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Testimonianze: Intervista collettiva a Innocenti, Ottanelli, Dini:

2019, Farestoria

Intervista collettiva sul 1968 e gli anni Settanta nel pistoiese

Testimonianze Intervista collettiva a Renzo Innocenti, Andrea Ottanelli e Rossella Dini a cura dI steFano bartolInI Abstract Presentiamo un’intervista collettiva realizzata alla presenza del pubblico il 29 settembre del 2016 presso la sala Luciano Lama della Camera del lavoro di Pistoia nell’ambito della settimana dell’Archivio storico della CGIL, contestualmente alla presentazione della mostra “Gli anni ’60. La CGIL e la costruzione della democrazia”. Una foto dell’evento e il programma della giornata sono riportati al termine della trascrizione. * Stefano Bartolini, Istituto storico della Resistenza di Pistoia; Fondazione Valore Lavoro Bartolini Condurrò questa “chiacchierata” con i metodi che noi storici chiamiamo della “storia orale”, cioè un’intervista, che poi non è la classica intervista giornalistica ma è per l’appunto una “chiacchierata” e che per primissima cosa tende di solito ad appurare con chi si sta parlando. Quindi io come prima cosa chiederò a loro, a Renzo, Andrea e Rossella, di raccontarci un po’ da dove vengono, qual è la loro famiglia, il loro ambiente sociale di riferimento, come vedevano Pistoia e attraverso quale percorso arrivano, sul finire degli anni Sessanta, all’impegno politico, così ci addentriamo in quell’epoca. Innocenti L’ambiente nel quale nasco a Pistoia è quello popolare, con Piazza Mazzini centro periferico di Pistoia. Ho vissuto la fine di un’economia prettamente rurale, ricordo ancora quando portavano alla latteria di Porta al Borgo, con il carro trainato dai cavalli, il latte fatto nelle stalle. Si iniziano poi a vedere i motorini, i “Mosquitos” degli operai della San Giorgio che andavano a lavorare. Passaggi di una grande fase di transizione. 107 Ho avuto la fortuna di nascere e di vivere in quegli anni. Una famiglia numerosa con babbo operaio, mamma casalinga, con le difficoltà che in quel momento caratterizzavano un’economia che non era ancora partita e che non garantiva grandi “svolazzi”. Ciononostante le cose essenziali c’erano tutte e c’era soprattutto voglia di uscire da quello che stava alle spalle dei genitori che avevano passato il Ventennio fascista e poi il periodo della guerra con grandissimi sacrifici, abnegazioni, lutti, tragedie. Questa grande voglia di riscatto, di realizzare qualcosa di nuovo, era una cosa che si avvertiva con la volontà di stare nelle piazze o da altre parti a chiacchierare, farlo tutte le volte che era possibile. Non erano chiacchiericci, era il modo attraverso il quale la gente esprimeva la voglia di rinascere, di stare insieme e di esprimere nuovi valori per una comunità che avesse una speranza per un futuro migliore, per il resto della loro vita e soprattutto per i figli. Anni di grandi trasformazioni e di contraddizioni. Un ambiente molto caratterizzato dalla presenza del cattolicesimo in famiglia, vissuto con spirito laico, non in termini di bigottismo o di clericalismo. Gli anni ’60 si annunciarono con una grande voglia di una nuova testimonianza attraverso il Concilio Vaticano II, che è stato un punto di svolta importante, con i documenti conciliari che cominciavano a parlare di pace su questa terra e della fine delle disuguaglianze e delle ingiustizie nel mondo, di uguaglianza all’interno del mondo del lavoro, di dignità nel lavoro. Cose che avvenivano poi attraverso una partecipazione, con un sacerdote che nella mia vita ha rappresentato un momento molto importante, don Caroli Manfredo. Dopo i primi anni vissuti in Porta al Borgo ci trasferimmo al Villaggio Belvedere, che era uno dei primi insediamenti di edilizia popolare fatti con il piano Fanfani se non ricordo male: una casa ma organizzata come una comunità, ancora oggi si vedono questi elementi. Immaginatevi cosa significava per l’epoca, per chi ha una memoria o ha visto fotografie riguardanti la Cirenaica1, che era il quartiere popolare al di là della Brana. Da quello e dalle casine di via Erbosa si passa ad avere una comunità vera e propria, si fa uno sforzo per cercare di mantenere un tessuto sociale, un radicamento sul territorio organizzato con i servizi sociali. Lì fu inviato un giovane sacerdote, Manfredo Caroli, proveniente dall’influenza fiorentina di Mazzi e di altri, di Balducci, di don Milani che informò un po’ tutta questa sensibilità forte. Un profondo rispetto per la pluralità di pensiero, questione importantissima che credo abbia segnato fortemente, perlomeno le mie riflessioni, da quel momento in poi. Grande rispetto delle idee 1 * L’intervista collettiva è stata realizzata da Stefano Bartolini, trascritta da Edoardo Lombardi e successivamente rivista dai testimoni e dal curatore. Per ragioni di spazio e di fruibilità, dal testo trascritto sono state eliminate numerose ripetizioni tipiche del linguaggio parlato e rese leggibili alcune frasi nell’originale poco lineari. Si è cercato di intervenire il meno possibile senza alterare il senso del discorso, mantenendo divagazioni, incertezze, forme dialettali, aspetti problematici e lo stile tipico del parlato. Le registrazioni originali sono conservate presso l’Archivio storico della CGIL di Pistoia, di proprietà della Fondazione Valore Lavoro, e ivi consultabili. 108 degli altri, anche di quelle che a prima vista sembrerebbero bischerate2; perché se si esprimono molto probabilmente un fondo c’è. Questo è l’ambiente nel quale nasco, l’ambiente nel quale mi impegno all’interno di un movimento, che è quello delle ACLI, che alla fine degli anni ’60, con il convegno di Vallombrosa, cominciano ad affrontare un ragionamento di autonomia all’interno del mondo cattolico rompendo il cosiddetto “quadrilatero”, disegnato dalla presenza della Democrazia cristiana come “il” partito del mondo cattolico, con le organizzazioni che venivano definite “collaterali”, la Coldiretti, ACLI ed altri. Si incominciava, anche dietro alle indicazioni Conciliari, a puntare molto sull’autonomia dei laici in politica, sulla responsabilità individuale delle scelte in politica. A Pistoia nel 1971, per la prima volta dalla rottura del patto di Roma, il 1° maggio vede delle bandiere che non sono rosse3. Uso questa espressione per dire che volevamo rendere evidente che c’era una presenza anche di altre testimonianze del mondo del lavoro, di lavoratori che non erano comunisti, non erano socialisti, non erano appartenenti a quel mondo ma che comunque vivevano in modo unitario la festa dei lavoratori. Ottanelli Provengo da una famiglia della media borghesia: il babbo rappresentante e la mamma casalinga. Una famiglia in cui non si parlava di politica o se ne parlava molto poco. Una famiglia, come ce n’erano tante in quegli anni, che costruiva giorno per giorno con sacrifici e con impegno e lavoro – la mamma ricamava in casa – il proprio benessere per garantire anche a me un futuro diverso da quello che avevano avuto i miei genitori, in particolare per quanto riguardava gli studi. Sono figlio unico, e credo che questo sia stato importante, perché quando poi ho cominciato ad avere dieci, undici anni, ho sentito molto forte il bisogno del senso dell’appartenenza; cioè di essere parte di una comunità, parte di un gruppo di persone che facevano un percorso comune. E questo senso di appartenenza l’ho maturato in due luoghi fisici che a quell’epoca erano molto importanti nella nostra città, ma credo in tutta Italia: la strada, perché quelli erano gli anni in cui tra coetanei potevamo giocare, passare il tempo libero e intessere amicizie all’aperto, e l’altro luogo era la parrocchia. Io ho abitato prima in via S. Pietro e poi sul viale Arcadia e quindi appartenevo alla parrocchia della SS. Annunziata, che era molto frequentata da noi giovani: avevamo, ad esempio, la possibilità di giocare a calcio nel chiostro. Ritornandoci, non capisco come si facesse perché nel mezzo c’era 2 Con il termine “Cirenaica” veniva chiamata un’area abitativa povera, emarginata e socialmente degradata situata fuori dal centro cittadino ubicata fra il torrente Brana, gli ex macelli e l’attuale area sportiva dello Stadio e del Parco della rana, al margine del futuro quartiere delle Casermette. 3 In pistoiese sta a indicare idee semplici, ingenue. 109 un pozzo e poi non c’era niente per segnalare le porte. Si giocava con due maglioni appoggiati per terra con discussioni continue sulla validità dei goal. Ma c’era anche il ping-pong, l’avevamo fatto da noi, poi arrivò il flipper e poi c’era l’Azione Cattolica. Io ho fatto tutto il percorso all’interno dell’Azione cattolica e credo di avere ancora le tessere. Non sono stato uomo dell’Azione cattolica, poiché a quell’età avevo già preso altre strade. Però fino a lì sono stato all’interno di questo percorso in cui era abbastanza chiaro il fatto che noi tutti eravamo un mondo separato rispetto agli altri, alla sinistra. Io non ho mai avuto sacerdoti o persone responsabili dell’Azione Cattolica che facessero indottrinamento politico in maniera chiara: assolutamente no. Ma attraverso il catechismo e le “adunanze settimanali”, percepivamo che eravamo collocati all’interno di un processo che formava una classe dirigente all’interno del mondo cattolico, alternativo a tutte le altre realtà sociali e politiche. D’altronde vivendo sul viale Arcadia mi trovavo a condividere giochi, tempi, spazi e luoghi con coetanei appartenenti a famiglie di personalità, dirigenti e responsabili della Democrazia cristiana: si trattava dei Caselli, Cipriani, Gestri, Lelli, Pratesi ecc. Erano intorno a me, frequentavo le loro abitazioni ed eravamo tutti insieme all’interno di questo particolare clima. Lì, fra l’altro, proprio nella strada e nella parrocchia, ho conosciuto persone che poi hanno fatto con me un percorso di vita molto lungo, tra cui Marco Bruni. Sulla metà degli anni ‘60, però, avevo anche gli occhi attenti ai fermenti che agitavano il mondo cattolico pistoiese, cosiddetto del dissenso, tra cui il gruppo del Ventiquattro, nato nel 1964, che pubblicava un omonimo “periodico indipendente giovani cattolici” ciclostilato4 e alcuni mi risulta che provenissero dalle ACLI. Ricordo diversi incontri nella loro sede di corso Amendola con esponenti dell’Isolotto che venivano a raccontare la loro innovativa esperienza ecclesiale vissuta con don Mazzi. In quell’ambiente l’altra grossa novità era rappresentata dall’esperienza di Cineforum, non solo per l’attività di proiezione e dibattito sui film, ma per quell’esperienza di giornalismo militante che era il periodico Cineforum pistoiese5, che metteva in discussione i centri del potere pistoiese, l’assetto della politica cittadina e poneva all’attenzione dei cittadini i problemi dei diritti degli handicappati e dei “reclusi” nel manicomio delle Ville Sbertoli. Era il periodo in cui mettevamo in discussione le certezze trasmesse nel percorso compiuto all’interno della parrocchia che erano molto tradizionali, didascaliche, da abc del cattolicesimo. C’era, invece, un altro modo di vivere la propria fede che si 4 Il riferimento è alla partecipazione dei giovani della ACLI al corteo promosso dalla Camera del lavoro, che inizia con il 1970. Cfr: S. Bartolini, Lavoro fiori e lambrette. Il 1° maggio nella Pistoia repubblicana, all’URL: http:// www.toscananovecento.it/custom_type/lavoro-fiori-e-lambrette/ (visitato in data 30 dicembre 2019). 5 «il ventiquattro», periodico indipendente giovani cattolici. 110 coniugava con una parola che per noi in quel momento aveva un grosso valore: l’impegno, non solo per costruire la propria vita ma per contribuire all’elaborazione di un progetto di società nuova e di una forte solidarietà che, ad esempio, si concretizzava nei trasferimenti quotidiani a Firenze devastata dall’alluvione del 1966. Da questo punto di vista ebbe molta importanza per alcuni di noi l’altra esperienza formativa costituita dal Doposcuola delle Stinche. Entrai in contatto con un gruppo di miei coetanei che avevano ottenuto dal Comune alcuni locali della scuola dove io avevo fatto le elementari, cioè San Mercuriale, per impiantarvi un doposcuola e aderii al progetto insieme almeno ad altri due amici che provenivano dalla S.S. Annunziata. Lì mettemmo su un doposcuola basato sui contenuti dei libri di Don Milani e della Scuola di Barbiana che sono stati fondamentali per me e per quelli della mia generazione: Lettera a una professoressa per una nuova visione dell’insegnamento e L’obbedienza non è più una virtù, che ci insegnava a rileggere la storia d’Italia in una maniera totalmente diversa da quella che avevamo imparato, affrontando i temi dell’obiezione di coscienza e del pacifismo. Il doposcuola andò avanti due anni in locali ampi e freddi che però ci fecero confrontare con il problema della casa a Pistoia. San Mercuriale, infatti, era una seconda Cirenaica; al piano terra abitavano alcune famiglie indigenti che forse erano ancora lì dalla fine della guerra, e insieme al convento di San Lorenzo6 e alle case minime di via Valiani, dove era attivo il doposcuola di Giuliano Capecchi, costituiva l’esempio vivente del problema irrisolto nella nostra città di un’abitazione dignitosa per tutti. San Mercuriale era un ex convento diventato poi scuola elementare e infine totalmente abbandonato. Al piano terra abitavano alcuni nuclei famigliari con gli adulti con occupazioni precarie e molti bambini con difficoltà scolastiche che iniziarono immediatamente a frequentare il nostro doposcuola, così come altri arrivarono dal quartiere di S. Marco Ricordo benissimo, lo saprei riconoscere anche ora, l’odore della povertà che si respirava in quei locali che aveva impregnato quelle mura, un odore che sapeva di cucina economica a legna, di servizi igienici ignobili, di pareti non imbiancate e di panni umidi stesi ad asciugare sulle stufe. Lì il nostro gruppo crebbe, arrivarono maestre e liceali appena diplomati e persone del mondo cattolico, tra cui le ACLI, che cercavano un impegno per un percorso di riscatto personale e sociale, collettivo. 6 «Cineforum pistoiese», 1968-1973. Su Cineforum e Ventiquattro vedi la tesi di laurea di F. Perugi, Il dissenso cattolico a Pistoia (1956-1970), Università degli studi di Firenze, A.A. 2010-2011. 111 Bartolini Tu Rossella invece hai avuto un percorso un po’ diverso… Dini Completamente. Noi tre siamo pressoché coetanei, ma io ho avuto un percorso completamente diverso dal loro: per certi versi con minor fortuna per gli ambienti in cui ero cresciuta; per altri versi forse sono riuscita a “liberarmi” prima. Mi spiego: intanto io non sono pistoiese e quindi non posso fare gli stessi riferimenti, né territoriali né ambientali che hanno loro. Io sono originaria di Montecatini, la mia famiglia è ancora là: sono io che sono venuta via. Anch’io di piccolissima borghesia, non piccola ma piccolissima: mio padre impiegato, mia madre casalinga, come da modello classico di quegli anni. Due figli e non di più perché era difficile poterseli permettere; famiglia fra l’altro con una differenziazione interna tra mia madre cattolica – io ho sempre avuto l’impressione, ma questa è la mia la percezione, di un cattolicesimo conformista – e mio padre agnostico. Tra l’altro, ex partigiano, iscritto fin da subito al Partito comunista, militante e uno dei dirigenti della sezione montecatinese; quindi ho vissuto in una famiglia in cui mia madre dominava per certi versi, e mio padre per altri. Il mio richiamo intellettuale era quello di mio padre: io avevo, come dire, un forte feeling, potremmo dire oggi, nei confronti di tutto quello che veniva da mio padre, che spesso era in contrasto, ovviamente, con la mamma – provenienti proprio da due schemi mentali diversi –, anche se lei si subordinava ovviamente al marito. La mamma era comunista, nel senso che votava per il Partito comunista, perché il marito era comunista. Non si dà ancora pace, poveretta (lei è ancora viva), perché negli ultimi anni, cercando sulle schede elettorali il Partito comunista, non lo trova; e non riesce a capire come votare, nonostante le mie spiegazioni. Io appartenevo, da un punto di vista territoriale e sociale – le due cose coincidevano –, alla zona popolare di Montecatini, cioè la zona sud, al di sotto della ferrovia. Noi che abitavamo nella zona sud eravamo tutti di ceto popolare. Mio padre credo che fosse quasi un’eccezione privilegiata perché era un impiegato. Tutta la zona sud naturalmente rappresentava una sorta di serbatoio elettorale del Partito comunista: non era certo nelle zone del centro che il PCI acquisiva voti, ma nelle zone periferiche, nelle zone che ancora erano a metà tra città e campagna. Un piccolo riferimento al presente, a dimostrazione che il passato non passa mai. In questo periodo si sta sviluppando a Montecatini una forte discussione sulla scelta da fare per il raddoppio della linea ferroviaria. La scelta che viene fatta dalle Ferrovie, e ormai pare anche dalla Regione toscana, è quella della cosiddetta “ferrovia rasoterra”. Con conseguenze importanti sia a livello urbanistico sia livello sociale: la disgregazione cioè di quel poco di unità armonica che ancora può esistere nella comunità montecatinese: la chiusura della zona sud rispetto alla zona del centro. Cioè il 112 muro, con i sottopassi, ecc. Questo significa un ulteriore passo verso la divisione della città: che prima era divisione sociale, proprio perché la zona sud era una zona popolarissima, che oggi si sta riproponendo in termini aggiornati: la zona sud oggi è di nuovo molto popolare ma in termini disgregati, perché ora è piena di extracomunitari, è la zona che ospita tutta l’emigrazione, o meglio immigrazione proveniente dall’estero; con l’operazione ferrovia si ripropongono questioni che sono decennali, se non secolari addirittura. Ecco, questo per dirvi l’ambiente in cui sono vissuta. Io sono andata a scuola dai tre anni – allora era asilo, non era scuola materna – fino ai nove, quarta elementare, dalle suore. A nove anni chiesi alla mia famiglia, e ebbi per fortuna l’appoggio di mio padre, di venire via, minacciando che io a scuola non ci sarei più andata se non mi avessero iscritta alla scuola pubblica. Cioè io non volevo più stare lì: perché non volevo stare lì? Nove anni sono pochi per capire, sono le costruzioni che io ho fatto in termini retrospettivi dopo, quando ho acquisito una certa maturità. Il problema erano gli anni di Pio XII. È vero che erano anche gli anni da cui poi, dieci anni dopo, si ebbe il Concilio, si ebbe l’apertura di Giovanni XXIII, ma si ebbero in certi ambienti, non in altri. Io dalle suore che cosa ho imparato? Ho imparato, intanto, a vivere con una cappa di piombo addosso: che era quella del controllo di tutta la mia vita. Non solo si stava a scuola dalla mattina alla sera, e si imparava anche, perché sul piano didattico le suore erano molto brave. Contemporaneamente tutto era infarcito di funzioni religiose, di lezioni morali iniettate in un certo modo, di controllo di tutti gli aspetti della vita. Per esempio, il lunedì mattina una delle torture era l’interrogatorio sul perché il giorno prima non eri andata all’oratorio. E se non eri andata all’oratorio delle suore perché eri andata con la mamma al cimitero per la visita ai defunti, poteva passare. Ma se eri andata al cinema per conto tuo, o anche con uno della famiglia, allora erano guai seri. Perché tutto doveva essere controllato. All’oratorio e al cinema dell’oratorio. Ricordo quelle infinite proiezioni di Marcellino pane e vino: ricordo i pianti che facevamo alla fine di questo film, quando il povero Marcellino moriva davanti al crocefisso a cui aveva portato il pane e il vino. Questo martirio veniva celebrato come uno dei momenti caratteristici della vita: e a noi bambine questa cosa faceva impressione. Non è che trovassimo proprio un’ispirazione nella morte di questo bambino. Non ci piaceva per niente. Quindi ecco, c’era questa sorta di controllo un po’ su tutta la vita. Che tra l’altro sollecitava anche elementi di ipocrisia, perché… perché non dovevo dirti che ero andata al cinema la domenica. Insomma: c’era un clima da controllo totalizzante della tua vita, anche quella che poteva svolgersi ai margini della scuola e che invece veniva riassorbita tutta nel “tutto sotto il nostro controllo, tutto ispirato a”. Si veniva iscritti all’Azione cattolica automaticamente dopo aver fatto la prima comunione; ricordo di non esserci poi mai andata, questo però per mie libere scelte. In breve: era questa la cappa di piombo da cui io avvertivo di voler uscire. 113 Questa è l’origine anche di un certo spirito anticlericale, che ho maturato negli anni. Soltanto dopo e con una certa maturità sono riuscita ad abbandonare lo spirito anticlericale e cercare di capire sul piano storico che cosa era avvenuto. Detto questo, uscita dalle suore mi sono trovata nella scuola pubblica, per fortuna devo dire, dove tuttavia si avvertiva una certa selezione di classe. Io ho fatto la vecchia scuola media, non quella unificata, che iniziava proprio quando io terminavo il ciclo. Ma nella vecchia scuola media gli elementi di selezione c’erano e si avvertivano. Noi della zona sud eravamo in pochissimi a superare lo scoglio del diploma. Passata al liceo, feci un’altra grande scoperta. Mi volli iscrivere al ginnasio: convincendo sempre mio padre che su questo piano per fortuna mi sorreggeva – perché aveva fortemente voluto per i figli l’istruzione, aveva maturato la convinzione che i figli dovessero essere assolutamente istruiti, costi quel che costi, con qualsiasi sacrificio: si mandano a scuola, si fanno studiare. Il grande liceo Forteguerri, vissuto da Montecatini, era un mito. Poi ci sono arrivata al mito e mi è sembrato molto meno mito di quello che sembrava da lontano. Ve lo raffiguro proprio con due, tre esempi: io sono arrivata al ginnasio, la quarta ginnasio, a tredici anni e mezzo, con una bella compagnia di trentasei compagni di classe; io ero nella sezione C, la sezione ultima, quella che si era dovuta fare perché prima bastavano due sezioni; ma cominciava la scolarizzazione di massa in quegli anni e quindi aumentavano anche gli iscritti ai licei. Al liceo Forteguerri eravamo in molti a venire dalla Valdinievole, il treno la mattina era pieno di pendolari. Allora, fatto il ginnasio, siccome il liceo ha solo due sezioni, uno doveva scomparire: una sezione intera doveva scomparire. Perché più di due sezioni al liceo non ci potevano stare: erano A e B. E chi scompariva? I miei compagni della Valdinievole scomparvero in tanti, non so perché: probabilmente qualche motivo c’è. Non scomparivano i grossi nomi: i Calamandrei, i Doretti, ecc. ecc… Come non scomparivano i figli della borghesia pistoiese, anche se scadenti sul piano strettamente scolastico. Scomparivano gli altri; io ero una secchiona e quindi c’era poco da fare, mi dovettero tollerare e finii anch’io al liceo proprio in ragione dei miei voti, del mio rendimento scolastico e della mia pertinacia, sorretta da mio padre, nel voler assolutamente esercitare un diritto; in quel periodo era una grande conquista il poter studiare, non era mica cosa facile né sostenuta dalle famiglie; e spesso non solo non era sostenuta, non era sostenibile. È questo il problema. Quindi ero fra le persone privilegiate, che uscendo da una famiglia di estrazione assolutamente popolare, di grande modestia, fra l’altro proveniente da un’area periferica, com’era in quel momento Montecatini rispetto alla “capitale” che era Pistoia, e rispetto al mitico liceo Forteguerri che doveva produrre soltanto classe dirigente e quindi valorizzare elementi della borghesia; io ero un pesce fuor d’acqua in un certo senso e questo lo avvertivo pesantemente. Erano gli anni – tanto per non far nomi ma è storia – del preside Arles Santoro, quelli in cui la selezione operava in termini piuttosto massicci. Del resto, i numeri stanno lì, non se li inventa nessuno. Quando da tre sezioni, numerosissime, 114 si passa a due sezioni qualcosa vuol dire; vuol dire che qualcuno è stato lasciato per strada. Il problema è chi è stato lasciato per strada: quindi si cominciava ad avvertire in questo contesto la pesantezza di una situazione sociale e anche politica, perché c’era anche discriminazione politica oltre che sociale. Bartolini Tutti e tre avete raccontato in qualche modo, con esperienze diverse, quella che è un’Italia di cui io ho avuto modo di vedere il finale ma che non c’è più: dal punto di vista culturale, sociale. L’emarginazione sociale, questi quartieri popolari, che in quel momento lì, in quella fase storica, cominciano a non reggere più; e fra voi si diffonde, in vari modi, una sensibilità: mi par di capire più in termini marxisti e classisti in Rossella e più con un approccio di sensibilità umana in Andrea e Renzo. Tra l’altro è curioso questo ruolo dei mentori che voi avete incontrato, la vicinanza con don Mazzi, don Milani, tant’è che Rossella ci racconta più un passaggio di rottura, mentre voi ci avete raccontato un passaggio di continuità, in maniera molto naturale che attraverso vari percorsi arriva all’impegno. Ecco, io volevo chiedere a Renzo e Andrea una cosa velocissima tanto per capire quanto poi certi sviluppi politici hanno a che fare o non hanno a che fare con questa esperienza. A Pistoia c’è un’esperienza un po’ particolare che è quella tra 1967 e ‘69 della Repubblica conciliare7, una sorta di accordo, di fatto molto precoce tra la DC e il PCI, per la tenuta della maggioranza in Provincia. Questa esperienza di dialogo tra il PCI e la DC, tra comunisti e democristiani, voi la sentiste con qualche riflesso o fu una cosa aliena alla vostra esperienza, nella vostra scelta? Influisce o è qualcosa di lontano da voi? Innocenti No, lontano no assolutamente perché un’esperienza politica come quella ha fatto la storia, aveva delle caratteristiche dirompenti rispetto a uno status quo di immobilismo nei rapporti politici. Poi, ovviamente ci possono essere state valutazioni diverse a seconda un po’ del tuo osservatorio. Posso raccontare come noi all’interno di un gruppo, all’epoca di formazione molto eterogenea – studenti, lavoratori, nella gioventù delle ACLI –, maturavamo una priorità di impegno a livello sociale e rivendicavamo un’autonomia, che non era tanto un’autonomia dalla Democrazia cristiana. Non era questo il fatto principale: era un’autonomia in termini di elaborazione politica, di impegno dei cristiani all’interno della società. Per questo c’erano delle forti analogie con un processo che si stava avviando in modo differenziato ma molto interessante all’interno del mondo sindacale in quegli anni. Anche all’interno del mondo sindacale si 7 Ex distretto e Vietnam: Comune, ma cosa fai?, «il ventiquattro», a. 2, 5, (1966). 115 vive questo tipo di riflessione. Il collateralismo non c’era solo nei confronti delle ACLI, della CISL con la Democrazia cristiana. Ma c’era anche da parte della CGIL nei confronti del Partito comunista. Era una cosa di blocchi contrapposti. I quadrilateri non erano solo bianchi. Però anche all’interno del mondo sindacale si viveva la necessità di uscire da questa cosa e di rivendicare un’autonomia, che per molti aspetti era simile alla riflessione che veniva fatta all’interno delle ACLI per avere un proprio modo di costruire e di elaborare politiche. Quanto poi questo fosse importante per la vita di ciascuno di noi è diverso: c’è chi ci ha trovato motivo di impegno, per altri invece è stato motivo di rottura con le ACLI e ne uscì. Noi abbiamo vissuto a Pistoia una scissione forte. Quella manifestazione del ‘71 era un modo attraverso il quale noi cercavamo di lanciare un messaggio di rottura di questi schieramenti contrapposti. Volevamo un confronto in campo aperto: sapevamo di rischiare una rottura interna al Movimento, vedevamo gli aspetti positivi di tale azione ma erano ben presenti anche quelli negativi. Tuttavia andammo avanti perché in quegli anni si stava profilando un percorso diverso per il Paese. Guarda, il ’70 segna un punto importante, una grandissima conquista del mondo del lavoro: l’approvazione da parte del Parlamento dello Statuto dei diritti dei lavoratori, che è una legge pubblicata nel maggio del ’70 ma se ne vede traccia fin dagli interventi di Di Vittorio negli anni ’50. Perché è importante? Perché segna una fase di svolta rispetto alla natura del diritto del lavoro nella nostra giurisprudenza. Si esce da una configurazione di diritto commerciale e si entra in una dimensione invece di un diritto che ha un suo corpo, che è forte e nasce da un principio: il lavoratore è la parte contrattualmente più debole e va maggiormente tutelato. Ma è un derivato delle scelte della Carta costituzionale: non è che nelle aule parlamentari si inizia a discutere di questa cosa e poi c’è qualcuno più intelligente degli altri che viene col “progettino”. Non funzionava mica così. O meglio: c’è anche chi la vuol fare funzionare così. Ma non è condivisibile. Lo Statuto dei diritti dei lavoratori segna una fase importante anche per un’altra questione: il modo con cui un Parlamento deve legiferare sulle materie riguardanti le condizioni dei lavoratori e la negoziazione nei luoghi di lavoro. L’intento deve essere quello di “raccogliere” le pratiche più virtuose e fornire un quadro di sostegno alla libera espressione della contrattazione sindacale, salvaguardando il principio importantissimo dell’autonomia delle parti negoziali. Altrimenti si corre il rischio di uno svuotamento e conseguente impoverimento dell’azione e del ruolo del sindacato stesso. La salvaguardia dell’autonomia negoziale, il libero svolgersi della contrattazione tra le parti è un principio fondamentale per una efficace democrazia economica. La contrattazione non è un rivendicazionismo spicciolo. Non è una rivendicazione di corporazioni. Non è una serie di richieste che nascono dal fatto di avere determinate comuni condizioni che ti portano a chiedere in quel momento specifico di raggiungere un obiettivo. È qualcosa di diverso: se noi andiamo a vedere la seconda parte degli anni Sessanta, si acquisiva- 116 no risultati importanti sul piano della contrattazione, sia aziendale che nazionale, sulla questione dei diritti d’informazione, sui problemi del diritto allo studio, sulle questioni legate ai meccanismi di solidarietà tra categorie di lavoratori, su riconoscimenti professionali; non eravamo ancora entrati in una logica perfida di “appiattimento” che era quella del “professionalmente siamo tutti uguali”. Perché non è così. A quell’epoca a Pistoia si facevano le assemblee, molto partecipate e ricche di interventi, si occupavano gli istituti superiori. Io ero fra quelli all’interno del movimento studentesco che facevano queste cose qui, si contestava l’autoritarismo presente anche nelle istituzioni scolastiche, si rivendicava il diritto all’assemblea. Cioè avere la possibilità di riunirsi almeno una volta ogni tre mesi per poter discutere tra noi studenti: questa era la parola d’ordine dell’anno ’68 nelle superiori. Successivamente negli anni Settanta si assisterà ad un ulteriore sviluppo: gli studenti, gli operai uniti nella lotta per l’occupazione – è un portato di quella fase. Bartolini Gli anni Settanta come esito, fase alta del periodo precedente per quanto riguarda la contrattazione. Andrea ti aggiungerei una cosa, ti vorrei chiedere del percorso che ti ha portato a Lotta continua. Una delle cose che i vostri gruppi fanno formando la sinistra extraparlamentare è rompere fortemente a sinistra questi monolitismi: qui c’è più che una rivendicazione di autonomia come ci ha detto Renzo. Impensabile negli anni Cinquanta un’organizzazione che fa concorrenza al PCI. Perché non scegliere i partiti e i sindacati tradizionali? Ottanelli Ti rispondo prima rispetto alla questione della Repubblica conciliare, direi che non ci interessava e non ne parlavamo. Le cose, diciamo così, della politica strettamente locale non erano nel nostro interesse. Noi guardavamo il mondo come con una macchina fotografica con un grand’angolo, che però illustrava panorami lontani. Puoi fotografare, vedere e capire i monti stando in città ma l’attenzione era concentrata sui grandi argomenti o, a livello locale, sulle lotte degli studenti o in fabbrica. Inoltre, bisogna tener conto che i più vecchi di noi avevano 22, 24 anni al massimo; la caratteristica dominante era la gioventù. Non avevamo radici o esperienze nella lotta politica locale; non eravamo passati dalla FGCI, alcuni, come me, venivano dal mondo cattolico ma non avevamo esperienza di dibattiti e confronti sui temi dell’amministrazione cittadina Inizialmente l’unico aggancio, come ho detto, con la politica locale era costituito dai problemi della casa e dell’emarginazione scolastica. E l’altro incubatore che ha portato alla costituzione della sinistra extraparlamentare è stato il movimento studentesco, come ricordava Renzo: un movimento che 117 esplose improvvisamente con l’occupazione delle università e degli istituti superiori. A Firenze in quel periodo erano occupate tutte le facoltà con una divisione in commissioni che trattavano vari argomenti e in cui si discuteva di come rinnovare la scuola: l’obiettivo era quello del superamento della scuola di classe che era fatta di selezione ed esami: io ho fatto tutto il mio percorso scolastico con esami frequenti: ho cominciato in seconda elementare, poi in quinta elementare e l’esame di ammissione alla scuola media e l’esame di stato non riformato; una continua e costante selezione. E a proposito della scuola di classe mi ricordo che ho capito che io non appartenevo ai poveri quando sono venuti in classe – una cosa scellerata – a dare i quaderni gratis del Patronato scolastico ad alcuni di noi, e a me non li dettero. Capii in quel momento, come diceva Rossella, che la classe era divisa in due: chi aveva i quaderni e i libri del Patronato e chi non li aveva, e io appartenevo al secondo gruppo; quindi una scuola che ancora a distanza di anni continuava a essere di classe e selettiva, una scuola contro cui noi ci ribellavamo. Però l’altro obiettivo era quello di riunirsi ad altre realtà, non rimanere chiusi nella scuola, ma unirsi al mondo e a quale mondo in quel momento? A un mondo che era già in subbuglio, il mondo operaio: e allora io mi ricordo che da questo punto di vista queste mie scelte, questo mio procedere in una certa direzione, la mia famiglia non l’ha mai ostacolato. Ricordo la stagione degli scioperi per l’abolizione delle gabbie salariali, che era una cosa ignobile e che divideva i lavoratori in due categorie a livello regionale e nazionale e che furono abolite nel 1969-1972. Il movimento studentesco partecipava a quelle lotte con la parola d’ordine «studenti e operai uniti nella lotta» e così entravamo in un mondo che cresceva in maniera molto rapida, forse troppo rapida, e noi con esso e questo l’abbiamo anche pagato con certe scelte successive. Ed era un mondo che ci proiettava immediatamente nell’alterità: noi eravamo altri. Il Partito comunista con il suo monolitismo, la sua struttura, ci interessava solo nel momento in cui ci incontravamo con gli iscritti del Partito oppure in momenti topici come quando il PCI pistoiese sostenne le lotte studentesche e gli operai della Breda intervennero durante l’occupazione del Pacini solidarizzando con gli studenti. Non c’era nessun altro momento di contatto, percorrevamo altre strade. Pensavamo appunto a una classe operaia che potesse aspirare, indipendentemente dall’organizzazione politica e sindacale, ad essere parte della classe dirigente e al cui interno cominciavano a emergere nuove figure sociali e nuovi comportamenti. All’interno delle fabbriche nascevano organismi politici diversi da quelli tradizionali. Per il rapporto con il sindacato devo dire però che personalmente ho aderito da subito alla CGIL e tuttora sono iscritto. Perché sapevo che all’interno del luogo del lavoro era importante essere nel sindacato e perché in quel sindacato trovavo dei valori generali in cui mi riconoscevo. Gli altri motivi erano motivi d’incontro, di dialogo se era possibile con il 118 PCI. Generalmente eravamo visti meglio come nuova sinistra, intendo tutto quell’arcipelago di sigle che stava a sinistra del PCI e di cui Lotta continua era sicuramente la componente principale, dai socialisti. Ci guardavano con maggiore interesse; non so se per una certa vena libertaria condivisa o in funzione di un ruolo di concorrenza con il Partito comunista. E c’erano anche esponenti della Democrazia cristiana che ci osservavano con, almeno, curiosità e con cui, dopo molti anni, ho dialogato a lungo come Vittorio Magni, Gianfranco Biagini, Giovanni Burchietti o Giancarlo Niccolai. E poi gli ideali di fondo: il passaggio da quell’impegno del doposcuola che era ancora all’interno di una logica solidaristica ben precisa, alla politica per me, passò attraverso due momenti fondamentali. Uno, l’impegno internazionalista, e quindi la manifestazione spontanea contro il film “Berretti verdi” davanti al cinema Lux8 che è stata la prima manifestazione politica cui ho assistito. E l’altro motivo è l’antifascismo. Perché per me era un percorso personale, di studio, di attenzione, di scelta di campo anche fatto retrospettivamente: spesso in quegli anni ci domandavamo cosa avremmo fatto se avessimo avuto 20 anni nel 1943; ci interrogavamo su quegli anni difficili e dopo averne parlato sapevamo e dicevamo tutti che avremmo fatto una scelta ben precisa, cioè quella dell’antifascismo. Questi due capisaldi, l’internazionalismo e l’antifascismo, sono due linee che ci hanno guidato. Anche a livello internazionale seguivamo percorsi diversi rispetto alle forze tradizionali della sinistra: non pensavamo assolutamente che il blocco dei paesi del cosiddetto socialismo reale potesse essere per noi un punto di riferimento; ci riconoscevamo nella Primavera di Praga e nelle posizioni di Dubcek e condannavamo senza esitazioni l’occupazione della Cecoslovacchia. Egualmente con la Cina di Mao: nascevano allora filoni di pensiero e poi gruppi che si identificavano in quel tipo di comunismo realizzato, ma noi lo guardavamo da lontano, studiandolo ma senza un’identificazione totale. C’erano invece molte simpatie per la Cuba di Castro, la figura di Che Guevara e il mondo sudamericano in cui fra l’altro erano protagonisti molti esponenti della “Chiesa dei poveri” e anche la lotta del popolo palestinese I nostri obiettivi e le figure di riferimento erano all’interno di un percorso generale di emancipazione delle classi sociali deboli e emarginate insieme alla classe operaia e ai contadini, poi il discorso si allargò per cerchi concentrici ad altre tematiche per giungere all’obiettivo di una modifica radicale della società. Bartolini Ecco, Rossella: tu ti sei fermata dicendo che avevi cominciato ad accorgerti che stavi appunto in una struttura che divideva per classe e questo mi par di capire che è 8 Cfr: F. Perugi, Una Repubblica conciliare. Il governo di Pistoia fra il 1967 e il 1969, all’URL: http://www.toscananovecento.it/custom_type/una-repubblica-conciliare/ (visitato in data 30 dicembre 2019). 119 un po’ l’innesco della tua attivazione politica. A te la domanda opposta. Perché in quegli anni scegli la FGCI, il Partito comunista, quando magari ci sarebbe stato più appeal nella sinistra extraparlamentare? Dini Intanto vorrei fare un riferimento molto preciso, derivato dalla mia biografia personale ma anche di altri, giusto per richiamare alle origini di certe pulsioni e orientamenti. Io faccio parte di quel gruppo, di quella classe che al liceo Forteguerri impose il “sei politico”, contrastando ogni forma di autoritarismo, questo era uno degli elementi portanti del discorso: e questo autoritarismo per noi era generalizzato, era la famiglia, era la scuola, erano le istituzioni in genere. Un’altra scuola possibile, un altro modo di studiare, un altro modo di rapportarsi. Per tutto l’anno riuscimmo a ottenere il “sei politico” per tutta la classe, anche facendo rinunce – io avevo la media dell’otto, quindi per me era una rimessa, per qualcun altro era un guadagno ; riuscimmo a imporre questa soluzione agli insegnanti e al preside, con l’accordo sostanziale di tutta la classe. Non l’unanimità, ma l’accordo sostanziale sì. E questo non sempre aiutati ma spesso boicottati dagli insegnanti. Lavorammo organizzandoci in gruppi di studio che produssero tutta una serie di lavori finali e che contestavano in definitiva il modo e anche i contenuti di quello che ci veniva regolarmente sciorinato in un rapporto col corpo docenti di tipo piuttosto autoritario, ma soprattutto caratterizzato dal “pensiero unico”. L’unica grande eccezione che ricordo e che poi ha orientato anche una serie delle mie scelte politiche è stato un grande insegnante che purtroppo ho avuto solo per un anno, il professor Salvatore Tassinari, fiorentino. Insegnava storia e filosofia, e ricordo nel primo anno di liceo di aver sentito per la prima volta in quel liceo una conferenza, fatta per tutte le classi con l’altoparlante, di Tassinari sulle origini del fascismo. Ecco questa fu, per me e non solo, una delle cose illuminanti a livello non solo di metodo ma anche di contenuti. Però un’iniziativa del tutto isolata. Quando noi ci rivolgemmo alla politica – perché capivamo ovviamente che la politica aveva un senso, bisognava pur uscire in qualche modo da tutte le proteste e proposte del movimento studentesco - perché la scelta della FGCI? Devo essere sincera: in quel periodo si era costituito a Montecatini il circolo “Mondo nuovo”, PSIUP. E Salvatore Tassinari, che appunto era stato un grande riferimento per me nel mondo scolastico, spesso capitava: perché era del PSIUP e teneva lì delle riunioni e conferenze. E quindi il mio sentire era molto vicino a questa esperienza. Contemporaneamente però avevamo avuto come movimento studentesco una grande accoglienza da parte della Federazione comunista. Non ero in quel periodo iscritta né alla FGCI né al Partito, ero fuori, ero solo una del Movimento studentesco. Si andava a ciclostilare i materiali, i volantini e non solo quello, ma anche i materiali per i gruppi di studio alla Federazione del Partito comunista che ci dava i mezzi e non ci chiedeva se eravamo 120 iscritti o non eravamo iscritti. Devo dire, ho avuto un rapporto di grande libertà. Altro grande rapporto di libertà e di apertura che ho avvertito, e che poi in parte ha orientato anche le mie scelte successive, fu con la Camera del lavoro. In particolare con l’apertura mentale e la disponibilità di una figura importante, a mio avviso, per lo meno per noi in quel periodo, che era il segretario della Camera del lavoro, Giuliano Lucarelli. Una delle persone più aperte nella nostra direzione che io abbia incontrato in quel periodo. Tra l’altro per noi giovani diciottenni il poter interloquire direttamente senza mediazioni, dopo aver sperimentato un rapporto gerarchico e autoritario nella scuola o nella famiglia, o in altre situazioni, il poter interloquire direttamente con il segretario provinciale della Federazione del Partito comunista o col segretario della Camera del lavoro, per noi ragazzotti diciottenni – spesso anche arroganti come capita a tutti i diciottenni, che hanno in mente di cambiare il mondo e che in questo mettono forse più passione che raziocinio – era importante avere come interlocutori diretti queste persone. Erano il vertice delle gerarchie delle più grandi organizzazioni del movimento operaio e noi parlavamo direttamente con loro. Non c’erano più mediazioni che filtravano questo tipo di rapporto; e ricordo che noi avevamo accoglienza in queste sedi: questo in gran parte ha orientato, credo, le scelte in riferimento a organizzazioni effettivamente rappresentative, grosse, presenti nella società e sul territorio. Con ciò c’è da fare un discorso a parte per il rapporto coi giovani in generale. Io feci una prima esperienza per mettere su a Montecatini l’organizzazione della Federazione giovanile comunista che non c’era più da moltissimi anni. Ricordo l’avversione che si trovava in questi giovani che cercavo di raccogliere nei confronti di un partito che avvertivano come unicamente interessato al Comune. Si discuteva solo degli assessori o dei consiglieri da eleggere, dell’amministrazione comunale; era come non avere respiro. Mi riallaccio a quello che diceva prima Andrea: avevamo bisogno di respiro, di un respiro più ampio, che non erano soltanto le questioni amministrative del Comune di Montecatini che praticamente occupavano ogni discussione della sezione “Centro” del partito. E ricordo una parte di questi non più giovani ex-FGCI, ma che oramai avevano 30-35 anni, quindi adulti ormai, che mentre rifiutavano l’iscrizione al Partito si iscrivevano alla FGCI. Cioè avvertivano la FGCI come un possibile interlocutore e una possibile organizzazione mentre non accettavano la stessa cosa dal Partito. Parlo di quel gruppo con cui io avevo contatti per la ricostruzione del movimento giovanile. Comunque teniamo presenti alcune cifre per individuare i grandi motivi di distacco tra il Partito e i giovani, nonostante tutte le aperture che trovammo come movimento studentesco sia nella Camera del lavoro sia nel Partito. Che ci fosse uno iato tra giovani e Partito era indiscutibile. Per darvi solo due cifre di riferimento: nel 1968 gli iscritti alla FGCI erano 1.905. Nel 1950, parlo della provincia di Pistoia, erano 4.500. Ovverosia in 18 anni, non solo il partito – perché anche il partito aveva perso molti iscritti – ma anche la Federazione giovanile era passata da 4.500 giovani che aderivano 121 a 1.905. Cos’era successo? Evidente che c’era un distacco e che non c’era più questa capacità di attrazione: il fatto che io trovassi questi giovani trentacinquenni che però non si volevano iscrivere al partito, ma invece vedevano nella FGCI un elemento forse più rivoluzionario e meno amministrativista, probabilmente qualcosa significava. C’era il sintomo di un distacco, di una incapacità di catturare, di avere dalla propria parte, capendone i motivi, una generazione nuova che nasceva con nuovi bisogni, con nuovi riferimenti, con nuove idealità anche. È giusto quello che diceva Andrea col riferimento a Che Guevara: a noi piaceva Che Guevara, ci interessava il Vietnam, ci interessava Malcom X e le Pantere nere che negli Stati Uniti protestavano e manifestavano contro il sistema razziale americano. Erano queste insomma le aperture sul mondo che in definitiva desideravamo. Perché c’erano dietro tutta una serie di ideali, di liberazione, anche di rivoluzione vera e propria: ecco il perché dell’accostamento. Bartolini Renzo, in qualche modo sia l’intervento di Rossella che di Andrea mi suggeriscono che il rapporto dei giovani con il sindacato è un po’ diverso in quel momento. Cioè, da quello che diceva anche Andrea sembra che non ci fosse una netta divisione: da Lotta continua mi iscrivevo poi alla CGIL. Che comunque sia il sindacato, dalla particolarità della sua funzione, rompesse questo schema con i circoli extraparlamentari e riuscisse ad aprire di più il rapporto. Innocenti Ero giovane e ho ricordi molto precisi sul rapporto esistente. Prima citavo la questione dell’occupazione: Andrea faceva riferimento all’intervento degli operai dell’allora Breda che era anche vicina al Pacinotti. Ma noi del movimento studentesco, lo ricordava anche Rossella, avevamo un rapporto con il sindacato molto forte e non solo in termini di servizio. Io mi ricordo di essere venuto insieme ad altri del movimento studentesco, nel 1968 all’inizio dell’anno scolastico – ultimo anno delle superiori – alla Camera del lavoro: si faceva le scalette ed entravi in questa stanza dove avvertivi forte la presenza di Giuliano Lucarelli, segretario della Camera del lavoro, insieme a un altro personaggio che voglio qui ricordare, Rolando Susini, perché se lo merita, una persona molto aperta, e Silvano Cotti. Salgo insieme ad altri tre o quattro, si discute con loro e la prima domanda che ci fanno non è tanto di cosa avete bisogno, ecc. «Condividiamo le vostre rivendicazioni sui diritti come studenti»: strumentale, non strumentale o meno, sentivamo una voce importante all’interno del sindacato su questo tema. Una specie di passepartout per entrare in sintonia con il mondo giovanile. Guardate che questo non era dato per scontato, rappresentava un punto di dibattito interno alla sinistra, e non riguardava solo la questione del rapporto con il movimento studentesco, perché si potrebbe 122 parlare delle forme di democrazia all’interno del sindacato e della stessa rappresentanza del sindacato all’interno delle fabbriche. Era il momento in cui si discuteva di costituire i consigli di fabbrica; fino a poco tempo prima c’erano le rappresentanze sindacali aziendali, cosa diversa. Nei luoghi di lavoro erano presenti le commissioni interne e c’erano anche le RSA. Poi il movimento unitario cominciò a prevalere e con la categoria dei metalmeccanici fu fondata la Federazione lavoratori metalmeccanici (FLM), rompendo gli schemi; credo sia stata la prima. Successivamente ci furono i lavoratori tessili, poi a ruota i chimici: furono le prime tre categorie che dettero origine a federazioni con forte tasso di autonomia, staccate dalle organizzazioni confederali (avevano un loro tesseramento). Cominciavano a funzionare come organismi unitari a sé stanti, e i riferimenti politici ed organizzativi erano quelli relativi alle attività dei consigli di fabbrica eletti direttamente da tutti i lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro, iscritti e non iscritti. Oggi dopo tantissimi anni si dà per scontato tutto, ma non fu mica un processo scontato questo del rapporto tra Consigli di fabbrica, Federazioni unitarie di categoria e Confederazioni. E se andavamo a vedere la maggior parte dei componenti erano giovani, o perlomeno io lo ricordo così all’interno delle fabbriche: giovani che chiedevano con forza questo rinnovamento all’interno del sindacato. Bartolini Secondo te questi giovani all’interno delle fabbriche, che si impegnavano nel sindacato avevano più o meno in testa le stesse idee che ci hanno raccontato Andrea e Rossella o erano più sull’immediato, sul risultato, sulla contrattazione, sulle loro condizioni di vita? Innocenti Erano condizioni di vita molto diverse. Il primo interesse era quello di riuscire a rendere un po’ più libero il lavoro che stavano facendo all’interno della fabbrica. Era la possibilità di avere un salario che gli consentisse di sostenere una rincorsa con i prezzi del periodo. In quegli anni uscivamo dagli effetti del boom economico, cominciavamo ad avere i primi grossi problemi dal punto di vista occupazionale. A Pistoia vorrei ricordare le crisi dell’Arco, dell’Italbed, della cartiera Cini della Lima, i grossi licenziamenti di Limestre alla SMI, poi dopo a Campotizzoro. Uscivamo da un periodo in cui c’era una condizione economica, e i suoi riflessi sociali, che aveva rappresentato un processo di espansione, e cominciavamo ad affrontare l’inizio di grandi operazioni di riorganizzazione del tessuto industriale. Ne cito una per tutti: la crisi della siderurgia con la riduzione delle quote di produzione che venivano decise a livello europeo che portò alla rinuncia di Gioia Tauro quale quinto centro siderurgico. Qualcuno la definì “cattedrale del deserto”, dite quello che volete ma insomma all’epoca rappresentava 123 una grande possibilità occupazionale per il Sud. Poi la riduzione di Taranto, di Piombino, di Sestri Levante. La metallurgia non ferrosa: io mi ricordo, seguivo il settore, avevamo il coordinamento nazionale della SMI. La SMI era una multinazionale già all’epoca, quindi era un gruppo che se la faceva con i maggiori potentati e cominciavano le riorganizzazioni. Si espandeva all’estero e chiudeva stabilimenti in Italia. Le prime contraddizioni derivanti dagli albori di una globalizzazione inconsapevole. Allora si cominciò a parlare anche all’interno dei metalmeccanici della necessità di uscire da una logica di rivendicazione del posto di lavoro, per iniziare a parlare di strategie industriali in grado di poter reggere sul piano della competizione internazionale. Quindi i primi coordinamenti europei con i sindacati francesi, spagnoli, con i tedeschi da parte dei Consigli di fabbrica e della FLM. In questo si intravedeva anche la volontà di tradurre in concreto un respiro politico ampio che andava oltre al semplice scambio di informazioni. Poi c’erano le forti motivazioni che portavano a essere presente il movimento sindacale nelle grandi battaglie per la pace nel mondo: la questione del Vietnam. Il sindacato su questi temi ha avuto, in modo particolare, presenze non solo a sfondo organizzativo, ma anche ruoli importanti. All’interno delle fabbriche si discuteva anche di queste cose e i giovani c’erano sicuramente. Poi se vuoi un giudizio mio, del tutto personale, ti dico che la prevalenza dei giovani nei luoghi di lavoro era sicuramente per cercare di mantenere al proprio interno una dimensione di lavoro che fosse dignitosa, che riuscisse a dare respiro per il futuro, che creasse elementi anche di solidarietà e opportunità di crescita. All’epoca una delle cose più importanti raggiunte dalla contrattazione nazionale delle categorie fu il “diritto allo studio”. Qualcuno lo potrebbe banalizzare ad andarlo a vedere oggi, ma io vi pregherei di ragionare con la testa di quelli che sono usciti dai percorsi formativi alla fine del 1960 e non sono andati avanti nella “scuola di classe”, come veniva vissuta. Uno dei punti più importanti su cui si impegnò il sindacato per utilizzare le 150 ore fu per fare raggiungere la terza media ai lavoratori: uno strumento che gli poteva consentire di accedere alle scuole medie superiori. Furono organizzati appositi corsi di scuola serali per utilizzare la possibilità di usufruire del monte ore previsto nei contratti e arrivare così a diplomarsi. Questa era una spinta che veniva dai giovani lavoratori. Poi qui ognuno ci può mettere quello che vuole, ma io trovo questo di grande respiro. Ma, è bene ribadirlo, prima c’è stato questo grande impegno nei contratti aziendali e di categoria. Successivamente, fu discussa e approvata la legge che cercò di dare sostegno a questo elemento importante. Su questo vedo, appunto, una grande forza dei giovani nati nel periodo postbellico, che arrivando nei luoghi di lavoro, nei luoghi d’impegno quotidiano, portavano un po’ di rinnovamento e di scossone a un establishment un po’ troppo conservativo. 124 Bartolini Questa cosa è interessante: da una parte grande idealità e dall’altra obiettivi molto concreti. Un momento ascendente in cui si prepara il terreno, un’esplosione di vitalità, di protesta, di rivendicazione, nel ’68, ’69, ’70. Poi cominciano i problemi, gli elitarismi, la lotta armata, poi magari anche divergenze di obiettivi, di motivazioni. E qui entriamo un po’ nell’altra metà del decennio. Un decennio di grandi conquiste, l’ultima grande stagione di rivendicazioni collettive, non perché dopo non ve ne siano state. Ce ne sono a tutt’oggi. Se io però calcolo cos’è l’Italia nel ’60 e nell’80 e vedo di mezzo cosa ci passa: diritto allo studio, divorzio, l’aborto, riforma del codice di famiglia che non si menziona quasi mai ma insomma è una roba veramente pesante. Noi oggi parliamo tanto della condizione della donna nel mondo islamico e ci dimentichiamo che la condizione della donna nel nostro mondo prima della riforma del codice del diritto di famiglia forse non era tanto diversa rispetto a quella che c’è ora in Arabia Saudita: l’accesso alle professioni, la parità salariale, anche quelle sono cose di quegli anni, l’elenco è infinito. Quello che ne esce fuori è un Paese totalmente cambiato, dal punto di vista sociale, economico, ma anche legislativo. E poi c’è l’arrivo della lotta armata. Cioè di chi non si accontenta, non si accontenta o intravede possibilità maggiori: come impatta, come la vivevate voi questa fase? Ottanelli Lo spartiacque tra il ‘68 come momento di entusiasmo e spontaneismo e l’inizio di una fase in cui non c’era più posto per questi atteggiamenti è costituito dalle bombe di piazza Fontana. Fecero precipitare l’Italia e la nostra generazione in un gioco molto pericoloso e, forse, anche molto più grande di noi. Ma devo ricordare che fummo molto chiari, fin dall’inizio nel negare assolutamente il coinvolgimento degli anarchici in quel fatto. La posizione del PCI all’inizio fu più tiepida rispetto a dopo, quando si schierò contro l’ipotesi delle bombe anarchiche. All’inizio fu abbastanza guardinga. Io mi ricordo che mi telefonò Piero Bargellini la sera a casa, alle nove, mi disse: «Andrea lo sai che è successo?» «c’è stata un’esplosione in una banca in piazza Fontana a Milano, ci sono morti e feriti …». Ecco quella sera cambiò tutto in Italia e dall’opposizione alla pista anarchica nacque un forte movimento spontaneo e un volume che dette il via alla stagione della controinformazione: La strage di Stato: controinchiesta, uscito nel 1971. Che fossero stati gli anarchici a mettere la bomba neppure Montanelli ci credette, e lo disse subito. Cominciammo così questa battaglia, che era tra l’altro un momento di controinformazione di tipo nuovo di cui faceva parte il periodico Processo Valpreda che venne ribattezzato “il valpredone”, perché era un foglio molto grande, quasi un giornale murale che veniva distribuito nelle fabbriche, nelle scuole, nelle manifestazioni e 125 nelle assemblee. Le assemblee sulla “Strage di Stato” erano molto frequentate ed erano il luogo privilegiato della presenza pubblica della sinistra in generale, ed extraparlamentare in particolare, a Pistoia. Quello fu il momento discriminante per la storia d’Italia. Quando fu lampante l’incapacità, se non la collusione, dello Stato di gestire la ricerca dei veri responsabili e fu chiara la consapevolezza che si entrava in una fase politica estremamente complessa e pericolosa. Perché c’era chi con tutti i metodi del terrorismo di destra voleva stroncare questa marcia molto forte in cui studenti e operai ma anche intellettuali, docenti, artisti e giornalisti volevano cambiare i rapporti di forza all’interno della nazione. Volevano diventare protagonisti, rivendicando spazi nelle istituzioni ma anche nella società in genere: e pur di bloccare questo percorso si fece ricorso a tutti i metodi, compreso l’uso delle bombe. E questo percorso passò attraverso l’arresto di Valpreda e un altro momento fondamentale, dirimente, straziante, con la morte di Giuseppe Pinelli. Quel fatto contribuì in modo determinate a condannare quel tipo di Stato. Un uomo innocente che entra in Questura e ne esce morto, e ne esce in quella maniera: cioè con un volo dall’ultimo piano in base a quello che verrà definito un “malore attivo” con la Questura e i giudici che all’inizio annaspavano su questa indagine e in cui non si è mai saputo con chiarezza come sono andate le cose, e che deve ancora trovare un vero responsabile. Dopo iniziò un periodo terribile con un continuo stillicidio di violenze e bombe piazzate sui treni o nelle piazze, come a Brescia, e nelle stazioni, come a Bologna nel 1980 e tentativi di colpi di stato. Ci trovavamo a fare i conti con una cosa che fino ad allora non avevamo previsto, l’uso della violenza fisica generalizzata a fine politico e l’Italia fu attraversata dalla pratica di un vocabolario della violenza diffusa e di un confronto aspro e continuo. Confronto che, ad esempio, a Pistoia si concretizzò negli scontri per i comizi del Movimento sociale in piazza del Duomo9. Nello stesso clima si pose la contestazione generalizzata per la morte di Giuseppe Pinelli. E il momento più acuto fu quello di individuare il responsabile e il soggetto principale di quella vicenda nella figura del commissario Luigi Calabresi. Contro di lui fu impostata una campagna che poi è stata pubblicamente criticata e ricusata nel 199710 ma che portò nel 1972 al suo assassinio. Penso che quello doveva essere un momento di profonda riflessione, e invece non lo fu, in quel caso ci fu un atteggiamento, per dirlo con Luciana Castellina, di 9 Il riferimento è al cinema Lux nel centro cittadino. A Pistoia, come nel resto del Paese, la proiezione del film di John Wayne, Berretti verdi, uscito nel 1968 e che celebrava l’impegno militare americano in Vietnam provocò proteste e picchettaggi davanti ai cinema. 10 Si riferisce a degli scontri svoltisi alla metà degli anni ’70. 126 “militanza acritica” con cui qualcuno pretese di sostituirsi allo Stato per giudicare innocenti e colpevoli. L’omicidio di Calabresi ci proiettava in una situazione di deterioramento estremo della politica in cui non c’era più posto per il confronto alla luce del sole, a faccia aperta, di fronte a tutti con un’assunzione personale di responsabilità, davanti alla storia e davanti ai nostri ideali. Ecco, in quel momento, con quell’atto si pretendeva quasi che in qualche maniera, si fosse rimediato alla violenza su Pinelli. Io credo che quello fosse il momento per capire che era ora di cambiare atteggiamento e denunciare una deriva pericolosa. Perché dopo, come avviene sempre una volta finito un periodo di impegno politico, c’è il momento della riflessione. Credo che non si possa pensare di rimediare a un torto subito, l’uccisione di Pinelli, con un torto uguale e contrario. Non sta nelle cose, nella logica, nella politica e nel vivere civile; non sta in uno Stato che, con tutti i limiti, con tutti i difetti che aveva, con tutti i problemi, era comunque uno Stato contro cui si potevano usare altre critiche e altre parole. In definitiva con quell’atto si fece solo un’altra vedova e altri orfani e in più e si bloccò un processo in corso che poteva aiutare a capire la vicenda Pinelli. Credo che la migliore risposta, sia stato l’incontro tra Licia Pinelli e Gemma Calabresi avvenuto nel 2009 con cui si intese sanare ferite ancora aperte. Sono momenti e fatti di una storia d’Italia fatta per molti anni di violenze e dolori. Bartolini Andrea, ti posso chiedere in aggiunta che impatto ebbe la gambizzazione di Niccolai qui a Pistoia? Ottanelli Dunque, siamo nel ’77 se non sbaglio. Io credo sia stata una cosa del tutto stupida e inutile, che ha causato solo grande dolore a lui e ai suoi familiari. Mi sono ritrovato, decenni dopo, ad amministrare con Giancarlo Niccolai un importante istituto pistoiese, gli Istituti Raggruppati. E lì c’è stato un processo di riflessione, che magari era già cominciato quando avevo conosciuto Vittorio Magni, altre persone anche della Democrazia cristiana per cui è apparso evidente che nella società non esistono sempre e per forza solo il bianco e il nero, esistono anche zone di grigio in cui ci sono persone per bene, a qualunque schieramento appartengono, ci sono persone che hanno ideali che pur se vissuti in schieramenti diversi possono portare a un percorso collettivo. Con Giancarlo mi sono confrontato, ho discusso e litigato ma, mantenendo le nostre posizioni, abbiamo cercato di lavorare per il bene comune. Quell’attentato fu vissuto come un fatto, tutto sommato, chiaramente deciso ed elaborato fuori Pistoia. Io di Giancarlo sapevo poche cose: era un dipendente della 127 Breda, esponente della Democrazia cristiana, che sul posto di lavoro era molto attivo e aveva anche una ben precisa linea politica, quella della creazione dei Gip, i Gruppi d’impegno politico, che volevano essere il contraltare democristiano alle organizzazioni in fabbrica del Partito comunista e del Partito socialista. Ma non mi sembra che fosse un personaggio di assoluto rilievo. A Pistoia i democristiani di assoluto rilievo erano altri. L’attentato a Giancarlo Niccolai fu vissuto da me come una scelta di retroguardia, un colpo di coda nella realtà locale, un atto che iniziava e che finiva lì, che non ebbe nessuna conseguenza, escluso il fatto che aprì a Giancarlo una carriera politica in Consiglio regionale. Ma un atto che io non esito a dire inutile, che non modificava i rapporti di forza all’interno della politica locale, che non faceva fare un salto alla politica pistoiese. Era una violenza senza senso. Bartolini Rossella, tu fai una repentina ascesa nel PCI e un altrettanto repentina uscita dal PCI. Tu hai questo precoce ritorno al privato. Dini Potrebbe essere lunga la storia ma la faccio molto breve: hai ragione, repentina ascesa e altrettanto repentina discesa. Nel senso che diventai, o meglio mi detti l’etichetta di dirigente – non lo ero poi nella realtà, né per la giovane età, né per le competenze, né per la storia vissuta: passare dal movimento studentesco a dirigente di un’organizzazione di massa e importante come il Partito comunista non era uno scherzo. Conclusione: io fui tra i “premiati” del movimento, nel senso che andai a fare la funzionaria di partito. Fu un breve periodo, qui non sto a ricordare le vicende, nonostante tutto sono troppe e troppo complicate. Però io feci un’esperienza di funzionaria: prima come responsabile della commissione femminile, poi come responsabile della stampa e propaganda. Entrambe esperienze molto brevi. Che cosa poi determinò la mia uscita? Credo essenzialmente due motivi: uno di carattere strettamente personale e familiare che non interessa a nessuno; l’altro, credo, sintomatico del sentire di una generazione o di una parte di quella generazione. Il problema era che cominciai ad avvertire una cappa di piombo anche lì, come l’avevo avvertita nella cattolicità: il rischio era che tutta la mia vita fosse finalizzata e assorbita interamente dalla politica. Questo mi pareva alla fine inaccettabile, perché io avevo già un po’ maturata anche se non ben definita una visione laica in senso ampio, una visione laica del partito. Il partito è lo strumento, non è un fine. Ergo, come tale va trattato. Il fatto di vivere, in un certo senso anche come destino esistenziale, la vita professionale della politica era contro una serie di libertà che ovviamente volevo avere. Questa mia esperienza personale poi in realtà maturò, molto più tardi, anche più 128 in generale. Ricordo alla fine degli anni ’70 i dibattiti sull’Unità: molte compagne – si trattava soprattutto delle donne – dicevano appunto che il totale assorbimento nella politica loro personale o di mariti, o di fratelli, era quello che aveva tolto grandissima parte alla loro vita. E non se la sentivano più di accettare questa specie di panpoliticismo. Questo fenomeno era spiegabile per anni precedenti, il vivere cioè in una chiesa: nel partito e non solo nel partito ma nelle organizzazioni intorno al partito. Negli anni Cinquanta, guerra fredda e rapporti politici interni al Paese di discriminazione oggettiva comportavano una serie di strumenti di difesa a livello anche di possibilità di socializzazione che una parte della comunità doveva pur avere. E quindi il Partito era anche un elemento di socializzazione, come lo era la casa del popolo, come lo era una serie di circoli, come lo era anche il sindacato. Cioè il costruire quella che è stata, credo giustamente, definita “l’altra chiesa”, aveva una sua giustificazione storica. Bisognava pure che il movimento operaio creasse tutti gli strumenti della propria difesa a livello perfino di tempo libero, di intrattenimento. Spesso anche nelle case del popolo non si facevano mica cose molto diverse da quelle che si facevano negli oratori, magari alcuni contenuti cambiavano ma si facevano proiezioni, si facevano le gare della Stellina dell’Unità, spettacoli di questo genere. Perché bisognava creare anche un ambiente di intrattenimento che legasse insieme la comunità o il popolo, chiamiamolo così, della sinistra. L’appartenenza era necessaria in un momento di assoluta discriminazione e guerra fredda. Cessato tutto questo, veniva meno quest’esigenza e maturavano esigenze diverse. Come non si poteva più vivere chiusi nella Chiesa di Pio XII, non si poteva neppure rimanere chiusi nella chiesa del Partito comunista. C’erano altri mondi, altre finestre da aprire anche nella vita privata. Il famoso discorso che cominciò a venire fuori nella seconda metà degli anni Settanta, soprattutto: il privato. E il dibattito sul privato che diventa politico e il politico privato ha riguardato credo una generazione intera, soprattutto di donne, ma non soltanto. Un appunto vorrei fare, perché questo è interessante. Ne hai accennato prima tu Stefano: 1974, il referendum sul divorzio. Fu vinto anche se con un bel combattimento, durato un bel po’ di tempo, perché il dibattito era cominciato assai prima. Una campagna esaltante per alcuni versi: io ricordo che facevo i comizi col pancione perché ero incinta di sei mesi. Mentre questa battaglia fu capita, ricordo, anche alla base del partito, c’era un’altra faccia del problema, di grande importanza, che era la riforma del diritto di famiglia, che invece non solo rimaneva talvolta in second’ordine, ma incontrava in alcune zone anche difficoltà ad essere compresa dalla base del partito. Io in quel periodo facevo conferenze, dibattiti su questa materia e, a seconda delle sezioni e delle zone, trovavo atteggiamenti differenziati, non c’era univocità. Mentre sul divorzio resistenze non ce n’erano, sulla riforma del diritto di famiglia si manifestavano. C’erano resistenze ad accettare quello che in fondo era già in gran parte nei fatti ma sarebbe poi esploso successivamente, e costituiva un cambiamento antropologico. La riforma del diritto di 129 famiglia, che fu poi approvata nel ’75, in parte prendeva atto, ma in parte autorizzava, adeguando finalmente le norme ai principi costituzionali, la parità uomo donna, che poi non era affatto irrilevante ai fini economici o ai fini successori, e così via. Solo un aspetto, che forse è sfuggito a molti ma non è sfuggito a me perché l’ho vissuto personalmente, vorrei ricordare: io ho avuto un figlio nel 1974, cioè un anno prima della riforma del diritto di famiglia. Mio figlio era illegittimo, perché nato fuori dal matrimonio. E’ diventato uguale agli altri soltanto due anni fa, all’età di quarant’anni. Infatti soltanto due anni fa, alla fine del 2013 e con vigenza dal 2014, si è finalmente avuta la parificazione totale tra figlio naturale e figlio illegittimo. Questo per dire quante e quali possono essere state le resistenze su questo terreno che abbiamo incontrato in un Paese come il nostro, che ha chiaramente vissuto arretratezze incredibili, per motivi storici naturalmente. Soltanto due anni fa si è potuto compiere quel processo iniziato nel 1975, a quarant’anni di distanza. Bartolini Ci avviamo a concludere. Renzo, tu incarni in qualche modo l’essenza di quella stagione sindacale. Il percorso delle ACLI è, come dire, preparatorio alla stagione dell’unità sindacale. Percorso importantissimo che poi come s’è detto fino a ora ebbe tantissime rivendicazioni, tantissime conquiste, anche piccole: i contratti, insomma nei contratti si guadagnano tantissime cose in quegli anni, impossibile ricordarle tutte. E poi si arriva in fondo agli anni ’70, lo accennavi prima: erano già in moto processi, non sono più gli anni del boom e quant’altro e si arriva alla politica dell’EUR. Innocenti Ma guarda meriterebbe sicuramente una serata a parte, sotto il titolo “La strategia dell’EUR, la strategia delle riforme”. Un passaggio che ha cambiato sicuramente molto, nell’impegno concreto dei rapporti tra il sindacato e la società. L’ufficializzazione di una linea che cercava di tenere insieme il miglioramento delle condizioni materiali di vita nel lavoro con la necessità di ammodernamento del Paese nelle varie strutture con cui questo si organizzava. Dalla difesa della salute, per intendersi, alla questione della pensione, ai problemi del fisco, dell’uguaglianza. In questo qualcuno ha visto un ripiegamento, cioè il sindacato non riusciva più a rappresentare sul piano della contrattazione le istanze nuove, se le sentiva sfuggire. Cercava di riaccreditare il proprio ruolo nel Paese con un rapporto diretto con i partiti politici, o con le istituzioni addirittura, o la logica anche che qualcuno definiva di pansindacalismo. Quindi un ruolo che va oltre rispetto a quello normale e naturale del sindacato per cercare di avere un ruolo di potere all’interno del Paese. Io ritengo che sinceramente, per come ho vissuto quel periodo lì dall’interno, vi fu un grande salto di qualità. Perché si usciva da uno schema tutto interno e si vedeva la possibilità di un lavoratore a dimensione globale: un protagonista 130 del cambiamento. Non era solamente il sindacato che cercava di difendere determinati diritti all’interno del luogo di lavoro, ma insomma passare dal diritto allo studio e le 150 ore nei contratti ad avere una scuola che aprisse le porte e desse le opportunità a tutti fu sicuramente una fase importante. Passare dal contrattare un livello di protezione sociale attraverso le Casse mutue aziendali o di categoria, dove tu potevi contrattare una miriade di cose con trattamenti più svariati, per l’amor del cielo… passare a dire «no, si tronca tutto e si rivendica un sistema sanitario universalistico in cui si chiudono queste cose» io l’ho trovata una grande scelta, una grande intuizione del gruppo dirigente del sindacato. In primis, il gruppo dirigente guidato da Luciano Lama – lo voglio ricordare perché ci si ricorda solamente delle persone quando vengono fatte oggetto di lancio di pietre, quando parla all’università perché secondo alcuni non aveva capito la sensibilità dei giovani. Ma è stato un personaggio diverso da come qualcuno lo vorrebbe dipingere. Poi in questo c’era sicuramente un atteggiamento che voleva affermare un ruolo importante nel sindacato, nella società negli anni futuri. È stato sicuramente un passaggio, per conto mio, di crescita qualitativa all’interno del sindacato. Aggancio proprio su questo il telegramma finale: in quell’epoca io mi ricordo le riunioni nel saloncino con le categorie in cui si discuteva il merito delle proposte. In cui si discuteva anche in modo tecnico, cioè la questione del come si articolava una proposta, ecc... Erano riunioni che facevamo una volta finito il lavoro durante il giorno, perché non ti provare a fare una riunione verso le sei, le sette, quando veniva la gente che usciva da lavoro e doveva controllare la busta paga, doveva fare questo e quello. Queste cose le facevi dopo, o le facevi il sabato pomeriggio, la domenica, andavi in giro a parlarne. E ti formavi una conoscenza, una tua opinione, la discutevi. Non è stato facile con alcune categorie andarli a convincerle che si finiva con le casse mutue e le casse pensioni. Ottanelli Il Partito comunista della San Giorgio fece una battaglia di retroguardia, come fu riconosciuto successivamente, perché voleva mantenere la Cassa mutua. Innocenti Furono cose e contraddizioni cocenti. Non era proprio un monolite, ci si dicevano e ci si mandavano a dire tranquillamente ma si discuteva, c’era un ordine e una gerarchia di valori, prima di tutto, che consigliava tutti ad ascoltare e a decidere. Questo è importante. Io vedo l’impegno all’interno del sindacato come uno dei canali attraverso il quale questo Paese ha fatto grandi passi in avanti. Forse un impoverimento che possiamo vedere oggi, scusate se faccio questa battutaccia, dal punto di vista delle linee politiche espresse in giro, forse dipende anche dal fatto che alcuni canali che erano tradizionalmente non preposti da nessuno, ma scelti dalle persone per mettersi insieme e cambiare le cose che li circondavano si sono un po’ interrotti. Non sono più quei canali 131 utili a formare e quindi si rompe il rapporto tra l’impegno politico e la conoscenza, la cultura, e questo ne va sicuramente a decremento della qualità politica e dell’azione generale in questo Paese oggi. Ottanelli Anzitutto una precisazione: quello che ho detto io è ricostruito su filo della memoria. Altre persone che hanno vissuto come me quei momenti possono dare descrizioni di quei fatti in maniera diversa e, ovviamente, valutazioni diverse. È molto difficile ricostruire quel periodo per noi, perché non ci sono archivi, non c’è niente di scritto, ci sono poche testimonianze. C’è la letteratura “grigia”, i volantini, quelli parlano tanto di noi oppure ci sono i periodici e le riviste prestigiose come i Quaderni piacentini e molto è conservato, per nostra fortuna, nel Centro di Documentazione presso la Biblioteca San Giorgio. Per concludere: un’esperienza di vita che è finita nel 1976 quando è terminato il mio impegno politico diretto perché era un’esperienza che si era conclusa, si era esaurita. È chiaro che quando ti dai un obiettivo escatologico, un obiettivo molto alto che è quello della riforma radicale della società che era passata attraverso l’attività in settori fino ad allora mai sperimentati dalla politica: il lavoro politico con i militari, con i carcerati, con i senzacasa, il rapporto con il femminismo, ecc. è chiaro che ti esaurisci rapidamente se non hai una struttura interna che pensa anche ad autoriformarsi, a darsi continuità. E non c’era niente di tutto ciò. E da allora ti rendi conto, e non fu solo un’esperienza mia ma di tutto un gruppo e di una parte consistente di una generazione, che devi affrontare la vita senza paracadute. Non sei più sorretto dall’ideologia, non hai più un senso di appartenenza fortissimo come quello che c’era in queste strutture molto coinvolgenti, come anche nel caso del Partito comunista o di altri partiti, immagino. Ma devi affrontare la vita con il tuo bagaglio personale, con la tua cultura politica che ti deriva da quegli ideali e da quelle idealità ma che devi rinnovare e adattare a una vita quotidiana che ormai appartiene solo a te, alle persone che ami e con cui hai rapporti solidi. Questo è stato importante, riprendersi la vita che fino a quel momento era circoscritta e conclusa in un’esperienza politica. Io ho alcune soddisfazioni generazionali. Almeno a Pistoia nessuno di noi, che sappia io ovviamente, ha cambiato atteggiamenti e modi di vita e orientamenti politici in maniera radicale. Siamo rimasti tutti nell’alveo della sinistra, coniugando, vivendo e declinando il nostro impegno in maniera diversa: chi nel sindacato, come me, chi sul luogo di lavoro. Con coerenza e con impegno, cercando di fare del nostro meglio e cercando di rappresentare i colleghi di lavoro nelle rappresentanze sindacali unitarie, o negli organismi dirigenti. Oppure anche nel mondo della ricerca e dello studio e nel mondo del volonta- 132 riato culturale. E quindi credo di aver percorso un pezzo della mia vita con una certa coerenza che mi ha fatto rispondere, tempo fa, a un famoso ex sindaco di Pistoia che mi diceva: «Vedi Andrea, io ho smesso di dividere le persone tra persone di sinistra e persone di destra. Esistono solo persone per bene e persone non per bene. Te ti metto tra le persone per bene». Gli risposi: «Ti ringrazio Renzo, però io preferisco essere una persona per bene di sinistra, quindi se tu mi devi mettere da qualche parte, mettimi tra le persone per bene, ma di sinistra». Quindi credo che sia questo un po’ il tirare le somme di una vita. Per la mia professione legata alla ricerca storica ho cominciato abbastanza presto a farlo, cioè intorno ai sessant’anni e quindi ho ancora molto da fare. E anche l’occasione che mi è stata offerta con questa intervista è stata un momento importante di questo lavoro sulla memoria. Dini Il bilancio è molto difficile. Io mi sento grata e veramente riconoscente per tutto quello che è successo tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, perché una stagione così intensa a livello di dibattito, riflessione, esperienza, credo di non averla mai più vissuta. E’ stato effettivamente un periodo estremamente formativo, nel bene e nel male, nel senso che si possono riconoscere anche i propri errori, maturando nell’esperienza, nella competenza, nella conoscenza. Io a differenza dei miei “colleghi” ho avuto anche un periodo di rigetto della politica, tant’è che per me la professione, con annessi elementi di studio e di ricerca, è diventata veramente una droga, nel senso che mi ci sono rifugiata. E ho scelto consapevolmente un percorso anche professionale, di ricerca e di studio, estremamente lontano nel suo tecnicismo dalla politica. Cioè pur lavorando sempre nell’amministrazione pubblica ho cercato e mi sono costruita, consapevolmente, un percorso che mi tenesse il più lontano possibile e il più autonoma possibile dal livello politico. Vi faccio un esempio così capite subito, specialmente chi di voi ha visto quel divertentissimo film, che è Hotel Plaza, con quell’incredibile comico che è Walter Matthau. Ho scelto di fare la bibliotecaria dirigendo tutti i miei studi verso problemi tecnici di catalogazione, ovverosia di mediazione dell’informazione. Questo mi teneva lontana dai livelli politici, perché non c’erano decisioni politiche da prendere; è lo stesso rapporto che ci può essere tra il lavoro del medico e il livello politico: nessuno può dire a un medico come si usa il bisturi, questo lo deve sapere lui. Ecco io ho cercato questa strada, devo dire molto sinceramente, e ne ho tratto anche grandi soddisfazioni, perché sono arrivata a un grado di specializzazione piuttosto elevato. In conclusione: grandissimo ricordo e grandissima gratitudine per quella stagione, perché ha consentito una grande maturazione, individuale e collettiva. Contemporaneamente io ho preso un’altra strada, ripeto, con una certa consapevolezza, proprio per reazione ad alcuni aspetti che mi sembravano eccessivi e opprimenti per una vita che io intendevo vivere non in termini unidirezionali ma a tutto tondo. 133 134 135