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I silenzi dell’autobiografia italoamericana

Mnemosyne

Questo intervento verte sull’interpretazione del vuoto nell’autobiografia, non solo nel contenuto, ma anche nello stile. Le fonti primarie sono un corpus di 58 scritture autobiografiche di emigranti italiani negli Stati Uniti, emigranti di prima generazione, alcuni rimpatriati, altri trapiantati in America. La maggior parte di essi è “gente comune.” Contrapponendo questi lavori (molti dei quali inediti esempi di scrittura popolare) all’autobiografia propriamente americana (modellata sull’esempio di Benjamin Franklyn), propongo un’interpretazione del loro “non detto”. Primo, le stesse autobiografie si pongono come significativa rottura di un silenzio per uomini e donne scomparsi nelle pagine della Storia e diventati numeri su un biglietto d’imbarco. Questo squarcio nel silenzio non è però un urlo, quanto una narrazione sottovoce. E’ un’espressione del tutto originale e non proprio americana di un particolare ethos retorico, quello che chiamerò dell’individualità quieta.

Premessa

L'autobiografia degli immigranti italiani negli Stati Uniti rivela uno stretto legame con il 'silenzio' sotto diversi punti di vista. Innanzitutto, l'autobiografia stessa si pone come significativa rottura di un non-detto: uomini e donne che per generazioni non hanno detto nulla né contato nulla sulla pagina scritta -se non come numeri di statistiche e di biglietti d'imbarco -trovano ospitalità legittima nelle pagine di un libro. Essi spezzano così la tradizione del silenzio e lo fanno con un atto retorico creativo, che riconoscono importante per sé e per la propria famiglia. In secondo luogo, le autobiografie di immigrati comuni rivelano molti buchi neri al loro interno, molti silenzi in cui il non-detto diventa parlante. In particolare, essi rinunciano in modo eclatante alla retorica americana dell'uomo comune capace di superare ogni ostacolo, per scegliersi invece un particolare ethos retorico, quello che chiamerò dell'individualità quieta.

2.

Una ricerca che rompe il silenzio

Il fulcro di quest'articolo è la mia ricerca sulle autobiografie di immigranti italiani di prima generazione negli Stati Uniti. Tale ricerca ha tentato di andare oltre alle poche autobiografie note e pubblicate -come quella di Frank Capra o di personaggi relativamente famosi -per includere anche nuovi scriventi: gli immigranti comuni, i poveracci e i sognatori. In verità, la gran maggioranza della nostra emigrazione 2 . L'argomento è il fenomeno, meno raro di quanto si sia finora pensato, dell'autobiografia scritta da emigranti 'normali', 'ordinari'. Non si tratta di santi, eroi, o milionari, ma di un popolo che ha vissuto l'emigrazione come il grande evento di una vita e l'ha descritta per i posteri, intesi soprattutto come i propri famigliari. Lo stile semplice e la fattura artigianale hanno ostacolato il riconoscimento di questo genere di letteratura popolare, in bilico fra storia e memoria, considerato banale e senza valore 3 .

Per molto tempo, si è pensato che questo materiale addirittura non esistesse, che gli emigrati italiani non avessero lasciato traccia di sé. Scriveva Giuseppe Prezzolini da New York nel 1963: «gli emigrati lasciarono lacrime e sudore, ma non memorie» 4 . E raccontava: «Una volta chiesi per mezzo della stampa locale di lingua italiana di formare una raccolta di memorie della emigrazione. Non ebbi risposta. Nessuno conservava memorie della emigrazione propria, o dei genitori. Cercavano, se mai, di dimenticarsene» 5 . Invece… proprio pochi anni prima, sul letto di morte, a Los Angeles, un vecchio dottore emigrato, Michele Daniele, si faceva passare una 2 L'emigrazione italiana in America ha raggiunto la vetta a cavallo fra 1800 e 1900 e dopo la seconda guerra mondiale. In entrambi i casi non si è trattato di una migrazione intellettuale. Rari sono gli scrittori tra questi emigranti, quanto invece sono numerosi gli Italoamericani di seconda generazione che riversano tutta la loro sofferenza di anime divise in romanzi, molto spesso autobiografici. 3 Questo materiale è trattato nel mio The Value of Worthless Lives. Writing Italian American Autobiographies, New York, Fordham University Press, 2007. Il titolo, ironico, è traducibile come 'Il valore delle vite ordinarie'. Questo è il primo articolo che espone il tema in italiano. 4 Giuseppe PREZZOLINI, I trapiantati, Milano, Longanesi, 1963, p. 242. 5 Ibidem, p. 403. penna e un pezzo di carta e scriveva al figlio, in italiano, con mano tremante: 'il libro'. Il suo ultimo desiderio, prima di morire, era assicurarsi che il figlio pubblicasse la sua autobiografia 6 .

Vorrei dare una panoramica sul materiale che ho raccolto prima di proporre le mie conclusioni critiche. In tutto sono cinquantotto testi, scritti tra la fine del diciannovesimo e la metà del ventesimo secolo -alcuni libri veri e propri, altri prodotti in casa o semplici manoscritti. Sono tutte autobiografie di emigranti di prima generazione, quelli che reputo maggiormente interessanti in un discorso sullo sradicamento perché hanno sperimentato in prima persona la rottura fra i due mondi.

La maggior parte di questi scrittori sono persone comuni che ho provato, con difficoltà, a catalogare. Nove di essi si riconoscono quasi esclusivamente nel lavoro delle proprie mani e lì trovano la loro gloria terrena (muratori, gelatai, bidelli, sarti, lustrascarpe). Cinque scriventi dimostrano una chiara coscienza politica (tra essi, l'anarchico Carlo Tresca e il pescatore Bartolomeo Vanzetti che, stranamente, a pochi giorni dalla sentenza di morte, non spreca carta a giustificare la sua innocenza ma preferisce farsi ricordare come semplice, onesto, lavoratore). Dieci autori rivelano uno spiccato senso poetico e scrivono le storie della propria vita con evidente gusto artistico, nonostante siano poco istruiti: tra gli altri, un pasticciere e un detective; e due poeti-lavoratori, Pascal D'Angelo ed Emanuel Carnevali, che raggiungono una certa fama. Caso eccezionale, in questa categoria, sono due manovali toscani, Raffaello Lugnani e Antonio Andreoni, che scrivono in ottave il loro poema d'emigrazione. Cinque autobiografi sono dei religiosi (tre pastori che si convertono al protestantesimo parallelamente al processo d'americanizzazione; e due preti cattolici: Giacomo Gambera che si trova a New Orleans durante il linciaggio dei pescatori siciliani, e Samuel Mazzuchelli che predica agli indiani delle praterie). Sette scriventi sono artisti (musicisti falliti e di successo, l'affrescatore di opere pubbliche Alfred Crimi, l'attore di 'teatro per emigranti' Rocco De Russo). Nove autrici sono donne, vere mosche bianche tra gli scriventi d'emigrazione (tra esse una signora delle pulizie dalla vita avventurosa, la figlia di un minatore, e una sposa di guerra). Con un salto di classe sociale, si esprimono poi otto laureati (quattro medici delle Little Italies e quattro professori, tra cui l'ottimo poeta gargano Joseph Tusiani). Cinque, infine, sono Italoamericani di successo: un banchiere di Tampa, in Florida; Vincent Sardi, proprietario del ristorante Sardi di Manhattan; due PR (public relation men), e il noto regista Frank Capra.

Come si può notare, il criterio di questo lavoro di setaccio è stata l'inclusione del maggior numero possibile di autobiografie proprio per offrire una larga base di fonti primarie ad una ricerca che finora si era arenata. È importante creare una piattaforma su cui ulteriori ricerche possano basarsi, e soprattutto eliminare una buona volta il pregiudizio che gli Italoamericani non hanno voluto e non hanno potuto scrivere di sé. Le storie sono andata a cercarle negli angoli più impensati: nelle piccole biblioteche americane, raggiunte tramite il prestito interbibliotecario, e negli archivi d'emigrazione -a Saint Paul in Minnesota e a New York-Staten Island; a Pieve Santo Stefano (Arezzo), nel Castello di Trento, e alla biblioteca nazionale di Firenze. Ho rintracciato altri materiali attraverso il passaparola: il sindaco di Chiuppano mi ha segnalato il libro di Amabile Santacaterina; il gelataio Calogero di Leo ha bussato direttamente alla porta del mio ufficio all'università col manoscritto in mano e successivamente mi ha consegnato il libretto del muratore Giovanni Triarsi; l'anziana pronipote di Alfred Crimi, scomparsa di recente a Palm Beach, mi ha dato il libro dello zio; ed Aquilio Lugnani, figlio di Raffaello, mi ha mostrato l'agenda in pelle con l' autobiografia originale nella sua casa, nella profonda provincia lucchese.

La maggior parte di questi autori sanno di compiere un atto coraggioso, di lanciare un grido nel silenzio. Molti di essi vogliono coscientemente ritagliarsi il loro posto, seppur un angolino, nella Storia. Il siciliano Antonio Margariti, per esempio, è un tagliapietre del canale Erie, nato in Calabria nel 1891. In lui è chiara la volontà di combattere una lotta di classe: «la vita dei grandi viene scritta dai grandi storici e remane nella Storia, [non] per me che sono come un granello cascato nello spazzio e fuore del mio vicinato nessuno sa che io Esisto» scrive nel suo America! America! 7 Il silenzio degli emigranti va di pari passo con la loro anonimità. L'autobiografia è un modo di reagire all'uniformità della massa che li impasta e ingrigisce in una folla indistinta. Scrivere il proprio nome sopra il titolo (come nota Frank Capra intitolando la sua autobiografia The Name above the Title) 8 è una rivincita contro l'anonimità in cui vengono relegati nella realtà, graffiati da una discriminazione che appioppa loro soprannomi e nomignoli spregiativi. Michael LaSorte nota questa ingiustizia: «L'Italiano non era italiano. Era un wop, un dago, un duke, gin, tally, ghini, mangiator di maccheroni o spaghettaio. Era anche Ehi Ragazzo o Ehi Tu, o gli veniva dato qualche nome generico: Joe, Pete, Tony, Carlo, Dino, Gumbà. 'Sai perché molti Italiani si chiamano Tony?' 'No'. 'Perché quando sbarcano a New York portano il biglietto sul cappello che dice To NY'. La maggior parte di questi nomi sono ovviamente destinati a disumanizzarli e degradarli. Altri erano solo modi di chiamare un lavoratore da parte di chi non sentiva alcun bisogno di indicarne l'identità individuale» 9 . In una tale indifferenza, si capisce come il nome proprio, a titolo di un libro, venga ricoperto di un'importanza vitale. Gli autori stessi ne sono consci, come il poeta Joseph Tusiani che immagina di commentare una vecchia foto di famiglia: «Il primo a sinistra è un giovane serio i cui pensieri solo io conosco» 10 . Se non sono loro a parlarne, nessuno li verrà mai a conoscere ed essi, pensieri ed avventure, moriranno con loro. Così afferma anche Michael Lamont, un postino che ancora si rammarica di possedere un nome storpiato (Lomanto è il suo vero cognome), notando che i suoi coetanei non scrivono nulla delle loro vite: peccato perché «le loro storie moriranno con loro, è una vergogna perché solo loro sanno raccontare la vita come realmente è stata» 11 . Come conferma Anne Goldman, queste autobiografie sono necessarie per esprimere la propria 'esistenza testuale' 12 . Questi autori scrivono di sé per pronunciarsi in vita.

Il silenzio dell'individualità quieta

Per un'analisi della scrittura di questi immigranti italoamericani, è necessario fabbricare nuove categorie critiche che li possano descrivere: molti di loro sono scrittori anomali, non-ortodossi, semi-analfabeti, lavoratori incalliti. Se per definizione l'individualità è al centro del palcoscenico dell'autobiografia, l'autobiografia italoamericana di gente comune ha al centro the 9 «An Italian was not an Italian. He was a wop, dago, duke, gin, tally, ghini, macaroni or spaghetti bender, He was also Hey Boy or Hey Youse, or he was given some generic name: Joe, Pete, Tony, Carlo, Dino, Gumba. 'Do you know why most Italians are called Tony?' 'No'. 'Because when they land in New York they have cards on their caps that say: To NY'. Most of the terms were obviously meant to dehumanize and to degrade. Others were simply ways of addressing a worker by someone who felt no need to indicate individual identity» (Michael LA SORTE, La Merica: Images of Italian Greenhorn Experience, Philadelphia, Temple University Press, 1985, p. 138). 10 Joseph TUSIANI, La parola difficile: Autobiografia di un italo-americano, Brindisi, Schena Editore, 1988, p. 290. 11 «It's too bad because the tales they will tell will die with them, it's a shame because they really tell it how it is» (Michael Lamont si racconta in Italian American Autobiographies, a cura di Maria PARRINO, Providence, Italian Americana Publications, University of Rhode Island, 1993, p. 54).

12 La ricerca autobiografica «descrive un ampio spettro di modi e mezzi in cui persone del XX secolo pronunciano la propria esistenza testuale» («describe a wider spectrum of the ways and means by which people in the 20 th century speak themselves into textual existence», Anne GOLDMAN, Take My Word: Autobiographical Narratives of Ethnic American Working Women, Berkley, University of California Press, 1996, p. XVII).

quiet individual, un'individualità che si presenta con pudore, silenziosamente, a riflettori spenti: 'un'individualità quieta'.

Proprio qui è il cuore del non-detto contenutistico e stilistico. Di primo acchito, leggendo questo materiale autobiografico, si avverte un'assenza che viene dalla contrapposizione con la classica autobiografia di stampo americano. Queste autobiografie non rappresentano solo una fonte alternativa, un gruppo di scriventi sotto-rappresentato, un sottogruppo etnico e colorito nell'America autobiografica. Essi delineano anche un diverso modello di scrittore, che -nel panorama americano -si contraddistingue non per quello che dice, ma per quello che non dice. Se l'autobiografia americana viene normalmente definita come una successione di success stories, di persone che ce l'hanno fatta, dei noti self-made men che si permettono di dare una serie di consigli su come raggiungere il successo -l'autobiografia di questi emigranti non presenta nulla di tutto questo. Anzi, questo silenzio dopo poco diventa assordante.

Il modello dell'autobiografia americana è Benjamin Franklyn che già dalla prima pagina afferma come la sua vita si possa e si debba imitare. Egli offre consigli concreti, dalla dieta vegetariana al bere solo acqua: mezzi per ottenere il successo «che con la benedizione di Dio hanno funzionato a meraviglia, e che i miei posteri vorranno conoscere e magari troveranno utili per le propria situazione e perciò degni di essere imitati» 13 . Siamo proprio agli antipodi degli autobiografi immigrati: in loro c'è raramente la coscienza del successo che non sia una semplice decenza; le eccezioni sono rare, come Angelo Massari, banchiere floridiano o Constantine Panunzio, pastore protestante.

Non solo, la modestia -magari affettata, come ci si può aspettare da una retorica captatio benevolentiae introduttiva -è comunque un dato innegabile delle autobiografie di emigranti, che sembrano rendersi conto della loro normalità con semplice onestà. Nulla di più lontano dalla franchezza con cui Franklyn inserisce nel suo scritto un vero e proprio elogio della vanità: «forse avrò molto di che soddisfare la mia vanità... Riconosco il valore della vanità dovunque la trovi, essendo io persuaso che sia benefica in chi la possiede e in chi ne viene in contatto; quindi non sarebbe affatto assurdo se l'uomo ringraziasse Dio per la sua vanità fra le altre consolazioni della vita» 14 .

13 «The conducing means I made use of, which with the blessing of God so well succeeded, my posterity may like to know, as they may find some of them suitable to their own situations, and therefore fit to be imitated» ( Perché parlo di individualismo quieto? Se l'autobiografia è il prodotto di una società che crede nell'individuo -una scoperta 'rinascimentale' -per noi non è sufficiente. Questi autori si sentono individui, ma non eccezionali. Non hanno nulla di cui vantarsi, se non la loro decenza e la soddisfazione di aver fatto il proprio dovere. Così dice Pietro Riccobaldi: «tornavo dopo vent'anni. Non avevo fatto grandi fortune, ma sentivo di essermi comportato bene, di aver tenuto fede alle origini e agli insegnamenti della mia famiglia. C'era in me un senso d'orgoglio» 17 . action; and therefore, in many cases, it would not be altogether absurd if a man were to thank God for his vanity among the other comforts of life». (B. Franklin-J. Bigelow, Autobiography of Benjamin Franklin, Ibidem, pp. 68-69). 15 The American model of self-made man in «the United States is already framed, being already inscribed by a master-plot[:] the immigrant autobiographical narrator must simply position himself/herself in it as citizen» (William BOELHOWER, Autobiographical Transactions in Modernist America: The Immigrant, the Architect, the Artist, the Citizen, Udine, Del Bianco, 1992, p. 99). 16 James CRAIG HOLTE, «The Representative Voice: Autobiography and the Ethnic Experience», Melus 9.2, 1982, 25-46. 17 Pietro RICCOBALDI, Straniero indesiderabile, Milano, Rosellina Archinto, 1988, p. 132.

Figure

Inoltre, l'individualismo italiano non è storicamente famoso, né tanto meno quello italoamericano 18 . In queste autobiografie si ritrova un grande attaccamento alla propria gente: Pascal D'Angelo usa sempre il pronome 'noi' quando racconta la propria storia; «la gente, or common folks, to which we belonged», scrive Constantine Panunzio; Pietro Toffolo ricorda 'la mia gente' («la mia gente non era cambiata... la mia gente non era triste... aveva la capacità di accettare)» 19 ; anche Gregorio Scaia non si separa mai dal gruppo di 'conquistatori' trentini. Quando questi autobiografi accennano alla loro individualità, questa è sempre una scoperta americana: Panunzio descrive il suo risveglio mentale ('mental awakening') all'individualità in America. Il dottor Previtali spiega la sua trasformazione come un dono tipicamente americano: «pensavo che essere sicuro di me e coraggioso fosse una cosa tutta americana» 20 , mentre Toffolo spiega come in America l'identità dell'uomo consista nella sua individualità: «e non devi brillare mentre cammini per essere notato» 21 .

Dunque, da una parte l'Italoamericano riconosce la sua identità nel gruppo, non nell'individuo, dall'altra scrive autobiografie centrate su di sé. Ecco -in questa mezza via -sta il quieto individualismo dell'autobiografo italoamericano di prima generazione. La sua è un narrazione sottovoce, non cantata in trionfo. L'allegoria di questa tonalità può essere individuata in Elisabeth Evans che scrive la propria autobiografia in punta di matita. L'ho trovata manoscritta e sono rimasta sorpresa che fosse tutta scritta in lapis: quasi a voler definire la propria insicurezza, la propria fragilità e prossimità alla cancellazione.

Un'altra delle grandi assenze della scrittura autobiografica italoamericana consiste nella mancanza di una 'storia dell'eroe' propriamente detta. Pare una strana mancanza, in un'autobiografia centrata sul sé, ma precisiamo, usando la terminologia di Virginia McLaughlin: queste non sono storie del sé, ma sono narrazioni del sé nella Storia 22 . O meglio, le autobiografie americanizzate (quelle degli 'arrivati' come Mangione, Covello, Iacocca, Pellegrini, Corsi, e Capra) possono raccontare storie del sé, avventure di un individuo che ha superato tutto con la propria tenacia, astuzia, frugalità, come Guido Orlando quando afferma: «nessuno ti dà un'idea, Guido, sei tu che tendi la mano e te la prendi» 23 . Ma la maggior parte delle autobiografie sono storie di un sé intricato e impacciato nella storia. Invece di delineare un eroe che si delinea sullo sfondo vuoto, ne dipingono uno che si libera con difficoltà dalle pastoie della Storia, in lotta continua. «L'Italiano è impotente di fronte alle maree della storia. Egli può solo difendersi dalla sua cieca violenza, tenere la bocca chiusa e badare ai fatti suoi», ha scritto il critico Luigi Barzini 24 . La maggior parte di questi autobiografi sono dei 'sopravvissuti', che ce l'hanno fatta districandosi tra mille difficoltà.

Viene da chiedersi se questo diverso senso dell'individualità non sia generato anche da un diverso senso dello spazio fisico, dalla differenza fra Italia e America a livello geografico. Da una parte una terra immensa che appare vuota, giovane e vergine, dall'altra una stretta penisola, vecchia, angusta, stanca. Anche i nostri emigranti se ne rendono conto: per l'acuto giornalistaemigrante Adolfo Rossi, al confronto con l'America, «l'Italia pare un bel cimitero. Con le scarse vetture, rari trams, con la mancanza di ferrovie all'interno, le nostre maggiori città mi sembravano silenziose e come addormentate… Le strade poi apparivano strette in modo straordinario. [...] Il Po, l'Adige, il Tevere erano diventati per me fiumiciattoli. Trovavo tutto piccolo, gretto, meschino» 25 . Anche il professor Angelo Pellegrini nota questa differente