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Relazione Salutati

2017, La teologia morale italiana e l’ATISM a 50 anni dal Concilio: eredità e futuro

MISERICORDIA, GIUSTIZIA E BENE COMUNE UNA SINTESI NELLA VIRTÙ DELLA GIUSTIZIA SOCIALE Leonardo Salutati in P. CARLOTTI (a cura di), La teologia morale italiana e l’ATISM a 50 anni dal Concilio: eredità e futuro, Cittadella Editrice, Assisi 2017, 289-319. 1. Le indicazioni della Scrittura 1.1. La Misericordia: agire di Dio e della Chiesa Nella Dives in misericordia Giovanni Paolo II considera centrale la rivelazione di Dio avvenuta nell’esperienza del vitello d’oro: «Su tale gesto di rottura dell’alleanza il Signore stesso trionfò, quando si dichiarò solennemente a Mosé come “Dio di tenerezza e di grazia, lento all’ira e ricco di misericordia e di fedeltà” (Es 34,6). È in questa rivelazione centrale che il popolo eletto e ciascuno dei suoi componenti troveranno, dopo ogni colpa, la forza e la ragione per rivolgersi al Signore, per ricordargli ciò che egli aveva esattamente rivelato di sé stesso e per implorarne il perdono» (cf. DM 4). Letteralmente, anche secondo la nuova versione della Bibbia italiana, la citazione del Papa suonerebbe «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso (rahum) e pietoso (hannun), lento all’ira e ricco di amore (hesed) e di fedeltà», dove troviamo i termini hesed e rahamim: amore fedele / tenerezza, misericordia, che rimandano al contesto dell’alleanza1. Nella vicenda del vitello d’oro il peccato del popolo non sta nell’aver scelto un dio diverso ma nell’essersi fatta un’immagine di lui. È un tradimento dell’identità dell’Altro che si sta rivelando all’uomo. A sua volta Mosé può però intercedere per il popolo, in nome della fedeltà che Dio deve a sé stesso e all’alleanza che ha offerto quando ha fatto uscire il popolo dall’Egitto, ricordando a Dio che Israele è il suo popolo2. Quindi il primo significato del termine hesed sta proprio in questa fedeltà all’amicizia e a sé stesso da parte di Dio, e Mosé, invocando l’alleanza, scommette sull’amicizia che lega Dio ad Abramo. Hesed quindi indica concretamente non un sentimento ma la fedeltà. Il rinnovo dell’alleanza in risposta all’intercessione di Mosé, non si basa però solo sulla fedeltà di Dio ma anche sul suo amore. All’amicizia e alla lealtà che Mosé già conosce di Dio si aggiungono due aggettivi: misericordioso / tenero (rahum) e benigno (hannun). Mosé scopre che c’è in Dio più della fedeltà e dell’amicizia: c’è la misericordia. Più precisamente, la misericordia di Dio è la percezione dell’incapacità dell’uomo di comprendere il male che sta facendo a sé stesso; nasce da una conoscenza dell’umanità, il cui cuore è fragile; è il segno che Dio si dà da fare per l’uomo perché crede nell’uomo e nella sua possibilità di conversione. Per cui la misericordia fa cambiare idea a Dio!3 Infatti accanto ad hesed viene posto 1 Che, a sua volta, è espressa dai temi nuziali come in Os, 2,21: «Ti farò mia sposa per sempre nella giustizia e nel diritto, nell’amore (hesed) e nella tenerezza (rahamim), ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore». 2 «Ricordati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo e tutto questo paese, di cui ho parlato, lo darò ai tuoi discendenti, che lo possederanno per sempre» (Es 32,14). 3 Cf. J. DUPONT, Le Beatitudini. III. Gli evangelisti, Ediz. Paoline, Cinisello Balsamo 1992, 948-994; L. MAZZINGHI, «... e fece loro tuniche di pelli...». La misericordia di Dio in Gen 3, «Parola spirito e vita» 29 (1994), 1, 11-23; A. SPREAFICO, Peccato, perdono, alleanza (Es 32–34), «Parola spirito e vita» 29 (1994), 1, 25-36; R. VIRGILI, La misericordia di Dio nel primo testamento, in D. CANCIAN (a cura di), Misericordia, volto di Dio e dell’umanità nuova, Paoline, Milano 1999, 9-36. 1 spesso, come in questo caso, il termine rahamim che indica le viscere materne e più precisamente l’utero (rehem) che si commuove sotto la spinta di un profonda emozione del cuore4. Nel Nuovo testamento vi sono echi di questa terminologia attraverso la parola eleos riferita a hesed e splagchna riferita a rahamim. La misericordia, nel Nuovo Testamento, è la rivelazione radicale del Padre, ricco di misericordia (Ef 2,4), che si rende presente nella vita terrena di Gesù Cristo. Essa infatti si è incarnata definitivamente nel Cristo per liberare l’uomo da tutte le forme di male e restituirlo a sé stesso nella sua dignità di persona umana. Nel Vangelo di Luca la misericordia di Dio viene particolarmente espressa nella commozione profonda che tocca il padre del figliol prodigo allorché lo vede ritornare. Il termine utilizzato è splagchnizomai: essere commosso fino alle viscere, che Luca usa anche per indicare la commozione di Gesù dinanzi alla vedova di Nain e quella del samaritano alla vista del suo prossimo in fin di vita, a significare che tale stato d’animo spinge Dio a restituire all’uomo la sua piena dignità. Per questo la “misericordia” non va intesa come sentimento, ma piuttosto come concreto soccorso con cui viene aiutato chi si trova in difficoltà. Nel discorso delle beatitudini di Matteo, la scelta dell’aggettivo “misericordioso” non si riferisce al carattere compassionevole della persona ma ad un’attività abituale e permanente che la rende riconoscibile come tale. I “misericordiosi” sono coloro che sono sempre disponibili ad aiutare quanti sono in difficoltà. L’azione del misericordioso non è tanto quella del ricco che aiuta il povero (beneficenza) o del forte che soccorre il debole, ma quella di colui che «debole per i deboli» (1Cor 9,22) si fa solidale con chiunque si trova in difficoltà, e piange «con quelli che sono nel pianto» (Rm 12,15)5. Papa Francesco esprime in maniera precisa il significato di misericordia quando afferma: Dio associa alla sua vita di amore l’uomo e, anche se l’uomo si allontana da Lui, Egli non rimane distante e gli va incontro. Questo suo venirci incontro, culminato nell’incarnazione del Figlio, è la sua misericordia; è il suo modo di esprimersi verso di noi peccatori, il suo volto che ci guarda e si prende cura di noi. (…) Carità e misericordia sono così strettamente legate, perché sono il modo di essere e di agire di Dio: la sua identità e il suo nome6. La misericordia diviene quindi la missione della Chiesa, che ripropone all’uomo, per opera dello Spirito Santo, una “relazione di misericordia” in Cristo, di cui i sacramenti della Riconciliazione e dell’Eucaristia sono il momento centrale di un’azione di rigenerazione dell’umanità che trasfigura la giustizia. 4 Come per es. in Is 49,13-15 «Giubilate, o cieli, rallegrati, o terra, gridate di gioia, o monti, perché il Signore consola il suo popolo e ha misericordia dei suoi poveri. Sion ha detto: “Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato”. Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, sulle palme delle mie mani ti ho disegnato, le tue mura sono sempre davanti a me». 5 J. CAMBIER – X. LÉON-DUFOUR, voce Misericordia, in X. LÉON-DUFOUR (dir.), Dizionario di teologia biblica, Marietti, Genova 19765, ristampa 1994, 699-705; J. DUPONT, Le Beatitudini cit., 993-994; M. NICOLACI, La misericordia nelle relazioni umane, (25 ottobre 2015), in http://www.presenzadelvangelo.org/anno2015/GdM_2015/Relazione.pdf (accesso 22 luglio 2016). 6 FRANCESCO, Discorso ai partecipanti al congresso internazionale sull’enciclica “Deus caritas est” di Benedetto XVI nel decimo annniversario della pubblicazione, (26 febbraio 2016), in http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2016/february/documents/papa-francesco_20160226_congressodeus-caritas-est.html (accesso 22 luglio 2016); si veda anche ID., Misericordiae Vultus. Bolla di indizione del giubileo straordinario della misericordia, (11 aprile 2015), in https://w2.vatican.va/content/francesco/it/apost_letters/documents/papa-francesco_bolla_20150411_misericordiaevultus.html (accesso 22 luglio 2016). 2 1.2. La Giustizia come relazione Nella Bibbia il termine “giustizia” appare in contesti diversi fra loro e con sfumature che ne indicano di volta in volta il significato7. Se riferiamo il termine a Dio, esprime il rapporto che lo lega all’uomo8, la sua fedeltà all’alleanza, il suo piano di salvezza che si manifesta in Cristo e che rivela la sua misericordia9, il suo intervento sul mondo e sull’uomo, quando vengono calpestati i diritti dei più poveri e delle categorie più deboli10. Riferito all’uomo si intende la sua risposta all’alleanza con Dio, che si manifesta nell’amore a Dio, l’impegno all’ascolto della sua parola, l’osservanza della legge e dei comandamenti11, ma anche il rapporto che lega l’uomo al suo prossimo. Infatti “Giustizia” è la parola che nella predicazione dei profeti (come Isaia, Amos, Michea)12 esprime gli atteggiamenti dell’uomo chiamato alla solidarietà responsabile e alla condivisione fraterna verso chi, nella società di ogni tempo, è emarginato, debole, prigioniero, indifeso e straniero13. La giustizia nella Bibbia affonda le sue radici nell’etica, che definisce l’uomo come l’essere capace di rapportarsi secondo verità ad un altro soggetto. In questo senso essere giusto o ingiusto dipende, non tanto dall’obbedienza a una norma imposta, ma dal «far valere l’altro come tale (…) il quale non è come me e tuttavia ha anche lui diritto al suo»14, l’«altro» che è innanzitutto Dio e poi il fratello, il prossimo, l’altro uomo che esige il riconoscimento della sua dignità)15. Il significato di giustizia nella Bibbia si riferisce sempre a una relazione fra individui o gruppi ed esprime, attraverso l’idea classica della bilancia, un’idea di equilibrio tra le parti che, in termini sia giuridici sia morali, esprime un carattere di doverosità verso gli altri e, corrispettivamente, di esigibilità verso sé stessi16. Purtroppo, fin dall’inizio della Bibbia, nel tragico racconto dell’uccisione di Abele, si mostra quanto poco conti la vita umana. Infatti, quando, dopo l’omicidio, Dio chiede a Caino dove fosse Abele, Caino risponde: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gn 4,9). Si tratta di un interrogativo che ha inquietato la filosofia del Novecento17, di capitale importanza perché 7 A. Descamps, voce Giustizia, in X. LÉON-DUFOUR (dir.), Dizionario cit., 500-510. Cf. Gen 15,6: “[Abramo] credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia”. 9 Cf. Rm 1,17; 3,5.21.22.25.26; 10,3. 10 L’implorazione a Dio “giusto giudice” esprime il desiderio che sia “ristabilita la giustizia”, che l’uomo ha infranto con il suo peccato. «Alzati, giudice della terra, rendi ai superbi quello che si meritano!» (Sal 94,1-2). Di fronte all’azione disgregatrice del peccato e all’opera ricostruttrice di Dio che fa nuova ogni cosa, giustamente afferma l’apostolo Pietro: «Noi aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova nei quali abita la giustizia» (2Pt 3,13). 11 Come è detto nei Vangeli nei confronti di Giuseppe, lo sposo di Maria: «Giuseppe… era uomo giusto» (Mt 1,19). In questa luce va interpretato anche un testo del profeta Abacuc, che ispirerà l’apostolo Paolo nella sua dottrina sulla giustificazione: «Il giusto vivrà per la sua fede» (Ab 2,4; Cf. Rm 1,17). Il Deuteronomio ricorda: «La giustizia consisterà per noi nel mettere in pratica tutti questi comandi, davanti al Signore Dio nostro, come ci ha ordinato» (Dt 6,25) 12 Giustizia è «sciogliere le catene inique», «dividere il pane con l’affamato», «introdurre in casa i miseri, senza tetto» (Cfr Is 58,6-12; Mi 3,9-12 e anche Mt 25,31-46). È qui che trova il suo contesto la beatitudine che Gesù dichiara nei confronti di chi fa propri questi atteggiamenti: «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia» (Mt 5,6). 13 Si veda LYONNET S., De notione iustitiae Dei apud s. Paulum, Pontificium Institutum Biblicum, Romae 1964; NÖTSCHER F., «La Giustizia nell’Antico Testamento», in BAUER J. (dir), Dizionario di Teologia Biblica, Morcelliana, Brescia, 1969, 615-624; BLÄSER P., «La Giustizia nel Nuovo Testamento», in BAUER J (dir), Dizionario cit., 624-635. 14 J. PIEPER, La giustizia, Morcelliana-Massimo, Brescia 2000, 44. 15 F. OCCHETTA, Le radici morali della giustizia riparativa, CivCatt XX (6 dicembre 2008), IV, 445. 16 CDSC, n. 205: «secondo giustizia o nell’effettivo rispetto di quei diritti e nel leale adempimento dei rispettivi doveri»; n. 215: «improntati anche al senso della giustizia e, quindi, al rispetto dei reciproci diritti e doveri». Cf. P. FOGLIZZO, Criteri di giustizia - Un percorso nella dottrina sociale della Chiesa, «Aggiornamenti Sociali», 58 (2007), 6, 461. 17 Rimane attualissima la riflessione di Levinas a commento della risposta di Caino a Dio: «Quella rabbiosa domanda di Caino è all’origine di ogni immoralità. Naturalmente io sono il custode di mio fratello, e sono e rimango un essere morale fintanto che non pretendo una ragione particolare per esserlo. Che lo ammetta o no, io sono il custode di mio fratello in quanto il benessere di mio fratello dipende da quello che faccio o mi astengo dal fare. E sono un essere morale perché riconosco quella dipendenza e accetto la responsabilità che ne consegue. Nel momento in cui metto in dubbio quella dipendenza e chiedo come Caino che mi si dica per quale ragione dovrei curarmene, abdico alla mia 8 3 considerare l’altro un fratello prima che un nemico è ciò che ci costituisce uomini morali e ci permette di costruire un sistema sociale che tenga conto del valore e della dignità di ogni uomo e, dunque del bene comune. La responsabilità sociale di soddisfare tale esigenza è la pietra angolare della moralità sociale, e l’accettazione di tale responsabilità il principio che ci permette di diventare una persona morale18. 1.3. Il bene comune: solidarietà misericordiosa Il concetto di “bene comune” è un tema difficilmente rintracciabile nella Scrittura, non è comunque impossibile individuare alcune indicazioni. La Bibbia infatti sollecita l’uomo ad uscire dal proprio egoismo per aprirsi al “bene” che è l’altro, il fratello. Proteggere il debole, condividere le ricchezze con i poveri è il bene da ricercare, addirittura oltrepassando l’idea di semplice solidarietà ed equità per giungere a quel “bene” fondamentale che è farsi povero per l’altro, fino a dare la vita per lui19. Riferendoci dunque a quella fondamentale istanza biblica che è l’attenzione all’altro, possiamo raccogliere alcuni elementi dalla Scrittura riguardo al bene comune, avendo sempre ben presente che il senso letterale della Parola di Dio richiede di essere costantemente attualizzato per coglierne lo spirito e il valore per l’uomo di ogni tempo. Nella Legge di Israele, molti precetti e istituzioni avevano lo scopo di evitare una situazione di povertà per l’Israelita, in modo che ci fosse una condivisione delle ricchezze che eliminasse le disparità eccessive di condizione tra coloro che erano invece tutti fratelli e come tali dovevano comportarsi. La legge, ad esempio, prescrive ogni anno il regolare versamento delle decime per i Leviti, che erano senza terra (Nm 18,21-32), e ogni tre anni per i poveri, l’orfano e la vedova, che erano senza sostentamento (Dt 26,12-14). Si tratta di una specie di sistema di tassazione, che destina la decima parte di quanto ognuno aveva prodotto e raccolto (grano e frutti della terra, bestiame, ecc.) ai poveri, per non dimenticare chi era nel bisogno e che la terra appartiene al Signore20. Soprattutto, c’era il grande giubileo, ogni 50 anni, in cui ognuno tornava in possesso di ciò che aveva venduto, della sua terra e delle sue proprietà e, se a motivo di debiti contratti si trovava in situazione di servitù, tornava libero, gli veniva restituita la possibilità di ricominciare da capo (Lv 25). Alcuni passi della Torah trattano poi del prestito, della gestione dei pegni e della remissione dei debiti. Sono testi legali contenenti prescrizioni importanti proprio perché trattano punti nodali nei rapporti di equilibrio tra i singoli uomini e tra le nazioni21. La legge esorta insistentemente a concedere prestiti senza interesse a colui che ne ha bisogno22. L’idea fondamentale è che la ricchezza che permette di vivere non può essere considerata responsabilità e non sono più un soggetto morale» (E. LEVINAS, Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, E. BACCARINI (a cura di), Jaca Book, Milano 1998, 128-129). Il testo tra gli altri è ripreso da Z. BAUMAN, La società individualizzata. Come cambia la nostra esperienza, il Mulino, Bologna 2002, 96. Cf. F. OCCHETTA, Le radici morali della giustizia cit., 445. 18 Z. BAUMAN, La società individualizzata cit., 96. 19 Cf. B. COSTACURTA, Meditazione. «Apri la tua mano a tuo fratello» (Dt 15,11). Il bene comune nell’era della globalizzazione, in M. SIMONE (a cura di), Il bene comune oggi: un impegno che viene da lontano, EDB, Bologna 2008, 117. 20 C’era anche la condivisione delle primizie, cioè della prima parte del raccolto, con il Levita (Dt 18,1-5) e il forestiero (Dt 26,10-11), un altro modo per significare che la terra è del Signore e da Lui viene gratuitamente ogni dono, perciò, da ridonare ai fratelli. 21 Sull’argomento si veda L. SALUTATI, Cristiani e uso del denaro. Per una finanza dal volto umano, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2015, 18 ss. 22 «Se il tuo fratello che è presso di te cade in miseria ed è privo di mezzi, aiutalo, come un forestiero e inquilino, perché possa vivere presso di te. Non prendere da lui interessi, né utili; ma temi il tuo Dio e fa’ vivere il tuo fratello presso di te. Non gli presterai il denaro a interesse, né gli darai il vitto a usura» (Lv 25,35-37). E in un altro testo: «Se vi sarà in mezzo a te qualche tuo fratello che sia bisognoso in una delle tue città del Paese che il Signore tuo Dio ti dà, non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso; anzi gli aprirai la mano e gli presterai quanto occorre alla necessità in cui si trova» (Dt 15,7-8; cf. anche Es 22,24; Dt 23,20; ecc.). 4 possesso geloso, ma va condivisa. E comunque, a tutela di chi presta, la legge prevede anche che il debitore dia un pegno che garantisca la restituzione del debito. Proprio la regolamentazione sui pegni apre prospettive inaspettate, infatti si prescrive che non si possa prendere come pegno ciò che serve alla vita dell’altro23, perché davanti alla vita del fratello (la macina, la veste e il mantello sono cose necessarie per sopravvivere), ogni diritto e ogni tutela diventano secondari. La vita del fratello diventa la legge a cui obbedire, l’unico diritto da rispettare a ogni costo, il «bene comune» di tutto il popolo24. La legge prescrive inoltre che l’acquisizione del pegno venga fatta senza prepotenza, con rispetto25 e che il prestito sia un atto gratuito, un «aprire la mano» 26 con generosità, mossi soltanto dal desiderio di bene, disponibili a dare anche a fondo perduto27. E se il povero chiede un prestito quando l’anno della giubilare remissione è vicino, la legge esorta a non fare calcoli meschini, ma a dare, comunque, generosamente (Dt 15,9). Ciò che la legge biblica chiede è dunque un atteggiamento interiore di solidarietà, apparentemente antieconomico, nel riconoscimento di una fraternità che ha la priorità su tutto, ma da cui dipende la benedizione divina (cf. Dt 15,4. 10) che è esperienza di pienezza, di gioia condivisa, condivisione della vita stessa di Dio. Nell’incessante riferimento al dono ricevuto da Dio della libertà e della terra che richiede, se necessario, di rinunciare al proprio diritto, nell’accoglienza dell’altro come fratello, nella condivisione gratuita e generosa dei beni, nell’atteggiamento di “solidarietà misericordiosa”, che scaturisce dal legame di appartenenza di ogni individuo alla comunità liberata da Dio28, ci pare venga indicato “il bene comune”. 2. La giustizia Tradizionalmente si definisce la giustizia come la virtù, o l’abito costante e stabile, di rendere a ciascuno il suo29. Essendo una virtù essa risiede propriamente e primariamente in persone moralmente libere, come un’inclinazione (habitus) con cui gli atti sono eseguiti prontamente e facilmente. In tal senso, nella misura della sua diffusione, la virtù della giustizia incide efficacemente sull’ordine sociale30. Riprendendo la classificazione tradizionale di San Tommaso distinguiamo tra giustizia particolare e giustizia generale31. Nell’ambito della prima sta la giustizia commutativa che riguarda la relazione tra uomo e uomo e quella distributiva che riguarda il rapporto della comunità organizzata con un singolo membro. Nell’ambito della seconda sta la giustizia legale che riguarda la relazione del singolo con la comunità organizzata ed è la virtù che il cittadino, o il membro di qualsiasi altra comunità, pratica quando dà quel contributo al bene comune che è richiesto da legge positiva. San Tommaso precisa 23 «Nessuno prenderà in pegno né le due pietre della macina domestica né la pietra superiore della macina, perché sarebbe come prendere in pegno la vita» (Dt 24,6). «Non lederai il diritto dello straniero e dell’orfano e non prenderai in pegno la veste della vedova» (Dt 24,17). «Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai al tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo? Altrimenti, quando invocherà da me l’aiuto, io ascolterò il suo grido, perché io sono pietoso» (Es 22,25-26; cf. anche Dt 24,12-13). 24 Cf. B. COSTACURTA, Meditazione. «Apri la tua mano cit., 120. 25 «Quando presterai qualsiasi cosa al tuo prossimo, non entrerai in casa sua per prendere il suo pegno; te ne starai fuori e l’uomo a cui avrai fatto il prestito, lui ti porterà fuori il pegno» (Dt 24,10-11). 26 Così come fa Dio con l’uomo: «Tutti da te aspettano che tu dia loro cibo a tempo opportuno. Tu lo provvedi, essi lo raccolgono; apri la tua mano, si saziano di beni» (Sal 104,27-28). 27 Invito ribadito anche nel NT. Cf. Lc 6,35: «fate del bene e prestate senza sperarne nulla». 28 «Se nella sua Provvidenza Dio aveva donato la terra agli uomini, ciò stava a significare che l’aveva donata a tutti. Perciò le ricchezze della creazione erano da considerarsi come un bene comune dell’intera umanità» (TMA 13). 29 STh., II-II, q. 58, a. 1 e 11. 30 Cf. B.W. DEMPSEY, The functional economy: the bases of economic organisation, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, New York 1958, 218; G MATTAI, voce Giustizia, in L. ROSSI – A. VALSECCHI, Dizionario enciclopedico di teologia morale, Ediz. Paoline, Cinisello Balsamo 1987, 459-460. 31 Si veda quanto esposto in STh., II-II, qq. 58 e 61. 5 che essa deriva il suo nome dal fatto che, in quanto la giustizia ordina l’uomo al bene comune, rispetto a questo compito viene considerata una virtù generale, o universale, e poiché spetta alla legge ordinare al bene comune32, questa giustizia generale viene detta giustizia legale, poiché con essa l’uomo viene a concordare con la legge, che ordina gli atti di tutte le virtù al bene comune 33. In altri termini, poiché la giustizia legale ha per oggetto il bene del tutto e non semplicemente il bene del singolo individuo distinto dal tutto, non ha affatto natura di giustizia particolare ma la sua ragione di giustizia è generale e si chiama giustizia legale perché il bene comune che essa ha per oggetto, è anche l’oggetto che la legge si propone con le sue prescrizioni34. Alla luce di tali considerazioni si comprende che la giustizia è una virtù essenzialmente 35 sociale ed anche se San Tommaso non ha mai usato l’espressione giustizia sociale, tuttavia ha esaurientemente illustrato che la giustizia è sempre ad alterum, implica cioè sempre il rapporto con gli altri36. Per questo la virtù della giustizia è da considerare un fondamentale principio regolativo della vita economica e sociale. Come già sottolineva Pacem in terris, è uno dei quattro valori fondamentali della vita sociale, insieme a verità, libertà e amore, che promuovono l’autentico sviluppo della persona e custodiscono la pace37. 3. Cosa intendere con giustizia sociale: l’apparire del concetto Anche se le radici concettuali della giustizia sociale si ritrovano già nel pensiero di San Tommaso, il termine giustizia sociale fu probabilmente usato per la prima volta nel 1840 dal gesuita e filosofo italiano Luigi Taparelli d’Azeglio38, successivamente riproposto dal Beato Antonio Rosmini nel 184839 e ripreso nel 1864 da W. E. von Ketteler nella sua opera fondamentale40. Sempre nell’800 l’esplodere della questione sociale favorirà la nascita del socialismo che riconosce nei presupposti individualistici e liberali del liberalismo moderno le ragioni dello sfruttamento degli operai. Perciò, nella sua visione, la realizzazione della giustizia sociale esigerebbe l’abolizione dei presupposti capitalistici e la gestione centralizzata e statalizzata della politica e dell’economia. 32 Cf. STh., I-II, q. 90. a. 2. Cf. STh., II-II, q. 58, a. 5. Come infatti la carità può considerarsi una virtù generale in quanto ordina gli atti di tutte le virtù al bene divino, così è generale la giustizia legale in quanto ordina gli atti di tutte le virtù al bene comune (cf. STh., II-II, q. 58, a. 6). 34 Cf. T. PÈGUES, Commentaire francais littéral de la Somme Théologique, vol. XI, E. Privat, Toulouse 1916, 198, citato da T.S. CENTI (a cura di), La Somma Teologica, vol. XVII, Salani, Firenze 1966, 61. 35 Cfr. STh., II-II, q. 58, a. 2, «“costitutivo della giustizia è ciò che forma la società degli uomini tra loro, e la comunanza di vita”. Perciò la giustizia è solo per i doveri verso gli altri». 36 «Compito proprio della giustizia, tra tutte le altre virtù, è di ordinare l’uomo nei rapporti verso gli altri [...] Invece le altre virtù perfezionano l'uomo soltanto nelle sue qualità individuali che riguardano lui stesso» (STh., II-II, q. 57, a. 1). La giustizia quindi «riguarda le operazioni con le quali l’uomo non solo viene ordinato in se stesso, ma anche in rapporto all’altro» (STh., I-II, q. 66, a. 4) e questo «altro» è la persona presa sia individualmente che collettivamente come società. 37 Gli altri sono verità, amore e libertà. Cf. PT 18ss. Tema in seguito ripreso più volte, si veda per es.: CA 5; 58; GIOVANNI PAOLO II, “Pacem in terris”: Un’impegno permanente. Messaggio per la celebrazione della XXXVI Giornata Mondiale della Pace, 1 gennaio 2003, n. 3, in https://w2.vatican.va/content/john-paulii/it/messages/peace/documents/hf_jp-ii_mes_20021217_xxxvi-world-day-for-peace.html; Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa n. 197. 38 Il D’Azeglio afferma: «La giustizia sociale è per noi gistizia [sic] fra uomo e uomo. (…) La giustizia sociale debbe ragguagliare nel fatto tutti gli uomini in ciò che s’aspetta i diritti di umanità»: L. TAPARELLI D’AZEGLIO, Saggio teoretico di diritto naturale appoggiato sul fatto, vol. 1, Stab. Tip. di P. Androsio, Napoli, 1850, 159 (ed or. 1840). Cf. M. RHONHEIMER, Il vero significato della “giustizia sociale”, «Istituto Bruno Leoni. Occasional Paper» (11 luglio 2015), in http://www.brunoleonimedia.it/public/OP/IBL-OP_101-Rhonheimer.pdf (accesso 28 luglio 2016), 13. 39 A. ROSMINI, La costituzione secondo la giustizia sociale con un appendice sull’unità d’Italia, Tipografia Giuseppe Radaelli, Milano 1848. 40 W. E. V. KETTELER, Die Arbeiterfrage und das Christentum, Franz Kirchheim, Mainz 1864 (ora disponibile in italiano:, W. E. V. KETTELER, La questione operaia e il cristianesimo, A. LO PRESTI (a cura di), Città Nuova, Roma, 2015). 33 6 Un tale contesto susciterà nella Chiesa una vera e propria «riflessione sociale» che sfocerà nella Rerum novarum del 1891 la quale, pur ribadendo le condanne del liberalismo dei predecessori di Leone XIII, contesterà il «falso rimedio» del socialismo. Più tardi il termine giustizia sociale sarà studiato dalla scuola tedesca del “solidarismo” fondata dal gesuita economista e filosofo sociale Heinrich Pesch, dove si formarono Gustav Gundlach e Oswald von Nell-Breuning (entrambi gesuiti), redattori dell’enciclica Quadragesimo anno del 1931 la quale, insieme al principio di sussidiarietà, introdurrà nel vocabolario comune il termine giustizia sociale41. La Rerum novarum, infatti, per scongiurare qualsiasi fraintendimento che potesse favorire una lettura socialista, aveva evitato i termini sia di giustizia sociale che di solidarietà, insegnando come il giusto rapporto sociale tra i «ricchi» e i «proletari», tra i «capitalisti» e gli «operai» si stabilisca tramite i doveri naturali degli individui e di tutti gli attori sociali (Chiesa, Stato, associazioni) come essi derivano dal diritto naturale (cf. RN 16-17). Nella Rerum novarum, ci si preoccupa di difendere l’individuo dal suo assorbimento nel collettivismo socialista illustrando come l’uomo sia inserito nell’organismo ontologico-sociale, per cui nella società si realizza un ordinamento che non sta a disposizione né dello Stato (contro il socialismo) né dell’individuo (contro il liberalismo). A partire dalla Quadragesimo anno, all’interno della Dottrina Sociale della Chiesa42, si parlerà invece con crescente frequenza di giustizia sociale affiancandola, senza sostituirla (e dunque non è un sinonimo), alla più tradizionale giustizia distributiva43. Secondo il commento di Nell-Breuning sull’enciclica, il termine giustizia sociale si riferisce allo Stato e al suo compito di stabilire un ordine giuridico e istituzionale sulla base del quale il mercato possa operare per il bene comune44. La giustizia sociale è vista come una cornice suprema, determinata dall’autorità statale garante di stabilità, all’interno della quale opera il mercato competitivo. Quadragesimo anno sembra dunque rivelare la convinzione che il mercato non sia capace di autoregolarsi in modo tale da favorire il bene comune, per cui lo Stato è, in definitiva, responsabile del buon funzionamento dell’economia45. In questo senso, l’enciclica introduce il termine ma lo esaurisce solo nei limiti della riflessione della Rerum novarum, in quanto l’ambito determinato dalla giustizia sociale elenca tutta una serie di doveri specifici che in sintesi vengono riassunti nel termine di carità sociale, in modo che il «restauro» della società avvenga secondo «la giustizia e la carità sociale» (QA 126). La proposta ha come obiettivo il superamento delle tensioni sociali che nell’800 hanno prodotto la «questione sociale» e il «grave disordine» della «lotta sociale» (QA 84; cfr. 114), che non devono essere risolte a livello politico tramite una rivoluzione e la costruzione del collettivismo socialista, ma piuttosto nelle associazioni secondo le professioni dove si attenuano e si risolvono i problemi e la conflittualità sociale (cfr. QA 83-85). La risposta magisteriale alla questione sociale si sviluppa a livello del corpo sociale e non a quello dell’ordinamento politico-giuridico, proponendo una riflessione di carattere ontologicosociale che inquadra il compito della giustizia sociale non nell’ordine politico-giuridico ma in quello ontologico-metafisico, di diritto naturale, che si pone a livello morale. Ne consegue che la risposta della Rerum novarum come anche della Quadragesimo anno alla sfida della «giustizia EDITORIALE, La “Rerum novarum” ottant’anni dopo, «La Civiltà Cattolica» 122 (1971), II, 2902, 313-320. Da ora in poi DSC. 43 P. FOGLIZZO, Criteri di giustizia cit., 461. 44 O. VON NELL-BREUNING, Die soziale Enzyklika. Erläuterungen zum Weltrundschreiben Papst Pius XI. über die gesellschaftliche Ordnung, Katholische Tat-Verlag, Köln 1932, 169-171. 45 Cf. M. RHONHEIMER, Il vero significato della “giustizia sociale” cit., 14. Questo significato “politico” della giustizia sociale è anche quello che il Catechismo della Chiesa Cattolica suggerisce al n. 1928: «La società assicura la giustizia sociale allorché realizza le condizioni che consentono alle associazioni e agli individui di conseguire ciò a cui hanno diritto secondo la loro natura e la loro vocazione. La giustizia sociale è connessa con il bene comune e con l’esercizio dell’autorità». Di conseguenza la giustizia sociale, assicurata dalla «società» e «connessa con il bene comune e con l’esercizio dell’autorità», appare essere essenzialmente, o in modo predominante, all’interno della sfera delle responsabilità dello Stato. 41 42 7 sociale» consiste nella «fraternità cristiana» ossia nella «carità sociale», definita dalla Quadragesimo anno l’«anima» dell’«ordine giuridico e sociale» (QA 89; cfr. già RN 13, 18, 21). Sempre in risposta alla sfida dei totalitarismi, Pio XI formula poi il principio di sussidiarietà, inteso in chiave anti-socialista ed incentrato sugli «individui», compresi come parte di un organismo sociale, legati dalla «solidarietà», verso i quali deve essere orientato sussidiariamente l’intero ordinamento sociale (QA 80)46. La Rerum novarum come fondamento teoretico e la Quadragesimo anno come sviluppo concreto del principio di giustizia sociale si basano quindi sull’ordine giuridico e sociale nel senso ontologico-metafisico della neoscolastica. Per cui contro il socialismo, l’individuo è visto come membro dell’ordinamento ontologico-sociale secondo la concezione scolastica dell’«organismo»47. Mentre, invece, la distanza dal liberalismo viene sviluppata in modo indiretto in quanto il concetto di giustizia sociale non è declinato in rapporto alla libertà individuale ma all’interno dell’ordinamento ontologico del diritto naturale. Pertanto, per le prime due encicliche sociali, la libertà è sempre solo un concetto derivato rispetto all’ordine prestabilito dal diritto naturale e la DSC non partecipa al dibattito sul principio della giustizia sociale in chiave moderna di individualità e libertà, ma continua a ragionare nell’ambito della visione aristotelico-scolastica48. 4. La svolta personalista: la giustizia sociale e la libertà individuale La Rerum novarum e la Quadragesimo anno nel condannare il socialismo e nel ribadire gli errori del liberalismo, non sviluppano una teoria della politica e della costituzionalità con le rispettive implicazioni per il concetto di «giustizia». Le prime e decisive riflessioni in questo senso si trovano nell’enciclica Mater et magistra del 1961, cui seguirà due anni dopo il riconoscimento dei diritti umani con Pacem in terris. In Mater et magistra si riscontra infatti un cambiamento di paradigma, confermato in seguito definitivamente da Gaudium et spes (cf. GS 25), quando si afferma che «i singoli esseri umani sono e devono essere il fondamento, il fine e i soggetti di tutte le istituzioni in cui si esprime e si attua la vita sociale» (MM 203). Per cui l’enciclica di San Giovanni XXIII ed in seguito tutti i documenti della DSC superano il principio individualistico con quello personalistico nelle sue tre relazioni ontologiche: la «relazionalità a sé», la «relazionalità agli altri» e la «relazionalità a Dio»49, che definiscono la dimensione morale della libertà dell’uomo in un’etica dell’alterità e della responsabilità. La svolta personalistica di Mater et magistra favorisce il passaggio dalla “verità” del diritto naturale neoscolastico alla “libertà” della persona immagine di Dio, attraverso la promozione della dignità della persona a livello sociale, la quale si esprime: nelle libertà fondamentali compresa la 46 Cf. M. KRIENKE, Giustizia sociale e carità, «Rivista di Teologia di Lugano», 15 (2010), 1, 32. I «padri» della Quadragesimo anno Gustav Gundlach e Oswald von Nell-Breuning che a loro volta si rifecero al confratello Heinrich Pesch e alla sua elaborazione del «solidarismo». Tale visione si basa su una concezione organica e morale della società che ha per principi fondamentali la stretta interdipendenza e la necessaria solidarietà dei gruppi sociali e la subordinazione degl’interessi privati al benessere collettivo. La Società non scaturisce automaticamente dalla libera attività dei singoli, ma può solo essere il prodotto di un ordinamento sociale che sappia armonizzare gli interessi dei lavoratori con quelli dei datori di lavoro e conciliare la libertà individuale col bene comune. Cf. Ibidem. 48 F.J. BORMANN, Soziale Gerechtigkeit zwischen Fairness und Partizipation, Verlag Herder Freiburg-Wien 2006, 268409. Al riguardo M. KRIENKE, op. cit., 33, riporta i risultati del lavoro di R. UERTZ, Vom Gottesrecht zum Menschenrecht. Das katholische Staatsdenken in Deutschland von der Französischen Revolution bis zum II. Vatikanischen Konzil (1789–1965), F. Shoening, Paderborn et al. 2005, 366-370, che analizzando il tentativo di alcuni studiosi recenti di attribuire già a Pio XII una concezione personalistico-liberale di diritto e dell’ordinamento politico – infatti tante formulazioni di Pio XII, prese di per sé, sembrano affermarla inequivocabilmente – dimostra in un’analisi complessiva dell’impostazione del suo pensiero politico-giuridico-sociale che non si può ancora attribuirgli il merito di conciliare il pensiero sociale della Chiesa con le varie istanze del liberalismo moderno. 49 Sul tema si veda J. MARITAIN, La persona e il bene comune, Morcelliana, Brescia 2009; E. MARTINI, Persona e società: la complessità della relazione, «Studi di Sociologia», 48 (2010), 1, 59-81; P. VIOTTO, La riflessione sulla persona in Jaques Maritain, «Alpha Omega», 7 (2004), 3, 465-484. 47 8 proprietà privata (MM 96-98); nella libertà dell’ambito familiare (MM 42) e, come fondamento di queste personali libertà relazionali, nella libertà religiosa (MM 182; 193). In seguito nella Centesimus annus si precisa ulteriormente il concetto di giustizia sociale nell’affermazione indiretta che questa si realizza attraverso il principio di libertà articolato personalisticamente sulla base dei diritti umani (cf. CA 47). Al n. 34 si afferma: «Prima ancora della logica dello scambio degli equivalenti e delle forme di giustizia, che le sono proprie, esiste un qualcosa che è dovuto all’uomo perché è uomo, in forza della sua eminente dignità. Questo qualcosa dovuto comporta inseparabilmente la possibilità di sopravvivere e di dare un contributo attivo al bene comune dell’umanità». Va qui sottolineato che se il termine giustizia viene riservato a quella che tradizionalmente si chiamerebbe giustizia commutativa, tuttavia l’indefinito «qualcosa» è dovuto ed è commisurato all’eminente dignità dell’uomo. Per cui è legittimo riconoscere in queste parole una definizione radicale di giustizia anche in termini sociali, in quanto una società che non rispetti questa condizione non può essere definita giusta50. In questo senso troviamo qui il fondamento antropologico del concetto di giustizia sociale51. L’affermazione rende inoltre evidente il collegamento della giustizia sociale con la tematica dei diritti umani, che possono anche essere visti come la «versione secolarizzata» del concetto di dignità dell’uomo52, nonché con quello del bene comune, esplicitamente menzionato53. Nella stessa enciclica San Giovanni Paolo II manifesta la fiducia che, dopo la caduta del muro di Berlino, si possano esprimere sempre meglio gli autentici valori umani in una politica democratica e in un’«economia libera». Al riguardo sottolinea però che, un sistema economico che riconosca il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell'economia è accettabile, a condizione che la libertà sia moralmente guidata, per escluderne ogni abuso. A tal fine, viene sottolineata la necessità di un solido contesto giuridico che metta la libertà nel settore dell’economia al servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso (cf. CA 42). Il fraintendimento della libertà politica ed economica infatti, non può che comportare l’abolizione di qualsiasi impegno morale, di ogni politica del bene comune e della giustizia sociale (cf. CA 39). 50 P. FOGLIZZO, Criteri di giustizia cit., 463. Cf. S. Beretta, Wealth Creation in the Global Economy, in H. ALFORD, C.M.A. CLARK, S.A. CORTRIGHT, M.J. NAUGHTON (edd.), Rediscovering Abundance, University of Notre Dame Press, Indiana, Notre Dame 2006, 175-201. 51 In questo senso si veda anche il n. 202 del CDSC: «Anche la giustizia […] acquista un più pieno e autentico significato nell’antropologia cristiana. La giustizia, infatti, non è una semplice convenzione umana, perché quello che è “giusto” non è originariamente determinato dalla legge, ma dall’identità profonda dell’essere umano». Cf. P. FOGLIZZO, Criteri di giustizia cit., 463, il quale osserva anche che significativamente: «all’inizio del percorso della DSC questa stessa definizione appariva in nuce nel n. 34 della RN, ancorché con una portata limitata al problema della fissazione del salario: “L’operaio e il padrone allora formino pure di comune consenso il patto e nominatamente la quantità della mercede; vi entra però sempre un elemento di giustizia naturale, anteriore e superiore alla libera volontà dei contraenti, ed è che il quantitativo della mercede non deve essere inferiore al sostentamento dell’operaio”. Oltre al riferimento implicito alle condizioni di validità dei contratti, patrimonio sia della tradizione giuridica romana sia della morale classica, occorre notare che “giustizia naturale” non introduce qui una nuova categoria da affiancare a quelle viste in precedenza: all’interno del paradigma filosofico-teologico scolastico in cui si muove Leone XIII, l’espressione indica piuttosto la giustizia come rispetto delle esigenze della natura umana, che in un diverso paradigma sono rese con la terminologia della dignità dell’uomo». 52 Cf. CDSC 303, in cui la «giustizia sociale» aggiunge a quella «commutativa» proprio la considerazione della «dignità umana». 53 Cf. P. FOGLIZZO, Criteri di giustizia cit., 463. Sul rapporto tra giustizia e bene comune si veda F. SCIOLA – C. TINTORI, Politica e giustizia. Dai diritti al fine della politica, in C. CASALONE – P. FOGLIZZO (edd.), Volare alla giustizia senza schermi. Un percorso interdisciplinare oltre l’equità, Vita e Pensiero, Milano 2007, 57-74. 9 5. Le sfide alla giustizia sociale nel contesto della globalizzazione Benedetto XVI ritiene che il non avere accolto le accorate raccomandazioni di San Giovanni Paolo II ha prodotto il risultato di uno sviluppo economico-sociale, nel ventennio successivo alla Centesimus annus, lontano dall’aver realizzato una situazione di giustizia sociale (cf. CV 23; 40) e per reagire allo svuotamento morale della libertà dal quale la Centesimus annus metteva in guardia, nella Caritas in veritate presenta la sua proposta. Tale proposta emerge nel momento in cui Benedetto XVI considera il contributo che può offrire la carità, non tanto all’interno del percorso che ha portato dal “primo paradigma” di «giustizia sociale e carità sociale», in chiave di diritto naturale neoscolastico, al “secondo paradigma” della declinazione della «giustizia sociale» nei termini personalistici, quanto piuttosto quando il Papa affronta lo studio della sintesi dei concetti di «verità e carità». Benedetto XVI fa riferimento alle riflessioni dell’enciclica Populorum progressio (1967) di San Paolo VI, che ha la particolarità di non inserirsi nella tradizione delle encicliche commemorative di Rerum novarum, per elaborare una risposta ad una sfida specifica che non è più quella delle res novae della modernità, ma quella della situazione particolare della tarda modernità così come è andata a concretizzarsi in maniera crescente a partire dal 1989, suscitando una nuova questione sociale che oggi è «diventata radicalmente questione antropologica» (CV 75). Nella tarda modernità la questione sociale non si articola più in dimensioni nazionali che richiedono di determinare la giustizia sociale in termini di ordinamento sociale dello Stato, perché ora si presenta con caratteristiche globali (cf. CV 5, 6, 7, 9, e soprattutto 42)54. Così, come la Rerum novarum denunciò il falso rimedio del socialismo, adesso la Caritas in veritate denuncia il falso rimedio consistente non più in una ideologia dello Stato, ma nell’ideologia del progresso, denominata anche «potere ideologico» e «assolutismo della tecnica» (CV 70, 73; 75; 77)55. Come la Rerum novarum condannava l’ideologia del socialismo ma non le idee di giustizia sociale e di solidarietà, mettendo invece le basi per una loro declinazione personalistica in chiave di libertà morale nelle encicliche successive, adesso la Caritas in veritate condanna l’ideologia del progresso tecnico che astrae dall’uomo e da qualsiasi criterio etico, avvalorando però l’idea del «progresso umano» ovvero il fatto che «l’uomo è costitutivamente proteso verso l’“essere di più”» (CV 11; 14). Come la Rerum novarum non ha condannato la libertà nell’economia come tale, ora la Caritas in veritate non condanna la globalizzazione dell’economia in quanto «processo socioeconomico», ma rifiuta il potenziale «ideologico» della tecnica nel senso cioè della sottomissione dell’uomo, in tutti gli ambiti sociali, sotto imperativi anonimi e apersonali che utilizzano le dinamiche della globalizzazione56, invitando a riscoprire nella globalizzazione: «la realtà di un’umanità che diviene sempre più interconnessa», a cui il processo di globalizzazione «deve essere di utilità e di sviluppo, grazie all’assunzione da parte tanto dei singoli quanto della collettività delle rispettive responsabilità» (CV 42). 54 «Quanto la dottrina sociale della Chiesa ha sempre sostenuto a partire dalla sua visione dell’uomo e della società oggi è richiesto anche dalle dinamiche caratteristiche della globalizzazione» (CV 39). Anzi, oggi la visione della Rerum novarum, nei confronti delle res novae della tarda modernità, «oltre a essere posta in crisi dai processi di apertura dei mercati e delle società, mostra di essere incompleta per soddisfare le esigenze di un’economia pienamente umana» (ibid.). Secondo Benedetto XVI, la «grande sfida che abbiamo davanti a noi» è stata «fatta emergere dalle problematiche dello sviluppo in questo tempo di globalizzazione e resa ancor più esigente dalla crisi economicofinanziaria» (ibid. 36). 55 Significativamente, le encicliche Populorum progressio, Sollicitudo rei socialis e Caritas in veritate sono le uniche encicliche a non menzionare nemmeno una volta la parola «socialismo», mentre tutte le encicliche commemorative della Rerum novarum la riportano in maniera esplicita. 56 «Il processo di globalizzazione potrebbe sostituire le ideologie con la tecnica, divenuta essa stessa un potere ideologico, che esporrebbe l’umanità al rischio di trovarsi rinchiusa dentro un a priori dal quale non potrebbe uscire per incontrare l’essere e la verità» (CV 70; cf. 71). 10 Come quindi la DSC, dalla Rerum novarum alla Centesimus annus, ha salvato i concetti di giustizia sociale e di solidarietà dalla loro ideologizzazione socialista o paternalistica, allo stesso modo la Caritas in veritate riflette sul significato autentico del «progresso umano», mettendo in guardia dall’«assolutismo della tecnica» quando questo produce l’esclusione della dimensione umana ed etica dagli ambiti dell’economia, dell’ambiente, della scienza, della comunicazione57. La Caritas in veritate sviluppa esplicitamente il tema della carità come contributo specifico della riflessione cristiana sul «progresso» nella globalizzazione. Infatti solo se l’uomo è considerato nelle sue complete relazionalità personalistiche, soprattutto in quella trascendente, quindi solo se lo sviluppo acquisisce la dimensione della «carità», si può parlare anche del «vero sviluppo dell’uomo» (CV 29)58 che è poi la sua vocazione: «il progresso è, nella sua scaturigine e nella sua essenza, una vocazione: “Nel disegno di Dio, ogni uomo è chiamato a uno sviluppo, perché ogni vita è vocazione”» (CV 16 che cita PP 15). Su questi presupposti emerge la differenza tra il binomio «giustizia sociale e carità sociale» delle prime due encicliche ed il binomio «progresso/sviluppo e carità» della Caritas in veritate. Infatti la trascendenza verso la quale è indirizzato l’individuo non è argomentata in termini dogmatici come nel caso delle prime due encicliche, ma è declinata come vocazione, cioè come una promessa che responsabilizza la persona nella sua libertà verso il suo proprio futuro e verso quello dell’intera umanità59. Con la DSC la Caritas in veritate condivide invece l’articolazione della «giustizia sociale» in modo personalistico tramite i principi di solidarietà e sussidiarietà60. Però, poiché l’articolazione dell’identità individuale, personalità, solidarietà e sussidiarietà, viene messa in dubbio dagli imperativi tecnici della tarda modernità, si rende necessario riflettere su come poter ribadire socialmente tali caratteristiche. Infatti, la «tecnicizzazione» distrugge il tessuto umano ed etico dei vari ambiti della vita umana (economia, ambiente, tecnica in senso stretto, mezzi di comunicazione, scienze) e rende necessaria la riflessione su come tale dimensione, contrassegnata dalla libertà morale, possa essere socialmente ristabilita (cf. CV 70-77). A questo riguardo ci pare di cogliere la “terza” svolta paradigmatica, non ancora presente nelle due encicliche che trattano dello sviluppo, la Populorum progressio e la Sollicitudo rei socialis61. I due documenti, infatti, affrontano la il tema dello sviluppo estendendo i principi personalistici della DSC alle istituzioni economico-sociali e alle «strutture di peccato» a livello «L’assolutismo della tecnica tende a produrre un’incapacità di percepire ciò che non si spiega con la semplice materia» (CV 77). 58 Perciò, secondo la Caritas in veritate, è compito della DSC orientare la globalizzazione «verso un vero sviluppo umano» (CV 57). 59 Cfr. CV 2, 5, 11, 14. «La vocazione è un appello che richiede una risposta libera e responsabile. Lo sviluppo umano integrale suppone la libertà responsabile della persona e dei popoli: nessuna struttura può garantire tale sviluppo al di fuori e al di sopra della responsabilità umana» (CV 17). «Anche quando opera mediante un satellite o un impulso elettronico a distanza, il suo agire rimane sempre umano, espressione di libertà responsabile. La tecnica attrae fortemente l’uomo, perché lo sottrae alle limitazioni fisiche e ne allarga l’orizzonte. Ma la libertà umana è propriamente se stessa solo quando risponde al fascino della tecnica con decisioni che siano frutto di responsabilità morale» (CV 70). 60 «Se la sussidiarietà senza la solidarietà scade nel particolarismo sociale, è altrettanto vero che la solidarietà senza la sussidiarietà scade nell’assistenzialismo che umilia il portatore di bisogno… Questa regola di carattere generale va tenuta in grande considerazione» (CV 58). 61 Osserva M. KRIENKE, Giustizia sociale e carità cit., 43: «Questa radicalità si evince proprio dalle ripercussioni “rivoluzionarie” che la globalizzazione effettua su quei paesi (occidentali) dai quali originalmente essa è partita: riesce a strumentalizzare l’individuo rendendo vano il rispettivo ordinamento politico-giuridico-sociale. Corrodendo in tal modo le relazioni ontologiche dello stesso individuo, che le istituzioni tradizionali non riescono a proteggere, essa mette a rischio la sua dignità. Benedetto XVI tematizza nella sua enciclica le ripercussioni di questi sviluppi tardo-moderni sull’identità della persona e sulla sua dignità a livello sociale. Sono questi gli ambiti nei quali si esercitano oggi le strutture di potere sociali, lo sfruttamento di persone e l’oppressione da parte di quelli che dispongono dei rispettivi mezzi. In tale modo, i problemi della questione sociale ora si realizzano anche attraverso gli accennati fenomeni tardomoderni e non più soltanto nella questione operaia». 57 11 mondiale. Non hanno ancora di fronte in modo evidente il fenomeno della globalizzazione, che ha messo in crisi il valore delle istituzioni politiche e dell’intero piano istituzionale come unico riferimento della riflessione etico-sociale. 6. La giustizia sociale oltre i livelli tradizionali della giustizia, come forma radicale della carità. Nell’intento di affrontare le sfide attuali, Caritas in veritate aggiunge la dimensione della carità al personalismo del “secondo paradigma” di Centesimus annus, che declina la «giustizia sociale» in chiave di diritto e libertà. Partendo dall’individuo e dalla sua possibilità di sviluppo, da realizzarsi attraverso la definizione morale della sua libertà, le relazioni ontologiche della persona sono considerate la misura per esporre ordinatamente la trama dei rapporti sociali62. Pertanto, nell’ambito dell’attività economica, la relazione sociale si stabilisce primariamente attraverso la relazione di scambio o di giustizia commutativa63, da non considerare «di sua natura disumana e antisociale» (CV 36). Essa infatti rimanda oltre se stessa, a quel fondamento morale di rispetto reciproco che, qualsiasi relazione contrattuale tra i soggetti implicitamente presuppone, basata sull’idea del «giusto», che rinvia a sua volta all’idea dei diritti fondamentali e, dunque, alla dignità dell’uomo. Al riguardo, la DSC ha denunciato l’insufficienza dell’“etica minima” del giusto, che non include la dimensione della solidarietà, per cui soprattutto Giovanni Paolo II espresse la necessità di accompagnare la globalizzazione dell’economia e dei diritti fondamentali con il «globalizzare la solidarietà» nel senso di «sentirsi tutti responsabili di tutti» (cf. SRS 38, citata da CV 38, e CA 51). In quanto, poi, la solidarietà presuppone il riconoscimento della persona umana nella sua dignità e libertà64, essa esige come principio strutturale dell’ordinamento pubblico la sussidiarietà (CA 15 e 48). Attraverso i principi di personalità, solidarietà, sussidiarietà il «secondo paradigma» riflette dunque i presupposti etico-strutturali per un ordinamento politico-giuridico secondo la «giustizia sociale». In tal modo il quadro istituzionale apre strutturalmente anche per gli scambi gratuiti, che non entrano nella logica della «giustizia commutativa». La dimensione della solidarietà poi, definisce anche i compiti e i limiti dello Stato per la realizzazione della «giustizia sociale» e per evitare di degenerare nello «Stato assistenziale» (CA 48). Per cui anche Caritas in veritate propone, come già Centesimus annus, che i principi di solidarietà e sussidiarietà assumano «la forza e l’autorità delle leggi» (RN 29) in modo che tramite tale principi siano «adeguatamente concepiti e gestiti» i «processi di globalizzazione» (CV 42). Tuttavia l’enciclica rileva anche che la «giustizia distributiva» nella misura in cui l’«ordine civile» non riesce più a «reggersi» è messa in crisi dai processi di apertura dei mercati e delle società, rivelandosi incompleta per soddisfare le esigenze di un’economia pienamente umana (CV 39). Inoltre, in quanto è proprio la dimensione della società civile che è stata corrosa per gli sviluppi In tale senso, l’enciclica non intende la morale come limitazione della libertà, ma come il suo autentico presupposto. Solo per tale dimensione morale della sua libertà, l’uomo diventa cosciente e consapevole della dimensione di responsabilità che la libertà esige. Infatti, questa «limitazione» non è una limitazione esteriore alla sua propria libertà, ma giace nella caratterizzazione della libertà individuale lungo le relazionalità fondamentali morali. Cf. Ibidem 43-45; E.-W. BOCKENFORDE, La formazione dello stato come processo di secolarizzazione, Morcelliana, Brescia 2006, 68; W ROPKE, Scritti liberali, Sansoni, Firenze 1974, 68 ss. 63 «Nell’epoca della globalizzazione l’economia risente di modelli competitivi legati a culture tra loro molto diverse. I comportamenti economico-imprenditoriali che ne derivano trovano prevalentemente un punto d’incontro nel rispetto della giustizia commutativa» (CV 37; cf. 35). 64 Cf. BENEDETTO XVI, Messaggio per la celebrazione della XLII Giornata Mondiale della pace, 1 gennaio 2009, n. 14: «La globalizzazione da sola è incapace di costruire la pace e, in molti casi, anzi, crea divisioni e conflitti. Essa rivela piuttosto un bisogno: quello di essere orientata verso un obiettivo di profonda solidarietà che miri al bene di ognuno e di tutti. In questo senso, la globalizzazione va vista come un'occasione propizia per realizzare qualcosa di importante nella lotta alla povertà e per mettere a disposizione della giustizia e della pace risorse finora impensabili». 62 12 degli ultimi due decenni, Caritas in veritate sottolinea, più di Centesimus annus, l’importanza di rafforzare la dimensione della solidarietà. È a questo punto che l’enciclica fa un decisivo passo in avanti quando, per impedire le conseguenze invasive degli sviluppi delle novità della tarda modernità sulla persona umana, ricorda che la minaccia dell’assolutismo della tecnica65 non consente di considerare neutrali i meccanismi sociali e che non è sufficiente gestirli secondo i principi di «solidarietà» e «sussidiarietà» per assicurare il «vero sviluppo» della persona. Lo sviluppo integrale della persona dipende dai rapporti umani concreti, caratterizzati dall’atteggiamento e dalla responsabilità dei singoli nei confronti della società (che però il predominio del liberismo a partire dagli anni ’90 del secolo scorso ha fortemente attenuato), che va oltre la semplice logica della giustizia commutativa e della dimensione redistributiva dello stato e che è specificato da Caritas in veritate con la logica del dono, la cui funzione propria è: «Quella di far comprendere che accanto ai beni di giustizia ci sono i beni di gratuità e quindi che non è autenticamente umana quella società nella quale ci si accontenta dei soli beni di giustizia. (…) I beni di giustizia sono quelli che nascono da un dovere; i beni di gratuità sono quelli che nascono (…) dal riconoscimento che io sono legato a un altro, che, in un certo senso, è parte costitutiva di me»66. Aggiungendo la dimensione della carità all’ordinamento sociale definito dal secondo paradigma, il tessuto sociale e la base morale della società si costituisce non solo dall’individualità dei suoi membri, e in base alla relazione dell’uomo con se stesso, ma anche dalle due altre relazioni ontologiche della persona, ossia con gli altri e con Dio, dove risiede la «logica del dono e del perdono» (CV 6) che Caritas in veritate reclama come il necessario fondamento di fraternità e di carità della società67. L’enciclica rileva che oggi la «società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli e che la ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità» (CV 19). Per cui si preoccupa di rafforzare il fondamento morale della logica personalista proponendo di considerare la gratuità, e dunque la fraternità, «come cifra della condizione umana e quindi di vedere nell’esercizio del dono il presupposto indispensabile affinché Stato e mercato possano funzionare avendo di mira il bene comune»68. Infatti ignorando la dimensione del dono si potrà anche avere un mercato efficiente e uno stato autorevole (e perfino giusto), tuttavia efficienza e giustizia non sono sufficienti ad assicurare il bene comune né, tantomeno, la felicità delle persone69. La carità è infatti quella forza morale che mantiene viva la società nelle sue relazioni intersoggettive perché una società in cui esiste solamente il «dare per avere» o il «dare per dovere» non è sostenibile e rischia gravemente di non avere futuro70. In questo modo pur non essendo un criterio diretto all’ordinamento politico-giuridico-sociale come la «giustizia sociale», fraternità e 65 Cf. CV 74. S. ZAMAGNI, Fraternità, dono, reciprocità nella Caritas in veritate, in AA.VV., Amore e verità. Commento e guida alla lettura dell’Enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI, Paoline, Milano 2009, 89-90. 67 Giustamente Zamagni fa notare che «il principio di gratuità (ha) un posto di primo piano nella vita economica (…) Assieme alla democrazia la reciprocità è valore fondativo di una società. Anzi, si potrebbe anche sostenere che è dalla reciprocità che la regola democratica trae il suo senso ultimo. In quali “luoghi” la reciprocità è di casa, viene cioè praticata e alimentata? La famiglia è il primo di tali luoghi: si pensi ai rapporti tra genitori e figli e tra fratelli e sorelle. Poi c’è la cooperativa, l’impresa sociale e le varie forme di associazioni. Non è forse vero che i rapporti tra i componenti di una famiglia o tra soci di una cooperativa sono rapporti di reciprocità? Oggi sappiamo che il progresso civile ed economico di un Paese dipende basicamente da quanto diffuse tra i suoi cittadini sono le pratiche di reciprocità. Senza il mutuo riconoscimento di una comune appartenenza non c’è efficienza o accumulazione di capitale che tenga. C’è oggi un immenso bisogno di cooperazione: ecco perché abbiamo bisogno di espandere le forme della gratuità e di rafforzare quelle che già esistono». Cf. Ibidem, 88-89. 68 S. ZAMAGNI, Fraternità, dono, reciprocità cit., 90-91. 69 Ibidem, 91. 70 Cf. CV 39 e S. ZAMAGNI, Fraternità, dono, reciprocità cit., 82. 66 13 carità hanno un’importanza fondamentale per quest’ultima, in quanto la logica del dono integra senza sostituirli i due livelli della giustizia commutativa e della giustizia sociale, ponendosi come il vero e proprio fondamento della relazione sociale in quanto «senza la gratuità non si riesce a realizzare nemmeno la giustizia» (CV 38). A loro volta, fraternità e carità sono non soltanto il presupposto per il funzionamento della giustizia commutativa e della giustizia sociale, ma hanno anche bisogno della dimensione formale e sistematica dell’ordinamento della «giustizia». Infatti la fraternità e la carità per evitare di dissolversi al livello delle buone intenzioni trovano la propria dimensione nella misura in cui la società è ordinata dalla giustizia71. La complementarietà tra «giustizia» e «carità» è bene espressa nella proposta dei tre livelli che troviamo in Caritas in veritate: quello del contratto come pura reciprocità formale; quello della giustizia sociale e dell’ordinamento tramite i principi sociali di personalità, solidarietà e sussidiarietà e, infine, quello della carità72: «La vita economica ha senz’altro bisogno del contratto, per regolare i rapporti di scambio tra valori equivalenti [primo paradigma]. Ma ha altresì bisogno di leggi giuste e di forme di ridistribuzione guidate dalla politica [secondo paradigma], e inoltre di opere che rechino impresso lo spirito del dono [terzo paradigma]. L’economia globalizzata sembra privilegiare la prima logica, quella dello scambio contrattuale, ma direttamente o indirettamente dimostra di aver bisogno anche delle altre due, la logica politica e la logica del dono senza contropartita» (CV 37). 7. Conclusione Il passo di Caritas in veritate n. 37 ripropone un significato molto più radicale della giustizia sociale, da sempre appartenente al bagaglio della riflessione sociale cristiana, tra l’altro accennato brevemente e non molto chiaramente, nel paragrafo 202 del Compendio della Dottrina Sociale. La giustizia sociale è essenzialmente quello che la giustizia è in generale: una virtù morale dell’essere umano, e non una misura di “giusta distribuzione” di ricchezza e reddito. Essa corrisponde a ciò che Tommaso d’Aquino chiamò “giustizia generale” che poi coincide con la “giustizia legale”, in quanto la giustizia generale o legale è la giustizia della persona individuale nelle sue azioni, quando queste azioni si indirizzano non al bene della singola persona, ma al bene comune73. In questo senso allora la giustizia sociale manifesta due livelli: il primo quando l’individuo, come persona e come cittadino, contribuisce al bene comune della società di appartenenza in quanto gli è richiesto dalla legge (giustizia legale); il secondo quando spontaneamente contribuisce al bene comune, secondo la logica del dono, in quelle situazioni in cui è assente l’obbligo derivante dalla giustizia legale, dove la comunità non è ancora organizzata oppure è male organizzata. A questo secondo livello il contenuto della giustizia sociale consiste in un aiuto alla comunità che scaturisce dal legame del soggetto in quanto membro della stessa. Il senso e la pratica comune, confermano che in varie situazioni l’uomo riconosce e accetta obblighi caratterizzati dalla gratuità, per esempio: l’assistenza spontanea di una comunità ad un’altra a seguito di disastri pubblici; le raccolte di fondi a favore di terzi sulla base di un 71 In questo senso già San Tommaso Cat. Aurea In Matth V, Lectio 5, Glossa, osservava «Iustitia et misericordia ita coniunctae sunt, ut altera ab altera debeat temperari: iustitia enim sine misericordia crudelitas est; misericordia sine iustitia, dissolutio», cui fa eco CV 4: «Un Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali». 72 Cf. M. KRIENKE, op. cit., 50. 73 Si veda supra, § 2. In questo senso anche A. ROSMINI, La società e il suo fine, Pogliani, Milano 1837, 119: «nel privato si dee cercare il pubblico bene; nella giustizia dell’individuo si dee cercar quella della società; nel fondo del cuore umano si dee porre la prima pietra dell’edificio sociale: e questa pietra si è la virtù». Cf. M. RHONHEIMER, Il vero significato della “giustizia sociale” cit., 15. 14 “indefinito” diritto di giustizia; in situazioni di crisi di vario genere quando uomini, ritenuti con le doti necessarie per un dato frangente, accettano compiti che li sovraccaricano di lavoro nonché rischiosi, semplicemente perché convinti che ciò è richiesto dal bene comune. In quanto virtù la giustizia sociale ci fa comprendere come sia importante che tutti i cittadini si sentano responsabili per il bene comune anche in misura «eccedente il giusto», perché il bene comune non può essere delegato soltanto e totalmente allo Stato come compito di giustizia e di solidarietà. Tra l’altro questa considerazione deve oggi essere estesa ai singoli stati e ai vari organismi internazionali74 i quali, come titolari di diritti, hanno a loro volta una responsabilità «eccedente il giusto» nei confronti della comunità internazionale e del bene comune della famiglia umana, che Caritas in veritate richiama più volte parlando di «bene comune mondiale», «bene comune globale», «bene comune universale» (cf. CV 41; 57; 76), offrendo in tal modo quell’orizzonte di senso che la globalizzazione con le sue attuali caratteristiche non conosce ma che, senza il quale, non potrà mai realizzare un autentico sviluppo umano. Per esempio, pensiamo allo sviluppo economico e ai tentativi di penetrarne le dinamiche, con l’obiettivo di ottenere indicazioni di politica economica per una crescita durevole ed equa. Di fatto, gli economisti sono stati capaci di capire perché e come lo sviluppo economico si sia prodotto in un dato luogo e in un dato tempo. Allo stesso tempo però, non vi è altrettanta capacità oggi per capire come procedere per avviare o accelerare lo sviluppo economico. Nessun meccanismo sembra funzionare, nonostante si tratti di operare al livello della dimensione materiale dello sviluppo economico, che dovrebbe essere la più semplice da realizzare. Infatti là dove lo sviluppo economico è stato scientificamente programmato e perseguito con feroce determinazione, come nelle esperienze di pianificazione centrale di stampo sovietico, si è prodotta realmente una crescita materiale vigorosa, tuttavia l’intero esperimento si è consumato nel volgere di qualche decennio, lasciando dietro di sé una evidente devastazione materiale e umana75. La ragione è stata chiaramente spiegata: la libertà umana è una parte indispensabile della storia dello sviluppo76, essa richiede delle ragioni adeguate per mettersi in moto. Nel tempo e nell'incertezza, deve saper osare, avendo alcune certezze che però non devono provenire dal passato, lungo un percorso evolutivo necessario. Lo sviluppo economico infatti è sempre, in qualche modo, anche discontinuità77: è un osare il nuovo e l'inesplorato sulla base della ragionevole speranza che tutto abbia un senso. È proprio questo orizzonte di senso che permette di superare problemi oggettivi quali la scarsità delle risorse materiali, per esempio, che pur rimanendo una condizione con cui fare i conti, non può essere un impedimento all’innovazione e all’azione per la giustizia, la pace e lo sviluppo78. Pensiamo all’Italia e agli altri paesi fondatori della Comunità Europea usciti dalla devastazione della seconda guerra mondiale e anche da secoli di frammentazione e di cruente guerre intestine: l’aver intravisto un senso, una strada che si poteva osare, ha fatto la differenza rispetto al passato. Infatti, le devastazioni della prima guerra mondiale non furono da meno di quelle della seconda, ma non sono state motivo sufficiente per evitare la seconda! Evidentemente non è ciò che si porta alle spalle che fa la differenza, quanto piuttosto l’avere di fronte un orizzonte di senso che spinge a perseguire qualcosa di vero e di possibile. L’esperienza economica elementare conferma che non si costruisce in modo sostenibile, senza motivazioni e aspirazioni da realizzare79. «In una società in via di globalizzazione, il bene comune e l’impegno per esso non possono non assumere le dimensioni dell’intera famiglia umana, vale a dire della comunità dei popoli e delle Nazioni» (CV 7). 75 S. BERETTA, Carità e giustizia: la strada dello sviluppo, in P. REQUENA – M. SCHLAG (a cura di), La persona al centro del Magistero sociale della Chiesa, Edusc, Roma 2011, 90. 76 A. SEN, Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, Mondadori, MIlano 1999. 77 J.A. SCHUMPETER, Teoria dello sviluppo economico, Sansoni, Firenze 1971 (nuova edizione Rizzoli-Etas, Milano 2013). 78 S. BERETTA, Carità e giustizia cit., 90. 79 La motivazione e le aspirazioni di chi lavora, due aspetti cruciali della “dimensione soggettiva del lavoro” (LE 6), fanno la differenza nella quantità e nella qualità dei beni e dei servizi prodotti. Qualunque manager lo sa; non a caso, la gestione delle risorse umane dedica uno sforzo massiccio per sostenere la motivazione dei dipendenti e renderli proattivi nel perseguire gli scopi d’impresa... di solito con risultati trascurabili. D’altro canto, qualunque lavoratore sa 74 15 Di conseguenza la dimensione immateriale e le esigenze fondamentali (la verità, la giustizia, l’amore, la libertà) non sono qualcosa di altro rispetto alla quotidiana materialità della vita e la misura della giustizia nella sfera economica appartiene ad un orizzonte di senso a cui forse non sappiamo dare un nome, ma senza del quale la giustizia stessa cade in un meccanicismo inaccettabile. Per cui, in conclusione, riprendendo quanto sottolineato all’inizio circa le caratteristiche della misericordia, potremmo dire che il comportamento improntato alla giustizia sociale, come forma radicale della carità, scaturisce dall’esperienza della fragilità del cuore umano che tuttavia non incrina la fiducia nell’uomo e nella sua possibilità di conversione al bene, concretizzando il dettato della quinta beatitudine: «Beati i misericordiosi» (Mt 5,7). Questa beatitudine, oggi più che mai, ci offre l’orizzonte di senso per compiere quel salto di qualità di cui la società globalizzata odierna ha estrema urgenza. che la mercede rubata grida l’ingiustizia fino al più alto dei cieli; sa che nella soddisfazione profonda per il suo lavoro conta sì la remunerazione, ma anche l’essere riconosciuto per il proprio contributo all’impresa comune; conta l’apprezzamento di uno sguardo umano. Cf Ibidem. 16