiche italiane con un giudizio perentorio – inorridisco, dichiarava alludendo al successo delle liste di Grillo e del partito
di Berlusconi, per il fatto che abbiano vinto “due clown” – il
presidente Napolitano in visita in Germania annullava, per ovvia protesta, una cena con Steinbrück prevista dal programma.
Tuttavia se un esponente politico affermasse di inorridire
perché in qualche paese hanno vinto “due ingegneri” la sua
dichiarazione sembrerebbe bizzarra, magari incomprensibile,
ma certo non offensiva. Così anche se dichiarasse di inorridire
perché hanno vinto “due attori”. Ma “clown” appare inammissibile, il vocabolo suona immediatamente come un insulto, e
come tale viene senz’altro percepito, da Steinbrück, da Napolitano, e da tutti noi. Che per altro saremmo poi assolutamente
pronti a giurare – insieme a Steinbrück e a Napolitano – che la
professione del clown non ha niente di disdicevole, che anzi ha
conosciuto tra i suoi adepti artisti insigni, che giudicare severamente il lavoro del comico è cosa di secoli remoti, barbari, rozzi
ed oscuri, e che un comico può senz’altro essere una persona
eccellente e artista di immensa e sopraffina grandezza.
La recitazione comica e la recitazione tragica
Sembra quindi necessario indagare la difficoltà, ancora oggi
persistente, a spogliare la recitazione comica da un confuso e
imprecisato alone di inferiorità artistica e decoro umano. E si
può muovere dalla distinzione tra recitazione tragica e recitazione comica su cui si è a lungo soffermata nel corso dei secoli la
teoria della recitazione. Per alcuni aspetti apparivano senz’altro
simili. L’una e l’atra dovevano infatti rispondere a un’esigenza
perentoria: la recitazione, comica o tragica che fosse, doveva
essere necessariamente improntata all’eleganza e al decoro,
garantiti dall’impiego di un ben definito codice gestuale ed
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espressivo che indicava minuziosamente gesti e movimenti, ne
fissava possibilità e limiti, stabiliva le azioni, gli atteggiamenti e
i comportamenti ammessi sulla scena e quelli proibiti1.
La differenza delle due forme di recitazione dipendeva invece dalla diversa natura dei personaggi della commedia e della tragedia: i primi costituiti da figure superiori alle persone
normali, i secondi simili alla gente comune che lo spettatore
può incontrare nella vita quotidiana. Vi sono, scriveva Grimarest all’inizio del Settecento sulla scorta di una lunga tradizione, “personaggi elevati”, propri della tragedia, e “personaggi
comuni”, di cui tratta la commedia. I personaggi comuni possiedono un ventaglio di caratteristiche assai più ampio dei personaggi superiori ed eminenti della tragedia (Grimarest 1707:
177).
Ciò segnava un’importante differenza nella recitazione. La
necessità di produrre una molteplicità di intonazioni, gesti, atteggiamenti differenziati rendeva innanzi tutto “più difficile”
la recitazione della commedia di quella della tragedia (178). Ma
soprattutto richiedeva, come osservavano diversi trattatisti,
una recitazione più libera e creativa. La dignità e la solennità della tragedia, insisteva verso la metà del Settecento Colley
Cibber, un grande protagonista della scena inglese, rendono
simili e uniformi le prestazioni degli attori e riducono un interprete “a essere assi più simile a un altro di quanto non debba
esserlo nella commedia” dove “le leggi dell’azione” gli consentono “possibilità così libere e pressoché illimitate di giocare con
la natura, che la voce, l’aspetto e i gesti di un interprete di commedia possono essere tanto vari quanto sono differenti tra loro
i modi e i volti del genere umano” (Cibber 1740, ed. 1968: 82).
Ma non si trattava solo di una maggiore apertura stilistica.
Nella commedia le esigenze della recitazione potevano richiedere l’infrazione delle regole stesse del codice espressivo che
garantiva l’eleganza e il decoro dell’azione. Nel 1710 Gildon,
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nel primo trattato inglese sull’arte dell’attore, indicava le “infrazioni” che possono diventare ammissibili e riguardano il
ritmo del discorso, i movimenti delle labbra e della lingua, gli
atteggiamenti del collo e della testa, e via dicendo (Gildon 1710:
53, 58, 72-73, 108). Infrazioni complessivamente assai limitate,
ma quanto meno indicative di un atteggiamento attorico divergente nella produzione degli effetti comici e tragici.
Deformità comica e vizio morale
Tuttavia la varietà di gesti ed espressioni e la possibilità di
infrangere un codice stilistico garantito e riconosciuto di per sé
non spiegavano affatto perché mai la prestazione dell’attore comico riuscisse a scatenare la risata del pubblico. Il fondamento
della comicità della commedia doveva quindi essere ritrovato
altrove, in un celebre passo della poetica aristotelica che definiva la commedia “imitazione di persone più volgari dell’ordinario” e il “ridicolo” qualche cosa “come di sbagliato e di
deforme” (1449a). Se i personaggi della commedia erano persone comuni, potevano dunque diventare oggetto di riso solo in
quanto mostrassero una qualche “deformità”, o comunque una
“volgarità” che li rendesse in qualche modo inferiori a quanti li
osservavano nella raffigurazione dell’attore.
Nella trattatistica della recitazione questa deformità veniva
però risolta in una formula caratteristica. Il personaggio appariva volgare e inferiore in quanto macchiato da vizi di carattere
morale. La comicità della scena si presentava così come denuncia e condanna del vizio rendendo possibile, tra il Cinquecento
e il Settecento, di fronte agli attacchi della chiesa e alle condanne religiose del teatro, rivendicare la sua missione altamente
morale. Un celebre elogio scritto in onore di Vincenza Armani,
un’attrice del tardo Cinquecento, poteva orgogliosamente sottolineare la ragione profonda che l’aveva portata sulle scene:
Vincenza Armani con la sua arte intendeva “purgare de’ vizii
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la corrotta gente”, rappresentando le persone e i loro modi
“come in uno specchio” capace di rivelare i loro errori e quindi infiammarle “a vita lodevole” (Valerini 1570, ed. 1991: 34).
Affermazione che ai nostri occhi appare senz’altro assai ardita.
Ma tant’è, si mostrava quanto meno opportuna, e almeno formalmente ammissibile, nell’ottica del tempo. E non è che un
esempio fra mille.
Intendere la deformità comica del personaggio come vizio
morale offriva inoltre un secondo e non meno importante vantaggio. Permetteva di mantenere senza troppi problemi la recitazione entro i confini dell’eleganza e del decoro stabiliti dal codice espressivo, limitando le eventuali infrazioni. Il che sarebbe
stato difficile quando si fosse trattato di rendere “deformità”
d’altro genere: grottesche malformazioni fisiche o comportamenti irrimediabilmente goffi e stralunati. La rappresentazione
di una figura macchiata da un vizio morale, come l’avarizia,
poteva invece risolversi, secondo le minuziose indicazioni fornite da Iffland, in modi espressivi tanto esatti quanto misurati
nella precisione dei dettagli.
A quasi tutti gli avari preme realmente celare questa propensione. E se essa traspare dai loro atteggiamenti, non è
certo per loro volere. Di solito hanno scelto un atteggiamento particolare con cui credono di poter nascondere il dissidio
interiore. Può trattarsi di una finta cordialità o di una perenne calma che attraversa la solitudine e un’aria malinconica
forma la maschera con cui nascondono la propria interiorità
[…] Forse è per quel continuo osservare tutto ciò che si muove e respira o forse per la preoccupazione di preservare i
loro abiti, in ogni modo gli avari tendono a muovere poco
le loro membra. Solo le dita sembrano di tanto in tanto segnalare con movimenti involontari e frenetici ciò che accade
nel loro animo. Con la stessa cautela con cui intraprendono
un’attività o un affare, così con la stessa lentezza e parsimonia, gli avari si muovono nella vita reale e nello spazio
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[…] Quando stanno perdere qualcosa, l’espressione adottata
si dissolve e la maschera cade. Se devono perdere qualcosa
d’importante è proprio la lotta tra la necessità di conservare
l’atteggiamento costruito e la rabbia che bolle all’interno a
produrre un effetto caricaturale che fa ridere per la sua genuinità.
E Iffland concludeva:
Atteggiamenti convenzionali, convulsioni e smorfie non
possono attirare l’intelligente spettatore più di una formula
magica mal costruita (Iffland 18151, 2012: 350-351).
Per la dottrina ufficiale risolvere l’“inferiorità” e la “deformità” indispensabile all’effetto comico nella rappresentazione
dei vizi morali e dei loro più precisi riflessi nei comportamenti
sociali – modi di parlare, muoversi, incedere, atteggiarsi, guardare, che questi vizi producevano – costituiva così la soluzione
più opportuna. Ancora in pieno Settecento Marmontel alla voce
“comique” nell’ottavo volume dell’Encyclopédie, poi ripresa negli Éléments de littérature, stabiliva un principio ovvio e indubitabile:
L’effetto comico risulta dal paragone che si fa, anche senza
accorgersene, tra i propri costumi e i costumi che si vedono
risolti in ridicolo e, si suppone, tra lo spettatore e un personaggio visibile, con una differenza vantaggiosa per lo spettatore (Marmontel 1822: 237).
E dopo aver elencato una serie di vizi, avarizia, invidia, ipocrisia, adulazione e via dicendo, Marmontel proseguiva:
Ogni uomo disprezzerà nel suo simile [i vizi] da cui si riterrà esente, e prenderà un maligno piacere al vederli umiliati
(329).
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Claudio Vicentini
La comicità inammissibile
Fin qui la dottrina ufficiale. Ma in un’ottica assai diversa
emergeva anche, in tutt’altra luce, una diversa forma di comicità. Emergeva nella distinzione tra gli attori per bene e gli attori
disdicevoli, distinzione che costituiva un punto fermo per tutta
la dottrina della recitazione dal Cinquecento al Settecento.
In un enciclopedico repertorio delle professioni umane stilato nel tardo Cinquecento, Tommaso Garzoni dopo aver illustrato alla voce “comici” la figura di un’attrice che è “compendio
dell’arte”, dotata di “gesti proporzionati […] moti armonici e
concordi […] atti maestrevoli e grati […] parole affabili e dolci”
e “un perfetto decoro quale spetta e s’appartiene a una perfetta
commediante”, passava ai comici che dovevano essere oggetto
di vituperio per le “sporcizie, che a ogni parola scappan lor di
bocca”, per i “gesti ruffianeschi”, furfantissimi “nelle invenzioni a tutta botta; e in ogni cosa putiscono da manigoldi quanto dir si possa” (Bagnacavallo 1601: 739). Una sorta dunque di
malviventi contro i quali la compagine dei trattatisti si sentiva
in dovere di tuonare. Giovan Battista Andreini, figura di spicco
nel panorama teatrale del tardo Cinquecento e del primo Seicento, si preoccupava di separare gli infami istrioni che “dicono
mille impertinenze e disonestadi, facendosi lecito quello che da
ciascheduno deve essere abominato”, dagli attori degni di questo nome che dovevano fuggire non solo “le parole sporche”,
ma – è questo è molto importante – anche “gli atti impudichi e
lascivi” (Andreini 1578, ed. 1991: 484, 486).
I deprecabili istrioni, dunque, non solo dicono porcherie ma
usano il corpo con effetti bizzarri e deformanti. Giocano, precisa Andreini, “di mano e di gorgia” e muovono “la bocca e ad altri membri con modi strani, distorti, tramutati” (Andreini 1578,
ed. 1991: 482-483). Entrava più nel dettaglio Tommaso Garzoni,
che trattando dei buffoni, dopo aver deplorato che “non conoscano che cosa sia vergogna” e tuttavia “trionfino nei pasti dei
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principi” mentre il dotto poeta e l’arguto filosofo restano “nel
vilissimo tinello”, si diffondeva sulle loro bravure:
si vede il buffone con le ciglia de gli [sic] occhi dentro ascose,
e gli occhi sbardellati, che par guerzo; hora conche le labbra
torte, che par un mascherone contrafatto, hora con un palmo
di lingua fuori, che par un cagnazzo morto dal caldo, e dalla
sete; hora col collo teso, che par un’impiccato; hora con le
fauci ingrossate, che fa mostra d’aver mille diavoli addosso,
hora con le spalle ingrossate, che pare il Babuino di Milano
(Bagnacavallo 1601: 816).
La distinzione tra l’arte del comico per bene e le procedure
dell’inammissibile istrione non era certo confinata nell’ambito
italiano, ma si trovava diffusa nell’intera area europea, nella
cultura inglese, nella cultura francese2. Riceveva persino una
sorte di sanzione legale quando nel 1641 Luigi XIII pronunciava
una dichiarazione che rendeva lecita la professione dell’attore
dedito a rappresentazioni prive di parole e azioni “equivoche e
lascive”, condannando nello stesso tempo gli attori “disonesti”
che venivano bollati d’infamia3. E questa distinzione resisteva
ancora, in termini ovviamente più sottili, nelle pagine di Marmontel che distingueva tre generi di comico, “noble”, “bourgeois”, e “bas”, riferiti alla rappresentazione di tre diverse fasce
sociali. Ma, avvertiva Marmontel, non bisogna confondere il
“comique-bas”, rappresentazione dei comportamenti e dei costumi del popolo, con il “comique grossier” che è un difetto che
minaccia tutti i generi di comicità. Tutti e tre i generi, “noble”,
“bourgeois” e “bas” devono essere resi con delicatezza e onestà, mentre il “comique grossier” ferisce il gusto e i costumi.
Eccellente esempio della comicità deviata poteva essere la farsa, “insipida esagerazione o imitazione grossolana di una nauta
indegna d’essere presentata alle persone oneste” (Marmontel
1822: 243, 245).
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Claudio Vicentini
La teoria dell’arte del buffone
La recitazione comica, comunque diretta a mostrare l’inferiorità e la deformità che genera il ridicolo, sembrava così scandirsi in due forme incompatibili. L’una connotata da correttezza e decenza, essenzialmente rispettosa dell’esigenza di grazia
ed eleganza propria dell’arte del ben recitare, che risolveva
l’inferiorità e la deformità dell’oggetto rappresentato nei vizi
della sua condotta morale e nei conseguenti difetti dei comportamenti sociali. L’altra, inaccettabile, ma evidentemente – visto
il perdurare delle sdegnate condanne – di fatto inestirpabile,
che comportava la plateale violazione delle regole canoniche
del recitare, e si fondava sull’esibizione dell’indecenza, sia nelle
parole che negli atti, e della deformità nelle sue forme più dirette e immediate, non solo nelle dimensioni morali e comportamentali, ma anche corporee, fisiche, materiali.
Ciò che tuttavia non è chiaro è se questi due modi della recitazione comica siano davvero separati e incompatibili, al punto
da distruggersi reciprocamente, per cui i modi della recitazione
comica indecente bloccherebbero nel disgustato imbarazzo la
risata che nel pubblico può legittimamente suscitare la comicità
ammessa ed approvata, mentre questa, con tutta la sua eleganza e rispetto del decoro, sterilizzerebbe il basso divertimento
procurato dall’altra.
Nel 1528, nel suo Cortegiano, Baldassarre Castiglione illustrava i comportamenti che il perfetto uomo di corte deve assumere
e stabiliva come qualità essenziali di ogni sua azione l’eleganza,
la grazia e la piacevolezza. E individuava una situazione particolarmente delicata e pericolosa: quando il cortigiano si trovava a far divertire il signore e la compagnia che lo circondava.
Infatti, osservava Castiglione, il riso è quasi sempre suscitato da
una deformità o da “una cosa che non si conviene”. Dunque per
far ridere è necessario evocare situazioni sconvenienti, imitare
personaggi ridicoli, rappresentare deformità. Ma come è possi-
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bile senza compromettere la grazia e l’eleganza delle parole e
degli atteggiamenti? È necessario, spiegava allora Castiglione,
che il cortigiano eviti le soluzioni dei comici di professione e
dei buffoni, e cioè “piangere e ridere, e fare le voci”. Dovrà invece “rubare” ai professionisti questi loro modi espressivi – di
per sé sconvenienti – per poi ridurli e ingentilirli in modo da
conservare sempre la dignità del gentiluomo. Insomma, “far i
movimenti d’un certo modo, che chi ode e vede per le parole e
gesti nostri immagini molto di più di quello che vede ed ode, e
perciò s’induca a ridere” (Castiglione 1528, ed. 1981: 273).
Il gentiluomo, operando come comico “per bene”, dunque,
non mostra ciò che è indecente, ma riesce a divertire perché fa
sì che lo spettatore se lo immagini, e rida perché lo vede nella sua
immaginazione.
Soluzione che trovava un preciso riscontro in un prezioso
testo in forma di dialogo pubblicato tra il 1633 e il 1635 in difesa
della propria professione da un celebre buffone, Bernardo Ricci
detto il Tedeschino, attivo presso le corti romana e fiorentina.
La “vera buffoneria” spiegava Ricci, è l’arte “di parole e di fatti
acconci a provocar il riso”. Per perseguire il suo fine il “vero
buffone” ricorre “ai mezzi più efficaci per introdurre il riso con
le facezie e con le burle”, senza però contenersi “in quelle strettezze alle quali si riduce il cortegiano”. Perché il buffone deve
saper fare anche diversi atti “scomposti e stravaganti”, e dei
“contraffacimenti”, e solo “al fine di muover il riso, perché questa è la propria differenza che la buffoneria ha con ogni altr’arte” (Ricci 1637, ed. 1995: 85, 92).
Ciò che pratica il buffone è dunque la recitazione comica in
assoluto, spoglia di ogni altro intendimento o pretesa morale,
il cui unico fine è “muovere al riso”. Per questo può allargarsi
a modi, forme, gesti, “contraffacimenti” altrimenti inammissibili. Ma anche la buffoneria, a sua volta, deve fissare un limite,
definire una zona inferiore in cui gli atti scomposti e i compor-
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tamenti stravaganti – e comunque la stessa “deformità” sede
naturale del comico – non possono essere accettati. A questa
sfera appartengono innanzi tutto le deformità “reali” e non
prodotte, “contraffatte” dall’arte. Alcuni principi, osserva Ricci,
“se la spassano” con nani e “storpiati ridicolosi, o vero con persone sciocche e scimunite”. “E non so”, prosegue, “con quale
coscienza i signori lo facciano, perché da queste che son miserie
umane, gli animi ben composti debbono muoversi a compassione e non a riso” (87, 89).
Inoltre, precisava Ricci, anche nella produzione del deforme
“contraffatto”, negli atti, nei gesti, nelle parole e nelle azioni
intenzionalmente impiegate dal buffone per muovere al riso, è
indispensabile osservare regole che impongono il rispetto della
“convenevolezza” (83, 85). E Ricci riporta macroscopici esempi
di atti che, violandola, si pongono fuori dall’autentica buffoneria.
Non vi ricordate quando venne a Roma quell’ambasciatore che nella sua solenne entrata un buffone, salito sopra il
cornicion della Porta del Popolo, calatosi i calzoni, alzata la
camicia di dietro, e voltata quella parte verso gli spettatori,
chiamò ad alta voce l’ambasciatore, invitandolo a contemplare la maggior antichità di Roma? […] Io non accetto per
buffoni e che meritino questo nome coloro che fanno simili
sporchezze (96-97).
Ma qui, di nuovo, nel momento di fissare il limite e precisare
l’esigenza della “convenevolezza” sorge un’insuperabile difficoltà. A poco a poco, obietta nel dialogo del Tedeschino il suo
interlocutore, “avete ridotto questo vostro buffone dentro certi
termini, che non par più buffone, ma uomo urbano e la buffoneria, a quel che dite, sarà l’istessa urbanità”. Al che il Tedeschino se la cava rispondendo che il buffone “ha i suoi confini più
ampi dell’urbanità” (102).
Il comico e la teoria della recitazione
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La faccenda però non è così semplice, e la risposta fornita
da Ricci appare inconsistente. Perché, comunque si ponga la
questione, è proprio la zona inammissibile, la trasgressione, la
“deformità” senza remore e mediazione che si propone come
origine e fonte primaria del riso. Per Baldassare Castiglione,
in pieno Cinquecento, il cortigiano, con tutte le sue cautele,
riesce a far ridere lo spettatore facendogli appunto “vedere”,
nell’immaginazione, ciò che in effetti è indecente. Per il Tedeschino, un secolo dopo, i nani e gli storpiati di cui alcuni
principi si circondano sono davvero “ridicolosi”, e non meno
ridicole sono in realtà le persone sciocche e scimunite: è solo
per la dirittura morale che lo contraddistingue che “l’animo
ben composto” non deve riderne. Tra tutte le proclamazioni di
regole e limiti che devono conferire all’arte del buffone la necessaria “convenevolezza”, gli sfugge un argomento davvero
imbarazzante:
coloro i quali escono più dal convenevole co’ motti e colle
burle, hanno troppo più largo il campo da cercarvi gli argomenti per provocar il riso e vien loro fatto di trovarli più
frequenti e pronti e più efficaci.
Insomma, motti e burle sconvenienti si mostrano poi strumenti particolarmente efficienti nel procurare il riso: anzi, appaiono addirittura “più efficaci”. Ed è singolare notare come lo
stesso argomento riaffiori, quanto meno di sfuggita, se non proprio involontariamente, tra le compassate righe di Marmontel,
che preoccupandosi di denunciare il comico “grossier” come
difetto di ogni forma di comicità finisce poi con il dichiarare,
esaminando i tre generi “noble”, “bourgeois” e “bas”, che è più
difficile far ridere dei vizi dei nobili perché sono meno “grossiers” (Marmontel 1822: 240). Ossia, detto in altri termini, ciò
che è davvero l’autentica fonte del riso è il “comique grossier”,
che per altro urta la decenza e non deve essere esibito.
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Claudio Vicentini
Dunque da un lato, come si è visto, è proprio l’insofferenza
della norma che sembra denotare, perfino nelle forme più innocue, la recitazione comica, a cui anche la trattatistica più rigorosa consentiva l’infrazione di alcune regole del codice scenico
generale della grazia e dell’eleganza, fosse pur solo per ricorrere a qualche smorfia, parlare in modo precipitoso, stringere le
spalle, muovere le braccia oltre il livello consentito. La prima
rassegna critica degli attori della Comédie Française stesa da
Jean Dumas d’Aigueberre nel 1729 presenta un passo illuminate, in cui viene criticato un attore, Montméry, che non riesce bene nel “bas-comique”. Il motivo è semplice: rappresenta
i personaggi “precisamente come devono essere su un palcoscenico; non pensa che sono introdotti in scena solo per il loro
modo di agire e per loro facezie grossolane” (Aigueberre 1730,
ed. 2012: 241). Per renderli davvero comici, in conclusione, li
dovrebbe rappresentare in un modo diverso da quello della
corretta recitazione teatrale.
Dall’altro lato, secondo la testimonianza unanime tanto del
Castiglione e del Tedeschino, quanto di Marmontel, gli strumenti dell’interprete comico sembrano slittare inevitabilmente
verso la rappresentazione dell’inammissibile, che deve essere
comunque sottinteso, evocato, richiamato attraverso mediazioni più o meno elaborate.
La recitazione diretta a suscitare il riso vivrebbe perciò di
una tensione costitutiva tra l’esibizione dell’irrappresentabile
(l’indecente, senza il quale non si ride) e la necessità di renderlo
accettabile. E se il nucleo della comicità è la visione della deformità, della volgarità e dell’inferiorità, l’arte del comico consisterebbe nel manipolare l’irrappresentabile attraverso abili
mediazioni capaci di renderlo accettabile senza sacrificarne la
qualità dirompente.
Il comico e la teoria della recitazione
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Ritorno ai luoghi comuni
Diventa allora possibile comprendere come il mosaico di
luoghi comuni che si depositano sulla figura dell’interprete comico non dipendano tanto da residui culturali di tempi remoti, da equivoci, da suggestioni superficiali. Discendono invece
dalla costituzione stessa dell’operazione che compie: il maneggio dell’inammissibile, che il comico rappresenta mediante la
propria persona in azione ricorrendo a forme più o meno elaborate di mediazione.
In questo senso la persona del comico sembra inevitabilmente contaminata, circondata dall’aura della materia che presenta
sulla propria persona, in misura maggiore o minore a seconda
del livello di inammissibilità della materia e della complessità
della mediazione. Il buffone di corte, la figura del comico che
appare più compromessa per il suo repertorio che si estende
agli atti fisici “stravaganti” e alle dirette contraffazioni di deformità grottesche e ripugnanti, costituisce probabilmente il caso
limite. Significativamente la sua persona viene collocata, anche
giuridicamente, in una zona esterna alla comunità dei sudditi sottoposti all’applicazione “ordinaria” delle leggi. Il buffone autore di un crimine comune è punito seguendo la norma
cardine del suo mestiere: produrre il riso attraverso un’azione
estrema, ai confini dell’indecenza, ricorrendo cosi a un castigo
che spesso, osserva Ricci, appare assai più blando di quanto
richiederebbe la colpa commessa. Ricci se ne lamenta, perché
l’applicazione della legge in tutto il suo rigore, senza alcuna
deviazione, manterrebbe la vita del buffone entro i confini di
un comportamento accettabile e corretto. E nel suo dialogo Tedeschino e il suo interlocutore elencano una serie di esempi
negativi, in cui la pena, più o meno ingegnosa, sacrificando in
diversa misura la dignità umana del buffone, lo salva da un più
giusto castigo. Emblematico è l’esempio del buffone della corte
Mantova, ladro e stupratore.
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E colui che in Mantova più anni orsono nell’appartamento dell’istessa duchessa violò una sua damigella e poi dato
le mani su alcune cose preziose fuggì a Venezia, rimandato
dalla Repubblica in potere del Duca, non ebbe altro castigo
se non che gli fu colato del lardo ardente sopra quel membro
che principalmente aveva peccato, non meritava forse mille
forche? Ma per disgrazia dei buffoni onorati par che i principi non sappiano risentirsi e punir con rigore i misfatti di
questi vituperosi. Nelle occasioni di gastigarli si van cercando invenzioni di pene ridicolose, dove converrebbe d’aggravar la severità delle ordinarie, perché se ben si considera,
l’esser commessi i delitti sotto l’ombra della dimestichezza,
che s’ha co’ principi è una circostanza che aggrava in infinito le colpe (Ricci 1637, ed. 1991: 98).
Nello stesso modo, tenendo presente il meccanismo costitutivo della recitazione comica, si chiarisce la convinzione diffusa che trova nell’unione di riso e pianto il vertice supremo
di quest’arte. Tecnicamente non si tratta affatto di un vertice:
rendere l’intreccio di comico e drammatico, o peggio ancora
di comico e lacrimoso, non è più difficile che produrre infiniti
altri effetti nel repertorio di un attore. Ma il drammatico e il
lacrimoso sembrano conferire alla comicità una sorta di dignità
– quanto meno compromessa dalla materia trattata – indispensabile ad ammetterla nel recinto dell’arte “superiore”. E si comprende anche perché lo stesso intreccio di riso e di pianto non
appare invece particolarmente importante nell’ambito delle
rappresentazioni tragiche: non ha alcune funzione particolare
da svolgere.
In quanto al pagliaccio impegnato a divertire il pubblico mentre il suo cuore sanguina per qualche disgrazia privata, il fascino della sua figura, con tutta la nostra commossa simpatia, nasce dall’impressione che sia costretto a svolgere faccende un po’
degradanti proprio quando il suo personale dolore meriterebbe
un profondo e unanime rispetto. Mentre – di nuovo – l’attore
Il comico e la teoria della recitazione
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tragico sereno e perfettamente soddisfatto che, costretto dalla
parte, si diffonde in lamenti suscita al più, nell’ottica comune,
uno scontato apprezzamento per le sue capacità di simulatore.
Resta, per ultima, la questione squisitamente tecnica dell’opportunità di esibire o nascondere l’atteggiamento personale
dell’interprete verso la parte comica che recita. Se si debba mostrare divertito, o al contrario, come predicava Iffland, debba
apparire totalmente immerso nel suo ruolo scenico senza operare alcuno scarto dal personaggio.
In realtà non si tratta di due possibilità divergenti. Sono risorse tecniche dotate di specifiche funzioni. Il distacco dell’interprete dalla parte si inserisce nelle procedure di mediazione
che rendono accettabile “l’irrappresentabile”. Mostrando di divertirsi, esibendo la consapevolezza della qualità ridicola di ciò
che va facendo, l’attore ne denuncia di fatto la “deformità” e
la “volgarità”, e dunque lo rende “presentabile” quanto meno
come oggetto di condanna. Nello stesso tempo ne favorisce una
visione lucida da parte dello spettatore che può osservare il
“deforme” e il “volgare” senza alcuna remora, senza alcun imbarazzo. Così le qualità dell’oggetto rappresentato acquistano
paradossalmente una maggior forza, una maggior nitidezza, e
diventano insomma più “ridicole”.
Quando l’interprete si immerge invece totalmente nella parte comica assumendone i caratteri senza mostrare un’ombra di
consapevolezza, annulla ogni canale di comunicazione diretta
con il pubblico e sottolinea l’irriducibile estraneità di ciò va facendo a ogni forma di comportamento “normale”. In questo
modo, mentre la figura rappresentata appare perentoria nell’assolutezza dei suoi tratti, la recitazione traccia un solco preciso
tra la superiorità dello spettatore e la deformità del personaggio. La sua rappresentazione diventa allora “rassicurante”, e
quindi pienamente ammissibile, perché esibisce l’evidente incompatibilità della devianza (del vizio, della volgarità) con il
normale comportamento delle persone dabbene.
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Le funzioni delle due procedure, del distacco e della piena
aderenza alla parte, non sono quindi divergenti, ma confluiscono nell’obiettivo comune: mediare e, insieme, esaltare la visione dell’inammissibile. In effetti vengono assai spesso impiegate
dall’attore – come suggeriscono le pagine di Antonie-François
Riccoboni e di Rémond de Sainte-Albine – nel corso di una
medesima esibizione comica, all’interno di una assai più vasta
rete di complicate e delicate mediazioni, in cui poi si risolve, in
definitiva, l’intero complesso dell’arte del comico portata sulla
scena.
note
Sul codice gestuale ed espressivo posto alla base della corretta recitazione e della sua importanza nello sviluppo della trattatistica cfr. Vicentini
2012, in particolare capp. IV-VI.
2
Cfr. ad esempio Heywood 1612, ed. 1841: 43-44; Scudéry 1639: 74.
3
Cfr. il testo della dichiarazione in Maugras 1887: 90-91.
1
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