2011
ANNUARIO
DEL
CONTRATTO
2011
diretto da
Andrea D’Angelo e Vincenzo Roppo
Coordinamento
Alberto Maria Benedetti
Redazione
Luca Guerrini (redattore capo), Giorgio Afferni (responsabile per Osservatorio)
Gianmaria Baraggioli, Francesca Barisione, Francesca Bartolini, Tommaso Capurro
Matteo Dellacasa (responsabile per Giurisprudenza), Valentina Di Gregorio
Maurizio Flick, Marianna Garrone, Mauro Grondona (responsabile per Biblioteca)
Patrizia Ritondale, Diego A. Schiesaro, Giacomo Viotti
Corrispondenti esteri
Jean-Sébastien Borghetti (Francia), Luisa Bartels e Walter Doralt (Germania)
Alexandra Braun (Inghilterrra), Marcin Czepelak (Polonia)
Qing Lu (Repubblica Popolare Cinese), César Hornero Méndez (Spagna)
2012
G. Giappichelli Editore – Torino
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ISBN/EAN 978-88-348-2838-0
Testata dell’Associazione Annuario del Contratto
Redazione:
Università degli Studi di Genova
Facoltà di Giurisprudenza
Dipartimento “G.L.M. CASAREGI”
Sezione di Diritto Privato
Via Balbi 22, 4 piano – 16126 Genova
Tel. 010.2099907 – Fax 010.2099912
⊡ Referee Annuario 2011: Stefano Delle Monache, Claudio Scognamiglio, Pietro Sirena.
Questo volume è pubblicato nell’ambito della ricerca «La moltiplicazione del diritto
contrattuale tra Europa e Regioni: problemi di completezza, coerenza, e forza espansiva delle nuove regole - PRIN 2008»
Composizione: Voxel Informatica s.a.s. - Chieri (To)
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INDICE
pag.
Dottrina
ALBERTO MARIA BENEDETTI, La difesa del consumatore dal contratto: la
natura «ambigua» dei recessi di pentimento
GIOVANNI DE CRISTOFARO, La direttiva 2011/83/UE sui «diritti dei consumatori»: ambito di applicazione e disciplina degli obblighi informativi
precontrattuali
EMANUELA NAVARRETTA, Abuso del diritto e contratti asimmetrici d’impresa
3
30
81
Giurisprudenza
I. Contratto in generale
II. Contratti tipici e atipici
III. Contratti del consumatore
IV. Obbligazioni
* Lodi
109
160
210
219
230
Biblioteca
I.
Trattati, commentarî, opere collettanee, raccolte di scritti, lezioni in
tema di contratto e di obbligazioni
II. Monografie sul contratto
1. Formazione
2. Contenuto, effetti, esecuzione
3. Patologie e rimedi
4. Contratti tipici e atipici
251
261
261
262
274
280
VI
2011
pag.
5. Consumatore, impresa, mercato
6. Diritto europeo dei contratti
III. Monografie sulle obbligazioni
IV. Segnalazioni
287
292
294
300
Osservatorio
I.
II.
III.
IV.
Fonti
Prassi
Convegni
Estero
309
352
374
383
Indice analitico
409
DOTTRINA
2
2011
Dottrina
3
ALBERTO MARIA BENEDETTI
LA DIFESA DEL CONSUMATORE DAL CONTRATTO:
LA NATURA «AMBIGUA» DEI RECESSI
DI PENTIMENTO
SOMMARIO:
1. Il recesso del consumatore: definizione e caratteristiche. – 2. Regole generali ed ambito applicativo. – 3. Le ragioni di un’ambiguità. – 4. Segue: recesso e proposte contrattuali. – 5. Nuove
prospettive: recesso del consumatore, direttiva 2011/83/UE sui diritti dei consumatori e disciplina generale del contratto.
1. Il recesso del consumatore: definizione e caratteristiche
Ripensare il contratto, per il consumatore, è possibile: servendosi del recesso, infatti, egli può uscire dal contratto velocemente e senza doverne
esternare le ragioni 1. Può pentirsi, appunto, del consenso già dato, quale che
sia il perché del suo pentimento o, al limite, anche se esso fosse dovuto ad un
mero capriccio; può difendersi (anzi: essere difeso, perché è l’ordinamento
che lo dota di questo strumento di protezione) dal contratto e dal vincolo
che, di regola, da questo sorge inesorabilmente in capo a chi lo ha concluso.
* Professore associato di Istituzioni di diritto privato nell’Università di Genova.
1
V. ROPPO, Il contratto, in Tratt. Iudica-Zatti, Giuffrè, 2011, p. 521: «i recessi di pentimento sono quelli che la legge dà a una parte, senza vincolarli ad alcun presupposto, ma solo perché
ritiene opportuno – in una logica di speciale protezione della parte – consentire a questa di
cambiare idea rispetto al contratto già concluso; di pentirsene appunto, e di tradurre questo
pentimento in un atto capace di liberarla dal vincolo contrattuale non più gradito». Per un recente quadro generale su tutti gli aspetti problematici e le regole operative dei recessi di pentimento (che qui non vengono considerati) mi permetto di rinviare a A.M. BENEDETTI, Recesso
del consumatore, in Enc. dir., Annali, IV, Giuffrè, 2011, p. 956 ss.
4
2011
È vero, infatti, che, per il consumatore, il vincolo che lega i contraenti quale effetto della conclusione di un contratto – e che l’art. 1372 c.c. significativamente esprime con l’immagine della «forza di legge» – s’attenua, fino a
scomparire del tutto per l’effetto di un potere concesso ad una sola parte, e
concepito come libero e quasi arbitrario 2 perché necessario a compensare
una debolezza di cui il titolare è vittima.
Si tratta di un recesso legale e straordinario 3, posto a protezione del solo
consumatore – parte debole [perché il professionista non dispone d’analogo rimedio] di un rapporto contrattuale sorto in determinate circostanze
(rectius a seguito di certe particolari tecniche di captazione del consenso) o,
a prescindere dalle modalità di conclusione, avente un determinato oggetto;
la legge sembra ricorrere a questo strumento per ragioni che, in dottrina,
sono state variamente individuate: consentire una rivalutazione di convenienza dell’affare 4, proteggersi da tecniche di formazione del contratto particolarmente aggressive 5, garantire che il consenso del consumatore sia effettivo e ponderato, liberarsi da regolamenti contrattuali inidonei 6 e, financo, favorire un rapido ritorno sul mercato del consumatore insoddisfatto di
un affare concluso troppo in fretta 7. Quale che sia lo scopo per cui è previsto, il recesso di cui si ragiona ha a che fare soprattutto con l’asimmetria che
2
Sul rapporto tra recessi e vincolo contrattuale si possono vedere G. DE NOVA, Il contratto
ha forza di legge, Giuffrè, 1993, p. 41 ss., G. GABRIELLI-F. PADOVINI, Recesso (dir. priv.), in Enc.
dir., XXXIX, Giuffrè, 1988, p. 36 ss. e U. BRECCIA, Fonti del diritto contrattuale, in Enc. dir., Annali, III, Giuffrè, 2010, p. 414.
3
In tal senso G. GABRIELLI, Vincolo contrattuale e recesso unilaterale, Giappichelli, 1985, p. 10.
4
Così P. SIRENA, Effetti e vincolo, in Tratt. Roppo, III, Effetti, a cura di M. Costanza, Giuffrè,
2006, p. 119.
5
Tra gli altri, studia il recesso di pentimento quale «tecnica di tutela della volontà contrattuale» M.C. CHERUBINI, Tutela del “contraente debole” nella formazione del consenso, Giappichelli, 2005, p. 73 (della quale va richiamato il pregresso saggio Sul c.d. diritto di ripensamento,
in Riv. dir. civ., 1999, II, p. 697). Preferisce ragionare in termini di diritto di ripensamento (piuttosto che di recesso) A. BARCA, Il diritto di recesso nei contratti del consumatore, Giappichelli,
2011, p. 130 ss.
6
Così F. RENDE, Il recesso comunitario dopo l’ultima pronuncia della Corte di Giustizia, in
Riv. dir. civ., 2009, I, p. 526.
7
In tal senso G. GRISI, Ius poenitendi e tutela del consumatore, in Il contratto telematico, a cura di V. Ricciuto e N. Zorzi, Cedam, 2002, p. 163 ss., in partic. pp. 169-170: secondo l’Autore, il
recesso di pentimento è «una tecnica, legalmente configurata, di gestione (e soluzione) di (potenziali) conflitti, calibrata sulle esigenze – per molti versi, peculiari – emergenti da forme di contrattazione che […] esibiscono diverse specificità».
Dottrina
5
caratterizza una parte rispetto all’altra, e, dunque, può essere essenzialmente
ascritto al novero di quelle tecniche di protezione del contraente debole che
contraddistinguono il diritto dei consumatori – e il «nuovo paradigma contrattuale» 8 ch’esso sembra delineare – rispetto al tradizionale diritto comune dei contratti 9. Con due precisazioni importanti: si tratta di una tecnica di
protezione che, come si dirà oltre, non può essere elevato a rimedio di carattere generale, e non è suscettibile di essere estesa al di là dei contesti (oggettivamente e soggettivamente qualificati) per i quali è prevista dalla legge 10
con la conseguenza che, dunque, non sembra poter concorrere alla costruzione di quel paradigma unitario e trasversale oggi identificato dal c.d. contratto asimmetrico 11. Si vuole proteggere il consumatore non solo e non tan-
8
Su cui vedasi innanzi tutto V. ROPPO, Contratto di diritto comune, contratto del consumatore
e contratto con asimmetria di potere contrattuale: genesi e sviluppo di un nuovo paradigma, in ID., Il
contratto del duemila, Giappichelli, 2005, p. 23 ss. e ID., Parte generale del contratto, contratti del
consumatore e contratti asimmetrici (con postilla sul “terzo contratto”), in Riv. dir. priv., 2007, p.
669 ss. I recessi di pentimenti sono tratti caratteristici del c.d. «secondo contratto» (quello,
appunto, stipulato da consumatori e professionisti): in questo prospettiva si può vedere G.
D’AMICO, La formazione del contratto, in Il terzo contratto, a cura di G. Gitti e G. Villa, Il Mulino, 2008, in partic. pp. 54-56.
9
Ma, sul punto, cfr. P. SIRENA, L’integrazione del diritto dei consumatori nella disciplina generale del contratto, in Riv. dir. civ., 2004, I, p. 787 ss. ad avviso del quale la regolazione dei contratti conclusi tra un imprenditore e un consumatore non nasce dall’esigenza di proteggere il secondo come parte debole, bensì si deve essenzialmente alla necessità garantire l’interesse generale al buon funzionamento del mercato, sopperendo ai «fallimenti» in cui esso incorre in determinate situazioni. D’altra parte, è pur vero che, forte del recesso, il consumatore è indotto a
stipulare più tranquillamente i contratti che gli sono proposti dal professionista; che, dunque,
può contare su più occasioni di guadagno.
10
Rileva in tal senso C. CASTRONOVO, Diritto privato generale e diritti secondi. La ripresa di
un tema, in Eur. dir. priv., 2006, p. 398, in partic. p. 422, che la disciplina del recesso non è
estendibile al di fuori del diritto dei consumatori. Propende per il carattere eccezione e residuale del recesso del consumatore anche C. FERRARI, Ipotesi di qualificazione per il “recesso” del consumatore, in Riv. dir. civ., 2010, I, p. 5 (che, molto giustamente, evidenzia una «impressione di
generalità» che, poi, si rivela infondata non appena si passi all’analisi dell’ambito applicativo
del recesso del consumatore). G. D’AMICO, La formazione del contratto, cit., p. 55, sottolinea
come il diritto di pentirsi non sembra estendersi all’ambito dei contratti d’impresa (c.d. terzo
contratto), escludendo che possa essere accostato al recesso di pentimento il procedimento
peculiare di formazione del contratto di franchising di cui alla l. 129/2004.
11
Che presuppone «[…] un’ampia convergenza (di presupposti, obiettive e tecniche di tutela della parte debole) fra contratti del consumatore e contratti simmetrici B2B […]»: così V.
ROPPO, Prospettive del diritto contrattuale europeo. Dal contratto del consumatore al contratto
asimmetrico?, in Corr. giur., 2009, p. 267 ss., in partic. pp. 281-282.
6
2011
to dai contenuti dei contratti, quanto dai modi con cui questi si sono venuti
a formare, mediante il ricorso a tecniche di «seduzione» 12 tali da ridurre, se
non ad azzerare del tutto, quegli spazi di riflessione necessari all’espressione
di un consenso sufficientemente ponderato e genuino.
Sorge una prima questione 13: è vero recesso o, come pure si osserva frequentemente, qualcosa di diverso (e, dunque, da identificare con altra terminologia) dal recesso previsto dal codice civile? Evitando sterili dispute nominalistiche 14 e rinviando oltre per una più approfondita disamina delle tesi
emerse circa la natura di questo rimedio, occorre riconoscere che il recesso
del consumatore è vero recesso, sia pure con tratti suoi propri ed esclusivi, e
comunque tali da collocarlo, nell’ampio quadro dei recessi, in una posizione
di sicura originalità 15: d’altra parte, questo rimedio opera (soprattutto) nell’ambito di un diritto secondo 16 – quello dei consumatori – nei confronti del
quale ogni valutazione di compatibilità concettuale rispetto al diritto (primo) comune rischia di arenarsi, se condotta con approcci eccessivamente
dogmatici, sugli scogli dell’inutilità.
Eppure è vero recesso, non solo e non tanto perché così lo qualifica
espressamente il legislatore [oggi in un codice: art. 64 e ss. c. cons.], quanto
perché del recesso esso ripete la caratteristica ontologica (e strumentale)
12
Di «seduction des consommateurs», rispetto alla quale il recesso rappresenterebbe un’efficace difesa, parla R. BAILLOD, Le droit de repentir, in Rev. trim. dr. civ., 1984, p. 227, il quale tra
l’altro osserva: «Compte tenu des pressions susceptibles de s’exercer de la sorte sur la prise de
décision des consommateurs, et donc les risques d’altération de leur volonté, on pressent
l’utilité que pourrait avoir le droit de repentir, entendu comme le droit de revenir sur son engagement».
13
Già prefigurata da G. ALPA, Jus poenitendi e acquisto di valori mobiliari, in Riv. soc., 1987,
p. 1501 laddove si domandava se il recesso del consumatore fosse un’evoluzione del recesso
tradizionale o una sua mera applicazione pratica.
14
Il recesso del consumatore è stato variamente appellato: è stato chiamato recesso di pentimento, ius (se) poenitendi, diritto di ripensamento, recesso di protezione, recesso penitenziale,
recesso iniziale a seconda dell’opinione che si sia nutrita circa la sua natura e sul suo rapporto
col recesso così come configurato dal codice civile. Preferiamo l’idea che, nei limiti e con le
precisazione di cui si dirà, si tratti effettivamente di un recesso, perché così, e giustamente, lo
chiama il legislatore, cui deve aggiungersi il riferimento al «consumatore» in quanto (solo)
soggetto abilitato ad esercitarlo.
15
Scrive significativamente M. DELLACASA, Il recesso unilaterale, in Tratt. Visintini, I, Inadempimento e rimedi, Cedam, 2009, p. 646 che, nel regolare il recesso di pentimento, «l’ottica
del legislatore speciale è diametralmente opposta rispetto a quella del codificatore».
16
Su cui ancora C. CASTRONOVO, Diritto privato generale e diritti secondi. La ripresa di un
tema, cit., p. 398 ss.
Dottrina
7
fondamentale 17: che l’avente diritto può uscire dal rapporto contrattuale
semplicemente manifestando la propria volontà di avvalersi del rimedio che
gli è concesso dalla legge 18, secondo quel meccanismo proprio dei diritti potestativi 19, categoria alla quale questa forma di recesso, indiscutibilmente, appartiene.
Il recesso di diritto comune, d’altra parte, non è un monolite, bensì un
prisma che mostra facce di diverso colore 20, ma tutte accomunate da una
struttura che continua a recare identici tratti fondamentali: in un quadro così frastagliato, il recesso del consumatore può trovare una sua collocazione
accanto alle altre tipologie di recesso, non casualmente sempre identificate
da un aggettivo 21 che ne sintetizza funzioni e relative caratteristiche.
Se si guarda alle classificazioni tradizionali, si può agevolmente rilevare
come, ben prima della legislazione sui contratti dei consumatori, venisse
identificata una (sorta di) recesso di pentimento già nel diritto comune: la
disciplina di alcuni contratti tipici agevola l’uscita del contraente dal rapporto contrattuale, in situazioni nelle quali, per ragioni di vario ordine, il con17
Sul punto V. SANGIORGI, Recesso, in Enc. giur. Treccani, XXVI, Istituto della Enciclopedia
italiana, 1991, ad vocem, p. 2 ad avviso del quale il recesso recupera unitarietà se lo si considera
come «strumento uniforme attraverso il quale quel potere, ancorato volta per volta a diversi
presupposti, viene fatto valere».
18
Vale la pena di riportare le parole di R. SACCO, La conclusione dell’accordo, in Tratt. Rescigno, a cura di E. Gabrielli, I, Giappichelli, 1999, p. 142: «Giova ricordare che recesso è un’espressione vaga. Si parla correttamente di recesso dalla trattativa; la legge parla di recesso dalla
condotta criminosa. Recedere implica smettere, cessare, il che, talora (ma non sempre), comporterà un atto, necessario per neutralizzare quanto creato in precedenza».
19
Sul recesso come potere/diritto potestativo G. GABRIELLI, Vincolo unilaterale e recesso unilaterale, cit., p. 122 ss.; cfr. sul punto i classici T. TABELLINI, Recesso, Giuffrè, 1962, p. 19 ss. e C.
DONISI, Il problema dei negozi giuridici unilaterali, Jovene, 1972, p. 43, ad avviso del quale il carattere potestativo del recesso risiede anche nella circostanza che al destinatario dell’atto «non
è consentita altra scelta che quella di sottostare agli effetti che ne derivano». Sul ruolo dei diritti potestativi in ambito contrattuale – anche con riferimento agli strumenti di protezione delle
parti deboli – merita segnalazione il recente studio di C. POMART-NOMDEDEO, Le régime juridique des droits potestatifs en matière contractuelle, in Rev. trim. dr. civ., 2010, p. 209 ss., da cui
possono ricavarsi interessanti considerazioni sia sulla tipologia di questi diritti che sul controllo
circa le modalità del loro esercizio da parte dei titolari.
20
Una «figura multiforme», come afferma F. PADOVINI, Il recesso, in Tratt. Rescigno, a cura
di E. Gabrielli, I, Giappichelli, 1999, p. 1246.
21
Come osserva ancora G. GABRIELLI, Vincolo unilaterale e recesso unilaterale, cit., p. 3. Anche G. DE NOVA, Recesso, in Dig. disc. priv., sez. civ., XVI, Utet, 1997, p. 316, identifica almeno
sei funzioni che il recesso, sia legale che convenzionale, può essere chiamato a svolgere.
8
2011
traente non è più interessato alla prosecuzione del rapporto 22. Un diritto
[talvolta impropriamente denominato «revoca» o «rinunzia»] previsto a
favore: del committente nell’appalto (art. 1671 c.c.) e nella commissione (art.
1734 c.c.), del mandante e del mandatario nel mandato (art. 1723 e ss. c.c.),
del mittente nel trasporto di cose (art. 1685 c.c.), del cliente nel contratto
d’opera e con il professionista intellettuale (artt. 2227 e 2237 c.c.), del debitore nella cessio bonorum (art. 1985 c.c.): le differenze rispetto al recesso del
consumatore, a ben vedere, sono tuttavia importanti e, comunque, tali da
escludere che il recesso del consumatore possa collocarsi sic et simpliciter nel
quadro di questa figura particolare di recesso.
Ed infatti nelle situazioni appena menzionate il contraente (non necessariamente il più debole; e non necessariamente una sola parte) che s’avvale
del recesso non lo fa per rimettere in discussione il consenso prestato a suo
tempo – perché, appunto, se ne è «pentito» subito dopo averlo espresso –
ma vuole semplicemente uscire da un rapporto contrattuale sorto (spesso)
da molto tempo, perché sono sopravvenute circostanze tali da aver determinato il venire meno, nel corso dell’esecuzione del contratto, della fiducia
nei confronti dell’altro contraente o che, comunque, hanno reso inconveniente la prosecuzione del rapporto contrattuale 23.
Ma il consenso originario, quando fu espresso, scaturiva da una consapevolezza piena e ben maturata, e diede luogo ad un contratto allora rispondente all’interesse del contraente; ed infatti quando – per il normale sopravvenire di nuovi elementi di valutazione o, in generale, per il semplice mutamento delle condizioni che il trascorrere del tempo spesso porta con sé – il
contraente muta avviso, e recedendo esce dal rapporto contrattuale, egli è
sempre chiamato dalla legge a sopportare le conseguenze restitutorie e/o
più genericamente patrimoniali della propria scelta 24, sotto la forma di in22
Su cui vedasi G. GABRIELLI-F. PADOVINI, Recesso (dir. priv.), cit., in partic. p. 36 ss.
In altre parole, il recesso in questi casi consente alla parte «di liberarsi dal vincolo contrattuale non più rispondente al suo interesse»: così R. TOMMASINI, Codice del consumo e ius
poenitendi, in Il diritto dei consumi, a cura di P. Perlingieri e E. Caterini, Esi, 2007, p. 278.
24
Sul punto si vedano G. GABRIELLI-F. PADOVINI, Recesso (dir. priv.), cit., p. 36 ss.: secondo
questi Autori, le ipotesi di recesso di pentimento previste nel diritto comune dei contratti si
spiegano, essenzialmente, «nella tutela di esigenze che travalicano gli interessi dei singoli». Ed
infatti «l’ordinamento mira ad evitare, attraverso tale strumento, che vengano compiute opere
o servizi dei quali colui stesso che li ha commissionati non ritiene di potersi più giovare». Sul
punto cfr. G. D’AMICO, Formazione del contratto, in Enc. dir., Annali, II, 2, Giuffrè, 2008, in partic. pp. 578-579.
23
Dottrina
9
dennizzi, rimborsi, restituzioni che compaiono quasi sempre nelle menzionate disposizioni che, nel codice civile, autorizzano questa forma di recesso.
Il recesso di cui trattiamo non può essere considerato una mera variante
consumeristica dei recessi di pentimento previsti dal diritto comune dei contratti; è un recesso legale e straordinario per identificare il quale, tra le varie
proposte emerse dalla ricca elaborazione dottrinale, è preferibile utilizzare
una denominazione più semplice e, forse, meno sofisticata, basata sull’unica
vera ed indiscutibile caratteristica di questo rimedio (che, poi, è la premessa
su cui sono costruite le sue proprie originalità): quella di essere un’arma a disposizione di quella parte che possa essere qualificata, in forza dei noti meccanismi definitori, come un «consumatore», che si fronteggia con un «professionista» dalla maggior forza del quale necessita di essere protetto.
Recesso del consumatore, dunque, che, negli ambiti che più avanti saranno oggetto di puntuale identificazione, presenta tratti non propriamente
riconducibili a nessuna delle altre sotto-categorie di recesso rinvenibili nel
diritto comune, e che si caratterizza, oltre che per la sua unilateralità, perché
rappresenta una (sorta di) riparazione in forma specifica di un «danno»
subito da un consumatore nella fase di formazione del contratto, nato se
non con un vero e proprio vizio d’origine [perché servirsi di certe tecniche
di vendita è lecito e non può costituire di per sé ragione per ravvisare gli
estremi di qualche vizio della volontà 25], sotto l’ombra di un inquietante sospetto: pertanto si concede al contraente debole un (generalmente non
troppo lungo) délai de réflection pendente il quale a lui, e solo a lui, è data la
facoltà di liberarsi facilmente del vincolo contrattuale.
Due sono le caratteristiche originali dei recessi del consumatore, che lo
stesso legislatore efficacemente sintetizza quando identifica in che cosa questa categoria di recesso è diversa dalla più generale figura codicistica, nelle
sue pur svariate articolazioni: l’uso reiterato dell’avverbio «senza» – «senza
penalità» e «senza specificarne il motivo»: art. 63, c. 1, c. cons. – fa riferimento proprio alle due qualità che contraddistinguono i recessi del consumatore, entrambe essenziali al perseguimento di quelle multiformi funzioni
che, secondo la dottrina, questo strumento di protezione è destinato a perseguire: la gratuità e la discrezionalità.
25
Tuttavia secondo C. CAMARDI, Tecniche di controllo dell’autonomia contrattuale nella prospettiva del diritto europeo, in Eur. dir. priv., 2008, p. 844 il recesso di pentimento è «tipicamente rivolto a rimuovere un vincolo non assunto con adeguata ponderazione e con funzione simile all’annullamento».
10
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La prima allude al fatto che il consumatore non può essere tenuto a corrispondere alcunché per l’avvenuto esercizio della facoltà lui concessa dal
legislatore (né prima di esercitarlo, né, sotto altre forme, dopo averlo esercitato), salvo sopportare quelle conseguenze restitutorie legate all’eventuale
inizio di esecuzione del contratto.
La seconda allude al fatto, già ricordato poco sopra, che il consumatore
non è tenuto ad esternare la motivazione della sua scelta di recedere (il che
tuttavia non significa, come si vedrà oltre, che questo motivo non possa essere in qualche misura oggetto di apprezzamento da parte del giudice, alla
luce di altri principi che possano eventualmente giustificare una qualche
forma di controllo sul perché il consumatore abbia deciso di recedere).
Gratuità e libertà dalle quali, oltretutto, può farsi derivare il carattere eccezionale che, giustamente, si attribuisce al recesso del consumatore: il legislatore descrive in modo puntuale le situazioni in cui questo rimedio è concesso, identificate orizzontalmente (modi di formazione del contratto) ovvero in ragione dell’oggetto, e ritagliando, in questi contesti, ambiti anche
significativi nei quali, comunque, il recesso non può operare.
Se, d’altra parte, il recesso funge da arma con la quale uno solo dei contraenti può distruggere la forza (di legge) del vincolo contrattuale, è giusto
escludere qualunque forma diretta o indiretta di applicazione del recesso al
di fuori delle fattispecie in cui è previsto; la collocazione in un codice 26 (pur
settoriale) delle relative previsioni, d’altra parte, non giustifica conclusioni
diverse (nel senso, cioè, di sostenere una potenzialità espansiva di questo
rimedio) né, men che meno, è in grado di elevare il recesso al rango di rimedio generale, neppure nel contesto dei soli contratti dei consumatori.
Oltre alle due caratteristiche sopra evidenziate (gratuità, libertà), i recessi dei consumatori ne offrono altre, parimenti importanti, che concorrono,
sia pure in modo meno determinante e più sfumato, a identificarne i tratti
caratteristici: l’irrinunziabilità, che nasce dal normale carattere imperativo
delle disposizioni che proteggono le parti deboli, l’unilateralità, essendo potere attribuito ad uno solo dei contraenti, la formalità, dovendo detto potere
essere esercitato secondo le modalità previste dalla legge, e la tempestività,
perché il contraente che vuole avvalersi di questo rimedio deve farlo, a pena
di decadenza, entro il termine fissato dalla legge.
26
Che pure, certamente, può contribuire a valorizzarne l’importanza e l’impatto applicativo, sull’onda della «forza» sottesa alla parola codice efficacemente identificato come «aulico
nome» (da A. GENTILI, Codice del consumo e ésprit de géométrie, in Contr., 2006, p. 159).
Dottrina
11
2. Regole generali ed ambito applicativo
Con il codice del consumo, la disciplina sui recessi del consumatore, prima sparsa in una pluralità di leggi speciali tutte di matrice comunitaria, viene riaggregata e, per alcuni aspetti, riorganizzata e riordinata, non sempre
con risultati apprezzabili 27: non si estende il diritto di recesso al di là dei casi
in cui era precedentemente previsto 28, ma si tenta una sua «omogeneizzazione normativa» 29 dedicandogli un’intera sezione (la IV: artt. 64-67), nel
quadro del Capo I del Titolo III destinato alle «particolari modalità di conclusione del contratto».
L’ambito applicativo nel quale opera il diritto di recesso a favore del consumatore si individua attraverso il combinato disposto di disposizioni che lo
disegnano in positivo (con norme metatipiche o per ambiti commerciali 30,
ed altre che, con una tecnica per sottrazione, identificano settori esclusi nei
quali il recesso non opera (talvolta per ragioni apprezzabili oggettivamente,
talvolta senza che se ne possano afferrare vere motivazioni).
27
D’altra parte, il codice del consumo sconta la frammentarietà, sfociata talvolta nell’incoerenza, della disciplina che lo ha preceduto: sul punto G. GRISI, Ius poenitendi e tutela del consumatore, cit., pp. 165-166.
28
Prima del codice del consumo – emanato con il d.lgs. 206/2005 – le seguenti fonti disciplinavano recessi a favore dei consumatori: l’art. 18-ter, c. 2, l. 216/1974 (introdotto dalla l.
77/1983, poi sostituito dall’art. 30, c. 6, d.lgs. 58/1998) in materia di fondi comuni di investimento nel mercato mobiliare; d.lgs. 50/1992 (contratti negoziati fuori dai locali commerciali);
d.lgs. 111/1995 (contratti di vendita di pacchetti turistici); d.lgs. 185/1999 (contratti a distanza); d.lgs. 427/1998 (contratti di acquisto di multiproprietà). Storicamente, è in Francia che si
afferma per la prima volta il droit de repentir quale tecnica di protezione dei consumatori nelle
c.d. vendite aggressive: si rinvia, per una ricostruzione delle tappe legislative e dei primi dibattiti dottrinali, a P. MANES, Il diritto di pentimento nei contratti dei consumatori dalla legislazione
francese alla normativa italiana in attuazione della direttiva 85/577, in Contr. impr./Eur., 1996, p.
674 ss.: da questo modello trae spunto la successiva legislazione europea, poi attuata in Italia
con le sopramenzionate leggi speciali (dir. 85/877/CE sui contratti stipulati fuori dai locali
commerciali; dir. 97/7/CE sui contratti a distanza; dir. 94/47/CE sull’acquisto della multiproprietà; dir. 90/314/CE sui contratti d’acquisto di pacchetti turistici).
29
L’espressione è di R. TOMMASINI, Codice del consumo e ius poenitendi, cit., p. 282. Secondo N. ZORZI-GALGANO, Il contratto di consumo e la libertà del consumatore, in Tratt. Galgano,
Cedam, 2012, p. 377: «È così accaduto che sotto questo specifico aspetto il Codice del consumo ha operato più semplicemente quale testo unico, ha cioè coordinato discipline prima separatamente dettate, rinunziando alla formulazione dei principi generali regolatori del diritto
di ripensamento in tutti i contratti intercorrenti tra un professionista e un consumatore».
30
Come osserva G. GITTI, La “tenuta” del tipo contrattuale e il giudizio di compatibilità, in
Riv. dir. civ., 2008, I, in partic. p. 497 ss.
12
2011
Ne deriva un quadro piuttosto frastagliato e non privo di asperità, ma
grosso modo così sintetizzabile: contratti negoziati fuori dai locali commerciali, esclusi 31 i settori individuati dall’art. 46 c. cons. [contratti sui beni immobili; contratti sui beni alimentari e di uso domestico; contratti di assicurazione; contratti relativi a strumenti finanziari; contratti il cui oggetto non
supera l’importo di 26 Euro]; contratti a distanza, esclusi i settori individuati dall’art. 55 c. cons. [contratti sui generi alimentari; contratti di fornitura di
servizi relativi ad alcuni settori determinati, quando l’esecuzione è iniziata,
d’accordo con il consumatore, prima dello scadere del termine per recedere]; contratti di commercializzazione a distanza di servizi finanziari, esclusi i
settori individuati dall’art. 67-duodecies, c. 5 [nei quali il prezzo può fluttuare
durante il periodo di recesso].
Nell’individuazione dei settori esclusi, l’art. 48 c. cons. sembra occupare
una posizione di maggiore rilievo: si mette fuori gioco il recesso per i contratti riguardanti i servizi, e relativamente alle prestazioni che siano già state
eseguite.
La ratio della norma – che, pur logisticamente collocata nella disciplina
dei contratti conclusi fuori dai locali commerciali, esprime un principio di
sicura valenza generale 32 – risiede nell’evitare l’ingiusto arricchimento che
potrebbe derivare al consumatore-recedente dall’irripetibilità delle prestazioni di servizio [contrapposta alla normale ripetibilità dei beni, che, pendente il termine per recedere, siano già stati consegnati al consumatore]; il
recesso, tuttavia, non è radicalmente escluso – come la fuorviante rubrica della disposizione indurrebbe a pensare – ma piuttosto limitato quanto ai suoi
effetti: che non si riverberano sulle prestazioni già eseguite (per le quali il
consumatore è tenuto a pagare il previsto corrispettivo), ma che si possono
esplicare su quelle che ancora debbono eseguirsi, impedendole 33.
31
Le esclusioni forniscono un ulteriore argomento a conferma del carattere eccezionale del
recesso del consumatore: in tal senso si può vedere C. FERRARI, Ipotesi di qualificazione per il
“recesso” del consumatore, cit., pp. 4-5.
32
D’altra parte, la regola posta dall’art. 48 c. cons. è coerente con quella generalmente prevista dall’art. 1458 c.c. a tenore del quale nei contratti ad esecuzione continuata o periodica,
l’effetto della risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite: sulla ratio della previsione
basta vedere G. OPPO, I contratti di durata, in Obbligazioni e negozio giuridico. Scritti giuridici,
Cedam, 1992, III, p. 200 ss. (già in Riv. dir comm., 1943, I, p. 143 ss. e ibidem, 1944, I, p. 18 ss.).
33
Se fosse diversamente – se, cioè, si ritenesse il recesso non fosse possibile per tutti i contratti aventi ad oggetto le prestazioni di servizio – la normativa italiana penalizzerebbe il consumatore in modo eccessivo o, comunque, contemplerebbe un’ipotesi di esclusione non previ-
Dottrina
13
Una regola ripetuta nella disciplina dei contratti conclusi a distanza, laddove l’art. 55, c. 2, lett. a) impedisce il recesso quando, nei contratti aventi
ad oggetto servizi, l’esecuzione sia già stata iniziata con il consenso del consumatore: sebbene la ratio sia sostanzialmente la medesima di quella sottesa
al citato art. 48, la regola appare diversa e, per certi aspetti, più radicale. Se il
consumatore acconsente all’esecuzione del contratto, il recesso non è più
possibile; diversamente – se, cioè, il professionista inizia a fornire il servizio
senza consenso del fruitore – il consumatore è ancora titolato ad avvalersi
del diritto di recedere 34: non dissimile quanto previsto dall’art. 67-duodecies
che, relativamente ai servizi finanziari conclusi a distanza, esclude il recesso
ove il contratto sia stato eseguito interamente da entrambe le parti, e su richiesta scritta del consumatore durante il decorso del termine per recedere.
Da una parte, questo consenso all’esecuzione sembra recare un valore di conferma di quello originario, e, sia pure indirettamente, cancella o almeno riduce i dubbi sulla sua ponderatezza, e, con questi, il diritto di recesso che
poteva servire a porvi riparo; dall’altra, impedisce che il professionista esegua in fretta al solo scopo di impedire o rendere non operativo il recesso di
cui il consumatore intenda avvalersi.
Le tre disposizioni appena menzionate – che meritavano, nell’operazione
codificatoria o nella successiva integrazione, di essere coordinate e, probabilmente, ricollocate 35 – lasciano però aperto un dubbio: se il consenso
sta dalla dir. 1985/877/CE: in tal senso G. DE CRISTOFARO, Il “Codice del consumo”, in Nuove
leggi civ. comm., 2006, p. 783, nota 101.
34
Anche se, in questo caso, si pone il problema della ripetibilità delle prestazioni già eseguite, che, anche giusto quanto previsto dall’art. 48 c. cons., dovrebbero considerarsi intangibili: in
tal senso F. RENDE, Il recesso comunitario dopo l’ultima pronuncia della Corte di Giustizia, cit., p.
551. Contra G. DE CRISTOFARO, Contratti a distanza e norme a tutela del consumatore, in Studium iuris, 1999, p. 1199, nota 53: secondo questo Autore, ove il professionista abbia iniziato
ad eseguire senza il consenso del consumatore, non può esigere da quest’ultimo nulla a titolo di
compenso per l’attività svolta; ciò in quanto «se così non fosse, d’altra parte, il consumatore
non sarebbe pienamente libero di decidere se recedere o meno dal contratto; la sua decisione
sarebbe infatti pesantemente condizionata dalla prospettiva di dovere, in caso di recesso, pagare la (parte di) prestazione già eseguita».
35
Nulla sembra tornare quanto a collocazione, articolazione e coordinamento delle disposizioni che, nel codice del consumo, sono dedicate alle regole speciali sul recesso nei contratti
aventi ad oggetto prestazioni di servizio: l’importanza della materia, anche sul piano dell’effettività della tutela, avrebbe dovuto consigliare un’attenzione maggiore, che forse poteva indurre
(almeno) ad una ricollocazione delle disposizioni oggi sparse qua e là nella sezione del codice
dedicate alle regole generali sul recesso del consumatore. Sul punto, la dottrina è talmente concorde che sono da ritenersi superflue citazioni di questo o di quell’Autore.
14
2011
all’esecuzione, nel contesto dei contratti conclusi a distanza, impedisce il diritto di recesso, deve ritenersi che, per analogia, il medesimo effetto impeditivo possa estendersi anche ai contratti conclusi fuori dai locali commerciali,
quando hanno ad oggetto servizi che il professionista inizia a fornire, col
consenso del consumatore, durante la pendenza del termine per recedere?
Non sembra potersi fornire una riposta positiva all’interrogativo appena
formulato 36: la lacuna, nell’art. 48 c. cons., semplicemente non c’è e le situazioni contemplate dalle due norme, pur se accostabili, sono diverse e non
sovrapponibili.
L’art. 48 s’occupa di contratti conclusi fuori dai locali commerciali; l’art.
55 s’occupa di contratti conclusi a distanza. Nel primo caso, il «contatto»
personale tra il consumatore e il professionista, pur realizzandosi in luoghi
tendenzialmente anomali, effettivamente avviene e non raramente il consumatore è in grado di «vedere» le merci che acquista o, comunque, di apprendere direttamente dal professionista le caratteristiche del servizio oggetto del contratto; nel secondo caso, invece, questo «contatto» non si verifica per nulla, poiché le parti negoziano servendosi di tecniche comunicative spersonalizzanti e non vendendosi mai: non è dunque scandaloso che il
legislatore, per i contratti a distanza aventi ad oggetto la prestazione di servizi, intenda rafforzare la tutela offerta al consumatore, prevedendo che occorra il suo consenso per iniziare l’esecuzione durante la pendenza del termine per recedere (e che solo per effetto di questo consenso il recesso possa
essere messo fuori gioco). Tutela che subisce un ulteriore rafforzamento
nell’ambito dei contratti a distanza sui servizi finanziari, ove il consenso del
consumatore deve essere anche scritto, e l’esecuzione, per impedire il recesso, deve essere stata portata a compimento da entrambe le parti.
Se in un primo gruppo di situazioni, dunque, il legislatore ammette il recesso dettando una disciplina che, orizzontalmente, investe tutti i tipi contrattuali, purché sorti mediante il ricorso ad una determinata tecnica di contrattazione, in un secondo gruppo di casi il consumatore può avvalersi
d’analoga facoltà anche in relazione a contratti non conclusi attraverso tecniche aggressive o insidiose di acquisizione del consenso: nel contesto del
codice del consumo – e specificatamente nella parte dedicata ai singoli contratti – il recesso del consumatore è previsto per i contratti d’acquisto di multiproprietà (art. 73 c. cons.) e per i contratti relativi a servizi turistici (artt.
36
Sostenuta da B. COLOSIMO, Art. 48, in Codice del consumo. Commentario, a cura di G. Vettori, Cedam, 2007, pp. 453-455.
Dottrina
15
90 e 91 c. cons.), nell’ambito dei quali, tuttavia, il recesso costituisce essenzialmente una reazione all’esercizio di uno ius variandi da parte del venditore 37. Fuori dal codice, un recesso a favore del consumatore è oggi previsto
nella nuova disciplina sul credito al consumo (d.lgs. 141/2010).
Il quadro sopra tratteggiato, pur evidenziando qualche problema di
coordinamento, valorizza la scelta effettuata nel codice del consumo 38: gli
artt. 64-67 unificano la disciplina del recesso nei contratti conclusi a distanza e fuori dai locali commerciali, e appaiono idonei a proiettarsi fuori dai loro confini fino a rappresentare qualcosa di assai simile ad una disciplina generale del recesso del consumatore 39, applicabile ogni qualvolta sia previsto
dalla legge, dentro o fuori il codice del consumo.
Ciò appare sostenibile non solo per la prescelta organizzazione dell’impianto del codice – nell’ambito del quale si è voluto dedicare una Sezione
proprio ad una serie di regole comuni sul diritto di recesso – ma anche in
virtù dei frequenti richiami che possono rinvenirsi ad essa sia tra le disposizioni sui contratti di acquisto di multiproprietà (art. 75, c. 1, c. cons.) sia tra
quelle dedicate ai contratti di acquisto di pacchetti turistici (art. 82 c. cons.)
che nella recente disciplina sul credito al consumo 40. Quindi al di fuori di
37
Fuori dal contesto del diritto dei consumatori, una facoltà di recesso assai simile si trova nel
contratto di assicurazione. L’art. 177 del codice delle assicurazioni private (d.lgs. 209/2005) dispone che il contraente assicurato possa recedere entro trenta giorni dalla conclusione del contratto, diritto del quale deve essere informato dall’impresa assicuratrice. Il recesso non ha effetto retroattivo, nel senso che al contraente va restituito il premio dedotta la parte relativa al periodo in cui il contratto ha avuto effetto.
38
In dottrina si registra una larga condivisione delle disposizioni che il codice del consumo
dedica al recesso, che, solitamente, sono identificate tra le più importanti innovazioni di questo
nuovo prodotto legislativo: per tutti G. DE CRISTOFARO, Il “Codice del consumo”, cit., p. 786 ss.,
che, tra l’altro, significativamente afferma: «[…] la nuova regolamentazione costituisce un significativo progresso nella direzione di una (ri)costruzione organica e sistematica del diritto
dei (contratti dei) consumatori» (ivi, p. 788).
39
Secondo M. LIBERTINI, Alla ricerca del “diritto privato generale” (Appunti per una discussione), in Riv. dir. comm., 2006, I, p. 545, può rappresentare «parte generale» del diritto quella
che si propone di costruire «[…] una trama di regulae juris generali […] da applicare in funzione residuale tutte le volte in cui l’insieme dei principi e delle fonti speciali applicabili ad una
certa situazione lasci spazi di incertezza e giustifichi il richiamo a tali regole residuali».
40
Che, indirettamente, conferma la generalità degli artt. 64-67 c. cons. laddove, sia pure
parzialmente, sente di doverne escludere l’applicazione ai contratti di credito al consumo (nuovo
testo dell’art. 125-ter, c. 5, t.u.b., così come modificato dal d.lgs. 141/2010): ciò facendo, si
conferma che nel codice del consumo si può trovare una disciplina generale e residuale che può
trovare applicazione a tutte le figure di recesso del consumatore.
16
2011
quell’ambito applicativo, di per sé già assai ampio, costituito dai contratti
conclusi a distanza e fuori dai locali commerciali.
La vocazione generale degli artt. 64-67 c. cons. – sicuramente rafforzata
dall’inserimento, agli artt. 67-bis e ss., delle regole sulla commercializzazione
a distanza dei servizi finanziari 41 – trova, quale unico limite, una valutazione
di compatibilità rispetto alla disciplina diversa e speciale che, di volta in volta, il legislatore intenda dettare per singole fattispecie in cui si concede al
consumatore la facoltà di recedere; in assenza della quale, l’interprete può
rinvenire negli artt. 64-67 sicure fonti in cui reperire la disciplinare generale
(e residuale) del recesso del consumatore, coerentemente, d’altra parte, sia
con quella «tensione al generale» 42 giustamente ravvisata nel codice del
consumo che con quell’ambizione all’ordine e all’unità che è programma e
scopo di ogni codificazione (generale o settoriale che sia) 43.
3. Le ragioni di un’ambiguità
La disputa sulla natura giuridica del recesso del consumatore si gioca essenzialmente su un dilemma: il rimedio opera, come vero recesso, sugli effetti di un contratto già concluso 44 ovvero – come recesso sui generis o meritevole di denominazioni diverse – interviene su un contratto in via di formazione 45 che verrebbe a perfezionarsi, in buona sostanza, solo se, spirato il
41
Gli artt. 67-bis ss. sono stati introdotti dal d.lgs. 221/2007 (sul senso di questa scelta
legislativa si rinvia a C. FERRARI, Ipotesi di qualificazione per il “recesso” del consumatore, cit.,
pp. 29-30).
42
Evidenziata da V. ROPPO, Parte generale del contratto, contratti del consumatore e contratti
asimmetrici (con postilla sul “terzo contratto”), cit., p. 675 ss.
43
Il legislatore può porre fuori gioco la disciplina generale sul recesso contenuta nel codice
del consumo, avendo però in questo caso l’onere di escluderne espressamente l’applicazione.
Nega che nel nostro ordinamento esista una parte generale della disciplina del recesso di pentimento – evidenziando il fallimento, sul punto, del Codice del consumo – G. DE CRISTOFARO,
La disciplina unitaria del “diritto di recesso”: ambito di applicazione, struttura e contenuti essenziali,
in I principi del diritto comunitario dei contratti. Acquis communautaire e diritto privato europeo,
a cura di G. De Cristofaro, Giappichelli, 2009, p. 370.
44
Come sostiene la dottrina prevalente, della quale possono considerarsi significativi
esempi: P. SIRENA, Effetti e vincolo, cit., pp. 119-120; V. ROPPO, Il contratto, cit., p. 554; G. GABRIELLI-F. PADOVINI, Recesso (dir. priv.), cit., p. 38 ss.; M.C. CHERUBINI, Tutela del “contraente
debole” nella formazione del consenso, cit., p. 73 ss.
45
Tra coloro che collocano il recesso del consumatore nel quadro del procedimento di for-
Dottrina
17
termine, il consumatore ha deciso di non avvalersi della facoltà di ritrattare?
Due approcci [uno effettuale; l’altro procedimentale] che muovono da
opposti angoli di visuale e che fanno registrare, al loro interno, varianti d’ogni
genere: v’è chi suggerisce di guardare a questi contratti come negozi soggetti
ad una condizione sospensiva legale consistente nel mancato esercizio di un
diritto di un recesso atipico 46, o, in alternativa, esposti alla condizione risolutiva legale dell’esercizio del recesso 47; chi propone un accostamento alla vendita con riserva di (non) gradimento 48 o alla tecnica di formazione dei contratti con obbligazioni del solo proponente 49; chi prospetta di ricostruire il
mazione del contratto, sia pure secondo schemi ed argomenti diversi, si possono identificare:
D. VALENTINO, Recesso e vendite aggressive, Esi, 1996, p. 155 ss.; G. BENEDETTI, La formazione
del contratto e l’inizio di esecuzione dal Codice civile ai Principi del diritto europeo dei contratti, in
Eur. dir. priv., 2005, p. 337 e, più recentemente, C. PILIA, Accordo debole e diritto di recesso,
Giappichelli, 2008, in partic. p. 593 ss., ad avviso del quale col recesso il consumatore è chiamato ad esprimere un nuovo consenso che si determina secondo tre possibili direttrici (ivi, p.
594): «[…] nella prima il consumatore esercita il diritto di recesso manifestando una volontà
liberatoria, in tale momento la relativa sequenza si esaurisce e il procedimento si estingue senza
perfezionarsi: nella seconda, invece, il consumatore decide di non esercitare il diritto di recesso, allo spirare del periodo utile si integra una manifestazione tacita di volontà che completa la
relativa sequenza, e, quindi, sviluppa ulteriormente il procedimento di formazione del contratto a distanza; nella terza, infine, il consumatore manifesta altrimenti la sua volontà contrattuale,
in termini favorevoli e positivi, e in tale modo la relativa fase si completa e l’intero procedimento si perfeziona». Sembra collocarsi in questo quadro, sia pure con toni più sfumati, anche G.
D’AMICO, Formazione del contratto, cit., pp. 578-580.
46
Tesi formulata, se pure con riferimento alla disciplina dell’offerta al pubblico di valori
mobiliari, da V. ROPPO, Offerta al pubblico di valori mobiliari e tecniche civilistiche di protezione
dei risparmiatori-investitori, in Giur. it., 1983, IV, c. 208 e ID., Investimento in valori mobiliari
(contratto di), in Contr. impr., 1986, p. 271 ss.
47
Come recentemente sostiene C. FERRARI, Ipotesi di qualificazione per il “recesso” del consumatore, cit., p. 22 ss. (che propone di qualificare il recesso come condizione risolutiva meramente potestativa unilaterale).
48
In tal senso P. SIRENA, Effetti e vincolo, cit., p. 120. L’idea, tuttavia, che la clausola «salvo
approvazione della casa» non impedisca la conclusione del contratto (e che, dunque, la successiva non approvazione costituisca un recesso da parte del venditore) è tuttavia contrastata da
quella dottrina che, invece, assegna alla clausola un valore procedimentale, nel senso ch’essa
impedisce il perfezionamento del contratto che interviene, appunto, solo con l’approvazioneaccettazione: in tal senso A.M. BENEDETTI, Autonomia privata procedimentale. La formazione
del contratto fra volontà e legge, Giappichelli, 2002, in partic. p. 355 ss.
49
Così N. ZORZI-GALGANO, Lo jus se poenitendi del consumatore, in Vita not., 2007, p. 576
ss. (nel caso sarebbe il mancato recesso del consumatore a tenere il posto del mancato rifiuto
del contraente ex art. 1333 c.c.). Della stessa Autrice vedasi Il contratto di consumo e le libertà del
consumatore, cit., in partic. p. 443 ss.
18
2011
recesso del consumatore come un’opzione il cui mancato esercizio comporta
la (definitiva) conclusione del contratto 50; chi preferisce ragionare in termini
di revoca, soprattutto quando il consumatore è autorizzato a «recedere» da
una precedente dichiarazione contrattuale, comunque denominata 51 e chi,
infine, vi vede un «coelemento essenziale del consenso e fonte di qualificazione accertativa dello stesso», il cui esercizio determinerebbe non l’inefficacia, ma la nullità del contratto, privato così di un suo requisito strutturale 52.
L’imbarazzo classificatorio, d’altra parte, è alimentato proprio dalla configurazione normativa del recesso che quasi evoca le più variegate ricostruzioni, fornendo argomenti ora a favore dell’una ora a favore dell’altra: basti
considerare, d’altra parte, che l’art. 64, c. 1, c. cons. (come pure il successivo
art. 66) riferisce il rimedio sia ai contratti, com’è normale, che alle proposte
contrattuali, com’è meno normale; e che l’art. 67-duodecies, c. 4, avente ad
oggetto l’acquisto a distanza di servizi finanziari, riproduce la discussa formula della «efficacia sospesa» dei relativi contratti durante la decorrenza
del termine previsto per l’esercizio del diritto di recesso 53. Due norme che, è
evidente, non possono che (ri)fomentare dubbi e alimentare nuove ricostruzioni teoriche e che, forse, avrebbero dovuto essere in qualche misura
precisate, se non riformulate, al momento della codificazione.
L’approccio pragmatico proprio della legislazione di derivazione comunitaria consiglia di ridimensionare la portata del dilemma, muovendo da due
constatazioni: da una parte, come si è già evidenziato, il recesso del consu50
In tal senso V. SANGIORGI, Recesso, cit., p. 1. La tesi, originariamente riferita all’art. 18-ter,
c. 2, l. 216/1974, è stata riproposta con riferimento alla disciplina sulla vendita stipulata fuori
dai locali commerciali da M. GORGONI, Sui contratti negoziati fuori dai locali commerciali alla
luce del d. lg. n. 50/1992, in Contr. impr., 1993, p. 152 ss.
51
Sui problemi posti dal «recesso dalla proposta» può vedersi in luogo di tanti D. VALENTINO, Recesso e vendite aggressive, cit., p. 201 ss. (vi si tornerà infra, par. 4).
52
Così V. SCALISI, Nullità e inefficacia nel sistema europeo dei contratti, in Eur. dir. priv., 2001,
p. 495 (tesi ripresa ed approfondita da F. RENDE, Il recesso comunitario dopo l’ultima pronuncia
della Corte di Giustizia, cit., p. 540 ss.). Contra R. TOMMASINI, Codice del consumo e ius poenitendi, cit., p. 287. In Francia prevale l’idea che il termine per recedere appartenga alla formazione del contratto che, se il diritto viene esercitato, perde un suo elemento essenziale meritando una conseguente sanzione di nullità (così Cass., 25 février 2010, in Contrats-ConcurrenceConsommation, 2010, V, p. 34 ss.).
53
Formula che si ritrova anche nell’art. 30, c. 6, d.lgs. 58/1998 (testo unico dell’intermediazione finanziaria) a proposito dei contratti di collocamento di strumenti finanziari o di gestione
conclusi fuori sede e che si ritrovava nell’art. 18-bis, l. 216/1974, così come modificato dalla l.
77/1983.
Dottrina
19
matore – vero recesso – presenta caratteri sicuramente peculiari, e certamente non sovrapponibili né riconducibili ad una di quelle variegate figure di recesso che il nostro ordinamento conosce e che la dottrina, assai puntualmente, ha provveduto a catalogare con estrema precisione. Dall’altra, non si
può ignorare il contesto nel quale il recesso del consumatore viene a collocarsi, nonché la sua matrice che, notoriamente, deve essere ricercata nelle
fonti comunitarie, e nello spirito che le anima: garantire al consumatore un
elevato ed effettivo livello di protezione.
Se, com’è vero, il recesso di cui trattiamo nasce (almeno nei casi più significativi) dalla necessità di garantire la genuinità del consenso del consumatore, rispetto a tecniche che ne mettono a rischio l’effettività e la ponderatezza, appare naturale che il controllo sul procedimento acquisti qui una
rilevanza analoga a quella riservata al controllo sul contenuto per tutti i contratti dei consumatori (art. 33 e ss. c. cons.): si vuole infatti individuare
strumenti di reazione rispetto a tecniche di captazione del consenso estremamente veloci e sfuggenti o, comunque, tali da ridurre la capacità del contraente debole di valutare con serenità le offerte che gli vengono sottoposte.
Un primo obiettivo delle norme speciali, oggi codificate, è quello di neutralizzare gli effetti – assunti come deleteri – del ricorso a tecniche formative
(aggressive perché estremamente) semplificate che, pur ove vi sia stato consenso del consumatore al loro utilizzo, rendono il professionista non solo in
grado di «imporre» contratti indesiderati, ma anche arbitro del contenuto
(e spesso della modifica) dei relativi regolamenti negoziali.
Ed allora, nel contesto dei contratti conclusi dal consumatore, l’accordo
perde quella flessibilità che lo contraddistingue nel diritto comune 54; qui,
invece, esso appare piuttosto «guidato» dal legislatore 55, quasi che la parte
debole possa trovare nelle norme, e negli strumenti di protezione da queste
regolati, una «via di fuga» sia rispetto a consensi dati (ed estorti) con troppa leggerezza, sia rispetto a regolamenti troppo squilibrati a favore del professionista. Se il mercato fallisce – perché l’agente non è posto in grado di
54
Sulla flessibilità del concetto di «accordo» nel diritto comune la dottrina fa oggi registrare una grande comunanza di vedute: per tutti V. ROPPO, Il contratto, cit., p. 95 ss.; And. D’ANGELO, La formazione del contratto mediante proposta e accettazione, in Tratt. Roppo, I, Formazione, a cura di C. Granelli, Giuffrè, 2006, in partic. p. 6 ss.; A.M. BENEDETTI, Autonomia privata
procedimentale. La formazione del contratto fra volontà e legge, cit., p. 21 ss.
55
Si può vedere, in questo senso, A.M. BENEDETTI, Autonomia privata procedimentale. La
formazione del contratto fra volontà e legge, cit., p. 262 ss.
20
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compiere una scelta razionale – il diritto restituisce la vista ad un consumatore «cieco», che ritrova quella luce necessaria a meditare con serenità sulla
convenienza dell’affare non solo (e forse non tanto) fidando sul diritto ad
essere informato, quanto avvalendosi proprio del diritto di recesso che gli è
conferito in via straordinaria dal legislatore 56.
Nel «nuovo paradigma contrattuale 57» che i contratti dei consumatori
vanno a delineare, la regolamentazione dei procedimenti di formazione dei
contratti sembra svolgere un ruolo di primaria importanza: rispetto al modello codicistico rappresentato dagli artt. 1326 e ss. c.c., nell’ambito dei contratti dei consumatori il legislatore impone procedimenti pesanti e aggravati, servendosi di oneri di forma, obblighi informativi, avvisi di ricevimento
ecc.; ma, per converso e senza che ciò sembri muovere in una direzione contraddittoria, il ruolo della «formazione del contratto» ne esce fortemente
ridimensionato, perché il vincolo contrattuale può essere facilmente rimosso mediante l’esercizio di un recesso talmente particolare da potersi attivare,
nel senso che si vedrà oltre, anche nei confronti di semplici proposte.
Un panorama di fronte al quale l’interprete è apparso sovente sgomento,
costretto a non indifferenti e spesso un po’ tortuosi sforzi ricostruttivi 58,
minati dall’ansia di mantenere l’unità del sistema e delle sue categorie.
La sdrammatizzazione del momento di conclusione del contratto nasce
da una giusta preoccupazione: quella di combattere la semplificazione procedimentale – fatta di trappole destinate a catturare un consumatore distratto – mediante un insieme combinato di armi. Se la ponderazione non è stata
effettivamente salvaguardata dagli oneri formali o dall’assolvimento agli obblighi informativi, il recesso (che, nell’ottica legislativa, può apparire anche
56
In quest’ottica A. ZOPPINI, Funzioni del diritto privato e tecniche di regolazione del mercato,
in Funzioni del diritto privato e tecniche di regolazione del mercato, a cura di M.R. Maugeri e A.
Zoppini, Il Mulino, 2009, p. 17.
57
Su cui ancora V. ROPPO, Contratto di diritto comune, contratto del consumatore e contratto
con asimmetria di potere contrattuale: genesi e sviluppo di un nuovo paradigma, cit., p. 23 ss.
58
Cfr. sul punto G. CHINÉ, Il diritto comunitario dei contratti, in Il diritto privato dell’Unione
europea, a cura di A. Tizzano, I, in Tratt. Bessone, XXVI, Giappichelli, 2000, p. 607 il quale sottolinea come gli atti normativi di derivazione comunitaria abbiano investito, con effetti spesso
rivoluzionari, istituti e principi tradizionali del nostro sistema giuridico. L’impatto della normativa europea sulla formazione del contratto, e sulle sue regole, è oggetto delle riflessioni di N.
SCANNICCHIO, Consumatori e conclusione dei contratti a distanza tra ordinamenti nazionali, direttive comunitarie e diritto comparato, in Riv. crit. dir. priv., 1994, p. 3, in partic. p. 91 ss. (che si ritrovano anche in ID., Il perfezionamento del contratto, in Diritto Privato Europeo, a cura di N. Lipari, II, Cedam, 1997, p. 553 ss.).
Dottrina
21
come una estrema ratio) potrà consentire al consumatore di liberarsi, e facilmente, dal (pur sorto) vincolo contrattuale indesiderato.
Ed allora possiamo tornare al dilemma iniziale, provando a scioglierlo con
quel tanto di pragmatismo necessario a guardare serenamente alla legislazione consumeristica, senza deformarne le caratteristiche per la sola ansia di salvaguardare concetti o principi (presuntivamente) riconducibili al sistema.
Ritornano gli evocati interrogativi: è realistico, data l’ampia discrezionalità propria del recesso attribuito al consumatore, sostenere che il vincolo
sia sorto – e dunque il contratto sia concluso – al momento dello scambio
dei consensi, ovvero è più corretto spostare in avanti – più precisamente: al
momento in cui scade il termine per recedere – il momento della conclusione del contratto? Se è vero che, nei contratti con i consumatori, «il recesso immotivato e gratuito infligge al vincolo un colpo molto più duro di quello portato da un recesso immotivato e oneroso» 59, non è forse possibile ritenere che, prima del recesso, nessun vincolo effettivo sia ancora sorto e
nessun contratto si sia effettivamente concluso?
L’opzione interpretativa che, per salvare la forza del vincolo contrattuale,
sposta in avanti il momento formativo è emersa innanzi tutto nella dottrina
d’oltralpe 60; lì, è noto, la sacralità del consensualismo faceva mal digerire
agli interpreti una ritrattazione del consenso a così breve distanza dalla
(presunta) formazione del vincolo; ed allora si è proposta una lettura che,
salvando la forza del vincolo, consentisse di rinviare la formazione del contratto allo spirare del termine per l’esercizio del droit de se repentir, prospettando una conclusione in due tempi del procedimento di formazione del
contratto 61; un approccio che non ha mancato di fare sentire la propria in59
Parole di V. ROPPO, Il contratto, cit., p. 522: questo Autore, pur cogliendo in più d’una
occasione la forza dell’impatto dei recessi di pentimento sul vincolo contrattuale, concepisce il
diritto di pentirsi come la facoltà di porre nel nulla un contratto già concluso.
60
In tal senso, per tutti, possono vedersi D. MAZEAUD, in Faut-il recodifier le droit de la consommation, sous la direction de D. Fenouillet et F. Labarthe, Economica, 2002, p. 94 («Qui ne se
repent, consent!») e Y. PICOD-H. DAVO, Droit de la consommation, Armand Colin, 2005, p. 115
ss. In giurisprudenza, tuttavia, di preferisce l’idea che il droit de repentir intervenga su un contratto
già concluso: Cass., 10 juin 1992, in Contrats-Concurrence-Consommation, 1992, p. 195.
61
Per un’analisi più compiuta di tale teoria si richiama R. BAILLOD, Le droit de repentir, cit.,
p. 227 e pp. 233-236. In taluni casi, il legislatore francese sembra aver seguito l’impostazione di
cui al testo, prevedendo che il consenso, cioè il procedimento formativo del contratto, diventi
definitivo solo allo spirare del termine per recedere. Si veda, ad esempio, l’art. 20, l. 1010/1989
sulla vendita di immobili ad uso abitativo (su cui si rinvia a P. MANES, Il diritto di pentimento nei
contratti con i consumatori dalla legislazione francese alla normativa italiana in attuazione della
22
2011
fluenza anche su molti autori italiani che, con ricostruzioni di grande suggestione, si sono occupati del tema.
Al mistero del recesso – e agli interrogativi in cui esso può essere condensato – deve essere fornita una soluzione che non può prescindere dal dato normativo interno: se, per effetto dell’esercizio di questo rimedio, «le parti
sono sciolte dalle rispettive obbligazioni» (art. 66 c. cons.) e se, a seguito
dello scioglimento, sorgono le relative obbligazioni restitutorie (art. 67 c.
cons.), pare evidente che il potere attribuito al consumatore interviene su
un contratto perfetto ed efficace, il cui vincolo, per quanto precario, sorge al
momento della conclusione del contratto.
Non convince, dunque, l’idea secondo la quale la previsione di un recesso sí largo e discrezionale renda l’iter formativo ancora aperto, o esposto ad
ulteriori conferme, espresse o tacite, del consenso inizialmente fornito: esso
si è invero chiuso quando il consumatore ha sottoscritto l’offerta, comunque essa fosse denominata ed in qualsiasi documento si trovasse inserita
(modulo, nota d’ordine, ordine, ecc.). Al disequilibrio procedimentale si ritiene di sopperire rendendo forte il contraente debole, trasformato in arbitro del destino del contratto già concluso che: o continuerà a produrre i suoi
effetti anche dopo lo spirare del termine per recedere o cesserà di produrli,
se il consumatore deciderà di avvalersi del diritto potestativo che la legge,
eccezionalmente, gli conferisce.
L’alternativa effetti/procedimento appare, dunque, ingannevole: il recesso del consumatore agisce sugli effetti, ma reagisce a fattori turbativi che risalgono al procedimento di formazione del contratto.
4. Segue: recesso e proposte contrattuali
L’aver previsto un recesso dalle «proposte» ha sempre alimentato l’approccio procedimentale o, in alternativa, ha indotto a ravvisarvi un fraintendimento o un vero e proprio errore di qualificazione, sulla scorta della facile
osservazione che da una proposta non si recede, semmai la si revoca, con
tempi ed effetti previsti dall’art. 1328 c.c.
direttiva 85/577, cit., pp. 678-679). Contro l’idea di un contratto a formazione progressiva (il
cui consenso si consoliderebbe all’atto dello spirare del termine per recedere) si veda però lo
studio di J.P. PIZZIO, Un apport législatif en matière de protection du consentement. La loi du 22
décembre 1973 et la protection du consommateur sollicité a domicile, in Rev. trim. dr. civ., 1976, pp.
83-86. Sullo stato del dibattito nella dottrina francese può vedersi C. FERRARI, Ipotesi di qualificazione per il “recesso” del consumatore, cit., p. 16 ss.
Dottrina
23
Tenendo conto quanto già evidenziato al paragrafo che precede (ed, in
particolare, richiamata l’idea che, nel contesto della contrattazione del consumatore, il legislatore costruisce in funzione protettiva un accordo contrattuale pesante e poco flessibile), l’uso (che qualcuno indica come) disinvolto
di categorie che, nel diritto comune, hanno significati ed usi applicativi diversi e più precisi, può trovare una diversa spiegazione alla quale non è sicuramente estraneo quello spirito pragmatico che contraddistingue la legislazione di matrice comunitaria.
L’autonomia privata – qui da intendersi più che altro come manifestazione del potere della professionista di predisporre le tappe del procedimento formativo – può essere tentata di predisporre congegni tali da ridimensionare il peso di quei rimedi (in particolare proprio del recesso, ma anche
degli obblighi di informazione) che, dal punto di vista del professionista, gettano incertezza sulla stabilità del contratto appena concluso.
Si tratta, allora, di valutare quale sia il grado di resistenza dei procedimenti di formazione dei contratti con i consumatori così come legislativamente configurati, rispetto a variazioni che vi si introducano (per effetto di
scelte della parte forte) essenzialmente per aggirare i congegni protettivi legalmente previsti a favore della parte debole: accade sovente, nella prassi,
che al consumatore sia fatta sottoscrivere dal venditore una nota d’ordine, o
un ordine, o altro documento analogo, sottoscrivendo i quali, sul piano strettamente formale, questi assume la veste di «proponente» nei confronti del
professionista «accettante»; il testo di queste note d’ordine, tuttavia, è integralmente redatto dal professionista su moduli prestampati e il consumatore non fa altro che scegliere (da cataloghi, da siti commerciali, ecc.) il bene cui è interessato (e del quale non è in grado di determinare nulla, se non
il tipo prescelto), sottoscrivendo «alla cieca» il modulo che gli è presentato
dal venditore. Cosa «propone», davvero, il consumatore?
Si può allora comprendere come la ratio delle previsioni che dispongono
un recesso da «proposte» contrattuali sia sostanzialmente quella di sanzionare d’irrilevanza l’inversione dei ruoli che le parti (quella forte in particolare)
hanno effettuato (quella debole sostanzialmente subìto) nel procedimento di
formazione del contratto, chiamando «proposta» (e proponente) quella che,
sul piano sostanziale, costituisce in realtà un’accettazione (e un oblato) 62.
62
In altri casi, il legislatore mostra parimenti di concepire come irrilevanti le qualificazioni
che le parti hanno operato degli atti formativi del contratto, quando, essenzialmente, dette qualificazioni abbiano il solo scopo di aggirare gli strumenti di protezione delle parte debole: per
24
2011
Si può concludere, in breve, che la sostanza di ciò che è concretamente
accaduto prevale sulla forma scelta dall’operatore commerciale (quand’anche
col consenso del consumatore) per dare corpo giuridico all’operazione economica realizzata in concreto; e la sostanza è che quasi mai il consumatore è
davvero il proponente dell’affare, la cui promozione è sempre o quasi sollecitata dal venditore 63.
L’inversione dei ruoli naturalmente assunti dalle parti nella formazione
del contratto, quindi, è operazione inibita all’autonomia privata 64, almeno
in tutti i casi in cui ciò incide su un procedimento formativo rigido, o, ancora, ove essa miri ad aggirare le facoltà concesse dalla legge alla parte debole
del rapporto. La semplificazione (che qui è strumento di elusione di meccanismi legali di protezione del consumatore) non può trovare spazio operativo 65: ed allora il recesso – anche se formalmente riferito ad una «proposta» –
vale come normale recesso da un contratto che, in realtà, si è già perfezionato quando il consumatore ha sottoscritto l’ordine-accettazione consegnato
o diversamente trasmesso al professionista.
Ma quand’anche si trattasse di vera e propria proposta, le conclusioni
non sembrano sostanzialmente mutare: il consumatore potrà in questo caso
decidere se avvalersi della sua ordinaria facoltà di revoca (se ancora possibile e salvo non si trattasse di una proposta irrevocabile) ovvero se attivare
immediatamente il «recesso» che il legislatore gli concede in via eccezional’individuazione di queste situazioni si può vedere A.M. BENEDETTI, Autonomia privata procedimentale. La formazione del contratto fra volontà e legge, cit., p. 400 ss.
63
La sottoscrizione apposta dal consumatore, allora, potrebbe valere come accettazione:
l’idea era già stata abbozzata da P.M. PUTTI, in Commentario Decreto Legislativo 15 gennaio
1992, n. 50, a cura di N. Lipari, in Nuove leggi civ. comm., 1993, p. 213.
64
Non è necessario sanzionare in qualche modo la scelta del venditore o delle parti. La qualificazione formale data dalle parti, o dal venditore, è solamente priva di valore e il giudice, in
caso di controversia, è autorizzato a non tenerne conto. Sul punto cfr. V. ZENO ZENCOVICH, Il
diritto europeo dei contratti (verso la distinzione fra “contratti commerciali” e “contratti dei consumatori”), in Giur. it., 1994, IV, cc. 59-60: «A ben vedere tale facoltà di recesso si trasforma in
facoltà di revocare la propria proposta, indipendentemente da qualsiasi clausola pattizia contraria, ogni qualvolta (e si tratta di casi assai frequenti) la procedura di conclusione del contratto sia strutturata, almeno formalmente, come se la proposta provenisse dal consumatore». Ancora, sul punto, A.M. BENEDETTI, Autonomia privata procedimentale. La formazione del contratto
fra volontà e legge, cit., pp. 402-403.
65
Ha ragione, quindi, V. ROPPO, Il contratto, cit., pp. 202-203 quando pone in discussione
quelle «scelte di autonomia privata che sovvertano lo schema legale per la conclusione del contratto, ispirato all’ordine pubblico di protezione in favore di uno dei contraenti. Il sovvertimento spesso consiste nell’artificiosa inversione – fra le parti – dei ruoli di proponente e di oblato».
Dottrina
25
le 66, anche rispetto all’atto prenegoziale da lui sottoscritto e proprio con il
precipuo scopo di garantire il suo interesse ad uscire immediatamente dall’affare, senza formalità e senza patire obblighi restitutori 67 (ma soprattutto:
senza i limiti e con le possibili conseguenze che, ordinariamente, l’art. 1328
c.c. ricollega alla revoca della proposta contrattuale 68, ancorché non ancora
perfezionatosi l’accordo che ne costituisce la veste formale 69).
66
Ovvero, ancora, se attendere che il contratto si sia perfezionato e, successivamente, avvalersi del recesso nel termine che decorrerà dalla data di conclusione del contratto. L’art. 64 c.
cons., d’altra parte, riferisce il recesso al contratto «e» alle proposte contrattuali. In tal senso
C. FERRARI, Ipotesi di qualificazione per il “recesso” del consumatore, cit., p. 14.
67
In tal senso anche C. PILIA, Accordo debole e diritto di recesso, cit., p. 606 ss.: il recesso, in
questi casi, si affianca alla revoca, sovrapponendosi ad essa senza però metterla del tutto fuori
gioco.
68
La revoca ex art. 1328 c.c., infatti, può comportare un obbligo di indennizzo ove l’altra
parte abbia intrapreso in buona fede l’esecuzione del contratto e, in linea teorica, anche un obbligo risarcitorio per responsabilità precontrattuale ex art. 1337 c.c.: sul punto D. VALENTINO,
Recesso e vendite aggressive, cit., p. 204 e M.C. CHERUBINI, Tutela del “contraente debole” nella
formazione del consenso, cit., p. 93. Minori le differenze tra i due istituti per quanto alle regole di
efficacia, perché sia il recesso che la revoca della proposta sono entrambi atti recettizi; solo che
il primo deve semplicemente pervenire al professionista, senza che questo debba accadere entro
termini specifici (affinché sia tempestivo, basta che sia spedito entro il termine per recedere),
mentre la seconda deve pervenire all’oblato prima che il proponente abbia notizia dell’accettazione. Sul carattere recettizio della revoca della proposta Cass., 16 maggio 2001, n. 6323, in
Nuova giur. civ. comm., 2001, I, p. 364, con nota di A.M. BENEDETTI, La revoca della proposta tra
spedizione e ricezione: la Cassazione cambia rotta.
69
Discutere se si tratti di vero recesso o se vada chiamato diversamente è operazione sostanzialmente inutile: il legislatore sceglie di utilizzare il termine recesso e l’interprete, in questo caso, dovrebbe prendere atto che, limitatamente al caso dei consumatori e per ragioni che
nascono dalla necessità di reprimere ogni elusione dei diritti a questo concessi, il recesso può
essere riferito anche ad una proposta contrattuale non ancora consolidata in contratto. Di uso
«atecnico» del termine recesso parla P. MANES, Il diritto di pentimento nei contratti dei consumatori dalla legislazione francese alla normativa italiana in attuazione della direttiva 85/577, cit.,
p. 693; secondo D. VALENTINO, Recesso e vendite aggressive, cit., p. 194, il legislatore comunitario è più attento ai problemi di effettività che a quelli di qualificazione del diritto. Individua una
«prima categoria» di recesso, proprio con riferimento ai casi in cui il consumatore può esercitare questo diritto prima della conclusione del contratto, C. FERRARI, Ipotesi di qualificazione per il
“recesso” del consumatore, cit., 14.
26
2011
5. Nuove prospettive: recesso del consumatore, direttiva 2011/83/UE
sui diritti dei consumatori e disciplina generale del contratto
La frammentarietà e l’incertezza delle regole che governano il recesso del
consumatore vanno ascritte non solamente a storture della (ri)codificazione (forse, davvero, un’occasione mancata 70), ma scontano la derivazione da
una legislazione comunitaria settoriale, troppo affastellata ed in preda a non
dissimili difetti. A questo si aggiunge un’inevitabile difficoltà di conciliare lo
spirito che anima il diritto dei consumatori (che lotta contro la disparità dei
contraenti) e quello che anima il diritto comune dei contratti (che poggia sulla parità tra i contraenti): una convivenza difficile, che rischia di entrare in
crisi come si constata facilmente quando si deve ricorrere al diritto generale
dei contratti per governare gli effetti del recesso o le sue (possibili) conseguenze restitutorie, indennitarie o risarcitorie 71.
Un ritorno all’unità che investe contestualmente due ambiti: quello del
riordino del diritto comunitario dei consumatori – anche con la prospettiva
della costruzione di un diritto europeo dei contratti 72 – e quello del rapporto tra il diritto settoriale e quello generale (o, se vogliamo, tra codici di settori e codice civile).
Sul primo versante, un’armonizzazione del diritto comunitario in materia è sembrata un’operazione difficile, se non impossibile 73, e la stessa Corte
di Giustizia non sempre è stata in grado 74 di contribuire al superamento di
difficoltà ed incoerenze di un acquis communautaire affetto, probabilmente,
da qualche insuperabile vizio genetico 75.
70
Come rileva con fermezza di convinzioni G. DE CRISTOFARO, Il “Codice del consumo”:
un’occasione perduta?, in Studium iuris, 2005, pp. 1161-1163.
71
Sul punto si rinvia ad A.M. BENEDETTI, Recesso del consumatore, cit., in partic. p. 971 ss.
72
Sul diritto europeo dei contratti illuminanti le pagine di U. BRECCIA, Contratto e comune
quadro europeo. Note introduttive, in AdC 2009, p. 3 ss.
73
Un certo pessimismo traspare nel saggio di M. LOOS, Rights of Withdrawal, in Modernising and Harmonising Consumer Contract Law, G. Howells-R. Schulze (eds.), Sellier, 2009, pp.
276-277.
74
Sul ruolo della Corte di Giustizia nell’armonizzazione del diritto comunitario illuminanti
le riflessioni di R. ZIMMERMANN, Le droit comparé et l’européanisation du droit privé, in Rev. trim.
dr. civ., 2007, p. 455 s.
75
Cfr. sul punto E. BARGELLI, Gli effetti del recesso nei principi acquis del diritto comunitario
dei contratti, in Studi in onore di Giorgio Cian, I, Cedam, 2010, p. 119 ss. Sui principi acquis sul
recesso di pentimento vedasi per tutti G. DE CRISTOFARO, La disciplina unitaria del “diritto di
recesso”: ambito di applicazione, struttura e contenuti essenziali, cit., p. 371 ss.
Dottrina
27
Con la direttiva 2011/83/UE – nata da una proposta dall’iter lungo e
sofferto presentata nell’ottobre 2008 76 – l’Europa avvia una (quasi) codificazione dell’acquis in materia di consumatori, anche con lo scopo di correggere quelle contraddizioni e disarmonie proprie delle direttive comunitarie che,
nel tempo, sono andate accumulandosi in questo settore 77: ne è scaturita
una direttiva che, almeno in parte, risolve alcuni dei problemi sorti dall’articolazione e dall’applicazione delle discipline europee emanate in passato.
Il termine per recedere (unificato in quattordici giorni) viene fatto decorrere non più dalla conclusione del contratto (salvo che per il caso di contratti a distanza aventi ad oggetto servizi), ma dalla firma del buono d’ordine
o, nel caso di vendita di beni, dal momento in cui il consumatore ne è entrato in possesso (art. 9); se il consumatore non è stato informato del suo diritto di recedere, il termine s’allunga a dodici mesi dalla scadenza del periodo
di recesso iniziale (art. 10, n. 1). Si fa ordine sulle modalità per l’esercizio
del diritto (identificando anche moduli predeterminati che il consumatore è
chiamato a compilare se intende avvalersi del diritto), mentre per quanto attiene agli effetti si conferma che, prima del recesso, il contratto è pienamente efficace e può essere eseguito. L’uso dei beni medio termine è ammesso, e
il consumatore «è responsabile unicamente della diminuzione del valore
dei beni risultante da una manipolazione dei beni diversa da quella necessaria per stabilire la natura, le caratteristiche e il funzionamento dei beni»
(art. 14, n. 2). Nel contesto della direttiva, trova una qualche conferma il
dato dell’ambiguità del recesso: l’art. 12, infatti, qualifica il recesso sia come
atto che blocca gli effetti di un contratto già concluso, sia come atto che interrompe il procedimento di un contratto in via di formazione, quando al
consumatore è stata fatto sottoscrivere un’offerta 78. Quel che conta è il risultato che questo strumento consente di conseguire: quello di difendere il
consumatore da un contratto (divenuto) indesiderato; in vista di questo
risultato, garantito dal diritto a protezione del contraente debole, le denominazioni degli atti conclusi dal consumatore sono irrilevanti. Se c’è un
76
Proposta di dir. 8 ottobre 2008 COM(2008) 614 (reperibile sul sito dell’Unione Europea).
Sugli scopi della direttiva vedasi anche N. ZORZI-GALGANO, Il contratto di consumo e la libertà del consumatore, cit., p. 427 ss.
78
Art. 12: «L’esercizio del diritto di recesso pone termine agli obblighi delle parti: a) di eseguire il contratto a distanza o negoziato fuori dei locali commerciali; oppure b) di concludere
un contratto a distanza o negoziato fuori dei locali commerciali nei casi in cui un’offerta sia stata fatta dal consumatore».
77
2.
28
2011
impegno (definitivo, provvisorio, procedimentale, pienamente contrattuale),
il consumatore può dissolverlo servendosi del suo diritto di recesso.
Sul secondo versante, d’orizzonte più nazionale, è utile muovere dal dato
normativo: l’art. 1469-bis (unico sopravvissuto al codice del consumo, tra le
norme che, nel codice civile novellato, erano dedicate alle clausole abusive)
non sembra riesca a risolvere a pieno il problema del rapporto tra il diritto
dei consumatori e il diritto generale dei contratti: esso dispone l’applicazione della disciplina generale dei contratti nella misura in cui non sia derogata
dal codice del consumo o da altre disposizioni più favorevoli al consumatore (e l’art. 38 c. cons. va anche oltre, nella misura in cui dispone l’applicazione
«per quanto non previsto» delle disposizioni del codice civile tout court).
Questa integrazione bilaterale – che assegna alle disposizioni generali sul
contratto il ruolo di legislazione di default dei contratti dei consumatori –
salvaguarda, sulla carta, l’unità del sistema e la centralità di cui ancora gode
il codice civile: tuttavia se è vero che «i contratti dei consumatori sono prigionieri di una connotazione di soggettività, dissonante dalla dimensione
tendenzialmente universalistica che è propria del codice civile» 79, l’applicazione integrativa e residuale della disciplina generale del contratto, e dei
suoi principi, deve essere quantomeno subordinata ad una valutazione di
compatibilità rispetto ad una disciplina, quella dei contratti dei consumatori, che risponde a logiche e finalità differenti [protettive o della persona che
consuma o del mercato che fallisce, a seconda del punto di vista]. Il richiamo alle «disposizioni più favorevoli al consumatore», se davvero esprime
un principio generale 80, potrebbe funzionare anche come parametro offerto
all’interprete che, ove chiamato in via integrativa ad applicare il diritto generale dei contratti ai rapporti di consumo, deve applicarne le regole ed i principi tenendo conto del favor accordato dall’ordinamento al consumatore.
Ed è anche per tale ragione che, per fare solo un esempio, la buona fede
– calata nella dimensione consumeristica – non può funzionare esattamente
79
Come scrive V. ROPPO, Parte generale del contratto, contratti del consumatore e contratti
asimmetrici (con postilla sul “terzo contratto”), cit., p. 693. Contra P. SIRENA, Il codice civile e il diritto dei consumatori, in Nuova giur. civ. comm., 2005, II, p. 277 ss. (che ravvisa invece un’ampia
compatibilità tra la disciplina dei contratti del consumatori e la disciplina generale del contratto, nella quale la prima può essere facilmente integrata).
80
Come sostiene U. BRECCIA, La parte generale fra disgregazione del sistema e prospettive di
armonizzazione, in Riv. crit. dir. priv., 2008, p. 375; cfr., nel medesimo senso, F. GALGANO, Un
Codice per il consumo, in Vita not., 2007, p. 53.
Dottrina
29
come in quella generalista 81, perché nella sua applicazione concreta deve
tenere conto anche della qualità soggettiva delle parti, e del carattere squilibrato del rapporto contrattuale nel quale la buona fede è chiamata ad operare.
In effetti, nei contratti dei consumatori, il riequilibrio del rapporto asimmetrico è affidato a rimedi legali, tra i quali il recesso, che una disciplina costruita
su norme imperative plasma in modi molto differenti da quelli utilizzati per i
rimedi d’identica denominazione regolati nei rapporti non squilibrati. Ed allora se il diritto privato europeo può porre problemi che «non possono essere affrontati e risolti con lo strumentario usuale» 82 – ed il caso del recesso del
consumatore attesta ampiamente questa constatazione – il ruolo integrativo
della disciplina generale del contratto deve svolgersi non per automatismi, ma
sulla base di valutazioni calibrate sull’asimmetria che contraddistingue il rapporto tra consumatore e professionista 83.
81
Come si può constatare quando, ad esempio, un consumatore solleva l’eccezione di inadempimento: si può vedere, su questo, A.M. BENEDETTI, L’eccezione di inadempimento del (e
contro il) contraente debole, in Obbl. contr., 2010, p. 566 ss.
82
Parole di A. GENTILI, Invalidità e regole dello scambio, in Le forme della nullità, a cura di S.
Pagliantini, Giappichelli, 2009, p. 232 (cui si rinvia per una bella ricostruzione del senso e dell’originalità del diritto privato europeo).
83
Sui problemi dell’asimmetria contrattuale basta il richiamo a V. ROPPO, Contratto di diritto comune, contratto del consumatore, contratto con asimmetria di potere contrattuale: genesi e sviluppi di un nuovo paradigma, in ID., Il contratto del duemila, Giappichelli, 2011, p. 65 ss., cui può
aggiungersi, in una prospettiva più generale, A.M. BENEDETTI, Contratto asimmetrico, in Enc.
dir., Annali, V, Giuffrè, 2012, in corso di pubblicazione.
GIOVANNI DE CRISTOFARO
LA DIRETTIVA 2011/83/UE
SUI «DIRITTI DEI CONSUMATORI»:
AMBITO DI APPLICAZIONE E DISCIPLINA
DEGLI OBBLIGHI INFORMATIVI PRECONTRATTUALI
SOMMARIO:
1. La direttiva 2011/83/UE: osservazioni introduttive. – 2. L’ambito di applicazione della direttiva. – 2.1. Limiti soggettivi. Le nozioni di consumatore e professionista. – 2.2. I limiti oggettivi: le
diverse estensioni dell’ambito di applicazione delle singole discipline inserite nella direttiva. – 2.3.
Le fattispecie contrattuali a cui si applica la disciplina della direttiva: contratti di vendita, contratti
di servizi, contratti di somministrazione di gas, acqua energia elettrica e riscaldamento e contratti
relativi a contenuti digitali. I contratti sottratti all’applicazione dell’intera direttiva (art. 3, par. 3).
– 2.4. I presupposti in presenza dei quali un contratto deve considerarsi concluso «a distanza» o
«fuori dei locali commerciali». Le innovazioni apportate dalla nuova direttiva all’ambito di operatività della disciplina dei contratti «a distanza» e «fuori dei locali commerciali». – 3. Gli obblighi informativi precontrattuali: premessa introduttiva. – 3.1. Le innovazioni introdotte dalla nuova direttiva.– 3.2. Regole comuni: il termine entro il quale gli obblighi informativi debbono essere
adempiuti e la «chiarezza e comprensibilità» delle informazioni. – 4. Gli obblighi informativi
gravanti sui professionisti che propongono ai consumatori di concludere contratti non qualificabili né come «contratti a distanza» né come «contratti fuori dei locali commerciali». – 4.1. Ambito di operatività dell’obbligo informativo. – 4.2. Il contenuto degli obblighi di informazione. –
4.3. L’inadempimento dell’obbligo informativo e le sue conseguenze: in generale. – 4.4. Segue:
l’inadempimento dell’obbligo di mettere a disposizione del consumatore informazioni concernenti elementi essenziali o accessori del regolamento negoziale destinato a disciplinare il rapporto
contrattuale. – 5. Gli obblighi informativi gravanti sui professionisti che propongono ai consumatori di concludere contratti «a distanza» o «fuori dei locali commerciali». –5.1. I contenuti degli
obblighi informativi gravanti sui professionisti che propongono ai consumatori di concludere
contratti fuori dei locali commerciali: gli spazi di discrezionalità concessi ai legislatori nazionali. –
5.2. La vincolatività giuridica delle informazioni fornite dal professionista anteriormente alla manifestazione, da parte del consumatore, della volontà di concludere il contratto: il par. 5 dell’art. 6
* Professore ordinario di Istituzioni di diritto privato nell’Università di Ferrara. Il saggio è
destinato agli Studi in onore del Prof. Giovanni Gabrielli.
Dottrina
31
della direttiva 2011/83/UE. – 5.3. Le conseguenze del mancato o inesatto adempimento degli
obblighi informativi precontrattuali nei contratti «a distanza» e «fuori dei locali commerciali».
1. La direttiva 2011/83/UE: osservazioni introduttive
Con l’approvazione, da parte del Parlamento europeo e del Consiglio,
della direttiva 2001/83/UE sui «diritti dei consumatori» 1, può considerarsi conclusa la prima fase del processo di ammodernamento e completamento della disciplina europea dei contratti dei consumatori, avviatosi con l’approvazione della direttiva 2002/65/CE sulla commercializzazione a distanza dei servizi finanziari ai consumatori 2 e proseguito con la direttiva
2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti
dei consumatori nel mercato interno 3, la direttiva 2008/48/CE sui contratti
di credito ai consumatori 4 e la direttiva 2008/122/CE sulla tutela dei consumatori per quanto riguarda taluni aspetti dei contratti di multiproprietà,
1
Direttiva 2011/83/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2011, «sui
diritti dei consumatori», recante modifica della direttiva 93/13/CEE del Consiglio e della direttiva 1999/44/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e che abroga la direttiva
85/577/CEE del Consiglio e la direttiva 97/7/CE del Parlamento europeo e del Consiglio (in
GUUE n. L 304 del 22 novembre 2011, p. 64). Per un primo commento v. N. REICH, Variationen des Verbraucherkaufrechts in der EU, in Europäische Zeitschrift für Wirtschaftsrecht, 2011, p.
736 ss.; V.J. STABENTHEINER-V. CAP, Die neue Verbraucherrechterichtlinie. Werdegang, Geltungsbereich, “klassisches” Verbraucherschutzrecht, in Österreichische Juristen-Zeitung, 2011, p.
1045 ss.; V.J. STABENTHEINER-V. CAP, Die neue Verbraucherrechterichtlinie. Neuerungen zum
allgemeinen Vertragsrecht, Regelungsspielräume der Mitgliedstaaten, Umsetzung, in Österreichischer Juristen-Zeitung, 2012, p. 53 ss.; S. MAZZAMUTO, La nuova direttiva sui diritti del consumatore, in Eur. dir. priv., 2011, p. 861 ss.; I. RIVA, La direttiva di armonizzazione massima sui diritti
dei consumatori, o almeno ciò che ne resta, in Contr. Impr./Eur., 2011, p. 754 ss.
2
La prima direttiva di armonizzazione «completa» dei diritti nazionali dei Paesi membri
adottata dal legislatore UE in materia di contratti dei consumatori.
3
Che ha armonizzato in modo «completo» le discipline nazionali concernenti le pratiche
commerciali rivolte alla promozione di beni o servizi offerti a consumatori o comunque connesse a rapporti contrattuali fra professionisti e consumatori, circoscrivendo ai soli messaggi
pubblicitari finalizzati alla promozione di beni o servizi offerti in via esclusiva a professionisti
l’ambito di operatività della disciplina UE (di armonizzazione minimale) della pubblicità ingannevole, ora confluita nella direttiva 2006/114/CE.
4
Che ha abrogato e sostituito la direttiva (di armonizzazione minimale) 87/102/CEE del
22 dicembre 1986, relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e
amministrative degli Stati membri in materia di credito al consumo.
32
2011
dei contratti relativi ai prodotti per le vacanze di lungo termine e dei contratti di rivendita e di scambio 5.
Secondo il disegno originario della Commissione 6, questa nuova direttiva avrebbe dovuto abrogare ben 4 direttive europee di armonizzazione «minimale» adottate negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, e segnatamente: la
direttiva 85/577/CEE per la tutela dei consumatori in caso di contratti negoziati fuori dei locali commerciali; la direttiva 93/13/CEE sulle clausole
abusive nei contratti stipulati con i consumatori, la direttiva 97/7/CE sui
contratti conclusi dai consumatori mediante tecniche di comunicazione a
distanza, la direttiva 99/44/CE sulla vendita dei beni di consumo e sulle garanzie ad essi relative. Negli intendimenti della Commissione, le discipline
di armonizzazione «minimale» contenute in queste quattro direttive
avrebbero dovuto essere integralmente sostituite da nuove discipline – arricchite, integrate ed ammodernate – di armonizzazione «completa» delle
legislazioni nazionali dei Paesi membri, ai quali sarebbe stata in tal modo del
tutto preclusa la possibilità, in sede di attuazione, di discostarsi dal tenore e
dal contenuto dei precetti dettati dal nuovo provvedimento UE, ancorché in
funzione di un incremento e di un miglioramento del livello di tutela assicurato ai consumatori dalle nuove direttive.
Il disegno riformatore ideato dalla Commissione ha tuttavia suscitato
forti critiche e considerevoli perplessità, sia a livello di organi dell’UE 7, sia
nella dottrina europea 8, sia soprattutto all’interno degli Stati membri. L’im5
Che ha abrogato e sostituito la direttiva 94/47/CE del 26 ottobre 1994, concernente la
tutela dell’acquirente per taluni aspetti dei contratti relativi all’acquisizione di un diritto di godimento a tempo parziale di beni immobili.
6
V. la Proposta di direttiva sui diritti dei consumatori presentata dalla Commissione UE l’8
ottobre 2008, in COM(2008) 614 def.
7
Cfr. ad es. i Pareri fortemente critici nei confronti della Proposta di direttiva presentata
dalla Commissione, espressi rispettivamente dal Comitato delle Regioni nella sessione del 2122 aprile 2009 (in GUUE n. C 200 del 25 agosto 2009, p. 76) e dal Comitato economico e sociale nella sessione plenaria del 15 e 16 luglio del 2009 (in GUUE n. C 317 del 23 dicembre
2009, p. 54).
8
V. i contributi inseriti nei volumi collettanei: G. HOWELLS-R. SCHULZE (a cura di), Modernising and Harmonising Consumer Contract Law, Sellier European Law Publishers, 2009; B.
JUD-C. WENDEHORST (a cura di), Neuordnung des Verbraucherprivatrechts in Europa?, Manz,
2009; H. SCHULTE-NÖLKE-L. TICHY (a cura di), Perspectives for European Consumer Law. Towards a Directive on Consumer Rights and Beyond, Sellier European Law Publishers, 2010; M.
STÜRNER (a cura di), Vollharmonisierung im Europäischen Verbraucherrecht?, Sellier European
Law Publishers, 2010; H. EIDENMÜLLER-F. FAUST-H. GRIGOLEIT-N-JANSEN-G. WAGNER-R.
Dottrina
33
postazione originariamente adottata dalla Commissione è stata così abbandonata dal Consiglio, che nell’«Orientamento generale» assunto nel gennaio del 2011 9 ha stralciato dal testo della proposta la materia delle clausole
abusive e della vendita di beni di consumo ed ha circoscritto l’ambito di
operatività del provvedimento 10 alle sole aree tematiche dei contratti conclusi a distanza e fuori dei locali commerciali, mantenendo – con riferimento alla regolamentazione di tali fattispecie – il principio dell’armonizzazione
«completa» ma contemporaneamente riducendo la quantità di «aspetti»
regolamentati e introducendo una considerevole serie di eccezioni a tale
principio, onde riservare agli Stati membri margini più ampi di discrezionalità in merito alla regolamentazione di taluni profili in merito ai quali si era
riscontrata l’impossibilità di pervenire all’adozione di soluzioni condivise.
La soluzione di compromesso elaborata dal Consiglio ha finito per essere
accolta anche dal Parlamento europeo – che pure in prima battuta aveva approvato, ancorché con una nutrita serie di emendamenti, la Proposta presentata dalla Commissione 11 – che nel giugno del 2011 ha adottato 12 in
ZIMMERMANN, Revision des Verbraucher-acquis, Mohr Siebeck, 2011. Cfr. altresì i saggi di H.W.
MICKLITZ-N. REICH, Crónica de una muerte anunciada: The Commission Proposal for a «Directive on consumer rights», in Common Market Law Review, 2009, pp. 471-519; K. TONNER-M.
TAMM, Der Vorschlag einer Richtlinie über Rechte der Verbraucher und seine Auswirkungen auf das
nationale Verbraucherrecht, in JuristenZeitung, 2009, p. 277 ss.; M. ARTZ, Die “Vollständige Harmonisierung” des Europäischen Verbraucherprivatrechts, in Zeitschrift für Gemeinschaftsprivatrecht, 2009, p. 171 ss.; ID., Vorschlag für eine vollharmonisierende Horizontalrichtlinie zum Verbraucherrecht, in Vollharmonisierung im Privatrecht, a cura di B. Gsell e C. Herrestahl, Mohr
Siebeck, 2009, p. 209 ss.; B. GSELL, Vollharmonisiertes Verbraucherkaufrecht nach dem Vorschlag
für eine Horizontalrichtlinie, ivi, p. 219 ss.; C. CASTETS-RENARD, La proposition de directive relative aux droits de consommateurs et la construction d’un droit européen des contrats, in Recueil
Dalloz, 2009, p. 1158 ss.; T. REVET-J. ROCHFELD-C. PÉRÈS, La communautarisation des sources
du droit – De l’harmonisation maximale – Proposition de directive-cadre du Parlement européen et
du Conseil du 8 octobre 2008, in Revue des Contrats, 2009, p. 11 ss.; S. WHITTAKER, Unfair
Contract Terms and Consumer Guarantees: the Proposal for a Directive on Consumer Rights and
the Significance of “Full Harmonisation”, in European Review of Contract Law, 2009, p. 223 ss.; P.
ROTT-E. TERRYN, The Proposal for a Directive on Consumer Rights: No Single Set of Rules, in
Zeitschrift für europäisches Privatrecht, 2009, p. 456 ss.; J. SMITS, Full Harmonization of Consumer Law? A Critique of the Draft Directive on Consumer Rights, in European Review of Private
Law, 2010, p. 5 ss.; E. HONDIUS, The Proposal for a European Directive on Consumer Rights: A
Step Forward, in European Review of Private Law, 2010, p. 103 ss.
9
Riunione del Consiglio del 24 gennaio 2011 (16933/10).
10
O meglio, come si vedrà infra, par. 2, della maggioranza delle disposizioni inserite nel
provvedimento.
11
In occasione della seduta plenaria del 24 marzo 2011 (P7/TA/2011/116).
34
2011
prima lettura un testo in larga misura corrispondente a quello licenziato dal
Consiglio nell’Orientamento generale del gennaio del 2011, testo che è stato
successivamente discusso e definitivamente approvato dal Consiglio il 25
ottobre del 2011.
Ancorché la sua portata ed il suo impatto innovativo si siano ridotti a seguito dello stralcio della disciplina delle clausole abusive e della vendita dei
beni di consumo, la direttiva 2011/83/UE sui diritti dei consumatori è e
rimane un provvedimento di straordinaria rilevanza e di grande interesse,
configurandosi come una tappa di importanza cruciale nell’evoluzione del
diritto europeo dei contratti in generale e dei contratti dei consumatori in
particolare, e ciò per almeno quattro ordini di ragioni.
In primo luogo, perché contiene una disciplina «positiva», organica e
connotata da alcuni profili di forte innovatività, degli obblighi di informazione precontrattuale gravanti sui professionisti che offrono beni (mobili) o
servizi (non finanziari) ai consumatori, non limitandosi a regolamentare gli
obblighi informativi gravanti sui professionisti che propongono ai consumatori di concludere contratti «a distanza» o «fuori dei locali commerciali»
(artt. 6-8) ma regolando anche gli obblighi informativi gravanti sui professionisti che propongono ai consumatori di concludere contratti non qualificabili come «a distanza» né come «fuori dei locali commerciali» (art. 5).
In secondo luogo, perché reca una disciplina unitaria, profondamente
rinnovata ed arricchita nei contenuti e nelle soluzioni, dello ius poenitendi
spettante al consumatore che conclude contratti a distanza e fuori dei locali
commerciali (artt. 9-16).
In terzo luogo, perché nel Capo IV («Altri diritti del consumatore»)
della nuova direttiva si rinvengono, accanto a talune disposizioni volte a tutelare il consumatore nei confronti dell’imposizione abusiva e/o occulta di
spese ingiustificate o sproporzionate da parte dei professionisti (artt. 19, 21
e 22), due disposizioni di fondamentale importanza (rispettivamente concernenti l’obbligazione di consegna e il passaggio del rischio: art. 18 e art.
20), che hanno essenzialmente la funzione di integrare e completare la disciplina (rimasta inalterata) dei contratti per la fornitura di beni mobili («di
consumo») inserita nella direttiva 99/44/CE.
In quarto luogo, perché l’attuazione negli Stati membri di questa nuova
direttiva costituirà un cruciale banco di prova per il nuovo approccio regolamentare adottato dall’Unione Europea, basato sul principio dell’armoniz12
Risoluzione legislativa del 23 giugno 2011 (P7/TA/2011/0293).
Dottrina
35
zazione completa ma nel contempo aperto a deroghe, eccezioni e limitazioni di tale principio, che valutate nella loro globalità consentono ed impongono realisticamente di discorrere di un’armonizzazione completa «temperata» delle normative nazionali.
In questo contributo soffermeremo la nostra attenzione in particolare
sull’ambito di applicazione della direttiva 2011/83/UE e sui profili innovativi e problematici della disciplina degli obblighi informativi precontrattuali.
2. L’ambito di applicazione della direttiva
2.1. Limiti soggettivi. Le nozioni di consumatore e professionista
Sotto il profilo soggettivo, l’ambito di operatività di tutte le disposizioni
inserite nella nuova direttiva incontra il medesimo limite. Ciascuna di esse
trova infatti applicazione soltanto a contratti conclusi da un «consumatore» con un «professionista» con i quali il secondo si impegna a fornire al
primo, a fronte di un corrispettivo pecuniario, un bene o un servizio.
Sono pertanto sottratti all’intera direttiva i contratti conclusi fra parti
qualificabili entrambe come «consumatori» ovvero fra parti entrambe qualificabili come «professionisti», e sono altresì ad essa sottratti i contratti
che un «consumatore» concluda con un «professionista» impegnandosi
nei confronti di quest’ultimo a fornire un bene o a prestare un servizio.
Le nozioni di «consumatore» e «professionista» vengono entrambe
fatte oggetto di apposite definizioni normative (contenute nei nn. 1 e 2
dell’art. 2 della direttiva), redatte con modalità pienamente corrispondenti a
quelle utilizzate dal legislatore europeo in altre, precedenti direttive di tutela
del consumatore. Sotto questo profilo non si riscontrano dunque, a prima
vista, novità significative.
Merita tuttavia, in primo luogo, di essere segnalata la necessità di non attribuire rilevanza alcuna alla differente formulazione delle due definizioni.
Soltanto nella versione italiana del provvedimento, infatti, del consumatore
si afferma che è la persona fisica che «agisce per fini che non rientrano nel
quadro della sua attività ...», mentre del professionista si afferma (più semplicemente) che è la persona fisica o giuridica che «agisce nel quadro della
sua attività ...», senza fare esplicito riferimento alle finalità perseguite e inducendo a ritenere che la nozione di professionista sia essenzialmente connotata da oggettività, laddove nella nozione di consumatore parrebbe prevalere la dimensione soggettiva. Nelle altre versioni linguistiche, invero, sia il
36
2011
consumatore che il professionista vengono definiti come soggetti che agiscono per fini/scopi (for purposes, à des fins, zu Zwecken, con un propósito),
rispettivamente, estranei o inerenti all’attività imprenditoriale o professionale esercitata. Ed è pacifico che, sia nel caso del professionista che del consumatore, la nozione di «fini» non debba essere intesa in senso squisitamente soggettivo, necessario e sufficiente essendo (per escludere che una
persona fisica possa essere qualificata come consumatore) che nel momento della conclusione del contratto il bene (o il servizio) in esso dedotto risulti oggettivamente (suscettibile di essere) destinato ad essere utilizzato (o
fruito) nell’ambito dell’attività imprenditoriale o della libera professione
svolta dalla persona fisica alla quale viene promesso.
Ancora una volta, nessuna delle numerose questioni interpretative suscitate dalla definizione tradizionale della nozione di «consumatore» ha trovato
espressa soluzione nella formulazione testuale della relativa disposizione.
Occorre tuttavia sottolineare che nel considerando n. 17 si rinviene una
importante (ancorché a nostro avviso non decisiva) indicazione in merito alla
problematica classificazione dei contratti che una persona fisica conclude per
«scopi misti», per procurarsi cioè un bene o un servizio destinato ad essere
utilizzato sia nell’ambito della sua attività imprenditoriale o professionale che
al di fuori di detta attività, per soddisfare esigenze di natura personale e/o familiare. Con riferimento a tale ipotesi si afferma espressamente che laddove
lo «scopo commerciale» perseguito dalla persona fisica attraverso la stipulazione del negozio sia talmente limitato da non risultare «predominante»
(predominant, prèdominante, überwiegend, que ... predomina) nel contesto «generale» (rectius: complessivo) del contratto, quello così concluso dovrebbe
essere qualificato come un «contratto del consumatore», come tale soggetto
alla direttiva. La formulazione del considerando, pur non essendo del tutto
scevra da ambiguità, sembra esprimere con sufficiente nettezza la scelta del
legislatore europeo di prendere le distanze dalla soluzione restrittiva accolta
dalla Corte di Giustizia 13 in sede di interpretazione dell’art. 13 della Convenzione di Bruxelles del 1968 (per cui il contratto stipulato per scopi misti non
dovrebbe essere considerato contratto del consumatore nemmeno quando lo
scopo privato sia quantitativamente «predominante» su quello professionale, a meno che la proporzione dell’uso relativo all’attività professionale sia del
tutto «trascurabile»), per accogliere invece il criterio della (mera) prevalen13
Cfr. CGCE, 20 gennaio 2005, (causa C-464/01) Gruber, in particolare i punti 37-43 della
sentenza.
Dottrina
37
za, in forza del quale (affinché un contratto possa essere considerato «contratto del consumatore») è sufficiente che lo scopo «privato» sia, seppur di
poco, (quantitativamente) preponderante su quello professionale, senza che
si renda indispensabile che quest’ultimo sia (usando le parole della Corte di
Giustizia) «talmente marginale da avere un ruolo trascurabile nel contesto
globale dell’operazione».
Quanto alla nozione di «professionista», oltre all’opportuna precisazione secondo cui è irrilevante la natura privata o pubblica del soggetto che
conclude il contratto per finalità inerenti alla propria attività imprenditoriale o professionale, merita di essere evidenziato che l’art. 2, n. 2, della direttiva espressamente chiarisce che l’imprenditore (individuale o collettivo) o il
libero professionista che instaura un rapporto contrattuale con il consumatore è «professionista» anche se, e nelle ipotesi in cui, per contattare il consumatore, avviare e condurre la trattativa e/o per concludere il contratto, si
avvale dell’operato di un terzo 14, che agisca in suo nome ovvero per suo
conto. Ne deriva, a nostro avviso, che solo l’imprenditore o il libero professionista che diviene controparte contrattuale del consumatore (in virtù di
una volontà manifestata direttamente e personalmente ovvero manifestata
in suo nome da altri nell’esercizio di un potere rappresentativo) è suscettibile di essere considerato «professionista» (e come tale è gravato dagli obblighi informativi e di condotta previsti dalla direttiva e soggetto alle sanzioni
che le legislazioni nazionali commineranno per la violazione di tali obblighi), non invece la persona fisica che opera in suo nome o per suo conto facilitando e rendendo possibile lo scambio delle dichiarazioni di volontà costitutive del negozio. Per altro verso, ne deriva altresì che, quando un terzo
abbia promosso e reso possibile il perfezionamento dell’accordo contrattuale con il consumatore agendo in nome e/o per conto di un imprenditore o
di un libero professionista, la direttiva trova applicazione a prescindere dalla
circostanza che tale terzo abbia agito o meno nell’esercizio di una propria
attività imprenditoriale o professionale.
Dal considerando n. 13 si ricava poi una indicazione di grande importanza. I legislatori nazionali possono considerarsi legittimati, in sede di recepimento della direttiva, ad assoggettare alle relative regole anche contratti stipulati da professionisti con enti collettivi (dotati o meno di personalità giuridica) o con persone fisiche non qualificabili come consumatori (id est con
14
Ad. es., si afferma nel considerando n. 16, un agente o un fiduciario.
38
2011
imprenditori individuali o liberi professionisti che agiscono per fini connessi
alla propria attività professionale): tale obiettivo non potrà tuttavia essere
perseguito attraverso un ampliamento della portata della nozione di «consumatore», attuato includendo nella relativa definizione normativa anche
soggetti non qualificabili come tali ai sensi della direttiva, ma soltanto affiancando ai «consumatori» (in senso stretto e proprio) le ulteriori (e separate) categorie di soggetti cui si riterrà opportuno estendere la tutela che
la direttiva impone di accordare ai consumatori. La nozione di «consumatore» rientra infatti fra quei concetti giuridici «chiaramente definiti» sui
quali, a norma del considerando n. 7, deve basarsi il quadro normativo «unitario ed uniforme» destinato ad essere introdotto nell’Unione in attuazione
della nuova direttiva: come tale, essa non può e non deve essere alterata da
parte dei legislatori nazionali, che nel recepirla debbono rispettare rigorosamente e puntualmente i confini posti alla sua portata dalla direttiva. Fermo restando, naturalmente, che essi potranno, se lo riterranno opportuno,
includere nell’ambito di operatività delle disposizioni attuative della direttiva, accanto ai contratti conclusi dai professionisti con i «consumatori» (in
senso stretto e proprio), anche, ad es., i contratti conclusi da professionisti
con enti non profit, con micro-imprese o piccole imprese, ecc.
Questo vincolo, imposto ai legislatori nazionali, deve a maggior ragione reputarsi esistente per gli interpreti: nessuna legittimazione potrà avere pertanto
qualsivoglia tentativo di allargare in via interpretativa i confini della nozione di
consumatore, includendovi soggetti «deboli» diversi dalle persone fisiche che
agiscono per fini estranei ad una attività imprenditoriale e professionale.
2.2. I limiti oggettivi: le diverse estensioni dell’ambito di applicazione
delle singole discipline inserite nella direttiva
Stando a quanto si afferma nella prima proposizione del suo art. 3, la direttiva si applica a qualsiasi contratto concluso da un professionista con un
consumatore. Parrebbe a prima vista potersene dedurre che la direttiva trova applicazione, almeno in linea di principio, a qualsiasi tipo contrattuale,
con la sola eccezione delle fattispecie contrattuali «escluse», integralmente
sottratte alla direttiva, elencate nel par. 3 dell’art. 3.
In realtà, un contratto concluso da un consumatore con un professionista può reputarsi soggetto alla direttiva soltanto se si presta ad essere ricompreso in una delle seguenti, quattro categorie: «contratto di vendita» (art.
2, n. 5), «contratto di servizi» (art. 2, n. 6), «contratto per la fornitura di
Dottrina
39
acqua, gas, elettricità e teleriscaldamento», contratti per la fornitura di un
«contenuto digitale» (art. 2, n. 11) reso accessibile attraverso modalità e
strumenti diversi da un supporto materiale consegnato al consumatore 15.
Non tutte le disposizioni della direttiva si applicano peraltro sempre e a
tutti i contratti appartenenti ad una delle citate categorie. Dal punto di vista
oggettivo, l’ambito di operatività delle singole discipline inserite nel provvedimento UE è infatti differenziato.
Invero, soltanto gli artt. 19, 21 e 22 e 27 si applicano sempre a tutti questi
contratti, a prescindere dal luogo e dalle modalità con cui le parti li abbiano
conclusi.
Per contro, delle disposizioni riguardanti gli obblighi di informazione precontrattuale alcune si applicano ai contratti suddetti soltanto se vengono
conclusi «a distanza» (artt. 6 e 8), altre si applicano soltanto se sono stipulati
«fuori dei locali commerciali (artt. 6 e 7), altre infine soltanto se essi non
vengono conclusi né a distanza né fuori dei locali commerciali» (art. 5).
Quanto poi alla disciplina dello ius poenitendi (artt. 9-15), sono ad essa soggetti tutti (e soltanto) i contratti riconducibili ad una delle citate quattro categorie che siano suscettibili di essere qualificati «a distanza» o «fuori dei locali
commerciali», escluse le fattispecie analiticamente elencate nell’art. 16.
Infine, gli artt. 18 e 20 della direttiva si applicano a tutti e soltanto i
«contratti di vendita», a prescindere dalle modalità e dal luogo in cui le parti li abbiano stipulati.
Merita in conclusione di essere evidenziato che un contratto riconducibile ad una delle sopra citate quattro categorie è sicuramente sottratto a tutte le disposizioni della nuova direttiva se è stato concluso tramite distributori automatici o locali commerciali automatizzati (art. 3, lett. l) ovvero se le
parti lo hanno stipulato in presenza e con l’intervento di un pubblico ufficiale (ad es. un notaio) tenuto per legge all’imparzialità e all’indipendenza, a
condizione che quest’ultimo abbia fornito al consumatore una informazione
giuridica completa ed idonea a garantire che la decisione di concludere il
contratto venga assunta sulla base di una adeguata ponderazione e di una
piena consapevolezza della portata e delle conseguenze giuridiche di tale
decisione (art. 3, lett. i).
15
Sulle problematiche suscitate dall’inclusione nell’ambito di operatività della direttiva dei
contratti aventi ad oggetto la fornitura di «contenuti digitali», v. in particolare M. SCHMIDTKESSEL-L. YOUNG-S. BENNINGHOFF-C. LANGHANKE-G. RUSSEK, Should the Consumer Rights
Directive apply to digital content?, in Zeitschrift für Gemeinschaftsprivatrecht, 2011, p. 7 ss.
40
2011
Se, ed in che misura, i legislatori nazionali possano considerarsi legittimati ad estendere l’ambito di applicazione oggettivo delle disposizioni attuative della direttiva al di là dei limiti previsti da quest’ultima, è questione
tutt’altro che agevole da risolvere.
Per un verso, infatti, nel considerando n. 13 si afferma genericamente che
i legislatori nazionali possono mantenere o introdurre disposizioni corrispondenti a quelle della direttiva, destinate a trovare applicazione a contratti
che non rientrano nell’ambito di operatività di quest’ultima.
Per altro verso, tuttavia, l’unico esempio di possibile estensione dei limiti
oggettivi all’ambito di operatività che viene espressamente menzionato è
quello della inclusione nella nozione di «contratto a distanza» dei contratti
conclusi mediante tecniche di comunicazione a distanza ma non nell’ambito
di un sistema organizzato di fornitura di beni o prestazione di servizi a distanza, mentre non si fa alcun cenno alla possibilità di sottoporre alle norme attuative della direttiva una delle fattispecie espressamente sottratte a tutte le
sue disposizioni (art. 3, par. 3) ovvero alle sole disposizioni concernenti lo ius
poenitendi (art. 16), sicché parrebbe doversi negare che i legislatori possano in
sede di recepimento ridurre il novero delle fattispecie contrattuali escluse.
Quanto poi alla possibilità di estendere i confini della nozione di «contratto a distanza» (o di «contratto concluso fuori dei locali commerciali»),
occorre considerare che, allargando le maglie della nozione di «contratto a
distanza» si finirebbe inevitabilmente per incidere (ampliandolo) non soltanto sull’ambito di applicazione della disciplina dello ius poenitendi, ma anche sull’ambito di applicazione delle regole sull’informazione precontrattuale nei contratti a distanza, che verrebbero così ad essere estese a fattispecie
che il legislatore europeo ha invece assoggettato al (meno rigoroso) regime
delineato dall’art. 5: tale alterazione non parrebbe peraltro incompatibile
con la natura «minimale» dell’armonizzazione delle legislazioni nazionali
perseguita dall’art. 5, direttiva 2011/83/UE.
2.3. Le fattispecie contrattuali a cui si applica la disciplina della direttiva: contratti di vendita, contratti di servizi, contratti di somministrazione di gas, acqua energia elettrica e riscaldamento e contratti
relativi a contenuti digitali. I contratti sottratti all’applicazione dell’intera direttiva (art. 3, par. 3)
L’ampiezza della categoria dei «contratti di vendita» si ricava dalle due
definizioni di «bene» e di «contratto di vendita» rispettivamente contenu-
Dottrina
41
te nei nn. 3 e 5 dell’art. 2 della direttiva: essa include qualsiasi contratto con
il quale un professionista trasferisce o si impegna a trasferire al consumatore
la proprietà di una o più cose mobili materiali (inclusi l’acqua, il gas o
l’energia elettrica, se alienati in un volume delimitato o in una quantità determinata) ed il consumatore, per parte sua, si impegna a pagarne il prezzo.
Sono pertanto senz’altro ricomprese in questa categoria tutte le compravendite in senso proprio di cose mobili, sia ad efficacia reale che ad efficacia
obbligatoria (in particolare, le compravendite di cose generiche e di cose future), nonché i contratti di somministrazione periodica o continuativa di
cose mobili (arg. ex art. 9, par. 2, lett. b), iii).
Parrebbe per contro doversi escludere che possano reputarsi ricompresi i
contratti di permuta, stante la circostanza che la controprestazione contrattualmente posta a carico del consumatore viene indicata con il termine
«prezzo», normalmente impiegato per designare esclusivamente una controprestazione a contenuto pecuniario.
Per contro, non vale ad impedire che un contratto traslativo della proprietà di un bene mobile debba qualificarsi come «vendita» la circostanza
che il professionista, oltre a trasferire (o impegnarsi a trasferire) la proprietà
(ed il possesso) della cosa, si obblighi altresì ad eseguire prestazioni aggiuntive ed accessorie di facere, ad esempio a fornire determinati servizi postvendita (manutenzione, consulenza per l’utilizzazione del prodotto, ecc.).
È invece assai dubbio se nella nozione di «vendita» possano essere ricompresi anche i contratti d’appalto o d’opera con i quali il professionista si
obblighi a realizzare, utilizzando materiali di sua proprietà ovvero forniti dal
consumatore, una determinata opera per poi consegnarla e trasferirla in proprietà al consumatore/committente. Invero, pure questi sono a rigore contratti con i quali il professionista si impegna (anche) a trasferire al consumatore la proprietà di una cosa destinata ad essere fabbricata in esito ad un
processo produttivo che lo stesso professionista si obbliga a condurre nell’ambito della propria organizzazione aziendale o con lavoro prevalentemente personale. Qualora tuttavia dovesse ritenersi che «contratti di vendita», nel senso della direttiva, siano tutti e soltanto quelli in cui la prestazione traslativa (della proprietà della cosa mobile) costituisce la prestazione
essenziale e fondamentale posta a carico del professionista, i contratti
d’opera e d’appalto dovrebbero necessariamente qualificarsi (non come
contratti di vendita, bensì) come «contratti di servizio», dal momento che
in essi la prestazione traslativa è accessoria e secondaria rispetto alla prestazione di facere che l’appaltatore/prestatore si impegna ad eseguire nei con-
42
2011
fronti del committente. A ciò si aggiunga che nella nuova direttiva non si
rinviene una statuizione paragonabile a quella contenuta nel par. 4 dell’art. 1
della direttiva 99/44/CE, a norma del quale «ai fini della presente direttiva
sono considerati contratti di vendita anche i contratti di fornitura di beni di
consumo da fabbricare e produrre», statuizione la cui mancanza parrebbe
ostativa all’inclusione nella nozione di «vendita» dei contratti (d’appalto e
d’opera) aventi ad oggetto la fabbricazione/produzione di una cosa mobile
materiale.
Merita infine di essere sottolineato che, stando al considerando n. 19 della
direttiva, debbono reputarsi ricompresi nella categoria dei contratti di vendita anche i contratti con i quali il professionista attribuisca al consumatore
il diritto di utilizzare dati prodotti e forniti in formato digitale (il c.d. «contenuto digitale»: cfr. art. 2, n. 11 16), accessibili (esclusivamente) per il tramite di un supporto materiale (ad es. un CD o un DVD) che venga a tal fine
consegnato (e trasferito in proprietà) al consumatore stesso.
Fra i «contratti di vendita», sono invece eccezionalmente sottratti all’intera direttiva i contratti aventi ad oggetto la fornitura di alimenti, bevande o
altri beni destinati al consumo corrente della famiglia che vengano consegnati dal professionista nel corso di giri frequenti regolari presso il domicilio, la residenza o il luogo di lavoro del consumatore (art. 3, par. 3, lett. j).
Del tutto ovvia è infine, alla luce della nozione di «bene» accolta nell’art.
2, n. 3, della direttiva (circoscritta alle sole cose mobili materiali), l’integrale
esclusione dall’ambito di operatività della stessa dei contratti di compravendita di terreni e di edifici (già esistenti o da costruire), nonché dei contratti aventi ad oggetto il trasferimento o la costituzione di diritti reali su
beni immobili (art. 3, par. 3, lett. e).
Quanto ai contratti «di servizi» (rectius: per la prestazione di servizi), la
relativa nozione include qualsivoglia contratto con il quale il professionista,
verso il pagamento di un corrispettivo pecuniario, si impegna a fornire un
servizio al consumatore: stante l’ampiezza della nozione di «servizi» accolta nel diritto UE, tale categoria deve ritenersi comprensiva di tutti i contratti
a titolo oneroso con i quali il professionista si obbliga nei confronti di un
consumatore ad eseguire una o più prestazioni di facere, materiale, giuridico
e/o intellettuale, nonché dei contratti di locazione di cose mobili.
Molti sono tuttavia i contratti aventi ad oggetto la prestazione di servizi
16
Ad es. programmi informatici, video, testi multimediali, musica, giochi, applicazioni, ecc.
Dottrina
43
che vengono contemplati nell’elenco di fattispecie sottratte all’applicazione
dell’intera direttiva contenuto nell’art. 3, par. 3. Segnatamente, sono esclusi:
i contratti relativi ai servizi sociali, ed in particolare i servizi di assistenza all’infanzia e di sostegno alle famiglie e alle persone che si trovino in stato di
bisogno (lett. a) e considerando n. 29); i contratti aventi ad oggetto servizi di
assistenza sanitaria 17 (lett. b) e considerando n. 30); i contratti con i quali il
professionista, a fronte del pagamento di una posta in denaro, ammette il
consumatore a partecipare a scommesse e giochi di fortuna, quali ad es. le lotterie e i giochi dei casinò (lett. c) e considerando n. 31); i contratti per la prestazione di servizi finanziari, per tali dovendosi intendere i servizi bancari e
di credito, i servizi di pagamento, le assicurazioni e i servizi di investimento
(lett. d) e considerando n. 32); i contratti (d’appalto) per la costruzione di
nuovi edifici o la «trasformazione sostanziale» 18 di edifici esistenti (lett. f)
e considerando n. 26); i contratti di locazione di alloggi destinati a scopo abitativo/residenziale (lett. f) e considerando n. 26); i contratti aventi ad oggetto la prestazione di servizi turistici, rientranti nell’ambito di operatività della
direttiva 90/314/CEE concernente i viaggi, le vacanze e i circuiti tutto compreso (lett. g); i «contratti di multiproprietà», i contratti relativi ai «prodotti per le vacanze di lungo termine» e i contratti di «rivendita» e di
«scambio», di cui all’art. 2, lett. a-d), della direttiva 2008/122/CE (lett. h);
i contratti per la prestazione di servizi di trasporto di persone, ai quali si applicano i soli artt. 8, par. 2, 19 e 22 della direttiva (lett. k) e considerando n. 27);
i contratti a titolo oneroso aventi ad oggetto la prestazione di servizi di telecomunicazione che un consumatore conclude con un operatore per utilizzare un telefono pubblico a pagamento ovvero per utilizzare un singolo collegamento tramite fax, telefono o internet (lett. m).
Pare invece doversi ritenere incluso nella nozione di «contratto di servizi» il contratto con il quale una persona fisica aderisce ad un’associazione,
17
Per tali dovendosi intendere, a norma dell’art. 3, lett. a), della direttiva 2011/24/UE concernente i diritti dei pazienti relativi all’assistenza sanitaria transfrontaliera (espressamente richiamato dall’art. 3, par. 2, lett. b), della direttiva sui «diritti dei consumatori»), i «servizi prestati da professionisti sanitari a pazienti al fine di valutare, mantenere o ristabilire il loro stato di
salute, ivi compresa la prescrizione, la somministrazione e la fornitura di medicinali e dispositivi medici».
18
Sono invece «contratti di servizi» soggetti alla direttiva i contratti aventi per oggetto la
costruzione di semplici pertinenze di edifici già esistenti, ovvero l’esecuzione di lavori di riparazione, manutenzione o ristrutturazione non suscettibili di condurre ad una trasformazione sostanziale dell’edificio (considerando n. 26).
44
2011
versando una somma di denaro a titolo di quota d’iscrizione, al solo scopo
di accedere in tal modo a servizi (forniti dall’associazione stessa) la cui fruizione venga riservata in via esclusiva agli associati 19.
Alla luce delle peculiarità dei beni cui si riferiscono, vengono infine fatte
oggetto di separata considerazione (e di un regime normativo per diversi
aspetti «speciale») le ultime due categorie di contratti soggetti alla direttiva: da un lato, i contratti (di somministrazione) con i quali un professionista
(pubblico o privato) si obblighi a fornire acqua, gas, elettricità o riscaldamento domestico; dall’altro lato, i contratti con i quali il professionista attribuisca al consumatore il diritto di utilizzare dati prodotti e forniti in formato digitale (il c.d. «contenuto digitale»), accessibili per il tramite di
mezzi diversi da un supporto materiale (ad es. mediante streaming o download) (cfr. il considerando n. 19).
2.4. I presupposti in presenza dei quali un contratto deve considerarsi concluso «a distanza» o «fuori dei locali commerciali». Le innovazioni apportate dalla nuova direttiva all’ambito di operatività
della disciplina dei contratti «a distanza» e «fuori dei locali commerciali»
I presupposti in presenza dei quali un contratto può considerarsi concluso «a distanza» ovvero «fuori dei locali commerciali» si ricavano dalle definizioni contenute nell’art. 2, n. 7 (nozione di «contratto a distanza»), nell’art. 2, n. 8 (nozione di «contratto fuori dei locali commerciali») e nell’art.
2, n. 9 (nozione di «locali commerciali»).
Merita preliminarmente di essere rilevato che, nonostante tali definizioni
facciano genericamente riferimento a «qualsiasi contratto» concluso da un
consumatore con un professionista, sono in realtà suscettibili di essere qualificati come stipulati «a distanza» o «fuori dei locali commerciali» (e conseguentemente assoggettati alle disposizioni degli artt. 6-16 della direttiva)
soltanto i contratti che si prestano ad essere ricondotti ad una delle sopra
descritte quattro categorie di fattispecie contrattuali (contratti di vendita di
beni mobili, contratti per la prestazione di servizi, contratti di somministrazione di gas, acqua, energia elettrica e riscaldamento, contratti aventi ad og-
19
In questo senso si è correttamente pronunciata la nostra Corte di Cassazione con riferimento alla normativa italiana di recepimento della direttiva 85/577/CEE (cfr. Cass., 28 marzo
2006, n. 6996).
Dottrina
45
getto contenuto digitale non fornito su supporto digitale), salve ovviamente
le fattispecie contrattuali sottratte all’intera direttiva ex art. 3, par. 3.
Ne consegue che non rientrano nell’ambito di operatività degli artt. 6-16
della nuova direttiva, ad es., svariate fattispecie negoziali che la Corte di
Giustizia aveva invece ritenuto suscettibili di essere ricomprese nell’ambito
di operatività dell’ora abrogata direttiva 85/577/CEE, quali ad es.: i contratti di fideiussione che una persona fisica (non imprenditore individuale né
libero professionista) conclude con un istituto di credito per garantire i debiti che nei confronti dell’istituto di credito medesimo un’altra persona fisica abbia assunto per scopi di natura privata/familiare 20; i contratti di credito
fondiario 21; i contratti aventi ad oggetto l’adesione di un consumatore ad un
fondo immobiliare chiuso costituito in forma di società di persone, qualora
tale adesione si risolva in una forma di investimento di capitali e non abbia
come scopo prioritario quello di far divenire il consumatore membro della
società 22.
Sotto questo profilo, può conseguentemente affermarsi che l’ambito di
operatività della nuova disciplina europea dei contratti «conclusi fuori dei
locali commerciali» è considerevolmente più ridotto rispetto a quello dell’ora abrogata direttiva 85/577/CEE (come interpretata dalla Corte di Giustizia), alla quale venivano sottratte (art. 3, par. 2) soltanto le fattispecie corrispondenti a quelle oggi contemplate dall’art. 3, par. 3, lett. e), f) e j) della
nuova direttiva, nonché i contratti di assicurazione e i contratti relativi a valori mobiliari. A ciò si aggiunga che, come si vedrà, ulteriori fattispecie contrattuali (nessuna delle quali veniva contemplata nell’elenco di esclusioni
inserito nell’art. 3 della direttiva 85/577/CEE) vengono oggi espressamente
sottratte dall’art. 16 alla disciplina dello ius poenitendi (artt. 9-15), con la
conseguenza che a tali contratti, se conclusi fuori dei locali commerciali,
troveranno applicazione i soli precetti concernenti gli obblighi informativi
precontrattuali (artt. 6 e 7).
Sotto un diverso profilo, il campo di applicazione del nuovo regime normativo dei contrati conclusi fuori dei locali commerciali è stato tuttavia ampliato, in virtù di un sensibile allargamento dei confini della nozione stessa
di «contratto concluso fuori dei locali commerciali».
20
CGCE, 17 marzo 1998, (causa C-45/96), Dietzinger.
CGCE, 13 dicembre 2001, (causa C-481/99), Heininger.
22
CGCE, 15 aprile 2010, (causa C-215/08), Friz.
21
46
2011
Innanzitutto, per la nuova direttiva è necessario e sufficiente, ai fini dell’applicabilità delle regole concernenti i contratti conclusi fuori dei locali
commerciali, che il consumatore manifesti la propria volontà negoziale in
un luogo diverso dai locali commerciali del professionista, in presenza del (e
di fronte al) professionista medesimo o di un soggetto che agisce in nome o
nell’interesse di quest’ultimo (art. 2, n. 8, lett. a e b): è possibile che tale manifestazione di volontà integri gli estremi di una accettazione (nel qual caso,
proprio in quanto emessa in presenza del professionista o di un terzo che
agisce in suo nome o nel suo interesse, essa conduce inevitabilmente al perfezionamento immediato dell’accordo contrattuale nel momento e nel luogo in cui viene posta in essere), ma è altresì possibile che essa si sostanzi in
una mera proposta (nel qual caso il contratto potrà considerarsi stipulato
soltanto se ed in quanto il professionista manifesti la volontà di accettare,
nel momento e nel luogo in cui, sulla base dei principi generali in materia di
conclusione del contratto valevoli nel diritto nazionale applicabile alla fattispecie, il vincolo contrattuale può considerarsi perfezionato).
Diversamente dalla direttiva del 1985, la cui applicabilità postulava che la
volontà negoziale del consumatore venisse manifestata in un luogo individuato in positivo («il domicilio o il posto di lavoro»), l’applicabilità della
nuova direttiva è dunque subordinata alla sola condizione negativa che la
volontà del consumatore sia stata manifestata in un luogo (qualsiasi, non
necessariamente il domicilio o il posto di lavoro del consumatore) diverso
dal «locale commerciale» del professionista con il quale viene instaurato il
rapporto contrattuale, per tale dovendosi intendere, a norma della definizione contenuta nel n. 9 dell’art. 2, il locale adibito alla vendita al dettaglio
nel quale il professionista esercita la sua attività su base permanente ovvero
– trattandosi di un locale mobile – in modo abituale 23.
Ma, soprattutto, non si esclude più (come invece faceva l’art. 1 della direttiva 85/577/CEE) che il contratto possa considerarsi «fuori dei locali
commerciali» nelle ipotesi in cui la visita del professionista presso il domicilio o il luogo di lavoro del consumatore (nel corso della quale la volontà di
quest’ultimo di concludere il negozio sia stata manifestata) sia avvenuta su
«espressa richiesta» del consumatore medesimo. Ne deriva che gli artt. 6, 7
e 9-15 della direttiva trovano applicazione anche quando sia stato il consu23
Nel considerando n. 22 si precisa che debbono essere considerati «locali commerciali»
anche i chioschi di vendita collocati in un mercato o in una fiera, nonché i locali adibiti alla
vendita al dettaglio nei quali il professionista eserciti la sua attività a carattere stagionale.
Dottrina
47
matore stesso a sollecitare la «visita» del professionista, chiedendo spontaneamente di incontrarlo in un luogo diverso dai suoi locali commerciali al
fine di negoziare ed eventualmente stipulare un contratto 24. È stata così accolta dal legislatore UE ed estesa (ed imposta) a tutti gli Stati membri la soluzione che alcuni legislatori nazionali avevano adottato già in sede di recepimento della direttiva 85/577/CEE, avvalendosi della possibilità, accordata da quest’ultima, di introdurre nel diritto interno norme idonee ad assicurare ai consumatori un livello di protezione più elevato rispetto a quello minimale a suo tempo garantito dalla direttiva stessa 25.
A ciò si aggiunga che, a norma della lett. c) del n. 8 dell’art. 3 (previsione
di cui non vi era traccia nella direttiva abrogata), quando il contratto sia stato concluso nei locali commerciali del professionista ovvero mediante tecniche di comunicazione a distanza, deve ciononostante trovare applicazione
il regime normativo proprio dei contratti conclusi fuori dei locali commerciali se il consumatore ha manifestato la propria volontà negoziale immediatamente dopo essere stato avvicinato personalmente ed appositamente dal
professionista (o da un suo ausiliario) in un luogo diverso dai locali commerciali di quest’ultimo, luogo nel quale sia stato avviato e condotto, alla
presenza fisica e simultanea del consumatore e del professionista, il negoziato poi sfociato nel perfezionamento del contratto 26. Quest’ultima estensio-
24
Il legislatore UE muove infatti dal presupposto (invero, non del tutto condivisibile) che,
quando il consumatore si trovi a manifestare la propria volontà negoziale in un luogo diverso
dai locali commerciali del professionista, la possibilità che, prima ed in occasione della emissione della relativa dichiarazione, il consumatore sia sottoposto a pressione psicologica o colto
di sorpresa, ricorre a prescindere dalla circostanza che la visita del professionista sia stata o meno sollecitata dal consumatore medesimo.
25
Cfr. ad es. l’art. 45 c. cons. e le sections 5 e 6 dello Statutory Instrument dell’8 luglio 2008
che dà attuazione alla direttiva 85/577/CEE nel Regno Unito (The Cancellation of Contracts
made in a Consumers’Home or Place of Work Regulations 2008).
26
Nel considerando n. 21 si afferma peraltro che, se il consumatore conclude il contratto nei
locali commerciali o mediante tecniche di comunicazione a distanza dopo aver ricevuto una
visita nel corso della quale il professionista ha proceduto all’effettuazione di misurazioni e alla
predisposizione di una «stima» (id est: di un preventivo) senza impegno alcuno per il consumatore, il contratto non è soggetto al regime normativo dei contratti fuori dei locali commerciali se il consumatore ha avuto a disposizione una quantità di tempo sufficiente per riflettere
sulla stima fornita dal professionista prima di manifestare la volontà di stipulare il negozio sulla
base della «stima» in questione, dal momento che in tali ipotesi non può affermarsi che il consumatore abbia stipulato il negozio immediatamente dopo essere stato avvicinato dal professionista.
48
2011
ne appare chiaramente influenzata dall’analoga opzione compiuta dal legislatore tedesco, che (§ 312 BGB) ha assoggettato al regime normativo dei
c.d. Haustürgeschäfte anche i casi in cui il consumatore manifesti la volontà
negoziale nei locali commerciali del professionista ovvero non in presenza
di quest’ultimo, laddove il consumatore stesso sia stato indotto a stipulare il
negozio in seguito (e a causa) di trattative orali svoltesi presso il suo domicilio o il suo luogo di lavoro nel corso di una visita (non previamente sollecitata) del professionista 27.
Infine, con statuizione sostanzialmente corrispondente a quella un tempo
inserita nell’art. 1 della direttiva 85/577/CE, l’art. 2, n. 8, lett. d), include nella
nozione di «contratto fuori dei locali commerciali» anche il contratto stipulato durante una escursione organizzata dal professionista che abbia lo scopo
e/o l’effetto di promuovere la vendita di beni o la fornitura di servizi al consumatore. In proposito, pare meritevole di essere ribadito anche in relazione
alla previsione della nuova direttiva l’orientamento interpretativo assunto con
riguardo all’art. 1 della direttiva 85/577/CEE dalla Corte di Giustizia, la quale
ha ritenuto debba considerarsi concluso durante un’escursione organizzata
dal commerciante fuori dei locali commerciali anche il contratto stipulato in
una situazione nella quale un commerciante abbia invitato un consumatore a
recarsi personalmente in un luogo determinato, situato ad una certa distanza
da quello in cui tale consumatore abiti, distinto dai locali nei quali lo stesso
commerciante esercita abitualmente le proprie attività e non chiaramente individuato come locale di vendita al pubblico, allo scopo di presentarvi prodotti e servizi offerti 28.
Quanto invece alla nozione di «contratti a distanza», la relativa definizione corrisponde sostanzialmente a quella contenuta nell’art. 2, nn. 2 e 4
della direttiva 97/7/CE, sicché sotto questo profilo l’ambito di operatività
27
Dottrina e giurisprudenza tedesche (cfr. PALANDT/GRÜNEBERG, Bürgerliches Gesetzbuch70, München, 2011, § 312, Rn. 13) ritengono peraltro che il § 312 BGB debba trovare applicazione anche quando non vi sia una stretta successione cronologica fra la trattativa orale
svoltasi presso il domicilio del consumatore ed il contratto successivamente concluso, ferma
restando la necessità che la stipulazione del contratto sia causalmente imputabile alla trattativa
orale svoltasi (eventualmente anche settimane o addirittura mesi prima) presso il domicilio del
consumatore (ai fini della prova della riconducibilità causale alla trattativa dell’avvenuta conclusione dell’affare si riconosce peraltro all’elemento cronologico una Indizwirkung tanto più
forte quanto più ridotta è la distanza temporale fra svolgimento della trattativa e stipulazione
del negozio).
28
CGCE, 22 aprile 1999, (causa C-423/97), Travel Vac.
Dottrina
49
delle disposizioni concernenti i contratti a distanza è rimasto invariato.
In particolare, è stata confermata la necessità – affinché il contratto possa
considerarsi «concluso a distanza» – che le parti si servano sempre e soltanto di mezzi di comunicazione a distanza, non soltanto per emettere le rispettive dichiarazioni negoziali ma anche per instaurare il contatto inziale e
condurre la trattativa poi sfociata nel perfezionamento dell’accordo. Possono dunque a rigore considerarsi «a distanza» soltanto i contratti che siano
stati negoziati e stipulati senza la presenza fisica e simultanea del consumatore e del professionista, mediante (una o più) tecniche di comunicazione a
distanza. Ne consegue, ad es., che se proposta e accettazione sono state poste in essere mediante tecniche di comunicazione a distanza dopo che il
consumatore abbia effettuato una visita presso i locali commerciali del professionista, il contratto è assoggettato alla disciplina dei «contratti a distanza» soltanto se nel corso di quella visita il consumatore si è limitato a raccogliere informazioni sui beni o i servizi di suo interesse, non invece se in tali
locali il consumatore abbia altresì avviato e condotto un negoziato, poi sfociato nello scambio dei consensi mediante tecniche di comunicazione a distanza; ne consegue altresì che le disposizioni concernenti i contratti a distanza non trovano applicazione nelle ipotesi in cui lo scambio dei consensi
sia avvenuto all’interno dei locali commerciali del professionista, ancorché
esso sia stato provocato e reso possibile da un contatto verificatosi (e da una
trattativa eventualmente intercorsa) fra professionista e consumatore mediante tecniche di comunicazione a distanza (considerando n. 20).
È stata inoltre ribadita l’esigenza che il professionista abbia negoziato e
poi concluso il contratto nell’ambito di un «sistema organizzato» per la stipulazione a distanza di contratti di vendita di beni o prestazione di servizi. È
invece irrilevante che il sistema a tal fine utilizzato dal professionista sia stato da lui stesso creato e predisposto ovvero sia stato realizzato e messo a sua
disposizione da un terzo 29: quel che conta è che un «sistema organizzato»
di tal fatta esista; in mancanza, l’utilizzazione da parte del professionista di
mezzi di comunicazione a distanza per negoziare e concludere il contratto
deve ritenersi occasionale e come tale – nell’ottica del legislatore UE – ini29
Cfr. il considerando n. 20, che fa l’esempio delle piattaforme on-line, peraltro precisando
che non può qualificarsi come sistema organizzato per la stipulazione a distanza di contratti di
vendita di beni o prestazione di servizi il sito web (allestito o comunque utilizzato dal professionista) che si limiti a fornire informazioni sul professionista e sui beni o servizi da lui offerti ai
consumatori, nonché a fornire indicazioni utili per contattarlo.
50
2011
donea a giustificare l’applicazione dello speciale regime di tutela dei consumatori contemplato dagli artt. 6, 8 e 9-15 30.
3. Gli obblighi informativi precontrattuali: premessa introduttiva
3.1. Le innovazioni introdotte dalla nuova direttiva
Uno degli aspetti più fortemente innovativi della nuova direttiva è costituito dalla disciplina degli obblighi informativi gravanti sui professionisti nei
confronti dei consumatori nella fase precontrattuale.
La prima, fondamentale novità è rappresentata dalla circostanza che la
direttiva pone obblighi informativi anche a carico dei professionisti che propongono ai consumatori la conclusione di contratti non qualificabili né come «contratti a distanza» né come «contratti fuori dei locali commerciali»: ne deriva che può oggi dirsi esistente una disciplina europea completa
ed esaustiva delle obbligazioni informative precontrattuali applicabile a
qualsiasi rapporto contrattuale B2C riconducibile ad una delle quattro categorie di negozi rientranti nell’ambito di operatività della direttiva.
La seconda novità consiste nel profondo mutamento della ratio e dei
contenuti della disciplina degli obblighi informativi precontrattuali gravanti
sui professionisti che propongono contratti «fuori dei locali commerciali».
Mentre, infatti, l’art. 4 della direttiva 85/577/CEE imponeva al professionista soltanto l’obbligo di informare preventivamente il consumatore in merito all’esistenza, ai tempi e alle modalità di esercizio dello ius poenitendi, allo
scopo precipuo (ed esclusivo) di assicurare che il consumatore, all’atto della
conclusione del contratto, avesse piena contezza del rimedio eccezionale accordatogli dalla direttiva stessa, gli artt. 6 e 7 della direttiva 2011/83/UE
pongono a carico del professionista un obbligo informativo dai contenuti
assai più ampi, nient’affatto circoscritti all’istituto dello ius poenitendi, sostanzialmente finalizzata a garantire che il consumatore venga messo al corrente di tutti gli elementi indispensabili per scegliere se accettare o meno di
concludere l’affare propostogli dal professionista sulla base di una «decisione di natura commerciale» pienamente consapevole ed informata, nonché
30
A queste ipotesi (e soltanto a queste) si presta ad essere riferita l’affermazione, inserita
nel considerando n. 20, secondo cui la nozione di contratto a distanza non comprenderebbe «le
prenotazioni effettuate dal consumatore mediante tecniche di comunicazione a distanza per
richiedere la prestazione di un servizio da parte del professionista».
Dottrina
51
per conoscere i diritti e le facoltà (in primis, naturalmente, lo ius poenitendi)
che gli competono nei confronti del professionista – ex lege e sulla base delle
clausole negoziali – nel corso dello svolgimento del rapporto.
La terza novità, riguardante specificamente gli obblighi informativi gravanti sul professionista nella fase che precede la possibile stipulazione di
contratti a distanza, è legata all’introduzione di una serie di regole speciali
concernenti i contratti conclusi in via telematica (par. 2 e 3 dell’art. 8), quelli conclusi mediante mezzi di comunicazione che concedono uno spazio o
un tempo limitato per la visualizzazione di informazioni (par. 4 dell’art. 8)
nonché i contratti stipulati per telefono (par. 6 dell’art. 8): regole speciali di
cui non vi era alcuna traccia nell’ora abrogata direttiva 97/7/CE.
Due ulteriori tratti innovativi comuni alle discipline degli obblighi informativi precontrattuali nei contratti «a distanza» e «fuori dei locali commerciali» sono poi costituiti dalla circostanza che si tratta (almeno in linea
di principio, e salve le precisazioni che si faranno infra) di discipline di armonizzazione «completa» e non meramente minimale, sicché ai legislatori
non è a rigore consentito discostarsi in alcun modo dal tenore delle relative
previsioni della direttiva 2011/83/UE (v. parr. 7 e 8 dell’art. 7, par. 5 dell’art. 7 e par. 10 dell’art. 8), nonché dalla circostanza che il par. 5 dell’art. 6 –
norma di grande impatto sistematico ma assai problematica – statuisce
espressamente che le informazioni fornite nella fase precontrattuale «fanno
parte integrante del contratto» e «non possono essere modificate se non
con l’accordo espresso delle parti», in tal modo attribuendo a tali informazioni l’attitudine ad integrare le lacune del regolamento negoziale destinato
a disciplinare il rapporto (v. in proposito infra sub 5.2.).
3.2. Regole comuni: il termine entro il quale gli obblighi informativi
debbono essere adempiuti e la «chiarezza e comprensibilità» delle
informazioni
Quale che sia il luogo in cui la dichiarazione negoziale del consumatore sia
(destinata ad essere) emessa e quali che siano i mezzi di comunicazione impiegati dalle parti per condurre la trattativa e perfezionare l’accordo contrattuale, gli obblighi informativi gravanti sul professionista debbono sempre essere da quest’ultimo adempiuti «prima che il consumatore sia vincolato dal
contratto» o dalla «corrispondente offerta» (art. 5, par. 1 e art. 6, par. 1).
Il termine ultimo entro il quale le informazioni debbono essere fornite al
consumatore viene dunque individuato nella data in cui quest’ultimo emette la dichiarazione di volontà (proposta o accettazione) idonea a condurre
52
2011
al perfezionamento del negozio «promosso» dal professionista, dichiarazione alla quale il consumatore è «vincolato» 31 giuridicamente, o perché
(trattandosi dell’accettazione) fa sorgere in capo ad esso 32 tutti i diritti e gli
obblighi scaturenti dal contratto del quale determina il perfezionamento, o
perché (trattandosi di una mera proposta) fa sorgere in capo al professionista il diritto (potestativo) di concludere l’affare con un proprio atto unilaterale di accettazione.
È importante sottolineare che, mentre la direttiva 97/7/CE imponeva al
professionista di mettere a disposizione del consumatore le informazioni
obbligatorie «in tempo utile prima della conclusione del contratto», lasciando così intendere che fra la messa a disposizione di tali informazioni e
l’emissione della dichiarazione negoziale del consumatore dovesse intercorrere un periodo di tempo minimo, di durata tale da offrire al consumatore la
effettiva e ragionevole possibilità di visionare e comprendere le informazioni onde assumere in modo consapevole le sue decisioni di mercato, la nuova
direttiva si limita a richiedere che le informazioni vengano fornite al consumatore «prima» di tale momento, senza però precisare quanto tempo prima
e senza imporre (nemmeno implicitamente) la necessità che fra il momento
della messa a disposizione delle informazioni e quello dell’emissione della
dichiarazione negoziale intercorra un – seppur minimo – spazio temporale:
a rigore, il professionista potrebbe dunque limitarsi a fornire tali informazioni anche pochi istanti prima che la dichiarazione negoziale venga emessa
dal consumatore, ad es. consegnando al consumatore – nel contesto di
un’unica visita effettuata al suo domicilio – contemporaneamente il documento cartaceo contenente le informazioni e il (separato) documento cartaceo recante il testo della proposta contrattuale e inducendolo di lì a poco a
sottoscrivere quest’ultima.
Questa importante innovazione rispetto alla previgente disciplina dei
contratti a distanza e alle altre direttive CE vigenti in materia di contratti dei
consumatori 33 suscita non poche perplessità, inducendo ad interrogarsi sul31
Bound, lié, vinculado, gebunden.
A partire dal momento in cui, secondo la legge nazionale applicabile al contratto, l’accordo può considerarsi perfezionato.
33
La necessità che le informazioni precontrattuali dovute al consumatore vengano messe a
disposizione di quest’ultimo «in tempo utile» prima della conclusione del contratto o della
formulazione dell’offerta viene esplicitamente contemplata dall’art. 2, par. 4, della direttiva
2006/ 123/CE sui servizi nel mercato interno, dall’art. 3, par. 1, della direttiva 2002/65/CE
32
Dottrina
53
la reale finalità perseguita dal legislatore europeo attraverso l’imposizione
degli obblighi informativi di cui agli artt. 5 e 6 della nuova direttiva. Essendo
invero assai poco realistico immaginare che la decisione del consumatore di
concludere con un determinato professionista un contratto avente ad oggetto
un determinato bene mobile o servizio si fondi su informazioni che potrebbero
essere messe a sua disposizione anche solo pochi istanti prima dell’emissione della relativa dichiarazione negoziale, a noi sembra che la funzione di tali
informazioni sia in realtà quella di assicurare che venga assunta in modo razionale e consapevole non tanto la decisione se emettere o meno la dichiarazione negoziale (proposta o accettazione), quanto piuttosto la decisione
se porre o meno in essere l’atto di esercizio dello ius poenitendi spettante al
consumatore a norma dell’art. 9 della nuova direttiva: dunque, non tanto la
scelta di concludere o meno l’affare, bensì piuttosto la scelta di cancellare
(senza conseguenze giuridiche ed economiche pregiudizievoli) o mantenere un affare già concluso. Quali che siano l’inquadramento sistematico che si
ritenga di dover dare allo ius poenitendi e le modalità con le quali si preferisca ricostruire la sua incidenza sul perfezionamento e/o sull’efficacia del
contratto, non v’è dubbio infatti che nei contratti a distanza e fuori dei locali
commerciali il momento in cui la volontà del consumatore di dar vita ed
esecuzione al rapporto contrattuale può considerarsi definitivamente e stabilmente manifestata è quello in cui il termine entro il quale può essere
esercitato il «diritto di recesso» di cui all’art. 9 della nuova direttiva scade
senza che il consumatore abbia manifestato la volontà di avvalersene.
Ne consegue che, con riguardo alle fattispecie negoziali rispetto alle quali
non compete al consumatore uno ius poenitendi a norma dell’art. 9 (e cioè i
contratti non suscettibili di essere qualificati «a distanza» o «fuori dei locali commerciali», nonché i contratti conclusi a distanza o fuori dei locali
commerciali elencati nell’art. 16, lett. b-l), l’obbligo precontrattuale di cui
agli art. 5 e 6 appare scarsamente idoneo ad assicurare che l’assunzione del
vincolo contrattuale (al quale il consumatore non può più unilateralmente
sottrarsi una volta perfezionatosi l’accordo per effetto dello scambio di proposta e accettazione) avvenga effettivamente sulla base di una scelta ponderata, consapevole ed informata del consumatore.
Quanto alle modalità con cui le informazioni debbono essere fornite, la disulla commercializzazione a distanza di servizi finanziari a consumatori, dall’art. 5 della direttiva
2008/48/ CE sui contratti di credito ai consumatori e dall’art. 4 della direttiva 2008/122/CE sui
contratti di multiproprietà.
54
2011
rettiva impone che esse siano formulate nel rispetto di quegli stessi precetti di
«chiarezza» 34 e «comprensibilità» 35 che l’art. 5 della direttiva 93/13/CEE
prescrive per la redazione delle clausole dei contratti dei consumatori (art. 5,
par. 1, art. 6, par. 1). Questi precetti debbono intendersi essenzialmente e
precipuamente riferiti al tipo di linguaggio impiegato dal professionista, e
quindi alla terminologia e allo stile utilizzati nelle formulazione delle proposizioni attraverso le quali le informazioni vengono comunicate.
Come emerge dal testo degli artt. 7, par. 1 e 8, par. 1, il requisito della comprensibilità va tenuto ben distinto rispetto a quello della «leggibilità», che afferisce a nostro avviso esclusivamente alle dimensioni e alla grafica dei caratteri e
dev’essere rispettato in tutte e soltanto quelle ipotesi in cui le informazioni vengano riportate in un supporto cartaceo o in un diverso «supporto durevole»
consegnato o comunque messo a disposizione del consumatore.
Con specifico riguardo al precetto della «comprensibilità», deve poi
escludersi che esso implichi necessariamente l’esigenza che le informazioni
vengano fornite (anche) nella lingua ufficiale (o in una delle lingue ufficiali)
dello Stato in cui risiedono i consumatori cui vengono comunicate o comunque indirizzate. Lo si desume inequivocabilmente dalla circostanza che
il par. 7 dell’art. 6 della direttiva autorizza gli Stati membri ad inserire o
mantenere – nelle normative nazionali di recepimento della disciplina dei
contratti a distanza e fuori dei locali commerciali – norme volte ad imporre
ai professionisti il rispetto di particolari «requisiti linguistici» onde «garantire che le informazioni siano facilmente comprese dal consumatore», lasciando così intendere che l’introduzione nei diritti nazionali di norme siffatte, lungi dall’essere imposta dalla direttiva, è interamente rimessa alla discrezionalità dei legislatori dei Paesi UE 36.
La direttiva non individua espressamente il parametro cui fare riferimento in sede di concretizzazione dei precetti della «chiarezza», «comprensibilità» e «leggibilità». Sembra tuttavia scontato che occorra adottare a tal fi-
34
Da intendersi anche come «semplicità».
Da intendersi anche come «completezza» ed «esaustività».
36
Una scelta, questa, che lascia a dir poco perplessi, nella misura in cui si presta a dar vita a
sensibili differenze fra i diritti nazionali, con le prevedibili, conseguenti difficoltà per i professionisti intenzionati ad indirizzare le proprie offerte contrattuali ai consumatori residenti in una
pluralità di Paesi UE, i quali potrebbero trovarsi costretti a rispettare, nella predisposizione delle informazioni precontrattuali, requisiti linguistici diversi a seconda della legge nazionale applicabile al contratto.
35
Dottrina
55
ne il parametro del «consumatore medio», mediamente informato e ragionevolmente attento ed avveduto, esplicitamente richiamato dalla direttiva
2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali 37, ferma restando però la necessità che il professionista, nel formulare le informazioni, tenga conto delle
specifiche esigenze dei consumatori ai quali rivolge la propria offerta, laddove si tratti di consumatori «particolarmente vulnerabili» per ragioni (a
lui note o comunque da lui ragionevolmente prevedibili) di età, infermità
mentale o ingenuità 38.
4. Gli obblighi informativi gravanti sui professionisti che propongono ai consumatori di concludere contratti non qualificabili né
come «contratti a distanza» né come «contratti fuori dei locali
commerciali»
4.1. Ambito di operatività dell’obbligo informativo
La (come già si è evidenziato) innovativa disposizione dell’art. 5 contiene (par. 1) un elenco delle informazioni che i professionisti hanno l’obbligo
di fornire ai consumatori prima che venga emessa da questi ultimi una dichiarazione negoziale destinata a (o suscettibile di) condurre alla conclusione di un contratto non qualificabile né come «contratto a distanza», né
come «contratto fuori dei locali commerciali».
La norma trova applicazione non soltanto ai «contratti di vendita» di
beni mobili e ai contratti per la prestazione di servizi, ma anche (par. 2) ai
contratti relativi a contenuti digitali non forniti su di un supporto materiale
nonché ai contratti di somministrazione di gas, acqua, energia elettrica o riscaldamento.
Si tratta di una norma di armonizzazione «minima»: agli Stati membri
viene infatti espressamente consentito (par. 4) di mantenere o introdurre
nei rispettivi ordinamenti interni disposizioni che impongano ai professio-
37
Cfr. il considerando n. 18 della direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori.
38
In questi termini si esprime il considerando n. 34 della direttiva 2011/83/UE (palesemente ispirato al par. 3 dell’art. 5 della direttiva 2005/29/CE), che tuttavia (in modo per la verità
piuttosto ambiguo) esclude che la considerazione di tali esigenze specifiche possa condurre a
discrepanze nei livelli di tutela del consumatore.
56
2011
nisti l’obbligo di fornire, in aggiunta a quelle contemplate dal par. 1 del citato art. 5, informazioni diverse ed ulteriori rispetto a quelle ivi elencate.
Per altro verso, agli Stati membri viene accordata (par. 3) la possibilità di
escludere dall’ambito di operatività delle norme nazionali di attuazione
dell’art. 5 i contratti che si prestino ad essere qualificati come «negozi della
vita quotidiana» (day-to-day transactions), a condizione che le parti diano
ad essi immediata (ed integrale) esecuzione nel momento stesso in cui li
concludono.
Quali siano la ratio e soprattutto l’ambito di operatività di questa possibile
esclusione, non è affatto chiaro. Da un lato, sono infatti a dir poco oscuri i
contorni della nozione di «transazioni della vita quotidiana», nozione che di
per sé parrebbe suscettibile di ricomprendere una vastissima serie di «contratti dei consumatori» (che per definizione hanno ad oggetto beni o servizi
destinati ad essere utilizzati per soddisfare esigenze di natura personale o familiare della persona fisica che li acquista). Dall’altro lato, non si comprende
per quale ragione ai consumatori che concludono i negozi in questione «nei
locali commerciali» non dovrebbero essere messe preventivamente a disposizione le informazioni di cui all’art. 5 soltanto in ragione del fatto che le prestazioni vengono eseguite integralmente all’atto stesso della stipulazione (ciò
che si verifica di norma, ad es., nel caso di contratti aventi ad oggetto generi
alimentari o beni mobili di uso domestico stipulati nei locali commerciali
della grande, media o piccola distribuzione), mentre dovrebbero essere comunicate in tutte le ipotesi in cui si tratti di contratti di durata ovvero di contratti ad esecuzione istantanea in tutto o in parte differita.
L’obbligo di fornire al consumatore le informazioni elencate nel par. 1
dell’art. 4 sorge in capo al professionista soltanto se ed in quanto esse non
siano «già apparenti dal contesto» 39. Il presupposto è identico a quello
contemplato nel par. 4 dell’art. 7 della direttiva 2005/29/CE, che contiene
la lista delle informazioni che in tutte le ipotesi in cui un professionista rivolga a consumatori un «invito all’acquisto» 40 debbono considerarsi – appunto se «non risultano già evidenti dal contesto» – «rilevanti» (rectius:
39
Already apparent from the context; sofern sich diese Informationen nicht unmittelbar aus den
Umständen ergeben; pour autant qu’elles ne ressortent pas du contexte.
40
Inviando e/o diffondendo una comunicazione commerciale recante l’indicazione delle
caratteristiche e del prezzo del bene o del servizio in forme adeguate al tipo di mezzo di comunicazione impiegato e tali da consentire al consumatore di effettuare un acquisto: v. art. 2, lett.
i), dir. 2005/29/CE.
Dottrina
57
essenziali), onde la pratica commerciale che le ometta, le occulti o le fornisca in modo ambiguo, oscuro o incomprensibile integra gli estremi di
un’omissione ingannevole, laddove si riveli idonea ad indurre il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso.
Nell’uno come nell’altro caso, il professionista deve dunque ritenersi obbligato a fornire le informazioni prescritte (inserendole nella comunicazione commerciale costituente un invito all’acquisto ovvero mettendole a disposizione del consumatore prima che quest’ultimo emetta la sua dichiarazione negoziale) soltanto se e ed in quanto tali informazioni non si prestino
ad essere ricavate dal contesto e dalle circostanze nelle quali la comunicazione commerciale viene effettuata e/o la trattativa funzionale alla possibile
conclusione del contratto viene avviata e condotta.
Questo presupposto negativo (di cui non vi è traccia nella disposizione
dell’art. 6, che disciplina gli obblighi informativi precontrattuali nei contratti
a distanza e fuori dei locali commerciali) deve a nostro avviso essere inteso
in modo rigoroso, onde evitare che la portata precettiva dell’art. 5 finisca per
essere svuotata: possono considerarsi «apparenti» soltanto le informazioni
che il consumatore può ricavare dal contesto e dalle circostanze in cui si
trova ad emettere la propria dichiarazione negoziale con uno sforzo di diligenza minimo (si pensi ad es. alle informazioni sulle caratteristiche e le qualità dei beni che si rinvengono nelle confezioni o nell’etichettatura dei prodotti).
Quanto alle modalità e ai mezzi con cui può e dev’essere adempiuto l’obbligo informativo in esso contemplato, l’art. 5 non fornisce alcuna indicazione puntuale, lasciando ai professionisti (ed eventualmente ai legislatori
nazionali che volessero regolamentarli con norme di dettaglio) ampia discrezionalità.
Sicuramente, non è indispensabile che il professionista consegni o metta
comunque a disposizione del consumatore un supporto cartaceo o un diverso supporto durevole contenente le informazioni dovute, ciò che viene
invece espressamente previsto per i contratti a distanza e per quelli negoziati fuori dei locali commerciali, sicché nulla osta a che le informazioni vengano fornite oralmente.
Altrettanto sicuramente deve escludersi che il professionista sia tenuto
ad effettuate volta per volta una comunicazione ad hoc nei confronti di ogni
singolo, concreto consumatore con il quale instaura un contatto potenzialmente suscettibile di condurre alla conclusione di un contratto, ben poten-
58
2011
do egli limitarsi ad una comunicazione indirizzata genericamente ed indistintamente a tutti i consumatori che entrano con lui in contatto (es. riportandole in appositi supporti, facilmente accessibili e visibili, collocati
all’interno dei suoi locali commerciali).
Infine, deve ritenersi che l’obbligo informativo possa considerarsi adempiuto tutte le volte in cui le informazioni siano fornite o comunque possano
essere ricavate dalle condizioni generali di contratto predisposte e utilizzate
dal professionista e da quest’ultimo rese adeguatamente conoscibili nei
propri locali commerciali ovvero riprodotte nei moduli e formulari (contenenti il testo dell’accordo) sottoposti al consumatore affinché quest’ultimo,
sottoscrivendoli, manifesti il proprio consenso all’instaurazione del rapporto contrattuale.
4.2. Il contenuto degli obblighi di informazione
Quanto infine ai contenuti delle informazioni dovute, essi possono essere così suddivisi:
a) Informazioni concernenti il professionista
Al consumatore debbono essere necessariamente comunicati soltanto
l’identità del professionista (nome e cognome se si tratta di una persona fisica, ragione sociale ove si tratti di una società), l’indirizzo geografico della
sua sede ed un suo recapito telefonico (art. 5, par. 1, lett. b): non è invece
indispensabile che, laddove il contatto prenegoziale si sia instaurato fra il
consumatore ed una persona che agisce in nome e per conto del professionista, tale persona comunichi la propria identità ed il proprio indirizzo geografico; del pari non è indispensabile che il professionista comunichi al consumatore il proprio indirizzo di posta elettronica.
b) Informazioni concernenti le prestazioni contrattualmente dovute dal consumatore
Un secondo gruppo di informazioni si riferisce alla prestazione pecuniaria che il consumatore sarebbe obbligato ad eseguire laddove il contratto
venisse concluso.
In particolare (art. 5, par. 1, lett. c), il professionista deve indicare l’importo globale (comprensivo delle imposte, e quindi dell’IVA) della somma
di denaro dovuta a titolo di corrispettivo del bene o del servizio oggetto del
contratto ovvero indicare i parametri destinati ad essere adottati per la sua
quantificazione tutte le volte in cui risulti ragionevolmente impossibile calcolarlo «in anticipo», e cioè già in occasione della stipulazione del contrat-
Dottrina
59
to. Deve altresì essere precisato l’importo delle spese di spedizione, consegna o postali, ove tali spese siano «aggiuntive», e cioè non ricomprese nell’«importo globale» del corrispettivo dovuto dal consumatore: stupisce peraltro che, con riguardo all’ipotesi in cui non risulti ragionevolmente possibile quantificare preventivamente l’ammontare di tali spese «aggiuntive»,
la norma si limiti ad imporre al professionista l’obbligo di fornire l’indicazione che «tali spese potranno essere addebitate al consumatore», indicazione
a dire il vero generica ed ambigua, di per sé sola del tutto inidonea a far
comprendere al consumatore se, e in presenza di quali presupposti, sarà costretto a farsi carico di tali spese e quale potrà esserne l’ammontare.
Infine (art. 5, par. 1, lett. d), debbono essere indicate al consumatore le
«modalità di pagamento» 41, espressione quest’ultima da intendersi a nostro avviso in senso ampio, comprensivo sia delle modalità di tempo e luogo
del pagamento del corrispettivo pecuniario, sia dei mezzi di pagamento diversi dal denaro contante accettati dal professionista. La norma stabilisce
invero che le informazioni sulle «modalità di pagamento» debbano essere
fornite soltanto «se applicabili» e cioè, riteniamo di poter affermare, soltanto se si tratta di modalità divergenti rispetto a quelle «ordinarie» (id est
previste dalle norme giuridiche del diritto dispositivo nazionale destinate a
trovare applicazione al rapporto contrattuale).
c) Informazioni concernenti le prestazioni contrattualmente dovute dal professionista
Il consumatore deve innanzitutto (art. 5, par. 1, lett. a) essere informato
in merito alle «caratteristiche principali» del bene o del servizio oggetto del
contratto, e cioè, a nostro avviso, sia in merito agli elementi che identificano
la natura, la destinazione d’uso e la categoria merceologica di appartenenza
del bene (o del servizio), sia (come inequivocabilmente emerge dalla versione tedesca, ove si discorre di Eigenschaften) in merito alle sue «qualità»
(incluse le capacità prestazionali) più rilevanti e significative: l’ampiezza e il
grado di dettaglio che debbono connotare tali informazioni variano a seconda della natura del bene o del servizio (dovendo ritenersi che esso debba
essere tanto più elevato quanto maggiore sia la complessità del bene o del
servizio), nonché a seconda delle caratteristiche del mezzo impiegato dal
professionista per comunicarle al consumatore.
41
Arrangements for payment, Modalités de paiement, Zahlungsbedingungen, Procedimientos de
pagos.
3.
60
2011
Il consumatore deve inoltre essere informato in merito al termine entro il
quale e alle modalità (segnatamente, il luogo ed i mezzi) con le quali dev’essere adempiuta l’obbligazione, gravante ex contractu sul professionista, di consegnare il bene mobile ovvero di prestare il servizio (art. 5, par. 1, lett. d).
Il professionista deve altresì richiamare al consumatore l’esistenza della
«garanzia legale di conformità», e cioè ricordargli che il bene mobile che il
professionista si obbliga a consegnargli dev’essere «conforme al contratto di
vendita» (ai sensi dell’art. 2 della direttiva 99/44/CE) e che la manifestazione, nel bene ricevuto in esecuzione del contratto, di un «difetto di conformità» entro i due anni successivi alla consegna lo legittimano inderogabilmente a pretendere, a norma dell’art. 3 della direttiva 99/44/CE, il «ripristino della conformità al contratto» mediante sostituzione o riparazione, ed
eventualmente la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto.
Qualora lo stesso professionista ovvero un terzo presti una «garanzia
commerciale» 42 o si impegni a fornire al consumatore «servizi post-vendita»
(ad es. di assistenza e manutenzione), il professionista deve poi rendere nota
al consumatore l’esistenza ed i contenuti delle relative prestazioni, nonché i
presupposti in presenza dei quali (e le modalità con le quali) il consumatore
sia legittimato a pretenderne l’esecuzione.
42
La nozione di «garanzia commerciale» (commercial guarantee, garantie commerciale, gewerbliche Garantie, garantía commercial) viene definita dall’art. 2, n. 14, della direttiva 2011/83/UE
(nella cui versione italiana, incomprensibilmente, si parla soltanto di «garanzia» ed è stato omesso l’aggettivo «commerciale», presente invece nelle altre versioni linguistiche del testo): tale nozione include qualsiasi «impegno» – assunto nei confronti del consumatore dal «professionista» (che conclude con lui il contratto di vendita) in aggiunta alle obbligazioni su di lui gravanti
in forza della direttiva 99/44/CE (e cioè l’obbligazione di consegnare beni conformi al contratto
e di riparare o sostituire i beni nei quali si manifestino difetti di conformità) ovvero da un «produttore» (terzo rispetto al contratto di vendita) – di rimborsare il prezzo, sostituire, riparare o
prestare un qualsivoglia servizio relativo al bene qualora esso si riveli non rispondente alle previsioni contenute, o comunque privo delle caratteristiche o delle qualità (diverse da quelle necessarie per poter essere considerato «conforme al contratto») specificate nella dichiarazione di garanzia o nella pubblicità ad essa relativa. Si noti che la definizione de qua differisce sensibilmente
dalla definizione di «garanzia» contenuta nell’art. 1, lett. e), della direttiva 99/44/CE: diversamente da quest’ultima, essa include infatti anche le garanzie a titolo oneroso, che impongono al
consumatore costi «supplementari» (rispetto al corrispettivo pattuito per l’alienazione del bene
mobile); per altro verso, essa precisa (con una limitazione che può a nostro avviso ritenersi valevole per le sole garanzie commerciali prestate dai professionisti-venditori finali) che la garanzia
commerciale può riferirsi soltanto a caratteristiche e qualità diverse da quelle indispensabili affinché il bene possa considerarsi «conforme al contratto» a norma della direttiva 99/44/CE.
Dottrina
61
d) Informazioni aggiuntive dovute nelle sole ipotesi di contratti aventi ad oggetto
la fornitura di contenuti digitali
Con specifico ed esclusivo riguardo alle ipotesi in cui il contratto destinato ad essere concluso dal professionista con il consumatore abbia ad oggetto
la fornitura di dati in formato digitale (il c.d. contenuto digitale), l’art. 5, par.
1, lett. g) e h) impone al professionista l’obbligo di fornire indicazioni aggiuntive ed ulteriori riguardanti: le modalità di funzionamento del contenuto digitale, incluse le misure tecniche di protezione dei relativi dati eventualmente adottate 43, nonché qualsiasi «interoperabilità pertinente» del
contenuto digitale con hardware o software che il professionista conosca o
non possa ragionevolmente ignorare 44.
e) Informazioni concernenti la durata e le modalità di scioglimento del rapporto
contrattuale
Quando il contratto non sia ad esecuzione istantanea, il professionista
deve innanzitutto chiarire se si tratta di contratto a tempo determinato o indeterminato.
Nel primo caso, deve indicare il termine di durata del rapporto e deve
specificare se, alla scadenza di tale termine, il rapporto è destinato a sciogliersi puramente e semplicemente ovvero ad essere prorogato in assenza di
tempestiva disdetta, precisando in quest’ultima ipotesi le modalità e i tempi
con i quali il consumatore ha l’onere di porre in essere la disdetta necessaria
per evitare il rinnovo automatico.
Trattandosi invece di contratti a tempo indeterminato, il professionista
deve specificare con quali modalità e conseguenze il consumatore può porre
fine al rapporto (ad es. specificando se esista un termine di preavviso). Non
è invece indispensabile (e a dire il vero non se ne comprende la ragione) che
il professionista indichi l’eventuale «durata minima» del rapporto, id est se
esista un termine prima del quale il consumatore non è legittimato a recedere dal contratto ovvero può recedere, ma con l’obbligazione di pagare una
multa penitenziale: lo si desume dalla circostanza che tale indicazione viene
43
In particolare (considerando n. 19) il professionista deve informare in merito alle modalità con le quali il contenuto digitale può essere utilizzato nonché all’eventuale esistenza di restrizioni tecniche quali il c.d. DRM (digital Rights Managment) o la codifica regionale.
44
Segnatamente (considerando n. 19), il professionista deve fornire le informazioni concernenti il c.d. ambiente (environment) hardware e software compatibile con il contenuto digitale, e
cioè il sistema operativo, le versioni eventualmente necessarie e le caratteristiche specifiche
dell’hardware.
62
2011
espressamente richiesta dal (solo) par. 1, lett. p) del successivo art. 6, che
disciplina gli obblighi informativi gravanti sui professionisti nelle ipotesi di
contratti conclusi a distanza o fuori dei locali commerciali.
4.3. L’inadempimento dell’obbligo informativo e le sue conseguenze:
in generale
L’art. 5 della direttiva 2011/83/UE non specifica quali conseguenze siano destinate a derivare dall’eventuale mancato o inesatto adempimento
dell’obbligo informativo gravante sul professionista ai sensi del par. 1 di tale
disposizione.
Spetta pertanto ai legislatori nazionali, in sede di recepimento, decidere
se e quali conseguenze giuridiche debbano scaturire da siffatto inadempimento, ed in primo luogo stabilire se esso possa e debba condurre soltanto
all’irrogazione di sanzioni di natura pubblicistica ovvero avere anche (o soltanto) effetti di natura privatistica.
La discrezionalità di cui godono i legislatori non è tuttavia, in proposito,
illimitata.
Da un lato, infatti, essi sono tenuti (art. 24) ad inserire, nei provvedimenti che daranno attuazione alla nuova direttiva, disposizioni che prevedano
l’irrogazione di sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive nei confronti di
quanti dovessero rendersi responsabili della violazione delle norme interne
di recepimento della direttiva, e più in generale ad adottare tutte le misure
necessarie per assicurare che esse vengano effettivamente applicate e rispettate.
Dall’altro, merita di essere ricordato che la nuova direttiva (v. art. 3, par.
5 e considerando n. 14) non intende «pregiudicare» il diritto nazionale dei
contratti con riferimento ad aspetti diversi da quelli che vengono in essa
espressamente considerati e disciplinati, ed in particolare con riferimento
alla formazione, alla validità e agli effetti dei contratti.
Ne deriva che la necessità di dare attuazione alla direttiva non impone ai
legislatori nazionali di apportare alcuna modificazione ai precetti che concorrono a comporre il diritto interno delle obbligazioni e dei contratti applicabile (anche) ai contratti dei consumatori, ed in particolare non impone
di introdurre disposizioni che sanciscano ad es. che il contratto non può
considerarsi perfezionato, ovvero è (in tutto o in parte) invalido o inefficace
per il solo fatto che le informazioni di cui al par. 1 dell’art. 5 non sono state
fornite – o sono state fornite in modo tardivo, lacunoso, ambiguo o impreciso – al consumatore che lo abbia concluso.
Dottrina
63
Pur non essendo tenuti a farlo, i legislatori nazionali debbono tuttavia considerarsi senz’altro legittimati, qualora lo ritengano opportuno, a riconnettere
(con apposite diposizioni inserite nei provvedimenti che daranno attuazione
alla direttiva 2011/83/UE) conseguenze giuridiche di diritto privato più o
meno «speciali» all’inadempimento dell’obbligo informativo, ad es. prevedendo l’invalidità dell’intero contratto o delle singole clausole concernenti gli
elementi in merito ai quali non sia stata fornita l’informazione precontrattuale, ovvero accordando al consumatore un diritto di recedere ad nutum da siffatto contratto, ecc.
In ogni caso, non v’è dubbio che il professionista che si renda responsabile del mancato o inesatto adempimento dell’obbligo informativo di cui
all’art. 5 ponga in essere un «atto contrario» alla direttiva 2011/83/UE,
che legittima l’esperimento nei suoi confronti, a tutela degli interessi collettivi dei consumatori lesi dalle sue condotte, delle azioni inibitorie di cui alla
direttiva 2009/22/CE 45, alla quale nel nostro ordinamento danno attuazione gli artt. 139 e 140 c. cons.
Del pari, non v’è dubbio che le informazioni contemplate dal par. 1 dell’art. 5 direttiva 2011/83/UE debbano considerarsi «rilevanti» (rectius: essenziali) ai sensi e ai fini di cui all’art. 7 della direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali (cfr. in particolare il par. 5 di tale art. 7). Ne consegue che il professionista che rivolge al consumatore un «invito all’acquisto»
o comunque tiene nei confronti di un consumatore comportamenti funzionali alla possibile conclusione di (o in ogni caso connessi a) contratti non
qualificabili né come contratti a distanza, né come contratti fuori dei locali
commerciali, senza fornire le informazioni in questione ovvero fornendole in
modo oscuro, ambiguo o intempestivo pone in essere una pratica commerciale che può e deve essere qualificata come «omissione ingannevole», se ed
in quanto ne venga accertata l’attitudine ad indurre il consumatore medio ad
assumere una decisione commerciale che non avrebbe altrimenti preso. Il
professionista sarà in queste ipotesi soggetto alle sanzioni comminate e alle
ulteriori misure contemplate dalla legislazione nazionale attuativa della direttiva 2005/29/CE applicabile alla fattispecie (nel caso dell’ordinamento italiano, le sanzioni amministrative pecuniarie e le ulteriori misure adottabili
dall’AGCM nell’ambito dei procedimenti di cui all’art. 27 c. cons.).
45
Direttiva 2009/22/CE del 23 aprile 2009, relativa a provvedimenti inibitori a tutela degli
interessi dei consumatori (versione codificata) (in GUUE L 110 del 1° maggio 2009, p. 30 ss.).
64
2011
4.4. Segue: l’inadempimento dell’obbligo di mettere a disposizione
del consumatore informazioni concernenti elementi essenziali o
accessori del regolamento negoziale destinato a disciplinare il rapporto contrattuale
Quid se il legislatore italiano, in sede di recepimento, dovesse astenersi
dal regolare in modo espresso le conseguenze privatistiche della violazione
del divieto di cui all’art. 5, limitandosi a comminare sanzioni pubblicistiche
nei confronti del professionista che se ne renda responsabile 46 o addirittura
persino astenendosi dal prevedere una sanzione di natura pubblicistica 47?
La questione appare particolarmente delicata con riferimento alle informazioni concernenti elementi che costituiscono oggetto di apposite clausole
(«principali» e «accessorie») del regolamento negoziale destinato a disciplinare il rapporto contrattuale, e cioè: il corrispettivo, le spese aggiuntive e le
relative «modalità» di pagamento (lett. c e d); le qualità e le caratteristiche
dei beni o dei servizi (lett. a) e, con particolare riguardo ai contenuti digitali,
(lett. g e h), i tempi e le «modalità» di adempimento dell’obbligazione di
consegnare il bene o di prestare il servizio (lett. d); l’esistenza ed i contenuti
di un «servizio post-vendita» o di una «garanzia commerciale» (lett. e); la
durata e le modalità di scioglimento del rapporto contrattuale (lett. f).
In proposito, occorre a nostro avviso distinguere, innanzitutto, a seconda
che il rapporto contrattuale la cui instaurazione sia stata preceduta dal mancato o inesatto adempimento dell’obbligo informativo sia o meno disciplinato da condizioni generali predisposte dal professionista e da quest’ultimo
«imposte» al consumatore in occasione dell’instaurazione del rapporto
stesso.
(i) Se infatti gli elementi in questione risultano determinati nelle clausole
inserite nelle condizioni generali di contratto predisposte dal professionista,
e tali condizioni generali di contratto (in base alle norme del diritto nazio46
Come è accaduto in sede di attuazione della direttiva 2000/31/CE sul commercio elettronico (cfr. le sanzioni amministrative pecuniarie comminate dall’art. 21, d.lgs. 70/2003 nei
confronti dei «prestatori» che non ottemperano agli obblighi informativi contemplati dagli
artt. 7 e 8).
47
Ciò che si è verificato in sede di attuazione della direttiva 2006/123/CE sui servizi nel
mercato interno: nessuna sanzione amministrativa viene infatti comminata dal d.lgs. 59/2010
nei confronti dei prestatori di servizi che violano gli obblighi informativi precontrattuali contemplati dall’art. 31 del citato decreto legislativo (che dà attuazione all’art. 22 della direttiva
2006/123/CE).
Dottrina
65
nale concernenti la c.d. Einbeziehungskontrolle: per l’Italia, v. l’art. 1341, c. 1,
c.c.) possono considerarsi efficaci ed opponibili al consumatore/aderente in
quanto a quest’ultimo sia stata data la concreta ed effettiva possibilità di
prenderne visione e conoscenza prima della emissione della dichiarazione
negoziale (ciò che avviene ad es. quando esse siano state riprodotte nei moduli o formulari attraverso la cui sottoscrizione il consumatore manifesta la
volontà di concludere il contratto), deve a nostro avviso ritenersi che l’obbligo informativo di cui al par. 1 dell’art. 5 sia stata adempiuto.
Ove poi, a seguito del contatto prenegoziale instaurato con un singolo,
concreto consumatore, il professionista abbia fornito informazioni (ad es.
comunicate oralmente o riprodotte in materiale pubblicitario consegnato al
consumatore) divergenti ed incompatibili con il contenuto delle condizioni
generali di contratto da lui stesso predisposte e successivamente adottate
dalle parti (in occasione dello scambio dei consensi) per la disciplina del
rapporto fra di esse instaurato 48, a produrre effetto sono, e sono soltanto, le
condizioni generali di contratto, sulle quali non può in nessun modo prevalere il divergente tenore delle informazioni precontrattuali: non si rinviene
infatti, nell’art. 5, un precetto analogo a quello dettato, per i soli contratti a
distanza e fuori dei locali commerciali, dal par. 5 dell’art. 6, in forza del quale
le informazioni fornite nella fase precontrattuale «formano parte integrante
del contratto». Eventuali discrepanze fra le informazioni fornite al consumatore nella fase precontrattuale e tenore delle condizioni generali (validamente ed efficacemente) adottate per disciplinare il rapporto non possono pertanto in alcun modo intaccare l’efficacia delle clausole standard 49, ma
al più legittimare, laddove il consumatore riesca a provarne i presupposti,
l’esperimento di un’azione di annullamento del contratto per dolo ovvero di
un’azione di condanna al risarcimento dei danni ex art. 1440 c.c. ovvero ex
art. 1337 c.c.
Quanto all’ipotesi in cui nelle condizioni generali manchi completamente una clausola che affronti un aspetto del regolamento negoziale in merito
48
Si pensi all’ipotesi in cui il professionista, nel contesto delle trattative precontrattuali, affermi che la consegna del bene avverrà entro il termine, ad es., di 10 giorni dalla stipulazione
del contratto, mentre nelle condizioni generali si prevede che la consegna avvenga entro e non
oltre 90 giorni dalla stipulazione.
49
Né autorizzano ad escludere che tali clausole standard siano formulate in modo chiaro e
comprensibile, ipotizzando così una violazione del precetto di trasparenza dettato dall’art. 5, par.
1, direttiva 93/13/CEE (v. art. 35, c. 1, c. cons.), dal momento che chiarezza e comprensibilità
sono requisiti che attengono esclusivamente alla formulazione delle clausole in quanto tali.
66
2011
al quale il professionista abbia fornito una informazione precontrattuale (ad
es. fissando un termine per la consegna del bene o la prestazione del servizio
del quale non vi sia alcuna traccia nelle condizioni generali, o accordando al
consumatore una possibilità di recesso ad nutum senza preavviso non contemplata dalle condizioni generali, o ancora individuando specifiche caratteristiche e modalità esecutive del servizio delle quali non si fa parola nelle
condizioni generali), il silenzio delle condizioni generali deve a nostro avviso ritenersi ostativo al riconoscimento di una possibile vincolatività giuridica delle affermazioni fatte nella fase precontrattuale dal professionista (sicché il termine dell’adempimento della prestazione promessa dal professionista, le modalità e le conseguenze dello scioglimento del contratto e il livello qualitativo del servizio risulteranno esclusivamente dalle norme del diritto dispositivo nazionale applicabile alla fattispecie), ancora una volta in ragione dell’assenza, nell’art. 5, di un precetto analogo a quello dettato, per i
soli contratti a distanza e fuori dei locali commerciali, dal par. 5 dell’art. 6. In
via eccezionale, tuttavia, qualora si sia trattato di affermazioni del professionista sulle caratteristiche e sulle qualità del bene mobile oggetto di un contratto di vendita inserite in dichiarazioni rivolte al pubblico dei consumatori
(e affidate ad es. a messaggi pubblicitari) ovvero in descrizioni (del bene)
fatte nei confronti di singoli, determinati consumatori, tali caratteristiche e
qualità debbono reputarsi dovute ex contractu (con la conseguenza che il bene mobile che dovesse rivelarsene privo dovrebbe considerarsi non conforme al contratto) anche se esse non vengono espressamente contemplate
nelle condizioni generali che disciplinano il rapporto: e ciò, in applicazione
delle «presunzioni» dettate dalle lett. a) e d) del par. 2 dell’art. 2 della direttiva 99/44/CE (v. art. 129, lett. b e c, c. cons.) 50.
(ii) Laddove per contro il rapporto contrattuale non sia disciplinato da
condizioni generali predisposte dal professionista (perché il professionista
ha scelto di non utilizzare condizioni generali per regolare i rapporti che instaura con i consumatori ovvero perché le condizioni generali da lui predisposte sono inefficaci in ragione del fatto che per il diritto nazionale non
50
«Presunzioni» che si sostanziano in realtà in regole legali integrative del contenuto della
volontà negoziali manifestate dai contraenti, come tali destinate ad operare soltanto se ed in
quanto manchino, nel regolamento negoziale adottato per la disciplina del rapporto, pattuizioni e clausole specificamente concernenti le qualità e le caratteristiche che il bene mobile deve
possedere per poter essere considerato conforme al contratto.
Dottrina
67
possono considerarsi entrate a far parte del regolamento negoziale 51), ci si
deve chiedere in primo luogo quali conseguenze giuridiche si producano
nell’ipotesi in cui il professionista ometta completamente – in violazione
dell’art. 5 – di fornire al consumatore informazioni in merito ai sopra descritti elementi accessori o essenziali del regolamento negoziale.
In proposito, riteniamo si debba distinguere. Se infatti prima della manifestazione del consenso contrattuale del consumatore non sono state fornite a
quest’ultimo (né sono «apparenti dal contesto») informazioni sul quantum
del corrispettivo pecuniario ovvero sulla natura e i sui tratti tipologici caratterizzanti del bene o del servizio, dovrebbe a rigore escludersi che il contratto
possa considerarsi valido, stante l’indeterminatezza del suo oggetto. Se invece
non sono state fornite soltanto informazioni concernenti elementi di tipo accessorio (qualità del bene, modalità esecutive, termine per l’adempimento
dell’obbligazione di consegna, esistenza di servizi post-vendita, costi aggiuntivi, ecc.), la relativa omissione non varrà certo a precludere l’operatività, in applicazione delle regole sull’integrazione del contratto, delle norme del diritto
dispositivo.
In secondo luogo, occorre chiedersi quali conseguenze giuridiche si producano nell’ipotesi in cui il professionista, nella fase precontrattuale, fornisca informazioni che non vengano poi ribadite e confermate nelle dichiarazioni che le parti emettono per manifestarsi reciprocamente la volontà di
concludere il contratto. La mancanza, nell’art. 5, di un precetto corrispondente a quello dettato dal par. 5 dell’art. 6 parrebbe a prima vista impedire
di affermare che il contenuto di tali informazioni sia divenuto «parte integrante» del contratto nonostante le parti non lo abbiano ripetuto nelle loro
dichiarazioni negoziali, e quindi di riconoscere vincolatività giuridica a tali
informazioni. A tale esito pare tuttavia possibile pervenire comunque –
quantomeno nelle ipotesi in cui la volontà delle parti non sia stata espressa
attraverso la sottoscrizione di un documento cartaceo recante il testo (non
standardizzato) del contratto – in applicazione delle regole generali sull’interpretazione del contratto, ed in particolare del principio in forza del quale,
per determinare la comune intenzione dei contraenti, occorre valutare il
comportamento complessivo da essi tenuto, non solo posteriormente ma
anche anteriormente allo scambio dei consensi.
51
Così, ad es., per un contratto soggetto alla legislazione italiana, se il professionista non ha
adeguatamente assolto l’onere di rendere le condizioni generali di contratto conoscibili per il
consumatore prima della conclusione del contratto, a norma dell’art. 1341, c. 1, c.c.
68
2011
5. Gli obblighi informativi gravanti sui professionisti che propongono ai consumatori di concludere contratti «a distanza» o «fuori dei locali commerciali»
5.1. I contenuti degli obblighi informativi gravanti sui professionisti
che propongono ai consumatori di concludere contratti fuori dei
locali commerciali: gli spazi di discrezionalità concessi ai legislatori nazionali
La disciplina degli obblighi informativi che debbono essere adempiuti
prima che il consumatore emetta una dichiarazione negoziale idonea a condurre alla conclusione di un contratto «a distanza» ovvero «fuori dei locali
commerciali» si compone di un insieme di precetti comuni alle due ipotesi
(dettati dall’art. 6) e di due gruppi distinti di precetti, rispettivamente concernenti i soli contratti «fuori dei locali commerciali» (art. 7) e «a distanza» (art. 8).
Il par. 1 dell’art. 6 contiene un elenco di informazioni che debbono essere obbligatoriamente fornite al consumatore «in maniera chiara e comprensibile», elenco più ampio rispetto a quello che si rinviene nel par. 1 dell’art.
5: oltre agli elementi elencati in quest’ultima disposizione 52, in merito ai
quali viene talora imposta una più ampia e diffusa informazione 53, debbono
essere resi noti al consumatore: il costo dell’utilizzo del mezzo di comunicazione a distanza impiegato per concludere il contratto (soltanto però se tale
costo non viene calcolato applicando la tariffa di base) (lett. f); l’esistenza
del diritto di recesso (ius poenitendi) e le condizioni e modalità del suo esercizio (lett. i); la (eventuale) circostanza che il consumatore sarà tenuto a
farsi carico delle spese di restituzione del bene ricevuto in consegna laddove
decida di avvalersi dello ius poenitendi (lett. j); la circostanza che il consumatore, qualora richieda al professionista di avviare la prestazione del servizio o la fornitura di acqua, gas, energia elettrica o riscaldamento prima che
sia decorso il termine per l’esercizio dello ius poenitendi, sarà tenuto a versa52
V. ad es. gli elementi di cui all’art. 5, n. 1, lett. a), b), c), d), e), g), l), m), o), r) ed s).
Si richiede così, ad es., che del professionista (nonché del soggetto che eventualmente
agisca per suo conto) vengano indicati, oltre al numero di telefono, anche il numero di fax e
l’indirizzo di posta elettronica, onde «consentire al consumatore di contattare rapidamente il
professionista e comunicare efficacemente con lui» (lett. c). Vengono inoltre fornite indicazioni puntuali in merito alle modalità di indicazione del «prezzo totale» dei beni o dei servizi
la cui fornitura costituisce oggetto di contratti di durata (lett. e).
53
Dottrina
69
re un compenso ragionevole al professionista per i servizi medio tempore
prestati o per l’acqua, l’elettricità, il gas ed il riscaldamento già forniti, laddove decida di avvalersi dello ius poenitendi (lett. j); l’inesistenza di uno ius
poenitendi, nelle ipotesi in cui tale diritto è escluso a norma dell’art. 16 (lett.
k); l’esistenza di codici di condotta «pertinenti» e l’indicazione delle modalità con le quali possa esserne reperito il testo (lett. n); la «durata minima
degli obblighi del consumatore» prevista dal contratto, id est il periodo di
tempo (successivo all’instaurazione del rapporto contrattuale di durata) nel
corso del quale – sulla base di apposite previsioni contrattuali – la possibilità
per il consumatore di sciogliere unilateralmente il rapporto è completamente esclusa ovvero subordinata a condizioni e presupposti (ad es. pagamento
di penali o multe penitenziali, concessione di lunghi termini di preavviso,
ecc.) diversi e più gravosi per il consumatore rispetto a quelli che sussisterebbero qualora operassero le disposizioni del diritto dispositivo nazionale
applicabile alla fattispecie (lett. p); l’esistenza di clausole che impongano al
consumatore di pagare somme di denaro a titolo di deposito cauzionale 54
ovvero di prestare altre «garanzie finanziarie» su richiesta del professionista (lett. q); la possibilità di presentare reclami e ricorsi nell’ambito di procedure extragiudiziali cui il professionista sia soggetto e le modalità e condizioni di attivazione di tali procedure (lett. t).
Anche con riguardo a questo ulteriore insieme di informazioni, appare
evidente come alcune di esse si riferiscano a clausole del regolamento negoziale predisposto dal professionista e destinato ad essere adottato per la disciplina del rapporto contrattuale (lett. f, p, q), altre a regole giuridiche dettate dalla stessa direttiva 2011/83/CE e destinate comunque – in quanto
inderogabili in senso sfavorevole al consumatore – a trovare applicazione al
rapporto (lett. h, i, j e k), altre ancora ad elementi estranei alla regolamentazione sostanziale del rapporto contrattuale (lett. n e lett. t).
A rigore, stante la natura «completa» dell’armonizzazione dei diritti nazionali perseguita dall’art. 6, ai legislatori degli Stati membri dovrebbe ritenersi preclusa la possibilità di arricchire, in sede di recepimento, l’elenco
delle informazioni dovute dai professionisti nella fase antecedente la stipulazione di un contratto a distanza o fuori dei locali commerciali, inserendovi
informazioni ulteriori ed aggiuntive rispetto a quelle contemplate dal par. 1
del citato art. 6.
54
In particolare le clausole che prevedono che una somma di un determinato importo venga trattenuta mediante le carte di credito o di debito del consumatore (considerando n. 33).
70
2011
Sennonché il par. 8 dell’art. 6 stabilisce, in primo luogo, che le informazioni precontrattuali dovute a norma del par. 1 dello stesso art. 6 si aggiungono (completandole 55) a quelle imposte dalla direttiva 2000/31/CEE, in
materia di commercio elettronico 56 e dalla direttiva 2006/123/CE, relativa
ai servizi nel mercato interno 57, specificando che laddove il contenuto di una
informazione venga regolato una di queste due direttive con modalità differenti rispetto a quelle adottate nell’art. 6 della direttiva 2011/83/UE, è quest’ultima disposizione in ogni caso a prevalere 58. Ne deriva che, oltre a quelle
espressamente contemplate dal par. 1 dell’art. 6, direttiva 2011/83/UE,
debbono essere obbligatoriamente fornite al consumatore – prima che quest’ultimo manifesti la volontà di concludere con un professionista un contratto «a distanza» o «fuori dei locali commerciali» avente ad oggetto la
prestazione di servizi – anche le informazioni precontrattuali imposte da tali
direttive che riguardino elementi diversi ed ulteriori rispetto a quelli espressamente menzionati nel par. 1 dell’art. 6.
Ma soprattutto, il par. 8 dell’art. 6 ed il considerando n. 12 della direttiva
2011/83/UE precisano che gli Stati membri conservano la possibilità di imporre ai prestatori, nel settore del commercio elettronico di «servizi della società dell’informazione» e dei servizi in generale, obblighi informativi aggiuntivi rispetto a quelli previsti dalle disposizioni (segnatamente, gli artt. 6 e 10)
della direttiva sul commercio elettronico e dalle disposizioni (segnatamente,
l’art. 22) della direttiva sui servizi nel mercato interno, stante la natura «minimale» dell’armonizzazione delle legislazioni nazionali perseguita da queste
due direttive. Ne consegue che i legislatori nazionali rimangono liberi di imporre, ai professionisti che propongono a consumatori contratti rientranti
nell’ambito di operatività delle due citate direttive, l’obbligo di fornire informazioni precontrattuali ulteriori sia rispetto a quelle in esse contemplate, sia
55
In questi termini si esprime il considerando n. 12 della direttiva 2011/83/UE.
Segnatamente, dagli artt. 6 e 10 di tale direttiva.
57
In particolare, dall’art. 22 di tale direttiva.
58
Ne consegue, ad es., che nel caso di contratti per la prestazione di servizi stipulati da consumatori con professionisti «a distanza» o «fuori dai locali commerciali», non dovrebbero a
rigore trovare applicazione la lett. a), la lett. h), la lett. i) e la lett. j) del par. 1, nonché le lett. a),
d) ed e) del par. 3 dell’art. 22 della direttiva 2006/123/CE sui servizi nel mercato interno,
mentre rimangono applicabili le lett. b)-g) e la lett. k) del par. 1, nonché le lett. b) e c) del par.
3 del citato art. 22, che impongono al prestatore di servizi di informare la propria potenziale
controparte in merito ad elementi che non vengono affatto presi in considerazione dall’art. 6,
direttiva 2011/83/UE.
56
Dottrina
71
rispetto a quelle elencate nel par. 1 dell’art. 6 direttiva 2011/83/UE.
Stante il fatto che la quasi totalità dei (contratti relativi a) servizi rientranti
nell’ambito di applicazione dell’art. 5 della direttiva 2011/83/UE si presta ad
essere ricompresa fra i (contratti relativi ai) «servizi della società dell’informazione» soggetti agli artt. 6 e 10 della direttiva 2000/31/CE ovvero fra i
(contratti relativi ai) servizi soggetti all’art. 22 della direttiva 2006/123/CE, la
conseguenza che ne deriva è di grande rilevanza: per tutti i contratti aventi ad
oggetto la prestazione di servizi soggetti (anche) alla direttiva 2006/ 123/CE
ovvero di «servizi della società dell’informazione» soggetti (anche) alla direttiva 2000/31/CE, l’art. 6, par. 1, della direttiva 2011/83/UE è in realtà norma
di armonizzazione minimale, mentre soltanto per i contratti di vendita di beni
mobili e di somministrazione di acqua, gas, energia elettrica e riscaldamento
(nonché per i pochi contratti relativi a servizi non rientranti nell’ambito di
operatività né della direttiva 2000/31/CE né della direttiva 2006/123/CE)
essa può autenticamente considerarsi una norma di armonizzazione «completa», che impedisce ai legislatori nazionali di imporre ai professionisti
l’obbligo di fornire ai consumatori informazioni aggiuntive rispetto a quelle
che vengono in essa espressamente contemplate 59.
5.2. La vincolatività giuridica delle informazioni fornite dal professionista anteriormente alla manifestazione, da parte del consumatore,
della volontà di concludere il contratto: il par. 5 dell’art. 6 della direttiva 2011/83/UE
Il par. 5 dell’art. 6 dispone che «le informazioni di cui al par. 1» (rectius:
le informazioni fornite dal professionista in attuazione del precetto dettato
dal par. 1) «formano parte integrante del contratto» e «non possono essere modificate se non con l’accordo espresso delle parti» 60.
59
Sul complesso problema del coordinamento fra le discipline degli obblighi informativi
precontrattuali contenute nelle tre citate direttive, cfr. M. SCHMIDT-KESSEL, Zur Kollision von
Informationspflichten aus EU-Richtlinien im Blick auf die Entwürfe zur Verbraucherrechterichtlinie,
in Zeitschrift für Gemeinschaftsprivatrecht, 2011, p. 79 ss.
60
V. anche il considerando n. 35: le informazioni che il professionista deve fornire al consumatore dovrebbero essere «obbligatorie» (mandatory, obligatoire, obligatorisch, obligatoria) e
non dovrebbero essere modificate (should not be altered, ne devrait pas être modifiée, sollten nicht
geändert werden, no debe modificarse). Tuttavia, le parti contraenti dovrebbero poter concordare
espressamente la modifica del contenuto del contratto conseguentemente concluso (should be
able to expressly agree to change the content of the contract subsequently concluded; avoir la faculté
de s’accorder de manière expresse sur une modification du contenu du contrat conclu par la suite;
72
2011
La ratio di questa statuizione appare chiara: poiché la decisione del consumatore di concludere un determinato contratto a distanza o fuori dei locali commerciali si fonda essenzialmente sulle informazioni che debbono
essere messe a sua disposizione (ex art. 6) prima che egli emetta la sua dichiarazione negoziale, e non certo sul testo del regolamento negoziale, che
(anche quando venga riprodotto in un documento cartaceo sottoposto al
consumatore per la sottoscrizione) assai di rado viene letto ed attentamente
valutato dal consumatore stesso, è necessario evitare che la decisione del
consumatore finisca per essere falsata e «tradita» attraverso una alterazione
degli elementi su cui essa si è fondata, operata in sede di formulazione (da
parte del professionista) delle clausole del regolamento negoziale destinato
a disciplinare il rapporto contrattuale, adottato dalle parti (ma in realtà imposto unilateralmente dal professionista e «subìto», il più delle volte inconsapevolmente, dal consumatore) in occasione dello scambio dei consensi.
A rigore, infatti, stando ai principi accolti in tutti i diritti civili nazionali
dei Paesi UE, laddove una informazione fornita da una parte nella fase precontrattuale non trovi riscontro in una clausola inserita nel regolamento negoziale validamente ed efficacemente adottato per la disciplina del rapporto
contrattuale non v’è dubbio che a produrre effetto sia, e sia soltanto, il contenuto del contratto, sicché l’eventuale discrepanza fra quest’ultimo e il tenore delle affermazioni rese nella fase precontrattuale potrà al più legittimare la controparte ad invocare la caducazione del contratto per dolo o errore
(laddove ovviamente ne sussistano i presupposti) ovvero a far valere pretese
risarcitorie fondate sulla responsabilità precontrattuale.
Non è invero la prima volta che il legislatore UE si fa carico di questa esigenza.
Già l’art. 3, par. 2, della direttiva 90/314/CEE concernente i viaggi, le vacanze e i circuiti «tutto compreso», aveva statuito che, nell’ipotesi in cui venga messo a disposizione del consumatore un «opuscolo» 61, le «informazioni» (Particulars, Informations, Angaben, Información) contenute nell’opuscolo
«impegnano» (are binding; binden; engagent; serà vinculante) l’organizzatore
o il venditore, a meno che prima della conclusione del contratto siano state
sollten eine ausdrückliche Vereinbarung über die Änderung des Inhalts des anschließend abgeschlossenen Vertrags ... abschließen können; deben poder acordar expresamente un cambio en el contenido
del contrato posteriormente celebrado).
61
Ipotesi nella quale sorge l’obbligo di inserire nell’opuscolo in questione, in maniera leggibile, chiara e precisa, le informazioni analiticamente elencate nello stesso par. 2 dell’art. 3.
Dottrina
73
«chiaramente comunicate» al consumatore le modifiche eventualmente apportate alle suddette informazioni (nel qual caso l’opuscolo deve farvi esplicito riferimento) ovvero, posteriormente alla conclusione del contratto, vengano effettuate delle modifiche sulla base ed in seguito ad un accordo tra le parti
del contratto.
Anche la direttiva 2008/122/CE, sulla «tutela dei consumatori per
quanto riguarda taluni aspetti dei contratti di multiproprietà, dei contratti
relativi ai prodotti per le vacanze di lungo termine e dei contratti di rivendita e di scambio», dopo aver imposto (art. 4) ai professionisti l’obbligo di
fornire in modo chiaro e comprensibile al consumatore, in tempo utile prima
che questi manifesti la volontà di concludere il contratto, una serie di informazioni «accurate e sufficienti», riportate su di un documento cartaceo o
su di un altro supporto durevole facilmente accessibile, stabilisce (art. 5, par.
2) che le informazioni fornite dal professionista in conformità a tale precetto «formano parte integrante del contratto» e in linea di principio «non
possono essere modificate» se non con «l’accordo esplicito» delle parti,
salve le modifiche causate da circostanze eccezionali indipendenti dal professionista, non prevedibili né evitabili da parte di quest’ultimo, modifiche
che possono eccezionalmente essere apportate dal solo professionista: in
ogni caso, le modifiche apportate alle informazioni fornite nella fase precontrattuale (siano esse concordate esplicitamente dalle parti ovvero unilateralmente operate dal professionista) debbono essere comunicate al consumatore, su carta o altro supporto durevole, prima della conclusione del contratto e debbono essere indicate espressamente nel contratto stesso.
Quest’ultima previsione ha in comune con il par. 5 della direttiva 2011/
83/UE il precetto fondamentale in forza del quale le informazioni precontrattuali «formano parte integrante del contratto» e non possono essere
modificate se non con un accordo espresso delle parti, ma se ne distingue
sotto due profili cruciali: in primo luogo, ammette – accanto alle modifiche
«concordate» dalle parti – anche le modifiche apportate unilateralmente
dal professionista, purché giustificate da peculiari circostanze oggettive non
imputabili al professionista medesimo; in secondo luogo, esige che nel contratto si dia espressamente conto delle modifiche apportate, id est che per
ciascuno degli elementi del regolamento negoziale che non corrisponda
pienamente al contenuto delle informazioni precontrattuali venga evidenziata l’esistenza di tale differenza e venga specificato che la relativa modificazione è stata concordata dalle parti ovvero giustificata da circostanze eccezionali sopravvenute non imputabili al professionista.
74
2011
La statuizione del par. 5 dell’art. 6 della direttiva, oltre ad essere connotata da un forte grado di innovatività, nella misura in cui riconosce espressamente (ed imperativamente) alle informazioni fornite nella fase precontrattuale l’attitudine ad integrare il contenuto del contratto, suscita una pluralità
di eterogenei problemi interpretativi, ai quali in questa sede, per ragioni di
spazio, non possiamo che fare cenno.
Con riguardo all’ipotesi in cui il professionista nella fase precontrattuale
fornisca informazioni in merito ad elementi accessori del regolamento negoziale, che non vengono poi affatto ribaditi nel contenuto del regolamento
negoziale (standardizzato o meno) adottato validamente dalle parti per la
disciplina del rapporto, occorre chiedersi ad es. se le informazioni precontrattuali divengano «parte integrante» del contratto sempre e comunque ovvero soltanto nell’ipotesi in cui siano più favorevoli per il consumatore rispetto alle regole del diritto dispositivo applicabile alla fattispecie che dovrebbero a rigore trovare applicazione al fine di integrare le lacune della volontà negoziale manifestata dai contraenti: quid, ad es., se nelle informazioni
precontrattuali si afferma che la cosa oggetto del contratto verrà consegnata
entro e non oltre i 60 giorni successivi alla stipulazione, mentre nel regolamento negoziale non si rinviene alcuna clausola determinatrice del tempo
della consegna (con la conseguenza che, a rigore, dovrebbe operare il termine di 30 giorni di cui all’art. 18, par. 1, direttiva 2011/83/UE)? Quid, ancora, se nelle informazioni precontrattuali fornite dal professionista viene
prevista la necessità che il consumatore effettui un deposito cauzionale (lett.
q) del par. 1 dell’art. 6) ovvero si faccia carico delle spese di spedizione del
bene (lett. e) del par. 1 dell’art. 6), necessità della quale non si faccia invece
parola nel regolamento negoziale? A rigore, dovrebbe in queste ipotesi riconoscersi che, pur non essendo state ripetute nel regolamento negoziale, tali
previsioni ne siano comunque divenute «parte integrante»: sennonché tale
esito pare non pienamente rispondente alla ratio della norma, ciò che potrebbe indurre a circoscriverne in via interpretativa l’operatività alle sole
ipotesi in cui, per effetto dell’«ingresso» nel regolamento negoziale dell’informazione precontrattuale, il consumatore venga a trovarsi in una posizione giuridica complessivamente più favorevole rispetto a quella in cui si troverebbe qualora l’informazione precontrattuale non divenisse «parte integrante» del contratto.
Quanto invece all’ipotesi in cui il professionista, nel supporto cartaceo o
nel diverso supporto durevole consegnato al consumatore (sollecitato a stipulare un contratto fuori dei locali commerciali) a norma del par. 1 dell’art.
Dottrina
75
7 ovvero attraverso il mezzo di comunicazione a distanza impiegato per assolvere all’obbligo informativo precontrattuale di cui all’art. 6, fornisca in
merito ad elementi essenziali o accessori del regolamento negoziale informazioni non pienamente congruenti con il contenuto del regolamento negoziale validamente adottato per la disciplina del rapporto 62, poiché le informazioni fornite nella fase precontrattuale «formano parte integrante del
contratto» è giocoforza riconoscere che la presenza nel regolamento negoziale di due (o più) clausole che disciplinano con modalità differenti ed inconciliabili il medesimo aspetto del rapporto dia vita ad un «dubbio» che
l’interprete può e deve sciogliere applicando il canone ermeneutico di cui
all’art. 5, par. 2, direttiva 93/13/CEE (v. art. 35, c. 2, c. cons.), e cioè riconoscendo la prevalenza del precetto idoneo a conferire al consumatore la posizione giuridica più favorevole.
La questione forse più delicata suscitata dal par. 5 dell’art. 6 inerisce tuttavia alla natura e alla portata della «obbligatorietà» (v. considerando n. 35)
62
Dal momento che la direttiva non prescrive la necessità che i contratti ad essa soggetti
siano redatti per iscritto, i contratti in questione sono senz’altro a forma libera (salvo che i legislatori nazionali, in sede di attuazione, ritengano opportuno imporre il requisito della forma
scritta). Ne consegue che ai fini del valido ed efficace inserimento – nel regolamento negoziale
destinato a disciplinare il rapporto – delle condizioni generali di contratto predisposte dal professionista, è sufficiente che quest’ultimo abbia rispettato le regole in materia di Einbeziehungskontrolle dettate dal diritto nazionale applicabile alla fattispecie (nel caso del diritto
italiano, l’art. 1341, c. 1, c.c.). Merita in proposito di essere evidenziato che, per i contratti fuori
dai locali commerciali, l’art. 7, par. 2, impone al professionista di consegnare al consumatore un
supporto cartaceo (ovvero, se il consumatore è d’accordo, un diverso supporto durevole) contenente una copia del contratto sottoscritto dalle parti ovvero la «conferma» del contratto,
senza però precisare entro quale termine tale obbligo dev’essere adempiuto ma lasciando comunque intendere che tale obbligo non possa essere adempiuto se non posteriormente (seppur di poco) all’emissione della dichiarazione negoziale del consumatore. Per contro, l’art. 8,
par. 7, dopo aver imposto al professionista di mettere a disposizione del consumatore un supporto durevole contenente la «conferma del contratto concluso», stabilisce espressamente che
tale obbligo deve essere adempiuto «entro un termine ragionevole» successivo alla stipulazione del contratto e comunque non oltre il momento in cui viene consegnato il bene mobile o
viene iniziata la prestazione del servizio. Ne consegue che un professionista che si limitasse a
mettere a disposizione del consumatore, posteriormente all’emissione della dichiarazione negoziale di quest’ultimo, il supporto durevole contenente la «conferma del contratto» (e contenente il testo delle relative condizioni generali) e non si adoperasse per rendere altrimenti
conoscibili le clausole standardizzate da lui predisposte prima che la volontà negoziale del consumatore venga manifestata, non assolverebbe all’onere che gli viene imposto dall’art. 1341, c.
1, c.c., sicché le sue condizioni generali di contratto, ancorché riportate nella «conferma del
contratto» inserita nel supporto durevole, sarebbero inefficaci nei confronti del consumatore.
76
2011
delle informazioni fornite nella fase precontrattuale e della loro conseguente
«non modificabilità» se non «con l’accordo espresso delle parti». Invero, il
par. 5 dell’art. 6 detta due precetti distinti, destinati ad operare in due fasi
diverse del rapporto consumatore-professionista.
Da un lato, con riferimento al momento della conclusione del contratto,
si statuisce che alla formazione dei contenuti del regolamento negoziale destinato a disciplinare il rapporto così instaurato concorrono – accanto alle
clausole pattuite dai contraenti e alle norme (dispositive e imperative) della
legge nazionale applicabile alla fattispecie – anche le informazioni precontrattuali fornite dal professionista in adempimento dell’obbligo di cui al par.
1 dell’art. 6.
Dall’altro, con precipuo riferimento al momento (anteriore alla stipulazione del contratto) in cui tali informazioni sono state effettivamente fornite, si attribuisce alle stesse una immediata vincolatività giuridica, che si sostanzia nella preclusione della possibilità, per il professionista che le abbia
comunicate, di «modificarle» unilateralmente, id est di predisporre i contenuti del regolamento negoziale (destinato ad essere adottato per la disciplina del rapporto successivamente instaurato) con modalità non pienamente
congruenti con il tenore di tali informazioni e meno favorevoli per il consumatore rispetto a queste ultime.
Soltanto un «accordo espresso» delle parti potrebbe privare le informazioni fornite nella fase precontrattuale del connotato della «obbligatorietà»
e della conseguente «immodificabilità».
Non è tuttavia affatto chiaro cosa si sia voluto intendere con questa locuzione. Pacifico infatti che una modificazione (rectius: una clausola di contenuto divergente ed incompatibile con quello di una informazione fornita
nella fase precontrattuale) non può considerarsi frutto di un «accordo
espresso» per il solo fatto di trovarsi inserita in condizioni generali validamente ed efficacemente entrate a far parte del contenuto del contratto (secondo le regole nazionali in materia di Einbeziehungskontrolle), con altrettanta certezza deve escludersi la necessità che la modifica sia stata fatta oggetto di una «trattativa individuale» (nel senso di cui all’art. 3 direttiva
93/13/CE – v. art. 34, c. 4, c. cons.) intercorsa fra le parti. Probabilmente,
dovrebbe ritenersi indispensabile che il regolamento negoziale predisposto
dal professionista che rechi una clausola di tenore divergente quello dell’informazione precontrattuale dia conto in modo chiaro ed inequivoco di
tale diversità, e che la correlativa modifica venga sottoposta ad una specifica
e separata approvazione del consumatore, da esprimersi con un’apposita di-
Dottrina
77
chiarazione resa in occasione della conclusione del contratto: dichiarazione
che, laddove la volontà negoziale del consumatore venga manifestata attraverso la sottoscrizione di un documento cartaceo, potrebbe sostanziarsi
nell’apposizione di una firma ad hoc, ulteriore ed aggiuntiva rispetto a quella
riferentesi alla proposta (o all’accettazione) nel suo complesso 63.
5.3. Le conseguenze del mancato o inesatto adempimento degli obblighi informativi precontrattuali nei contratti «a distanza» e «fuori
dei locali commerciali»
Anche con riferimento agli obblighi informativi contemplati dall’art. 6, la
direttiva omette di dettare una organica e compiuta disciplina delle conseguenze dell’eventuale mancato o inesatto adempimento, lasciando in proposito ampi margini di discrezionalità agli Stati membri, ai quali viene genericamente imposto (art. 24) di adottare misure efficaci, proporzionate e dissuasive per assicurare che gli obblighi in questione vengano effettivamente
rispettati dai professionisti (sicché possono riproporsi, mutatis mutandis, le
considerazioni svolte supra, parr. 4.3 e 4.4).
Merita tuttavia di essere evidenziato che, pur in assenza di una disciplina
generale comune all’inadempimento dell’obbligo di fornire una qualsiasi
delle informazioni elencate nel par. 1 dell’art. 6, la direttiva commina peculiari sanzioni di natura privatistica nei confronti del professionista che ometta di fornire correttamente e tempestivamente al consumatore singole, specifiche informazioni dovute a norma dell’art. 6, par. 1.
In primo luogo, si statuisce (art. 6, par. 6) che, qualora il professionista
non abbia preventivamente informato il consumatore in merito alle spese
aggiuntive di spedizione, consegna o postali o a eventuali «altri costi» diversi dal corrispettivo del bene o del servizio (a norma dell’art. 6, par. 1, lett.
e), il consumatore non sia tenuto a «sostenere tali spese o costi aggiuntivi»:
id est, non sia gravato dalla relativa obbligazione, quand’anche essa venga
contemplata da apposite clausole del regolamento negoziale predisposto dal
professionista e validamente adottato per la disciplina del rapporto contrattuale.
Altrettanto dicasi nell’ipotesi in cui il professionista (in violazione del
precetto della lett. i) del par. 1 dell’art. 6) abbia omesso di informare il con-
63
Come ad es. prescrive l’art. 5, par. 4, della direttiva 2008/122/UE con riguardo alle clausole concernenti lo ius poenitendi che debbono essere inserite nei contratti di multiproprietà.
78
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sumatore in merito alla circostanza che, nel caso di tempestivo esercizio dello ius poenitendi, i costi della restituzione dei beni saranno a suo carico: pure
in questa ipotesi, il consumatore dovrà considerarsi esonerato dall’obbligo
di sostenere le spese di spedizione (e avrà diritto al relativo rimborso, qualora dovesse farvi fronte) quand’anche il regolamento negoziale adottato dalle
parti dovesse prevedere espressamente il contrario (art. 6, par. 1 e art. 14,
par. 1).
Particolarmente gravi sono le conseguenze «sanzionatorie» riconnesse
dalla direttiva al mancato adempimento dell’obbligo di informare il consumatore in merito all’esistenza dello ius poenitendi e alle condizioni, ai termini e alle modalità per esercitarlo, nonché dell’obbligo di consegnare al consumatore il «modulo-tipo» contenente il testo della dichiarazione di recesso, attraverso la cui sottoscrizione il consumatore può manifestare la volontà di avvalersi del relativo diritto: obblighi posti a carico del professionista
dalla lett. h) dell’art. 6.
In primo luogo, infatti, si prevede (art. 10) che tale inadempimento determini la sospensione dell’inizio del decorso del termine di 14 giorni del
quale il consumatore dispone (ex art. 9) per esercitare lo ius poenitendi: un
termine che non inizia a decorrere se non dal giorno in cui l’obbligo di fornire le informazioni di cui alla lett. h) viene effettivamente adempiuto, fermo restando tuttavia che, decorsi 12 mesi dalla data della stipulazione del
contratto (nel caso di servizi) ovvero del conseguimento del possesso della
cosa da parte del consumatore (nel caso di beni mobili) senza che le informazioni di cui alla lett. h) del par. 1 dell’art. 6 siano state fornite, il consumatore perde comunque definitivamente la possibilità di esercitare lo ius poenitendi.
In merito alla disciplina sanzionatoria di cui all’art. 10 merita di essere
evidenziato che essa risulta meno favorevole per i consumatori rispetto alla
disciplina contenuta nelle ora abrogate direttive 85/577/CEE e 97/7/CE,
rispettivamente, per i contratti fuori dei locali commerciali e per i contratti a
distanza.
L’art. 5 della direttiva 85/577/CEE individuava infatti nel momento della ricezione, da parte del consumatore, dell’informazione concernente l’esistenza e le condizioni di esercizio dello ius poenitendi il dies a quo del termine di 7 giorni entro il quale avrebbe potuto essere esercitato tale diritto,
senza prevedere ulteriori condizioni, con la conseguenza che – almeno in linea di principio – fintantoché l’informazione non gli fosse stata fornita il
consumatore avrebbe conservato la possibilità di recedere dal contratto
Dottrina
79
senza limitazioni temporali, e quindi anche ad anni di distanza dalla conclusione del contratto e dalla sua esecuzione 64.
Quanto invece ai contratti a distanza, se è vero che l’art. 6 della direttiva
97/7/CE contemplava un meccanismo «sanzionatorio» analogo a quello
ora delineato dall’art. 10 65, non è meno vero che ai sensi del citato art. 6 direttiva 97/7CE non soltanto l’omissione delle informazioni concernenti lo
ius poenitendi e le sue modalità di esercizio, ma anche l’omissione di una
qualsiasi delle altre informazioni dovute a norma degli artt. 4 e 5 della direttiva stessa aveva per effetto la sospensione dell’inizio del decorso del termine «breve» di (almeno) 7 giorni lavorativi per l’esercizio del diritto di recesso. L’art. 10 della nuova direttiva 2011/83/UE, per contro, riconnette la
sospensione dell’inizio del decorso del termine alla sola omissione delle informazioni concernenti il diritto di recesso, sicché l’inadempimento dell’obbligo di mettere a disposizione del consumatore una qualsiasi delle ulteriori
informazioni dovute a norma dell’art. 6, par. 1 non influisce in alcun modo
(allungandola) sulla durata del termine per l’esercizio del recesso (che rimane comunque di 14 giorni), né tantomeno può impedire che esso inizi a
decorrere il giorno della conclusione del contratto ovvero (nel caso di ne64
Cfr. CGCE, 13 dicembre 2001, cit., che ha dichiarato incompatibili con la direttiva
85/577/CEE le disposizioni contenute nelle normative nazionali di attuazione che, con riferimento alle ipotesi in cui il consumatore non abbia beneficiato dell’informazione sul diritto di
recesso e sulle modalità del suo esercizio, anziché consentire al consumatore di avvalersi in
qualsiasi momento, e sine die, del diritto di recedere dal contratto (fino a quando la suddetta
informazione non gli sia stata fornita), prevedono che il diritto di recesso non possa più essere
esercitato una volta decorso un determinato periodo di tempo (nel caso di specie, inerente alla
legislazione tedesca, un anno) dalla conclusione del contratto o dalla consegna della merce.
Successivamente, con CGCE, 10 aprile 2008, (causa C-412/06), Hamilton, la Corte di Giustizia aveva peraltro precisato che la direttiva 85/577/CEE non impedisce al legislatore nazionale
di prevedere che il consumatore che abbia ricevuto un’informazione errata sull’esistenza e sulle
modalità di esercizio del diritto di recesso contemplato dal suo art. 5, decada dal suddetto diritto se non lo esercita entro il mese successivo al giorno in cui gli obblighi derivanti da un contratto di mutuo a lungo termine sono stati integralmente adempiuti da entrambe le parti del
contratto.
65
A norma dell’art. 6, dir. 97/7/CE, il termine per l’esercizio del diritto di recesso non inizia a decorrere se non dal giorno in cui il consumatore riceve la «conferma per iscritto o su altro supporto duraturo» delle informazioni precontrattuali dovute a norma dell’art. 4, lett. a)-f)
nonché delle ulteriori informazioni di cui all’art. 5. Decorsi tre mesi dalla data della conclusione
del contratto (nel caso di servizi) ovvero dalla data del ricevimento in consegna del bene (nel
caso di contratti aventi ad oggetto beni mobili) senza che l’informazione precontrattuale dovuta dal professionista sia stata ricevuta dal consumatore, quest’ultimo perde comunque definitivamente la possibilità di avvalersi del diritto di recesso.
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gozi relativi a beni mobili) il giorno della consegna del bene.
Infine, va ricordato che il mancato (o inesatto) adempimento dell’obbligo di informare il consumatore in merito all’esistenza del diritto di recesso e
alle condizioni del suo esercizio (ex art. 6, lett. h) ha l’ulteriore conseguenza
sanzionatoria contemplata dal par. 2 dell’art. 14: il consumatore che, dopo
aver ricevuto in consegna il bene mobile oggetto del contratto di vendita, lo
abbia utilizzato con modalità e con un grado di intensità diversi (e superiori) rispetto a quanto strettamente indispensabile per verificarne la natura, le
caratteristiche e il funzionamento, è in via del tutto eccezionale esonerato –
nel caso di valido e tempestivo esercizio dello ius poenitendi – dalla responsabilità per la diminuzione del valore dei beni cagionata da siffatta utilizzazione, id est dall’obbligazione di versare al professionista una somma di denaro di ammontare corrispondente al minor valore che tali beni (da restituire al professionista in conseguenza dell’intervenuto scioglimento del rapporto contrattuale) presentano a causa dell’utilizzazione (diversa o più intensa del normale) che il consumatore ne abbia fatto medio tempore.
EMANUELA NAVARRETTA
ABUSO DEL DIRITTO
E CONTRATTI ASIMMETRICI D’IMPRESA
SOMMARIO:
1. Dogmi, sistema e realtà nei contratti asimmetrici d’impresa. – 2. Dai frammenti normativi al paradigma complesso delle asimmetrie giuridicamente rilevanti. Per un approccio tipologico al problema. – 3. L’abuso dell’autonomia contrattuale e il problema dei rimedi: il coordinamento sistematico
nell’area dei contratti asimmetrici. – 4. Dal sistema ai concetti. Il problema della giustizia contrattuale e il rapporto fra abuso di dipendenza economica e abuso del diritto. – 5. Segue: il rapporto fra abuso del diritto e buona fede oggettiva. In apicibus: abuso sì o abuso no? – 6. Conclusioni.
1. Dogmi, sistema e realtà nei contratti asimmetrici d’impresa
Un vivace fermento dottrinale 1, un pullulare di commenti intorno ad una
sentenza di Cassazione 2, capace di polarizzare le attenzioni ben al di là della
* Professore ordinario di Istituzioni di diritto privato nell’Università di Pisa. Il saggio è destinato agli Studi in onore del Prof. Giovanni Gabrielli.
1
Cfr. per tutti il volume G. GITTI-G. VILLA (a cura di), Il terzo contratto. L’abuso di potere
contrattuale nei rapporti tra imprese, Il Mulino, 2008, passim.
2
La sentenza, oltre ad essere stata commentata nelle principali riviste giuridiche (Cass., 18
settembre 2009, n. 20106, in Foro it., 2010, I, c. 85 ss., con note di A. PALMIERI e R. PARDOLESI,
Della serie «a volte ritornano»; l’abuso del diritto alla riscossa; in Contr., 2010, p. 5 ss. con note
di G. D’AMICO, Recesso ad nutum, buona fede e abuso del diritto, e R. NATOLI, Abuso del diritto e
abuso di dipendenza economica, ibidem, p. 524 ss.; in Corr. giur., 2009, p. 1577 ss., con nota di F.
MACARIO, Recesso ad nutum e valutazione di abusività nei contratti tra imprese: spunti da una recente sentenza della Cassazione; in Nuova giur. civ. comm., 2010, I, p. 231 ss., con note di M. ORLANDI, Contro l’abuso del diritto (in margine a Cass., 18.9.2009, n. 20106), ibidem, p. 129 ss., di
C. SCOGNAMIGLIO, Abuso del diritto, buona fede, ragionevolezza (verso una riscoperta della pretesa funzione correttiva dell’interpretazione del contratto?, ivi, II, p. 139 ss., di F. VIGLIONE, Il giudice
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portata del suo decisum 3, e, da ultimo, le novità della proposta di regolamento sul diritto comune europeo della vendita, COM(2011) 635, accompagnano il tema dei contratti asimmetrici di impresa, sino quasi ad offuscare la
«popolarità» della figura del consumatore.
Le ragioni di una tale effervescenza dottrinale sono da ravvisare non solo
e non tanto in un naturale effetto propagatore delle idee quanto, soprattutto, nell’attitudine dei contratti asimmetrici, specie quelli tra imprenditori, di
coinvolgere molteplici piani del ragionamento giuridico: la dimensione
concettuale e dogmatica, il profilo sistematico e l’esigenza di governare una
realtà oltremodo variegata, riflessa in scarni dati normativi.
L’incredibile complessità dei rapporti di forza che nasconde il mercato,
esempio paradigmatico del «l’opaca impenetrabilità della materia» 4, impone al giurista il gravoso onere di selezionare, attraverso una disciplina settoriale e frammentata, le disuguaglianze giuridicamente rilevanti e gli effetti
che ne conseguono, evitando il duplice e opposto rischio di un immotivato
paternalismo o di un’irragionevole disparità di trattamento.
Contestualmente si delinea il problema di sistema, la necessità di un razionale coordinamento fra i molteplici strati della normativa sul contratto che, rispetto al profilo dei rapporti squilibrati, genera almeno quattro impostazioni:
la tesi monista di chi sposta sul terreno del contratto in generale il controllo di
merito sulla giustizia del regolamento contrattuale 5; la tesi dualista che differenzia la disciplina dei contratti nobili, conclusi ad armi pari, da quella dei contratti asimmetrici 6; la teoria tripartita fra un primo, un secondo e un terzo conriscrive il contratto tra le parti; l’autonomia negoziale stretta tra giustizia, buona fede e abuso del diritto, ibidem, p. 148 ss.; in Obbl. contr., 2010, p. 172 ss., con i commenti di G. VETTORI, L’abuso del
diritto. Distingue frequenter, ivi, p. 166 ss., e di M. ORLANDI, Contro l’abuso del diritto, ivi, p. 176
ss.; in Contr. impr., 2010, p. 41 ss., con nota di M. BARALDI, Il recesso ad nutum non è, dunque, recesso ad libitum. La Cassazione di nuovo sull’abuso del diritto), è stata oggetto di un volume di commenti curato da S. PAGLIANTINI, Abuso del diritto e buona fede nei contratti, Giappichelli, 2010.
3
F. GALGANO, Qui iure suo abutitur neminem laedit?, in Contr. impr., 2011, p. 311 ss.
4
M. ORLANDI, Contro l’abuso del diritto (in margine a Cass., 18.9.2009, n. 20106), cit., p. 133.
5
Cfr. in tal senso P. PERLINGIERI, Nuovi profili del contratto, in Rass. dir. civ., 2000, p. 560 ss.;
ID., Equilibrio normativo e principio di proporzionalità, in Rass. dir. civ., 2001, p. 347; F. VOLPE, La
giustizia contrattuale tra autonomia e mercato, Esi, 2004, p. 186 ss.; R. ROLLI, Le attuali prospettive
di «oggettivazione dello scambio»: verso la rilevanza della «congruità dello scambio contrattuale»?,
in Contr. impr., 2001, p. 621; EAD., Causa in astratto e causa in concreto, Cedam, 2008, p. 145 ss.
6
V. ROPPO, Contratto di diritto comune, contratto del consumatore, contratto con asimmetria
di potere contrattuale: genesi e sviluppi di un nuovo paradigma, in Riv. dir. priv., 2001, p. 769 ss.,
nonché in Il contratto del duemila, Giappichelli, 2005, p. 23 ss.; ID., Parte generale del contratto,
Dottrina
83
tratto 7; sino all’ipotesi del positivismo oltranzista che legge in termini di previsioni eccezionali tutte le disposizioni sul controllo sostanziale dell’autonomia
privata 8. Ne aggiungeremo una quinta – in certo senso una variante della tesi
dualista – che unisce ad una visione complessa e tipologica delle debolezze
contrattuali lo sforzo di un coordinamento sistematico unitario fra i contratti
asimmetrici, specie nella prospettiva rimediale 9.
Infine, risalendo nel ragionamento dal sistema ai concetti, prende corpo la
questione dogmatica: il timore di un inglorioso tramonto della categoria del
contratto travolta dalla forza delle normative di settore e la necessità di governare un vero e proprio turbinio di nozioni e di clausole generali, che vanno
dall’abuso di dipendenza economica all’abuso dell’autonomia contrattuale,
dalla giustizia contrattuale all’abuso del diritto, sino alla buona fede oggettiva.
Il tema dei contratti asimmetrici è divenuto così terreno elettivo delle grandi
contrapposizioni odierne, luogo ideale in cui si fronteggiano l’esaltazione delle
clausole generali, non sempre rispettosa del necessario rigore proprio delle ricostruzioni classiche, e un neogiuspositivismo, collocato oramai in una realtà
normativa a tal punto frammentata, e spesso irrazionale, da condurre all’esito
del nichilismo, preludio fatale di un’abdicazione del ruolo del giurista.
2. Dai frammenti normativi al paradigma complesso delle asimmetrie giuridicamente rilevanti. Per un approccio tipologico al problema
La complessità del tema impone di partire dal basso, da quelle norme
contratti del consumatore e contratti asimmetrici (con postilla sul «terzo contratto»), in Riv. dir.
priv., 2007, p. 669 ss.; ID., Prospettive del diritto contrattuale europeo. Dal contratto del consumatore al contratto asimmetrico?, in Corr. giur., 2009, p. 267 ss.
7
Cfr. la presentazione di Pardolesi al volume di G. COLANGELO, L’abuso di dipendenza economica tra disciplina della concorrenza e diritto dei contratti. Un’analisi economica e comparata,
Giappichelli, 2004, p. XIII e soprattutto i saggi raccolti nel volume di G. GITTI-G. VILLA (a cura
di), Il terzo contratto, cit., passim. Cfr. altresì, F. MACARIO, Recesso ad nutum e valutazione di
abusività nei contratti tra imprese, cit., p. 1584 ss. In una chiave prevalentemente descrittiva del
problema si colloca la monografia di R. FRANCO, Il terzo contratto: da ipotesi di studio a formula
problematica. Profili ermeneutici e prospettive assiologiche, Cedam, 2010, passim.
8
E. RUSSO, Imprenditore debole, imprenditore-persona, abuso di dipendenza economica, «terzo
contratto», in Contr. impr., 2009, p. 120 ss.
9
V. infra il paragrafo successivo. In tal senso ci eravamo già orientati nel saggio E. NAVARRETTA, Buona fede oggettiva, contratti di impresa e diritto europeo, in Riv. dir. civ., 2005, I, p. 515 ss.
84
2011
sparse nel sistema che proiettano l’attenzione del giurista su una realtà nuova, su squilibri nell’esercizio del potere di autonomia privata, che si distaccano dal paradigma del consumatore e che coinvolgono un soggetto nell’immaginario tradizionale associato all’idea della forza e del potere privato: l’imprenditore.
Norma cardine è l’art. 9, l. 192/1998 sull’abuso di dipendenza economica 10, che presenta il duplice volto della descrizione di un’asimmetria di potere contrattuale e del controllo sostanziale sull’atto di autonomia privata.
Ad essa si affianca la peculiare disciplina introdotta dalla proposta di regolamento COM(2011) 635 che, da un lato, estende ai contratti di vendita
transfrontalieri B2b, dove la seconda ‘b’ designa la PMI, il controllo sulle
clausole abusive non negoziate, secondo quanto stabilito nella sezione 2,
capo 8, dell’Annex I, da un altro lato, affida l’operatività della normativa alla
peculiare tecnica opt-in.
Si aggiungono, sullo sfondo, disposizioni che rivestono un ruolo importante, ma meno decisivo o perché le stimmate della debolezza sono da taluno revocate in dubbio 11 – come nel caso del d.lgs. 231/2002 sui c.d. ritardi
di pagamento 12 – o perché la tutela dell’imprenditore debole viene affidata a
controlli di tipo formale o che comunque non comportano un sindacato di
merito sul regolamento di interessi. È quanto si rileva per la disciplina sull’affiliazione commerciale (l. 129/2004) 13, per quella sul contratto di agen10
Sul tema cfr., in particolare, A. BARBA, L’abuso di dipendenza economica: i profili generali,
in La subfornitura nelle attività produttive, a cura di V. Cuffaro, Jovene, 1998, p. 297 ss.; G. COLANGELO, L’abuso di dipendenza economica tra disciplina della concorrenza e diritto dei contratti,
cit., passim; T. LONGU, Il divieto di abuso di dipendenza economica nei rapporti tra le imprese, in
Riv. dir. civ., 2000, II, p. 345 ss.; M.R. MAUGERI, Abuso di dipendenza economica e autonomia
privata, Giuffrè, 2003, p. 131 ss.; S. PAGLIANTINI, L’abuso di dipendenza economica tra legge speciale e disciplina generale del contratto, in Squilibrio e usura nei contratti, a cura di G. Vettori, Cedam, 2002, p. 455 ss.; R. NATOLI, L’abuso di dipendenza economica, Jovene, 2004, p. 126 ss.
11
Così E. RUSSO, Imprenditore debole, imprenditore-persona, abuso di dipendenza economica,
«terzo contratto», cit., p. 128.
12
Tale disciplina, peraltro, contempla all’art. 7 la nullità della clausola contrattuale sugli interessi che risulti gravemente iniqua.
13
Rispetto alle previsioni di forma della legge sul franchising è importante escludere una lettura in chiave di eccezionalità sia in nome del tramonto o quanto meno del ridimensionamento
del c.d. principio di libertà delle forme, che ha visto dilagare nei più vari comparti non limitati
ai contratti dei consumatori un neoformalismo protettivo, sia per evitare che il labilissimo confine tra franchising e concessione di vendita o figure similari sia utilizzato per evitare gli obblighi
informativi e le prescrizioni di forma.
Dottrina
85
zia (dir. 86/653/CEE) e per le recenti direttive che evocano finanche
l’immagine di una micro-impresa 14.
Or dunque, se il controllo di tipo sostanziale sul regolamento di interessi
si focalizza prevalentemente intorno all’abuso di dipendenza economica, è
naturale chiedersi come sia potuta sorgere, rispetto ad una norma nascosta
fra le pieghe di un tipo contrattuale, l’idea di ravvisarvi una disposizione di
respiro generale 15.
A fondare tale supposizione non bastano né il tenore letterale della norma né l’esigenza di reagire a una realtà di soprusi che valica ampiamente i
confini della subfornitura.
A queste due spinte deve aggiungersene una terza di respiro sistematico:
l’art. 9 non è una previsione isolata nell’ordinamento ma è uno dei segni, insieme con altre discipline, a partire da quella sulle clausole vessatorie nei
contratti dei consumatori, del tramonto – quale auspicato da autorevole dottrina 16 – della finzione di uguaglianza formale e del relativo principio liberale.
Ma qual è l’orizzonte che si schiude una volta infranto il velo della finzione di uguaglianza, della riduzione ad un’unica maschera del soggetto
contraente? Forse quello di un unico tipo di diversità valido per tutti o quello della rilevanza di qualsiasi debolezza direttamente agganciata al principio
di uguaglianza sostanziale?
L’ipotesi di un paradigma generale e generico di debolezza rischia o di
falsare la realtà o di delineare un concetto giuridicamente sfuggente, una
sorta di delega in bianco alla sensibilità e all’arbitrio del singolo giudice, smentita dallo sforzo del legislatore di disegnare diverse tipologie di asimmetrie
La duplice ragione induce a ravvisare nella disciplina sul franchising un paradigma più ampio capace di abbracciare, per indiscutibile comunanza di ratio, tutti i contratti variamente denominati che tendono a realizzare una struttura di integrazione commerciale verticale e che, dunque, determinano nell’area dell’attività commerciale situazioni di dominanza economica. Cfr. in
tal senso A. FICI, La qualificazione del contratto di franchising, in Riv. dir. priv., 2009, pp. 116-117
che si rifà all’idea originaria di R. PARDOLESI, Contratti di distribuzione, in Enc. giur. Treccani, IX,
Istituto della Enciclopedia italiana, 1988, ad vocem p. 5 secondo cui: «i contratti di distribuzione
[…] presentano nel loro complesso, contorni nitidi e sufficientemente omogenei; mentre sembra
destinato al fallimento ogni tentativo di ricavare, al loro interno, figure autonome».
14
V. infra alla fine del paragrafo.
15
Cfr. R. CASO-R. PARDOLESI, La nuova disciplina del contratto di subfornitura (industriale):
scampolo di fine millennio o prodromo di tempi migliori?, in Riv. dir. priv., 1998, p. 25.
16
P. RESCIGNO, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1965, I, p. 205 ss. ora in ID., L’abuso del
diritto, Il Mulino, 1998, p. 131.
86
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giuridicamente rilevanti, per di più associate a differenti conseguenze.
Come nel dibattito sulla forma non si è passati dal principio di libertà
delle forme ad un principio opposto di generalizzato formalismo, bensì ad
una dimensione binaria autorevolmente descritta nei termini di contratti a
struttura debole e di contratti a struttura forte 17, analogamente nel nostro
terreno non si passa dal principio del qui dit contractuelle dit juste ad un controllo diffuso di giustizia sul contratto, ma ad un sistema duale: quello dei
contratti nobili, in cui l’esercizio dell’agone ad armi pari è in sé garanzia di
giustizia, e quello dei contratti asimmetrici, in cui la disuguaglianza non garantisce in sé la giustizia della contesa contrattuale e dunque si impone un
vaglio di merito sul regolamento di interessi.
Lo spazio dell’interprete nel segnare la linea di discrimine fra i due ambiti
non è – come si è anticipato – quello di inventare debolezze giuridicamente
rilevanti, bensì quello di collocare le disposizioni normative che danno spessore alle disuguaglianze nell’ambito del secondo principio e, in forza di questo,
ricostruire con le maglie più larghe e più ampie possibili, aperte anche al ragionamento analogico, le tipologie di debolezze rilevanti sul terreno giuridico.
Proprio tale collocazione sistematica consente, dunque, di allargare il
compasso dell’art. 9 sino ad abbracciare l’intera latitudine della sua stessa
ratio, che descrive la condizione di debolezza di chi non ha alternative soddisfacenti sul mercato e, di conseguenza, è costretto a subire, a cagione di una
pregressa relazione commerciale che pone in una situazione di tipo lock in
l’impresa dipendente, l’imposizione di clausole inique 18.
Simile ratio supera non soltanto l’orticello della subfornitura, ma anche i
confini dei «fenomeni di integrazione verticale tra imprese», entro i quali la
norma era stata costretta dall’interpretazione puramente estensiva del foro
capitolino 19, potendo la disposizione riferirsi – in forza dell’inquadramento
sistematico proposto – a qualsiasi relazione contrattuale idonea a creare una
dominanza relativa 20.
Se dunque la prospettiva metodologica è quella che identifica le tipologie
17
N. IRTI, Idola libertatis. Tre esercizi sul formalismo negoziale, Giuffrè, 1985, passim.
G. COLANGELO, L’abuso di dipendenza economica tra disciplina della concorrenza e diritto
dei contratti, cit., pp. 44 ss. e 74 ss.
19
Trib. Roma, 5 febbraio 2008, n. 2688, in Giur. merito, 2008, p. 2248.
20
Sugli orientamenti giurisprudenziali in materia di subfornitura cfr. la rassegna di M. RUVOLO, Questioni giurisprudenziali in tema di subfornitura industriale e abuso di dipendenza economica, in Corr. giur., 2010, p. 599 ss.
18
Dottrina
87
di debolezze giuridicamente rilevanti e le ricostruisce con una tessitura ampia, il quesito successivo è se un simile approccio veda delinearsi una netta
distinzione fra il ruolo di consumatore e quello di imprenditore debole.
Orbene, in linea tendenziale la debolezza dell’imprenditore consiste primariamente in una mancanza di alternative sul mercato, che può essere determinata: da un dominio relativo, come si inferisce dalla disciplina sull’abuso di dipendenza economica; da un dominio assoluto, come nel caso dell’abuso di posizione dominante o dei contratti a valle di accordi che violino disposizioni antitrust; o ancora da un generalizzato mal costume sul mercato,
come si evince da una delle possibili ricostruzioni della disciplina sui ritardi
di pagamento.
Per converso, la debolezza del consumatore consta essenzialmente della
mancanza di potere di negoziazione derivante dalla sua asimmetria informativa.
Ciò premesso è doveroso un caveat.
Lo sforzo di razionalizzare le tipologie di debolezza con l’attrazione sui
due poli dell’imprenditore e del consumatore non consente di giungere sempre ad una corrispondenza biunivoca fra tipi di debolezze e ruoli sul mercato.
E infatti se la mancanza di alternative sul mercato è, di regola, il tipo di
debolezza più ricorrente in capo all’imprenditore, essa non è estranea anche
al consumatore, ove questo agisca a valle di accordi che violano la disciplina
antitrust, sicché è da condividere la proposta di applicare anche ad essi un
controllo sull’equità economica del regolamento contrattuale 21.
Per converso, la mancanza di potere di negoziazione è la condizione di debolezza più frequente in capo al consumatore ma può ben ravvisarsi anche in capo
all’imprenditore. Se, infatti, si amplia lo sguardo dalla disciplina vigente nel nostro sistema alle prospettive europee emergenti sia dalla comparazione con il
modello tedesco sia dalla lettura del Draft Common Frame of Reference (e specificamente dell’art. II – 9:405), si delinea come anche nei rapporti fra imprenditori
si possa prospettare una debolezza consistente nella mancanza di potere di negoziazione, allorché l’imprenditore subisca l’imposizione di standard terms.
A fortiori, questo dato è confermato dalla proposta di regolamento COM
(2011) 635 22 che contempla un controllo sul carattere abusivo delle clausole
previste nei contratti B2b, qualora una delle parti sia una PMI secondo la de21
È la tesi di M. LIBERTINI, Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust, II, in Danno resp., 2005, p. 251.
22
Cfr. in proposito F.P. PATTI, Le clausole abusive e l’“optional instrument” nel percorso
dell’armonizzazione in Europa, in Contr. impr./Eur., 2011, p. 662 ss.
88
2011
finizione dell’art. 7, e ferma restando la previsione dell’art. 13, sul presupposto
della mancata negoziazione delle clausole. La PMI condivide dunque con il
consumatore la medesima debolezza, pur se le due posizioni non sono totalmente omologate: il consumatore non deve provare la mancata negoziazione
delle clausole, mentre la medesima presunzione non vale per l’imprenditore
debole, che dunque invocherà la tutela essenzialmente a fronte di clausole
standard; al contempo, per provare l’abusività la PMI non potrà giovarsi di
liste di favore né black né grey che invece supportano la posizione del consumatore. Non diverge, al contrario e a dispetto di una prima lettura, il parametro di valutazione dell’abusività poiché, nonostante il differente richiamo alla
correttezza, nel contratto B2C, e alle buone pratiche commerciali, nel contratto B2b, il criterio di giudizio resta quello della buona fede oggettiva, palesemente sotteso all’aggettivo “buone” evocativo di un parametro di tipo assiologico. Del resto, se la correttezza è chiamata ad orientare il mercato, sarebbe
assurdo che fosse la stessa correttezza a essere valutata sulla base delle prassi
del mercato. Piuttosto occorre ritenere che, quando si diffonde sul mercato
una pratica che risulta coerente con la regola di correttezza, tanto da renderla
una “buona prassi”, allora essa stessa finisce per concretizzare il canone di correttezza e per divenire dunque un parametro di valutazione di una condotta
corretta fra imprenditori. Una conferma di tale lettura viene dall’art. 170
dell’Annex I là dove, con riferimento alle clausole sui termini di pagamento,
sui tassi di interessi di mora e sugli indennizzi per le spese di riscossione, si dice che esse sono vessatorie se si discostano «manifestamente dalle buone
pratiche commerciali, in contrasto con la buona fede e correttezza».
In definitiva, è doveroso constatare che i ruoli di consumatore e di imprenditore non hanno un valore assoluto, ma servono, talora da soli talora combinati
con particolari circostanze, a far emergere profili della debolezza giuridicamente
rilevanti, che si riflettono sul controllo esperibile sull’atto di autonomia privata.
E, infatti, la mancanza di alternative sul mercato è un tipo di debolezza
nell’esercizio del potere di autonomia così dirompente da consentire un vaglio nel merito del regolamento di interessi esteso finanche all’aspetto strettamente economico.
Per converso, la mancanza del potere di negoziazione induce a verificare
unicamente l’aspetto della giustizia normativa del contratto e questo non
perché esista una drastica contrapposizione fra giustizia normativa e giustizia economica, ma proprio perché la ricaduta economica dell’ingiustizia
normativa non è di immediata evidenza (o può essere sottovalutata) e, dunque, merita una specifica considerazione in situazioni in cui la debolezza
Dottrina
89
non è così grave da determinare la mancanza di alternative sul mercato.
All’uopo, il consumatore – price conscious but terms unconscious – non riesce, a causa della sua asimmetria informativa, a ponderare il peso economico delle clausole inique sul piano normativo e, facendosi guidare esclusivamente dal prezzo, sottovaluta o trascura proprio il costo dell’iniquità normativa, da cui dunque va difeso. Viceversa, cadrebbe nel paternalismo una
tutela estesa al prezzo puramente iniquo, posto che rispetto ad esso il consumatore – sempre che operi in un mercato concorrenziale – sa e può salvaguardarsi da solo rivolgendosi a migliori offerenti.
Analogamente, l’imprenditore che aderisce a contratti standard, se è vero
che è in grado di stimare il costo delle clausole inique, pur tuttavia non ha il
potere di negoziarle, sicché finirà per accettare il pacchetto di condizioni più
scorrette ma con un prezzo più basso, preferendo un costo incerto e potenziale (come quello dell’iniquità normativa) a un costo certo e attuale (come
quello del corrispettivo).
Chiarito che i ruoli di consumatore e di imprenditore servono ad identificare tipi di asimmetrie, che, a loro volta, condizionano il controllo sostanziale sull’atto di autonomia privata, non va trascurato che il mondo delle disuguaglianze contrattuali è così variegato e complesso, che ben possono
configurarsi condizioni di debolezza non a tal punto erosive del potere di
autonomia da dover imporre un controllo di merito sul regolamento di interessi, ma tali comunque da giustificare regole di tutela meno dirompenti e
magari limitate al piano della forma, dell’informazione e della trasparenza.
E poiché ciò che conta è il tipo di debolezza che si delinea e il tipo di rimedi che ne derivano sul contratto, non deve stupire che l’imprenditore possa, in
determinate circostanze, essere trattato alla stessa stregua del consumatore.
Così se la debolezza è un’asimmetria informativa dovuta alla particolare
natura della prestazione offerta è naturale che la tutela consistente in vincoli
di informazione, di trasparenza e di forma sia applicata non solo al consumatore, ma anche ad imprenditori che non abbiano una specifica competenza in
merito all’oggetto del contratto: è quanto emerge dalla direttiva sui servizi
della società dell’informazione (2000/31) e dalle direttive Mifid 2004/39 e
2006/73, dove la protezione si estende a imprenditori che non siano soggetti qualificati da specifiche competenze in materia finanziaria e creditizia
(imprese di investimento, enti creditizi, imprese assicurative e altri) 23.
23
Cfr. V. ROPPO, Prospettive del diritto contrattuale europeo. Dal contratto del consumatore al
contratto asimmetrico?, cit., pp. 267 e 273 s.
90
2011
E ancora il legislatore (con l’art. 4, d.lgs. 11/2010), su impulso della normativa comunitaria (dir. 2007/64/CE) 24, ha iniziato a dare risalto, rispetto
a prestazioni particolari come i servizi di pagamento, ad una debolezza in
senso più strettamente finanziario, che attiva una tutela incentrata sull’informazione, sulla forma e su alcune specifiche pattuizioni, come quelle relative
alle spese. Viene così ad emergere la c.d. microimpresa, definita come l’impresa con meno di 10 dipendenti e con un fatturato annuo non superiore a
due milioni di euro 25, la cui tutela richiede, per ragioni di debolezza similare
anche se non identica a quella del consumatore, l’attivazione di rimedi analoghi.
In definitiva, i ruoli di consumatore e di imprenditore sono fondamentali
nella ricostruzione ermeneutica delle tipologie di disuguaglianze macroeconomiche giuridicamente rilevanti, ma non identificano affatto stati giuridici
drasticamente distinti; la bussola per non perdersi nel mare delle debolezze
non è quella di ridurre la complessità ad un unicum né alla dicotomia consumatore/imprenditore debole, bensì quella di ricostruire ad ampie maglie
e senza escludere il ricorso all’analogia i tipi di asimmetrie giuridicamente
rilevanti, ordinandoli in funzione della ratio della debolezza e del tipo di
controllo che rendono operante sul contratto.
3. L’abuso dell’autonomia contrattuale e il problema dei rimedi: il
coordinamento sistematico nell’area dei contratti asimmetrici
Chiarito che i ruoli di consumatore e di imprenditore debole non identificano specifici stati giuridici, deve precisarsi che essi neppure evocano categorie contrattuali o comparti di disciplina nettamente distinti e non comunicanti.
Il coordinamento sistematico fra le diverse tipologie di contratti asimmetrici, necessario ab imis per guidare l’interpretazione delle norme in cui si dà
risalto a situazioni di debolezza contrattuale, diviene essenziale e imprescindibile per ricostruire la disciplina dei rimedi.
Questa affermazione segna un netto distacco da uno degli assiomi della
teoria del terzo contratto che dalla corretta intuizione dell’esigenza di un
apparato rimediale, specchio delle caratteristiche specifiche della debolezza
24
V. ROPPO, Prospettive del diritto contrattuale europeo. Dal contratto del consumatore al contratto asimmetrico?, cit., p. 274 s.
25
Cfr. la raccomandazione della Commissione C (2003)1422.
Dottrina
91
dell’imprenditore, inferisce la necessità che la disciplina dei rimedi si ricavi
integralmente all’interno del sottosistema e tutt’al più attingendo alle regole
sui tipi negoziali o, de residuo, alle regole generali.
Sennonché, pur dovendosi condividere l’idea che non esista un paradigma unitario e amorfo di contratto asimmetrico e che il primo passaggio interpretativo debba guardare all’interno della specifica tipologia di debolezza 26, non vi è dubbio che il successivo procedimento ermeneutico, diretto a
ricostruire l’apparato rimediale, debba rivolgersi alle altre figure di contratti
asimmetrici per almeno due ragioni: è in tale ambito che possono rinvenirsi
regole plasmate sull’esigenza della tutela privilegiata di una parte ed è sempre in tale contesto che possono ravvisarsi rimedi adeguati a bilanciare lo
squilibrio nell’esercizio dell’autonomia privata.
Orbene, sul terreno dei rimedi è di immediata evidenza l’inadeguatezza
della nullità, apparentemente di pieno diritto, dettata per l’abuso di dipendenza economica e non attenuata dal rimedio correttivo, previsto solo nella
disciplina sui ritardi di pagamenti.
Nella soluzione del problema i paradigmi concettuali del terzo contratto
sembrano intrappolare il ragionamento. E infatti la legittimazione relativa
viene argomentata adducendo che la nullità invocata dalla parte dominante
sarebbe equivalente ad un’interruzione ingiustificata della relazione commerciale, sicché la nullità relativa sarebbe desumibile in via di logica 27. Sennonché, in mancanza di argomenti per sostenere ab imis la nullità di protezione, diviene difficile qualificare alla stregua di «interruzione ingiustificata» delle relazioni il ricorso ad un rimedio concesso dalla legge.
Analogamente non convince il tentativo di preservare l’interesse della parte dipendente a salvaguardare il contratto, allorché l’iniquità dell’accordo
colpisca il suo cuore, ossia il prezzo, invocando un potere integrativo del giudice ex art. 1374 c.c. 28. Simile proposta trova un ostacolo nella nullità parziale necessaria e comunque un impedimento dirompente nel venir meno di
un elemento essenziale del contratto.
Ben altre prospettive si aprono ammettendo il coordinamento sistematico con altri comparti dei contratti asimmetrici.
26
Cfr. sul punto A. ZOPPINI, Premesse sistematiche all’analisi del recesso nel contratto tra imprese, in Il terzo contratto, a cura di G. Gitti-G. Villa, cit., p. 231 ss.
27
G. VILLA, Invalidità e contratto tra imprenditori in situazione asimmetrica, in Il terzo contratto, a cura di G. Gitti-G. Villa, cit., p. 134.
28
G. VILLA, Invalidità e contratto tra imprenditori in situazione asimmetrica, cit., p. 135.
4.
92
2011
La nullità può configurarsi come nullità di protezione e, dunque, riesce a
depurare il contratto dalle pattuizioni inique, secondo la logica della nullità
parziale necessaria che, diversamente dal c. 1 dell’art. 1419 c.c., comprime
l’autonomia privata della parte forte a tutela della parte debole.
D’altro canto, ove si verificasse, come spesso avviene nell’abuso di dipendenza economica, che l’iniquità colpisca proprio il corrispettivo, si aprono due possibili itinerari.
Il primo, forse più ardito, consiste nell’utilizzare la disciplina sui ritardi di
pagamento, in raccordo con proposte avanzate nei laboratori progettuali del
diritto europeo, con alcune previsioni dei tipi negoziali e da ultimo con lo
stesso principio di buona fede, per proporre in via ermeneutica un rimedio
di tipo correttivo.
Il secondo itinerario, meno complesso e che comunque potrebbe anche
affiancare il primo, è quello di fondare sulla legittimazione relativa della nullità di protezione la possibilità per l’imprenditore dipendente di preservare
la validità dell’atto e di agire unicamente con l’azione risarcitoria. In tal modo, associando alla validità dell’atto il rimedio del risarcimento del danno si
consegue un risultato economico fortemente similare, anche se non del tutto coincidente, con l’abbinamento del rimedio della nullità con l’intervento
correttivo.
Appare, dunque, evidente come l’approccio metodologico del terzo contratto resti soffocato dentro la «tenaglia» 29 di norme di settore inadeguate
e di regole generali plasmate per il contratto nobile, o ad armi pari. Un falso
vessillo di logica coerenza ingessa la teoria, impedendole di accedere a tutti
gli strati della disciplina del contratto, che vanno dalla maggiore vicinanza
alla specificità della fattispecie alla similitudine fra contratti asimmetrici, per
risalire infine alle regole generali.
4. Dal sistema ai concetti. Il problema della giustizia contrattuale e
il rapporto fra abuso di dipendenza economica e abuso del diritto
L’ultimo livello del ragionamento sistematico, quello che considera il
rapporto fra la disciplina di settore connotata dall’asimmetria di potere con-
29
L’immagine è di N. IRTI, La tenaglia. In difesa dell’ideologia politica, Laterza, 2008, passim.
Dottrina
93
trattuale e la normativa generale sul contratto, dà accesso alla dimensione
concettuale e dogmatica del tema.
Su di essa si è innestata prepotentemente la pronuncia n. 20106/2009 30
della sez. III della Cassazione 31 che ha suscitato «grande stupore [per] lo
spropositato numero di commenti, spesso critici, non di rado fortemente
ostili» 32 con i quali è stata accolta.
La sentenza che applica la figura dell’abuso del diritto all’esercizio di un recesso ad nutum attiene ad una fattispecie concreta, la cui più puntuale e inappuntabile ricostruzione si deve ad un commentatore, che è stato anche difensore dei ricorrenti. «La Renault Italia aveva comunicato il recesso dal contratto di concessione di vendita a circa 200 concessionari dichiarando il proposito […] di voler ristrutturare la rete di distribuzione dei propri prodotti in Italia. Contemporaneamente, tuttavia, […] aveva consensualmente risolto il
contratto di lavoro con una serie di propri dirigenti, con il patto di tramutare
il rapporto di lavoro in concessione di vendita, collocandoli al posto dei concessionari revocati [così evitando] l’onere finanziario del trattamento di fine
rapporto. […] In tal modo – questa era la doglianza dei concessionari revocati – la cedente aveva attuato, sotto le false apparenza della ristrutturazione della rete di distribuzione, una riduzione del proprio interno personale, e senza
onere finanziario, giacché nulla era dovuto ai concessionari revocati. I quali,
oltre al danno derivante dalla risoluzione anticipata del contratto, lamentavano l’ulteriore danno di vedere frustrati gli ingenti investimenti che il concessionario li aveva recentemente indotti ad effettuare, suscitando il legittimo affidamento sulla prosecuzione del rapporto contrattuale» 33.
Dinanzi a simile vicenda la dottrina ha oscillato tra differenti impostazioni: la critica per la mancata applicazione dell’abuso di dipendenza economica 34 o per il mancato ricorso in via analogica alla normativa dettata in
30
V. supra nota 2.
È interessante segnalare come non sia infrequente che l’attenzione al tema dell’abuso del
diritto venga alimentata da interventi della giurisprudenza. Si pensi al noto precedente Cass.,
15 novembre 1960, n. 3040, in Foro it., 1961, I, c. 256 ss., con nota di A. SCIALOJA, Il «non
uso» è «abuso» del diritto soggettivo?, che ha dato spunto alla fondamentale riflessione di P.
RESCIGNO, L’abuso del diritto, cit., p. 11 ss.
32
F. GALGANO, Qui iure suo abutitur neminem laedit?, cit., p. 311 ss.
33
F. GALGANO, Qui iure suo abutitur neminem laedit?, cit., p. 316.
34
Cfr. F. MACARIO, Recesso ad nutum e valutazione di abusività nei contratti tra imprese, cit.,
p. 1586.
31
94
2011
materia di agenzia 35, il disappunto per il richiamo alla categoria dell’abuso
del diritto 36 o l’opposta reazione di chi non comprende il senso delle critiche 37 e il feroce attacco ad una categoria come l’abuso del diritto ampiamente utilizzata dalla giurisprudenza 38 e di cui – confutato l’abbinamento con
la buona fede oggettiva 39 – si difende una nozione identificata con l’esercizio finalizzato ad «obiettivi diversi da quelli per il cui conseguimento il diritto è riconosciuto» 40. Lo sviamento si sarebbe, in particolare, verificato
nel caso di specie poiché il «diritto di recesso dal contratto di concessione
di vendita [avrebbe conseguito] un obiettivo del tutto estraneo alla causa di
questo contratto, qual era non la ristrutturazione della rete di distribuzione
(obiettivo rientrante nella causa di questo contratto), ma la riduzione a costo zero del personale dirigente interno (obiettivo non rientrante nella sua
causa)» 41. Se ne inferisce – in base a tale visione, come si dirà, non del tutto
convincente – che, se vi fosse stato un recesso ad nutum esercitato dopo che
era stato ingenerato un affidamento nella prosecuzione del rapporto, ma
motivato dall’esigenza di ristrutturare la rete di impresa, anziché dall’intento
elusivo della normativa giuslavoristica, non si sarebbe potuto ravvisare un
abuso del diritto.
La sintesi delle differenti reazioni alla pronuncia è in sé rappresentazione
icastica delle ragioni di tanto interesse per un intervento che, con i suoi obiter dicta più ancora che con il suo decisum, ha il potere di richiamare l’attenzione degli interpreti sulla relazione fra concetti e sulla ricostruzione di categorie tuttora così controverse da motivare in parte lo stesso smarrimento
della giurisprudenza. Si delineano, all’uopo, i tratti problematici del rappor-
35
M.R. MAUGERI, Concessione di vendita, recesso e abuso del diritto. Note critiche a Cass. n.
20106/2009, in S. PAGLIANTINI, Abuso del diritto e buona fede nei contratti, cit., p. 69 ss.
36
M. ORLANDI, Contro l’abuso del diritto (in margine a Cass., 18.9.2009, n. 20106), cit., p.
129 ss., spec. p. 138.
37
Cfr. F. GALGANO, Qui iure suo abutitur neminem laedit?, cit., p. 311 ss.
38
Cfr. sul punto le considerazioni di F. GALGANO, Qui iure suo abutitur neminem laedit?, cit.,
p. 311, di F. MACARIO, Recesso ad nutum e valutazione di abusività nei contratti tra imprese, cit.,
p. 1581 ss. e di R. NATOLI, Abuso del diritto e abuso di dipendenza economica, cit., p. 528.
39
G. D’AMICO, Recesso ad nutum, buona fede e abuso del diritto, cit., p. 18 ss.; R. NATOLI,
Abuso del diritto e abuso di dipendenza economica, cit., p. 529 e soprattutto C. RESTIVO, Contributo ad una teoria dell’abuso del diritto, Giuffrè, 2007, p. 147 ss.
40
F. GALGANO, Qui iure suo abutitur neminem laedit?, cit., p. 316.
41
F. GALGANO, Qui iure suo abutitur neminem laedit?, cit., p. 316.
Dottrina
95
to concettuale fra abuso di dipendenza economica e abuso del diritto, fra
abuso di dipendenza economica e giustizia contrattuale, fra abuso del diritto
e buona fede oggettiva, fra abuso del diritto e causa del contratto (nonché
frode alla legge), sino al dubbio radicale circa la legittimazione ad esistere
della nozione di abuso.
Iniziando a riflettere sul primo binomio emerge tutta la problematicità
dell’abuso di dipendenza economica a partire dall’oggetto su cui ricade l’abuso: di che cosa si abusa? Si abusa d’avvero – come molti sostengono – di una
mera situazione di fatto 42?
Ma è immediato obiettare che non si vede la ragione per cui dovrebbe rilevare giuridicamente l’abuso di una mera situazione di fatto, cioè di una
posizione che non ha valore giuridico. La verità è che la dipendenza economica non è che il sintomo di uno squilibrio di potere nell’esercizio dell’autonomia contrattuale, sicché oggetto dell’abuso è per l’appunto il potere di autonomia privata esercitato in condizioni di disuguaglianza meritevoli di protezione. L’abuso, in particolare, – come si evince dall’art. 9 della legge sulla
subfornitura – può riguardare l’an, cioè la scelta sul rinnovo o sulla prosecuzione della relazione contrattuale, o il quomodo, ossia il contenuto stesso del
regolamento di interessi pattuito.
Orbene, se l’oggetto dell’abuso è l’autonomia privata non è irrilevante sul
suo modo di operare che l’esercizio del potere sia avvenuto in condizioni di
asimmetria. Infatti, dovendo la reazione all’abuso bilanciare un conflitto fra
soggetti che hanno agito con un differente potere, si giustifica l’intervento di
rimedi capaci di controbilanciare lo squilibrio originario comprimendo l’autonomia privata a scapito del contraente forte: l’obbligo a contrarre in risposta all’ingiustificato rifiuto di vendere o comprare, e la nullità di protezione (senza l’attenuazione del c. 1 dell’art. 1419 c.c.) o il rimedio correttivo
in risposta a un contenuto contrattuale iniquo.
La differenza fra l’abuso del diritto, o anche l’abuso della libertà contrattuale ma fra soggetti che hanno agito ad armi pari, e l’abuso della libertà
contrattuale esercitata in condizioni di disparità di potere risiede, dunque,
proprio sul terreno dei rimedi: solo l’abuso di un’autonomia che è nata sbilanciata ai danni di un soggetto debole può attivare discipline che comprimono l’autonomia del più forte, in tutti gli altri casi l’abuso del diritto può
giustificare unicamente rimedi che non toccano l’autonomia privata, come il
42
Così G. D’AMICO, Recesso ad nutum, buona fede e abuso del diritto, cit., p. 21; R. NATOLI,
Abuso del diritto e abuso di dipendenza economica, cit., p. 524 s.
96
2011
risarcimento del danno, che si invoca per tutti i comportamenti scorretti
nella formazione del contratto, compresa l’ipotesi del dolo incidente. Né è
un caso che i numerosi comportamenti abusivi nei rapporti fra imprenditori
previsti dal code de commerce francese (a seguito della modifica introdotta
con la l. 27 luglio 2010, n. 2010-874, art. 442-6) siano stati correlati soltanto
con il rimedio risarcitorio, salve le fattispecie in cui è richiesto il presupposto della dipendenza economica che pertanto legittimano il rimedio dell’invalidità.
Appare allora evidente come, dinanzi alla richiesta del solo rimedio risarcitorio a fronte di un abuso del diritto di recesso ad nutum, che ha il vòlto
ambivalente dell’abuso del diritto e dell’abuso nel compimento di un atto di
autonomia privata che interrompe una relazione commerciale, non vi fosse
alcuna esigenza di richiedere la dimostrazione del presupposto dell’asimmetria e bene ha fatto la Cassazione a non considerare lo squilibrio di potere
«un discrimine per l’operatività del controllo». Viceversa, se la richiesta fosse
stata quella della nullità di protezione del recesso, di un rimedio cioè che
comprime l’autonomia privata, allora non si sarebbe potuta in alcun modo
eludere la prova dell’asimmetria di potere e, nel caso specifico, l’applicazione estensiva o analogica della dipendenza economica.
L’actio finium regundorum fra abuso del diritto e finanche abuso della libertà contrattuale nei contratti paritari e abuso della libertà contrattuale in
situazioni in cui il potere di autonomia nasce squilibrato fa apparire, di conseguenza, impossibile attribuire alla figura dell’abuso del diritto il potere di
far transitare, sul piano concettuale, dai contratti asimmetrici al contratto in
generale un controllo di merito sul contenuto del contratto che evochi rimedi limitativi dell’autonomia privata.
All’uopo, se la soluzione accolta dalla Cassazione nella sentenza menzionata non ha in sé nulla di eversivo né di innovativo, là dove applica il rimedio risarcitorio all’abuso del recesso ad nutum senza richiedere la dimostrazione di una condizione di dipendenza economica, non può peraltro tacersi
che tra le pieghe degli obiter dicta qualche affermazione paia ammiccare ad
un generalizzato controllo di merito sull’atto di autonomia privata.
È quanto si inferisce, innanzitutto, dal rilievo secondo cui la «buona fede
[servirebbe] a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell’equilibrio e
della proporzione», in quanto la proporzionalità è per l’appunto il principio
utilizzato da parte della dottrina interna per proporre un generico vaglio di
giustizia sul contratto ed è sempre la proporzionalité, mediata dalla categoria
della cause de l’obligation, la nozione di cui si è avvalsa la giurisprudenza
Dottrina
97
francese 43 per prospettare – sotto rinnovate vesti – la vecchia dogmatica del
giusto prezzo, cui la dottrina e i recenti progetti di riforma hanno contrapposto l’esigenza di un controllo di merito sui soli contratti asimmetrici, sul
modello dell’unfair exploitation 44.
Una seconda affermazione che parimenti non convince del tutto è quella
secondo cui la buona fede sarebbe «strumento, per il giudice, atto a controllare anche in senso modificativo [e si sottolinea modificativo] lo statuto negoziale in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi».
Si insinua a questo punto il sospetto che la tentazione di far transitare il
controllo di merito dai contratti asimmetrici al contratto in generale sia indotta da una sorta di illusione ottica prodotta dalla stessa nozione di buona fede
oggettiva che governa tanto i contratti nobili quanto i contratti asimmetrici.
Sennonché si tratterebbe di una percezione falsata lontana dall’essenza
stessa della clausola di buona fede che, in quanto paradigma di bilanciamento
degli interessi, si plasma sulla peculiarità dei rapporti che vengono in gioco e
può parimenti operare, ma diversamente incidere, a seconda dei rapporti di
forza che si contrappongono e dei rimedi che si fanno valere. Pertanto, quando bilancia i conflitti ad armi pari, la buona fede svolge una funzione construens che arricchisce e orienta, ma non comprime, l’autonomia privata, e
tutt’al più si spinge sino al rimedio risarcitorio: quando invece la buona fede
oggettiva bilancia conflitti ab imis squilibrati essa è legittimata a intervenire,
senza tradire la logica costitutiva del contratto, in funzione di riequilibrio del
potere di autonomia con rimedi che comprimono la posizione del più forte a
tutela del più debole ed è per questo che nei contratti asimmetrici la buona
fede oggettiva acquisisce anche una funzione destruens, legata alla nullità di
protezione o al rimedio general-preventivo. Traslare fuori dai contratti asimmetrici un analogo intervento equivarrebbe a negare il senso stesso dell’autonomia privata e a minare il fondamento del contratto.
5. Segue: il rapporto fra abuso del diritto e buona fede oggettiva.
In apicibus: abuso sì o abuso no?
L’analisi della correlazione fra abuso dell’autonomia contrattuale e buo-
43
44
Cfr. sul punto J. GHESTIN, Cause de l’engagement et validité du contrat, LGDJ, 2006, p. 536 ss.
V. artt. II – 7:207 e IV – 2:104 DCFR.
98
2011
na fede oggettiva induce a verificare la connessione ulteriore tra quest’ultima e l’abuso del diritto in generale, profilo che deve misurarsi con la recente
tendenza 45 a separare in modo netto il campo operativo delle due nozioni
sul presupposto della inidoneità della buona fede oggettiva a costituire il paradigma giuridico dell’abusività. La buona fede oggettiva – secondo una diffusa impostazione – sarebbe chiamata a valutare unicamente il quomodo
dell’esercizio del diritto, mentre l’abuso del diritto indagherebbe lo scopo di
tale esercizio, al di fuori di qualsivoglia logica relazionale 46.
45
G. D’AMICO, Recesso ad nutum, buona fede e abuso del diritto, cit., p. 18 ss.; R. NATOLI,
Abuso del diritto e abuso di dipendenza economica, cit., p. 529 e soprattutto C. RESTIVO, Contributo ad una teoria dell’abuso del diritto, cit., p. 147 ss.
46
C. RESTIVO, Contributo ad una teoria dell’abuso del diritto, cit., p. 230 ss. confuta la tesi
della relazionalità dell’abuso rilevando che essa verrebbe puramente ricavata dall’ingiustizia del
danno con il che si osserva: «la sussistenza di un danno ingiusto dovrebbe essere l’esito della
qualificazione della fattispecie concreta; ma in questa costruzione (che secondo la lettura di
Restivo sarebbe la nostra in F.D. BUSNELLI-E. NAVARRETTA, Abuso del diritto e responsabilità
civile, in Studi in onore di Rescigno, V, Responsabilità civile e tutela dei diritti, Giuffrè, 1998, p. 106,
nonché E. NAVARRETTA, Bilanciamento di interessi costituzionali e regole civilistiche, in Riv. crit.
dir. priv., 1998, p. 642 ss.) diventa sintomo rivelatore della relazionalità necessaria perché operino i criteri – correttezza e emulazione – in base ai quali l’eventuale ingiustizia del danno dovrebbe essere accertata: sicché questa risulta al contempo punto di partenza ed approdo finale di
un processo che si serve del suo esito ultimo per autofondarsi, e giustificare le sue premesse».
In realtà, sfugge all’autore di questa pungente critica che nei successivi passaggi della nostra
riflessione venivano puntualmente individuati – prima e a prescindere dall’ingiustizia del danno – i criteri di relazionalità idonei a consentire il richiamo alla clausola di correttezza e alla regola emulativa. Essi venivano specificamente ravvisati nell’applicazione in via estensiva e finanche analogica dei presupposti applicativi della correttezza e della disciplina sugli atti emulativi
(F.D. BUSNELLI-E. NAVARRETTA, Abuso del diritto e responsabilità civile, cit., p. 110; E. NAVARRETTA, Bilanciamento di interessi costituzionali e regole civilistiche, cit., p. 645 ss.). In quest’ultimo
lavoro, in particolare, avevamo distinto esercizi di diritti e di libertà al di fuori di un minimo di
relazionalità, che escludono l’applicabilità dell’abuso del diritto (e in tal senso del resto cfr. anche P. RESCIGNO, L’abuso del diritto, cit. p. 61 per il quale gli atti «isolati» di esercizio di una
libertà non sono suscettibili di abuso, salvo che – nella sua visione – siano destinati ad eludere
l’applicazione di una norma), rispetto a casi in cui sul modello delle due clausole menzionate è
ravvisabile una «relazionalità» che, a seconda della «topografia del conflitto», consente di applicare la disciplina degli atti emulativi o quella della regola di correttezza. Con riguardo a quest’ultima, in particolare, il modello legale veniva esteso a «ipotesi di relazioni giuridiche diverse
dal rapporto obbligatorio, quali le relazioni familiari […]; ipotesi di specificazione del potenziale destinatario della condotta, per ragioni connesse a qualifiche soggettive astratte (dove il
modello normativo comprende sia la concorrenza sleale sia la disciplina a tutela del risparmiatore e del consumatore); ipotesi di specificazione del destinatario della condotta, per ragioni
oggettive e concrete, come il caso in cui il danneggiato è identificato dal contenuto stesso
dell’attività svolta dal danneggiante (dove il modello normativo è quello della disciplina sul
Dottrina
99
Sennonché, anche a non considerare che ai detrattori della relazionalità
dell’abuso sfugge l’affermazione secondo cui «è persino ovvio che una fattispecie abusiva rileva concretamente solo se e nella misura in cui la condotta
incide sulla sfera di interessi di un altro soggetto [sicché] l’abuso si colloca
in una dimensione necessariamente relazionale» 47, in ogni caso l’idea dell’abuso del diritto come deviazione dallo scopo, estraneo a qualsivoglia valutazione comparativa, finisce per dare automatica ragione ai detrattori della
categoria. E infatti se l’abuso verificasse soltanto le condotte che stanno dentro o fuori lo scopo del diritto e, dunque, consistesse in un giudizio del tutto
prevedibile a priori, non vi sarebbero davvero ragioni per distinguere l’abuso
dall’illiceità, con la conseguenza che difendere la categoria dell’abuso e al
contempo identificarlo con la deviazione dallo scopo del diritto fa cadere inevitabilmente in un ossimoro.
Del resto, che la legge in taluni casi faccia riferimento esplicitamente,
come nella disciplina sugli atti emulativi, o implicitamente, come nella normativa sulla minaccia dell’esercizio del diritto, allo scopo perseguito da chi
esercita il diritto non vuol dire che l’abuso consista in una deviazione dallo
scopo consentito; viceversa, l’abuso porta ad indagare lo scopo, inteso come
interesse sostanziale sotteso all’esercizio del diritto, nel confronto con l’interesse contrapposto, secondo l’ottica tipica del bilanciamento. Così risulterà
abusivo l’esercizio del diritto proprietario a confronto con l’interesse leso, se
l’esigenza sostanziale sottesa al primo è prevalentemente quella di ledere il
secondo, e dovrà parimenti ritenersi abusiva la minaccia di esercitare un diritto, se l’interesse sostanziale sotteso a tale esercizio non abbia alcuna connessione con l’interesse della controparte che viene coartata alla conclusione di un contratto. Non è la deviazione da uno scopo precostituito a rilevare, ma il bilanciamento e il confronto tra lo scopo-interesse sotteso all’esercizio del diritto e l’interesse leso.
In sostanza, l’abuso del diritto implica concettualmente l’esigenza di un
bilanciamento di interessi 48 e giudica lo scopo perseguito dal titolare del ditrattamento dei dati personali); e, infine, ipotesi in cui la condotta è idonea, per le circostanze
in cui si realizza o per la professionalità dell’agente, a determinare nel destinatario un legittimo
affidamento (dove il modello normativo è quello della correttezza precontrattuale)».
47
C. RESTIVO, Contributo ad una teoria dell’abuso del diritto, cit., p. 240.
48
È singolare che C. RESTIVO, Contributo ad una teoria dell’abuso del diritto, cit., p. 238 s.
critichi il nostro utilizzo dell’abuso del diritto e delle regole che colorano il relativo giudizio,
ritenendo sufficiente affidare il bilanciamento di interessi alla clausola dell’ingiustizia del dan-
100
2011
ritto a confronto e in un’ottica di comparazione rispetto all’interesse leso,
guardando – a seconda dei casi – o alla sproporzione fra l’interesse (o scopo) perseguito e l’interesse leso, allorché l’abuso si avvale del paradigma del
divieto di atti emulativi, o le modalità di esercizio del diritto a confronto con
l’interesse leso, là dove l’abuso del diritto si avvale del parametro della buona fede oggettiva. Quest’ultima, in particolare, non giudica mai il quomodo
dell’esercizio del diritto con riferimento esclusivo al contenuto del diritto,
ma considera sempre il tipo di esercizio in relazione all’interesse della controparte. In sostanza il giudizio ex fide bona non riguarda puramente il quomodo in sé e per sé dell’esercizio, ma considera tali modalità nel bilanciamento tra l’interesse (o fine) perseguito dal titolare del diritto e l’interesse della
controparte. Se, ad esempio, si considera la vicenda che ha dato occasione
alla pronuncia della Cassazione, si palesa come in essa la scorrettezza del recesso da un contratto di concessione di vendita derivi da un esercizio posto
in essere dopo che la controparte aveva effettuato cospicui investimenti, essendole stato ingenerato un affidamento nella prosecuzione del rapporto. In
sostanza, è evidente che non si debba valutare unicamente il quomodo dell’esercizio del diritto, bensì le modalità anche temporali del recesso ponendo a
confronto l’interesse della parte recedente a seguire le proprie strategie imprenditoriali (o a fortiori – salvo quanto si dirà in seguito – l’interesse a eludere la normativa giuslavoristica a tutela dei dipendenti) e l’affidamento ingenerato nell’altra parte nella prosecuzione del rapporto.
no. Una tale affermazione dimentica che uno dei più complessi e risalenti problemi che pone
l’ingiustizia del danno è proprio quello di identificare dei criteri giuridici che orientino l’esigenza di bilanciamento sottesa alla clausola, evitando il mero arbitrio del giudice. Basti all’uopo
ricordare il pensiero di P. TRIMARCHI, Illecito (dir. priv.), in Enc. dir., XX, Giuffrè, 1970, pp. 99101, che ravvisava tale criterio nell’utilità sociale, a S. RODOTÀ, Il problema della responsabilità
civile, Giuffrè, 1964, p. 93 ss., che lo identificava nella solidarietà; a G. ALPA, Il problema dell’atipicità dell’illecito, Jovene, 1979, pp. 261-263, che evocava la ragionevolezza. Né è un caso che
anche nel diritto costituzionale il problema del bilanciamento di interessi sia sempre affidato a
parametri giuridici a partire dalla ragionevolezza. Orbene, nella nostra ricostruzione non abbiamo mai detto che l’ingiustizia del danno operi un bilanciamento di interessi in astratto e l’abuso del diritto un bilanciamento di interessi in concreto (così afferma C. RESTIVO, Contributo
ad una teoria dell’abuso del diritto, cit., p. 236), bensì abbiamo sostenuto che l’esigenza di attuare un bilanciamento in concreto degli interessi nell’ambito dell’ingiustizia del danno può avvalersi, quando viene in gioco l’esercizio di un diritto a fronte della lesione di un interesse giuridicamente rilevante, dei criteri giuridici della correttezza e della condotta emulativa nei quali si
concretizza, a seconda del tipo di conflitto, la categoria dell’abuso (E. NAVARRETTA, Diritti inviolabili e risarcimento del danno, Giappichelli, 1996, p. 153 ss.).
Dottrina
101
Quanto sopra illustrato consente, a questo punto, di confutare non solo
la tesi di chi nega la correlazione fra abuso e buona fede oggettiva, ma anche
la tesi che ritiene l’abuso un inutile doppione della buona fede oggettiva 49.
Rispetto a tale obiezione, infatti, occorre rilevare che la categoria dell’abuso, lungi dal risultare superflua, serve a trainare l’applicazione della buona
fede oggettiva anche in contesti nei quali la clausola non è espressamente
contemplata: in ambiti cioè in cui rileva l’abuso perpetrato in contesti di relazionalità qualificata, ma che non rientrano nel modello del rapporto obbligatorio, nel quale la buona fede oggettiva è espressamente codificata 50.
D’altro canto, data la molteplice varietà di diritti cui è applicabile la categoria dell’abuso, la buona fede oggettiva non può ritenersi – come si è già anticipato – il solo metro di giudizio dell’abuso. Tale nozione, a seconda del diritto a cui trova applicazione, implica, nei contesti «relazionali», un bilanciamento di interessi che valuta congiuntamente gli interessi in gioco e le
modalità di esercizio del diritto, mentre, nell’esercizio di diritti estranei ad
una relazionalità specifica e che si rifanno al paradigma proprietario dell’atto
emulativo, evoca un bilanciamento di interessi ispirato al criterio della sproporzione fra l’interesse perseguito e l’interesse leso 51.
Traslando queste considerazioni sul caso esaminato in concreto dalla Cassazione, non convince quanto afferma un autorevole commentatore 52, e cioè
che la natura abusiva dell’esercizio del diritto sarebbe derivata dalla circostanza che tale diritto avrebbe perseguito l’obiettivo di eludere la normativa
sul licenziamento dei dirigenti, ossia un fine estraneo alla causa del contratto di concessione di vendita, mentre non si sarebbe raffigurato se la finalità
fosse stata quella di una ristrutturazione dell’impresa 53. Tale affermazione si
basa, infatti, sull’idea dell’abuso del diritto inteso come sviamento dallo scopo del diritto che, a sua volta, in ambito contrattuale viene identificato con
la causa del contratto. Viceversa, una volta confutata tale impostazione e ac49
R. SACCO, L’esercizio e l’abuso del diritto, in G. ALPA-M. GRAZIADEI-A. GUARNERI-U.
MATTEI-P.G. MONATERI-R. SACCO, Il diritto soggettivo, Utet, 2001, p. 281 ss.
50
F.D. BUSNELLI-E. NAVARRETTA, Abuso del diritto e responsabilità civile, cit., p. 110 e v. supra nota 31.
51
U. NATOLI, Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico
italiano, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, p. 18 ss. Ci sia altresì consentito rinviare a F.D. BUSNELLI-E. NAVARRETTA, Abuso del diritto e responsabilità civile, cit., p. 91 ss.
52
F. GALGANO, Qui iure suo abutitur neminem laedit?, cit., p. 316.
53
F. GALGANO, Qui iure suo abutitur neminem laedit?, cit., p. 316.
102
2011
colta una concezione relazionale dell’abuso, che in ambito contrattuale deve
misurarsi con il paradigma della buona fede oggettiva, non si può non convenire che un recesso, sia pure ad nutum, esercitato dopo che in capo ai concessionari era stato ingenerato un affidamento nella prosecuzione del rapporto, tanto da indurli ad effettuare cospicui investimenti, si sarebbe configurato in termini di abuso sia che la comparazione si fosse posta rispetto all’interesse a ristrutturare l’azienda sia, a fortiori, ove si fosse prospettata rispetto
a un interesse elusivo.
Semmai – occorre precisare – nell’ipotesi della finalità elusiva avrebbe
potuto trovare fondamento anche un’azione di frode alla legge che avrebbe
giustificato la conseguenza della nullità di pieno diritto.
Questa puntualizzazione è ispirata ad una logica di potenziale correlazione di fatto, ma di distinzione concettuale e di diritto fra l’abuso del diritto
e la frode alla legge. Per converso, si ravvisa il pericolo di una tendenziale
sovrapposizione di piani tra le categorie in due orientamenti dottrinali: quello
che identifica l’abuso del recesso ad nutum nella deviazione dalla causa del
contratto ed evoca per tale fattispecie il rimedio della nullità 54 e quello che
cerca di legittimare l’idea dell’abuso come deviazione dallo scopo del diritto
attraverso il richiamo che uno dei più autorevoli studiosi del tema fa agli
artt. 1345 e 1344 c.c. 55. Nella prospettiva, dunque, di provare a riflettere sulle connessioni e sulle differenziazioni tra concetti limitrofi appare opportuno a questo punto puntualizzare anche il senso del rapporto tra abuso del diritto e frode alla legge.
Le due figure, in effetti, hanno in comune sia la caratteristica di sottrarsi
al diritto, attraverso comportamenti formalmente rispettosi dei limiti che il
diritto stesso traccia, sia il correlato dibattito che pone in dubbio l’autonomia
tanto dell’abuso quanto della frode alla legge rispetto all’illiceità tout court
della condotta o del contratto 56. Il profilo che tuttavia le differenzia, e che si
riflette sul diverso tipo di indagine che le due categorie comportano 57, è l’o54
F. GALGANO, Qui iure suo abutitur neminem laedit?, cit., p. 316 ss.
Il riferimento è a P. RESCIGNO, L’abuso del diritto, cit., p. 58 che peraltro opportunamente
precisava come nel caso della conclusione del contratto «non ricorrerà “abuso del diritto” nel
senso proprio dell’espressione».
56
Sul punto ci sia consentito rinviare a E. NAVARRETTA, Frode alla legge, in Comm. cod. civ.,
diretto da E. Gabrielli, Dei contratti in generale, Artt. 1321-1349, a cura di E. Navarretta e A.
Orestano, Giappichelli, 2011, p. 679 ss.
57
E. NAVARRETTA, Frode alla legge, cit., p. 685 ss.
55
Dottrina
103
biettivo della condotta non iure: nel caso dell’abuso del diritto il fine è quello
della lesione di un interesse altrui sicché l’abuso consiste in un comportamento diretto ad aggirare i precetti del diritto per ledere l’interesse di un altro soggetto, nel caso, invece, della frode alla legge l’obiettivo è quello dell’aggiramento di una disposizione inderogabile, sicché la frode alla legge
consta della ricerca di tecniche contrattuali finalizzate ad aggirare una norma imperativa.
Simile distinzione si proietta sul terreno rimediale in quanto, mentre l’abuso del diritto è presidiato da rimedi che tutelano l’interesse del soggetto
leso, a partire dal risarcimento del danno, viceversa, la frode alla legge è correlata con una disciplina che difende gli interessi generali protetti dalla norma imperativa, e dunque si avvale della nullità di pieno diritto o del rimedio
espressamente contemplato dalla norma che risulta elusa 58. Né tale dicotomia è smentita dagli abusi che ricadono sull’autonomia contrattuale esercitata in condizioni di asimmetria di potere (come nel caso dell’abuso di dipendenza economica), in quanto i rimedi correlati a tali figure confermano
l’impronta caratterizzante dell’abuso – cioè la finalità di ledere l’altrui interesse – tant’è che anche là dove viene in considerazione l’invalidità si delinea la nullità di protezione e non la nullità di pieno diritto.
Evidenziata la distinzione fra abuso e frode, non è un caso che per entrambi sia stata posta in dubbio l’autonomia dell’istituto.
Per la frode alla legge si ritiene da taluno sufficiente estendere l’illiceità
ampliando il raggio operativo delle norme e, dunque, utilizzando l’interpretazione della legge, ma è agevole rilevare che la possibilità di estendere il
raggio operativo delle norme non è illimitato, specie in sistemi di civil law, e
che comunque il giudizio sulla frode alla legge consente di colpire accordi
elusivi per come sono stati concretamente costruiti in relazione alla giustificazione dell’accordo e alla distribuzione dei costi e dei rischi dell’affare, senza dover ad arte ampliare a dismisura il precetto della norma imperativa di
riferimento, che per tale via rischierebbe talora di abbracciare anche condotte a ben vedere lecite.
Analogamente per l’abuso del diritto si adduce che la nozione realizzi un
inutile doppione dell’illiceità: «la condotta è abusiva perché è illecita e non
illecita perché è abusiva» 59 – rileva di recente un autore riecheggiando il
58
59
Cfr. E. NAVARRETTA, Frode alla legge, cit., p. 688.
M. ORLANDI, Contro l’abuso del diritto (in margine a Cass., 18.9.2009, n. 20106), cit., p. 138.
104
2011
pensiero di Planiol di inizio del secolo scorso «tout acte abusif, par cela seul
qu’il est illicite, n’est pas l’exercise d’un droit […] le droit cesse où l’abus commence» 60. Ma non è necessario, per sfuggire a tale obiezione, invocare – come tra le righe sfugge di dire anche alla menzionata sentenza della Cassazione – criteri extragiuridici di valutazione dell’abuso, che anzi legittimerebbero i timori di un giudice censore dei costumi e della morale, storicamente
paventato da Scialoja in Italia e da Ripert in Francia 61. Infatti, collocare l’abuso esclusivamente all’interno del sistema giuridico non vuol dire cadere
nell’equiparazione fra abuso e illiceità, in quanto l’apparente rigore logico di
chi sostiene tale sovrapposizione concettuale non soltanto si scontra con
l’evidenza del legislatore che ha distinto, nella disciplina sul trattamento dei
dati personali, il trattamento illecito da quello scorretto, ma soprattutto significa indebitamente omologare il ruolo della clausola generale rispetto a
quello di qualunque altra norma.
All’uopo, mentre l’illiceità implica un giudizio in cui la fattispecie concreta può solo stare dentro o fuori la fattispecie astratta, viceversa, nell’applicazione della clausola di buona fede o del paradigma emulativo all’abuso del
diritto, la fattispecie concreta incide essa stessa sulla costruzione della regola
e aiuta a delineare, rispetto ad un spazio di liceità a priori molto esteso, una
potenziale molteplicità di condotte – non ricostruibili in astratto – potenzialmente coerenti con il paradigma che governa l’agire. Identificare l’abuso
del diritto con l’illiceità tout court vuol dire assimilare una serie di divieti preventivi, che circoscrivono e delimitano a priori il contenuto del diritto, con un
criterio di condotta discrezionale che orienta l’esercizio del diritto, lasciandolo nella sostanza libero salvo il condizionamento di evitare l’arbitrio 62.
6. Conclusioni
Il dibattito sulla giustizia contrattuale e sul ruolo delle clausole generali si
presenta oggi all’interprete come dominato dall’immagine delle contrappo60
M. PLANIOL, Traité élémentaire de droit civil, XII, LGDJ, 1917, n. 871.
Cfr. sul punto A. GAMBARO, Abuso del diritto, II, Diritto comparato e straniero, in Enc. giur.
Treccani, I, Istituto della Enciclopedia italiana, 1988, ad vocem, p. 2.
62
Come si è anticipato, l’obiezione di una sostanziale coincidenza fra abuso e illiceità è
fondata solo nel caso in cui l’abuso venga identificato con il puro sviamento dallo scopo del diritto, tesi che – nel testo – si è ampiamente confutata.
61
Dottrina
105
sizioni nette che paiono delineare i tratti di un’alternativa secca e sconfortante 63.
Da un lato, il soggettivismo dell’interprete, quello che preme dietro le
formule di un controllo generalizzato di giustizia, dietro l’ambiguo vessillo
della proporzionalità, dietro l’ipotesi di un paradigma generico di debolezza,
dietro l’ammiccamento a norme non giuridiche, quello che trapela dalla tendenza a non percorrere, una volta identificata la soluzione del caso, tutti i
gradini stratificati della disciplina del contratto, ma tende a risalire direttamente alle clausole generali come fossero contenitori vacui della «giustizia
del Chadì».
In opposizione si erge l’enfasi della Rule of Law che ingiustamente associa soggettivismo e buona fede e invoca un rigore legalista, che non ha timore di svelare l’esito nichilista cui conduce. Riemerge l’immagine del giudice
«geometer vel arithmeticus» 64, proprio quando il diritto pare aver perso ogni
sua logica, e si consegna «alla causalità del divenire, che getta le norme in
un indefinito movimento, in un quotidiano nascere e morire» 65.
Ma è proprio vero che non esiste o, comunque, non si può cercare un’alternativa fra soggettivismo e nichilismo?
Una via di fuga può essere proprio quella di risalire dall’intreccio tra realtà e frammenti di norme al sistema, sino ai dogmi per richiamare l’attenzione su alcuni punti fermi.
Il tema della giustizia contrattuale, nato con il tramonto della finzione di
uguaglianza formale per dare piena attuazione al potere di autonomia privata quando la differenza di potere insinua il dubbio dell’ingiustizia dell’accordo, non può essere scisso dal presupposto della disuguaglianza. Operare in
tal senso vuol dire fare di uno strumento che vuole difendere in senso sostanziale e pieno l’autonomia privata il sicario del concetto stesso di contratto.
Rispetto poi alla complessità di tale ambito e all’esigenza di identificare
le disuguaglianze giuridicamente rilevanti, l’interprete non deve subire l’occasionalità degli interventi legislativi né avvalersi di norme o princìpi generali come contenitori vuoti della soluzione del caso concreto, ma deve cercare di razionalizzare e di dare respiro al dato normativo affinché il diritto
63
La contrapposizione non è nuova. Anche P. RESCIGNO, L’abuso del diritto, cit., p. 130 nel
1965 constatava come rispetto all’abuso del diritto «lo sfavore e il dubbio furono altrettanto
fervidi che lo sfavore degli altri».
64
J. GERSON, De vita spirituali animae (1402), in Oeuvres Complètes, Desclee, 1962.
65
N. IRTI, Nichilismo e metodo giuridico, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2002, p. 1161.
106
2011
riesca a fornire risposte sensate e coerenti alla complessità del reale. Parimenti occorre tentare un coordinamento sistematico, specie nella prospettiva rimediale, fra livelli similari di disciplina del contratto, affinché l’interprete possa ricercare la migliore soluzione al caso concreto risalendo gradualmente i molteplici strati della disciplina del contratto.
Infine, si deve riconoscere il senso fecondo delle clausole generali in quanto idonee a governare, con differenti strumenti, tanto i conflitti paritari, quanto le situazioni di differente bargaining power. E sono proprio la nozione di
abuso del diritto e di buona fede oggettiva, con la loro immanente connessione alla forza del caso e alla dimensione assiologica degli interessi, a dare
una risposta dentro al sistema positivo e non al di fuori di esso al bisogno di
giustizia. Tali clausole sono il segno – riprendendo una celebre immagine 66
– dell’«antica miseria del diritto», se per diritto intendiamo il nòmos che si
impone per un bisogno di certezza e con la forza delle maggioranze: il diritto di cui parlava Pericle nel suo dialogo con Alcibiade. Ma le medesime clausole sono viceversa l’immagine della straordinaria ricchezza e vitalità del diritto, se per nòmos intendiamo la complessità dell’ordinamento giuridico plasmato dalla sapienza dell’interprete e da questi costantemente ravvivato in
un rapporto di osmosi con la dimensione del reale.
66
P. RESCIGNO, L’abuso del diritto, cit., p. 144.
GIURISPRUDENZA
108
2011
Giurisprudenza
109
I. CONTRATTO IN GENERALE
CONCLUSIONE DEL CONTRATTO
Forma scritta, comunicazione dell’accettazione
CORTE DI CASSAZIONE, sez. II, 12 luglio 2011, n. 15293
Confermando un orientamento già espresso, la Cassazione afferma che
quando è richiesta una forma scritta ad substantiam il contratto deve ritenersi
concluso non solo all’atto della materiale ricezione del documento recante
l’accettazione in forma scritta ma anche nel momento anteriore in cui il proponente abbia avuto conoscenza dell’intervenuta accettazione emessa in forma
scritta. Il principio di diritto viene enunciato in relazione a una controversia avente ad oggetto un contratto di mediazione inerente ad una compravendita immobiliare. Formulata una proposta da parte dell’aspirante compratore, l’accettazione viene comunicata per via telefonica dal mediatore, mentre il documento cartaceo sottoscritto dall’aspirante compratore viene trasmesso in un secondo momento. Assumendo che il contratto si sia perfezionato, il mediatore esige
il pagamento della provvigione, e, stante il rifiuto opposto dal compratore, promuove nei suoi confronti un’azione di adempimento. Il Tribunale accoglie la
domanda, disattendendo l’eccezione del convenuto ai termini del quale l’unica
accettazione efficace – quella incorporata nel documento scritto – gli era pervenuta dopo la scadenza del termine di efficacia della proposta contrattuale. La
Corte di Appello, invece, giunge ad una diversa conclusione, evidenziando che,
se è vero che la comunicazione dell’accettazione non richiede in sé la forma
scritta, «essa deve tuttavia possedere un grado di certezza riferito a tutte le circostanze salienti, tale da consentire il valido incontro delle manifestazioni di
volontà negoziale provenienti dai paciscenti». Nel caso specifico, ad avviso del
Collegio di secondo grado, nessuna valida accettazione della proposta sarebbe
pervenuta «alla proponente nel termine di efficacia prestabilito, perché occorreva che la manifestazione di volontà fosse resa con una modalità di comunicazione tale da attribuire certezza al destinatario, sia sul recepimento integrale ed
incondizionato della propria manifestazione di volontà, in tutte le sue previsioni, sia sulla provenienza della relativa dichiarazione, specificamente dal soggetto a tanto legittimato». Tutte circostanze, queste appena descritte, che una mera
comunicazione telefonica non è in grado di garantire, perché quand’anche si
ritenesse provato che detta comunicazione è effettivamente avvenuta, sarebbe
sostanzialmente impossibile determinarne con la giusta previsione i contenuti
concreti.
Secondo la Cassazione, il problema risiede nello stabilire se, quando la legge
impone al contratto una forma scritta, sia possibile che il proponente acquisisca
110
2011
la conoscenza della intervenuta accettazione per iscritto da parte dell’oblato attraverso una comunicazione telefonica.
Richiamando un proprio precedente, la Cassazione ribadisce che il momento che determina la conclusione del contratto è quello in cui il proponente ha
conoscenza dell’accettazione dell’altra parte; la presunzione di conoscenza legata all’arrivo dell’accettazione all’indirizzo del destinatario (art. 1335 c.c.) non
esclude che la notizia dell’accettazione sia pervenuta al proponente in altri modi. D’altra parte, il principio di cognizione «richiede che entrambe le parti abbiano conoscenza della loro concorde volontà, conoscenza che può realizzarsi
comunque (sempre che le due dichiarazioni siano redatte per iscritto)».
La decisione della Corte di Appello – pur avendo affermato tra le sue premesse logiche che la comunicazione dell’accettazione non richiede di per sé la
forma scritta – è poi pervenuta a conclusioni contraddittorie, laddove ha stabilito che la conoscenza dell’accettazione scritta da parte dell’oblato non può essere garantita dalla comunicazione telefonica «sul rilievo preliminare che lo
strumento utilizzato non darebbe certezza quanto alla provata manifestazione
di una volontà di aderire alle esatte condizioni contenute nella proposta, circostanza de visu essenziale al fine di ritenere formato un completo consenso». Viceversa il giudice di secondo grado avrebbe dovuto accertare, sulla base di tutte
le risultanze probatorie, se attraverso la comunicazione telefonica proveniente
dall’intermediario la proponente abbia o non abbia avuto tempestiva conoscenza
dell’accettazione redatta nella richiesta forma scritta.
La sentenza è pubblicata su Dir. giust., 2011, p. 329, con annotazione di G. TARANTINO, Proposta accettata. Il mediatore può informare le parti con una telefonata? Sì, basta
provarlo.
In giurisprudenza, in senso sostanzialmente conforme, pur se in assenza
dell’elemento della telefonata, si veda Cass., 1° settembre 1997, n. 8328 alla quale si
riferisce esplicitamente la stessa sentenza in epigrafe, e vedi inoltre – anche se relativa
a più complessa fattispecie (diritto di riscatto per prelazione agraria esercitato con atto
di citazione la cui notifica doveva ritenersi inesistente) – Cass., 16 aprile 2003, n. 6105
in cui viene in rilievo, seppur in prospettiva leggermente diversa, una informazione telefonica. Per il diverso e più risalente orientamento, precedentemente seguito, secondo il quale nei contratti da stipularsi per iscritto pena la nullità, proposta e accettazione
«devono rivestire tale forma ed in tale forma essere comunicate od indirizzate al destinatario», cfr. Cass., 22 aprile 1963, n. 1035, in Giust. civ., 1963, I, p. 1557, nonché
Cass., 19 novembre 1973, n. 3119, in Foro it., 1974, I, c. 2420 ss., e Cass., 5 dicembre
1989, n. 5370.
In dottrina, non sono frequenti i riferimenti espressi ed espliciti al problema. Due
contributi specifici sull’argomento, entrambi tesi ad affermare la necessaria formalità
(anche) della comunicazione dell’accettazione, sono quelli di F. REALMONTE, Accordo
delle parti e rapporti giuridici preparatori, responsabilità precontrattuale, in Tratt. Bessone. Il
Giurisprudenza
111
contratto in generale, XIII, 2, Giappichelli, 2000, p. 43 ss., e di A. NACHIRA, Accettazione
della proposta irrevocabile di acquisto, in Il Civilista, 2008, p. 29, che fa riferimento alla
segnalata Cass., 5 dicembre 1989, n. 5370, e che afferma tra l’altro – in aperto contrasto rispetto a quanto poi ritenuto dalla suprema corte nella pronuncia in epigrafe – che
«non si discosta affatto da tale insegnamento, ma anzi lo ribadisce, la sentenza n. 8328
del 1 settembre 1997, della Corte di Cassazione, che ha precisato che ai fini della conclusione del contratto la comunicazione dell’accettazione, in virtù del principio della
libertà di forma, può farsi anche mediante esibizione del documento contenente l’accettazione stessa, senza che ne occorra la materiale consegna». Per un più generale
approfondimento delle tematiche che stanno alla base della questione, cfr. invece E.
BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, Esi, 1994 (rist.), p. 125 ss.; M. GIORGIANNI, Forma degli atti (dir. priv.), in Enc. dir., XVII, Giuffrè, 1968, p. 988; G. GIAMPICCOLO, La dichiarazione recettizia, Giuffrè, 1959. Per un’analisi dei problemi connessi alla
forma dell’accettazione – nel quadro dei procedimenti di formazione del contratto –
può essere utile vedere A.M. BENEDETTI, Autonomia privata procedimentale. La formazione del contratto fra legge e volontà delle parti, Giappichelli, 2002, in partic. p. 310 ss.
***
CONTRATTO PRELIMINARE
Parte soggettivamente complessa, esecuzione del preliminare in forma specifica, indivisibilità dell’obbligazione
CORTE DI CASSAZIONE, sez. II, 1° marzo 2011, n. 5027; CORTE DI CASSAZIONE, sez.
II, 9 febbraio 2011, n. 3173
Con la prima delle sentenze in epigrafe (Cass., 1° marzo 2011, n. 5027), la
suprema corte, chiamata a pronunciarsi sui presupposti di applicazione dell’art.
2932 c.c. in presenza di un preliminare in cui una delle parti è soggettivamente
complessa, statuisce che, in ipotesi di vendita di bene in comproprietà, le singole manifestazioni di volontà provenienti da ciascuno dei contraenti sono prive
di specifica autonomia.
Cinque comproprietari di un immobile pervenuto per successione, tra cui
due minorenni, stipulano un preliminare di vendita di un fondo rustico con Tizio il quale, divenuti maggiorenni i coeredi minori di età al momento della conclusione del citato contratto, invita i promittenti venditori alla stipula del definitivo. Peraltro, questi ultimi eccepiscono che, a causa dell’incapacità di agire
dei due comproprietari, il preliminare è da considerarsi viziato da invalidità
originaria, circostanza questa che, a loro dire, impedisce non soltanto la prestazione del consenso negoziale della parte complessa alla stipulazione del definitivo, ma anche la possibilità che quella prestazione possa essere sostituita da
112
2011
una pronuncia giudiziale ex art. 2932 c.c. Il tribunale adito rigetta la domanda attorea e Tizio impugna la sentenza ritenendo che il contratto preliminare stipulato inter partes sia da considerare scindibile in tanti preliminari quante sono le parti promittenti venditrici, in quanto ognuno di essi ha ad oggetto le singole quote
del bene compromesso. Peraltro, la corte di appello conferma la pronuncia del
giudice di prime cure e Tizio, conseguentemente, propone ricorso per cassazione.
Il supremo collegio, richiamandosi ad un orientamento ormai consolidato
in giurisprudenza, conferma la sentenza dei giudici di secondo grado. Ad avviso
della corte, infatti, nel caso di preliminare di vendita di un bene oggetto di
comproprietà indivisa si deve ritenere che i promittenti venditori si pongano
congiuntamente come un’unica parte contrattuale complessa. Se questo è vero,
le manifestazioni di volontà provenienti da ciascun contraente si presentano
prive di una specifica autonomia ed ineluttabilmente destinate a fondersi in
un’unica manifestazione negoziale. Tale conclusione, a dire del supremo collegio, trova il proprio fondamento nel fatto che nel caso di specie il bene oggetto
del contratto è stato considerato dalle parti come un unicum giuridico inscindibile, in quanto dal tenore del preliminare non sono emersi elementi idonei a far
ritenere che con esso siano state assunte da ciascun comproprietario promittente autonome obbligazioni aventi ad oggetto il trasferimento delle rispettive
quote di comproprietà. Da questo assunto consegue che, qualora una di dette
manifestazioni risulti viziata da invalidità originaria (ovvero sia del tutto mancante o venga caducata per una qualsiasi causa sopravvenuta), si determina una
situazione impeditiva non soltanto della prestazione del consenso negoziale
della parte complessa, ma anche della possibilità di ottenere l’esecuzione in
forma specifica, tramite la pronuncia giudiziale di cui all’art. 2932 c.c. Pertanto,
conclude la corte, il promissario acquirente non può conseguire la sentenza di
cui alla citata disposizione nemmeno nei confronti di quei comproprietari che
abbiano acconsentito validamente alla conclusione del preliminare. Sulla base
di queste argomentazioni, la Cassazione rigetta il ricorso.
Simile questione viene affrontata anche in un’altra pronuncia della suprema
corte (Cass., 9 febbraio 2011, n. 3173). Questi i lineamenti della vicenda. In
occasione della stipula di un contratto preliminare relativo all’acquisto di un
immobile in comproprietà, i promittenti acquirenti versano una caparra confirmatoria, impegnandosi al versamento di ulteriori tre rate. Peraltro, gli stessi,
dopo aver regolarmente effettuato i primi due pagamenti, non procedono al
saldo del prezzo pattuito, essendo venuti a conoscenza di un rischio di evizione
dell’immobile che, a causa di un ingente debito a carico di uno dei comproprietari promittenti, era risultato gravato da pignoramento. A fronte dell’invito a
chiarire tale situazione, peraltro rimasto privo di fattivo riscontro, i promissari
acquirenti si vedono eccepire dalla controparte la risoluzione del preliminare
Giurisprudenza
113
per inadempimento, vedendosi così costretti ad adire l’autorità giudiziaria per
ottenere, ai sensi dell’art. 2932 c.c., l’esecuzione in forma specifica del contratto, previa offerta della somma ancora dovuta a titolo di prezzo, oltre al risarcimento dei danni. I convenuti, costituendosi in giudizio, chiedono il rigetto della domanda e, in via riconvenzionale, la risoluzione del preliminare per inadempimento dei promissari acquirenti. Il tribunale adito, in accoglimento della
domanda promossa da parte attrice, emette sentenza ex art. 2932 c.c., rigettando però quella di risarcimento del danno. Tale pronuncia viene, in sostanza,
confermata anche dai giudici del gravame, i quali ribadiscono che i promissari
acquirenti non possono considerarsi inadempienti all’obbligazione di pagamento del prezzo, tenuto conto che gli stessi, conformemente a quanto disposto dall’art. 1461 c.c., hanno legittimamente sospeso la prestazione in considerazione del mutamento delle condizioni patrimoniali dei convenuti.
La vicenda approda dinanzi la Corte di Cassazione, la quale, pur annullando
la sentenza impugnata nella parte in cui essa esclude la configurabilità di un
danno in capo agli attori per la mancata stipula del contratto definitivo, conferma la decisione dei giudici di seconde cure in punto di esperibilità del rimedio ex art. 1461 c.c. nel caso di mutamento delle condizioni patrimoniali del
promittente venditore. Il principio di diritto sotteso alla menzionata sentenza è
nuovamente quello in forza del quale la promessa di vendita di un bene in comunione da parte dei comunisti dà luogo ad una obbligazione indivisibile che
deve essere eseguita con la necessaria partecipazione (rectius, consenso) di tutti
i promittenti, atteso che il contratto preliminare ha ad oggetto il trasferimento
della proprietà del bene nella sua interezza e non la quota ideale attribuibile al
comproprietario non debitore. Sulla base di tale presupposto, il fatto che il credito vantato dal terzo (e fonte del rischio di evizione che ha legittimato la sospensione dei pagamenti pattuiti a mente dell’art. 1461 c.c.) fosse a carico di
uno soltanto dei comunisti risulta circostanza del tutto irrilevante ai fini della
valutazione dell’inadempimento dei promittenti venditori. Sulla scorta di questa argomentazione, la Cassazione, in punto di esperibilità del rimedio di cui
all’art. 1461 c.c., conferma la sentenza di secondo grado ed afferma che, in caso
di mutamento delle condizioni patrimoniali del promittente venditore, la sospensione dei pagamenti da parte del promissario acquirente costituisce legittimo esercizio del diritto di autotutela.
Cass., 1° marzo 2011, n. 5027 è pubblicata in Nuova giur. civ. comm., 2011, I, p. 1040,
con nota di R. MAZZARIOL, Preliminare di vendita di un bene indiviso e presenza di una
parte soggettivamente complessa: il riflesso pavloviano della Suprema Corte; Cass., 9 febbraio 2011, n. 3173 è pubblicata in Contr., 2011, p. 1005, con nota di G. TARANTINO,
Mutamento delle condizioni patrimoniali del promittente venditore ed eccezione di insolvenza, nonché in Nuova giur. civ. comm., 2011, I, p. 834, con nota di C.A. PUPPO, Pre-
114
2011
liminare di compravendita immobiliare, mutamento delle condizioni patrimoniali del promittente venditore e tutela del promissario.
In giurisprudenza si segnalano come precedenti conformi alle pronunce in oggetto le
seguenti sentenze: Cass., 10 marzo 2008, n. 6308; Cass., 23 febbraio 2007, n. 4227;
Cass., 19 maggio 2004, n. 9458; Cass., sez. un., 14 aprile 1999, n. 239; Cass., 1° marzo
1995, n. 2319; Cass., 1° febbraio 1993, n. 1219; Cass., sez. un., 8 luglio 1993, n. 7481,
in Nuova giur. civ. comm., 1994, I, p. 351 con nota di R. DOGLIOTTI, Sul preliminare di
vendita di un bene comune da parte di alcuni dei comproprietari: questione di fatto o di diritto?; in Giur. it., 1994, I, c. 886, con nota di S.T. MASUCCI, Preliminare di vendita di
bene parzialmente altrui ed esecuzione in forma specifica parziale: il punto delle sezioni unite;
in Riv. notar., 1995, II, p. 1309, con nota di M. DI MEO, Contratto preliminare – contratto definitivo – negozio di ratifica: un emblematico caso di fattispecie a formazione successiva.
In dottrina, oltre agli autori sopra citati, il tema della parte soggettivamente complessa
con riferimento all’esecuzione del contratto preliminare è stato affrontato da: S.
D’ANDREA, La parte soggettivamente complessa. Profili di disciplina, Giuffrè, 2002; G.
LA ROCCA, Contratto preliminare di vendita e giurisprudenza: riflessioni critiche, in Foro
it., 1993, I. c. 2456.
***
CONDIZIONE POTESTATIVA MISTA
Condizione, termine, distinzione, finzione di avveramento
CORTE DI CASSAZIONE, sez. II, 18 novembre 2011, n. 24325
La vicenda giunta all’attenzione della suprema corte concerne un contratto
risolutivo di un preliminare di vendita con cui le parti, oltre a sciogliere il precedente vincolo, stabilivano che la caparra confirmatoria versata in forza del
preliminare risolto per mutuo consenso sarebbe stata restituita entro sei mesi
«dal momento in cui verrà rivenduta la stessa villetta al prezzo di 400 milioni».
La villetta, nel giro di qualche mese, in effetti veniva venduta, ma al minor
prezzo di 340 milioni. Di qui la nascita di una controversia tra le parti quanto al
diritto alla restituzione della caparra versata.
Nel corso del giudizio, il Tribunale, qualificando tale clausola come condizione, affermava che la stessa non si era verificata; respingeva perciò la domanda avanzata dal promissario acquirente. A seguito di gravame, la Corte
d’appello qualificava la clausola come termine e, dato atto dell’intervenuto
decorso di sei mesi dalla cessione della villetta ad un nuovo acquirente, accordava invece la restituzione. Su questi presupposti, la controversia giungeva
in Cassazione.
Giurisprudenza
115
Nella sentenza che si segnala, i giudici di legittimità osservano, in primo
luogo, che le parti, nel ricondurre la nascita dell’obbligo di restituzione (i) alla
conclusione di un nuovo contratto di vendita dell’immobile con terzi e (ii) al
fatto che il prezzo della compravendita non fosse inferiore a 400 milioni, avevano fatto riferimento ad un evento futuro ed incerto. La clausola è quindi da
qualificarsi come condizione.
La Cassazione precisa poi che, essendo l’avveramento di tale patto dipendente non solo dal caso ma anche dalla volontà dello stesso venditore (che –
come è avvenuto – poteva vendere ad un prezzo inferiore a 400 milioni), la
condizione è da qualificarsi come mista e quindi da ritenersi soggetta alla disciplina di cui agli artt. 1358 e 1359 c.c.
In forza di questo ragionamento – preso atto che la Corte d’appello attraverso un’indagine di fatto non censurabile aveva accertato che il mancato avveramento fosse imputabile allo stesso venditore – si ritiene applicabile la finzione di avveramento della condizione prevista dalla seconda delle disposizioni
citate. Su questa base, la Cassazione corregge la motivazione nel senso indicato
e decide la controversia nel merito ex art. 384, c. 2, c.p.c. confermando la condanna del venditore alla restituzione della caparra.
In giurisprudenza, per la distinzione tra condizione e termine cfr. ad esempio Cass.,
22 marzo 2001, n. 4124, in Contr., 2001, p. 861 con nota di G. CAPILLI, Le clausole «if
and when» nei contratti tra professionisti e p.a. Sulla finzione di avveramento e sull’obbligo di comportarsi secondo buona fede anche se il contratto è assoggettato a condizione potestativa mista si veda Cass. 3 giugno 2010, n. 13469, in AdC 2010, p. 93,
nonché Cass., sez. un., 19 settembre 2005, n. 18450, in Giur. it., 2006, p. 1143, con nota di C. RESTIVO, Note critiche sul ruolo della regola di buona fede nella disciplina della
condizione.
In dottrina, per la distinzione tra condizione e termine si veda, su tutti, V. ROPPO, Il
contratto, in Tratt. Iudica-Zatti, Giuffrè, 2011, p. 603. Il rapporto tra disciplina della
condizione e principio di buona fede è analizzato negli studi monografici di M. FACCIOLI, Il dovere di comportamento secondo buona fede in pendenza della condizione contrattuale, Cedam, 2006, e di G. CHIESI, La buona fede in pendenza della condizione, Cedam, 2006. Nella trattatistica più recente, cfr. E. GIACOBBE, La condizione, in Tratt.
Lipari-Rescigno, III, Obbligazioni, 2, Il contratto in generale, Giuffrè, 2009, p. 458 ss.; M.
COSTANZA, La condizione e gli altri elementi accidentali, in Tratt. Rescigno-Gabrielli, I
contratti in generale, II, Utet, 2006, p. 975 ss. Sulla finzione di avveramento della condizione, cfr. D. CARUSI, Condizione e termini, in Tratt. Roppo, III, Effetti, a cura di M. Costanza, Giuffrè, 2006, p. 317 ss.; P. VITUCCI, Condicio est in obligatione: ex lege (sulla
finzione di avveramento e la condizione potestativa), in Riv. dir. civ., 1998, I, p. 9; F. PECCENINI, La finzione di avveramento della condizione, Cedam, 1994.
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116
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FINZIONE DI AVVERAMENTO DELLA CONDICIO IURIS
Inapplicabilità dell’art. 1359 c.c. alla condicio iuris, responsabilità contrattuale
della parte che con il proprio comportamento ha impedito l’avveramento della
condizione, applicabilità del criterio di regolarità causale di cui all’art. 1223 c.c.
CORTE DI CASSAZIONE, sez. II, 15 giugno 2011, n. 13099
Uno dei temi più interessanti che riguardano la condicio iuris concerne la sua
compatibilità con il rimedio della finzione di avveramento. Un remoto ed isolato precedente dei primi anni ’50 ne afferma l’applicabilità. La giurisprudenza
successiva appare diversamente orientata, pur ammettendo che il comportamento scorretto di una delle parti possa giustificare la risoluzione del contratto
e la sua condanna a risarcire il danno. La sentenza in epigrafe aderisce a tale secondo orientamento.
Nella specie, le parti stipulano un contratto preliminare di vendita di un immobile. Si prevede che il corrispettivo della vendita sarebbe incrementato di 250
milioni di lire nel caso in cui fossero state rilasciate talune autorizzazioni entro sei
mesi dalla stipula del preliminare. La promissaria acquirente si impegna a presentare agli uffici competenti, subito dopo la firma del contratto, domanda per ottenere tali autorizzazioni che in seguito non vengono tuttavia rilasciate.
Il promittente venditore agisce in giudizio chiedendo il pagamento della
somma di 250 milioni di lire. Assume, infatti, che la condizione non si è verificata per fatto imputabile a controparte, che avrebbe omesso di svolgere le attività necessarie al fine del rilascio delle autorizzazioni.
Riformando la decisione di primo grado, la Corte d’Appello accoglie la domanda del promittente venditore. Ritiene che la condotta della promissaria acquirente sia stata maliziosamente preordinata ad impedire l’avveramento della
condizione con la conseguenza che, a norma dell’art. 1359 c.c., la stessa deve
considerarsi avverata. In particolare, accerta che il progetto presentato agli uffici era palesemente illegittimo e contrastante con le norme del locale regolamento di igiene.
La Cassazione accoglie il ricorso presentato dalla promissaria acquirente e
rinvia la causa ad altro giudice per la decisione.
Esclude, in particolare, che possa prospettarsi un fittizio avveramento della
condizione ex art. 1359 c.c. allorché la parte alleghi che l’altra, con il suo comportamento, abbia impedito che la pubblica amministrazione provvedesse sul
rilascio di autorizzazioni condizionanti l’efficacia (in tutto o in parte) del contratto, dovendosi riconoscere solamente il rimedio della risoluzione per inadempimento del contratto condizionato e quello del risarcimento del danno da
inadempimento. In quest’ottica, la condotta della parte che si astiene dal chiedere l’autorizzazione si configura come violazione dell’obbligo di comportarsi
Giurisprudenza
117
secondo buona fede in pendenza della condizione, e il giudizio sull’esistenza di
un nesso di derivazione causale tra mancata realizzazione della situazione futura e incerta ed inadempimento dell’obbligazione va condotto applicando l’art.
1223 c.c. Occorre cioè considerare se, avuto riguardo alla particolare situazione
di fatto, il rilascio delle autorizzazioni amministrative sarebbe stato possibile,
anche in considerazione della normativa che le amministrazioni pubbliche competenti avrebbero applicato per concludere in modo legittimo il procedimento.
In altri termini, al fine di stabilire se, nella situazione data, fosse possibile una
conclusione positiva del procedimento, occorre fare applicazione del criterio di
regolarità causale, dovendosi accertare se il comportamento lesivo può essere
considerato causa non di un evento dannoso in effetti verificatosi, ma della mancata produzione di un evento dal cui avveramento sarebbe derivato un vantaggio.
Alla luce di questi presupposti la Suprema Corte ha ritenuto che i giudici di
merito abbiano omesso di valutare adeguatamente se, a prescindere dallo specifico progetto presentato dal promissario acquirente, sussisteva la possibilità
che il Comune potesse rilasciare le autorizzazioni amministrative assunte a
condizione.
In giurisprudenza, Cass., 8 marzo 1951, n. 568, in Foro it., 1952, I, c. 407, con nota di
R. CANTAGALLI, Inefficacia di negozi giuridici e condicio iuris, ha considerato la condicio iuris assoggettata al medesimo trattamento giuridico stabilito per la condizione volontaria, con conseguente applicabilità dell’art. 1359 c.c. Un differente e maggioritario
orientamento ha invece escluso l’applicabilità dell’art. 1359 c.c. alla condicio iuris, riconoscendo il rimedio della risoluzione del contratto per inadempimento e quello del
risarcimento del danno (Cass., 16 novembre 1960, n. 3071, in Giust. civ., 1961, I, p.
237; Cass., 11 novembre 1967, n. 2718, in Giur. it., 1968, I, 1, p. 1375; Cass., 11 luglio
1968, n. 2444, in Foro it., 1969, I, c. 112; Cass., 5 febbraio 1982, n. 675; Cass., 3 aprile
1996, n. 3084, in Giust. civ., 1996, I, p. 2259, con nota di F. GIORDANO, Sulla condicio
iuris: considerazioni in tema di risoluzione di un contratto preliminare di compravendita
sospensivamente condizionato al rilascio di un provvedimento amministrativo; Cass., 22
marzo 2001, n. 4110). Sull’applicabilità del criterio di regolarità causale con specifico
riferimento a casi di mancato rilascio di autorizzazioni amministrative assunte a condicio iuris, v. Cass., 2 giugno 1992, n. 6676.
In dottrina, per l’inapplicabilità dell’art. 1359 c.c. alla condicio iuris, v. P. RESCIGNO,
Condizione (diritto vigente), in Enc. dir., VIII, Giuffrè, 1961, p. 775 ss.; in senso contrario, v. invece C.M. BIANCA, Diritto civile, 3, Il contratto, Giuffrè, 2000, p. 563. Per una
ricognizione dell’argomento, E. GIACOBBE, La condizione, in Tratt. Lipari-Rescigno, III,
Obbligazioni, II, Il Contratto in genere, Giuffrè, 2009, p. 481.
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2011
INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTO
Qualificazione del contratto, causa concreta, scadenza del termine, esigibilità
del canone o di altra indennità per il ritardo nella restituzione durante le operazioni di bonifica
CORTE DI CASSAZIONE, sez. III, 1° aprile 2011, n. 7557
Oltre che per le peculiarità della fattispecie – interessata da un solo precedente giurisprudenziale – la sentenza si segnala per il ricorso alla nozione di
causa concreta e per il complesso intreccio tra la fase di interpretazione e quella
di qualificazione del contratto.
Una fondazione e una società per azioni concludono un accordo che obbliga la prima a concedere alla seconda, per un periodo di quaranta mesi, il godimento di un terreno di sua proprietà, destinato ad essere adibito a discarica di
rifiuti industriali (fanghi di risulta del depuratore gestito dalla stessa società).
Alla scadenza del termine previsto dal contratto, il terreno non viene restituito
alla fondazione, sebbene la discarica sia ormai arrivata a saturazione; la società
conduttrice ne conserva la disponibilità, mentre un operatore specializzato effettua le operazioni di bonifica prescritte dalla normativa pubblicistica. La fondazione proprietaria del terreno agisce allora in giudizio chiedendo la condanna della società conduttrice al pagamento del canone relativo al periodo in cui,
scaduto il termine finale, ha conservato la disponibilità dell’area; e domandando, in subordine, il pagamento di un’indennità idonea a compensare la perdita
della disponibilità del terreno per il periodo, successivo alla scadenza del termine finale, durante il quale esso è stato bonificato rimanendo nella detenzione
della società conduttrice.
Le domande vengono rigettate in entrambi i gradi del giudizio di merito. I
giudici riferiscono il termine finale previsto nel contratto non alla restituzione
del terreno, ma allo sfruttamento dello stesso come discarica di prodotti industriali, ed accertano che dopo la scadenza del termine la società aveva cessato di
utilizzare il terreno in conformità a tale destinazione, essendo state avviate le
operazioni di bonifica. Secondo la Corte d’Appello, in particolare, la società
conduttrice avrebbe dovuto pagare il canone se dopo la scadenza del termine
avesse continuato ad utilizzare il bene come discarica; non è invece obbligata al
pagamento del canone o di una indennità in quanto successivamente alla scadenza del termine il terreno è stato assoggettato a bonifica: operazione, questa,
incompatibile con un suo uso economicamente produttivo.
La S.C. non condivide tale soluzione, e cassa la sentenza di secondo grado.
In motivazione, si afferma che il contratto avente ad oggetto la concessione di
un terreno da destinare a discarica di rifiuti è atipico: il detentore del terreno
acquisisce il diritto di utilizzarlo in base a modalità peculiari concordate con il
Giurisprudenza
119
proprietario, e si obbliga a bonificarlo. A tale contratto si applicano le norme in
materia di locazione, che caratterizza in modo prevalente l’operazione economica realizzata dalle parti. D’altra parte, per valutare se la società conduttrice
fosse obbligata a restituire il terreno nonostante fossero in corso le operazioni
di bonifica occorre valorizzare la causa concreta del contratto, cioè la funzione
da esso svolta, nella singola fattispecie, ai fini della realizzazione degli interessi
delle parti.
Su questa base, la S.C. ritiene che la società conduttrice fosse tenuta a restituire il terreno dopo la scadenza del termine sebbene la discarica fosse esaurita
e fossero state intraprese le necessarie operazioni di bonifica. In primo luogo, si
osserva che difficilmente il terreno adibito a discarica può essere completamente bonificato, così da essere restituito al proprietario nello stato in cui si trovava
al momento della conclusione del contratto; non è dunque possibile individuare con precisione il momento in cui le operazioni di bonifica sono destinate a
cessare. Date queste condizioni, se l’obbligo di restituzione fosse differito al momento del completamento della bonifica il proprietario rischierebbe di essere
privato per un tempo indefinito della detenzione del bene. Tale conclusione,
tuttavia, confligge con il canone interpretativo che, nel dubbio, impone di attribuire al contratto il significato più idoneo a realizzare un equo contemperamento degli interessi delle parti (art. 1371 c.c.). Non solo. Il contratto, così interpretato, rischia di risultare invalido, in quanto disattende un interesse meritevole di tutela del proprietario, privato a tempo indeterminato della detenzione del bene senza la percezione di alcun compenso (artt. 1322, 1367 c.c.).
In definitiva, siccome il contratto non vincolava la restituzione del terreno
al completamento delle operazioni di bonifica, la società conduttrice avrebbe
potuto restituire il bene alla fondazione mentre le stesse erano in corso; naturalmente, la Fondazione avrebbe dovuto consentire la prosecuzione dell’attività di bonifica prevista dalla normativa pubblicistica, e la società conduttrice
sarebbe stata pur sempre obbligata a contribuire finanziariamente alla loro
esecuzione. La stessa società dunque, è responsabile per il ritardo nella restituzione del bene.
Il giudice del rinvio – a cui la causa viene rimessa per la decisione – può liquidare il risarcimento sulla base del canone di locazione contrattualmente previsto ai sensi dell’art. 1591 c.c., ferma restando la facoltà di quantificare il danno
«in base alla peculiarità della fattispecie, impregiudicati i rispettivi obblighi,
dopo la riconsegna, per il concessionario di procedere alla bonifica e per il concedente di consentire all’altro di eseguire le relative operazioni». Ferma restando la mora del conduttore per il ritardo nella restituzione del terreno, il
giudice determinerà il risarcimento sulla base delle circostanze del caso concreto, tra cui in primis il canone pattuito nell’ambito del contratto di locazione e il
modo in cui l’operazione di bonifica incidono sul valore dell’immobile.
120
2011
In giurisprudenza, in sintonia con la sentenza in epigrafe, il contratto avente ad oggetto la concessione della disponibilità di un terreno da destinare a discarica è stato
qualificato come atipico; ad esso è stata ritenuta applicabile per analogia la disciplina
della locazione, «a ciò conseguendo la sussistenza di un obbligo di restituzione del bene, da parte dell’utilizzatore, tutte le volte in cui il rilascio costituisca ... effetto previsto
dal contratto ed espressamente collegato al raggiungimento della complessa causa della convenzione atipica». Su questa base, i gestori della discarica esaurita sono stati ritenuti responsabili per il ritardo nella sua restituzione: cfr. Cass., 26 novembre 2002, n.
16679. Non risultano altri precedenti perfettamente in termini. Riferimenti alla causa
concreta ai fini dell’interpretazione del contratto sono rinvenibili in Cass., 12 novembre 2009, n. 23941; Cass., 24 marzo 2006, n. 6631, in Contr., 2006, p. 1085, con nota
di M. AMBROSOLI, La presupposizione in due recenti pronunce della suprema corte.
Quanto al rapporto tra causa concreta e giudizio di meritevolezza degli interessi perseguiti da un contratto atipico, cfr. Cass., 22 marzo 2007, n. 6969; Cass., 21 gennaio 2005,
n. 1273; Trib. Napoli, 15 aprile 2009, in Dir. giur., 2009, p. 433, con nota di A. SCOTTI,
Una problematica ipotesi di nullità di contratti collegati per insussistenza di un interesse
meritevole di tutela. Una possibile alternativa: la buona fede quale strumento di controllo
dell’equilibrio contrattuale nei contratti del mercato finanziario; Trib. Salerno, 26 settembre 2007, in Corti salernitane, 2007, p. 805.
In dottrina non si riscontrano contributi specificamente dedicati al contratto atipico
avente ad oggetto l’utilizzazione di una discarica. Sulla causa concreta quale strumento
di interpretazione e costruzione del regolamento contrattuale, cfr. V. ROPPO, Il contratto, in Tratt. Iudica-Zatti, Giuffrè, 2011, pp. 408 ss., 451 ss. e 455; C. SCOGNAMIGLIO, L’interpretazione, in Tratt. Rescigno-Gabrielli, I contratti in generale, a cura di E.
Gabrielli, II, Utet, 2006, p. 1114 ss.; C.M. BIANCA, Diritto civile, 3, Il contratto, Giuffrè,
2000, p. 433; G. ALPA, Unità del negozio e principi di ermeneutica contrattuale, in Giur.
it., 1973, I, 1, c. 1509 s.
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INTEGRAZIONE DEL CONTRATTO
Contratto di utenza, inserzione automatica di clausole, Autorità per l’Energia
Elettrica ed il Gas
CORTE DI CASSAZIONE, sez. III, 27 luglio 2011, n. 16401
L’impresa che somministra gas o energia elettrica deve offrire al cliente almeno una modalità gratuita di pagamento della bolletta (art. 6, c. 4, delibera
200/99 AEEG). La Cassazione è chiamata a stabilire se questa previsione integri coattivamente ex art. 1339 c.c. il regolamento del contratto di somministrazione stipulato con l’utente, laddove il concessionario non abbia previsto in
contratto una modalità gratuita di pagamento.
Giurisprudenza
121
Volendo brevemente ricostruire lo svolgimento delle fasi di merito della
vertenza, basti dire che nel giudizio di secondo grado il Tribunale di Catanzaro
aveva accolto l’appello dell’Enel in riforma della sentenza del Giudice di Pace
di Badolato, il quale, ritenendo che l’art. 6, c. 4, della delibera di cui sopra avesse integrato il contratto di fornitura per cui era sorta causa ai sensi dell’art. 1339
c.c., aveva rilevato l’inadempimento del fornitore, riconoscendo all’utente un
risarcimento del danno pari ad € 1,00 (per l’appunto il costo del pagamento
della bolletta tramite il servizio postale).
Secondo il Tribunale, tale decisione non poteva condividersi poiché la
norma dispositiva di cui all’art. 1196 c.c. (spese del pagamento a carico del debitore) potrebbe sì, in astratto, venir derogata per tramite del meccanismo di
cui all’art. 1339 c.c. sulla scorta anche di un provvedimento amministrativo, ma
solo in presenza di una esplicita attribuzione del corrispondente potere da parte di una norma di legge di rango primario; questa condizione non si riscontra
nel caso di specie, in quanto dal combinato disposto dell’art. 2, c. 12, lett. h), l.
481/1995 (la disposizione che, nella legge istitutiva dell’AEEG, conferisce a questa il potere di emanare «direttive concernenti la produzione e l’erogazione dei
servizi da parte dei soggetti esercenti i servizi medesimi»), dei commi 36 (rapporti tra amministrazione concedente e soggetto esercente) e 37 del medesimo
articolo (predisposizione da parte dell’esercente di un «regolamento di servizio» da applicarsi nei rapporti con gli utenti, del quale le determinazioni
dell’Autorità di cui al c. 12, lett. h), della stessa legge «costituiscono modifica o
integrazione»), risulterebbe – ad avviso del Tribunale – che la possibilità di un
ingresso automatico ex art. 1339 c.c. delle direttive dell’AEEG nei contratti di
somministrazione non può estendersi – fatta salva la determinazione delle tariffe (art. 2, c. 12, lett. e), l. 481/1995) – «oltre l’ambito oggettivo della prestazione del servizio da parte del concessionario» e sino ad aver diretta rilevanza
relativamente alla prestazione di pagamento da parte dell’utente, risolvendosi –
invece – le eventuali violazioni da parte della società esercente di quanto stabilito dall’Authority in questo ambito nel rapporto di soggezione (con facoltà
sanzionatoria) della prima rispetto alla seconda.
Di diverso avviso la suprema corte, che pur confermando il dispositivo della
sentenza di secondo grado, ha tuttavia ritenuto di doverne correggere la motivazione chiarendo che, in generale, il regolamento di servizio di cui all’art. 2, c.
37, l. 481/1995 rappresenta «sostanzialmente le condizioni generali di contratto alle quali debbono adeguarsi i contratti di utenza»; è dunque evidente
che qualora una determinazione dell’AEEG disponga che il contratto di utenza
debba contenere una determinata clausola, questa «si risolve in via mediata in
una integrazione autoritativa dello stesso contratto». Che poi ciò possa avvenire, continua la corte – discostandosi qui nettamente dalla motivazione della
sentenza innanzi a lei impugnata –, anche al di fuori del più ristretto ambito in-
122
2011
dividuato dal Tribunale di Catanzaro, risulta dal fatto che l’oggetto del potere
di cui all’articolo 2, c. 12, lettera h), là dove (oltre che alla produzione) si riferisce alla «erogazione dei servizi» ed «ove venga messo in relazione con la proclamazione della l. 481/1995, art. 1, c. 1 in ordine alla tutela degli interessi di
utenti e consumatori, si presta ad essere riferito all’intero ambito del rapporto
di utenza individuale, perché l’erogazione del servizio, essendo diretta verso gli
utenti ed avvenendo sulla base dei rapporti individuali di utenza, è formulazione talmente generale da apparire di per se idonea a comprendere anche il profilo del contenuto di detti rapporti. L’interesse degli utenti e dei consumatori,
infatti, non può non essere tutelato anche con riferimento a quell’aspetto delle
modalità di erogazione del servizio che si estrinseca nei rapporti individuali».
Con due importanti precisazioni: la prima nel senso che, «avvenendo
l’integrazione con riferimento a rapporti pur sempre espressione della privata
autonomia ed articolandosi attraverso manifestazioni normative secondarie regolamentari oppure integranti atti amministrativi precettivi collettivi, sia pure
autorizzate dalla previsione di legge, essa può comportare interventi che incidano sui rapporti di utenza in modo derogatorio anche di norme di legge, se
del caso dello stesso Codice Civile, che abbiano, però, un contenuto meramente dispositivo, cioè derogabile dalla privata autonomia, mentre deve escludersi
che possa giustificare interventi in senso derogatorio di norme previste da disposizioni legislative di contenuto imperativo»; la seconda nel senso che, vista
(sempre) la prescritta tensione verso la tutela degli interessi di utenti e consumatori di cui all’art. 1, c. 1, l. 481/1995, la possibilità di deroga del tipo descritto (e con le modalità viste) a norme dispositive sia «da restringere sotto il profilo funzionale in senso unidirezionale, cioè sia limitata ad una deroga a favore
dell’utente o del consumatore».
Nel caso specifico, la direttiva dell’Autorità non era idonea a determinare
l’integrazione del contratto, che può prospettarsi solo nel caso in cui la direttiva
imponga un precetto specifico, che si concreta nell’obbligo di adottare una determinata clausola contrattuale: l’art. 4 delibera 200/99 non ha questa caratteristica, concretandosi semplicemente in una «sorta di obbligo» a carico
dell’esercente di garantire il perseguimento di un risultato (la previsione di almeno una modalità gratuita di pagamento della bolletta) con ampi poteri di
scelta sulle modalità di attuazione. Per tale ragione, la condanna al risarcimento
del danno inflitta all’esercente in primo grado era priva di giustificazione, non essendo ravvisabile alcun impegno contrattuale (neppure per la via dell’integrazione) rispetto al quale l’erogatore del pubblico servizio possa essere considerato inadempiente.
In giurisprudenza non si rinvengono precedenti pronunce di legittimità specificamente relative agli effetti diretti sui contratti di utenza della previsione di cui all’art. 6,
Giurisprudenza
123
c. 4, Delibera n. 200/99 AEEG; sulla questione, tuttavia, vanno registrate diverse pronunce dei Giudici di Pace e dei Tribunali (in sede di appello) meridionali, fra le quali
può vedersi – in senso difforme rispetto alla sentenza in epigrafe – Trib. Benevento 14
maggio 2008, n. 848, in www.ricercagiuridica.com, che ha ritenuto «del tutto nitida» l’indicazione del obbligo di prevedere forme gratuite di pagamento dei corrispettivi dovuti all’utente contenuto nella delibera in oggetto. Più in generale, a proposito dell’ammissibilità di una integrazione diretta delle determinazioni dell’AEEG sui singoli rapporti di utenza si veda Cons. Stato, 27 ottobre 2003, n. 6628, in Foro amm., CDS,
2003, p. 3058, nonché Cons. Stato, 11 novembre 2008, n. 5622, in Foro it., 2010, III, c.
121, pronuncia richiamata, seppur con qualche riserva, dalla stessa corte suprema nella
sentenza in epigrafe [la massima così recita: «Il potere normativo attribuito alle autorità
di regolazione dei servizi di pubblica utilità non può imporsi su fonti di rango primario, in quanto gli atti normativi secondari (nella specie, codice di condotta commerciale per la vendita di energia elettrica ai clienti finali, quanto alla disciplina del cd. diritto
di ripensamento) sono in grado di derogare a fonti primarie solo in presenza di un’espressa autorizzazione legale, mancante nel caso di specie, non potendo il semplice
richiamo all’art. 1339 c.c. alterare l’ordine gerarchico delle fonti»]. Nella giurisprudenza di merito, si veda Trib. Torre Annunziata, 31 maggio 2010, in AdC 2010, p. 130.
A livello ancora più generale, sui significati da attribuirsi al termine «legge» nel quadro dell’art. 1339 c.c. si possono vedere Cass., 29 settembre 2004, n. 19531 (che riconosce forza integrativa ad un regolamento comunale) e Cass., 21 dicembre 1994, n.
11032 (che riconosce analoga forza alle delibere comunali in materia di prezzi degli
alloggi di edilizia popolare).
In dottrina, per un’analisi delle tematiche affrontate calata specificatamente nel settore considerato, possono vedersi G. BELLANTUONO, Contratti e regolazione nei mercati
dell’energia, Il Mulino, 2009, nonché L. DI BONA, Potere normativo delle Autorità indipendenti e contratto. Modelli di eteronomia negoziale nei settori dell’energia elettrica e del
gas, Esi, 2008, e E. BRUTI LIBERATI, Gli interventi diretti a limitare il potere di mercato
degli operatori e il problema di poteri impliciti dell’Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas,
in Il nuovo diritto dell’energia tra regolazione e concorrenza, a cura di E. Bruti Liberati e
F. Donati, Giappichelli, 2007, p. 165 ss.; sul (problematico) rapporto, più in generale,
tra Autorità indipendenti ed autonomia privata vanno visti inoltre G. GITTI, Autorità
indipendenti, contrattazione collettiva, singoli contratti, in L’autonomia privata e le Autorità
indipendenti, a cura di G. Gitti, Il Mulino, 2006, p. 91 ss. e E. DEL PRATO, Autorità indipendenti, norme imperative e diritto dei contratti: spunti, in Riv. dir. priv., 2001, p. 515 ss.
Per un più specifico riferimento alla portata ed alla ratio dell’art. 1339 c.c., meritano di
essere richiamati A. RICCIO, Inserzione automatica di clausole e invalidità delle clausole difformi, in Contr. impr., 2005, p. 63 ss.; G. SICCHIERO, Le clausole di rinvio fisso e rinvio mobile alla disciplina esterna del contratto, in Contr. impr., 2004, p. 1027 ss.; F. ZICCARDI, L’integrazione del contratto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1969, p. 108 ss. Indispensabile, infine, il
rinvio a S. RODOTÀ, Le fonti di integrazione del contratto, Giuffrè, 2004 (rist.), p. 31 ss.
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5.
124
2011
BUONA FEDE
Buona fede nell’esecuzione del contratto
CORTE DI CASSAZIONE, sez. II, 29 agosto 2011, n. 17716
Nel caso portato all’attenzione della Cassazione viene concluso un contratto preliminare di compravendita di un immobile, il quale prevede che il pieno
godimento della proprietà rimanga in capo ai promittenti venditori sino alla
stipula del contratto definitivo, legittimando tuttavia i promissari compratori
ad eseguire anticipatamente la recinzione del terreno intorno all’immobile.
La data prevista per la stipula del contratto definitivo e la consegna dell’immobile non viene però rispettata, atteso il rifiuto di parte venditrice di eseguire
il preliminare. Quest’ultima, infatti, afferma che la promissaria acquirente ha
violato gli accordi presi, avendo proceduto alla realizzazione di lavori di costruzione abusivi, e comunque ben diversi dalla recinzione del terreno.
I promissari acquirenti agiscono in giudizio lamentando che non solo il
promittente venditore si era opposto alla stipula del contratto definitivo, ma
aveva altresì proceduto a trasferire la proprietà dell’immobile a terzi.
La Cassazione, aderendo alla posizione assunta dalla Corte di Appello, sottolinea che la realizzazione da parte dei promissari acquirenti, sui terreni oggetto del preliminare, di opere diverse da quelle concordate, oltre ad integrare un
fatto illecito ex art. 2043 c.c., costituisce anche inadempimento dell’obbligo di
eseguire il contratto secondo buona fede, ai sensi dell’art. 1375 c.c. La violazione dell’obbligo di buona fede oggettiva, inoltre, genera responsabilità contrattuale a prescindere dalla sussistenza dell’intento doloso di recare pregiudizio
alla controparte.
Su questa base, la Corte conferma la sentenza di secondo grado.
Quanto alla giurisprudenza, cfr. in senso conforme Cass., sez. un., 25 novembre
2008, n. 28056; Cass., 5 marzo 2009, n. 5348; Cass., 22 gennaio 2009, n. 1618.
In dottrina, si vedano A. D’ANGELO, La buona fede, in Tratt. Bessone, XIII, Il contratto
in generale, IV, Utet, 2004, p. 155 ss; G.M. UDA, La buona fede nell’esecuzione del contratto, Giappichelli, 2004, p. 50 ss., in part. 67 ss.; F. GALGANO, Diritto civile e commerciale, II, 1, Cedam, 1999, 547 s.; M. BESSONE-A. D’ANGELO, Buona fede, in Enc. giur.
Treccani, V, Istituto della Enciclopedia italiana, 1988, p. 1.
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Giurisprudenza
125
CONTRATTI AD EFFETTI REALI
Vendita di cose generiche, emissione di fattura recante l’indicazione che le cose
si trovano presso il deposito del venditore a disposizione del compratore, individuazione della res, rilevanza del precedente comportamento delle parti
CORTE DI CASSAZIONE, sez. II, 28 aprile 2011, n. 9466
L’interesse della sentenza si identifica nella definizione del modo in cui può
avvenire l’individuazione delle cose generiche necessaria ai fini del trasferimento della proprietà si sensi dell’art. 1378 c.c.
Tra X (fornitore) ed Y (cliente) intercorre un primo contratto avente ad
oggetto la vendita di un certo numero di tonnellate di pani di alluminio. X emette all’indirizzo di Y fattura recante l’indicazione che il materiale è a sua disposizione presso il deposito della sua azienda. Y ritira regolarmente la merce e paga
il prezzo.
In un secondo momento, tra le parti intercorre un ulteriore contratto di
compravendita avente il medesimo oggetto. Nonostante Y abbia chiesto ad X
di avvalersi dell’esenzione IVA, X emette all’indirizzo di Y una fattura, analoga
alla precedente, recante l’indicazione che il materiale è a sua disposizione presso il deposito. Successivamente cede il credito avente ad oggetto il pagamento
del prezzo a Z, società di factoring. Alcuni giorni dopo, su sollecitazione di Y,
emette a suo favore una nota di credito a storno della seconda fattura: comportamento da cui si può desumere che – non potendo fornire merce esente da
IVA, come richiesto da Y – acconsente alla risoluzione consensuale del contratto. Ora, quando Z, cessionario del credito relativo al prezzo, ne chiede ad Y il
pagamento, quest’ultimo eccepisce che il prezzo non è esigibile in quanto la
proprietà delle merci non gli è stata trasferita, e che il contratto di compravendita è stato risolto per accordo delle parti.
Con la sentenza in epigrafe, la S.C. conferma la soluzione data dal giudice di
secondo grado, che aveva accolto l’azione di adempimento del cessionario del
credito (Z) disattendendo le eccezioni opposte dal compratore delle merci
(Y). In primo luogo – ed è questo l’aspetto più interessante della sentenza – si
osserva che l’individuazione delle merci ed il conseguente trasferimento della
proprietà si sono realizzati a seguito dell’emissione della fattura con cui X dichiara che i materiali sono a sua disposizione presso il magazzino. Si afferma
che ai fini dell’individuazione occorre l’accordo delle parti, che tuttavia non deve essere espresso, ma sembra potersi ricavare dalle circostanze del caso concreto. Così, il consenso di Y a demandare ad X l’individuazione dei pani di alluminio che gli sarebbero stati consegnati tramite il deposito nel suo magazzino si desume dalla circostanza che in occasione del precedente contratto era
126
2011
stato seguito il medesimo procedimento di individuazione senza che Y sollevasse alcuna contestazione.
Quanto alla risoluzione consensuale del contratto di vendita, si afferma che
essa non può essere opposta a Z in quanto posteriore alla cessione. La S.C. ribadisce, sul punto, un orientamento consolidato nella giurisprudenza di legittimità.
In giurisprudenza, in relazione all’individuazione dei beni fungibili mediante emissione di fattura che indica il loro deposito presso il magazzino dell’alienante non risultano precedenti esattamente in termini. In una precedente occasione, anzi, la S.C. ha
affermato che la semplice comunicazione al compratore delle istruzioni impartite al
depositario non è sufficiente a realizzare l’individuazione, posto che la stessa implica il
consenso del compratore: è dunque necessario che con le istruzioni impartite al depositario concorra un «comportamento inequivoco del ... destinatario, che appaia incompatibile con una volontà contraria ed esprima con assoluta chiarezza la volontà
dell’acquirente di aderire al criterio di individuazione». In questi termini Cass., 10 ottobre 1996, n. 8861. Sulla necessità dell’accordo delle parti ai fini dell’individuazione e
del conseguente trasferimento della proprietà, cfr., oltre alla sentenza appena citata,
Cass., 24 aprile 1982, n. 2548; App. Cagliari, 24 giugno 1991, in Riv. giur. sarda, 1993,
p. 601. Affermano che la risoluzione consensuale del contratto posteriore alla cessione
del credito non è opponibile al cessionario Cass., 27 gennaio 2003, n. 1145; Cass., 16
aprile 1999, n. 3797.
In dottrina, v., in ordine all’individuazione funzionale alla produzione dell’effetto reale, F. ALCARO, Gli effetti del contratto. Il principio del consenso traslativo, in Effetti del
contratto, a cura di F. Alcaro, L. Bandinelli e M. Palazzo, in Tratt. Notariato, Esi, 2011,
p. 53 ss.; V. ROPPO, Il contratto, in Tratt. Iudica-Zatti, Giuffrè, 2011, p. 487 ss.; F.
GALGANO, Trattato di diritto civile, II, Cedam, 2009, p. 281; P. SIRENA, L’effetto traslativo, in Tratt. Rescigno-Gabrielli, I, I contratti di vendita, a cura di D. Valentino, Utet,
2007, p. 464 ss.; P. SIRENA, Effetti e vincolo, in Tratt. Roppo, III, Effetti, a cura di M. Costanza, Giuffrè, 2006, p. 66 ss.
***
CAPARRA CONFIRMATORIA
CORTE DI CASSAZIONE, sez. III, 22 febbraio 2011, n. 4278
Dazione di somma di denaro a titolo di caparra; risoluzione del contratto per
inadempimento del tradens; legittimazione dell’accipiens a ritenere la caparra:
esclusione
Giurisprudenza
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CORTE DI CASSAZIONE, sez. II, 9 agosto 2011, n. 17127
Dazione di caparra mediante consegna di assegno bancario, compatibilità con
il carattere reale del patto, mancata riscossione dell’assegno, legittimazione del
tradens ad esigere il pagamento del doppio della caparra in caso di inadempimento dell’accipiens
CORTE DI CASSAZIONE, sez. II, 15 febbraio 2011, n. 3728
Ritenzione della caparra, successivo fallimento del tradens, legittimazione del
curatore fallimentare a decidere in ordine alla risoluzione o alla manutenzione
del contratto, esclusione
TRIBUNALE DI NOLA, 16 maggio 2011
Domanda di risoluzione e pagamento del doppio della caparra, incompatibilità,
diritto del compratore di ottenere la sola restituzione della caparra versata
TRIBUNALE DI MONZA, 12 luglio 2011
Diffida ad adempiere, risoluzione di diritto, domanda di accertamento della legittimità del recesso e del diritto di esigere il pagamento del doppio della caparra, accoglimento, rinuncia agli effetti della intercorsa risoluzione di diritto
TRIBUNALE PESCARA, 11 aprile 2011
Domanda di risoluzione del contratto e risarcimento del danno, domanda di
accertamento della legittimità del recesso proposta in una successiva memoria,
inammissibilità
È sufficiente sfogliare un repertorio, alla voce “contratto in generale”, per
rendersi conto che una percentuale molto significativa delle controversie in
tema di inadempimento contrattuale – forse la maggioranza – verte su preliminari di compravendita immobiliare, a cui accede, di regola, la dazione di una
caparra confirmatoria. Il contenzioso relativo ad essa è, dunque, molto consistente: lo conferma il numero delle sentenze di merito e di legittimità citate in
epigrafe.
Come è noto, il rapporto tra i rimedi previsti dall’art. 1385 c.c. (risoluzionerisarcimento e recesso-caparra) è stato interessato da orientamenti giurisprudenziali contrastanti, tanto da rendere necessario l’intervento delle sezioni unite. La relativa sentenza – pubblicata all’inizio del 2009, e sintetizzata in questa
rivista – ha configurato in termini di incompatibilità il rapporto tra caparra e risarcimento; tra i due rimedi non sussiste una relazione di continenza, in quanto
la caparra non costituisce la misura minima del risarcimento: quest’ultimo può
ben essere inferiore alla caparra, o addirittura non essere accordato se l’attore
non riesce a dimostrare il pregiudizio subito. Ne consegue che proposta in
prima istanza domanda di risoluzione del contratto e risarcimento del danno
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2011
(art. 1385, c. 3, c.c.), è inammissibile in quanto nuova l’azione volta ad ottenere
l’accertamento del diritto di recedere e ritenere la caparra esercitata in sede di
gravame o in una fase più avanzata del giudizio di primo grado. I due rimedi sinallagmatici (recesso e risoluzione) sono, invece, tendenzialmente fungibili: se
dunque il contraente deluso chiede la risoluzione del contratto e l’accertamento del suo diritto a ritenere la caparra, il giudice può accogliere la domanda riqualificandola come azione di accertamento della legittimità del recesso.
Le sezioni unite, invece, non definiscono altrettanto chiaramente il rapporto
tra la caparra confirmatoria e la categoria delle risoluzioni “di diritto”. Con apprezzabile motivazione, si afferma che una volta scaduto il termine intimato
con diffida ad adempiere il creditore non può rinunciare unilateralmente all’effetto risolutorio. Certamente, si vuole escludere che una volta prodottasi la risoluzione stragiudiziale il diffidante sia legittimato ad esercitare l’azione di
adempimento. Non è chiaro, tuttavia, quali riflessi si producano in ordine al regime della caparra confirmatoria. Secondo alcuni commentatori, le sezioni unite hanno inteso escludere la legittimazione del contraente deluso a ritenere la
caparra ricevuta o esigere il doppio di quella data a seguito della risoluzione di
diritto: in qualche caso, infatti, la giurisprudenza anteriore aveva affermato che
il creditore è legittimato a disporre dell’effetto risolutorio per consentirgli di
recedere e ritenere la caparra. In base a una diversa lettura della sentenza, invece, il creditore sarebbe legittimato a domandare contestualmente l’accertamento della risoluzione stragiudiziale e del suo diritto di ritenere la caparra: se infatti i due rimedi sinallagmatici (recesso e risoluzione) sono equivalenti, la risoluzione “di diritto” non preclude alla parte fedele di avvalersi della caparra confirmatoria.
Le sentenze in epigrafe consentono di verificare come le direttive espresse
dalle sezioni unite sono state recepite dalla giurisprudenza posteriore; esse considerano, inoltre, questioni ulteriori, che non chiamano in causa la ricostruzione
dei rapporti tra il binomio recesso-caparra e quello risoluzione-risarcimento.
Una prima sentenza di legittimità verte su un contratto definitivo di vendita
intercorso tra due agricoltori con contestuale dazione di una caparra confirmatoria da parte del compratore (Cass, 22 febbraio 2011, n. 4278). A seguito dell’inadempimento di quest’ultimo, che rifiuta di attuare il contratto e pretende
la restituzione della somma versata, il venditore domanda la risoluzione e il risarcimento del danno – da liquidarsi in separato giudizio – e nello stesso tempo
l’accertamento del suo diritto di ritenere la caparra ricevuta. In primo e in secondo grado, la domanda viene accolta. Come è evidente, i due giudici aderiscono alla tesi che configura la caparra come «misura minima del risarcimento», adottata da alcune sentenze di merito e sostenuta da una dottrina minoritaria ma recisamente disattesa dalle sezioni unite. Se nel giudizio volto a determinare il pregiudizio subito dal venditore verrà accertato un danno superio-
Giurisprudenza
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re alla misura caparra, egli conseguirà il relativo risarcimento; in caso contrario,
resterà legittimato a ritenere la caparra ricevuta contestualmente alla conclusione del contratto. La sentenza di secondo grado viene cassata in sede di legittimità, con una pronuncia che appare in linea con la posizione assunta dalle sezioni unite. Quando il creditore domanda la risoluzione del contratto e il risarcimento del danno perde il diritto a ritenere la caparra ricevuta o esigere il
doppio di quella data; correlativamente, acquisisce la possibilità di ottenere un
risarcimento del danno superiore alla misura della caparra, ma ha l’onere di
provare il pregiudizio subito. Siccome la caparra non costituisce la misura minima del risarcimento, l’accipiens è tenuto a restituirla; nel caso di specie, del
resto, non è ipotizzabile che possa trattenerla provvisoriamente a garanzia del
pagamento del risarcimento, in quanto «essendo la liquidazione dei danni disposta in altro giudizio, il relativo credito non può dirsi determinato o determinabile». In altri termini, la separazione del giudizio sull’an da quello sul quantum preclude la compensazione giudiziale del credito restitutorio avente ad oggetto la caparra con il risarcimento del danno derivante dall’inadempimento (art.
1243, c. 2, c.c.).
In una seconda occasione, la S.C. affronta una questione che attiene alla stessa efficacia del patto sulla caparra e appare inedita in giurisprudenza: se il negozio sia validamente concluso qualora il tradens abbia consegnato alla controparte un assegno bancario anziché una somma di denaro, e l’accipiens non l’abbia
incassato (Cass., 9 agosto 2011, n. 17127). Nella fattispecie, l’acquirente di un
autoveicolo emette a favore del concessionario-venditore un assegno bancario
a titolo di caparra e lo consegna ad un suo agente; il venditore non fornisce il
veicolo e non incassa l’assegno: non è chiaro se questo sia dovuto alla circostanza che l’agente non abbia consegnato l’assegno, conservandone la detenzione, o piuttosto alla scelta di non riscuotere la somma compiuta dallo stesso
venditore. Il compratore agisce allora nei confronti del venditore, a cui la condotta dell’agente è pacificamente imputabile, domandando l’accertamento del
recesso e la condanna al pagamento del doppio della somma che costituisce
oggetto del credito cartolare. Accolta in prima istanza, la domanda viene rigettata in secondo grado; la Corte d’Appello ritiene che, in quanto reale, il patto
sulla caparra non si sia perfezionato: non essendo stato incassato l’assegno, non
si è verificato alcun trasferimento di denaro dal compratore al venditore del
veicolo, sicché il primo non può esigere dal secondo il pagamento del doppio
della somma indicata dal titolo. Con la pronuncia in epigrafe, la S.C. disattende
tale conclusione, e ritiene che la dazione di un assegno bancario sia idonea a
perfezionare il negozio di caparra, se la mancata riscossione della somma di denaro è imputabile al creditore che lo ha ricevuto. Alla base di tale soluzione si
rinviene un riferimento al canone della correttezza: se fosse sufficiente non riscuotere la somma di denaro indicata nel titolo di credito per privare di effetti il
130
2011
patto sulla caparra, l’accipiens potrebbe disporre arbitrariamente della sua efficacia pregiudicando, così, il ragionevole affidamento del tradens. Se questa è
certamente la ratio decidendi sostanziale della sentenza, appare un po’ forzato il
tentativo di fondare la soluzione adottata su precedenti giurisprudenziali che
appaiono scarsamente attinenti alla fattispecie. Così, si afferma che la scelta
dell’accipiens di non riscuotere l’assegno ha l’effetto di liberare il debitore, in
quanto equivale all’esecuzione di una prestazione diversa rispetto a quella che
costituisce oggetto dell’obbligazione dato nell’ambito della datio in solutum (art.
1197 c.c.; il riferimento è a Cass. 24 maggio 2007, n. 12079). Nel caso di specie, non si tratta di valutare se il debitore sia liberato, ma se il creditore possa
porre nel nulla l’accordo intercorso tra le parti evitando di incassare la somma
indicata nel titolo; d’altra parte, appare artificiosa l’equiparazione di una omissione del creditore (mancata riscossione dell’assegno bancario) a una condotta
attiva del debitore (esecuzione di una prestazione diversa da quella che costituisce oggetto dell’obbligazione). Scarsamente attinente al caso in esame sembra, inoltre, il riferimento ad un ulteriore precedente giurisprudenziale che pone a carico del creditore l’onere di dimostrare il mancato adempimento dell’obbligazione cartolare, mentre il debitore interessato ad essere liberato dall’obbligazione causale potrebbe limitarsi a provare l’avvenuta consegna del titolo. Anche tale precedente attiene alla liberazione del debitore dall’obbligazione sottostante all’emissione del titolo: nel negozio di caparra, invece, non è configurabile alcuna scansione tra la nascita e l’adempimento dell’obbligazione avente
ad oggetto la consegna del denaro o delle cose fungibili proprio perché esso ha
carattere reale. La ragione di tale forzatura risiede nel fatto che ai termini della
motivazione il negozio di caparra si perfeziona non con la consegna del titolo,
ma con la riscossione della somma da parte del creditore: occorre allora trovare
un escamotage per superare lo iato tra i due momenti. Più realisticamente, il giudice di legittimità avrebbe potuto affermare che – essendo ormai anacronistico
pretendere la consegna di denaro contante contestualmente alla conclusione dell’accordo – alla traditio della somma di denaro può essere equiparata l’emissione di un assegno bancario, se risulta accertato che il creditore avrebbe potuto
riscuoterlo in quanto sul conto corrente del debitore sussisteva la relativa provvista.
La S.C. considera, poi, il rapporto tra il recesso con ritenzione della caparra
confirmatoria e il fallimento dell’inadempiente: anche questa sentenza non ha
precedenti specifici nella giurisprudenza di legittimità (Cass., 15 febbraio 2011,
n. 3728). Nella fattispecie, tra le parti intercorre un contratto preliminare di
compravendita immobiliare con contestuale versamento di una somma di denaro a titolo di caparra confirmatoria da parte del promittente acquirente. A
seguito dell’inadempimento di quest’ultimo, che non è in grado di saldare il prezzo, il promittente alienante recede e domanda giudizialmente l’accertamento
Giurisprudenza
131
del suo diritto di ritenere la caparra ricevuta. Nel corso del giudizio di primo
grado, si verifica il fallimento del promittente acquirente; il curatore fallimentare a lui subentrato dichiara di sciogliere il preliminare di vendita ai sensi dell’art. 72 l. fall. e domanda la restituzione della caparra versata, mentre il promittente acquirente insiste per l’accertamento del suo diritto di ritenerla. Nei due
gradi del giudizio di merito, la controversia riceve una soluzione opposta. Mentre il Tribunale afferma il diritto del promittente alienante di ritenere la caparra, la Corte d’Appello ritiene fondata la domanda della curatela fallimentare, e
– pronunciata la risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 72 l. fall. – dispone la
restituzione della somma al promittente acquirente. La sentenza di secondo
grado viene tuttavia cassata in sede di legittimità. La S.C. ribadisce l’orientamento consolidato secondo cui il fallimento del debitore preclude al creditore
di domandare la risoluzione contro la curatela, neppure facendo valere un inadempimento anteriore all’apertura della procedura concorsuale; la stessa giurisprudenza, tuttavia, afferma che il contraente in bonis può conseguire la risoluzione del contratto, con gli effetti restitutori che ne derivano, se ha proposto la
relativa domanda anteriormente alla dichiarazione di fallimento: gli effetti della
sentenza di risoluzione retroagiscono al momento della domanda, sicché l’art.
72 l. fall. non risulta applicabile. Quanto alle ipotesi in cui il contratto si scioglie
in sede stragiudiziale, il fallimento non preclude la risoluzione e gli effetti ad essa conseguenti se la fattispecie risolutoria si è già verificata nel momento in cui
si avvia la procedura concorsuale. In ottemperanza a tale criterio, se il recesso è
comunicato all’inadempiente prima che egli sia stato dichiarato fallito, la parte
fedele è legittimata a ritenere la caparra confirmatoria e la sua domanda di accertamento merita di essere accolta. La massima ufficiale e la stessa motivazione della sentenza sembrano valorizzare la circostanza che (non solo il recesso,
ma anche) la domanda giudiziale proposta dal recedente sia anteriore alla dichiarazione di fallimento. In realtà tale elemento, riscontrabile nella vicenda de
qua, non sembra assumere una rilevanza decisiva nell’economia dell’argomentazione: se il recesso perviene a conoscenza dell’inadempiente prima della dichiarazione di fallimento, il diritto della parte fedele di ritenere la caparra merita di essere affermato anche se la domanda di accertamento non è stata proposta, o è posteriore alla dichiarazione di fallimento. Una diversa opinione appare
incompatibile con la fisionomia del recesso con ritenzione della caparra, strumento di autotutela che permette di “amministrare” la conflittualità determinata dall’inadempimento senza intraprendere un’azione giudiziale.
Una delle sentenze di merito citate in epigrafe considera il problema della
compatibilità tra la domanda di risoluzione e la caparra confirmatoria, risolvendolo diversamente da quanto indicato dalle sezioni unite (Trib. Nola, 16
maggio 2011). Nel caso di specie, un compratore di prodotti agricoli versa una
caparra pari al 3% del prezzo della merce; verificatosi l’inadempimento del
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2011
venditore, egli domanda la risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 1453 c.c. e
la condanna della controparte al pagamento del doppio della caparra. Il Tribunale ricorda la sentenza delle sezioni unite nella parte in cui esclude che sia possibile chiedere l’accertamento del recesso e del diritto di ritenere la caparra ricevuta (esigere il doppio di quella data) dopo aver chiesto in prima istanza la
risoluzione del contratto e il risarcimento del danno. Ritiene tuttavia che se il
creditore chiede la risoluzione del contratto la caparra non opera quale strumento di liquidazione preventiva del danno derivante dall’inadempimento, ma costituisce una somma indebitamente ritenuta che deve essere restituita dall’accipiens: la legittimazione ad avvalersi della caparra confirmatoria, dunque, implica necessariamente il recesso. In definitiva, il compratore consegue la restituzione della somma versata ma non ottiene il pagamento del suo doppio. È appena il caso di ricordare che, diversamente dalla sentenza qui sintetizzata, le sezioni unite hanno ritenuto che i due rimedi sinallagmatici rappresentati dall’art.
1385 c.c. siano sostanzialmente equivalenti, sicché qualora il creditore abbia
domandato contestualmente la risoluzione del contratto e l’accertamento del
diritto di ritenere la caparra ricevuta (esigere il doppio di quella data) il giudice
è tenuto ad accogliere entrambe le domande, riqualificando la prima come
azione di accertamento del recesso.
In una prospettiva alquanto diversa si colloca un’ulteriore sentenza di merito, che considera il rapporto tra la caparra confirmatoria e la risoluzione del
contratto “di diritto” (Trib. Monza, 12 luglio 2011). Nuovamente, la controversia verte su un contratto preliminare di compravendita immobiliare, alla conclusione del quale il promittente acquirente consegna alla controparte una somma di denaro a titolo di caparra confirmatoria; verificatosi l’inadempimento del
promittente alienante, egli intima alla controparte diffida ad adempiere e una
volta scaduto il termine agisce in giudizio chiedendo l’accertamento della legittimità del recesso e la condanna del promittente alienante al pagamento del
doppio della caparra. La domanda viene accolta dal giudice sulla base di un
principio di diritto disatteso dalle sezioni unite: il creditore può rinunciare alla
risoluzione del contratto conseguente all’intimazione della diffida ad adempiere, e – ripristinato, così, il rapporto contrattuale – recedere esigendo il pagamento del doppio della caparra. Nel caso di specie, la stessa proposizione della
domanda giudiziale denota senza possibilità di equivoci la rinuncia del creditore alla risoluzione “di diritto” conseguente all’intimazione della diffida ad
adempiere. Il promittente alienante viene dunque condannato a pagare il doppio della caparra. Benché la motivazione della sentenza richiami il dogma della
disponibilità dell’effetto risolutorio, nella sostanza la soluzione accolta sottende
l’opinione secondo cui la ritenzione della caparra confirmatoria non implica
necessariamente il recesso, ma è compatibile con la risoluzione del contratto: il
Tribunale, infatti, fa riferimento a sentenze di legittimità che accolgono la do-
Giurisprudenza
133
manda di ritenzione della caparra ricevuta (condanna al pagamento del doppio
di quella data) presentata contestualmente a quella di risoluzione (Cass., 16
maggio 2006, n. 11356; Cass., 10 febbraio 2003, n. 1952).
Un’ulteriore sentenza di merito citata in epigrafe ribadisce il principio – accolto dalle sezioni unite – che preclude al creditore di domandare l’accertamento del recesso e del diritto di ritenere la caparra dopo aver chiesto la risoluzione del contratto e il risarcimento del danno (Trib. Pescara, 11 aprile 2011).
La pronuncia si segnala, peraltro, per la peculiarità della vicenda processuale,
che scaturisce dalla condotta ondivaga della parte attrice. All’atto della conclusione di un preliminare di vendita immobiliare, il promittente acquirente consegna al proprietario una somma di denaro a titolo di caparra confirmatoria,
rendendosi poi inadempiente. Il promittente alienante agisce allora in giudizio,
chiedendo contestualmente nell’atto di citazione – senza alcun rapporto di subordinazione tra le domande proposte – la risoluzione del contratto, il risarcimento del danno subito e l’accertamento del diritto di ritenere la caparra ricevuta; in una successiva memoria presentata ai sensi dell’art. 183, c. 6, n. 2, c.p.c.
lo stesso attore domanda l’accertamento della legittimità del recesso e del suo
diritto a ritenere la caparra. Il Tribunale deve in primo luogo identificare l’azione esercitata con l’atto di citazione; secondariamente, decidere in ordine all’ammissibilità della domanda proposta nella successiva memoria. In ordine alla
prima questione, si ritiene che l’attore abbia domandato la risoluzione del contratto ed il risarcimento del danno: ragionevolmente, il giudice valorizza la circostanza che sia stata chiesta la risoluzione per concludere che il promittente
alienante abbia optato per il risarcimento del danno, che al rimedio risolutorio
risulta associato nell’ambito dell’art. 1385 c.c. In presenza di una domanda così
(mal) congegnata, l’alternativa – giustamente scartata in nome dell’esigenza di
salvaguardare l’efficacia degli atti processuali – sarebbe stata rappresentata dal
rigetto dell’azione, determinato dall’impossibilità di identificare il petitum; come si è visto, infatti, il giudice non può considerare congiuntamente la domanda avente ad oggetto il risarcimento del danno e quella relativa alla ritenzione
della caparra: siccome quest’ultima non costituisce la misura minima del risarcimento, i due rimedi sono alternativi. Quanto al secondo problema, si ritiene
correttamente che, in quanto nuova, la domanda avente ad oggetto l’accertamento della legittimità del recesso e del diritto di ritenere la caparra sia inammissibile non solo in appello (ipotesi, questa, più frequente in giurisprudenza),
ma anche nel corso del giudizio di primo grado. Ritenendole fondate nel merito, dunque, il giudice accoglie le domande di risoluzione del contratto e risarcimento del danno.
Cass., 22 febbraio 2011, n. 4278 è pubblicata in Nuova giur. civ. comm., 2011, I, p. 821,
con nota di R. GALASSO, Recesso, risoluzione del contratto e ritenzione della caparra con-
134
2011
firmatoria. Cass., sez. II, 15 febbraio 2011, n. 3728, è pubblicata in Dir. fall., 2011, II, p.
185, con nota di F. MURINO, Trascrizione della domanda giudiziale ex art. 2932 c.c. e
facoltà del curatore fallimentare di sciogliersi dal contratto preliminare immobiliare. Le
sentenze di merito menzionate in epigrafe sono, invece, disponibili nella banca dati
www.dejure.it.
In giurisprudenza, sui rapporti tra i rimedi previsti dall’art. 1385 c.c., cfr. Cass., sez. un.,
14 gennaio 2009, n. 553, in AdC 2009, p. 178; in Contr., 2009, p. 779, con nota di F.
TORRASI, Caparra confirmatoria e rimedi per la parte non inadempiente; in Corr. giur.,
2009, p. 333, con note di A. PALMA, La (in)compatibilità della domanda giudiziale di ritenzione della caparra (o di richiesta del suo doppio) con i vari modi di risoluzione del contratto, diversi dal recesso ex art. 1385, comma 2 c.c. e di M. RUVOLO, Le sezioni unite mutano il loro “granitico” orientamento in tema di diffida ad adempiere e di rinuncia all’effetto risolutorio; in Danno resp., 2009, p. 625, con nota di M. DELLACASA, Caparra confirmatoria
e disponibilità dell’effetto risolutorio; in Giur. it., 2009, p. 1114, con nota di G. SICCHIERO,
Indisponibilità dell’effetto risolutivo stragiudiziale del contratto (artt. 1454, 1456 e 1457
c.c.); in Giust. civ., 2009, I, p. 1294, con nota di D. AMOROSO, In tema di caparra confirmatoria: intervento delle sezioni unite; in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, p. 680, con nota
di C. LEGGIERI, Caparra confirmatoria ed inadempimento: inammissibilità del recesso nel
caso di preventiva domanda di risoluzione e risarcimento del danno; in Resp. civ., 2009, p.
604, con nota di F. TOSCHI VESPASIANI e L. FANTECHI, La caparra confirmatoria: tra
recesso e risoluzione per inadempimento, le sezioni unite fanno il punto sulle tutele ex art.
1385 c.c.; in Resp. civ. prev., 2009, p. 1089, con nota di E. LUCCHINI GUASTALLA, Risoluzione del contratto e irrinunciabilità dell’effetto risolutorio. Ulteriori commenti sono offerti
da M. COGNOLATO, La caparra confirmatoria e la «rinuncia» all’effetto risolutorio secondo le sezioni unite, in Obbl. contr., 2010, p. 107; A. DI MAJO, Le tutele contrattuali, Giappichelli, 2009, p. 222 ss.; E. LUCCHINI GUASTALLA, Caparra confirmatoria, recesso e risoluzione del contratto, in Riv. dir. civ., 2009, II, p. 327; G. PARDI, Brevi riflessioni in tema di
rapporti tra caparra confirmatoria e azione risarcitoria, in Giust. civ., 2010, I, p. 671; V. VITI, La disponibilità dell’effetto risolutorio nella diffida ad adempiere, in Giur. it., 2009, p.
2416. Riferimenti alla giurisprudenza anteriore sono rinvenibili nello stesso testo della
sentenza delle sezioni unite e nei commenti citati. Successivamente alla sentenza delle
sezioni unite, il principio secondo cui il creditore può rinunciare unilateralmente alla risoluzione “di diritto” per poi recedere e ritenere la caparra è stato ribadito da Cass., 25
ottobre 2010, n. 21838, in AdC 2010, p. 127 s. Nella giurisprudenza di legittimità, non si
riscontrano precedenti in ordine all’efficacia del patto di caparra nell’ipotesi in cui il tradens abbia emesso un assegno bancario e l’accipiens non l’abbia incassato per causa a lui
imputabile (questione considerata da Cass., 9 agosto 2011, n. 17127). Nella motivazione della sentenza, si fa riferimento a Cass., 24 maggio 2007, n. 12079 e Cass., 30 luglio
2009, n. 17749, il cui contenuto è richiamato nel testo. Si riscontra, tuttavia, una sentenza di merito che anticipa la soluzione data dalla sentenza: si tratta di Trib. Monza, 10 settembre 1994, in Giur it., 1996, I, 2, c. 611 ed in Contr., 1995, p. 152, con nota di R. PIROTTA, La distruzione di assegno a titolo di caparra, ai termini della quale la caparra può
avere ad oggetto un assegno bancario, se è pacifica l’esistenza della provvista. Neppure
Giurisprudenza
135
sembra essere stata affrontata nella giurisprudenza anteriore la questione considerata da
Cass., 15 febbraio 2011, n. 3728: se il fallimento della parte inadempiente dichiarato posteriormente al recesso del contraente fedele possa precludere a quest’ultimo di ritenere
la caparra ricevuta o esigere il doppio di quella data. In giurisprudenza, peraltro, si è affermato che la scelta che l’art. 72 l. fall. attribuisce al curatore non può essere esercitata
qualora il fallito risulti inadempiente e la risoluzione “di diritto” si sia perfezionata anteriormente alla dichiarazione di fallimento: cfr. Cass., 23 settembre 1995, n. 10101; Cass.,
5 gennaio 1995, n. 185.
In dottrina, sui rapporti tra i rimedi previsti dall’art. 1385 c.c. si rinvia ai commenti di
Cass., sez. un., 14 gennaio 2009, n. 553 sopra menzionati. Sul punto anche M. DELLACASA, Il creditore può rinunciare alla risoluzione “di diritto”? Luci ed ombre di una regola
giurisprudenziale, in via di pubblicazione Riv. dir. civ., 2012, II, p. 21. Non si riscontrano contributi sulle altre questioni considerate dalle sentenze in epigrafe.
***
NULLITÀ DEL CONTRATTO
CORTE DI CASSAZIONE, sez. III, 7 febbraio 2011, n. 2956
Domanda di risoluzione per inadempimento di un contratto nullo, rilevabilità
d’ufficio della nullità, domanda di ripetizione dell’indebito proposta contestualmente a quella di risoluzione, accoglimento
CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 27 aprile 2011, n. 9395
Azione di adempimento, domanda di nullità proposta dall’attore in grado di
appello, inammissibilità, rilevabilità d’ufficio della nullità solo nel contesto di
una pronuncia di rigetto di una domanda di adempimento
CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, (ord.) 28 novembre 2011, n. 25151
Domanda di risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 72 l. fall., rigetto, nullità del
contratto dedotta in appello, rigetto per essere la nullità rilevabile d’ufficio solo
ove venga domandato l’adempimento; contrasto giurisprudenziale, rimessione
I provvedimenti documentano le incertezze che tuttora interessano, in giurisprudenza, la rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto. Tradizionalmente, si riteneva che il giudice potesse rilevare d’ufficio la nullità solo allo scopo di
rigettare un’azione di adempimento. A tale orientamento si contrappone un
indirizzo, gradualmente affermatosi nella giurisprudenza più recente, ai termini
del quale, invece, il giudice è legittimato a rilevare d’ufficio la nullità del contratto anche quando l’attore abbia esercitato un’azione di impugnativa negoziale (annullamento, rescissione, risoluzione).
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2011
In questo senso si pronuncia la sezione III della S.C. nella prima delle sentenze in epigrafe (Cass., 7 febbraio 2011, n. 2956). Tra una società ed una persona fisica viene concluso un accordo verbale in base al quale la prima avrebbe
acquistato all’asta un immobile avvalendosi di un finanziamento fornito dalla
seconda, per poi frazionarlo e trasferirgliene una parte. La società procede effettivamente all’acquisto, ma si rifiuta di riprodurre l’accordo in forma scritta,
quindi di frazionare l’immobile e trasferirlo alla controparte. Quest’ultima, allora, agisce in giudizio domandando in via principale l’accertamento della proprietà dell’immobile in proporzione al contributo versato; in via subordinata, la
risoluzione per inadempimento e la restituzione dello stesso contributo. Il giudice di primo grado accoglie la domanda (subordinata) di risoluzione e condanna la società alla restituzione della somma ricevuta. La sentenza viene riformata
dalla Corte d’Appello, che rileva d’ufficio la nullità del contratto per difetto di
forma e rigetta la domanda di restituzione proposta dall’attore in ottemperanza
al principio di conformità tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.).
La soluzione non viene condivisa dalla S.C., che cassa la sentenza di secondo grado e rinvia la causa ad altro giudice per la decisione. In motivazione – premessa una ricostruzione della giurisprudenza più recente – si afferma che il giudice può rilevare d’ufficio la nullità del contratto non solo quando è stato chiesto l’adempimento, ma anche quando è stata esercitata un’azione volta ad ottenere la cancellazione degli effetti del contratto quali quelle di risoluzione, annullamento, rescissione: la legittimazione ad esercitare tali azioni presuppone,
infatti, che il contratto non sia nullo, cioè radicalmente improduttivo di effetti.
Se questo è vero, il giudice può rilevare d’ufficio la nullità del contratto – ravvisando l’assenza di un presupposto imprescindibile della domanda – senza violare il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.
Se dunque la Corte d’Appello ha correttamente rilevato d’ufficio la nullità
del contratto per difetto di forma, la sentenza viene censurata nella parte in cui
rigetta la domanda di restituzione del contributo destinato all’acquisto
dell’immobile. Il giudice è libero di accogliere la domanda proposta dall’attore
sulla base di norme differenti da quelle indicate a fondamento della stessa, ferma restando la necessità che l’oggetto del provvedimento giurisdizionale coincida con quello della domanda. Nel caso specifico, d’altra parte, non è neppure
necessario riqualificare la domanda volta ad ottenere la restituzione del finanziamento, perché tanto a seguito della risoluzione del contratto, quanto a seguito della declaratoria di nullità il solvens è legittimato ad esercitare un’azione
di ripetizione dell’indebito (art. 2033 c.c.).
La conclusione favorevole all’accoglimento della domanda di ripetizione
viene poi avvalorata sulla base di un argomento di carattere funzionale. Se il
giudice potesse rilevare d’ufficio la nullità del contratto, ma non accogliere
l’azione di ripetizione dell’indebito, il solvens sarebbe costretto ad esercitarla
Giurisprudenza
137
nell’ambito di un diverso processo. Questo appare in contrasto con i «principi
di economia processuale e ragionevole durata del processo, ormai presidiati
dall’art. 111 Cost.».
A conclusioni opposte perviene la sezione I con la seconda sentenza citata
in epigrafe (Cass., 27 aprile 2011, n. 9395). Nel caso di specie, il promittente
acquirente di un appartamento chiede il trasferimento coattivo dell’immobile
ai sensi dell’art. 2932 c.c., con contestuale riduzione del prezzo pattuito; il costruttore convenuto in giudizio domanda riconvenzionalmente la risoluzione
del contratto per inadempimento della controparte. Il giudice di primo grado
dispone il trasferimento coattivo dell’appartamento ai sensi dell’art. 2932 c.c.,
ma rigetta la domanda di riduzione del prezzo proposta dall’attore. Quest’ultimo impugna allora la sentenza e chiede alla Corte d’appello l’accertamento
della nullità del contratto per indeterminatezza dell’oggetto. Il giudice di secondo grado rigetta l’appello dichiarando la domanda di nullità del contratto
inammissibile in quanto nuova (art. 345 c.p.c.).
La decisione viene confermata dalla sentenza in epigrafe, che ritiene la nullità non rilevabile d’ufficio dal giudice e la relativa domanda improponibile per la
prima volta in appello. La S.C. presta adesione all’orientamento giurisprudenziale secondo cui il giudice può rilevare d’ufficio la nullità del contratto solo allo scopo di rigettare l’azione di adempimento proposta dall’attore: alla rilevabilità d’ufficio della nullità fa riscontro la legittimazione del convenuto a proporre
le relative domande in ogni fase del procedimento. La nullità, invece, non può
essere rilevata d’ufficio allo scopo di rigettare le domande di risoluzione, annullamento, rescissione del contratto. Se dunque la legittimazione a rilevare
d’ufficio la nullità è funzionale esclusivamente al rigetto dell’azione di adempimento, l’attore che abbia proposto tale domanda in primo grado non può chiedere la declaratoria di nullità in sede di gravame: tale domanda è inammissibile
in quanto nuova ai sensi dell’art. 345 c.p.c.
È singolare che tale conclusione venga giustificata richiamando il principio
costituzionale del giusto processo, che nella sentenza precedente era stato ricordato in una prospettiva diametralmente opposta (art. 111 Cost.). Posto che
la nullità del contratto può essere eccepita in ogni stato e grado del procedimento e rilevata d’ufficio dal giudice solo allo scopo di rigettare l’azione di
adempimento proposta dall’attore, in tutte le altre ipotesi le parti sono tenute a
proporre la relativa domanda con l’atto introduttivo del giudizio: tale regime
processuale è funzionale ad assicurare un più «pieno e completo contraddittorio tra le parti» e una maggiore certezza del diritto, che potrebbe essere pregiudicata dalla dilatazione del potere ufficioso del giudice.
Opportunamente, dunque, con l’ordinanza citata in epigrafe la sezione prima sollecita l’intervento chiarificatore delle sezioni unite (Cass., sez. I, ordinanza interlocutoria 28 novembre 2011, n. 25151). Nel caso di specie, viene
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2011
concluso un contratto preliminare di permuta di cosa presente (un terreno)
con cosa futura (porzione di un più ampio fabbricato destinato ad essere costruito sul terreno). Verificatosi il fallimento del permutante a cui era stato promesso il trasferimento del terreno, il curatore risolve il contratto ai sensi dell’art. 72 l. fall. Il promittente alienante, allora, domanda la restituzione del terreno, di cui la controparte aveva acquisito il possesso a seguito della conclusione del contratto. In primo grado, la domanda viene rigettata per mancanza di
interesse ad agire in quanto il terreno non risulta essere di proprietà dell’attore,
ma di un terzo. Impugnando la sentenza in appello, lo stesso promittente alienante deduce che il giudice di prima istanza avrebbe dovuto rilevare d’ufficio la
nullità del contratto per indeterminatezza dell’oggetto: l’argomentazione viene
tuttavia disattesa dal giudice di secondo grado, che – prestando adesione all’orientamento tradizionale – ritiene la nullità rilevabile d’ufficio solo quando è
stata esercitata azione di adempimento. Proposto ricorso per Cassazione, la sezione prima ravvisa il contrasto sussistente nella giurisprudenza di legittimità e
rimette al primo presidente la decisione di devolvere il ricorso alle sezioni unite.
Cass., 7 febbraio 2011, n. 2956 è pubblicata in Contr., 2011, p. 677, con nota di M. PIROVANO, Rilevabilità d’ufficio della nullità e domanda di risoluzione.
In giurisprudenza, nel senso che il giudice possa rilevare d’ufficio la nullità del contratto solo allo scopo di rigettare l’azione di adempimento, v. Cass., 21 gennaio 2008,
n. 1218; Cass., 17 maggio 2007, n. 11550; Cass., 6 ottobre 2006, n. 21632, in Obbl.
contr., 2007, p. 494, con nota di A. BENUSSI, Rilevabilità della nullità fra negozio e processo; Cass., 6 ottobre 2006, n. 21632; Cass., 26 maggio 2006, n. 12627; Cass., sez. lav.,
14 ottobre 2005, n. 19903, in Foro it., 2006, I, c. 2107, con nota di F. DI CIOMMO, La
rilevabilità d’ufficio delle nullità negoziali tra (artificiosi) limiti processuali ed incertezze
giurisprudenziali. Ritengono invece che la nullità possa essere rilevata d’ufficio anche
quando l’attore ha esercitato un’azione di impugnativa negoziale (risoluzione, annullamento, rescissione) Cass., 20 agosto 2009, n. 18540; Cass., 15 settembre 2008, n.
23674, in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, p. 197, con nota di S. NARDI, Risoluzione di
contratto nullo e rilevabilità d’ufficio della nullità; Cass., 27 aprile 2006, n. 9642; Cass.,
22 marzo 2005, n. 6170, in Nuova giur. civ. comm., 2006, I, p. 372, con nota di G. DOTTORE, Il senso della rilevabilità d’ufficio della nullità negoziale nel sistema civilistico e processuale: la Cassazione torna sull’art. 1421 c.c. ed in Corr. giur., 2005, p. 957, con nota di
V. MARICONDA, La Cassazione rilegge l’art. 1421 c.c. e si corregge: è vera svolta?; Trib.
Termini Imerese, 24 ottobre 2005, in Giur. it., 2007, p. 360, con nota di M. D’AURIA,
Nullità e potere del giudice ex art. 1421 c.c.: profili problematici. Non risultano precedenti in cui la declaratoria di nullità pronunciata d’ufficio abbia comportato la condanna
dell’accipiens alla restituzione delle prestazioni ricevute.
In dottrina, sulla legittimazione del giudice a rilevare d’ufficio la nullità del contratto
v., oltre ai commenti appena citati, V. ROPPO, Il contratto, in Tratt. Iudica-Zatti, Giuffrè, 2011, p. 791 ss.; F. GALGANO, Trattato di diritto civile, II, Cedam, 2009, p. 369 ss.;
Giurisprudenza
139
A. GENTILI, Le invalidità, in Tratt. Rescigno-Gabrielli, I contratti in generale, a cura di E.
Gabrielli, II, Utet, 2006, p. 1587 ss.; M. MANTOVANI, Le nullità e il contratto nullo, in
Tratt. Roppo, IV, Rimedi-1, a cura di A. Gentili, Giuffrè, 2006, p. 87 ss.; R. SACCO, in R.
SACCO-G. DE NOVA, Il contratto, II, in Tratt. Sacco, Utet, 2004, p. 557 ss.; A. DI MAJO,
La nullità, in Tratt. Bessone, Il contratto in generale, VII, Giappichelli, 2002, p. 158 ss.;
C.M. BIANCA, Diritto civile, III, Il contratto, Giuffrè, 2000, p. 628 ss.
***
NULLITÀ DEL CONTRATTO
Divieto del patto commissorio, causa concreta
CORTE DI CASSAZIONE, sez. II, 10 marzo 2011, n. 5740
La sentenza qui segnalata definisce presupposti e conseguenze della violazione del divieto di patto commissorio di cui all’art. 2744 c.c.
Alla base della controversia è la stipula di un contratto di mutuo con la contestuale sottoscrizione di una procura a vendere un immobile di proprietà del mutuatario da lui rilasciata al mutuante: nel caso di inadempimento del primo, il secondo è legittimato a soddisfarsi sul prezzo ricavato dalla vendita. Avvalendosi
della procura, il mutuante trasferisce l’immobile in oggetto alla moglie; viene
quindi convenuto in giudizio dal mutuatario, il quale chiede che si possa dichiarare nulla la compravendita per violazione del divieto del patto commissorio.
I giudici di merito, sia in primo che in secondo grado, respingono la domanda
principale di nullità del contratto: a questo riguardo è stata esclusa la sussistenza
del patto commissorio e della frode alla legge in base alla motivazione che, avendo il mutuante procura per vendere al prezzo di mercato ed essendo questi tenuto a restituire al mutuatario la frazione di corrispettivo eccedente l’importo del
mutuo, l’art. 2744 c.c. non sarebbe stato violato. Viene tuttavia accolta la domanda di annullamento della compravendita – proposta in via subordinata ai
sensi dell’art. 1395 c.c. – ritenendo sussistente un conflitto di interessi.
La corte di cassazione, adita in sede di legittimità, non condivide tale soluzione. Il supremo collegio evidenzia che, in materia di violazione del divieto del
patto commissorio, non è possibile in astratto identificare un numerus clausus di
negozi soggetti a tale nullità, «occorrendo invece riconoscere che qualsiasi negozio può integrare tale violazione, quale che ne sia il contenuto, nell’ipotesi in
cui venga impiegato per conseguire il risultato concreto, vietato dall’ordinamento giuridico, di far ottenere al creditore, mediante l’illecita coercizione del
debitore al momento della conclusione del negozio, la proprietà del bene
dell’altra parte nel caso in cui questa non adempia la propria obbligazione».
140
2011
Pertanto, anche nell’ipotesi in cui si faccia riferimento a negozi di per sé
astrattamente leciti oppure a operazioni negoziali complesse, è necessario valutare se le diverse fattispecie possano, in concreto, determinare una violazione o
un’elusione del divieto del patto commissorio ex art. 1344 c.c. In altri termini,
secondo i giudici di legittimità, il patto commissorio «attiene alla causa del
contratto, che viene piegata all’interesse del creditore ad acquisire una garanzia
reale diretta, autonoma ed atipica sul bene del debitore, con conseguente snaturamento della causa tipica del negozio di scambio». Il giudice di merito è
pertanto tenuto a svolgere un’indagine penetrante, che non si può fermare agli
aspetti formali del negozio, ma deve inoltrarsi a verificarne la causa in concreto,
tenendo conto, quando si tratti di operazioni complesse, del potenziale collegamento funzionale intercorrente tra atti. Per questi motivi la suprema corte
cassa con rinvio la sentenza impugnata, demandando al giudice di merito il
compito di procedere a tale delicata valutazione.
La sentenza in commento è pubblicata integralmente in Giust. civ., 2011, p. 1449, con
nota di G. ADILARDI, Brevi osservazioni in tema di divieto di patto commissorio, causa
concreta del contratto e patto marciano.
In giurisprudenza, è costante l’orientamento interpretativo adottato in sede di legittimità intorno al principio in base al quale qualsiasi negozio può determinare, in concreto, la violazione del divieto di patto commissorio: in questo senso v., ex multis, Cass.,
5 marzo, 2010, n. 5426; Cass., 12 gennaio 2009, n. 437; Cass., 19 maggio 2004, n.
9466, in Contr., 2004, p. 979, con nota di L. CILIA, Divieto del patto commissorio e negozi collegati; Cass., 29 agosto 1998, n. 8624, in Foro it., 1999, I, c. 175, con nota di A.
CANDIAN, Appunti dubbiosi sulla ratio del divieto del patto commissorio; Cass., 1° giugno
1993, n. 6112. Diversamente dall’orientamento adottato in prevalenza dai giudici di
legittimità, nella decisione piuttosto risalente Cass., 7 dicembre 1999, n. 13708, in Riv.
notar., 2001, II, p. 458, con note di L. MATTIANGELI, La Cassazione ancora sul divieto
di patto commissorio.
In dottrina, oltre ai riferimenti di cui sopra, sul tema relativo al patto commissorio cfr.
F. MACARIO, Il divieto del patto commissorio e la cessione dei crediti in garanzia, in Tratt.
Lipari-Rescigno, IV, Attuazione e tutela dei diritti, 2, L’attuazione dei diritti, Giuffrè, 2009,
p. 203 ss; G. CRICENTI, I Contratti in frode alla legge, Giuffrè, 2008, p. 67 ss.; N. CIPRIANI, Patto commissorio e patto marciano. Proporzionalità e legittimità delle garanzie,
Esi, 2000; A. SASSI, Garanzia del credito e tipologie commissorie, Esi, 1999; V. ROPPO,
La responsabilità patrimoniale del debitore, in Tratt. Rescigno, 19, Tutela dei diritti, I,
Utet, 1997, p. 557 ss.
***
Giurisprudenza
141
NULLITÀ DEL CONTRATTO
Contratto in frode ai creditori, nullità, esclusione, inefficacia relativa
CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 14 aprile 2011, n. 8541
Con la sentenza in epigrafe, la S.C. considera il regime del contratto la cui
conclusione reca pregiudizio alle ragioni dei terzi creditori nel contesto di una
procedura concorsuale.
La controversia scaturisce da un contratto preliminare di vendita di un immobile di proprietà del debitore insolvente (promittente alienante) concluso
con un creditore chirografario (promissario acquirente) allo scopo di ottenere
da quest’ultimo – a fronte di un’integrale compensazione dei suoi crediti – il voto
favorevole in sede di concordato preventivo. In seguito all’omologazione del
concordato, il promissario acquirente agisce in giudizio nei confronti del promittente, chiedendo l’esecuzione in forma specifica del preliminare di vendita.
Il giudice di primo grado accoglie la domanda dell’attore: la sentenza viene
pertanto impugnata dal promittente alienante davanti alla corte d’appello, che
riforma la decisione del tribunale. Pur non richiamando espressamente gli artt.
1418 e 1345 c.c., la corte dichiara la nullità del preliminare di vendita per illiceità del motivo determinante comune alle parti, da rinvenirsi, in particolare, nella
violazione del principio della par condicio creditorum, in quanto il promissario
avrebbe ottenuto l’integrale soddisfazione del proprio credito, mentre gli altri
creditori avrebbero ottenuto soltanto la percentuale concordataria. Contro la
decisione di secondo grado viene quindi proposto ricorso per cassazione dal
promissario acquirente che, denunciando l’avvenuta violazione di legge, contesta la sussistenza della nullità contrattuale. La suprema corte dichiara il ricorso
fondato, cassando con rinvio la sentenza impugnata.
Secondo i giudici di legittimità, il motivo illecito che comporta la nullità del
contratto si identifica con una finalità vietata dall’ordinamento, poiché contraria a norme imperative o ai principi dell’ordine pubblico o del buon costume.
Pertanto, ogni volta in cui l’intento delle parti di recare pregiudizio ad altri non
risulti riconducibile ad una di tali fattispecie non sussistono le condizioni per la
declaratoria di nullità. Infatti nell’ordinamento giuridico nazionale non è rinvenibile una norma che sancisce in via generale, come per il contratto in frode
alla legge, l’invalidità del contratto in frode ai terzi, ai quali, invece, l’ordinamento accorda rimedi specifici, correlati alle varie ipotesi di pregiudizio che essi possono risentire dall’altrui attività negoziale.
Per queste ragioni, a giudizio della corte, nel caso in cui un negozio pregiudichi i terzi creditori per violazione della par condicio creditorum nell’ambito di
una procedura concorsuale, la sanzione specificamente prevista dall’ordinamen-
142
2011
to potrà essere l’inefficacia relativa o l’inopponibilità dell’atto ai creditori concorsuali, ma non la nullità dell’atto stesso.
La sentenza in commento è pubblicata integralmente in Guida dir., 2011, XX, p. 56,
con nota di S. CASTRO, I contratti stipulati in frode di soggetti terzi risultano conformi alle
norme imperative.
In giurisprudenza, sulla generica questione relativa al motivo illecito comune alle
parti contraenti idoneo a determinare la nullità del contratto, in base al combinato disposto degli artt. 1345 e 1418 c.c., cfr., ex multis, Cass., 9 luglio 2009, n. 16130; Cass.,
10 luglio 2008, n. 19030; Cass., 29 maggio 2003, n. 8600. Anche se in relazione a fattispecie eterogenee, lo stesso principio di diritto enunciato dalla sentenza in commento
si riscontra, ad es., in Cass., 4 ottobre 2010, n. 20576; Cass., 20 aprile 2007, n. 9447;
Cass., sez. un., 25 ottobre 1993, n. 10603, in Corr. giur., 1994, p. 181, con nota di F.
CARINGELLA, Frode ai terzi e prelazione; Cass., 18 luglio 1991, n. 7983; Cass., 24 ottobre 1983, n. 6239; Cass., 16 giugno 1981, n. 3905.
In dottrina, in termini più generali, v., ad es., V. ROPPO, Il contratto, in Tratt. IudicaZatti, Giuffrè, 2011, p. 394 ss.; U. BRECCIA, Causa, in Tratt. Bessone, Il contratto in generale, III, Giappichelli, 1999, p. 285 ss.
***
NULLITÀ DEL CONTRATTO
Successione di leggi nel tempo, rilevabilità d’ufficio della nullità
CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 21 aprile 2011, n. 9263
La sentenza si segnala per un’affermazione in tema di successione di leggi
nel tempo – sostanzialmente in linea con la giurisprudenza prevalente, ma argomentata in modo originale – e per un’interpretazione fortemente riduttiva
della regola che consente al giudice di rilevare d’ufficio la nullità del contratto
(art. 1421 c.c.).
La controversia verte su un contratto di mutuo in ECU di cui il mutuatario
domanda la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta e, in subordine, la
riduzione ad equità della prestazione dovuta. Nel contesto dell’atto di citazione, si allega la nullità del contratto per indeterminatezza dell’oggetto e per contrasto con la disciplina delle clausole vessatorie dettata dagli artt. 1469-bis ss.
c.c. (oggi, artt. 33 ss. c. cons.): disciplina entrata in vigore successivamente alla
stipulazione del contratto. Il mutuatario, peraltro, si limita a dedurre genericamente la nullità del contratto, senza domandare espressamente che essa venga
dichiarata del giudice: la nullità in altri termini, resta al di fuori del petitum, in
quanto – come si è detto – l’attore chiede la risoluzione del contratto per ec-
Giurisprudenza
143
cessiva onerosità della prestazione e, in subordine, la riduzione ad equità della
prestazione di cui è debitore. Entrambe le domande vengono rigettate dal Tribunale; il mutuatario, allora, impugna la sentenza, chiedendo espressamente in
sede di gravame che il contratto venga dichiarato nullo. L’appello viene tuttavia
rigettato dal giudice di secondo grado, che ritiene la domanda di nullità inammissibile in quanto nuova ed infondata nel merito perché le norme indicate dall’attore sono entrate in vigore successivamente alla stipulazione del contratto.
La sentenza viene confermata dal giudice di legittimità. In conformità ad un
orientamento consolidato in giurisprudenza, il S.C. afferma che il contratto
non può essere dichiarato nullo per contrasto con una norma imperativa entrata in vigore dopo la sua stipulazione, a meno che la stessa non sia espressamente qualificata come retroattiva dalla legge. Di regola, infatti, una legge sopravvenuta non può determinare la nullità di un accordo validamente concluso. La
stessa S.C. ammette tuttavia che il quadro giurisprudenziale relativo alla c.d.
nullità sopravvenuta non è del tutto univoco. Alcune pronunce, infatti, hanno
affermato che la legislazione sopravvenuta può invalidare il contratto, sia pure
con efficacia ex nunc: fatte salve le prestazioni eseguite, che non devono essere
restituite, non può essere attuata la frazione di rapporto successiva all’entrata in
vigore della norma invalidante. In motivazione, si osserva che a tale conclusione la giurisprudenza è pervenuta «in tema di nullità assolute comminate ex novo da norme imperative, come in tema di usura ed antitrust». Quando invece
viene in considerazione una nullità relativa – come quella che interessa le clausole vessatorie nei contratti del consumatore – si esclude che il giudice possa
dichiararla sulla base di una legge sopravvenuta alla conclusione del contratto:
in relazione a tali fattispecie, infatti, non sarebbe dato riscontrare quella «connotazione di ordine pubblico [...] che ne avrebbe giustificato l’immediata applicazione ai rapporti in corso».
La sentenza della Corte d’Appello viene poi confermata nella parte in cui ritiene la domanda di nullità inammissibile in quanto nuova ai sensi dell’art. 345
c.p.c. La soluzione viene ritenuta corretta sebbene ai termini dell’art. 1421 c.c.
la nullità possa essere rilevata d’ufficio dal giudice, con la conseguente legittimazione della parte interessata a farla valere in ogni stato e grado del procedimento. Secondo la S.C., la declaratoria di nullità non può essere pronunciata in
mancanza di una domanda di parte, sicché il potere officioso del giudice diviene evanescente; in motivazione, infatti, si legge che «nel contesto dell’art. 1421
c.c., “rilevare” non significa [...] “dichiarare”, attenendo ad un’attività di verifica
dei presupposti per l’accoglimento della domanda ritualmente formulata e non
certo ad una sentenza d’ufficio».
Non è agevole comprendere in che cosa consista l’«attività di verifica dei
presupposti» a cui allude la Corte, posto che – sembra di capire – il giudice
non può pronunciare la nullità in assenza di una domanda di parte. È singolare,
144
2011
poi, che tale drastico ridimensionamento del potere del giudice di rilevare d’ufficio la nullità venga affermato in relazione ad un contratto asimmetrico, intercorrente tra una banca (id est, “professionista”) ed un cliente (id est, “consumatore”). È appena il caso di ricordare che in più occasioni la Corte di Giustizia ha
ravvisato nella legittimazione del giudice a rilevare d’ufficio la nullità del contratto un importante correttivo alla situazione di asimmetria di potere che intercorre tra le parti ed alle difficoltà di ordine pratico che ostacolano l’esercizio
del diritto di difesa da parte del consumatore.
In giurisprudenza, è principio consolidato che, qualora una norma non sia espressamente dichiarata retroattiva, la validità del contratto e delle sue clausole deve essere valutata sulla base della disciplina in vigore al momento della sua stipulazione e non al
momento della pronuncia del giudice: cfr. Cass., 6 luglio 2010, n. 15871; Cass., 17 luglio 2003, n. 11200; Cass., 29 novembre 1999, n. 13339, in Corr. giur., 2000, p. 1219,
con nota di R. CONTI, La Cassazione si pronuncia per la prima volta sul regime transitorio in tema di clausole abusive. Le disposizioni di carattere processuale, come quelle che
identificano il c.d. “foro esclusivo del consumatore”, sono tuttavia applicabili anche se
sopravvenute alla stipulazione del contratto: cfr. Cass. (ord.), sez. un., 1° ottobre 2003,
n. 14669, in Foro it., 2003, I, c. 3298, con nota di R. PALMIERI, In fuga dal codice di rito:
i contratti del consumatore conquistano il foro esclusivo (ma derogabile in assenza di squilibrio); Cass., 28 agosto 2001, n. 11282, ivi, 2001, I, c. 3587, con nota di R. PALMIERI,
Foro esclusivo del consumatore e abusività della deroga convenzionale alla competenza per
territorio: mai più in giudizio lontano da casa. Quanto alle norme che fissano la misura
degli interessi usurari si è affermato che, in quanto non retroattive, non influiscono
sulla validità dei contratti conclusi prima della loro entrata in vigore, precisandosi tuttavia che esse «possono implicarne l’inefficacia ex nunc, rilevabile solo su eccezione di
parte»: così Cass., 31 gennaio 2006, n. 2140, in Corr. giur., 2007, p. 393, con nota di
A.C. VACCARO BELLUSCIO, Mutuo fondiario e divieto di anatocismo: falso problema o
persistente querelle? Non diversamente, si è sostenuto che «in caso di convenzione restrittiva della concorrenza, stipulata prima dell’entrata in vigore della legge antitrust, la
nullità decorre dal momento in cui, in costanza della norma che la stabilisce, il comportamento vietato inizia a realizzarsi»: così Cass., 1° febbraio 1999, n. 827, in Giur.
it., 1999, c. 1223, con nota di B. LIBONATI, Intese orizzontali e aperture in tema di concorrenza e di mercato nella giurisprudenza della Cassazione. Come si è accennato nel testo, nella giurisprudenza della Corte di Giustizia la rilevabilità d’ufficio della nullità del
contratto viene valorizzata quale importante correttivo alla situazione di debolezza in
cui si trova il consumatore: cfr. CGCE, 4 giugno 2009, (causa C-243/08) – Pannon, in
AdC 2009, p. 284 ed in Contr., 2009, p. 1115, con nota di S. MONTICELLI, La rilevabilità d’ufficio condizionata della nullità di protezione: il nuovo "atto" della Corte di Giustizia;
CGCE, 25 ottobre 2006, (causa C-168/05) – Mostaza Claro, in Danno resp., 2007, p.
875, con nota di F. PASTORELLI, Rilevabilità della nullità del compromesso arbitrale in
sede di impugnazione del lodo; CGCE, 21 novembre 2002 (causa C-473/00) – Cofidis;
CGCE, 27 giugno 2000, (causa C-240/98) – Oceano, in Eur. dir. priv., 2000, p. 1173,
Giurisprudenza
145
con nota di R. ORESTANO, Rilevabilità d’ufficio della vessatorietà delle clausole nei contratti del consumatore ed in Contr., 2000, p. 943, con nota di P. SIMONE, Tutela del consumatore e rilevabilità d’ufficio delle clausole vessatorie.
In dottrina, sull’applicabilità della disciplina delle clausole vessatorie ai contratti stipulati prima della sua entrata in vigore, v. A. BARENGHI, in Codice del consumo, a cura
di V. Cuffaro, Giuffrè, 2008, p. 214 s; G. DE NOVA, Le clausole vessatorie, Ipsoa, 1996,
p. 7. Sul regime della nullità delle clausole vessatorie v., per tutti, G. PASSAGNOLI, in
Codice del consumo. Commentario, a cura di G. Vettori, Cedam, 2007, p. 370 ss.
***
NULLITÀ
Nullità del patto di quota lite
CORTE D’APPELLO DELL’AQUILA, 4 ottobre 2011, n. 971
La presente sentenza verte sugli effetti di un patto quota-lite stipulato tra
una società ed un professionista. La società Gamma nonché Caio – amministratore della stessa – convengono in giudizio l’Avv. Sempronio ed il Signor Bruto esponendo che questi ultimi hanno assunto l’incarico di trattare con il Ministero dell’Ambiente la concessione di un contributo volto a finanziare la ristrutturazione e il potenziamento di un impianto di smaltimento dei rifiuti gestito
da Gamma.
In primo grado gli attori, Società Gamma e Caio, deducono la nullità della
dichiarazione fatta sottoscrivere a Caio da Bruto e dall’Avv. Sempronio, atteso
che essa consiste in una promessa di pagamento o ricognizione di debito senza
che sussista il rapporto fondamentale e una causa debendi. In particolare, con
riferimento alla posizione dell’Avv. Sempronio, gli attori sostengono che la
scrittura contiene un patto di quota lite affetto da nullità che inficia l’intera pattuizione, ed inoltre che sussiste una responsabilità professionale dello stesso
per aver fatto sottoscrivere una promessa di pagamento in favore di Bruto lesiva dei propri assistiti.
Il Tribunale di Pescara rigetta le domande proposte dagli attori ed accoglie
invece la domanda riconvenzionale dell’Avv. Sempronio. I soccombenti impugnano la sentenza di fronte alla Corte d’Appello dell’Aquila e il Signor Bruto
propone a sua volta appello incidentale.
La Corte di Appello dell’Aquila, con una pronuncia estesa e motivata, ricostruisce differentemente il ruolo dell’Avv. Sempronio e del Signor Bruto, il
primo iscritto in un albo professionale e dotato di conoscenze legali, il secondo,
invece, imprenditore privo di specifiche competenze. Per un verso, l’Avv. Sem-
146
2011
pronio – anche in forza di una cospicua documentazione probatoria comprovante l’attività svolta – riesce a dimostrare il proprio ruolo nella vicenda. Diversamente, il Signor Bruto non riesce invece a dare prova dell’utilità della propria
attività.
La questione che qui maggiormente interessa, tuttavia, è data dalla richiesta
dichiarazione di nullità ex art. 1419 c.c., poiché l’accertata pattuizione del compenso al professionista conteneva un patto di quota lite che – in quanto nullo –
avrebbe implicato l’invalidità dell’intero contratto d’opera professionale concluso con scrittura privata. Secondo la società appellante, la declaratoria di nullità
doveva estendersi a tutto il contratto e non restare circoscritta a una singola
clausola, in quanto la pattuizione del corrispettivo è da considerarsi elemento
essenziale del contratto. Ad avviso della Corte questa tesi non è condivisibile in
quanto «la declaratoria di nullità parziale non riguarda l’accordo per il pagamento del corrispettivo per l’attività professionale, ma solo la “misura” del
compenso, illecitamente ancorata al risultato pratico dell’attività svolta, al fine
di evitare la partecipazione del professionista agli interessi pratici esterni alla
prestazione». In ragione di tale considerazione, ad avviso della Corte, non
vengono pertanto meno gli elementi essenziali del contratto d’opera professionale a seguito della declaratoria di nullità della clausola di commisurazione del
compenso al risultato pratico finale, ed appare inoltre certamente «corretto e
pertinente il richiamo, in funzione integrativa, all’art. 2233, comma primo, che
prevede la determinazione del compenso con applicazione delle tariffe professionali, sentito il parere dell’associazione professionale cui il professionista appartiene».
In ragione di tali considerazioni la Corte d’Appello dell’Aquila giunge a pronunciare il principio di diritto per cui non può essere dichiarata la nullità di un
contratto stipulato tra una società ed un professionista il cui compenso pattuito
violi il patto di quota lite. In tal caso, la nullità è solo parziale, afferendo alla sola
misura del compenso, illecitamente ancorata al risultato dell’attività svolta. In
tal caso soccorrono, in funzione integrativa, le tariffe professionali.
La Corte pertanto rigetta l’appello principale e l’appello incidentale.
In giurisprudenza poche sentenze si sono finora occupate dell’argomento. Tra queste
si segnalano Cass. 19 ottobre 2011, n. 21585 secondo cui «il compenso in questione è
un compenso aggiuntivo per l’esito favorevole della causa di risarcimento danni, compenso che non deve essere tale da rappresentare una ingiustificata falcidia, a favore del
difensore, dei vantaggi economici derivanti dalla vittoria della lite, perché a tanto osta
il divieto del patto di quota lite, che non può essere dissimulato dalla previsione pattizia di un palmario per l’esito favorevole della lite». In passato simili casi erano stati toccati dalle sezioni unite con la pronuncia del 4 maggio 2004, n. 8431 e con quelle del 6
luglio 2005, n. 14214 e 28 ottobre 2005, n. 20997.
Giurisprudenza
147
In dottrina, con riferimento al patto quota-lite ed ai suoi effetti nei rapporti tra le parti
cfr. A. D’ADDA, Nullità parziale e tecniche di adattamento del contratto, 2008, Cedam;
G. SCARSELLI, Il decreto Bersani e le tariffe forensi, in Foro it., 2007, IV, c. 23; P. SCHLESINGER, La nuova disciplina dei compensi professionali per gli avvocati, in Corr. giur. 2007, p.
449; L. DITTRICH, Profili applicativi del patto di quota lite, in Riv. dir. proc., 2007, p.
1141 ss.; C. CONSOLO, Pubblicità, tariffa, quota lite: chi ha più ragione?, in Rass. for.,
2006, p. 1399.
***
NULLITÀ DEL CONTRATTO
Nullità della fideiussione rilasciata dal donante a garanzia del rimborso di finanziamenti concessi da un terzo al donatario in quanto elusiva del principio di
intangibilità della quota di legittima
TRIBUNALE DI MANTOVA, 24 febbraio 2011
Assai interessante il caso risolto dal Tribunale di Mantova in materia di nullità della fideiussione in quanto elusiva della regola che preclude al testatore di
imporre pesi o condizioni sulla quota spettante ai legittimari (art. 549 c.c.).
Nella specie, la vedova ed erede del de cuius agisce in giudizio nei confronti
di una banca per sentire dichiarare la nullità della fideiussione, rilasciata in vita
da suo marito, con cui quest’ultimo si è costituito garante del figlio per l’adempimento di obbligazioni dipendenti da operazioni bancarie di qualsiasi natura
fino alla concorrenza di 3 miliardi e mezzo di lire. La fideiussione prevedeva inoltre la solidarietà e indivisibilità dell’obbligazione fideiussoria nei confronti dei
successori ed aventi causa del garante.
Qualche anno prima della sua stipula, il padre aveva donato al figlio un vasto
complesso immobiliare. Due giorni dopo il rilascio della fideiussione prestata
dal padre, la banca aveva concesso al figlio un mutuo fondiario per 3 miliardi e
mezzo, iscrivendo ipoteca, tra l’altro, sul complesso immobiliare ricevuto in
donazione.
Il figlio si rende successivamente inadempiente alle obbligazioni contratte
con la banca, che intraprende un procedimento esecutivo sui beni concessi in
garanzia, tra cui il complesso immobiliare oggetto dell’originaria donazione.
La moglie del fideiussore è chiamata alla sua eredità. Ella è tuttavia dissuasa
dall’intentare l’azione di riduzione che le potrebbe competere a ragione della
lesione della sua quota di legittima per effetto della donazione disposta in vita
da suo marito a suo figlio. Infatti, per effetto della fideiussione concessa dal marito, ella troverebbe nell’asse ereditario il debito di garanzia del de cuius e sa-
148
2011
rebbe pertanto indotta a non proporre l’azione di riduzione: l’incremento di
quanto risulterebbe dal suo vittorioso esperimento sarebbe vanificato dal debito derivante dalla prestata fideiussione.
Il Tribunale, accogliendo la domanda della vedova, dichiara la nullità della
fideiussione. Qualora infatti le venisse riconosciuta la qualifica di erede, ella dovrebbe rispondere fino alla concorrenza della somma di 3 miliardi e mezzo di
lire di tutte le obbligazioni del figlio. Il contratto costituisce, quindi, il mezzo
per eludere l’applicazione della norma imperativa di cui all’art. 549 c.c. che sancisce il principio di intangibilità della quota legittima e la sua causa è pertanto
dichiarata illecita ex art. 1344 c.c.
In giurisprudenza, non constano precedenti in termini. Per un’altra operazione conclusa da un istituto di credito con un privato e parimenti considerata nulla per frode ala legge, v. App. Milano, 25 maggio 1993, in Banca borsa tit. cred., 1994, II, p. 618, relativa ad un mutuo fondiario concluso con un istituto di credito e utilizzato dal mutuatario per ripianare una precedente esposizione debitoria verso l’istituto stesso.
In dottrina, sul contratto in frode alla legge, v. G. PASSAGNOLI, Il contratto illecito, in
Tratt. Roppo, II, Regolamento, a cura di G. Vettori, Giuffrè, 2006, p. 479; D. CARUSI, La
disciplina della causa, in Tratt. Rescigno-Gabrielli, I contratti in generale, a cura di E. Gabrielli, Utet, 1999, pag. 568; U. MORELLO, Negozio giuridico, VI, Negozio in frode alla legge, in Enc. Giur. Treccani, XX, Istituto della Enciclopedia italiana, 1990, ad vocem, p. 1 ss.;
A. PUGLIESE, Riflessioni sul negozio in frode alla legge, in Riv. dir. comm., 1990, p. 161 ss.
***
ANNULLABILITÀ DEL CONTRATTO
Incapacità naturale
TRIBUNALE DI GENOVA, 30 giugno 2011, n. 2671
Questo il caso. Tizio vende il suo unico immobile (con riserva di abitarvi) a
Caia, con la quale intrattiene da tempo una relazione – pur non formalizzata –,
e corrisponde i suoi risparmi a Mevio, nipote di Caia. Tizio, ravvedutosi sulle
disposizioni, e denunciato Mevio per circonvenzione di incapace, chiede al
Tribunale civile di dichiarare nulli tali atti dispositivi o, in subordine, di annullarli perché compiuti in stato di incapacità di intendere e volere.
Il giudice, accertata l’archiviazione del procedimento penale – quindi l’insussistenza del reato di circonvenzione di incapace –, ritiene inapplicabile il rimedio della nullità, pronunciando, invece, l’annullamento del contratto.
La valutazione dei presupposti dell’annullabilità del contratto concluso dal-
Giurisprudenza
149
l’incapace naturale è oggetto di due orientamenti contrapposti, che si fondano
su diverse interpretazioni dell’art. 428 c.c.
Secondo il primo, prevalente in giurisprudenza e seguito da gran parte della
dottrina, l’annullabilità del contratto concluso dall’incapace di intendere e volere richiede la sussistenza della sola malafede dell’altro contraente, ma non anche la prova di un grave pregiudizio per l’incapace. L’art. 428 c.c., infatti, individua due regimi differenziati per gli atti unilaterali e i contratti. Per questi ultimi, alla ratio della protezione dell’incapace si affianca quella della tutela dell’affidamento del terzo contraente, e il pregiudizio interviene solo in quanto indice rivelatore della malafede.
Secondo altra prospettiva, il grave pregiudizio per l’incapace e la malafede
dell’altro contraente devono coesistere. La rubrica dell’art. 428 c.c., infatti, indica la categoria degli «atti» di cui sono parte anche i contratti, mentre la ratio
della protezione dell’incapace, di cui è espressione il requisito del grave pregiudizio, è compatibile con quella della tutela dell’altro contraente (da cui il requisito della malafede).
Il Tribunale di Genova, pur senza dichiararlo espressamente, si adegua a questo secondo orientamento, verificando la sussistenza, nel caso concreto, di tutti e
tre i presupposti per l’annullamento: lo stato di incapacità di Tizio, il grave pregiudizio che le disposizioni gli cagionano e la malafede di Caia e Mevio.
La prova dell’incapacità si fonda principalmente sull’esito della CTU, ma si
arricchisce con elementi propri del contesto: la vendita sostanzialmente fittizia
– posto che non è mai stato versato il corrispettivo – e la dazione di denaro priva di ragione giustificativa.
Il pregiudizio, argomenta il Tribunale, è economico e rilevante, posto che
Tizio si è privato, con gli atti impugnati, di tutti i suoi beni. Quanto alla malafede, il giudice procede con una valutazione per presunzioni, traendo elementi
utili dal carattere pregiudizievole delle operazioni, verosimilmente noto ai contraenti come la condizione di incapacità, nonché dalla natura di atti gratuiti che
caratterizza le due disposizioni.
La sentenza è pubblicata in Nuova giur. civ. comm., 2012, p. 35 ss., con commento di F.
BARTOLINI, Il contratto dell’incapace naturale: la prova dei presupposti nel giudizio di
annullamento.
In giurisprudenza, sull’incapacità di intendere e volere, cfr. Cass., 28 marzo 2002, n.
4539; Cass., 26 maggio 2000, n. 6999, in Contr., 2001, p. 25, con nota di M. AMBROSOLI, Tutela dell’incapace naturale e requisito del pregiudizio; Trib. Novara, 11 maggio
2010, n. 485, nella banca dati dejure. Per la nullità del contratto concluso perpetrando
il reato di circonvenzione di incapace, cfr. Cass., 7 febbraio 2008, n. 2680. Esprimono
l’orientamento maggioritario che ritiene possibile l’annullamento del contratto sulla
base della sola malafede, fra le molte, Cass., 26 novembre 1987, n. 8783, in Giur. it.,
1989, I, c. 191; Cass., 26 febbraio 1992, n. 2374, in Corr. giur., 1992, p. 511, con nota
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adesiva di V. CARBONE, Annullamento del contratto concluso dall’incapace naturale: basta la malafede?; Cass, 26 febbraio 2009, n. 4677, in AdC 2009, p. 198; Trib. Salerno,
22 giugno 2010, n. 1499, nella banca dati dejure. L’orientamento minoritario, cui si conforma la sentenza qui segnalata, è espresso da Cass., 28 maggio 1983, n. 3693; Cass.,
25 marzo 1993, n. 3589.
In dottrina, in generale, sullo stato di incapacità di intendere e volere, cfr. C.M. BIANCA, Diritto civile, 1, La norma giuridica. I soggetti, Giuffrè, 2002, p. 245 ss.; E. LECCESE,
Incapacità naturale e teoria dell’affidamento, Jovene, 1999, p. 58 ss.; M. FRANZONI, Il
contratto annullabile, in Tratt. Bessone, Il contratto in generale, VII, Giappichelli 2002, p.
205 ss.; ID., Dell’annullabilità del contratto, in Comm. Schlesinger, Giuffrè, 2005; V. ROPPO, Il contratto, in Tratt. Iudica-Zatti, Giuffrè, 2011, p. 723 ss. Su incapacità di intendere e volere e reato di circonvenzione di incapace (art. 643 c.p.) si segnalano: V. MARICONDA, Quale invalidità contrattuale nel caso di circonvenzione d’incapace?, in Corr.
giur., 1995, p. 217; E. DEL PRATO, Le annullabilità, in Tratt. Roppo, IV, Rimedi-1, a cura
di A. Gentili, Giuffrè, 2006, pp. 180-181. Sui presupposti dell’annullabilità del contratto dell’incapace naturale si segnalano M. GRONDONA, Le incapacità, in AA.VV. Il nuovo contratto, Zanichelli, 2007, p. 499 ss.; A. MANGANIELLO, La disciplina dell’incapacità
naturale nell’art. 428 c.c. con riguardo all’annullamento del contratto, in Giust. civ., 1994,
II, p. 369 ss. Per l’orientamento prevalente in giurisprudenza e dottrina si esprimono,
fra i molti, M. GIORGIANNI, La c.d. incapacità naturale nel libro primo del codice civile, in
Riv. dir. civ., 1939, I, p. 408 ss.; V. CARBONE, Annullamento del contratto concluso dall’incapace naturale: basta la malafede?, in Corr. giur., 1992, p. 512 ss. Per l’orientamento
contrario si segnalano R. SACCO in R. SACCO-G. DE NOVA, Il contratto, I, in Tratt. Sacco,
Utet, 2004, p. 481 ss.; P. RESCIGNO, Incapacità naturale e adempimento, Esi, 1982 (rist.),
p. 35; V. ROPPO, Il contratto, cit., pp. 725-726; E. LECCESE, Incapacità, cit., p. 103 ss.
***
RESCISSIONE
Lesione ultra dimidium e contratto preliminare
CORTE DI CASSAZIONE, Sez. II, 9 febbraio 2011, n. 3176
La Suprema Corte è chiamata a pronunciarsi su un caso di rescissione per
lesione.
Questi i fatti. I coniugi Tizio e Caia promettono in vendita a Mevio un immobile di cui sono proprietari. Dopo un certo periodo di tempo, Mevio agisce
ai sensi dell’art. 2932 c.c. nei confronti dei due coniugi per ottenere il trasferimento in suo favore della proprietà dell’appartamento. I due coniugi promittenti venditori, a loro volta, resistono esercitando in via riconvenzionale l’azione generale di rescissione per lesione ai sensi dell’art. 1448 c.c.
Giurisprudenza
151
In primo grado, viene accolta la domanda riconvenzionale dei due promittenti venditori e rigettata quella principale del promissario acquirente; in secondo grado, viene invece ribaltata la situazione con l’accoglimento della domanda
del promissario acquirente Mevio e dichiarato il trasferimento della proprietà
dell’immobile promesso, a condizione del pagamento della residua differenza
di prezzo ancora dovuta.
La Corte territoriale ritiene che il Tribunale abbia erroneamente considerato, ai fini dell’azione di rescissione, il valore dell’immobile accertato alla data
della domanda, invece di considerare il valore corrente all’epoca di stipula del
contratto preliminare, in relazione al quale il prezzo convenuto non era stato
stimato dal c.t.u. come inferiore della metà e che i convenuti non avevano fornito alcuna prova relativamente all’approfittamento da parte di Mevio del loro
asserito stato di bisogno.
Per la cassazione della sentenza ricorrono i due coniugi Tizio e Caia.
Essi deducono che secondo un’integrale lettura dell’art. 1448 c.c. la lesione
ultra dimidium rileva se esistente non solo al momento della stipula del contratto, ma anche quando perduri fino alla proposizione della domanda di rescissione, le cui condizioni possono realizzarsi o al momento di conclusione del contratto o quando, successivamente, è proposta l’azione di rescissione, precisando sul punto che questa, sebbene sia decorso il termine di cui all’art. 1449 c.c.,
può essere utilmente esperita in via di riconvenzione a una domanda di esecuzione in forma specifica del contratto preliminare.
Con la pronuncia in oggetto la Suprema Corte rigetta il ricorso proposto dai
due promittenti venditori e lo fa ben argomentando i ragionamenti di fondo.
Secondo la Corte, il fatto che la lesione ultra dimidium riferita ad un contratto
preliminare divenga concreta ed attuale soltanto quando la parte che l’ha subita
sia convenuta per l’esecuzione in forma specifica del contratto, e che pertanto
soltanto da tale momento decorra il termine di prescrizione dell’azione, non
significa che l’esistenza della sproporzione tra le prestazioni debba postdatarsi
rispetto alla stipula del contratto rescindibile.
Anzi, ad avviso dei Giudici di legittimità la piana esegesi dell’art. 1448, c. 2,
c.c. non lascia adito a dubbi di sorta sul fatto che la lesione, per legittimare
l’azione generale di rescissione, deve eccedere la metà del valore che la controprestazione a carico della parte danneggiata aveva al tempo del contratto. La
Corte richiama propri precedenti ricordando di aver già affermato, anche se in
epoca ormai risalente, che in tema di rescissione del contratto per lesione ultra
dimidium l’accertamento della lesione va operata in base al valore dei beni al
momento della stipulazione del contratto.
La pronuncia precisa inoltre come una cosa sia l’interesse ad agire o a resistere in giudizio facendo valere una domanda o un’eccezione di rescissione, interesse che sorge solo se ed in quanto la parte che si sia approfittata dello stato
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2011
di bisogno dell’altra agisca per conseguire gli effetti della stipulazione avvenuta
in danno del contraente debole; altra è l’identificazione del momento in cui è
sorto il vincolo contrattuale e si è prodotto il relativo vizio, intrinsecamente genetico, che giustifica il rimedio rescissorio.
I Giudici di legittimità giungono così a pronunciare il principio di diritto secondo cui per stabilire se un contratto preliminare sia rescindibile per lesione
ultra dimidium occorre fare riferimento al valore che la cosa che ne forma l’oggetto aveva al momento della stipulazione, a nulla rilevando che l’interesse ad
agire sia sorto solo successivamente, allorché la parte interessata ne abbia invocato l’esecuzione in forma specifica.
Quanto alla giurisprudenza, in generale, con riferimento ai casi di eccedenza di oltre la
metà della prestazione rispetto alla controprestazione cfr., ex multis, Cass., 19 gennaio
2005, n. 1065; Cass., 19 agosto 2003, n. 12116; Cass., 1° marzo 1995, n. 2347; Cass.,
5settembre 1991, n. 9374; Cass. 9 dicembre 1982, n. 6723; App. Napoli, 18 novembre
2005; App. Cagliari, 17 maggio 1986, in Riv. giur. sarda, 1988, p. 361.
In dottrina, si segnalano G. SALVI, Contributo alla rescissione nel nuovo diritto dei contratti, Esi, 2009, p. 165 e ss.; P. VITUCCI, La rescissione, in Tratt. Roppo, IV, Rimedi-1, a cura di A. Gentili, Giuffrè, 2006, p. 433 ss.; B. CARPINO, La rescissione del contratto, Artt.
1447-1452, in Comm. Schlesinger, Giuffrè, 2000, p. 9 ss.; G. MERUZZI, Il contratto usurario tra nullità e rescissione, in Contr. e impr., 1999, p. 475 ss.; A. RICCIO, Le conseguenze
civili dei contratti usurari: è soppressa la rescissione per lesione ultra dimidium?, in Contr. e
impr. 1998, p. 1038; S. CAPRIOLI, Rescissione (storia), in Enc. dir., XXXIX, Giuffrè, 1988,
p. 933 ss.; F. CARRESI, La fattispecie della rescissione per lesione, in Studi in onore di Paolo
Greco, Giuffrè, 1965, p. 13.
***
RISOLUZIONE PER INADEMPIMENTO
Inadempimento, dichiarazione del creditore di avvalersi della clausola risolutiva espressa, successiva accettazione della prestazione, conseguente rinuncia alla intercorsa risoluzione di diritto, termine di grazia a favore del debitore
CORTE DI CASSAZIONE, sez. II, 10 marzo 2011, n. 5734
La S.C. afferma che il creditore può rinunciare unilateralmente alla risoluzione “di diritto”, ribadendo, così, un principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, ma disatteso da una recente sentenza delle sezioni unite (Cass.,
sez. un., 14 gennaio 2009, n. 553). Per la precisione, quest’ultima ha criticato la
legittimazione a disporre unilateralmente dell’effetto risolutorio in relazione
alla diffida ad adempiere, mentre la sentenza in commento verte sulla risolu-
Giurisprudenza
153
zione conseguente alla dichiarazione di volersi avvalere della clausola risolutiva
espressa. In motivazione, tuttavia, il principio di diritto viene ribadito in relazione a tutte le ipotesi di risoluzione stragiudiziale.
La sentenza è interessante anche per la particolare articolazione della vicenda processuale. Come si vedrà subito, infatti, il giudice di primo grado accorda
al debitore convenuto in giudizio un termine di grazia entro il quale eseguire la
prestazione: una figura che al di fuori dei rapporti di locazione sembrava tramontata, nel nostro ordinamento, a seguito della promulgazione del codice civile vigente (cfr. art. 55, l. 392/1978).
Tra le parti intercorre un contratto preliminare di compravendita immobiliare, rispetto al quale il promittente acquirente si rende inadempiente; il promittente alienante, allora, dichiara di avvalersi della clausola risolutiva espressa
contenuta nel contratto e domanda al giudice l’accertamento della risoluzione.
Il Tribunale rimette in termini il convenuto – che aveva chiesto il trasferimento
coattivo dell’immobile, senza tuttavia saldare il prezzo – assegnandogli un termine di tre mesi dalla pubblicazione della sentenza per effettuare il pagamento.
Il promittente acquirente paga effettivamente il prezzo nel termine fissato dal
giudice emettendo un assegno circolare che viene accettato dalla controparte.
Quest’ultima, peraltro, resta interessata alla risoluzione del contratto ed impugna la sentenza di primo grado. La Corte d’Appello rigetta l’impugnazione ed
afferma che accettando l’assegno circolare con cui è stato saldato il prezzo il
promittente alienante ha prestato acquiescenza alla sentenza di primo grado.
Con la pronuncia in epigrafe, la Cassazione conferma la sentenza di secondo grado. Accettando il saldo del prezzo, il promittente alienante ha rinunciato
alla risoluzione di diritto conseguente alla dichiarazione di avvalersi della clausola risolutiva espressa. La domanda di risoluzione, dunque, è infondata nel
merito e sotto il profilo processuale il promittente alienante non aveva interesse ad impugnare la sentenza di primo grado. Come si è anticipato, peraltro, la
S.C. ribadisce la validità del principio di diritto anche in relazione alle altre ipotesi di risoluzione stragiudiziale.
In giurisprudenza, il principio secondo cui il creditore può rinunciare alla risoluzione
di diritto è stato affermato in relazione alle tre fattispecie codificate di risoluzione stragiudiziale. In tema di diffida ad adempiere, cfr. Cass., 8 novembre 2007, n. 23315, in
Contr., 2008, p. 437, con nota di F. TOSCHI VESPASIANI, Diffida ad adempiere e disponibilità degli effetti risolutori, ed in Corr. giur., 2008, p. 935, con nota di M. RUVOLO, Diffida
ad adempiere e rinuncia dell’avente diritto ad avvalersi dell’effetto risolutorio; Cass., 1° aprile
2005, n. 6891; Cass. 28 giugno 2004, n. 11967; Cass., 4 agosto 1997, n. 7182; Cass.,
18 maggio 1987, n. 4535, in Giur. it., 1988, I, 1, c. 448, con nota di C. SCOGNAMIGLIO,
Sulla disponibilità degli effetti della diffida ad adempiere da parte dell’intimante; Cass., 25
novembre 1983, n. 7079, in Giust. civ., 1984, I, p. 3141, con nota di P. MALFATTI LETTA, In tema di diffida ad adempiere; Cass., 23 aprile 1977, n. 1530, in Giur. it., 1978, I, 1,
154
2011
c. 536. Con riferimento alla clausola risolutiva espressa, cfr. Cass., 24 novembre 2010,
n. 23824, in Giur. it., 2011, p. 1028, con nota di A. ZENNARO, Questioni vecchie e nuove
in tema di clausola risolutiva espressa; Cass., 1° agosto 2007, n. 16993; Cass. 22 ottobre
2004, n. 20595; Cass., 16 febbraio 1988, n. 1661, in Giur. it., 1989, I, 1, c. 142, con nota critica di D. CARUSI, Clausola risolutiva espressa e rinuncia all’effetto risolutivo; Cass.,
14 aprile 1975, n. 1409, in Giur. it., 1976, I, c. 1820; Cass., 29 dicembre 1969, n. 4042,
in Giur. it., 1970, I, 1, c. 1214; Trib. Como, 3 dicembre 2000, in Giur. it., 2001, p. 970,
con nota di M. CAVANNA, Osservazioni in tema di leasing, cessione dell’opzione e revocatoria fallimentare. In relazione al termine essenziale, cfr. Cass., 25 ottobre 2010, n.
21838; Cass., 10 febbraio 2003, n. 1952; Cass., 3 luglio 2000, n. 8881; Cass., 3 settembre 1998, n. 8733; Cass., 22 luglio 1993, n. 8195; Cass., 6 luglio 1990, n. 7150; Cass., 7
maggio 1987, n. 4226; Cass., 10 maggio 1946, n. 559, in Foro it., 1944-1946, c. 932,
con nota di R. NICOLÒ, Termine essenziale e mora debendi. La sentenza delle sezioni
unite che critica il principio secondo cui il creditore può rinunciare unilateralmente alla
risoluzione conseguente all’intimazione della diffida ad adempiere è Cass., sez. un., 14
gennaio 2009, n. 553, in Contr., 2009, p. 779, con nota di F. TORRASI, Caparra confirmatoria e rimedi per la parte non inadempiente; in Corr. giur., 2009, p. 333, con note di
A. PALMA, La (in)compatibilità della domanda giudiziale di ritenzione della caparra (o di
richiesta del suo doppio) con i vari modi di risoluzione del contratto, diversi dal recesso ex
art. 1385, comma 2 c.c. e di M. RUVOLO, Le sezioni unite mutano il loro “granitico” orientamento in tema di diffida ad adempiere e di rinuncia all’effetto risolutorio; in Danno resp.,
2009, p. 625, con nota di M. DELLACASA, Caparra confirmatoria e disponibilità dell’effetto risolutorio; in Giur. it., 2009, p. 1114, con nota di G. SICCHIERO, Indisponibilità
dell’effetto risolutivo stragiudiziale del contratto (artt. 1454, 1456 e 1457 c.c.); in Giust.
civ., 2009, I, p. 1294, con nota di D. AMOROSO, In tema di caparra confirmatoria: intervento delle sezioni unite; in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, p. 680, con nota di C. LEGGIERI, Caparra confirmatoria ed inadempimento: inammissibilità del recesso nel caso di preventiva domanda di risoluzione e risarcimento del danno; in Resp. civ., 2009, p. 604, con nota
di F. TOSCHI VESPASIANI e L. FANTECHI, La caparra confirmatoria: tra recesso e risoluzione per inadempimento, le sezioni unite fanno il punto sulle tutele ex art. 1385 c.c.; in Resp.
civ. prev., 2009, p. 1089, con nota di E. LUCCHINI GUASTALLA, Risoluzione del contratto e irrinunciabilità dell’effetto risolutorio. Ulteriori commenti sono offerti da M. COGNOLATO, La caparra confirmatoria e la «rinuncia» all’effetto risolutorio secondo le sezioni unite, in Obbl. contr., 2010, p. 107; A. DI MAJO, Le tutele contrattuali, Giappichelli,
2009, p. 222 ss.; E. LUCCHINI GUASTALLA, Caparra confirmatoria, recesso e risoluzione
del contratto, in Riv. dir. civ., 2009, II, p. 327; G. PARDI, Brevi riflessioni in tema di rapporti tra caparra confirmatoria e azione risarcitoria, in Giust. civ., 2010, I, p. 671; V. VITI,
La disponibilità dell’effetto risolutorio nella diffida ad adempiere, in Giur. it., 2009, p.
2416.
Per la dottrina, si rinvia ai commenti citati.
***
Giurisprudenza
155
ECCEZIONE D’INADEMPIMENTO
Custode giudiziario, spese di custodia, inapplicabilità
CORTE DI CASSAZIONE, sez. III, 10 marzo 2011, n. 5699
La suprema corte si pronuncia ancora una volta sulla questione dell’ambito
applicativo dell’eccezione di inadempimento. Questi i lineamenti del caso. Il
custode giudiziario di un autoveicolo otteneva dal giudice di pace un decreto
ingiuntivo nei confronti del proprietario avente ad oggetto il pagamento delle
spese di custodia. Il debitore ingiunto sollevava opposizione, nella quale, tra le
altre cose, evidenziava che il custode avrebbe dovuto, prima di pretendere il
pagamento del proprio compenso, mettere a disposizione della controparte il
veicolo stesso, per consentire al proprietario di verificare la sua persistente funzionalità; rigettata l’opposizione, il debitore impugnava dapprima la relativa
sentenza davanti al Tribunale, per poi ricorrere in Cassazione contro la decisione di quest’ultimo che confermava la sentenza impugnata.
A quanto è dato sapere, il Tribunale ha ritenuto che, nel caso di specie, il
proprietario del veicolo non potesse sollevare l’eccezione di inadempimento a
causa dell’assenza di un rapporto contrattuale tra le parti e, comunque, per l’infondatezza dei fatti su cui l’opponente reputava di poter fondare la propria eccezione (in quanto provato che il custode aveva offerto a controparte il ritiro dell’autoveicolo). Oltre a questo, il Tribunale richiama l’art. 1460, c. 2, c.c., mostrando di ritenere (ma le specifiche argomentazioni non possono essere ricostruite con maggiore precisione) che l’eccezione sollevata dall’opponente sarebbe stata comunque contraria a buona fede, anche laddove se ne fossero ritenuti esistenti i presupposti applicativi.
Nel ricorso per Cassazione, il proprietario del veicolo, tra gli altri motivi di
doglianza, contesta la decisione di secondo grado nella parte in cui ha escluso
che, nel caso concreto, potesse essere sollevata l’eccezione di inadempimento,
perché, ciò ritenendo, il giudice di secondo grado avrebbe violato l’art. 12 prel.;
oltre a questo, il Tribunale non avrebbe dovuto ritenere sufficiente a neutralizzare l’eccezione l’offerta di riconsegnare il bene, mentre il custode avrebbe dovuto dimostrare la propria diligenza nella detenzione della res. Il ricorrente, infine, contesta l’evidenziata contrarietà a buona fede dell’eccezione da lui sollevata, ritenendo che fosse suo buon diritto verificare il buon funzionamento del
mezzo custodito.
La Cassazione ritiene manifestamente infondato questo motivo del ricorso:
dato il tenore letterale dell’art. 1460 c.c. (che ammette l’eccezione d’inadempimento nei «contratti a prestazioni corrispettive»), la decisione del giudice di
secondo grado è del tutto corretta: nel caso concreto, infatti, è pacifico che tra
le parti non si sia mai costituito un contratto, bensì un rapporto giuridico na6.
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2011
scente dalla legge, che, all’evidenza, è tutt’altra cosa. Quanto alla pretesa del ricorrente di verificare il buon funzionamento del veicolo, il Collegio evidenzia
che, in ogni caso, essa avrebbe dovuto essere preceduta dalla prova che, al momento in cui è stato emesso il provvedimento di sequestro, il veicolo fosse effettivamente in condizioni di funzionare. In definitiva, tra il custode giudiziario
di cosa sottoposta a sequestro penale e il soggetto a favore del quale è stato disposto il dissequestro, non si costituisce un rapporto di tipo contrattuale e, pertanto, l’eccezione d’inadempimento non può precludere la condanna al pagamento del compenso per la custodia della cosa sottoposta a sequestro penale.
In giurisprudenza sull’individuazione dei presupposti applicativi dell’eccezione d’inadempimento esiste una casistica piuttosto ricca: si ammette, ad esempio, l’utilizzo dell’eccezione per giustificare il rifiuto del creditore di cooperare per ridurre od attenuare
le conseguenze dell’inadempimento (Cass., 1° marzo 1976, n. 672, in Foro it., 1976, I,
c. 2848) o, ancora, nei casi in cui l’eccipiente reagisce contro l’inadempimento di un
diverso negozio, collegato al primo contratto da un nesso di interdipendenza voluto dalle parti e giudizialmente accertato (Cass., 11 marzo 1981, n. 1389, in Rep. Giur. it., 1981,
Contratto in genere, n. 321 e Cass., 17 marzo 2006, n. 5938, in Impresa, 2006, p. 1355).
Nei contratti che non possono essere qualificati come «a prestazioni corrispettive» si
nega la proposizione dell’exceptio inadimplenti contractus: così ad esempio nei contratti
di società (Cass., 4 maggio 1993, n. 5180 e Cass., 18 gennaio 2001, n. 694). Laddove
manca un vero e proprio contratto (come nel caso che ha dato luogo alla decisione della
suprema corte sopra segnalata), l’eccezione non può essere utilizzata: così si è deciso
nell’ambito dei rapporti patrimoniali che scaturiscono dall’appartenenza ad un condominio (Cass., 11 maggio 2009, n. 10816; Cass., 31 maggio 2006, n. 12956 e Cass.,
sez. un., 26 novembre 1996, n. 10492), nel contesto dei rapporti tra proprietari di fondi confinanti (Cass., 22 dicembre 1995, n. 13072) o quando si litighi sull’adempimento degli obblighi assunti in sede di accordo di separazione consensuale (Cass., 17 giugno 2004, n. 11342). Si esclude l’applicazione dell’eccezione anche all’adempimento
delle obbligazioni restitutorie che seguono allo scioglimento del contratto: App. Roma, 2 aprile 2009 e Cass., 9 settembre 2004, n. 18143.
In dottrina sull’eccezione di inadempimento possono vedersi: F. ADDIS, Le eccezioni
dilatorie, in Tratt. Roppo, V, Rimedi-2, a cura di V. Roppo, Milano, 2006, p. 413 ss.;
A.M. BENEDETTI, Art. 1460, in Commentario del Codice civile, diretto da E. Gabrielli, Dei
contratti in generale, a cura di E. Navarretta e A. Orestano, Utet, 2011, p. 480 ss.; dello
stesso Autore si veda Le autodifese contrattuali, Artt. 1460-1462, in Comm. Schlesinger,
Giuffrè, 2011.
***
Giurisprudenza
157
ECCEZIONE D’INADEMPIMENTO
Operazioni di finanziamento e nullità della clausola di rinuncia all’eccezione di
inadempimento del fornitore
CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 11 febbraio 2011, n. 3392
La pronuncia in commento affronta l’annosa questione che, nei contratti di
prestito finalizzati all’acquisto di un determinato bene o servizio, attiene all’opponibilità al finanziatore delle eccezioni relative al contratto di vendita ed offre
all’interprete lo spunto per effettuare alcune considerazioni su tematiche che,
da tempo, tengono divise dottrina e giurisprudenza.
Il tema trattato è, in particolare, quello dei rapporti tra il mutuo di scopo ed
il credito al consumo, dell’esistenza di un collegamento negoziale tra contratti
di vendita e di finanziamento e dell’incidenza che l’efficacia di tale collegamento può avere sulla validità di clausole, frequentemente inserite nelle condizioni
generali dei contratti di prestito al consumo, volte a tenere indenne il finanziatore dai rischi derivanti dall’inadempimento del fornitore/venditore.
Di seguito i fatti di causa. Due coniugi contraggono con una finanziaria di
Bologna un mutuo per l’acquisto di un’autovettura autorizzandola a versare direttamente la somma al venditore. A seguito della mancata consegna dell’auto,
i coniugi sospendono il pagamento delle rate di mutuo nei confronti della finanziaria, subendo decreto ingiuntivo per la somma costituente l’importo dovuto. La società finanziaria chiede il rigetto della conseguente opposizione richiamando la clausola contrattuale, inserita nel contratto di finanziamento, con
cui il mutuatario rinunciava a far valere nei confronti della finanziaria stessa tutte le eccezioni inerenti al negozio concluso con il venditore e, in particolare,
quella concernente la mancata consegna del veicolo.
Il Tribunale di Ancona accoglie l’opposizione e revoca il decreto ingiuntivo.
Confermata in appello la pronuncia di primo grado, la soccombente società finanziaria propone ricorso per Cassazione, nel quale: (i) contesta la risoluzione
del contratto di mutuo come conseguenza della risoluzione del contratto di
vendita in quanto gli attori non avevano formulato alcuna domanda al riguardo; (ii) contesta l’esistenza di un collegamento negoziale tra il contratto di mutuo e quello di compravendita per la presenza in contratto della clausola con
cui il mutuatario rinuncia a far valere nei confronti del mutuante le eccezioni
inerenti il negozio concluso con il venditore; (iii) assume, infine, la violazione
dell’art. 1362 c.c., in relazione all’art. 1322 c.c., in quanto l’assenza di un collegamento negoziale tra mutuo e compravendita dipendeva dalla libera volontà
delle parti, testimoniata dalla suddetta clausola di rinuncia, specificamente sottoscritta da uno dei coniugi.
158
2011
Nel respingere il ricorso la Cassazione qualifica il contratto di finanziamento
come mutuo di scopo e nel caso specifico considera la clausola di rinuncia a far
valere, nei confronti del mutuante, l’eccezione di mancata consegna del veicolo
«intrinsecamente invalida, perché contraria a buona fede». Secondo i giudici di
legittimità nella fattispecie «non sussisterebbe [...] alcun interesse del mutuante
al riguardo, stante la possibilità di ripetere la somma (d)al venditore (cui il mutuante stesso l’aveva direttamente consegnata), se non quello di favorire il venditore stesso, che tratterrebbe la somma, senza aver consegnato l’auto».
Il Giudice di legittimità premette che il mutuante è legittimato a richiedere
al venditore la restituzione delle somme qualora non si realizzi lo scopo a cui è
finalizzata l’erogazione del finanziamento; precisa inoltre che, qualora una clausola del contratto faccia gravare sul mutuatario il rischio della mancata consegna del bene, non si può escludere a priori che quest’ultimo, ove non riceva il
veicolo, perda la legittimazione ad opporre al mutuante l’eccezione di inadempimento. In definitiva, una clausola siffatta (di rinuncia a far valere nei confronti del mutuante l’eccezione di mancata consegna del veicolo), potrebbe essere
astrattamente valida, in quanto espressione della libertà negoziale delle parti;
ad avviso della Corte, tuttavia, la questione deve essere necessariamente considerata alla luce della fattispecie concreta.
Sulla scorta di tali considerazioni, la Suprema Corte giunge ad enunciare il
principio di diritto secondo cui, in tema di contratto di mutuo finalizzato all’acquisto di un veicolo, la clausola di rinuncia del mutuatario a far valere nei confronti del mutuante l’eccezione di mancata consegna del veicolo da parte del
venditore, pur astrattamente valida in quanto espressione della libertà negoziale, deve essere valutata alla luce della fattispecie concreta, ben potendo essere
considerata invalida quando, violando il principio di buona fede, produca
l’effetto di escludere del tutto la possibilità di proporre quella eccezione, stante
al riguardo la mancanza di interesse sia del mutuante, il quale potrebbe ripetere
la somma dal venditore, sia di quest’ultimo, il quale potrebbe trattenere la somma senza aver consegnato l’auto.
Alla luce di tale principio la Suprema Corte rigetta il ricorso principale proposto dalla società finanziaria.
La sentenza è pubblicata in Contr., 2011, p. 994, con nota di T. RUMI, Operazioni di
finanziamento e nullità della clausola di rinuncia all’eccezione di inadempimento del fornitore, nonché in Studium Iuris, 2011, p. 973, con nota di F. OLIVIERO, Mutuo di scopo ed
esclusione del collegamento negoziale.
In giurisprudenza non sono stati rinvenuti precedenti conformi. Difformi risultano
invece Cass., 24 maggio 2003, n. 8253; Trib. Firenze, 30 maggio 2007; Trib. Milano,
24 ottobre 2008. La giurisprudenza ha provveduto ad individuare i caratteri differenziali del “mutuo di scopo” dal contratto di mutuo tout court, affermando che «il mutua-
Giurisprudenza
159
tario non si obbliga solo a restituire la somma mutuata e a corrispondere i relativi interessi, ma anche a realizzare lo scopo previsto compiendo gli atti o svolgendo l’attività
in concreto programmata; anche sotto il profilo causale vi sono differenze, giacché nel
sinallagma contrattuale quest’ultima prestazione, ancor più di quella degli interessi,
assume rilievo corrispettivo dell’attribuzione della somma». Cass., 10 giugno 1981, n.
3752, in Foro it., 1982, I, c. 1688, con nota di L. NIVARRA, Il contratto di finanziamento
tra codice e legislazione speciale. Per la qualificazione del mutuo di scopo come fattispecie negoziale consensuale, onerosa e atipica, con funzione essenzialmente creditizia,
cfr. Cass., 19 maggio 2003, n. 7773.
In dottrina, Sul fenomeno del credito al consumo la letteratura è amplissima. Tra i molteplici contributi sull’argomento si segnalano G. CARRIERO, Autonomia privata e disciplina del mercato. Il credito al consumo, in Tratt. Bessone, XXXI, Giappichelli, 2002, 56
ss.; F. PROSPERI, Il credito al consumo, in Il diritto dei consumi, II, a cura di P. Perlingieri
ed E. Caterini, Esi, 2005, 253 ss.; F. MACARIO, Il credito al consumo, in I contratti dei
consumatori, Tratt. Rescigno-Gabrielli, II, Utet, 2005, p. 543 ss.; ID., Le forme di tutela
del consumatore debitore, in AA.VV., Credito al consumo e sovraindebitamento del consumatore. Scenari economici e profili giuridici, a cura di M. Lobuono e M. Lorizio, Utet,
2007, 191 ss. Con riferimento al mutuo di scopo Cass., 8 luglio 2004, n. 12567, in
Giur. it., 2005, II, c. 1406 ss., con nota di C.A. NIGRO, Collegamento contrattuale legale e
volontario, con particolare riferimento alla (vecchia e nuova) disciplina del credito ai consumatori e ibidem, p. 556 ss., con nota di F.V. LONGO, Mutuo di scopo e credito al consumo. Sull’eccezione di inadempimento valga per tutti A.M. BENEDETTI, Le autodifese
contrattuali, Artt. 1460-1462, in Comm. Schlesinger, Giuffrè, 2011. A seguito dell’attuazione della direttiva 2008/48/CE (relativa ai contratti di credito ai consumatori e che
abroga la direttiva 87/102/CEE) secondo parte della dottrina (L. MODICA, Il contratto di credito ai consumatori nella nuova disciplina comunitaria, in Europa dir. priv., 2009,
p. 792), infatti, l’art. 10 della nuova direttiva sul credito ai consumatori, 2008/48/CE,
sarebbe proprio esplicito nel «porre le due figure in un rapporto di genus (il credito al
consumo) a species (il prestito di scopo)». Sulla distinzione tra mutuo di scopo e credito al consumo cfr., invece, F.V. LONGO, Mutuo di scopo e credito al consumo, in Giur. it.,
2011, p. 557, nota 3; F. RONCHESE, Credito al consumo e diritti del consumatore nel rapporto con il finanziatore, in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, p. 441; A. COLAVOLPE, Credito al consumo e inadempimento del venditore: il problema della opponibilità al finanziatore delle eccezioni relative al contratto di vendita, in Giur. merito, 2008, p. 2485; e, in
giurisprudenza, in particolare, Trib. Milano, 24 ottobre 2008, in Nuova giur. civ. comm.,
2009, I, p. 436 ss. Con riferimento al tema della causa concreta si segnalano V. ROPPO,
Il contratto, in Tratt. Iudica-Zatti, Giuffrè, 2011, p. 342 ss.; F. GALGANO, Il contratto,
Cedam, 2007, p. 143 ss; U. BRECCIA, Morte e resurrezione della causa: la tutela in Il contratto e le tutele, a cura di S. Mazzamuto, Giappichelli, 2002, p. 241 ss.; A. CATAUDELLA,
I contratti, parte generale, Utet, 2000, p. 187; G.B. FERRI, La causa nella teoria del contratto, in Studi sull’autonomia dei privati, a cura di C. Angelici e G.B. Ferri, Utet, 1997, p.
97 ss.; G. ALPA, L’uso giurisprudenziale della causa del contratto, in Nuova giur. civ. comm.,
1995, II, p. 1 ss.
II. CONTRATTI TIPICI E ATIPICI
VENDITA
Azione di riduzione del prezzo, prescrizione
TRIBUNALE DI MILANO, 8 gennaio 2011
Il caso giudicato dalla corte milanese ha ad oggetto la prescrizione del diritto sotteso all’esercizio dell’azione estimatoria ed in particolare se essa possa essere validamente interrotta mediante un atto stragiudiziale.
Trattandosi di controversia incentrata sulla prescrizione è bene evidenziare
quale sia lo sviluppo temporale della vicenda. La questione scaturisce dalla domanda proposta dal compratore con atto di citazione notificato il 30 aprile del
2008 avente ad oggetto la riduzione del prezzo di un immobile acquistato il 9
giugno del 2005, nonché il risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti in relazione alla diffusa presenza nell’appartamento di macchie
di umidità e muffe.
Parte convenuta si difende eccependo l’intervenuta prescrizione dell’azione
estimatoria e dell’azione risarcitoria per decorso del termine annuale stabilito
dall’art. 1495 c.c., riferendo di aver consegnato l’immobile il 3 febbraio 2005, di
aver ricevuto la notificazione del ricorso introduttivo del procedimento per accertamento tecnico preventivo dei vizi in questione, conclusosi con la relazione
depositata l’8 settembre 2006, e di avere in seguito ricevuto la notificazione dell’atto di citazione solo il 30 aprile 2008, preceduta da lettera inviata via fax dagli
attori il 18 giugno 2007.
La questione verte proprio su questo preciso elemento: è idoneo tale atto ad
interrompere la prescrizione dell’azione di garanzia avuto riguardo sia alla natura dell’azione intrapresa sia con riferimento all’assoluta genericità del contenuto della missiva?
Essendo del tutto pacifiche fra le parti le scansioni temporali della vicenda,
rilevanti ai fini della valutazione della fondatezza dell’eccezione di prescrizione,
la controversia si incentra unicamente sull’efficacia interruttiva della prescrizione, ai sensi dell’art. 2943, c. 4, c.c., della missiva degli attori alla società convenuta datata 18 giugno 2007.
La pronuncia in oggetto si sviluppa analizzando due questioni tra loro interdipendenti.
La prima. Con riguardo all’infondatezza della tesi sostenuta dalla società
convenuta in ordine all’impossibilità, in generale, di interrompere il termine di
prescrizione del diritto sotteso all’azione di riduzione del prezzo di vendita il Tribunale richiama l’opinione dottrinale che riconduce l’azione estimatoria nell’ambito della tutela risarcitoria speciale connessa all’inadempimento contrat-
Giurisprudenza
161
tuale trattandosi di un rimedio che, pur prescindendo dalla colpa del venditore,
tende a eliminare le conseguenze economiche della lesione.
La stessa giurisprudenza di legittimità, pur attribuendo all’azione estimatoria natura diversa dall’azione risarcitoria, la considera in ogni caso quale rimedio volto a riparare le conseguenze dell’inadempimento contrattuale annoverando significativamente l’obbligazione di pagamento della somma dovuta
all’acquirente a tale titolo fra le obbligazioni di valore sottratte al principio nominalistico.
Il Tribunale, su questo specifico punto, sostiene che trattandosi di azione
volta ad assicurare tutela ad un diritto essenzialmente risarcitorio e non di
azione diretta – come quella di risoluzione del contratto – a provocare la modificazione della situazione giuridica derivante dall’assunzione del vincolo negoziale in attuazione del relativo diritto potestativo, l’interruzione della prescrizione può essere determinata, ai sensi dell’art. 2943, c. 4, c.c., da un atto stragiudiziale che valga a costituire in mora il venditore in relazione al sotteso diritto risarcitorio.
Con riguardo al contenuto dell’atto idoneo all’interruzione della prescrizione ai sensi dell’art. 2943 ultimo comma c.c. – è questo il secondo elemento –, la
norma si limita a prevedere che debba trattarsi di un atto che «valga a costituire in mora il debitore» e la giurisprudenza di legittimità è costante nel ritenere
che l’atto di costituzione in mora di cui all’art. 1219 c.c., idoneo a determinare
l’interruzione della prescrizione ai sensi dell’art. 2943 ultimo comma c.c. è soggetto alla forma scritta, non richiede l’uso di formule solenni né l’osservanza di
particolari adempimenti ma «deve contenere, oltre alla chiara indicazione del
soggetto obbligato, l’esplicitazione di una pretesa e l’intimazione o la richiesta
scritta di adempimento, idonea a manifestare l’inequivocabile volontà del titolare del credito di far valere il proprio diritto, nei confronti del soggetto indicato, con l’effetto sostanziale di costituirlo in mora».
Interpretando, nell’ottica della tassatività delle cause di interruzione della
prescrizione, la norma in esame, dunque, unico ma necessario requisito formale prescritto per la idoneità dell’atto all’interruzione della prescrizione è la richiesta scritta di esecuzione della prestazione implicante il soddisfacimento del
diritto vantato che deve emergere dal testo dell’atto, ancorché implicitamente
celata dietro qualche espressione che logicamente e necessariamente la presupponga.
La formula utilizzata dal procuratore degli attori «la presente ai soli fini
dell’interruzione della prescrizione» è espressione assolutamente generica e
meramente tautologica che non implica necessariamente, sotto il profilo logico, quella richiesta immediata di adempimento che solo ha l’effetto di determinare, istantaneamente, ai sensi dell’art. 2943 ultimo comma c.c., l’interruzione
del decorso della prescrizione.
162
2011
Del resto, se fosse sufficiente l’utilizzazione della formula in questione per
interrompere il corso della prescrizione, il riferimento dell’art. 2943 ultimo
comma c.c., da interpretarsi si ribadisce nell’ottica della tassatività della cause
di interruzione della prescrizione, «ad ogni atto che valga a costituire in mora il
debitore» sarebbe svuotato completamente di contenuto, essendo ben difficile
sostenere l’idoneità di una simile espressione a costituire in mora il debitore.
In altri termini, l’atto stragiudiziale, a cui fa riferimento l’art. 2943 ultimo
comma c.c., deve essere formulato in modo tale da essere idoneo contestualmente a determinare il duplice effetto di costituire in mora il debitore e di interrompere la prescrizione non essendo nel nostro ordinamento previsto un
atto avente, come indicato nella formula utilizzata dal procuratore degli attori,
«i soli fini» di interrompere la prescrizione.
Il Tribunale, alla luce di queste considerazioni, rigetta le domande proposte
dagli attori.
Secondo la giurisprudenza, l’indicazione degli atti interruttivi della prescrizione che
l’art. 2943 c.c. offre è tassativa cfr.: Cass. 8 giugno 1955, n. 1767, in Foro it., 1956, I, c.
45; Cass., 17 giugno 1957, n. 2294, in Arch. civ, 1957, p. 1495, App. Roma, 23 luglio
1965, in Temi rom., 1965, p. 652; App. Roma, 11 febbraio 1967, n. 340, in Mass. giust.
civ., 1967, p. 2413; App. Roma, 19 maggio 1972, n. 1557, ivi, 1972, p. 850; Cass., 11
giugno 1983, n. 1546, in Giust. civ., 1963, p. 2413; Cass., 6 novembre 1986, n. 6517, in
Giur. it., 1987, I, 1, p. 1403.
In dottrina, sull’interruzione della prescrizione, si può muovere dallo studio di A. AURICCHIO, Appunti sulla prescrizione, Esi, 1971, seguito dalla ricostruzione di R. ORIANI,
Processo di cognizione e interruzione della prescrizione, Esi, 1977; successivamente, G.
PANZA, Contributo alla teoria della prescrizione, Esi, 1984, p. 62 ss.; più di recente, A.M.
GAMBINO-A. IANNACCONE-E. MINERVINI-F. ROSELLI-S. RUPERTO, La prescrizione, a
cura di P. Vitucci, Giuffrè, 1999. Per una ricostruzione del problema in sede giurisprudenziale, con particolare riferimento al profilo della costituzione in mora, si rinvia invece a C. RUPERTO, Prescrizione e decadenza, Utet, 1985, p. 146 ss. Con riferimento
alla particolare natura dell’azione redibitoria E. CAMILLERI, Garanzia per vizi ed impegno del venditore alla riparazione del bene: note critiche a margine di Cass. sez. un. n.
13294/2005, in Riv. dir. civ., 2006, p. 469 ss.; P. DELLACHÀ, Garanzie e responsabilità
nel contratto di vendita, in Danno resp., 2006, p. 836 ss.; C. COLOMBO, In tema di prescrizione dell’azione di garanzia per vizi redibitori nella vendita, in Corr. giur., 1995, p.
607 ss.; C.G. TERRANOVA, voce «Redibitoria (azione)», in Enc. giur. Treccani, XXX,
Istituto della Enciclopedia italiana, 1991, p. 16.
***
Giurisprudenza
163
VENDITA
Riconoscimento dei vizi e novazione oggettiva
CORTE DI CASSAZIONE, sez. III, 14 gennaio 2011, n. 747
Con la presente pronuncia la Suprema Corte torna a confrontarsi con l’annosa questione relativa all’impegno del venditore di eliminare i vizi del bene
compravenduto.
Questi i fatti. Numerosi condòmini citano in giudizio una società venditrice
di immobili deducendo il diritto alla garanzia per i molteplici e rilevanti difetti
riscontrati, tempestivamente denunciati e riconosciuti dalla stessa parte venditrice con l’impegno di porvi rimedio. La domanda di riparazione dei vizi, accolta dal Tribunale di Napoli, viene rigettata in appello, in quanto, all’epoca dell’instaurazione del giudizio, s’era già compiuto il termine annuale di prescrizione
(art. 1495 c.c.), che pure era stata interrotta dal riconoscimento dei vizi effettuato dal venditore.
La Suprema Corte ricostruisce, in prima battuta, la fisionomia delle azioni
edilizie, situandole nell’àmbito della tutela contrattuale e della responsabilità
per inadempimento interpretate in senso dinamico; la garanzia per i vizi, ad avviso della Corte, dà luogo ad un rapporto intersoggettivo, contraddistinto da
un momento genetico (conclusione del contratto di compravendita), da un
eventuale momento attuativo correttivo (offerta o richiesta di sostituzione o di
riparazione) e da un momento processuale attuativo-risarcitorio-caducatorio.
Seguendo questa ricostruzione, la tutela del compratore non sembra più essere affidata specificamente alla garanzia, quanto piuttosto ai principi della diligenza e buona fede nell’attuazione del rapporto obbligatorio.
In considerazione di tali premesse, la Corte enuncia il principio di diritto
secondo cui, in tema di compravendita, l’impegno del debitore di eliminare i vizi che rendano il bene inidoneo all’uso cui è destinato (ovvero che ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore economico) di per sé non dà vita ad una
nuova obbligazione estintiva-sostitutiva dell’originaria obbligazione di garanzia, ma consente al compratore di non soggiacere ai termini di decadenza ed
alle condizioni di cui all’art. 1495 c.c. Ne consegue che, ove il compratore, anziché chiedere la risoluzione del contratto o la riduzione del prezzo, agisca per
l’esatto adempimento dell’obbligo di riparazione o sostituzione della «res», assunto spontaneamente dal debitore sulla base del riconoscimento dell’esistenza dei vizi, ugualmente non si determina un effetto novativo dell’obbligazione
originaria e la prescrizione – venuta meno la regola «eccezionale» dell’art. 1495
c.c.– decorre secondo l’ordinario termine decennale di cui all’art. 2946 c.c.
Alla luce di queste considerazioni la Corte accoglie parzialmente il ricorso
dei condòmini osservando che l’impegno del venditore ad eliminare le difformità
164
2011
e le manchevolezze degli immobili, pur senza novare l’obbligazione del venditore, svincola il diritto del compratore dal termine annuale di prescrizione di
cui all’art. 1495 c.c.
La sentenza è annotata da A. CERULO, L’impegno del venditore di eliminare i vizi del bene compravenduto: vecchie e nuove incertezze in tema di prescrizione dell’azione del compratore, in Nuova giur. civ. comm., 2011, I, p. 805.
In giurisprudenza, sul tema della garanzia per i vizi, la sentenza mostra di prender le
mosse da Cass., sez. un., 21 giugno 2005, n. 13294 (in Corr. giur., 2005, p. 1688 ss.,
con nota di G. TRAVAGLINO, Compravendita, vizi della cosa, azioni edilizie e novazione
oggettiva; in Contr., 2006, p. 565 ss., con nota di G. CAPILLI, Sull’assunzione dell’impegno da parte del venditore di eliminare i vizi della cosa; in Dir. giust., 2005, XXXIIX, p. 17,
con nota di D. COLASANTI, L’impegno a eliminare i vizi della cosa venduta non è novazione), rimedita le enunciazioni di principio di tale pronuncia e si cimenta con i problemi che, dopo tale pronuncia, erano rimasti irrisolti. Se, sul fondamento della garanzia per i vizi, le sezioni unite hanno soltanto enumerato le diverse teorie, senza prendere espressamente partito per le opzioni dogmatiche via via elaborate, risoluta, al contrario, è la scelta di campo contrattuale della sentenza che si commenta. Con riferimento
alla garanzia per i vizi della cosa venduta e l’ammissibilità dell’azione di esatto adempimento cfr. Cass., 29 novembre 1994, n. 9991 nega l’esperibilità dell’azione d’esatto
adempimento con riferimento al contratto preliminare di compravendita, in quanto
l’obbligazione del venditore consiste in un dare e non in un facere; nel solco di tale indirizzo, Cass., 5 febbraio 2000, n. 1296 reputa l’eliminazione dei vizi rimedio nient’affatto congeniale alla natura e alla struttura sia della compravendita che del contratto preliminare. Per l’orientamento favorevole all’esperibilità, nell’àmbito del contratto
preliminare di compravendita con effetti anticipati, del rimedio dell’eliminazione dei
vizi a cura e a spese del promittente venditore, Cass., 3 gennaio 2002, n. 29, orientamento richiamato anche dalla sentenza in esame, per trarne conclusioni d’indole più
generale sul contratto di compravendita, e ribadito da Cass., 31 luglio 2006, n. 17304 e
da Cass., 15 febbraio 2007, n. 3383. Per l’orientamento della giurisprudenza, contrario
all’ammissibilità dell’azione d’esatto adempimento con riguardo al contratto di compravendita, v. Cass., 19 luglio 1983, n. 4980, in Foro it., 1984, I, c. 780, Cass., 4 marzo
1981, n. 1260, in Rep. Foro it., 1981, voce «Vendita», n. 43.
In dottrina, sulla garanzia per i vizi della cosa venduta e l’ammissibilità dell’azione di
esatto adempimento v. S. FERRERI, in A.M. MUSY-S. FERRERI, I singoli contratti, 1, La
vendita, in Tratt. Sacco, Utet, 2006, p. 208 ss. Fondamentale, sul tema della garanzia, L.
MENGONI, Profili di una revisione della teoria sulla garanzia per i vizi nella vendita, in
Riv. dir. comm., 1953, p. 3 ss., secondo cui la responsabilità è di matrice contrattuale ed
i vizi redibitori sono ricondotti al concetto d’inadempimento contrattuale, che si configura anche quando non vi sia la violazione d’una specifica obbligazione contrattuale.
Anche A. DI MAJO, L’esecuzione del contratto, Giuffrè, 1967, p. 300 ss., nega che la garanzia si possa intendere come obbligo in senso tecnico: la garanzia serve a ripristinare
l’equilibrio inter partes e non si colloca sul piano dell’esecuzione del contratto, attra-
Giurisprudenza
165
verso un surrogato d’adempimento, ma «sul piano delle reazioni, disposte dalla norma di legge, alla mancata (o difettosa) esecuzione come fatto definitivamente acquisito allo schema e pertanto scontato e accettato dalla norma di legge». A. LUMINOSO, I
contratti tipici e atipici, in Tratt. Iudica-Zatti, Giuffrè, 1995, p. 118 ss., inquadra la garanzia nell’àmbito della violazione della lex contractus, secondo un carattere di specialità rispetto alla disciplina generale dell’inadempimento. Per un’accurata rassegna delle
opinioni elaborate sul tema, v. C. TERRANOVA, La garanzia per i vizi della cosa venduta,
in Riv. trim. dir. proc. civ., 1989, p. 69 ss., che qualifica il vizio come violazione dell’impegno traslativo, suscettibile di determinare il sorgere d’una responsabilità contrattuale. D. RUBINO, La compravendita, in Tratt. Cicu-Messineo, XXIII, Giuffrè, 1971, p. 758 s.,
tratteggia la garanzia per vizi come sanzione per l’inesatto adempimento, disancorata
dal requisito della colpa e contrassegnata da una disciplina peculiare: ove il legislatore
nulla avesse disposto, le reazioni alla presenza di vizi della cosa avrebbero potuto dispiegarsi sul piano generale dell’inadempimento. Sulla natura squisitamente contrattuale della garanzia per i vizi della cosa venduta, v. C.M. BIANCA, La vendita e la permuta, in Tratt. Vassalli, VII, 2, Utet, 1993, p. 895 s., che ricorda come l’integrità e la bontà
della cosa attengano alla promessa, all’impegno dell’alienante e come l’ordinamento
francese e inglese riconducano la garanzia per i vizi alla tematica dell’inadempimento.
Con riferimento all’impegno assunto dal venditore di eliminare i vizi, l’efficacia novativa di tale impegno e l’incidenza sui termini di decadenza e di prescrizione, con specifico
riguardo all’azione di esatto adempimento. C.M. BIANCA, La vendita e la permuta, in
Tratt. Vassalli, VII, 2, Utet, 1993, 1039, A. LUMINOSO, I contratti tipici e atipici, in Tratt.
Iudica-Zatti, Giuffrè, 1995, 155 s., condividono l’orientamento della giurisprudenza sulla
novazione dell’originaria obbligazione di garanzia: l’assunzione dell’obbligo di riparazione e sostituzione fa sorgere un’obbligazione nuova e autonoma, soggetta a prescrizione
decennale.
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VENDITA
Vendita di autoveicolo, annullamento del contratto per errore, rilevanza dell’utilizzo del bene ai fini dell’essenzialità dell’errore
CORTE DI CASSAZIONE, sez. II, 25 luglio 2011, n. 16240
Con la sentenza in esame, la Corte di Cassazione dichiara che l’annullamento del contratto di compravendita per errore sull’oggetto non è ammissibile
quando l’acquirente, pur accortosi dopo la consegna della cosa della mancanza
di un elemento che riteneva essenziale, ha comunque utilizzato il bene per un
lungo periodo di tempo.
In particolare, nel caso specifico, il ricorrente aveva acquistato un’automobi-
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2011
le, credendo che fosse dotata del dispositivo di frenatura ABS, come risultava
dall’inserzione su un giornale periodico specializzato, ma si era avveduto che
l’optional era assente solo dopo la conclusione del contratto, e in particolare,
dopo aver iniziato ad usare l’auto. Il giudice di primo grado ha accolto la domanda, condannando il venditore alla restituzione del prezzo oltre interessi e
rivalutazione, mentre la Corte d’appello ha riformato la sentenza, ritenendo
che nella fattispecie difettasse sia il requisito dell’essenzialità dell’errore che quello della riconoscibilità da parte dell’altro contraente, in quanto il compratore,
avendo usato l’auto e percorso molti chilometri (nella specie: 92.000), anche
dopo la pubblicazione della sentenza di primo grado, aveva dimostrato di non
essere particolarmente interessato alla presenza del dispositivo ABS.
La sentenza di secondo grado è confermata in Cassazione.
La mancanza dei requisiti dell’essenzialità dell’errore del compratore e della
sua riconoscibilità da parte della ditta venditrice sono riaffermati anche in sede
di legittimità, laddove viene valorizzato un documento prodotto dal venditore,
denominato “scrittura privata di custodia” che comprova l’utilizzo dell’auto e la
percorrenza di molti chilometri tra la data dell’acquisto e quella riconsegna
(circa tre anni) da parte del compratore, anche successivamente alla sentenza
di primo grado.
Poiché, secondo l’orientamento maggioritario della giurisprudenza, compete al soggetto interessato dimostrare che non avrebbe concluso l’affare laddove
avesse ricevuto le informazioni dovute, la presenza del dispositivo ABS sul veicolo acquistato non è considerata così rilevante per la parte acquirente da permettere l’annullamento del contratto, giacché l’uso del bene dimostra che il requisito non era determinante per il contraente caduto in errore. Dal ragionamento della Cassazione si deduce che quando il bene viene effettivamente utilizzato per la sua funzione, anche in presenza di un errore dell’acquirente, non è
applicabile l’art. 1429 c.c. per difetto di essenzialità. In caso contrario, secondo
l’argomentazione dei giudici, il compratore si sarebbe dovuto attivare, subito
dopo la pubblicazione della sentenza di primo grado, per la riconsegna del veicolo o, comunque, in corso di causa, si sarebbe dovuto preoccupare di contenere al minimo le prestazioni chilometriche dell’auto. Nel pervenire a tale conclusione la Corte supera anche l’osservazione del ricorrente secondo cui la Corte
d’appello avrebbe valutato l’errore non al momento della conclusione del contratto, ma al momento successivo dell’uso dell’autoveicolo. La motivazione rivela un’interpretazione dell’art. 1429 c.c. favorevole non solo a un’indagine del
giudice sull’essenzialità dell’errore che incide sulla nascita della dichiarazione,
ma anche a un’estensione di tale indagine oltre la fase di formazione del contratto. La soluzione adottata nella sentenza, che è raggiunta, quindi, attraverso
una valutazione ex post del comportamento del contraente caduto in errore, attribuisce rilievo a un fattore, quello dell’utilizzo del bene, che viene ritenuto ido-
Giurisprudenza
167
neo ad escludere la ricorrenza del requisito dell’essenzialità, restringendo le ipotesi in cui l’errore, ai sensi dell’art. 1429 c.c., deve ritenersi tale ai fini dell’annullamento del contratto.
Per quanto concerne la riconoscibilità dell’errore da parte del venditore, la
Corte rileva che il concessionario non poteva avvedersi dell’errore commesso
dall’altro contraente, in quanto dalle testimonianze rese e dai documenti prodotti in causa non emerge, in sede di trattative e di stipula del contratto, traccia
di una discussione sul dispositivo ABS tra le parti, né risulta dal contratto che
esso fosse stato compreso tra gli accessori dell’auto; considerazione che è rafforzata, per parte venditrice, anche dal controllo effettuato dall’acquirente direttamente sul veicolo in officina. In quest’ottica, la Corte ritiene privo di valore, sotto il profilo della riconoscibilità ai sensi dell’art. 1431 c.c., l’unico elemento
da cui si poteva ricavare la presenza del dispositivo, vale a dire l’errata inserzione
pubblicitaria, riconducibile alle inesatte informazioni fornite dal produttore.
In giurisprudenza, non risultano precedenti dello stesso tenore. Sull’onere della parte
che chiede l’annullamento di provare, in caso di contestazione, i fatti dai quali risulta
l’essenzialità dell’errore e la sua riconoscibilità cfr. Trib. Roma, 17 dicembre 2010 e Cass.
13 marzo 2006, n. 5429. In tema di acquisto di titoli societari, è costante la tendenza
ad escludere che il valore economico delle azioni possa rientrare tra le qualità di cui
all’art. 1429, n. 2, c.c.: sul tema, tra le altre, Cass. 19 luglio 2007, n. 16031. Per quanto
riguarda l’essenzialità dell’errore sul suolo edificabile, v. Cass., 1° luglio 1997, n. 5900.
In dottrina, sull’essenzialità dell’errore, cfr. V. ROPPO, Il contratto, in Tratt. Iudica-Zatti,
Giuffrè, 2011, p 736; E. DEL PRATO, Le annullabilità, in Tratt. Roppo, Rimedi-1, a cura
di A. Gentili, Giuffrè, 2006, p. 231; R. SACCO, Il consenso, in Trattato Rescigno, X, Obbligazioni e contratti, 2, Utet, 2004, p. 203 ss.; C. ROSSELLO, L’errore nel contratto, in Comm.
Schlesinger, Giuffrè, 2004, p. 78: E. LECCESE, L’errore, in Dir. priv. giur. Cendon, I contratti in generale, XI, Utet, 2000, p. 55; P. BARCELLONA, Profili della teoria dell’errore nel
negozio giuridico, Giuffrè, 1962.
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LOCAZIONE
Onere del conduttore di verificare che il locale sia idoneo allo svolgimento della specifica attività che si accinge ad esercitare, assenza di responsabilità del locatore
CORTE DI CASSAZIONE, sez. III, 25 gennaio 2011, n. 1735
In materia di locazione di immobili ad uso non abitativo, la Cassazione torna a pronunciarsi su quale sia il soggetto gravato dell’onere di verificare che le
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caratteristiche dell’immobile locato siano adeguate a quanto tecnicamente necessario per lo svolgimento dell’attività che il conduttore si accinge ad esercitare, anche per quanto concerne il rilascio delle necessarie autorizzazioni amministrative.
Il caso di specie è piuttosto semplice. Le parti stipulano un contratto di locazione di immobile ad uso non abitativo. In esso si dà atto che il locale (un capannone) verrà utilizzato per scopi artigianali, senza precisare nel dettaglio che
tipo di attività vi verrà esercitata. Il proprietario garantisce la regolarità urbanistica ed edilizia dell’immobile.
Il conduttore avvia quindi le pratiche amministrative necessarie per l’ottenimento delle autorizzazioni per svolgervi l’attività di carrozziere, gommista, elettrauto e officina meccanica. Esse non vengono tuttavia rilasciate a ragione dell’inidoneità del locale all’esercizio dell’attività programmata e a causa delle limitazioni poste dal Piano Regolatore. Il conduttore omette quindi di corrispondere
i canoni di locazione al proprietario, che gli intima sfratto per morosità. Il primo
eccepisce l’inadempimento del locatore all’obbligo contrattuale di consegnare il
bene in condizioni di servire all’uso convenuto ex art. 1575 c.c. e chiede in via riconvenzionale la risoluzione del contratto per fatto e colpa del locatore.
Accogliendo la domanda del locatore, il tribunale pronuncia la risoluzione
del contratto per inadempimento del conduttore e lo condanna al pagamento
dei canoni non versati. La Corte di Appello ribalta la decisione di primo grado:
risoluzione del contratto per fatto imputabile al locatore e condanna al risarcimento dei danni subiti dal conduttore.
La Suprema Corte cassa la sentenza di secondo grado e – rinviando la causa
ad altro giudice per la decisione – formula un principio di diritto favorevole al
locatore. Confermando un orientamento piuttosto consolidato, i giudici di Piazza Cavour affermano che, in linea di principio, non è onere del locatore conseguire le autorizzazioni amministrative necessarie per la legittima utilizzazione
del bene locato da parte del conduttore. Ove quest’ultimo non riesca ad ottenerle, non è configurabile alcuna responsabilità per inadempimento del proprietario, e ciò anche qualora il diniego di autorizzazioni sia dipeso da caratteristiche proprie dell’immobile.
La destinazione particolare del bene nonché il rilascio di specifiche licenze
amministrative diventano rilevanti quale contenuto dell’obbligo assunto dal locatore solo se abbiano formato oggetto di specifica pattuizione e a tale riguardo
non è sufficiente la mera enunciazione, nel contratto, che la locazione sia stipulata per un certo uso. Salvo specifiche previsioni contrattuali, grava sul conduttore l’onere di verificare che le caratteristiche del bene siano adeguate a quanto
tecnicamente necessario per lo svolgimento dell’attività che egli intende esercitarvi, anche sotto il profilo del rilascio delle autorizzazioni amministrative indispensabili per la legittima utilizzazione del bene locato.
Giurisprudenza
169
In giurisprudenza, in senso conforme alla decisione, v. Cass., 1° dicembre 2009, n.
25278, in Contr., 2010, p. 546, con nota di F. SANGERMANO, Garanzia per vizi e aliud
pro alio nel contratto di locazione per mancanza del certificato di agibilità; Cass., 31 marzo 2008, n. 8303; Cass., 8 giugno 2007, n. 13395; Cass., 13 marzo 2007, n. 5836; Cass.,
26 settembre 2006, n. 20831; Cass., 30 aprile 2005, n. 9019. In senso difforme, v. Cass.,
19 luglio 2008, n. 20067.
In dottrina, cfr., R. CALVO, Le prestazioni del locatore, in La locazione. Disciplina sostanziale e processuale, diretto da V. Cuffaro, Zanichelli, 2009, p. 48; M. DE TILLA-S. GIOVE, Le locazioni abitative e non abitative, in Tratt. teorico pratico di diritto privato, diretto
da G. Alpa e S. Patti, Cedam, 2009, p. 299; F. LAZZARO-M. DI MARZIO, Le locazioni per
uso abitativo, Giuffrè, 2007, p. 745; G. GABRIELLI-F. PADOVINI, La locazione di immobili urbani, Cedam, 2005, p. 234 ss.
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APPALTO PRIVATO
Ammissibilità della revisione del corrispettivo nel caso di prezzo a corpo o a
forfait
CORTE DI CASSAZIONE, sez. II, 21 gennaio 2011, n. 1494
Nella sentenza qui segnalata la Cassazione affronta la questione della variabilità del corrispettivo prevista dall’art. 1664, c. 1, c.c., nell’appalto c.d. “a corpo” o a “forfait”.
Il caso riguarda un appalto di opere edili, consistenti nella realizzazione di
un complesso immobiliare comprensivo di opere di urbanizzazione primarie e
secondarie. L’appaltatore chiama in causa il committente per ottenere il pagamento del saldo del corrispettivo e di un importo che ritiene dovuto a titolo di
revisione dei prezzi pattuiti, da determinarsi in corso di causa dal consulente
tecnico. Il committente eccepisce la mancata consegna di alcune opere, la difformità di altre dal progetto e contesta il diritto alla revisione del corrispettivo;
il giudice di primo grado accoglie la domanda dell’appaltatore – nel frattempo
fallito – condannando il committente al pagamento di una somma pressoché
coincidente con quanto stabilito in contratto, non comprensiva, tuttavia, dell’importo di revisione del prezzo. In sede di appello, si ritiene che, essendo stato determinato forfetariamente il prezzo delle opere e che parte delle opere, per
espressa disposizione contrattuale, è stata ceduta all’impresa appaltatrice a titolo di pagamento del corrispettivo, non sia dovuta alcuna revisione del prezzo,
considerato che il rischio di realizzare i lavori in perdita resta a carico dell’appaltatore sia quando il prezzo venga concordato come invariabile, sia quando i
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2011
meccanismi previsti dalla legge o dal contratto per la revisione risultino insufficienti ad adeguarlo ai costi.
Il giudice di legittimità rigetta il ricorso con cui l’impresa appaltatrice fallita
chiede il pagamento della somma dovuta a titolo di revisione del corrispettivo.
La Corte disattende innanzitutto il motivo fondato sull’erronea valutazione
del corrispettivo relativo alle opere esterne agli immobili che sarebbe stato saldato, secondo il committente, attraverso la cessione di alcuni immobili all’appaltatore, quale datio in solutum, chiarendo che si tratta dell’interpretazione del
contratto d’appalto, riservata all’indagine di fatto del giudice di merito. Si sofferma, invece, con particolare attenzione, sulla questione dell’applicabilità, nell’appalto a corpo, dell’articolo 1664 c.c., sulla variabilità del prezzo e sull’imprevedibilità degli eventi che possono determinare aumenti del costo dei materiali
o della mano d’opera.
La questione riguarda l’interpretazione dell’art. 1664 c.c. che, nel primo comma, accorda all’appaltatore il diritto alla revisione del corrispettivo per aumento del costo di materiali o di mano d’opera tali da comportare un aumento (o
una diminuzione, in tal caso a favore del committente) superiore al decimo del
prezzo complessivo a causa di circostanze imprevedibili. Quando il prezzo dell’appalto è determinato non a misura, ma a corpo, cioè globalmente, per tutta
l’opera compiuta, la predeterminazione del relativo ammontare è considerata invariabile. Secondo la Corte, nello specifico caso dell’appalto a corpo, l’invariabilità del corrispettivo dovuto all’appaltatore comporta che questi non abbia diritto a pretendere la maggiorazione del prezzo per effetto dell’aumento del costo dei materiali o della mano d’opera, dovendo sopportare, quale aspetto del
rischio d’impresa, le conseguenze negative insite nella natura di contratto ad
esecuzione differita.
L’orientamento dominante in giurisprudenza ritiene che la deroga alla disciplina dell’art. 1664 c.c. sia insita nel contratto di appalto con prezzo determinato a forfait.
I giudici di legittimità, prendendo le distanze dalle precedenti pronunce, mitigano la rigidità della regola indicata, confortati dall’opinione della dottrina e ricordando che anche nell’appalto a corpo (e non solo in quello a misura) l’invariabilità non è assoluta, ma relativa. Essi affermano infatti che, se le suddette variazioni di prezzo sono dovute a eventi imprevedibili o indipendenti dalla volontà delle parti che non potevano essere conosciuti nemmeno in base alla diligenza
professionale, l’art. 1664, c. 1, c.c. trova applicazione. L’interpretazione contenuta nella sentenza della Corte d’appello sarebbe quindi erronea nella parte in cui
esclude l’applicazione della norma in esame all’appalto a corpo, ritenendo esistente una deroga (a suo parere, intrinseca) alla regola da essa delineata; al contrario, la variabilità del prezzo attraverso la revisione ex art. 1664 c.c. opera anche
nel caso di appalto a corpo, salva la facoltà delle parti di rinunciarvi.
Giurisprudenza
171
Per escludere la variabilità del compenso occorre, quindi, un’espressa manifestazione di volontà, che nella fattispecie non è ravvisabile in alcuno dei comportamenti tenuti dalle parti.
Va peraltro osservato che la questione della derogabilità dell’art. 1664, c. 1,
c.c. è nota e vede esprimersi favorevolmente dottrina e giurisprudenza. Nella
specie, tuttavia, non è in discussione la deroga a tale norma da parte dei contraenti, occorrendo a tal fine un’espressa volontà pattizia: indicare nel contratto
un prezzo a corpo o a “forfait” non significa, infatti, rinunciare alla variabilità
prevista dalla disposizione in esame.
D’altronde, sembra importante ricordare anche che militano a favore della
conclusione enunciata l’art. 1659, ultimo comma, c.c. che esclude il compenso
per le variazioni autorizzate, ma fa salva diversa pattuizione tra le parti, l’art.
1660, c. 1, c.c. che consente al giudice di determinare variazioni di prezzo per le
variazioni concordate del progetto ed anche l’art. 1661, c. 1, c.c. che attribuisce
all’appaltatore un compenso per i maggiori lavori eseguiti, anche se il prezzo
dell’opera era stato determinato globalmente.
La conclusione cui perviene la Cassazione, nonostante tali affermazioni, tuttavia, non è favorevole all’appaltatore, giacché il ricorso viene respinto non sulla base di una motivazione legata alla variabilità o invariabilità del corrispettivo,
ma sulla scorta dell’assenza dei presupposti indicati nella norma dell’art. 1664
c.c. che giustificano tale variazione. Il giudice di legittimità non riscontra, infatti, nella specie, quelle circostanze imprevedibili che consentono la variazione: il
ritardo dell’Amministrazione nel rilasciare i permessi edilizi e le autorizzazioni
necessarie per l’inizio dell’esecuzione delle opere non è un fattore imprevedibile e nessun ulteriore corrispettivo è riconosciuto all’appaltatore.
In giurisprudenza, non risultano precedenti esattamente nei termini. Può essere ricordata, sotto questo profilo, una risalente sentenza in cui la Cassazione (Cass., 27 aprile
1968, n. 1331), ha stabilito che ai fini del corrispettivo dovuto all’appaltatore, occorre
distinguere tra le variazioni dell’opera autorizzate (concordate) dal committente ex
art. 1659 c.c. e ordinate, ex art. 1661 c.c., essendo alle prime riconosciuto un compenso all’appaltatore, quando si tratti di appalti a misura, ed escluso per gli appalti a corpo.
Per le altre variazioni, secondo la citata pronuncia, l’appaltatore ha diritto ad un compenso supplementare, purché esse abbiano comportato un maggiore costo rispetto alle
opere inizialmente commesse, anche se il prezzo dell’opera era stato determinato globalmente (a corpo), non a misura. Riguardo alla derogabilità dell’art. 1664, c. 1, c.c., la
Cassazione (Cass., 15 luglio 1996, n. 6393), nell’appalto a forfait, ha precisato che tale
deroga non comporta alcuna alterazione della struttura o della funzione dell’appalto,
nel senso di renderlo un contratto aleatorio, ma solo un ulteriore allargamento del rischio, senza che questo, pur così ulteriormente allargato, esorbiti dall’alea normale di
questo tipo contrattuale con la conseguenza che il mancato adeguamento del prezzo
convenuto per l’appalto al maggior costo non integra arricchimento senza causa a fa-
172
2011
vore del committente, non concretandosi l’arricchimento in un accadimento estraneo
alla volontà contrattuale ed al consenso prestato dalla parte impoverita. Così, recentemente, anche App. Roma, 17 settembre 2007. In precedenza: Cass., 23 agosto 1993,
n. 8903; Cass., 12 marzo 1992, n. 3013.
In dottrina, la soluzione adottata dalla Cassazione che ammette la revisione del corrispettivo anche nell’appalto a corpo trova chiaro riscontro in D. RUBINO-G. IUDICA,
Dell’appalto, Art. 1655-1677, in Comm. Scialoja-Branca, Zanichelli, 2007, p. 232. A favore della natura dispositiva e della derogabilità dell’art. 1664, tra gli altri autori: D.
RUBINO-G. IUDICA, Dell’appalto, cit., p. 319 ss.; G. TERRANOVA, Appalto privato e rimedi dell’onerosità sopravvenuta, in L’appalto privato, a cura di M. Costanza, Utet,
2000, p. 283; F. MACARIO, La rinegoziazione delle condizioni dell’appalto, in Appalto
pubblico e privato. Problemi e giurisprudenza attuali, a cura di G. Iudica, Cedam, 1997,
175. Sulla riconduzione della norma alla fattispecie di cui all’art. 1467 c.c., v. D. RUBINO-G. IUDICA, Dell’appalto, cit., p. 320; C. GIANNATTASIO, L’appalto, in Tratt. CicuMessineo, XXIV, 2, Giuffrè, 1977, p. 115.
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APPALTO PRIVATO
Rovina e difetti di cose immobili, concorrenza tra azioni di garanzia e di responsabilità, inammissibilità dell’eccezione di inadempimento nel quadro dell’azione di responsabilità
CORTE DI CASSAZIONE, sez. II, 15 febbraio 2011, n. 3702
La sentenza rappresenta un’occasione per affermare la compatibilità della
garanzia per le difformità e i vizi dell’opera (artt. 1667-1668 c.c.) con l’azione
di responsabilità prevista per il caso di rovina totale o parziale di immobili destinati a lunga durata (art. 1669 c.c.). Il principio che afferma la concorrenza
delle azioni previste negli artt. 1667 e 1669 c.c. costituisce una novità nel panorama recente della giurisprudenza di legittimità: di qui, l’interesse della pronuncia.
Il caso trae origine da un contratto di appalto stipulato da una coppia di coniugi con un imprenditore edile, e avente per oggetto l’esecuzione di lavori di
completamento di una villa. Il Tribunale di Roma, adito dall’appaltatore al fine
di ottenere la condanna dei committenti al pagamento della somma ancora dovuta e da essi trattenuta a garanzia, accoglie parzialmente la domanda riconvenzionale dei committenti diretta all’eliminazione di gravi vizi agli impianti
idraulici e ai difetti dell’intonaco su travi e colonne del terrazzo, oltre al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 1667 c.c. e consente ai committenti di trattenere il decimo dell’importo a garanzia per un ulteriore periodo di tempo.
Giurisprudenza
173
La decisione è ribaltata in secondo grado, ove è accolta l’eccezione dei committenti di eliminazione dei vizi dell’intonaco e della stuccatura, mentre la domanda riconvenzionale relativa ai gravi vizi dell’impianto fognario è inquadrata
nell’art. 1669 c.c. I giudici, tuttavia, stabiliscono che l’azione sia prescritta, in
quanto proposta oltre il termine annuale dalla denuncia dei difetti dettato dal
secondo comma dell’art. 1669 c.c., mentre ritengono inammissibile la domanda relativa ai difetti consistenti in danni da infiltrazioni perché proposta tardivamente nel corso del giudizio e non nella comparsa di risposta. I committenti
sono conseguentemente condannati a pagare il decimo del corrispettivo trattenuto e il rigetto della loro domanda è fondato sulla tardività della stessa, in
quanto l’inquadramento della fattispecie all’interno dell’art. 1669 c.c. determina l’applicabilità del termine di prescrizione di un anno (dalla denuncia) e non
di due anni (dalla consegna dell’opera), come previsto invece nell’art. 1667 c.c.
Nel caso di specie, data la particolare conformazione dei fatti di causa, l’azione era stata fondata da parte dei committenti sull’art. 1667 c.c. per usufruire
del termine più ampio di prescrizione, decorrente, beninteso, dalla consegna
dell’opera; la decisione della Corte d’appello, che ha ricompreso la fattispecie
all’interno dell’art. 1669 c.c., ha invece favorito l’appaltatore.
Quindi, uno dei motivi di ricorso dei committenti consiste nell’invocare
un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 1669 c.c. e, in subordine, nel sollevare questione di legittimità costituzionale della disposizione per
contrasto con gli artt. 3, 24 e 97 Cost. Il tertium comparationis dedotto a fondamento della questione è rappresentato dall’art. 1667 c.c. che prevede un termine
di prescrizione più lungo, sia pure decorrente dalla consegna dell’opera.
Sia l’interpretazione fondata sui valori costituzionali, sia l’eccezione di illegittimità vengono disattese, in quanto la Cassazione, nel rigettare il ricorso di
parte committente, prospetta un diverso inquadramento della questione, rilevando come nella specie non si debba trattare tanto di stabilire se sia decorso il
termine di prescrizione per l’azione (o per l’eccezione) e se i vizi lamentati possano essere quindi inquadrati nella previsione normativa che estende a due anni il termine, quanto di rilevare la concorrenza – e non l’alternatività – delle
azioni di garanzia previste dal codice; questione che, tuttavia, non può essere
rilevata d’ufficio in sede di legittimità, per rispetto del principio dispositivo,
non avendo costituito motivo di ricorso.
Precisa, infatti, la Cassazione che tra i fenomeni di “rovina” o “pericolo di
rovina” e di “gravi difetti” di cui all’art. 1669 c.c., devono essere ricompresi non
solo quelli che influiscono sulla staticità e conservazione dell’edificio, ma anche
«qualsiasi alterazione che, pur riguardando direttamente una parte dell’opera,
possa incidere sulla struttura e funzionalità globale, menomando l’apprezzabile
godimento dell’opera medesima».
Il punto focale è la non alternatività tra responsabilità per gravi difetti di cui
174
2011
all’art. 1669 c.c. e responsabilità per i vizi di cui all’art. 1667 c.c. A fronte di un
vizio di costruzione relativo a un immobile di lunga durata, infatti, il committente può ricorrere non solo allo strumento del risarcimento del danno ex art.
1669, c. 1, c.c. (implicitamente contemplato dalla norma), ma anche agli altri
rimedi della eliminazione dei vizi, della riduzione del prezzo e della risoluzione
del contratto previsti nell’art. 1668 c.c. nel caso di vizi di cui all’art. 1667 c.c.,
purché sia rispettato il termine di decadenza dei sessanta giorni indicato nel secondo comma.
In motivazione, nel confermare la diversa natura della due responsabilità,
aquiliana quella dell’art. 1669 c.c. e contrattuale quella dell’art. 1667 c.c., si sottolinea come la fattispecie dei gravi difetti possa integrare quella dei vizi, sicché
i presupposti della norma speciale (art. 1669 c.c.) non escludono l’applicabilità
di quella generale (art. 1667 c.c.) con conseguente rispetto delle norme costituzionali.
In definitiva, quindi, i gravi difetti sono sempre da considerarsi vizi e le garanzie possono operare in modo concorrente. Se il committente verifica la presenza di gravi difetti nell’opera appaltata, può invocare l’art. 1667 c.c., chiedendo l’eliminazione dei vizi (o la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto), oltre al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 1669 c.c.
I giudici stabiliscono, invece, che non può invocarsi l’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. (non soggetta a limiti di tempo), proposta dai committenti. Sotto questo profilo, nella sentenza si chiarisce, in ossequio ad un
orientamento che non pare essere stato contraddetto, che tale eccezione può
ammettersi quando sia espressamente prevista in deroga all’art. 2934 c.c. (che
prevede la prescrizione di azione ed eccezione), mentre l’eccezione è stata posta, nel caso esaminato, nel quadro della garanzia dell’art. 1669 c.c., cui non si
può estendere analogicamente la previsione eccezionale dell’art. 1667, c. 2, c.c.,
per cui la denuncia non è necessaria se l’appaltatore ha riconosciuto le difformità o i vizi o se li ha occultati.
In giurisprudenza ricomprendono tra i gravi difetti di cui all’art. 1669 c.c. anche le
alterazioni che, pur riguardando una parte dell’opera, incidono sulla struttura limitandone il godimento complessivo, le sentenze di Cass., 15 settembre 2009, n. 19868 e
Cass., 4 aprile 2005, n. 21351. Sono stati ricondotti alla previsione della norma anche i
vizi che hanno determinato un’apprezzabile menomazione del normale godimento
dell’opera o l’inidoneità dell’opera a fornire l’utilità per cui è stata costruita da Cass., 8
maggio 2007, n. 10533; Cass., 4 novembre 2005, n. 21351. Ritiene che possa dirsi criterio distintivo per l’applicazione dell’art. 1667 c.c. anziché dell’art. 1669 c.c., la non
corrispondenza alle caratteristiche del progetto o del contratto e l’inosservanza delle
regole della tecnica Cass., 1° marzo 2001, n. 3002. Sulla natura della responsabilità di
cui all’art. 1669 c.c., nonostante l’opinione contraria della dottrina prevalente, è maggioritario l’orientamento a favore del carattere extracontrattuale: Cass., 12 aprile 2006,
Giurisprudenza
175
n. 8520; Cass., 28 gennaio 2005, n. 1748; Cass., 1° agosto 2003, n. 1740. Costituisce
un precedente riguardo all’inapplicabilità dell’art. 1667, c. 2, in via analogica alla fattispecie di cui all’art. 1669, con operatività invece, per quest’ultima, della regola generale dell’art. 2934 c.c. secondo cui la prescrizione estingue il diritto ed il diritto prescritto
è paralizzato dalla semplice eccezione di prescrizione sollevata dal debitore Cass., 15
luglio 1996, n. 6393.
In dottrina ritengono che la norma dell’art. 1669 c.c. rappresenti un’ipotesi speciale
rispetto all’ordinaria responsabilità per i vizi: D. RUBINO-G. IUDICA, Dell’appalto, Art.
1655-1677, in Comm. Scialoja-Branca, Zanichelli, 2007, p. 450; G. MUSOLINO, La responsabilità civile nell’appalto. Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, concorso
di colpa, garanzie, Cedam, 2006, p. 187; L. DE RENZIS, Rovina – perimento dell’opera.
Garanzia per opere di lunga durata, in L’appalto privato, diretto da M. Costanza, Utet,
2000, p. 139. La tesi della natura contrattuale della responsabilità ex art. 1669 c.c. è sostenuta da D. RUBINO-G. IUDICA, Dell’appalto, cit., p. 453; G. ALPA, Responsabilità decennale del costruttore e garanzia assicurativa, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1980, p. 413.
***
APPALTO PRIVATO
Varianti al progetto di appalto di opere e corrispettivo spettante all’appaltatore
CORTE DI CASSAZIONE, sez. II, 4 maggio 2011, n. 9796
La sentenza riguarda un caso in cui un committente incarica un appaltatore
di eseguire opere edilizie ulteriori rispetto a quelle previste nel contratto di appalto, per le quali l’appaltatore richiede il pagamento di un corrispettivo più
elevato di quello dedotto in contratto.
Nel caso di specie, essendo stati eseguiti lavori ulteriori rispetto a quelli previsti nel contratto di appalto e non essendo stato raggiunto un accordo tra le
parti, il giudice di secondo grado aveva provveduto ad individuare il corrispettivo ai sensi dell’art. 1660, c. 1, c.c., considerando i lavori come varianti e facendo riferimento ai listini della locale Camera di Commercio; aveva poi disposto
che tale somma venisse progressivamente rivalutata di anno in anno secondo
l’indice Istat costo della vita e su di essa venissero calcolati gli interessi legali.
Nel giudizio di legittimità, il profilo relativo alla determinazione del corrispettivo dei lavori eseguiti in aggiunta a quelli originariamente pattuiti su incarico del committente, viene affrontato con riferimento agli artt. 1660 e 1661
c.c., sulla base dei motivi contenuti sia nel ricorso principale del committente
che in quello incidentale dell’appaltatore. Quest’ultimo sostiene che il contratto stipulato con il committente sarebbe affetto da nullità per indeterminatezza
dell’oggetto, in quanto si tratterebbe di varianti che, pur rientrando nel sesto
176
2011
del prezzo complessivo, determinano modificazioni della natura dell’opera o
dei quantitativi dei lavori rispetto a quelli concordati e renderebbero l’oggetto
“indeterminato” (e indeterminabile). Di conseguenza, si dovrebbe provvedere
alla “disapplicazione” del contratto d’appalto nella sua totalità, trattandosi di
un nuovo regolamento contrattuale (che, riguardo al corrispettivo, dovrebbe
eventualmente essere integrato con gli usi tabellari della Camera di Commercio). In sostanza, l’appaltatore inquadra le opere compiute all’interno dell’art.
1661, c. 2, c.c. che gli consente di rifiutare il lavoro. Il committente contesta invece il parametro di riferimento usato dal giudice di merito per quantificare il
corrispettivo (i listini della Camera di Commercio), ritenendo opportuno riportarsi ai prezzi indicati nel contratto d’appalto.
La Corte specifica che le norme di cui agli artt. 1659, 1660, e 1661 c.c. non
prevedono effetti sulla validità ed efficacia del contratto d’appalto stipulato tra
le parti, disciplinando invece le ipotesi in cui, nel corso dell’esecuzione del contratto, vengano introdotte “varianti” che comportano effettivamente una modifica dell’oggetto del contratto, ma improduttive della più grave conseguenza
della nullità del contratto per indeterminatezza dell’oggetto.
Nella motivazione si legge anche che l’art. 1661 c.c. deve essere interpretato
nel senso per cui l’appaltatore può sempre rifiutarsi di eseguire i lavori quando
le varianti – anche nei limiti del sesto del prezzo complessivo – comportino modifiche della natura dell’opera o dei quantitativi nelle singole categorie di lavori.
L’appaltatore – che ben avrebbe potuto rifiutarsi di compiere le opere, trattandosi di notevoli modifiche – avendo eseguito i lavori richiesti dal committente, mantiene il diritto al compenso per i maggiori lavori eseguiti ex art. 1661,
c. 1, c.c., ma gli è preclusa la possibilità di compiere contestazioni sulla validità
del contratto, fondate su una norma, l’art. 1661 c.c., che non contempla quell’effetto. La nullità per indeterminatezza attiene a situazioni diverse, in cui il
committente si riserva, ad esempio, la facoltà di ordinare radicali modifiche
della natura dell’opera o lavori obiettivamente autonomi, sicché la consistenza
stessa dell’opera sarebbe affidata all’arbitrio del committente e le opere sarebbero effettivamente indeterminate o indeterminabili.
Nel caso in esame i giudici di merito avevano escluso trattarsi di questo tipo
di variazioni e aggiunte, individuando invece modifiche tali da determinare,
piuttosto, nell’esercizio del ius variandi riconosciuto alle parti, una modifica del
contratto, un ampliamento dell’opera prevista in origine.
Nonostante si possa scorgere qualche sovrapposizione concettuale nella decisione, non si tratta quindi di lavori extracontrattuali, poiché in quest’ultimo
caso, l’esecuzione dei lavori al di fuori degli accordi contrattuali importa la conclusione di un nuovo contratto di appalto, connesso con il primo.
Anche la decisione del giudice di merito che ha adeguato il prezzo ai listini
della Camera di Commercio è confermata in Cassazione: ai sensi dell’art. 1661
Giurisprudenza
177
c.c., e argomentando anche ex art. 1657 c.c., spetta all’appaltatore il compenso
per i maggiori lavori eseguiti, congruamente individuato sulla base di tariffe o
usi (o in assenza, determinata dal giudice). Sulla somma stabilita a titolo di
prezzo dell’appalto, quale debito di valuta, devono essere calcolati gli interessi
ex art. 1224, c. 1, c.c., dal giorno della pubblicazione della sentenza.
La sentenza merita di essere segnalata in considerazione dell’esiguità di
pronunce rese sul tema del corrispettivo spettante per le varianti di notevole difficoltà e per i lavori extracontrattuali. È chiaramente affermato infatti che l’esecuzione di lavori consistenti in notevoli varianti dell’opera ai sensi dell’art.
1661, c. 2, c.c., può essere rifiutata dall’appaltatore, ma nel caso in cui l’appaltatore esegua le opere che modifichino anche parzialmente l’oggetto del contratto originario, ha diritto al compenso ulteriore rispetto al prezzo originariamente pattuito, restando valido il contratto originario.
In giurisprudenza, è esiguo il numero di decisioni che si esprimono sul tema. In particolare, sul mantenimento in vita del contratto originario, in presenza di notevoli variazioni, v. Trib. Milano, 29 gennaio 2001, in Foro pad., 2001, c. 436; Cass., 27 febbraio1995, n. 2290, secondo cui le notevoli variazioni producono una modificazione
dell’oggetto della prestazione e non una sostituzione contrattuale. Sul mutamento degli
elementi essenziali: Cass., 19 maggio 1972, n. 1531. Sulla determinazione del prezzo
da parte del giudice: Cass., 22 marzo1993, n. 3353. Costituisce, invece, massima reiterata quella secondo cui l’art. 1661 c.c., nell’imporre un tetto quantitativo alle variazioni
in aumento disposte dall’appaltante, non intende specificamente preservare l’identità
della prestazione sinallagmatica, ma piuttosto si prefigge la scopo di tutelare l’appaltatore da un lievitazione dell’oggetto contrattuale, cui potrebbe non essere capace di far
fronte con i mezzi che ha prevedibilmente posto a disposizione, secondo l’ordinaria
diligenza, per realizzare l’opus (tra le altre, Cass., 19 settembre 2011, n. 19099; Cass.,
28 dicembre 2007, n. 27186). Sulla non cumulabilità di interessi e rivalutazione per i
crediti di valuta, recentemente: Cass., 3 giugno 2009, n. 12828; Cass., 10 novembre
2009, n. 23744 e Cass., sez. un., 16 luglio 2008, n. 19499; in precedenza, Cass., 8 aprile
1999, n. 3393. Sulla rilevabilità d’ufficio della nullità in qualunque stato e grado del
giudizio v. Cass., 23 agosto 2006, n. 18374; Cass., sez un., 4 novembre 2004, n. 21095.
In dottrina, sul diritto di rifiutare i lavori che comportano notevoli modifiche: D. RUBINO, L’appalto, in Tratt. Vassalli, VII, Utet, 1980, p. 446. Sulla distinzione, ai fini della
individuazione di un nuovo contratto di appalto, tra varianti di notevole difficoltà e
lavori extracontrattuali D. RUBINO-G. IUDICA, Dell’appalto, Art. 1655-1677, in Comm.
Scialoja-Branca, Zanichelli, 2007, pp. 296-297; A. CIANFLONE-G. GiOVANNINI,
L’appalto di opere pubbliche, Giuffrè, 1999, p. 797. Su interessi e rivalutazione, ex multis, D. SINESIO, Le specie delle obbligazioni, in Tratt. Lipari-Rescigno, Obbligazioni, I,
Rapporto obbligatorio, 3, Giuffrè, 2009, p. 439 ss.; B. INZITARI, Obbligazioni pecuniarie,
in Dig. disc. priv., sez. civ., XII, Utet, 1995, p. 469; E. QUADRI, Le obbligazioni pecuniarie, in Tratt. Rescigno, IX, 1, Utet, 1999, p. 521 ss.; ID., La rilevanza della svalutazione
178
2011
monetaria nei debiti di valuta e nei debiti di valore, in Dir. giur., 1993, p. 406. V. anche F.
MACARIO, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Jovene, 1996;
recentemente, in relazione ad altra tematica, S. PAGLIANTINI, La nuova disciplina del
cd. ius variandi nei contratti bancari: prime note critiche, in Contr., 2011, p. 191.
***
TRASPORTO AEREO
Compensazione pecuniaria ai passeggeri, cancellazione, risarcimento supplementare
CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, 13 ottobre 2011, (causa C-83/10) –
Aurora Sousa Rodríguez c. Air France SA
Dopo la sentenza Sturgeon (in AdC 2009, p. 230), la CGUE torna ad occuparsi della corretta interpretazione del regolamento 261/2004 con riferimento
ad un caso in cui un volo aereo, regolarmente decollato all’ora prevista, era poi
stato costretto a rientrare all’aeroporto di partenza a causa di un guasto tecnico.
La particolare dinamica dei fatti induceva il giudice del rinvio a sollevare
domanda pregiudiziale al fine di verificare (i) se potesse ritenersi cancellato il
volo in questione, e se (ii) al di là della compensazione pecuniaria prevista
dall’art. 7, fosse possibile per il giudice nazionale ordinare un risarcimento supplementare eventualmente comprensivo di un danno morale.
Quanto alla prima questione, la CGUE ha osservato che il termine «cancellazione» va interpretato in modo estensivo, e dunque comprendente anche il
caso in cui l’aereo, pur partito, sia costretto a rientrare all’aeroporto di partenza.
Quanto alla seconda questione, la CGUE ha sottolineato il «carattere minimo» dei diritti riconosciuti a vantaggio dei passeggeri e ha osservato che
l’art. 12, reg. 261/2004, lasciando impregiudicati i diritti del passeggero ad un
risarcimento supplementare, consente al giudice nazionale di condannare il
vettore aereo a risarcire il danno occasionato dall’inadempimento del contratto
di trasporto anche sulla base di un fondamento giuridico diverso dal regolamento stesso, vale a dire la convenzione di Montreal (cfr. artt. 19, 22 e 29) e il
diritto nazionale. Peraltro – continua la Corte – il danno suscettibile di risarcimento ai sensi dell’art. 12 può essere un danno di natura non solo materiale,
ma anche morale; tale risarcimento supplementare non può, però, essere utilizzato quale fondamento giuridico per condannare il vettore a rimborsare ai passeggeri le spese che gli stessi hanno dovuto sostenere a causa dell’inadempimento degli obblighi di sostegno e assistenza di cui agli artt. 8 e 9 del regolamento comunitario.
Giurisprudenza
179
Sul regolamento 261/2004 nella giurisprudenza comunitaria vedi CGUE, 12 maggio
2011, (causa C-294/10), Andrejs Eglītis, che ha affermato che il vettore aereo, essendo
tenuto a porre in essere tutte le misure del caso al fine di ovviare a circostanze eccezionali (nel caso di specie, un black out energetico aveva comportato il malfunzionamento dei radar e dei sistemi di navigazione aerea per circa due ore e con ciò occasionato la
cancellazione del volo), al momento della pianificazione del volo, deve ragionevolmente tener conto del rischio di ritardo connesso all’eventuale verificarsi di siffatte circostanze. Il vettore, di conseguenza, deve prevedere un determinato margine di tempo
che gli consenta, se possibile, di ripristinare il volo una volta che le circostanze eccezionali siano venute meno; CGCE, 19 novembre 2009, (causa C-402/07 e C-432/07),
Sturgeon, in AdC 2009, p. 230 che ha fatto il punto sulle nozioni di ritardo e cancellazione e sui conseguenti importi dovuti a titolo di compensazione pecuniaria; CGCE,
22 dicembre 2008, (causa C-549/07), Friederike Wallentin-Hermann, in Danno resp.,
2009, p. 827, con nota di C. DI PALMA, Responsabilità del vettore aereo nel caso di cancellazione del volo: i problemi tecnici non sempre escludono il diritto al risarcimento del
passeggero; CGCE, 10 luglio 2008, (causa C-173/07), Emirates Airlines; CGCE, 27
settembre 2007, (causa C-396/06), Eivind F. Kramme, in Dir. turismo, 2008, p. 371,
con nota di M. STUCCHI, Cancellazione del volo e diritti dei passeggeri; CGCE, 10 gennaio 2006, (causa C-344/04), International Air Transport Association, in Dir. turismo,
2006, p. 154, con nota di M. LOPEZ DE GONZALO, I giudici comunitari confermano il
nuovo “Regolamento overbooking”.
In dottrina vedi S. VERNIZZI, Brevi considerazioni in materia di ritardo nel trasporto aereo di persone, contenuto della prova liberatoria a carico del vettore e danno non patrimoniale, in Resp. civ. prev., 2009, p. 404 ss.; A. MASUTTI, Il ritardo nel trasporto aereo,
Giappichelli, 2008; F. ROSSI DAL POZZO, Servizi di trasporto aereo e diritti dei singoli
nella disciplina comunitaria, Giuffrè, 2008, p. 187.
***
MANDATO
Contratto con se stesso, necessità di autorizzazione specifica del mandante,
predeterminazione del contenuto del contratto
CORTE DI CASSAZIONE, sez. II, 21 marzo 2011, n. 6398
La sentenza offre un contributo al fine dell’individuazione dei criteri che governano l’annullabilità del contratto concluso dal rappresentante con se stesso.
Due fratelli incaricano un mandatario con rappresentanza di provvedere alla
vendita di alcuni immobili di loro proprietà. Egli acquista personalmente i beni
oggetto del contratto ad un prezzo non predeterminato in mandato, sicché i
rappresentati – che evidentemente considerano il prezzo troppo basso – agi-
180
2011
scono in giudizio sostenendo che il contratto di compravendita sia annullabile
ex art. 1395 c.c., in quanto concluso dal rappresentante con se stesso.
La controversia viene risolta diversamente nei primi due gradi di giudizio:
mentre il Tribunale rigetta la domanda di annullamento, la Corte d’Appello la
accoglie, ravvisando la fattispecie disciplinata dall’art. 1395 c.c.
Il mandatario ricorre in Cassazione lamentando la violazione degli artt.
1394 e 1395 c.c. e affermando che la sussistenza del conflitto di interessi deve
essere riscontrata in concreto, indipendentemente dalla mancanza di una precisa indicazione del prezzo.
La Corte di legittimità rigetta il ricorso, confermando che l’annullabilità del
contratto può essere esclusa solo in presenza di un’autorizzazione specifica e
della predeterminazione del contenuto del contratto da parte del rappresentato.
Dalla lettura della motivazione, tuttavia, non sembra che i giudici attribuiscano ai due presupposti una valenza alternativa, poiché sia per il requisito dell’autorizzazione che per quello della determinazione degli elementi contrattuali si fa
riferimento agli «elementi negoziali sufficienti ad assicurare la tutela del rappresentato» che quindi devono essere presenti in egual misura in entrambi i casi.
Secondo i giudici, un’autorizzazione generica, come quella data dai rappresentati nel caso di specie, non è idonea a escludere il conflitto, mentre sarebbe
stata necessaria una specifica autorizzazione del rappresentato a concludere il
contratto con se stesso, con contestuale indicazione degli elementi negoziali
sufficienti ad assicurare la sua tutela contro gli abusi del rappresentato. Probabilmente, sarebbe stato sufficiente indicare nell’autorizzazione il prezzo minimo di vendita dei beni immobili.
Nella sintetica motivazione, la Corte sembra sovrapporre i requisiti e ripetere, riguardo alla predeterminazione del contenuto del contratto, la necessaria
presenza delle stesse caratteristiche richieste per l’autorizzazione, laddove invece la precisazione degli elementi negoziali non dovrebbe ritenersi estesa a
tutto il contenuto contrattuale, bensì solo a quei requisiti – come il prezzo – che
consentono di evitare il conflitto.
L’orientamento della Corte di legittimità, che recentemente non sembra essere stato contrastato, esprime quindi un atteggiamento indifferenziato in ordine ai requisiti previsti dalla norma.
In giurisprudenza, sulla necessità, in via alternativa, dell’autorizzazione specifica o della
predeterminazione del contenuto del contratto per escludere il conflitto di interessi
Cass., 15 maggio 2009, n. 11321; Cass., 24 ottobre 2002, n. 14982; Cass., 24 marzo
2004, n. 5906. Sulla presunzione iuris tantum contenuta nell’art. 1395 c.c., v. Cass., 21
novembre 2008, n. 27783, secondo cui la norma dell’art. 1395 c.c. prevede una presunzione “iuris tantum” di conflitto di interessi, superabile esclusivamente mediante la
dimostrazione, in via alternativa, di una delle due condizioni tassativamente previste,
vale a dire: l’autorizzazione specifica da parte del rappresentato o la predeterminazio-
Giurisprudenza
181
ne degli elementi negoziali, mentre resta irrilevante il profilo della sussistenza di un
concreto rapporto di incompatibilità fra le esigenze del rappresentato e quelle del rappresentante. Nel caso di specie, si trattava di un contratto di fideiussione stipulato da
un medesimo soggetto, nella duplice veste di amministratore della società garante e
della società garantita; la Corte di cassazione ha accolto il ricorso avverso la sentenza
della corte di appello la quale, invece di verificare la sussistenza di una delle predette
condizioni, aveva escluso il conflitto sulla base della mancata prova di un rapporto di
incompatibilità concreta fra le esigenze del rappresentato e quelle del rappresentante.
In precedenza così, già Cass., 22 aprile 1997, n. 3471 che specifica come l’assenza di
conflitto è data anche dall’indifferenza, per il rappresentato, della persona contraente.
Segnatamente sull’autorizzazione: Cass., 7 maggio 1992, n. 5438.
In dottrina, sul contratto con se stesso, F. MESSINEO, Contratto con se stesso, in Enc.
dir., X, Giuffrè, 1961, p. 209 ss.; C. DONISI, Il contratto con se stesso, Esi, 1982, p. 132;
M. GRAZIADEI, Mandato, in Dig. disc. priv., sez. civ., XI, Utet, 1994, p. 154 ss.; G. STELLA, La rappresentanza, in Tratt. Roppo, I, Formazione, a cura di C. Granelli, Giuffrè,
2006, p. 721; A. LUMINOSO, Il mandato, in Tratt. Rescigno, IV, Obbligazioni e contratti,
12, Utet, 2007, p. 363 ss.; B. CARPINO, I contratti speciali. Il mandato, la commissione, la
spedizione, in Tratt. Bessone, Utet, 2007, p. 91.
***
COMODATO
Possibilità di desumere il termine finale dalla destinazione del bene; legittimazione del comodante ad esigere la restituzione del bene
CORTE DI CASSAZIONE, sez. un., 9 febbraio 2011, n. 3168
La Cassazione, pronunciandosi a sezioni unite in punto di giurisdizione,
aderisce ad un orientamento piuttosto consolidato in merito al termine di durata del rapporto di comodato. La sentenza, nondimeno, merita di essere segnalata per l’interesse della fattispecie.
Una società acquista un complesso immobiliare di cui fa parte un locale che
l’alienante aveva concesso in comodato all’ENEL al fine di installarvi una cabina di trasformazione per l’esercizio di alcune linee elettriche destinate a servire
un cinema e un’intera porzione del centro storico del Comune.
Dopo una prima vana richiesta di restituzione avanzata nell’immediatezza
dell’acquisto, il nuovo proprietario attende circa venticinque anni per domandare in giudizio la restituzione del locale, oltre al risarcimento del danno.
L’ENEL eccepisce che la destinazione d’uso a suo tempo pattuita con il precedente proprietario comporta il diritto di continuare a detenere il vano fino alla
cessazione dell’utilizzazione convenuta.
182
2011
Sia i giudici di merito che quelli di legittimità accolgono la domanda del
proprietario e condannano l’ENEL a restituire il bene, nonché a risarcire il danno per l’occupazione senza titolo dell’immobile.
La Suprema Corte afferma in particolare che il termine finale del comodato
può risultare anche per implicito dalla destinazione del bene, «purché essa abbia insita una scadenza predeterminata». Nella specie, difettando tale requisito, il comodato si qualifica a tempo indeterminato ed è dunque revocabile ad
nutum dal proprietario. In considerazione di ciò, il proprietario ha quindi diritto di riacquistare la disponibilità del bene.
La sentenza è pubblicata in Contr., 2011, p. 668, con nota di M. DELLA CHIESA, Estinzione del “comodato indeterminato”.
In giurisprudenza, in senso conforme, v. Cass., 16 gennaio 2006, n. 704; Cass., 16 aprile
2003, n. 6101; Cass., 8 ottobre 1997, n. 9775. In senso difforme, v. Trib. Trapani, 21
dicembre 2005, in Giur. mer., 2006, p. 1928; Cass., 18 gennaio 1985, n. 133.
In dottrina, v. P. ZANNINI, Comodato, precario, comodato-precario: maneggiare con cura, in Riv. dir. civ., 2006, II, p. 83 ss.; G.L. FUSCO, Restituzione del bene per necessità del
comodante e atipicità del contratto di comodato immobiliare, in Contr., 2009, p. 34 ss.; A.
LUMINOSO, Comodato, in Enc. giur. Treccani, VII, Istituto della Enciclopedia Italiana,
1988, ad vocem, p. 1 ss.; R. TETI, Comodato, in Dig. disc. priv., sez. civ., III, Utet, 1988, p.
47 ss.; A. CIATTI, Il comodato, in Tratt. Rescigno-Gabrielli, I contratti di utilizzazione dei
beni, a cura di V. Cuffaro, 2008, p. 257 ss.
***
COMODATO
Termine finale desumibile dalla destinazione del bene
CORTE DI CASSAZIONE, sez. VI, 11 marzo 2011, n. 5907
La Corte di Cassazione è chiamata a pronunciarsi in merito alla durata di un
contratto di comodato immobiliare stipulato senza un’esplicita previsione del
termine finale, Occorre quindi valutare, in assenza di un termine finale del rapporto, quali siano le condizioni affinché il termine si possa determinare in virtù
dell’uso a cui la cosa doveva essere determinata in conformità di quanto stabilito dall’art. 1810 c.c.
Nel caso di specie, le parti stipulano un contratto di comodato avente ad
oggetto un immobile destinato all’esercizio di attività commerciale da parte del
comodatario; nulla viene però stabilito con riguardo al termine di restituzione
del bene.
Giurisprudenza
183
Nel corso del rapporto, il comodante richiede la restituzione immediata dell’immobile ex art. 1810 c.c. sul presupposto che il contratto di comodato sia
stato stipulato senza prevedere un termine di durata.
Alla richiesta del comodante si oppone il comodatario, sostenendo, invece,
che il termine di durata del contratto sia da giudicarsi corrispondente alla durata dell’attività commerciale destinata a svolgersi all’interno dell’immobile concesso in comodato.
Il Tribunale adito, ritenendo legittima la domanda di restituzione del comodante, ordina l’immediata restituzione dell’immobile.
Propone quindi appello il comodatario. La Corte d’Appello, riformando la
sentenza pronunciata in primo grado, dichiarò illegittima la pretesa del comodante all’immediata restituzione dell’immobile, sostenendo che la durata del contratto di comodato doveva ritenersi pari alla durata dell’attività commerciale
svolta all’interno dell’immobile.
La Corte di Cassazione afferma che il termine finale del contratto di comodato può risultare dall’uso cui la cosa deve essere destinata solo quando tale
uso abbia in sé connaturata una durata predeterminata nel tempo, mentre in
mancanza di particolari prescrizioni di durata, l’uso corrispondente alla generica destinazione dell’immobile si configura come indeterminato, con la conseguenza che la concessione in comodato deve intendersi a titolo precario, onde
la legittimità del recesso ad nutum da parte del comodante ex art. 1810 c.c.
In giurisprudenza, in senso conforme alla sentenza in commento, si vedano Cass., 9
febbraio 2011, n. 3168; Cass., 8 ottobre 1997, n. 9775 e Cass., 23 maggio1992, n. 6213.
Invece, nel senso che nel contratto di comodato, caratterizzato dalla temporaneità
d’uso, la mancanza di un termine finale direttamente stabilito dalle parti non autorizzi
il comodante a richiedere ad nutum la restituzione della cosa, quando sia possibile ravvisare una indiretta determinazione di durata attraverso la delimitazione dell’uso consentito della cosa, desumibile dalla natura di essa, dalla professione del comodatario e
dall’esame degli interessi e delle utilità perseguite dai contraenti si vedano Cass., 16
aprile 2003, n. 6101; Cass., 17 ottobre 2001, n. 12655 e Cass., 8 marzo 1995, n. 2719,
in Giust. civ., 1996, I, p. 1773, con nota di M. DE TILLA, Sulla durata del comodato.
In dottrina, si occupa approfonditamente del problema in esame N. CIPRIANI, Il comodato, in Tratt. Notariato, IV, 18, Esi, 2005, p. 163 ss. Si veda altresì A. GALASSO, Il
comodato, in Tratt. Cicu-Messineo, Giuffrè, 2004, p. 183 ss. Più in generale, si veda altresì U. VINCENTI, Sul tempo della restituzione del comodato immobiliare senza determinazione di durata, in Giur. it., 1990, I, 1, p. 139.
***
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2011
MUTUO
Contratto consensuale di finanziamento, atipicità
TRIBUNALE DI ROMA, 23 maggio 2011, n. 10856
Nella sentenza in epigrafe, il giudice affronta sinteticamente la questione relativa al rapporto esistente tra il contratto di mutuo, così come definito dall’art.
1813 c.c., e il contratto atipico “di finanziamento”.
La controversia sorge intorno ad una scrittura privata in base alla quale una
parte si sarebbe obbligata ad erogare una somma di denaro a favore dell’altra
parte, a fronte dell’impegno, assunto da quest’ultima, di restituire il medesimo
importo, senza interessi ma rivalutato. Il finanziatore, avendo adempiuto la sua
obbligazione con la corresponsione in più rate del capitale pattuito e non riuscendo ad ottenere, successivamente, la restituzione dell’importo erogato, si
rivolge all’autorità giudiziaria, chiedendo al giudice la condanna della controparte al versamento delle somme dovute.
Secondo il tribunale il negozio sottoposto al suo vaglio non sarebbe sussumibile nella fattispecie codicistica del contratto di mutuo, ma sarebbe correttamente inquadrabile nell’ambito del cosiddetto contratto di finanziamento.
Tale espressione designa «un contratto consensuale, oneroso e atipico che assolve ad una funzione creditizia»; in particolare, diversamente dalla fattispecie
reale di cui all’art. 1813 c.c., nel finanziamento la consegna di una certa quantità di denaro costituisce oggetto di un’obbligazione del finanziatore, non elemento costitutivo del contratto.
In altre parole, «la caratteristica del contratto di finanziamento va ravvisata
nel fatto che con l’incontro dei consensi delle parti si perfeziona il contratto
consensuale, ma non si trasferisce in capo al soggetto finanziato la proprietà delle
somme oggetto del finanziamento stesso, occorrendo per tale trasferimento
l’elemento ulteriore della consegna delle somme medesime».
Per queste ragioni, in assenza di un contratto ex art. 1813 c.c., il finanziatore
che voglia ottenere l’adempimento del contratto dovrà fornire la prova sia della
consegna del denaro, sia della effettiva conclusione di un accordo a titolo di finanziamento tra le parti, che giustifichi tanto la dazione della somma di denaro
quanto l’obbligo del soggetto finanziato a restituire l’importo ricevuto.
Nella fattispecie, avendo l’attore ottemperato al suddetto onere probatorio,
il tribunale condanna il convenuto al pagamento in favore del finanziatore del
capitale da quest’ultimo erogato, rivalutato e comprensivo degli interessi legali
decorrenti dalla data della domanda fino al giorno del saldo.
In giurisprudenza è generalmente riconosciuta la natura consensuale (e non reale)
del contratto atipico di finanziamento. In questo senso v., tra le altre, Cass., 3 dicem-
Giurisprudenza
185
bre 2007, n. 25180, in Vita not., 2008, p. 161, con nota di L. RUGGERI, Il mutuo di scopo: una conferma dalla Cassazione; in Contr., 2008, p. 561, con nota di L. MARTONE,
Mutuo di scopo ed apertura di credito; Cass., 19 maggio 2003, n. 7773, in Contr., 2003,
p. 1131, con note di N. MONTICELLI, Contratto di finanziamento e rischio di cambio: il
difficile equilibrio degli interessi contrapposti, e V. GIORGI, In tema di trasferimento del rischio di cambio inerente ad una somma di denaro oggetto di mutuo di scopo; Cass., 21 luglio 1998, n. 7116, in Contr., 1999, p. 373, con nota di E. GOLTARA, Mutuo di scopo e
consegna. Negli stessi termini per la giurisprudenza di merito cfr., in particolare, la recente sentenza Trib. Bari, 8 luglio 2010, n. 2493.
In dottrina, cfr. V. FEDELI-A. MARTINELLI, Il mutuo. Il sistema delle tutele, a cura di G.
Cassano, Cedam, 2009, p. 371 ss., a proposito della qualificazione della promessa di
mutuo come contratto definitivo consensuale. In termini più generali, sui problemi
relativi al contratto concluso mediante traditio, cfr., ex multis, V. ROPPO, Il contratto, in
Tratt. Iudica-Zatti, Giuffrè, 2011, p. 127 ss.
***
CONTRATTI BANCARI
Swap, nullità
TRIBUNALE DI MILANO, 14 aprile 2011, n. 5118
Nell’anno 2008 Il Comune di Ortona cita in giudizio una importante banca
nazionale per sentire dichiarare la nullità di alcuni contratti derivati finanziari
sui tassi d’interesse (si trattava di tre contratti cd. collar swap) stipulati nel 2006
con la dichiarata finalità di coprirsi dal rischio di rialzo dei tassi d’interesse sussistente su alcuni mutui sottostanti, stipulati con la CDP (Cassa Depositi e
Prestiti).
Con la prima delle sentenze in epigrafe il Tribunale di Milano accoglie la
domanda principale dell’Ente, dichiarando la nullità dei tre contratti collar swap e
condanna, quindi, la banca alla restituzione a favore del Comune della somma
di € 343.196,83 oltre agli interessi (con ciò implicitamente riconoscendo la mala fede della banca, ai sensi dell’art. 2033 c.c.).
Il Comune di Ortona aveva prodotto in giudizio una perizia tecnica dalla
quale risultava che la banca avesse applicato all’Ente costi occulti (ovverosia non
dichiarati) ai tre contratti stipulati, per un importo complessivo di € 576.000,00.
Il Comune per suo conto aveva eccepito che si trattasse di contratti c.d. non
par, ovvero non stipulati a valore nullo ma a un valore negativo per il Comune
stesso con la conseguenza che la loro funzione era quella speculativa.
Proprio per questo motivo, l’Ente locale ha eccepito la nullità dei contratti
186
2011
per mancanza di “causa concreta”, configurabile nella funzione di copertura dal
rischio di variazione dei tassi d’interesse.
A seguito di Consulenza Tecnica d’Ufficio il Tribunale meneghino riscontra
effettivamente la presenza di “costi occulti” nei tre contratti e da ciò fa discendere la qualifica di negozi non par (ovverosia non in equilibrio finanziario).
La banca convenuta si difende affermando che i contratti par (quelli in equilibrio finanziario, che, al momento della stipula hanno valore nullo) sarebbero
inesistenti (addirittura “utopistici”), in quanto ciò comporterebbe l’assenza di
remunerazioni in favore dell’istituto di credito. Secondo la banca, a fronte di un
contratto avente valore nullo, essa rimarrebbe priva della remunerazione per
l’ingegnerizzazione del prodotto finanziario, nonché delle somme necessarie
per coprire tutti i rischi connessi alla stipula di tali contratti.
Il Tribunale respinge tale tesi difensiva, ricordando che l’esistenza dei contratti swap “par” è espressamente prevista dall’Allegato 3, reg. Consob 11522/1998
laddove si precisa che «alla stipula del contratto, il valore di uno swap è sempre
nullo ma esso può assumere rapidamente un valore negativo (o positivo) a seconda di come si muove il parametro a cui è collegato il contratto».
Inoltre, sottolinea il Tribunale, la presenza di commissioni occulte (ovverosia non dichiarate) contrasta sia con la lett. g) dell’art. 61 reg. Consob 11522/
1998 sia con l’articolo 8 del contratto quadro stipulato tra le parti, in cui era
specificato che nei singoli contratti avrebbero dovuto essere indicati gli oneri e
le commissioni addebitate al Comune di Ortona.
A ciò si aggiunga il valore particolarmente alto delle commissioni applicate
dalla banca (che secondo il CTU avrebbero dovuto essere di “soli” € 50-60 mila a fronte di € 576.000 effettivamente “caricati” sui tre contratti), che ha portato il Tribunale a escludere che si trattasse di corrispettivo a favore della banca.
La conclusione cui giunge il Tribunale sembra essere epocale per i futuri
contenziosi in derivati: la presenza di tali “costi occulti” determina infatti l’automatica speculatività dei contratti, in quanto la presenza di un valore di mercato negativo già in partenza è incompatibile con la funzione di mero ammortamento e ristrutturazione di mutui già esistenti gravanti sul Comune.
Poiché i Comuni non possono stipulare contratti derivati speculativi (si vedano art. 3 d.m. 389/2003 e art. 41, c. 1, l. 448/2001) ma solamente di copertura, il Collegio ambrosiano ha dichiarato la nullità radicale dei contratti per
difetto di causa concreta, così come definita dalla Corte di Cassazione (sez. un.,
18 marzo 2010, n. 6538): «costituita dallo scopo pratico del negozio, e cioè
dalla sintesi degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare
quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di là del
modello astratto utilizzato».
Qualora il sillogismo adottato dalla corte milanese (costi occulti = speculatività del derivato = difetto di causa concreta) dovesse essere accolto dalla futu-
Giurisprudenza
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ra giurisprudenza di merito, si potrebbe avere un “effetto valanga” nel contenzioso tra banche e clienti a favore di questi ultimi, i quali potrebbero avvalersi
di società d’ingegneria finanziaria per ottenere una perizia di “pricing” volta a
verificare la presenza nei contratti derivati stipulati di “costi occulti” e poter ottenere quindi una pronuncia di radicale nullità dei contratti con effetto completamente restitutorio.
Trib. Milano, 19 aprile 2011, n. 5118 è pubblicata in Resp. civ. prev., 2011, p. 735 con
nota di F.R. FANTETTI, Obblighi di diligenza e professionalità dell’intermediario finanziario a fronte della qualità di cliente professionale dell’investitore.
In giurisprudenza sui contratti di swap si segnalano: Cass., 4 settembre 2009, n. 19226;
Cass., 26 maggio 2009, n. 12138; App. Trento, 5 marzo 2009; Trib. Vicenza, 29 gennaio
2009; Trib. Vicenza, 12 febbraio 2008. Con riferimento specifico ai contratti swap tra
amministrazioni pubbliche e banche cfr. in sede penale, la sentenza di archiviazione della
Procura della Repubblica di Torino del 18 agosto 2010 sui derivati stipulati dalla Regione Piemonte e dal Comune di Torino con diverse banche nazionali ed estere (favorevole
alle banche); in sede civile, Trib. Bologna, 10 dicembre 2009, n. 5244 sui derivati stipulati dal Comune di Cattolica con la Banca Nazionale del Lavoro (favorevole alla banca);
in sede amministrativa, TAR Toscana, 11 novembre 2010, n. 6579).
In dottrina, i contratti di swap hanno determinato una forte attenzione della letteratura giuridica verso la materia della responsabilità civile delle banche in relazione a cattivi investimenti. Sul punto A. MONORCHIO-C.D. MOTTURA, Derivati e finanza pubblica. Considerazioni sul dibattito in Italia tra enti e banche, in Economia italiana, 2010, pp.
143-164; C.D. MOTTURA-L. MOTTURA, I derivati nella finanza locale: il caso della provincia di Pisa. Un commento alla sentenza n 6579/2010 del TAR, in Strumenti finanziari
e fiscalità, 2011, p. 359; A. CARLEO-C.D. MOTTURA-L. MOTTURA, Sul valore di un derivato. Argomentazioni in margine alla disputa tra amministrazioni pubbliche e banche, in
Contr., 2011, p. 383 ss. Più in generale con riferimento alle controversie fra investitori
e intermediari finanziari la dottrina affronta gli stessi temi anche se in maniera più globale cfr. V. ROPPO-G. AFFERNI, Dai contratti finanziari al contratto in genere: punti fermi della Cassazione su nullità virtuale e responsabilità precontrattuale, in Danno resp.,
2006, p. 31; C. ROMEO, Il conflitto di interessi nei contratti di intermediazione, in Contr.,
2009, p. 437 ss.; V. SANGIOVANNI, Operazioni inadeguate e doveri informativi dell’intermediario finanziario, in Giur. comm., 2009, II, p. 557 ss.; C. SCOGNAMIGLIO, Regole di
validità e di comportamento: i principi ed i rimedi, in Eur. dir. priv., 2008, p. 599). All’interno della materia “responsabilità civile degli intermediari finanziari” assume un ruolo
sempre più rilevante la tematica dei contratti derivati, oggetto di diversi interventi giurisprudenziali negli ultimi anni. Le pronunce edite riguardano prevalentemente la nozione di operatore qualificato di cui all’art. 31 reg. Consob n. 11522/1998 (il reg.
11522/1998 è stato nel frattempo abrogato e sostituito dal reg. 16190/2007; sui regolamenti Consob attuativi della direttiva MIFID cfr., in particolare, F. DURANTE, Con il
nuovo regolamento intermediari, regole di condotta “flessibili” per la prestazione dei servizi
di investimento, in Giur. mer., 2008, p. 628 ss.; V. ROPPO, Sui contratti del mercato finan7.
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ziario, prima e dopo la MIFID, in Riv. dir. priv., 2008, p. 493 ss.; V. SANGIOVANNI, Informazioni e comunicazioni pubblicitarie nella nuova disciplina dell’intermediazione finanziaria dopo l’attuazione della direttiva MIFID, in Giur. it., 2008, p. 775 ss.). Su questa
materia specifica contributi più di recenti apparsi v. C. MOTTI, L’attestazione della qualità di operatore qualificato nelle operazioni in strumenti derivati fra banche e società non
quotate, in Giur. it., 2008, p. 1167 ss.; G. SALATINO, Contratti di swap. Dall’“operatore
qualificato” al “cliente professionale”: il tramonto delle dichiarazioni “autoreferenziali”, in
Banca borsa tit. cred., 2009, I, p. 201 ss.; V. SANGIOVANNI, I contratti derivati e il regolamento Consob n. 11522 del 1998, in Giur. mer., 2009, p. 1516 ss. Di recente si registra
pure un intervento della Suprema Corte (Cass., 26 maggio 2009, n. 12138). Meno
trattati sono invece altri profili della materia dei contratti derivati, cfr. AA.VV., Derivati
e swap. Responsabilità civile e penale, a cura di A. Sirotti Gaudenzi, Santarcangelo di
Romagna, 2009; A. PIRAS, Contratti derivati: principali problematiche al vaglio della giurisprudenza, in Resp. civ. prev., 2008, 2219 ss.; TAROLLI, Trasferimento del rischio di credito e trasparenza del mercato: i credit derivatives, in Giur. comm., 2008, I, 1169 ss.
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CONTRATTI BANCARI
Forma degli ordini impartiti dal cliente
CORTE DI CASSAZIONE, Sez. I, 22 dicembre 2011, n. 28432
Gli ordini d’investimento impartiti dal cliente alla banca non devono essere
redatti in forma scritta. Quest’ultima è necessaria, ma solo per il contratto quadro con il quale l’intermediario si obbliga a prestare il servizio di negoziazione
di strumenti finanziari a favore del cliente. A chiarire i termini della questione è
la Corte di cassazione con la sentenza in oggetto.
Il caso approdato al giudizio di legittimità è quello di una correntista che investe circa 26.000 Euro in obbligazioni Cirio, società poi diventata, come noto,
insolvente. In primo grado il Tribunale accoglie le ragioni della risparmiatrice,
sottolineando la violazione di una pluralità di norme tra cui quella che prescrive la forma scritta per la validità degli ordini di acquisto di strumenti finanziari
impartiti dal cliente. Successivamente, la Corte d’appello accoglie però l’impugnazione presentata dalla banca.
La sentenza in esame conferma la pronuncia di appello sottolineando che
l’articolo 23 t.u.f. prevede espressamente che i contratti sulla prestazione di
servizi d’investimento devono essere redatti per iscritto, fatta salva la possibilità
che, per particolari tipologie contrattuali, la Consob individui con Regolamento una forma diversa. Tuttavia, la prestazione di servizi d’investimento implica
una sequenza che prevede la stipulazione di un contratto indirizzato a discipli-
Giurisprudenza
189
nare i termini dello svolgimento successivo del rapporto, al quale fanno poi seguito i vari ordini di investimento o di disinvestimento.
A riguardo in dottrina, chiarisce la sentenza, non c’è accordo sulla fisionomia contrattuale di questo modello, come pure disaccordo esiste sul perimetro
della forma scritta: limitata al contratto quadro o estesa agli ordini di acquisto?
Secondo il giudice di legittimità, il requisito della forma scritta non si estende
agli ordini di acquisto. L’art. 30, c. 1, reg. Consob, infatti, a proposito degli intermediari spiega che questi non possono prestare la propria opera se non
«sulla base di un apposito contratto scritto». Previsione da cui si deduce che la
forma scritta serve solo per l’accordo in base al quale l’intermediario si impegna
a eseguire le indicazioni del cliente, mentre il modo di formulazione degli ordini è libero e affidato alla determinazione dello stesso contratto quadro.
Inoltre, avverte la sentenza, la dir. 2006/73/CE obbliga gli Stati membri a
subordinare la prestazione dei servizi d’investimento alla conclusione tra
l’intermediario e un nuovo cliente al dettaglio di un accordo di base scritto su
carta o altro «supporto durevole». Una previsione che sembra fare riferimento
al nostro contratto quadro, almeno nei termini delineati dalla Corte, e non
coinvolgere anche i successivi atti negoziali posti in essere sulla base del contratto stesso. Il fatto che il legislatore europeo abbia ritenuto necessaria la forma scritta solo per l’avvio del rapporto con il «nuovo» cliente e non per i successivi passaggi testimonia l’opportunità di limitare il requisito al solo contratto
quadro. Anche la Consob, del resto, non ha poi sentito il bisogno di adeguare il
proprio Regolamento del 2007.
Alla luce delle considerazioni svolte la Suprema Corte enuncia il principio
di diritto secondo cui la forma scritta è contemplata unicamente per il contratto di definizione dei servizi offerti dall’intermediario, non essendo richiesta per
i singoli ordini impartiti dal cliente. Conseguentemente, il ricorso proposto
dalla correntista viene rigettato.
In giurisprudenza le sentenze che si sono finora occupate dell’argomento tendono
principalmente a riconoscere il requisito della forma scritta ad substantiam solo per il
contratto quadro, e non per i singoli ordini, cfr. Cass., 7 settembre 2001, n. 11495, in
Contr., 2002, p. 26 ss. con nota di E. GIRINO, Contratti di swap: forma, autonomia, nullità e responsabilità, e in Foro it., 2003, I, c. 612 ss. Tale interpretazione è stata condivisa, fra le altre, anche da: Trib. Milano, 15 marzo 2006, ID., 22 novembre 2006, Trib.
Venezia, 8 giugno 2005, ID., 22 novembre 2004, Trib. Palermo, 16 marzo 2005, Trib.
Monza, 27 luglio 2004, nonché Trib. Firenze, 29 maggio 2006. Va dato atto, comunque,
della presenza anche dell’indirizzo contrario espressa, ad esempio, da Trib. Milano, 7
ottobre 2004, Trib. Torino, 25 maggio 2005, Trib. Treviso, 13 febbraio 2006 e Trib.
Genova, 26 giugno 2006, secondo cui il requisito di forma scritta riguarderebbe non
solo il contratto quadro, «ma anche tutti i singoli contratti conclusi fra intermediario e
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2011
cliente per perfezionare le singole operazioni» (App. Venezia, 19 novembre 2007, in
www.ilcaso.it).
In dottrina, sul tema della natura dei singoli ordini di negoziazione, si veda R. RAZZANTE, Contratto di negoziazione e “negoziazione di ordini”, in Tratt. Rescigno-Gabrielli,
I contratti del mercato finanziario, a cura di G. Gabrielli e R. Lener, II, Utet, 2011, p. 1125
ss. Nel contributo di V. ROPPO, La tutela del risparmiatore fra nullità e risoluzione, in
Danno resp., 2005, p. 628 ss., si rinviene la più autorevole illustrazione della tesi del
contratto di intermediazione come “contratto quadro”. Sul punto, anche se con tesi
differenti, argomenta F. GALGANO, I contratti di investimento e gli ordini dell’investitore
all’intermediario, in Contr. impr., 2005, pp. 859 ss.; che lo stesso A. ha successivamente
ribadito in Il contratto di intermediazione finanziaria davanti alle Sezioni Unite della
Cassazione, ivi, 2008, p. 1 ss.; si vedano anche E. SCODITTI, Intermediazione finanziaria
e formalismo protettivo, in Foro it., 2009, I, c. 190 ss.; E. GUERINONI, Le controversie in
tema di contratti di investimento: forma, informazione, ripensamento e operatore qualificato, in Corr. giur., 2011, p. 46 ss.
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ASSICURAZIONE
Divieto di discriminazione, premi e prestazioni assicurative
CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, grande sezione, 1° marzo 2011, (causa
C-236/09) – Association belge des Consommateurs Test-Achats ASBL c. Conseil
des ministres
In linea con i principi di non discriminazione e di parità tra uomini e donne
(artt. 21 e 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) l’Unione europea ha emanato la direttiva 2004/113/CE sulla parità di trattamento
con riferimento all’accesso e alla fornitura di beni e servizi.
In particolare, preso atto che nel settore dei servizi assicurativi e finanziari
vengono sovente utilizzati fattori attuariali diversi a seconda del sesso, il legislatore europeo è voluto intervenire al fine di vietare tale pratica. Per evitare un
effetto choc sui mercati, l’art. 5 della direttiva 2004/113/CE ha predisposto un
periodo transitorio prevedendo, da una parte, che il divieto di stipulare contratti contenenti differenze nei premi e/o nelle prestazioni individuali divenisse efficace con riferimento ai contratti stipulati dopo il 20 dicembre 2007; dall’altro,
che i legislatori nazionali, nel recepire la direttiva, potessero autorizzare, a determinate condizioni, delle deroghe alla norma dei premi e delle prestazioni
unisex. La direttiva, che prevede a carico degli stati membri un onere di riesaminare le deroghe decorsi 5 anni dal recepimento, non ha però identificato un
termine, decorso il quale il periodo di transizione venga meno.
Giurisprudenza
191
È proprio questo l’aspetto sui cui la CGUE interviene, con specifico riferimento ad una domanda pregiudiziale sulla conformità al diritto europeo della
legge belga di recepimento della direttiva 2004/113/CE che aveva consentito
una deroga sine die al principio di non discriminazione nello specifico settore
dei contratti di assicurazione sulla vita.
A fronte del rischio di una deroga alla parità di trattamento a tempo indefinito, i giudici del Lussemburgo, con una decisione il cui contenuto va ben al di
là della mera interpretazione del diritto UE che usualmente segue ad un rinvio
pregiudiziale, hanno dichiarato invalido con effetto alla data del 21 dicembre
2012 l’art. 5, n. 2 della direttiva. Da questo momento, ogni discriminazione dovrà intendersi vietata: uno sguardo al contesto interno, suggerisce che da tale
data l’art. 55-quater, c. 2, d.lgs. 198/2006 secondo cui «sono consentite differenze proporzionate nei premi o nelle prestazioni individuali ove il fattore sesso sia determinante nella valutazione dei rischi, in base a dati attuariali e statistici pertinenti e accurati» verrà ad essere disapplicato per contrarietà al diritto
europeo.
La sentenza è pubblicata in Nuova giur. civ. comm., 2011, I, p. 193, con nota di A. ANTONUCCI, Premio unisex: il paradosso della parificazione semplificata.
Non constano precedenti pronunce della giurisprudenza comunitaria sul punto. Per
una panoramica dei ricorsi proposti dalla Commissione per la mancata trasposizione
negli ordinamenti interni della direttiva in questione, cfr. Foro it., 2011, IV, p. 130.
In dottrina, cfr. C. FAVILLI, La non discriminazione nell’Unione europea, Il Mulino, 2009;
M. BARBERA (a cura di), Il nuovo diritto antidiscriminatorio, Giuffrè, 2007; O. POLLICINO, Discriminazione sulla base del sesso e trattamento preferenziale nel diritto comunitario, Giuffrè, 2005; A. GENTILI, Il principio di non discriminazione nei rapporti civili, in
Riv. crit. dir. priv., 2009, p. 207.
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ASSICURAZIONE
Impresa assicurativa, garanzia a favore di società esercente attività diversa da
quella assicurativa operante nel medesimo gruppo imprenditoriale, nullità per
contrasto con il divieto di svolgere attività diverse da quelle assicurative e da
attività connesse, rigetto
CORTE DI CASSAZIONE, sez. un., 30 dicembre 2011, n. 30174
La sentenza – che enuncia anche un importante principio di diritto in materia di obbligazioni solidali (v. in questo volume p. 221 ss.) – verte sul divieto,
192
2011
imposto alle imprese assicurative dall’art. 5, l. 295/1978, di svolgere attività
commerciali diverse da quelle assicurative, riassicurative e di capitalizzazione, o
da attività commerciali ad esse connesse. Pur confermando la nullità virtuale
dei contratti posti in essere in violazione del divieto (art. 1418, c. 1, c.c.), le sezioni unite ne modulano la portata riconoscendo rilevanza decisiva alle caratteristiche dell’attività nel contesto della quale si inserisce l’atto posto in essere dall’impresa assicurativa.
Nel caso di specie, un’impresa assicurativa emette a favore di una società
immobiliare dello stesso gruppo imprenditoriale due lettere di patronage volte
a garantire l’adempimento delle obbligazioni da essa assunte nei confronti di
un istituto di credito. Posta l’assicuratrice in liquidazione coatta amministrativa, e verificatosi l’inadempimento della società da essa controllata, l’istituto di
credito chiede l’ammissione al passivo del proprio credito di garanzia, mentre
la curatela dell’assicuratrice eccepisce la nullità dell’atto con cui era stata assunta la garanzia per violazione dell’art. 5, l. 295/1978. La domanda dell’istituto di
credito viene accolta da entrambi i giudici di merito, che attribuiscono alle lettere di patronage inviate dalla società assicuratrice effetti analoghi a quelli di
una fideiussione e ritengono che esse non siano estranee all’oggetto sociale.
Investite della questione, le sezioni unite confermano la nullità virtuale dei
contratti posti in essere dalle imprese assicurative in violazione del divieto
espresso dall’art. 5, c. 2, l. 295/1978 (la disposizione è stata successivamente
abrogata, e sostituta prima dall’art. 7, c. 2, d.lgs. 175/1995, poi dall’art. 11,
d.lgs. 209/2005). Affermano, tuttavia, che il divieto è applicabile solo quando
l’atto negoziale è funzionale all’esercizio di un’attività diversa da quella assicurativa o da attività imprenditoriali ad essa connesse. La declaratoria di nullità
implica, dunque, che l’atto o il contratto non presentino connessioni con l’attività assicurativa, e si inseriscano, invece, in una diversa attività economica sistematicamente esercitata dalla società. Secondo il giudice di legittimità, tale requisito non si riscontra nel caso di specie, in cui la società assicurativa aveva
prestato singole garanzie a favore di un’impresa afferente al gruppo imprenditoriale di cui la stessa società era a capo. Una diversa conclusione, secondo la
Corte, porterebbe ad irrigidire oltre misura l’attività contrattuale delle imprese
assicurative, «non potendosi fissare a priori una tassonomia di atti connessi o
non connessi all’oggetto assicurativo, ma dipendendo piuttosto la liceità di quegli atti dalla loro [...] attinenza alle concrete finalità dell’impresa». Le imprese
di assicurazione mantengono infatti una capacità di agire generale, che trova un
limite elastico nella pertinenza degli atti compiuti all’esercizio dell’attività assicurativa.
Argomenti a favore di questa impostazione si desumono anche dalla giurisprudenza della Corte di Lussemburgo, che – in relazione al divieto di svolgere
attività extra-assicurative previsto dalla direttiva 73/239/CEE (art. 8, n. 1, lett b)
Giurisprudenza
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– ha affermato che una società di assicurazioni è legittimata a detenere partecipazioni di società operanti in aree diverse, purché nei limiti delle riserve disponibili. Se allora una società assicurativa può detenere una partecipazione significativa nell’ambito di un’impresa che svolge un’attività differente – argomentano le sezioni unite – deve anche ritenersi che essa sia legittimata a prestare
una garanzia a favore dell’impresa controllata, per agevolare la concessione del
credito: la prestazione della garanzia può essere considerata quale «attività funzionale alla conservazione del valore della partecipazione azionaria di cui la società assicurativa è titolare, sicché essa condivide la medesima finalità a cui è
ispirata la detenzione della partecipazione».
Le sezioni unite, dunque, confermano le pronunce di merito che avevano
escluso la nullità delle lettere di patronage sulla base delle quali era stata prestata la garanzia. La sentenza si distacca, così, da un orientamento precedentemente delineatosi nella stessa giurisprudenza di legittimità.
In giurisprudenza, la nullità del contratto con cui la società assicurativa garantisce
l’adempimento delle obbligazioni assunte da altra società del medesimo gruppo imprenditoriale è stata affermata, diversamente dalla sentenza in commento, da Cass., 6
maggio 2011, n. 10007, in Foro it., 2011, I, c. 2052; Cass., 14 ottobre 2010, n. 21247, in
Giust. civ., 2011, I, p. 1784; Cass., 4 aprile 2001, n. 4981, in Contr., 2001, p. 987, con
nota di F. BORRELLO, Fideiussioni, polizze fideiussorie e attività assicurativa. La sentenza
della Corte di Lussemburgo che afferma la legittimità della detenzione di partecipazioni in aree diverse da quella assicurativa a cui si fa riferimento nel testo è CGCE, 21
settembre 2000, (causa C 109/99), in Assicurazioni, 2000, II, p. 255.
In dottrina, non risultano contributi specificamente dedicati alla fattispecie considerata
dalla sentenza. Sull’art. 11 del codice delle assicurazioni private (d. lgs. 7 settembre 2005,
n. 209) – che enuncia una disciplina analoga a quella dettata dall’art. 5 l. 295/1978, su
cui verte la sentenza in epigrafe – v., tuttavia, M. IRRERA, L’assicurazione: l’impresa e il
contratto, in Tratt. Cottino, X, Cedam, 2011, p. 12 ss.; F. MAIMERI, in Il codice delle assicurazioni private. Commentario al d. lgs. 7 settembre 2005, n. 209, a cura di F. Capriglione, I,
Cedam, 2007, p. 109 ss.; F. PECCENINI, L’assicurazione, in Tratt. Rescigno, 13, 1, Utet,
2007, p. 74.
***
PARCHEGGIO
Qualificazione del contratto e disciplina applicabile
CORTE DI CASSAZIONE, sez. un., 28 giugno 2011, n. 14319
Con la sentenza qui illustrata, le sezioni unite definiscono il contrasto giuri-
194
2011
sprudenziale sorto in merito all’individuazione della disciplina applicabile al
contratto di parcheggio: trattandosi di un contratto atipico, si tratta di vedere
se nella sua causa prevalgano gli elementi della locazione oppure quelli del deposito.
La controversia scaturisce dal furto di un’automobile all’interno di un’area
recintata destinata a parcheggio in forza di una delibera comunale, adottata in
base ad una disposizione del codice della strada [art. 7, c. 1, lett. f)] che attribuisce ai comuni la facoltà di individuare delle zone di sosta a pagamento, «senza custodia del veicolo», in prossimità di luoghi di interscambio con sistemi di
trasporto collettivo. L’esigenza alla base di tale previsione è quella di incentivare la sosta delle vetture, a tariffe contenute, per il perseguimento della finalità
pubblica di snellire il traffico urbano.
Nella fattispecie, l’assicuratore, dopo aver indennizzato il proprio assicurato
per il danno subito, agisce in rivalsa contro il gestore dell’area di sosta in cui si
era verificato il furto, assumendo che quest’ultimo fosse obbligato a custodire il
veicolo in virtù del contratto di parcheggio precedentemente concluso con l’automobilista.
La domanda dell’attore viene rigettata sia in primo che in secondo grado:
per entrambi i giudici di merito, il contratto non è riconducibile al tipo del deposito, sicché il proprietario dell’area in cui la vettura viene parcheggiata non è
tenuto a custodirla. La decisione viene confermata dalle sezioni unite, all’esame
delle quali è sottoposto il ricorso in considerazione della rilevanza della questione e della sussistenza di oscillazioni giurisprudenziali sul tema.
In particolare, a giudizio della suprema corte, per valutare quale disciplina
debba essere concretamente applicata ad un contratto di parcheggio, è necessario capire quale sia l’effettivo interesse dell’utente. Se quest’ultimo intende
assicurarsi non solo l’uso dell’area, ma anche la conservazione e la restituzione
del veicolo (verso pagamento di un corrispettivo più elevato in considerazione
del rischio assunto dal gestore dell’area di sosta), ricorrerà un contratto di parcheggio con custodia, a cui sarà applicabile la disciplina prevista in tema di deposito. Al contrario, se l’interesse prevalente del parcheggiante è diretto ad utilizzare semplicemente uno spazio per lo stazionamento del veicolo (verso il pagamento di un modico corrispettivo), sarà configurabile un contratto di parcheggio incustodito riconducibile allo schema legale della locazione temporanea.
Pertanto se l’avviso “parcheggio incustodito” è esposto «in modo adeguatamente percepibile prima della conclusione del contratto di parcheggio», non potrà sorgere alcun obbligo di custodia dei veicoli parcheggiati in capo al gestore
dell’area di sosta (artt. 1326, c. 1, e 1327 c.c.). Trattandosi di una delimitazione
dell’oggetto dell’obbligazione, l’esclusione dell’obbligo in questione discenderà
univocamente dal contenuto dell’offerta al pubblico (art. 1336 c.c.) e non dovrà
essere specificamente approvata per iscritto ai sensi dell’art. 1341, c. 2, c.c.
Giurisprudenza
195
Il giudice di legittimità ha inoltre escluso la possibilità di invocare il principio
di tutela dell’affidamento dell’utente, che troverebbe la propria ragione giustificativa nelle concrete modalità con cui la prestazione risulti offerta al pubblico (quali, ad esempio, l’adozione di recinzioni, di speciali modalità di accesso ed uscita,
di dispositivi o di personale di controllo). Infatti, quando la custodia è esplicitamente esclusa, tutte le strutture e i meccanismi che siano stati predisposti dal gestore dell’area di parcheggio costituiscono esclusivamente uno strumento organizzativo per lo stazionamento dei veicoli, volto a delimitare l’area destinata alla
sosta e ad impedirne l’utilizzazione gratuita.
La sentenza è pubblicata in Corr. giur., 2012, p. 79, con nota di V. AMENDOLAGINE,
L’accordo delle parti sulla qualificazione del contratto come parcheggio senza custodia esclude la responsabilità del gestore dell’area in caso di furto del veicolo.
In giurisprudenza, v. l’ordinanza di rimessione della questione alle sezioni unite,
Cass., 19 gennaio 2010, n. 683, in Foro it., 2010, I, c. 845. Si segnalano, inoltre, i due
orientamenti giurisprudenziali relativi alla questione in esame: nel senso di ritenere il
contratto di parcheggio riconducibile ad un “contratto di deposito atipico” nel quale
non sarebbe configurabile un obbligo di custodia in capo al gestore del parcheggio v.
Cass., 13 marzo 2009, n. 6169, in Foro it., 2009, I, c. 1005 (unica decisione in termini);
nel senso di ritenere il contratto di parcheggio come un contratto atipico al quale sarebbero applicabili le norme in materia di deposito, compresa quella che prevede un
obbligo di custodia in capo al gestore, v. Cass., 27 gennaio 2009, n. 1957, in Foro it.,
2009, I, c. 1006. In senso sostanzialmente conforme all’orientamento per cui sarebbe
configurabile un obbligo di custodia in capo al gestore di un parcheggio a pagamento
cfr.: Cass., 13 marzo 2007, n. 5837, in Contr., 2007, p. 1080, con nota di G. PETTI, Parcheggio di autoveicolo e responsabilità ex recepto del gestore; in Nuova giur. civ. comm.,
2007, I, p. 1234, con nota di A. CIATTI, Contratto di parcheggio e deposito; Cass., 1° dicembre 2004, n. 22598; Cass., 26 febbraio 2004, n. 3863, in Nuova giur. civ. comm.,
2005, I, p. 528, con nota di A. ARLOTTA, Parcheggio automatizzato e responsabilità del
gestore; in Corr. giur., 2005, I, p. 384, con nota di M. VITI, Metodi di qualificazione e disciplina applicabile al contratto di parcheggio; in Giur. it., 2005, p. 268, con nota di R.
CATERINA, La costosa custodia: la qualificazione del contratto di parcheggio e le sue conseguenze; in Foro it., 2004, II, c. 2132, con nota di A.L. BITETTO, Il contratto di parcheggio: declino del potere normativo d’impresa e tutela del contraente debole nelle “quick hand
trasactions” (contratti di massa a conclusione rapida)!; in Resp. civ. prev., 2004, p. 717,
con nota di M. GORGONI, Parcheggio e custodia: tra negazione dell’utilità della disciplina
contrattuale di diritto comune e svalutazione del consenso; App. Milano, 1° febbraio 2000,
in Nuova giur. civ. comm., 2000, p. 441, con nota di D. CHINDEMI, Il contratto di parcheggio di autovettura in area recintata. Contratto di deposito o locazione d’area? Una sentenza che esclude la responsabilità del gestore in presenza dell’avviso, ben visibile prima dell’ingresso, che il parcheggio è incustodito è Cass., 20 dicembre 2005, n. 28232,
in Obbl. contr., 2006, p. 805, con nota di A. CAPPABIANCA, Furto d’auto in parcheggio
“automatizzato”: non sempre risponde il gestore. Sull’inquadramento del contratto di par-
196
2011
cheggio non custodito nell’ambito della disciplina relativa alla locazione d’area cfr.:
App. Milano, 4 febbraio 2008, n. 460, in Arch. giur. circ., 2009, p. 230, con nota di V.
SANTARSIERE, Furto di autovettura in parcheggio di interscambio incustodito. Locazione
d’area; App. Milano, 30 maggio 2000, in Nuova giur. civ. comm., 2001, I, p. 48, con nota
di D. CHINDEMI, Limiti della responsabilità del gestore di parcheggio in area recintata.
In dottrina, cfr. V. MANCINELLI, Contratto di parcheggio e clausole di esonero della responsabilità, in Contr., 2008, p. 413 ss.; R. OMODEI-SALÈ, La responsabilità del gestore
di parcheggio “automatizzato” nel caso di furto di un veicolo, in Resp. civ. prev., 2006, p.
536 ss.; F. LAPERTOSA, Il contratto di posteggio, in Resp. civ. prev., 2005, p. 551 ss.; G.
GALLONE, Parcheggio, contratto di deposito e responsabilità, Cedam, 1999. In materia di
contratti atipici e di condizioni generale del contratto v., ex multis, F. GALGANO, Trattato di diritto civile, II, Cedam, 2009, p 161 ss.; G. DE NOVA, Le condizioni generali di contratto, in Tratt. Rescigno, 10, Obbligazioni e contratti, II, Utet, 2002, p 121 ss.; V. ROPPO,
Il contratto, in Tratt. Iudica-Zatti, Giuffrè, 2001, p. 419 ss. e p. 905 ss.
***
TRUST LIQUIDATORIO
Ammissibilità
TRIBUNALE DI REGGIO EMILIA (ord.), 14 marzo 2011; CORTE DI CASSAZIONE, sez. II
penale, 30 marzo 2011, n. 13276
Il trust liquidatorio viene utilizzato per pianificare la gestione e la messa in
vendita di un patrimonio (di solito appartenente a una società) finalizzate a
soddisfare ordinatamente le pretese dei creditori verso il titolare di quel patrimonio. Esiste senz’altro un perimetro entro il quale può rivelarsi un efficiente e
non fraudolento sistema per organizzare con professionalità e correttezza la dismissione dei beni dell’impresa in crisi, nell’interesse sia dei creditori (a conseguire il dovuto senza subire discriminazioni) sia della società debitrice (per
cercare di risolvere la situazione e di perseguire la continuità aziendale). È tuttavia necessario che lo strumento non violi le norme delle procedure concorsuali e non venga usato in frode alle ragioni dei creditori.
Ne consegue che non è ammissibile che i beni di un’impresa (o l’intero patrimonio attivo di una società) vengano immessi in un trust, al dichiarato fine di
«conservare il loro valore» a tutela degli interessi dei creditori e dei soci, «evitare la loro dispersione», assicurare la parità di trattamento dei creditori, se il
trust non ha alcuna utilità aggiuntiva rispetto a quella che avrebbe una fase di
liquidazione del patrimonio sociale svolta secondo le procedure ordinarie previste per lo scioglimento delle società.
È quanto ritenuto dal giudice dell’esecuzione di Reggio Emilia in un’ordi-
Giurisprudenza
197
nanza del 14 marzo 2011, emanata in una procedura esecutiva nel cui ambito è
stato analizzato il caso di una società in liquidazione che, dopo aver devoluto
tutto il suo attivo a un trust di cui era trustee il liquidatore stesso, era stata poi
precipitosamente cancellata dal Registro imprese (evento dal quale non è difficile derivare il sospetto che si trattasse di un’operazione finalizzata a frodare i
creditori).
Due i principali punti di crisi della situazione, oltre al rilievo che questo trust
si traduceva in pratica nell’elusione delle regole in tema di liquidazione delle
società: (i) le specifiche caratteristiche di questo trust evidenziavano come esso
in effetti fosse probabilmente valutabile più quale una “fuga” dai creditori piuttosto che uno strumento a loro tutela (forse anche con risvolti penalistici, come
confermato dal fatto che l’ordinanza in questione è stata trasmessa alla Procura
della Repubblica); (ii) la sostanziale coincidenza tra il disponente del trust e il
trustee, il secondo essendo con tutta probabilità un mero prestanome del primo.
Una fattispecie in cui disponente e trustee vengono sostanzialmente a coincidere è anche quella considerata dalla seconda sentenza in epigrafe (Cass., 30
marzo 2011, n. 13276), la quale ha precisato che se la costituzione del trust è un
«mero espediente per creare un diaframma tra patrimonio personale e proprietà costituita in trust», i beni dell’indagato non sono al riparo dal sequestro preventivo finalizzato alla confisca. Secondo i Supremi giudici, difatti, «presupposto per la confisca di cui all’art. 11, l. 146/2006 è che la detta misura – e, dunque, anche il sequestro preventivo ad essa direttamente funzionale – riguardi,
nella speciale ipotesi della confisca per equivalente, beni od altre utilità di cui il
reo (in questo caso l’indagato) ha la disponibilità anche per interposta persona
fisica o giuridica per un valore corrispondente al prodotto, profitto o prezzo del
reato». Nella fattispecie, il ricorrente avrebbe mantenuto la disponibilità dei
beni conferiti «in quanto egli stesso era trustee». Effetto incompatibile con
l’istituto giuridico di origine inglese che prevede come condizione «ineludibile» che «il disponente perda la disponibilità di quanto conferito al trust».
In giurisprudenza, in senso favorevole al trust liquidatorio nei termini sopra espressi
perché costituito da parenti dell’imprenditore in crisi che mettano propri beni a disposizione della procedura cfr. Trib. Parma, 3 marzo 2005, in Trusts e Attività Fiduciarie,
2005, p. 409; Quanto al trust liquidatorio istituito da un’impresa in crisi ma non ancora tecnicamente insolvente, si vedano Trib. Milano, 29 ottobre 2010, nonché Trib., 16
giugno 2009 in Corr. giur., 2010, p. 527 ss, con nota di F. GALLUZZO, Validità di un
trust liquidatorio istituito da una società in stato di decozione, nonché in Giur. comm.,
2010, p. 895, con nota di D. GALLETTI, Il trust e le procedure concorsuali, una convivenza subito difficile.
In dottrina, sul trust liquidatorio, cfr. M. LUPOI, Due parole sull’atto istitutivo di un
trust liquidatorio e sui trust nudi, in Trust e Attività Fiduciarie, 2011, p. 211 ss.; L. PANZANI, Il trust nell’esperienza giuridica italiana: il punto di vista della giurisprudenza e degli
198
2011
operatori, in Riv. giur. merito, 2010, p. 12 ss.; sulla legittimità di un trust liquidatorio cfr.
F.S. FILOCAMO, Trust, in Le insinuazione al passivo, a cura di M. Ferro, Cedam, 2010,
III, p. 1123 ss.: con riferimento alla questione del trust che risulti istituito prima del
fallimento v. E SCODITTI, Trust e fallimento, in Trust e Attività Fiduciarie, 2010, p. 472
e F. TEDIOLI, Trust con funzione liquidatorio e successivo fallimento dell’impresa, in Trust
e Attività Fiduciarie, 2010, 494.
***
APPALTO PUBBLICO
Legge regionale, limitazioni
CORTE COSTITUZIONALE, 18 febbraio 2011, n. 53
La Regione Lombardia – con l. reg. 7/2010 – dispone che, per gli appalti
c.d. sotto soglia aventi ad oggetto forniture di beni prodotti in serie e di servizi
a carattere periodico o di natura intellettuale, il collaudo e la verifica di conformità possano essere sostituiti da un attestato di regolare esecuzione rilasciato
dal dirigente della struttura destinataria della fornitura o del servizio.
Il Governo contesta la legittimità costituzionale di questa disposizione, ritenendo che essa invada la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia
di ordinamento civile (art. 117, c. 2, lett. l), Cost.), in quanto il collaudo attiene
alla fase di esecuzione del rapporto contrattuale, «nell’ambito del quale l’amministrazione agisce non come autorità, ma nell’esercizio della sua autonomia
negoziale in posizione di tendenziale parità con la controparte».
La Regione Lombardia difende la legittimità della propria legge, adducendo, tra le altre cose, che se è pur vero che la disciplina dell’esecuzione dei contratti di appalto e, nello specifico, il collaudo, rientra nell’ambito materiale dell’ordinamento civile, ciò non comporta «una presunzione assoluta di competenza statale, occorrendo comunque procedere ad un’indagine in concreto circa la sussistenza o meno di una violazione di competenze sotto tale profilo».
Infatti, negli appalti a dimensione regionale la Regione avrebbe una competenza in materia di organizzazione amministrativa; osserva inoltre che la disposizione censurata si porrebbe in linea con la disciplina statale, in quanto – nell’esercizio della sua competenza in materia di organizzazione amministrativa – la
Regione ha soltanto introdotto una facoltà per le stazioni appaltanti di prevedere forme semplificate per la verifica di conformità.
La Corte costituzionale ritiene fondata la sollevata eccezione di incostituzionalità: secondo costante giurisprudenza della stessa corte, nel settore dei
pubblici appalti le fasi dalla stipulazione all’attuazione del contratto debbono
Giurisprudenza
199
essere ascritte all’ambito materiale dell’ordinamento civile e ciò in quanto l’amministrazione si pone «in una posizione di tendenziale parità con la controparte ed agisce non nell’esercizio di poteri amministrativi, bensì nell’esercizio della
propria autonomia negoziale». Per quanto attiene al collaudo, al fine di valutare se la legge regionale impugnata invada la competenza esclusiva dello Stato in
materia di ordinamento civile, la Corte svolge un ragionamento così articolato:
muovendo dall’analisi della disciplina statuale – contenuta nel Codice dei contratti pubblici – in tema di collaudo dei lavori, dei servizi e delle forniture, rileva
che l’art. 120, c. 1, d.lgs. 163/2006 ha stabilito che «per i contratti relativi a
servizi e forniture il regolamento determina le modalità di verifica della conformità delle prestazioni eseguite a quelle pattuite con criteri semplificati per
quelli di importo inferiore alla soglia comunitaria». Il successivo c. 2 estende
tale disciplina al settore dei lavori pubblici, prevedendo che per i relativi contratti «il regolamento disciplina il collaudo con modalità ordinarie e semplificate, in conformità a quanto previsto dal presente codice».
La legge regionale – pur adottata in epoca precedente all’emanazione del
predetto regolamento con d.p.r. 207/2010 – ha previsto (art. 8, c. 1, lett. r) che
«per gli appalti di importo inferiore alle soglie comunitarie, per le forniture di
beni prodotti in serie e di servizi a carattere periodico, nonché per i servizi di
natura intellettuale, il collaudo e la verifica di conformità possano essere sostituiti da un attestato di regolare esecuzione rilasciato dal RUP ovvero dal dirigente della struttura destinataria della fornitura o del servizio».
Ad avviso della Consulta, la disposizione appena citata è costituzionalmente
illegittima per invasione dell’ambito materiale dell’ordinamento civile riservato
in via esclusiva allo Stato, «in quanto essa disciplina un settore, quello del collaudo e della verifica di regolarità dell’esecuzione dei contratti di lavori, forniture e servizi, che rientra specificamente nella suddetta competenza legislativa. E
ciò indipendentemente dalla conformità o meno della normativa regionale alla
sopravvenuta disciplina regolamentare adottata dallo Stato con il citato d.p.r.
207 del 2010».
Quand’anche, ad abundantiam, si volesse confrontare il contenuto della normativa regionale contestata con quella dettata dal regolamento governativo,
«risulta che essa è dissonante anche da quest’ultima e non per profili meramente organizzativi». All’art. 325 del regolamento, infatti, si dispone che qualora la stazione appaltante per le prestazioni contrattuali di importo inferiore
alle soglie comunitarie non ritenga necessario conferire l’incarico di verifica di
conformità, «si dà luogo ad un’attestazione di regolare esecuzione emessa dal
direttore dell’esecuzione e confermata dal responsabile del procedimento». Se
raffrontata a questa disposizione, la normativa della Regione Lombardia diverge in almeno due punti: a) rispetto alla formula adoperata dal regolamento governativo, restringe l’area delle forniture e dei servizi per i quali sono previste le
200
2011
modalità semplificate di verifica della conformità della prestazione; b) rispetto
alla previsione del rilascio dell’attestato di regolare esecuzione da parte di due
soggetti che cooperano tra loro (il direttore dell’esecuzione, che predispone l’attestato, e il responsabile del procedimento, che ne dispone la conferma), dando
luogo all’adozione di un atto complesso, la norma regionale dispone che detta
attestazione di regolare esecuzione sia rilasciata dal responsabile unico del procedimento o, in alternativa, dal dirigente della struttura destinataria della fornitura o del servizio.
Infine, la Corte esclude che la normativa regionale possa essere ascritta alla
disciplina di quei profili meramente organizzativi che possono rientrare nella
competenza legislativa regionale: ciò in quanto «perché operi detta competenza è necessario che si verta in tema di aspetti attinenti specificamente all’organizzazione interna degli apparati amministrativi e tecnici regionali, deputati a
svolgere funzioni inerenti alla stipulazione dei contratti o alla realizzazione delle opere; circostanze, queste, per certo non rinvenibili nella specie».
La conclusione è dunque obbligata: l’art. 8 della legge regionale impugnata
deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo.
Nella giurisprudenza della Corte costituzionale l’appalto pubblico – per quanto attiene
al problema della ripartizione tra Stato e Regioni delle competenze regolatorie – è stato oggetto innanzi tutto di Corte cost., 23 novembre 2007, n. 401, espressamente richiamata nella motivazione della decisione sopra sintetizzata: in essa si era ricondotta
la disciplina dei contratti pubblici alla materia dell’ordinamento civile, e, dunque, alla
competenza esclusiva dello Stato. Si legge infatti in quella decisione che «(...) sussiste,
infatti, l’esigenza, sottesa al principio costituzionale di eguaglianza, di garantire l’uniformità di trattamento, nell’intero territorio nazionale, della disciplina della fase di conclusione ed esecuzione dei contratti di appalto avente, tra l’altro – per l’attività di unificazione e semplificazione normativa svolta dal legislatore – valenza sistematica». La
collocazione di queste disposizioni fuori dal codice civile non rileva ad escludere la natura privatistica delle norme in quanto «(...) è agevole osservare che l’ambito materiale in esame ricomprende tutti gli aspetti che ineriscono a rapporti di natura privatistica, in relazione ai quali sussistono le esigenze sopra indicate, senza che detti rapporti
debbano rinvenire la loro disciplina necessariamente sul piano codicistico. In altri
termini, la sussistenza di aspetti di specialità, rispetto a quanto previsto dal codice civile, nella disciplina della fase di stipulazione e esecuzione dei contratti di appalto, non è
di ostacolo al riconoscimento della legittimazione statale di cui all’art. 117, c. 2, lett. l),
Cost.». Nel disciplinare i lavori pubblici di interesse regionale, le Regioni, anche a statuto speciale, sono tenute al rispetto delle regole della concorrenza, che l’art. 117, c. 2,
lett. e) riserva alla competenza esclusiva statuale: in tal senso, recentemente, Corte
cost., 7 dicembre 2011, n. 328 e Corte cost., 7 aprile 2011, n. 114.
In dottrina sul rapporto tra diritto privato e disciplina dei contratti pubblici (per
quanto attiene ai profili di una possibile competenza legislativa regionale) può essere
richiamato A.M. BENEDETTI, Il diritto privato delle Regioni, Il Mulino, 2008, in partic.
Giurisprudenza
201
pp. 250-254; sui profili pubblicistici e privatistici dell’appalto basta vedere G. ALPA-G.
CONTE-V. DI GREGORIO-A. FUSARO-U. PERFETTI (a cura di), La disciplina dell’appalto
tra pubblico e privato, Esi, 2010 e C. FRANCHINI, I contratti di appalto pubblico, in Tratt.
Rescigno-Gabrielli, 14, Utet, 2010.
***
APPALTO PUBBLICO
Gravi difetti nell’opera appaltata, risarcimento dei danni, giurisdizione del G.O.
CORTE DI CASSAZIONE, sez. un., 9 febbraio 2011, n. 3165
Con la sentenza in epigrafe, le sezioni unite della Corte di Cassazione si
pronunciano sul tema del riparto di giurisdizione tra Giudice Contabile (Corte
dei Conti) e Giudice Ordinario, in ipotesi di azioni di responsabilità per danni
cagionati alla P.A. dal progettista di un’opera pubblica.
Nel caso di specie, un Comune, dopo aver appaltato la progettazione e l’esecuzione di alcuni lavori per la costruzione di un mercato ortofrutticolo all’ingrosso, cita in giudizio, dinanzi al Giudice Ordinario, sia la società appaltatrice,
sia l’architetto progettista, chiedendo la condanna degli stessi al risarcimento
dei danni per non aver potuto utilizzare l’immobile de quo a causa dei gravi difetti di progettazione e di esecuzione dell’opera. Il progettista, dal canto suo,
ritenendo che la cognizione della controversia appartenga alla Corte dei Conti
ai sensi dell’art. 52, r.d. 1214/1934 e successive modifiche, eccepisce il difetto
di giurisdizione del giudice ordinario, sul rilievo che si verte in tema di responsabilità patrimoniale per danno erariale ascritta a professionisti in rapporto di
servizio con l’ente pubblico appaltante nella rivestita qualità di progettista e direttore dei lavori. Conseguentemente, la questione approda dinanzi alle sezioni
unite della Corte di Cassazione.
Queste ultime, con la sentenza in commento, precisano, in primo luogo, che
l’invocato art. 52, r.d. 1214/1934 (applicabile agli amministratori ed al personale degli enti locali, in forza dell’art. 58, l. 142/1990) assolve la funzione di individuare quali sono i soggetti tutelati dall’istituzione della responsabilità amministrativa, ovvero soltanto lo Stato ed ogni altro ente pubblico. Come osservato dal supremo collegio in molte pronunce, la citata norma manifesta l’intendimento di non limitare la categoria dei “responsabili” ai soli soggetti che hanno instaurato con l’ente un rapporto di impiego. Sulla base di tale presupposto,
le sezioni unite chiariscono che, per individuare l’ambito di estensione della
giurisdizione della Corte dei Conti con riferimento alla posizione dell’autore
responsabile del danno erariale, occorre avvalersi del c.d. criterio dell’apparte-
202
2011
nenza, ovvero dell’essere il soggetto parte integrante e costitutiva dell’amministrazione, soprattutto in virtù di un rapporto organico o di pubblico impiego.
Da questo principio – osserva la Corte di Cassazione – dottrina e giurisprudenza hanno enucleato la nozione di rapporto di mero servizio, il quale si configura
tutte le volte in cui il soggetto, persona fisica o giuridica, benché estraneo all’amministrazione, venga da essa investito, anche solo di fatto, dello svolgimento in modo continuativo di una determinata attività in suo favore: in tale ultima
ipotesi, infatti, il soggetto si inserisce nell’organizzazione della P.A., assumendo
particolari vincoli ed obblighi, funzionali ad assicurare il perseguimento degli
interessi pubblici cui l’attività medesima è preordinata. Queste considerazioni
conducono ad includere il direttore dei lavori per la realizzazione di un’opera
pubblica appaltata da un’amministrazione comunale nella categoria di coloro
che si incardinano nell’amministrazione per un rapporto di semplice servizio.
Tale conclusione è il risultato della valutazione dei compiti che la P.A. conferisce a questo soggetto il quale, per espletare le funzioni devolutegli, esercita poteri autoritativi nei confronti dell’appaltatore, assumendo la veste di agente, in
quanto funzionalmente inserito nell’apparato organizzativo dell’amministrazione come organo tecnico e straordinario della stessa.
Calando nel caso di specie i principi ora esposti, la suprema corte osserva
quanto segue. Il Comune, pur avendo riferito degli errori commessi dall’architetto durante la direzione dei lavori, ha escluso espressamente di richiedere
l’accertamento della responsabilità del professionista in tale veste. L’ente, infatti, riservandosi di sollecitare la Corte dei Conti per il recupero di tutti i danni
arrecati all’erario, si è limitato a dichiarare di aver agito in giudizio solo nei confronti della società appaltatrice e dell’architetto, quale tecnico incaricato dal
Comune per la progettazione dell’opera. Sulla base di tali presupposti, le sezioni unite non possono che giungere ad un’unica soluzione, ovvero che il vincolo
che lega il progettista all’amministrazione deve essere collocato nell’alveo del
contratto d’opera di cui all’art. 2222 c.c. e che i principi disciplinanti la sua attività sono quelli stabiliti dall’art. 1176 c.c.: la progettazione di opera pubblica,
infatti, se affidata ad un libero professionista, non comporta l’instaurarsi di una
relazione funzionale con l’ente pubblico, poiché essa non viene espletata mediante l’esercizio di poteri propri della P.A., diversamente da quanto accade per
l’opera del direttore dei lavori, ove viene in rilievo anche l’imputabilità in via
diretta ed immediata all’amministrazione dell’attività esercitata dal soggetto, il
quale assume la rappresentanza del committente. In tale ottica, l’opera del progettista può assumere rilevanza pubblica solo in forza dell’approvazione del
progetto da parte dell’ente appaltante, ovvero quando tale attività è stata già
compiuta, escludendo anche sotto questo profilo qualsivoglia possibilità di un
inserimento del professionista privato nell’apparato organizzativo e/o nell’iter
procedimentale della P.A.
Giurisprudenza
203
Sulla scorta di tali osservazioni, la Corte enuncia il principio di diritto in forza del quale, con riferimento alla responsabilità per danni cagionati all’amministrazione dal progettista nell’esecuzione dell’incarico affidatogli, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario, e non quella della Corte dei conti.
La sentenza è pubblicata in Giust. civ., 2011, IV, p. 881, nonché in Urb. app., 2011, p.
796, con nota di O.M. CAPUTO, Regime della responsabilità del progettista esterno.
In giurisprudenza si segnalano quali precedenti conformi alla decisione in commento: Cass., sez. un., 3 luglio 2009, n. 15599; Cass., sez. un., 9 settembre 2008, n. 22652;
Cass., sez. un., 20 novembre 2007, n. 24002; Cass., sez. un., 20 ottobre 2006, n. 22513,
in Foro it., 2007, I, c. 2483, con nota di G. D’AURIA, Responsabilità amministrativa per
attività di natura discrezionale e per la gestione di società pubbliche: a proposito di alcune
sentenze delle sezioni unite; Cass., sez. un., 23 marzo 2004, n. 5781, in Dir. giust., 2004,
XXXI, p. 103, con nota di P. BRIGUORI, Quello del progettista non è un rapporto di servizio; Cass., sez. un., 13 gennaio 2003, n. 340, in Nuova giur. civ. comm., 2003, p. 724,
con nota di F. CORTESE, Appalto di opere pubbliche e questioni di giurisdizione.
In dottrina, oltre agli autori dei commenti citati supra, hanno esaminato la questione
affrontata dalla sentenza: R. GIANI, Il regime giuridico della responsabilità civile della stazione appaltante: culpa e quantum, in Urb. app., 2009, p. 1460; V. NOBILI, Lo statuto del
progettista: delimitazione dell’oggetto dell’obbligazione, solidarietà con l’appaltatore e natura giuridica della responsabilità, in Nuova giur. civ. comm., 2006, I, p. 1282; F. TOSCHI
VESPASIANI-F. TADDEI, Il contratto d’appalto e la responsabilità del progettista-direttore
dei lavori per i vizi e le difformità dell’opera, in Contr., 2006, p. 349.
***
APPALTO PUBBLICO
Accordi derogatori dei termini di pagamento
CONSIGLIO DI STATO, sez. V, 21 marzo 2011, n. 1728
Con la decisione in epigrafe il Consiglio di Stato si sofferma sul tema dei
termini di pagamento nei contratti pubblici (nel caso di specie un appalto), in
relazione ai vincoli ed alle prescrizioni contenuti in specifiche disposizioni legislative e regolamentari.
La decisione in esame si segnala sotto un duplice profilo: da una parte, per
aver ribadito una linea interpretativa, già affermata da una giurisprudenza precedente (Consiglio di Stato, 2 febbraio 2010, n. 469, in AdC 2010, p. 222), secondo la quale in sede di stipulazione del contratto non sono ammessi accordi
sui termini di pagamento derogatori rispetto a quanto previsto dalla normativa
di riferimento contenuta nella direttiva comunitaria 2000/35/CE recepita con
d.lgs. 231/2002; dall’altra, per aver ammesso la possibilità che termini diversi
204
2011
vengano inseriti nel bando di gara, purché siano in esso esplicitati al fine di poterne verificare la legittimità e consentirne l’immediata impugnazione. In tal
senso, si tratta di una parziale, ma importante, inversione di tendenza rispetto
alla citata sentenza n. 469, con la quale i giudici di Palazzo Spada avevano bocciato tout court la possibilità di deroga ai termini previsti dal d.lgs. 231/2002.
Il caso della sentenza prende le mosse dall’inserimento da parte della P.A., nel
capitolato generale ed in quello speciale di un appalto, di alcune clausole con le
quali si rinviava al momento della stipulazione del contratto la fissazione di termini e condizioni di pagamento. Si ammetteva così una disciplina derogatoria
rispetto a quella prevista dalla citata normativa di recepimento, il quale indica un
termine di pagamento che opera nella misura in cui non vi siano diversi accordi
tra le parti [30 giorni dalla data di ricevimento della relativa fattura, ovvero dalla
data di ricevimento delle merci o di prestazione dei servizi quando non è certa la
data di ricevimento della fattura o quando il ricevimento di quest’ultima avviene
anteriormente alla ricezione delle merci o alla prestazione dei servizi]. Peraltro, la
validità degli accordi “in deroga” non è incondizionata: il d.lgs. 231/2002, infatti,
dispone che essi non devono risultare gravemente iniqui a danno del creditore,
tenuto conto della corretta prassi commerciale, della natura della merce o dei
servizi oggetto del contratto, della condizione dei contraenti e dei rapporti commerciali tra i medesimi. Nel caso in cui l’accordo non rispetti tali requisiti e risulti
iniquo, la sanzione prevista dal citato decreto è la nullità.
Accade che alcune associazioni di categoria, assumendo violato il principio
ora espresso, impugnano dinanzi al TAR le clausole del capitolato d’appalto a
cui si è fatto riferimento. Il giudice amministrativo di primo grado accoglie parzialmente il ricorso, ritenendo che queste ultime siano da considerarsi inique
nella misura in cui non prevedono che, in mancanza di accordo derogatorio da
raggiungere in sede di stipulazione del contratto, si devono applicare comunque i termini previsti dalla legge. La linea seguita dal TAR, quindi, è nel senso
di ritenere possibile che in sede di gara si prevedano termini di pagamento differenti da quelli indicati nella normativa di riferimento, purché la loro effettiva
applicazione sia subordinata ad un successivo accordo derogatorio da concludere ad opera delle parti all’atto dell’instaurazione del relativo rapporto contrattuale. Il giudice di prime cure, inoltre, sul presupposto che i contraenti, in
base alle previsioni contenute nel d.lgs. 231/2002, potrebbero addivenire ad un
accordo derogatorio, ritiene che l’amministrazione possa invitare i concorrenti a
formulare un’offerta anche in relazione ai termini ed alle modalità di pagamento:
tale facoltà, infatti, a dire del TAR, non avrebbe potuto subire limitazioni per la
semplice circostanza che uno dei due soggetti contraenti sia una P.A.
La vicenda approda dinanzi al Consiglio di Stato, il quale riforma parzialmente la sentenza di primo grado. Nello specifico, i giudici di Palazzo Spada affermano che le circostanze che inducono l’amministrazione ad optare per l’ac-
Giurisprudenza
205
cordo derogatorio e i contenuti di quest’ultimo devono essere resi noti già in sede di bando, in modo che sia consentito verificarne la legittimità già in questa fase per consentire l’immediata impugnabilità del provvedimento amministrativo.
Conseguentemente, a dire del Consiglio di Stato, posticipare il perfezionamento
dell’accordo derogatorio al momento della stipulazione del contratto significherebbe entrare in contrasto con lo spirito della legge. Del resto, osserva il giudice
amministrativo, una illegittimità di siffatto tenore non potrebbe considerarsi sanata per il solo fatto di prevedere che, in mancanza del raggiungimento di tale accordo derogatorio, si applicherebbero comunque i termini di pagamento previsti
dalla norma imperativa contenuta nel d.lgs. 231/2002.
Come accennato sopra, la posizione assunta dal Consiglio di Stato nella sentenza in commento non è perfettamente coincidente con quella espressa nella
pronuncia del 2 febbraio 2010, n. 469 e, sotto tale profilo, si segnala come innovativa. Nella decisione da ultimo citata, infatti, i giudici di Palazzo Spada
avevano sostenuto che la P.A. non può imporre alle imprese condizioni contrastanti con quanto disposto dal decreto legislativo di recepimento della direttiva
comunitaria: infatti, a parte il valore di supremazia di quest’ultima disciplina,
oltre che della normativa nazionale, varrebbe il principio secondo cui il contratto vincola le parti non solo a quanto in esso previsto, ma anche al rispetto delle
regole imperative ed a tutto ciò che deriva dalla legge, dagli usi o dall’equità, conformemente alle disposizioni contenute negli artt. 1339, 1418, 1419 e 1374 c.c.
Come si può ben vedere, mentre con la pronuncia del 2 febbraio 2010, n.
469 il Consiglio di Stato aveva nella sostanza bocciato la pattuizione di condizioni di pagamento diverse da quelle previste ex lege, con la decisione in commento esso ammette astrattamente tale possibilità, con l’unico vincolo che sia
esplicitamente dichiarata in sede di gara nei suoi termini effettivi.
In giurisprudenza si segnalano alcune pronunce che hanno nella sostanza anticipato
il principio di diritto affermato dal Consiglio di Stato nella sentenza in esame. In tal senso, ex plurimis, cfr.: Cons. Stato, 28 settembre 2007, n. 4996; TAR Liguria, 25 giugno
2007, n. 1227; TAR Abruzzo, 4 marzo 2006, n. 152; Cons. Stato, 11 gennaio 2006, n.
152. Si segnala che tale giurisprudenza ha pienamente superato un orientamento meno recente che ammetteva che deroghe rispetto alla disciplina dettata dall’art. 4 d.lgs.
231/2002 potessero essere introdotte legittimamente da disposizioni legislative regionali o da accordi collettivi. Per questa giurisprudenza meno recente cfr.: TAR Lazio, 12 febbraio 2004, nn. 1379, 1378 e 1362.
In dottrina, sulle problematiche affrontate nella sentenza in epigrafe, si segnalano: R.
MANGANI, Termini di pagamento derogabili con il bando di gara ma non con il contratto,
in Guida dir., 2011, XVII, p. 2 ss.; A. PERRONE, L’accordo «gravemente iniquo» nella
nuova disciplina sul ritardato adempimento delle obbligazioni pecuniarie, in Banca borsa
tit. cred., 2004, I, p. 65 ss.; S. BASTIANON, Direttive comunitarie e tutela del creditore in
caso del ritardato pagamento nelle transazioni commerciali: prime osservazioni a proposito
del d.lgs. 231/02, in Dir. Unione europea, 2003, p. 395.
206
2011
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CONTRATTI PUBBLICI
Accordi transattivi tra P.A. e privati, giurisdizione esclusiva del G.A.
CORTE DI CASSAZIONE, sez. un., 3 febbraio 2011, n. 2546
Con la sentenza in epigrafe le sezioni unite della Corte di Cassazione, ribadendo un orientamento già espresso in altre pronunce, riconoscono la sussistenza della giurisdizione del Giudice Amministrativo in materia di accordi
transattivi stipulati tra privati e P.A., ritenendoli riconducibili alla tipologia degli accordi sostitutivi del provvedimento disciplinati dall’art. 11, l. 241/1990.
Il caso prende le mosse dal mancato rispetto da parte di un Comune di un
accordo di transazione stipulato nel 1989 con alcune imprese e volto a definire
un contenzioso instauratosi a seguito dell’adozione ad opera dell’ente di alcuni
provvedimenti finalizzati alla localizzazione di interventi pubblici ed all’espropriazione di suoli di proprietà delle imprese stesse. Con il citato accordo i privati rinunciano alla prosecuzione del giudizio, accettando di trasferire i terreni
di loro proprietà al Comune, il quale a sua volta si obbliga ad approvare due lottizzazioni. Peraltro, a seguito del mancato adempimento da parte dell’ente dell’accordo ora menzionato, nel 1996 le imprese si vedono costrette a citarlo in
giudizio dinanzi al giudice ordinario, ottenendone la condanna al pagamento in
loro favore di un indennizzo ex art. 2041 c.c. Dal canto suo, il Comune propone
gravame, eccependo la carenza di giurisdizione del giudice adito. La corte di
appello accoglie tale eccezione pregiudiziale sul presupposto che l’oggetto della
controversia riguardi l’esecuzione di un accordo intercorso tra il privato e la P.A.
al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale, osservazione questa che, a dire del giudice di seconde cure, consente di ricondurre la controversia nell’alveo della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 11, c. 5, l. 241/1990. Conseguentemente le imprese private propongono ricorso dinanzi alla suprema corte. La tesi da esse sostenuta si
fonda essenzialmente su due argomentazioni: da un lato, quella secondo cui
nella controversia in oggetto non potrebbe trovare applicazione la disciplina relativa alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo contenuta nell’art.
34, d.lgs. 80/1998, in quanto l’azione è stata presentata nel 1996, ovvero in data anteriore all’entrata in vigore del citato decreto; dall’altro, quella secondo cui
l’oggetto del giudizio attiene ad una transazione e non ad un accordo intervenuto nell’ambito di un procedimento amministrativo.
Le sezioni unite, con la sentenza in commento, rigettano il ricorso promosso
dalle imprese, confermando così la decisione della corte di appello. In via preliminare, esse osservano che l’art. 11, c. 5, l. 241/1990 – che devolve al giudice
Giurisprudenza
207
amministrativo le controversie relative alla formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi sostitutivi del provvedimento conclusi dalla P.A. con gli interessati – è applicabile, in quanto norma sulla giurisdizione, anche agli accordi stipulati anteriormente alla sua entrata in vigore. L’art. 34, d.lgs. 80/1998, come ricorda in motivazione lo stesso giudice di legittimità, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, per eccesso di delega legislativa ex art. 76 Cost., con la sentenza 28 luglio 2004, n. 281 e la riproduzione della disposizione in una legge ordinaria (art. 7, l. 205/2000), in assenza di previsione di retroattività della norma,
non ne consente l’applicabilità alle fattispecie esauritesi nel vigore dell’originaria
formulazione del citato art. 34, in quanto per il periodo decorrente dal 1998 al
2000 la copertura della norma non può operare. Viceversa, la giurisdizione esclusiva tracciata dall’art. 11, l. 241/1990, in tema di accordi procedimentali e sostitutivi, coprirebbe anche le convenzioni stipulate prima del varo della norma sul
procedimento, qualora le relative controversie siano state azionate successivamente alla sua entrata in vigore. In tal senso, come osservato dai giudici delle sezioni unite, la disposizione del citato art. 11 non esaurisce i suoi effetti sul piano
sostanziale, ma contribuisce alla definizione della giurisdizione.
Sgomberato il campo da tale questione, la suprema corte effettua un passo
successivo. Il richiamo alla giurisdizione esclusiva ex art. 11, l. 241/1990, in materia di convenzioni di lottizzazione, infatti, consente ai giudici di legittimità di
ampliare la giurisdizione del G.A. anche alle ipotesi di accordi di diversa natura,
aventi, comunque, valenza endoprocedimentale, ovvero idonei ad interagire nell’ambito del procedimento amministrativo, funzionale all’approvazione degli
strumenti urbanistici attuativi e ad integrare o sostituire il provvedimento finale. In tale ottica, a dire del supremo collegio, nella giurisdizione esclusiva del
G.A. finirebbero per insinuarsi, se inseriti nell’ambito dell’approvazione – anche mancata – di un piano di lottizzazione, gli accordi transattivi. Sulla base di
queste premesse, le sezioni unite enunciano il principio di diritto in forza del
quale, in punto di giurisdizione, la riconducibilità delle convenzioni di lottizzazione agli accordi di cui all’art. 11, l. 241/1990 fa sì che, ai sensi del c. 5, ogni
controversia relativa alla formazione, conclusione ed esecuzione delle convenzioni rientri nella giurisdizione esclusiva del G.A., conclusione questa che, secondo il supremo collegio, verrebbe confermata anche nell’ipotesi in cui la P.A.
ed il privato stipulino, a seguito dell’instaurazione di un contenzioso, un accordo transattivo inserito all’interno di un procedimento amministrativo.
La sentenza è pubblicata in Urb. app., 2011, p. 663, con nota di G. D’ANGELO, Accordi
transattivi e giurisdizione esclusiva amministrativa.
In giurisprudenza si segnalano numerose pronunce che hanno anticipato l’orientamento espresso nella sentenza in commento. In tal senso, ex plurimis, cfr.: Cass., sez.
un., (ord.) 17 aprile 2009, n. 9151, in Urb. app., 2009, p. 1185, con nota di G. MISSE-
208
2011
RINI,
Accordo sostitutivo del provvedimento, transazione e giurisdizione esclusiva del g.a.;
Cass., sez. un., (ord.) 8 febbraio 2008, n. 3002, in Urb. app., 2008, p. 449; Cass., sez.
un., 20 novembre 2007; Cass., sez. un., ord. 17 gennaio 2005, n. 732.
In dottrina la questione in esame è stata analizzata in particolare da: N. BASSI, Gli accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento, in Codice dell’azione amministrativa, a
cura di M.A. Sandulli, Giuffrè, 2011, p. 565.
***
CONTRATTI PUBBLICI
Accordo di programma, disciplina applicabile, interpretazione
CONSIGLIO DI STATO, sez. V, 19 ottobre 2011, n. 5627
Nella sentenza in epigrafe, il Consiglio di Stato affronta il tema della disciplina governante i c.d. accordi di programma, conclusi tra amministrazioni al
fine di regolamentare la gestione di determinati servizi. Nello specifico, la questione riguarda l’applicabilità agli accordi in questione delle norme relative ai
«contratti in generale» e, segnatamente, quelle riguardanti l’«interpretazione
del contratto» (art. 1362 e ss. c.c.).
Nella fattispecie, il dissenso si manifesta intorno alla portata interpretativa
della clausola di un accordo di programma (concernente il trasporto pubblico
locale) in base alla quale «il Comune, a fronte degli impegni presi dalla Provincia [...], si impegna a trasferire» alla Provincia «le risorse necessarie
all’espletamento del servizio di trasporto pubblico urbano che completi il livello dei servizi minimi essenziali, per un importo annuo» determinato. In seguito
ad una verifica, promossa dal Comune, emerge una sensibile inferiorità dei servizi prestati dalla Provincia rispetto agli impegni da essa assunti nella clausola.
Tali evidenze spingono quindi il Comune a negare la corresponsione alla Provincia dell’integrale importo annuo fissato nell’accordo stesso.
Quest’ultima adisce pertanto il TAR, sostenendo che il quantum indicato
dalla clausola sia indicativo di una somma “forfettaria” che l’ente locale è tenuto a corrispondere in ogni caso. Il Comune, al contrario, afferma che la somma
indicata nell’accordo individua solo l’importo massimo, suscettibile di defalcazione, erogabile a favore della Provincia in ragione dei servizi effettivamente resi.
In primo grado il giudice accoglie il ricorso promosso dalla Provincia, statuendo che «il contributo comunale previsto dall’Accordo di Programma fosse
fisso e invariabile e che, quindi, non potesse essere rimodulato dal Comune».
La sentenza di primo grado viene riformata dal Consiglio di Stato.
Secondo il collegio, la clausola impugnata va letta alla luce dei criteri inter-
Giurisprudenza
209
pretativi dettati dagli artt. 1362 e ss. c.c., sulla base dei quali emerge un «rapporto di sinallagmaticità» tra il trasferimento delle risorse da parte del Comune ed il complesso dei servizi che la Provincia è tenuta a rendere. In altri termini, l’importo indicato nella clausola costituisce il limite massimo delle risorse
che il Comune si impegna a trasferire alla Provincia a titolo di corrispettivo per
l’esatto ed integrale adempimento di tutti gli impegni assunti da quest’ultima in
seguito alla stipulazione.
Una diversa interpretazione della clausola non solo si porrebbe in contrasto
con il significato letterale della locuzione usata nello stesso accordo – laddove
si fa riferimento alle «risorse necessarie all’espletamento del servizio di trasporto pubblico urbano che completi il livello dei servizi minimi essenziali» – ma
determinerebbe anche un trasferimento di risorse senza causa nel caso in cui
non venisse raggiunto il livello dei servizi minimi.
In definitiva, a giudizio del Consiglio di Stato, l’accordo di programma «è
un contratto a titolo oneroso, commutativo», a cui vanno applicati, in quanto
compatibili, i principi civilistici previsti in materia di obbligazioni e contratti,
sicché si procederà all’interpretazione delle relative clausole utilizzando i criteri
ermeneutici di cui agli artt. 1362 e ss. c.c.
In giurisprudenza, non si rinvengono precedenti esattamente in termini. In relazione
all’applicazione dei criteri ermeneutici previsti a partire dall’art. 1362 c.c. ai contratti in
cui sia parte la P.A. si veda Cass., 9 maggio 2003, n. 7073, in Giust. civ., 2004, p. 2387
ss., con nota di F. GRITTI, L’interpretazione dei contratti della pubblica amministrazione.
In termini generali, il richiamo ai principi civilistici nella determinazione degli obblighi
assunti dalle diverse amministrazioni nell’ambito degli accordi di programma si riscontra, ad es., in Cons. Stato, 27 marzo 2008, n. 1259, in Riv. giur. edil., 2008, p. 1072
ss.; in Cons. Stato, 18 marzo 2003, n. 1422, in Foro amm., 2003, p. 1097 ss.
In dottrina, sul tema relativo al rapporto tra la disciplina giuridica privatistica e
l’attività amministrativa si veda, ad es., il recente contributo di A. MALTONI, Considerazioni in tema di attività procedimentali a regime privatistico delle amministrazioni pubbliche, in Dir. amm., 2011, p. 97 ss. Con particolare riferimento al rapporto tra norme
civilistiche in materia di contratto e regolamentazione degli accordi di programma si
vedano, tra gli altri, M. RENNA, Il regime delle obbligazioni nascenti dall’accordo amministrativo, in Dir. amm., 2010, p. 27 ss.; S. VALAGUZZA, L’accordo di programma: peculiarità del modello impiego dei principi del codice civile e applicazione del metodo tipologico,
in Dir. amm., 2010, p. 395 ss; G. GRECO, Accordi amministrativi tra provvedimento e
contratto, Giappichelli, 2003, p. 150 ss.; G. MANFREDI, Accordi e azione amministrativa,
Giappichelli, 2001, p. 106 ss. Sul tema più generale relativo ai criteri di interpretazione
del contratto si veda, in particolare, V. ROPPO, Il contratto, in Tratt. Iudica-Zatti, Giuffrè, 2011, p. 439 ss.
III. CONTRATTI DEL CONSUMATORE
PRATICHE COMMERCIALI SCORRETTE
Invito all’acquisto, pratica ingannevole
CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, 12 maggio 2011, (causa C-122/10) –
Konsumentombudsmannen c. Ving Sverige AB
Con la pronuncia che si segnala, la CGUE offre alcune delucidazioni sulla
nozione di «invito all’acquisto» ovvero sulle caratteristiche che la comunicazione commerciale indicante le caratteristiche e il prezzo del prodotto deve avere
al fine di consentire al consumatore di effettuare un acquisto consapevole ai
sensi della direttiva 2005/29/CE in materia di pratiche commerciali.
Nel caso di specie, un ente di tutela dei consumatori proponeva ricorso contro un’agenzia di viaggi in quanto quest’ultima aveva pubblicato in un quotidiano
svedese la seguente comunicazione commerciale: «New York a partire da 7.820
corone. Voli a partire da Arlanda con la British Airways e due notti all’albergo
Bedford – Prezzo per persona, in camera doppia, tasse aeroportuali comprese.
Notte supplementare a partire da 1.320 corone. Viaggi per date comprese tra settembre e dicembre. Numero di posti limitato. Vingflex.se Tel. 0771-995995».
Lamentando che le indicazioni relative al prezzo fossero insufficienti o assenti, l’ente chiedeva al giudice di primo grado di ingiungere al professionista di
indicare un prezzo fisso, di vietare l’utilizzo di un prezzo di partenza, e di specificare con maggiore chiarezza il modo in cui il prezzo sarebbe variato in base
alle opzioni offerte al consumatore.
Il giudice adito proponeva quindi rinvio pregiudiziale alla CGUE proponendo ben sette questioni relative alla corretta interpretazione della direttiva
2005/29/CE.
Confermato che sussiste un «invito all’acquisto» quando le informazioni sul
prodotto commercializzato e sul relativo prezzo «sono sufficienti per consentire
al consumatore di prendere una decisione di natura commerciale, senza che sia
necessario che la comunicazione commerciale comporti anche un mezzo concreto di acquistare il prodotto oppure che avvenga in prossimità o in occasione di un
tale mezzo», i giudici del Lussemburgo hanno al riguardo affermato: (i) che
l’indicazione di un prezzo «a partire da» non integra di per sé una pratica commerciale ingannevole di natura omissiva quando il prodotto è disponibile anche
in altre varianti o con un contenuto diverso, spettando al giudice del rinvio verificare «a seconda della natura e delle caratteristiche del prodotto nonché del supporto utilizzato per la comunicazione commerciale, se la menzione di un prezzo
di partenza consenta al consumatore di prendere una decisione di natura commerciale»; (ii) che per verificare la correttezza della comunicazione (art. 2, lett.
Giurisprudenza
211
i) deve essere preso in considerazione il supporto della comunicazione commerciale, «non potendosi richiedere lo stesso grado di precisione nella descrizione di
un prodotto a prescindere dalla forma – radiofonica, televisiva, elettronica o cartacea – rivestita dalla comunicazione commerciale»; (iii) che non contrasta con
il diritto dell’Unione europea l’indicazione nell’«invito all’acquisto» delle sole
caratteristiche principali del prodotto «se il professionista rimanda per il resto al
proprio sito Internet, a condizione che tale sito fornisca le informazioni rilevanti
relative alle caratteristiche principali del prodotto, al prezzo e alle altre condizioni, come richiesto dall’art. 7 di tale direttiva».
Nella recente giurisprudenza comunitaria, sull’armonizzazione in tema di pratiche
commerciali sleali, cfr. CGUE, grande sezione, 9 novembre 2010, (causa C-540/08),
Mediaprint Zeitungs; CGUE, 14 gennaio 2010, (causa C-304/08), Zentrale zur Bekämpfung unlauteren Wettbewerbs eV, in AdC 2010, p. 182; CGCE, 23 aprile 2009, (cause C261/07 e C-299/07), Total Belgium, in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, p. 1059 ss., con
nota di G. DE CRISTOFARO, La direttiva n. 05/29/CE e l’armonizzazione completa delle
legislazioni nazionali in materia di pratiche commerciali sleali. Per una rassegna sulla più
recente giurisprudenza amministrativa in tema di pratiche commerciali scorrette cfr.
alcuni provvedimenti del TAR Lazio in AdC 2009, pp. 279-284, nonché M. LIBERTINI,
Le prime pronunce dei giudici amministrativi in materia di pratiche commerciali scorrette,
in Giur. comm., 2009, II, p. 880 ss.
In dottrina, cfr. N. ZORZI, Il controllo dell’autorità garante della concorrenza e del mercato sulle pratiche commerciali ingannevoli ed aggressive a danno dei consumatori, in Contr.
impr., 2010, p. 671; C. LAMBERTI, Il giudice amministrativo interviene sulla pubblicità
ingannevole di prestazioni professionali, in Corr. merito, 2010, p. 673; N. ZORZI, Le pratiche scorrette a danno dei consumatori negli orientamenti dell’autorità garante della concorrenza e del mercato, in Contr. impr., 2010, p. 433; S. DELLE MONACHE, Pratiche commerciali scorrette, obblighi di informazione, dolo contrattuale, in AdC 2009, p. 104; G.M.
RICCIO, La pubblicità e le altre comunicazioni commerciali, in Tratt. Bessone. La tutela
del consumatore, a cura di P. Stanzione e A. Musio, XXX, Utet, 2009, p. 99 ss.; V. D’ANTONIO-G. SCIANCALEPORE, Le pratiche commerciali, ivi, p. 133 ss.; C. TENELLA SILLANI,
Pratiche commerciali sleali e tutela del consumatore, in Obbl. contr., 2009, p. 775 ss.; A. PERA, La direttiva sulle pratiche commerciali sleali tra tutela del consumatore e disciplina della
concorrenza, in Riv. dir. civ., 2008, I, p. 485 ss.; C. PIAZZA, Dalla pubblicità ingannevole alle
pratiche commerciali sleali. Tutela amministrativa e giurisdizionale, in Dir. inf., 2008, p. 1
ss.; R. BIANCHI, Danno da pubblicità ingannevole e consumatori: in Cassazione un’apertura
condizionata, in Resp. civ. prev., 2008, p. 605 ss.; S. CICCARELLI, La tutela del consumatore
nei confronti della pubblicità ingannevole e delle pratiche commerciali scorrette ex d.lgs. n. 146
del 2007, in Giur. mer., 2008, p. 1820 ss.; E. MINERVINI-L. ROSSI CARLEO, Le pratiche
commerciali sleali: direttiva comunitaria ed ordinamento italiano, Giuffrè, 2007.
***
212
2011
VENDITA DI BENI DI CONSUMO
Difetto di conformità del bene venduto, impossibilità di riparare il bene, obbligo del venditore di provvedere alla rimozione del bene dalla residenza del consumatore e alla installazione del prodotto sostitutivo, limiti
CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, 16 giugno 2011 (cause C-65/09 e C87/09), Gebr. Weber GmbH c. Jürgen Wittmer
Con la sentenza qui sintetizzata, la Corte di Giustizia definisce il regime delle garanzie nella vendita dei beni di consumo in relazione all’ipotesi in cui il bene difettoso non possa essere riparato, ma solo sostituito. Si tratta di valutare,
in primo luogo, se – qualora il bene sia stato installato nella residenza o nel domicilio del consumatore – il venditore debba provvedere a rimuovere il bene
difettoso e ad installare il prodotto sostitutivo o sostenere le relative spese; secondariamente, se il venditore possa liberarsi da tale obbligazione deducendo
che il costo della rimozione del bene difettoso e dell’installazione del prodotto
sostitutivo è eccessivamente oneroso rispetto al valore del bene privo di difetti;
in terzo luogo, se i diritti nazionali possano limitare l’onere finanziario relativo
alla rimozione e alla nuova installazione del bene posto a carico del venditore,
sicché il consumatore venga a sostenere parte delle relative spese.
La Corte di Giustizia si pronuncia sui rinvii pregiudiziali di due giudici tedeschi, che vengono considerati congiuntamente in considerazione dell’identità
delle questioni sollevate. In una prima fattispecie, un consumatore acquista un
certo numero di mattonelle che intende collocare a sue spese sul pavimento di
un locale della propria abitazione. Quando circa due terzi delle mattonelle acquistate sono state poste sul pavimento, emerge un difetto: le mattonelle presentano ombrature – visibili ad occhio nudo – dipendenti da piccole tracce di raschiatura. Siccome tali imperfezioni non possono essere cancellate, l’unica soluzione praticabile è la sostituzione del prodotto: senonché, le sole spese di rimozione delle mattonelle (2100 euro) sono molto superiori al valore delle stesse
prive di vizi (1200 euro). Nella seconda controversia, un consumatore acquista
una lavatrice che ai termini del contratto gli viene consegnata davanti alla porta
di casa: dopo che ha provveduto a sue spese all’installazione dell’elettrodomestico, si evidenzia un difetto di funzionamento che non può essere riparato.
In entrambi i casi il venditore acconsente alla sostituzione del bene, ma rifiuta tanto di provvedere alla rimozione dello stesso e all’installazione del prodotto sostitutivo, quanto di sostenere le relative spese. I giudici tedeschi competenti a decidere sulle due controversie, dunque, rimettono alla Corte di Giustizia la decisione sulle questioni pregiudiziali prospettate nelle battute introduttive.
In ordine alla prima questione, la Corte di Lussemburgo afferma che qualo-
Giurisprudenza
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ra sia possibile solo la sostituzione del bene il venditore è obbligato a rimuoverlo e a provvedere all’installazione del prodotto sostitutivo o a sostenere le relative spese: obbligo che sussiste anche quando il prodotto difettoso è stato installato dal consumatore. Dal tenore letterale della direttiva e dai lavori preparatori si desume che la conformità al contratto del bene acquistato dal consumatore deve essere ripristinata gratuitamente, «senza spese» e «senza notevoli inconvenienti» a suo carico: diversamente, egli sarebbe riluttante ad avvalersi
dei rimedi previsti dalla direttiva. Se il consumatore non potesse esigere dal
venditore di provvedere alla rimozione del bene e all’installazione di un prodotto sostitutivo, l’applicazione della direttiva comporterebbe a suo carico costi ulteriori, che non avrebbe sostenuto qualora il bene fosse stato conforme al
contratto.
La conclusione vale anche qualora in base al contratto il venditore non sia
tenuto ad installare il bene, essendo tale operazione a carico dal consumatore.
Anche in tale ipotesi, resta il fatto che qualora il costo della rimozione e successiva installazione del bene non venisse sostenuto dal venditore, graverebbero
sul consumatore costi che non sarebbero stati necessari se il bene fosse stato
conforme al contratto: il consumatore, infatti, sosterrebbe le spese di rimozione del bene e per una seconda volta quelle di installazione. La conclusione, del
resto, appare in linea con la finalità della direttiva, che «consiste nel garantire
un livello elevato di protezione dei consumatori».
Il diritto del consumatore di essere tenuto indenne delle spese di rimozione
del bene difettoso e nuova installazione del prodotto sostitutivo integra la protezione minima che la stessa direttiva offre al consumatore: ne consegue che gli
stati membri possono adottare disposizioni più rigorose nei confronti del venditore, ma non pregiudicare il diritto attribuito al consumatore. D’altra parte, la
stessa direttiva prevede dei correttivi idonei a riequilibrare il regime dei rimedi,
per evitare di aggravare eccessivamente la posizione del venditore: quando la
riparazione è possibile, quest’ultimo può rifiutare la sostituzione del bene in
quanto eccessivamente onerosa; egli può inoltre esercitare un’azione di regresso nei confronti del produttore e di coloro che lo precedono nella catena distributiva.
In merito alla seconda questione, la Corte di Giustizia afferma che il venditore non è liberato dall’obbligo di provvedere alla rimozione del bene e all’installazione del prodotto sostitutivo se le spese relative ad esse sono sproporzionate rispetto al valore del bene. È vero, la direttiva, come la legge di recezione
italiana, prevede che il venditore possa rifiutare la riparazione o la sostituzione
del bene qualora esse siano impossibili o sproporzionate. Si precisa tuttavia
contestualmente che «un rimedio è sproporzionato se impone costi irragionevoli rispetto a un altro rimedio e che, per stabilire se i costi sono irragionevoli,
bisogna che i costi di un rimedio siano notevolmente più elevati di quelli del-
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l’altro rimedio» (cfr. art. 3, c. 3, dir. 1999/44/CE; art. 130, c. 4, c. cons.). La
sproporzione a cui fa riferimento la direttiva, dunque, non è assoluta, ma relativa, in quanto fa esclusivo riferimento all’altro rimedio della coppia. In definitiva, il legislatore dell’Unione ha legittimato il venditore a rifiutare la riparazione
o la sostituzione del bene difettoso quando il rimedio richiesto dal consumatore è impossibile o la sua applicazione comporta un costo sproporzionato rispetto all’altro. Se invece uno solo dei due rimedi è concretamente esperibile, il venditore non può rifiutarne l’applicazione deducendo che esso comporta a suo
carico un costo sproporzionato rispetto all’entità del difetto di conformità. La
soluzione è coerente con il favore della direttiva per i rimedi della riparazione e
della sostituzione del bene, che tutelano in forma specifica il consumatore: essi
sono applicabili in prima istanza perché garantiscono al compratore un livello
di protezione maggiore rispetto a quello offerto dai due rimedi sussidiari della
riduzione del prezzo e della risoluzione del contratto.
Secondo la Corte, peraltro, sarebbe compatibile con il dettato della direttiva
una legislazione nazionale che – nell’ipotesi di una marcata sproporzione tra il
costo gravante sul venditore e il valore del bene o l’entità del difetto – limitasse
il rimborso delle spese di rimozione del bene difettoso ed installazione del prodotto sostitutivo «ad un importo proporzionato al valore che il bene avrebbe
se fosse conforme e all’entità del difetto di conformità». Un’eventuale riduzione del rimborso dovuto al consumatore non può tuttavia giungere al punto di
privare di contenuto il corrispondente diritto: la protezione offerta dalla direttiva, altrimenti, diverrebbe illusoria.
Non solo. Qualora il consumatore potesse ottenere solo una parte del rimborso – sostenendo, così, una frazione delle spese necessarie per la rimozione
del bene difettoso e la nuova installazione del prodotto sostitutivo – la sostituzione comporterebbe per lui un notevole inconveniente. Ai termini dell’art. 3,
c. 5 della direttiva, dunque, egli sarebbe certamente legittimato a domandare la
riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto.
La sentenza è pubblicata in Foro it., 2011, IV, c. 567, con nota di R. DE HIPPOLYTIS, Su
chi gravano le spese occorrenti per la rimozione di un bene di consumo difettoso e l’installazione di un bene sostitutivo?
Nella giurisprudenza della Corte di Giustizia si è già affermato che i rimedi previsti dalla direttiva 1999/44 devono ripristinare la conformità del bene al contratto gratuitamente per il consumatore: se quest’ultimo dovesse sostenere dei costi, sarebbe dissuaso dall’avvalersi delle tutele a lui accordate. In questo senso CGCE, 17 aprile 2008,
(C-404/06), Quelle, in Eur dir. priv., 2009, p. 191, con nota di L. MANGIARACINA, La
gratuità della sostituzione del prodotto difettoso nella dir. 1999/44/Ce: la normativa tedesca al vaglio della Corte di Giustizia. Come si ricava dalla stessa sentenza, la circostanza
che tra le spese imputate al venditore non siano espressamente indicate quelle di rimozione del bene difettoso ed installazione del prodotto sostitutivo non implica che
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esse gravino sul consumatore: da un lato, l’elencazione delle spese che ricadono sul
venditore è esemplificativa e non tassativa; dall’altro, la direttiva deve essere interpretata alla luce della finalità, perseguita dal legislatore comunitario, di garantire al consumatore una tutela effettiva. È quanto risulta dal triplice requisito in base al quale la
riparazione e la sostituzione del bene devono avvenire senza spese, senza notevoli inconvenienti per il consumatore ed entro un lasso di tempo ragionevole. La sentenza
Quelle, inoltre, anticipa la conclusione, adottata dalla pronuncia in epigrafe, secondo
cui la direttiva 1999/44 offre una garanzia minima di protezione del consumatore, che
gli stati membri possono aumentare ma non ridurre.
Per la dottrina sulla sostituzione del bene difettoso, si rinvia a R. MONGILLO, in Codice
del consumo annotato con la dottrina e la giurisprudenza, a cura di E. Capobianco e G. Perlingieri, Esi, 2009, p. 700 ss.; A. MANIACI, in Codice del consumo. Commentario, a cura di
V. Cuffaro, Giuffrè, 2008, p. 603 ss.; L. FOLLIERI, in Codice del consumo. Commentario, a
cura di G. Vettori, Cedam, 2007, p. 946 ss.; B. DI GIACOMO RUSSO, in Codice del consumo. Commentario, a cura di V. Italia, Giuffrè, 2006, p. 872 ss.; E. CORSO, Vendita di beni
di consumo, in Comm. Scialoja-Branca, Zanichelli-Ed. Foro it., 2005, p. 209 ss.
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VENDITA DEI BENI DI CONSUMO
Risoluzione, restituzione del prezzo, riduzione della restituzione in considerazione dell’uso
TRIBUNALE DI UDINE, 19 settembre 2011
La pronuncia che si segnala ha ad oggetto un’azione di risoluzione di un
contratto di vendita di un bene di consumo, con conseguente richiesta di condanna alla restituzione del prezzo.
Nel caso di specie, un consumatore acquista da un professionista un piccolo
portone blindato. Anziché installare, come da contratto, un portone su misura,
il professionista monta dei battenti standard, senza neppure premurarsi di adattarli ad arte; con il che, oltre a presentare imperfezioni nel rivestimento e nella
verniciatura, il risultato finale risulta del tutto insoddisfacente in conseguenza
dell’esistenza di una significativa fuga d’aria tra portone e pavimento.
Dalla narrativa della sentenza si evince che il difetto era stato accertato nel
corso di un atp e che il professionista, sollecitato ben due volte per iscritto ad
intervenire, non si era in alcun modo attivato.
In contumacia del convenuto, il Tribunale, ritenuti i fatti pacifici anche ex
art. 232 c.p.c. in conseguenza della mancata comparizione all’interrogatorio formale, ha anzitutto ritenuto accoglibile la domanda di risoluzione del contratto,
a fronte del mancato intervento del professionista entro un congruo termine.
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Pronunciando la risoluzione ha poi accolto la domanda di restituzione del
prezzo ma, richiamandosi al disposto dell’art. 130, c. 8, c. cons., ha in parte ridotto la somma dovuta.
L’interesse per la sentenza in esame nasce propria da questa seconda parte
della pronuncia che tocca una disposizione poco studiata e, per quanto consta,
in oggi mai applicata.
Se, in generale, non si dubita che in presenza di una domanda di caducazione
del contratto, la condanna alla restituzione della prestazione eseguita non può
essere pronunciata d’ufficio, essendo compito della parte domandarla espressamente, con una soluzione diametralmente opposta l’art. 130, c. 8, c. cons. attribuisce al giudice il potere di ridurre l’importo della somma richiesta in restituzione, in conseguenza dell’uso del bene.
A prescindere dal fatto che il professionista chieda la restituzione del godimento del bene (pur viziato), il codice del consumo autorizza il giudice a disporla
d’ufficio, nelle vesti di una diminuzione della restituzione del prezzo corrisposto.
Ci si potrebbe a questo punto interrogare se il valore d’uso vada identificato in base ai prezzi di mercato, o facendo riferimento al corrispettivo pattuito
nel contratto risolto; il Tribunale, in linea con la giurisprudenza comunitaria
(cfr. CGCE, 3 settembre 2009, (causa C-489/07), Messner, in AdC 2009, p.
295), ha utilizzato il secondo criterio e, considerata la gravità dei vizi e il tempo trascorso, ha ritenuto doversi ridurre del 20% la somma oggetto di restituzione.
In giurisprudenza non sono noti precedenti in termini. Sul rapporto tra rimedi ripristinatori (riparazione e sostituzione) e demolitori (riduzione del prezzo e risoluzione del contratto) previsti dalla disciplina in materia di vendita di beni di consumo, cfr. Trib. Torino, 6 marzo 2009, in Resp. civ. prev., 2010, p. 491, con nota di R.
OMODEI SALÈ, Responsabilità del venditore per difetto di conformità e tutela del medesimo in seguito all’esercizio dei rimedi spettanti al consumatore. Per la non pronunciabilità d’ufficio di una condanna restitutoria in assenza di apposita domanda di parte,
nell’ambito di un procedimento avente ad oggetto la caducazione di un contratto, si
segnala, ad esempio, Cass., 20 ottobre 2005 e Cass., 19 maggio 2003, n. 7829. Quanto alla restituzione del valore d’uso goduto in tempo antecedente all’esercizio del
recesso di pentimento previsto in materia di contratti a distanza cfr. CGCE, 3 settembre 2009, (causa C-489/07), Messner, cit. Quanto, infine, alla restituzione del
valore di godimento in caso di sostituzione del bene compravenduto difettoso con
uno nuovo, cfr. CGCE, 17 aprile 2008, (causa C-404/06), Quelle, in Riv. dir. civ., 2009,
II, p. 559, con commento di A. DE FRANCESCHI, La sostituzione del bene «non conforme» al contratto di vendita.
In dottrina, sul problema della restituzione del valore di godimento di un bene, cfr.,
pur nei diversi accenti proposti, L. GUERRINI, Le restituzioni contrattuali, Giappichelli,
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2012, p. 131 ss.; E. BARGELLI, Il sinallagma rovesciato, Giuffrè, 2010, p. 416; M. DELGli effetti della risoluzione, in Trattato del contratto, diretto da V. Roppo, V,
Rimedi-2, a cura di V. Roppo, Milano, 2006, p. 382 ss.
LACASA,
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IMMOBILI DA COSTRUIRE
Ambito di applicazione oggettivo, immobili “sulla carta”, esclusione
CORTE DI CASSAZIONE, sez. II, 10 marzo 2011, n. 5749
La vicenda giunta all’attenzione della suprema corte concerne un contratto
preliminare con cui il proprietario di un terreno si obbligava a trasferirlo ad un
costruttore, a fronte del pagamento di una somma di denaro e del successivo
trasferimento di due appartamenti facenti parte di un edificio che il promissario acquirente avrebbe costruito su tale terreno.
Presentata domanda di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c. da
parte del promissario acquirente, il promittente venditore otteneva una declaratoria di nullità da parte del giudice di prime cure, deducendo il mancato rilascio da parte della società costruttrice della fideiussione prevista ex art. 2, d.lgs.
122/2005. La corte d’appello rigettava il gravame esperito dal promissario acquirente e confermava la dichiarazione di nullità, pur fondata su una ragione
diversa da quella ravvisata dal primo giudice: nel contratto preliminare non
erano stati indicati gli estremi del titolo che abilitava a costruire contrariamente
a quanto previsto, a pena di nullità, dall’art. 6, c. 1, lett. i), d.lgs. 122/2005.
Tale soluzione è, però, stata disattesa dalla Cassazione che ha osservato che
l’ambito di applicazione della normativa menzionata è limitato agli «immobili
da costruire» definiti dall’art. 1, c. 1, lett. d) come «gli immobili per i quali sia
stato richiesto il permesso di costruire e che siano ancora da edificare o la cui
costruzione non risulti essere stata ultimata versando in stadio tale da non consentire ancora il rilascio del certificato di agibilità». Detto altrimenti, secondo
la Cassazione, il d.lgs. 122/2005 tutela gli acquirenti di un immobile «in costruzione», identificabile con riferimento ai seguenti momenti: da un lato, deve essere già stato richiesto il permesso di costruire o presentata denuncia di
inizio di attività; dall’altro, non deve essere ancora stato richiesto il certificato
di abitabilità.
Nel caso di specie era pacifico che, al momento della stipulazione del preliminare, non fosse stata ancora avanzata alcuna istanza volta ad ottenere il permesso di costruire. Sulla base di ciò, la Cassazione ha affermato che ogni qual
volta l’operazione contrattuale abbia ad oggetto un edificio esistente solo “sulla
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carta” – per il quale, cioè, l’iter urbanistico non sia stato neppure avviato – le
norme di protezione predisposte dal d.lgs. 122/2005 non sono applicabili.
Com’è evidente, una simile conclusione finisce con l’offrire al costruttore un
facile strumento di elusione per sottrarsi agli oneri posti a suo carico dalle disposizioni volte a tutelare la sua parte contrattuale.
La sentenza è pubblicata in Contr., 2011, p. 657, con nota di G. ORLANDO, La tutela
dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire, e in Nuova giur. civ. comm.,
2011, I, p. 952, con nota di U. STEFINI, L’applicazione della normativa di tutela degli acquirenti di immobili da costruire, e il problema degli immobili per i quali non sia stato ancora richiesto il permesso di costruire.
In giurisprudenza l’unica declaratoria di nullità per violazione delle norme imperative
predisposte dal d.lgs. 122/2005 nota è Trib. Rovigo, 12 gennaio 2011, in www.dejure.it
che ha dichiarato nullo per violazione dell’art. 2 d.lgs. cit. un contratto preliminare di
vendita in cui all’atto della stipula (avvenuta in tempo successivo alla richiesta del
permesso di costruire) il costruttore non aveva consegnato al promissario acquirente
la prevista garanzia fideiussoria.
In dottrina, cfr. M. CARDARELLI, L’acquisto di immobili da costruire o in corso di costruzione, Giuffrè, 2009; P. MAZZAMUTO, L’acquisto di immobili da costruire, Cedam, 2008;
G. SICCHIERO (a cura di), La tutela degli acquirenti d’immobili da costruire, Cedam,
2005; G. PETRELLI, Gli acquisti di immobili da costruire: le garanzie, il preliminare e gli
altri contratti, le tutele per l’acquirente, Ipsoa, 2005.
IV. OBBLIGAZIONI
ADEMPIMENTO DEL TERZO
Adempimento dell’obbligo altrui e promessa di adempiere un obbligo altrui
CORTE DI CASSAZIONE, sez. II, 9 novembre 2011, n. 23354
La Cassazione torna nuovamente a pronunciarsi in materia di adempimento
del terzo. Questa volta è chiamata ad esprimersi in merito ai lineamenti della
figura e, in particolare, circa l’applicabilità della relativa disciplina nel caso in
cui il terzo, anziché effettivamente adempiere l’obbligazione gravante sul debitore, si limiti a dichiarare al creditore di essere disponibile ad adempiere.
I fatti di causa sono i seguenti. In virtù di un contratto preliminare, Beta
promette in vendita ad Alfa un immobile di sua proprietà. Alfa cede in seguito a
Caio i diritti a lui derivanti dal predetto contratto. Caio comunica quindi a Beta
di essersi sostituito nei diritti di Alfa e di essere disponibile a corrispondergli il
saldo prezzo della vendita a fronte della stipula del contratto definitivo che Beta tuttavia si rifiuta di stipulare.
Caio agisce quindi in giudizio nei confronti sia di Beta, promittente alienante, sia di Alfa, da cui ha acquistato la posizione contrattuale, chiedendo ai sensi
dell’art. 2932 c.c. l’esecuzione specifica del contratto preliminare. Beta si oppone alla domanda attorea, deducendo di non aver aderito alla convenzione
stipulata tra Caio e Alfa. Spiega altresì domanda riconvenzionale nei confronti
di quest’ultima: poiché essa ha omesso di corrispondere il saldo prezzo della
vendita, chiede che il contratto preliminare sia dichiarato risolto in forza della
relativa clausola risolutiva espressa, con diritto di trattenere la caparra confirmatoria. Alfa si costituisce chiedendo la sospensione del giudizio, a causa della
pendenza di un parallelo procedimento penale avente ad oggetto taluni dei fatti
su cui verte la controversia civile.
I giudici del merito: (i) respingono la domanda di Caio nei confronti di Beta; (ii) condannano Alfa a restituire a Caio quanto da questi corrisposto; (iii)
dichiarano risolto il contratto preliminare stipulato tra Alfa e Beta con diritto di
Beta di trattenere la caparra confirmatoria e obbligo di restituire l’ulteriore parziale corrispettivo già ricevuto. La corte di appello rileva altresì come la dichiarazione del terzo Caio rilasciata a Beta di essere disponibile ad adempiere il residuo debito di Alfa non vale adempimento del terzo ex art. 1180 c.c.
La Cassazione conferma la sentenza di secondo grado e, in particolare, si intrattiene sui requisiti strutturali dell’adempimento del terzo ex art. 1180 c.c. Ritiene che si configuri l’ipotesi dell’adempimento del terzo allorché un soggetto
diverso dal debitore effettui concretamente il pagamento di quanto dovuto al
creditore, posto che l’adempimento del terzo è un atto libero, spontaneo e uni8.
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laterale. Per contro, una disponibilità ad adempiere la prestazione ha il senso,
sempre secondo la Cassazione, o di portare a conoscenza della promittente ceduta l’avvenuta cessione del contratto preliminare di vendita con un’implicita
richiesta di prestare il relativo consenso ex art. 1406 c.c., o di portare a conoscenza della promittente ceduta che tra il cessionario e l’interessato è intervenuto un contratto di accollo, o di formulare una proposta di espromissione rivolta al creditore. In tali ipotesi, è carente infatti l’atto materiale di esecuzione
della prestazione che solo può integrare gli estremi dell’adempimento del terzo
ex art. 1180 c.c.
In giurisprudenza, sulle caratteristiche dell’adempimento del terzo, v. Cass., 20 ottobre 1994, n. 8558; Cass., 14 maggio 1983, n. 3323; Cass., 7 luglio 1980, n. 4340, in Giust.
civ., 1981, I, p. 111, con nota di A. BREGOLI, Legittimazione a ripetere l’indebito oggettivo, tra adempimento del terzo e pagamento rappresentativo; Cass., 17 luglio 1974, n.
2139. Per alcuni importanti e recenti interventi della S.C. in materia di adempimento
del terzo, v. Cass., sez. un., 18 marzo 2010, n. 6538, in Contr., 2010, p. 1000, con nota
di A. DI BIASE, La rilevanza della “causa concreta” nella revocatoria fallimentare del pagamento del debito altrui; Cass., sez. un., 29 aprile 2009, n. 9946.
In dottrina, v. C. CAMARDI, L’adempimento del terzo, in Tratt. Garofalo-Talamanca, La
struttura e l’adempimento, V, La liberazione del debitore, a cura di M. Talamanca e M.
Maggiolo, Cedam, 2010, p. 29 ss.; C. TURCO, L’adempimento del terzo, in Comm.
Schlesinger, Giuffrè, 2002, pp. 30 ss. e 154 ss.; A DI MAJO, Adempimento in generale,
Artt. 1177-1200, in Comm. Scialoja-Branca, Zanichelli, 1994, p. 72 ss.; C.M. BIANCA,
Diritto civile, 4, L’obbligazione, 1993, p. 286 ss.; U. BRECCIA, Le obbligazioni, in Tratt. Iudica-Zatti, Giuffrè, 1991, p. 435.
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DELEGAZIONE DI PAGAMENTO
Eccezioni opponibili dal delegato al delegatario
TRIBUNALE DI ROMA, 20 settembre 2011
Con la sentenza in epigrafe, il Tribunale di Roma si pronuncia in materia di
delegazione di pagamento e, in particolare, in merito alla legittimazione del delegato ad opporre al delegatario/creditore alcune eccezioni relative ai rapporti
intercorrenti, da un lato, tra il primo e il secondo e, dall’altro, tra il primo e il
delegante.
Questi i fatti. Nell’aprile 2003 Alfa conferisce a Beta l’incarico di eseguire alcune prestazioni informatiche e di ingegneria. Nel gennaio 2004, le parti concordano che il corrispettivo contrattuale sarebbe stato pagato successivamente
Giurisprudenza
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alla consegna di taluni moduli da parte di Beta al terzo Caio, che si sarebbe accollato l’obbligazione di corrispondere a Beta circa l’80% del corrispettivo. A
fronte dell’adempimento della prestazione prevista, Caio emette 14 titoli di
credito (trade bills) a favore di Alfa, che vengono successivamente girati a Beta.
Beta agisce quindi in giudizio nei confronti di Caio assumendo di non aver
ricevuto ancora nessun pagamento, nonostante la girata dei titoli in suo favore
e chiedendone pertanto la condanna al pagamento di quanto contrattualmente
dovuto.
Caio si costituisce eccependo: (i) l’inadempimento di Beta ad alcune prestazioni sulla medesima gravanti in forza di un distinto rapporto contrattuale
tra loro intercorrente; (ii) l’inadempimento di Alfa ad alcune obbligazioni sulla
medesima gravanti in forza di un rapporto contrattuale intercorrente tra quest’ultima e Caio. Chiede pertanto che venga parzialmente compensato il credito vantato da Beta con quello risarcitorio a sé spettante.
Il Tribunale accoglie pienamente la domanda di Beta e rigetta le eccezioni
di Caio. Ritiene, infatti, che, con l’accordo del gennaio 2004 e con la girata effettuata da Alfa a Beta dei trade bills emessi da Caio, è intervenuta tra le parti
una delegazione titolata di pagamento, avendo Alfa (delegante) impartito a Caio
(delegato) l’ordine di eseguire il pagamento in favore di Beta.
Le difese della convenuta/delegata si riferiscono a rapporti contrattuali distinti che non assumono rilevanza nel rapporto delegatorio posto in essere tra
le parti, sì che le eccezioni personali da essa sollevate tanto nei rapporti con il
delegante quanto nei rapporti con il delegatario non possono essere prese in
considerazione. Ai sensi dell’art. 1271 c.c., applicabile anche alla delegazione di
pagamento, se le parti non hanno diversamente pattuito, il delegato non può
infatti opporre al delegatario, benché questi ne fosse stato a conoscenza, le eccezioni che avrebbe potuto opporre al delegante e non può neppure opporre le
eccezioni relative al rapporto tra il delegante e il delegatario, se ad esso le parti
non hanno fatto espresso riferimento. Peraltro, secondo il Tribunale, nella specie non potrebbe nemmeno applicarsi l’istituto della compensazione. Quanto
alla compensazione legale, la contestazione dell’esistenza del credito esclude la
liquidità richiesta dalla legge. Per quanto concerne la possibilità di applicare la
compensazione giudiziale, il Tribunale ritiene che nella specie difetti l’accertamento del controcredito da parte del giudice dinanzi al quale è fatta valere, atteso che i mezzi di prova offerti da Caio non dimostrano il credito portato in
compensazione. Le eccezioni del delegato Caio vengono pertanto respinte.
In giurisprudenza, non constano precedenti in termini.
In dottrina, v. U. LA PORTA, L’assunzione del debito altrui, in Tratt. Cicu-Messineo,
Giuffrè, 2009, p. 353 ss.; R. ROLLI, La modificazione soggettiva dal lato del debitore, in
Le obbligazioni, I, L’obbligazione in generale, a cura di M. Franzoni, Utet, 2004, p. 767;
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C.M. BIANCA, Diritto civile, 4, L’obbligazione, 1993, p. 629 ss.; G. GIACOBBE, Eccezioni
opponibili dal delegato, in G. GIACOBBE-D. GIACOBBE, Delegazione, espromissione, accollo,
Artt. 1268-1276, in Comm. Scialoja-Branca, Zanichelli, 1992, p. 56 ss.; U. BRECCIA, Le
obbligazioni, in Tratt. Iudica-Zatti, Giuffrè, 1991, p. 809 ss.
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ESPROMISSIONE
Contratto tra creditore e terzo
TRIBUNALE DI GENOVA, 22 febbraio 2011
Il Tribunale di Genova è chiamato a pronunciarsi in merito alla qualificazione della dichiarazione di un soggetto, il quale si era offerto di pagare al creditore una somma di denaro dovutagli dal debitore.
Il soggetto terzo (terzo rispetto al rapporto originario tra creditore e debitore), dichiarando di essere subentrato nella gestione dell’attività svolta dal debitore, dichiarava di voler provvedere al pagamento delle somme dovute dal debitore al creditore.
Nasceva però contestazione in merito alla quantificazione delle somme di
denaro dovute cosicché il creditore rifiutava il pagamento delle somme offerte
dal terzo, rivendicando il proprio diritto al pagamento di una somma maggiore.
Il creditore proponeva quindi ricorso per l’ingiunzione di pagamento a carico del terzo in virtù della dichiarazione scritta di voler provvedere al pagamento del debito altrui.
Il terzo proponeva opposizione contro il decreto ingiuntivo emesso a suo
carico, lamentando il difetto di legittimazione passiva.
La sentenza pronunciata dal Tribunale di Genova ha accolto l’opposizione e
ha stabilito che la dichiarazione con cui un terzo manifesta la volontà di pagare
un debito altrui non costituisce una promessa unilaterale bensì una proposta
contrattuale. Secondo il Tribunale, l’espromissione non sarebbe un negozio
unilaterale ma un contratto tra creditore e terzo e ad esso pertanto si applicherebbero tutte le regole che attengono alla conclusione dei contratti.
Nel caso di specie pertanto, affinché potesse venire ad esistenza un valido
contratto di espromissione, il creditore avrebbe dovuto accettare la proposta di
espromissione proveniente dal soggetto terzo.
Il creditore, invece, ha rifiutato la proposta di espromissione formulando
un’accettazione difforme dalla proposta originaria (ha infatti preteso il pagamento di una somma maggiore). L’accettazione difforme è stata giudicata equivalente ad una nuova proposta suscettibile, a sua volta, di una nuova accettazione.
Giurisprudenza
223
Il Tribunale di Genova ha motivato la propria decisione affermando che la
promessa di pagamento ex art. 1988 c.c. ha un effetto meramente confermativo
di un preesistente rapporto fondamentale di debito ed è pertanto inidonea a
costituire nuove obbligazioni e a porre in essere una successione a titolo particolare nel debito.
In giurisprudenza, in senso conforme alla sentenza in commento, si vedano Cass., 10
novembre 2008, n. 26863; Cass., 16 febbraio 2004, n. 2932 e Cass., 21 novembre 1983,
n. 6935. In senso parzialmente difforme (ossia nel senso che non sia necessaria l’accettazione espressa del creditore) Cass., 26 novembre 2009, n. 24891 e Cass., 12 aprile
2006, n. 8622.
In dottrina, si veda U. LA PORTA, L’assunzione del debito altrui, in Tratt. Cicu-Messineo, Giuffrè, 2009, p. 183, il quale afferma che «il terzo assuntore contratta lo spostamento del peso debito direttamente con il creditore». Ritiene l’espromissione un contratto concluso mediante proposta non tempestivamente rifiutata V. ROPPO, Il contratto,
in Tratt. Iudica-Zatti, Giuffrè, 2001, p. 125. Per un esauriente esame della giurisprudenza al riguardo si veda R. ROLLI, L’assunzione del debito altrui nelle recenti applicazioni giurisprudenziali, in Contr. impr., 2005, p. 50. Nel senso invece dell’espromissione
come negozio unilaterale si veda A. TOMASSETTI, Assunzione unilaterale ed espromissione ex lege, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1997, p. 27.
***
OBBLIGAZIONI SOLIDALI
CORTE DI CASSAZIONE, sez. III, 3 marzo 2011, n. 5108; TRIBUNALE DI MODENA, 5
agosto 2011, n. 1313
Transazione su obbligazione solidale, clausola che esclude il diritto dei consorti
di avvalersi della transazione a cui non hanno partecipato, validità
CORTE DI CASSAZIONE, sez. un., 30 dicembre 2011, n. 30174
Transazione su obbligazione solidale, clausola che esclude il diritto dei consorti
di avvalersi della transazione a cui non hanno partecipato, invalidità, transazione
sulla quota interna del condebitore, criteri di determinazione del debito residuo
CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 14 febbraio 2011, n. 3573
Giuramento decisorio, mancata costituzione in giudizio di un condebitore solidale, effetti sul rapporto tra deferente e giurante
Spesso il contratto di transazione intercorrente tra il creditore ed uno dei
condebitori solidali reca una clausola che preclude ai consorti dello stipulante
224
2011
di profittare dell’accordo, escludendo, così, che essi possano esercitare il diritto
loro attribuito dall’art. 1304 c.c. La frequenza con cui la clausola viene pattuita
riflette le ragioni che determinano la scelta – effettuata dal creditore – di transigere con uno solo dei condebitori solidali anziché con tutti: se talvolta essa può
essere determinata dall’esigenza di realizzare un risparmio dei costi di negoziazione, spesso sussiste un interesse delle parti a limitare gli effetti dell’accordo,
evitandone l’estensione ai consorti dello stipulante.
Alla clausola che esclude esplicitamente il diritto di profittare della transazione equivale, sul piano degli effetti, la pattuizione con cui il creditore si riserva la facoltà di esigere dai consorti dello stipulante la differenza tra l’importo
dell’obbligazione solidale e la prestazione da lui ottenuta sulla base della stessa
transazione: legittimando il creditore ad esigere il pagamento del residuo, si
esclude implicitamente che i condebitori dello stipulante possano avvalersi dell’accordo.
La giurisprudenza relativa alla validità della clausola è scarsamente consistente e contraddittoria. In un primo momento è stata adottata l’opinione della
dottrina, incline a ritenere l’invalidità della clausola, mentre più di recente si riscontrano pronunce di segno opposto. In questo senso si orientano, nel corso
del 2011, una pronuncia della sezione terza del S.C. e una sentenza del Tribunale
di Modena, entrambe citate in epigrafe (Cass. 3 marzo 2001, n. 5108; Trib.
Modena, 5 agosto 2011, n. 1313): esse affermano la legittimità della clausola che
preclude ai consorti di avvalersi della transazione conclusa dal loro condebitore.
Negli ultimi giorni dell’anno, tuttavia, la questione viene definitivamente risolta nel senso dell’invalidità della clausola da una sentenza delle sezioni unite,
che peraltro dedica al tema solo poche righe della motivazione: ci si limita ad
osservare che le parti del contratto di transazione non sono legittimate a disporre di un diritto potestativo attribuito dalla legge ad un soggetto terzo qual è
il consorte dello stipulante.
La sentenza – che enuncia anche un importante principio di diritto relativo
all’attività negoziale delle imprese di assicurazione (cfr. in questo volume, p.
189 ss.) – si diffonde invece ad illustrare le differenze che intercorrono tra la
transazione sull’intero debito solidale e quella relativa alla quota del debitore
stipulante. Le sezioni unite confermano un orientamento, consolidato nella
stessa giurisprudenza di legittimità, in base al quale la transazione può avere ad
oggetto la sola quota dello stipulante, sempre che quest’ultimo non sia obbligato nell’interesse esclusivo del suo condebitore. In questa ipotesi – che si riscontra paradigmaticamente nella solidarietà tra il debitore principale e il fideiussore – l’intero debito solidale vene sostenuto, nei rapporti interni, da uno dei
condebitori, senza che sia possibile individuare una quota riferibile all’altro.
Se dunque la transazione non ha ad oggetto il debito solidale, ma la quota
del condebitore, l’art. 1304 c.c. non risulta applicabile, e i consorti dello stipu-
Giurisprudenza
225
lante non sono legittimati ad avvalersi dell’accordo: siccome esso verte esclusivamente sulla posizione del condebitore che lo stipula, viene meno il presupposto che giustifica l’estensione dei suoi effetti agli altri componenti del gruppo
solidale. L’obbligazione solidale, infatti, costituisce il veicolo che collega la posizione dei vari condebitori: se l’accordo non verte su di essa, ma sulla quota
dello stipulante, il collegamento viene meno, e i consorti non possono avvalersi
della transazione. Quest’ultima comporta, invece, l’automatica riduzione dell’obbligazione solidale.
Le sezioni unite, allora, enunciano il criterio sulla base del quale deve essere
determinato il debito che a seguito della transazione residua in capo ai consorti
dello stipulante. Premesso che dall’accordo non può conseguire un arricchimento per il creditore ed un correlativo pregiudizio patrimoniale per i consorti dello
stipulante, si ritiene che se la somma pagata dal debitore transigente è maggiore
del valore della sua quota il creditore può esigere dagli altri condebitori il pagamento della differenza tra la somma che costituisce oggetto dell’obbligazione solidale e quella ricevuta ai termini del contratto di transazione; se invece la somma
pagata dal debitore transigente è inferiore al valore della sua quota, il creditore
può esigere dagli altri condebitori il pagamento della differenza tra l’intero debito
solidale e la quota del condebitore transigente. Il criterio così enunciato, come è
evidente, appare ispirato all’esigenza di evitare che il contratto di transazione arrechi pregiudizio agli interessi di coloro che non vi hanno partecipato.
Un’altra sentenza degna di interesse concerne il deferimento del giuramento decisorio ad uno dei condebitori solidali (Cass., 14 febbraio 2011, n. 3573).
La S.C. precisa che il giuramento può essere deferito ad uno dei condebitori
solidali anche se l’altro non è presente nel giudizio, e non sarebbe legittimato a
prestare un analogo giuramento: se la mancata partecipazione al giudizio impedisce che si estendano in capo al consorte gli effetti del giuramento ai sensi dell’art. 1305 c.c., essa non preclude il deferimento del giuramento stesso, con effetti limitati al rapporto tra il deferente e il giurante. Nel caso di specie, una persona fisica aveva contratto con un istituto di credito un debito garantito da fideiussione. A seguito dell’inadempimento del debitore principale, la banca aveva
ottenuto l’emissione di un decreto ingiuntivo verso entrambi i condebitori; verificatosi il fallimento del debitore principale nelle more del giudizio di opposizione, la banca aveva riassunto il processo nei confronti del curatore fallimentare, deferendo a lui e al garante il giuramento decisorio sull’esistenza del debito.
Il giudice di merito, tuttavia, non aveva ammesso il giuramento, in quanto il né
il debitore insolvente né il curatore erano legittimati a prestarlo: il primo perché a seguito del fallimento aveva perso la capacità processuale; il secondo, in
quanto terzo rispetto al rapporto tra il creditore e il fallito. La decisione di non
ammettere il deferimento del giuramento era stata giustificata in base all’art. 1305
c.c., che avrebbe richiesto la presenza in giudizio di tutti i condebitori solidali e,
226
2011
sembra di capire, la loro legittimazione a prestare il giuramento. La sentenza
viene opportunamente cassata dal giudice di legittimità: la presenza in giudizio
dei condebitori solidali è condizione necessaria per l’estensione degli effetti del
giuramento ai consorti, ma non per il deferimento del giuramento ad uno di
essi; tanto meno, può essere considerata condizione necessaria per il deferimento la legittimazione di tutti i condebitori a prestare giuramento, nella specie
mancante a causa dell’intervenuto fallimento del debitore principale.
In giurisprudenza, la legittimità della clausola che esclude il diritto dei consorti di profittare della transazione è stata affermata, oltre che dalle sentenze in epigrafe, da Cass.,
24 aprile 2007, n. 9901; Cass., 19 aprile 1991, n. 4257. In senso contrario Cass., 12 maggio 1978, n. 2327, in Rep. Foro it., 1978, Obbligazioni in genere, 63; Cass., 19 dicembre
1958, n. 3919, in Rep. Foro it., 1958, Obbligazioni e contratti, 150. Tra le sentenze che
escludono l’applicabilità dell’art. 1304 c.c. quando la transazione è limitata alla quota interna del debitore che la stipula v., a titolo esemplificativo, Cass., 19 dicembre 1991, n.
13701, in Corr. giur., 1992, p. 425, con nota di P. SCHLESINGER, Effetti della transazione operata da uno dei condebitori in solido.
In dottrina, i temi affrontati dalle sentenze in epigrafe sono analizzati da A. GENTILI, Solidarietà e transazione secondo l’art. 1304 c.c., in Obbl. contr., 2009, p. 307 ss.; A. D’ADDA,
L’oggetto della transazione: il caso della transazione con il debitore solidale, in Riv. dir. priv.,
2007, p. 307; G. CERDONIO CHIAROMONTE, Transazione e solidarietà, Cedam, 2002, p.
259 ss.; M. COSTANZA, Obbligazioni solidali e transazione, Giuffrè, 1978, p. 42 ss.
***
OBBLIGAZIONI SOLIDALI
Comproprietari, oneri condominiali, solidarietà passiva
CORTE DI CASSAZIONE, sez. II, 21 ottobre 2011, n. 21907
I giudici di legittimità si esprimono sui presupposti per l’applicazione del
meccanismo della solidarietà, contribuendo a precisare, in linea con la giurisprudenza precedente, la consistenza del presupposto della c.d. eadem causa obligandi. La decisione prende le mosse da un decreto ingiuntivo, con il quale si intima a due comproprietari di una unità immobiliare il pagamento di alcuni oneri condominiali; uno dei due solleva opposizione, ritenendo insussistente il vincolo di solidarietà passiva, in quanto ciascuno dei comproprietari era titolare di
una quota proporzionale dell’immobile. Il giudice di primo grado accoglie l’opposizione, rilevando che, nella specie, l’obbligazione è da qualificarsi come parziaria, considerato che le quote erano pervenute ai comproprietari in forza di
due distinti testamenti.
Giurisprudenza
227
Il condominio propone ricorso per cassazione, dolendosi che il giudice di
primo grado abbia qualificato come parziarie obbligazioni che, invece, andavano ritenute legate dal vincolo di solidarietà.
La Suprema corte conferma i suoi orientamenti: i comproprietari, in quanto
condebitori di un’obbligazione contratta per la cosa comune, sono tenuti in solido nei confronti del creditore, a meno che dal titolo non risulti diversamente,
applicandosi ad essi l’art. 1294 c.c. (che non trova deroghe nella disciplina della
comproprietà). Le ragioni che militano a favore di questa soluzione sono differenti: intanto, osservano i giudici di legittimità, «l’obbligazione delle spese condominiali viene determinata con riferimento al valore della singola unità immobiliare dell’edificio in condominio, e cioè al valore del piano o porzione di
piano “spettante in proprietà esclusiva ai singoli condomini”, come espressamente stabilito dall’art. 68 disp. att. c.c., agli effetti indicati dagli artt. 1123, 1124,
1126 e 1136 c.c.: il che è coerente con la stessa destinazione delle cose comuni,
serventi a porzioni reali dell’immobile, e non già a quote ideali». Sotto il profilo soggettivo, la comunione inquadrata nell’ambito del condominio viene configurata unitariamente dal legislatore, anche considerato che i diversi comproprietari hanno un solo rappresentante in assemblea (art. 67 disp. att. c.c.).
Vi sono dunque tutti i presupposti affinché possa operare la presunzione disciplinata dall’art. 1294 c.c.: la pluralità dei debitori (i contitolari del bene comune), l’unicità della prestazione e l’unità della fonte. Irrilevante «il fatto che
l’obbligazione derivi dalla legge anziché dal contratto, perché la regola della solidarietà riguarda ogni tipo di obbligazione e non soltanto le obbligazioni da contratto: come tale, essa è destinata ad abbracciare anche l’obbligazione di partecipare alle spese per l’amministrazione della cosa comune, le quali trovano la
loro fonte talvolta nella delibera dell’assemblea o nell’attività dell’amministratore, e talvolta direttamente nella legge» e parimenti priva di rilievo è la circostanza che «il condebito si innesti su una situazione, la comunione ordinaria,
dominata dal principio della quota. Infatti, la ripartizione pro quota delle spese
comuni […] concerne esclusivamente i rapporti interni tra comunisti, non implicando anche un’attuazione parziaria dell’obbligazione per quanto attiene ai
rapporti esterni con il creditore».
Questa conclusione, d’altra parte, trova conferma indiretta in quanto disposto dall’art. 1115 c.c., il quale «nel richiamare la solidarietà non come semplice
dato di fatto ma come effetto giuridico – contiene anche un tratto peculiare del
debito dei comproprietari per la cosa comune rispetto al generale funzionamento
dei condebiti ad attuazione solidale, con la previsione della facoltà accordata a
ciascun partecipante di esigere l’estinzione delle obbligazioni in solido contratte per la cosa comune, prelevando la somma occorrente dal prezzo di vendita
della cosa stessa».
Il ricorso del condominio deve essere respinto, perché fondato su un argo-
228
2011
mento privo di rilievo: secondo la Cassazione, infatti, non è di ostacolo all’applicazione del meccanismo di solidarietà passiva il fatto che le quote siano pervenute ai comproprietari dell’unità immobiliare in forza di due distinti titoli
successori, «giacché la diversità dei titoli di provenienza concerne il modo di
acquisto del bene in comunione, ma non tocca la contitolarità del debito per le
obbligazioni assunte dai comproprietari in relazione alla cosa comune né incide
sul modo di attuazione dell’obbligazione nei rapporti con il condominio creditore». Il principio di diritto così formulato deve essere considerato informatore
della materia, cui il giudice deve attenersi anche quando è autorizzato a decidere secondo equità.
Trattandosi di un caso inerente al diritto condominiale, il Collegio si preoccupa di precisare che l’assunta conclusione non si pone in contrasto con quella
decisione delle Sezioni Unite (Cass., sez. un., 8 aprile 2008, n. 9148) con la quale
si era affermata la natura parziaria e non solidale della responsabilità dei condomini per le obbligazioni contratte dall’amministratore in nome e per conto
del condominio.
Da una parte, le questioni sottoposte al giudice di legittimità sono differenti:
«mentre la questione decisa dalle sezioni unite investe la natura della responsabilità dei singoli condomini in ordine alle obbligazioni contratte dal rappresentante del condominio verso i terzi e il dictum da esse enunciato si risolve
nell’affermazione secondo cui il terzo creditore, conseguita in giudizio la condanna dell’amministratore quale rappresentante dei condomini in relazione ad
un’obbligazione contrattuale dallo stesso stipulata, può procedere esecutivamente nei confronti di questi ultimi non per l’intera somma dovuta, bensì solo
nei limiti della quota di ciascuno», quella esaminata oggi riguarda un caso del
tutto diverso, dovendosi valutare se «in tema di comunione ordinaria, le obbligazioni dei comproprietari, in particolare relativamente alle spese condominiali
inerenti alla contitolarità pro indiviso di un appartamento facente parte di un
condominio, ricadano o meno nella disciplina del condebito ad attuazione solidale». Dunque le due decisioni non si sovrappongono e non possono porsi in
contrasto tra loro. Tuttavia, nella parte finale della decisione, i giudici non resistono alla tentazione di lanciarsi in un importante obiter dictum, esprimendo un
dissenso rispetto ad una delle premesse dalle quali le Sezioni Unite, nella decisione sopra citata, avevano preso le mosse per qualificare come parziarie le responsabilità dei condomini per le obbligazioni assunte dagli amministratori in
nome e per conto del condominio. In particolare, il Collegio non ritiene persuasiva «la tesi che la solidarietà passiva, a parte le ipotesi speciali espressamente volute dal legislatore, dipenda dalla (e si leghi indissolubilmente alla) indivisibilità della prestazione e sia preordinata a proteggere, in fase esecutiva, soltanto l’unità della prestazione indivisibile».
Al contrario, «la funzione della indivisibilità va colta nell’esigenza di assicu-
Giurisprudenza
229
rare l’unità della prestazione, data l’inidoneità del suo oggetto ad essere suscettibile di essere frazionato in porzioni idonee a conservare proporzionalmente la
stessa funzione economica dell’intera prestazione.
E poiché, appunto, il fondamento della solidarietà passiva non risiede
nell’esigenza di tutelare l’adempimento unitario di una obbligazione avente per
oggetto una cosa o un fatto non suscettibile di divisione, bensì in quella di rafforzare le probabilità per il creditore di conseguire la prestazione, sia questa divisibile o indivisibile, è da escludere che l’indivisibilità della prestazione costituisca un necessario predicato dell’idem debitum». Vedremo in futuro se, sull’importante questione, la Cassazioni avrà modo di cambiare, nella direzione che
questa decisione sembra caldeggiare, il proprio orientamento.
In giurisprudenza si reputa generalmente che i comproprietari, come condebitori di
una obbligazione contratta per la cosa comune, sono tenuti in solido nei confronti del
creditore: Cass., 10 febbraio 1970, n. 335 e, più recentemente, Cass., 4 giugno 2008, n.
14813. Sulla natura solidale o parziaria della responsabilità dei condomini per le obbligazioni contratte dall’amministratore nell’interesse del condominio vedasi la nota decisione delle sezioni unite, su cui si esprime anche la decisione qui sintetizzata: Cass.,
sez. un., 8 aprile 2008, n. 9147, in Corr. giur., 2008, p. 773, con note (critiche) di A. DI
MAJO, Solidarietà o parziarietà nelle obbligazioni condominiali: l’eterno ritorno, e di N. IZZO, L’attuazione parziaria delle obbligazioni condominiali: una restaurazione ottocentesca
del favor debitoris? Sul pregresso diverso orientamento vedasi, tra le tante, Cass., 30
luglio 2004, n. 14593. Recentemente, rifiuta l’approccio delle sezioni unite – preferendo nuovamente riconoscere natura solidale alle obbligazioni che gravano sui condomini per il pagamento delle spese di amministrazione e manutenzione del bene comune – App. Roma, 23 giugno 2008. Sull’eadem causa obligandi si veda Cass., sez. un., 21
gennaio 1988, n. 423, in Giust. civ., 1988, I, p. 1201 (che riconosce il vincolo solidaristico tra più società appartenenti ad un medesimo gruppo per il pagamento dei compensi ai rispettivi commissari giudizialmente nominati).
In dottrina è comunemente accettata l’idea che affinché sussista la solidarietà passiva
o le obbligazioni nascono da un medesimo titolo o da titoli diversi ma «collegati con
nessi tali che valgano a farli considerare come un complesso unitario all’effetto del vincolo che ne deriva»: così D. RUBINO, Delle obbligazioni, in Comm. Scialoja-Branca, Zanichelli-Foro it., 1968, p. 139. Secondo C.M. BIANCA, Diritto civile, 4, L’obbligazione,
Giuffrè, 1993, pp. 705-706, se manca l’unicità del titolo non può applicarsi la presunzione di solidarietà disciplinata dall’art. 1294 c.c.; per un quadro generale sufficientemente dettagliato dei problemi posti dalla solidarietà passiva e attiva basta vedere M.
TICOZZI, Le obbligazioni solidali, Cedam, 2001.
GIURISPRUDENZA/LODI
INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTO
Comune intenzione delle parti, buona fede, ritardo nell’esecuzione della prestazione
COLLEGIO ARBITRALE (Mariconda Pres.), Milano, 29 marzo 2011
Tra due società viene definito con una transazione un contenzioso che le
vedeva opposte davanti al Giudice amministrativo in una vertenza in cui l’una,
nell’ambito di un progetto di adeguamento di un tratto autostradale, aveva avviato una procedura d’esproprio di terreni di proprietà dell’altra. La scrittura
privata sottoscritta dalle parti a fini transattivi prevede che, previa convenzione
con il Comune e dietro relativa autorizzazione, la società costruttrice del tratto
autostradale (ex società a partecipazione statale, oggi privatizzata) consenta, innanzitutto, alla società proprietaria dei terreni espropriati di svolgere attività di
escavazione da concludersi entro un preciso termine; provveda, poi, direttamente al riporto e alla sistemazione di materiale terroso per il riempimento delle fasce e alla realizzazione di un rilevato a duna con funzione di barriera per il
contenimento della diffusione del rumore, delle polveri e dell’impatto visivo. I
suddetti lavori, secondo quanto previsto nel contratto, devono essere realizzati
“appena conclusa l’escavazione”.
Terminati i lavori di escavazione nel 2003, il riempimento concordato non
viene effettuato, sicché la società proprietaria dei terreni, che aveva realizzato lo
scavo, è costretta a svolgere un’attività (non prevista nel contratto) di “aggottamento” (prosciugamento) delle acque e di guardiania del sito, nella finalità di
garantire la sicurezza e la stabilità della zona autostradale ed evitare l’inquinamento delle acque di falda della cava; provvede inoltre a sue spese ad un parziale riempimento dell’area, con l’apporto di idoneo materiale. Solo a metà del
2005, la costruttrice, tenuta per contratto all’esecuzione delle opere di riempimento, interviene a realizzare il tombamento definitivo nell’area in questione.
La società autrice dello scavo richiede agli arbitri di accertare l’inadempimento contrattuale da parte della società costruttrice e di dichiarare la medesima tenuta al pagamento delle spese e degli oneri sostenuti a causa del ritardo
nell’esecuzione dell’opera (aggottamento delle acque e guardiania), oltre al risarcimento del danno per mancata fornitura del materiale terroso necessario
per il riempimento della cava non eseguito.
Il lodo verte sull’accertamento dell’inadempimento di parte convenuta e segnatamente sull’interpretazione del contratto concluso dalle parti all’interno
del quale sono delineati gli impegni di ciascuno, oltre che sull’identificazione e
la quantificazione dei danni derivanti dall’inadempimento.
Giurisprudenza/Lodi
231
In particolare, gli arbitri si soffermano sull’espressione «appena conclusa l’escavazione» contenuta nel contratto che, secondo la società attrice, è sintomatica
della necessità di intervenire rapidamente, mentre per controparte esprime solo
un termine iniziale e non un termine finale per l’esecuzione dell’opera, con conseguente esclusione di un inadempimento contrattuale.
Secondo il Collegio arbitrale, l’avverbio «appena» significa «subito dopo», e
l’interpretazione del contratto deve essere effettuata sulla base della comune volontà delle parti che viene individuata, ai sensi dell’art. 1362 c.c., nell’intento comune di scongiurare i rischi derivanti dall’abbandono della cava aperta per un
periodo di tempo indeterminato, proprio in prossimità dell’autostrada: in questo
quadro, trova giustificazione l’espressione contestata che viene ritenuta espressiva della volontà di far decorrere un termine assai breve tra la fine dello scavo e
l’inizio del riempimento (tombamento), proprio allo scopo di evitare danni.
La ricostruzione della volontà dei contraenti muove anche dall’esame del
contesto in cui il contratto si è formato, vale a dire la fase transattiva di un contenzioso da cui era scaturita la promozione di giudizi amministrativi contro gli
espropri subiti: a fronte della rinuncia ai ricorsi al TAR Emilia, nel contratto
sono assunte da parte convenuta obbligazioni consistenti anche nell’impegno
di chiudere la cava con materiale terroso immediatamente dopo la fine dei lavori. Tale previsione esclude che possa essere considerato un obbligo di parte
attrice lo svolgimento di attività di prosciugamento delle acque di falda e di
guardiania della cava, in quanto le parti, in sede contrattuale, ritenendo importante la tempestività del tombamento, non si sarebbero poste il problema del
controllo della sicurezza dei luoghi dopo l’ultimazione dei lavori di escavazione. Il Collegio quindi, considerata inadempiente parte convenuta, ammette la
risarcibilità delle spese affrontate da parte attrice per tali attività.
Per la valutazione dell’entità del danno da risarcire, sotto il profilo sopra indicato, gli arbitri richiamano il principio di buona fede nei contratti (art. 1366
c.c.) ritenendo che, nel quadro del ritardo nell’adempimento, potesse (rectius:
dovesse) essere concesso a parte convenuta un termine di grazia per l’inizio dei
lavori comprendente il tempo tecnico necessario per allestire il tombamento,
tempo che il collegio concretizza in tre mesi.
La valutazione del danno, qualificato come extracontrattuale, è compiuta
sulla base della ctu che fa riferimento al prezziario della locale Camera di commercio e sul costo della retribuzione dei dipendenti impiegati nel lavoro. Sulla
somma stabilita sono calcolati interessi e rivalutazione.
Riguardo, invece, all’immissione di materiale terroso necessario al parziale
riempimento operato da parte attrice, in sostituzione della società tenuta a provvedervi, secondo il Collegio non è configurabile l’inadempimento, in quanto la
ditta escavatrice ha compiuto l’operazione quasi contestualmente alla fine dei
lavori, riversando spontaneamente una parte di materiale: in questo caso, l’in-
232
2011
terpretazione secondo buona fede ex art. 1366 c.c. che invita a considerare come l’espressione “appena” si riferisca ad un periodo – anche immediatamente –
successivo all’ultimazione dei lavori, conduce ad escludere l’inadempimento e
il conseguente risarcimento del danno. Non viene neppure accolta la domanda
di ingiustificato arricchimento ex art. 2041 c.c., potendo essa trovare soddisfazione, secondo gli arbitri, solo quando manchi un titolo specifico sul quale si
fonda il diritto di credito. Secondo il Collegio, in sostanza, l’attrice, pur avendo
ben agito nel prosciugare la cava e nello svolgere attività di controllo e guardiania, avrebbe potuto evitare di colmare subito la cava.
In giurisprudenza, sull’interpretazione del contratto secondo buona fede (e sull’abuso del diritto), cfr. la nota Cass., 18 settembre 2009, n. 20106, in AdC 2009, p. 170. Sul
ruolo della volontà delle parti, v. Cass., 15 marzo 2004, n. 5234. Sulla prevalenza del
criterio interpretativo fondato sulla volontà delle parti rispetto alla clausola di buona
fede cfr., ad esempio, Cass. 12 aprile 2006, n. 8619.
In dottrina, sull’interpretazione del contratto, cfr., tra gli altri, V. ROPPO, Il contratto, in
Tratt. Iudica-Zatti, Giuffrè, 2011, p. 439 ss.; E. CAPOBIANCO, La determinazione del regolamento, in Tratt. Roppo, II, Regolamento, a cura di G. Vettori, Giuffrè, 2006, p. 295.
***
RECESSO DA SOCIETÀ
Recesso da s.r.l., clausola compromissoria che rimette la liquidazione della
quota alla determinazione di un terzo, arbitraggio, limiti di impugnazione
COLLEGIO ARBITRALE (Mariconda Pres.), Napoli, 16 giugno 2011
Avendo un socio di una società a responsabilità limitata esercitato il diritto
di recesso in conseguenza dell’adozione di una delibera che lo legittimava in tal
senso, in mancanza di accordo sulla determinazione dell’importo da liquidarsi
si chiede al Presidente del Tribunale la nomina di un esperto.
L’esperto nominato effettua la stima, sulla base della quale il socio receduto
chiede ed ottiene la condanna al pagamento da parte del Tribunale. La Corte
d’Appello, adita dalla società, dapprima sospende l’esecutività della sentenza di
primo grado in ragione della presenza di una clausola compromissoria nello
statuto della società e, ad esito del giudizio, dichiara l’improcedibilità della domanda del socio.
Quest’ultimo instaura quindi il procedimento arbitrale previsto dalla clausola compromissoria contenuta nello statuto della società, in base alla quale,
Giurisprudenza/Lodi
233
«gli arbitri decideranno secondo equità regolando lo svolgimento del giudizio arbitrale nel modo che riterranno più opportuno, rispettando comunque il principio del
contraddittorio. La decisione viene fin da ora riconosciuta dalle parti sottoscritte quale
manifestazione della loro volontà contrattuale».
Preliminarmente il lodo affronta la questione, eccepita dalla società, concernente l’esistenza, o meno, del diritto alla liquidazione del socio che aveva esercitato il diritto di recesso: diritto che, a giudizio della società, era venuto meno
dal momento che era stata deliberata la messa in liquidazione. Il Collegio ritiene che la società abbia rinunciato all’eccezione al momento della precisazione
delle conclusioni e nelle memorie conclusionali e comunque afferma che
«pur nel silenzio del dato positivo, va comunque affermata l’esistenza di un termine
finale per l’esercizio, da parte della società, dello ius poenitendi contemplato dall’art.
2473, comma 5, c.c.».
Quindi il Collegio affronta la questione relativa alla sussistenza del proprio
potere di rideterminare il valore della quota del socio, in considerazione delle
allegazioni della società la quale lamenta
«arbitrarietà, iniquità e manifesta infondatezza del metodo utilizzato dal perito nominato dal Tribunale … per la determinazione del valore della quota in argomento».
Il Collegio al riguardo ritiene che
«il procedimento che si instaura a seguito della allegazione della manifesta erroneità
e/o iniquità della determinazione dell’arbitratore (nella specie, del perito) presenta
sicuramente natura contenziosa quanto alla fase volta a lamentare l’esistenza del vizio di cui all’art. 1349 c.c. e comporta la remissione al Tribunale Arbitrale anche della
questione relativa alla corretta determinazione del valore di cui si controverte. Questa conclusione vale ancor più con riferimento all’arbitrato irrituale e ciò dal momento che, come noto, il lodo che lo definisce non costituisce titolo esecutivo».
Prosegue quindi il Collegio
«Il merito della presente controversia si risolve, pertanto, nella contrapposta proposizione di domande di accertamento, risultando inammissibile, data la natura irrituale
dell’arbitrato, la domanda di condanna al pagamento dell’importo oggetto delle contrapposte domande di accertamento e ciò in ragione della inidoneità del lodo irrituale
a costituire titolo esecutivo».
La motivazione del lodo si concentra quindi sugli aspetti per i quali la determinazione dell’esperto designato dal Tribunale si rivela «manifestamente iniqua
234
2011
e erronea», integrando quindi i presupposti per la revisione prevista dall’art.
1349 c.c. a seguito dell’impugnazione. Ritiene infatti il Collegio, condividendo
le considerazioni del proprio consulente tecnico, che il valore della quota del
socio receduto fosse inferiore di oltre la metà rispetto a quanto determinato dall’esperto designato dal Tribunale.
Il Collegio perviene a tale esito valutando – con l’ausilio del CTU – l’operato dell’esperto designato dal Tribunale in relazione ai “metodi valutativi”, agli
“argomenti svolti” e alle “conclusioni raggiunte” e analizzando l’operato del primo arbitratore in relazione ai calcoli della “normalizzazione dei compensi degli
amministratori”, della “normalizzazione degli oneri finanziari sul prestito obbligazionario”, in relazione alla determinazione “del tasso di crescita” e dei “flussi di
cassa da attualizzare”, nonché alla base di calcolo di Ires ed Irap e all’individuazione dell’algoritmo che avrebbe consentito di determinare il valore della società. Secondo il giudizio del Collegio, l’esperto designato dal Tribunale ha reso una perizia
«manifestamente erronea e, in quanto tale, non utilizzabile ai fini della liquidazione
della quota di rimborso spettante all’attore».
Pertanto, si è proceduto alla rideterminazione del valore della quota del socio receduto, adottando metodi di valutazione adeguati allo scopo (e condivisi
dalle parti), procedendo a una corretta normalizzazione degli oneri finanziari e
optando per un tasso di crescita moderato e coerente con il mercato (pari a un
quarto rispetto a quello che era stato adottato dall’esperto nominato dal tribunale).
All’importo al quale il Collegio è pervenuto sono stati applicati gli interessi a
decorrere dallo spirare del termine per il rimborso. È invece stato escluso il diritto alla rivalutazione, dal momento che non è stato provato il maggior danno
di cui all’art. 1224 c.c., ed è stata altresì respinta la domanda di riconoscimento
degli interessi anatocistici, in quanto tardivamente proposta.
La giurisprudenza di merito ritiene applicabile l’art. 1349 c.c., al ricorrere dei presupposti previsti da tale norma, in caso di determinazione della quota del socio receduto:
cfr. Trib. Nocera inferiore, 23 febbraio 2007, in Giur. it., 2007, p. 2783, e Trib. Pavia, 8
aprile 2011, in www.ilcaso.it. In caso di revoca della delibera che ha dato origine al diritto di recesso, ovvero di liquidazione della società, il diritto alla liquidazione della
quota non viene meno ove lo ius poenitendi sia esercitato dopo che sia scaduto il termine per il rimborso della quota: cfr. Collegio Arbitrale Milano, 10 marzo 2006, in Società, 2007, p. 745. Quanto al riconoscimento del maggior danno nelle obbligazioni di
valuta, la Corte di Cassazione richiede che il soggetto che si afferma danneggiato dimostri che, durante il periodo di mora, il saggio medio di rendimento dei titoli di Stato sia
Giurisprudenza/Lodi
235
stato superiore rispetto al saggio degli interessi legali: cfr. Cass., 3 giugno 2009, n. 12828,
e Cass., sez. un., 16 luglio 2008, n. 19499, in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, p. 31.
In dottrina, sul recesso da società a responsabilità limitata, si veda P. REVIGLIONO, Il
recesso nella società a responsabilità limitata, Giuffrè, 2008; G. ZANARONE, Della società
a responsabilità limitata, in Comm. Schlesinger, Giuffrè, 2010, p. 817; F. ANNUNZIATA,
in Società a responsabilità limitata. Commentario, a cura di L.A. Bianchi, diretto da P.G.
Marchetti, Egea, 2008, p. 516 ss.
***
VENDITA
Azienda, determinazione del prezzo rimessa ad un terzo, arbitraggio
COLLEGIO ARBITRALE (Ponzanelli Pres.), Milano, 16 giugno 2011
Due società stipulano un contratto di affitto di azienda, avente ad oggetto l’esercizio di un impianto di distribuzione di carburanti, contenente un’opzione di
acquisto in favore dell’affittuario, una società petrolifera. Secondo quanto stabilito dall’art. 14, c. 5, del contratto
«il prezzo di compravendita dell’azienda sarà pari al valore di mercato della stessa,
valore che verrà stabilito moltiplicando, per quanto riguarda l’attività oil, il presunto
volume di prodotti erogato a regime dall’impianto per il coefficiente “Euro per litro”
corrente sul mercato alla data di esercizio dell’opzione per tipologie di impianti aventi
caratteristiche analoghe». Il comma 6 stabilisce che «per quanto riguarda l’attività non
oil il valore verrà stabilito mediante applicazione di criteri di valutazione correnti sul
mercato alla data di esercizio dell’opzione per tipologie di attività aventi caratteristiche
analoghe».
L’esercizio dell’opzione viene comunicato dall’affittuario al locatore prima
del termine iniziale previsto dal contratto. Seguono trattative tra le Parti volte
ad una determinazione convenzionale del corrispettivo. Tali trattative non sortiscono un esito condiviso, così che la società affittante e venditrice contesta
anche la legittimità dell’esercizio del diritto di opzione.
Con lodo parziale viene decisa la legittimità dell’esercizio dell’opzione.
Per la residua questione, concernente la determinazione del corrispettivo, il
Collegio si affida ad una consulenza tecnica.
Il Collegio ritiene che
«l’incarico che le parti […] hanno inteso conferire al Collegio rientra pacificamente
nella fattispecie dell’arbitraggio, prevista dall’art. 1349 c.c.»,
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2011
istituto secondo il quale
«le parti demandano ad altri di determinare, in loro sostituzione, il contenuto di un
contratto già concluso ma non completo, e nello specifico, il contenuto “della prestazione dedotta in contratto”, in modo che l’arbitratore, con la propria attività volitiva ed autonoma, concorra alla formazione e al completamento del contenuto del
negozio stesso».
Prosegue il Collegio affermando che
«nel caso specifico, la prestazione da determinarsi è quella del pagamento del prezzo.
Trova pertanto applicazione l’art. 1473 c.c., che regola l’ipotesi in cui al terzo arbitratore le parti abbiano appunto riservato l’incarico di determinare il contenuto della
prestazione pecuniaria dell’acquirente, e che costituisce una specificazione della
norma generale di cui all’art. 1349 c.c.».
Il Collegio, quindi, tratteggia le differenze che intercorrono tra l’istituto dell’arbitraggio e quello della perizia contrattuale. Quest’ultima
«si configura allorquando le parti di un rapporto giuridico abbiano conferito a un terzo
l’incarico di svolgere – in base alla sua specifica capacità tecnica ed attenendosi strettamente ai criteri scientifici ed economici propri della disciplina nel cui ambito si iscrive la valutazione che è stato incaricato di compiere – constatazioni e accertamenti
tecnici, il cui esito è vincolante per le parti».
Poste tali premesse, il Collegio esamina l’elaborato del CTU.
Il CTU, al fine di determinare «il presunto volume di prodotti erogato a regime dall’impianto», calcola il volume di prodotti che, al momento dell’esercizio dell’opzione, si poteva prevedere sarebbe stato raggiunto nell’intervallo di due
anni di tempo dall’attivazione dell’impianto, ritenendo congruo siffatto termine
iniziale in considerazione della politica di sconti praticata dalla società petrolifera affittuaria dell’azienda e titolare del diritto di opzione.
Il CTU, quindi, calcola il volume di affari al momento dell’esercizio dell’opzione e apporta i correttivi che ritiene opportuni in considerazione del ragionevole incremento del volume d’affari una volta che l’impianto fosse “a regime”,
nonché del prevedibile decremento in considerazione dell’apertura, nelle vicinanze, di un impianto concorrente.
Il Collegio ritiene condivisibile i criteri adottati dal CTU, ma determina il
coefficiente dell’importo “euro per litro” in misura difforme rispetto a quello da
quest’ultimo calcolato. Il CTU, a giudizio del Collegio, aveva apportato un decremento eccessivo in ragione degli sconti al pubblico praticati dalla società petrolifera. All’abbattimento di quasi il trenta per cento effettuato dal consulente,
il Collegio apporta un correttivo, considerando equo un decremento non superiore al venti per cento.
Giurisprudenza/Lodi
237
Quanto alla valutazione del ramo di azienda “non oil” (bar e lavaggio), il
Collegio condivide la valutazione del proprio consulente, il quale si era affidato
al metodo reddituale correttamente valorizzando anche l’avviamento.
Su questa base, il Collegio accerta e determina il prezzo dovuto dall’acquirente al venditore per l’alienazione dell’azienda.
In giurisprudenza la differenza tra arbitraggio e perizia contrattuale è stata delineata,
da ultimo, da Cass., 30 giugno 2005, n. 13954, in Foro it., 2006, I, c. 482, la quale ha
altresì stabilito che la perizia contrattuale non possa essere impugnata per manifesta
iniquità. Si reputa al riguardo che la perizia contrattuale non possa essere impugnata se
non con le azioni di annullamento e risoluzione previste per i contratti: cfr. al riguardo
Cass., 16 marzo 2005, n. 5678. Con particolare riguardo all’impugnazione dell’arbitraggio per manifesta iniquità, prevista dall’art. 1349 c.c., si è ritenuto che possa farsi
riferimento alla regola prevista dall’art. 1448 c.c. per la rescissione per lesione: cfr. al riguardo Cass., 30 dicembre 2004, n. 24183.
In dottrina si veda, in generale, sull’oggetto del contratto, G. ALPA-M. MARTINI, Oggetto e contenuto, in Tratt. Bessone, III, Giappichelli, 1999, p. 335 ss.; E. GABRIELLI, L’oggetto del contratto, in Comm. Schlesinger, Giuffrè, 2001; G. GITTI, Problemi dell’oggetto,
in Tratt. Roppo, II, Regolamento, a cura di G. Vettori, Giuffrè, 2006, p. 1 ss. Con particolare riferimento all’istituto dell’arbitraggio, si rinvia a F. CRISCUOLO, Arbitraggio e
perizia contrattuale, in Enc. dir., Agg., IV, Giuffrè, 2000, pp. 60-76; F. GALLO, Arbitrio
del terzo (disposizioni rimesse all’), in Dig. disc. priv., sez. civ., I, Utet, 1987, pp. 414-419.
Cfr. anche V. ROPPO, Il contratto, in Tratt. Iudica-Zatti, Giuffrè, 2011, p. 334, secondo
il quale la perizia contrattuale non ha una propria autonomia rispetto all’arbitraggio.
***
VENDITA
Vendita di azioni, manifesta iniquità/erroneità della determinazione del prezzo
operata dal terzo, modalità di denuncia, esclusione di responsabilità, imprevedibilità
COLLEGIO ARBITRALE (Maggiolo Pres.), Venezia, 9 novembre 2011
La controversia sottoposta al Collegio Arbitrale origina da un trasferimento
di azioni di una società di capitali. In particolare, il compratore chiede la condanna del venditore a corrispondere in suo favore le indennità conseguenti ad
asserite sopravvenienze passive, minusvalenze attive e violazioni di garanzie rilasciate alla stipulazione del contratto. Il venditore chiede a sua volta la condanna del compratore al pagamento del saldo prezzo, quale risultante all’esito
dei relativi aggiustamenti contrattualmente previsti.
238
2011
Nel corso del procedimento arbitrale, il Collegio incarica un terzo indipendente di procedere alla definitiva determinazione del prezzo di vendita delle
azioni alla luce di parametri contrattualmente indicati dalle parti che prevedevano aggiustamenti da operarsi successivamente alla stipula del closing.
A seguito del deposito della relazione del terzo indipendente, il compratore
impugna ai sensi degli artt. 1349 e 1473 c.c. la determinazione del prezzo da
questo operata, ferme le ulteriori domande sopra viste.
I. Il Collegio accoglie l’impugnazione della determinazione del terzo in
quanto manifestamente iniqua ed erronea. Pur essendoci una generale condivisione delle risultanze contabili a cui il terzo indipendente, all’esito degli accertamenti, è pervenuto, gli Arbitri contestano il criterio adottato nella determinazione del prezzo. Il terzo, infatti, ha proceduto alla determinazione adottando
criteri di valutazione che, ancorché corretti da un punto di vista del rispetto dei
principi contabili, non erano coerenti con la volontà contrattuale manifestata
dalle parti e con il comportamento da esse tenuto durante le trattative. Queste
infatti avevano scelto criteri di valutazioni diversi e non conformi ai principi
contabili in materia.
In altri termini, mentre il terzo indipendente ha provveduto alla determinazione del prezzo contrattuale sulla base di operazioni contabili effettuate nel
rispetto dei relativi principi ed ha tralasciato di considerare la volontà ed il
comportamento dei paciscenti, il Collegio ritiene invece applicabile il criterio
indicato dalle parti nel contratto, ancorché errato dal punto di vista contabile:
«[…] quello che può essere considerato un errore sul piano contabile non è stato un
errore sul diverso piano della formazione della volontà negoziale. E questa assenza
di errore è esplicitamente affermata da [il compratore], ed è implicitamente ammessa anche da [il venditore], che non ha impugnato il Contratto per un errore … nel
prezzo delle azioni pur sfavorevole a se stessa».
II. Il Collegio passa poi a esaminare le violazioni di rappresentazioni e garanzie invocate da parte compratrice. Affronta preliminarmente l’eccezione di
decadenza sollevata dal venditore secondo cui il compratore, al momento di
ogni singola denuncia, avrebbe omesso di enunciare la specifica clausola che
assumeva violata.
Gli arbitri respingono tale eccezione. In particolare, il Collegio ritiene che:
«una enunciazione sacramentale delle specifiche clausole che si assumono violate
non è in effetti specificamente prevista, e richiederla sarebbe sostanzialmente inutile
non solo perché … entrambe le parti conoscono le pattuizioni da loro stesse predisposte, per cui non è necessario chiarire alla destinataria della denuncia la corrispondenza dei fatti riportati alle varie clausole di garanzia, ma anche perché dove la
Giurisprudenza/Lodi
239
clausola fosse interpretata nel senso voluto da [il venditore] si otterrebbe semplicemente il risultato di costringere l’acquirente a ripetere pedissequamente l’intero contenuto
della clausola sulle dichiarazioni e garanzie, onde evitare decadenze, senza offrire al
venditore il vantaggio, su cui fa leva [il venditore] per sostenere la sua tesi, di circoscrivere l’oggetto della controversia eliminando ogni incertezza al riguardo».
III. Vengono quindi partitamente analizzati i singoli claims del compratore,
sui quali, in questa sede, a ragione delle specificità di ciascuno di essi non ci può
soffermare. Si segnala tuttavia una statuizione del Collegio Arbitrale in merito
ad una specifica pretesa indennitaria del compratore che è stata respinta in
quanto, pur pienamente accertandosi il fatto oggetto di garanzia del venditore,
si è escluso che esso potesse determinare la responsabilità del venditore in
quanto non prevedibile dalle parti in sede di stipula del contratto. Si trattava in
particolare di una sopravvenienza passiva determinatasi per effetto di un contenzioso che ha coinvolto la Società, le azioni della quale sono state trasferite, ed
un ex collaboratore. All’esito del giudizio, la domanda riconvenzionale del terzo è stata accolta, con conseguente condanna della Società al risarcimento del
danno. Il compratore invoca dunque la responsabilità del venditore, a ragione
della violazione della dichiarazione contrattuale rilasciata da quest’ultimo, in
forza della quale «allo stato non vi sono elementi che possano far ragionevolmente ritenere che alcun ulteriore contenzioso insorga per fatti verificatisi anteriormente alla data odierna».
Il Collegio rigetta la pretesa indennitaria del compratore. Ritiene che, alla
luce di diverse circostanze di fatto, non fosse prevedibile, alla data del rilascio
delle garanzie contrattuali, che l’ex collaboratore potesse avanzare pretese nei
confronti della società compravenduta ed esclude pertanto la responsabilità del
venditore.
In giurisprudenza, non constano precedenti in termini con riferimento alle sopra riportate questioni affrontate dal Collegio Arbitrale. In generale, sulle garanzie contrattuali e l’obbligo di indennizzo, v. i lodi riportati in F. BONELLI-M. DE ANDRÈ (a cura
di), Acquisizioni di società e di pacchetti azionari di riferimento, Giuffrè, 1990.
In dottrina, sulla cessione di partecipazioni sociali e sulle garanzie del compratore, v.
F. BONELLI, Acquisizioni di società e di pacchetti azionari di riferimento: le garanzie del
venditore, in Dir. comm. int., 2007, p. 293; A. TINA, Il contratto di acquisizione di partecipazione societarie, Giuffrè, 2007; M. SPERANZIN, Vendita di partecipazioni di “controllo” e garanzie contrattuali, Giuffrè, 2006; G. IORIO, Strutture e funzioni delle clausole di
garanzia nella vendita di partecipazioni sociali, Giuffrè, 2006; C. D’ALESSANDRO, Compravendita di partecipazioni sociali e tutela dell’acquirente, Giuffrè, 2003.
***
240
2011
CONCESSIONE DI VENDITA
Somministrazione di energia elettrica, ritardo nella trasmissione dei dati sui
consumi, prova dell’inadempimento
COLLEGIO ARBITRALE (Gambaro Pres.), Milano, 22 luglio 2011
I fatti storici che hanno dato adito alla controversia in oggetto possono essere riassunti nei termini seguenti.
Tra Alfa – società distributrice di energia elettrica – e Gamma – società
produttrice di energia elettrica – intercorre un contratto denominato “Contratto di Concessione di Vendita” stipulato nel luglio 2003 e terminato nel mese di
agosto 2006: esso ha ad oggetto la distribuzione di energia elettrica. Il contratto ha durata triennale, prorogabile salvo disdetta. Alfa disdetta il contratto allora in corso con comunicazione in data 27 gennaio 2006. Con successiva raccomandata Alfa comunica a Gamma che Beta ed il Distributore hanno provveduto ad effettuare i conteggi economici inerenti al conguaglio finale dei volumi
di energia elettrica prelevata e dei corrispettivi di dispacciamento in prelievo
relativi agli anni 2005 e 2006 (sino al mese di agosto).
Con tale missiva Alfa inoltra a Gamma le fatture relative ai volumi di energia
prelevata da clienti Gamma nei mesi di luglio-agosto 2006, storna le fatture
precedentemente emesse relative al periodo gennaio 2005-giugno 2006 e le sostituisce con nuove fatture. Con successiva raccomandata Gamma restituisce a
Alfa le predette fatture asserendone la non debenza. Alfa replica intimando a
Gamma il pagamento delle fatture predette per una somma complessiva di
€ 6.247.754,28 oltre interessi. Rimasta senza esito tale diffida, Alfa propone domanda di arbitrato ai sensi della clausola compromissoria contenuta nel contratto dando avvio al procedimento.
Nel merito, le domande principali delle due parti sono perfettamente speculari in quanto Alfa chiede il riconoscimento ed il pagamento del suo credito per
vendita di energia a Gamma per la somma di € 6.247.754,28, oltre accessori e
interessi di mora sino al soddisfo, o della diversa somma emersa ed accertata in
corso di causa a seguito di CTU; Gamma chiede di respingere tale domanda in
quanto il credito vantato da Alfa non sarebbe provato.
Pertanto il Collegio Arbitrale deve pronunciarsi sul seguente quesito:
«se Alfa abbia provato la sussistenza del suo credito ed a quale somma tale credito
corrisponda sia in linea capitale che per interessi. Con altra domanda Gamma chiede al Tribunale Arbitrale, dopo aver accertato il colpevole ritardo con cui Alfa ha
provveduto a fatturare a Gamma i consumi effettivi relativi ai prelievi di energia elettrica relativi al periodo oggetto della contesa e che ciò ha impedito, così come attualmente impedirebbe, alla stessa Gamma di fatturare a conguaglio ai propri clienti, di
voler respingere la domanda della attrice».
Giurisprudenza/Lodi
241
Tale domanda pone alcuni problemi di interpretazione.
Il Collegio è chiamato a pronunciarsi sui seguenti quesiti sostanziali: se il ritardo con cui Alfa ha trasmesso a Gamma i dati relativi ai consumi effettivi relativi ai prelievi di energia elettrica nel periodo di vigenza del contratto integri
inadempimento del contratto stesso; se tale inadempimento sia stato fonte di
danno risarcibile; se l’ammontare di tale danno compensi l’eventuale credito di
Alfa per somministrazione di energia elettrica nel periodo di vigenza del contratto.
Infine Gamma pone una domanda risarcitoria relativa alla perdita di clientela da essa subita per effetto della mancata comunicazione dei dati relativi agli
effettivi prelievi di energia elettrica nel corso del rapporto. Tale domanda implica la sottoposizione al Collegio dei seguenti quesiti:
«a) se si possa accertare in fatto uno strutturale ritardo ed una strutturale incompletezza dei dati relativi ai prelievi effettivi di energia elettrica da parte dei clienti di Gamma;
b) se tale dato di fatto integri inadempimento alle obbligazioni assunte da Alfa verso
Gamma in forza del “Contratto di Concessione di Vendita” stipulato nel 2003; c) se si
possa accertare in fatto una perdita di clientela a svantaggio di Gamma; d) se tale perdita di clientela sia causalmente ricollegabile all’inadempimento di Alfa».
Il Collegio Arbitrale procede così all’esame delle singole domande:
«In ordine alla prima domanda di Alfa il Collegio precisa che Alfa ha indubbiamente
chiesto il pagamento della somma asseritamente corrispondente alle forniture di energia elettrica effettuate a favore di clienti Gamma con la raccomandata a.r. del 20
dicembre 2008, la messa in mora risale invece al 9 febbraio 2009. Pertanto il calcolo degli interessi moratori non può essere svolto partendo da una data anteriore al 9
febbraio 2009. In ordine alla prova del credito vantato da Alfa il Tribunale Arbitrale
considera che dalla indagine svolta dal CTU emerge che deve ritenersi potenzialmente provato nella misura di € 5.950.472,68 l’importo in linea capitale dei corrispettivi dovuti da Gamma a favore di Alfa per forniture di energia elettrica non precedentemente fatturate. Alfa pur mantenendo la propria domanda di pagamento di
€ 6.247.754,28, in linea capitale – affiancandola con domanda subordinata – non
ha provveduto a fornire alcun inizio di prova della debenza della maggior somma da
essa richiesta rispetto a quella identificata dal CTU, né ha svolto critiche pertinenti
alla metodologia di calcolo seguita da quest’ultimo. Pertanto la somma massima cui
si può fare riferimento è pari ad € 5.950.472,68 sempre in linea capitale».
Il Collegio risponde al primo quesito di Alfa ritenendo che essa abbia provato la sussistenza del suo credito nel limite della somma di € 5.950.472,68 con
interessi legali a decorrere dalla data del 9 febbraio 2009. Conseguentemente, il
Collegio ritiene che è assorbita la prima domanda di Gamma che deve ricevere
risposta negativa per motivi speculari a quelli appena esposti.
242
2011
Si devono quindi prendere in esame le domande subordinate di Gamma secondo le quali, operando la sintesi delle formulazioni ex parte, il Collegio Arbitrale è chiamato ad accertare:
«a) se si possa accertare in fatto uno strutturale ritardo ed una strutturale incompletezza dei dati relativi ai prelievi effettivi di energia elettrica da parte dei clienti di Gamma; b) se tale dato di fatto integri inadempimento alle obbligazioni assunte da Alfa
verso Gamma in forza del «Contratto di Concessione di Vendita» stipulato in data 31
luglio 2003; c) se si possa accertare in fatto una perdita di clientela a svantaggio di
Gamma; d) se tale perdita di clientela sia causalmente ricollegabile all’inadempimento
di Alfa; e) se il ritardo suddetto abbia impedito, così come attualmente impedirebbe, alla stessa Gamma di fatturare a conguaglio ai propri clienti».
In ordine a tali quesiti il Collegio accerta in fatto che vi è stato uno strutturale ritardo da parte di Alfa nel comunicare i dati di prelievo definitivi effettuati
dai clienti di Gamma. Il Tribunale Arbitrale accerta, altresì, che tale ritardo non
è imputabile a Delta Distribuzione, ma a problemi di organizzazione interna di
Alfa. Ciò posto, si deve considerare se tale fatto integri un inadempimento alle
obbligazioni assunte da Alfa verso Gamma in forza del contratto inter partes.
Al riguardo si deve osservare come dal testo letterale del contratto, ad avviso
del Collegio, non emergano asserzioni che
«impongano a Alfa specifici e precisi obblighi di fornire a Gamma flussi di informazione circa i consumi definitivi di energia elettrica dei suoi clienti. Infatti all’art. (…),
come ricordato, il contratto prevedeva che Alfa avrebbe fatturato mensilmente a
Gamma sulla base dei consumi storici o presunti, salvo successivo conguaglio con la
misurazione effettuata dal Distributore. Ma come chiarito la materia del contendere
non riguarda le fatture o le Informazioni sui consumi stimati, ma sui consumi definitivamente misurati. Al contrario, l’art. (…) prevedeva che Gamma in caso di ritardo
per oltre 3 mesi consecutivi dei dati relativi alla misura della somministrazione da
parte del distributore dovesse effettuare personalmente la lettura degli strumenti di
misura dell’energia elettrica ed a trasmettere tale rilevazione a Alfa. Non è tuttavia
chiaro se tale clausola si riferisca alla mancanza di comunicazioni in assoluto oppure
anche alla semplice incompletezza delle comunicazioni. Nel caso di specie le comunicazioni vi sono state, ma sono risultate incomplete trattandosi di dati che servivano per la fatturazione a stima e non a consuntivo».
I dati letterali, ad avviso del collegio, non sono del tutto congruenti con lo
schema di fondo del contratto il quale prevedeva – e non poteva prevedere altrimenti – che la fornitura transitasse per la rete di distribuzione di un soggetto
terzo il quale intratteneva rapporti con Alfa e non con Gamma. Quest’ultima
infatti era obbligata ad ottenere dai propri clienti un mandato che comprendesse la facoltà di nominare un sub-mandatario ed a conferire della qualità a Alfa,
Giurisprudenza/Lodi
243
la quale avrebbe quindi agito nei confronti del distributore in nome e per conto
dei singoli clienti finali.
In sintonia con questo schema di fondo le parti hanno dato vita ad una
struttura informatica comune in cui venivano inseriti i dati di provenienza del
Distributore o del Dispacciatore e tali dati erano consultabili da entrambe. Ciò
non toglie però che di fatto le fatture di Delta distribuzione pervenissero ad Alfa e non a Gamma, tanto è vero che, come già accertato, nel momento in cui
Alfa non ha inserito nel sistema le fatture di Delta Distribuzione che pure le erano pervenute e che probabilmente sono state accumulate in qualche ambito
della sua struttura interna, entrambe le parti non sono state in grado di provvedere alla emissione delle fatture definitive.
Si deve anche aggiungere che Alfa non ha mai sollecitato Gamma ad adempiere a quanto previsto all’art. (…) del Contratto e che Gamma non ha mai
messo in mora Alfa per il ritardo con cui le pervenivano i dati relativi ai consumi a consuntivo.
Questi dati sono convergenti nell’indicare che le parti hanno interpretato il
contratto in modo uniforme considerando che anche in assenza di espresse
previsioni al riguardo esso prevedesse un reciproco flusso di dati e di informazioni in un contesto di collaborazione. Ulteriore testimonianza di ciò è che,
come è emerso dalla fase di istruzione testimoniale, non appena Alfa si è accorta che il suo sistema non le consentiva di fatturare neppure a stima i consumi
dei singoli clienti, essa ha ottenuto di ricevere prima le fatture, sempre a stima,
di Gamma e sulla base di esse emetteva le proprie.
A riguardo il Collegio così si esprime:
«Indubbiamente tale collaborazione è cessata negli ultimi due mesi di vigenza del
contratto, ma ciò ha un rilievo marginale ai fini della ricostruzione dell’assetto di interessi concordato tra le parti, quella prestata prima di tale momento invece rientra
appieno nella nozione di comportamento delle parti posteriore alla conclusione dello
stesso che può assumere rilievo ai fini della sua interpretazione in quanto posto in
essere in esecuzione ed in riferimento al contratto senza che esso si estrinsechi in ulteriori accordi modificativi dei precedenti, dai quali derivi un assetto negoziale autonomo e distinto, fonte di nuovi diritti ed obblighi contrattuali (Cfr. Cass. civ., sez. I,
25 settembre 2007, n. 19928; Cass. civ., sez. Il, 4 agosto 2000, n. 10250). La più recente giurisprudenza infatti ha indicato che a norma dell’art. 1362 c.c. l’interpretazione del contratto richiede la determinazione della comune intenzione delle
parti, da accertare sulla base del senso letterale delle parole adoperate e del loro
comportamento complessivo, anche posteriore alla conclusione del contratto, e che
l’elemento letterale e quello del comportamento delle parti devono porsi in posizione paritaria, onde il giudice non può sottrarsi a tale duplice indagine (cfr. Cass. civ.,
sez. III, 1 giugno 2004, n. 10484; Cass. civ., sez. I, 21 marzo 2003, n. 4129»). Posto
che le parti hanno inteso con la loro condotta complessiva e concorde colmare le indubbie lacune ed ambiguità del testo contrattuale prevedendo una sostanziale con-
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divisione collaborativa di tutte le informazioni che ciascuna riusciva ad ottenere relativamente alla fornitura di energia elettrica ai clienti finali, si deve anche osservare
come tale interpretazione sia sì diretta a determinare la comune intenzione delle
medesime al momento della stipula, e, quindi, la sostanza stessa dell’accordo, e perciò non integra la volontà pattizia con elementi ad essa estranei, tuttavia in tal modo
si viene a conferire al contenuto dell’accordo un senso perfettamente allineato con i
canoni di correttezza e buona fede. Nella prevalente giurisprudenza infatti il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto è espressione del dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 cost., ed impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra (Cfr. ex multis
Cass. civ., sez. 111, 4 maggio 2009, n. 10182; Cass. civ., sez. I, 22 gennaio 2009, n.
1618; Cass. civ., sez. I, 6 agosto 2008, n. 21250; Cass. civ., sez. III, 7 giugno 2006,
n. 13345; Cass. civ., sez. III, 11-01-2006, n. 264). È però noto come l’adempimento
dei doveri di correttezza e buona fede costituisce un dovere giuridico autonomo a
carico di entrambe, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di
quanto espressamente stabilito da norme di legge; sicché i due rilievi conducono al
medesimo risultato».
In questo quadro è da apprezzare il fatto che per ragioni che è impossibile
chiarire, ma che possono risalire a mera negligenza, Alfa abbia omesso di comunicare a Gamma ed anche ovviamente di inserire nel sistema informatico
condiviso le fatture a consuntivo di Delta Distribuzione, ossia quelle stesse che
sono apparse nel procedimento solo in sede di supplemento di consulenza tecnica, dopo che lo stesso CTU aveva rilevato che in mancanza di esse era impossibile ritenere provato il credito vantato da Alfa stessa per un ammontare di
€ 4.100.032 su € 6.247.754,28 richiesti.
Nell’omettere tale informazione e nell’ometterla tanto a lungo si deve quindi ravvisare, ad avviso del Collegio, una violazione sia degli obblighi contrattuali, sia una violazione dei doveri di correttezza e buona fede. In definitiva quindi
il Collegio Arbitrale dopo aver risposto affermativamente al quesito «se si possa accertare in fatto uno strutturale ritardo ed una strutturale incompletezza dei
dati relativi ai prelievi effettivi di energia elettrica da parte dei clienti di Gamma», ritiene di dover rispondere altrettanto affermativamente al susseguente
quesito «se tale dato di fatto integri inadempimento alle obbligazioni assunte
da Alfa verso Gamma in forza del “Contratto di Concessione di Vendita” stipulato in data 31 luglio 2003».
Si deve quindi procedere all’esame degli ulteriori sub-quesiti proposti da
Gamma: a) se si possa accertare in fatto una perdita di clientela a svantaggio di
Gamma; b) se tale perdita di clientela sia causalmente ricollegabile all’inadempimento di Alfa; c) se il ritardo suddetto abbia impedito, così come attualmente impedirebbe, alla stessa Gamma di fatturare a conguaglio ai propri clienti.
Al riguardo tuttavia il Collegio osserva come
Giurisprudenza/Lodi
245
«Gamma abbia solo genericamente allegato i fatti sub a), mentre il CTU, esaminata
la corrispondenza prodotta da Gamma, abbia rilevato che in un solo caso il cliente
recedente ha indicato la lentezza della fatturazione definitiva tra le cause della sua
insoddisfazione. Da ciò discende pianamente la infondatezza delle voci di danno lamentate da Gamma relativamente alla perdita di clientela. Le perdite non si sono verificate ed anche nell’unico caso sospetto non può dirsi provata la correlazione causale tra il recesso del cliente e la tardività delle fatturazioni definitive. Il profilo sub c)
presenta caratteri più complessi. Da un lato si deve osservare come l’addebito avvenuto nel dicembre del 2008 di € 6.247.754,28 riferito a forniture anteriori all’agosto
2006 rappresenti indubbiamente un costo aggiuntivo del cui esatto ammontare
Gamma non poteva che essere ignara, non disponendo nemmeno dei dati fisici per
calcolarlo. D’altro lato si deve rilevare come Gamma era certamente cosciente della
mancata emissione delle fatture relative ai due mesi finali del rapporto e non era
certo legittimata ad immaginare che la energia che era stata fornita in tale periodo
rappresentasse un grazioso regalo. Molto più probabilmente Gamma che già fatturava a stima ai propri clienti prima di ricevere le fatture di Alfa è stata in grado di
proseguire in tale pratica. Infatti dalla indagine istruttoria è emerso che nel luglioagosto 2006 Gamma non ha più comunicato a Alfa le proprie fatture e ciò ha impedito a Alfa di fatturare a propria volta, ma non è emerso affatto che si è interrotto
anche il flusso dei dati che entrambe le parti, ma essenzialmente Alfa inserivano nel
sistema informatico comunemente accessibile. Emerge dalle fatture allegate alla domanda di Arbitrato di Alfa, i cui importi sono stati verificati dai CTU, che per i consumi di luglio 2006, Alfa ha fatturato a Gamma la somma di € 2.398.799,91 (iva inclusa); per quelli di agosto 2006, la somma, iva inclusa, di € 1.806.978,92. In totale
le due fatture ammontano a € 4.205.778,83. Assunto che il totale del credito di Alfa
ammonta a € 5.950.472,68, la differenza tra la somma totale delle due fatture ed il
credito che Alfa vanta a titolo di conguagli per maggiori forniture negli anni 20052006 è pari ad € 1.744.693,85. Rispetto a questa somma può ragionevolmente prospettarsi una potenziale perdita economica di Gamma perché essa è la traduzione
in termini di prezzi di quantità fisiche di energia elettrica erogata ai clienti di Gamma, ma delle quali la stessa Gamma non poteva essere a conoscenza».
Come ricordato, Gamma non ha prodotto le fatture emesse ai suoi clienti in
costanza di rapporto con Alfa e perciò non è possibile calcolare in modo esatto
la differenza tra quanto da essa è stato fatturato ai propri clienti e quanto è dovuto ad Alfa come corrispettivo della somministrazione di energia effettivamente ricevuta.
Si è anche osservato come in linea di principio la pretesa avanzata da Gamma si configuri come una ragione di credito collegata ad una perdita economica; credito che viene addotto in compensazione legale rispetto al credito da
fornitura vantato da Alfa.
Non è men vero tuttavia che anche se tali fatture fossero state prodotte il
calcolo esatto della differenza tra quanto è stato fatturato a conguaglio da Alfa a
Gamma e quanto è stato fatturato a stima da Gamma ai propri clienti sarebbe
impossibile egualmente perché i due dati sono comunque ontologicamente di-
246
2011
somogenei. Infatti le fatture di Gamma ai propri clienti conglobano anche il
suo profitto di impresa, ed, in ogni caso, in base a quanto previsto dall’art. (…)
del Contratto Gamma era libera di determinare la propria politica tariffaria
«attraverso premi e/o sconti e/o quant’altro».
In realtà, si deve osservare come la prova del preciso ammontare del danno
sofferto da Gamma a fronte del già accertato inadempimento di Alfa è impossibile o almeno eccezionalmente difficile da fornire. Risulta quindi applicabile il
disposto dell’art. 1226 c.c. Nella costante interpretazione giurisprudenziale, infatti, la valutazione equitativa del danno in quanto esercizio del potere discrezionale del giudice è ammissibile all’interno di un giudizio di diritto qualora risulti particolarmente difficile, per la parte interessata, provare il danno nel suo
preciso ammontare.
Ritiene il collegio che gli elementi su cui fondare una valutazione equitativa
siano i seguenti. Gamma è stata privata a lungo dei dati necessari per fatturare a
consuntivo ai propri clienti e questo inadempimento di Alfa è sicuramente lesivo del suo interesse contrattuale, atteso che con il Contratto Alfa aveva nominato Gamma quale “suo distributore per la vendita di Energia Elettrica nel Territorio”, riconoscendole quindi un ruolo intermediatizio. Il danno contrattuale
è quindi certo.
Sebbene sia avvenuta con ampio e non giustificato ritardo la comunicazione a Gamma dei dati necessari per poter fatturare a consuntivo i consumi
di energia elettrica ai propri clienti non è intervenuta dopo che sia trascorso il
periodo prescrizionale di cui all’art. 2946 c.c., né si possono scorgere ragioni
per l’applicazione di un diverso regime prescrizionale. Ciò significa che rispetto ad € 1.744.693,85 di maggiori oneri inattesi Gamma avrà sicuramente
difficoltà di recupero dai propri clienti, ma non deve conteggiare una completa perdita.
A fronte dell’evidente ritardo di Alfa nel comunicare i dati definitivi, e quindi a consuntivo, Gamma aveva la possibilità di cautelarsi. È infatti prassi comune che ad una fattura a stima e quindi in acconto faccia seguito una fattura a
consuntivo di importo generalmente più elevato.
Il Contratto, come anzidetto, prevedeva che in caso di ritardo per più di tre
mesi consecutivi della comunicazione dei valori risultanti dalla misurazione
della somministrazione di energia, Gamma dovesse effettuare personalmente la
lettura degli strumenti di misura dell’energia elettrica. La clausola è ambigua ed
è stata intesa in senso restrittivo dalle parti, che invero non l’hanno mai applicata né ne hanno richiesto l’applicazione.
L’insieme di queste considerazioni induce il Collegio a ritenere che
«il danno subito da Gamma per il ritardo con cui è stata messa in grado di fatturare a
consuntivo ai propri clienti debba essere valutato ex art. 1226 c.c., in € 872.346,92.
Giurisprudenza/Lodi
247
Con riferimento alle spese, il Tribunale Arbitrale ritiene che la complessità, il numero delle questioni trattate e gli esiti della decisione costituiscono validi motivi per disporre la integrale compensazione delle spese di lite e delle spese per il funzionamento del Collegio Arbitrale, fatta eccezione per il compenso del CTU, come da dispositivo.
Per le ragioni tutte qui esposte il Tribunale Arbitrale ha disposto: in accoglimento della
prima domanda di Alfa dichiara che Gamma è tenuta al pagamento a favore di Alfa
della somma di € 5.950.472,68 con interessi legali a decorrere dalla data del 9 febbraio 2009 al saldo.
In accoglimento della domanda subordinata di Gamma dichiara che Alfa è tenuta
a risarcire a Gamma la somma di € 872.346,92 con interessi legali dalla domanda
al saldo. Dispone la compensazione parziale tra le due somme si che Gamma sia
tenuta al solo versamento della differenza e pertanto condanna Gamma al pagamento in favore di Alfa della somma risultante dalla sottrazione della somma minore di € 872.346,92 con interessi legali dalla domanda al saldo dalla somma
maggiore di € 5.950.472,68 con interessi legali a decorrere dalla data del 9 febbraio
2009 al saldo. Compensa interamente tra le parti le spese di lite e di arbitrato (…)».
In giurisprudenza, v. Cass., 22 ottobre 2002, n. 14891, in Contr., 2003, p. 583, con
nota di V. TIMPANO, Efficacia reale o obbligatoria della concessione di vendita e opponibilità del patto di riservato dominio; Cass., 22 febbraio 1999, n. 1469, in Contr., 1999, p.
782, con nota di L. ZAPPATA, Concessione di vendita e responsabilità del concedente,
nonché in Giur. it., 1999, p. 1653, con nota di O. CAGNASSO, Scambio e collaborazione
quali “elementi” fondamentali del contratto di concessione di vendita; Cass., 28 agosto
1995, n. 9035, in Fallim., 1996, p. 729, con nota di F. LAMANNA, Contratto di concessione di vendita e opponibilità della riserva di proprietà; Cass., 17 dicembre 1990, n.
11960.
In dottrina, cfr. G. CICCARELLI, La concessione di vendita, in Dir. priv. giur. Cendon,
I nuovi contratti nella prassi civile e commerciale, Utet, 2004, p. 205 ss.; O. CAGNASSOG. COTTINO, Contratti commerciali, in Tratt. Cottino, IX, Cedam, 2000, p. 132 ss.; A.F.
MONCALVO, Il contratto di concessione di vendita, nel quadro dei contratti per la distribuzione commerciale, in Nuova giur. civ. comm., 1998, II, p. 107 ss.; R. PARDOLESI, Contratti di distribuzione, in Enc. giur. Treccani, IX, Istituto della Enciclopedia Italiana,
1988, ad vocem.
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I. TRATTATI, COMMENTARÎ, OPERE COLLETTANEE, RACCOLTE
DI SCRITTI, LEZIONI IN TEMA DI CONTRATTO E DI OBBLIGAZIONI
FRANCESCO ALCARO (a cura di), Circolazione del contratto preliminare. Profili ricostruttivi e strumenti operativi, Ipsoa, Milano, pp. XII-248.
Il volume raccoglie i seguenti contributi: «Il contratto preliminare: profili generali e aspetti evolutivi», di F. Alcaro; «La circolazione del preliminare e il fenomeno della ‘sostituzione soggettiva’», di R. Franco; «Preliminare per persona da nominare», di A. Alamanni; «Il contratto preliminare a favore di terzo», di M. Indolfi; «La cessione del contratto preliminare», di R. Franco; «Altri congegni che realizzano la sostituzione soggettiva
nella sequenza preliminare-definitivo», di M. Indolfi; «Implicazioni complessive e valutazioni di metodo», di F. Alcaro. Segue un’Appendice dedicata alle tecniche redazionali:
R. Franco si occupa delle premesse operative. Chiude il volume una raccolta di sentenze di cassazione.
FRANCESCO ALCARO, LUCIA BANDINELLI, MASSIMO PALAZZO, Effetti del contratto,
nel Trattato di Diritto Civile del Consiglio Nazionale del Notariato, diretto da P. Perlingieri, Esi, Napoli, pp. 624.
Il volume raccoglie una serie di contributi che toccano tutti gli aspetti tradizionalmente
ricondotti agli «effetti del contratto», seguendo nell’articolazione dei temi considerati
la sistematica del codice civile: di F. Alcaro, «Gli effetti del contratto. Il principio del consenso traslativo» (1-160) e «Il mutuo dissenso» (67-108), «Il recesso dal contratto»
(111-150); «L’esecuzione del contratto secondo buona fede» (401-407), «Il divieto di
alienazione» (411-428), «I diritti personali di godimento» (433-440), «La promessa
dell’obbligazione o del fatto del terzo» (443-475); di L. Bandinelli «L’integrazione del
contratto» (153-391); di M. Palazzo «Le clausole penali» (485-539), «La caparra confirmatoria e penitenziale», (541-603).
ALESSANDRO BELLAVISTA, ARMANDO PLAIA (a cura di), Le invalidità nel diritto privato,
Giuffrè, Milano, pp. 548.
Questa la struttura del volume: G. Gabrielli, «Invalidità e diritti dei terzi»; P. Tosi, «Le
invalidità nel diritto del lavoro: questioni di metodo»; C. Castronovo, «Patologie contrattuali[,] invalidità e risarcimento»; M. Barcellona, «Problemi delle invalidità: le nullità virtuali»; A. Gentili, «Invalidità e regole dello scambio»; C. Camardi, «Pratiche
commerciali scorrette e invalidità»; M. Mantovani, «Norme imperative invalidanti: nullità “virtuali” di protezione?»; G. Passagnoli, «Invalidità del contratto e restituzioni»; F.
Lunardon, «Le nullità del diritto del lavoro»; S. Pagliantini, «Clausole vessatorie e contratti negoziati fuori dei locali commerciali: il nuovo corso della Corte di giustizia»; M.
Marinelli, «La nullità della clausola retributiva»; A. Albanese, «Non tutto ciò che è “virtuale” è “razionale”: riflessioni sulla nullità del contratto»; A. Federico, «Nuove nullità
ed integrazione del contratto»; A. D’Adda, «La correzione del “contratto abusivo” regole dispositive in funzione “conformativa” ovvero una nuova stagione per l’equità giudi9.
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2011
ziale?»; G. Smorto, «Le invalidità nel diritto privato. Raffronti comparatistica»; R.
Natoli, «Sul dialogo tra diritto civile e diritto dei mercati finanziari in punto di regole
di validità e regole di responsabilità»; M.C. Cavallaro, «Principio di buona fede e invalidità del provvedimento amministrativo»; L. Modica, «Formalismo negoziale e nullità»; G. Tulumello, «Il diritto privato della Pubblica Amministrazione: dalle regole di
validità alle regole di responsabilità, e ritorno».
ALBERTO MARIA BENEDETTI, Le autodifese contrattuali. Artt. 1460-1462, in Il Codice
civile. Commentario diretto da F.D. Busnelli, Giuffrè, Milano, pp. XIV-150.
Osserva l’Autore (nella Prefazione brevissima, che del resto, e in senso più ampio, è un
chiaro programma di politica del diritto contrattuale: pp. 1-2) che gli istituti disciplinati dagli artt. 1460-1462 c.c. sono, volendo forzare un po’ la mano, figli di nessuno, e
perciò, paradossalmente, sono stati adottati da fin troppi genitori. I tre istituti in parola,
nell’idea di Benedetti, possono invece essere accomunati sotto il profilo funzionale: donde il titolo del volume, scelto non solo e non tanto per una vana ricerca di originalità
(p. 2), ma in virtù della convinzione che tali rimedi «rappresentino strumenti attraverso i quali i contraenti difendono da sé i propri interessi […]». In particolare, essi tentano
di combattere (art. 1460), di prevenire (art. 1461) l’inadempimento del contratto, nonché di blindare l’interesse all’adempimento (art. 1462), «mettendo fuori gioco proprio
quelle autodifese che ne minano il rapido conseguimento» (p. 2).
ROBERTO BOCCHINI, ALBERTO MARIA GAMBINO (a cura di), I contratti di somministrazione e di distribuzione, nel Trattato dei contratti, diretto da P. Rescigno ed E.
Gabrielli, Utet, Torino, pp. XV-892.
Il Volume è così strutturato.
Parte I (Contratti aventi ad oggetto prestazioni e servizi): Capitolo I («Il contratto di somministrazione di servizi»), di R. Bocchini; Capitolo II («Il contratto di handling»), di R.
Santagata; Capitolo III («Il contratto di logistica»), di G. Dinacci; Capitolo IV («I
“nuovi servizi” di mobilità»), di M. Lobuono e A. Addante; Capitolo V («Il contratto di
outsourcing»), di Amarillide Genovese; Capitolo VI («Il contratto di accesso ad internet»), di R. Bocchini; Capitolo VII («Contratto per il servizio di ricerca continuativa in
via telematica»), di A. Astone; Capitolo VIII («Contratto di assistenza e manutenzione
del computer»), di V. Vadalà; Capitolo IX («I contratti di distribuzione del commercio
elettronico»), di A. Gentili ed E. Battelli; Capitolo X («Il contratto di somministrazione
del servizio telefonico»), di R. Bocchini, Capitolo XI («Il contratto di abbonamento alla
pay tv»), di G. Capaldo; Capitolo XII («Il contratto di endorsement»), di A.M. Gambino
ed E. Maggio; Capitolo XIII («Il contratto di sponsorizzazione»), di R. Giampetraglia.
Parte II (Contratti aventi ad oggetto prestazioni di beni): Capitolo XIV («La somministrazione di cose»), di L. Fernández del Moral Domínguez; Capitolo XV («Il cash and carry»), di N. Corbo; Capitolo XVI («La concessione di vendita»), di M. Tommasini; Capitolo XVII («Contratti di distribuzione automatica»), di D. Di Sabato; Capitolo XVIII
(«Il contratto di distribuzione cinematografica»), di M. Fabiani; Capitolo XIX («La
subfornitura industriale»), di P. Nebbia; Capitolo XX («Il contratto librario»), di G.
Perlingieri e A. Lepore; Capitolo XXI («Il contratto di edizione»), di M. Bertani.
Segue indice analitico, e cd-rom.
Biblioteca
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UGO CARNEVALI, MICHELE TAMPONI, ENRICO GABRIELLI, La risoluzione, nel Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone, Il contratto in generale, vol. XIII, t. VIII**,
Giappichelli, Torino, pp. XII-456.
La struttura del volume è la seguente: Parte prima: L’inadempimento. Capitolo I («La risoluzione per inadempimento – Premesse generali»), di U. Carnevali; Capitolo II («La
risoluzione giudiziale»), di U. Carnevali; Capitolo III («La risoluzione stragiudiziale»), di M. Tamponi; Capitolo IV(«Gli effetti della risoluzione»), di U. Carnevali;
Capitolo V («Le eccezioni dilatorie»), di U. Carnevali. Parte seconda: L’impossibilità
sopravvenuta. Capitolo I («La disciplina generale»), di U. Carnevali; Capitolo II («I
contratti traslativi e costitutivi di diritti reali»), di U. Carnevali; Capitolo III («Impossibilità di prestare e impossibilità di ricevere»), di U. Carnevali. Parte terza: L’eccessiva
onerosità sopravvenuta. Capitolo I («La fattispecie»), di E. Gabrielli; Capitolo II («La
disciplina»), di E. Gabrielli; Capitolo III («Il giudizio e i rimedi»), di E. Gabrielli.
ANTONIO CATRICALÀ, ENRICO GABRIELLI (a cura di), I contratti nella concorrenza,
Utet, Torino, pp. 1008.
Il volume è così strutturato: Parte prima («Contratto, intese e abusi nel diritto della concorrenza»): G. Guizzi, Capitolo I («Contratto e intesa nella disciplina a tutela della concorrenza»); M. Onorato, Capitolo II («Nozione di intesa e requisiti del contratto»); M.
Libertini, Capitolo III («Le intese illecite»); M. Onorato, Capitolo IV («La nullità delle
intese»); F. Ghezzi e M. Maggiolino, Capitolo V («L’abuso di posizione dominante: alcune notazioni di carattere generale»); M. Roma, Capitolo VI («Abuso escludente mediante contratto»); Ph. Fabbio, Capitolo VII («Abuso di dipendenza economica»); F.
Tufarelli, Capitolo VIII («Il controllo sulle concentrazioni e l’incidenza sull’autonomia
delle imprese»); P. Congedo e F. Ghezzi, Capitolo IX («I rimedi nelle operazioni di concentrazione. Disciplina e prassi comunitaria. Cenni sulla disciplina e prassi italiana»); Parte seconda («Le tutele e le competenze»): C. Osti, Capitolo X («La tutela del consumatore tra concorrenza e pratiche commerciali scorrette»); E. Freni, Capitolo XI («La
competenza del giudice amministrativo»); A. Rocchietti March, Capitolo XII («Il risarcimento del danno da illecito antitrust»); I. Pagni, Capitolo XIII («La tutela apprestata
dal giudice ordinario in materia di antitrust»); R. Mastroianni, Capitolo XIV («La tutela
giurisdizionale apprestata dal giudice dell’Unione europea»); Parte terza («Tipi di contratto nel diritto della concorrenza»): J. Bertone, Capitolo XV («I contratti associativi»);
M. Imbrenda, Capitolo XVI («I contratti di distribuzione»); S. Simone, Capitolo XVII
(«Il contratto di appalto»); F. Ghezzi, M.L. Montagnani, M. Maggiolino, P. Magnani, E.
Brodi, Capitolo XVIII («Contratti di trasferimento di diritti di proprietà intellettuale»).
VINCENZO CUFFARO (a cura di), I contratti di appalto privato, nel Trattato dei contratti,
diretto da P. Rescigno e E. Gabrielli, Utet, Torino, pp. 576.
Il volume è così strutturato: Parte prima, La disciplina dell’appalto. L.V. Moscarini, Capitolo I («Il contratto di appalto e le figure affini»); A. Nervi, Capitolo II («Le parti
del contratto»); M.C. Cervale, Capitolo III («La struttura dell’appalto»); M. Pennasilico, Capitolo IV («Il corrispettivo»); M. Gambini, Capitolo V («L’esecuzione del
contratto»); E. Battelli, Capitolo VI («La disciplina del recesso»); F. Marinelli, Capi-
254
2011
tolo VII («La responsabilità dell’appaltatore»). Parte seconda, Contratti strumentali all’appalto. P. Piroddi, Capitolo VIII («Il contratto di subappalto»); A. Maresca e I. Alvino, Capitolo IX («Il rapporto di lavoro nell’appalto»); F. Prosperi, Capitolo X («Il
contratto di subfornitura»).
ENRICO DEL PRATO, Dieci lezioni sul contratto, Cedam, Padova, pp. X-144.
Il libro raccoglie i testi delle lezioni tenute dall’Autore presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università dello Hunan (Changsha, Cina), nel giugno 2011.
Si tratta di un corpus di dieci lezioni: I. Natura degli atti di autonomia privata: dalla Pandettistica alla fine del XX secolo; II. Il contratto all’inizio del XXI secolo: uno sguardo a temi
e prospettive; III. Requisiti del contratto: sistematica e itinerari; IV. Autoregolamento, accordo, conoscenza; V. Contratti dei consumatori; VI. Consensualità, realità, efficacia, corrispettività, alea; VII. Tipicità, atipicità, complessità, mistione, collegamento; VIII. Parti, contratti associativi, fenomeni organizzativi, soggettività; IX. Associazioni e comitati. Regolamenti e regole organizzative. X. Contratto e regolamento.
ANTONIO DE MAURO, Dell’impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile al debitore. Artt. 1256-1259, in Il Codice civile. Commentario diretto da F.D. Busnelli, Giuffrè, Milano, pp. XVI-202.
L’A. affronta il tema dell’impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile al debitore
secondo lo stile e i parametri metodologici propri del Commentario nel quale il suo volume è inserito: fin dalle prime pagine introduttive, egli mette in evidenza le questioni
chiave attorno alle quali ruota il tema dell’impossibilità sopravvenuta. Scrive infatti: «I
punti cardine da cui partire per l’esame di tale istituto sono costituiti dalla identificazione
del concetto di impossibilità e dall’indagine sul rapporto tra il criterio di diligenza di cui
all’art. 1176 cod. civ. e il limite di esigibilità derivante dalla sopravvenienza della causa
non imputabile che rende l’obbligazione impossibile (Introduzione, p. 2)». Si deduce che
il cambiamento terminologico che ha caratterizzato il codice vigente rispetto a quello del
1865 non può non avere un significato di grande impatto teorico e pratico: «forse già il
mutamento terminologico tra le due codificazioni italiane […] lascia intendere come il
concetto di impossibilità della prestazione non possa identificarsi con il significato naturalistico e materiale del termine, ma ponga all’attenzione dell’interprete la necessità di verificare la giuridicità del processo di estinzione dell’obbligazione» (Introduzione, p. 4).
GIORGIO DE NOVA, Il contratto. Dal contratto atipico al contratto alieno, Cedam, Padova, pp. X-688.
Il volume, aperto da una gustosa «Premessa» (pp. IX-X), raccoglie gli scritti più significativi dell’A. in materia di contratto.
La struttura dell’opera è questa: 1. «Una visione d’insieme»; 2. «I due modelli: contratto di civil law e contratto di common law»; 3. «Le fonti»; 4. «L’autonomia contrattuale: ambito e confini»; 5. «L’autonomia contrattuale: tipicità e atipicità»; 6. «L’autonomia contrattuale: il vincolo»; 7. «L’autonomia contrattuale: i limiti»; 8. «Contratto e contratti»; 9. «La formazione»; 10. «Oggetto e contenuto»; 11. «L’interpretazione»; 12. «La rappresentanza»; 13. «La cessione del contratto»; 14. «La disciplina
della nullità»; 15. «Recesso e risoluzione».
Biblioteca
255
GIORGIO DE NOVA, Il Sale and Purchase Agreement: un contratto commentato, Giappichelli, Torino, pp. VIII-280.
Il Volume raccoglie sei lezioni – cui corrispondono sei Capitoli – tenutesi nel 2009 su
«un contratto che oggi riveste un particolare valore economico nella prassi contrattuale
internazionale» (Introduzione, p. 5): il sale and purchase agreement [SPA] o vendita di
partecipazioni societarie di controllo di una società per azioni. In effetti, come preannuncia il titolo di questo Volume, i contributi rappresentano un vero e proprio commento delle principali caratteristiche strutturali di questo contratto, costruito, all’evidenza, essenzialmente sulla prassi.
FELICE MAURIZIO D’ETTORE, DOMENICO MARASCIULO, La mediazione. Tra modello
normativo e prassi negli affari, nel Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico
dell’economia, diretto da F. Galgano, vol. LX, Cedam, Padova, pp. IX-210.
Il volume è così strutturato: Capitolo I («La mediazione. Profili ricostruttivi»), pp. 157; Capitolo II («Attività mediatizia: autonomia dei soggetti e complessità degli effetti»), pp. 59-104; Capitolo III («Effetti negoziali ed economici delle prestazioni di natura mediatizia»), pp. 105-160; Capitolo IV («Ulteriori profili applicativi nel sistema degli effetti della mediazione»), pp. 161-206.
VINCENZO FERRARI, I contratti di assicurazione contro i danni e sulla vita, nel Trattato
di Diritto Civile del Consiglio Nazionale del Notariato, diretto da P. Perlingieri, Esi,
Napoli, pp. 536.
La struttura del volume: Introduzione; Capitolo I («Le assicurazioni contro i danni»);
Capitolo II «Le assicurazioni obbligatorie»): Parte prima: L’assicurazione obbligatoria
dei veicoli e dei natanti; Parte seconda: Ulteriori ipotesi di assicurazione obbligatoria; Capitolo III («Le assicurazioni marittime ed aeronautiche»); Capitolo IV («Le assicurazioni sulla vita»).
ENRICO GABRIELLI, Contratto e contratti – Scritti, Utet, Torino, pp. XI-594.
Il volume riunisce i contributi redatti dall’A. per il «Trattato dei diritti dei contratti»
diretto da Pietro Resigno ed Enrico Gabrielli.
I Capitoli sono dieci: I. «Il contratto e le sue classificazioni»; II. «Il contenuto e l’oggetto»; III. «La risoluzione per eccessiva onerosità»; IV. «Mercati, strumenti finanziari e contratti di investimento»; V. «Mercati, strumenti finanziari e contratti di investimento dopo la Mifid»; VI. «Le garanzie finanziarie. Profili generali»; VII. «Il consumatore e il professionista»; VIII. «L’offerta di riduzione ad equità del contratto»;
IX. «Il contratto di arbitraggio»; X. «Garanzia e garanzie reali».
ALBERTO MARIA GAMBINO (a cura di), Rimedi e tecniche di protezione del consumatore,
Giappichelli, Torino, pp. X-450.
Il volume raccoglie i contributi di vari Autori ed è suddiviso in tre parti: Profili comparatistici (coordinamento di Andrea Stazi), ove saggi di V. Zeno-Zencovich e M.C. Paglietti, S.
Sica e A.G. Parisi, O.M. Calliano, G.M. Riccio, A. Stazi; Profili sostanziali (coordinamento
di Emanuele Bilotti), ove saggi di N. Lipari, C. Scognamiglio, F. Astone, A.M. Benedetti,
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2011
E. Bilotti; Profili antitrust (coordinamento di Valeria Falce), ove saggi di V. Di Cataldo, A.
Genovese, G. Guizzi, L. Fiorentino, V. Falce; Profili processuali (coordinamento di Filomena Santagada), ove saggi di L. Daniele, C. Schepisi, R. Tiscini, I. Garaci, F. Santagada.
BIAGIO GRASSO, Delegazione, espromissione e accollo. Artt. 1268-1276, in Il Codice civile.
Commentario, diretto da F.D. Busnelli, Giuffrè, Milano, pp. XVIII-144.
Il lavoro, «largamente ispirato al pensiero di Raffaele Cicala, il quale ha dedicato ai temi
che vi sono trattati riflessioni decisive», contiene altresì «spunti innovativi, contributi personali e ulteriori approfondimenti […]» (p. XIII) rispetto all’oggetto della trattazione.
BRUNO INZITARI, Delle obbligazioni pecuniarie. Art. 1277-1284, nel Commentario del
Codice civile Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, Zanichelli-Soc. ed. del Foro italiano, Bologna-Roma, pp. XVIII-731.
Questa la struttura del volume: «Premesse generali: concetto e funzione del danaro»; «La
disciplina giuridica dell’introduzione dell’euro quale moneta unica europea»; «Il danaro
come “unità ideale”: conseguenze su circolazione e pagamento; Il principio nominalistico»; «Le obbligazioni pecuniarie»; «Debito di moneta estera e debito di specie monetaria
avente valore intrinseco»; «Svalutazione monetaria: l’eccessiva onerosità sopravvenuta, le
tecniche valoristiche»; «Clausole monetarie»; «Gli interessi»; «Interessi e maggior danno»; «Interessi e debiti da risarcimento»; «Saggio legale e convenzionale degli interessi»;
«Interessi, oneri e spese connessi allo scoperto e all’utilizzo del conto corrente».
DANIELE MAFFEIS, I contratti dell’intermediazione finanziaria, Giappichelli, Torino, pp.
VIII-284.
Si tratta di una raccolta di scritti: «Forme informative, cura dell’interesse ed organizzazione dell’attività nella prestazione dei servizi di investimento»; «La natura e la struttura
dei contratti di investimento»; «Servizi di investimento: l’onere della prova del conferimento dei singoli ordini di negoziazione»; «Conflitti di interessi nella prestazione di
servizi di investimento: la prima sentenza sulla vendita a risparmiatori di obbligazioni
argentine»; «Il dovere di consulenza al cliente nei servizi di investimento e l’estensione nel modello al credito ai consumatori»; «Sostanza e rigore nella disciplina Mifid
del conflitto di interessi»; «Sostanza e rigore nella giurisprudenza ambrosiana del conflitto di interessi»; «Contro l’interpretazione abrogante della disciplina preventiva del
conflitto di interessi (e di altri pericoli) nella prestazione dei servizi di investimento»;
«Discipline preventive nei servizi di investimento: le Sezioni Unite e la notte (degli investitori) in cui tutte le vacche sono nere»; «Dopo le Sezioni Unite: l’intermediario
che non si astiene restituisce al cliente il denaro investito»; «Intermediario contro investitore: i derivati over the counter»; «Contratti derivati».
SILVIO MARTUCCELLI, VALERIO PESCATORE (a cura di), Diritto civile (Dizionari del
diritto privato promossi da Natalino Irti), Giuffrè, Milano, pp. 1866.
Il volume contiene numerosissime voci rilevanti per il diritto delle obbligazioni e dei
contratti.
Biblioteca
257
VINCENZO MELI, PIERPAOLO MARANO (a cura di), La tutela del consumatore contro le
pratiche commerciali scorrette nei mercati del credito e delle assicurazioni, Giappichelli,
Torino, pp. V-268.
Il volume raccoglie nove contributi: V. Meli, «“Diligenza professionale”, “consumatore medio” e regola di de minimis nella prassi dell’AGCM e nella giurisprudenza amministrativa» (pp. 1-40); A. Genovese, «Il contrasto delle pratiche commerciali scorrette
nel settore bancario. Gli interventi dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato» (pp. 41-62); P. Marano, «Le pratiche commerciali scorrette nel mercato assicurativo: pubblicità, offerta ed esecuzione dei contratti dei rami danni» (pp. 63-104); M.
Tola, «Pratiche commerciali scorrette e prodotti finanziari» (pp. 105-136); G. Martina,
«La tutela del consumatore di forme pensionistiche complementari tra disciplina di settore e contrasto delle pratiche commerciali scorrette» (pp. 137-170); S. Landini, «Pratiche commerciali scorrette e clausole abusive nell’assicurazione danni» (pp. 171-194);
G. Romagnoli, «La repressione delle pratiche commerciali scorrette tra poteri dell’Autorità Garante per la concorrenza ed il mercato e competenze dell’ISVAP» (pp. 195-216);
F. Bilotta, «Invalidità del contratto e tutela individuale rispetto alle pratiche commerciali
scorrette nel settore finanziario e assicurativo» (pp. 217-248); G. Turchetti, S. Cannizzo, «L’impatto delle disposizioni sulle pratiche commerciali scorrette sulle politiche
di marketing delle imprese assicurative» (pp. 249-264).
LUIGI MENGONI, Scritti II – Obbligazioni e negozio, a cura di A. Albanese, C. Castronovo, A Natucci, Giuffrè, Milano, pp. X-606.
Il volume è diviso in quattro Parti: «Obbligazioni»; «Vendita»; «Acquisto del diritto»;
«Negozio giuridico».
ENRICO MOSCATI, La disciplina generale delle obbligazioni. Corso di diritto civile. Edizione ridotta ad uso degli Studenti, Giappichelli, Torino, pp. XIV-370.
Il volume è diviso in due parti: Parte prima: «Il concetto e gli elementi dell’obbligazione». Parte seconda: «Le vicende del rapporto obbligatorio».
EMILIO VITO NAPOLI, GAETANO EDOARDO NAPOLI, Il regolamento di condominio.
Artt. 1138-1139, in Il Codice civile. Commentario diretto da F.D. Busnelli, Giuffrè,
Milano, pp. 344.
Questa la struttura del volume relativamente all’art. 1139, che qui soprattutto interessa: Capitolo I, «Note introduttive»; Capitolo II, «La formazione del regolamento»;
Capitolo III, «I regolamenti condominiali»; Capitolo IV, «Il contenuto del regolamento tipico»; Capitolo V, «Il contenuto del regolamento contrattuale»; Capitolo VI, «Effettività, responsabilità e sanzioni»; Capitolo VII, «Le tabelle dei millesimi»; Capitolo
VIII, «Regolamenti atipici»; Capitolo IX, «La pubblicità»; Capitolo X, «L’interpretazione del regolamento del condominio».
EMANUELA NAVARRETTA, ANDREA ORESTANO (a cura di), Dei contratti in generale,
vol. I: Artt. 1321-1349, nel Commentario del Codice civile diretto da E. Gabrielli,
Utet, Torino, pp. XVI-864.
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2011
EMANUELA NAVARRETTA, ANDREA ORESTANO (a cura di), Dei contratti in generale,
vol. II: Artt. 1350-1386, nel Commentario del Codice civile diretto da E. Gabrielli,
Utet, Torino, pp. 1056.
EMANUELA NAVARRETTA, ANDREA ORESTANO (a cura di), Dei contratti in generale,
vol. IV: Artt. 1425-1469 bis e leggi collegate, nel Commentario del Codice civile diretto da E. Gabrielli, Utet, Torino, pp. XVIII-958.
I volumi curati da E. Navarretta e A. Orestano coprono gli artt. 1321-1386 e 14251469 bis.
LUCA NIVARRA, Lineamenti di diritto delle obbligazioni, Giappichelli, Torino, pp. XIV202.
Il volume si inserisce nella collana «La didattica del diritto civile, a cura di Salvatore
Mazzamuto ed Enrico Moscati» e, come osserva Luca Nivarra nell’Introduzione (p.
XIII), si tratta di uno strumento didattico agile, «nel quale ad un’esposizione piana ma
(almeno spero) non banale delle nozioni fondamentali e della disciplina di un istituto
centrale del diritto privato, si affiancasse una prima informazione in ordine agli indirizzi della giurisprudenza e della dottrina».
Questa la struttura del lavoro: Capitolo I («La fisiologia del rapporto obbligatorio»);
Capitolo II («Le vicende del rapporto obbligatorio»); Capitolo III («Alcune specie di
obbligazioni»); Capitolo IV («L’attuazione del rapporto obbligatorio»); Capitolo V
(«La patologia del rapporto obbligatorio»); Capitolo VI («Le fonti delle obbligazioni
diverse dal contratto e dal fatto illecito»).
FLAVIO PECCENINI, Assicurazione, nel Commentario del Codice Civile Scialoja-Branca, a
cura di F. Galgano, Zanichelli-Soc. ed. Il Foro italiano, Bologna-Roma, pp. V-298.
Il volume segue, nella sua organizzazione, la sistematica del codice civile in materia di assicurazione, predisponendo un commento agli artt. 1882-1932 c.c.; seguendo efficacemente lo stile e i criteri propri del commentario nel quale è inserito, l’A. non tralascia di
analizzare, accanto ai profili teorici più tradizionali concernenti il contratto di assicurazione, anche la grande messe di dati ricavabili dalla giurisprudenza e dalla prassi economica e commerciale. Fin dalle prime pagine, il lettore avverte chiaramente che la ricostruzione della disciplina del contratto di assicurazione e dei suoi problemi passa attraverso la soluzione di alcune questioni che, lungi dal rivestire solo carattere teorico, presentano rilevanti conseguenze applicative: in particolare, l’A. si sofferma sul dibattito sorto in dottrina attorno all’unità, o alla pluralità, del contratto di assicurazione.
ANGELO RICCIO, Dell’eccessiva onerosità. Art. 1467-1469, nel Commentario del Codice
civile Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, Zanichelli-Soc. ed. del Foro italiano,
Bologna-Roma, pp. 715 [2010].
Osserva Riccio nell’Introduzione (pp. 6-7) che l’istituto della eccessiva onerosità è ispirato al principio della sopravvenienza contrattuale, fondato sulla teoria oggettiva; il legislatore ha dunque preferito la giustizia contrattuale alla certezza delle contrattazioni: «Infatti, trovandosi davanti all’alternativa di considerare prevalente il principio pacta sunt ser-
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vanda, secondo il quale non bisogna dar rilievo a qualunque modificazione della realtà sopravvenuta alla conclusione del contratto, oppure di aprire una breccia in questa rigida costruzione normativa dando accesso ad un nuovo strumento che fosse in grado di porre riparo a gravi fattori di squilibrio contrattuale non previsti né prevedibili al momento della
stipulazione, ma che avrebbero inciso gravemente sulla sicurezza e stabilità delle contrattazioni, ha preferito questa seconda via, quella appunto della giustizia contrattuale» (ivi).
FILIPPO ROMEO, Il contratto di viaggio. Tutele specifiche e risarcimento del danno, Cedam, Padova, pp. XIV-304.
La struttura del volume è la seguente: Parte Prima (I servizi turistici): Capitolo I («Contratti di viaggio: il quadro normativo di riferimento»); Capitolo II («Ambito di applicazione delle disposizioni del codice del consumo in materia di «servizi turistici»); Capitolo III («Il processo informativo nella commercializzazione dei pacchetti turistici»); Capitolo IV («Contenuto e forma del contratto di vendita di pacchetti turistici»); Capitolo
V («Vicende successive alla stipulazione del contratto»); Capitolo VI («I reclami e le
garanzie»); Capitolo VII («La responsabilità dell’organizzatore e del venditore»); Capitolo VIII («Il danno da overbooking, cancellazione del volo e ritardo prolungato»); Capitolo IX («Il danno da vacanza rovinata»); Parte Seconda (Le grandi questioni): Sezione
prima («Le pratiche commerciali scorrette. I provvedimenti dell’Antitrust»); Sezione
seconda («Depliant informativo e contenuto del contratto di viaggio all inclusive. I presupposti essenziali del servizio e la “finalità turistica”»); Sezione terza («Overbooking,
cancellazione del volo e ritardo prolungato nel servizio di trasporto aereo compreso nel
pacchetto turistico. La tutela del passeggero nelle applicazioni della giurisprudenza interna e comunitaria»); Sezione quarta («La responsabilità del tour operator per l’operato
dei terzi prestatori di servizi. Lo smarrimento del bagaglio da parte del vettore aereo»).
MARCO ROSSETTI, Il diritto delle assicurazioni, I, L’impresa di assicurazione. Il contratto
di assicurazione in generale, Cedam, Padova, pp. VII-1121.
Il volume ha la seguente articolazione: Capitolo I («L’evoluzione storica»), Capitolo
II («L’impresa di assicurazioni»), Capitolo III («I controlli»), Capitolo IV («I collaboratori dell’impresa assicurativa»), Capitolo V («Definizione e struttura») Capitolo
VI («Gli elementi del contratto»), Capitolo VII («Le trattative e la conclusione del
contratto»), Capitolo VIII («Gli effetti del contratto»), Capitolo IX («La durata del
contratto»), Capitolo X, («L’interpretazione del contratto»), Capitolo XI, («La tutela dell’assicurato»), Capitolo XII («Le vicende estintive del contratto»).
FRANCESCO SCAGLIONE, Il comodato. Artt. 1803-1812, in Il Codice Civile. Commentario diretto da F.D. Busnelli, Giuffrè, Milano, pp. XIV-196.
Rileva l’A. che, nella concezione giuspositivistica, il comodato è l’emblema di alcune importanti questioni del diritto contrattuale, cui gli studiosi hanno cercato di dare, nel corso
del tempo, svariate soluzioni (p. 7): in particolare, i problemi interpretativi riguardano
essenzialmente le due caratteristiche tradizionalmente ritenute proprie del comodato:
realità e gratuità (ivi). Ma che il comodato sia un tipico contratto reale gratuito è affermazione che richiede un’attenta verifica (ivi).
260
2011
L’indagine è fondata sul seguente criterio metodologico-ermeneutico: l’individuazione
degli interessi rilevanti all’interno di una determinata struttura contrattuale per la qualificazione del rapporto, quale sicuro indice rivelatore della causa dell’attribuzione, e quindi
della disciplina applicabile (p. 8). L’A. definisce tale criterio «argomentazione per interessi»: esso indica come il ragionamento giuridico insito nell’attività interpretativa, in
primo luogo di fonte giudiziale, debba soffermarsi essenzialmente sulla ricostruzione degli interessi in gioco (ivi). Con la precisazione che la fonte delle ambiguità concettuali
che si perpetuano in tema di comodato è proprio la mancata attenzione agli interessi delle parti, nonché alla necessaria, intrinseca interrelazione di questi interessi con la struttura
del rapporto onde assicurare il raggiungimento dello scopo dell’operazione economica
(pp. 8-9).
ANTONINO SCALISI, Il contratto di deposito. Artt. 1766-1797. Del deposito in generale,
del deposito in albergo, del deposito nei magazzini generali, in Il Codice civile. Commentario diretto da F.D. Busnelli, Giuffrè, Milano, pp. XVIII-480.
Il volume dà conto del dibattito dottrinale e giurisprudenziale in riferimento alla materia trattata.
GIANLUCA SICCHIERO, La responsabilità patrimoniale, nel Trattato di diritto civile, diretto da R. Sacco, Utet, Torino, pp. X-326.
La struttura del volume è la seguente: Capitolo I, «La responsabilità patrimoniale del
debitore (art. 2740 c.c.)»; Capitolo II, «La par condicio creditorum».
PIETRO SIRENA (a cura di), I contratti di collaborazione, nel Trattato dei contratti, diretto da P. Rescigno ed E. Gabrielli, Utet, Torino, pp. XIV-1167.
Il volume si apre con un Capitolo I, del curatore, di carattere introduttivo, dedicato alla
categoria dei contratti di collaborazione (pp. 3-23), la quale va colta non già servendosi
del «riferimento alla collaborazione tra le parti contraenti», «inidoneo a determinare
propriamente alcun tipo di contratto», quanto piuttosto ancorandosi al «particolare effetto giuridico, il quale accomuna trasversalmente più contratti tipici o atipici».
Seguono: Capitolo II («Il mandato»), di G. Di Rosa, V. Di Gregorio, D. Maffeis e R.
Calvo; Capitolo III («La commissione»), di R. Amagliani; Capitolo IV (La spedizione»), di F. Gigliotti; Capitolo V («L’agenzia»), di A. Barba; Capitolo VI («La mediazione»), di E. Giacobbe; Capitolo VII («Il contratto di lavoro autonomo»), di L. Fernandez del Moral Dominguez e M. Rabitti; Capitolo VIII («Il deposito»), di A. Ciatti;
Capitolo IX («Il franchising»), di A. Fici; Capitolo X («La joint venture»), di G. Di
Rosa. Segue indice analitico, e cd-rom.
DANIELA VALENTINO (a cura di), Dei singoli contratti, vol. I, t. 1: Artt. 1470-1547, nel
Commentario del Codice civile, diretto da E. Gabrielli, Utet, Torino, pp. 622.
DANIELA VALENTINO (a cura di), Dei singoli contratti, vol. I, t. II: Artt. 1548-1654, nel
Commentario del Codice civile diretto da E. Gabrielli, Utet, Torino, pp. XXX-626.
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DANIELA VALENTINO (a cura di), Dei singoli contratti, vol. II: Artt. 1665-1802, nel
Commentario del Codice civile diretto da E. Gabrielli, Utet, Torino, pp. XXX-914.
DANIELA VALENTINO (a cura di), Dei singoli contratti, vol. IV: Artt. 1861-1986, nel
Commentario del Codice civile diretto da E. Gabrielli, Utet, Torino, pp. 960.
DANIELA VALENTINO (a cura di), Dei singoli contratti, vol. V: Leggi collegate, nel
Commentario del Codice civile diretto da Enrico Gabrielli, Utet, Torino, pp. XII596.
I volumi curati da D. Valentino coprono gli artt. 1470-1654; 1665-1802; 1861-1986.
La struttura del volume dedicato alle leggi collegate è la seguente: M. Imbreda, «Il contratto di concessione di vendita»; Al. Di Amato, «Il contratto di pronti contro termine»;
S. Monticelli, «Il contratto autonomo di garanzia»; A. Fici, «Il contratto di franchising»;
M. Bussani e M. Infantino, «Il contratto di factoring»; M. Serra, «Il contratto di leasing».
II. MONOGRAFIE SUL CONTRATTO
1. FORMAZIONE
PAOLO GAGGERO, La trasparenza nel contratto. Per un’analisi dei rapporti di intermediazione creditizia, Giuffrè, Milano, pp. 248.
La struttura del libro è la seguente: Capitolo I, «Profili evolutivi»; Capitolo II, «Profili
strutturali»; Capitolo III, «Profili formali»; Capitolo IV, «Profili funzionali».
La disciplina posta a presidio della trasparenza dei rapporti negoziali tra le banche ed i
propri clienti non si presta «ad una lettura che ne accrediti l’aderenza al, e l’intento recuperatorio del modello di contratto imperniato sulla signoria della volontà che invece
negano, siccome le regole in cui si articola pongono obblighi e vincoli e prevedono controlli. Esse si collocano, dunque, lungo l’arco della parabola che delinea l’eclissi della teoria classica del contratto in cui si riflessero le dottrine volontaristiche che, elaborate sulla
scorta della tradizione romanistica e dell’elaborazione giusfilosofica e giuspolitica naturalistica, hanno marcatamente influenzato l’evoluzione dei moderni ordinamenti» (p. 53).
Alla «ormai inattuale individuazione nel contratto del precipitato dell’ideale libera determinazione volitiva individuale ed alla connessa, superata esaltazione dell’intangibilità del libero volere si sostituisce ed acquista centralità l’istanza di tutela dell’autonomia
privata e, in particolare, della libertà contrattuale sotto il profilo dell’effettività e della consapevolezza del consenso; e che la collocazione della mistica del consenso in posizione
eccentrica ed il tendenziale suo cedimento, in coerenza con quanto emerso in relazione alle condizioni generali di contratto analizzate quale tecnica negoziale di conclusione di contratti, segna l’evoluzione della lex posita che mostra di reagire al fenomeno
della morte del contratto […] predisponendo regole intese a favorire la formazione del
consenso consapevole all’operazione economico-giuridica che abbia fonte nel contratto» (pp. 59-60).
La normativa in tema di trasparenza delle relazioni negoziali banca-cliente, «e, per es-
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2011
sa, le regole di cui si compone relative, ad esempio, alla pubblicizzazione di alcuni contenuti del regolamento contrattuale; oppure alla fase genetica del rapporto, caratterizzata
da obblighi a carico della banca di consegna d’una articolata documentazione informativa oltre che di una copia del contratto; oppure nello stadio funzionale del rapporto medesimo, avuto ad esempio riguardo alla ammissione del jus variandi» (p. 60) è orientata in questo senso. Conseguentemente, «si diffondono sia regole sull’informazione
dovuta al contraente, anche prima della conclusione del contratto, sui modi e sui contenuti dell’informazione, che appaiono non solo particolarmente rilevanti nelle esperienze in cui tradizionalmente si neghi l’esistenza di clausole generali che possano tenervi luogo, ma anche utili tipizzazioni di queste ultime negli ordinamenti in cui siano
impiegate; sia regole a guarentigia dell’intangibilità del vincolo negoziale, che ad esempio limitano il diritto potestativo di modificare unilateralmente il regolamento contrattuale» (p. 61).
In generale, può allora dirsi che se è vero che la disciplina dei contratti aventi ad oggetto operazioni o servivi bancari o finanziari «non sembra raccogliere le suggestioni della
retorica del consumerismo paternalistico e della giustizia contrattuale, non per questo
ignora l’esigenza di riequilibrare rapporti contrattuali che, nella prassi, sembravano risentire eccessivamente dell’asimmetria delle posizioni delle parti e risultavano sbilanciati oltremisura a vantaggio d’una delle parti» (p. 171). Sembra quindi indubitabile
«che la disciplina in considerazione, per gli obblighi che impone, innanzi tutto informativi che assistono la conoscibilità del rapporto nella sua genesi come nella sua evoluzione e, prima ancora, la comparabilità delle proposte, e per le limitazioni della libertà
contrattuale nel confezionamento del regolamento convenzionale che pone, abbia l’effetto di riequilibrare le posizioni delle parti, ossia la relazione negoziale tra loro nel settore che regola» (pp. 171-172).
2. CONTENUTO, EFFETTI, ESECUZIONE
ROBERTO DE ROSA, L’analisi funzionale della forma, Giuffrè, Milano, pp. XII-145.
La struttura del volume è la seguente: Parte prima: Analisi funzionale e analisi strutturale della forma. Capitolo I («Gli effetti dell’analisi funzionale»). Parte seconda: Le funzioni della forma. Capitolo I («Forme riconducibili alla causa»); Capitolo II («Forme
riconducibili all’oggetto»); Capitolo III («Le forme di protezione del contraente debole: forme riconducibili alla qualificazione soggettiva»).
La metodologia del volume è funzionalistica, «nella convinzione, oggi più che mai avvertita, della fondamentale importanza rivestita dall’individuazione e dall’analisi dell’interesse sotteso a qualunque istituto, ed in particolar modo alla forma negoziale»
(Premessa, p. 1).
Muovendo dal principio di libertà delle forme e dalle critiche di Natalino Irti, l’A. «approda alla conferma della valenza del principio stesso e all’insufficienza di un’analisi
meramente strutturale. Tuttavia, condurre un’analisi funzionale non significa negare
l’ammissibilità […] dell’interpretazione estensiva e del procedimento analogico rispetto alle norme che richiedono forme determinate. Ad una conclusione siffatta sembra,
però, doversi giungere, già in prima battuta, non negando l’esistenza di una norma generale che statuisca la libertà delle forme e rispetto alla quale risulterebbero eccezionali
Biblioteca
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tutte le norme prescriventi forme vincolate, bensì percorrendo l’itinerario dell’analisi
teleologica della forma» (ivi).
Se allora è fondamentale l’analisi funzionale, ne consegue la pari importanza del tentativo di individuare la ragione delle varie forme che si rinvengono nel nostro ordinamento, e quindi l’interesse che ciascuna di esse è diretta a soddisfare (p. X).
Il nostro ordinamento conosce in sintesi un doppio sistema formale: «[q]uello tradizionale, che trova fonte nel codice civile, e quello rappresentato dal formalismo protettivo di recente produzione, derivante dalla spinta comunitaria. Il primo è caratterizzato: dalla scarsa attenzione del legislatore verso la funzione delle varie forme (che, quindi, va ricostruita dall’interprete), dall’identificazione della forma con il solo documento
negoziale e dalla nullità assoluta (o, in rari casi, dall’annullabilità) quale principale reazione dell’ordinamento all’inosservanza del vincolo formale. Nel secondo, viceversa: la
funzione della forma è palese e dichiarata (e l’interprete non può che prenderne atto);
la forma non significa soltanto documento ma vuol dire anche comunicazioni informative e vincoli di contenuto; infine, la carenza formale è sanzionata di norma con la nullità relativa. Tanto che tale specie di nullità deve essere proposta quale tipico rimedio
per la violazione di norme prescriventi forme di protezione, da applicare anche quando
il nuovo legislatore consumeristico non la preveda espressamente» (p. XI).
MAURO GRONDONA, Diritto dispositivo contrattuale. Funzioni, usi, problemi, Giappichelli, Torino, pp. VII-506.
L’A. affronta il tema del diritto dispositivo (contrattuale e non solo) srotolandone questioni e problemi in quattro Capitoli, articolati in numerose sezioni: Capitolo I («Diritto
dispositivo contrattuale: valori dell’ordinamento; valori del contratto. Prospettive generali dell’analisi»), pp. 1-94; Capitolo II («La derogabilità del diritto dispositivo contrattuale»), pp. 97-220; Capitolo III («L’integrazione del contratto e diritto dispositivo»),
pp. 221-323; Capitolo IV («Interpretazione del contratto e diritto dispositivo»), pp.
325-431. Chiude il volume una ricca bibliografia, cui si accompagna un accurato indice
dei nomi.
Il tema delle norme dispositive, del loro rapporto con il mondo del contratto e dell’obbligazione, della loro interazione con gli interessi delle parti contraenti attrae da sempre gli studiosi del contratto: in genere nelle norme dispositive si è ravvisato uno strumento che sostiene l’autonomia privata, che aiuta l’efficienza del regolamento contrattuale (e la sua economicità, potendo le parti ignorare aspetti che possono lasciare
all’operatività delle norme dispositive), ma del quale essa può fare tranquillamente a
meno, disponendo diversamente. L’A., però, non la pensa così, tornando sugli approcci
tradizionali e ponendone in discussione, in un certo senso, ragioni e fondamenti: nonostante la casistica sul contratto non abbia mai fatto emergere un problema consistente
nella legittimità delle clausole di deroga al diritto dispositivo, l’A. ritiene comunque
opportuno porselo, dichiarando più o meno esplicitamente che è compito di chi eleva
il diritto ad oggetto di riflessione scientifica occuparsi anche di questioni nuove, estranee o lontane da quella dimensione problematica propria della pratica del diritto. O
delle quali, forse, la pratica non s’è ancora accorta. Il volume è ricco di suggestioni, con
più d’una fuga verso la teoria generale del contratto e del diritto; si può intravedere una
sottile linea rossa che attraversa una trama complessa e difficile, nella quale il lettore rischierebbe di perdersi se non tenesse a mente, appunto, che un filo conduttore c’è: la
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deroga alle norme dispositive contrattuali non è, come pure generalmente si ritiene,
sostanzialmente lasciata alla discrezionalità delle parti, ma deve essere sottoposta ad un
controllo dell’interprete che ne accerti la legittimità o, forse, la meritevolezza (ma meglio ancora: la ragionevolezza).
L’A. pensa che le norme dispositive trasudino principi e valori; che non siano meri
suggerimenti o supporti apprestati dal legislatore per contraenti distratti, ma che, appunto, siccome anch’esse norme giuridiche a pieno titolo, contengano in sé una sorta
di spirito d’inderogabilità, un nucleo valoriale implicito nel loro esser norme (anche se
nascosto, o, almeno, fino ad ora non visto) che non è molto distante da quello (palese, o,
comunque, più forte) che contraddistingue le norme imperative.
Nella prospettiva che sembra ispirare l’A., la forza delle norme dispositive sta nel loro essere figlie della migliore prassi negoziale: «[i]l diritto dispositivo, in questo senso, è la
misura della normalità contrattuale. Ci si può distaccare da tale normalità, facendo esercizio di autonomia privata, ma se non lo si fa, e dunque se il contratto presenta una o più
lacune, allora il ricorso al diritto dispositivo garantirà una integrazione ottimale del contratto (…)» (p. 199). Se questo è vero, è ben difficile che contraenti saggi ed attenti vi
apportino deroghe senza avere delle buone ragioni (e, forse per questo, l’evento deroga è
statisticamente poco frequente), ma quando lo fanno, come se scattasse un campanello
d’allarme, l’interprete deve riuscire a comprendere perché la deroga è stata operata.
L’unica sicura qualità della norma dispositiva è la facilità della deroga. Ma essendo, comunque, norma (e, dunque, espressione di valori assunti come propri dall’ordinamento di cui è parte) la deroga deve essere vagliata, valutandone l’impatto mediante un
giudizio bicipite articolato sui seguenti parametri: uno interno o endogeno (compatibilità della clausola derogatoria con quella che Grondona identifica nell’economia del contratto: p. 61 ss.), uno esterno o esogeno (rapporto tra la deroga e quei valori o principi
che la norma dispositiva comunque esprime, o ai quali è imprescindibilmente legata).
Tra la norma derogata e la clausola derogante si può generare un conflitto di valori che,
nella prospettiva accolta in questo volume, deve comunque essere risolto, e non può essere ignorato: il risultato è un valore nuovo, un nuovo assetto di interessi, che l’ordinamento – attraverso il contratto – in qualche modo fa proprio e che la deroga al diritto dispositivo – secondo meccanismi di interazione su cui l’Autore si sofferma ampiamente –
immette nel traffico giuridico. Valori dell’ordinamento, valori del contratto: un rapporto
di integrazione, e, se vogliamo, di reciproca costruzione come se le parti, nel contratto,
esprimessero assetti di interessi che l’ordinamento, per il tramite del giudice, finisce con il
far propri (o con il respingere, se ripugnanti ai suoi fini).
Se le parti fuoriescono dal modello disegnato dalle norme dispositive – e, quindi, rifiutano quella buona prassi negoziali che queste disposizioni condensano – è per esprimere un valore diverso, che, nella prospettiva accolta in questo volume, il giudice o (i)
riterrà incompatibile con valori espressi dall’ordinamento, anche attraverso quel nucleo indisponibile che esiste anche nelle norme dispositive o (ii) riterrà compatibile con i
valori ordinamentali, aprendo così la strada alla protezione giuridica di nuovi interessi
che, partendo dal contratto, finiranno con l’arricchire il catalogo dei valori assunti come tali dall’ordinamento generale.
Dichiaratamente dedicato ai problemi concettuali e metodologici, il volume dovrebbe
essere seguito da un terzo contributo, di taglio più concreto, dedicato proprio al ruolo
del giudice di fronte al diritto dispositivo contrattuale.
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MARCO MARTINO, L’expressio causae. Contributo allo studio dell’astrazione negoziale,
Giappichelli, Torino, pp. XVI-292.
La ricerca è articolata in quattro Parti: «Linee generali per una dottrina dell’expressio causae»; «Formalismo, documentazione e causa del contratto: una ricognizione storica»;
«L’expressio causae nei contratti»; «Expressio causae e prestazione isolata solvendi causa».
La locuzione expressio causae non ha un significato univoco, e ciò dipende dall’elasticità
con cui, di volta in volta, il termine causa indica la giustificazione dello spostamento
patrimoniale, il titolo dell’obbligazione, l’imputazione di una prestazione, lo stesso tipo
negoziale (p. 3).
Rileva Martino che in caso di expressio causae «si è di fronte […] ad un pre-giudizio
sulla causa. Dal che nasce evidentemente la questione, da una parte, della possibilità di
rimettere alle parti la definizione della causa, cui la dottrina attribuisce funzione di primo indice qualificatorio del negozio; dall’altra, della possibilità di sottrarsi a siffatto pregiudizio una volta che sia accertato che questo, scientemente, è stato formulato in maniera difforme dal vero. Combinando le due prospettive, il tema finisce per collimare
con quello della simulazione relativa. Di converso, in difetto di expressio causae, quand’anche non si reputi esistente alcuna regola di invalidità – che, peraltro, richiederebbe
di essere declinata fattispecie per fattispecie – si pone pur sempre a ben vedere un problema interpretativo – ancora una volta prodromico alla qualificazione – in cui si è di
fronte non già alla necessità di dare un ruolo preciso a elementi che, per la loro valenza,
consentono di delimitare l’area della giustificazione (della promessa, del negozio, dell’attribuzione […]), ma piuttosto alla necessità di sopperire con l’interpretazione al difetto di qualsivoglia elemento da interpretare. Di fronte all’atto muto non può darsi
estrapolazione di un significato: non già Auslegung, ma Sinnebung» (p. 5).
In sintesi, i problemi affrontati nello studio sono i seguenti: i) il valore da attribuirsi
all’emersione (documentale, o per il tramite di allegazione processuale) o alla mancata
emersione delle ragioni giustificative degli effetti giuridici desiderati dal disponente, sia
sul piano sostanziale, sia sul piano della disciplina della prova (relevatio; presunzione);
ii) l’individuazione dei rimedi (invalidità, restituzioni, causa condicendi e arricchimento
ingiustificato) approntati dall’ordinamento, per il difetto delle ragioni medesime, siano
esse espresse o meno (pp. 5-6).
Posto che l’analisi è diretta a verificare: i) quali siano i caratteri strutturali e formali
dell’atto di dichiarare la causa; ii) se e in quali fattispecie detto atto sia necessario ovvero superfluo; iii) quali effetti conseguano alla presenza di una expressio causae; iv) in
che rapporto stiano le regole di forma della dichiarazione contrattuale e di documentazione della stessa con il principio di autonomia privata deve avere una causa (p. 8), sotto il profilo metodologico (cui è opportunamente e specificamente dedicato l’efficace
par. 2 del Capitolo I), il lavoro è impostato privilegiando l’analisi dei concetti (p. 9):
«La scelta di un approccio che, senza dubbio, è e vuole essere dogmatico, si giustifica – a
discapito di quanto solitamente si rimprovera proprio a chi ne faccia e ne abbia fatto
uso – per l’obiettivo di sottrarre la posizione di enunciati normativi e regole all’arbitrio
anche degli interpreti; l’uso di modelli concettuali di riferimento non è dunque, espressione di una proterva volontà di conservazione dell’esistente, slegato da qualsivoglia
dimensione assiologica delle norme o del c.d. diritto vivente. È, invece, il primo ed irrinunciabile tassello per una comprensione effettiva dell’oggetto di una analisi che aspiri
a dirsi scientifica, vale a dire, nell’ambito della scienza giuridica, in grado di compen-
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2011
diare un insieme coerente di regole giuridiche orientate a soluzioni pratiche rilevanti»
(pp. 9-10; corsivo orig.).
BARBARA MASTROPIETRO, Destinazione di beni ad uno scopo e rapporti gestori, Jovene,
Napoli, pp. XII-252.
Quel che l’Autrice propone è uno studio completo e ragionato dei negozi di destinazione alla luce del (recentemente introdotto) art. 2645 ter c.c. («Trascrizione di atti di
destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con
disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche»); più in particolare, delle questioni – sia ontologiche che operative – che la disposizione pone, dei
suoi rapporti con gli altri istituti del nostro ordinamento, delle letture sinora offerte
dalla giurisprudenza e dalla dottrina.
La Parte Prima («L’atto di destinazione dei beni ad uno scopo ex art. 2645 ter c.c.») è ripartita in tre Capitoli: I. Il ruolo della nuova norma nella disciplina dei patrimoni destinati,
pp. 3-62; II. La costituzione del vincolo di destinazione, pp. 63-112; III. Effetti dell’atto di
destinazione sul sistema di responsabilità patrimoniale, pp. 113-132.
Fra i temi più importanti che si trovano qui trattati, vi è quello della discussione sulla natura del vincolo di destinazione, il quale – l’Autrice spiega – «non attribuisce al beneficiario né una posizione “paraproprietaria” né una situazione attiva riconducibile ad un
(nuovo) diritto reale sulla cosa. Il proprietario-destinante rimane tale e limita solo sul
piano obbligatorio il potere di godere del bene, senza naturalmente perdere quello di disporne»; mentre la situazione soggettiva del beneficiario «può ricondursi allo schema
del diritto di credito» (p. 51), cui – tuttavia – viene assicurata una «tutela “più incisiva”
in caso di alienazione del bene destinato» vista l’opponibilità – entro certi limiti – del
vincolo a terzi tramite trascrizione (p. 53). Corollario di ciò è – aggiunge l’Autrice – la
non trascrivibilità ex art. 2645 ter delle obbligazioni propter rem e delle servitù irregolari.
Altro tema centrale è quello del requisito della meritevolezza degli interessi, cui è subordinata la possibilità di usufruire del particolare regime di opponibilità e di limitazione della responsabilità di cui alla nuova disposizione: secondo la Mastropietro, la
destinazione risulta «meritevole di tutela nella misura in cui realizzi un interesse superindividuale, rectius collettivo – perseguito in via diretta oppure per il tramite del soddisfacimento di interessi appartenenti alla sfera individuale di uno o più beneficiari –, o
anche un interesse individuale di indole non meramente patrimoniale, corrispondente
a valori della persona costituzionalmente garantiti» (pp. 92-93).
Va precisato, peraltro, che la separazione cui l’art. 2645 ter permette di accedere è
«unilaterale, o unidirezionale», in quanto i «creditori destinati possono rivalersi liberamente e immediatamente anche sui restanti beni, mentre i creditori personali del disponente non possono rivalersi sui beni destinati» (p. 120); quel che secondo l’Autrice ne risulta, fra le altre cose, è una non adeguata protezione degli interessi dei creditori
personali del conferente, «soprattutto perché la trascrizione dell’atto di destinazione
rende tale atto opponibile anche ai creditori anteriori ove abbiano trascritto il pignoramento successivamente alla trascrizione del vincolo stesso» (p. 127). Mancano, in
altre parole, forme di protezione ad hoc, e i rimedi esperibili – se del caso – rimangono
quelli “generali” apprestati dal legislatore (azione revocatoria, azione di simulazione,
«nullità dell’atto di destinazione per difetto del profilo funzionale e, segnatamente, in
mancanza di un interesse meritevole di tutela») (pp. 127-132).
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Anche la Parte Seconda («La gestione dei beni destinati») è suddivisa in tre Capitoli:
IV. Gli strumenti attuativi del vincolo di destinazione, pp. 135-172; V. Le vicende nella fase
di attuazione della destinazione, pp. 173-198; VI. La sostituzione e l’alienazione dei beni destinati, pp. 199-244.
Essa muove dalla constatazione che l’art. 2645 ter «non contiene indicazioni in merito
alla gestione dei beni»; il profilo va per questo costruito – spiega l’Autrice – «mediante la regolamentazione dell’autonomia privata, nei limiti delle norme del sistema» (pp.
135-136). Importante, in questo senso, la non assimilazione dell’atto di destinazione all’istituto del trust, dal quale il primo si differenzia sia quanto alla struttura, sia relativamente alla gestione del vincolo per la realizzazione dello scopo, sia – infine – per quel
che concerne i profili rimediali.
Le ipotesi operative svolte sono molte; fra le più significative vi è quella dell’attribuzione da parte del costituente ad un terzo di compiti gestori attraverso il mandato, possibilità da tenere in considerazione solo ove il contenuto programmatico della gestione
contempli «una mera attività di utilizzazione del bene allo scopo destinatorio», in quanto qualora fossero necessitati atti di alienazione o di acquisto, il mandato si dimostrerebbe, al contrario, strumento inadeguato. «Nell’ipotesi di riunione, nella stessa persona, della titolarità dei beni destinati e dell’obbligo di attuazione della destinazione,
invece, la soluzione sembra essere quella del ricorso al negozio fiduciario» (pp. 154155), strumento la cui utilizzabilità a questi fini viene nel testo vagliata e misurata dall’Autrice (pp. 155-168).
Segue lo studio, condotto nella prospettiva dei soggetti legittimati ad agire e dei possibili rimedi esperibili, di eventuali profili di criticità dell’istituto, quali il problema dell’effettività della destinazione e del rischio di elusione del principio di responsabilità patrimoniale, della mancata attuazione della destinazione, dell’inerzia e dell’abuso dei soggetti
coinvolti (conferente, terzo-gestore, beneficiario).
Anche si discute, però, delle cause di cessazione del vincolo di destinazione indicate dal
legislatore (morte – o estinzione, nel caso di ente – del beneficiario e scadenza del termine), delle quali viene esplorata la possibile e problematica interferenza; delle diverse cause eventualmente scaturenti dall’autonomia privata (fra le altre: contratto risolutorio;
termine finale e condizione risolutiva), nonché della sempre ipotizzabile cessazione per
attuazione – o sua impossibilità – della realizzazione della destinazione. Si insiste, poi,
sulle vicende successorie del bene destinato facente parte di eredità od oggetto di legato e
sul trasferimento/disposizione mortis causa del compito gestorio (pp. 195-198).
Nell’ultimo Capitolo, fra le altre cose, viene osservato dall’Autrice come, «posto che il
bene destinato può circolare per le ipotesi più varie e libero dal vincolo, l’attenzione
dell’interprete vada concentrata sul regime di opponibilità dello stesso» (p. 221); quel
che ne risulta è (per esempio) che l’unica ipotesi di soccombenza del terzo avente causa
dal conferente si ha «quando egli abbia acquistato e trascritto successivamente alla trascrizione della destinazione»; il terzo – in questo caso – è però «obbligato non a realizzare ma a “subire” la realizzazione della destinazione». Quanto poi «al conflitto fra più
beneficiari dello stesso vincolo di destinazione, esso è risolvibile con la regola ordinaria
della priorità dell’atto di data certa anteriore» (p. 233-234); mentre il criterio di soluzione è diverso (ed è di nuovo quello della trascrizione) «nel caso di conflitto tra i creditori
del conferente e l’avente causa (terzo acquirente) di quest’ultimo» (p. 235).
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GIANFRANCO PALERMO, L’autonomia negoziale, Giappichelli, Torino, pp. X-130.
Autonomia negoziale: fenomeno che ha radici nel diritto dei privati ma che è inserito
nel sistema del diritto positivo; tema che nel passato non ha ricevuto lineari svolgimenti né soluzioni di sicura condivisione (p. 1).
L’autonomia privata ha un ruolo centrale, «proprio in quanto rappresentativa, per l’ordinamento generale, di un valore primario» (p. 42): «Su tale posizione, i principî di
“parità” e altresì di “solidarietà” non sono suscettibili di incidere in senso conformativo,
sì da far ritenere l’esigenza che il processo di tipicizzazione delle manifestazioni di carattere negoziale abbia a tradursi nella creazione di strumenti volti a realizzare di per sé
le istanze di benessere sociale, che a quei principî si ricollegano» (ivi). Ma la manifestazione di autonomia privata che induca alterazione del sistema configurato dall’art. 2
Cost. non può essere ammessa ad operare sul piano dell’ordinamento (p. 112); e ciò,
nella stessa linea di sviluppo lungo la quale si è mosso il nostro sistema di responsabilità per fatto illecito: «[I] valori, anzitutto culturali ed etici, sui quali l’ordinamento stesso si fonda, apprestano il criterio primario di valutazione nonché di disciplina dei comportamenti individuali» (ivi).
Rileva Palermo che il problema che l’interprete è chiamato a svolgere è di stretto diritto positivo (p. 113): buon costume e ordine pubblico costituiscono «un binomio inscindibile» (ivi). In questo contesto, «nel quale, per usare una formula cara alla dottrina pubblicistica, la normativa di azione si intreccia con quella di relazione, l’angolo
di visuale, che deve assumere l’interprete, chiamato a rendere il giudizio di illiceità, non
può certo essere quello, angusto e riduttivo, che l’autore del codice civile, avendo riguardo ad astratti schemi di contratto, risulta aver fatto proprio, dettando le disposizioni contenute negli artt. 1343 e 1345 c.c. È infatti da porre sotto la lente dell’ordinamento, e attentamente da vagliare, attraverso un giudizio avente carattere globale, quella
che risulta essere l’operazione negoziale, così come emergente dal suo substrato, nonché
protesa verso il raggiungimento del risultato sostanzialmente perseguito» (p. 117).
MAURO PENNASILICO, Metodo e valori nell’interpretazione dei contratti, Esi, Napoli, pp.
496.
Il libro ha la seguente struttura: Capitolo I («L’interpretazione dei contratti nell’impianto del codice civile»), pp. 17-132; Cap. II («Revisione dell’ermeneutica contrattuale secondo il metodo sistematico-assiologico»), pp. 135-260; Cap. III («L’interpretazione
dei contratti del consumatore nella prospettiva sistematica e assiologica»), pp. 265-350;
Cap. IV («L’interpretazione “correttiva” dei contratti nell’orizzonte della “complessità”»), pp. 353-438; «Considerazioni conclusive», pp. 441-465.
La tesi centrale del libro è questa: occorre abbandonare il mistificante pseudoprincipio
del gradualismo delle regole interpretative; e occorre «coglierne la relatività secondo il
quadro assiologico e normativo di riferimento, il ruolo dei princípi nella interpretazione-applicazione delle norme, il mutare dei contesti situazionali, la complessità del sistema ordinamentale» (p. 441).
Non esiste una gerarchia fissa e definitiva dei canoni interpretativi; c’è invece una variabilità di combinazioni dei medesimi, «che tende a risolvere il criterio gerarchico in
quello della competenza» (p. 442).
L’affermazione della vigenza di un rigido ordine gerarchico tra regole di interpretazio-
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ne soggettiva e oggettiva «riposa sull’ingenuo presupposto che il dubbio sul senso della dichiarazione ricorra soltanto con riferimento alle seconde» (ivi); e tuttavia «l’esigenza di risolvere un dubbio (sì che l’ufficio dell’interprete è proprio nello sciogliere la
polisemia del contratto) già ispira le stesse disposizioni del codice civile di solito reputate d’interpretazione soggettiva» (ivi).
L’attività ermeneutica di ricostruzione del significato del regolamento negoziale è caratterizzata da complessità e da circolarità, e dunque essa, «nella sua possibile valenza
integrativa o correttiva del regolamento stesso, non si lascia ridurre a una schematica e
semplicistica contrapposizione tra interpretazione soggettiva e oggettiva. Ciò a maggior
ragione ove si rammenti che la sussistenza di un dubbio o, meglio, di un contrasto tra le
parti in ordine alla portata dell’assetto di interessi costituisce il presupposto affinché si
ponga un problema d’interpretazione del contratto» (pp. 443-444).
In particolare, l’interpretazione secondo buona fede (che è criterio inderogabile, ispirato ai principi fondamentali del sistema ordinamentale) «è destinata a impedire applicazioni caotiche e antinomiche dei diversi criteri interpretativi, per garantire invece interazioni e sinergie virtuose tra i medesimi, nel segno del contemperamento e bilanciamento degli interessi secondo ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza» (p.
445). E del resto la sempre più potente emersione del principio di ragionevolezza «finisce con l’assegnare una nuova valenza applicativa a criteri d’interpretazione considerati secondari» (ivi): come la regola di cui all’art. 1366 non può più essere considerata
criterio sussidiario di interpretazione, così il principio di ragionevolezza, in funzione del
controllo circa la congruità dello scambio, potrà condurre al superamento dell’idea per
gli artt. 1365 e 1371 contengono criteri sussidiari (ivi).
L’interpretazione sistematica e assiologica segna allora il definitivo superamento (storico e culturale) dell’egemonia del criterio letterato e del correlato pseudoprincipio del
gradualismo.
Con questa conseguenza: la necessità di una riforma delle disciplina sull’interpretazione del contratto, «resa ancora più necessaria dall’esigenza di concepire un diritto europeo del contratto e dalla consapevolezza che il procedimento ermeneutico è destinato
non tanto a ricostruire la volontà degli autori del regolamento negoziale, quanto piuttosto a individuare il significato di questo in relazione al complesso sistema ordinamentale
e alla stregua dei princípi e delle valutazioni in esso immanenti» (p. 454). Tanto più
che l’«interpretazione assiologicamente conformata emancipa definitivamente dall’irrealistica mitologia del giudice quale meccanica bocca della legge e apre, viceversa, a una
impostazione meno scettica sul preteso arbitrio del medesimo e più fiduciosa sulla possibilità di controllo dell’interpretazione giudiziale» (p. 461); e ciò perché «la controllabilità dei criteri di valutazione ispirati a princípi costituzionali (buona fede, equità, proporzionalità, adeguatezza, conservazione, ecc.) risponde a una trasparente scelta di politica
del diritto in funzione del primato dei valori personalistici e solidaristici […]. Ne consegue, nell’ipotesi di interpretazione correttiva del contratto, un particolare onere di motivazione in ordine all’attitudine di tali parametri a imporsi su una diversa – ma giudicata
non corretta – manifestazione dell’autonomia contrattuale, in una selezione ragionevole
degli interessi meritevoli da quelli immeritevoli di tutela» (p. 461, nota 876).
GIULIA ROSSI, La prelazione ed il retratto, Cedam, Padova, pp. X-344.
La struttura del volume è la seguente: Capitolo I («Introduzione alla prelazione»);
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Capitolo II («La prelazione convenzionale»); Capitolo III («La prelazione legale»);
Capitolo IV («La prelazione legale e volontaria: alcune questioni in comune»); Capitolo V («Il retratto»).
Sottolinea l’A. come la dottrina tenda ad approfondire il concetto di causa in rapporto
all’istituto della prelazione: ci si è infatti da sempre interrogati su quale sia la funzione
economico-sociale della prelazione (p. 241): «In particolare, quando la prelazione ha
origine pattizia accertarne l’esatto contenuto (e la reale funzione) è soprattutto questione
di interpretazione del contratto […]; mentre nei casi in cui la prelazione sia stabilita per
legge è necessario individuare di volta in volta la funzione cui la norma risponde» (ivi).
Scopo del lavoro, nelle parole di Rossi (p. 4) è appunto quello di «comprendere lo
scopo, la funzione ed il ruolo della prelazione ed il retratto, nonché le loro modalità di
funzionamento ed il rapporto intercorrente fra questi istituti. In particolare, attraverso
l’analisi delle ipotesi più significative in cui l’ordinamento consente ad un soggetto di
essere preferito rispetto ad altri in virtù di una clausola liberamente apposta dalle parti
o, al contrario, in virtù di una disposizione imperativa, si tenterà di ricostruire il quadro
giuridico di riferimento e, soprattutto, gli aspetti più concreti connessi all’applicazione
di questi istituti» (ivi).
Un problema specifico affrontato nel lavoro e che qui in particolare si segnala attiene
alla valutazione della clausola di prelazione «alla stregua di un accordo abusivo potenzialmente dannoso per i diritti dei consumatori» (p. 37).
Rilevato che l’interesse ad estendere l’ambito di applicazione della normativa in materia
di clausole abusive discende «dalla considerazione che le stesse sono produttive di un
danno che non rileva esclusivamente nell’ambito dei singoli rapporti contrattuali, ma che
si proietta in termini di dannosità sociale: la limitazione imposta con un patto di prelazione, infatti, contrasta con le esigenze dell’odierna economia di consentire che i traffici
giuridici si svolgano in maniera celere» (p. 40), Rossi osserva che anche il patto di prelazione che non sia stato oggetto di negoziato individuale può rientrare nella nozione di
abusività sotto il profilo della restrizione della libertà contrattuale nei rapporti con i terzi
(p. 42): «In presenza di questo patto, quindi, l’abusività sarà da escludere solo quando il
consumatore abbia avuto concreta ed effettiva possibilità di incidere sul contenuto del
contratto, discutendo ogni singola e specifica clausola. Per contro, deve essere vist[o]
con un certo sfavore l’atteggiamento del professionista di acconsentire alle modifiche richieste solo subordinatamente ad un aumento del prezzo, poiché le condizioni potrebbero rivelarsi talmente svantaggiose per il consumatore da non lasciargli altra scelta se non
quella di accettare la proposta originaria o di rinunciare del tutto a contrarre» (ivi).
Nel caso, poi, di violazione, da parte del consumatore, del patto di prelazione a favore del
professionista, ex art. 36 cod. cons. «la protezione del primo si estend[e] fino al punto di
esonerarlo da ogni tipo di responsabilità essendo la clausola nulla ex lege e ab origine»
(ivi), laddove questo tipo di tutela non potrà operare «nelle trattative tra consumatori o
tra professionisti posto che in questi casi si ricadrebbe nel regime ordinario che consente
al promissario di agire contro il concedente per il risarcimento dei danni» (ivi).
LOREDANA STRIANESE, Il contratto preliminare tra vincoli civilistici ed evoluzione dell’ordinamento tributario, Editoriale Scientifica, Napoli, pp. XI-221.
La struttura del volume è la seguente: «Premessa»; «Tratti civilistici del contratto preliminare»; Parte prima: Fisionomia fiscale del contratto preliminare. Capitolo I («La regola-
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mentazione ai fini dell’imposta di registro»); Capitolo II («La regolamentazione ai fini
dell’imposta sul valore aggiunto»); Capitolo III («La regolamentazione ai fini delle imposte
sui redditi»); Capitolo IV («Le pattuizioni accessorie»); Parte seconda: Variazioni soggettive del contratto preliminare: derivazioni di carattere fiscale. Capitolo V («Il contratto preliminare e la clausola per persona da nominare»); Capitolo VI («La cessione ed il contratto
preliminare a favore di terzi»); «Considerazioni conclusive di sintesi».
Lo scopo di Strianese è quello di «delineare alcuni profili della contrattazione preliminare
valutati come particolarmente indicativi ai fini della comprensione del negozio giuridico nella
dimensione tributaria. Si è ritenuto opportuno, a tal fine, svolgere l’indagine col sostegno di una
metodologia attenta non solo ai problemi teorici della figura (inquadramento dogmatico, qualificazione, efficacia, differenziazione da figure affini) ma anche agli sviluppi pratici e, quindi, alla
concreta prassi dell’istituto e alle sue applicazioni giurisprudenziali. Il lavoro è stato condotto
considerando che la figura del contratto preliminare è frutto di una lenta elaborazione dottrinale particolarmente stimolata, se non anticipata, dalla prassi contrattuale» (p. 205).
Il contratto preliminare «si presenta in forme e tecniche diversificate a seconda della disciplina civile o fiscale della fattispecie. Se si pensa ai nuovi contenuti ed ai nuovi spazi operativi concepiti dall’autonomia privata, si comprenderà che a fianco allo schema legale di diritto
comune, può collocarsi, da un lato il contratto preliminare di diritto tributario, caratterizzato
da requisiti di forma e di sostanza spesso del tutto incompatibili e conflittuali con il contratto
di diritto civile, dall’altro il contratto preliminare come atto di autonomia negoziale, aderente
a modelli di rilievo sociale in continua evoluzione» (p. 208).
Benché vada consolidandosi sempre di più una «legislazione fiscale ricettiva degli istituti
reali e funzionali espressi dalla lex mercatoria e codificati nel diritto comune, tuttavia il legislatore delle imposte non appare ancora in grado, né di metabolizzarli, né di comporli all’interno di
un sistema di possessori “intermedi” di reddito organico e coerente alla omogeneità di fondo
che essi, invece possiedono nella legislazione codicistica e speciale. La selezione, infine, dei valori, dei beneficiari, delle forme giuridiche organizzative, delle modalità e dei livelli di intervento
e di spesa, assoluti e relativi, deve permanere “normativa” e, al contempo, non può che evolvere,
secondo archetipi sempre meno giuridico-soggettivi, fungendo da imprescindibile anello di
congiunzione tra il settore soggettivamente pubblico e quello soggettivamente privato» (ivi).
ANNA PAOLA UGAS, Fatto e dinamica nel diritto, Giappichelli, Torino, pp. VIII-280.
Questa la struttura del volume: Parte I: Fatto giuridico e autonomia privata. Capitolo I:
«Profili di teoria del fatto giuridico»; Capitolo II: «Il negozio giuridico come valore»;
Parte II: Fatto e dinamica nella teoria del diritto. Capitolo I: «Fatto e dinamica giuridica»; Capitolo II: «Soggetto e dinamica giuridica»; Capitolo III: «Diritto soggettivo e
dinamica giuridica»; Capitolo IV: «Diritto oggettivo e dinamica giuridica».
Particolare interesse, in questa sede, assume l’analisi del negozio giuridico come valore.
L’A. muove dalla constatazione che la rilevanza è diventata la forma particolare di esistenza giuridica del negozio come valore, e questo concetto ha ricevuto innumerevoli
applicazioni (p. 91): «I fautori della rilevanza giuridica considerano il negozio inteso
come fatto giuridico rilevante, di per sé, in ragione del suo contenuto, un valore, o, ancora più precisamente, un autoregolamento di privati interessi. Intendono con questa
nozione superare il grave errore della dottrina tradizionale che assegna al negozio, come d’altra parte agli altri fatti giuridici, l’idoneità a produrre effetti giuridici» (p. 93).
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Ugas sceglie un itinerario di indagine inverso rispetto a quello seguito dai fautori della
teoria della rilevanza: esaminare la teoria del negozio come norma (p. 94).
L’A. osserva che il negozio giuridico «ha da sempre manifestato alla dottrina la sua carica normativa, così che non può non assumersi come un dato la sua differenza rispetto
al mero fatto giuridico. La straordinaria opera di indagine svolta dagli studiosi di ogni
tempo, qualora si ricerchi il nucleo che accomuna tutte le opinioni proposte, prescindendo da quelle del tutto scettiche generate dalla “crisi del negozio”, sta ad attestare
questa consapevolezza e la forza persuasiva di tale affermazione. Esiste indubbiamente
un problema costruttivo. La dottrina civilistica ha seguito strade diverse da quella consistente nel configurare il negozio come norma» (p. 106).
Nei sistemi quali quelli attuali, di matrice giuspositivista, «il fatto, mediato peraltro
dalla fattispecie astratta e concreta, recupera un ruolo intermedio, ma fondamentale,
nel divenire giuridico. Esso è sempre fonte di giuridicità, certamente quando è fatto di
produzione normativa, e non solo perché fornisce (il più delle volte in quanto atto umano volontario) il contenuto della norma, ma anche perché contribuisce ad essa la qualità di appartenere all’ordinamento» (p. 272). Gli attuali ordinamenti, che, nota Ugas,
presentano aspetti riconducibili al giusnaturalismo, «lasciano ampio spazio alle norme
che regolano direttamente la vita dei consociati, e dunque destinate a trovare attuazione in presenza di un fatto che ha lo scopo di produrre effetti giuridici concreti. Tali fatti
non sono propriamente o totalmente creativi poiché non spetta loro intervenire sul
contenuto degli effetti, ma sono almeno in parte tali. Ad essi spetta introdurre ex novo
gli effetti assegnando concretezza alla norma giuridica astratta, ovvero investendo delle
sue qualificazioni soggetti ed oggetti ideali – in quanto contemplati negli effetti –, rendendoli in tal modo, senza alcuna contraddizione e confusione, anche “concreti e reali”
(in quanto identificabili tramite la certezza del fatto)» (pp. 272-273).
Questo ruolo attivo del fatto giuridico nel produrre effetti «non va confuso con quello
da assegnare al negozio. Il primo infatti esplica la sua carica innovativa nel riferire a
soggetti ed oggetti concreti (e tramite le opportune regole di trasformazione, alle correlative entità giuridiche) la qualificazione disposta dalle norme giuridiche. Il negozio
produce vere e proprie norme giuridiche. Non vale cioè ad identificare passivamente i
soggetti degli effetti. Esso è piuttosto in primo luogo in grado di introdurre “regole”
per identificare attivamente questi ultimi, come pure di realizzare deviazioni tra i soggetti del fatto produttivo della “norma” negoziale e i soggetti del fatto da questa qualificato (seppure nei limiti, ristretti, previsti dalla legge, v. artt. 1372; 1389 ss.; 1411 ss.).
In secondo luogo definisce, insieme ai soggetti, il contenuto del fatto da esso qualificato; delinea in altri termini, attraverso quello che viene chiamato l’oggetto del negozio,
una fattispecie intermedia, alla cui concretizzazione è rimessa la produzione degli effetti negoziali in senso stretto. Infine, seppure entro un sistema coordinato che vede l’intervento di altre fonti in funzione integrativa o sostitutiva (prima fra tutte quelle legali),
stabilisce (ed è il profilo strettamente causale del negozio) il contenuto astratto degli effetti, che verranno concretizzati dal fatto qualificato» (pp. 273-274).
FILIPPO VIGLIONE, Metodi e modelli di interpretazione del contratto. Prospettive di un
dialogo tra common law e civil law, Giappichelli, Torino, pp. X-278.
La struttura del volume: Capitolo I («Ermeneutica contrattuale e comparazione giuridica»); Capitolo II («I nuovi percorsi dell’ermeneutica contrattuale: l’esperienza in-
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glese»); Capitolo III («L’interpretazione contestuale nel recente dibattito giurisprudenziale»); Capitolo III («La dimensione “ragionevole” dell’interpretazione secondo
buona fede»); Capitolo IV («L’interpretazione del contratto tra principio dell’affidamento e tutela del contraente debole»); Capitolo V («Drafting contrattuale ed interpretazione»); Capitolo VI («L’ermeneutica contrattuale tra uniformazione delle regole ed esigenze della prassi commerciale internazionale»).
L’osservazione di partenza è che l’ermeneutica giuridica novecentesca ha conosciuto
sviluppi articolati, all’esito dei quali pare sia stata raggiunta una condivisa consapevolezza sul ruolo centrale che riveste il processo interpretativo in ogni aspetto del fenomeno giuridico (p. 1).
Il ruolo del giurista conseguentemente è mutato: non può limitarsi a riflettere sulla metodologia di comprensione dei fenomeni, perché è chiamato ad interrogarsi sulla sussistenza delle condizioni che consentano tale comprensione (ivi).
I profili attinenti all’ermeneutica contrattuale hanno un spazio e un ruolo: «Le problematiche che incidono sui profili dell’interpretazione del contratto fanno oggi i conti
con una realtà in cui nessuna esperienza giuridica della tradizione occidentale circoscrive
l’indagine interpretativa sul contratto al mero accertamento del fatto, con un’analisi ristretta al dato testuale ed alla ricerca dei soli elementi riconducibili ad estrinseca manifestazione di volontà delle parti» (p. 2).
In questo contesto, la civilistica italiana (e non solo) ha progressivamente costruito
una rinnovata concezione dei modelli di interpretazione del contratto onde valorizzare
il ruolo delle clausole generali, «per assecondare la linea di tendenza del diritto europeo dei contratti che si volge con crescente insistenza all’idolo della giustizia contrattuale» (p. 3).
Proporre una nuova dimensione del procedimento interpretativo può quindi significare rivendicare, anche in ambito contrattuale, una consapevole presa di posizione non
neutrale, cioè della possibilità che l’interprete sia sempre più consapevole dei presupposti culturali e giuridici all’interno dei quali opera, nonché del modo in cui concepisce i
rapporti sociali e gli interessi in gioco (p. 4, con espresso richiamo alle note tesi di Viola e
Zaccaria): «[m]a se un simile percorso appare fondato in relazione all’interpretazione
della legge, in modo che tra una pluralità possibile di significati venga sempre data la
preferenza a quello che meglio risponde alle specifiche esigenze di un dato sistema giuridico, in ambito negoziale non sembra potersi trasporre con automaticità la medesima
logica di fondo, parendo preclusa almeno nei suoi presupposti teorici la costruzione di
una grand theory che accomuni interpretazione della legge e del contratto» (ivi).
La ricerca di Viglione sui modelli di interpretazione del contratto si prefigge allora di
«fornire alcune indicazioni su recenti tendenze in atto, con particolare riguardo all’utilizzo di materiali extratestuali ed al ruolo che viene riservato a clausole generali quali la
buona fede e la ragionevolezza» (p. 19).
Del resto, le indicazioni che il legislatore può offrire all’interprete contengono soltanto
una guida generale del procedimento interpretativo, senza poter costituire un percorso
obbligato per il giudice (p. 267): «Le osservazioni comparatistiche hanno ripetutamente confermato che, anche negli ordinamenti che hanno codificato regole interpretative di dettaglio, l’evoluzione dei modelli ermeneutici si è verificata prevalentemente
per via giurisprudenziale ed ha condotto, in linea generale, ad una sostanziale convergenza di soluzioni interpretative, ispirate ad un equilibrato contemperamento di istanze soggettivistiche ed oggettivistiche» (p. 267).
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La preferenza per un modello ermeneutico che si richiama allora allo standard della ragionevolezza «e che costituisce un chiaro segnale di emersione dei limiti alla concezione volontaristica del contratto pare rappresentare il momento di sintesi delle diverse esperienze giuridiche considerate e si colloca, dunque, anche nei progetti di uniformazione del diritto dei contratti, quale privilegiato strumento di interpretazione dei testi contrattuali. Ne deriva, in ultima analisi, una tendenziale adesione ad un approccio
oggettivo alle dinamiche contrattuali, che conferma la diffusione di una concezione del
contratto quale promessa idonea a generare affidamento, rispetto alla quale non trovano spazio in sede ermeneutica le istanze di riequilibrio di una possibile disparità di potere nel rapporto contrattuale» (pp. 267-268).
3. PATOLOGIE E RIMEDI
ANGELA DE SANCTIS RICCIARDONE, L’autotutela civile. L’esercizio dei diritti: possibilità
e limiti dell’autodifesa, Jovene, Napoli, pp. XI-232.
L’idea che ispira il Volume è bene sintetizzata da Pietro Rescigno nelle sue pagine di presentazione: il libro «muove dalla corretta constatazione della impossibilità di un generale
disegno dell’istituto e dell’esigenza di esaminare pertanto le singole manifestazioni
dell’autotutela» (Presentazione, p. XVIII). Questa premesse di riflette sull’articolazione
del Volume, nel quale la parte speciale – dedicata all’analisi delle singole fattispecie –
prevale per dimensione e per importanza su quella generale: Capitolo I («L’autotutela,
nozione e denominazione»), pp. 3-26; Capitolo II («Autotutela. Figura generale o eccezionale»), pp. 31-37; Capitolo III («La fattispecie autotutela. Caratteri essenziali»),
pp. 43-70; Capitolo IV («L’uso illegittimo dei mezzi di autotutela»), pp. 73-74; Capitolo V («L’eccezione d’inadempimento»), pp. 83-110, Capitolo VI («Il mutamento delle
condizioni patrimoniali dei contraenti»), pp. 113-134; Capitolo VII («Il diritto di ritenzione»), pp. 137-173; Capitolo VIII («La legittima difesa civile»), pp. 175-229.
L’A. ripercorre le vicende storiche dell’autotutela, soffermandosi in particolare sulla
genesi delle teorie germaniche sviluppatesi attorno alle ipotesi codicistiche di Selbstverteidigung, delle quali si colgono le importanti influenze sulla dottrina italiana: sufficiente attenzione è dedicata alla contrapposizione tra le idee di chi vede nell’autotutela una
figura di carattere generale e chi – e questa appare come l’opinione prevalente – guarda
a essa come un’ipotesi eccezionale, la cui attivazione è condizionata all’esistenza di una
fattispecie disciplinata da apposita norma di legge. L’A. non sembra prendere un’esplicita posizione su questa questione, anche se, probabilmente, si può arguire dalla stessa
articolazione del volume ch’ella preferisce un’analisi dei singoli istituti, «senza ambizione o illusione di unitarie categorie» (come osserva ancora Pietro Rescigno, Presentazione, p. XIX).
La parte speciale del Volume – dedicata all’analisi dei problemi e delle questioni posti
dalle singole fattispecie riconducibili all’alveo dell’autotutela – tocca tutti gli aspetti dottrinali e giurisprudenziali di istituti che, nel diritto generale dei contratti, hanno sempre
destato l’attenzione degli interpreti e, in alcuni casi soprattutto, sono protagonisti di
un’abbondante casistica giurisprudenziale: merita di essere segnalata l’attenzione che l’A.
dedica al ruolo delle buona fede, quale parametro di controllo delle modalità con cui so-
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no esercitati rimedi in autotutela quali l’eccezione d’inadempimento e l’eccezione di pericolo di cui agli artt. 1460 e 1461 c.c.
Scrive a tal proposito l’A. che «il contenuto della regola della buona fede non può infatti essere correttamente individuato una volta per tutte, mentre lo diviene a posteriori in presenza di diversi fattori che di volta in volta caratterizzano le singole situazioni»
(p. 106). Dei due rimedi il volume coglie tutte le connessioni e tutte le differenza, illustrandone con grande precisione i legami (a volta assai stretti) con la disciplina di alcuni dei più significativi contratti tipici. Alla ritenzione – tema oggi un po’ dimenticato,
ma un tempo oggetto di maggiore attenzione da parte della dottrina – l’A. dedica uno
spazio pari se non superiore a quello destinato all’eccezione d’inadempimento e a quella di pericolo: si sofferma sugli importanti profili storici e, anche in questo caso, non trascura di affrontare il dibattito tra chi propende per l’esistenza di una figura generale di
ritenzione e chi, invece, preferisce considerare le singole fattispecie di ritenzione, nei
limiti in cui queste sono previste dall’ordinamento giuridico.
Il Volume prosegue con la trattazione della legittima difesa civile, che l’A. – sposando
le tesi della più recente dottrina tedesca – identifica con la stessa autotutela: «Quel che
conta ai fini del presente confronto è sottolineare come in Germania, l’opinione più moderna sia giunta in dottrina a un’interpretazione secondo cui la legittima difesa e l’autotutela non rappresentano affatto due istituti radicalmente diversi, dai contenuti leciti il
primo e tendenzialmente vietati il secondo, in quanto non si è rinvenuta alcuna ragione
valida per tali asserite diversità» (p. 196). Analoghe considerazioni valgono per lo stato di necessità, cui è dedicato il Capitolo conclusivo: è vero, infatti, che «l’atto necessitato mira infatti a difendere il proprio o l’altrui diritto da un pericolo obiettivo, prescindendo dunque dal concetto di aggressione o di resistenza, e consente perciò all’agente
di mantenere inalterata, di conservare, una determinata situazione giuridica o di fatto
esistente» (p. 227).
FABRIZIO DI MARZIO, Contratto illecito e disciplina del mercato. Profili attuali della invalidità contrattuale. Nullità speciali, ordine pubblico e attività d’impresa, Jovene, Napoli, pp. XXII-266.
Come osserva P. Rescigno, presentatore dell’opera, il libro è soprattutto (ma non solo)
«una esemplare meditazione sul concetto di ordine pubblico» (p. XX), una riflessione
sul passato, il presente (ed il futuro) del contratto illecito, che si traduce in un’indagine
particolarmente attenta nel metodo e nei suoi strumenti – che spesso sono anche quelli
della politica del diritto e dell’analisi economica – e che così si articola: Capitolo I
(«Norme e teorie del contratto illecito»), ripartito in tre Sezioni: I. I termini del problema, pp. 2-17; II. Illiceità degli elementi, del contratto e della condotta contrattuale, pp.
18-43; III. Giudizio di illiceità e rilevanza dell’ordine pubblico, pp. 43-84; Capitolo II
(«Abuso della libertà contrattuale e illiceità»), ripartito in tre Sezioni: I. Illiceità delle condotte e illiceità dell’atto. Violazione di norme penali e disciplina del contratto, pp. 86-123;
II. Illiceità e illegalità nella violazione di norme imperative, pp. 123-147; III. Illiceità, immeritevolezza e abusività, pp. 147-163; Capitolo III («Giudizio di illiceità, contratti
d’impresa e disciplina del mercato»), ripartito in tre Sezioni: I. Ordine pubblico nella disciplina del contratto e del mercato, pp. 166-181; II. Abuso della libertà negoziale e illiceità
nella contrattazione diseguale sul mercato, pp. 181-215; III. Nullità/illiceità “di protezione” nei contratti d’impresa. Spunti ricostruttivi, pp. 215-252. Conclusione: Tradizione e
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attualità del contratto illecito. (Quadro sintetico dell’indagine e considerazioni finali sull’ordine pubblico), pp. 253-260.
Secondo l’Autore, la teoria del contratto illecito è complessa e difficilmente razionalizzabile per «due fattori storici e un fattore sopravvenuto. I primi possono riassumersi:
nel riferimento della illiceità non al contratto globalmente considerato ma ad alcuni elementi costitutivi, essenziali o accessori; nella disomogeneità dei parametri del giudizio (clausole generali dell’ordine pubblico e del buon costume da un lato, norme imperative dall’altro). Il fattore sopravvenuto è dato dal fenomeno della contrattazione diseguale sul mercato, a cui la legge risponde con la tecnica della nullità protettiva», in
una dimensione nuova in cui «l’illiceità si manifesta immediatamente come qualificazione della condotta contrattuale piuttosto che del contratto», assumendo «una connotazione unilaterale sconosciuta alla tradizione» (p. 253).
Quanto alle clausole generali dell’ordine pubblico e del buon costume, che in quest’epoca di transizione riversano nel mondo del diritto alcune delle inquietudini percepite
nella dimensione sociale, l’Autore ne afferma la problematica interazione e contaminazione, scaturente già dal modo in cui il legislatore del 1942 ne aveva disegnato i parametri ed il meccanismo operativo, che spesso precipita «l’interprete nell’ipotetico e
nell’opinabile».
Quanto alla contrattazione diseguale e alle nuove tutele, quel che è in gioco è il valore
della libertà contrattuale, ed allora – spiega Di Marzio – «l’importanza delle discipline
sopraggiunte a freno della prepotenza contrattuale si apprezza su un duplice piano:
performativo, perché le leggi nuove, reprimendo l’abuso di potere nei contratti, favoriscono l’efficienza del mercato; assiologico, perché le soluzioni attivate rispondono a esigenze avvertite di giustizia contrattuale» (p. 254).
Così dipinto lo scenario (nel testo i particolari e gli argomenti trattati sono naturalmente molti di più), fra vecchi problemi e nuove preoccupazioni, la volontà dell’Autore è quella di verificare se il tutto può essere riconducibile ad una qualche coerenza, se
è possibile – cioè – immaginare un “nuovo diritto dei contratti” «non irrimediabilmente scisso nella logica interna», ma «ricostruibile ed evidenziabile» (p. 15).
La risposta sembra infine essere affermativa, e per quel che riguarda la categoria del
contratto illecito – dice Di Marzio – già addirittura nel codice «sono apprestati spazi
per la collocazione di molte novità ultimamente intervenute. Gli stessi caratteri delle
nullità protettive trovano posto in tutte le norme che dall’art. 1418 all’art. 1424 c.c. disegnano la figura della nullità e ne fissano le caratteristiche tendenziali ma non esclusive». Di più: anche l’ordinante dicotomia proposta dall’Autore – quella tra “illiceità bilaterale” e “illiceità unilaterale”, posta a discrimine tra “nullità aggravata” e “nullità protettiva” – ha in realtà un importantissimo antesignano (soprattutto) nel trattamento
della prestazione lavorativa di fatto di cui all’art. 2126 c.c., che per questo «getta un ponte tra il classico e il nuovo, e favorisce l’idea di una evoluzione armonica dell’ordinamento» (p. 256).
Una nuova, intima razionalità della categoria insomma, da scorgere guardando alla
condotta contrattuale della parte o delle parti e alla complessa operazione in cui il contratto si inserisce o si esaurisce, ove – se illiceità vi è – essa viene sempre a qualificarsi in
una generica «violazione dell’ordine pubblico (rispetto al quale gli altri due parametri
delle norme imperative e del buon costume costituiscono specificazione)» (p. 257).
Per dirla ancora con P. Rescigno, nell’opera di Di Marzio, importante ed impegnata,
«non vengono disconosciute e recise le connessioni con l’antico disegno normativo,
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ed anzi uno degli aspetti più interessanti e suggestivi della ricerca è rappresentato dal generoso tentativo di sintesi feconda tra fedeltà e innovazione, tra rispettosa rilettura delle
discipline normative ed originali avanzate prospettazioni» (p. XIX).
CESARE MIRIELLO, La nullità virtuale, Cedam, Padova, pp. IX-78 [2010].
La struttura del volume: Capitolo I («Individuazione della categoria»); Capitolo II («Violazione di norme imperative penalmente sanzionate»); Capitolo III («Nullità derivanti
dalla legislazione edilizia e urbanistica»); Capitolo IV («Altre ipotesi di norme imperative
e nullità virtuale»); Capitolo V («La buona fede oltre l’autonomia contrattuale: verso un
nuovo concetto di nullità?»); Capitolo VI («Nullità virtuale e responsabilità del notaio»).
Rileva l’A. nell’Introduzione (p. XI) che la legislazione dell’ultimo ventennio (soprattutto di derivazione comunitaria) ha determinato mutamenti così profondi nella struttura degli istituti classici del diritto dei contratti da imporne quasi, in molti casi, il ripensamento sia da parte della dottrina che da parte della giurisprudenza. All’interno di questo quadro, un esempio lampante è offerto dalla nullità, «essendosi implementato da
una parte il panorama normativo di numerose previsioni di nullità testuale con funzione protettiva ed essendosi registrati dall’altra i tentativi della giurisprudenza di merito
di ampliare l’operatività della nullità virtuale fino a farvi ricomprendere anche la violazione di obblighi comportamentali delle parti del contratto» (ivi).
Il lavoro, «frutto della triennale attività di ricerca dottorale, [cercherà] di dare conto dello stato dell’arte con riferimento all’istituto della nullità virtuale, tanto centrale quanto
spesso trascurato per la ritenuta sua intrinseca inattualità, oggi invece evidentemente
smentita dall’interesse che la giurisprudenza gli sta attribuendo» (p. XII): «Il dibattito
sulla nullità virtuale riguarda essenzialmente, nei suoi aspetti generali, le caratteristiche
della normativa imperativa violata e la natura dell’interesse tutelato richieste affinché la
violazione della norma imperativa determini nullità invece che altra invalidità, o semplice irregolarità, e i criteri ermeneutici applicabili per decidere sul punto. Il dibattito si
estende dai settori classici come quello del contratto in violazione di norme penali a fattispecie note e maggiormente problematiche (contratti sugli spazi di parcheggio o contratto sull’agente abusivo) e su nuove fattispecie come l’abuso di posizione dominante o gli
obblighi di informazione degli intermediari finanziari» (ivi).
FABRIZIO PIRAINO, Adempimento e responsabilità contrattuale, Jovene, Napoli, pp. XII-781.
Sono cinque i Capitoli del volume: «L’emersione, la natura e il fondamento dell’adempimento in natura»; «I presupposti e la disciplina dell’adempimento in natura»; «La
correlazione tra obbligazione e adempimento in natura. La distinzione tra obbligazione
e garanzia anche alla luce del dibattito sul vincolo del venditore di beni di consumo»;
«L’oggetto dell’obbligazione: correlazione funzionale e non identità di debito e credito»; «La responsabilità contrattuale: fondamento e limite».
Il tema è quello dell’adempimento in natura e del suo rapporto con la responsabilità
per inadempimento: un’area della riflessione civilistica su temi classici rimasta singolarmente nell’ombra (Prefazione, p. XI).
Osserva Piraino che nell’attuale e più consapevole dibattito sul rimedio, un aspetto rilevante è rappresentato dalla rinnovata analisi del rapporto tra diritto sostanziale e processo nella prospettiva della singola forma di tutela: «Il punto riveste un significato particolare proprio con riferimento all’azione di adempimento, le cui fortune […] sono sta-
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te sinora legate al precetto costituzionale di effettività della tutela di cui all’art. 24 Cost.
e alla valorizzazione delle norme sull’esecuzione forzata in forma specifica di cui agli
artt. 2931 ss. c.c.» (p. 177).
Con il rischio, però, che la collocazione mediana della categoria del rimedio tra diritto sostanziale e processo, e quindi la rivendicazione di una sua autonomia tanto dal diritto sostanziale quanto dal diritto processuale, «sino ad immaginare una specifica disciplina che
prescinda dai diritti e dai doveri previsti a livello edittale e si ispiri a “principi o criteri, non
esportabili facilmente nel vicino campo dei diritti (come quello di proporzionalità e/o di
ragionevolezza)” [cit. di di Majo], rischia di tramutare la figura del rimedio in un medium
logico dell’argomentazione del giurista esattamente come è accaduto per il diritto soggettivo ed, anzi, proprio in sostituzione di quest’ultimo, confidando, tra l’altro, nella maggiore flessibilità dello strumento rimediale rispetto al diritto soggettivo con le inevitabili ripercussioni sul piano del rigore della riflessione giuridica. Si paventa […] il rischio di un
“libertinaggio argomentativo” e il timore non sembra affatto infondato» (p. 180).
La tensione all’adempimento in natura che pervade il rapporto obbligatorio «non scaturisce soltanto dalla sua disciplina positiva, ma rappresenta ancor prima un profilo
consustanziale al concetto e alla struttura dell’obbligazione poiché corollario del suo
oggetto. In quanto sintesi di debito e credito, ossia di una condotta doverosa in funzione del conseguimento di un bene o di un’utilità, l’obbligazione si presenta come una figura giuridica orientata in senso teleologico e di tale preordinazione ad un fine l’adempimento in natura si rivela la necessaria conseguenza sul piano prima delle facoltà sostantive e poi dei rimedi contro l’inadempimento» (p. 411).
Se dunque l’obbligazione «mira a far conseguire al creditore un risultato ben definito
che può consistere in un bene, in un’utilità immateriale, in un atto giuridico, in un servizio, nella conservazione di uno stato di fatto» (p. 412), è vero che «si tratta di un’attribuzione mediata dall’attività di poiesi del debitore, ma la valenza pervasiva del risultato rispetto ai mezzi fa sì che l’ordinamento non si possa arrestare dinanzi alla renitenza del debitore, ma anzi debba vincerla munendo il creditore di strumenti idonei a fare
pressione sul debitore recalcitrante – e tale è per definizione la pretesa di adempimento
successivo o correttivo – ed eventualmente predisponendo procedure di surrogazione
dell’attività strumentale del debitore oppure misure volte a vincere la sua resistenza»
(ivi): donde la necessità della «definizione dell’oggetto dell’obbligazione per dimostrarne l’impronta teleologica, che si esplica in una relazione mezzi/risul[t]ato congegnata
in modo tale da decretare la pervasività del secondo sui primi e che si esprime nella diversità di contenuto di debito e credito e nella loro correlazione funzionale» (ivi).
Ecco che allora il rapporto «tra l’oggetto dell’obbligazione e il contenuto dell’azione di
adempimento (e della pretesa della prestazione o della sua correzione) va inteso […]
in termini di congruità ossia non di rigorosa corrispondenza, quasi si trattasse di specularità, ma di sostanziale coerenza tra il contenuto del debito e la successiva serie di atti
e di condotte necessarie, giusti l’iniziale inadempimento o l’inesatto adempimento, alla
realizzazione dell’oggetto del diritto di credito» (p. 234).
SILVIA VIARO, Corrispettività e adempimento nel sistema contrattuale romano, Cedam,
Padova, pp. X-370*.
Il Volume è suddiviso in otto Capitoli, preceduti da una breve introduzione (pp. 1-19)
e seguiti dagli indici degli autori e delle fonti.
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Il primo Capitolo («L’eccezione di inadempimento in favore del venditore in età repubblicana», pp. 21-47) è incentrato sull’esegesi di un passo del De re rustica di Varrone (2.2.5-6) che attesta la conclusione di una expromissio pretii in forma stipulatoria.
L’A. ne ricava due conclusioni principali: da un lato l’abitualità, nella prassi di età repubblicana, di assumere mediante stipulatio l’obbligazione relativa al pagamento del prezzo
convenuto e non saldato al momento della conclusione del contratto di compravendita
e, dall’altro lato, l’efficacia non novativa ma solo accessoria di siffatta stipulatio, che non
avrebbe compromesso l’esperibilità dell’actio venditi a favore del venditore insoddisfatto.
Nel secondo Capitolo («L’eccezione di inadempimento in favore del venditore in età
classica», pp. 49-120) l’attenzione è rivolta ad alcuni frammenti di età classica da cui
emergono il riconoscimento del diritto di ritenzione della merce a favore del venditore
non ancora soddisfatto e la possibilità, per il compratore, di agire ex empto purché abbia effettuato offerta del prezzo, ancorché non abbia provveduto effettivamente al suo
pagamento (soluzione che ha incontrato larghissima fortuna, fino ad essere recepita
nel codice civile all’articolo 1460).
L’A. passa quindi ad esaminare, nel terzo Capitolo («L’eccezione di inadempimento in
favore del compratore», pp. 121-161) le (scarse) fonti da cui la romanistica abbia ricavato elementi per sostenere l’esistenza, in età classica, dell’exceptio inadimpleti contractus a
favore del compratore. Sottolinea come tale eccezione, ove prevista, sia sempre configurata in relazione a rapporti contrattuali che, sebbene finalizzati a realizzare un assetto di
interessi analogo a quello derivante da emptio venditio, devono tuttavia ricondursi a tipologie negoziali differenti (e, di conseguenza, ad un diverso regime processuale).
Nel quarto Capitolo («Un’ipotesi ricostruttiva in tema di emptio venditio», pp. 163-244)
si propone una ricostruzione dello sviluppo storico dell’istituto così articolato: non si
può ritenere che in età arcaica non si realizzasse alcun tipo di vendita a credito e che
questa non avesse alcuna rilevanza giuridica, ma solo sociale. La giurisprudenza individuò in un’obligatio verbis del compratore avente ad oggetto il pagamento del prezzo lo
strumento più idoneo per tutelare simili fattispecie. Solo in un’epoca successiva si sviluppò la prassi di inserire nei contratti di compravendita leges venditionis che permettessero al venditore di rifiutare l’adempimento della prestazione prima di quello della
controparte.
Il discorso viene ulteriormente ampliato, nel quinto Capitolo («Critica alla teoria del
sinallagma funzionale nell’emptio venditio», pp. 245-272), con la precisazione che i giuristi classici, nell’elaborazione concettuale del diritto di ritenzione a favore del venditore, operarono con un metodo casistico che non sottintendeva alcuno specifico interesse al concetto di interdipendenza delle prestazioni delle parti (e, di conseguenza, alla
costruzione di una figura generale di exceptio inadimpleti contractus). La loro riflessione, infatti, prescindeva da quella che dovrebbe essere la giustificazione dell’operatività
del sinallagma funzionale, ossia la contrarietà a buona fede della richiesta in giudizio
della prestazione altrui, senza aver adempiuto la propria.
Gli ultimi tre Capitoli, infine, esaminano brevemente le fonti relative agli altri contratti
consensuali del diritto romano: la locatio conductio (Capitolo sesto, «Sinallagma funzionale e locatio conductio», pp. 273-292), la societas (Capitolo settimo, «Sinallagma funzionale e societas», pp. 293-314), ed il mandatum (Capitolo ottavo, «Sinallagma funzionale e mandatum», pp. 315-346). L’A. giunge, per ciascuna di tali figure, alla conclusione
che il diritto romano classico non riconoscesse l’exceptio inadimpleti contractus, fino a sostenere che «il richiamo, a oltranza, del carattere bonae fidei del contratto, quale soste-
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gno dell’indispensabilità di un nesso di interdipendenza tra le obbligazioni, sembrano
accorgimenti utilizzati dall’interprete moderno per non prendere atto dell’inequivoco
silenzio serbato dai passi» (p. 292).
* Scheda di Fabrizio Lombardo.
4. CONTRATTI TIPICI E ATIPICI
FEDERICO CAPPAI, La natura della garanzia per vizi nell’appalto, Giuffrè, Milano, pp.
IX-139.
La dottrina ha dedicato alla garanzia per le difformità e i vizi dell’opera (artt. 16671668 c.c.) una riflessione una riflessione modesta, rispetto all’ampiezza degli studi condotti sugli istituti della garanzia nella compravendita: verosimilmente perché nell’appalto non vi è difficoltà a concepire la perfezione dell’opera alla stregua di un risultato
influenzabile dalla condotta dell’appaltatore, laddove nella vendita la circostanza che le
qualità inerenti al modo d’essere della cosa non dipendano dall’attività del venditore
rappresenta il principale ostacolo ad ogni tentativo di sistemazione razionale della disciplina della garanzia secondo i principi generali dell’inadempimento (p. 1): «Il fatto
che la conformità dell’opera alle regole dell’arte e alle prescrizioni negoziali costituisca
un risultato che rientra nella sfera di controllo dell’appaltatore, pur rendendo più immediato l’accostamento della garanzia all’area dell’inadempimento, tuttavia non ha
consentito agli interpreti di esprimere una posizione unitaria sulla natura dell’istituto e
la ragione di fondo è legata […] alla mancanza di chiarezza su quale sia il fondamento
dei rimedi a disposizione del committente e, in particolar modo, dei rimedi diversi dal
risarcimento del danno» (ivi).
La questione inerente alla natura della garanzia per vizi nell’appalto è strettamente dipendente dal chiarimento dei presupposti normativi dell’apparato rimediale espresso
da tale istituto (p. 16). L’attenzione del lavoro di Cappai è allora rivolta non tanto
all’analisi delle categorie concettuali, quanto ad «apprezzare quali sono le potenzialità
applicative dell’istituto e quale lo spazio concesso all’indagine sulla natura (fortuita o
colposa) delle imperfezioni dell’opera nel contenzioso giudiziario» (ivi). In questa direzione, il primo aspetto che occorre chiarire è quando le difformità e i vizi siano da
considerare imputabili e quando, invece, non imputabili all’appaltatore e ciò impone di
precisare il significato della nozione di colpa, assunta dal dato normativo ad indicare il
fondamento del rimedio risarcitorio offerto al committente (art. 1668 c.c.)» (ivi).
Una volta che sia stata individuata la linea di demarcazione tra i vizi imputabili e quelli
non imputabili, «l’esito dell’indagine sulla natura della garanzia de qua dipenderà dal
chiarimento degli spazi di tutela fruibili dal committente a fronte di imperfezioni non
conseguenti ad inesatto adempimento imputabile all’appaltatore» (ivi).
I profili di teoria generale dell’obbligazione che interferiscono con la soluzione di questi quesiti sono molteplici e tutti di notevole spessore concettuale: «Il riferimento corre alla stessa struttura dell’obbligazione e alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e di
risultato e al tema della violazione della lex contractus in una accezione non circoscritta
alla responsabilità da inadempimento imputabile ma estesa al fenomeno della inattuazione non imputabile dello scambio. […] In questo percorso non potrà essere ignorata
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la prassi, sia perché pensiamo che il problema della responsabilità contrattuale non
possa essere risolto in tutte le sue sfaccettature, prescindendo dalle regole applicate
nella aule giudiziarie, sia perché uno degli obiettivi che non questo lavoro ci prefiggiamo è quello di apprezzare la reale rilevanza pratica della questione teorica fin qui sintetizzata, precisando se e in che misura la casistica esibisca fattispecie concrete con essa
interferenti» (p. 17).
PAOLOEFISIO CORRIAS, Contratto di capitalizzazione e attività assicurativa, Giuffrè,
Milano, pp. VIII-232.
Questa la struttura del libro: Capitolo I («L’evoluzione del fenomeno»); Capitolo II
(«La fattispecie legale»); Capitolo III («L’interesse contrattuale al risparmio e
all’investimento»); Capitolo IV («L’interesse contrattuale alla previdenza»); Capitolo V («La causa del contratto di capitalizzazione»); Capitolo VI («La disciplina»).
L’affermazione di esordio dell’A. è che «il contratto di capitalizzazione si manifesta –
almeno apparentemente – come una figura alquanto singolare e, per molti versi, indecifrabile» (p. 1). Se infatti esso è da sempre disciplinato nelle leggi assicurative settoriali non è però mai stato considerato un contratto di assicurazione, né ai sensi del vigente art. 1882 c.c., né sulla base della previgente definizione del contratto di assicurazione, contenuta nell’art. 417 del codice di commercio (ivi). Inoltre, se configura certamente un’operazione finanziaria, e se è stato annoverato dal legislatore tra i prodotti
finanziari emessi dalle imprese di assicurazione, nonché sottoposto ad una parte significativa della disciplina prevista dal TUF per i servizi di investimento, per l’offerta fuori
sede e per l’offerta al pubblico di prodotti finanziari, tuttavia esso non costituisce un
contratto relativo alla prestazione di servizi di investimento (non avendo ad oggetto
strumenti finanziari), né configura un modello «partecipativo» o di «investimento in
senso proprio», poiché con tali espressioni vengono indicate le operazioni di finanziamento alle imprese che manifestano l’attitudine a far partecipare direttamente
l’investitore al rischio dei risultati relativi all’impiego dei capitali versati (pp. 1-2).
Ancora, il contratto di capitalizzazione viene generalmente considerato una delle manifestazioni più sicure e tipiche di risparmio previdenziale assicurativo, ma in realtà non
sembra caratterizzato dalla funzione previdenziale (p. 2): «Non solo, infatti, la prestazione dell’impresa è determinata o determinabile nel quantum sin dal momento in cui
sorge il rapporto, ma essa è altresì dovuta in un periodo prestabilito, a prescindere dal
verificarsi di un evento relativo alla vita del beneficiario e ancora, può essere richiesta
anticipatamente ad libitum del beneficiario, tramite l’esercizio del diritto di riscatto a
partire dal secondo anno» (p. 3).
In conformità ad un canone metodologico che l’A. ritiene «davvero fondamentale»
(p. 6), il procedimento di qualificazione del modello contrattuale in parola (diretto alla
identificazione dei caratteri, della natura e in definitiva dell’essenza di esso) dovrà
«prendere le mosse dalla ricognizione delle note indefettibili e, soprattutto, degli effetti giuridici essenziali che la fattispecie negoziale individuata dall’art. 179 cod. ass. è
programmata ad esprimere» (ivi). Ciò consentirà di fissare senza approssimazione il
profilo funzionale dell’istituto, evitando di lasciarsi fuorviare da elementi (aspetti strutturali e/o proiezioni teleologiche) che rischiano di allontanare l’interprete dalla reale
identità dello stesso (ivi): «A questo punto sarà possibile: a) individuare la complessiva disciplina applicabile al contratto di capitalizzazione, integrando la base regolamen-
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tare contenuta nell’art. 179 cod. ass., con le norme speciali o generali compatibili con la
funzione individuata; b) circoscrivere, sulla base della connotazione funzionale, i contorni del negozio, al fine precipuo di precisare il grado di elasticità della fattispecie e le
sue potenzialità espansive. Su tali basi si giungerà, in particolare, a determinare la specifica valenza assunta dal contratto di capitalizzazione del mercato finanziario e, segnatamente, nell’ambito della categoria dei contratti “di prestito” tramite i quali viene raccolto il risparmio tra il pubblico, nonché – nell’ambito della attività assicurativa – a
rapportare tale figura agli altri contratti finanziari emessi dalle imprese di assicurazione,
al fine di enuclearne le peculiarità e i tratti distintivi» (pp. 6-7).
VINCENZO FARINA, Attività di impresa e profili rimediali nel franchising, Esi, Napoli,
pp. 236.
Il volume è così strutturato: Parte prima: Capitolo I («Organizzazione dell’impresa: il
franchising e la tutela dell’affiliato»); Capitolo II («Attività di impresa ed integrazione
economica. Dal contratto alla contrattazione»); Capitolo III («Rete contrattuale»).
Parte seconda: Capitolo IV (Asimmetrie informative, obblighi di informazione e di
comportamento e vizi del consenso»); Capitolo V («Interruzione brutale del rapporto. Abuso di dipendenza economica e recesso del franchisor»); Capitolo VI («Rinegoziazione ed adeguamento del contratto di franchising»).
Un esame del fenomeno del franchising condotto dall’angolo visuale del singolo contratto di affiliazione patisce più che in altri casi un limite cognitivo di tale rilevanza da
far correre il serio rischio all’interprete di non percepire il plus valore politico prodotto
dallo scambio contrattuale e di non qualificare esattamente il fatto in cui si deve occupare, privato come è in questa prospettiva di una conoscenza giuridica meta contrattuale. Di qui la necessità di un diverso posizionamento strategico dell’interprete al di
fuori del singolo contratto e nell’ambiente della contrattazione, onde interrogarsi su quali
effetti di potere produce l’attività del fare questi contratti e quale qualificazione e disciplina di questo contratto avrebbero ragionevolmente incidenza sul corso della contrattazione della quale questo contratto è frammento (pp. 23-24).
In questa direzione, l’A. osserva che non è corretto attribuire autonomia categoriale al
contratto di impresa, e ciò «trova emblematica dimostrazione proprio nel franchising,
con riguardo al quale la disciplina risulta applicabile anche nei confronti di chi si accinga a divenire imprenditore e nel momento in cui conclude il contratto ancora non lo è»
(pp. 74-75).
Con riferimento alla patologia del contratto di franchising, ai relativi rimedi e alle connesse significative e peculiari questioni, «strettamente inerenti ai rapporti tra imprese
inserite in una rete commerciale e all’essere stesso atto “esterno” di impresa con connotati specifici di durata, il legislatore si è limitato ad una deludente riedizione del dolo
determinante, inteso questa volta come causa “speciale” di annullamento, trascurando
del tutto di occuparsi inter alias nello specifico delle sopravvenienze, del correlato problema dell’abuso di dipendenza economica nonché dei problemi di governance della rete» (pp. 13-14).
Non esiste un rimedio preconfezionato per singola patologia contrattuale: «La determinazione del medesimo va operata avuto riguardo al caso concreto ed in ragione della
tutela degli interessi in gioco, senza pregiudizi di sorta, attraverso una valutazione del
contratto, non solo sul piano strutturale come consenso, ma anche e soprattutto attra-
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verso un approccio funzionale sul piano del rapporto e dell’attività di cui è espressione
e sviluppo. In quest’ambito occorre prendere atto, senza eccessivi timori, che il ruolo
del giudice non potrà essere quello meramente recettivo di una regola da altri predisposta, bensì formativo della regola del caso concreto, secondo un giudizio di congruità e nel rispetto dei principi dell’ordinamento» (pp. 216-217).
Appare allora «meritevole di segnalazione [...] il nuovo approccio del legislatore nella definizione del franchising: si abbandona la tecnica astratta e generalizzante del codice civile
per portare alla ribalta “la concretezza del rapporto socialmente considerato, facendo
esplicito ed ampio riferimento linguistico alle prassi tipiche ed ai contenuti tecnico economici dei rapporti disciplinati” [cit. di C. Camardi]. Il che comporta per l’interprete la
necessità non più eludibile di affrontare le tematiche connesse all’istituto nella consapevolezza di non poter prescindere da un canto dalla conoscenza e dal (prudente) utilizzo
di “nozioni provenienti da altri saperi e da altre scienze”, e, d’altro canto, dal “misurare
l’impatto o gli effetti della norma sul tessuto sociale di incidenza ed in relazione al principio in ragione del quale la stessa si giustifica” [cit. di C. Camardi]» (p. 15).
ANDREA NERVI, I contratti di distribuzione tra causa di scambio e causa associativa, Esi,
Napoli, pp. 232.
Il fenomeno della distribuzione commerciale ha assunto dimensioni molto rilevanti
nell’odierno contesto socio-economico. Ciò nondimeno – secondo l’Autore – si ha talvolta l’impressione che tale realtà, rimasta sostanzialmente estranea all’attenzione dei
compilatori del codice civile, «susciti un certo disagio presso il ceto giuridico contemporaneo» (p. 12): se la distribuzione commerciale era stata «inizialmente trascurata
dal legislatore interno», essa ha poi «formato oggetto di particolare attenzione da parte di quello comunitario, sia pure sotto l’angolazione del diritto della concorrenza»,
dando così luogo «ad una serie di incertezze circa le regole ed i principi ad essa applicabili» (p. 18).
Proprio qui vuole intervenire l’Autore, che compie un tentativo di sistemazione della
materia in un’opera che risulta così strutturata: Introduzione (pp. 9-20), seguita da
quattro Capitoli: I. Profili funzionali dei contratti della distribuzione commerciale, pp. 2161; II. Profili strutturali dei contratti della distribuzione commerciale, pp. 63-106; III. I
contratti della distribuzione commerciale come modello di intersezione tra contratto e mercato, pp. 107-140; IV. La tutela dell’imprenditore debole nei contratti di distribuzione commerciale; il problema dello scioglimento del rapporto, pp. 141-226.
Le esigenze del traffico commerciale – spiega innanzitutto Nervi – inducono gli operatori (produttore e distributori) a non limitarsi alla mera compravendita dei prodotti: su
questo «nucleo portante del rapporto», infatti, si innestano progressivamente ulteriori
profili, quali – per esempio – vincoli ed esclusive. Di più: spesso «il produttore dà vita
ad una rete di distribuzione omogenea ed uniforme, formata da operatori che sono tenuti ad attuare» ben precise modalità di commercializzazione, che non sono altro –
poi – che un «pacchetto operativo» (oneroso) al cui rispetto è subordinata l’appartenenza alla rete di distribuzione, ma che – d’altro canto – «nulla cambia in punto di rischio d’impresa» (p. 30).
Secondo l’Autore «il profilo giuridico-negoziale del fenomeno nasce – per così dire –
dal basso», e «l’insopprimibile esigenza classificatoria che anima il ceto dei giuristi ha
condotto a schematizzare essenzialmente tre tipologie contrattuali, che vanno sotto il
10.
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nome – rispettivamente – di rivendita con esclusiva, concessione di vendita e franchising» (p. 33). Fra queste, l’affiliazione commerciale (usando il lessico domestico) è lo
schema «che realizza il maggior grado di integrazione tra produttore e distributore»
(p. 51), e proprio nelle norme e nei principi che il legislatore ha dettato per la sua regolamentazione si può trovare – dice Nervi – un punto di riferimento per delineare una
linea ricostruttiva «per l’intera materia della distribuzione commerciale e dei fenomeni
contrattuali ivi ricompresi» (p. 61).
L’analisi, svolta soprattutto guardando alla causa del contratto quale «possibile elemento unificante ed ordinante» (p. 88), conduce l’Autore ad affermare che, in definitiva, «il contratto di distribuzione costituisce lo strumento attraverso il quale un determinato imprenditore […] organizza un dato mercato e, segnatamente, quello corrispondente alla distribuzione e commercializzazione dei propri prodotti» (p. 128): si
tratta di un contratto – in altri termini – che, trascendendo la dimensione bilaterale del
rapporto, «investe la posizione giuridica di soggetti terzi e, soprattutto, la loro autonomia negoziale»; e proprio in ragione di ciò si giustificano «gli interventi legislativi operati in chiave antitrust, i quali – non a caso – […] assumono una chiara matrice civilistico-contrattuale» (pp. 134-135).
In questa prospettiva – dice Nervi – si può «ipotizzare la costruzione di un nuovo paradigma contrattuale, che potrebbe denominarsi “contratto di organizzazione”», in una
dimensione in cui «il concetto di causa è destinato ad assumere un ruolo centrale, proprio perché il compito dell’interprete consiste, a ben vedere, nella ricognizione dei profili funzionali dell’operazione economica divisata dalle parti e, successivamente, nella
sua valutazione attraverso la proiezione nel contesto di riferimento, sia quello strettamente normativo, sia quello rappresentato dal mercato» (pp. 135-140).
Nel Capitolo IV il discorso si sposta sugli aspetti patologici con cui i rapporti contrattuali
nel sistema della rete hanno a che fare; l’Autore si trova così a riflettere sull’abuso di dipendenza economica, che fa nuovamente constatare che «il concetto di concorrenza, e le
problematiche ad esso connesse, penetrano all’interno del fenomeno contrattuale, imponendone una profonda rivisitazione» (p. 173). Lo sguardo, che è anche volto allo scioglimento del rapporto a seguito di recesso e alla regola posta all’art. 3, comma 3, della
legge 129/04, porta infine Nervi a scorgere – qui – un principio positivamente riconosciuto nel nostro ordinamento: quello di «protezione dell’investimento specificamente
sostenuto dal distributore per appartenere ad una data rete distributiva» (p. 197).
In conclusione, poi, ancora un interrogativo viene posto: a seguito dell’estinzione del
rapporto, può sorgere in capo al distributore il diritto a ricevere dal produttore una somma a titolo di indennità, analogamente a quanto previsto in materia di agenzia? Guardando al diritto positivo – spiega l’Autore – la risposta dovrebbe essere negativa; occorre
tuttavia considerare i profili associativi «che caratterizzano la ricostruzione funzionale
della distribuzione commerciale», e il fatto che, al momento della cessazione del rapporto, il produttore spesso si trova avvantaggiato dall’attività svolta dal distributore (si pensi
all’accaparramento della clientela): «nella misura in cui questo beneficio in favore del
produttore sia dimostrabile e quantificabile, non sembra del tutto infondato riconoscere
al suo artefice, il distributore, una adeguata contropartita», un’indennità – appunto – il
cui riconoscimento «discende dal generale principio che vieta gli arricchimenti ingiustificati» (pp. 222-226).
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DIEGO ROSSANO, Le «tecniche cognitive» nei contratti di intermediazione finanziaria –
Valutazione dei rischi finanziari ed indicazioni delle neuroscienze. Presentazione di F.
Capriglione, Esi, Napoli, pp. 176.
Il libro si articola in sei Capitoli: «I contratti di intermediazione finanziaria e la definizione del processo decisionale»; «Specificità delle relazioni finanziarie e possibili errori cognitivi nelle scelte di investimento»; «L’informazione dell’investitore nella regolazione Mifid»; «Le negoziazioni finanziarie tra formalismo contrattuale e innovazione
delle “tecniche cognitive”»; «La trasparenza come fondamento dell’agere finanziario»; «Per una chiarificazione del momento conoscitivo dell’investitore. Verso ipotizzabili soluzioni».
Sotto il profilo metodologico Rossano, richiamando un rilievo di Norberto Bobbio,
condivide l’idea per cui i contributi della scienza psicologica, antropologica e politologica sono rilevanti (si potrebbe forse anche dire: indispensabili) nell’analisi giuridica,
«e ciò in relazione alla specificità della organizzazione giuridica che […] rappresenta
soltanto un microsistema della più ampia organizzazione sociale» (p. 34).
Nel settore finanziario, peraltro, gli studi di psicologia cognitiva assumono una particolare rilevanza proprio in vista dell’esplicazione dei processi di valutazione e di decisione
attuati in questo ambito (p. 35): da alcuni studi di settore, infatti, emerge come, a volte, «la presenza di dati informativi ulteriori (rispetto a quelli di normale acquisizione),
può influire negativamente sulle decisioni finali assunte dalle parti; si ha riguardo alle
ipotesi in cui queste ultime effettuano le loro opzioni contrattuali senza una specifica
riferibilità a valutazioni connotate da razionalità» (p. 41); di qui la conclusione che, «nel
caso in cui i dati informativi sono molteplici e complessi, gli individui finiscono per ricorrere a procedure di giudizio semplificate mediante euristiche fondate su esperienze
passate e su componenti affettive» (p. 43).
In sintesi, «nell’era attuale, la complessità della finanza praticata nei sistemi progrediti
implica la necessità di dar corso – nella conformazione al “diritto” della realtà contrattuale – a valutazioni di nuovo genere. In queste ultime sempre maggiore spazio dovrà
essere riconosciuto ai meccanismi che permettono agli investitori di riappropriarsi del
potere decisionale (che ai medesimi compete in base ai canoni ordinatori di un corretto sinallagma); e ciò mediante l’apertura ad accertamenti che non erano in alcun modo
ipotizzabili sino a tempi non lontani. A ben considerare, si ha riguardo a tecniche di ricerca che, nel prefiggersi l’identificazione di schemi operativi trasparenti, fanno riferimento a “modelli” che vanno ben al di là della previsione (cui ampia parte della dottrina ha dedicato la propria indagine) del superamento delle “asimmetrie informative”
del mercato» (p. 148).
Sotto questo profilo, osserva Rossano, assumono rilevanza i contributi delle neuroscienze ai processi formativi della volontà, anche in vista della realizzazione di un’attività contrattuale in linea con i principi della democrazia di mercato (p. 148): di qui, la necessità dell’ampliamento della portata del principio know your consumer, criterio ordinatore della regolarità delle condotte degli intermediari: «Ciò in quanto esso, implicando
una verifica che investe la sfera interiore del cliente, comporta anche l’accertamento delle
componenti psicologiche dell’investitore» (p. 150). Ne risulta l’auspicio che l’ipotesi
di «opportuni vademecum comportamentali, eventualmente introdotti in “codici di autodisciplina” che identifichino le linee guida di condotte degli intermediari conformi a
canoni di correttezza operativa, ovvero l’introduzione (in sede contrattuale) di apposi-
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te “clausole negoziali” che mettano al riparo gli investitori da possibili induzione in errore o, comunque, da processi cognitivi falsati (circa la qualità dei prodotti finanziari
oggetto di scambio) rappresentano ad oggi – stante il tenore della regolazione vigente –
una “prima via” da percorre[re] in vista di forme disciplinari maggiormente garantistiche delle posizioni giuridiche soggettive» (p. 150).
Conclusivamente, rileva l’A. l’opportunità che le scienze giuridiche e quelle cognitive
trovino «un incontro sinergico che consenta ad esse di operare congiuntamente in vista dell’individuazione di strumenti idonei a dare concretezza all’obiettivo (che un attento legislatore deve fare proprio) di riequilibrare il rapporto sinallagmatico che è alla
base dei contratti in parola. […] Trattasi di un incontro che appare particolarmente
idoneo nella predisposizione degli strumenti necessari a supportare le innovazioni disciplinari di cui testé si è detto, strumenti che, nel consentire un congruo utilizzo delle
informazioni, rechino chiarezza alla definizione delle situazioni negoziali troppo spesso
inquinate da sovrabbondanza e complessità dei dati trasmessi in sede contrattuale. Non a
caso, gli studiosi delle scienze cognitive sottolineano che lo scambio di informazione in
tanto può risultare utile al destinatario delle stesse, in quanto esso si accompagni con
fattori coadiuvanti» (p. 151).
MADDALENA SEMERARO, Acquisti e proprietà nell’interesse del mandante, Esi, Napoli,
pp. 285.
Dopo le Premesse (pp. 11-39), i Capitoli del libro sono tre: «Trasferimento al mandante e interpretazione degli artt. 1705 e 1706 c.c. quali regole di efficacia»; «Attitudine funzionale del mandato: gli artt. 1705 ss. c.c. quali regole di opponibilità»; «Mandato e procedimento preordinato all’acquisto. La situazione giuridica del mandatario».
L’A. muove dall’osservazione che una recente giurisprudenza di cassazione (in particolare, il riferimento è a Cass., sez. un., 8 ottobre 2008, n. 24772) ed un altrettanto recente dibattito dottrinale «hanno ricondotto all’attualità la tematica classica, già oggetto di
ampie e vivaci discussioni nella seconda metà del secolo scorso, della efficacia degli atti
di acquisto compiuti dal mandatario e della conseguente configurazione della situazione giuridica ad esso, mandatario, ascrivibile» (p. 11).
In sintesi, la qualificazione della situazione giuridica del mandante e del mandatario
dopo l’acquisto presuppone la soluzione dei seguenti problemi (p. 32): i) la riconducibilità delle regole previste dagli artt. 1705, comma 2, 1706 e 1707 all’area della efficacia
o della opponibilità (ivi); ii) la individuazione delle componenti del procedimento
preordinato all’acquisto in relazione alla funzione gestoria (p. 33).
Il primo problema «impone un attento confronto con le costruzioni più significative,
tra le numerosissime elaborate nel tempo dalla dottrina, aventi ad oggetto l’interpretazione degli artt. 1705 ss. c.c.» (p. 33). Per un verso, gli orientamenti più risalenti «costituiscono un ineludibile banco di prova in ordine alla modalità di selezione dei criteri
di imputazione del regolamento o degli effetti alla sfera giuridica delle parti coinvolte.
Selezione che non di rado conduce a focalizzare l’attenzione sul rapporto corrente tra
figure diverse come il mandato, la rappresentanza e il contratto a favore di terzo e sulle
relative modalità di imputazione dell’effetto (al mandante, al rappresentato e al terzo),
anch’essa sensibilmente diversa attesa la ricorrenza di differenze strutturali e funzionali
di non poco momento» (pp. 33-34). Per un altro verso, le teorie ancor oggi più seguite, e che configurano il mandato quale negozio idoneo a dar luogo all’acquisto automa-
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tico in capo all’interponente «collocano al centro delle loro costruzioni la relazione
corrente tra efficacia e opponibilità; relazione che […] si rivela decisiva ai fini della individuazione della portata precettiva degli artt. 1705, comma 2, 1706 e 1707 c.c.» (p. 34).
Il secondo problema attiene «alla incidenza che il solo ricorso alla (ovvero la semplice
previsione negoziale della) intermediazione del mandatario può esplicare sul meccanismo di imputazione degli effetti al dominus. Più nello specifico, il problema è se tale
meccanismo possa essere o no il medesimo proprio della vendita di cosa altrui. Ove ci
si risolvesse per l’affermativa, la conclusione del contratto gestorio si atteggerebbe a
condizione necessaria e sufficiente al fine della imputazione degli effetti alla sfera giuridica del mandante. Ove ci si risolvesse per la negativa, come appare più probabile, il
contratto gestorio rappresenterebbe soltanto una delle componenti di un diverso procedimento preordinato all’acquisto» (pp. 34-35).
Il lavoro è anche dedicato all’analisi dei tratti funzionali essenziali del mandato ad acquistare «quale contratto di cooperazione idoneo a esporre, a certe condizioni, la sfera giuridica del mandante all’attività posta in essere per suo conto dal mandatario, per altro
verso […] alla individuazione delle differenze salienti tra titolarità del mandatario e titolarità fiduciaria, sulla scorta della modulazione della menzionata incidenza» (p. 39).
5. CONSUMATORE, IMPRESA, MERCATO
ALESSANDRO BARCA, Il diritto di recesso nei contratti del consumatore, Giuffrè, Milano,
pp. VII-162.
I Capitoli del libro sono sette: «Il codice del consumo»; «Il recesso del codice civile»;
«Il recesso nel codice del consumo»; «Le clausole vessatorie»; «Le conseguenze del
mancato riconoscimento del diritto di recesso»; «Conclusioni»; «Recesso: Profili comparatistici».
Scrive Barca che, «[i]n generale, si può dedurre che il recesso all’interno del Codice
civile costituisca un’eccezione al principio per cui il contratto ha forza di legge tra le
parti. In quanto eccezione, esso è sempre subordinato ad una giusta causa o alla ricorrenza di situazione di fatto che lo giustificano e alla necessità di un preavviso a favore
della parte che lo subisce» (p. 128). Ma le «ipotesi di recesso sancite dal codice civile
non sono identiche. Il legislatore attribuisce il diritto di sciogliere il contratto unilateralmente a volte solo a un soggetto determinato (ad es. all’acquirente, agli eredi dell’inquilino defunto, al committente nel contratto d’opera ecc.), oppure ad entrambe le
parti (ad es. nel contratto di agenzia a tempo indeterminato, nel contratto di lavoro) e
le ragioni possono essere diverse, in ragione del tipo di contratto concluso» (ivi).
È possibile distinguere il recesso disciplinato dal codice dal recesso del consumatore:
«Il consumatore è considerato dagli ordinamenti sia europeo che nazionale come parte contraente debole nei rapporti con il professionista. Per tale ragione, con lo scorrere
degli anni, egli ha ricevuto una tutela particolareggiata, distinta da quella attribuita ad
altri soggetti del nostro sistema economico» (p. 129). Il codice del consumo «ha attribuito al consumatore che sottoscrive determinate proposte o contratti un importantissimo strumento di tutela: il diritto di recesso» (ivi), le cui caratteristiche sono: la gratuità, la discrezionalità e l’assoggettamento ad un termine decadenziale per il suo esercizio (p. 130).
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Conseguentemente, «[d]alle differenze che presente il recesso nel Codice civile rispetto
al Codice del consumo, deduciamo che non possiamo più parlare di recesso nel Codice civile negli stessi termini in cui ne parliamo nel Codice del consumo; in quest’ultimo
caso occorre ragionare in termini di diritto di ripensamento, o ius poenitendi» (ivi); ma
tale diritto riguarda soltanto alcune tipologie di contratti per i quali emerge la necessità
di tutelare maggiormente il consumatore: quando c’è l’effetto sorpresa, quando l’oggetto del contratto è particolarmente importante, quando la tecnica utilizzata per il contratto potrebbe svantaggiare il consumatore (p. 133). Quindi, conclude Barca, il recesso deve essere ancora oggi considerato un modo eccezionale di scioglimento del rapporto contrattuale: «[i]l contratto, una volta stipulato, trascorsi i termini di recesso, diventa, anche per il consumatore, “legge” da rispettare. Il recesso è sì esercitabile ad nutum
dal consumatore, ma solo mediante forme tipizzate ed entro termini di decadenza piuttosto brevi, decorsi i quali, il regolamento negoziale vincola le parti come qualsiasi altro
contratto» (p. 134).
PAOLO L. CARBONE, Il contratto del monopolista – Contributo in chiave comparata alla
teoria del contratto nell’era delle “conoscenze”, Giuffrè, Milano, pp. 86 [2010].
In un’era di economia mondiale il diritto stenta a mantenere limiti nazionali e perde
progressivamente il proprio retaggio storico stemperandosi in un più generale meccanismo di legal transplanting dei modelli meglio aderenti alla rapidità di evoluzione dell’economia (p. 78). Il contratto è così passato da una fase del confronto tra volontà e
manifestazione e dell’analisi delle sue patologie a quella, che è già fuori del contratto,
delle trattative e della responsabilità precontrattuale, e, infine, a quella degli obblighi precontrattuali, delle informazioni, della pubblicità commerciale (p. 79). Oggi assistiamo
alla fuga della realtà pratica dalla normazione certa, al continuo ricorso ad effetti anticipati (anche sul piano processuale), che impongono all’operatore giuridico una rincorsa continua rispetto ad una realtà che non vuole in nessun caso lasciarsi ingabbiare
nel sistema perfetto in cui tutto è certo, tutto è previsto (ivi): «Orbene è evidente che
questa fuga ha alla base, quantomeno per le economie occidentali, una globalizzazione
del mercato» (ivi). In tale scenario è evidente che la lingua tradizionale, legata ad una
cultura e ad un territorio, viene soppiantata dalla tecnologia moderna, globale, che
fanno ricorso ad una diversa forma di comunicazione (p. 80): «Forse è possibile ritenere che il mutamento della capacità di comunicare muti le caratteristiche dell’accordo
e muti geneticamente il contratto [...]» (p. 84), ma è anche vero che il contratto sembra eterno come eterna è la necessità di una intesa tra gli uomini (ivi).
ROMOLO DONZELLI, L’azione di classe a tutela dei consumatori, Jovene, Napoli, pp.
XVIII-364.
Il volume è così strutturato: Capitolo I («Dall’azione individuale all’azione di classe»;
Capitolo II («La titolarità del potere di azione»); Capitolo III («Il controllo del giudice sull’azione»); Capitolo IV («I diritti tutelabili “attraverso” l’azione di classe»);
Capitolo V («Dall’oggetto agli effetti del giudizio»).
Osserva Donzelli nella Premessa (pp. XV-XVIII) che l’indagine è diretta all’esame della
disciplina dell’art. 140-bis c. cons. con particolare riferimento alla natura, all’oggetto e
agli effetti dell’azione (p. XV).
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Il lavoro «muove da una considerazione ricostruttiva centrale: l’art. 140-bis c. cons.
non introduce una nuova azione individuale spettante al singolo consumatore proponente, ma un potere di azione giudiziale che appartiene alla classe stessa. La particolarità del nuovo procedimento giurisdizionale risiede, dunque, nella semplificazione del
giudizio, che si realizza – tanto sotto il profilo soggettivo, quanto sotto il profilo oggettivo – sfruttando l’ambivalenza concettuale che è propria della nozione di “classe”.
Soggetto unitario e plurimo al contempo. Sul piano tecnico quest’operazione è resa
possibile grazie all’attività processuale di cui è onerato il giudice in due separati momenti del giudizio, ovvero in punto di ammissibilità della domanda, nonché, poi, al
momento di verificare l’appartenenza alla classe dei consumatori aderenti. La classe,
infatti, di per sé non può agire in giudizio, né è titolare di diritti» (p. XVI).
In breve, la particolare tecnica semplificatoria di cui all’art. 140-bis «riesce in concreto
a garantire la tutela giurisdizionale dei diritti dei consumatori nel rispetto dei principi
del giusto processo, nonché in termini efficienti riguardo agli obiettivi che il processo
collettivo si pone: effettività, deterrenza e deflazione» (pp. XVI-XVII).
Il processo di classe può essere logicamente distinto in tre fasi: la prima fase è quella costituita dal vaglio di ammissibilità, in cui viene svolto un sindacato in rito, teso a verificare
la sussistenza delle condizioni che giustificano la trattazione e la decisione in forma rappresentativa (p. XVII); la seconda fase è quella di cognizione nel merito della controversia, nella quale è svolta la trattazione e l’istruzione necessaria all’accertamento del modo
di essere delle diverse questioni comuni e dunque all’accertamento del diritto del proponente (ivi); la terza fase è diretta a verificare l’appartenenza alla classe degli aderenti, ovvero a ricondurre l’accertamento comune ai singoli aderenti in base a quanto previsto
dall’art. 140-bis c. 14, per cui la sentenza che definisce il giudizio fa stato anche nei confronti degli aderenti (ivi).
EZIO GUERINONI, I contratti del consumatore. Principi e regole, Giappichelli, Torino, pp.
VII-459.
Guerinoni affronta il tema dei contratti del consumatore identificandone almeno quattro pilastri e, coerentemente, ordinando la materia in un corrispondente numero di
Capitoli, così articolati: «Diritto dei contratti e tutela del consumatore» (pp. 1-106);
«Equilibrio contrattuale» (pp. 113-255), «La trasparenza contrattuale» (pp. 257356), «Il diritto di ripensamento» (pp. 361-458).
Nella Prefazione l’A. chiarisce l’obiettivo del proprio lavoro: non già limitarsi ad approfondire i tratti peculiari delle varie discipline, ma porsi sul più ambizioso versante della
ricognizione di «quelli che forse potrebbero essere individuati come principi che da queste emergono e che caratterizzano il sistema di tali contratti» (p. XV). D’altra parte, risulta del tutto coerente con questo (dichiarato) disegno ispiratore il sottotitolo apposto al volume, appunto dedicato ai «principi» e alle «regole», tra i quali l’A. rimarca lo
stretto rapporto di reciproca influenza e contaminazione.
Il primo Capitolo è destinato in larga parte alla ricostruzione dei problemi d’ordine generale che la contrattazione del consumatore pone sia nella prospettiva dell’oggi che in
quella del passato: ripercorse le vicende, ancora di grande modernità, della contrattazione standardizzata, l’A. si sofferma sulle tappe dell’evoluzione normativa che hanno
caratterizzato la materia, non mancando di porre il giusto accento sulla genesi e sui
contenuti delle discipline di derivazione europea e dedicando sufficiente attenzione al-
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l’attualità, quando, ad esempio, egli finisce con l’affrontare la discussa questione dell’esistenza di categorie quali quella del «contratto con asimmetria di potere contrattuale» o del «terzo contratto».
Tutti i problemi classici del diritto dei consumatori trovano in questo Capitolo spazio
sufficiente a una loro piena comprensione, e, in particolare, ci si occupa delle questioni
poste dalla definizione di consumatore, colta nel suo difficile rapporto con la più ampia
categoria del «contraente debole»: l’A. riconosce che la matrice europea del diritto
dei consumatori ha prodotto «un certo “turbamento” del sistema nazionale che si è
trovato a confrontare (…) le proprie categorie con i nuovi istituti, i cui modelli, peraltro,
sono spesso costituiti da sistemi di altri paesi appartenenti alla Comunità» (pp. 103104). Ne trae la conclusione che «siamo di fronte alla comunitarizzazione/europeizzazione del diritto, intendendo con tale espressione quel fenomeno grazie al quale i giudici nazionali sono tenuti a rileggere e a interpretare le norme prodotte dal proprio ordinamento in chiave comunitaria, vale a dire secondo princìpi, criteri e regole del diritto comunitario (europeo) e non invece in chiave nazionale» (p. 111).
Il secondo Capitolo è la migliore prova delle conclusioni assunte all’esito del primo: il
controllo sull’equilibrio (in larga parte normativo, in misura minore economico) del contratto del consumatore è uno dei principi più innovativi del diritto dei consumatori, del
quale l’A. evidenzia le connessioni con il principio di buona fede e con l’equità. L’analisi si sofferma qui su questioni quali la riduzione della clausola penale, la nullità degli
accordi sui termini di pagamento, l’individuazione dei presupposti del «significativo
squilibrio» che deve caratterizzare le clausole vessatorie.
Nel terzo Capitolo grande spazio viene dedicato al principio di trasparenza, alla quale l’A.
assegna il valore di un «lemma riassuntivo, termine per esprimere un new deal nei rapporti fra professionale e non professionale» (Prefazione, p. XVI) che richiama «l’esigenza di chiarezza nei rapporti tra contraenti, di sicurezza in ordine al preciso contenuto degli stessi, alla loro durata o alla loro modificabilità, ai costi e ai benefici derivanti».
(p. 261). L’A. si sofferma, allora, sulle discipline di settore, destinate a rendere più concreto questo principio negli ambiti bancario, creditizio e finanziario, identificando, in
un prospettiva più generale, gli strumenti che il legislatore utilizza per garantire il perseguimento dell’obiettivo trasparenza: la forma informativa, gli obblighi di informazione, le regole di redazione delle clausole contrattuali in modo chiaro e comprensibile.
L’ultimo Capitolo è dedicato al diritto di ripensamento, che, secondo Guerinoni, rappresenta ancora «un principio – che potremmo definire – del consenso ri-meditato (dell’adesione rimeditata, del doppio consenso)» (Prefazione, p. XVII). Dopo averne rilevato i tratti caratteristici, l’A. sembra compiere una decisa scelta di campo, ascrivendo il
diritto di pentirsi alla fase della conclusione del contratto, piuttosto che a quella della
sua esecuzione: è vero, infatti, che «in tutte le ipotesi normative di diritto di ripensamento, colui che ne beneficia esprime un consenso, ma può ritornare su quest’ultimo
in un lasso di tempo più o meno breve. Dunque non è sufficiente che la volontà sussista nel momento della stipulazione dell’atto, occorre ancora che, dopo questo istante,
esso si mantenga per una certa durata» (p. 411).
ALESSANDRO PALMIERI, La tutela collettiva del consumatore. Profili soggettivi, Giappichelli, Torino, pp. VII-143.
Il volume si articola in tre Capitoli: «L’impatto dell’azione di classe: grandi speranze e
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difficoltà di adattamento» (pp. 1-21), «L’evoluzione della tutela collettiva degli interessi dei consumatori: azioni inibitorie e azioni risarcitorie» (pp. 25-75), «I protagonisti dell’azione di classe» (pp. 83-137).
Nel Capitolo introduttivo l’A. si sofferma sui primi (infelici) esordi giudiziari della class
action all’italiana: egli non sembra troppo ottimista sugli esiti di questo strumento di
protezione, evidenziando che «i primi provvedimenti giurisdizionali si cui si è avuta notizia, resi in una delle controversie che hanno fatto da apripista, non lasciano certo presagire un futuro roseo per l’azione in esame, incapace di passare indenne il filtro preliminare dello scrutinio di ammissibilità della domanda» (p. 3).
L’A. analizza le vicende che hanno dato luogo alla prima azione di classe in materia bancaria, arenatasi al giudizio di ammissibilità (Trib. Torino, ord. 4 giugno 2010): un primo scoglio è riuscita a superarlo (quello della riconducibilità del promotore dell’azione
– un avvocato – alla nozione di consumatore, avendo i giudici riconosciuto che le operazioni relative al conto corrente nell’ambito del quale sono state applicate le commissioni contestate erano quanto meno promiscue, non tutte rientranti nell’ambito di
operazioni effettuate in quanto professionista), ma un secondo insuperabile scoglio ha
impedito che l’azione potesse essere esaminata anche nel merito. Secondo i giudici, infatti, manca la prova del pregiudizio patrimoniale ricollegabile alle clausole impugnate,
con conseguente carenza di interesse del promotore a promuovere la relativa azione.
Nel secondo Capitolo l’attenzione si sposta dal particolare al generale: l’A. evidenzia
l’insufficienza degli strumenti di tutela individuale del consumatore, ripercorrendo le
tappe dell’introduzione nell’ordinamento giuridico europeo di forme di tutela collettiva e soffermandosi sui problemi che, nell’ordinamento nazionale, sono stati posti dalla
c.d. azione inibitoria, nel contesto del codice del consumo come in quello della legislazione precedente.
La nuova azione di classe – disciplinata dall’art. 140-bis c. cons. – è esaminata dall’A. in
modo minuzioso, attraverso l’identificazione di tutti i presupposti previsti dalla legge
per la sua applicazione: egli avverte subito che, a differenza di quanto accade in altri
ordinamenti, «l’azione di classe di cui all’art. 140-bis cod. consumo, sin dalla presentazione del suo biglietto da visita, rivela immediatamente un raggio di operatività circoscritto» (p. 68). Il consumatore, per attivare l’azione, deve subire un pregiudizio che
lega una sua situazione giuridica «individuale», di talché, evidenzia l’A., egli «si deve necessariamente trovare di fronte a una scelta: fare tutto da sé, evocando in giudizio l’impresa secondo le regole del codice di rito (…) ovvero entrare in un meccanismo più
ampio, dando il là all’azione di classe, eventualmente per il tramite di un’entità collettiva all’uopo officiata, ovvero innestandosi nel corpo di un’azione di classe già partita»
(pp. 70-71).
L’analisi si sposta così sull’identificazione dei significati dell’aggettivo «omogeneo»,
caratteristica che deve contraddistinguere il diritto di cui il consumatore chiede la tutela mediante l’azione di classe; l’A. evidenzia i rischi di una lettura troppo rigorosa «che
può portare di fatto a un’oggettiva difficoltà di individuare un gruppo di soggetti riconoscibili come classe» (p. 74). Omogeno, allora, non significa identico, e l’omogeneità
può sussistere anche quando le situazioni giuridiche dei componenti della classe presentino elementi differenziali.
Il terzo Capitolo è dedicato alla descrizione delle figure soggettive coinvolte nella disciplina dell’azione di classe: il consumatore o l’utente, la classe, l’associazione o il co-
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mitato, l’impresa, il produttore, i gestore di servizi pubblici o di pubblica utilità. Tutti
soggetti che, eccettuata la classe, «o ricevono una definizione legislativa o sono comunque disciplinate in altra sede, all’interno o all’esterno del codice del consumo» (p.
86). L’A. dedica particolare attenzione alla nozione di consumatore, della quale evidenzia gli aspetti complessi connessi alla peculiare situazione determinata dall’azione
di classe (con particolare riferimento ad alcune figure quali il turista, il condominio, il
professionista). La «classe» designa un concetto davvero difficile da cogliere, soprattutto nella misura in cui essa non ha ricevuto dal legislatore alcuna definizione: l’A. reputa che «la classe non può essere formata che da soggetti che, nello specifico contesto
delle loro relazioni con l’impresa dalla cui condotta promanano le conseguenze negative per ciascuno di essi, aderiscono al calco del consumatore» (p. 123).
6. DIRITTO EUROPEO DEI CONTRATTI
GABRIELLA MERCATAJO, Rappresentanza e diritto europeo. Presentazione di C. Argiroffi, ESI, Napoli, pp. 361.
La struttura del libro è questa: Introduzione; Capitolo I («Il negozio rappresentativo e
il concetto di parte»); Capitolo II («Protezione del consumatore e rappresentanza»);
Capitolo III («L’evoluzione del dibattito sulla rappresentanza nell’ordinamento interno»); Capitolo IV («La rappresentanza c.d. apparente»); Capitolo V («Le tendenze
della scienza giuridica europea in tema di rappresentanza: l’agire per conto altrui come
modello comune»).
Il modello di rappresentanza che emerge a livello europeo, nell’ambito dei rapporti tra
professionista e consumatore, sembra coincidere con quello codificato dai diversi progetti uniformanti, in linea, peraltro, con gli sviluppi del diritto vivente interno (Conclusioni, p. 353): «Dal lato del consumatore […] la titolarità dell’atto posto in essere
dall’intermediario e, dunque, l’assunzione della qualifica di parte spetta al soggetto per
conto del quale l’atto è posto in essere. A decidere della qualifica di consumatore e, di
conseguenza, della applicazione della normativa protezionistica è, invero, la destinazione finale dell’acquisto, vale a dire il tipo di interesse che muove il destinatario finale,
a nulla rilevando l’imputazione materiale della fattispecie negoziale. In altri termini, ciò
che conta ai fini dell’applicazione della tutela consumeristica è la veste di consumatore
in capo a chi è destinatario dell’acquisto, in quanto soggetto nell’interesse extraprofessionale del quale l’atto è realizzato» (ivi). Se la qualifica di consumatore altro non è
che una formula paradigmatica di una situazione di squilibrio, dettata dalla natura extraprofessionale dell’interesse all’acquisto, è ad esso che si dovrà guardare, anche nel
caso di intermediazione, al fine di decidere della presenza di un consumatore: «È più
che evidente, infatti, che, anche nel caso di intermediazione, la situazione di squilibrio
non viene meno, giustificandosi pur sempre la tutela protezionistica. Alla luce della ratio della normativa consumeristica, dal lato del consumatore, emerge, allora, un modello di imputazione che non può che riferirsi alla effettiva titolarità dell’interesse all’acquisto, per decidere della sua natura e, dunque, dell’applicazione della disciplina di
favore» (p. 354).
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In sintesi, il diritto europeo, conformemente alle regole comuni ai diversi ordinamenti,
lascia intravedere l’affermazione di un nuovo modello di intermediazione o di rappresentanza che, avvicinando le regole dei diversi ordinamenti, si fonda sull’alienità dell’interesse e su un principio di affidamento, sostituendo agli antichi distinguo tra rappresentanza diretta e rappresentanza indiretta quelli comuni tra rappresentanza palese e rappresentanza non palese (p. 356): «E forse […] potrebbe dirsi qualcosa di più. Nell’ordinamento italiano, alla luce di quanto affermato, perderebbe rilievo lo stesso utilizzo della denominazione rappresentanza indiretta, come nozione distinta rispetto a quella della
rappresentanza diretta, stante la omogeneità sostanziale dei due fenomeni, intollerante,
come sottolineato, a qualsivoglia discrimen definitorio. In entrambe le ipotesi, infatti,
l’agire rappresentativo si caratterizzerebbe, essenzialmente, come agire per conto altrui,
analoga essendo la funzione economica ovvero la causa dell’intera operazione» (ivi).
Nell’ordinamento comunitario «l’operazione economica diviene […] il principale concetto di riferimento, non tollerandosi quei distinguo, tra realtà giuridica e realtà economica, tipici della dogmatica interna. Del resto […], non sarebbe la prima volta che
nel dibattito europeo si attribuisce all’operazione economica valenza ordinante, quale
categoria concettuale e giuridica alternativa a quella contrattuale» (p. 357).
VINCENZO SCALISI, Il contratto in trasformazione – Invalidità e inefficacia nella transizione al diritto europeo, Giuffrè, Milano, pp. XIII-464.
Il volume, nel quale sono raccolti alcuni recenti e non recenti scritti dell’A., è diviso in
tre parti: «La costruzione»; «La decostruzione»; «La ricostruzione».
Scrive Scalisi nella Prefazione che invalidità e inefficacia segnalano una particolare condizione patologica dell’atto di autonomia privata (p. XI): «Ma, in quanto reazione negativa al modo in cui l’atto si presenta ed è, esse contengono anche una precisa indicazione in positivo circa il modo in cui l’atto stesso avrebbe dovuto essere e non è stato e
come tali valgono a fornire anche la puntuale rappresentazione di quelle che possono
dirsi le coordinate essenziali e le direttrici fondamentali entro cui l’odierno sistema di
diritto positivo accoglie definisce e struttura la categoria contrattuale, posto che alla
stessa in ogni caso i predetti rimedi non possono che restare legati da stretto nesso di
strumentalità e funzionalità» (pp. XI-XII).
Emerge allora il volto di un contratto profondamente e radicalmente mutato, avendo
abbandonato gli antichi e solidi ancoraggi codicistici della «fattispecie» seriale e
astratta, e in quanto tale poco sensibile e incline al mutamento, elegge a proprio principio ordinante la «regola» (p. XII): «Così anche il contratto ha finito per approdare
al piano mobile e instabile di una entità assiologico-pratica non più definibile a priori e
una volta per tutte, ma invece individuabile e identificabile volta per volta e con procedimenti soltanto a posteriori. In questo senso può dirsi che lo scenario inquieto e liquido della postmodernità ha varcato anche i confini di tale secolare e augusta figura, sancendone la definitiva transizione dalla fissa e statica struttura codicistica (come già detto, della fattispecie) alla prospettiva aperta e duttile del “regolamento”, fatto oggetto di
una vera e propria costruzione policentrica e multilivello (volontaria, legale, giudiziale,
amministrativa), sicuramente inedita per estensione e intensità, con invalidità e inefficacia direttamente chiamate anch’esse nel ruolo strategico di rimedi conformativi» (ivi;
corsivi dell’a.).
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III. MONOGRAFIE SULLE OBBLIGAZIONI
ALESSANDRA CICCARELLI, Gli interessi del debitore nel rapporto obbligatorio. Il problema dell’adempimento del terzo, Aracne, Roma, pp. 168.
Come osserva Guido Biscontini nella Prefazione, l’opera esamina «il rapporto obbligatorio alla luce degli interessi del creditore e del debitore che vi trovano componimento», ponendo «in risalto la complessità del contenuto delle rispettive situazioni giuridiche soggettive. Ne deriva un’interpretazione assiologicamente orientata delle norme
sul diritto delle obbligazioni sicché è l’analisi degli interessi a divenirne la chiave di lettura» (p. 15).
Il lavoro è così strutturato: Prefazione di Guido Biscontini, pp. 15-18; Introduzione, pp.
19-21; Parte I («Gli interessi del debitore nel rapporto obbligatorio»), ripartita in tre
Capitoli: I. Il concetto di interesse e l’emersione delle istanze debitorie, pp. 25-47; II. Dall’interesse alla liberazione all’interesse all’adempimento, pp. 49-76; III. L’interesse del debitore all’intangibilità della propria sfera giuridica, pp. 77-93; Parte II («L’adempimento
del terzo e la sfera giuridica debitoria»), ripartita in due Capitoli: I. Il terzo adempiente
tra gli opposti interessi del debitore e del creditore, pp. 97-130; II. Il terzo adempiente e
l’intangibilità della sfera giuridica debitoria. I rimedi, pp. 131-147.
Tradizionalmente, spiega innanzitutto l’Autrice, l’intera disciplina obbligatoria si ritiene costruita in una prospettiva di favor creditoris, «visto che l’obbligato si trova in una
situazione giuridica degradata essendo costretto ad eseguire ciò che la legge gli impone
per soddisfare la legittima pretesa di parte avversa»; ma in realtà, nel nuovo orizzonte
normativo inaugurato dalla Costituzione, viene capovolto l’approccio ermeneutico della
disciplina, «dal momento che i valori dell’uguaglianza sostanziale e della solidarietà tra
i soggetti impongono una relativizzazione del vincolo obbligatorio che non può essere
identificato nel diritto del creditore ma deve essere configurato come un rapporto di
cooperazione tra le parti coinvolte nella vicenda» (p. 19).
Passando per l’analisi di istituti quali la mora del creditore, il deposito e la liberazione
coattiva del debitore, la remissione del debito, l’Autrice perviene ad una prima, essenziale conclusione: «l’adempimento non può essere finalizzato esclusivamente alla liberazione dal vincolo e non integra soltanto una perdita patrimoniale ma rappresenta, a
volte, un valore positivo, sia patrimoniale che esistenziale» (p. 20).
E tuttavia c’è l’istituto dell’adempimento del terzo.
La disposizione di cui all’art. 1180 c.c. porta Ciccarelli a riflettere, in un primo momento e più in generale, sul (discusso) «principio di intangibilità della sfera giuridica altrui», che secondo l’Autrice «va riproposto in quanto esternazione di un valore essenziale nell’ordinamento», senza peraltro limitare il discorso «alla tutela delle sole situazioni patrimoniali», in quanto «l’intromissione nella sfera giuridica altrui, al di là delle
implicazioni di carattere patrimoniale, è potenzialmente idonea a ledere altrettante esigenze connaturate alla personalità del soggetto ed attinenti al suo libero sviluppo ed alle sue intrinseche manifestazioni», tutti interessi – questi – che sono nel nostro ordinamento costituzionalmente riconosciuti, garantiti e tutelati (pp. 88-90).
Ma riaffermare il principio di intangibilità non significa, per Ciccarelli, farne un valore
assoluto ed immutabile: esso è infatti «inevitabilmente destinato a soccombere tutte le
volte in cui ci si trovi dinanzi ad interessi maggiormente meritevoli di tutela» (p. 93).
Nel caso dell’adempimento del terzo contrario alla volontà del debitore, il sacrificio
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della sfera di questo non appare – così – «immotivato e arbitrario bensì giustificato da
una diversa scelta del legislatore che, in virtù del principio di solidarietà, valorizza l’uno
o l’altro tra gli interessi coinvolti nella concreta vicenda».
Per la stessa ragione, però, ogni volta che l’istituto dell’adempimento del terzo viene
– come è possibile – «strumentalizzato per perseguire intenti illeciti del solvens, diventa necessario offrire al debitore (…) degli efficaci strumenti di tutela consistenti o nel
potere di impedire al terzo in mala fede di adempiere, o in quello di opporsi alla richiesta di pagamento esercitata dal terzo una volta surrogato nella posizione creditoria. Se
infatti è vero che la tutela della persona non può esaurirsi nel tradizionale profilo del risarcimento del danno, è altrettanto necessario che l’ordinamento si adoperi attivamente per far sì che il danno non si verifichi. Solo così si rende possibile l’attuazione effettiva delle situazioni esistenziali» (p. 21).
In questo contesto e per queste ragioni, trovano allora giustificazione – secondo
l’Autrice – «sia la proposizione dell’azione ex art. 700 c.p.c. sia l’exceptio doli generalis
verso il terzo che agisca nei confronti del debitore una volta surrogato nella posizione
creditoria» (p. 18).
GIUSEPPE FOSSATI LÓPEZ, L’incidenza del titolo cambiario sui rapporti sottostanti alla
sua emissione e girata: ricostruzione di un sistema, Cedam, Padova, pp. XVII-330.
IL volume è così strutturato: Capitolo I («Parte introduttiva»); Capitolo II («L’emissione del titolo cambiario e il rapporto sottostante»); Capitolo III («Parte conclusiva»).
Nella Prefazione, l’A. spiega le ragioni, teoriche e pratiche, che lo hanno spinto alla
scelta di questo particolare campo d’indagine: [u]na prassi commerciale assai estesa
nel senso dell’utilizzazione di questi titoli per le più svariate finalità e nell’ambito dei
più diversi rapporti di diritto comune giustifica, senza dubbio, un approfondimento del
tema qui proposto. D’altronde, l’interesse non dovrebbe essere infimo neanche per lo
studioso italiano, se si considera non solo l’utilizzazione dello strumento nel campo del
commercio internazionale; ma anche l’evoluzione giurisprudenziale che ha portato alla
pronuncia n. 26.617 del 2007 delle Sezioni Unite della Cassazione, che ripropone prepotentemente il problema dell’effetto dell’emissione del titolo cambiario sul rapporto
causale. Pare indubbio che i motivi accennati, sia teorici che pratici, siano idonei a giustificare una trattazione che permetta una visione unitaria dell’interferenza reciproca che
intercorre tra rapporto cartolare e rapporto fondamentale, anche tenendo conto dell’influsso della girata sul rapporto sottostante all’emissione del titolo; giacché lo schema di lavoro che qui si prospetta dovrebbe permettere una comprensione integrale,
lungo tutto il cielo di vita del titolo cambiario, del modo come si coordinano i menzionati vincoli obbligatori. Un’altra perplessità, assai comprensibile, è quella che si vincola
[sic] con l’impostazione che si è voluta dare all’indagine. Da questo punto di vista, va
sottolineato il fatto che il rapporto di diritto comune è primordiale nell’economia della
ricerca; quindi, il titolo cambiario non viene in considerazione nei suoi aspetti cartolari, ma come fatto che viene ad incidere, in modo rilevante, sulla disciplina che le parti o
la legge hanno voluto imprimere al regolamento d’interessi attuato nel rapporto sottostante» (pp. XVI-XVII).
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GIUSEPPE LICCARDO, La postergazione legale – Profili civilistici, ESI, Napoli, pp. 259.
Il volume è così strutturato: Capitolo I («Il conflitto tra soci finanziatori e terzi creditori sociali e l’art. 2467 c.c.»); Capitolo II («La risoluzione del conflitto nelle esperienze straniere»); Capitolo III («Operatività della postergazione legale»); Capitolo
IV («Profili applicativi»).
Osserva l’A. come la varietà degli interessi e dei valori in gioco in riferimento al caso
concreto, nonché la tecnica legislativa caratterizzante la formulazione dello stesso art.
2467 c.c., siano «fattori che impediscono la teorizzazione di un unico ed esclusivo
modo di finanziamento del meccanismo postergativo e descrivono in realtà un istituto
che sembra atteggiarsi in maniera diversa a seconda della fase di vita della società, delle
modifiche scelte per effettuare il finanziamento, del tipo di operazione a cui questo è
finalizzato» (p. 133).
La corretta individuazione della disciplina «richiede il raffronto sistematico dell’art. 2467
c.c. con le altre norme richiamate dalle specifiche del caso concreto, nonché la considerazione di quei princípi generali, che, di volta in volta, concorreranno ad integrare assiologicamente la disposizione e non può prescindere dalla contestuale interpretazione del
fatto oggetto di giudizio. Il riferimento agli interessi concreti, cioè quelli rinvenibili effettivamente in ciascun caso, è strumentale all’individuazione della funzione svolta da ciascuna operazione di finanziamento che […] rappresenta la chiave di volta per la corretta
individuazione della disciplina della postergazione» (pp. 134-135).
La modalità di formulazione dell’art. 2467, ponendo specifico rilievo sugli interessi
operanti al momento del finanziamento, «invita esplicitamente l’interprete ad individuare la causa dell’operazione di finanziamento subordinando alla stessa l’operatività
della disciplina e la relativa modulazione. Per tale compito, l’interprete deve quindi individuare la sintesi degli effetti essenziali del fatto, che sarà presupposto per operare la
qualificazione dello stesso e quindi determinare l’operatività della postergazione. In
questa operazione ermeneutica, egli dovrà considerare la situazione iniziale, anteriore
al fatto stesso, e quella successiva, anche al fine di decifrare quelli che sono gli effetti essenziali da quelli non essenziali. In tal senso concorreranno alla individuazione effettiva
degli interessi che hanno mosso l’operazione di finanziamento lo stato di salute della
società, il rischio potenziale dell’operazione per cui il finanziamento è richiesto ed una
serie di altre variabili individuabili solo attraverso un processo che tenga conto del contesto complessivo» (p. 163).
La funzione specifica, cioè la causa specifica di ciascun negozio di finanziamento è ciò che
determina la funzionalità dell’art. 2467, ed essa potrà caratterizzarsi per la prevalenza
dell’interesse di salvare la società da una potenziale dichiarazione di insolvenza, ovvero
dall’obiettivo di sottrarsi al rischio di una operazione troppo aleatoria, o ancora, in ipotesi
similari, dove sarebbe più ragionevole un aumento di capitale, essa è sovrapponibile a quella
di un conferimento perché nella sostanza tende alla salvezza dell’attività sociale (pp. 163164): «La sovrapposizione non comporta però coincidenza delle due funzioni: nel caso di
un prestito, l’art. 2467 c.c. considera meritevole l’interesse alla restituzione – essendo esplicitamente contemplato dalla norma (che peraltro non pone alcun divieto alla possibilità di
finanziare la propria società in crisi, anzi) – che però deve cedere temporaneamente il passo
ad interessi valutati prioritari dall’ordinamento, emergenti dalle specificità del finanziamento stesso, ai quali l’ordinamento ricollega effetti ulteriori (postergativi del relativo credito)
rispetto a quelli manifestati dalle parti nel negozio di prestito» (pp. 164-165).
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MARIA PORCELLI, Profili evolutivi della responsabilità patrimoniale, Esi, Napoli, pp. 237.
I Capitoli del libro sono tre: «La responsabilità patrimoniale del debitore nel sistema
del codice civile vigente: dalle origini alle prime impostazioni del problema»; «Dal patrimonio ai patrimoni: vincoli di destinazione e limitazioni della responsabilità patrimoniale del debitore»; «Le modificazioni del patrimonio del debitore fra promozione
dell’autonomia negoziale e tutela del credito».
Nelle «Note introduttive» l’A. rileva come la tradizionale concezione giuridica del patrimonio, fondata sul binomio soggetto-bene, quale totalità dei rapporti imputabile ad
un unico soggetto, cui si ispira l’art. 2740, è angusta e inadeguata (p. 13) «a spiegare le
sempre più numerose fattispecie di limitazione normativa della responsabilità patrimoniale del debitore presenti nell’ordinamento giuridico vigente» (ivi): l’idea dell’unificazione del patrimonio in funzione del soggetto proprietario si rivela allora non più
capace di dar conto della realtà molteplice dei fini e degli obiettivi intrinseci a qualunque vicenda giuridica (ivi).
È allora opportuno ricorrere al concetto di scopo quale principale criterio di unificazione
del patrimonio: «Il concetto di “scopo” si risolve […] in un momento di rottura nei confronti di quelle impostazioni fondate sulla centralità dell’interesse individuale del titolare
del patrimonio […]» (p. 14). E proprio la teoria dei patrimoni destinati ad uno scopo
rappresenta, ancora oggi, un utile strumento per il superamento dell’equazione un soggetto-un patrimonio, a favore di una concezione del patrimonio inteso come centro di
imputazione giuridica governato da interessi altri rispetto a quelli di coloro che al patrimonio hanno dato destinazione (pp. 14-15): «[I]l concetto stesso di patrimonio va,
dunque, necessariamente rimeditato in chiave funzionale. Il che implica, inevitabilmente,
l’impossibilità di continuare a concepire l’unità del patrimonio a prescindere da un determinato scopo in grado di fungere da criterio funzionalmente unificante» (p. 15).
Viene così messa in discussione l’idea della unità e della indivisibilità del patrimonio,
quantomeno nell’accezione che utilizza quale criterio unificante l’imputazione soggettiva: se è vero che ogni individuo può essere titolare di un patrimonio, non è altrettanto
vero che lo stesso individuo possa o debba concretamente avere un unico patrimonio:
«Coerentemente a quanto sin qui accennato, venuto meno il dogma della soggettivizzazione del patrimonio, potrà continuarsi discorrere di unità dello stesso soltanto in
presenza di uno scopo che faccia da criterio funzionalmente unificante. In altri termini,
è mutata la “tecnica unificante” del patrimonio: al criterio dell’imputazione soggettiva
si affianca quello della connessione oggettiva con uno scopo determinato (c.d. destinazione allo scopo); l’attenzione si sposta al profilo funzionale, sì che il patrimonio – e
non già il soggetto – diviene il termine di riferimento del vincolo di destinazione e della
responsabilità patrimoniale del debitore» (p. 16).
In particolare, obiettivo della ricerca è comprendere se e in che misura la recente legislazione speciale in materia di patrimoni separati e le esigenze ad essa sottese «debbano indurre l’interprete a rivedere la tradizionale nozione di garanzia patrimoniale – fortemente incentrata sul richiamato principio di unitarietà ed indivisibilità del patrimonio –, prestando particolare attenzione al ruolo dell’autonomia negoziale rispetto alle
nuove forme dispositive del patrimonio. Il tutto nel segno del passaggio da una concezione statica del patrimonio – fondata sulla teoria dell’imputazione – ad una configurazione dinamica dello stesso, incentrata sulla funzione, sull’attività e, dunque, sulla destinazione» (pp. 17-18).
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RAFFAELE TUCCILLO, Profili interpretativi degli atti unilaterali, Aracne, Roma, pp. 164.
Il legislatore codicistico si è limitato ad individuare alcuni specifici aspetti della disciplina degli atti giuridici unilaterali, per il resto stabilendo che, «salvo diverse disposizioni di legge, le norme che regolano i contratti si osservano, in quanto compatibili, per
gli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale» (art. 1324 c.c.). L’A., che
propende per l’applicabilità di tale disposizione «sia agli atti negoziali che a quelli non
negoziali» (p. 121), studia nel suo libro (soprattutto) i profili interpretativi degli atti unilaterali, in un percorso che si struttura in tre Capitoli: I. L’atto unilaterale nel Codice civile del 1942, pp. 7-50; II. Le norme interpretative e gli atti unilaterali, pp. 51-96; III. Criteri
e metodi interpretativi applicabili agli atti unilaterali, pp. 97-146.
Punto di partenza è, naturalmente, proprio l’esegesi dell’art. 1324 c.c.: dalla duplice limitazione cui la disposizione subordina l’applicabilità delle norme contrattuali agli atti
unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale, discende che, per l’interpretazione di
questi ultimi, «si devono applicare direttamente le norme previste agli artt. 1362 ss.
cod. civ. in quanto compatibili e salvo diversa disposizione di legge» (p. 63).
E dal momento che il discrimen tra atto unilaterale e contratto è, innanzitutto, di carattere strutturale, fra tutte le norme sull’interpretazione del contratto quelle compatibili
sono quelle che «non presuppongono il concorso di più soggetti alla formazione dell’atto» (p. 29): non è perciò dubbia la compatibilità degli artt. 1363, 1364 e 1365 c.c.,
mentre – al contrario – «non si estende all’atto unilaterale il primo comma dell’art.
1362 cod. civ., nella parte in cui individua il criterio ermeneutico della comune intenzione delle parti, né il secondo comma del medesimo articolo, nella parte in cui individua il comportamento complessivo delle parti come criterio valutativo della comune
intenzione delle parti» (pp. 67-68).
Sul punto, Tuccillo precisa che «per gli atti unilaterali l’intenzione dell’autore non è
utilizzabile come criterio selettivo della polisemia del testo: da un lato, perché tale criterio è previsto dal legislatore per l’ipotesi diversa e irriducibile di un accordo tra le parti; dall’altro, perché il canone dell’intenzione è suscettibile di condurre a un significato
secondario, non conoscibile dai terzi e distinto da quello primario e corrente nella cui
oggettività semantica l’atto unilaterale si pone nel mondo giuridico» (pp. 81-82).
Quanto al criterio della buona fede, l’A. ritiene che essa, «tra il novero dei risultati interpretativi evincibili dal testo linguistico (…) determini l’attribuzione alla forma rappresentativa di un significato in grado di preservare il ragionevole affidamento dell’autore dell’atto e del destinatario dello stesso» (p. 90).
Nessuno specifico problema di compatibilità – poi – per quel che riguarda gli artt.
1367, 1368 e 1369 c.c.; mentre, al contrario, siccome «il destinatario dell’atto unilaterale non è assimilabile alla parte del contratto, nei confronti della quale il contratto,
predisposto unilateralmente, ha “forza di legge”», non è compatibile la disposizione di
cui all’art. 1370 c.c. (p. 93), così come non lo è l’art. 1371 c.c., destinato normalmente
«ad operare in ipotesi di insuccesso degli altri canoni interpretativi» (p. 94). Da tale
conclusione – spiega l’A. – «deriva la possibilità che l’atto unilaterale rimanga oscuro»
e – come tale – nullo per indeterminabilità dell’oggetto, anche se – viene precisato – la
mancanza di un criterio normativo finale di carattere generale per l’interpretazione degli atti unilaterali non preclude «il ricorso ai principi generali dell’ordinamento» (pp.
95-96).
Infine, Tuccillo si propone di verificare se «siano individuabili ulteriori parametri per
Biblioteca
299
valutare la compatibilità dell’atto con struttura unilaterale con le norme in tema di interpretazione del contratto» e, quindi, «se siano possibili ulteriori classificazioni rilevanti
ai fini interpretativi» (p. 98). L’indagine prosegue così articolandosi in due direzioni:
da un lato, vengono prese in considerazione le classificazioni degli atti unilaterali maggiormente utilizzate in dottrina (fra le altre: atti recettizi e non recettizi; atti a titolo oneroso e a titolo gratuito; atti negoziali e non negoziali); dall’altro, specifiche categorie di
atti rispetto ai quali si presentano particolari esigenze interpretative.
Fra questi ultimi, è significativo menzionare gli atti unilaterali esclusi dal novero dell’art. 1324 c.c.: come indicato nella stessa Relazione del Ministro Guardasigilli al Codice
Civile (n. 604), se è vero che tale disposizione è stata predisposta con riferimento ai soli
atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale, ciò non esclude la possibilità di
un’estensione analogica delle regole ermeneutiche contrattuali anche agli atti unilaterali di natura non patrimoniale e agli atti mortis causa; anche perché, volendo diversamente ritenere, rimarrebbe irrisolto – secondo l’A. – «il problema di individuare una
disciplina specifica per gli atti giuridici non rientranti nell’ambito di applicazione
dell’art. 1324 cod. civ.» (p. 49, nota 99).
Il meccanismo attraverso il quale, nelle diverse ipotesi, le norme sull’interpretazione
del contratto vengono rese applicabili all’uno o all’altro tipo di atto unilaterale è però
diverso (e la differenza non è priva di conseguenze): in un caso, si procede col rimedio
dell’analogia; nell’altro, con il congegno normativo del «giudizio di compatibilità», che
– l’A. lo sottolinea – analogia non è.
300
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OSSERVATORIO
308
2011
Osservatorio/Fonti
309
OSSERVATORIO/FONTI
ASSICURAZIONE
Assicurazione professionale obbligatoria
La l. 148/2011, di conversione del d.l. 138/2011, individua, in tema di riforma delle
professioni e degli Ordini professionali, una serie di principi cui dovranno adeguarsi i
liberi professionisti, entro 12 mesi dall’entrata in vigore della manovra. Tra questi principi, è da segnalare in particolare l’obbligo, per quei professionisti iscritti ad un Ordine
professionale, di stipulare un contratto di assicurazione per responsabilità professionale.
L’art. 3, d.l. 138/2011, prevede infatti che il professionista debba stipulare, a tutela del
cliente, idonea polizza assicurativa contro i rischi professionali che si corrono durante
l’esercizio della professione. Al momento dell’assunzione dell’incarico, il professionista è
tenuto a comunicare al cliente l’esistenza della polizza, gli estremi della stessa ed il relativo massimale. La l. 148/2011 stabilisce che i professionisti che non provvedano ad assicurasi nei termini e nelle modalità sopra indicate, oltre ad essere passibili di sanzioni da
parte del proprio Ordine professionale di appartenenza, saranno chiamati a rispondere
personalmente dell’eventuale danno causato ai clienti nel corso dell’esercizio dell’attività
professionale. Dalla copertura assicurativa saranno esclusi unicamente quei danni causati da comportamenti dolosi del professionista. Fatta salva la possibilità per il singolo professionista di stipulare individualmente la propria polizza, è interessante sottolineare
come il legislatore abbia espressamente previsto che le condizioni generali delle polizze
assicurative, unitamente alle clausole più rilevanti, fra le quali massimali, rischi e franchigie, possano essere liberamente negoziate, in convenzione con i propri iscritti, dai Consigli Nazionali e dagli enti previdenziali dei professionisti.
**
Polizza mutui
L’Isvap ha emanato il provvedimento n. 2946 del 6 dicembre 2011 in tema di conflitto di interesse degli intermediari assicurativi.
Il provvedimento stabilisce che gli intermediari assicurativi debbano astenersi dall’assumere direttamente o indirettamente la qualifica di intermediari e beneficiari delle
polizze assicurative connesse ai mutui e ai finanziamenti offerti ai clienti. L’entrata in
vigore del provvedimento è stabilita per il 2 aprile 2012.
Il provvedimento è stato emanato in virtù della considerazione che l’assunzione da
parte dell’intermediario anche della contestuale qualifica di beneficiario della polizza,
310
2011
determinando una posizione di interesse del medesimo nel contratto, lo pone in una
situazione insanabile di conflitto di interesse rispetto al cliente e impedisce il soddisfacimento dell’interesse del cliente stesso, obiettivo primario di una corretta attività di
intermediazione assicurativa
**
Trasparenza polizze
L’Isvap ha emanato il provvedimento n. 2880 del 25 febbraio 2011 che modifica il
reg. 35/2010 per gli intermediari assicurativi (reg. n. 35 del 26 maggio 2010, sulla disciplina degli obblighi di informazione e della pubblicità dei prodotti assicurativi, di
cui al Titolo XIII del d.lgs. 209/2005). La finalità del provvedimento è quella di rafforzare la trasparenza dei contratti assicurativi e la protezione degli assicurati.
L’art. 54 del reg. 35/2010 stabiliva l’abrogazione della Circolare Isvap n. 551 dell’1
marzo 2005, ad eccezione degli artt. 22, 30, 34, 35 e 36. Il provvedimento Isvap n.
2880 del 25 febbraio 2011 muta l’art. 54 del reg. 35/2010 con le seguenti parole: «ad
eccezione degli articoli 22, 30, 34, 35 e 36 nonché, ai fini della predisposizione della
documentazione informativa precontrattuale dei prodotti caratterizzati dalla combinazione delle assicurazioni di ramo I con le assicurazioni di ramo III e V di cui all’articolo 2, comma 1 del decreto, delle disposizioni della medesima circolare relative alla
documentazione informativa precontrattuale delle assicurazioni di ramo III e V».
Si ricorda che la Circolare Isvap n. 551 del 1° marzo 2005, contenente disposizioni
in materia di trasparenza dei contratti di assicurazione sulla vita, è stata parzialmente
abrogata dai regolamenti Isvap n. 5/2006, n. 14/2008 e n. 32/2009.
Per il reg. Isvap n. 35 del 26 maggio 2010 si veda AdC 2010, p. 328. Si veda altresì V.
SANGIOVANNI, Le norme di comportamento di imprese e intermediari assicurativi, in Danno e
resp., 2010, p. 93. Per la Circolare Isvap n. 551 dell’1 marzo 2005 si veda E. PAGNONI, Circolare Isvap n. 551/D del 1º marzo 2005 in materia di trasparenza delle polizze di assicurazione sulla vita, in Prev. assist. pubbl. priv., 2005, p. 505.
***
CESSIONE DI CUBATURA
Trascrizione dei contratti relativi ai diritti edificatori
La cessione di cubatura è il negozio in virtù del quale il proprietario di un suolo
edificabile cede al proprietario di altro suolo la sua volumetria edificabile in modo tale
che l’acquirente possa beneficiarne nella costruzione di un edificio sul proprio fondo.
Osservatorio/Fonti
311
Alla pattuizione di natura privatistica tra i proprietari del fondo segue la concessione da parte del Comune del titolo abilitativo alla edificazione, che consente al cessionario di costruire sul proprio fondo sfruttando la maggiore volumetria acquisita.
L’art. 5, c. 3, lett. c), d.l. 70/2011, al fine di garantire la certezza nella circolazione
dei diritti edificatori, ha aggiunto all’art. 2643 c.c. il n. 2-bis), stabilendo che debbano
essere soggetti a trascrizione anche i contratti che trasferiscono i diritti edificatori comunque denominati nelle normative regionali e nei conseguenti strumenti di pianificazione territoriale, nonché nelle convenzioni urbanistiche a essi relative. La legge di
conversione n. 106/2011 ha poi eliminato il richiamo alle convenzioni urbanistiche e
ha disposto la registrazione anche dei contratti che costituiscono o modificano tali diritti edificatori.
La disposizione in commento è finalizzata a garantire certezza nella circolazione
dei diritti edificatori, e nel contempo alla tipizzazione di un nuovo schema contrattuale diffuso nella prassi: la cessione di cubatura. In tal modo, il legislatore ha soddisfatto
l’auspicio – contenuto nella sentenza del Consiglio di Stato 13 luglio 2010, n. 4545,
riguardante il piano regolatore di Roma – di un intervento statale volto a disciplinare
in maniera chiara ed esaustiva la perequazione urbanistica, nell’ambito di una legge
generale sul governo del territorio la cui adozione appariva quanto mai auspicabile alla
luce dell’inadeguatezza della normativa pregressa.
L’art. 2643, n. 2-bis, c.c., ha ad oggetto i diritti edificatori comunque denominati, previsti da normative statali o regionali, ovvero da strumenti di pianificazione territoriale.
In tal modo queste situazioni giuridiche vengono incluse tra i c.d. diritti immobiliari (categoria generale contemplata dall’art. 2645 c.c.), inerenti all’immobile, caratterizzati da diritto di seguito ed opponibili a terzi.
Si veda F. FELIS, Superficie e fattispecie atipiche – La cessione di cubatura, in Contr. e impr.,
2011, p. 632; G. CECCHERINI, Asservimento di area edificabile e cessione di cubatura, in Nuova
giur. civ., 2009, II, p. 557; M. LANGELLA, Brevi cenni in tema di cessione di cubatura, in Vita not.,
2007, p. 428; N.A. CIMMINO, La cessione di cubatura nel diritto civile, in Riv. not., 2003, p. 1113;
V. VANGHETTI, Profili civilistici della c.d. «cessione di cubatura», in Notar., 1996, p. 417; P.L.
TROJANI, Tipicità e numerus clausus dei diritti reali e cessione di cubatura – Lo stato della dottrina
e della giurisprudenza ed una ipotesi ricostruttiva originale, in Vita not., 1990, p. 285.
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CONTRATTI BANCARI E DEI MERCATI FINANZIARI
Accordo per il credito alle piccole e medie imprese
Il 16 febbraio 2011 Confindustria con il Ministero dell’Economia e delle Finanze,
l’ABI e le altre associazioni di rappresentanza delle imprese hanno sottoscritto il nuo-
312
2011
vo “Accordo per il credito alle piccole e medie imprese”. L’Accordo si inserisce in una
linea di continuità con l’Avviso Comune per la sospensione dei debiti delle piccole e
medie imprese siglato nell’agosto 2009.
Il nuovo Accordo è applicabile sia ai mutui che non abbiano già usufruito della moratoria (in questo caso è prevista la proroga fino al 31 luglio 2011 delle misure di sospensione dei debiti delle imprese, con possibilità di presentare le richieste fino al 31
luglio 2011) sia ai mutui stipulati dalle imprese che abbiano invece già usufruito della
moratoria (in questo caso è possibile sospendere il pagamento della quota di capitale
delle rate di rimborso del mutuo). Alla moratoria possono far ricorso le imprese medie
e piccole di tutti i settori, a patto che non abbiano posizioni debitorie ritenute dalla
banca come sofferenze, esposizioni ristrutturate o scadute sconfinanti da oltre 180
giorni, e procedure esecutive in corso. Nonostante la sospensione del mutuo, le imprese che usufruiscono di questa agevolazione dovranno comunque pagare con regolarità gli interessi. L’Accordo stabilisce che le banche possano mettere a disposizione
delle imprese che lo richiedano, specifici strumenti di gestione del rischio di tasso relativamente ai finanziamenti per i quali si propone l’allungamento del piano di ammortamento, finalizzati a convertire il tasso di interesse del finanziamento da variabile a
fisso o a fissare un tetto al possibile incremento del tasso di interesse variabile.
Per un commento sull’Avviso Comune per la sospensione dei debiti delle piccole e
medie imprese siglato nell’agosto 2009 si veda AdC 2009, p. 441.
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Anatocismo
L’art. 2, c. 61 della l. 10/2011 detta una norma di interpretazione dell’art. 2935 c.c.,
ai sensi del quale la prescrizione inizia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere
fatto valere. La norma in esame stabilisce che, con riguardo alle operazioni bancarie
regolate in conto corrente, l’art. 2935 c.c. si debba interpretare nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall’annotazione in conto corrente inizia a decorrere dal giorno dell’annotazione stessa. In ogni caso, viene stabilito che non si fa luogo
alla restituzione di importi già versati alla data di entrata in vigore della presente legge.
La norma è intervenuta dopo che la Cass., sez. un., 2 dicembre 2010, n. 24418 aveva confermato il diritto da parte dei correntisti a vedersi restituire tutte le somme indebitamente percepite a titolo di interessi passivi dalle banche su tutti i conti correnti
con capitalizzazione trimestrale degli interessi, affermando il principio secondo cui la
prescrizione del diritto del correntista a ottenere la restituzione delle somme, illegittimamente addebitate dalla banca sul conto corrente, decorre dal termine di estinzione
del rapporto e non dalla data della singola annotazione a debito sul conto.
Osservatorio/Fonti
313
L’art. 2, c. 61 della l. 10/2011 ribalta il principio di diritto espresso dalla Suprema
Corte stabilendo che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall’annotazione in conto corrente inizia a decorrere dal giorno dell’annotazione stessa. La norma è attualmente al vaglio della Corte cost. chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità
costituzionale.
Per una ricostruzione della vicenda si vedano A.A. DOLMETTA, Versamenti in conto corrente e prescrizione dell’indebito, in Contr., 2011, p. 489; M. SESTA, L’anatocismo bancario
tra interventi legislativi e nuovi dubbi di costituzionalità, in Corr. Giur., 2011, 745 e U. SALANITRO, L’inizio della decorrenza della prescrizione dell’azione di ripetizione degli interessi anatocistici nel conto corrente bancario: orientamenti giurisprudenziali e soluzioni legislative, in
Banca, borsa tit. cred., 2011, I, p. 400; M. FLICK, Dies a quo del termine di prescrizione e anatocismo: un nuovo vestito per un vecchio problema, in Danno e resp., 2011, p. 612.
Sulla questione relativa alla legittimità costituzionale della norma in commento si veda
P. BONTEMPI, L’anatocismo bancario alla prova del decreto “mille proroghe”, in Nuova giur.
civ. comm., 2011, I, p. 945.
Si veda altresì Cass., sez. un., 2 dicembre 2010, n. 24418, in AdC 2010, p. 219.
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Commissione onnicomprensiva
L’art. 6-bis d.l. 201/2011 convertito nella l. 214/2011 ha stabilito che nel t.u.b., di
cui al d.lgs. 385/1993, dopo l’art. 117 è inserito il nuovo art. 117-bis.
Il nuovo articolo (Remunerazione degli affidamenti e degli sconfinamenti) stabilisce
che i contratti di apertura di credito possono prevedere, quali unici oneri a carico del
cliente, una commissione onnicomprensiva calcolata in maniera proporzionale rispetto
alla somma messa a disposizione del cliente e alla durata dell’affidamento, ed un tasso di
interesse debitore sulle somme prelevate. L’ammontare della commissione non può superare lo 0,5%, per trimestre, della somma messa a disposizione del cliente. A fronte di
sconfinamenti in assenza di affidamento ovvero oltre il limite del fido, i contratti di conto
corrente e di apertura di credito possono prevedere, quali unici oneri a carico del cliente,
una commissione di istruttoria veloce determinata in misura fissa, espressa in valore assoluto, commisurata ai costi ed un tasso di interesse debitore sull’ammontare dello sconfinamento. Le clausole che prevedono oneri diversi o non conformi rispetto a quanto
stabilito dalla nuova norma sono nulle. La nullità della clausola non comporta la nullità
del contratto.
Si veda A. STILO, La commissione di massimo scoperto dal “Decreto anti-crisi” al cd. “Decreto Salva Italia”, in Contr., 2012, p. 75.
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2011
Decreto anti-scalate
Con il d.l. 26/2011 recante “Misure urgenti per garantire l’ordinato svolgimento
delle assemblee societarie annuali”, e di immediata entrata in vigore, il Governo italiano ha inteso estendere la possibilità di rinvio dei termini per la convocazione dell’assemblea annuale, di cui all’art. 2364 c.c., anche qualora tale possibilità non sia prevista
dallo statuto, in favore di società quotate. Il decreto è stato successivamente convertito, senza modifiche, nella l. 73/2011.
L’intervento d’urgenza dell’esecutivo intende restringere il margine di manovra per
le società straniere che intendano acquisire partecipazioni di maggioranza di società
italiane, in un particolare momento congiunturale in cui diverse società italiane, appartenenti a settori economici strategici, sono state rilevate da gruppi esteri. Viene, pertanto, consentito alle società soggette all’applicazione dell’art. 154-ter, d.lgs. 58/1998
(testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria – di seguito
“t.u.f.”), di convocare l’assemblea richiamata all’art. 2364 e 2364-bis c.c., nel termine di
centottanta giorni dalla chiusura dell’esercizio, anche nel caso in cui tale possibilità
non sia espressamente prevista all’interno dello statuto della società.
Il decreto in esame conferisce, altresì, la possibilità per le società che, alla data di
entrata in vigore dello stesso, abbiano già pubblicato l’avviso di convocazione dell’assemblea annuale, di rinviare la data dell’assemblea, in prima o unica convocazione,
purché non sia ancora decorso, con riferimento alla assemblea originariamente convocata, il termine indicato dall’art. 83-sexies, c. 2, d.lgs. 58/1998, relativo alla giornata
contabile del settimo giorno di mercato aperto precedente la data fissata per l’assemblea
in prima o unica convocazione.
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Depositi bancari
Il d.lgs. 49/2011 ha attuato la dir. 2009/14/CE (che modifica la dir. 94/19/CE)
relativa ai sistemi di garanzia dei depositi per quanto riguarda il livello di copertura ed
il termine di rimborso. Il decreto legislativo apporta alcune modifiche all’art. 96-bis
t.u.b., il quale regola le modalità di intervento dei sistemi di garanzia dei depositi bancari nel caso di liquidazione coatta amministrativa di una banca.
In particolare, la lett. a) del d.lgs. 49/2011 sostituisce il c. 5 dell’art. 96-bis t.u.b.,
stabilendo che il limite del rimborso che i sistemi di garanzia possono effettuare per
ciascun depositante è fissato in Euro 100.000, misura che la Banca d’Italia può aggiornare al fine di adeguarla alle eventuali variazioni in materia apportate dalla Commissione europea, in ragione del tasso di inflazione. Rispetto alla precedente versione del c.
5 dell’art. 96-bis t.u.b., l’attuale previsione riduce da Euro 103.291,38 a Euro 100.000
l’ammontare massimo del rimborso.
Osservatorio/Fonti
315
La lett. b) del d.lgs. 49/2011 sostituisce invece il c. 7 dell’art. 96-bis t.u.b., prevedendo che il rimborso da parte del sistema di garanzia è effettuato entro venti giorni
dalla data in cui si producono gli effetti del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa della banca adottato dalla Banca d’Italia ai sensi dell’art. 83, c. 1, t.u.b. La
norma stabilisce, inoltre, che il predetto termine di venti giorni possa essere prorogato
dalla Banca d’Italia, in presenza di circostanze eccezionali, per un periodo complessivamente non superiore a 10 giorni lavorativi. Rispetto al testo precedente del c. 7
dell’art. 96-bis t.u.b., l’attuale previsione comprime nettamente i termini di effettuazione del rimborso (che sono ridotti da tre mesi a venti giorni e, per quanto riguarda
l’eventuale proroga, da nove mesi a dieci giorni), eliminando inoltre la possibilità, precedentemente contemplata, che il rimborso possa essere effettuato in più soluzioni
(sino a Euro 20.000 entro tre mesi, prorogabili fino a nove mesi, e per la restante parte
del rimborso secondo le modalità ed i termini stabiliti dalla Banca d’Italia).
In generale si veda D. VATTERMOLI, Germania versus parlamento e consiglio dell’Unione
europea: scontro tra titani sulla direttiva relativa ai sistemi di garanzia dei depositi, in Dir.
banc., 1998, I, p. 224; B. PETRINI, La disciplina dei sistemi di garanzia dei depositi, in Impr.,
1997, p. 461; P. CALABRIA, La direttiva comunitaria sui sistemi di garanzia dei depositi bancari, in Impr., 1995, p. 748 e G. GODANO, La direttiva comunitaria sul sistema di garanzia
dei depositi bancari (a cura di A. TIZZANO), in Foro it., 1995, IV, 96.
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Garanzia
Il Ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali, d’intesa con il Ministero
dell’Economia e delle Finanze, ha emanato il decreto 22 marzo 2011, con cui vengono
stabilite le modalità e i criteri da adottare in merito alle prestazioni di garanzie alle imprese agricole.
Il decreto in questione attua la disposizione contenuta già nell’art. 17, c. 5, d.lgs.
102/2004, riguardante gli interventi finanziari a sostegno delle imprese agricole a
norma dell’art. 1, c. 2, lett. i), l. 38/2003. In primo luogo, occorre chiarire che le garanzie sono quelle direttamente prestate a favore di banche ovvero di cessionari ed acquirenti di beni dalle imprese agricole. Le operazioni di garanzia sono attivabili per i finanziamenti bancari, sia a breve che a medio e lungo termine, destinati alle attività
agricole e a quelle connesse. Le attività riguardano: la realizzazione di opere di miglioramento fondiario; gli interventi per ricerca, sperimentazione, innovazione tecnologica e valorizzazione commerciale dei prodotti e la produzione di energia rinnovabile; la
costruzione, acquisizione o miglioramento di beni immobili per svolgere attività agricole e connesse; la ristrutturazione del debito; l’acquisto di beni o servizi necessari a
condurre l’impresa; la ricostituzione di liquidità dell’impresa (art. 3, c. 1).
11.
316
2011
Per ottenere la garanzia, la banca che finanzia deve presentare al Garante, ovvero a
Ismea (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare), una relazione tecnica in
cui indicare alcuni dati specifici come il nome dell’imprenditore agricolo, il finanziamento, la sostenibilità e validità del progetto (art. 4). A tal proposito, Ismea ha facoltà di richiedere alle banche interessate tutte le notizie, dati e documenti ritenuti opportuni, ovvero acquisirli mediante istanza diretta al soggetto che beneficia del finanziamento.
Sono assistibili dalla controgaranzia di Ismea, le garanzie rilasciate da confidi ed
altri fondi di garanzia pubblici e privati. La controgaranzia è concessa nel limite del
70% dell’ammontare garantito, del finanziamento e fino a Euro 1.000.000 per le micro e piccole imprese, fino Euro 2.000.000 per quelle medie (art. 6). Tutte le garanzie poste in essere e disciplinate nel decreto adottato dal Ministero delle Politiche
agricole alimentari e forestali non devono superare un ammontare complessivo di
Euro 1.000.000 per le micro e piccole imprese, e di Euro 2.000.000 per le medie imprese (art. 3, c. 2).
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Garanzie sui mutui
La l. 10/2011 ha convertito il d.l. 225/2010. L’art. 2, c. 17-IV favorisce le operazioni di sospensione del pagamento delle rate dei mutui ipotecari chiarendo che, nel caso
di sospensione dell’ammortamento per volontà del creditore o per effetto di legge, le
garanzie ipotecarie già prestate a fronte del mutuo oggetto di sospensione dell’ammortamento continuano ad assistere il rimborso del debito esistente alla data originaria di
scadenza del mutuo, senza che sia necessario il compimento di alcuna formalità o annotazione. La norma è finalizzata a consentire la proroga delle operazioni di sospensione dell’ammortamento dei mutui. Resta fermo ovviamente il diritto a una riduzione
proporzionale della somma iscritta qualora il debitore abbia estinto la quinta parte del
debito originario; resta fermo altresì il diritto alla parziale liberazione di uno o più immobili ipotecati qualora, dai documenti prodotti o da perizie, risulti che per le somme
ancora dovute i rimanenti beni vincolati costituiscano una garanzia sufficiente. La
norma si applica anche ai mutui sospesi dopo essere stati cartolarizzati.
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Ius variandi
L’art. 118 t.u.f. – che consente alle banche di modificare unilateralmente le condizioni economiche del contratto, – è stato oggetto di un nuovo intervento di modifica ad
opera del c.d. decreto sviluppo (ossia il d.l. 70/2011, convertito poi in l. 106/2011).
Osservatorio/Fonti
317
La nuova norma ha introdotto la possibilità di pattuire con apposita clausola la facoltà per la banca di modificare i tassi di interesse anche nei contratti di durata al ricorrere di determinati eventi, mentre nella previgente formulazione non era consentito di
modificare i tassi di interesse nei contratti di durata.
La legge di conversione del decreto sviluppo ha però apportato alcune limitazioni
all’esercizio di tale facoltà da parte delle banche.
Si è stabilito infatti che, se il cliente non è un consumatore né una micro-impresa,
nei contratti di durata diversi da quelli a tempo indeterminato, potranno essere inserite clausole, espressamente approvate dal cliente, che prevedano la possibilità di modificare i tassi di interesse al verificarsi di specifici eventi e condizioni, predeterminati nel
contratto stesso.
È stato eliminato quindi il generico riferimento ad un non meglio precisato “giusto
motivo”, che in precedenza permetteva alle banche maggiori margini di manovra nella
modifica unilaterale dei tassi di interesse.
L’art. 8, c. 5, lett. g) della l. 106/2011 precisa altresì che le modifiche introdotte
all’art. 118 t.u.f. non si applicano ai contratti in corso alla data di entrata in vigore del
decreto e che le eventuali modifiche introdotte ai contratti in corso alla predetta data
sono pertanto inefficaci.
Si vedano U. MORERA-G. OLIVIERI, F. FERRO LUZZI, Due pareri sull’art. 8, comma 5, lett.
f) e g), d.l. n. 70/2011, in Banca, borsa tit. cred., 2011, I, p. 480 e S. PAGLIANTINI, La nuova disciplina del c.d. ius variandi nei contratti bancari: prime note critiche, in Contr., 2011, p. 191.
Per un’esauriente ricostruzione del problema si veda A.A. DOLMETTA, Jus variandi bancario. Tra passaggi legislativi e giurisprudenza dell’ABF le linee evolutive dell’istituto, http://
www.ilcaso.it/opinioni/260-dolmetta-24-07-11.pdf.
Sullo ius variandi nei contratti bancari si vedano altresì F. MOLITERNI, Clausole abusive
e contratti bancari: azione inibitoria, ius variandi nei rapporti regolati in conto corrente e limitazione pattizia della responsabilità della banca nel contratto di utilizzazione di cassette di sicurezza, in Banca, borsa tit. cred., 2009, II, p. 678; T. CAPURRO, In tema di clausola attributiva dello ius variandi, in Banca, borsa tit. cred., 2008, II, p. 229, P. SIRENA, Il ius variandi della
banca dopo il c.d. decreto-legge sulla competitività (n. 223 del 2006), in Banca, borsa tit. cred.,
2007, I, p. 262; G. SANTONI, Lo ius variandi delle banche nella disciplina della l. n. 248 del
2006, in Banca, borsa tit. cred., 2007, I, p. 249, C. IURILLI, Ius variandi e testo unico bancario
– La nuova formulazione dell’art. 118, e l’art. 10 c.d. «decreto Bersani» – Una proposta interpretativa, in Studium iuris, 2007, p. 131.
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Misure restrittive in materia di posizioni nette corte su titoli azionari
La Consob, con la delibera 17902/2011, ha disposto l’adozione di misure restrittive in materia di posizioni nette corte. Si intende per posizione netta corta la posizione
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2011
ribassista calcolata in termini di numero di azioni e che prende in considerazione: (i)
le posizioni corte – ossia, le vendite effettive di azioni (non ancora regolate) e quelle
potenziali derivanti da posizioni al ribasso in strumenti finanziari derivati; al netto (ii)
delle posizioni lunghe – ossia, le azioni effettivamente detenute, gli acquisti effettivi di
azioni (non ancora regolati) e quelli potenziali derivanti da posizioni al rialzo in strumenti finanziari derivati, indipendentemente dalla sede di negoziazione.
Sulla base dell’art. 74, d.lgs. 58/1998 (testo unico delle disposizioni in materia di
intermediazione finanziaria – di seguito “t.u.f.”), che assegna alla Consob il compito di
vigilare sui mercati regolamentati al fine di assicurare la trasparenza, l’ordinato svolgimento delle negoziazioni e la tutela degli investitori adottando, in caso di necessità e
urgenza, i provvedimenti necessari, la decisione della Consob tiene conto della straordinarietà delle condizioni di mercato caratterizzate da un rilevante incremento della
volatilità. In particolare, le disposizioni in esame intervengono ad integrare, alla luce
delle mutate condizioni di mercato, il regime di comunicazione delle posizioni nette
corte, adottato con la delibera 17862/2011, anche sulla scorta delle decisioni assunte
in materia di posizioni nette corte dalle competenti Autorità francese, spagnola e belga, e stabiliscono il divieto, nei confronti di persone fisiche o giuridiche e altri soggetti
giuridici (sia italiani che esteri), di assumere posizioni nette corte ovvero incrementare
posizioni nette corte esistenti, anche in giornata, in relazione al capitale degli emittenti
del settore finanziario. La decisione di cui trattasi è stata poi prorogata con ulteriori e
successive delibere fino al 15 gennaio 2012. Misure analoghe sono in vigore in altri
Paesi europei e saranno delineate nel futuro regolamento comunitario in materia di
vendite allo scoperto.
La Consob ha inoltre stabilito di proibire le vendite allo scoperto c.d. “nude”, ovvero quelle vendite non assistite dalla disponibilità dei titoli al momento dell’ordine. Il
nuovo divieto vale per tutte le azioni quotate sui mercati regolamentati italiani indipendentemente dal luogo di negoziazione.
Per una approfondita analisi della situazione di crisi vissuta dalla Borsa Italiana in questi ultimi anni, si veda F. CESARINI, La borsa e la crisi. Alcune considerazioni dall’esperienza
italiana, in Banca borsa tit. cred., 2011, p. 471.
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Offerte pubbliche di acquisito e di scambio
La Consob, con la delibera 17731/2011, è intervenuta a modificare il regolamento
Emittenti (delibera Consob 11971/1999 e successive modifiche) ridefinendo la disciplina ivi contenuta in materia di offerte pubbliche di acquisto e di scambio (opa/opsc).
Gli interventi di regolazione, che costituiscono attuazione della direttiva europea
Osservatorio/Fonti
319
in materia di offerte pubbliche di acquisto e di scambio, tenendo anche conto delle innovazioni introdotte dal d.lgs. 58/1998 (testo unico delle disposizioni in materia di
intermediazione finanziaria – di seguito “t.u.f.”) negli ultimi anni, hanno teso a realizzare il rafforzamento (i) da un lato della tutela degli azionisti di minoranza, nel corso
di operazioni che possano determinare un`evoluzione dell`assetto di controllo della
società, (ii) dall’altro dell’efficienza e della trasparenza del mercato del controllo societario, grazie ad alcune previsioni e modifiche regolamentari volte a favorire una maggiore dinamicità del mercato del controllo societario e ad eliminare profili di incertezza nell’interpretazione delle norme che possano frenare l’attivismo degli investitori e le
operazioni di fusione e acquisizione.
Si è altresì inteso, da una parte garantire la parità di trattamento per gli investitori
italiani ed esteri, relativamente al riconoscimento dei documenti di offerta approvati
da Autorità di vigilanza di Stati comunitari ed extracomunitari, dall’altra allineare la
disciplina nazionale e le prassi prevalenti in sede internazionale.
Ulteriori norme sono state pensate con lo scopo di ridurre i costi di compliance per
gli offerenti, modificando gli adempimenti ritenuti non efficacemente calibrati in
un’ottica di costi e benefici e operando una maggiore standardizzazione delle informazioni richieste, finalizzata a rendere più efficiente il procedimento di controllo da parte
della Consob.
Nel dettaglio, tra le novità di maggior rilievo che l’Autorità di Vigilanza ha apportato al regolamento Emittenti si segnalano a) la possibilità, in caso di successo di opa promosse dall’azionista di controllo o da altri soggetti insider, di riaprire i termini del periodo d’offerta, per consentire l’adesione anche agli azionisti che in un primo momento hanno scelto di non conferire i titoli; b) l’estensione della best price rule (l’obbligo di
allineare il prezzo d’offerta al prezzo più alto pagato dall’offerente) anche ai sei mesi
successivi alla chiusura dell’offerta; c) il computo, ai fini del superamento della soglia
del 30% e della determinazione del prezzo, anche degli acquisti di strumenti finanziari
derivati di qualsiasi tipo (compresi quelli con regolamento in contanti); d) il coinvolgimento degli azionisti di minoranza in alcuni casi di esenzione dall’obbligo di opa; e)
una più precisa identificazione delle condotte che si configurano come concerto tra
azionisti; f) la semplificazione della normativa italiana in materia di offerte su titoli di
debito, al fine di adeguarla al quadro internazionale nonché l’esclusione dall’ambito
applicativo della disciplina opa delle operazioni di ristrutturazione del debito soggette
alle approvazioni dei titolari dei relativi strumenti (cosiddette consent solicitation).
È stato infine stabilito che il sopra richiamato computo di tutti gli strumenti finanziari derivati ai fini dell’obbligo di opa, pur restando un elemento qualificante della nuova disciplina, rimanga, attraverso l’inserimento di alcune ipotesi di esenzione, comunque limitato.
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2011
Rinegoziazione e portabilità dei mutui
L’art. 8, c. 6 del decreto sviluppo (d.l. 70/2011, convertito poi nella l. 106/2011)
ha disciplinato la rinegoziazione dei contratti di mutuo ipotecario a tasso variabile. È
consentita, fino al 31 dicembre 2012, la rinegoziazione di alcune tipologie di mutui
assistiti da garanzia ipotecaria, e in particolare quelli aventi le seguenti caratteristiche:
mutui stipulati, ovvero accollati anche a seguito di frazionamento, prima dell’entrata in
vigore della legge di conversione del decreto legge; mutui aventi un importo originario
non superiore ad Euro 200.000, finalizzati all’acquisto o alla ristrutturazione di unità
immobiliari adibite ad abitazione; mutui aventi tasso variabile per tutta la durata del
contratto.
Il mutuatario ha diritto di ottenere la rinegoziazione del mutuo, qualora al momento della richiesta presenti un’attestazione Isee (Indicatore della situazione economica
equivalente) non superiore ad Euro 35.000 e, salvo diverso accordo tra le parti, non
abbia avuto in precedenza ritardi nel pagamento delle rate del mutuo.
Sono state disciplinate le condizioni alle quali è effettuata la rinegoziazione, applicando, al posto del tasso variabile, un tasso annuo nominale fisso con limiti quantitativi prefissati; l’applicazione del suddetto tasso di interesse potrà operare, in funzione
delle esigenze del cliente, per un periodo pari alla durata residua del finanziamento o,
con l’accordo del cliente, per un periodo inferiore.
Viene estesa altresì l’operatività delle disposizioni concernenti la cancellazione delle ipoteche, oltre ai mutui e finanziamenti concessi da banche e intermediari finanziari
e ai finanziamenti concessi da enti di previdenza ai loro iscritti, anche ai finanziamenti
concessi dai suddetti enti previdenziali ai propri dipendenti.
L’art. 8, c. 8, d.l. 70/2011 modifica alcune norme in materia di cancellazione delle
ipoteche a garanzia di mutui e di portabilità dei mutui.
Le nuove norme si applicano ai mutui e ai finanziamenti, anche non fondiari, concessi da banche ed intermediari finanziari, ovvero concessi da enti intermediari finanziari, ovvero concessi da enti di previdenza obbligatoria ai propri dipendenti o iscritti.
Il Testo Unico Bancario, nella parte in cui recepisce il c.d. decreto Bersani-bis, stabiliva che, qualora la surrogazione non si perfezionasse entro il termine di trenta giorni
dalla data della richiesta di avvio delle procedure di collaborazione da parte del mutuante surrogato al finanziatore originario, quest’ultimo fosse comunque tenuto a risarcire il cliente in misura pari all’1% del valore del finanziamento per ciascun mese o
frazione di mese di ritardo. La nuova formulazione stabilisce che il termine sia di trenta giorni lavorativi e l’ammontare del risarcimento sia da calcolarsi non più sul valore
del debito complessivo, bensì sul debito residuo.
In dottrina, si veda C. OCCHIPINTI-F. DEL STABILE, Il decreto sviluppo 2011: rinegoziazione e portabilità dei mutui, in Imm. propr., 2011, p. 572; S. BOSCO, Portabilità e rinegozia-
Osservatorio/Fonti
321
zione dei mutui, in Giur. mer., 2010, p. 265; P. SIRENA, La «portabilità del mutuo» bancario
e finanziario, in Riv. dir. civ., 2008, I, p. 449; A.A. DOLMETTA, Questioni sulla surrogazione
per volontà del debitore ex art. 8 l. n. 40/2007 (c.d. «portabilità del mutuo»), in Vita not.,
2008, p. 33; R. MURONI, La portabilità del mutuo nella fase patologica del rapporto da rinegoziare ed in pendenza di procedure esecutive immobiliari, in Corr. giur., 2008, p. 1452; A.
GIAMPIERI, Il decreto sulle liberalizzazioni. La portabilità del mutuo, le intenzioni del legislatore e gli effetti (forse indesiderati) della norma, in Nuova giur. civ. comm., 2007, II, p. 278.
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Tassi di usura
Il c.d. decreto sviluppo (ossia il d.l. 70/2011, convertito poi nella l. 106/2011) ha
disposto la modifica del metodo di calcolo del “tasso soglia” o “tasso di usura”, come
precedentemente disciplinato dall’art. 2, c. 4, della l. 108/1996. L’art. 8, c. d, del decreto sviluppo stabilisce che dal giorno di entrata in vigore di tale decreto legge (il 14
maggio 2011) la soglia di usura è calcolata aumentando il tasso medio (TEGM) di un
quarto, cui si aggiunge un margine fisso di ulteriori quattro punti percentuali. È altresì
stabilito che, in ogni caso, la differenza tra il limite e il tasso medio non può essere superiore a otto punti percentuali.
Si ricorda che il precedente metodo di calcolo del tasso di usura stabiliva semplicemente di aumentare del 50% il valore del TEGM.
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CONTRATTI DEL CONSUMATORE
Assicurazione del credito al consumo
L’art. 36-bis, d.l. 201/2011 (c.d. Decreto Salva Italia), convertito con modificazioni
in l. 214/2011, ha modificato l’art. 21 c. cons., introducendo un nuovo c. 3-bis. Per effetto di questa nuova disposizione è considerata scorretta la pratica commerciale di
una banca, di un istituto di credito o di un intermediario finanziario che, ai fini della
stipula di un contratto di mutuo, obbliga il cliente alla sottoscrizione di una polizza assicurativa erogata dalla medesima banca, istituto, intermediario finanziario.
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Credito al consumo
Con d.m. del 3 febbraio 2011 il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha intro-
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2011
dotto nuove disposizioni in materia di credito ai consumatori. L’obiettivo dichiarato
di queste disposizioni è di promuovere «la trasparenza e l’efficienza del mercato del
credito ai consumatori, la diffusione di pratiche responsabili nella concessione del credito e ad assicurare un elevato grado di tutela dei consumatori» (art. 1, c. 1).
Degni di nota sono l’art. 3 (Calcolo del TAEG), il quale attribuisce alla Banca
d’Italia il compito di stabilire le modalità di calcolo del TAEG in conformità dell’art.
121, c. 2, t.u.b.; l’art. 5 (Informativa precontrattuale), il quale attribuisce sempre alla
Banca d’Italia il compito di definire, secondo quanto previsto dagli artt. 5 e 6 dir.
2008/48/CE, l’elenco delle informazioni che il consumatore ha il diritto di ricevere
prima della conclusione del contratto di credito, precisando che «prima della conclusione del contratto di credito il finanziatore assicura inoltre che il consumatore possa
ottenere agevolmente e gratuitamente chiarimenti che gli consentano di valutare se il
contratto proposto sia adatto alle proprie esigenze e alla propria situazione finanziaria»; l’art. 8 (Contratti), il quale attribuisce sempre alla Banca d’Italia il compito di
specificare le informazioni e le condizioni da inserire nei contratti di credito secondo
quanto previsto dall’art. 10 dir. 2008/48/CEE.
Sulla dir. 2008/48/CE si veda AdC 2009, p 447. Sul d.lgs. 141/2010 che ha dato attuazione alla direttiva v. AdC 2010, p. 338. Vedi anche BANCA D’ITALIA, Provvedimento del 9
febbraio 2011 sul recepimento della direttiva sul credito ai consumatori, che ha modificato le
disposizioni in materia di trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari con
particolare riferimento alla correttezza delle relazioni tra intermediari e clienti.
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Direttiva sui diritti dei consumatori
Il Parlamento europeo e il Consiglio hanno approvato la dir. 2011/83/UE sui diritti
dei consumatori, la quale sostituisce, abrogandole, la dir. 85/577/CEE sui contratti negoziati fuori dai locali commerciali e la dir. 97/7/CE sui contratti a distanza. La dir.
2011/83/UE dovrà essere recepita dai singoli Stati Membri entro il 13 giugno 2014.
La direttiva sui diritti dei consumatori costituisce il punto di arrivo di un lungo
processo di revisione dell’acquis communautaire in materia di tutela dei consumatori.
Nella proposta di direttiva sui diritti dei consumatori presentata nel 2008, la Commissione aveva ipotizzato di adottare una nuova direttiva che sostituisse, oltre alle dir.
85/577/CEE e 97/7/CE, relative rispettivamente ai contratti negoziati fuori dai locali
commerciali e ai contratti a distanza, anche la dir. 93/13/CEE sulle clausole abusive e
la dir. 1999/44/CE sulle garanzie nella vendita di beni di consumo. Scopo della nuova
direttiva era di eliminare tutte le incongruenze esistenti nell’ambito dell’acquis dei
consumatori e di colmare le principali lacune esistenti (ad esempio, la proposta di di-
Osservatorio/Fonti
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rettiva, oltre ai rimedi già riconosciuti al consumatore in caso di consegna di un bene
non conforme al contratto – riparazione, sostituzione, riduzione del prezzo e risoluzione del contratto – prevedeva anche il rimedio del risarcimento del danno). Inoltre,
la proposta di direttiva, con lo scopo dichiarato di eliminare le diversità ancora esistenti tra i diritti nazionali in materia di diritti dei consumatori, sostituiva il criterio dell’armonizzazione minima con il criterio dell’armonizzazione massima, con la conseguenza
che i singoli Stati membri non sarebbero più stati liberi di innalzare il livello di tutela
dei consumatori nella materie (molto ampie) disciplinate dalla proposta di direttiva.
Tuttavia, a causa delle forte opposizione di alcuni Stati membri la proposta di direttiva
è stata significativamente ridimensionata.
Nella versione finalmente approvata, la direttiva sui diritti dei consumatori sostituisce solamente le direttive sui contratti conclusi fuori dai locali commerciali e sui
contratti a distanza. Sotto questo profilo, la nuova direttiva uniforma i tempi e le modalità dell’esercizio del diritto di recesso. Inoltre, introduce nuovi obblighi di informazione che il professionista deve adempiere nei confronti del consumatore. La nuova
direttiva prevede anche obblighi di informazione precontrattuali che devono essere
adempiuti in tutti i rapporti tra professionisti e consumatori, indipendentemente dalle
modalità di conclusione del contratto. Peraltro, l’obbligo di forma scritta (su sopporto
durevole) per le informazioni obbligatorie è previsto esclusivamente per i contratti
conclusi fuori dai locali commerciali e a distanza.
La parte più innovativa della direttiva riguarda però le disposizioni in materia di
vendita di beni di consumo. Queste disposizioni riguardano l’obbligo di consegna del
bene e il passaggio del rischio. Per quanto riguarda il primo profilo si prevede che il
professionista debba consegnare il bene senza indebito ritardo e comunque entro
trenta giorni dalla conclusione del contratto. In caso di ritardo, il consumatore deve
dare un termine supplementare al professionista, decorso inutilmente il quale il consumatore può risolvere il contratto. La fissazione di un nuovo termine non è necessaria quando il professionista ha dichiarato di non voler adempiere e quando il termine
era essenziale, per espressa dichiarazione del consumatore o alla luce delle circostanze
del caso (ad esempio, la consegna del vestito della sposa entro il giorno fissato per le
nozze). Per quanto riguarda, invece, il secondo profilo, si prevede che il rischio del
danneggiamento fortuito del bene passa al consumatore solamente con la consegna
allo stesso del bene venduto. Non è sufficiente la consegna al vettore, salvo il caso in
cui questo sia stato scelto dal consumatore.
Rispetto alla proposta della Commissione, la direttiva approvata dal Parlamento e
dal Consiglio non contempla nuove disposizioni in materia di clausole abusive o in
materia di garanzie nella vendita di beni di consumo. Tuttavia, essa mantiene il criterio
dell’armonizzazione massima, salvo i casi in cui la stessa direttiva non consenta espressamente delle deroghe da parte dei singoli Stati membri. D’altra parte, essendosi ridotto significativamente l’ambito di applicazione della direttiva, anche la portata dell’ar-
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2011
monizzazione massima viene ridimensionata in modo corrispondente. In questa prospettiva, degno di nota è il fatto che la nuova direttiva, pur contendendo disposizioni
sull’obbligo di consegna e sul passaggio del rischio (in questo modo colmando alcune
importanti lacune del precedente acquis dei consumatori), non prevede alcuna disposizione sul risarcimento del danno, il quale viene lasciato ai singoli diritti contrattuali
nazionali.
Al parziale fallimento della proposta di direttiva sui diritti dei consumatori la
Commissione ha reagito mediante la proposta di un regolamento sul diritto comune
europeo della vendita (v. in questo volume p. 343 ss.).
Sulla direttiva v. I. RIVA, La direttiva di armonizzazione massima sui diritti dei consumatori, o almeno ciò che ne resta, in Contr. impr./Eur., 2011, p. 754 ss. Sulla proposta di direttiva v. E. HONDIUS, The proposal for a Directive on consumer rights: a step forward, in European Review of Private Law, 2010, p. 103; H.-W. MICKLITZ-N. REICH, Cronica de una muerte
anunciada: the Commission proposal for a “Directive on consumer rights”, in Common Market
Law Review, 2009, p. 471; L. DELOGU, La proposta di direttiva sui diritti dei consumatori: la
situazione a un anno dalla sua presentazione, in Contr. impr./Eur., 2009, p. 953. M. DONA,
La proposta di direttiva sui diritti dei consumatori: luci ed ombre nel futuro della tutela contrattuale, in Obbl. contr., 2009, p. 582 ss. Sul rapporto tra armonizzazione massima prevista
dalla direttiva e strumento opzionale previsto dalla proposta di regolamento sul diritto
comune europeo della vendita v. C. TWIGG-FLESNE, Good-Bye Harmonisation by Directives,
Hello Cross-Border only Regulation? A way forward for EU Consumer Contract Law, in European Review of Contract Law, 2011, p. 235.
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Multiproprietà
L’art. 2 del d.lgs. 79/2011, in attuazione della dir. 2008/122/CE relativa ai contratti di multiproprietà, ai contratti relativi ai prodotti per le vacanze di lungo termine ed
ai contratti di rivendita e scambio, ha integralmente sostituito il Titolo IV, Capo I, del
d.lgs. 206/2005, c.d. Codice del consumo. Tale intervento normativo ha ampliato il
campo di applicazione della disciplina, già contemplata nel Codice del consumo per la
sola fattispecie multiproprietà in senso stretto, estendendola a qualunque contratto a
scopo turistico che abbia una ciclicità periodica o continuativa e destinandone quindi
l’applicazione ad un più ampio raggio di fattispecie negoziali, quali i contratti di rivendita ed i contratti di scambio.
In questo senso, la dir. 2008/122/CE, che ha abrogato la precedente dir. 94/47/
CEE, prendendo atto dello sviluppo commerciale conosciuto nell’ultimo decennio dal
mercato della multiproprietà e di prodotti simili, aveva esteso anche a queste nuove
forme contrattuali la tutela accordata al consumatore che acquisti una multiproprietà.
Intento dichiarato del nuovo intervento normativo comunitario quello di raggiun-
Osservatorio/Fonti
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gere una definizione unitaria del contratto di multiproprietà per tutti i paesi coinvolti
al fine da poter meglio realizzare una efficace tutela del consumatore. Tale obbiettivo
di uniformità e sostanziale trasparenza delle condizioni dell’accordo, è stato realizzato
attraverso la predisposizione di appositi formulari informativi precontrattuali, distinti
a seconda della tipologia del contratto da sottoscrivere, oggi confluiti negli Allegati II
bis, ter, quater e quinquies del d.lgs. 206/2005 e che gli operatori del settore saranno
tenuti a consegnare al consumatore prima della sottoscrizione del contratto.
Le informazioni, di cui all’art. 71, d.lgs. 71/2011, costituiscono parte integrante e
sostanziale del contratto. Possono essere modificate solo in caso di accordo esplicito
delle parti o nel caso in cui tali modifiche siano causate da circostanze eccezionali ed
imprevedibili, indipendenti dalla volontà dell’operatore e le cui conseguenze non
avrebbero potuto essere evitate da quest’ultimo neppure con la dovuta diligenza.
Per quanto riguarda i diritti del consumatore, la nuova disciplina prevede infatti
obblighi precontrattuali di informazione più intensi rispetto alla precedente (in linea
con quanto previsto dalle direttive in materia contrattuale di ultima generazione, a
proposito delle quali si è ravvisato in dottrina il rischio di un “manierismo informativo”: così V. ROPPO, L’informazione precontrattuale: spunti di diritto italiano, e prospettive di diritto europeo, in Riv. dir. priv., 2004, p. 761) ed un periodo di “raffreddamento”
più lungo (14 giorni invece di 10), durante il quale il consumatore può recedere dal
contratto senza costi. Il diritto di recesso, al quale è dedicato un apposito formulario
informativo da allegare al contratto, può essere esercitato ad nutum senza obbligo di
corresponsione di alcuna penale e senza obbligo di motivazione alcuna. In pendenza
del termine per l’esercizio del diritto di recesso, è ora previsto dall’art. 75 del nuovo
Codice del consumo l’espresso divieto di corrispondere qualsiasi entità patrimoniale a
titolo di acconto e, quindi, avente effetti prenotativi, sanzionatori o di anticipazione
sul corrispettivo.
Il contratto, da consegnare al consumatore al momento della sua conclusione, deve
essere redatto, a pena di nullità, in forma scritta, nella lingua italiana o in una delle lingue dello Stato dell’Unione Europea in cui il consumatore risiede oppure di cui è cittadino, a sua scelta, purché si tratti di una lingua ufficiale dell’Unione Europea.
Ai sensi della nuova formulazione dell’art. 78, d.lgs. 206/2005, sono nulle, sia le
clausole contrattuali o i patti aggiuntivi di rinuncia del consumatore ai diritti previsti
dal Capo I del Titolo IV del Codice del consumo, sia le clausole limitative delle responsabilità previste a carico dell’operatore.
Per una approfondita analisi della normativa in commento si vedano E. SMANIOTTO-I.
SCALISI, Il “trasloco” della multiproprietà, in Imm. propr., 2011, p. 426; G. TRAPANI, La nuova multiproprietà nel cd. “Codice del turismo”, in Contr, 2011, p. 941; A. PAGANO, Novità
normative, in Corr. giur., 2011, p. 1047; N. ZORZI GALGANO, Il recesso di protezione del consumatore nella nuova disciplina del turismo e della multiproprietà, in Contr. impr., 2011, p.
1193 ss. Per un commento alla dir. 2008/12/CE, cfr. AdC 2010, p. 339; AdC 2009, p. 449;
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2011
A. TESTA, La nuova direttiva comunitaria in materia di multiproprietà, in Imm. propr., 2009,
p. 281; E. MALAGOLI, La direttiva 2008/122/CE sulla multiproprietà, in Contr. impr./Eur.,
2009, p. 984.
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CONTRATTI IMMOBILIARI
Case convenzionate
Il decreto sviluppo (d.l. 70/2011, convertito poi in l. 106/2011) stabilisce un’interessante novità in materia di edilizia convenzionata.
I proprietari di abitazioni che rientrino in convenzioni con limiti al prezzo massimo
di cessione ed al canone massimo di locazione possono rimuovere questi vincoli pagando un riscatto, stabilito con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze.
Sono interessate le convenzioni che fanno riferimento all’art. 35, l. 865/1971, e
successive modificazioni, per la cessione del diritto di proprietà, stipulate precedentemente alla data di entrata in vigore della l. 179/1992 ovvero per la cessione del diritto
di superficie; vi rientrano altresì le convenzioni di cui all’art. 18, d.p.r. 380/2001.
Questa nuova regola richiede che siano trascorsi almeno cinque anni dalla data del
primo trasferimento.
La rimozione dei vincoli deve avvenire con convenzione in forma pubblica stipulata a richiesta del singolo proprietario e soggetta a trascrizione per un corrispettivo proporzionale alla corrispondente quota millesimale, determinato in misura pari ad una
percentuale del corrispettivo risultante dall’applicazione dell’art. 31, c. 48, l. 448/1998.
La percentuale è stabilita, anche con l’applicazione di eventuali riduzioni in relazione alla durata residua del vincolo, con decreto di natura non regolamentare del Ministro dell’economia e delle finanze, d’intesa con la Conferenza unificata ai sensi dell’art.
3, d.lgs. 281/1997.
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Certificazione energetica
La recente introduzione del d.lgs. 28/2011, emanato in attuazione alla dir. 2009/28/
CE sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili, ha inserito due nuovi
commi (il 2-ter e il 2-quater) all’art. 6 del d.lgs. 192/2005, istituivo dell’obbligo di certificazione energetica degli edifici oggetto di contratti traslativi a titolo oneroso. L’art. 13
del d.lgs. 28/2011 prescrive che, nei contratti di compravendita e di locazione di edifici o
di singole unità immobiliari, venga inserita una apposita clausola con la quale l’acquiren-
Osservatorio/Fonti
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te o il conduttore diano atto di aver ricevuto le informazioni e la documentazione in ordine alla certificazione energetica degli edifici. Il nuova c. 2-ter dell’art. 6, d.lgs. 192/
2005, è stato inserito a seguito dell’apertura di una procedura di infrazione a carico dello
Stato italiano che, in difformità rispetto alla normativa comunitaria, aveva abrogato l’obbligo di consegna della certificazione energetica. La deroga rispetto all’obbligo di allegazione della certificazione energetica, prima previsto a pena di nullità del contratto, contravveniva infatti alle disposizioni contenute nell’originaria direttiva comunitaria 2002/
91/CE che obbligava gli Stati membri all’adozione di validi strumenti tesi a documentare le caratteristiche energetiche degli edifici in relazione all’utilizzo degli stessi.
Per espressa previsione normativa, i nuovi obblighi dettati dal d.lgs. 28/2011 dovrebbero applicarsi, anziché a tutti gli atti di trasferimento a titolo oneroso, come previsto dalla prima versione della norma, esclusivamente agli atti di compravendita immobiliare ed ai contratti di locazione aventi ad oggetto beni immobili già dotati dell’attestato di certificazione energetica in conseguenza di una pregressa cessione a titolo
oneroso degli stessi, avvenuta dopo l’introduzione della normativa sulla certificazione
energetica. Ulteriore problema interpretativo della norma in esame nasce dal non avere il legislatore previsto alcuna sanzione in caso di omissione del requisito formale,
consistente nell’obbligatoria introduzione nel testo contrattuale della clausola con la
quale l’acquirente si dichiari edotto delle caratteristiche energetiche dell’unità immobiliare in contratto, confermando l’avvenuto rilascio della certificazione da parte del venditore. In mancanza di una chiara indicazione del legislatore in tal senso, compito di dottrina e giurisprudenza valutare quali conseguenze possano derivare dal mancato inserimento, nell’atto, di tale specifica clausola, richiesta quale requisito formale dello stesso.
L’art. 13, d.lgs. 28/2011, stabilisce infine che, a partire dal 1° gennaio 2012 ed al fine di una maggior chiarezza anche in fase di trattativa precontrattuale, tutti gli annunci
immobiliari aventi ad oggetto il trasferimento a titolo oneroso di edifici o di singole
unità immobiliari dovranno riportare l’indice di prestazione energetica dell’edificio.
Per una panoramica dettagliata sul d.lgs. 28/2011 si veda M. RAGAZZO, Il d.lgs. 28/2011:
promozione delle fonti rinnovabili o … moratoria de facto?, in Urb. app., 2011, p. 636; F. DI
DIO, D.lgs. n. 28/2011: il nuovo regime “speciale” delle autorizzazioni per impianti da fonti
rinnovabili, in Amb. svil., 2011, p. 564. Sulle conseguenze dell’introduzione della nuova disciplina sui contratti di compravendita e locazione, cfr. A. TESTA, Le nuove regole sulla certificazione energetica degli edifici a seguito del d.lgs. 28/2011, in Imm. propr., 2011, p. 415. In
dottrina, tra gli altri si veda, AdC 2009, p. 453; A. TESTA, L’obbligo di certificazione anche
per gli edifici esistenti, in Imm. propr., 2009, p. 487; G. RIZZI (a cura di), La certificazione
energetica dopo il d.l. n. 112/2008, in Notar., 2009, p. 49; A. TESTA, La certificazione energetica nella normativa nazionale e regionale lombarda, in Imm. propr., 2008, p. 161; G. PETRELLI, La certificazione energetica degli edifici – Normativa nazionale e delle regioni Piemonte
e Lombardia, in Notar., 2008, p. 82; D. LAVERMICOCCA, La certificazione energetica negli
edifici, in Urb. app., 2008, p. 281; E. LUCCHINI GUASTALLA, Nullità della compravendita
immobiliare per contrarietà a norma regionale: il caso della certificazione energetica, in Riv.
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2011
crit. dir. priv., 2008, p. 469; A. TESTA, La certificazione energetica per gli immobili, in Imm.
propr., 2007, p. 287. Sul tema vedi, da ultimo, G. BELLANTUONO, Contratti e regolazione
nei mercati dell’energia, in Il Mulino, 2009.
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CONTRATTI DEI MEDIA E DELLE COMUNICAZIONI
Indennizzi agli utenti
Con la delibera 73/11/CONS l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) ha adottato il «Regolamento in materia di indennizzi applicabili nella definizione
delle controversie tra utenti ed operatori ed individuazione delle fattispecie di indennizzo automatico, ai sensi dell’art. 2, c. 12, l. 48/1995». Il regolamento è stato adottato a
seguito della consultazione pubblica, indetta dall’Agcom, con la delibera 124/10/CONS,
nella prospettiva di un intervento normativo (il regolamento appunto) in tema di indennizzi dovuti al consumatore dagli operatori di comunicazioni elettroniche in caso di
disservizi. Ragione dell’iniziativa, si legge nella delibera 124/10/CONS è «l’esigenza di
assicurare uniformità di trattamento delle varie fattispecie di disservizio, individuando
un adeguato criterio minimo di calcolo per gli indennizzi dovuti, indipendentemente
dall’operatore interessato, nonché di prevedere una adeguata sperequazione di tale misura a seconda della gravità della violazione sanzionata».
Il regolamento risponde proprio all’esigenza di assicurare, in sede di definizione
amministrativa delle controversie davanti all’Agcom ed ai Corecom, parità di trattamento agli utenti che subiscono un medesimo disservizio, prevedendo peraltro un’adeguata diversificazione degli importi da riconoscere a titolo di indennizzo, a seconda
della gravità dell’inadempimento contrattuale riscontrato.
Le nuove norme, introducono – in relazione a diverse fattispecie di disservizio –
un criterio minimo di calcolo da applicare per la determinazione dell’indennizzo dovuto, qualora lo stesso non venga riconosciuto direttamente dall’operatore. L’introduzione di una misura compensativa è, peraltro, prevista anche in relazione a disservizi, quali omessa o ritardata portabilità del numero, perdita della numerazione, attivazione di
profili tariffari non richiesti e omessa o errata indicazione negli elenchi telefonici, generalmente non previsti dalle Carte dei servizi degli operatori.
Il regolamento, sempre nell’ottica di assicurare maggiore tutela alle ragioni dei
consumatori, introduce per talune tipologie di disservizio, quali il ritardo nell’attivazione dei servizi richiesti e l’ingiustificata sospensione o cessazione amministrativa dei
servizi, l’obbligo di corresponsione dell’indennizzo in maniera automatica, mediante
accredito nella prima fattura utile, a seguito della semplice segnalazione del disservizio
da parte dell’utente. Le misure di compensazione automatica saranno efficaci a partire
dal primo gennaio 2012.
Osservatorio/Fonti
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Con riferimento alla delibera dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni 124/10/
CONS, si rinvia a AdC 2010, p. 349.
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Neutralità della rete e indagine conoscitiva concernente le garanzie dei consumatori e la tutela della concorrenza
Con la delibera 713/11/CONS l’autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom), in considerazione dei rilevanti temi oggetto di analisi, ha ritenuto opportuno pubblicare le risultanze della consultazione pubblica avviata con la delibera 39/11/CONS,
allo scopo di informare il mercato circa gli esiti della consultazione, nonché di promuovere il dibattito scientifico sui temi oggetto della consultazione stessa, con particolare riferimento al progresso tecnologico, alle dinamiche del mercato mobile e dei
servizi dati, nonché al tema della neutralità della rete.
La delibera rappresenta, quindi, la sintesi dei contributi pervenuti nell’ambito della
consultazione pubblica relativa all’indagine conoscitiva «Garanzie dei consumatori e
tutela della concorrenza con riferimento ai servizi VoIP e peer-to-peer su rete mobile».
Nell’indagine conoscitiva sono state esaminate le logiche, tecniche e commerciali, che
contraddistinguono l’evoluzione del settore delle comunicazioni mobili e personali
alla luce della diffusione di nuove modalità di produzione e consumo nel campo dei
servizi dati, valutandone le implicazioni di carattere tecnologico, economico, regolamentare, oltre che quelle giuridiche e sociali di interesse generale. Nell’indagine conoscitiva l’autorità ha altresì affrontato le questioni inerenti alla diffusione di forme di gestione del traffico che impattano sul principio della neutralità della rete (tema, quest’ultimo, che investe le reti mobili come quelle in postazione fissa e, pertanto, oggetto
di uno specifico approfondimento, avente carattere di studio e di ricerca, proposto
dall’autorità con la delibera 40/11/CONS). Nella delibera in commento, che non ha
lo scopo di riflettere le posizioni assunte dall’Agcom, quest’ultima ha semplicemente
inteso evidenziare, senza pretesa di esaustività, le diverse posizioni degli stakeholder
circa i temi sollevati nell’ambito dell’indagine conoscitiva.
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CONTRATTI DEI PROFESSIONISTI
Tariffe professionali
Fra le numerose novità introdotte dal d.l. 138/2011, convertito nella l. 148/2011,
vi è il rinnovato richiamo alle tariffe professionali. Il testo della manovra, pur ribaden-
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do i principi contenuti nella riforma Bersani, invita infatti i professionisti ad utilizzare,
come riferimento per la definizione del compenso professionale, i minimi tariffari precedentemente in vigore. L’art. 3 del d.l. 138/2011, infatti, prevede che il compenso
spettante al professionista sia pattuito per iscritto all’atto del conferimento dell’incarico, prendendo come riferimento le tariffe professionali. Il professionista e’ tenuto, nel
rispetto del principio di trasparenza, a rendere noto al cliente il livello della complessità dell’incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili, dal momento del conferimento fino alla conclusione dell’incarico. In caso di mancata determinazione consensuale del compenso, quando il committente e’ un ente pubblico, in
caso di liquidazione giudiziale dei compensi, ovvero nei casi in cui la prestazione professionale e’ resa nell’interesse dei terzi, si applicano le tariffe professionali stabilite
con decreto dal Ministro della Giustizia.
Tuttavia, a complicare il quadro normativo, reso confuso dai numerosi interventi
legislativi in itinere ed approvati, non si può non dare atto in questa sede dell’emanazione del d.l. 1/2012 che, a far data dal gennaio 2012, ha previsto l’abrogazione delle
tariffe professionali minime anche come mero parametro di riferimento. L’art. 9, d.l.
1/2012, abrogando espressamente tutte le disposizioni vigenti per la determinazione
del compenso del professionista, prevede ora che il compenso per le prestazioni professionali sia pattuito al momento del conferimento dell’incarico professionale. In tale
occasione il professionista deve rendere noto al cliente il grado di complessità dell’incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del
conferimento alla conclusione dell’incarico e deve altresì indicare i dati della polizza
assicurativa per i danni provocati nell’esercizio dell’attività professionale. In ogni caso
la misura del compenso, previamente resa nota al cliente anche in forma scritta se da
questi richiesta, deve essere adeguata all’importanza dell’opera e va pattuita indicando
per le singole prestazioni tutte le voci di costo, comprensive di spese, oneri e contributi.
L’inottemperanza a tali prescrizioni costituisce illecito disciplinare del professionista.
Con riferimento alla giurisprudenza comunitaria in tema di tariffe professionali degli
avvocati, si veda B. NASCIMBENE, Tariffe degli avvocati e Corte di giustizia: un conflitto risolto?,
in Corr. giur., 2009, p. 1041 ss. In ordine alle raccomandazioni degli Ordini professionali di
applicare tariffe adeguate alle caratteristiche della professione, si segnala l’orientamento
ormai consolidato dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato volto a considerare tali raccomandazioni potenzialmente restrittive della concorrenza. In tal senso si vedano,
fra i tanti, provv. Agcm 19862 del 14 maggio 2009; provv. Agcm 20363 del 7 ottobre 2009;
provv. Agcm 10245 del 20 dicembre 2001.
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Osservatorio/Fonti
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CONTRATTI PUBBLICI
Appalti nei settori della difesa e della sicurezza
Con il d.lgs. 208/2011, è stata data attuazione alla dir. 2009/81/CE relativa al
coordinamento delle procedure per l’aggiudicazione degli appalti di lavori, forniture e
servizi nei settori della difesa e della sicurezza (v. AdC 2009, p. 455).
La dir. 2009/81/CE prevede una disciplina adeguata alle esigenze tipiche degli appalti pubblici nei settori della difesa e della sicurezza. In particolare, essa prevede la
procedura negoziata di aggiudicazione dell’appalto come procedura normale. Inoltre,
essa prevede la possibilità per l’amministrazione pubblica di richiedere ai candidati particolari garanzie di sicurezza, sia nella gestione delle informazioni riservate, sia nell’esecuzione dell’appalto. Sono previste infine regole speciali in materia di ricorsi presso
l’autorità giudiziaria.
La direttiva non esclude completamente la possibilità per gli Stati membri di avvalersi dell’eccezione di cui all’art. 296, Tratt. CE, e quindi di sottrarre l’aggiudicazione
di certi appalti particolarmente sensibili alla disciplina comunitaria. Tuttavia, fornendo
una disciplina maggiormente adeguata alle esigenze peculiari degli appalti nei settori
di cui si discute, essa dovrebbe ridurre significativamente il ricorso da parte degli Stati
membri a questa disposizione eccezionale.
Sulla disciplina in vigore in Italia sino all’attuazione della dir. 2009/81/CE v. R. DE
NICTOLIS, I contratti nel settore della difesa, in Tratt. Sandulli-De Nictolis-Garofoli, IV, Giuffrè, 2008, p. 2928 ss. Sulle iniziative della Commissione europea v. P. TOMASSI, La Commissione tenta di stringere le maglie sugli appalti pubblici nel settore della difesa, in Riv. amm.
app., 2006, p. 353.
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Nullità atti elusivi del patto di stabilità
L’art. 31, c. 30, l. 183/2011 stabilisce che i contratti di servizio e gli altri atti posti in
essere dagli enti locali che si configurano elusivi delle regole del patto di stabilità interno sono nulli.
Sono state confermate le disposizioni, già introdotte dal d.l. 98/2011 relativamente
alle misure antielusive delle regole del patto di stabilità interno, finalizzate ad assicurare il rispetto da parte degli enti locali della disciplina del patto di stabilità.
In particolare, si dispone la nullità dei contratti di servizio e degli altri atti posti in
essere dalle regioni e dagli enti locali che si configurano elusivi delle regole del patto di
stabilità interno e si introducono sanzioni pecuniarie per i responsabili di atti elusivi
delle regole del patto.
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2011
In particolare, il provvedimento assegna alle Sezioni giurisdizionali regionali della
Corte dei Conti – qualora accertino che il rispetto del patto di stabilità interno è stato
artificiosamente conseguito mediante una non corretta imputazione delle entrate o
delle uscite ai pertinenti capitoli di bilancio o altre forme elusive – il compito di irrogare sanzioni pecuniarie.
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Riforma del Codice dei contratti pubblici
L’art. 4, d.l. 70/2011 (c.d. Decreto Sviluppo), convertito con modificazioni in l.
106/2011, ha apportato significative modifiche al c. contr. pubbl. ed al relativo regolamento di attuazione (v. AdC 2010, p. 359) al molteplice fine di: (1) ridurre i costi di
realizzazione delle opere pubbliche; (2) ridurre i tempi di realizzazione delle opere
pubbliche e semplificare le procedure di affidamento dei contratti pubblici; (3) garantire un più efficace sistema di controllo; e infine (4) ridurre il contenzioso.
Al fine di ridurre i costi di realizzazione delle opere pubbliche, il Decreto Sviluppo
ha previsto; (a) un limite alla possibilità di iscrivere “riserve”; (b) l’introduzione di un
tetto di spesa per le “varianti”; (c) l’introduzione di un tetto di spesa per le opere cosiddette “compensative”; (d) il contenimento della spesa per compensazione, in caso
di variazione del prezzo dei singoli materiali di costruzione; (e) la riduzione della spesa per gli accordi bonari.
Al fine di ridurre i tempi di realizzazione delle opere pubbliche e di semplificare le
procedure di affidamento dei contratti pubblici, il Decreto Sviluppo ha previsto: (a)
l’estensione del campo di applicazione della finanza di progetto, anche con riferimento
al cosiddetto “leasing in costruendo”; (b) l’estensione del criterio di autocertificazione
per la dimostrazione dei requisiti richiesti per l’esecuzione dei lavori pubblici; (c) controlli essenzialmente ex post sul possesso dei requisiti di partecipazione alle gare da
parte delle stazioni appaltanti; (d) l’obbligo di scorrimento della graduatoria, in caso di
risoluzione del contratto; (e) la razionalizzazione e semplificazione del procedimento
per la realizzazione di infrastrutture strategiche di preminente interesse nazionale; (f)
l’innalzamento dei limiti di importo per l’affidamento degli appalti di lavori mediante
procedura negoziata; (g) l’innalzamento dei limiti di importo per l’accesso alla procedura semplificata ristretta per gli appalti di lavori.
Al fine di garantire un più efficace sistema di controllo, il Decreto Sviluppo ha previsto: (a) l’istituzione nelle Prefetture di un elenco di fornitori e prestatori di servizi non
soggetti a rischio di inquinamento mafioso; (b) l’individuazione, accertamento e prova
dei requisiti di partecipazione alle gare mediante collegamento telematico alla Banca dati
nazionale dei contratti pubblici.
Infine, al fine di ridurre il contenzioso, il Decreto Sviluppo ha previsto: (a) disposi-
Osservatorio/Fonti
333
zioni rivolte a disincentivare le liti “temerarie”; (b) la tipizzazione delle cause di esclusione dalle gare, cause che possono essere solo quelle previste dal c. contr. pubbl. e dal
relativo regolamento di esecuzione e attuazione, con irrilevanza delle clausole addizionali eventualmente previste dalle stazioni appaltanti nella documentazione di gara.
Peraltro, successivamente, con il d.l. 201/2011 (c.d. Decreto Salva Italia), convertito nella l. 214/2011, sono state apportate alcune correzioni alle modifiche introdotte
con il Decreto Sviluppo (art. 44, d.l. 201/2011). Inoltre, sono state introdotte alcune
ulteriori modifiche al c. contr. pubbl. In particolare, sono state introdotte nuove misure per le opere di interesse strategico e una nuova disciplina della finanza di progetto
per le infrastrutture strategiche (art. 41) e nuove misure in materia di concessioni di
lavori pubblici (art. 42), oltre a disposizioni specifiche per le concessioni autostradali e
per la messa in sicurezza delle grandi dighe presenti sul territorio nazionale (art. 43). Infine, l’art. 44-bis, inserito dalla legge di conversione, ha istituito presso il Ministero delle
infrastrutture e dei trasporti l’anagrafe nazionale delle opere pubbliche incompiute.
Sulla procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando di gara nei contratti di importo inferiore alla soglia comunitaria dopo le modifiche introdotte dal Decreto Sviluppo si vedano anche le indicazioni operative dell’Autorità di Vigilanza sui
Contratti Pubblici (AVCP) nella propria Determinazione n. 8 del 14/12/2011.
Per un primo commento a queste disposizioni v. R. DE NICTOLIS, Le novità dell’estate
2011 in materia di pubblici appalti, in Urb. app., 2011, p. 1012; M. BALDI, Il nuovo modello
di project financing introdotto dal D.L. 70/2011, ivi, 2011, p. 1040; R. DE NICTOLIS, Le novità di fine anno in materia di contratti pubblici, ivi, 2012, p. 139.
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CONTRATTI DELLO SPORT E DELLO SPETTACOLO
Protezione del diritto d’autore
Con l’intento dichiarato di garantire un adeguato livello di protezione ad artisti, interpreti o esecutori che tenga conto e riconosca l’importanza a livello sociale del loro
apporto artistico e creativo, è stata recentemente emanata la dir. 2011/77/UE che modifica la precedente dir. 2006/116/CE sulla durata di protezione del diritto d’autore e
di alcuni diritti connessi.
La nuova direttiva estende i termini per la tutela della proprietà intellettuale di interpreti e produttori musicali da cinquanta a settanta anni, a partire dal momento della
prima legittima pubblicazione dell’esecuzione ovvero della sua comunicazione al pubblico. La direttiva, inoltre, armonizza le modalità di calcolo della durata di protezione del
diritto d’autore nel caso in cui non vi sia corrispondenza fra l’autore del testo ed il com-
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2011
positore della composizione musicale. Finora, infatti, non tutti gli Stati membri dell’Unione Europea hanno applicato il medesimo criterio, prevedendo durate dei diritti differenti a seconda che si trattasse degli autori della musica rispetto agli autori dei testi.
Allo scopo di eliminare tali disparità, che pongono ostacoli alla libera circolazione di
beni e servizi all’interno del territorio europeo rendendo problematica la ripartizione
transfrontaliera delle royalties, la durata della protezione per le composizioni musicali
con testo, nella maggior parte dei casi scritte a più mani, è stata fissata a settanta anni,
decorrenti dalla morte dell’ultima persona sopravvissuta, indipendentemente dalla circostanza che si tratti di autore della musica o dei testi ma a condizione che entrambi i
contributi siano stati specificamente creati per la rispettiva composizione musicale con
testo. La direttiva prevede inoltre ulteriori disposizioni di protezione supplementari,
come quella che mira a sostenere artisti, interpreti o esecutori i quali abbiano trasferito
i diritti esclusivi ai produttori di fonogrammi, prevedendo, attraverso l’inserimento nei
rispettivi contratti della clausola «use it or lose it» (obbligo di utilizzare il diritto pena la
perdita definitiva dello stesso), che essi possano riappropriarsi dei loro diritti e commercializzare essi stessi le loro registrazioni in caso di inerzia delle case discografiche.
Gli Stati membri dovranno recepire le nuove disposizioni entro il 1° novembre 2013.
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CONTRATTI DEL TURISMO
Il codice del turismo
Il d.lgs. 79/2011 si compone di due distinti interventi normativi. Il primo, che contiene la normativa statale sull’ordinamento ed il mercato del turismo, attua la delega
prevista dalla l. 246/2005. Il secondo, in attuazione della delega contenuta nella legge
comunitaria 2009, recepisce la dir. 2008/122/CE sui contratti di multiproprietà, sui
contratti relativi ai prodotti per le vacanze di lungo termine e sui contratti di rivendita
e scambio. L’emanazione del d.lgs. 79/2011, che costituisce, attraverso il suo riordino,
un punto di arrivo importante nell’ambito della materia turistica, ha avuto il chiaro intento di adeguare la disciplina di settore, precedentemente distribuita in una pluralità
disorganica di provvedimenti normativi, all’evoluzione del quadro giuridico nazionale.
Dal punto di vista sistematico il decreto è composto da 4 articoli e 2 allegati. Con
l’art. 1, d.lgs. 79/2011, è stato approvato il “Codice della normativa statale in tema di ordinamento e mercato del turismo”, c.d. Codice del turismo, il cui testo, entrato in vigore
il 21 giugno 2011, si trova inserito nell’Allegato I. Ai nostri fini è opportuno dare conto
della sistematica del Titolo VI di questo nuovo codice di settore, rubricato “Contratti” e
suddiviso in due capi. Il Capo I reca la disciplina dei “Contratti del turismo organizzato”,
ossia l’insieme delle disposizioni attraverso le quali viene data attuazione nell’ordina-
Osservatorio/Fonti
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mento italiano alla dir. 90/314/CEE, concernente i viaggi, le vacanze ed i circuiti tutto
compreso. Segnatamente, gli artt. da 32 a 51 del Codice del turismo disciplinano una
materia, quella dei contratti di vendita di pacchetti turistici, prima collocata all’interno
degli articoli, oggi abrogati, da 82 a 100 del d.lgs. 206/2005, c.d. Codice del consumo. Il
Capo II, rubricato “Locazioni turistiche” e del quale si ritiene opportuno dare conto in
un’apposita scheda dedicata, si esaurisce invece in due disposizioni.
Per quale ragione il Governo abbia scelto di collocare all’interno del Codice del turismo – accanto alle norme di natura pubblicista attinenti all’organizzazione del settore – anche la disciplina privatistica dei contratti aventi ad oggetto i pacchetti turistici,
anziché lasciare tale normativa all’interno del Codice del consumo, a prima vista, non
è affatto chiaro. Tuttavia occorre sottolineare come la dir. 90/314/CEE abbia, sotto il
profilo soggettivo, un ambito di operatività assai più esteso rispetto a quello delle altre
direttive europee di tutela del consumatore in materia contrattuale: mentre infatti
queste ultime trovano applicazione soltanto ai contratti che vengono conclusi con
professionisti da persone fisiche che agiscono per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente esercitata, la dir. 90/314/CEE si applica a qualsiasi contratto avente ad oggetto la fornitura di un servizio turistico “tutto compreso”,
stipulato da un organizzatore ovvero da un venditore, a prescindere dalla circostanza che
la controparte sia una persona fisica o un ente collettivo e, soprattutto, a prescindere dalla circostanza che gli scopi in vista dei quali il contratto viene stipulato siano estranei o
inerenti all’attività imprenditoriale o professionale svolta dal soggetto che lo conclude.
L’introduzione, in questo contesto, della definizione di turista serve a differenziare tale
figura da quella di consumatore, laddove il secondo, soggetto che si serve di pacchetti
turistici disaggregati, a differenza del primo, non può richiedere il risarcimento del danno da vacanza rovinata.
Assai dettagliata risulta poi essere la disciplina dedicata ai c.d. pacchetti turistici, il
cui concetto viene ridefinito, considerando tale l’insieme dei servizi di trasporto, alloggio ed accessori venduti, anche in via telematica, da un unico operatore. Oggetto
della disciplina quei viaggi, vacanze, circuiti tutto compreso, crociere turistiche che siano
venduti od offerti in vendita ad un prezzo forfettario.
In materia contrattuale il Codice del turismo ha voluto rafforzare la tutela del contraente-consumatore attraverso l’inserimento di nuove norme sulla completezza delle
informazioni precontrattuali, sul contenuto minimo del contratto, sulla modifica delle
condizioni contrattuali e sul diritto di recesso. Si prescrive che il contratto di vendita
di pacchetti turistici sia redatto per iscritto ed in termini chiari e precisi. Al turista è
rilasciata copia del contratto stipulato e sottoscritto dall’organizzatore o dal venditore.
Il venditore che si obbliga a procurare a terzi un servizio turistico disaggregato deve
rilasciare al turista i documenti relativi al servizio recanti la sua firma, anche elettronica, con l’indicazione della somma pagata per il servizio. Fra gli elementi essenziali del
contratto di vendita di pacchetti turistici, l’art. 36 del Codice del turismo indica la ca-
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2011
parra, importo comunque non superiore al 25% del prezzo, da versarsi all’atto della
prenotazione. La norma precisa che il suddetto importo è versato a titolo di caparra
ma che gli effetti di cui all’art. 1385 c.c. non si producono qualora il recesso dipenda da
fatto sopraggiunto non imputabile, ovvero sia giustificato dal grave inadempimento di
controparte. L’art. 47, Allegato I, d.lgs. 79/2011, rubricato “Danno da vacanza rovinata”, prevedendo espressamente che il turista possa chiedere, oltre ed indipendentemente dalla risoluzione del contratto, un risarcimento del danno correlato al tempo
inutilmente trascorso ed all’irripetibilità dell’occasione perduta, costituisce la prima
codificazione nel nostro ordinamento di tale fattispecie.
Per una prima panoramica sulla normativa in commento cfr. N. SOLDATI, Brevi note a
margine del Codice del turismo, in Contr., 2011, p. 815; V. CUFFARO, Un codice “consumato”
(codice del consumo, credito ai consumatori e codice del turismo), in Corr. giur., 2011, p. 1189;
A. ROSSI, Tutela del turista: conferme e novità, in Danno resp., 2011, p. 989; A. PAGANO, Novità normative, in Corr. giur., 2011, p. 1047; R.M. ATTANASIO-C. DE PASCALE-S. GATTI-L.
PETRELLA, Semplificazione e deregulation per le imprese alla base della razionalizzazione del
settore, in Guida dir., Dossier, 2011, 6, p. 3 ss.; N. ZORZI GALGANO, Il recesso di protezione
del consumatore nella nuova disciplina del turismo e della multiproprietà, in Contr. impr.,
2011, p. 1193 ss.
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Locazioni turistiche
Nella precedente scheda abbiamo dato atto della sistematica del nuovo Codice del
turismo e di come il Titolo VI, d.lgs. 79/2011, rubricato “Contratti” sia suddiviso in
due capi: il Capo I, recante la disciplina dei “Contratti del turismo organizzato”, ossia
l’insieme delle disposizioni attraverso le quali viene data attuazione nell’ordinamento
italiano alla dir. 90/314/CEE ed il Capo II, rubricato “Locazioni turistiche” che, sostanzialmente, incide sulla disciplina della durata delle locazioni aventi tale finalità.
Il Capo II, Titolo VI, d.lgs. 79/2011, si esaurisce in due disposizioni, la prima delle
quali, l’art. 52, modifica l’art. 27, l. 392/1978, inserendo nel c. 1 – a norma del quale non
può essere inferiore a sei anni la durata dei contratti di locazione aventi ad oggetto immobili urbani adibiti ad attività di interesse turistico – un elenco, tra l’altro meramente
esemplificativo, delle “attività di interesse turistico” ivi contemplate, quali attività industriali, commerciali e artigianali di interesse turistico (agenzie di viaggio e turismo, impianti sportivi e ricettivi, aziende di soggiorno ed altri organismi di promozione turistica).
Qualora invece l’immobile urbano, anche se ammobiliato, sia adibito ad attività alberghiere, all’esercizio di imprese assimilate a quelle alberghiere ai sensi dell’art. 1786
c.c. (ossia, case di cura, stabilimenti di pubblici spettacoli, stabilimenti balneari, pensioni, trattorie, ecc.) o all’esercizio di attività teatrali, l’art. 52, d.lgs. 79/2011, prescrive
Osservatorio/Fonti
337
che la durata del contratto di locazione non possa essere inferiore a nove anni. A norma del successivo art. 53, d.lgs. 79/2011, gli alloggi locati esclusivamente per finalità
turistiche, in qualsiasi luogo ubicati, rimangono regolati dalle disposizioni del codice
civile in tema di locazione.
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CONTRATTO DI RETE
Agevolazioni fiscali per le nuove reti di imprese
Con la decisione n. C(2010)8939 del 26 gennaio 2011 la Commissione europea
ha approvato l’agevolazione fiscale prevista per le nuove reti di imprese che sottoscrivono un contratto accantonando parte degli utili. La misura, sottoposta alla valutazione della Commissione ex art. 108, par. 3, TFUE, trova la sua base giuridica nell’art. 42
l. 30 luglio 2010, n. 122, che converte in legge il d.l. 78/2010.
Ottenuto il “nullaosta” dell’Unione Europea, l’Agenzia delle Entrate ha reso nota
l’efficacia della misura di agevolazione con la Circolare n. 4e del 15 febbraio 2011.
La misura è volta a fornire sostegno finanziario alle imprese che intendano cooperare costituendo una rete formalizzata con un contratto di rete. Ne sono potenziali
beneficiarie tutte le imprese [piccole, ma anche grandi] operative in Italia, senza limiti
con riguardo alle dimensioni aziendali, né al settore o all’ambito di attività, purché coinvolte nell’obiettivo di accrescere la competitività e il livello di innovazione.
L’agevolazione, in concreto, funziona così: una quota degli utili destinata dalle imprese partecipanti alla realizzazione dell’obiettivo del contratto di rete e accantonata ad
apposita riserva resta esclusa dal calcolo del reddito imponibile per la durata del contratto; l’agevolazione fiscale è temporanea poiché le somme accantonate per la partecipazione alla rete saranno incluse nella base imponibile alla fine del contratto. Ogni società
può accantonare per la rete un importo massimo di 1 milione di Euro.
La decisione della Commissione europea C(2010)8939 e la circolare dell’Agenzia delle Entrate sono reperibili sui rispettivi siti web istituzionali. Per approfondimenti sul contratto di rete si rinvia a AdC 2009, pp. 462-463.
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ENERGIA E GAS
Integrità e trasparenza del mercato dell’energia all’ingrosso
Con il dichiarato intento di assicurare che i consumatori ed altri soggetti del mer-
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2011
cato possano nutrire fiducia nell’integrità dei mercati dell’energia elettrica e del gas e
che i prezzi fissati sui mercati dell’energia all’ingrosso riflettano un’interazione equa e
concorrenziale fra domanda ed offerta, il Parlamento europeo ha adottato il reg.
1227/11/UE, concernente l’integrità e la trasparenza del mercato dell’energia all’ingrosso. Al fine di promuovere una concorrenza aperta e leale nei mercati dell’energia
all’ingrosso (segnatamente in quelli dell’elettricità e del gas) e a beneficio dei consumatori, sono dettate una serie di disposizioni volte a prevenire gli abusi di informazione privilegiata (c.d. insider trading) e le manipolazioni del mercato, rinviandosi alla disciplina attuativa degli Stati membri per le sanzioni applicabili in caso di violazione
della disciplina da parte degli operatori di mercato. A livello nazionale, è opportuno
ricordare come, nell’anno 2011, l’Autorità per l’energia elettrica e il gas abbia emanato
diverse deliberazioni aventi contenuto normativo le quali, secondo quanto disposto
nella delibera GPO 46/09 del 30 ottobre 2009, sono state tutte sottoposte a procedura di pubblica consultazione. Tra queste, particolare rilevanza ai fini della presente
pubblicazione, assume la delibera ARG/gas 99/11, approvata il 21 luglio 2011. Attraverso tale delibera, l’Autorità ha predisposto un insieme di misure per promuovere lo
sviluppo della vendita al dettaglio del gas, facendo ordine nella materia, con particolare riferimento alla disciplina della morosità, al completamento dell’assetto dei servizi
di tutela ed alla regolazione sulla responsabilità dei prelievi. Si tratta di un intervento
regolativo di grande impatto, esercitato nell’ambito delle competenze assegnate all’Autorità dalla l. 481/1995 e dal d.lgs. 164/2000, e relative alla disciplina dei servizi di
pubblica utilità della filiera del gas. Ulteriore intervento di particolare rilevanza è la delibera ARG/elt 104/11, emanata in virtù della competenza che deriva implicitamente
all’Autorità per l’energia elettrica e il gas dal d.lgs. 28/2011, relativo alla promozione
dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili e attuativo della dir. 2009/28/CE.
Considerato il sostanziale aumento sul mercato libero delle offerte di energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili, l’Autorità, con la delibera in commento, ha disciplinato le condizioni per promuovere la trasparenza di tali contratti di vendita ai clienti
finali. In sostanza l’Autorità, considerando come offerte di energia elettrica prodotta
da fonti rinnovabili le sole offerte la cui energia venduta come verde è comprovata da
garanzie di origine (certificati che provano la produzione da fonti rinnovabili così come previsti dalla dir. 2009/28/CE), intende garantire una tutela al consumatore facendo in modo che la stessa energia prodotta da fonti rinnovabili non venga inclusa
contemporaneamente in più contratti di vendita. Il provvedimento ha introdotto obblighi contrattuali e tempistiche stringenti per quanto concerne, sia i contratti stipulati
dopo il primo ottobre 2011, sia l’energia elettrica venduta a partire dal primo gennaio
2012. Le società di vendita sono passibili di sanzioni qualora queste previsioni non
vengano rispettate e sia venduta più energia verde di quanta, in realtà, certificata.
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Osservatorio/Fonti
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INVALIDITÀ DEL CONTRATTO
Criminalità organizzata
Il d.lgs. 159/2011 contiene il Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia.
Si tratta di un intervento volto a riordinare e razionalizzare la disciplina vigente in
materia di disposizioni antimafia, in attuazione della delega contenuta nella l. 136/2010
(Piano straordinario antimafia), che aveva previsto la ricognizione della normativa vigente in materia di contrasto alla criminalità organizzata, l’armonizzazione della suddetta
normativa e il coordinamento con le disposizioni in materia di misure di prevenzione.
L’art. 26 stabilisce che il Giudice, accertato che taluni beni sono stati fittiziamente
intestati o trasferiti a terzi, debba dichiarare la nullità dei relativi atti di disposizione
con il decreto che dispone la confisca dei beni. La norma presume fittizi: a) i trasferimenti e le intestazioni, anche a titolo oneroso, effettuati nei due anni antecedenti la
proposta della misura di prevenzione nei confronti dell’ascendente, del discendente,
del coniuge o della persona stabilmente convivente, nonché dei parenti entro il sesto
grado e degli affini entro il quarto grado; b) i trasferimenti e le intestazioni, a titolo gratuito o fiduciario, effettuati nei due anni antecedenti la proposta della misura di prevenzione.
L’art. 91 stabilisce altresì la nullità dei contratti, delle concessioni o delle erogazioni compiute allo scopo di eludere l’applicazione della normativa sui controlli antimafia
(c.d. informazione antimafia).
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Raccolta del gioco mediante apparecchi e terminali da intrattenimento
Il 9 settembre 2011 è stato emanato il Decreto Direttoriale del Ministero dell’Economia e delle Finanze n. 2011/31857/Giochi/ADI relativo all’iscrizione all’elenco nazionale dei soggetti che svolgono le attività in materia di apparecchi da intrattenimento in relazione alle relative attività esercitate.
Per i soggetti che svolgono attività in materia di apparecchi da intrattenimento è
stabilita l’iscrizione al relativo elenco nella sezione di riferimento.
L’art. 9, c. 6, del decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 9 settembre 2011 ha stabilito che è nullo il contratto relativo alle attività funzionali alla raccolta
del gioco mediante apparecchi e terminali da intrattenimento stipulato con soggetti
non inseriti nell’elenco previsto.
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2011
LOCAZIONE
Cedolare secca
L’art. 3 del d.lgs. 23/2011 ha introdotto la c.d. cedolare secca consistente in un regime facoltativo di tassazione a forfait del canone di locazione. Il regime della cedolare
secca è sostitutivo dell’Irpef e delle relative addizionali, nonché dell’imposta di registro
e di bollo sul contratto di locazione.
In sintesi, sul canone di locazione annuo stabilito dalle parti, la cedolare secca si
applica con un’aliquota del 21%, che scende al 19% per i contratti a canone concordato relativi a immobili siti nei Comuni con carenze di disponibilità abitative (individuati ai sensi del d.l. 551/1998, art. 1, lett. a e b) e in quelli ad alta tensione abitativa, individuati dal Comitato interministeriale per la programmazione economica.
La possibilità di optare per il regime facoltativo di imposizione della cedolare secca,
in luogo della tassazione del reddito fondiario secondo il regime ordinario vigente, è riservato alle persone fisiche titolari del diritto di proprietà o di altro diritto reale di godimento che non agiscono nell’esercizio di un’attività di impresa, o di arti e professioni.
La normativa ha introdotto nuove sanzioni che valgono per tutti i contratti, sia che
i medesimi vengano assoggettati ad Irpef o a cedolare secca. In particolare, l’art. 3, c. 8
del d.lgs. 23/2011 stabilisce la nullità dei contratti di locazione nei casi di mancata registrazione del contratto di locazione entro il termine stabilito dalla legge, di registrazione del contratto di locazione con indicazione del canone per un importo inferiore a
quello effettivo e di registrazione di un contratto di comodato simulato.
In questi casi quindi, sempre che si tratti di locazione di immobili residenziali, viene
estesa la sanzione della nullità del contratto, in precedenza stabilita solo per il caso di
mancata registrazione del contratto di locazione, ai sensi dell’art. 1, c. 346, l. 311/2004.
In generale, sul problema dibattuto in dottrina riguardo la nullità del contratto per violazione di norme fiscali si veda V. CUFFARO, Violazione di obblighi tributari e nullità del contratto
(di locazione), in Riv. dir. civ., 2011, II, p. 357; S. ROMANO, La pretesa nullità di negozi elusivi di
norme fiscali, in Contr., 2008, p. 1162; G. FRANCESCHIN, Nullità del contratto per violazione di
norme fiscali?, in Foro pad., 2003, I, 276; G. ESPOSITO, Qualificazione del contratto a fini fiscali e
nullità per violazione di norme tributarie, in Corr. giur., 2002, p. 351; G.B. PORTALE, Il contratto
contrario a «norme di applicazione necessaria» (norme valutarie e norme fiscali), in Riv. crit. dir.
priv., 1985, p. 543. Sulla legittimità costituzionale dell’art. 1, c. 346 della l. 311/2004 si veda
Corte cost., 5 dicembre 2007, n. 420 e Corte cost., 25 novembre 2008, n. 389.
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Locazione di immobili di proprietà dello Stato
L’art. 27, c. 4, d.l. 201/2011 convertito nella l. 214/2011 ha modificato l’art. 2, c.
Osservatorio/Fonti
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222, l. 191/2009 che stabiliva l’accentramento della gestione delle locazioni di tutti gli
immobili statali in capo all’Agenzia del demanio.
Con la modifica in commento, l’Agenzia del demanio non sarà più l’unico soggetto
autorizzato a sottoscrivere i contratti di locazione per la pubblica amministrazione,
non essendo più prevista la nullità per tutti quei contratti sottoscritti direttamente dalle amministrazioni centrali dello Stato.
Infatti dall’entrata in vigore della nuova norma sarà nullo ogni contratto di locazione stipulato dalle amministrazioni centrali dello Stato solo allorché manchi il preventivo nulla osta alla stipula dell’Agenzia del demanio, fatta eccezione per quelli stipulati dalla Presidenza del Consiglio dei ministri e dichiarati indispensabili per la protezione degli interessi della sicurezza dello Stato con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri. Le amministrazioni centrali dello Stato dovranno adempiere i contratti sottoscritti, effettuano il pagamento dei canoni di locazione ed assumeranno ogni
responsabilità e onere per l’uso e la custodia degli immobili assunti in locazione.
Le medesime amministrazioni avranno l’obbligo di comunicare all’Agenzia del
demanio, entro 30 giorni dalla data di stipula, l’avvenuta sottoscrizione del contratto
di locazione e di trasmettere alla stessa Agenzia copia del contratto annotato degli estremi di registrazione presso il competente Ufficio dell’Agenzia delle Entrate.
Per un commento all’art. 2, c. 222, l. 191/2009 si veda AdC 2009, p. 454.
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MODELLI CONTRATTUALI
Progetto “Contratti-tipo” di Unioncamere
La l. 580/1993 ha assegnato alle Camere di Commercio italiane importanti compiti per la realizzazione di un mercato equilibrato e trasparente. In particolare, al fine di
favorire una concorrenza corretta tra le imprese e tutelare i consumatori nell’interesse
generale dell’economia, le lett. h) e i), dell’art. 2, c. 2, della legge sopra indicata attribuiscono alle Camere di Commercio (i) la facoltà di predisporre contratti tipo tra imprese, loro associazioni e associazioni di tutela dei consumatori e degli utenti e (ii) la
promozione di forme di controllo sulla presenza di clausole inique inserite nei contratti.
In attuazione di quanto sopra, con il supporto e la collaborazione dell’Autorità Antitrust, delle associazioni dei consumatori e delle imprese e di alcuni ordini professionali, Unioncamere – l’Unione italiana delle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura – nel mese di marzo 2011, ha lanciato il “Progetto Contratti-tipo”
predisponendo trenta modelli contrattuali inerenti svariati settori, dal turismo al commercio elettronico, dall’edilizia alle locazioni.
342
2011
L’applicazione del contratto tipo, strumento a carattere preventivo volto ad assicurare regole di trasparenza ed equità e ad evitare l’insorgenza di controversie tra imprese e consumatori, è finalizzata, da una parte, a limitare i rischi che si possono incontrare nella sottoscrizione di contratti standard, in genere predisposti unilateralmente dalla sola parte proponente, dall’altra, a rendere le clausole contrattuali, e con esse diritti
ed obblighi delle parti, più chiare e trasparenti.
I trenta contratti tipo attualmente elaborati da Unioncamere rappresentano l’inizio
di un percorso che intende periodicamente aggiornare i modelli al fine di arrivare in
futuro ad una quasi completa copertura di tutti i settori economici.
I contratti sono raccolti in una banca-dati nazionale on-line liberamente consultabile sul portale internet tematico www.contratti-tipo.camcom.it.
Sul tema si veda la recente Raccolta Provinciale degli Usi 2010, pubblicata dalla Camera di Commercio di Milano e per il cui commento si rinvia a AdC 2010, p. 380.
***
OBBLIGAZIONI PECUNIARIE
Interessi legali
L’art. 1 del decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 12 dicembre
2011 ha stabilito che la misura del saggio degli interessi legali di cui all’art. 1284 c.c. e’
fissata al 2,5% in ragione d’anno, con decorrenza dal 1° gennaio 2012.
Il nuovo valore del 2,5% sostituisce il precedente valore dell’1,5% approvato con
d.m. del 7 dicembre 2010 ed in vigore dal 1° gennaio 2011.
**
Nuova direttiva contro i ritardi di pagamento delle transazioni commerciali
Il Parlamento europeo e il Consiglio della UE hanno approvato la dir. 2011/7/UE
relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, che sostituisce la precedente dir. 2000/35/CE. Le disposizioni della nuova direttiva che non
erano già previste dalla precedente dovranno essere recepite dagli Stati membri entro
il 16 marzo 2013. Peraltro, trattandosi di una direttiva che introduce un livello minimo
di armonizzazione, gli Stati membri hanno la facoltà di mantenere o adottare leggi e
regolamenti contenenti disposizioni più favorevoli ai creditori rispetto a quelle stabilite dalla direttiva.
Rispetto alla precedente, la nuova direttiva contro i ritardi di pagamento nelle tran-
Osservatorio/Fonti
343
sazioni commerciali, che si applica anche ai rapporti con le pubbliche amministrazioni,
prevede le seguenti novità. Le amministrazioni pubbliche debitrici devono pagare entro 30 giorni i beni ed i servizi che hanno acquistato dalle imprese. Solo in circostanze
del tutto eccezionali esse possono pagare entro 60 giorni. Invece, le imprese debitrici
devono pagare le fatture entro 60 giorni, a meno che non abbiano espressamente concordato altrimenti e ciò non costituisca una condizione manifestamente iniqua.
Le imprese creditrici hanno il diritto di esigere il pagamento degli interessi di mora e
di ottenere in aggiunta un importo fisso minimo di Euro 40 a titolo d’indennizzo dei costi di recupero del credito. Esse potranno comunque esigere anche il rimborso di tutti i
costi ragionevoli incorsi a tal fine. Inoltre, il tasso di legge applicabile agli interessi di mora viene aumentato e portato ad almeno 8 punti percentuali al disopra di quello di riferimento della Banca centrale europea. Peraltro, non è consentito alle amministrazione
pubbliche fissare tassi inferiori per gli interessi di mora.
La nuova direttiva prevede anche alcune novità in merito all’attuazione dei diritti
delle imprese creditrici. Diventa più facile per le imprese contestare in tribunale termini e pratiche manifestamente inique. Inoltre, al fine di garantire una maggiore trasparenza, gli Stati membri sono tenuti a pubblicare i tassi applicabili agli interessi di
mora e sono incoraggiati a redigere codici di pagamento rapido.
Per alcuni primi commenti v. I. AMBROSI, Dir. 2011/7/Ue del parlamento europeo e del
consiglio, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali del 16
febbraio 2011, in Famiglia, persone e successioni, 2011, p. 477; A. CANAVESIO, La nuova direttiva 2011/7 in tema di lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali:
prospettive di recepimento, in Contr. impr./Eur., 2011, p. 447.
**
Riduzione del limite per la tracciabilità dei pagamenti
L’art. 12 del d.l. 201/2011 (c.d. Decreto Salva Italia) convertito con modificazioni
in l. 214/2011, al fine di favorire la tracciabilità dei pagamenti, ha ridotto l’uso legale
del contante e dei titoli al portatore a Euro 1.000. Questa disposizione vale per tutti i
tipi di pagamenti ivi compresi i pagamenti effettuati dalla p.a. La riduzione è stata attuate mediante modifiche apportate all’art. 49, d.l. 231/2007.
**
Semplificazione dei pagamenti dei debiti della p.a.
Al fine di semplificare la soddisfazione dei crediti delle imprese nei confronti di
Regioni o di altri enti locali, mediante la cessione pro soluto del relativo credito a favore
344
2011
di banche o altri intermediari finanziari, l’art. 13, l. 183/2011, (Legge di stabilità 2012),
modificando l’art. 9, c. 3-bis, d.l. 185/2008, convertito con modificazioni nella l.
2/2009, ha previsto la possibilità per l’impresa creditrice di ottenere, mediante un’apposita istanza, la certificazione da parte delle Regioni e degli altri enti locali, che il relativo credito è certo, liquido ed esigibile. La nuova disposizione precisa che la certificazione deve avvenire, nel rispetto delle disposizioni normative vigenti in materia di patto di stabilità interno, entro sessanta giorni dalla data di ricezione dell’istanza. Inoltre,
essa prevede che la certificazione non possa essere rilasciata, a pena di nullità, da enti
locali commissariati o dalle Regioni sottoposte ai piani di rientro da deficit sanitari
(art. 3-ter).
***
SERVIZI DI PAGAMENTO
Accesso a un conto di pagamento
La Commissione UE ha adottato una Raccomandazione del 18 luglio 2011 sull’accesso a un conto di pagamento. Scopo della raccomandazione è di garantire ai consumatori l’accesso ai servizi di pagamento all’interno dell’UE, quale presupposto essenziale al fine di permettere loro di beneficiare appieno del mercato unico e assicurare il
corretto funzionamento di quest’ultimo. La Commissione ha constatato che allo stato
attuale la disponibilità dei servizi di pagamento essenziali non è né assicurata dai prestatori di servizi di pagamento, né garantita da tutti gli Stati membri della UE.
La Raccomandazione contiene disposizione in merito al diritto di ciascun consumatore di aprire e disporre di un conto di pagamento di base (Sezione II), in merito
alle caratteristiche essenziali di un conto di pagamento di base (Sezione III), in merito
alle spese applicate a un conto di pagamento di base (Sezione IV), in merito alle informazioni obbligatorie relative ai servizi di pagamento di base (Sezione V), in merito
alla vigilanza e ai meccanismi di risoluzione extragiudiziale delle controversie (Sezione
VI), in merito alle informazioni statistiche che devono essere fornite dai prestatori di
servizi di pagamento.
La Raccomandazione è rivolta agli Stati membri, i quali sono invitati ad adottare le
misure necessarie per assicurare la sua applicazione e a notificare alla Commissione le
misure adottate al più tardi entro sei mesi dalla sua pubblicazione.
Sui servizi di pagamento, oltre a AdC 2010, p. 371 e AdC 2009, p. 471, v. M. LIBERTINI,
Brevi note su concorrenza e servizi di pagamento, in Banca borsa tit. cred., 2011, I, p. 181; M.
MANCINI et al. (a cura di), La nuova disciplina dei servizi di pagamento, Giappichelli, 2011;
F. MERUSI, Fra omissioni ed eccessi: la recezione della direttiva comunitaria sui servizi di pagamento, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2010, p. 1171; G. GIMIGLIANO-A. PIRONTI,
Osservatorio/Fonti
345
L’attuazione della dir. 2007/64/Ce, relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno: prime osservazioni sul d.leg. 27 gennaio 2010 n. 11, in Contr. impr./Eur., 2010, p. 700.
***
SERVIZI PUBBLICI
Riforma dei servizi pubblici locali
Nelle pieghe del d.l. 138/2011, convertito nella l. 148/2011, sono state inserite alcune disposizioni relative alla forma di gestione dei servizi pubblici locali che, in buona
parte, eludono gli esiti del referendum del 12 e 13 giugno 2011 che ha determinato
l’abrogazione dell’art. 23-bis del d.l. 112/2008 e del successivo regolamento attuativo.
All’art. 4 del d.l. 138/2011 viene infatti inserita una nuova regolamentazione che, per
gli aspetti fondamentali, riproduce quella abrogata, in particolare per quanto riguarda
il divieto di ricorrere ad affidamenti in house, salvo che per i servizi idrici e per le fattispecie in cui il valore economico dei servizi da affidare non superi i 900.000,00 Euro.
Le disposizioni dell’art. 4, come in passato, prescrivono all’ente affidatario l’obbligo di procedere, in via preliminare e con cadenza periodica, alla verifica della realizzabilità di una gestione concorrenziale dei servizi pubblici locali, limitando l’attribuzione
di diritti di esclusiva – laddove non previsti per legge – ai soli casi in cui l’iniziativa economica privata, in base ad una analisi di mercato, non risulti idonea, secondo criteri di
proporzionalità, sussidiarietà orizzontale ed efficienza, a garantire un servizio rispondente ai bisogni della comunità. Ove dunque non sussista l’opportunità di conservare
un regime di esclusiva, gli enti locali sono tenuti a liberalizzare le attività economiche,
compatibilmente con le caratteristiche di universalità e accessibilità dei servizi. A tal
fine è prevista l’adozione da parte dell’Ente locale, periodicamente e comunque prima
dell’affidamento del servizio, di una “delibera quadro”, da pubblicizzare e trasmettere
alla Autorità Antitrust, che evidenzi l’istruttoria compiuta nonché, per i settori sottratti
alla liberalizzazione, le ragioni della decisione ed i benefici derivanti dal mantenimento
di un regime di esclusiva del servizio. Quanto alle modalità di affidamento dei servizi
in questione, le norme riproducono, sebbene con minore rigore sistematico, l’impianto proprio dell’art. 23-bis del d.l. 112/2008, prevedendo in via ordinaria che il conferimento avvenga tramite procedura ad evidenza pubblica in favore di imprenditori o di
società in qualunque forma costituiti, nel rispetto dei principi del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea e dei principi generali relativi ai contratti pubblici.
Nulla viene espressamente previsto in merito all’affidamento del servizio alle c.d.
società miste.
Tuttavia, l’art. 4, c. 32, dedicato alla disciplina del periodo transitorio degli affidamenti non conformi alle nuove regole, fra i quali vengono incluse le gestioni affidate
346
2011
direttamente a società miste, prevede la cessazione anticipata dell’affidamento unicamente laddove non siano stati attribuiti al socio privato gli specifici compiti operativi
commessi alla gestione del servizio.
Dal quadro normativo sono stati espressamente esclusi i servizi idrici, per i quali le
abrogazioni referendarie mantengono dunque piena efficacia.
Il testo del decreto prevede infine un meccanismo premiale sul piano finanziario, ai
fini del patto di stabilità, per quegli enti che procedono alle liberalizzazioni dei servizi
pubblici; l’art. 3, cc. 1-4, d.l. 138/2011, dispone infatti che l’adeguamento degli enti
territoriali al principio secondo cui l’iniziativa e l’attività economica privata sono libere, imposto all’art. 4, c. 1, costituisce, ai sensi dell’art. 20, c. 3, d.l. 98/2011, elemento di
valutazione della virtuosità dei predetti enti ai fini dell’adeguamento agli obbiettivi di
finanza pubblica.
Recentemente l’Autorità Antitrust ha sottolineato l’opportunità di accompagnare
il processo di riforma del settore dei servizi pubblici locali con misure di garanzia dell’efficienza e della qualità della gestione, indipendentemente dalla natura pubblica o
privata del gestore.
Per un commento critico all’introduzione delle disposizioni in commento del d.l. 138/
2011, cfr. A. MURATORI, L’estate delle beffe: la tentata abrogazione del Sistri e l’“elusione” delle scelte referendarie sui servizi pubblici locali, in Amb. svil., 2011, p. 805. In tema di disciplina
applicabile al settore dei servizi pubblici locali cfr. I. RIZZO, La disciplina dei servizi pubblici
locali dopo il referendum, in Urb. app., 2011, p. 899; L. PERFETTI, La disciplina dei servizi pubblici locali ad esito del referendum ed il piacere dell’autonomia locale, in Urb. app., 2011, p. 906.
Per una analitica panoramica sulla giurisprudenza nazionale e comunitaria in tema di
affidamento del servizio nella forma c.d. in house providing, si veda F. LEGGIADRO, Gli affidamenti in house alle società pubbliche pluripartecipate, in Urb. app., 2011, p. 957; S. SPUNTARELLI, L’affidamento dei servizi pubblici locali di rilevanza economica al vaglio della Corte e
il caso del servizio idrico integrato, in Giur. it., 2011, p. 1768; C. VOLPE, La Corte CE continua la rifinitura dell’in house. Ma il diritto interno va in controtendenza, in Urb. app., 2010,
p. 43; C. VOLPE, In house providing, Corte di Giustizia, Consiglio di Stato e legislazione nazionale. Un caso di convergenze parallele?, in Urb. app., 2008, p. 1401.
Con riferimento al precedente assetto normativo della gestione dei servizi pubblici, si
rinvia a AdC 2010, p. 373; AdC 2009, p. 478 ed ai numerosi contributi dottrinali richiamati
in quella sede.
***
TRASPORTO
Liberalizzazione trasporti
L’art. 37 del d.l. 201/2011 convertito nella l. 214/2011 ha stabilito che il Governo
Osservatorio/Fonti
347
con uno o più regolamenti da adottare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore
della legge di conversione del decreto, sentite le Commissioni parlamentari, emanerà
le disposizioni volte a realizzare una compiuta liberalizzazione e una efficiente regolazione nel settore dei trasporti e dell’accesso alle relative infrastrutture. Si dovrà innanzitutto individuare l’Autorità indipendente che svolga competenze assimilabili a quelle
previste dalla norma in commento e attribuire all’Autorità prescelta le seguenti funzioni: 1) garantire condizioni di accesso eque e non discriminatorie alle infrastrutture
e alle reti ferroviarie, aeroportuali e portuali e alla mobilità urbana collegata a stazioni,
aeroporti e porti; 2) definire, se ritenuto necessario in relazione alle condizioni di concorrenza effettivamente esistenti nei singoli mercati, i criteri per la fissazione da parte
dei soggetti competenti delle tariffe, dei canoni e dei pedaggi, tenendo conto dell’esigenza di assicurare l’orientamento ai costi e l’equilibrio economico delle imprese regolate, alla luce degli oneri di servizio pubblico imposti e delle eventuali sovvenzioni
pubbliche concesse; 3) stabilire le condizioni minime di qualità dei servizi di trasporto
connotati da oneri di servizio pubblico o sovvenzionati; 4) definire gli schemi dei bandi delle gare per l’assegnazione dei servizi di trasporto in esclusiva e delle convenzioni
da inserire nei capitolati delle medesime gare.
L’Autorità individuata renderà pubblici nei modi più opportuni i provvedimenti di
regolazione e riferirà annualmente alle Camere evidenziando lo stato della disciplina
di liberalizzazione adottata e la parte ancora da definire.
**
Trasporto con autobus
Nel settore del trasporto con autobus, al fine di garantire un livello elevato di protezione dei passeggeri, comparabile a quello offerto da altri modi di trasporto, l’Unione
Europea ha adottato il reg. 2011/181/CE. Sul presupposto che il passeggero che viaggia con autobus sia la parte più debole del contratto di trasporto, la normativa in esame ha l’esplicito intento di garantirgli un livello minimo di protezione. Su di una tale
premessa, il regolamento individua regole che disciplinano il trasporto con autobus
per quanto riguarda (a) la non discriminazione fra i passeggeri riguardo alle condizioni
di trasporto offerte dai vettori; (b) i diritti dei passeggeri in caso di incidenti derivanti
dall’utilizzo di autobus che provochino il decesso o lesioni dei passeggeri, o la perdita
o il danneggiamento dei bagagli; (c) la non discriminazione e l’assistenza obbligatoria
nei confronti delle persone con disabilità o a modalità ridotta; (d) i diritti dei passeggeri in caso di cancellazione o ritardo del viaggio; (e) le informazioni minime da fornire ai passeggeri; (f) il trattamento dei reclami; (g) le regole generali per garantire l’applicazione del regolamento.
Fatto salvo alcuni principi ritenuti fondamentali, applicabili ad ogni tipo di traspor-
12.
348
2011
to con autobus, le disposizioni del nuovo regolamento si applicano a tutti i servizi regolari, nazionali o transfrontalieri, che coprano distanze eguali o superiori ai 250 km.
In caso di cancellazione del viaggio, ritardo superiore ai 120 minuti o vendita di più
biglietti rispetto ai posti disponibili (overbooking), ai passeggeri deve essere immediatamente fornita la possibilità di scegliere tra proseguire il viaggio, partire con un altro
mezzo senza pagare un supplemento o essere rimborsati integralmente del costo del
biglietto. Nel caso in cui nessuna opzione alternativa per il completamento del viaggio
sia offerta, il vettore ha l’obbligo, non solo di rimborsare l’integralità del biglietto, ma
anche di prevedere un ulteriore risarcimento pari al 50% del prezzo del titolo di viaggio. Nel caso in cui il viaggio cancellato prevedesse una durata di oltre tre ore o nel caso in cui la partenza del suddetto viaggio sia ritardata di almeno 90 minuti, il vettore
avrà l’obbligo di fornire assistenza sottoforma di pasti e alloggio, limitatamente ad un
massimo di due notti. Quest’obbligo viene meno nel caso in cui l’evento sia dovuto a
cattive condizioni meteorologiche o catastrofi naturali. Malgrado ciò, non viene mai
meno l’obbligo per il vettore di fornire ai passeggeri tutte le informazioni necessarie in
caso di cancellazioni o ritardi.
Con riferimento all’obbligo informativo, sia precedentemente che durante l’esecuzione del contratto, i vettori e gli enti di gestione delle stazioni, nell’ambito delle rispettive competenze, provvedono affinché, al più tardi alla partenza, i passeggeri dispongano di informazioni appropriate e comprensibili sui diritti ad essi conferiti.
Per una primo approfondimento sul reg. 2011/181/CE si veda M. MAZZEO, Anche chi
viaggia in autobus ha i suoi diritti, in Resp. civ., 2011, p. 394.
***
USI CONTRATTUALI
Contratti standard-leasing
Nel febbraio 2011 l’Associazione Italiana Leasing (Assilea) ed il Consiglio Notarile
di Milano hanno aggiornato le clausole standard per gli atti notarili di compravendita
per quanto riguarda (a) l’acquisto di immobili strumentali da concedere in leasing; (b)
la vendita di immobili strumentali già oggetto di leasing (riscatto); (c) l’acquisto di immobili strumentali oggetto di Lease back; (d) l’acquisto di terreni su cui edificare immobili strumentali da concedere in leasing; (e) la costituzione di un diritto di superficie su lastrico solare di proprietà dell’utilizzatore, sul quale verrà costruito un impianto
fotovoltaico; (f) la costituzione di un diritto di superficie su porzione di terreno di
proprietà dell’utilizzatore, sul quale verrà costruito un impianto fotovoltaico.
L’obiettivo dichiarato dell’iniziativa è, da un lato snellire e velocizzare l’attività di
Osservatorio/Fonti
349
predisposizione da parte dei notai degli atti di compravendita per il perfezionamento
delle operazioni di leasing immobiliare, dall’altro quello di rendere il mercato più competitivo e trasparente.
Le numerose disposizioni emanate nel corso dell’ultimo triennio dal legislatore,
hanno indotto Assilea ed il Consiglio Notarile di Milano a intensificare una collaborazione, già avviata nel 2005, il cui risultato è la condivisione di clausole standard adottabili nei diversi atti notarili di compravendita utilizzati in relazione a operazioni di leasing immobiliare. Nell’ambito dei lavori condotti dal tavolo di lavoro congiunto, Assilea e il Consiglio Notarile di Milano, anche alla luce delle novità apportate dalla l.
220/2010, hanno inoltre presentato un prospetto riepilogativo della fiscalità (IVA, registro, ipocatastali) del leasing immobiliare, utile guida di orientamento per coloro che
stipulano contratti di leasing.
***
VENDITA
Proposta di regolamento sul diritto comune europeo della vendita
La Commissione ha pubblicato una proposta di regolamento sul diritto comune europeo della vendita COM(2011) 635 final. La proposta di regolamento consiste in
uno strumento opzionale che disciplina l’intero “ciclo vitale” della vendita, prevedendo
tra l’altro disposizioni sulla formazione, l’interpretazione e gli effetti del contratto, sulle
condizioni generali di contratto e le clausole abusive, sui vizi del consenso, sui rimedi in
caso di inadempimento del contratto (risoluzione, riduzione del prezzo, risarcimento
del danno, restituzioni), sulle garanzie e i termini di prescrizione e decadenza.
La disciplina prevista dal regolamento, se e quando entrerà in vigore, sarà applicabile sia ai contratti tra imprese e consumatori che ai contratti tra imprese, alla condizione che le parti del contratto abbiano scelto di comune accordo tra loro di rendere
applicabile questa disciplina. In mancanza di scelta, il diritto nazionale applicabile sarà
individuato sulla base delle regole del regolamento Roma I. La disciplina prevista al
regolamento sarà applicabile solamente ai contratti transfrontalieri, ovvero ai contratti
conclusi tra soggetti che hanno la propria sede o residenza abituale in Stati membri
diversi. Inoltre, essa sarà applicabile ai rapporti tra imprese solamente quando almeno
una di esse sia un Piccola o Media Impresa (PMI). Peraltro, il regolamento lascia aperta
ai singoli Stati membri l’opzione di rendere la relativa disciplina applicabile anche ai contratti meramente interni e ai contratti tra imprese dove nessuna di esse sia una PMI.
Scopo della proposta di regolamento è quello di creare una piattaforma contrattuale comune a tutti gli Stati membri della UE che possa essere utilizzata al fine di promuovere gli scambi transfrontalieri. L’idea alla base di questa proposta è che nel con-
350
2011
testo attuale le imprese siano scoraggiate dal vendere i propri prodotti nei territori degli altri Stati membri a causa delle diversità che caratterizzano i diversi diritti contrattuali nazionali. A titolo esemplificativo, un’impresa italiana interessata a vendere i propri prodotti on line su tutto il territorio della UE ha l’onere di predisporre condizioni
generali di contratto specifiche per ogni Stato membro nel territorio del quale intende
vendere i propri prodotti. Infatti, nel caso in cui i prodotti siano destinati a un pubblico di consumatori, questi non possono essere privati del diritto di avvalersi delle disposizioni nazionali poste a tutela dei loro interessi. Con l’entrata in vigore del regolamento, questa ipotetica impresa italiana potrà predisporre condizioni generali di
contratto comuni per tutti i consumatori europei, indipendentemente dalla Stato di
residenza, chiedendo ai consumatori interessati ad acquistare di optare a favore della
disciplina prevista dal diritto comune europeo della vendita. A giudizio della Commissione, questa opportunità sarebbe particolarmente utile per le PMI, le quali sono meno disposte a sostenere i costi necessari a predisporre politiche commerciali distinte
per i diversi Stati membri nel territorio dei quali esse intendono operare.
La disciplina prevista dal regolamento è in parte basata sugli studi comparatistici
realizzati nell’ambito del Draft Common Frame of Reference (DCFR) (v. AdC 2009, p.
3). Inoltre, essa è ispirata ad un elevato livello di protezione del consumatore. Infine,
essa contiene molte disposizioni concepite su misura delle PMI sul presupposto che
queste siano avverse al rischio e che, quindi, tra diverse possibili regole, prediligano
quella maggiormente protettiva della parte “debole”. A titolo esemplificativo, la proposta di regolamento prevede che il debitore la cui prestazione sia divenuta eccessivamente onerosa per cause imprevedibili al momento della conclusione del contratto
possa, non solo chiedere la risoluzione del contratto, ma addirittura chiedere direttamente la riconduzione ad equità del contratto.
La proposta di regolamento sul diritto comune europeo della vendita è stata preceduta da una consultazione pubblica cui hanno partecipato oltre 300 soggetti interessati (tra gli altri, associazioni di imprese, associazioni forensi, organi giudiziari, enti
pubblici). Nell’ambito di questa consultazione sono emersi diversi argomenti contrari
all’adozione di questa proposta, che comunque sembra godere di un appoggio molto
esteso. Tra gli argomenti contrari, particolarmente insidioso è l’argomento secondo il
quale la UE non avrebbe la competenza ad adottare uno strumento che non determina
un ravvicinamento tra legislazioni, ma si limita a introdurre un nuovo diritto contrattuale opzionale in aggiunta ai diritti contrattuali nazionali già esistenti.
Sullo strumento opzionale v. A. ROCCO, L’istituzione di uno strumento opzionale di diritto contrattuale europeo, in Contr. impr./Eur., 2011, 799 ss.; W. DORALT, Diritto europeo dei
contratti: rischi e opportunità del regime opzionale, in Resp. civ. prev., 2011, p. 1205; E. HONDIUS, Towards an Optional Common European Sales Law, in European Review of Private
Law, 2011, p. 709; J. CARTWRIGHT, Choice is good. Really?, in European Review of Contract
Law, 2011, p. 335; S. WHITTAKER, The Optional Instrument of European Contract Law and
Osservatorio/Fonti
351
Freedom of Contract, in European Review of Contract Law, 2011, p. 371. Più in generale sul
diritto europeo dei contratti v. E. BATTELLI, Il nuovo Diritto europeo dei contratti nell’ambito della Strategia “Europa 2020”, in Contr., 2011, p. 1064 ss.; G.B. FERRI, Riflessioni sul diritto privato europeo, in Eur. dir. priv., 2011, p. 1 ss.; S. MAZZAMUTO, Il contratto europeo nel
tempo della crisi, in Eur. dir. priv., 2010, p. 601 ss.; M. MELI, Armonizzazione del diritto europeo e quadro comune di riferimento, in Eur. dir. priv., 2008, p. 59 ss.; U. BRECCIA, Principles, definitions e model rules nel “comune quadro di riferimento europeo” (Draft Common
Frame of Reference), in Contr., 2010, p. 95.
OSSERVATORIO/PRASSI
I formulari impiegati dalle agenzie immobiliari e il procedimento di formazione
del preliminare di vendita di immobile*
I. È sempre più diffuso l’impiego di formulari da parte delle agenzie immobiliari
nei loro rapporti con la clientela.
Nel contenuto dei formulari utilizzati dalle varie agenzie o ‘reti’ di agenzie, pur nella loro varietà, ricorre spesso una nota comune, costituita dall’intervento del mediatore
nel procedimento di formazione del contratto preliminare di vendita dell’immobile.
Anziché limitarsi a mettere tra loro in relazione le parti, confidando che il contratto
sia concluso, e sorga a suo favore il diritto alla provvigione, il mediatore si interpone
dunque tra le parti, incaricandosi di raccogliere le proposte di acquisto, e di comunicare al proponente l’accettazione della proposta prescelta dal venditore.
Sono evidenti i vantaggi che il mediatore cerca così di conseguire. Anzitutto, il conferimento dell’incarico per iscritto consente di documentarne le precise condizioni.
In secondo luogo, e soprattutto, la circostanza che sia il mediatore a raccogliere le
proposte di acquisto (scritte) lo pone al riparo dal rischio che le parti si accordino tra
loro per negare che la conclusione della vendita sia stata effetto del suo intervento, al
fine di evitare il pagamento della provvigione.
Un ulteriore intento è quello di impedire che sia posto in discussione il diritto del
mediatore alla provvigione nell’eventualità in cui il contratto preliminare di vendita
non abbia poi esecuzione a causa del sopravvenire di ripensamenti, o del mancato accordo tra le parti relativamente alle condizioni del contratto definitivo di vendita.
In definitiva, i formulari impiegati dalle agenzie immobiliari tendono, in maggiore
o minore misura, a disciplinare il rapporto del mediatore con le parti in modo che il
diritto alla provvigione sorga per effetto e all’atto stesso del raggiungimento di un’intesa tra le parti relativamente alle condizioni essenziali della futura compravendita (oggetto e prezzo), restando ininfluenti tutte le vicende che possano successivamente occorrere.
Questo è reso possibile, o quanto meno agevolato, dalla circostanza che rimangano
ininterrottamente soggette al controllo del mediatore la formazione e la comunicazione
delle dichiarazioni negoziali da parte di ciascuno dei contraenti, sinché non siano appunto realizzate le condizioni alle quali è subordinato il sorgere del diritto del mediatore alla
provvigione.
A questo fine, i formulari di regola indicano che il diritto alla provvigione sorge per
effetto della conclusione tra le parti di un contratto preliminare di vendita, e tale quali* di Massimo Cataldo, avvocato in Genova.
Osservatorio/Prassi
353
ficano l’insieme della proposta, che il mediatore abbia raccolto da persona interessata
all’acquisto, e dell’accettazione, che il proprietario abbia consegnato al mediatore, incaricandosi questi di comunicarla al proponente.
Sovente, l’indicazione e i termini dell’incarico al mediatore sono addirittura inclusi
nello stesso formulario con il quale sono raccolte, rispettivamente, la proposta di acquisto e l’accettazione della proposta da parte del proprietario; in questo modo, nessuna
delle due parti può pretendere l’adempimento dell’intesa, se non esibendo una dichiarazione negoziale dell’altra parte nella quale è inclusa l’attestazione del conferimento
dell’incarico al mediatore e l’impegno a versargli la provvigione, che risulta così più efficacemente tutelato.
Questo sviluppo della prassi nel settore della intermediazione nella vendita di beni
immobili pone, se non sia accompagnato o temperato da opportune cautele, un gran numero di questioni: ne sono qui nel seguito accennate alcune, particolarmente delicate
e incerte.
II. Nella mediazione c.d. tipica, realizzata in conformità della figura delineata nella
disciplina del codice civile, il mediatore si limita a porre tra loro in contatto le parti.
Il consenso sulle condizioni della vendita si forma in virtù di una proposta e di
un’accettazione che le parti si comunicano vicendevolmente, senza l’intervento di terzi; non vi è alcuna modificazione rispetto all’usuale procedimento di formazione del
contratto, si tratti di accordo concluso tra persone presenti, ovvero mediante la comunicazione di proposta e accettazione tra persone lontane, richiedendosi allora che l’accettazione giunga a conoscenza del proponente.
L’intervento del mediatore, incaricato dal proprietario dell’immobile di raccogliere
proposte di acquisto, e di comunicare l’accettazione della proposta prescelta, determina almeno una rilevante variazione allo schema comune: la comunicazione di proposta
e accettazione avviene suo tramite, non direttamente tra le parti.
Si osservi che è usuale che le proposte raccolte dal mediatore siano dichiarate irrevocabili per un termine determinato, così da evitare il rischio che la proposta sia revocata nel tempo occorrente al mediatore per raccogliere e comunicare l’accettazione
della proposta da parte del proprietario dell’immobile.
Tuttavia, seppure l’indicazione della irrevocabilità della proposta suggerisca la qualificazione dell’interposizione del mediatore in un ruolo di semplice nuncius della dichiarazione negoziale (il contenuto della quale si presenta come immodificabile, come
insuscettibile di negoziato), nondimeno una ‘ingerenza’ del mediatore nella trattativa
tra le parti tende nei fatti a realizzarsi (avuto riguardo anche ai doveri che sul mediatore gravano nel rapporto con le parti relativamente alla informazione sulle circostanze
che possono avere influenza sulla conclusione dell’affare: art. 1759 c.c.), generando
così delicati problemi.
Infatti, se si assume che il mediatore non sia semplicemente tenuto a comunicare
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all’altra parte la proposta o l’accettazione, bensì debba verificare se ricorrano le condizioni per far luogo alla consegna della dichiarazione negoziale, all’occorrenza adottare
cautele, o esigere il rispetto di particolari adempimenti, il ruolo del mediatore può finire per esorbitare dai confini di quello proprio di un semplice nuncius: e diverrebbe problematica e incerta, allora, l’imputazione alle parti della comunicazione, rispettivamente, della proposta e dell’accettazione, apparendo che alla volontà della parti, diretta a formare e definire il contenuto della dichiarazione negoziale, si sia sovrapposto un determinante intervento della volontà del mediatore relativamente alla comunicazione all’altra parte della dichiarazione negoziale.
Non potendosi dubitare che l’effettività del consenso esiga non solo la volontà di
formare la propria dichiarazione negoziale ma anche quella di trasmetterla, si porrebbero delicati interrogativi sul valido perfezionamento di un vincolo obbligatorio tra le
parti ove il mediatore – come è di regola – non fosse stato investito del potere di sostituirsi alla parte nel negoziare e concludere l’accordo.
Seppure volesse ricondursi la fattispecie della c.d. mediazione atipica, caratterizzata
dal conferimento di un incarico al mediatore ad opera di una delle parti, al tipo contrattuale del mandato (secondo quanto come indica la recente Cass., 14 luglio 2009, n.
16382, in AdC 2009, p. 244, e sembra confermare anche Cass., 3 novembre 2010, n.
22357, in AdC 2010, p. 143) non per questo ne deriverebbe, infatti, che debba riconoscersi al mediatore un potere di rappresentanza, tanto meno se il ‘mandato’ conferitogli abbia cura di precisare che egli è incaricato, semplicemente, di raccogliere le proposte e di comunicare l’accettazione.
D’altronde, non si tratta solo di verificare se la volontà, rispettivamente, di comunicare o non comunicare la dichiarazione negoziale sia effettivamente riconducibile alla volontà della parte che l’abbia sottoscritta, ovvero all’iniziativa del mediatore (nel
quale caso si porrebbe forse solo il problema delle conseguenze della eventuale trasgressione da parte del nuncius delle istruzioni ricevute). Lo stesso contenuto del rapporto potrebbe risultare alterato per effetto dell’interposizione del mediatore. Potrebbe accadere, ad esempio, che il mediatore comunicasse al proprietario di avere raccolto una proposta di adeguato valore, e comunicasse al proponente l’accettazione senza riserve della proposta, determinando così la conclusione del contratto tra le parti, ma trascurasse di farsi versare la caparra confirmatoria menzionata nella proposta e nell’accettazione, o tardasse nel riversarla al proprietario dell’immobile. Ricorrendo questa
eventualità, rimarrebbe fermo il diritto del venditore ad acquisire la caparra confirmatoria (in virtù di quanto al riguardo stabilito nell’accordo), ma la decisione di comunicare l’accettazione prima di avere conseguito la consegna della caparra confirmatoria (con
il rischio che non si riesca poi a conseguirla, perché l’altra parte, o il mediatore che l’abbia
ricevuta in consegna, risultino insolventi) non sarebbe riferibile alla volontà dell’accettante (bensì all’intervento del mediatore nel procedimento di formazione del contratto).
Per la ragioni indicate, sarebbe raccomandabile che i formulari delle agenzie im-
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mobiliari fossero modificati o integrati, precisandosi se al mediatore siano attribuiti
oppure no poteri di negoziazione del contenuto del contratto, e se e quali poteri spettino al mediatore relativamente alla stessa comunicazione, rispettivamente, della proposta o dell’accettazione.
In difetto del conferimento di poteri di rappresentanza, sarebbe forse opportuno
stabilire che lo scambio delle dichiarazioni negoziali contenenti la proposta e l’accettazione possa avere luogo a iniziativa del mediatore solo in caso di comprovato impedimento delle parti a provvedervi nel corso di un incontro tra loro a questo fine organizzato, o di espressa autorizzazione delle parti successiva alla verifica da parte loro del
preciso tenore e della sottoscrizione della dichiarazione negoziale dell’altra parte, e
della loro conformità alle condizioni indicate nell’incarico al mediatore.
III. Altra questione di notevole rilievo determinata dal diffuso impiego dei formulari nella compravendita di immobili in virtù dell’intermediazione di agenzie immobiliari è costituita dalla ‘sopraffazione’ della libertà negoziale dei contraenti che questo
fenomeno tende a favorire.
L’intento del mediatore di conseguire al più presto certezza riguardo al pagamento
di una provvigione a proprio favore lo induce, come si è sopra accennato, a disciplinare il procedimento di formazione del consenso sulla futura vendita in modo che la conclusione del contratto consegua al mero raggiungimento di un’intesa tra le parti relativamente al prezzo dell’immobile.
I formulari potrebbero stabilire, in effetti, che il diritto del mediatore alla provvigione sorga meramente in conseguenza del reperimento, da parte del mediatore, di
un’offerta di acquisto a prezzo corrispondente a quello della richiesta del proprietario
dell’immobile che l’abbia incaricato.
Non avviene però così, di regola. Anzitutto, perché il mediatore – e spesso identico
atteggiamento ha lo stesso proprietario – non intende precludersi la possibilità di
giungere alla conclusione dell’affare seppure non possa conseguirsi l’intero prezzo di
vendita inizialmente individuato quale obiettivo della trattativa. In secondo luogo, perché la clientela dell’agenzia immobiliare non accetterebbe di buon grado clausole che
rendessero dovuto il pagamento della provvigione in assenza di alcun affidamento sulla effettiva possibilità di portare a buon fine il proposito, rispettivamente, di vendere o
acquistare l’immobile. In terzo luogo, perché il mediatore conseguirebbe il pagamento
della provvigione soltanto dal proprietario dell’immobile che l’abbia incaricato, anziché potere confidare sul pagamento, da parte di entrambi, venditore e compratore, di
una provvigione complessivamente più elevata.
Si aggiunga che una recente decisione (Cass., 3 novembre 2010, n. 22357, cit.)
sembra negare la validità del patto che stabilisca l’obbligo di pagamento di un compenso al mediatore incaricato corrispondente al valore di un’usuale provvigione anche
in difetto della conclusione della compravendita o quanto meno di un valido prelimi-
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nare di vendita, seppure sotto il profilo del carattere vessatorio che a una simile clausola dovrebbe attribuirsi nel regime dei contratti dei consumatori.
I formulari delle agenzie immobiliari, perciò, mirano piuttosto a semplificare forzatamente il negoziato, costringendo le parti in uno schema rigido nel quale (grazie anche alla limitatezza dello spazio riservato alla compilazione, oltre che alla “standardizzazione” delle formule) proposta e accettazione convergano sulla mera indicazione dell’immobile oggetto di trattativa e del prezzo.
Ne risulta sacrificata o ridotta la possibilità, che le parti intendessero riservarsi, di
subordinare l’insorgenza del vincolo obbligatorio alla definizione del negoziato altresì
con riguardo alle ulteriori condizioni della compravendita.
Torna a emergere però, anche a questo proposito, il tema dell’effettività del consenso, se ci si rappresenta l’eventualità in cui la consegna del formulario sottoscritto sia
accompagnata dall’indicazione al mediatore che la parte intende riservarsi di comunicare la propria accettazione (o la stessa proposta, nel caso dell’aspirante acquirente)
soltanto una volta verificata l’intesa altresì con riguardo a condizioni accessorie o complementari rispetto alla definizione del prezzo di vendita, seppure il mediatore fosse
stato effettivamente autorizzato a comunicare alle parti il raggiungimento di un accordo relativamente alla determinazione del prezzo.
In questo caso, infatti, se il mediatore non rinunciasse all’impiego del formulario,
pur edotto della riserva di verificare l’intesa sulle ulteriori condizioni del contratto, e
consegnasse al proponente l’esemplare attestante l’accettazione, dopo avere consegnato all’accettante l’esemplare attestante la proposta, esporrebbe la parte interessata al
rischio che la riserva rimanga inefficace, una volta che l’altra parte sia stata posta nella
condizione di esigere il rispetto di un documento (l’esemplare sottoscritto del formulario) nel quale la riserva non è espressa: e si riaffaccerebbe, anche a questo proposito,
la questione concernente il possibile abuso del mediatore, che si avvalga dell’incarico di
comunicare la dichiarazione negoziale per usurpare le attribuzioni che sarebbero invece proprie solo di un mandatario-rappresentante incaricato di negoziare e concludere
la vendita.
Per contro, se il mediatore non comunicasse all’altra parte la conferma dell’accordo sul prezzo, ne deriverebbe un ingiusto pregiudizio delle aspettative del proponente
o dell’accettante di avere determinato una progressione del negoziato, in virtù appunto dell’intesa sugli elementi essenziali dell’accordo, seppure la conclusione del contratto fosse ancora soggetta all’alea del raggiungimento di un accordo anche riguardo alle
altre condizioni della vendita.
Non è d’altronde agevole individuare, neppure a questo proposito, tutte le possibili
problematiche che possano presentarsi nell’esperienza, e tanto meno è possibile suggerire soluzioni idonee alla loro soluzione, se si esclude il caso in cui il mediatore si astenga dall’intervenire nel procedimento di formazione del consenso, rinunciando all’impiego dei formulari e limitandosi a raccogliere per iscritto una semplice dichiara-
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zione di incarico a proprio favore, accompagnata dalla promessa del pagamento della
provvigione nel caso di futura conclusione del contratto di vendita dell’immobile.
L’elemento comune nella genesi delle delicate questioni sopra riassunte è infatti – lo
dimostreranno ancora più compiutamente i cenni che seguono relativamente al tema
del rispetto della prescrizione della forma scritta per la vendita di immobili – l’affidamento al mediatore della custodia delle dichiarazioni negoziali, in una situazione in cui,
di regola almeno, il negoziato tra le parti ha solo condotto a un’intesa sulla determinazione del prezzo, dal quale non può univocamente desumersi la volontà di conclusione
del contratto in virtù dello scambio di proposta e accettazione ma solo il riconoscimento
dell’efficacia dell’intervento del mediatore, ai fini del pagamento della provvigione, una
volta effettivamente concluso il contratto.
IV. L’intervento del mediatore nel procedimento di formazione del consenso accentua anche la difficoltà di soluzione dei problemi che si pongono allorché un contratto
soggetto a prescrizione di forma scritta ad substantiam, come è la vendita di immobili,
è concluso tra persone lontane.
Un consolidato indirizzo giurisprudenziale afferma essere onere della parte, che ne
pretenda l’adempimento, dare la dimostrazione che il contratto si è concluso per iscritto,
esigendo, nel caso di contratto concluso tra persone lontane, la prova che sia la proposta di una parte, sia l’accettazione dell’altra, sono state formate per iscritto.
È però caratteristico della conclusione del contratto tra persone lontane che ciascuna di loro possegga solo il documento (accettazione o proposta che sia) sottoscritto
dall’altra parte.
Questo orientamento (assai poco rispettoso delle esigenza di celerità e certezza dei
traffici, e di non sicura giustificazione) si è perciò finalmente accompagnato, in tempi recenti, alla consapevolezza del collegamento (e dell’esigenza di coordinamento) tra il regime della forma del contratto, da una parte, e la disciplina dei mezzi di tutela dei diritti,
e della prova in particolare, dall’altra.
Si è quindi precisato che il rispetto del requisito di forma non esige il possesso del
documento da sé sottoscritto (che non può esservi, perché la propria dichiarazione negoziale, per definizione, è in possesso dell’altra parte), bensì la sola prova che il documento fu formato, e comunicato poi all’altra parte, spingendosi una pronuncia ad affermare che di questo potrebbe offrirsi prova con ogni mezzo (Cass., 1 settembre 1997,
n. 8328, in Rep. Foro it., 1997, voce Contratto in genere, n. 312).
Benché questo temperamento della rigidità dell’insegnamento corrente possa attenuarne gli inconvenienti, è palese quali delicate questioni possa generare, sotto questo
profilo, la circostanza che la custodia delle dichiarazioni negoziali, e il loro scambio, siano accentrati nelle mani del mediatore incaricato dalle parti nelle trattative per la vendita
di un immobile.
La parte che abbia consegnato la propria proposta al mediatore rimane soggetta al
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rischio, seppure conseguisse la consegna dell’accettazione dell’altra parte, di non potere dimostrare che la proposta era stata formata per iscritto.
In analoghe difficoltà si troverà il proprietario dell’immobile, non potendo dimostrare di avere formato per iscritto, e comunicato all’altra parte, la propria accettazione.
Entrambi saranno poi soggetti al rischio della perdita da parte del mediatore del
documento loro destinato (proposta o accettazione), o, nel caso del proprietario dell’immobile, dell’inattitudine del mediatore a dare dimostrazione della consegna dell’accettazione al proponente, o di provare che l’accettazione è stata comunicata al proponente prima che scadesse il termine di efficacia della proposta, e questa fosse revocata.
In tutti i casi, la circostanza che la perdita del possesso del documento, o l’impossibilità di disporne, si realizzino allorché il documento è (avrebbe dovuto o potuto
essere) nella custodia del mediatore, aggraverà la posizione della parte che pretenda
valersi dei rimedi di cui all’art. 2724 c.c., i quali consentono sì l’ammissione della prova
testimoniale relativamente alla formazione e al contenuto di documenti scritti ma – salvo sussista «un principio di prova per iscritto» – solo «quando il contraente è stato
nell’impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova scritta» o «quando il
contraente ha senza sua colpa perduto il documento che gli forniva la prova».
Un possibile temperamento delle conseguenze dannose di questa impostazione
potrà derivare, a questo riguardo, dall’affermazione dell’indirizzo che circoscrive opportunamente l’ambito della prescrizione di forma scritta, negando, in particolare, che
la prescrizione si estenda a «ogni elemento del procedimento attinente alla proposta e
all’accettazione, alla loro ricezione o cognizione dai rispettivi destinatari», rilevando in
contrario che «nel sistema delle regole sulla forma della prova, la scrittura privata è il documento sottoscritto dalla parte contro la quale viene fatta valere» (And. D’ANGELO,
Proposta e accettazione, in Tratt. Roppo, I, Formazione, a cura di C. Granelli, Giuffrè,
2006, p. 140 ss.).
In assenza, però, di un consolidato indirizzo giurisprudenziale a questo riguardo,
sarebbe opportuno che i formulari delle agenzie immobiliari regolassero la conclusione del contratto preliminare di vendita prescrivendo che l’accettante consegni al mediatore, con l’incarico di recapitarla al proponente, formale dichiarazione di avere ricevuto una conforme proposta scritta, e che, una volta intervenuta l’accettazione, il proponente consegni al mediatore, con l’incarico di recapitarla all’accettante, formale dichiarazione di avere ricevuto un’accettazione scritta conforme alla propria proposta.
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Modifiche convenzionali al regime legale in tema di eliminazione dei vizi nell’appalto d’opera prima e dopo il collaudo*
I. La prassi mostra come sia spesso nell’ultima fase della realizzazione dell’opera
che insorge, o si aggrava, una controversia tra committente e appaltatore.
L’ovvia spiegazione di questo dato d’esperienza è che in prossimità della consegna,
o nel corso delle operazioni di collaudo, si accentua la contrapposizione tra il desiderio
dell’appaltatore di disimpegnare maestranze e mezzi dal cantiere, e di riscuotere il saldo del prezzo dell’appalto, da una parte, e la contraria preoccupazione del committente (o del direttore dei lavori da questi incaricato), dall’altra, di mantenere a propria disposizione l’organizzazione dell’appaltatore sino a che non sia accertato che l’opera può
giudicarsi effettivamente ultimata e priva di difetti.
Sovente, però, a questa ricorrente antinomia di intenti e preoccupazioni delle parti si
aggiunge un ulteriore elemento, che ha l’effetto di inasprire il dissidio tra loro, allorché
l’appaltatore mostri di volere deliberatamente mancare – per convenienza o per necessità – al proprio obbligo di eliminare i vizi che l’opera presenti, nell’intento di indurre così
il committente ad accettare l’opera a dispetto dei vizi (salva l’applicazione a carico dell’appaltatore di una detrazione dal prezzo convenuto, con funzione di indennizzo del
pregiudizio causato al committente dal minore valore dell’opera affetta da vizi).
Questa evenienza può verificarsi in conseguenza di situazioni impreviste che impediscano all’appaltatore di rimanere impegnato con tutte le proprie risorse nel cantiere
(ad esempio, ritardi nella realizzazione dell’opera che determinino la sovrapposizione
dell’impegno dell’appaltatore in altro cantiere), o che comportino a suo carico oneri
eccessivi rispetto alla stima dei costi di realizzazione dell’opera (ad esempio, abnorme
riduzione della produttività delle maestranze a causa di un difettoso coordinamento di
lavori di diversa natura, ovvero di uno stillicidio di rifacimenti dovuto a una disordinata introduzione di varianti nei lavori, ecc.). In situazioni del genere, l’appaltatore spesso preferirà rischiare l’addebito di notevoli detrazioni sul prezzo a opera del direttore
dei lavori, piuttosto che subire un pregiudizio ancora più grave per effetto della inidoneità del prezzo convenuto a remunerare un ulteriore aggravio dei costi di realizzazione dell’opera.
II. Analoga questione può insorgere, d’altronde, anche successivamente al collaudo dell’opera, ove si riveli la presenza di vizi rimasti in precedenza occulti, dal momento che nell’appalto, a differenza di quanto è stabilito nel regime della garanzia dei vizi
nella vendita (art. 1492 c.c.), da un lato il committente non può avvalersi del rimedio
della risoluzione del contratto per inadempimento – salvo che i difetti dell’opera siano
«tali da renderla del tutto inadatta alla sua destinazione» – dall’altro però può, se non
* di Massimo Cataldo, avvocato in Genova.
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preferisca chiedere «che il prezzo sia proporzionalmente diminuito, salvo il risarcimento del danno nel caso di colpa dell’appaltatore», esigere che «le difformità o i vizi
siano eliminati a spese dell’appaltatore» (art. 1668 c.c.).
Trattandosi di obblighi da eseguirsi in virtù della garanzia stabilita ex lege a carico
dell’appaltatore per i vizi occulti, e quindi dopo l’ultimazione dell’opera, l’organizzazione di mezzi e risorse dell’appaltatore non è più presente in cantiere, e si ripresenta
quindi – più accentuato ancora – il conflitto tra l’interesse dell’appaltatore a non impegnare le proprie maestranze in ulteriori attività (a costo di subire la richiesta di restituzione di una parte del prezzo riscosso, proporzionale ai difetti non eliminati), e l’interesse del committente a conseguire invece l’eliminazione dei difetti.
Per meglio comprendere l’intensità di questo conflitto di interessi, occorre ricordare come l’esperienza mostri che l’eliminazione di un difetto dell’opera comporta spesso a carico dell’appaltatore un onere affatto sproporzionato alla gravità o all’estensione
dei difetti nell’opera. Tra i tanti esempi possibili, si consideri che l’eliminazione di difetti di lieve entità nella facciata dell’edificio potrebbe esigere di muovo l’elevazione di
ponteggi che erano stati già smontati; che l’eliminazione di vizi nella sistemazione a
verde dell’area circostante l’edificio potrebbe esigere che l’appaltatore nuovamente stipuli un nolo di mezzi meccanici; che il rifacimento di parti dei prospetti e della tinteggiatura potrebbe esigere l’impiego di un singolo operaio, la cui resa sia inferiore alla resa media pro capite degli addetti di una squadra impiegata a questo fine nel corso dei
lavori durante la costruzione, ecc.
Dunque, seppure l’appaltatore non avesse in precedenza sostenuto l’onere della
realizzazione delle parti mancanti o difettose, perché avesse mancato appunto di farle
eseguire, o le avesse fatte eseguire con un minor impegno di uomini e mezzi rispetto a
quanto necessario, nondimeno il costo della eliminazione dei difetti darebbe luogo a
un aumento dei costi complessivi di realizzazione dell’opera a carico dell’appaltatore, e
a una conseguente riduzione della remuneratività del prezzo riscosso per l’esecuzione
dell’appalto.
Il committente, per contro, nel caso di mancata eliminazione dei difetti subirebbe
con ogni probabilità un danno maggiore rispetto all’indennizzo che ha la possibilità di
conseguire chiedendo che il prezzo dell’appalto sia «proporzionalmente» ridotto: è esperienza comune che ben difficilmente un impresario edile interpellato per un intervento di rifacimento (di un manufatto o di un elemento della costruzione che presentino difetti) accetterà di eseguire il lavoro per una somma pari a quella in precedenza
spesa per la realizzazione delle parti difettose; in più, l’impresario non mancherà di reclamare che la propria responsabilità è limitata all’incarico ricevuto, e non comporta
– quanto meno se non sia pattuito per questo uno speciale compenso – l’assunzione di
corresponsabilità per i lavori eseguiti dal precedente appaltatore (cosicché, se i rifacimenti presentassero a loro volta difetti, potrebbe risultare assai arduo riuscire ad attribuirne la responsabilità all’una o all’altra delle due imprese succedutesi nel cantiere).
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III. Alle maggiori imprese di costruzione, e a quelle di più risalente fondazione e di
maggiore esperienza, è d’altronde noto quale sia la delicatezza dei problemi che si pongono allorché un appaltatore acconsenta a riconoscere che la costruzione presentava
uno o più vizi occulti, e assuma l’impegno a eliminarli.
Da tempo, infatti, si controverte riguardo agli effetti che ne derivino: si è affermato
che l’assunzione dell’impegno di eliminare i difetti dell’opera comporta l’insorgere di un
nuovo obbligo, che si sovrappone, assorbendone gli effetti, al regime legale di garanzia;
nuovo obbligo che non è dunque soggetto al breve termine di prescrizione dell’azione di
garanzia, bensì all’ordinario termine decennale, e può intendersi recare con sé, con riguardo ai lavori eseguiti dall’appaltatore per eliminare i difetti, una nuova garanzia per
vizi (come è sovente indicato in modo espresso nei capitolati d’appalto).
Una recente pronuncia (Cass., 14 gennaio 2011, n. 747, in Nuova giur. civ., 2011, I,
p. 798) ha qualificato diversamente la fattispecie, negando possa insorgere un nuovo
obbligo dall’assunzione dell’impegno di eliminare i difetti, e nondimeno ha reputato che
la pretesa del committente al rispetto dell’impegno di eliminare i difetti sia soggetta all’ordinario termine decennale di prescrizione, quasi si trattasse di null’altro che dell’azione di adempimento sorgente a vantaggio del committente dal contratto di appalto,
la quale “sopravviverebbe” dunque alla consegna e accettazione dell’opera, compiendosene la prescrizione – con il decorso appunto del termine decennale – solo a decorrere dalla scoperta del vizio e dal suo riconoscimento a opera dell’appaltatore, che ne
prometta l’eliminazione. Anche rinunciandosi a individuare artificiosamente nell’impegno dell’appaltatore una novazione oggettiva dell’obbligazione di garanzia (come ancora indicava Cass., 30 gennaio 2001, n. 1320, in Rep. Foro it., 2002, voce Appalto, n.
51), l’effetto del riconoscimento del vizio da parte dell’appaltatore rimarrebbe dunque
quello di mantenere in vita, dopo la consegna dell’opera, un’obbligazione soggetta all’ordinario termine di decennale di prescrizione, senza che il committente sia tenuto
ogni volta a rinnovare la denuncia, nel caso di mancato rispetto dell’impegno di eliminare di difetti, entro il breve termine di decadenza dell’azione di garanzia. Di conseguenza,
nel caso in cui insorgesse controversia riguardo all’adempimento dell’obbligo di eliminare i vizi, l’appaltatore si troverebbe esposto al rischio di mantenere la propria organizzazione indefinitamente impegnata a soddisfare la richiesta del committente di far luogo
nuovamente a interventi sull’opera, se non gli riuscisse di eliminare a regola d’arte i difetti. E si aggiunga che l’appaltatore rischierebbe così di onerarsi, in concreto, altresì del costo di ordinari interventi di manutenzione delle parti dell’opera affette da vizi, dal momento che l’obbligazione di rendere l’opera esente da difetti comporterebbe la necessità
di provvedere altresì ai rifacimenti e ripristini che si fossero nel frattempo resi necessari
per effetto del naturale degrado causato dal trascorrere del tempo. Infine, l’appaltatore
avrebbe ragione di temere che il committente cerchi di includere, nell’ambito dell’intervento di eliminazione dei difetti, altresì vizi che non si erano manifestati entro il termine
della garanzia, ma possano confondersi con i difetti tempestivamente denunciati perché
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abbiano natura analoga o perché riguardino le stesse parti dell’opera (ad esempio, difetti di posa in opera degli stessi manufatti ma in parti diverse della costruzione, oppure difetti di natura diversa emersi negli stessi rivestimenti oggetto dell’intervento di
eliminazione dei vizi).
Le considerazioni che precedono chiariscono perché si trovi sovente, nei contratti
di appalto stipulati per iscritto (di regola: nel «capitolato dei lavori» che ne costituisce parte) l’elaborazione di una disciplina degli obblighi dell’appaltatore relativamente
alla eliminazione dei difetti dell’opera emersi prima del collaudo, e degli stessi difetti
rimasti occulti al tempo della consegna dell’opera ma emersi e denunciati prima dello
spirare del termine della garanzia per i vizi dell’opera stabilita dalla legge a carico dell’appaltatore.
IV. Quanto ai difetti emersi in corso d’opera, è usuale che il capitolato stabilisca
che debbano eliminarsi, in conformità delle prescrizioni che il direttore dei lavori impartisca, prima che abbiano inizio le operazioni di collaudo. Nella fase della negoziazione
delle condizioni dell’appalto, in effetti, non è agevole per l’appaltatore rifiutare di accettare una clausola di questo contenuto, perché finirebbe per generare diffidenza sulla serietà delle proprie intenzioni, e rischierebbe di vedere sfumare l’opportunità dell’affidamento dei lavori.
La tutela degli interessi dell’appaltatore, a questo riguardo, non è assicurata tanto dalla possibilità di introdurre un’attenuazione della disciplina del capitolato, nella fase della
negoziazione del contratto, quanto dal concorrere di due elementi che affievoliscono, in
maggiore o minore misura, il rigore delle conseguenze che possono derivarne.
Anzitutto, esperienza e sagacia del direttore dei lavori possono suggerire di evitare
atteggiamenti troppo pedanti, che abbiano l’effetto di esasperare l’appaltatore, e scontentare lo stesso committente, a causa delle lungaggini che ne deriverebbero nell’ultimazione dei lavori; non è inusuale, perciò, che il direttore dei lavori si limiti a formulare una lista di prescrizioni (relativamente alla eliminazione dei difetti) da adempiersi
nel corso delle operazioni di collaudo, o addirittura dopo l’ultimazione di queste, con
la riserva di stabilire a carico dell’appaltatore nella relazione di collaudo, con riguardo
ai difetti che non fossero stati eliminati, particolarmente per quelli di minore gravità,
una detrazione dal prezzo convenuto, rinunciando a esigere l’eliminazione dei residui
difetti dell’opera.
In secondo luogo, e soprattutto, il limite di efficacia delle disposizioni del capitolato che impongano l’eliminazione di tutti i difetti prima dell’inizio delle operazioni di
collaudo è costituita dalla impossibilità di fare luogo al c.d. rifiuto dell’opera (ossia alla
risoluzione del contratto per inadempimento dell’appaltatore) in conseguenza del permanere di difetti di non grave entità, cosicché il committente, a evitare un eccessivo
ritardo nella presa in consegna dell’opera, e nella sua destinazione all’uso per il quale
era stata commissionata, sarà prima o poi indotto, perdurando l’inerzia dell’appalta-
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tore o la sua incapacità di eliminare vizi e difformità nei lavori, ad accettare nondimeno l’opera, salva l’applicazione di detrazioni sul prezzo dell’appalto per i residui difetti.
Il committente potrebbe esigere – non è infrequente – che nelle condizioni dell’appalto sia inclusa una clausola risolutiva espressa, in virtù della quale il contratto possa risolversi ai sensi dell’art. 1456 c.c. se l’appaltatore non provveda tempestivamente
alla eliminazione dei difetti prima della consegna dell’opera. Si tratta però di rimedio
di limitata efficacia: sia perché il committente sarebbe impedito ad avvalersene ogni
volta che i difetti non menomassero il proprio interesse a ricevere in consegna l’opera;
sia perché la risoluzione del contratto, ove i lavori avessero, come è regola, determinato effetti irreversibili (parziale edificazione del terreno di proprietà del committente,
rifacimenti e restauri di opera preesistente di proprietà del committente, ecc.), attribuirebbe comunque all’appaltatore il diritto a conseguire un compenso, seppure nei
limiti dell’utilità che l’opera solo parzialmente realizzata rivestisse per il committente
«in proporzione del prezzo pattuito per l’opera intera» (art. 1672 c.c.).
V. Il migliore contemperamento dell’interesse del committente a ridurre il rischio
della permanenza di difetti dell’opera dopo l’ultimazione dei lavori, e dell’interesse dell’appaltatore a che le operazioni di collaudo non siano indefinitamente ritardate per la
necessità di eliminare difetti di minore entità, è forse realizzato, in definitiva, dalla pattuizione di una penale ai sensi dell’art. 1382 c.c. a carico dell’appaltatore (di regola: in
aggiunta alla penale comunemente stabilita per il ritardo nella ultimazione dei lavori).
L’esperienza mostra, infatti, che la prospettiva di subire una detrazione dal prezzo
corrispondente ai vizi o difformità dell’opera non costituisce sempre una remora sufficiente a indurre l’appaltatore a fare luogo con tempestività alla eliminazione dei difetti;
e che talvolta la gravità dei difetti, seppure non privi di utilità l’opera realizzata, nondimeno induce il committente a ritenere indispensabile un successivo intervento, prima di destinare l’opera all’impiego per il quale è stata commissionata, seppure dovesse
a questo fine incaricarsi altra impresa, in difetto di adeguata collaborazione da parte
dell’appaltatore in precedenza incaricato.
La pattuizione della penale deve dunque assolvere la funzione di far sì che per l’appaltatore risulti maggiormente conveniente provvedere all’eliminazione dei difetti
piuttosto che astenersene (ma subendo l’applicazione della penale); ovvero, nel caso
in cui l’appaltatore fosse nell’impossibilità, a dispetto dell’onerosità delle conseguenze
dell’inadempimento, di provvedere alla eliminazione dei difetti, di far sì che sia assicurato al committente un adeguato indennizzo del costo da sostenersi per incaricare altra impresa di provvedervi.
Per questa ragione, è essenziale che il valore della penale rifletta, anziché una quota
del prezzo dell’appalto proporzionale all’entità dei difetti dell’opera, il (maggior) costo
determinato dalla messa in opera di una nuova organizzazione di cantiere da parte di altra impresa, oltre che dalle attività specificamente destinate alla eliminazione dei difetti.
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Il valore della penale dovrebbe includere, d’altronde, altresì la remunerazione delle
maggiori attività e rischi che la nuova impresa debba assumersi per adempiere all’obbligazione di consegnare l’intera opera eseguita a regola d’arte, ciò che può comportare la necessità di controlli, ripristini, rifacimenti anche di parti dell’opera diverse da
quelle nelle quali erano stati rilevati i difetti contestati al precedente appaltatore, e, in
ogni caso, espone il nuovo appaltatore a responsabilità per effetto della garanzia per i
vizi occulti.
È agevole comprendere, tuttavia, quanto sia arduo stabilire il valore della penale all’atto dell’affidamento dei lavori, quando ancora non si conoscono la natura e l’estensione dei difetti che l’opera potrà presentare, e non può prevedersi se la gravità dei difetti, e l’inerzia dell’appaltatore nel provvedere alla loro eliminazione, determineranno
la necessità di incaricare altra impresa.
Anziché cercare di stabilire un valore della penale determinato, sarà dunque appropriato che si indichino nel contratto di appalto i criteri per la sua determinazione, in conformità di quanto appena illustrato, con l’avvertenza che il committente potrebbe richiedere di aggiungervi un elemento ulteriore, costituito da una ‘voce’, forfettariamente
determinata in misura pari a una determinata percentuale del valore dei lavori, ovvero a
un determinato importo moltiplicato per ogni giorno di durata dei lavori, per indennizzare il committente (oltre che del costo dell’intervento di eliminazione dei difetti) altresì
della perdita di ricavi o di chance causata dal ritardo nell’impiego dell’opera alla destinazione programmata.
La efficacia di una simile clausola presupporrà, però, che la finale determinazione
del valore complessivo della penale non rimanga soggetta alla fragile speranza di un
sollecito accordo tra i contraenti al riguardo, né sia rimessa alla decisione di un giudice
(che potrebbe adottarla solo all’esito di un procedimento ordinario, e solo avvalendosi
di un ausiliario di cui non potrebbe pronosticarsi con sicurezza l’idoneità al compito),
bensì sia rimessa ad un terzo qualificato a provvedervi in virtù delle sua capacità ed esperienza, designato direttamente dalle parti già all’atto della conclusione del contratto di appalto, ovvero da designarsi dall’organismo che ne sia incaricato dai contraenti
(ad esempio, l’Ordine degli Ingegneri o dei Geometri).
VI. Non tutte le problematiche sopra ricordate si presentano, invece, nel regime
della garanzia per vizi dopo il collaudo, o quanto meno non si presentano allo stesso
modo: l’opera è stata ormai accettata, ed è evenienza affatto rara che i vizi occulti siano
di gravità tale da «renderla del tutto inadatta alla sua destinazione», che è l’unico caso, come si è già ricordato, nel quale «il committente può chiedere la risoluzione del
contratto» (art. 1668, c. 2, c.c.).
Per altro verso, può accentuarsi invece l’antagonismo tra committente e appaltatore, avuto riguardo sia alla maggiore onerosità, per l’appaltatore, dell’eliminazione dei
difetti occulti che siano stati scoperti dopo il collaudo; sia alla maggiore onerosità, per
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il committente, della ricerca di altro appaltatore che accetti di impegnare la propria responsabilità eseguendo dei lavori in una costruzione per intero edificata da altri; sia
alla maggiore controvertibilità dell’imputazione dei difetti all’appaltatore, in una situazione in cui l’opera è stata ormai destinata all’impiego prestabilito, e soggetta a naturale usura, ovvero alle conseguenze di una custodia poco attenta, o di una manutenzione
insufficiente, da parte di chi l’utilizzi; sia, infine, all’incertezza e alle preoccupazioni che la
scoperta di vizi occulti può generare nel committente, relativamente all’effettiva qualità della realizzazione dell’opera.
A dispetto della superiore complessità, o quanto meno della maggiore intensità del
conflitto tra committente e appaltatore, può risultare utile a regolare i loro rapporti la
pattuizione, anche a questo riguardo, di clausola analoga a quella stabilita relativamente alla eliminazione dei difetti emersi già nel corso al collaudo o prima ancora. Tuttavia, la penale è suscettibile di riduzione ad opera del giudice, ove sia giudicata «manifestamente eccessiva» (art. 1384 c.c.), e tale potrebbe apparire una penale che ponesse a
carico dell’appaltatore un ingente onere anche nel caso di difetti di minore entità, in conseguenza della necessità del committente di provvedere alla eliminazione dei difetti con
mezzi antieconomici, per tutelare nel modo migliore i propri interessi: si pensi al caso in
cui il committente rischi di perdere l’opportunità di un lucroso impiego dell’immobile
perché la presenza dei pur lievi difetti sia di impedimento a quell’impiego, come tipicamente avviene, ad esempio, per le strutture e insediamenti realizzati per ospitare importanti manifestazioni sportive o fiere, con riguardo ai quali la consegna all’utilizzatore non
può ritardare neppure di un giorno, o poco più.
Nella valutazione dell’adeguatezza della penale a opera del giudice, d’altronde, può
esercitare influenza anche il principio della irrisarcibilità del danno non prevedibile nel
regime della responsabilità contrattuale (art. 1225 c.c.).
Il committente potrà perciò cercare di ottenere, raffigurandosi sia la necessità di fare luogo alla eliminazione dei difetti con la più grande sollecitudine, sia la resistenza
dell’appaltatore a provvedervi, che in luogo della pattuizione di una penale sia stabilito, semplicemente, che l’appaltatore sia tenuto a versare al committente una somma
pari a quella che egli abbia corrisposto ad altra impresa per gli interventi che le abbia
commissionato al fine di porre riparo alle conseguenze dei difetti. L’obbligazione dell’appaltatore non avrà titolo dunque nella pattuizione di una penale, né troverà fondamento nel mancato o inesatto adempimento del contratto (in una parola: non avrà
funzione di risarcimento del danno), bensì nell’assunzione di un’alea contrattale, per
effetto della quale l’appaltatore assumerà a proprio carico il rischio che il committente
dovesse sostenere dei costi per fronteggiare le conseguenze dei difetti occulti emersi
nell’opera, siano o non siano i difetti imputabili a colpa dell’appaltatore (alea che troverà presumibilmente remunerazione nel prezzo complessivamente pattuito per l’appalto, sempreché l’appaltatore accetti di onerarsene).
Verosimilmente, si pretenderà da parte dell’appaltatore che l’ammontare della spe-
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2011
sa sia contenuto nei limiti di quanto davvero indispensabile alla tutela degli interessi
del committente, ma il negoziato tra le parti a questo riguardo risulterà assai difficile, a
causa dell’impossibilità di individuare elementi obiettivi, e della necessità di limitarsi a
fissare, quindi, un criterio astratto che tutti possa riassumerli. Infatti, l’esperienza italiana manifesta diffidenza nei confronti delle formule correnti in altri Paesi (quale quella
di far coincidere il limite dell’obbligazione con l’ambito entro il quale può giudicarsi
reasonable, sul modello della prassi anglosassone) che hanno mostrato di perdere molta della loro concludenza e univocità se trasportate nel nostro ordinamento meramente in virtù di una meccanica riproduzione o trasposizione di forms stranieri. Sotto altro
profilo, seppure l’appaltatore accettasse di onerarsi di un rischio da sé non controllabile, e tale da potere comportare un esborso di entità non strettamente proporzionale al
valore dei lavori ineseguiti o male eseguiti, l’ambito della propria responsabilità finirebbe
per eccedere quello suscettibile di essere assicurato secondo le condizioni correntemente praticate dalle compagnie operanti in Italia nell’assicurazione dei rischi inerenti l’attività delle imprese di costruzione.
VII. Al contrario, l’appaltatore mirerà a conseguire una modifica del regime della
garanzia per i difetti occulti dell’opera che alleggerisca o escluda la propria obbligazione
di provvedere alla loro eliminazione.
Il regime della prescrizione e della decadenza dell’azione di garanzia per vizi nell’appalto è però sottratto alla disponibilità dei privati (al punto, ma questa sembra conclusione eccessiva e ingiustificata, che secondo Cass., 27 agosto 1993, n. 9064, in Rep.
Foro it., 1993, voce Appalto, n. 52, non sarebbe ammissibile un regime convenzionale
dei rapporti tra committente e appaltatore che escludesse o limitasse la responsabilità
per i difetti occulti dell’opera).
Nulla sembra invece precludere che il contratto tra le parti regoli gli obblighi dell’appaltatore secondo termini più rispettosi della sua esigenza di organizzare il lavoro
nel modo più ordinato e senza diseconomie irragionevoli. Si potrà perciò, ad esempio,
prospettare l’obbligazione dell’appaltatore come obbligazione alternativa ex art. 1286
e ss. c.c., cosicché egli possa liberarsi da responsabilità sia provvedendo alla eliminazione dei difetti, sia, a sua scelta, versando al committente la provvista per farvi provvedere da altra impresa, nella misura concordata tra le parti o, in difetto, stabilita dal
giudice, o da un terzo che ne sia incaricato dalle parti.
Troverebbe così soluzione parzialmente soddisfacente anche la questione più delicata, dal punto di vista dell’appaltatore, costituita dalla remora ad accettare di provvedere da sé alla eliminazione dei difetti – seppure fosse in condizione di farvi luogo con
poca spesa mediante le proprie risorse e maestranze – in conseguenza delle incertezze
e dei rischi inerenti il regime della responsabilità dell’appaltatore che si sia impegnato,
dopo averne riconosciuto l’esistenza, a eliminare i vizi manifestatisi dopo il collaudo.
Più piena tutela riceverebbero gli interessi dell’appaltatore, però, se il contratto di
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appalto stabilisse anche, con precisione, per ‘bilanciare’ gli effetti dell’insegnamento giurisprudenziale sopra ricordato, che una volta eseguito l’intervento in garanzia da parte
dell’appaltatore eventuali contestazioni del committente debbano seguire entro breve
termine, seppure computato a decorrere dalla scoperta dei difetti, stabilendosi infine una
decadenza convenzionale del committente al compimento di un determinato termine
successivo alla ultimazione dell’intervento in garanzia, di durata tale da escludere che
incorra nella sanzione di nullità che colpisce il patto «con cui si stabiliscono termini di
decadenza che rendono eccessivamente difficile a una delle parti l’esercizio del diritto» (art. 2965 c.c.).
Gli accordi fra le Imprese nell’ambito delle ATI*
I. Le Associazioni temporanee di imprese per l’esecuzione di contratti di appalto
sono state previste, nella materia delle opere pubbliche, dalla l. 584/1977; la disciplina
è stata integrata con la l. 687/1984, che ha consentito alle imprese associate di costituire tra loro una società, anche consortile, per l’esecuzione unitaria, totale o parziale, dei
lavori. Sono attualmente regolate dal d.lgs. 163/2006 (codice dei contratti pubblici).
La disciplina legislativa è essenzialmente finalizzata a regolare il rapporto fra il Committente (ente pubblico o comunque assoggettato alle norme sui contratti della PA) ed
il privato fornitore o appaltatore, ad individuare i requisiti richiesti a ciascuna impresa
associata per la partecipazione alle procedure di affidamento ed a definire, nell’interesse
del committente, le conseguenze del dissesto di taluna delle imprese associate; relativamente ai rapporti fra le imprese associate, il legislatore si è limitato a richiedere il
mandato congiunto ed irrevocabile all’impresa capogruppo – mandataria, a stabilire
(per le ATI di tipo “orizzontale”) il principio della responsabilità solidale di tutte le imprese associate per le obbligazioni derivanti dal contratto (sia verso il committente sia
verso i fornitori e subappaltatori), a chiarire che il rapporto di mandato non determina
di per sé organizzazione o associazione fra gli operatori economici riuniti.
Ogni altro aspetto concernente i rapporti fra le imprese associate – che, in linea di
massima, non ha rilevanza nei rapporti con il soggetto committente – è oggetto di regolamentazione pattizia.
L’associazione temporanea di imprese ha avuto larga applicazione, non solo nel
settore dei lavori pubblici, nel quale ha la sua origine, ma anche nei contratti di particolare rilevanza economica fra soggetti privati, ed ha costituito una risposta razionale
ad una serie di esigenze sia dei committenti, sia delle imprese. Dal punto di vista del
committente è certamente vantaggioso poter contare sulla responsabilità solidale di
diverse imprese (anziché di una sola impresa che a propria volta affidi parte dei lavori
* di Franco Vigotti, avvocato in Genova.
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o delle forniture a subappaltatori o fornitori terzi); per le imprese il rapporto di associazione temporanea consente una ripartizione del rischio e – almeno per le imprese
mandanti che, altrimenti, sarebbero destinate ad operare quali subappaltatori o subfornitori – una maggior garanzia dei crediti derivanti dall’esecuzione del contratto.
II. L’esecuzione in forma congiunta di un contratto di fornitura o, a maggior ragione, di un contratto di appalto (e le considerazioni che seguono si riferiranno sostanzialmente al caso delle ATI costituite per l’esecuzione di appalti) comporta problemi
delicati nei rapporti fra le imprese, che richiedono una regolamentazione pattizia molto precisa.
Si consideri infatti, a titolo d’esempio: che in sede di offerta le imprese debbono
indicare le rispettive quote di partecipazione, ed in base a tali quote verrà ripartito il
corrispettivo contrattuale; che i lavori complessivamente affidati all’ATI non sempre
sono facilmente frazionabili fra le varie imprese affidatarie; che il ritardo o la cattiva esecuzione delle opere da parte di una delle imprese genera inevitabilmente problemi e
responsabilità a carico di tutte le altre; che tutte le imprese associate devono concorrere nei costi inerenti il rilascio di garanzie a favore della parte committente e al pagamento di una serie di costi generali non frazionabili; che l’impresa mandataria è sostanzialmente l’unico interlocutore, nei confronti della parte committente, per tutte le
problematiche inerenti l’esecuzione del contratto e può trovarsi in una situazione di possibile conflitto di interessi con le mandanti; che gli eventi sopravvenuti ed imprevedibili
che nel corso dell’esecuzione del contratto giustificano la formulazione di riserve possono interessare non l’ATI nel suo complesso ma singole imprese partecipanti.
Per apprestare gli strumenti idonei a risolvere questi ed altri tipi di problematiche
le imprese associate sottoscrivono, contestualmente al mandato congiunto ed irrevocabile all’impresa capogruppo, che normalmente contiene tutto e solo quanto richiesto dalla legge, accordi interni (talvolta denominati, nella pratica, “regolamenti di mandato”) di solito così strutturati:
– vengono indicate le singole parti dell’opera da eseguirsi a carico di ogni singola
impresa. Normalmente le quote di partecipazione all’ATI corrispondono al valore dei
singoli lotti così come ricavabile dai documenti di gara;
– si prevede la partecipazione delle singole imprese ai costi generali in proporzione
alle rispettive quote;
– si definiscono i poteri e le responsabilità dell’impresa mandataria, ed eventualmente un fee in favore della stessa, determinato in una percentuale dei ricavi complessivi del contratto;
– si prevede l’istituzione di un organismo (c.d. comitato intersocietario) cui partecipa un rappresentante per ogni impresa associata, le cui deliberazioni vengono assunte secondo maggioranze determinate in base alle quote di partecipazione all’ATI, con
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il compito di assumere le decisioni più significative (ad esempio: la stipulazione di subappalti; la formulazione di riserve; l’apertura di contenziosi nei confronti del committente);
– si prevede la costituzione di comitati tecnici al fine di risolver problematiche specifiche inerenti i lavori;
– si definiscono le modalità di risoluzione delle controversie fra le imprese associate (di solito mediante clausole compromissorie).
Il mandato conferito all’impresa capogruppo può eventualmente includere il potere di
riscuotere dalla parte committente i corrispettivi dell’appalto anche per conto delle mandanti; ove la capogruppo sia anche mandataria per l’incasso, gli accordi evidentemente
definiranno i termini per l’accredito alle imprese mandanti delle quote di loro competenza, l’eventuale facoltà della mandataria di compensare le somme dovute alle mandanti
con i fees ad essa spettanti o con altre partite a debito delle mandatarie, e così via.
III. Nella pratica, proprio l’estrema difficoltà di ripartire fra le imprese associate i
compiti inerenti l’esecuzione del contratto e l’opportunità di creare un unico centro di
costo per tutto quanto attiene l’esecuzione inducono le imprese associate, almeno nel
caso di appalti particolarmente complessi, di importo rilevante e destinati a protrarsi
per un certo periodo, a costituire fra loro una società consortile che si sostituisce alle
imprese nell’esecuzione dei lavori.
L’affidamento dei lavori alla società consortile composta da tutte le imprese associate è espressamente consentita dalle norme citate all’inizio, e naturalmente non è assimilabile ad un subappalto.
In questi casi si genera uno schema nel quale i rapporti con il committente continuano a far capo all’ATI, e quindi alle singole imprese rappresentate dalla capogruppomandataria, mentre i lavori vengono eseguiti dalla società consortile ed a questa fanno
capo tutti i rapporti con il personale addetto all’esecuzione, con i fornitori, i subappaltatori e, in linea di massima, i terzi in genere.
Nella società consortile – normalmente costituita in forma di società a responsabilità limitata – le imprese associate detengono quote corrispondenti a quelle secondo le
quali partecipano all’ATI. La totalità dei costi inerenti l’esecuzione del contratto di appalto vengono quindi assunti dalla consortile, mentre i corrispettivi continuano a spettare alle singole imprese.
Nello statuto della consortile è contenuta la clausola relativa al c.d. ribaltamento
dei costi, ossia il patto in base al quale le imprese consorziate sono tenute a versare alla
società, ciascuna per la propria quota, gli importi occorrenti per la copertura della totalità dei costi della commessa.
Si prevede normalmente che competa al Consiglio di amministrazione della consortile il potere di chiedere ai soci il versamento di acconti in corso di esercizio, e che la de-
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terminazione definitiva dell’importo dovuto e la relativa ripartizione venga effettuata
sulla base dei bilanci regolarmente approvati.
Nei casi in cui le imprese associate costituiscono la società consortile, i patti fra le
imprese associate vengono a configurarsi anche come patti parasociali.
Il loro contenuto, così come si riscontra nella prassi, è essenzialmente il seguente:
a) Patti relativi alla governance della società consortile
È normale che si preveda che nel consiglio di amministrazione della consortile vengano nominati membri designati da tutte le imprese associate o almeno da quelle titolari delle quote maggiori.
All’impresa mandataria si riserva un ruolo determinante nell’ambito del consiglio, o
assicurandole una maggiore rappresentanza numerica, o attribuendo il voto prevalente
al presidente, o con altri meccanismi; e ciò indipendentemente dalla circostanza che
l’impresa mandataria sia o non sia titolare della quota relativamente maggiore.
b) Patti relativi all’operatività della società consortile
La società consortile, essendo l’unico soggetto che esegue i lavori, può assumere direttamente alle proprie dipendenze la manodopera necessaria, oppure ricorrere
all’istituto del distacco di personale operaio, impiegatizio o dirigenziale da parte delle
imprese associate. La messa a disposizione del personale, e così pure di mezzi d’opera
e attrezzature, costituisce oggetto di specifica regolamentazione tra le parti.
Così pure vengono regolamentate le modalità ed i corrispettivi per i servizi che
singole imprese pongono a disposizione della consortile; in particolare, prestazioni di
natura tecnica e di gestione amministrativa, giacché non è economicamente conveniente
che la società consortile, costituita per l’esecuzione di un singolo contratto, venga dotata
delle strutture necessarie per questo tipo di attività.
c) Patti relativi alla gestione dei flussi finanziari
Poiché i ricavi derivanti dall’esecuzione del contratto vengono incassati direttamente dalle imprese ed i costi sono sopportati dalla società consortile e da questa
riaddebitati alle imprese socie, sussiste un’esigenza di reciproca garanzia sulla regolarità dei relativi flussi finanziari.
Una modalità frequente nella prassi è la seguente: le imprese associate conferiscono alla capogruppo il mandato all’incasso di tutti i corrispettivi del contratto; il mandato comprende anche il potere della mandataria di erogare direttamente alla consortile, in nome e per conto proprio e delle imprese mandanti, le somme necessarie per la
copertura dei costi – determinate in via provvisoria dal consiglio di amministrazione
ed in via definitiva sulla base dei bilanci – e di accreditare la differenza attiva alle singole imprese secondo le rispettive quote.
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d) Patti relativi alle garanzie da prestare al committente o agli istituti bancari
Negli appalti pubblici, così come spesso negli appalti privati, l’appaltatore deve rilasciare al committente fideiussioni bancarie o garanzie assicurative; gli accordi fra le
imprese associate prevedono che i soggetti garanti siano controgarantiti pro quota – e,
ove possibile, senza vincolo di solidarietà – dalle imprese medesime.
Avviene altresì che l’andamento rispettivo dei ricavi e dei costi, specie nei casi in
cui il contratto di appalto non preveda il versamento di un’anticipazione in favore dell’appaltatore, renda necessario dotare la società consortile di mezzi finanziari non ricavabili dal corrispettivo.
Si pone quindi l’alternativa fra l’erogazione da parte delle imprese socie di finanziamenti in favore della consortile ed il ricorso da parte di quest’ultima al credito bancario.
Gli accordi fra le imprese dovranno dunque prevedere:
– nel primo caso, l’impegno di ciascuna di esse di erogare i finanziamenti necessari
(e le modalità per l’assunzione delle relative decisioni);
– nel secondo caso, l’obbligo di tutte le imprese di prestare fideiussioni alle banche
finanziatrici della consortile, in modo proporzionale e senza vincolo di solidarietà (ove
questa modalità sia accettata dai soggetti finanziatori), ovvero in via solidale e con riparto interno dell’obbligazione solidale secondo le rispettive quote;
– in entrambi i casi, le sanzioni a carico dell’impresa che si renda inadempiente agli
obblighi di finanziamento o di rilascio delle garanzie in favore dei terzi finanziatori.
IV. L’argomento relativo alla regolazione delle conseguenze dell’inadempimento
agli obblighi di cui sopra – ma, in generale, anche ad altre obbligazioni derivanti dal
contratto di appalto e/o dai patti tra le imprese associate – pone alcuni problemi che
incidono sui rapporti con il soggetto committente.
La risoluzione del rapporto tra le imprese associate, e l’eventuale, conseguente
esclusione del soggetto inadempiente dalla società consortile, possono essere previsti
ma non possono avere efficacia nei rapporti con il committente, al quale non può essere imposta una modifica della composizione dell’ATI, che comporterebbe il venir meno della responsabilità di una delle imprese per le obbligazioni derivanti dal contratto.
Le soluzioni adottate nella pratica per regolare le conseguenze dell’inadempimento
sono essenzialmente le seguenti:
a) per quanto concerne gli obblighi di finanziamento e di rilascio delle fideiussioni,
si può prevedere che l’impresa capogruppo, ovvero tutte le altre imprese, si sostituiscano all’impresa inadempiente nell’erogazione dei finanziamenti e che a quest’ultima
vengano addebitate penali o interessi di mora;
b) per quanto concerne sia gli obblighi di cui sopra sia ogni altra obbligazione facente carico alla singola impresa, si può prevedere che, a titolo di penale, la quota di
partecipazione all’ATI dell’impresa inadempiente si riduca, nei rapporti interni, entro
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un limite prefissato o, nei casi più gravi, ad una percentuale meramente simbolica,
ferme peraltro restando tutte le responsabilità dell’impresa stessa nei confronti della
parte committente. A tale previsione si affianca normalmente quella di una corrispondente riduzione della partecipazione dell’impresa inadempiente alla società consortile
ed il venir meno dei diritti stabiliti in suo favore nei patti parasociali. Tale riduzione
può attuarsi o con l’inserimento nello statuto della società di una clausola di esclusione, ovvero con un meccanismo contrattuale che attribuisca alle imprese non inadempienti diritto di opzione (esercitabile in presenza di un inadempimento grave) per l’acquisto della quota dell’impresa inadempiente ad un prezzo meramente simbolico ovvero al valore nominale della quota.
Il tutto, naturalmente, restando salvo il diritto delle imprese non inadempienti ad
ottenere il risarcimento dei danni ulteriori subiti a causa dell’inadempimento.
V. Come si è detto, nello schema sopra delineato le imprese che partecipano all’appalto operano nei confronti della parte committente come ATI, mentre per tutto quanto
concerne l’esecuzione dei lavori opera la società consortile della quale le imprese sono
socie.
È quindi inevitabile che le controversie che possono sorgere fra le imprese siano
volta a volta riconducibili o ai loro rapporti nell’ambito dell’ATI (e quindi al rapporto
di mandato) o ai rapporti societari nell’ambito della consortile.
Le controversie, dunque, possono essere relative all’interpretazione o all’esecuzione del mandato e/o del c.d. regolamento di mandato, ovvero dello statuto della consortile, ovvero ancora ai patti parasociali.
Nella pratica avviene spesso che sia nello statuto della consortile sia negli accordi
aventi natura di “regolamento di mandato” e di patti parasociali vengano inserite clausole arbitrali; naturalmente solo quella contenuta nello statuto deve rispettare le disposizioni dell’art. 34, d.lgs. 5/2003.
L’esistenza di due clausole compromissorie diverse comporta problemi facilmente
intuibili in tutti i casi in cui la controversia riguardi contemporaneamente sia i rapporti
nell’ambito dell’ATI sia quelli nell’ambito della società. Si ipotizzi il caso seguente: le
imprese associate A, B e C contestano all’impresa D l’inadempimento agli obblighi di
finanziamento della società e deliberano, in conformità agli accordi dell’ATI, la riduzione della sua quota di partecipazione all’ATI stessa; contemporaneamente, l’assemblea della consortile, sempre con i voti di A, B e C, ed in conformità ad una clausola statutaria, delibera l’esclusione di D. Qualora D contesti di essere inadempiente, dovrà instaurare un procedimento arbitrale nel quale impugnerà l’una e l’altra decisione, ma i
due procedimenti saranno regolati rispettivamente dalla clausola compromissoria contenuta negli accordi fra le imprese associate e dalla clausola compromissoria contenuta
nello statuto della società consortile.
Osservatorio/Prassi
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Poiché è assolutamente opportuno che una simile duplicazione di procedimenti
venga evitata, i patti fra le imprese associate dovrebbero prevedere che le controversie
relative all’interpretazione ed all’esecuzione degli stessi vengano decise in conformità
alla clausola compromissoria contenuta nello statuto della consortile. In questo modo lo
stesso arbitro o lo stesso collegio arbitrale potranno conoscere della controversia nel suo
complesso.
OSSERVATORIO/CONVEGNI
Harmonization and Divergence of International Sales Law
Verona, 11-12 marzo 2011
Studium Juris Veronese, Università degli studi di Verona, Dipartimento di Scienze Giuridiche, NYU School of Law-Center for Transnational Litigation and Commercial Law,
NCTM-Studio Legale Associato
The Article 4 CISG validity exception: Interventi di P.C. Leyens (presenter), P. Huber
(commentator), U.P. Gruber (commentator). Battle of forms: Interventi di G. Rühl (presenter), O. Ben-Shahar (commentator), M. Schmidt-Kessel (commentator). Damages:
Interventi di M. Bridge (presenter), U. Magnus (commentator), F. Ferrari (commentator). Exemptions under Art. 79 CISG: Interventi di C.P. Gillette (presenter), J. Lookofsky (commentator), M. Torsello (commentator).
VI Congresso giuridico-forense per l’aggiornamento professionale
Roma, 17 marzo 2011
Consiglio Nazionale Forense, Scuola Superiore dell’Avvocatura
Delle molte Tavole rotonde di cui si sono composti i lavori si segnalano, in particolare,
quelle dedicate a Codice degli appalti pubblici (coordinata da M. Salazar): Profili civilistici dell’avvalimento (E. del Prato), Interventi di A. Police, P. Carbone, M. Annoni, Novità del nuovo regolamento sui contratti della P.A. (A. Cancrini). Obbligazioni (coordinata da F. Ferina): Interventi di L. Nivarra, G. Romano, G. De Cristofaro, U. Salanitro, G.
Recinto, A. D’Angelo, Conclusioni (G. Iudica). Il contratto (coordinata da S. Pisano):
Interventi di V. Roppo, E. Capobianco, S. Polidori, F. Padovini, M. Tamponi, Conclusioni (M. Nuzzo). Autonomia contrattuale (coordinata da G. Picchioni): Intervento di
A. Zoppini, Arbitrato e diritto dei consumatori (T. Galletto), Clausola compromissoria e
autonomia contrattuale (M. Confortini), Recenti sviluppi in tema di arbitrato irrituale
(C. Tenella Sillani), Interventi di V. Vigoriti, F. Festi, Clausola compromissoria e potere
di rappresentanza (S. Delle Monache). Condominio e circolazione degli immobili (coordinata da C. Neri): Interventi di P. Sirena, P. Zanelli, V. Cuffaro, C. Mazzù, Conclusioni
(A. Gentili). Diritto Privato Europeo (coordinata da U. Perfetti): Il diritto europeo delle
nuove tecnologie ed i suoi riflessi privatistici (V. Zeno Zencovich), Interventi di F. Pernazza, G. Conte, M. Meli, M.R. Maugeri, G. Vettori, P. Carbone, Conclusioni (S. Mazzamuto). I contratti bancari (coordinata da A. de Giorgi): Interventi di S. Pagliantini, A.
Osservatorio/Convegni
375
Mirone. La regolazione dei rapporti economici nel tempo della crisi (coordinata da P.
Berruti): La crisi della sovranità nel tempo della globalizzazione economica (F. Politi), Le
autorità di settore nel tempo della crisi (N. Longobardi), Strumenti di risoluzione contrattuale in tempo di crisi (F. Marinelli), Crisi economica e liberalizzazioni: dalle aperture
domenicali alle tariffe forensi (G. Colavitti), Globalizzazione economica e privatizzazioni:
i servizi pubblici (G. Di Gaspare), La tutela del risparmiatore nel settore bancario e la riforma del credito al consumo (G.L. Carriero).
Diritto civile e principi costituzionali europei e italiani
Perugia, 25-26 marzo 2011
Università degli Studi di Perugia, Facoltà di Giurisprudenza, Dipartimento per gli
Studi Giuridici “Alessandro Giuliani”
Introduzione (C. Salvi). Prima sessione: Libertà economiche e diritti sociali (presieduta da
D. Messinetti): La vicenda dei diritti sociali (C. Pinelli), Di alcuni aspetti paradossali della
vicenda dei diritti sociali europei (S. Giubboni), Le modifiche apportate dai nuovi Trattati:
solo forma o anche sostanza? (D. Gottardi), Le garanzie del lavoro tra costituzioni nazionali, Cedu e Carta dei diritti (G. Azzariti), Libertà di impresa e tutela della salute (L. Cassetti), Libertà economiche e famiglia (M.R. Marella). Seconda sessione: Libertà economiche,
utilità sociale e diritti della persona (presieduta da A. di Majo): Libertà economiche e diritti
fondamentali (G. Vettori), La Corte di giustizia europea e il rapporto tra diritti fondamentali e libertà economiche (S. Bellomo), Proprietà privata e funzione sociale (L. Nivarra), Autonomia privata e intervento pubblico nel diritto dell’Unione (M. Barcellona), Libertà contrattuale e utilità sociale (S. Mazzamuto), Distribuzione e identità nel diritto dei contratti
(G. Marini), Il risarcimento del danno non patrimoniale e i principi generali del diritto europeo (G. Conte), Interventi programmati di G. Bascherini, B. Checchini, L. Cruciani, G.
Ramaccioni, G. Repetto. Terza sessione: Diritti fondamentali e libertà economiche: principi europei e tradizioni giuridiche nazionali (presieduta da S. Rodotà), Interventi di Luigi
Ferrajoli, M. Jaeger, G. Raimondi, A.V. Sempere Navarro, G. Silvestri.
Tutela dei diritti e «sistema» ordinamentale
Capri, 31 marzo/1-2 aprile 2011
VI Convegno Nazionale SISDiC, Società Italiana degli Studiosi del Diritto Civile
Prima sessione: Principi, diritti e interessi (presieduta da F. Bile): Gli artt. 24 e 111 della
Costituzione come principi unitari di garanzia (A. Travi), L’uso delle categorie da parte del
376
2011
costituente: diritti soggettivi e interessi legittimi (A. Federico), Ordinamento costituzionale
della giustizia e pluralità di giurisdizioni (F.S. Marini), Giurisdizione civile e amministrativa: il labile confine (R. Tommasini), Interessi, situazioni sostanziali e moltiplicazione delle
competenze a giudicare: le autorità indipendenti (M. Libertini), Giustizia nazionale e ordine
europeo (P. Caretti). Seconda sessione: Le situazioni soggettive fra diritto sostanziale e processo (presieduta da A. Proto Pisani), «Privatizzazione» del diritto amministrativo: beni e
situazioni nel rapporto pubblico/privato (F. Padovini), I danni da lesione di diritti e di interessi (M. Franzoni), Qualificazione e tutela delle situazioni non patrimoniali nel rapporto
pubblico/privato (G. D’Amico), La c.d. «amministrativizzazione» dell’iniziativa economica privata (S. Amorosino), Controllo giudiziale sulle attività e sulle situazioni soggettive nei
rapporti di mercato (A. Zoppini), Caratteri dei poteri dispositivi negli enti e nelle articolazioni patrimoniali (G. Ferri jr.), Qualificazione degli interessi e criteri di valutazione
dell’attività privata funzionale tra libertà e discrezionalità (buona fede/affidamento/eccesso/abuso) (E. del Prato). Terza sessione: Autorità indipendenti e settori di competenza
(presieduta da G. Gabrielli): I poteri delle autorità indipendenti; forme dei procedimenti e
tipologia delle decisioni (A. Briguglio), Oggetto delle decisioni e garanzie costituzionali (V.
Ricciuto), Effetto conformativo delle decisioni delle autorità indipendenti nei rapporti tra privati (M.R. Maugeri), Tutela dei terzi interessati nei procedimenti innanzi alle autorità (P.
Sirena), Decisioni e oggetto della cognizione in sede di controllo giurisdizionale (F. Criscuolo), Attribuzioni delle autorità e fondamento costituzionale (T.E. Frosini). Sessione conclusiva, Tavola rotonda: Tutela e unità della giurisdizione (presieduta da A. Tizzano): Autonomia e indipendenza (C. Marzuoli), Terzietà e imparzialità (C. Consolo), Competenze
e specializzazioni (I. Pagni), Argomentazione e motivazione (M. Orlandi), Uniformità dell’interpretazione e rapporto tra giudicati (M. Nuzzo). Chiusura dei lavori (P. Perlingieri).
Seminari di approfondimento di Diritto Civile 2010/2011
Milano, 11-26 maggio 2011
Università Commerciale Luigi Bocconi, Scuola di Giurisprudenza
Delle due giornate dei lavori si segnala, in particolare, la prima (introdotta da E. Lucchini
Guastalla): Il recesso dai contratti di credito al consumo (F. Padovini), La portabilità del
mutuo bancario dopo l’attuazione della nuova direttiva sul credito al consumo (P. Sirena).
I rimedi contro l’inattuazione dello scambio
Treviso, 20-21 maggio 2011
Ordine degli Avvocati di Treviso, Fondazione dell’Avvocatura Trevigiana, Università
degli Studi di Padova, Unione dei Consigli dell’Ordine del Triveneto
Osservatorio/Convegni
377
Prima giornata (presieduta da G. Cian): I nuovi danni (P. Trimarchi), L’azione di adempimento (C. Scognamiglio), La risoluzione per inadempimento (G. Amadio), Il risarcimento del danno da risoluzione (G. Villa), I rimedi contro le sopravvenienze (F. Macario),
La caducazione dei contratti della pubblica amministrazione (L. Garofalo), Profili processuali della pretesa risolutoria (M. De Cristofaro). Seconda giornata (presieduta da G.
Gabrielli): Risoluzione e recesso (F. Padovini), Risoluzione e contratti tipici (S. Delle Monache), Presupposizione e rimedi risolutori (M. Maggiolo), Rimedi sinallagmatici e contratto del consumatore (G. De Cristofaro).
I nuovi scenari del credito. Problemi e prospettive
Napoli, 15 giugno 2011
Fondazione dell’Avvocatura Napoletana per l’Alta Formazione Forense, Università
degli Studi di Napoli “Federico II”, Polo delle Scienze Umane e Sociali Facoltà di Giurisprudenza, Dipartimento di Diritto Comune Patrimoniale, Dottorato di Diritto comune patrimoniale, Dottorato di Diritto della banca e del mercato finanziario
Sessione mattutina: Introduzione: Il diritto delle banche tra trasparenza e mercato (M.
Rispoli Farina), L’evoluzione recente del sistema bancario italiano e le sfide da fronteggiare
all’indomani della crisi finanziaria globale (A. Lopes), Le finalità della vigilanza nel settore bancario e finanziario (S. Amorosino), I nuovi soggetti del Testo Unico Bancario (F. Belli), La nuova normativa di trasparenza delle condizioni contrattuali (A.A. Dolmetta), Crediti ipotecari e finanziamenti: le norme a tutela dei clienti (G. Falcone). Sessione pomeridiana: Presiede e conclude (M. Porzio), Mille proroghe e usura (P. Serrao d’Aquino), Il
credito al consumo (G.L. Carriero), La soluzione extragiudiziale delle controversie nel settore bancario e finanziario (E. Quadri), La regolazione bancaria e finanziaria dopo la crisi (V. Santoro), I problemi regolatori del rating (L. Picardi), Interventi e discussione.
Il Feasibility Study e la prospettiva di uno strumento opzionale sul diritto
europeo dei contratti
Roma, 9 settembre 2011
Consiglio Nazionale Forense
Introduzione (G. Alpa), Dal Draft Common Frame of Reference al Feasibility Study (A.
Veneziano), Principî generali e diritto privato europeo (C. Scognamiglio), Il rapporto tra
la Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di beni mobili e il Feasibility Study
(M. Meli), Il regime delle invalidità negoziali (G. De Cristofaro), Scioglimento unilaterale
del contratto fra recesso e mezzi di impugnazione (F. Padovini). Con la partecipazione di
A.M. Bernini.
378
2011
Contratti fra imprese e tutela dell’imprenditore debole
Verona, 16-17 settembre 2011
Università degli Studi di Verona, Facoltà di Giurisprudenza, Dipartimento di Studi
Giuridici, Ordine degli Avvocati di Verona, Ordine dei Commercialisti di Verona
Convegno introdotto da F. Ruscello, presieduto e concluso da D. Messinetti. Neoformalismo e tutela dell’imprenditore debole (F. Addis), L’invalidità come strumento di tutela
del contraente debole (A. Gentili), Forme di controllo, rapporti tra imprenditori e principio
di proporzionalità (V. Pescatore), L’abuso di dipendenza economica. Oltre i confini della
subfornitura (E. Capobianco), Contratti di rete e modalità di partecipazione. I rapporti interni fra responsabilità e conflitti d’interesse (F. Macario), Subfornitura e strumenti di tutela
dell’imprenditore debole (F. Prosperi), Agenzia e “abusi” del preponente (A. Barba). Intervento programmato: Il franchising e l’introduzione dei rimedi di disclosure (M.M. Parini).
Contratto e Reato
Camerino, 23-24 settembre 2011
UNICAM, Università di Camerino, Facoltà di Giurisprudenza, Scuola di specializzazione in Diritto civile, Dottorato di ricerca in Diritto civile nella legalità costituzionale,
Fondazione Scuola di Alta Formazione Giuridica, Università di Perugia, Centro di Studi
Giuridici sui Diritti dei Consumatori, Polo scientifico-didattico di Terni, SISDiC, Società Italiana degli Studiosi del Diritto Civile, Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Camerino, Comune di Camerino
Prima giornata (presieduta da A. Luna Serrano): Atto illecito e contratto illecito: quale
connessione? (F.D. Busnelli), Il diritto penale come strumento di regolazione del mercato e
dell’autonomia contrattuale (A. Di Amato), Illiceità penale e illiceità civile (M. Rabitti),
Norme penali e nullità virtuale (M. Mantovani), Norme penali e nullità di protezione (F.
Venosta), Autonomia privata, abuso del diritto e illecito fiscale (A. Gentili), Illiceità della
funzione negoziale e reato (S. Polidori), Reati contratto e reati in contratto (I. Leoncini),
Illiceità penale della condotta e invalidità del contratto (F. Di Marzio), Inadempimento e
reato (A. Di Martino), Intervento programmato di U. Pioletti. Seconda giornata (presieduta e conclusa da P. Perlingieri): Reati fallimentari e contratti a valle (M. Nuzzo), Il contratto usurario (A.A. Dolmetta), Contratto e insider trading (L. Foffani), Normativa antiriciclaggio e obblighi dei professionisti (A. Castaldo), Qualificazione fiscale dei contratti di
impresa: abuso e rilevanza penale (S. Fiorentino).
Osservatorio/Convegni
379
La trasparenza bancaria, oggi. Novità in tema di rapporti banca-cliente
Macerata, 6-7 ottobre 2011
Università degli Studi di Macerata, Facoltà di Economia, Laboratorio Fausto Vicarelli,
Dipartimento di Diritto privato e del lavoro italiano e comparato, Dottorato di ricerca
in diritto commerciale dell’Università di Catania
Prima giornata: Introduce e presiede (A. Nigro), La trasparenza e la correttezza quale nuovo pilastro della vigilanza bancaria (B. Szego), Sistema e sottosistemi nella nuova disciplina della trasparenza bancaria (A. Mirone), La competenza sulle pratiche commerciali scorrette (V. Meli), Il concetto di “chiarezza” nel rapporto bancario (U. Morera), Il credito al
consumo (M. Maugeri). Seconda giornata: Presiede e conclude (P. Abbadessa), La categoria della nullità di protezione (A.A. Dolmetta), Il nuovo jus variandi (F. Ferro-Luzzi),
Il recesso dal contratto a tempo indeterminato (A. Sciarrone Alibrandi), Il costo delle informazioni (M. Sciuto), Gli strumenti di risoluzione delle controversie fra banca e clienti
(G. Olivieri), Trasparenza bancaria e trasparenza finanziaria a confronto (A. Niutta).
Le liberalità indirette. La responsabilità del produttore. Convegno in
onore del Professor Ugo Carnevali
Parma, 7 ottobre 2011
Università degli studi di Parma, Facoltà di Giurisprudenza, Dipartimento di Scienze
Giuridiche
Convegno presieduto da N. Irti. Relazioni su Le liberalità indirette: Mandato e procura (G.
Cian), Liberalità indirette soggette al potere di rifiuto (G. Benedetti), Società indirette (G.
Iudica), La rinunzia all’azione di riduzione (G. Bonilini), L’adempimento del terzo (M.
Orlandi). Relazione su La responsabilità del produttore: La responsabilità del produttore
(G. Alpa).
La regolazione dei mercati di settore tra Autorità indipendenti nazionali e
organismi europei
Milano, 19-20 ottobre 2011
Università degli Studi di Milano, Facoltà di Scienze Politiche, Dipartimento Giuridico-Politico
Intervento introduttivo: Le nuove Autorità di regolazione dell’Unione Europea (P. Bilan-
13*.
380
2011
cia). Prima sessione: Il mercato finanziario: Le competenze dell’European Securities and
Markets Autorithy (P. Troiano), La regolazione dei mercati tra diritto europeo e diritto
interno (C. Comporti), La regolazione del mercato finanziario attraverso gli intermediari
fiscali: le prospettive della euro ritenuta sul risparmio (G. Marino). Seconda sessione: La
vigilanza sulle banche: La riforma della vigilanza finanziaria in Europa: passo in avanti o
occasione perduta? (D. Masciandaro), Gli effetti dell’istituzione dell’European Banking Authority sull’ordinamento nazionale del credito (R. D’Ambrosio). Terza sessione: Il controllo giurisdizionale sugli atti delle Autorità indipendenti: Regolazione e sindacato giurisdizionale (R. Chieppa), Il potere regolamentare delle autorità indipendenti (V. Angiolini).
Quarta sessione: Il mercato dell’energia: Dall’armonizzazione al mercato unico: il ruolo
del regolatore europeo (V. Termini), Il ruolo dell’Agenzia per la Cooperazione tra i Regolatori dell’Energia (G. Napolitano), L’Agenzia per la Cooperazione tra i Regolatori dell’Energia: organismo europeo di regolazione o di coordinamento dei regolatori nazionali?
(L. Ammannati). Quinta sessione: Il mercato delle comunicazioni elettroniche: Regole e
regolatori del mercato delle comunicazioni elettroniche (R. Viola), Una “sunset clause” per
le autorità di regolazione? (V. Zeno-Zencovich). Relazione di sintesi di L. Torchia.
Convegno in ricordo di Luigi Mengoni dieci anni dopo e di presentazione
di due volumi di suoi Scritti
Milano, 21 ottobre 2011
Università Cattolica del Sacro Cuore, Facoltà di Giurisprudenza, Istituto Giuridico
Prima sessione: Presiede e introduce (T. Treu), Luigi Mengoni nella civilistica italiana del
novecento (P. Grossi), Un giurista complesso e unitario (F. Benatti), L’apporto alla dottrina
del metodo (G. Zaccaria), Il privatista tra metodo e diritto positivo (L. Nogler), Ermeneutica e dogmatica (G. Benedetti). Seconda sessione: Presiede e introduce (G.B. Ferri), L’obbligazione (A. di Majo), La tutela dei diritti (S. Mazzamuto), La famiglia: una concezione neo-istituzionale? (A. Nicolussi), L’ultimo dialogo con Luigi Mengoni (N. Irti), Il significato vivente di Luigi Mengoni nei suoi Scritti (C. Castronovo).
La tutela dei “soggetti deboli” tra diritto internazionale, diritto dell’Unione europea e diritto interno
Imperia, 21- 28 ottobre, 4-11-18 novembre 2011
Università degli Studi di Genova, Dipartimento G.L.M. Casaregi, Dottorato in Diritto
civile, societario e internazionale
Delle molte giornate di cui si sono composti i lavori si segnala, in particolare, la prima
Osservatorio/Convegni
381
dedicata a La parte debole nei contratti: Prima sessione: Presiede e introduce (V. Roppo),
I recessi di pentimento (A.M. Benedetti), Il credito al consumo (G. De Cristofaro), Il creditore debole (M. Grondona), Asimmetrie economiche, informative e conoscitive nei contratti
di risparmio: un modello di paternalismo liberale? (R. Natoli), Lo ius variandi (S. Pagliantini). Seconda sessione: Presiede e introduce (F. Munari), The European Legislation
on Contractual Aspects (J. Carruthers), Autonomia privata e suoi limiti nel Regolamento
Roma I (P. Franzina), La tutela del consumatore nel diritto (internazionale privato) UE
(I. Queirolo), Il contratto di lavoro nella prospettiva europea (I. Viarengo), I contratti di assicurazione e la legge regolatrice (P. Celle), Il passeggero quale parte debole del contratto di
trasporto (L. Carpaneto).
I valori della convivenza civile e i codici dell’Italia unita
Roma, 15-16 novembre 2011
Unione dei Privatisti, Accademia Nazionale dei Lincei
Sessione d’apertura (presieduta da A. Falzea, L. Maffei, G. Amato): Relazioni introduttive
di P. Rescigno e G. De Rita. Seconda sessione: Le culture politiche dell’Italia unita e l’idea
di codice (presieduta da P. Grossi): Introduzione (L. Villari), Dal Risorgimento al tramonto
dello Stato liberale (G. Cazzetta), Il codice civile del 1942 e l’ideologia corporativa (G.B.
Ferri), Dal codice civile del 1942 ad oggi (G. Alpa). Terza sessione: Vicende del diritto privato (presieduta da N. Irti): Introduzione (F. Galgano), Codice civile e diritto commerciale
(P. Spada), Codice civile e diritto processuale (M. Taruffo), Codice civile e Costituzione (C.
Salvi), Codice civile e legislazione speciale (U. Breccia), Codice civile e diritto europeo (C.
Castronovo), Codice civile e globalizzazione (A. di Majo). Quarta sessione: Le forme giuridiche della convivenza (presieduta da G. Benedetti): La cittadinanza (G. Azzariti), La
famiglia (V. Scalisi), I gruppi intermedi (M.V. De Giorgi), L’impresa (R. Weigmann), Il
lavoro (L. Nogler). Conclusioni del Convegno (P. Barcellona).
La tutela dei consumatori nell’Unione Europea
Collesalvetti, 1-2 Dicembre 2011
ERA, Academy of European Law (Leyre Maiso Fontecha), Fondazione di Alta Specializzazione Forense G. Carmignani
Convegno moderato da R. Caponi e L. Maiso Fontecha. Introduzione generale – L’acquis
relativo ai diritti dei consumatori (L. Crisigiovanni), La nuova direttiva dell’UE sui diritti
dei consumatori – impatto sui consumatori e sui commercianti al dettaglio (G. Howells),
382
2011
Mezzi di ricorso collettivo – c’è bisogno di un intervento dell’UE sui ricorsi collettivi dei consumatori? (H. Micklitz), Attuazione in Italia della Direttiva in materia di credito al consumo (S. Pagliantini), I diritti dei passeggeri nell’Unione europea (J. Karsten), Responsabilità per danno da prodotti difettosi: normativa e giurisprudenza dell’UE (G. Howells),
Gruppi di lavoro: caso pratico (Jens Karsten), Presentazione dei risultati dei gruppi di lavoro, Giurisprudenza recente della CGUE. Vendita dei beni di consumo, pratiche commerciali sleali, clausole abusive, contratti a distanza (P. Iannuccelli).
Il diritto civile, e gli “altri”
Roma, 2-3 dicembre 2011
Associazione Civilisti Italiani
Prima sessione: Introduce e presiede (V. Roppo), Civile e Lavoro (C. Scognamiglio-P.
Ichino), Civile e Penale (M. Franzoni-C. Piergallini). Seconda sessione (presieduta da G.
Iudica): Civile e Commerciale (S. Delle Monache-M. Libertini), Civile e Costituzionale (E.
Navarretta-M. Luciani), Civile e Processuale civile (S. Patti-C. Consolo). Terza sessione
(presieduta e moderata da G. Alpa): Civile e Amministrativo (A. Zoppini-G. Napolitano), Il diritto civile tra frammentazione e unità del sapere giuridico (dialogo tra U. Breccia,
R. Di Raimo, A. Gentili, S. Mazzamuto, M. Orlandi, e S. Rodotà).
Le azioni di restituzione da contratto
Bologna, 16 dicembre 2011
XXIII giornata di studio della Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile
Relazione introduttiva: Il contratto e le restituzioni (G. De Nova). Relazioni: Rimedi contrattuali e restituzioni (E. Bargelli), Le restituzioni nel fallimento (L. Balestra), Diritto e
processo nelle azioni di restituzione da contratto (A. Carratta), Successione nel diritto controverso e giudicato (F. Luiso). Discussione e conclusioni.
OSSERVATORIO/ESTERO
FRANCIA
Revirements incerti e progetto di uno strumento opzionale
Nel 2011, come già nel 2010, il diritto contrattuale francese non è stato interessato
da cambiamenti di grande rilevanza. I progetti di riforma legislativa della materia, di
cui si è discusso nell’edizione del 2009 di questo Annuario (AdC 2009, p. 524), non
sono stati ancora portati a termine, ed è praticamenter certo che non accadrà nulla prima delle elezioni presidenziali, previste per la primavera nel 2012. Dal lato della giurisprudenza, le novità sono piuttosto scarse e le due più interessanti sentenze della Cour
de cassation, che potrebbero preludere a cambiamenti su aspetti molto importanti,
hanno in comune di essere state rese con grande discrezione, che ha causato qualche
incertezza sulla loro portata. Esse, tuttavia, meritano di essere menzionate, così come il
grande interesse dottrinale che ha suscitato in Francia il progetto di uno strumento
opzionale di diritto contrattuale.
Due revirements clandestini?
La Corte di Cassazione francese rende ogni anno un gran numero di decisioni. Essa ha giudicato nel 2010 20.000 casi, solamente in materia civile. Tutte queste decisioni, ovviamente, non hanno la stessa portata sul piano dottrinario e normativo. La stessa Corte opera una selezione delle decisioni che ritiene più importanti con la pubblicazione sul Bulletin de la Cour de cassation (ora interamente dematerializzato), che ne
contiene ogni anno un poco più di 1.000. Inoltre, tutte le decisioni della Corte sono
disponibili su Internet (sul sito www.legifrance.gouv.fr), anche se non pubblicate nel
Bullettin. Ma succede regolarmente che la dottrina scopra, tra le decisioni che non sono pubblicate nel Bullettin, delle decisioni interessanti, che sembrano segnare un’evoluzione nella posizione della Corte di Cassazione. Tuttavia, l’interpretazione di queste
decisioni è delicata. Può darsi che la decisione sia semplicemente “di specie”, scritta
forse un po’ affrettatamente, con la quale la Corte non ha in alcun modo inteso modificare la sua posizione tradizionale. Ma è anche possibile che questa decisione non
pubblicata sia come un “ballon d’essai”, con la quale la Corte annuncia una futura evoluzione o “tasta il terreno” in previsione di tali sviluppi. Tale problema di interpreta-
* di Jean-Sébastien Borghetti, Professeur de droit privé, Université Panthéon-Assas (Paris
II), Paris.
384
2011
zione, che si era già posto su una decisione menzionata nella precedente edizione di
questa rassegna (Adc 2010, p. 416, Cass. com., 29 giugno 2010, n. 09-67369, in D.
2010, p. 2481, con nota di D. MAZEAUD e p. 2485, con nota di T. GENICON, in RTD
civ., 2010, p. 782, con osservazioni di B. FAGES; ad oggi, la posizione assunta dalla Corte di Cassazione in questo caso, che sembrava spianare la strada nel diritto francese
alla modificazione del contratto per circostanze sopravvenute e imprevedibili, non è
stata né confermata né smentita), si pone nuovamente con riferimento a due recenti
decisioni, che potrebbe segnare un’evoluzione nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, su alcune questioni in cui la sua posizione attuale (ma è ancora tale?) è stata
molto criticata.
La prima sentenza è stata pronunciata il 6 settembre 2011 dalla prima sezione civile (Cass. civ. 3a, 6 settembre 2011, in Bull. Civ., III, n. 10-20.362, in D. 2011, p. 2838,
con nota di C. GRIMALDI). Essa riguardava la questione della efficacia della “ritrattazione” della promessa unilaterale di vendita. La promessa unilaterale di vendita è il
contratto mediante il quale il proprietario di un bene acconsente in anticipo alla vendita dello stesso a beneficio di un’altra persona, che ha a disposizione un termine durante il quale può decidere se concludere la vendita. Si tratta naturalmente di un contratto
estremamente comune nella pratica. La dottrina maggioritaria ha sempre ritenuto che
il presente contratto congelasse in qualche modo il consenso alla vendita del promissario venditore per tutta la durata dell’opzione concessa al beneficiario, e che pertanto
il consenso non potesse essere ritrattato. Secondo questa analisi, la ritrattazione della
promessa da parte del promissario prima della scadenza del termine per l’esercizio del
diritto di opzione dovrebbe essere considerata inefficace e non dovrebbe impedire al
beneficiario di concludere la vendita, a condizione che esso agisca entro il termine
previsto. La Corte di Cassazione, tuttavia, ha deciso a partire dal 1993 che la revoca
della promessa prima della scadenza del termine di opzione è efficace e che il beneficiario che pretende di esercitare l’opzione dopo questa revoca può solo ottenere il risarcimento del danno e non la conclusione del contratto promesso (Cass civ. 3a, 15
dicembre 1993, n. 91-10.199, in Bull. civ., III, n. 174, in D. 1994, p. 507, con nota di F.
BÉNAC-SCHMIDT, p. 230, in RTD civ., 1994, p. 584, con osservazioni di J. MESTRE, in
JCP, 1995, II, p. 2236, con nota di D. MAZEAUD). Anche se ampiamente criticata in dottrina, e nonostante qualche esitazione, questa soluzione è stata mantenuta fino ad ora.
Nella sua sentenza del 6 settembre 2011, tuttavia, la Corte di Cassazione ha ritenuto
che l’esercizio del diritto di opzione effettuato prima della scadenza del termine, ma
dopo la revoca aveva comportato la conclusione del contratto proposto. In questo
modo la Corte prende in contropiede la sua posizione tradizionale. I commentatori
non sono però sicuri della portata da attribuire a tale decisione. Si tratta di un revirement o no? Tenuto conto dell’importanza della questione e dell’attenzione che suscita
in dottrina, la Corte di Cassazione non poteva ignorare nel pronunciare tale sentenza
che avrebbe potuto essere interpretata come un rovesciamento della propria prece-
Osservatorio/Estero
385
dente posizione. D’altra parte, il fatto che essa non è destinata ad essere pubblicata nel
Bullettin porta a minimizzare la sua portata, tanto più che la stessa camera della Corte
di Cassazione aveva pronunciato pochi mesi prima una decisione che confermava la
posizione tradizionale (Cass civ. 3a, 11 maggio 2011, n. 10-12.875, che sarà pubblicata
nel Bullettin, in D. 2011, 1457, con nota di D. MAZEAUD), una posizione che è stata
ripresa pochi giorni dopo l’arresto del 6 Settembre dalla Camera commerciale (Cass.
com., 13 settembre 2011, 10-19.526, in D. 2012, p. 130, con nota di A. GAUDEMET).
Basti dire che regna l’incertezza, e che una presa di posizione chiara della Corte di
Cassazione, forse nell’ambito della sua assemblea plenaria, è attesa con impazienza.
Un’altra recente decisione della Corte di Cassazione ha suscitato notevoli dubbi,
questa volta sulla delicata questione degli effetti dell’inadempimento contrattuale nei
confronti di terzi. Come menzionato nella precedente edizione di questa rassegna (v.
AdC 2010, p. 418), la Corte Suprema ha adottato solennemente nel 2006 una soluzione molto discutibile, per cui «la parte terza rispetto a un contratto può far valere, sulla
base della responsabilità da fatto illecito, un inadempimento del contratto, quando
l’inadempimento le abbia causato un danno» (Cass. ass. plén., 6 ottobre 2006, in Bull.
civ. ass. plén., n. 9, in D. 2006, p. 2825, con nota di G. VINEY, in JCP 2006, II, 10181,
con nota di M. BILLIAU, in RTD civ., 2007, p. 123, con osservazioni di P. JOURDAIN).
In altre parole, qualsiasi inadempimento di un contratto è considerato fonte di responsabilità nei confronti dei terzi, senza che questi debbano dimostrare l’esistenza di un
fatto illecito ai sensi dell’art. 1382 del Code Civil. È evidente che questa regola può portare a risultati assurdi ed economicamente aberranti, nella misura in cui essa attribuisce potenzialmente a tutti i terzi un interesse protetto alla corretta esecuzione del contratto (si veda su questo punto, e sulla genesi della soluzione della sentenza del 6 ottobre 2006, J.-S. BORGHETTI, Breach of contract and liability to third parties in French law:
how to break the deadlock?, in Zeitschrift für Europäisches Privatrecht, 2010, p. 279).
Nonostante il carattere molto criticabile di questa soluzione, la Corte di Cassazione
l’ha nuovamente enunciata nel 2010 (v. AdC 2010, p. 418). In una decisione del 15
dicembre 2011, tuttavia, la Prima Sezione Civile, che era stata la prima a enunciare la
regola fatta propria dalla Assemblea Plenaria del 2006 (Cass civ. 1a, 18 luglio 2000, in
Bull. Civ., I, n. 221, in JCP G, 2000, II, 11 415, con nota di P. SARGOS, in RTD civ.,
2001, p. 146, con osservazioni di P. JOURDAIN; 13 febbraio 2001, in Bull. civ., I, n. 35,
in D. 2001, somm. 2234, con osservazioni di Ph. DELEBECQUE, in RTD civ., 2001, p.
367, con osservazioni di P. JOURDAIN), è sembrata fare marcia indietro (Cass civ. 1a,
15 dicembre 2011, n. 10-17.691). Una vendita immobiliare era stata annullata a causa
del dolo del venditore, e di conseguenza il contratto di mutuo concluso tra una banca
e gli acquirenti per finanziare l’acquisto era stato risolto. La banca ha quindi proposto
un’azione per risarcimento danni contro l’agente immobiliare che aveva agito da intermediario per la conclusione della vendita, rimproverandogli di non aver sventato la
frode dei venditori e di averle in questo modo causato un mancato guadagno, a causa
386
2011
della risoluzione del contratto di mutuo. La Corte d’Appello aveva deciso in favore
della banca, sostenendo che l’agente immobiliare aveva violato l’obbligo di informazione, al quale era tenuto nei confronti dei compratori, fatto che comportava la propria responsabilità nei confronti della banca. Si trattava chiaramente di un’applicazione ortodossa della giurisprudenza del 2006. Tuttavia, la Corte di Cassazione ha censurato la decisione dell’appello, criticando il giudice di merito per non aver caratterizzato
la colpa quasi-delittuale (“faute quasi-délictuelle”) dell’agente immobiliare nei confronti della banca. In questo modo, la Corte ha ritenuto che il solo inadempimento
contrattuale non è una fonte di responsabilità civile nei confronti dei terzi, ma che il
debitore inadempiente non può essere ritenuto responsabile nei confronti dei terzi, se
non nel caso in cui l’inadempimento è un illecito ai sensi dell’art. 1382 del Code Civil,
vale a dire una violazione del dovere generale di diligenza o di prudenza che è richiesto
a chiunque indipendentemente dall’esistenza di qualsiasi contratto. Sia che si tratti di
un revirement, o solamente di un discostamento occasionale dalla posizione assunta
dalla Corte Suprema dal 2006, non possiamo che gioirne! Tuttavia, la questione è
tutt’altro che certa, se non altro perché la sentenza non è destinata alla pubblicazione
nel Bulletin. Inoltre, anche supponendo che la decisione segni un mutamento nell’orientamento della Corte di Cassazione, si tratta di un revirement vero e proprio, o semplicemente di una restrizione del campo di applicazione della regola enunciata nel 2006?
Questi due casi illustrano gli inconvenienti del metodo di creazione normativa rappresentato oggi dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione. Essa si è apertamente
eretta a fonte del diritto negli ultimi anni, ma non si è ancora decisa a fornire il lavoro argomentativo ed esplicativo che comporta un tale statuto, e non ha ancora posto delle
regole chiare che permettano di determinare l’esatta portata delle sue sentenze. Questo
lascia, ovviamente, alla Corte un ampio margine di manovra, ma si paga con un’incertezza e una mancanza di prevedibilità a danno delle parti. Bisogna sperare che la Corte di
Cassazione non tardi ulteriormente ad assumersi le responsabilità che comporta il potere normativo che essa rivendica.
Le reazioni al progetto di uno strumento opzionale
Il Libro verde della Commissione europea sul diritto contrattuale europeo e la recente proposta di un regolamento sul diritto comune europeo della vendita hanno suscitato in Francia reazioni molto abbondanti. In termini assoluti, tutto questo non dovrebbe sorprendere. Tuttavia, nel contesto francese, ciò non era così evidente. I giuristi francesi, e in modo particolare gli accademici, si sono tenuti per lungo tempo un po’
lontano dal movimento di armonizzazione del diritto civile in Europa. In proporzione
assai poco rappresentati nei vari gruppi di lavoro e di ricerca internazionale (Study
Group on a European Civil Code, European Group on Tort Law, ecc.), hanno tardato a
vedere nei progetti europei di armonizzazione del diritto civile, compreso il diritto dei
Osservatorio/Estero
387
contratti, materie di studio a sé stanti. Certo, questi progetti non sono stati ignorati
dagli specialisti, ma non hanno ricevuto la stessa attenzione come in molti altri paesi.
Erano praticamente assenti, in particolare, dall’insegnamento impartito agli studenti.
L’attuale progetto sul diritto comune europeo della vendita mostra che le cose stanno
cambiando. Non solo il Libro Verde ha suscitato un interesse senza precedenti da parte degli accademici francesi (vedi le risposte disponibili sul sito web della Commissione, alcune delle quali sono state raggruppate nel libro: M. BEHAR-TOUCHAIS e M.
CHAGNY (a cura di), Livre vert sur le droit européen des contrats. Réponses du réseau
Trans Europe Experts, in SLC, 2011), ma il progetto di uno strumento opzionale sembra destinato a diventare un vero soggetto di studio e di insegnamento. Vale la pena
segnalare il ruolo svolto a questo proposito dal gruppo Trans Europe Experts (TEE).
Creato nel 2009 da alcuni accademici francesi (Carole Aubert de Vincelles, Bénédicte
Fauvarque-Cosson, Denis Mazeaud, Catherine Prieto e Judith Rochfeld) desiderosi di
migliorare la partecipazione dei giuristi, in particolare francesi, all’elaborazione del diritto europeo e di rafforzare il loro interesse per le questioni giuridiche europee, questo gruppo gioca fin dalla sua creazione un ruolo importante nella mobilitazione dei
giuristi francesi sulle questioni europee (peraltro, esso ospita anche molti giuristi provenienti da altri paesi europei). Esso ha seguito da vicino lo sviluppo del progetto di
uno strumento opzionale e ha organizzato un primo seminario internazionale sul tema, particolarmente ricco, nel mese di novembre 2011 (sotto la direzione del professor Olivier Deshayes). Più in generale, esso sostiene e incoraggia l’investimento crescente dei giuristi francesi nelle questioni di diritto (civile) europeo.
Naturalmente, questo maggiore investimento non significa che tutti i giuristi francesi, o anche solamente tutti i partecipanti del gruppo TEE, siano favorevoli ai progetti
di armonizzazione della Commissione. Numerosi sono coloro che hanno criticato il
carattere “trompe-l’oeil” della consultazione sul Libro verde (in quanto la Commissione ha iniziato a lavorare a uno strumento di armonizzazione prima ancora della
chiusura della consultazione). Inoltre, a parte la nota opposizione di alcuni professori
francesi a qualsiasi armonizzazione del diritto civile, non sono mancate le voci che
hanno denunciato i problemi di articolazione con i diritti nazionali posti dall’attuale
progetto di uno strumento opzionale. Al di là della legittima diversità di opinione, tuttavia, bisogna rallegrarsi che i giuristi francesi sembrino più interessati rispetto a prima
nei lavori e nei progetti europei di armonizzazione. Speriamo che facciano sentire la
loro voce sulla scena europea.
***
14.
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2011
GERMANIA
Progetto di riforma del diritto della navigazione
Nel 2011 ci sono stati ancora una volta un certo numero di decisioni interessanti in
materia di diritto contrattuale, oltre a un progetto già da lungo tempo predisposto di
riforma del diritto della navigazione. Il progetto di riforma presentato nel maggio del
2011 dal Ministero federale della giustizia merita di essere qui discusso per primo. Esso prevede una riforma e una modernizzazione completa del diritto marittimo tedesco
che è codificato nel quinto libro del codice commerciale (HGB). Per quanto riguarda
il suo contenuto, esso prevede regole di diritto commerciale, diritto delle società, diritto contrattuale, diritto dei valori mobiliari e diritto processuale. Dovrebbe essere abolita l’istituzione risalente al medioevo del Partenreederei (§§ 489-508 HGB). Si tratta
di una particolare forma di società, il cui elemento centrale è la comproprietà di una
nave. Inoltre, dovrebbe essere abolita la Verklarung (§§ 522 ss. HGB), una procedura
particolare per l’assunzione di prova circa le circostanze di fatto che hanno caratterizzato un incidente di navigazione. Dovrebbero essere modificate e allineate con il resto
del diritto dei valori mobiliari le regole sulla polizza di carico. Non più adeguata ai tempi
è considerata anche la responsabilità quasi-contrattuale del capitano per l’esecuzione
dei contratti conclusi dall’armatore (§§ 511 s. HGB), dove siamo in presenza di una
disposizione di puro diritto contrattuale. Questo speciale tipo di responsabilità aveva il
suo fondamento nel fatto che in origine al capitano veniva attribuita una posizione
analoga a quella dell’imprenditore.
Nel complesso, il progetto di legge è fortemente orientato verso le Regole di Rotterdam del 2008. Tuttavia, vi sono anche alcune differenze. Una corrispondenza sussiste con riferimento alla responsabilità per ritardata consegna della merce e colpa nautica. Viene esclusa la responsabilità del vettore per i danni che sono attribuibili a colpa
dell’equipaggio nella gestione della nave. Per questo non sarà più necessaria una esclusione espressa della responsabilità. A parte ciò, il progetto di legge prevede che i limiti
di responsabilità per danni a beni siano significativamente aumentati, ad esempio addirittura dell’80 per cento per i veicoli. Inoltre, il vettore non sarà più responsabile per
le operazioni di salvataggio, né per le operazioni volte a salvare vite umane e a prevenire o limitare i danni ambientali. Anche la responsabilità per i danni derivanti da un
inadempimento nel trasporto di merci dovrebbe essere limitata a una certa somma. La
limitazione è pari a tre volte l’importo che avrebbe dovuto essere pagato in caso di
perdita dei beni. D’altra parte, dovrebbe essere introdotta la responsabilità del cosiddetto vettore esecutivo. Questo soggetto esegue il trasporto senza essere personal* Luisa Bartels, Wissenschaftliche Mitarbeiterin, e Walter Doralt, Referent, Max-PlanckInstitut für ausländisches und internationales Privatrecht, Hamburg.
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mente controparte del caricatore. Anche il progresso della tecnologia ha reso necessarie alcune modifiche: dovrebbero essere introdotte nuove possibilità per l’uso di documenti di trasporto elettronici, quale la fattura elettronica di carico, il che corrisponde anche alle Regole di Rotterdam. Invece, una differenza rispetto alle Regole di Rotterdam si pone con riferimento alla libertà delle parti di definire i loro contratti
nell’ambito dell’autonomia privata. Le imprese dovrebbero essere in grado di adeguare i loro contratti per riflettere le reali condizioni tra loro. In futuro, qualsiasi deviazione rispetto alla legge, che sia stata oggetto di una trattativa individuale tra le parti di un
contratto di trasporto di merci sarà ammessa. In questo modo, ci si adeguerà a quanto
già avviene nella realtà, dal momento che nella prassi commerciale già oggi deviazioni
rispetto alla legge sono spesso convenute. Più in generale, si trovano nel progetto diverse modifiche del diritto dei contratti che sono rilevanti per la pratica del commercio marittimo e per il diritto contrattuale. Per questa ragione, soprattutto nelle città
portuali di Brema e di Amburgo, in cui hanno sede grandi compagnie di navigazione,
operatori portuali e aziende di logistica, l’interesse per la riforma è grande.
**
Libretto di risparmio e prova dell’esistenza del credito
Vale la pena di riferire di una interessante decisione della Corte d’Appello di Francoforte (sentenza del 2011/02/16, Az.: 19 U 180/10). Il padre dell’attore era morto
nel 2007 e aveva lasciato a suo figlio un libretto di risparmio, sul quale nel 1959 erano
stati depositati 106 mila marchi tedeschi. Successivamente non erano stati registrati
altri movimenti. L’attore aveva chiesto alla banca il saldo del conto e il pagamento della somma. La banca aveva negato l’autenticità del libretto di risparmio. Inoltre, essa
non era riuscita ad accertare nei propri archivi se il dipendente che aveva firmato il libretto aveva il potere di firma. Infine, essa non aveva trovato nella propria documentazione alcuna prova che la somma fosse stata effettivamente versata. Dopo che già in
primo grado il Tribunale di Francoforte mediante una perizia aveva accertato l’autenticità del libretto, anche la Corte d’Appello di Francoforte ne ha ritenuta provata l’autenticità. Si è dunque ritenuto che il libretto di risparmio ha valore di prova e che
un’inversione dell’onere della prova si determina solo in presenza di particolari circostanze. Il semplice fatto che la somma registrata sia molto elevata o che nessun movimento sia stato registrato dal 1959 non determina un’inversione dell’onere della prova. Neppure l’eccezione opposta dalla banca circa il difetto di autorizzazione del dipendente che aveva firmato il libretto ha convinto la Corte: un cliente non potrebbe
nella sua qualità di risparmiatore provare che il dipendente della banca che firma il libretto è autorizzato a farlo. Se la banca mette in discussione l’autenticità della firma o
il potere del dipendente di firmare il libretto, a lei spetta il relativo onere della prova.
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2011
Questo vale anche dopo che sia scaduto il termine di custodia previsto dal diritto commerciale, perché altrimenti la banca dopo lo scadere di questo termine sarebbe liberata
dall’obbligo di restituire la somma. Infatti, sarebbe sufficiente negare l’autenticità della
firma o il potere di firmare del dipendente. Secondo la Corte d’Appello di Francoforte
un simile risultato non sarebbe tollerabile, perché in questo modo la banca potrebbe
porre nel nulla a suo piacimento il valore probatorio del libretto di risparmio.
**
Abuso del diritto
Anche il secondo caso non è stato deciso dalla Corte Suprema, ma è comunque abbastanza interessante da essere qui segnalato, perché affronta la questione relativamente
poco frequente dell’abuso del diritto e pone interessanti raffronti con la disciplina
dell’errore. Nella specie, il Tribunale di Monaco di Baviera (sentenza 2009/04/11, Az.:
163 C 6277/09) ha dovuto decidere la seguente questione. Il ricorrente aveva fatto
una ricerca su Internet per acquistare un viaggio. Attraverso un tour operator aveva
prenotato un viaggio a Dubai, che normalmente costa circa 4.700 euro, a meno di
1.400 euro. Prima di prenotare l’attore aveva anche chiesto più volte per telefono, se il
prezzo su Internet era corretto. Ciò gli era stato confermato. In seguito il tour operator
si era rifiutato di adempiere alla prestazione, invocando un errore del software. Il cliente aveva agito in giudizio chiedendo un viaggio sostitutivo. In subordine, aveva chiesto
il rimborso del deposito e il risarcimento del danno per ferie non godute. Il tour operator convenuto si era opposto a queste richieste. In particolare, esso ha sottolineato
l’evidente disparità tra prezzo e prestazione convenuta, circostanza che rendeva abusiva la pretesa che il contratto venisse adempiuto. Il Tribunale di Monaco ha innanzitutto respinto la domanda rivolta a ottenere un viaggio sostitutivo, in quanto infondata.
Successivamente, ha valutato se era dovuto un risarcimento del danno. Il giudice è arrivato alla conclusione che secondo buona fede in caso di un prezzo inferiore di circa il
30 per cento rispetto a quello usuale era presente un evidente squilibrio tra le prestazioni, in quanto tale riconoscibile dalla parte che ne era avvantaggiata. In questa situazione la pretesa che il contratto sia adempiuto sarebbe abusiva, anche tendendo conto
del fatto che l’attore ha chiesto più volte una conferma telefonica. Non si può ragionevolmente pretendere che il tour operator sia obbligato ad adempiere alla propria prestazione a queste condizioni. Pertanto, l’attore ha solamente il diritto di pretendere la
restituzione del deposito versato. La soluzione può sembrare sorprendente: quale altra
possibilità ha il consumatore che trova su internet una offerta particolarmente vantaggiosa che chiedere una conferma telefonica all’offerente, se il prezzo è effettivamente
corretto? È possibile che la questione avrebbe potuto essere risolta in modo più convincente se fosse stato chiesto l’annullamento del contratto, dove si sarebbero dovute
Osservatorio/Estero
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applicare le regole tedesche in materia di errore. Che in questo caso si sia scomodata la
categoria dell’abuso del diritto dipende forse da questa circostanza.
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Contratto con obblighi di protezione a favore del terzo
Un altro caso (BGH, 12 gennaio 2011 – VIII ZR 346/09) ha ad oggetto un’automobile incidentata, che era stata offerta su Internet da parte del convenuto per conto
del venditore. Nelle foto caricata sul sito si vedeva un impianto di condizionamento.
Tuttavia, nel testo che accompagnava l’offerta era indicato chiaramente che questo impianto non faceva parte dell’offerta. L’attore era specializzato nell’acquisto di rottami e
aveva acquistato la macchina perché interessato in modo particolare all’impianto di
condizionamento. Prima della consegna dell’automobile all’attore, l’impianto di condizionamento era stato disinstallato. In giudizio, l’attore chiedeva al convenuto il risarcimento di un danno pari a quanto pagato per l’acquisto e il montaggio di un impianto di
condizionamento usato dello stesso tipo di quello di cui si discuteva. Dal momento che
il convenuto non era il venditore, l’attore aveva fondato la propria pretesa sull’istituto
del contratto con obblighi di protezione a favore del terzo. In questo caso, sussiste un
rapporto obbligatorio, dal quale può sorgere una pretesa al risarcimento del danno, anche tra due parti che non sono parti di un contratto. Tuttavia, il BGH ha chiarito che
nella specie, dove il contenuto dell’offerta del venditore poteva essere verificato, non
c’era l’esigenza di tutelare l’attore e pertanto non c’erano i presupposti per una possibile
azione. Inoltre, il BGH ha chiarito che l’azione per l’esatto adempimento – indipendentemente dalla sussistenza di un’azione per il risarcimento del danno – è di rango superiore rispetto a una tale azione per il risarcimento del danno. Pertanto, al venditore
spetta il diritto a una seconda possibilità di adempimento, prima che egli possa essere
convenuto per il risarcimento del danno subito dal venditore, rimedio che nella specie
era molto più gravoso.
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Nullità del contratto di cartomanzia
Un altro caso curioso è stato deciso dalla Corte d’Appello di Stoccarda (8 aprile
2011 – 7 U 191/09 “Life-Coaching”). Nella specie si trattava di una “consulenza esistenziale” resa sulla base della lettura delle carte. L’attrice è una cartomante che aveva
letto le carte al telefono per il convenuto durante un periodo di crisi della sua vita e gli
aveva dato dei consigli. Dopo che il convenuto aveva già pagato 35.000 euro per una
simile prestazione, l’attrice pretendeva il pagamento degli ulteriori 6.723,50 euro an-
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cora dovuti. In primo grado, questa pretesa era stata respinta sulla base dei §§ 326, Abs
1, Satz 1, 275 Abs 1 BGB, ai sensi dei quali la pretesa al pagamento della controprestazione viene meno quando l’obbligazione principale è impossibile. Nella specie infatti
si era ritenuto che la prestazione promessa dall’attrice, richiedendo il ricorso a poteri
magici, fosse oggettivamente impossibile. La Corte invece ha ritenuto possibile che le
parti sulla base del principio dell’autonomia privata convenissero una prestazione, il
cui contenuto e i cui effetti non potevano essere provati sulla base delle conoscenza
tecniche e scientifiche del momento storico, ma che corrispondeva invece a un convincimento interno anche se basato su una credenza irrazionale e non dimostrabile a
terzi. Tuttavia, era possibile, secondo la Corte, che il contratto fosse contrario al buon
costume ai sensi del § 138 BGB, dal momento che esso era stato concluso durante un
periodo di grave crisi esistenziale del convenuto.
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Costituzione di dote e contrarietà al buon costume
Il caso successivo riguarda l’immoralità di un accordo per la costituzione di una dote (OLG Hamm, 13 gennaio 2011-18 U 88/10, “Brautengeld”). Gli attori avevano pagato al padre della sposa convenuto in giudizio 8.000 euro in occasione di una festa di
fidanzamento celebrata secondo la fede degli Yazidi. Dopo il fallimento del matrimonio, gli attori volevano ottenere questi soldi indietro. Nell’atto di citazione essi si basano sulla domanda di arricchimento senza causa ai sensi del § 812 Abs 1 BGB. La Corte
d’Appello di Amburgo, tuttavia, ha deciso che in questo caso si applica la condizione
ostativa prevista dal § 817 Satz 2 BGB: in pari turpitudine melior est causa possidentis. In
applicazione di questo principio, è esclusa la restituzione di una prestazione che è stata
resa in modo contrario all’ordine pubblico. Secondo la legge degli Yazidi, il pagamento
della dote è un requisito necessario del matrimonio. Senza questa prestazione una
coppia non può contrarre validamente matrimonio. Tuttavia, ciò contraddice al principio fondamentale di tolleranza, cui in Germania è riconosciuto valore preminente.
Ciò è rilevante ai sensi del § 138 BGB. I diritti fondamentali della libertà di matrimonio, tutelato dall’art. 6 Abs 1 della Costituzione tedesca (Grundgesetz) e della dignità
umana, tutelato dall’art. 1 Abs 1 Grundgesetz, impongono che il vincolo matrimoniale
abbia alla base il (mero) libero arbitrio e non interessi puramente economici. Per questa ragione, l’accordo costitutivo di dote è immorale ai sensi del § 138 BGB. Di conseguenza, § 817 Satz 2 BGB è applicabile.
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Osservatorio/Estero
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Luogo di adempimento della prestazione di riparazione
Infine, occorre riferire di una decisione della Corte Suprema (BGH, 13 aprile 2011VIII ZR 220/10). Nella specie si trattava di determinare il luogo di esecuzione della
prestazione di riparazione da parte del venditore di un bene viziato. L’attore aveva acquistato un carrello per una tenda da campeggio da un convenuto che aveva la propria
sede a Polch (Germania). Nella ricevuta di consegna era scritto che l’acquirente avrebbe dovuto ritirare da sé il bene. Tuttavia, il veditore aveva consegnato il carrello presso
il domicilio dell’acquirente. Dopo avere utilizzato il carrello per andare in vacanza,
l’attore aveva denunciato l’esistenza di un vizio. Chiedeva la riparazione entro un certo
termine e pretendeva che il venditore ritirasse il carrello presso la sua abitazione. Il venditore non diede seguito alla richiesta. Di conseguenza, l’attore aveva chiesto la risoluzione del contratto e pretendeva la restituzione del prezzo oltre agli interessi contro la
restituzione del carrello. In primo luogo, il BGH ha chiarito che nella specie non era
stato stabilito in quale luogo avrebbe dovuto essere adempiuto l’obbligo di riparazione.
Ha ritenuto che, in caso di mancata determinazione di comune accordo del luogo di
adempimento dell’obbligazione di riparazione, occorre avere riguardo a tutte le circostanze del caso. In questo caso, l’eliminazione del vizio era possibile solo mediante il
ricorso al personale specializzato e alle conoscenze tecniche del convenuto. In considerazione di ciò, si doveva ritenere che la riparazione presso il luogo in cui si trovava il carrello fosse complicata a causa della necessità di trasportare personale e macchinari da
parte del convenuto. Di contro, il trasporto del carello a Polch sarebbe stato relativamente poco complicato per l’attore. Pertanto, il luogo dove doveva essere adempiuto
l’obbligazione di riparazione era il luogo dove era situata l’azienda del venditore, e cioè
Polch. Di conseguenza, la domanda è stata respinta, dal momento che l’attore non aveva preteso che la riparazione avvenisse nel luogo corretto.
***
POLONIA
L’estensione della responsabilità nel contratto di assicurazione sulla responsabilità civile per l’uso di veicoli
Il 17 novembre 2011 la Corte Suprema polacca (causa III CZP 5/11) si è espressa
sull’estensione della responsabilità dell’assicuratore in caso di danneggiamento di un
veicolo. In molti casi, gli incidenti stradali determinano l’impossibilità di utilizzare
* di Dr Marcin Czepelak, Uniwersytet Jagielloński, Cracovia.
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2011
l’automobile, o perché va riparata, o perché il danneggiato deve attendere di ottenere
il risarcimento per poterne acquistare una nuova. La questione controversa è se il proprietario di un veicolo danneggiato abbia diritto al risarcimento delle spese per il noleggio di un’auto sostitutiva della danneggiata. L’orientamento della giurisprudenza
polacca sul punto non è consolidato.
Esso infatti fa riferimento alla sola prassi degli assicuratori, sebbene vi sia stato un
tentativo di uniformazione attraverso strumenti di “soft law” da parte della Polish Insurance Association che ha eleborato Guidelines for hiring a replacement vehicle in the framework of compulsory contracts of civil liability insurance of the possessors of motor vehicles [linee guida per la sostituzione di veicoli nel quadro dei contratti obbligatori di responsabilità civile per i proprietari di veicoli a motore]. Il documento ha previsto la
possibilità di coprire i costi del noleggio dell’auto sostitutiva, ma solo nei casi in cui sia
impossibile per il danneggiato soddisfare altrimenti i propri bisogni, specialmente servendosi del servizio di trasporto pubblico. Tale soluzione è stata contestata dal Polish
Insurance Ombudsman, il quale ha sottoposto la questione alla Corte Suprema affinché
si esprimesse sul punto. Secondo l’Act on the Supreme Court del 2002, essa è infatti
competente a giudicare sui contrasti interpretativi di leggi fra le diverse Corti. La Corte Suprema ha seguito l’Ombudsman nell’affermazione per cui il rimborso del noleggio
di un’auto sostitutiva non dovrebbe essere subordinato all’impossibilità di servirsi del
trasporto pubblico. Oltre al significato pratico di tale pronuncia, essa rivela alcuni interessanti aspetti degli istituti fondamentali del diritto delle obbligazioni polacco.
L’estensione della responsabilità per i danni è delineato nell’art. 361 del codice civile polacco, secondo il quale:
«§ 1. Chi è obbligato al risarcimento del danno è responsabile solo per le conseguenze prevedibili delle azioni od omissioni dalle quali è sorto il danno.
§ 2. Nei limiti di cui sopra, in mancanza di una espressa previsione legislativa o
contrattuale di senso contrario, il risarcimento del danno copre le perdite subite dal
danneggiato e il guadagno che avrebbe ottenuto se non avesse subito il danno».
Tenuto conto che il diritto polacco consente l’azione diretta nei confronti dell’assicuratore (l’art. 822 § 4 del codice civile polacco), la responsabilità dell’assicuratore
coincide con quella del danneggiante. Tuttavia è pacifico che questa regola trova un
limite nel tipo di rimedi azionabili dall’attore, il quale può sì agire in risarcimento per
equivalente, ma non per restituzione in forma specifica. Un altro limite deriva poi
dall’ammontare della somma assicurata.
La questione fondamentale che deriva dalla disposizione sopra menzionata è la nozione di danno, che incorpora «le perdite subite dal danneggiato» (damnum emergens) e «il guadagno che il danneggiato avrebbe ottenuto se non avesse subito il danno»(lucrum cessans). Il problema è se il costo del noleggio di un’auto sostitutiva debba
riferirsi alla prima o alla seconda categoria.
Osservatorio/Estero
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Nel diritto civile polacco si ritiene generalmente che il danno debba essere calcolato sulla base della differenza tra il valore del patrimonio del danneggiato dopo l’evento
dannoso e il valore che il patrimonio avrebbe avuto se il danno non si fosse verificato.
Ne consegue che occorre distinguere tra la diminuzione o la perdita totale di valore
del veicolo dal danno consistente nella perdita della possibilità di usarlo, che, invece,
deve essere calcolato sulla base delle attività della persona offesa. Allo stesso modo,
l’offerta di una vettura sostitutiva non può essere accettata come rimedio alla diminuzione del valore del veicolo danneggiato. Questo tipo di danno può infatti essere compensato solo con la riparazione del veicolo o con la possibilità di acquistarne uno nuovo.
La situazione è assai differente quando una persona danneggiata ha già pagato per
il noleggio un’auto sostitutiva mentre aspetta che sia riparata quella danneggiata (o ne
attende una nuova). Questa perdita non si produce se non quando il prezzo del noleggio viene corrisposto. Queste spese derivano dal danno subito e costituiscono una
perdita, a condizione che siano finalizzate a ridurre le conseguenze che il danneggiato
ha subito a causa dell’evento dannoso.
Sorprendentemente, questo approccio ha condotto gli assicuratori e le Corti a distinguere tra consumatori e imprenditori. A quest’ultima categoria è stato concesso il
risarcimento per il noleggio del veicolo sostitutivo assumendo che esso sarebbe stato
usato per scopi commerciali. Questo ragionamento è stato giustificato dal fatto che il
veicolo sostitutivo è necessario alla prosecuzione dell’attività commerciale, minimizzando i danni e conseguendo profitti che, diversamente, non sarebbero stati conseguiti. Per essere precisi, la Corte Suprema ha sottolineato che una persona che ha subito
un danno non può essere definita per ciò solo un «consumatore». Il criterio discretivo è rappresentato dall’uso cui il veicolo viene destinato: se è usato per realizzare un
profitto (come nel caso dell’attività commerciale) o se è usato per altri fini (come nel
caso del consumo).
In passato si erano sviluppati orientamenti diversi.
Secondo un primo approccio, la persona privata della possibilità di guidare una
macchina subisce un danno immateriale, che è costituito dalla sensazione di disagio e
di sconforto. Considerando che nella legge polacca solo in alcuni casi il danno immateriale è risarcibile, questo approccio non comporta il rimborso del costo di noleggio
di auto sostitutiva.
Un secondo punto di vista, invece, considera che tutte le spese causate dall’impossibilità di usare il veicolo debbono essere comprese nel danno risarcibile. I costi del
noleggio di un’auto sono solo un esempio di queste spese. Gli altri sono i costi: del
pubblico trasporto, del taxi, dei treni, ecc. Comunque sono indispensabili due condizioni affinché queste spese siano risarcibili in quanto danni: debbono essere state necessarie per il danneggiato e proporzionali al danno subito (perché ogni danneggiato
deve fare quel che può per ridurre il più possibile il danno).
Il terzo approccio identifica come danno la mera perdita della possibilità di usare il
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2011
veicolo. L’idea alla base di questo ragionamento si basa sulla commercializzazione dei
beni personali. Di conseguenza il valore economico di un oggetto si calcola sulla base
della sua idoneità a soddisfare esigenze del suo proprietario in tutti i campi della vita
(famiglia, cultura, salute, sport, ecc.). Quando l’oggetto (per esempio un’automobile)
effettivamente perde questa idoneità, il suo proprietario subisce un danno. L’impossibilità di soddisfare le necessità del proprietario non può essere tradotta in un valore
monetario, ma è possibile calcolare i costi dei servizi esterni o dei noleggi che sono stati necessari per soddisfare le necessità della persona che ha subito il danno (e che non
può più usare il proprio veicolo).
La Corte Suprema ha analizzato anche gli approcci seguiti in altri ordinamenti europei. Ha constatato che ci sono somiglianze importanti tra il diritto polacco e quello
tedesco, che paiono adottare soluzioni analoghe, come attesta il § 249 Abs 2 BGB.
Questa disposizione, così come interpretata dai giudici tedeschi, conferisce il diritto al
risarcimento dei costi del veicolo sostitutivo, a prescindere dal fatto che il veicolo fosse
usato per attività commerciali. Il risarcimento, tra l’altro, può essere concesso anche se
non è stato noleggiato un veicolo sostitutivo, perché l’auto si considera necessaria per i
bisogni personali del danneggiato, aiutandolo a risparmiare tempo ed energie fisiche.
Rispondendo a una richiesta dell’Ombudsman, la Corte Suprema polacca ha stabilito che i costi di noleggio devono essere considerati come una conseguenza normale
del danno causato al veicolo. Una persona che abbia subito questo danno è legittimata
a ottenere il rimborso di «quelle spese necessarie connesse con l’evento dannoso».
Tra queste spese possono essere comprese quelle necessarie a ridurre o eliminare le
conseguenze negative sulle attività della persona, che possono essere l’effetto della
perdita della possibilità di usare l’auto. In breve: la perdita è costituita dalle spese necessarie per limitare o eliminare le conseguenze negative del danno causato al veicolo.
Comunque, solo i costi effettivi del noleggio sono rimborsabili; in secondo luogo,
la persona che ha sofferto il danno (un creditore) è obbligata a limitarne le conseguenze. Coerentemente, una persona che ha causato il danno (un debitore) deve risarcire solo le spese razionalmente ed economicamente giustificate. La Corte Suprema
ha rilevato come estendere troppo la responsabilità del danneggiante, se connessa con
un’assicurazione, avrebbe potuto anche comportare un aumento dei premi; ha anche
evidenziato che l’impossibilità di usare i trasporti pubblici potrebbe non essere considerate una pre-condizione per il rimborso delle spese di noleggio. Il pubblico trasporto non è un sostitutivo dell’auto a noleggio, perché si tratta di un tipo differente di trasporto, molto diverso da quello che avviene mediante l’uso di un’automobile. Questa
soddisfa pienamente le necessità del suo proprietario, cosa che il trasporto pubblico
non è in grado di fare. L’uso dell’auto è diventato un comune standard di vita. Tuttavia, da questo consegue che non si dovrà risarcire il costo del noleggio se il danneggiato usava la macchina così raramente, che sarebbe stato economicamente più razionale
per lui servirsi di un equivalente mezzo di trasporto.
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REPUBBLICA POPOLARE CINESE
Brevi note sullo studio del diritto contrattuale in Cina nell’anno 2011
Nell’anno 2011, non si è verificata alcuna rilevante novità legislativa sul diritto del
contratto in Cina. Sembra, peraltro, interessante fare una breve nota sullo stato dell’arte della dottrina cinese sulla suddetta materia.
L’ordinamento cinese finora non contiene un codice civile. Esistono invece i c.d.
Principi del Diritto Civile del 1986, una sorta di legge quadro finalizzata a guidare la stesura delle successive leggi specifiche nel settore del diritto civile. È interessante notare
come, dopo l’uscita della Legge sulla proprietà (2007), della Legge sulla responsabilità
civile (2009) e della Legge sul diritto internazionale privato (2010), per la Cina sia arrivato, com’era prevedibile, il momento di compilare un codice civile. In un momento
cosi importante, che chiamiamo di “pre-codificazione”, il lavoro più urgente per i giuristi cinesi è di coordinare, sul campo applicativo, le normative già esistenti, incluse le
suddette Leggi, ma anche la Legge sui contratti (1999), la Legge sul matrimonio (1980,
modificata nel 2001), la Legge sulle successioni (1985) e le altre numerose normative
più o meno di recente adottate in materia civile.
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La dottrina sul confine tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale
Per quanto riguarda il diritto del contratto, uno dei temi più discussi è il confine tra
responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. Uno dei civilisti più autorevoli, Liming
Wang, nella sua relazione Qin Quan Ze Ren Fa Yu He Tong Fa De Jie Fen (Il confine tra
la Legge sui contratti e la Legge sulla responsabilità civile), in Zhongguo Faxue (China
Legal Science), 2011, fasc. 5, p. 107 ss. ha notato che il tradizionale confine tra la responsabilità contrattuale e quella extracontrattuale risulta, dopo l’emanazione della
Legge sulla responsabilità, incerto. Nella giurisprudenza cinese si può registrare, in particolare, il fenomeno di una eccessiva espansione dell’applicazione della Legge sulla responsabilità civile, ciò anche nel campo tradizionalmente contrattuale. In altre parole,
l’area che contrassegna la responsabilità civile non coincide più, in senso stretto, diciamo, con il mancato rispetto della sfera giuridica altrui (con una terminologia molto utilizzata in Italia, e non solo, potremmo dire: neminem laedere), ma si è allargata a comprendere l’inadempimento contrattuale. Come rilevato da Wang, molte delle norme
* di Qing Lu, Lecturer dell’Università di Zhejiang.
398
2011
della Legge sulla responsabilità civile riguardano anche fattispecie contrattuali:
– l’art. 34 sulla responsabilità del datore di lavoro;
– l’art. 37 sul dovere di protezione;
– l’art. 38 e l’art. 39 sulla responsabilità del danneggiante a danneggiato senza capacità di agire o danneggiato con capacità limitata di agire;
– l’art. 41 sulla responsabilità del produttore di prodotti difettosi;
– il capitolo VI sulla responsabilità per gli incidenti tra autoveicoli;
– il capitolo VII sulla responsabilità del medico;
– il capitolo IX sulla responsabilità per attività notevolmente pericolose.
Nonostante l’art. 122 della legge sui contratti autorizzi la parte fedele a scegliere,
nel caso concreto, di esercitare l’azione risarcitoria in sede contrattuale oppure in sede
extracontrattuale, il compito della dottrina cinese, come suggerisce Wang, è di ripensare criticamente l’annosa distinzione tra le due forme di responsabilità e di elaborare
soluzioni coerenti per le applicazioni giurisprudenziali, come anche per un successivo
sviluppo della medesima dottrina. Dal punto di vista del sistema normativo, questa
elaborazione sembra integrare una indispensabile premessa per la migliore preparazione di un codice civile cinese.
**
La dottrina sulla predisposizione di una disciplina generale sulle obbligazioni
Un’altra questione irrisolta, sempre sotto il profilo del diritto in senso ampio del
contratto, è quella concernente l’utilità, per il futuro codice civile cinese, di elaborare
una legge sulle obbligazioni in generale. È interessante notare che la Legge sui contratti comprende già numerose norme che in realtà riguardano le obbligazioni in generale.
Per fare solo un paio di esempi, si pensi all’art. 73 sulla surrogazione e all’art. 74 sulla
revocazione. Si tratta, comunque, di una soluzione provvisoria e destinata a essere in
futuro modificata, che si spiega in quanto l’anno 1999 non era ancora il momento opportuno per la codificazione. Dopo dieci anni di sviluppo in dottrina e in giurisprudenza, molti di noi però ora credono che, dal punto di vista sistematico, il codice civile
dovrebbe essere elaborato comprendendo un libro sulle obbligazioni in generale, con
la conseguenza che alcune norme della Legge sui contratti dovrebbero cambiare sede,
spostandosi dalla disciplina contrattuale a quella generale delle obbligazioni. Tuttavia,
non mancano altri giuristi che insistono sull’inutilità di questo tipo di operazione, facendo leva sulle seguenti ragioni.
Innanzitutto, regole comuni a tutti i rapporti obbligatori che scaturiscono da diverse
fonti avrebbero poche utilità in pratica, mentre creerebbero elementi di discordanza, soprattutto per il fatto dell’esistenza di una disciplina separata sulla responsabilità civile, la
Osservatorio/Estero
399
suddetta Legge sulla responsabilità civile, che, tradizionalmente, faceva parte della disciplina generale delle obbligazioni. Inoltre, numerose disposizioni proposte per la parte
generale della disciplina delle obbligazioni rivelano, se considerate nella loro probabile
portata applicativa, un’attinenza esclusiva ai rapporti di fonte contrattuale o negoziale, e
non anche a obbligazioni derivanti da altre fonti. Ciò considerato, come rilevato da taluni, si potrebbero applicare in via analogica le norme della Legge sui contratti, anziché introdurre una nuova disciplina concernente le obbligazioni in generale.
In tale contesto, uno scritto pubblicato nella più importante rivista giuridica cinese –
Faxue Yanjiu (Chinese Journal of Law), 2011, fasc. 2, p. 70 ss., Wo Guo He Tong Ju Su Li
Li Lun De Chong Gou (La ricostruzione della teoria sugli effetti contrattuali), sembra
piuttosto interessante. L’autore, Xie Gen, tenendo conto della complessità e discordanza sistematica della nostra Legge sui contratti, la quale è una legge “mista” per essere
stata influenzata dal common law ma anche dal civil law, cerca di ricostruire il diritto
del contratto cinese in una visione contrattuale, anziché in una visione “obbligazionale”. Secondo tale autore, il contratto è uno strumento per allocare il rischio del futuro
inadempimento e il diritto dei contratti rappresenta, già di per se stesso, almeno tendenzialmente, un complessivo sistema di forma di tutela. Analizzando le normative
attualmente vigenti sulla conclusione dei contratti, sulla responsabilità contrattuale,
sulla risoluzione, sul risarcimento del danno per inadempimento, ecc., l’Autore cerca
di abbandonare l’idea dogmatica secondo cui la parte generale delle obbligazioni costituirebbe un corpo di regole comuni, indistintamente, a tutti i rapporti obbligatori e il
contratto soltanto uno delle fonti delle obbligazioni. Si tratta di una particolare posizione sotto il profilo metodologico. Per fare un esempio, nella ricostruzione tradizionale basata sul dogma “credito-debito”, la pretesa verso l’obbligato sarebbe un diritto
primario e l’obbligo del risarcimento non potrebbe essere messo sullo stesso piano
dell’obbligo inadempiuto, mentre nella ricostruzione contrattuale, sia l’adempimento
sia il risarcimento sono soltanto rimedi finalizzati a garantire la realizzazione dei diritti
contrattuali. Secondo Xie, dal punto di vista dell’efficienza del sistema di tutela, il percorso “contrattuale” sarebbe migliore rispetto al percorso “credito-debito”.
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La dottrina sulla discordanza tra la Legge sui contratti e la Legge sulla proprietà
Un’altra questione discussa da tempo è il conflitto normativo tra la Legge sui contratti e la Legge sulla proprietà. Il caso tipico è la vendita di bene altrui. In particolare,
l’art. 51 della Legge sui contratti prevede che «il contratto in cui una parte, pure non
avendo il potere di disporre, disponga di bene di proprietà altrui e il titolare del relativo diritto ratifichi l’atto, oppure, dopo la conclusione del contratto, consegua il relativo potere, ha effetto». Dunque, l’efficacia del contratto potrebbe essere messa in dub-
400
2011
bio, nel momento in cui la parte non abbia ancora il potere di dispozione. La disciplina
è ben diversa dal diritto germanico, dove si riconosce un atto astratto di disposizione
distinta dal titolo d’acquisto (il contratto valido), ma è diversa anche dal diritto italiano, secondo cui il contratto di vendita del bene altrui è sempre valido e la parte fedele
può chiedere la risoluzione del contratto e il risarcimento del danno. La norma sopra
citata è stata sempre criticata, e le critiche sono aumentate dopo l’introduzione della
Legge sulla proprietà. Secondo una valutazione sistematica della Legge da ultimo citata,
il diritto cinese ha adottato un modello di trasferimento della proprietà simile a quello
austriaco. Per l’efficacia del trasferimento della proprietà, se si tratta di un bene mobile
serve la consegna, mentre se si tratta di un bene immobile serve la trascrizione, anziché
un semplice contratto. Tuttavia, secondo la dottrina prevalente, la Cina non conosce
l’atto astratto di disposizione. In tale contesto, l’art. 15 della Legge sulla proprietà contiene una norma piuttosto difficile da spiegare, quella che secondo cui, «salvo che la
legge o il contratto prevedano diversamente, i contratti che riguardano la costituzione,
la modifica, la cessione o l’estinzione di un diritto reale immobile sono validi sin dal
momento della conclusione del contratto; anche se il relativo diritto reale non è stato
trascritto, ciò non impedisce l’efficacia del contratto». Come coordinare tale norma
con la precedente disciplina dell’art. 51 della Legge sui contratti è un problema ancora
irrisolto. Nell’anno 2011, sono stati scritti molti articoli su tale problema: fra i tanti, si
veda quello di Lou Aihua, Lun Shan Yi Qu De Zhi Du Zhong De Zhuan Rang He Tong
Xiao Li Wen Ti (L’efficacia del contratto di alienazione nel caso di acquisto in buona
fede), in Fa Lv Ke Xue(Science of Law), fasc. 1, p. 149 ss., che riesamina la questione
sotto il profilo dell’acquisto in buona fede; nonché l’articolo di Liu Liming e Wei Aijiang, Zhong Hua Ren Min Gong He Guo He Tong Fa Zhi Wu Quan Chu Fen Kao Xi (Lo
studio dell’alienazione del bene altrui nella Legge cinese sui contratti), in HeiBei Xue
Kan (Heibei Academic Journal), fasc. 4, p. 152 ss., che addirittura suggerisce di cancellare l’art. 51 della Legge sui contratti quando sarà adottato il futuro codice civile, per
evitare una discordanza sistematica.
Ed è, in definitiva, proprio la mancanza di un codice civile dotato di un impianto sistematico la principale ragione dell’esistenza, attualmente, di numerose normative tra
loro incompatibili o comunque non in linea con la Legge sui contratti del 1999. Ciò
comporta tante altre questioni da rivolvere nel futuro processo di codificazione cinese.
**
La dottrina sul diritto comparato del contratto
La codificazione del diritto civile è un progetto ambizioso per i giuristi cinesi, che
hanno intenzione di elaborare un codice civile di altissimo livello, che ambisca a rap-
Osservatorio/Estero
401
presentare adeguatamente le attuali e future tendenze della civiltà dell’uomo del secolo XXI. Non ci si può dimenticare, però, che, nella tradizione cinese, non esiste un diritto civile in senso moderno e quest’ultimo, al contrario, in Cina ha una storia all’incirca solo un secolo. In altre parole, il diritto civile cinese moderno trova la sua origine
e radice non nelle tradizioni cinesi, ma nel diritto occidentale e, per un motivo storico
e politico, soprattutto nel diritto romano, come interpretato, in età moderna, soprattutto dai giuristi tedeschi. Infatti, la Legge sui contratti è definita, come già ho avuto
modo di ricordare, una legge “mista”, perché contiene regole di civil law e regole di
common law. In questo contesto, lo sviluppo del diritto contrattuale cinese dipende
non solo dall’esperienza cinese ma anche da uno studio profondo e sistematico del diritto comparato. Nella dottrina cinese del 2011 si trovano, pertanto, numerosi articoli
pubblicati sulla materia del diritto contrattuale comparato. Come, ad esempio, Duan
Xiaobin, Li Xudong, Lun Wo Guo Min Fa Dian Bian Zuan Zhong He Tong Jie Chu Zhi
Du de Wan Shan (Il miglioramento della disciplina sull’interpretazione del contratto nella
nostra codificazione del diritto civile), in Xinan Da Xue Xue Bao (Journal of Southwest
University), 2011, fasc. 4, p. 125 ss., che consiste in una ricerca incentrata sul recente
sviluppo dell’unificazione del diritto contrattuale europeo con particolare riguardo al
tema dell’interpretazione del contratto. Si pensi poi, sempre per esempio, a Han Shiyuan, Zhong Guo Hetong Fa yu CISG (La Legge sui contratti cinese e il CISG), in Jinan
Xuebao (Journal of JinanUniversity), 2011, fasc. 2, p. 7 ss., che ha svolto una molto interessante comparazione tra la legge cinese sui contratti e la disciplina della CISG. Tenendo conto dell’esperienza applicativa della CISG, in particolare, questo A. conclude
suggerendo una modificazione della disciplina cinese.
***
SPAGNA*
Una legge speciale in più: la legge 16/2011 sui contratti di credito al consumo
Giusto venti anni fa, nel 1992, vennero tradotti in Spagna, in un unico volume, due
significativi e conosciuti libri di Natalino Irti – che già menzionai nel mio intervento
precedente in questo Annuario: L’età della decodificazione (1978) e La cultura del Diritto civile (1990). Le tesi di Irti, in particolare quella contenuta nel primo testo, la sua
teoria della decodificazione, ebbero alquanto eco tra di noi.
Fu, tuttavia, un impatto ritardato e, soprattutto, un poco costretto. Alcuni civilisti
* di César Hornero Méndez, Profesor de Derecho Civil, Universidad Pablo de Olavide, Sevilla.
402
2011
spagnoli si accorsero solo allora di quanto accaduto tra di noi … senza neanche aver
dato un nome al fenomeno proprio finché non arrivò Irti, per la prima volta dalla promulgazione del Codice Civile del 1889 e dalla comparsa delle prime leggi speciali civili
ad esso posteriori – ciò detto con tutta l’ironia possibile –.
Il meglio che venne fatto fu un’interpretazione forzata e a posteriori, cercando di
applicare la ricerca irtiana (codice civile contro le leggi speciali) al caso spagnolo.
Un’analisi che risultava, come accennavo, certamente forzata e artificiosa e, soprattutto, contraddetta dalla realtà.
Erano in vigore, ancora allora, all’inizio degli anni Novanta, un numero piuttosto
ridotto di leggi civili speciali accanto a un codice civile piuttosto onnipresente e indiscusso, per quanto datato in alcune delle sue parti. Erano in vigore leggi civili speciali
che ragionevolmente dovevamo mantenere e non si era prodotto un fenomeno cosciente e deliberato di proliferazione di queste a scapito del codice civile.
Il codice ha continuato ad occupare la sua posizione centrale nel sistema (un certo
movimento di reazione prima di questa mera tentazione concettuale, piuttosto debole
dal punto di vista intellettuale, può essere visto in un testo di uno dei nostri più popolari civilisti Díez-Picazo: Codificación, descodificación y recodificación, in ADC, 1992, p.
473-484).
Da allora si è preso atto di qualcosa che realmente non era accaduto, ma che però si
sarebbe potuto verificare: che le leggi civili speciali non avevano attaccato il Codice e
che, di conseguenza, la dottrina non doveva difenderlo da esse.
La conseguenza è stata, da parte dei civilisti spagnoli, un costante (storicamente
parlando) e tranquillo recepimento di quelle leggi, incentrato sugli aspetti o problemi
tecnici ed esegetici che la loro elaborazione ed applicazione potevano porre.
In questo atteggiamento della dottrina spagnola verso le leggi speciali possiamo riconoscere – sebbene non si sentisse alcun cenno allora, poco abituata come era (e così
rimane) a riflettere su se stessa e sulle proprie funzioni – un’altra delle diagnosi di Irti,
questa volta nel suo libro sulla cultura del Diritto civile.
Irti giunge a parlare di una dottrina postcodificatoria e postideologica, nel senso
che essa avrebbe rinunciato, a partire dalla dispersione legislativa e dalla corrispondente perdita di centralità del Codice, a costruire la razionalità del sistema tanto da un
punto di vista, diciamo tecnico, come da una prospettiva ideologica.
La dottrina, a suo parere, ed è da condividere, sarebbe rimasta relegata a svolgere
un semplice compito di esegesi di norme, indicando criteri e linee guida per indicare
una migliore attuazione.
Questa diagnosi della dottrina civilista italiana è perfettamente applicabile a quella
spagnola prima del vero e proprio diluvio di leggi civili speciali che si sono moltiplicate
a partire dagli anni Novanta ad oggi (per una buona visione panoramica, vedi CAPPELLA RONCERO, Un cuarto de siglo de Derecho civil bajo la Constitución, Crónica Jurídica Hispalense, in Revista de la Facultad de Derecho, 2003, pp. 25-51).
Gli autori sembrano aver rinunciato a qualsiasi altra cosa che non sia questo lavoro
Osservatorio/Estero
403
di quasi mero accompagnamento alle leggi nella loro applicazione.
La rilevante costruzione di qualcosa tanto di moda come può essere un sistema o
contribuire alla spiegazione coerente di queste leggi, al di là del suo carattere puntuale e
concreto, sono compiti abbandonati dalla dottrina in mano del legislatore e nel migliore
dei casi della giurisprudenza, eretta spesso come unico elemento critico del sistema.
Questo è l’ambiente nel quale viene emanata questa legge speciale presentata come una novità prodotta nel corso del 2011 in materia di contratti nel diritto spagnolo:
la Legge 16/2011 del 24 giugno, sui contratti di credito al consumo (BOE n. 151, 25
giugno 2011). Questa legge, come un’alta percentuale delle leggi speciali emanate in
Spagna negli ultimi trent’anni, risponde con carattere generale a due cause o motivi che
spiegano, ripetutamente in quasi tutte, la loro preparazione e la loro promulgazione.
In primo luogo, il più evidente come elemento determinante di qualsiasi nuova legislazione, è l’emergere di nuove realtà che hanno bisogno di regolamentazione. Pertanto dobbiamo considerare l’emergere del consumo come un fenomeno contemporaneo, costitutivo e identificativo della società contemporanea, fatto che ha richiesto e
richiede una risposta normativa in forma di legislazione dei consumatori. In Spagna il
profilo è ben compreso dall’attuale Costituzione del 1978, all’art. 51, che prevede la
tutela dei consumatori e degli utenti e il suo sviluppo legislativo.
Uno sviluppo legislativo che cominciò presto, nel 1984, con la Legge 26/1984, General para la Defensa de los Consumidores y Usuarios, del 10 luglio, che è stata “nutrita”
da una serie di leggi e regolamenti di rango inferiore fino a dar forma per molti ad un
distinto e proprio settore differenziato nell’ordinamento giuridico, noto come Diritto
del consumo (o dei consumatori), interpretato da civilisti, commercialisti e, per certi
versi, anche dagli amministrativisti.
Molte delle leggi che nei quasi trent’anni dopo l’entrata in vigore della Legge
26/1984 vennero pubblicate sono state recentemente rielaborate – inclusa la prima –
mediante il Real Decreto Legislativo 1/2007, del 16 novembre, che approva la riforma
della Ley General para la Defensa de los Consumidores y Usuarios. Questo testo rielaborato, che non include tutte le leggi in materia di consumatori nel nostro ordinamento,
deve essere visto come la risposta spagnola – per ora – al dibattito sollevato in altri ordinamenti sull’opportunità di avere un codice del consumo o di valersi di leggi speciali.
In Spagna sembra si sia optato per una soluzione un po’ salomonica: avere una grande
legge speciale – il testo rielaborato nel 2007 – che contiene norme provenienti da sei
leggi anteriori e al contempo mantenere oltre leggi speciali di min???. Una di queste ultime, di quelle non incluse nel Testo rielaborato, è stata la Ley 7/1995 del 23
marzo, sul credito al consumo, ora sostituita dalla legge in esame.
Il secondo elemento chiave di impulso della nostra legislazione speciale deve essere posizionato nell’integrazione della Spagna nell’Unione europea dal 1986. Questo
evento è stato decisivo, come è ovvio, da molti punti di vista (politico, economico, so-
404
2011
ciale, ecc.), ma soprattutto dal punto di vista giuridico. L’incorporazione nella allora
Comunità Europea ha portato come conseguenza la nascita di una nuova istanza di
regole di produzione normativa e, soprattutto, di iniziativa legislativa, principalmente
attraverso le Direttive. Come è successo in tutti i paesi che fanno parte dell’Unione
europea, il diritto nazionale può essere compreso solo con la spinta ricevuta dall’Europa. Particolarmente significativo è il numero di leggi a tutela dei consumatori la
cui origine deve essere individuata nelle Direttive europee. Tra queste, bisogna citare
la legge sul credito al consumo del 1995 e così quella che ora passiamo in rassegna del
2011.
Infatti, la Ley 16/2011 del 24 giugno, sui contratti di credito al consumo, deriva
dalla direttiva 2008/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 aprile
2008, relativa ai contratti di credito consumo, che ha abrogato la direttiva del Consiglio 87/102/CEE del 22 dicembre 1986, concernente il ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri in materia di credito al consumo (puntualmente modificata dalla direttiva del Consiglio 90/88/CEE del
22 febbraio 1990), che da noi ha portato alla legge del 1995.
Gli sforzi comunitari, in questi primi tempi, guardavano fondamentalmente all’armonizzazione delle legislazioni nazionali, cercando di evitare le distorsioni della competenza, senza trascurare, come indicato nel preambolo della Legge del 2011, la protezione sociale della legislazione creditizia.
Nel tempo trascorso dalla prima di queste Direttive, il mercato del credito al consumo – come segnalato anche nel preambolo – ha subito uno sviluppo significativo,
particolarmente apprezzabile nella velocità con cui si sono evoluti i loro agenti e le
tecniche finanziarie.
Per rispondere a questi cambiamenti si pensi alla direttiva 2008/48/CE. Nonostante gli sforzi della direttiva 87/102/CEE negli Stati membri hanno continuato ad
esistere differenze molto significative tra le loro leggi sul credito al consumo, soprattutto per l’utilizzo non solo di meccanismi di tutela dei consumatori ai sensi della direttiva, ma anche di altri propri, adattati alla realtà socio-economica di ciascun paese.
Questa diversità normativa impedisce il funzionamento omogeneo del mercato interno e soprattutto limita la possibilità ai consumatori di beneficiare del credito transfrontaliero al consumo.
A questo proposito, la direttiva 2008/48/CE ha stabilito qualcosa che nel 1986,
con la direttiva precedente, poteva essere visto come un desiderio più o meno lontano,
ma che è ormai considerata oggi una realtà, così come la necessità di sviluppare un
mercato del credito più trasparente ed efficiente in Europa per promuovere transazioni transfrontaliere dei consumatori, garantendo l’accesso a meccanismi di protezione
efficaci e adeguati.
La Ley 16/2011, si afferma anche nel suo preambolo, ha avuto questi due criteri o
Osservatorio/Estero
405
linee guida di progettazione e di lavorazione. In primo luogo, ha cercato di rispettare la
vocazione originaria della direttiva verso l’armonizzazione, nel senso che gli Stati membri non possono mantenere o introdurre disposizioni nazionali diverse da quelle prescritte dalla stessa direttiva (anche se questo non dovrebbe impedire di adottare o
mantenere norme nazionali ove non siano previste disposizioni armonizzate). In secondo luogo, ha voluto preservare le disposizioni di diritto interno che offrono una
migliore protezione nel settore del credito al consumo, indipendentemente dal fatto
che non vengano richieste dalla normativa comunitaria. Questo spiega perché la Ley
16/2011 ospiti anche alcune misure già presenti nella Ley 7/1995, come l’offerta vincolante (art. 8), la riscossione indebita (art. 25), l’efficacia dei contratti vincolati
all’ottenimento di un credito (art. 26), le sanzioni per mancanza di forma e per omissione di clausole obbligatorie nei contratti (artt. 7 e 16).
La nuova legge sul credito al consumo contiene poche sorprese. Non ce ne sono né
nella sua struttura – molto prevedibile e logica –, né nel contenuto e negli aspetti specifici che regola. Vi sono, tuttavia, diverse novità, come non potrebbe essere altrimenti, rispetto alla legge precedente.
Tra le altre cose, il numero di precetti, che vengono quasi raddoppiati nella Legge
16/2011: si è passati da venti articoli a trentasei. La sua struttura è abbastanza logica,
essendo divisa in otto capitoli, il primo dedicato alle Disposizioni generali, diretto in
primo luogo a stabilire fondamentalmente l’ambito di applicazione della norma (l’art.
1 è dedicato alla definizione del contratto, l’art. 2 alla descrizione delle parti che vi intervengono e l’art. 3 ai contratti esclusi). I capitoli seguenti, II, III e IV, artt. 8-31, sono
senza dubbio il cuore della legge, in quanto è qui raccolto tutto ciò che concerne
l’informazione – con la rilevanza e la novità che essa assume e che noi le attribuiamo –
così come il contenuto ed il regime, propriamente parlando, del contratto di credito al
consumo.
I restanti capitoli si occupano della tassa annuale equivalente (capitolo V, art. 32),
degli obblighi degli intermediari del credito nei confronti dei consumatori (capitolo
VI, art. 33), del regime sanzionatorio (capitolo VII, art. 34 dedicato a violazioni e sanzioni amministrative) e del regime delle impugnazioni (capitolo VIII, che include la
previsione dell’arbitrato del consumo nell’art. 35 e l’azione inibitoria all’art. 36).
In generale, se qualcosa va sottolineato in questa nuova regolamentazione del credito al consumo è il ruolo importante, prominente, che assume l’informazione in questo tipo di contratti. Traendo principio dalla Costituzione (art. 51) essa è configurata
come un diritto fondamentale dei consumatori (art. 8, d TRLGDCU), questa preoccupazione per l’informazione – per cui non è esagerato dire che questa si trova nel
centro di sistema previsto dalla Ley 16/2011 – ha varie forme e livelli diversi.
In primo luogo, come indicato nel preambolo della legge stessa, essa incide nelle
attività precedenti alla contrattazione del credito (in questo senso, disciplina nel dettaglio le informazioni di base da inserire nella pubblicità e nelle comunicazioni com-
406
2011
merciali e negli annunci di offerte esposte nei locali commerciali e in quelli in cui si offre questo tipo di credito nell’intermediazione per la stipula di contratti con questo
scopo). In secondo luogo, viene stabilito l’obbligo del finanziatore (o, se del caso,
dell’intermediario del credito) di informare i consumatori sulle caratteristiche principali del contratto. Si tratta di un’informazione precontrattuale che dovrà essere offerta
nei modelli standard nei termini previsti dalla direttiva.
Con riferimento a questo obbligo di informazione, la Ley introduce una serie di
pratiche responsabili da parte del creditore o dell’intermediario, nel senso che deve
contribuire alla decisione del consumatore al contratto di credito spiegandogli in forma personalizzata e individualizzata le caratteristiche dei prodotti proposti ed i rischi
in caso di insolvenza o di sovraindebitamento.
In terzo luogo, in diretta relazione con quanto sopra e da una prospettiva diversa
dell’informazione – quella che può ottenere il finanziatore o l’intermediario sui consumatori – si esige che venga valutata prima del contratto la solvibilità del finanziato,
valutazione per la quale si possono utilizzare le informazioni ottenute in proprio e fornite da parte del potenziale finanziato, incluso l’accesso a banche dati. In quarto luogo,
infine, viene disciplinato l’accesso a database o file sulla solvibilità creditizia dei consumatori (art. 15).
Tutto questo ci porta a concludere che siamo di fronte a una legge speciale che
riunisce alcune stranezze, anche ideologiche. Ed è inevitabile riconoscere in questa
legge alcuni aspetti morali o etici che la situano necessariamente nell’ambiente di crisi
economica nel quale ci muoviamo negli ultimi tempi.
Ciò ci permette di soffermarci sopra alcune di quelle che possono considerarsi le
cause di questa crisi economica: un consumo selvaggio e irresponsabile e una facilità
nell’ottenere credito per detto consumo anch’esso sfrenato e irresponsabile. Qualche
anno fa, Adela Cortina, forse la nostra più nota filosofa etica, dopo essersi occupata
degli imprenditori – i suoi contributi all’etica dell’impresa sono molto importanti – si
occupò di chi sta d’altra parte, dei consumatori. Nel suo Por una ética del consumo: la
ciudadanía del consumidor en un mundo global (Madrid, 2002) richiama ad un consumo etico e responsabile, cosa che succede a suo avviso attraverso “chiavi imprescindibili”: un consumo autonomo, un consumo giusto, un consumo corresponsabile e un
consumo “felicitante” (parola orribile). In questa nuova Ley 16/2011 vi è un chiaro
invito ad un consumo responsabile ed a far sì che sia così per tutti – imprenditori ma anche consumatori.
Un consumo irresponsabile, che non valorizzi negativamente il sovraindebitamento dei consumatori, già sappiamo dove ci ha condotto da un punto di vista socioeconomico. Una fraintesa allegria nei consumatori e in chi si apprestava, senza la minima
precauzione, a concedere tutto il credito necessario per procedere, per consumare, è
qualcosa che appare evocato in questa Ley che richiama invece a contribuire a questo
Osservatorio/Estero
407
consumo responsabile. A questo proposito, è vero, anche se ciò significa contraddire
un po’ quanto abbiamo detto precedentemente, questa non è una legge speciale, ma piuttosto una legge molto speciale.
408
2011
INDICE ANALITICO
ACCOLLO
Disciplina
Biblioteca, p. 256
ADEMPIMENTO DEL TERZO
Disciplina
Promessa di adempiere un obbligo altrui
Biblioteca, p. 294
Giurisprudenza, p. 219
ANNULLABILITÀ DEL CONTRATTO
Incapacità naturale
Giurisprudenza, p. 148
APPALTO PRIVATO
Disciplina
Garanzia per vizi
Modifiche convenzionali al regime delle garanzie legali
Revisione del corrispettivo
Rovina e difetti di cose immobili
Varianti al progetto
Biblioteca, p. 253
Biblioteca, p. 280
Prassi, p. 359
Giurisprudenza, p. 169
Giurisprudenza, p. 172
Giurisprudenza, p. 175
APPALTO PUBBLICO
Accordi derogatori dei termini di pagamento
Difetti dell’opera appaltata
Legge regionale
vedi CONTRATTI PUBBLICI
Giurisprudenza, p. 203
Giurisprudenza, p. 201
Giurisprudenza, p. 198
ASSICURAZIONE
Assicurazione professionale obbligatoria
Contratto di capitalizzazione
Disciplina
Divieto di discriminazione
Divieto di svolgere attività diverse da quelle assicurative
Polizza mutui
Trasparenza polizze
vedi CONSUMATORE (CONTRATTI DEL)
Fonti, p. 309
Biblioteca, p. 281
Biblioteca, pp. 255, 258, 259
Giurisprudenza, p. 190
Giurisprudenza, p. 191
Fonti, p. 309
Fonti, p. 310
ATTI DI DESTINAZIONE
Disciplina
Biblioteca, p. 266
AUTONOMIA PRIVATA
Disciplina
Biblioteca, pp. 268, 271
BUONA FEDE
Esecuzione del contratto
Giurisprudenza, p. 124
410
2011
CAMBIALE
Disciplina
Biblioteca, p. 295
CAPARRA CONFIRMATORIA
Rapporto con azioni risolutorie
Giurisprudenza, p. 126
CAUSA
Disciplina
Biblioteca, p. 265
CESSIONE DI CUBATURA
Trascrizione dei contratti relativi ai diritti edificatori
Fonti, p. 310
COLLABORAZIONE (CONTRATTI DI)
Disciplina
Biblioteca, p. 260
COMODATO
Disciplina
Termine finale
Biblioteca, p. 259
Giurisprudenza, pp. 181, 182
CONCESSIONE DI VENDITA
Somministrazione di energia elettrica
Lodi, p. 240
CONCLUSIONE DEL CONTRATTO
Forma scritta
Giurisprudenza, p. 109
CONCORRENZA (CONTRATTI NELLA)
Disciplina
Biblioteca, p. 253
CONDIZIONE
Condizione potestativa mista
Finzione di avveramento
Giurisprudenza, p. 114
Giurisprudenza, p. 116
CONDOMINIO (REGOLAMENTO DI)
Disciplina
Biblioteca, p. 257
CONSUMATORE (CONTRATTI DEL)
Assicurazione del credito al consumo
Credito al consumo
Direttiva sui diritti dei consumatori
Disciplina
Multiproprietà
Obblighi informativi precontrattuali
Recesso di pentimento
vedi CONTRATTI DEI MEDIA
vedi CONTRATTI DEL TURISMO
vedi PRATICHE COMMERCIALI SCORRETTE
vedi VENDITA DI BENI DI CONSUMO
Fonti, p. 321
Fonti, p. 321
Fonti, p. 322
Biblioteca, p. 289
Fonti, p. 324
Dottrina, p. 30
Dottrina, p. 3; Biblioteca, p. 287
Indice analitico
411
CONSUMATORE (IN GENERALE)
Azione di classe
Protezione
Tutela collettiva
Biblioteca, p. 288
Biblioteca, p. 255
Biblioteca, p. 290
CONTRATTI AD EFFETTI REALI
Vendita di cose generiche
Giurisprudenza, p. 125
CONTRATTI BANCARI
Accordo per il credito alle piccole e medie imprese
Anatocismo
Commissione onnicomprensiva
Decreto anti-scalate
Depositi bancari
Forma degli ordini impartiti dal cliente
Garanzia
Garanzie sui mutui
Intermediazione finanziaria
Ius variandi
Offerte pubbliche di acquisito e di scambio
Posizioni nette corte su titoli azionari
Rinegoziazione e portabilità dei mutui
Swap
Tassi di usura
Trasparenza
vedi MUTUO
Fonti, p. 311
Fonti, p. 312
Fonti, p. 313
Fonti, p. 314
Fonti, p. 314
Giurisprudenza, p. 188
Fonti, p. 315
Fonti, p. 316
Biblioteca, pp. 256, 285
Fonti, p. 316
Fonti, p. 318
Fonti, p. 317
Fonti, p. 320
Giurisprudenza, p. 185
Fonti, p. 321
Biblioteca, p. 261
CONTRATTI DEI MEDIA E DELLE COMUNICAZIONI
Garanzie dei consumatori e tutela della concorrenza
Indennizzi agli utenti
Fonti, p. 329
Fonti, p. 328
CONTRATTI DELLO SPORT E DELLO SPETTACOLO
Protezione del diritto d’autore
Fonti, p. 333
CONTRATTI DEL TURISMO
Il codice del turismo
Il contratto di viaggio
Locazioni turistiche
Fonti, p. 334
Biblioteca, p. 259
Fonti, p. 336
CONTRATTI IMMOBILIARI
Case convenzionate
Certificazione energetica
vedi COMODATO
vedi LOCAZIONE
vedi VENDITA
CONTRATTI PUBBLICI
Accordi transattivi tra P.A. e privati
Fonti, p. 326
Fonti, p. 326
Giurisprudenza, p. 206
412
2011
Accordo di programma
Appalti nei settori della difesa e della sicurezza
Nullità degli atti elusivi del patto di stabilità
Riforma del Codice dei contratti pubblici
vedi APPALTO PUBBLICO
vedi LOCAZIONE
Giurisprudenza, p. 208
Fonti, p. 331
Fonti, p. 331
Fonti, p. 332
CONTRATTI TRA IMPRESE
Accordi fra imprese nell’ambito delle A.T.I.
Contratti asimmetrici
Prassi, p. 367
Dottrina, p. 81
CONTRATTO DI RETE
Agevolazioni fiscali per le nuove reti di imprese
Fonti, p. 337
CONTRATTO D’OPERA PROFESSIONALE
Tariffe professionali
vedi ASSICURAZIONE
Fonti, p. 329
CONTRATTO PRELIMINARE
Circolazione del
Disciplina (diritto civile e tributario)
Parte soggettivamente complessa
Biblioteca, p. 251
Biblioteca, p. 270
Giurisprudenza, p. 111
DELEGAZIONE DI PAGAMENTO
Disciplina
Eccezioni opponibili dal delegato
Biblioteca, p. 256
Giurisprudenza, p. 220
DEPOSITO
Disciplina
Biblioteca, p. 260
DIRITTO DISPOSITIVO
Disciplina
Biblioteca, p. 263
DISTRIBUZIONE (CONTRATTI DI)
Disciplina
Biblioteca, pp. 252, 283
ECCEZIONE D’INADEMPIMENTO
Disciplina
Inapplicabilità alle spese di custodia
Nel diritto romano
Nullità della clausola di rinuncia
Biblioteca, pp. 252, 274
Giurisprudenza, p. 155
Biblioteca, p. 278
Giurisprudenza, p. 157
ENERGIA E GAS
Integrità e trasparenza del mercato dell’energia
vedi INTEGRAZIONE DEL CONTRATTO
ESPROMISSIONE
Contratto tra creditore e terzo
Disciplina
Fonti, p. 337
Giurisprudenza, p. 222
Biblioteca, p. 256
Indice analitico
FORMA
Disciplina
vedi CONTRATTI BANCARI
413
Biblioteca, p. 262
FRANCHISING
Disciplina
Biblioteca, p. 282
FRANCIA
Reazioni al progetto di uno strumento opzionale
Recenti revirements
Estero, p. 386
Estero, p. 383
GERMANIA
Abuso del diritto
Contratto con obblighi di protezione a favore del terzo
Costituzione di dote e contrarietà al buon costume
Libretto di risparmio e prova dell’esistenza del credito
Luogo di adempimento della prestazione di riparazione
Nullità del contratto di cartomanzia
Progetto di riforma del diritto della navigazione
Estero, p. 390
Estero, p. 391
Estero, p. 392
Estero, p. 389
Estero, p. 393
Estero, p. 391
Estero, p. 388
IMMOBILI DA COSTRUIRE
Immobili “sulla carta”
Giurisprudenza, p. 217
IMPOSSIBILITÀ SOPRAVVENUTA
Disciplina
Biblioteca, p. 254
INTEGRAZIONE DEL CONTRATTO
Inserzione automatica di clausole
Giurisprudenza, p. 120
INTERPRETAZIONE
Atti unilaterali
Comune intenzione delle parti
Disciplina
Qualificazione del contratto
Biblioteca, p. 298
Lodi, p. 230
Biblioteca, pp. 268, 272
Giurisprudenza, p. 118
INVALIDITÀ DEL CONTRATTO
Criminalità organizzata
Disciplina
Raccolta del gioco mediante terminali da intrattenimento
vedi ANNULLABILITÀ
vedi NULLITÀ
LOCAZIONE
Cedolare secca
Idoneità del locale allo svolgimento dell’attività del conduttore
Locazione di immobili di proprietà dello Stato
vedi CONTRATTI DEL TURISMO
Fonti, p. 339
Biblioteca, pp. 251, 275, 293
Fonti, p. 339
Fonti, p. 340
Giurisprudenza, p. 167
Fonti, p. 340
414
2011
MANDATO
Contratto con se stesso
Disciplina
vedi COLLABORAZIONE (CONTRATTI DI)
MEDIAZIONE
Disciplina
Modelli
vedi COLLABORAZIONE (CONTRATTI DI)
vedi VENDITA
Giurisprudenza, p. 179
Biblioteca, p. 286
Biblioteca, p. 255
Prassi, p. 352
MODELLI CONTRATTUALI
Progetto “Contratti-tipo” di Unioncamere
Fonti, p. 341
MONOPOLIO
Disciplina
Biblioteca, p. 288
MUTUO
Contratto consensuale
Polizza assicurativa
Giurisprudenza, p. 184
Fonti, p. 309
NULLITÀ DEL CONTRATTO
Contratto in frode ai creditori
Divieto del patto commissorio
Intangibilità della quota di legittima
Nullità del patto di quota lite
Nullità virtuale
Rilevabilità d’ufficio
Successione di leggi nel tempo
vedi ASSICURAZIONE
vedi CONTRATTI PUBBLICI
vedi ECCEZIONE D’INADEMPIMENTO
OBBLIGAZIONE (IN GENERE)
Disciplina
OBBLIGAZIONI PECUNIARIE
Disciplina
Interessi legali
Riduzione del limite per la tracciabilità dei pagamenti
Ritardi di pagamento delle transazioni commerciali
Semplificazione dei pagamenti dei debiti della p.a.
vedi APPALTO PUBBLICO
vedi CONTRATTI BANCARI
OBBLIGAZIONI SOLIDALI
Oneri condominiali
Transazione su obbligazione solidale
Giurisprudenza, p. 141
Giurisprudenza, p. 139
Giurisprudenza, p. 147
Giurisprudenza, p. 145
Biblioteca, p. 277
Giurisprudenza, p. 135
Giurisprudenza, p. 142
Biblioteca, pp. 257, 258
Biblioteca, p. 256
Fonti, p. 342
Fonti, p. 343
Fonti, p. 342
Fonti, p. 343
Giurisprudenza, p. 226
Giurisprudenza, p. 223
Indice analitico
415
PARCHEGGIO
Disciplina applicabile
Giurisprudenza, p. 193
POLONIA
Contratto di assicurazione r.c.a.
Estero, p. 393
POSTERGAZIONE
Disciplina
Biblioteca, p. 296
PRATICHE COMMERCIALI SCORRETTE
Disciplina
Invito all’acquisto
Biblioteca, p. 257
Giurisprudenza, p. 210
PRELAZIONE
Disciplina
Biblioteca, p. 269
RAPPRESENTANZA
Disciplina
Biblioteca, p. 292
RECESSO
Recesso da s.r.l.
vedi CONSUMATORE (CONTRATTI DEL)
Lodi, p. 232
REPUBBLICA POPOLARE CINESE
Diritto comparato del contratto
Disciplina generale delle obbligazioni
Legge sui contratti e legge sulla proprietà
Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale
Estero, p. 400
Estero, p. 398
Estero, p. 399
Estero, p. 397
RESCISSIONE
Lesione ultra dimidium
Giurisprudenza, p. 150
RESPONSABILITÀ CONTRATTUALE
Disciplina
Biblioteca, p. 277
RESPONSABILITÀ PATRIMONIALE
Disciplina
Biblioteca, pp. 260, 297
RETRATTO
Disciplina
Biblioteca, p. 269
RISOLUZIONE PER ECCESSIVA ONEROSITÀ
Disciplina
Biblioteca, p. 258
RISOLUZIONE PER INADEMPIMENTO
Clausola risolutiva espressa
Disciplina
vedi CAPARRA CONFIRMATORIA
vedi VENDITA DI BENI DI CONSUMO
Giurisprudenza, p. 152
Biblioteca, p. 253
416
2011
SERVIZI DI PAGAMENTO
Accesso a un conto di pagamento
vedi OBBLIGAZIONI PECUNIARIE
Fonti, p. 344
SERVIZI PUBBLICI
Riforma dei servizi pubblici locali
Fonti, p. 345
SOMMINISTRAZIONE (CONTRATTI DI)
Disciplina
Biblioteca, p. 252
SPAGNA
Contratti di credito al consumo
Estero, p. 401
TRANSAZIONE
vedi OBBLIGAZIONI SOLIDALI
TRASPORTO
Liberalizzazione trasporti
Trasporto aereo, cancellazione, risarcimento
Trasporto con autobus
Fonti, p. 346
Giurisprudenza, p. 178
Fonti, p. 347
TRUST LIQUIDATORIO
Ammissibilità
Giurisprudenza, p. 196
USI CONTRATTUALI
Contratti standard-leasing
Fonti, p. 348
VENDITA
Annullamento per errore
Arbitraggio
Azione di riduzione del prezzo
Proposta di regolamento sul diritto comune europeo
Riconoscimento dei vizi
Sale and Purchase Agreement
Vendita di azioni
Vendita di immobile, formulari delle agenzie immobiliari
vedi CESSIONE DI CUBATURA
vedi VENDITA DI BENI CONSUMO
VENDITA DI BENI DI CONSUMO
Restituzione del valore di godimento del bene
Rimozione di bene difettoso e installazione di bene sostitutivo
Giurisprudenza, p. 165
Lodi, p. 235
Giurisprudenza, p. 160
Fonti, p. 349
Giurisprudenza, p. 163
Biblioteca, p. 255
Lodi, p. 237
Prassi, p. 352
Giurisprudenza, p. 215
Giurisprudenza, p. 212
Indice analitico
417
418
2011
Finito di stampare nel mese di maggio 2012
nella Stampatre s.r.l. di Torino – Via Bologna, 220