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Habitus e abitudine: filosofie della seconda natura

2020, Lo Sguardo - Rivista di filosofia

https://doi.org/10.5281/zenodo.5018393

Nelle odierne scienze della mente l’attenzione è una funzione cognitiva assai studiata e tuttavia ancora sfuggente. La difficoltà peculiare con la quale si scontrano gli scienziati è data dall’ubiquità di questa funzione nella totalità dei processi di coscienza, al punto che una delle difficoltà maggiori è data proprio dal co-occorrere dei fenomeni attentivi e coscienziali, che ostacola precisamente la possibilità di isolare l’attenzione dalla coscienza. Specularmente, si potrebbe notare come la dimensione dell’abitudine - che così significativamente rende possibile, guida e influisce sulla nostra vita pratica, morale, cognitiva ed epistemica - soffra della medesima ubiquità e difficoltà di isolamento: in altre parole, si potrebbe dire che l’abitudine sta all’inconscio come l’attenzione alla coscienza. E tuttavia, lungi dal risolversi in compartecipazione a un rapporto puramente analogico, la relazione tra abitudine e attenzione si rivela quantomai organica e capace di assumere le sembianze di un peculiare nodo dialettico: non sarebbe errato leggere il decorso della riflessione moderna sull’abitudine come la storia della progressiva scoperta del suo ruolo di precondizione inaggirabile per liberare segmenti di attenzione verso nuove attività cognitive.

© Lo Sguardo - rivista di filosofia N. 31, 2020 (II) - HABITUS e abitudine: Filosofie della seconda natura DOI: 10.5281/zenodo.5018393 Editoriale Habitus e abitudine Filosofie della seconda natura Miriam Aiello, Gabriella Paolucci, Alberto Romele Nelle odierne scienze della mente l’attenzione è una funzione cognitiva assai studiata e tuttavia ancora sfuggente. La difficoltà peculiare con la quale si scontrano gli scienziati è data dall’ubiquità di questa funzione nella totalità dei processi di coscienza, al punto che una delle difficoltà maggiori è data proprio dal co-occorrere dei fenomeni attentivi e coscienziali, che ostacola precisamente la possibilità di isolare l’attenzione dalla coscienza1. Specularmente, si potrebbe notare come la dimensione dell’abitudine – che così significativamente rende possibile, guida e influisce sulla nostra vita pratica, morale, cognitiva ed epistemica – soffra della medesima ubiquità e difficoltà di isolamento: in altre parole, si potrebbe dire che l’abitudine sta all’inconscio come l’attenzione alla coscienza. E tuttavia, lungi dal risolversi in compartecipazione a un rapporto puramente analogico, la relazione tra abitudine e attenzione si rivela quantomai organica e capace di assumere le sembianze di un peculiare nodo dialettico: non sarebbe errato leggere il decorso della riflessione moderna sull’abitudine come la storia della progressiva scoperta del suo ruolo di precondizione inaggirabile per liberare segmenti di attenzione verso nuove attività cognitive. In altre parole, nell’abitudine la mente si scopre Cfr. E. Campo, La testa altrove. L’attenzione e la sua crisi nella società digitale, Roma 2020, pp. 17-26. M. Koivisto, P. Kainulainen, A. Revonsuo, The relationship between awareness and attention: Evidence from ERP responses, «Neuropsychologia», 47(13), 2009, pp. 2891-2899, doi: https://doi.org/10.1016/j.neuropsychologia.2009.06.016. A. Raffone, N. Srinivasan, C. van Leeuwen, The interplay of attention and consciousness in visual search, attentional blink and working memory consolidation, «Philosophical transactions of the Royal Society of London. Series B, Biological sciences», 369(1641), 2014, 20130215, doi: https://doi.org/10.1098/ rstb.2013.0215. 1 7 © Lo Sguardo - rivista di filosofia N. 31, 2020 (II) - HABITUS e abitudine: Filosofie della seconda natura libera da quelle [le determinazioni particolari dei sentimenti], nella misura in cui non se ne interessa e non se ne occupa; ed esistendo in tali forme come in una sua proprietà, essa è insieme aperta all’ulteriore attività e occupazione (tanto della sensazione, quanto della coscienza e dello spirito in genere)2. Questa tanto dirompente quanto insospettabile piega liberatrice ha senz’altro giocato un ruolo importante nel contemporaneo ritorno d’interesse nei confronti dell’abitudine. A lungo trattata dal senso comune come realtà di dubbio rango e addirittura come dimensione antifilosofica per eccellenza, l’abitudine ha riscosso nell’ultimo decennio una grande attenzione da parte della comunità scientifica nazionale e internazionale, attestata dalla pubblicazione di numerose monografie e fascicoli monografici3, dalla traduzione di opere inedite4, dall’indizione di congressi a tema5. Il fascino di questa figura dell’esperienza risiede dunque in un duplice profilo: da un lato, essa è causa ed effetto della meccanizzazione irriflessiva dell’esperienza che si consegue nel processo di abituazione, dall’altro, essa costituisce una condizione di possibilità per la continuità cognitiva di ogni esperienza, per la stabilità del comportamento, del carattere e per l’accumulazione culturale in genere. Nella figura dell’abitudine si trovano infatti coagulati molti fenomeni contraddittori: innanzitutto, essa è un fondamentale momento di cerniera del rapporto tra natura e cultura, tra natura e storia. L’abitudine si presenta infatti come mezzo e processo attraverso cui la cultura si ‘sovrascrive’ alla natura, stimolando, in particolare negli animali umani6, l’acquisizione di proprietà non naturali che dunque, secondo il motto aristotelico, vengono ad essere possedute «né per natura né contro natura»7 e di qui integrate nel corredo naturale della specie al punto da rendersene quasi indistinguibili. In questo senso, l’abitudine G. W. F. Hegel, Filosofia dello Spirito, a cura di A. Bosi, Torino 2000, p. 239. C. Carlisle, On Habit, New York 2014; A. Hutchinson, M. T. Sparrow (eds.), A History of Habit: From Aristotle to Bourdieu, Lanham 2013; M. Piazza, L’antagonista necessario, Milano 2015; Id., Creature dell’abitudine, Bologna 2018; N. Faucher, M. Roques (eds.) (2018), The Ontology, Psychology and Axiology of Habits (Habitus) in Medieval Philosophy, Cham, Switzerland 2018; M. Sinclair, Being inclined, Oxford 2019; M. Bower, E. Carminada (eds.), Mind, Habits and Social Reality, «Phenomenology and Mind», 6, 2014; M. Piazza (ed.), Abitudine, seconda natura, disposizione, «Paradigmi», 2020 (1); I. Pelgreffi, Filosofia dell’automatismo. Verso un’etica della corporeità, Napoli-Salerno 2018 e D. Vincenti, Abitudine e follia. Studi di storia della filosofia e della psicologia, Milano 2019. 4 F. Ravaisson, Of Habit, ed. by C. Carlisle and M. Sinclair, New York 2009; L. Dumont, L’abitudine, a cura di D. Vincenti, postfazione di C. Dromelet, Mimesis 2020; W. James, Le leggi dell’abitudine, a cura di D. Vincenti, Milano 2019. 5 IS4IS 2017 Summit: Habits and Rituals, 12-17th June 2017, Gothenburg; International Hegel Conference 2017: Second nature, 14-17th June 2017, Stuttgart; Workshop: Habit, Second Nature, and Disposition, 6th Novembre 2017, Roma; Workshop: Habits in Theory and Practice: Philosophy, aesthetics, and the environment, 8th February 2019, Edinburgh; IS4SI 2021 Online Summit: Habits and Rituals, 12-19th September 2021. 6 Sull’apprendimento culturale negli animali non umani si vedano K. N. Laland, B. E. Galef (eds.), The Question of Animal Culture, Cambridge (MA) 2009 e W. C. McGrew, The Cultured Chimpanzee, Cambridge 2004. 7 Eth. Nic. II, 1, 1103a24. 2 3 8 © Lo Sguardo - rivista di filosofia N. 31, 2020 (II) - HABITUS e abitudine: Filosofie della seconda natura è parte costitutiva di quei meccanismi – quali i costumi, i riti, le istituzioni, le leggi, le tecniche, le forme estetiche – che rendono la vita culturale, nelle sue sedimentazioni filogenetiche e ontogenetiche, una seconda natura per l’essere umano: qui l’abitudine appare come luogo di conversione dell’avere nell’essere. Prendendo in considerazione in modo più ravvicinato la sua meccanica, l’abitudine si presenta come la ripetizione che presiede all’inserzione del nuovo, come fondo pacificato di atti e cognizioni sul quale e solo mediante il quale l’‘ulteriore’ può essere afferrato, dotato di significato, e ricompreso come nuovo stabile possesso. Essa costituisce un momento di cerniera temporale tra il passato e il futuro, tra la memoria e l’aspettativa, il luogo dove si consuma l’inferenza pratica e conoscitiva, come pure il luogo dell’apertura allo scarto esperienziale. Ma all’altezza dell’abitudine, si registra un’ulteriore sintesi interna all’individuo stesso, ovvero quella tra dimensione corporea e dimensione psichica: nel processo di abituazione, la mente si infonde nelle fibre del corpo e nelle sue concatenazioni motorie fino ad estinguersi in esse senza lasciare residui, con la conseguenza che la dualità gnoseologica a cui sembra in partenza vincolata la nostra capacità di pensare il rapporto tra il mentale e il corporeo evapora. L’abitudine è allora infine la padronanza cui si perviene per ottundimento, per soppressione e silenziamento delle ragioni e delle alternative. Tale padronanza denota quel particolare agio che è alla base dell’esperienza del ‘sentirsi a casa’, di un felice ambientamento che eccede i limiti dello spazio del corpo fino a includere lo spazio extracorporeo, fisico o sociale, entro cui l’interazione abituale è circoscritta. Questa humus confortevole si rivela tuttavia parimenti il ricettacolo dell’inquestionato, dell’arbitrario culturale, dei rapporti di dominio sottesi a ogni apprendimento. Qui l’abitudine è il fondamento tanto dell’esperienza di domesticità del mondo, quanto della naturalizzazione del dominio. In questa cornice, la nozione di habitus si offre come una contrazione dell’ambiguità concettuale dell’abitudine al livello della filosofia dell’azione. Dalla definizione aristotelica dell’hexis come disposizione, stabilmente acquisita per esercizio, a pensare e ad agire in un certo modo e dunque prerequisito della virtù come eccellenza del comportamento, fino all’opera di Pierre Bourdieu, la storia del pensiero occidentale è marcata da varie esperienze teoriche che con il ricorso al concetto di habitus hanno inteso dare all’esperienza dell’abituazione e all’abitudine la veste di un vero e proprio principio dell’azione pratica e cognitiva (principium importans ordinem ad actum) senza il quale non si darebbe coerenza nell’agire individuale, stabilità del carattere e dello stile, come pure coimplicazione di individuazione e socializzazione. La grande quantità di studi che negli ultimi anni sono stati dedicati all’abitudine suggerisce che essa non vada più concepita come un taglio esotico con cui si può accidentalmente esaminare il prendere forma dell’esperienza umana, ma piuttosto come una vera e propria forma che l’esperienza non può mancare di assumere, pena l’impossibilità di costituirsi come tale, come continua, acquisitiva, radicata nella corporeità, nella cultura. È dunque con questa 9 © Lo Sguardo - rivista di filosofia N. 31, 2020 (II) - HABITUS e abitudine: Filosofie della seconda natura generale curvatura interpretativa che il presente fascicolo monografico si accosta al complesso concettuale dell’abitudine e dell’habitus, quali macro-concetti che sollecitano la costituzione dell’esperienza, la prima come forma epistemica, il secondo come principio dell’azione più marcatamente in connessione con i nostri interessi pratici. *** Senza indulgere alla pretesa di delineare una genealogia organica e unilineare dell’habitus, dell’hexis e dell’abitudine, e piuttosto nella consapevolezza che tali nozioni, pur così affini e pervase di una innegabile ‘aria di famiglia’, fruttificano nell’arco di stagioni storico-filosofiche diverse e animate da premure teoriche e pratiche eterogenee, che ne impediscono una piana sovrapponibilità e intercambiabilità, i contributi raccolti in questo fascicolo si propongono di portare ulteriore linfa agli studi di filosofia dell’abitudine insistendo sulle linee di faglia che intessono la costellazione problematica che abbiamo delineato: prima e seconda natura dell’essere umano, avere ed essere, potenza e atto, attività e passività, esterno e interno, corporeità e spiritualità, memoria e anticipazione, inconscio e coscienza, automatismo e riflessività, determinismo e libertà, riproduzione e cambiamento, individuazione e socializzazione. La prima sezione ‘Eredità’ raccoglie cinque saggi di natura storico-filosofica, ricostruttiva e interpretativa di alcune rilevanti prospettive ottocentesche e novecentesche che hanno indagato il ruolo dell’abitudine e dell’habitus nella costruzione della seconda natura individuale e sociale. Sullo sfondo delle fonti dirette e indirette che hanno segnato la formazione filosofica di Leopardi, il lavoro di Alice Orrù analizza la teoria dell’assuefazione sviluppata dal Recanatese, in particolare nello Zibaldone e nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, soffermandosi sul ruolo svolto dalla «conformabilità» e dalla memoria nel processo di acquisizione di una seconda natura e indagando originalmente le co-implicazioni testuali e concettuali tra il lessico dell’abitudine adottato da Leopardi e le circostanze climatiche. Il saggio di Metin Demir si confronta con il denso luogo che Hegel nell’Antropologia ha dedicato all’abitudine e, in particolare, con le motivazioni che spingono Hegel a presentare questo momento come il punto «più difficile» della maturazione dello spirito. L’autore enuclea la densità problematica esibita dall’abitudine in tredici coppie di contraddizioni, quali altrettante dimensioni problematiche che strutturano l’intero sistema hegeliano. In questo senso, nell’analisi dell’abitudine si dischiuderebbe, secondo l’autore, una delle cifre più rappresentative della filosofia hegeliana. L’articolo di Michael Lewis offre un acuto confronto delle antropologie kantiana ed hegeliana e dei diversi nessi tra abitudine e follia che si vengono ad istituire in esse. Attraverso le interpretazioni di Malabou e di Žižek, Lewis propone una rilettura dell’antropologia hegeliana funzionale ad aprire un varco 10 © Lo Sguardo - rivista di filosofia N. 31, 2020 (II) - HABITUS e abitudine: Filosofie della seconda natura in quello che il Foucault lettore dell’Antropologia kantiana ha definito un «circolo antropologico». Il contributo di Luca Micaloni sollecita il ruolo delle nozioni psicologiche non psicoanalitiche di abitudine e schematismo all’interno di quel programma interdisciplinare di teoria critica della società elaborato nel corso degli anni ’30 da Max Horkheimer che intendeva innovare la concezione materialistica della storia attraverso l’analisi delle mediazioni psichiche all’opera nella riproduzione sociale. L’articolo di Luca Corchia propone un’accurata ricostruzione e rilettura del concetto bourdieusiano di habitus alla luce dell’influenza del pensiero di Durkheim. Tale ricostruzione mostra come l’eredità durkheimiana attiva nell’opera di Bourdieu sia reperibile non solo sul piano metodologico dell’oggettivazione del mondo sociale, ma anche e soprattutto nel movimento sinergico di interiorizzazione dell’esteriorità e di esteriorizzazione dell’interiorità alla base della costruzione dell’habitus come una seconda natura. La seconda sezione denominata ‘Tempo e carne’ raccoglie i contributi che hanno tematizzato l’intreccio tra temporalità e incarnazione delle abitudini, in relazione al problema dello scarto e dell’emancipazione dal dominio. Il contributo di Michele Pavan mette a tema il movimento epistemico dell’abitudine tra Hume e Bergson alla luce della sua natura inferenziale, creatrice ed istituente di nessi associativi. Sullo sfondo della critica scettica alla causalità, l’autore ripercorre le tesi humeane che vedono gli atti inferenziali come una realtà dell’abitudine piuttosto che della ragione. L’autore fa leva sul fondo aporetico dell’abitudine e sul suo carattere di limite speculativo alla questione scettica per esaminare la ristrutturazione delle dinamiche associative proposta da Bergson in polemica con l’associazionismo empiristico e in connessione alla propria rinnovata concezione della temporalità. Il saggio di Giulia Lanzirotti indaga originalmente il ruolo giocato dalle habits nel celebre dibattito tra John McDowell e Hubert Dreyfus sul rapporto tra percezione e concettualità. Sulla scorta della lezione della fenomenologia classica – in particolare Husserl, Merleau-Ponty e lo stesso Heidegger –, l’autrice propone una ristrutturazione del ruolo epistemologico delle abitudini, che sarebbero da concepirsi non più come modalità soggettive di relazione al mondo, ma piuttosto come vera e propria dimensione paradigmatica dell’esperienza a partire dalla quale incardinare la mutua relazione tra percezione e concetti. Sviluppando le lezioni di Aristotele, Pascal, Mauss, MerleauPonty e Bourdieu, Igor Pelgreffi indaga l’intreccio tra incorporazione e trasformazione dell’habitus a cavallo tra dimensione sociale e psichico-corporea. Problematizzando la dialettica tra apprendimento e ‘disapprendimento’, l’autore individua le condizioni di possibilità per lo sviluppo di un habitus critico al livello dell’esperienza socio-corporea e in particolare nell’ipotesi di un ambiente di apprendimento aperto al contempo alla corporeità e agli aspetti relazionali e presociali. 11 © Lo Sguardo - rivista di filosofia N. 31, 2020 (II) - HABITUS e abitudine: Filosofie della seconda natura In antitesi alle frequenti critiche che vedono nell’habitus teorizzato da Bourdieu una nozione essenzialmente riproduttiva e incapace di sostenere il cambiamento, il contributo di Emma Barettoni difende una lettura fondata sul carattere aperto e congiunturale della relazione tra habitus e isteresi, che per l’autrice permetterebbe di fondare tanto la continuità quanto la discontinuità, e che, in sinergia con la riflessione spinoziana sull’infans e sul puer, viene criticamente proiettata sul modello antropologico della flessibilità, quale modello di costruzione di un sé plastico e informe egemonico nelle policy di direttiva europea e in molte teorie dell’identità personale nelle scienze sociali contemporanee. Infine, attraverso la lettura congiunta, ispirata alle riflessioni di Bourdieu e Pascal, della lettera-trattato A Eulogio del monaco Evagrio Pontico e dell’opera in metrica sanscrita conosciuta come Bhagavadgītā, l’articolo di Roberto Alciati e Federico Squarcini sviluppa un possibile modello stadiale per il problematico processo di disabituazione e di denaturalizzazione dell’abito. La terza sezione dal titolo ‘Pragmatismi’ è costituita da un blocco di contributi in cui la tematica dell’habit e dell’abito viene incardinata nella tradizione evoluzionistica e pragmatista, con riferimento tanto al valore ecologico e adattivo degli abiti, quanto a quello psicologico e pratico-morale. L’articolo di Chiara Pertile esplora il ruolo dell’habit nell’ambito delle teorie sull’evoluzione. Dopo aver chiarito il significato delle habits nel pensiero di Lamarck e Darwin, l’autrice analizza come la teoria della selezione organica formulata da James Mark Baldwin riesca a conciliare il potere evolutivo delle habits e il loro ruolo nella vita individuale e sociale degli organismi con la teoria darwiniana. Pertile esplora inoltre il legame tra la teoria di Baldwin e la più recente teoria della costruzione di nicchia, mettendo in luce il contributo che il concetto di habit può apportare nell’ambito del progetto dell’Extended Evolutionary Synthesis. Il saggio di Guido Baggio tematizza l’interrelazione tra istinti innati e abiti ereditati teorizzata dallo zoologo e psicologo comparato britannico Conwy Lloyd Morgan alla luce della sua più ampia riflessione sull’evoluzione organica e mentale e sulla genesi dei fenomeni di coscienza. In questo contesto, Baggio non manca di trattare il confronto di Morgan con la teoria jamesiana delle emozioni e di fornire un accurato inquadramento epistemologico del pensiero di Morgan tra associazionismo e un inedito monismo ontologico di taglio protoemergentistico. L’articolo di Michela Bella è dedicato alla teoria dell’habit di William James, posizione tra le più autorevoli, organiche e consolidate nell’ambito del pragmatismo americano. Bella illustra con perizia il concetto jamesiano di habit nei suoi aspetti plastici e teleologici, mettendo in luce sia il ruolo che tale nozione ha svolto nel tentativo jamesiano di dare alla psicologia le vesti di una scienza naturale e nella relativa presa di congedo dalla metafisica, sia il ruolo di viatico per il superamento dell’opposizione rigida tra agire automatico e 12 © Lo Sguardo - rivista di filosofia N. 31, 2020 (II) - HABITUS e abitudine: Filosofie della seconda natura agire intelligente giocato dall’habit jamesiana e dal suo carattere indeterministico nell’attuale svolta pragmatista delle scienze cognitive. Infine, Matteo Santarelli esplora in chiave problematica e costruttiva il contributo che la tradizione pragmatista ha offerto alla comprensione del risvolto ‘oscuro’ e inerziale degli abiti, cioè a quegli elementi che ostacolano una ricostruzione riflessiva del rapporto infrasoggettivo, intersoggettivo e con il mondo esterno. Assumendo la concezione preriflessiva dell’habit sviluppata da John Dewey come guida per l’esame del problematico rapporto che la tradizione pragmatista intrattiene con la nozione di inconscio, Santarelli sviluppa la tesi secondo cui gli autori pragmatisti, a latere dell’enfasi sui caratteri plastici e relazionali, sarebbero del tutto coscienti degli aspetti di opacità e di resistenza alla penetrazione riflessiva contenuti negli abiti. La quarta e ultima sezione, ‘Antropologie’, è costituita da articoli apparentemente eterogenei che in realtà condividono la stessa preoccupazione per i presupposti e impatti antropologici del concetto di habitus e simili. Carlo Crosato ricostruisce la maniera in cui Giorgio Agamben ha interpretato la distinzione aristotelica tra potenza e atto per criticare la metafisica occidentale e le sue implicazioni antropologiche e socio-politiche. Da Aristotele in poi, il pensiero occidentale avrebbe privilegiato l’atto rispetto alla potenza, trascurando così la dimensione più propria dell’umano, che è appunto quella della potenza. Tale potenza non è tuttavia da intendersi come privazione ma come inoperatività, che è una ‘potenza-di-non’. Storicamente, il concetto di hexis non ha fatto che sancire questa subordinazione. Eppure, la questione si pone se non sia possibile pensare una hexis diversa, capace di rendere alla potenza la sua vera forza. Giacomo Pezzano avanza la tesi secondo cui «oggi siamo immersi in una sorta di ‘atmosfera disposizionalista’ [...] ciò fa sì che la comprensione dello specifico statuto di ciò che tende a essere diventi un compito saliente tanto a livello di condotta concreta, quanto a livello di ricerca scientifica e speculativa». A questa atmosfera, che per esempio appare nei numerosi testi di self-empowerment che oggi invitano gli individui a coltivare le ‘buone abitudini’, l’autore oppone il disposizionalismo deleuziano. Tale disposizionalismo si sottrarrebbe tanto alla presenza/capacità-di, quanto all’inoperatività à la Agamben. Alessandro De Cesaris fa emergere il rapporto tra habitus e tecnica, questa da intendersi come costitutiva dell’umano. Da una parte, l’autore offre una rilettura della storia del concetto di habitus che mostra il suo statuto ‘mediale’ tra l’ambito pratico e quello cosale. Egli mostra anche come questa storia abbia messo l’accento sul primo di questi due ambiti. Dall’altra, De Cesaris racconta un’altra storia dell’habitus, che va da Hegel fino a Kittler, passando per Kapp, Gehlen e McLuhan, che avrebbe invece insistito sempre più sulla dimensione cosale, e dunque tecnica, dell’habitus. Pietro Ramellini utilizza il film di Fellini La dolce vita per fare una sorta di fenomenologia dell’habitus dell’uomo urbanizzato – e dunque socializzato e 13 tecnicizzato. L’autore distingue in particolare tre momenti. L’analisi inizia con l’habere, il tranquillo possesso consolidato di abitudini da parte dei personaggi del film che sono a loro agio nell’habitat urbano in cui vivono. In un secondo momento, quello che l’autore chiama haberi (essere avuto), in cui i personaggi sono posseduti dalla forza coattiva delle abitudini in quell’habitat paludoso e noioso che diventa per loro la città di Roma. Infine, in un terzo momento, c’è il risveglio attivo, la ricerca di una liberazione dall’‘essere avuto’ dell’abitudine con un esito tuttavia ambiguo. Il fascicolo si conclude con una raccolta di recensioni e discussioni di una selezione di recenti monografie, traduzioni e opere collettanee dedicate a tradizioni e autori portanti nei filoni di studi attualmente impegnati nella discussione e nella rielaborazione dei temi della seconda natura, dell’abitudine e dell’habitus. Miriam Aiello Università Roma Tre / IISF * [email protected] Alberto Romele IZEW, University of Tübingen * [email protected] Gabriella Paolucci Università degli Studi di Firenze * [email protected]