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Geografia Da Insegnare O Da Apprendere

2017

La recente presentazione a Villa Celimontana di uno splendido volume sull’opera di Matteo Ricci (Mignini, 2013) ha offerto l’occasione per un dibattito che tocca temi epistemologici molto profondi per i cultori delle discipline geografiche, ben al di la dell’incidentale occorrenza spaziale e temporale che potrebbe indurre a credere che si stia parlando di cose lontane e ininfluenti. La domanda concettualmente e semplice, ma ha profonde radici filosofiche e teologiche. Il sapere si insegna, si puo insegnare, si deve insegnare? Socrate, i sofisti e il cristianesimo ci offrono risposte differenti, o per meglio dire le hanno offerte agli occidentali attraverso i secoli; e, come e noto, solo gli occidentali hanno vissuto quella particolarissima fase che va sotto il nome di Eta delle Grandi Scoperte, da tempo oggetto delle riflessioni filosofiche e sociologiche di studiosi che si domandavano come mai questi avessero scoperto quelli, e non viceversa.

DIBATTITO SCIENTIFICO BOLLETTINO DELLA SOCIETÀ GEOGRAFICA ITALIANA ROMA - Serie XIII, vol. X (2017), pp. 413-422 MICHELE CASTELNOVI GEOGRAFIA DA INSEGNARE O DA APPRENDERE RIFLETTENDO SULLE OPERE DI MATTEO RICCI E MARTINO MARTINI Una premessa geografico-epistemologica. – La recente presentazione a Villa Celimontana di uno splendido volume sull’opera di Matteo Ricci (Mignini, 2013) ha offerto l’occasione per un dibattito che tocca temi epistemologici molto profondi per i cultori delle discipline geografiche, ben al di là dell’incidentale occorrenza spaziale e temporale che potrebbe indurre a credere che si stia parlando di cose lontane e ininfluenti («gesuiti euclidei vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori della dinastia dei Ming» – come ebbe a dire il poeta – nella remota Cina, tra Cinque e Seicento). La domanda concettualmente è semplice, ma ha profonde radici filosofiche e teologiche. Il sapere si insegna, si può insegnare, si deve insegnare? Socrate, i sofisti e il cristianesimo ci offrono risposte differenti, o per meglio dire le hanno offerte agli occidentali attraverso i secoli; e, come è noto, solo gli occidentali hanno vissuto quella particolarissima fase che va sotto il nome di Età delle Grandi Scoperte, da tempo oggetto delle riflessioni filosofiche e sociologiche di studiosi che si domandavano come mai questi avessero scoperto quelli, e non viceversa (quello che è stato definito «il paradosso di Pocahontas»). Conviene esplicitare subito che in questo caso, al di là delle ossessioni dei lepantisti, la cultura islamica è compresa nel concetto di «occidentale» a prescindere dalla longitudine (1), condividendo con gli altri coabitanti del Mediterraneo tante forme di sapere ma soprattutto tutte quelle connesse alle nostre discipline: la cartografia, la geografia, (1) I viaggi di Ibn Battuta ci dimostrano che un dotto poteva viaggiare dal Marocco alla Corea, e da Zanzibar all’Uzbekistan, senza mai uscire dalla «islamosfera»: l’obbligo religioso di leggere sempre il Corano nella lingua originale di Maometto (l’arabo) costringeva di fatto le persone istruite a mantenere viva una lingua veicolare. Inoltre, almeno due prescrizioni fondamentali rendevano necessaria una significativa diffusione del sapere geografico: l’obbligo di orientare la preghiera quotidiana verso la Mecca rendeva fondamentale il calcolo del Qibla, l’obbligo di pellegrinaggio alla Kaaba favoriva i viaggi e gli scambi culturali interni. Si fa un gran parlare delle cosiddette «esplorazioni cinesi» guidate dall’ammiraglio Zheng He: il quale, tuttavia, era di origine musulmana, e partecipava di un sapere molto diverso da quello dei cinesi a lui contemporanei. 414 Michele Castelnovi l’astronomia, gli strumenti di misura e di calcolo dall’astrolabio al portolano (al punto che gli osservatori veramente «orientali» – indiani, cinesi, giapponesi – faticavano a distinguere islamici da cristiani o da ebrei). Un elemento che è sempre stato chiaro a tutti – molto prima delle icastiche definizioni di Yves Lacoste e prima di lui, di Francis Bacon – è che «il sapere è potere», e che la conoscenza geografica serve innanzitutto per avvantaggiarsi in ogni forma di conflitto, dalla guerra alle strategie di penetrazione commerciale. Pertanto, sotto ogni latitudine, il sapere geografico è sempre stato considerato prezioso. Le mappe in possesso del nemico (o, più in generale, dell’«altro») dovevano essere rubate, o comprate, o copiate; analogamente, anche il sapere geografico orale poteva essere utilmente ottenuto con le buone o con le cattive, volta per volta da una collaborativa Malinche per Cortes o da recalcitranti ostaggi per Giulio Cesare (i carcerieri cinesi avevano metodi molto efficaci per ottenere informazioni da prigionieri anche analfabeti). Volenti o nolenti, codesti «traditori» (dal latino «trado» ossia: consegnare) hanno sempre avuto un ruolo enorme in tutti i contatti tra civiltà; senza contare i figli di sangue misto, bilingui dalla nascita, talvolta ottenuti con appositi matrimoni di interesse o con l’invio di giovani presso le corti altrui (i giovani ateniesi presso il Minotauro, la principessa cinese in lacrime per l’odore di latte nelle yurte dei nomadi, ecc.). Secondo i sofisti, come Gorgia da Lentini, nulla è; se anche esistesse, non sarebbe conoscibile; infine comunque non sarebbe insegnabile. Difficile trovare un peggiore nemico della geografia. Avversario ma anche ammiratore dei sofisti, Socrate affermava (a voce) «io so di non sapere»: stratagemma maieutico che serviva, in realtà, a mettere in crisi l’interlocutore e a condurre il dialogo verso elementi della cui validità Socrate – al di là delle dichiarazioni retoriche – era profondamente convinto. A voce, non per scritto: il pensiero di Socrate ci è noto principalmente dagli scritti di Platone (e del «geografo» Senofonte), il quale contrariamente al proprio maestro era convinto di sapere tutto. Gli antichi Romani tenevano in grande considerazione la geografia, ma senza cartografia: tutte le loro nozioni erano organizzate in termini odologici, con l’Irlanda «al di là» della Spagna e Cartagine «di fronte» alla Sicilia. Il cristianesimo introdusse una serie di elementi nuovi: tra i quali, l’incarico pentecostale di andare ad annunciare la Buona Novella a tutti i popoli del mondo, anche i più lontani dal Centro dell’Ecumene che, per definizione, doveva essere necessariamente Gerusalemme (già centro per gli ebrei). Questa nuova missionarietà travalicava i confini politici dell’Impero: per i Romani sarebbe stato sufficiente sviluppare la civiltà entro il limes militare, ma per i cristiani teoricamente esisteva un obbligo morale ad incontrare tutti i popoli di ogni parte del mondo (in forma speculare, per gli islamici esiste un Centro che è la Mecca, da cui partono iniziative di conquista in tutte le direzioni). I cristiani iniziarono, proprio per la forma centripeta di quella concezione ecumenica, con le Crociate verso Gerusalemme (un’idea assolutamente inedita rispetto all’epoca classica) e infine giunsero alle Americhe – anche cercando il Paradiso Terrestre – e fino all’Asia Estrema. In Cina, nel frattempo, era stata elaborata una concezione completamente diversa dell’Ecumene. Certo anche per i cinesi esisteva un Centro, che ovviamente coincideva con la città capitale sede dell’Imperatore come simbolo della civiltà: la differenza riguardava piuttosto la concezione delle periferie. Geografia da insegnare o da apprendere: riflettendo sulle opere di Matteo Ricci e Martino Martini 415 Per i cristiani o gli islamici, le periferie erano comunque degne di essere conquistate e convertite. Per i cinesi, invece, le periferie sono inderogabilmente destinate ad essere semibarbariche. Da questo atteggiamento consegue un fortissimo disinteresse per tutto ciò che si trova al di là dei confini dell’Impero: con conseguenze paradossali, considerando che spesso i cinesi erano privi di informazioni attendibili non soltanto sui lontani popoli del Mediterraneo, ma perfino sui loro vicini e confinanti. Al punto che nel suo famoso trattato di arte militare, Sunzi (Sun Tzu) sente l’urgenza di raccomandare sempre di scegliere una guerra difensiva, per avvantaggiarsi della maggiore conoscenza del «proprio» territorio – dando per scontato che, ad ogni livello gerarchico, nessun cinese abbia mai notizie geografiche affidabili sul territorio altrui. Insegnare o imparare la geografia? – Premesso questo quadro generale, appare chiaro che questi due grandi missionari italiani in Cina hanno agito due stili comportamentali diametralmente opposti. Matteo Ricci ha portato alle estreme conseguenze le convinzioni di onniscienza dell’epistemologia platonica ed agostiniana. Non soltanto noi (noi «Uomo Bianco» alla Kipling; noi occidentali) «sappiamo di sapere», ma questo nostro sapere ci pone in una condizione di vantaggio talmente evidente, che tutti dovrebbero sottomettersi e convertirsi all’istante. Questo ragionamento, secondo Ricci, vale in generale per qualsiasi ambito dello scibile umano, ma soprattutto in ambito geografico, dove – a suo parere – apparirebbe immediatamente a chiunque che «noi» siamo molto superiori ai cinesi. Infatti, i cinesi hanno conoscenza solo del territorio interno all’Impero, con rare notizie disordinate sui popoli che versano il Tributo: mentre i vascelli europei, spinti dalla benevolenza della Divina Provvidenza, hanno già conoscenza cartografica di tutti i continenti e di tutte le isole del mondo e, si sa, sapere è potere: quasi come se l’aver cartografato le coste della California o della Patagonia garantisse ipso facto il pieno dominio del territorio. Per Matteo Ricci, la conoscenza geografica è come una clava, da sbattere in faccia all’interlocutore per ottenere ammirazione ed ubbidienza. Allo stesso modo, lui stesso confessa di usare come strumenti di persuasione qualsiasi altra forma di sapere scientifico o tecnologico: la mnemotecnica (o arte della memoria), la geometria euclidea, ma anche la manualità nella fabbricazione di orologi meccanici – che è poi l’unico motivo per cui egli è noto in Cina ancora al giorno d’oggi, una sorta di «patrono-portafortuna» dei riparatori di orologi. Ma la storia della filosofia deve corrispondere agli eventi in precise fasi storiche. Se Ricci avesse avuto ragione nella sua valutazione, avrebbe ottenuto migliaia di conversioni, sia tra i dotti, sia tra gli umili. Invece no. Non solo: ma a distanza di trenta anni, un suo allievo (il bresciano Giulio Aleni) si troverà costretto a cercare di ribadire i concetti così lampanti di Ricci, pubblicando un libro che i dotti cinesi derubricheranno immediatamente come curiose fantasie, imprecise ed inaffidabili. Alcuni studiosi sono stati tratti in inganno dalle narrazioni che sono state fatte (proprio da Ricci) della presentazione di quei famosi planisferi. Ma è chiaro che Ricci scriveva per difendere la bontà teorica delle proprie scelte, e per ottenere nuovi finanziamenti e nuovi sostegni politici. Ricci, come molti altri occidentali, adoperava la conoscenza geografica nel ten- 416 Michele Castelnovi tativo di ottenere rispetto, ammirazione e consenso dagli orientali. Un aneddoto, piuttosto noto (Landes, 2000, p. 375), illumina questo modus operandi: un ammiraglio spagnolo cercò di intimidire il leader giapponese Hideyoshi, mostrandogli la vastità del gran mappamondo cartografato dai suoi conterranei: spiegando che dalla piccola Spagna partivano prima i missionari, poi i mercanti, infine gli eserciti per invadere qualsiasi periferia. Esplicitare codeste strategie non porta fortuna: Hideyoshi sequestrò il galeone e fece crocifiggere tutti i cristiani, per stroncare sul nascere ogni tentativo espansionistico. A voler fare «l’avvocato del diavolo», potrei dire che un limite del volume in recensione (Mignini, 2013) consiste nel trascurare di approfondire l’impatto di Ricci sulla pratica cartografica quotidiana dei funzionari imperiali cinesi: abbiamo un capitolo sulle «fonti cinesi di Ricci», ma io vorrei leggere un capitolo su «quanto Ricci ha influenzato i cinesi»: non soltanto per la traduzione (o invenzione) di tanti toponimi e coronimi prima sconosciuti, ma proprio per la cartografia, sia a livello territoriale (quasi il catasto), sia nella rappresentazione dell’Ecumene. A Ricci, al di là del dissodamento linguistico, va riconosciuta la scelta di «vestire da letterato» per farsi accettare, e più in generale di aver indossato, al pari di un costume di scena, i panni del «cinese» sia pure con la riserva mentale tipica dell’approccio gesuita nella «dissimulazione», così come teorizzato esplicitamente da Ignazio nelle Instructiones del 1548 (Catto, 2014, p. 17) ma che i cinesi, avvezzi da secoli alla finzione sociale, erano in grado di comprendere ed anzi di apprezzare; e forse non è del tutto errato riconoscere a Ricci un ruolo importante nell’elaborazione dell’approccio gesuita alla tolleranza nella cosiddetta «Questione dei Riti», nella quale però intervennero anche altri confratelli tra cui Valignano e Ruggieri (fermo restando il ruolo di Martini nel convincere papa Alessandro VII, nel 1655). Ma Ricci ebbe anche molti limiti: il più drammatico riguarda l’ottimismo con cui descrive la conversione dell’imperatore (e come se fosse una conseguenza inevitabile, di tutti i suoi sudditi) come se fosse a portata di mano; il più fastidioso invece riguarda il suo pervicace eurocentrismo (ripetuto pari pari a distanza di decenni da Bouvet, non a caso ridicolizzato da Voltaire: Catto, 2015, p. 7). Sembra quasi che il ruolo dei gesuiti fosse solo quello di insegnare cose agli «arretrati» cinesi, in particolare la geometria della tradizione greca (peraltro, mediata dalle traduzioni arabe medievali) e i calcoli astronomici. Nella realtà storica lo scambio fu ampiamente bidirezionale e reciproco. Eugenio Garin (1975, p. 346), rielaborando un’idea formulata nel 1932 da Virgile Pinot (1932, p. 189), ci ammonisce che, dopo la scoperta dei «selvaggi» americani (metto tra parentesi che si potessero davvero giudicare «selvaggi» e privi di civiltà i Maya, gli Inca, gli Aztechi, gli Irochesi, i Cherokee, ecc.) nel Cinquecento, nel Seicento gli europei scoprirono i «saggi» cinesi. I quali apparivano «saggi» proprio perché avevano una civiltà raffinata, dalla quale si intuiva che c’erano molte cose da imparare. Secondo un luogo comune della storia delle esplorazioni geografiche, il periodo delle Grandi Scoperte (circa 1450-circa 1600) sarebbe «il secolo più importante nella storia della cartografia europea, o almeno il secolo in cui più radicalmente è cambiata l’immagine del mondo» (Quaini, 2006, p. 13). L’immagine superficiale delle linee di costa, certamente sì; la conoscenza consapevole del territorio (anche europeo!), ancora no, anzi: tanto da far sorgere il dubbio che la cosiddetta cartografia moderna sia nata solo per imitazione della cartografia cinese (che Geografia da insegnare o da apprendere: riflettendo sulle opere di Matteo Ricci e Martino Martini 417 magari conosceva meno il profilo di isole oltreoceano, ma conosceva di più i fiumi e i monti in patria). In Occidente, ancora nel Seicento inoltrato – come proprio Quaini sapeva molto bene, avendo studiato approfonditamente le minuscole idiosincrasie dei cartografi attivi allora nei territori liguri e piemontesi – ogni singola carta locale (2) era incompatibile con le altre, per scala, proiezione, forma, orientamento e punto di vista; in Cina invece, ogni carta locale relativa a una porzione anche piccola dell’Impero era perfettamente incasellata in uno schema di quadrati concentrici e realizzata deliberatamente secondo metodi univoci e inderogabili – sanciti secoli prima dal leggendario Pei Xiu (Castelnovi, 2014) – proprio per poter essere riassunta nella mappa di livello superiore: come le tessere di un grande mosaico, o come i pannelli mossi a tempo da migliaia di figuranti alle Olimpiadi del 2008. Al punto che nel 1655 Martini ebbe ad annotare: «nel suo insieme l’Impero cinese è di forma quasi quadrata e così è rappresentato sulle mappe cinesi» (2002, p. 237; un commento in Quaini e Castelnovi, 2007, p. 123). Inoltre, per quanto possa sembrare sorprendente (soprattutto per chi è abituato a studiare l’esuberante espansionismo d’oltremare delle potenze europee) i cinesi tendevano a non cartografare le zone che non appartenevano all’Impero, come la Manciuria o il Giappone: anche Sun Tzu (Sunzi) dava quasi per scontato che un esercito aggressore sia sistematicamente privo di carte dell’area che ha appena invaso, individuando nella conoscenza dei luoghi un vantaggio assoluto del difensore. Martini si dimostrò un «sociografo ante litteram», consapevole di questa particolare concezione cinese dello spazio, registrando che il vero confine tra l’Impero e la barbarie può essere individuata nel diverso uso del suolo e, in definitiva, delle strutture economiche che ne derivano (Martini, 2002, p. 69). Si può anche ammettere, quindi, che Ricci sia stato veramente il primo a mostrare le coste di tutti i continenti allora conosciuti su un planisfero ai cinesi; e che all’inizio volle mettere al centro l’Europa (come da tradizione: ovviamente quella tradizione eurocentrica, iniziata con Juan de la Cosa (3) e culminata con Mercatore: Monmonier, 2004), suscitando reazioni scomposte, e che in un secondo momento volle spostare la Cina al centro per soddisfare le esigenze sinocentriche dei propri interlocutori; e che alla fine della sua missione riuscì a far pervenire una copia di quel poderoso planisfero (largo sei metri) fino all’imperatore. Ma non possiamo sapere se quel planisfero ebbe una qualche diffusione (come invece l’avevano sicu- (2) Facevano eccezione le carte marine realizzate ad uso nautico, che concorrono a restituire uno spazio standardizzato: riferendosi ad una peculiare condizione impossibile da riprodurre sulla terraferma (l’orizzontalità del mare) e giovandosi delle infinite osservazioni fornite, volenti o nolenti, dai marinai di ogni nazionalità. (3) La scoperta dell’America permetteva, improvvisamente, ai cartografi iberici di smettere di raffigurare Spagna e Portogallo come margine estremo della periferia dell’ecumene, come accadeva negli schemi T-in-O, presso i piedi del Salvatore vicino al Mare Tenebroso, nella parte di mondo più lontana dall’Eden. Uno dei più interessanti planisferi raffiguranti il Nuovo Mondo, redatta nel 1500 da Juan de la Cosa (uno dei compagni spagnoli di Colombo) assieme alle mappe di Martello, Ruysch, Walseemuller, e poi Cantino, Castiglione, Ribero, Verrazzano dev’essere messo in relazione con la nascita dell’eurocentrismo. Codesta digressione per ricordare che la posizione centrale dell’Europa, che ai nostri occhi potrebbe sembrare un dato scontato ed eterno, dev’essere contestualizzata in un momento storico relativamente breve, e non condiviso universalmente (giacché anche gli Inca e gli Aztechi immaginavano un’ecumene centrata, rispettivamente, sul Perù e sul Messico). 418 Michele Castelnovi ramente le mappe ufficiali redatte dai cartografi cinesi: l’unica fonte che lo afferma è proprio Ricci (2000, p. 374 e p. 552), ossia un testimone auto-agiografico e palesemente coinvolto alla ricerca di fondi per successive missioni (su questo tema: Castelnovi, 2008, p. 23, e 2011, p. 95). Non si hanno prove di alcun cambiamento nell’arte cartografica cinese (Messner e Siebert, 2010, p. 879), né di una maggiore curiosità geopolitica verso le «Terre d’oltremare». Al contrario, dobbiamo credere che, come quello del suo successore ed epigono Giulio Aleni, sia stato derubricato tra le fantasie poco attendibili, sebbene Ricci si sforzi di affermare che le copie, autorizzate o meno, fossero molto richieste dai cinesi (Ricci, 2000, p. 374). Leggiamo ad esempio a pagina del volume XXV che presentiamo oggi, che Matteo Ricci affermava che i cinesi stamparono immediatamente migliaia di copie dei suoi planisferi: la citazione rimanda a un celebre passo del suo libro Dell’Entrata della Compagnia di Gesù e della Cristianità in Cina, pagina 374 della nuova edizione Macerata, a cura di Filippo Mignini, 2000. Per poter studiare la storia della cartografia spesso è necessario affrontare criticamente gli scritti dell’epoca: gli autori tendono ad amplificare il proprio ruolo e a minimizzare gli apporti degli altri, in tutte le epoche, da Colombo e Vespucci – o meglio: da Giulio Cesare – fino ai giorni nostri. Senza voler sminuire la portata delle imprese ricciane in ambito missionario, lo storico della cartografia ha il dovere di porre delle domande che vanno al di là dell’autobiografismo (immancabilmente autocelebrativo) e dell’agiografia, la quale, per definizione, viene prodotta all’interno di un determinato ambito religioso (nel caso specifico: i gesuiti) per cercare di ottenere con la beatificazione e la santificazione di un membro dell’ordine una sorta di supremazia rispetto agli altri ordini per così dire «concorrenti» nella vigna del Signore (nel caso specifico, i missionari francescani e domenicani, quasi tutti di origine iberica, vicini all’approccio geopolitico portoghese e contrarissimi allo stile delle iniziative gesuitiche in Cina come in Malabar). Matteo Ricci afferma che un funzionario imperiale, Li Zhizao, volle far stampare migliaia di copie del suo gigantesco planisfero. Anzi, anche altri stampavano altre copie (diremmo oggi: copie pirata), e quindi in definitiva «Li Zhizao ne stampò molti e diede in presente [cioè, in dono] a tutti suoi amici, che, con quelle che altri stampavano con sua carta, furno molte migliaia» (qui, p. XXV; Dell’Entrata, p. 374). Possiamo fidarci della buona fede di padre Ricci; al quale, sicuramente, avranno raccontato che la sua carta era stata riprodotta in migliaia di copie. Ma lo storico della cartografia non può accontentarsi della campana dei protagonisti: deve – ha il dovere di – approfondire con il confronto. E il confronto, per quel che sappiamo finora, è negativo. Esistono, certamente, alcune rarissime copie dei planisferi ricciani, e questo volume ha il merito scientifico di elencarle tutte e di riprodurle quasi tutte (anche se non sarebbe stato inopportuno un DVD digitale). Ma i cartografi imperiali hanno continuato secondo la tradizione cinese medievale: i planisferi non hanno avuto l’impatto sperato (sarebbe stato necessario… un miracolo!). Alcune fonti dicono che furono fatte dodici copie, su seta. Ricci sostiene che ne furono stampate «molte migliaia», su carta. Non sappiamo con certezza nulla su questi quantitativi, ma sappiamo con sicurezza che non ebbero impatto sulla tradizione cartografica cinese. Quasi venti anni dopo, uno dei più cari allievi di Matteo Ricci, il gesuita bresciano Giulio Aleni, si sentirà in obbligo di scrivere un Atlante dei paesi lontani dalla Cina, proprio per cercare di rendere più interessante l’opera del suo maestro. Allo stesso modo, anche se alcune copie sono state portate in Geografia da insegnare o da apprendere: riflettendo sulle opere di Matteo Ricci e Martino Martini 419 Giappone o in Corea, sembra che l’interesse (Mignini, 2013, pp. 123-127; e 144-145) verso l’Europa non sia anteriore al tardo Settecento: una lentezza impressionante, se paragonata con l’entusiasmo cartografico con cui gli Europei disegnarono prima le Americhe e poi anche l’Asia, in pochi decenni. Ma vale il ragionamento già accennato: questi popoli erano convinti di essere al centro dell’Ecumene e che tutti i beni di valore si trovassero presso di loro, mentre gli Europei hanno sempre pensato di abitare ai margini, quasi come «scacciati dal paradiso terrestre», da un Altrove più bello e più desiderabile. La storia dell’Europa è una storia di «eterno desiderio di Altrove» (e i 4 punti cardinali sono tutti dei complementi di «moto a luogo»: la mente orientale invece preferisce lo «stato in luogo», lo stare fermi al Centro come Quinta ma principale direzione geografica). Il sinologo Federico Masini riporta il giudizio formulato da un funzionario cinese sull’opera di Aleni: «Le sue descrizioni sono assai strane e non si possono riscontrare, quasi che egli non abbia potuto fare a meno di vantarsi e di esagerare. Tuttavia, siccome il mondo è così grande che c’è posto per qualsiasi cosa anche la più strana, noi registriamo questo libro in entrata nella biblioteca, anche perché servirà ad accrescere la nostra raccolta di mirabilia» (Masini, 2009, p. 9); e siccome Aleni poneva le sue lunghe descrizioni come continuazioni delle brevi sparute legende scritte da Ricci all’interno dei continenti (su cui, in verità, gli Europei sapevano all’epoca poco o nulla), si può credere che il giudizio fosse analogo. Sul tema si veda anche Castelnovi, 2011a. Sia Ricci, sia Aleni «usano» la cartografia come strumento di persuasione. Questo «uso strumentale» non era scevro di una forte dose di manipolazione. D’altra parte, l’approccio pragmatico dei gesuiti alla Realpolitik attingeva molto da Machiavelli: «il fine giustifica i mezzi», e alla fine qualsiasi stratagemma o astuzia sarebbe stata giustificata se finalizzata «ad maiorem Dei gloriam», come recitava il motto imposto all’Ordine da sant’Ignazio. Entrambi indulgevano in due forme di manipolazione del dato geografico bruto: esagerando la vastità del possesso, e minimizzando la presenza di avversari o concorrenti. Vastità del possesso. Sia per Ricci, sia per Aleni, qualsiasi costa seppur vagamente tratteggiata su una mappa europea implicava automaticamente il possesso di tutto il continente retrostante. Pochi chilometri di costa australiana, benché avvistata da un olandese (!), avrebbero garantito al cattolicesimo il possesso indiscusso dell’intera Oceania, ovunque si estendesse, senza curarsi né delle esigenze politiche degli autoctoni, né di eventuali rivendicazioni di altri. Grozio non aveva ancora elaborato la sua dottrina sul Mare Libero, e i due gesuiti suddividevano ancora l’ecumene in due emisferi: uno assegnato dal Papa alla corona spagnola, e uno assegnato alla corona portoghese. Minimizzare i concorrenti. Entrambi tendono a minimizzare l’esistenza di soggetti avversari delle potenze cattoliche. Ricci addirittura descrive i Turchi come mostri dagli zoccoli caprini. Tendono a ridurre di molto l’estensione dell’islamosfera, a dimenticare le differenze teologiche con gli ortodossi (non tanto per i bizantini, quanto per il vasto impero russo!), e perfino a omettere l’esistenza di veri e propri Stati protestanti, con le proprie rivendicazioni sia in Europa sia nelle Americhe (si pensi agli Olandesi a Manhattan). Entrambi tentano di far credere al lettore cinese che tutti i popoli vivono in pace sotto la guida indiscussa del papa: proprio nel secolo in cui imperversarono le più sanguinose guerre di religione! Ovviamente, nei loro scritti i due gesuiti non fanno il minimo accenno a possibili obiezioni su questo. Ma lo storico della cartografia deve domandarsi: ma i funzionari 420 Michele Castelnovi cinesi, non avevano nessuna altra fonte da interrogare per avere notizie sull’Occidente? Voltaire – ma molti decenni dopo – racconterà di come si arrabbierà l’imperatore Kangxi, sentendo litigare tra loro un frate cattolico, un pastore calvinista (olandese) e un prete luterano (danese). Vogliamo dubitare che i funzionari cinesi delle città portuali non avessero l’occasione per interrogare, per usare un eufemismo, marinai persiani ed egiziani, o qualcuno di quei barbari coi capelli rossi e il naso lentigginoso olandesi? Perché infatti Matteo Ricci tenta in tutti i modi di convincere il lettore che nell’Asia Estrema si giocava una partita a due, tra i cattolici e i cinesi. Il concetto ricorrerà sovente negli scritti dei gesuiti, fino a Bouvet che paragonerà Kangxi sia al papa, sia a Luigi XIV. Siccome Ricci è uno scrittore molto persuasivo, il lettore europeo tende a credere che, poveri cinesi!, per fortuna è arrivato Ricci a mostrargli la geometria euclidea, altrimenti… Ma altrimenti cosa? I cinesi prosperavano da secoli senza l’aiuto degli Europei, e tutto ciò di cui sentivano il bisogno se lo facevano portare dagli «occidentali», ossia, secondo il loro punto di vista, dai mussulmani. E qui occorre fare una piccola riflessione. Se rimaniamo in un’ottica esclusivamente eurocentrica, la Cina è stata «scoperta» solo nel 1513, quando la prima flotta portoghese è arrivata in porto circumnavigando l’Africa. Il che appare miracoloso a chi pensa che solo venti anni prima Colombo aveva «scoperto» l’America. Ma se ci spogliamo di codesta ottica eurocentrica, ci accorgiamo che Vasco de Gama e tutti gli altri Lusiadi arruolavano piloti e interpreti islamici. Nei porti cinesi era un brulicare di navigli mussulmani, che poi trasportavano merci e idee nel «lago mussulmano», l’Oceano Indiano, in cui loro sapevano di poter navigare con sicurezza da secoli, da Zanzibar a Sumatra. Quanti marinai egiziani saranno stati incarcerati in Cina, e «interrogati» sulla geografia e sull’unitarietà dei popoli d’Europa? Quanti mercanti persiani avranno donato copie delle mappe di Piri Reis – il quale, nel 1513, a sua volta dichiarava di aver attinto da cartografi provenienti da tutto l’Ecumene, dai portoghesi ai Cinesi! – o se non donato, almeno venduto know how e informazioni sui nemici cristiani? Un fatto storico è assolutamente assodato: la cartografia cinese proseguiva una tradizione cinese, e secoli di contatti quotidiani coi mercanti islamici non avevano minimamente influenzato la cartografia terrestre, che perpetrava lo schema a quadrati concentrici che dicevamo sopra. Certo le carte nautiche subivano maggiormente l’influenza dei portolani: ma i cinesi preferivano lasciare che i rischi e le incombenze dei viaggi per mare fossero «accollati» a chi era più povero e più avido, evitando di rischiare il carico e la vita. Martino Martini è noto per essere stato il primo occidentale a descrivere la Cina usando fonti cinesi: nella geografia e cartografia, nella storia antica, nella cronaca delle guerre coeve. Ma, a mio avviso, Martini è anche il primo che si accorge che la versione raccontata da Ricci era incompleta; il primo che si accorge che non basterà convertire un sovrano per convertire tutto il popolo con un semplice colpo di mano: sognando che anche laggiù potesse essere considerato valido il principio «cuius regio, eius religio» (che sarebbe stato difeso con picche e cannoni da un ecclesiastico: il cardinale Richelieu) sancito ad Augusta nel 1555 e ribadito a Vestfalia nel 1648, oppure auspicando una seconda «Donazione di Costantino» (4) a favore della Chiesa, anche sul letto di morte. Non credo (4) Secondo alcuni missionari cristiani, il figlio dell’ultimo imperatore Ming era stato battezzato con il nome, forse non casuale, di Costantino: scrive a questo proposito Shih, 1995, p. 259: «Secondo Martini, persino la madre, la moglie ed il figlio dell’Imperatore erano stati battezzati. Quest’ultimo, ad esempio, Geografia da insegnare o da apprendere: riflettendo sulle opere di Matteo Ricci e Martino Martini 421 che Martini fosse «più intelligente» dei suoi predecessori: semplicemente, nonostante fossero trascorsi pochi anni, viveva già in un’altra epoca, avendo assistito di persona al crollo epocale della dinastia Ming, e possedeva la capacità di discernimento necessaria per comprendere il cambiamento avvenuto. In conclusione. Abbiamo qui un volume che sotto certi aspetti rappresenta il culmine di un percorso, e sotto certi aspetti invece sembra più che altro un punto di partenza: un ottimo punto di partenza, soprattutto per chi, come noi, si occupa di geografia e di storia della cartografia. Forse per capire meglio Ricci, bisognerebbe contestualizzarlo di più: ad esempio con paragoni sistematici con altri missionari in Cina, come Martini, o altri contemporanei ma altrove, come nelle Americhe. In un certo senso questo volume che presentiamo oggi costituisce un passo nella direzione giusta, ma, almeno come opinione personale, ritengo che ci siano i margini per approfondire ancora. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI CASTELNOVI M., Il ruolo della cartografia nell’espansione europea, in AA.VV., Riflessi d’Oriente. L’immagine della Cina nella cartografia europea, Genova, Il Portolano, 2008, pp. 15-26 e 75-203. CASTELNOVI M., Sull’impatto della cartografia dei gesuiti nella cultura cinese, in CRETTI G. E HUANG X. F. 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L’immagine della Cina nella cartografia portava il nome di Costantino: «Speravamo – scrive Martini – che il principe potesse svolgere in Cina la stessa funzione che San Costantino aveva svolto a Roma»; ma l’imperatore regnante non volle mai convertirsi». 422 Michele Castelnovi occidentale, Genova, Il Portolano, 2007. QUAINI M. (a cura di), Il Mito di Atlante. Storia della cartografia occidentale nell’Età Moderna, Genova, Il Portolano, 2006. RICCI M., Della entrata della Compagnia di Giesù e Christianità nella Cina, a cura di M. DEL GATTO, Macerata, Quodlibet, 2000. SHIH S., Martino Martini e il De Bello Tartarico Historia, in DEMARCHI F. E SCARTEZZINI R. (a cura di), Martino Martini umanista e scienziato nella Cina del secolo XVII, Trento, Università di Trento, 1995, pp. pp. 255-260. Ricercatore indipendente [email protected]