SU DANTE IN SABA
di un recente intervento la presenza di Dante
A nell’operaa inoggetto
versi di Umberto Saba, Gabriella Di Paola DollorenSSUMENDO
zo ne investiga tèmi e soprattutto forme, individua lessemi e stilemi, isola,
con criterio esplicitamente antologico, determinati componimenti, in cui
tale debito sarebbe più cospicuo, riconosce nella funzione nobilitante che
eserciterebbe il modello illustre, su una poesia di per sé, com’è noto, improntata a un classicismo antinovecentesco, la sua cifra peculiare.1
Credo, tuttavia, che, approfondendo i preziosi suggerimenti ivi forniti, si possa appuntare lo sguardo su un altro testo sabiano, per il quale
mi sembra lecito riconoscere in filigrana una neppur tanto celata influenza dantesca.2 Mi riferisco ad Amai, lirica «molto famosa perché si confi1
Cfr. G. DI PAOLA DOLLORENZO, Dantismo e dantismi di Saba, «Rivista di letteratura
italiana», XXVI, 2-3, 2008 (= Saba extravagante. Atti del Convegno internazionale di studi
(Milano, 14-16 novembre 2007), a cura e con introduzione di G. Baroni), pp. 203-205 (la
studiosa afferma espressamente: «La vocazione alla classicità e all’epicità avvicina Saba a
Dante» [ivi, p. 203]). Una sintesi dell’articolo ha steso V. CRESCENTE, «La rassegna della letteratura italiana», CXIII, 1, 2009, p. 170. Qualche lume in materia gettano già tre interventi
anteriori, che, non menzionati dalla Di Paola Dollorenzo, cito senza pretesa di esaurire la
bibliografia pregressa: L. SCORRANO, Dante in Saba, in Per le nozze di corallo 1955-1990 di
Enzo Esposito e Citty Mauro, Ravenna, Longo, 1990, pp. 137-149 (riprodotto, con lievissimi
ritocchi, in ID., Presenza verbale di Dante nella letteratura italiana del Novecento, Ravenna,
Longo, 1994, pp. 113-125 [bibliografia specifica sull’autore a p. 190]), F. BRUGNOLO, Il
Canzoniere di Umberto Saba, in Letteratura italiana. Le opere, Direzione: A. Asor Rosa, IV:
Il Novecento. I. L’età della crisi, Torino, Einaudi, 1995, pp. 497-559: 543-545 e M. GUGLIELMINETTI, Dante e il Novecento italiano, in «Per correr miglior acque …». Bilanci e prospettive
degli studi danteschi alle soglie del nuovo millennio. Atti del Convegno internazionale di
Verona-Ravenna (25-29 ottobre 1999), Roma, Salerno, 2001, I, pp. 515-531: 517-518.
2
Preciso che per il Canzoniere sabiano cito dalla medesima edizione adoperata dalla
studiosa (cfr. G. DI PAOLA DOLLORENZO, Dantismo cit., p. 204, nota 5): U. SABA, Il canzoniere
(1900-1954), Introduzione di N. Palmieri, Torino, Einaudi, 2004, edizione che riproduce,
«con le necessarie correzioni», quella (la terza) del 1957 (ivi, p. LI); ho tuttavia consultato con profitto anche quella mondadoriana, comprendente pure i componimenti esclusi
dall’ultimo Canzoniere (Poesie rifiutate e Poesie disperse, nell’insieme il Canzoniere apocrifo):
U. SABA, Tutte le poesie, a cura di A. Stara, Introduzione di M. Lavagetto, Milano, Mondadori, 1988 (20049), ove – mi piace riportarlo – circa la riscoperta dei classici della letteratura
italiana (fra cui Dante) e la loro ripresa nelle poesie degli esordî, a detta di M. LAVAGETTO, «si
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Francesco De Nicola
gura come manifesto poetico dell’autore», compresa nella sezione Mediterranee del Canzoniere, apparsa la prima volta quale raccolta autonoma nel
1946 e quindi riprodotta in chiusa dell’edizione di quest’ultimo uscita due
anni dopo.3 A fonte soggiacente vorrei additare le celeberrime tre terzine conclusive del primo discorso di Francesca (Inf. V 100-107). In particolare, mi ha suggerito questo confronto l’affinità tra i vv. 7-8 «[…] Con
paura il cuore / le si accosta, che più non l’abbandona» del testo sabiano e i vv. 104-105 «mi prese del costui piacer sì forte, / che, come vedi,
ancor non m’abbandona» di quello dantesco, segnatamente fra il secondo emistichio del v. 8 dell’uno e il v. 105 dell’altro. Di proposito dico affinità e non somiglianza per due ragioni essenziali: l’una, di macroscopica
evidenza, è che in Dante la proposizione introdotta da «che» è una consecutiva, laddove in Saba è una relativa, il cui pronome, avente valore di
soggetto, risulta, con prezioso iperbato, separato dall’antecedente al quale per vincolo logico si lega («il cuore»); 4 l’altra, di minor importanza, è
avvertono come i residui di una “compitazione” infantile» (ivi, p. XV); quanto poi a Dante,
per la Vita Nova ho tratto partito dall’impiego delle edizioni commentate di Domenico De
Robertis (D. ALIGHIERI, Vita nuova, a cura di D. De Robertis, Milano-Napoli, Ricciardi,
1980) e di Guglielmo Gorni (D. ALIGHIERI, Vita nova, a cura di G. Gorni, Torino, Einaudi,
1996), fondate entrambe sul testo critico stabilito da Michele Barbi (1907, 19322), ma la
seconda non senza cospicui mutamenti, mentre per la Divina Commedia mi sono avvalso
del testo critico procurato da Giorgio Petrocchi (La Commedia secondo l’antica vulgata, a
cura di G. Petrocchi, 4 voll., Milano, Mondadori, 1966-1967; Firenze, Le Lettere, 19942),
riprodotto a più riprese. Rammento, una volta per tutte, che, nelle citazioni dell’opera in
versi di Saba, di norma indicherò la lirica, premessa la sezione di appartenenza, la pagina
dell’edizione della Palmieri e, fra parentesi, il termine ovvero i termini che mi interessa
segnalare (in genere espliciterò anche il numero del verso, anteponendolo a quello della
pagina, se la poesia si stende su più d’una, posponendolo, se su una sola).
3
Per queste notizie e per una fine analisi della poesia, che si avrà occasione di richiamare più volte, cfr. R. SACCANI, G. LAVEZZI, Umberto Saba, in C. SEGRE, C. MARTIGNONI,
Testi nella storia. La letteratura italiana dalle origini al Novecento, IV: Il Novecento, a cura
di G. Lavezzi, C. Martignoni, P. Sarzana, R. Saccani, Milano, Bruno Mondadori, 1992,
pp. 658-659 (la citazione è tolta da p. 658; l’intera trattazione di Saba occupa le pp. 629682, alle quali si aggiunge la bibliografia a p. 1014), nonché N. PALMIERI, in U. SABA, Il
canzoniere (1900-1954) cit., p. XLVII (la poesia si legge a p. 516); per una sinossi di Mediterranee e dell’edizione del Canzoniere del ’48, cfr. A. STARA, in U. SABA, Tutte le poesie cit.,
p. 1086 (precisamente Amai apriva – è lecito supporre, chioso, in virtù di tale carattere
programmatico – il nucleo primitivo della raccolta, formato da cinque poesie, completate
già alla fine del ’45 e pubblicate sul fascicolo V [luglio 1946] della rivista «Poesia»: cfr.
ivi, pp. 1064 e 1128). A dire il vero, la stessa Di Paola Dollorenzo allude cursoriamente
a essa, all’interno di un passaggio vòlto a dimostrare, sulla scorta di un giudizio di Gian
Luigi Beccaria, il ‘realismo’ (Nomina sunt consequentia rerum) della poesia del triestino
(cfr. G. DI PAOLA DOLLORENZO, Dantismo cit., p. 204, ove si ricordano le «trite parole»,
per cui vedi Amai, v. 1).
4
Che il pronome abbia tale funzione e sia unito a questo antecedente, e non a «le»
(«la verità»: vedi v. 5), è persuasivamente delucidato da R. SACCANI, G. LAVEZZI, Umberto
Saba cit., nota ad loc., p. 659. Quanto al termine stesso «cuor», non si dimentichi che «cor»
Su Dante in Saba
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la distribuzione degli accenti secondarî dei due endecasillabi, ché nell’Alighieri essi cadono, con ritmo più regolare, in 4a, 6a e 10a sede, mentre nel
novecentista in 3a, 6a e 10a. Tali differenze, a parer mio, non tolgono validità alla proposta or ora avanzata. In realtà, a quanto ho potuto ricavare da uno spoglio della LIZ,5 il termine abbandona (si trascurino forme
con s[i] riflessivo o passivante) risulta a più riprese occorrere nella medesima posizione (punta di verso) 6 in varî autori, fino a tutto il Cinquecento; 7 nello stesso Dante, tacendo di Inf. VIII 109 e Par. VIII 66, è opportuno richiamare, con maggior attenzione, il sonetto Spesse fiate vegnonmi
a la mente di Vit. N. 16 (9 Gorni), i cui vv. 5-6 (§ 8) suonano: «ch’Amor
m’assale subitamente, / sì che la vita quasi m’abbandona»; qui troviamo
figura al v. 100 del succitato luogo dantesco. Per alcuni casi di iperbato in Saba, ricordo,
a puro titolo di esempio, tolti da due sezioni, cronologicamente prossime a Mediterranee:
Ultime cose (1935-1943): Teatro, vv. 4-6, p. 465 «La voce tace da tanto alla quale, / alla
sua eco lunga nel ricordo, / il mio giovane cuore si appoggiava» e Luciana, vv. 7-8, p. 478
«M’hai perdonata quella che t’infersi / – oh giovanezza! – amorosa ferita?»; 1944, Avevo,
p. 490, vv. 52-53 «fu il piccolo / d’antichi libri raro negozietto»; attingendo ad altre sezioni,
mette conto tirare in causa Poesie scritte durante la guerra, Milano 1917, vv. 1-3 (l’intera
poesia), p. 161 «Per ogni via un soldato – un fante – zoppo / va poggiato pian piano al
suo bastone, / che nella mano libera ha un fagotto».
5
Cfr. LIZ 4.0. Letteratura italiana Zanichelli, a cura di P. Stoppelli ed E. Picchi,
Bologna, Zanichelli, 2001, s.v. «abbandona». Per l’uso in generale del verbo, gallicismo
documentato sin dal Duecento, cfr. S. BATTAGLIA, Grande dizionario della lingua italiana,
s.v. «Abbandonare» (I [1961], pp. 12-13; per il luogo dantesco, vedi n. 1).
6
Ove – si noti bene – in genere si addensano, in specie nella poesia sabiana più tarda,
i dantismi: cfr. G. DI PAOLA DOLLORENZO, Dantismo cit., p. 205.
7
Esempî (trascelti) di occorrenze in chiusa di verso: C. D’ASCOLI, L’Acerba I, IX,
43 «al nostro ingiegno che ’l ben abandona» e II, XVI, 31 «La invidia che ’l mondo non
abandona»; F. DEGLI UBERTI, Il Dittamondo I, X, 31-32 «bagna e frega / il Reno e questo
mai non l’abbandona»; G. BOCCACCIO, Rime I, CI, 12 «Ma come ravveduto m’abbandona»;
L. PULCI, Morgante XIX, CLX, 1-2 «Non si saziava a Morgante far festa, / tanto che ’l collo
ancor non abbandona», XXI, XLI, 1 «Allora Orlando lo scudo abbandona» e XXVIII, XLIX,
5 «l’anima sua il secolo abbandona»; L. ARIOSTO, Orlando furioso I, LIX, 3-4 «intruona
l’orecchia, / sì che mal grado l’impresa abbandona», XXII, LXXV, 5 «vien con lui sempre,
e mai non l’abbandona» (e altrove); G. G. TRISSINO, Rime LXXIX, 71-72 «bella Citherea,
/ che benché morto sia, non l’abbandona»; P. ARETINO, Marfisa I, CVI, 8 «l’ombra irata
con lor non gli abbandona». Per quelle nella produzione lirica di Saba, cfr. G. SAVOCA,
Vocabolario della poesia italiana del Novecento. Le concordanze delle poesie di Govoni,
Corazzini, Gozzano, Moretti, Palazzeschi, Sbarbaro, Rebora, Ungaretti, Campana, Cardarelli,
Saba, Montale, Pavese, Quasimodo, Pasolini, Turoldo, Bologna, Zanichelli, 1995, pp. 25-26
(purtroppo lo spoglio è limitato all’edizione del Canzoniere del ’21, con l’aggiunta tuttavia
delle «liriche riportate nell’Appendice, che comprende testi scritti fino al 1921, ma non
inclusi» in quell’edizione: cfr. ivi, p. 8; comunque, nel resto della produzione in versi si
rinvengono solo un’occorrenza del verbo in Preludio e canzonette [1922-1923], Canzonetta
2. Il dolore, p. 218, v. 28 «il mio cuor s’abbandona» e una del sostantivo corradicale in
Parole [1933-1934], Stella, p. 428, vv. 6-7 «tace / ingiustizia, non pesa più abbandono»,
nessuna delle quali rilevante per il mio assunto).
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Francesco De Nicola
lo stesso costrutto consecutivo riproposto poi nella Commedia, ma assai
diversi appaiono contesto, temperie spirituale e tono.8 A prescindere dalle divergenze, anzitutto grammaticali, fra i due passi, legittimo suona invece l’accostamento di quello dell’Inferno ad Amai: come Paolo è per sempre (anche nell’oltremondo) unito dal vincolo d’amore a Francesca, così
il «cuore» di Saba pervicacemente non si stacca da quella «verità» con
tanta fatica raggiunta e conquistata.9 E che forse, circa il senso di «paura» che il poeta dichiara di avvertire, non agisca pure, di là da più contingenti (e stringenti) motivazioni esistenziali, pure un’indiretta, forse irriflessa memoria letteraria del luogo (infero) dantesco?
Occorre comunque tirare in causa anche altri argomenti. Anzitutto
a favore della mia proposta ne torna uno non secondario: la struttura
metrica dell’intero testo. Quest’ultimo si sviluppa in tre strofe, precisamente due quartine e un distico, che ricordano l’articolazione trimembre
del passaggio summenzionato del discorso di Francesca, in verità, ancóra
una volta, nel segno, tutto moderno, di una maggiore libertà compositiva; 10 alla medesima dialettica di ossequio al modello e di innovazione ri-
8
Per una fine lettura del componimento, compreso in un manipolo che suggella «il
momento più spiccatamente patetico in senso cavalcantiano del libro», e i cui tèmi «sono
avvivati […] dalla concatenazione compatta e drammatica», cfr. M. PAZZAGLIA, Spesse fiate
vegnonmi a la mente, in Enciclopedia dantesca, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana,
19842, V, pp. 380-381 (le citazioni sono desunte da p. 380); lo studioso annovera anche il
motivo della vita che abbandona l’io lirico, espresso dal v. 6, fra gli echi cavalcantiani (vedi
p. 380), verisimilmente sulla scorta di Poesie, 35, vv. 17-18 «che la morte / mi stringe sì, che
vita m’abbandona» di Guido (è quasi superfluo rilevare, anche qui, l’impianto consecutivo
del periodo). Avrebbe riecheggiato il motivo, seppur con debiti mutamenti, Lapo Gianni:
cfr. Rime 12, vv. 28-30 «dirai com’io son sempre disïoso / di far li suoi piageri oltre misura,
/ mentre la vita mia non m’abbandona» (rileva cursoriamente il rapporto con Cavalcanti
M. BERISSO, nota ad loc.: cfr. Poesie dello Stilnovo, a cura di M. Berisso, Milano, Rizzoli,
2006, p. 440). Sull’uso del verbo in Dante, rinvio all’articolo, ricco di acuti rilievi, di F.
ANCESCHI, abbandonare, in Enciclopedia dantesca cit., I, p. 10.
9
Su questo punto, vedi sotto, nota 12. In termini di «orgoglio», da parte del poeta, nel
«rivendicare l’originalità delle sue scelte estetiche», si esprime S. PAVARINI, Umberto Saba,
Giuseppe Ungaretti, Salvatore Quasimodo. Poetica e poesia dell’Ermetismo, in Storia della
letteratura italiana. Diretta da Enrico Malato, IX: Il Novecento, Roma, Salerno, 2000, pp.
451-543: 466. Comunque, per M. LAVAGETTO, la poesia (intesa quale produzione poetica)
costituisce «il più inquietante e il più evasivo, il più misterioso e il più presente di tutti i
personaggi di Saba» (cfr. U. SABA, Tutte le poesie cit., p. XIII).
10
Appare significativo che P. G. BELTRAMI, La metrica italiana, Bologna, Il Mulino,
1991, p. 137, a proposito di Saba, parli di «ricorso alle forme [metriche] tradizionali
(peraltro temperato da un vario sperimentalismo, e con approdi, nel tempo, a forme relativamente libere)» e citi proprio Amai a prova che «lingua poetica, forma metrica e rima
[…] si presentano come un tutt’uno con la personalità morale che il poeta rivendica a
sé». A una tale interpretazione, in certa misura, sprona Saba stesso, con quanto scrive in
Storia e cronistoria del Canzoniere (1948): «per Saba il mezzo espressivo non lo preoccupò
mai molto. Esisteva da prima della sua nascita (per lui quindi da sempre); era, tradotto in
Su Dante in Saba
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spetto a esso pare obbedire la scelta uniforme dell’endecasillabo, fuorché
per il v. 3, un ternario costituito – non sarà un caso – dal solo termine
«amore»,11 di cui assurge a maggior rilievo la pregnanza semantica e la risonanza intertestuale.
E infatti l’ordito lessicale e l’impianto retorico valgono alla stregua di
autentiche prove provate, a mio giudizio, del ragionamento sin qui svolto. In Dante, le tre terzine sono scandite dall’anafora della parola tematica «Amor» (cfr. vv. 100, 103, 106); analogamente, ricorrendo alla medesima figura dell’ornatus, Saba apre le tre strofe della sua poesia con una
voce del verbo amare (cfr. v. 1 «Amai», v. 5 «Amai», v. 9 «Amo»); 12 nelle due terzine e nel distico finale danteschi con i tempi verbali si assiste
alla sostituzione del passato remoto con il presente, un presente di fatto
termini tecnici, il vecchio endecasillabo e gli altri metri triti e tradizionali: [segue citazione
della prima quartina di Amai] […]. A quei vecchi metri, a quelle trite parole occorreva
solo imprimere il suggello di una personalità nuova e ben definita, piegare gli uni e le altre
a dire, col massimo di esattezza e di aderenza alla verità interiore, quel tanto di nuovo che
ognuno porta in sé nascendo, e che Saba, per ragioni etniche od altre, portò in grado forse
maggiore» (U. SABA, Tutte le prose cit., p. 329).
11
Sulle «“parole-verso” tipograficamente isolate, di memoria ungarettiana» (manca
qui, tuttavia, l’artificio tipografico), che Saba introdusse già nella raccolta Parole del 19331934, per assecondare la «ricerca di una musicalità più complessa», cfr. N. PALMIERI, in
U. SABA, Il canzoniere (1900-1954) cit., pp. XLII-XLIII (le citazioni sono tratte da p. XLIII).
In Mediterranee se ne riscontra un unico caso (taccio dei sintagmi): cfr. Variazioni sulla
rosa, 3, p. 532, v. 8 «Ancora». Quanto alla rima (baciata) con «fiore», di cui il poeta dice
di aver avvertito tutta la fascinazione (cfr. vv. 2-3 «M’incantò la rima fiore / amore»), il
riferimento è a Trieste e una donna (1910-1912), Trieste, p. 79, vv. 12-13 «per regalare un
fiore; / come un amore» e Intorno ad una casa in costruzione, vv. 25 e 27, p. 92 (alternata,
con «più»-«gioventù» [vv. 26 e 28]), ma anzitutto allo stesso Dante (Par. XXXIII 7-9 «Nel
ventre tuo si raccese l’amore / per lo cui caldo ne l’etterna pace / così è germinato questo
fiore» (rimando, quest’ultimo, come il riferimento a Trieste, còlti da L. SCORRANO, Dante
cit., p. 145 e ibid., nota 27 [a p. 149; quindi Presenza cit., p. 123 e ibid., nota 27]). Per
l’uso della rima baciata in Saba, mi limito a richiamare, desunta da La serena disperazione
(1913-1915), la trilogia (in distici) costituente Dopo la giovanezza, pp. 136-138.
12
R. SACCANI, G. LAVEZZI, Umberto Saba cit., Analisi, p. 659, ben rilevano che il passaggio dal passato al presente suggerisce il «senso di […] continuità» nell’adesione al vero
da parte del poeta. D’altronde di «intimo vero» Saba parla già ne Il sogno, del 1910, una
delle Poesie rifiutate, come rammenta N. PALMIERI, in U. SABA, Il canzoniere (1900-1954)
cit., p. XXI (cfr. pure p. XLVI). L’artifizio dell’anafora, in realtà, non è ignoto ad altre poesie
di Saba, anzi vi ricorre con notevole frequenza (cfr. sotto, Appendice, pp. 280-281). Di
fronte a sì copiosa documentazione, raccolta selettivamente, e prescindendo del tutto dal
Canzoniere apocrifo – sarebbe sin troppo facile limitarsi a evocare, note le origini ebraiche
(per parte materna) dell’autore, la tendenza ai costrutti iterativi propria della lingua biblica
(ad es., per A mia moglie, M. LAVAGETTO, muovendo da un suggerimento di Saba stesso,
parla di «litania fondata su strofe di alterna lunghezza che determinano la successiva» [U.
SABA, Tutte le poesie cit., p. XXII, nonché, circa l’amore per i parallelismi, p. XXI]) –, conta,
allora, per il caso che ho richiamato, il complesso coerente degli indizî, di quelli rilevati
poc’anzi e di quanti mi accingo a segnalare.
278
Francesco De Nicola
acronico, in quanto coincidente con l’eternità di un destino immutabile,
nei primi due casi (v. 102 «e il modo ancor m’offende»; v. 105 «che […]
ancor non m’abbandona»), equivalente a un futuro, anch’esso escatologico, nell’ultimo (v. 107 «Caina attende»); pure nelle quartine sabiane a un
passato remoto o a un imperfetto succede un presente (vv. 1-4 «Amai […]
osava. M’incantò la rima […], la più antica difficile del mondo»; 13 vv. 5-8
«Amai […] giace […] riscopre […] accosta […] abbandona»), tempo che
s’impone nel distico conclusivo (v. 9 «Amo te che mi ascolti»).14
D’altronde, rispetto al recupero del canto quinto dell’Inferno dantesco
nell’opera poetica tutta di Saba, spiccano I prigioni (1924), L’eroe, v. 14,
p. 268 «costui, non mai da me diviso», nonché Autobiografia (1924), 9,
vv. 1-2, p. 251 «Notte e giorno un pensiero aver coatto, / estraneo a me,
non mai da me diviso», per i quali cfr. Inf. V 135 «questi, che mai da me
non fia diviso» (compreso – si badi – nel secondo discorso di Francesca).15
A integrazione del contributo della Di Paola Dollorenzo, al fine di segnalare qualche altro dantismo senza uscire dallo scopo e dai limiti di questo intervento, cito soltanto Trieste e una donna, Verso casa, vv. 5-6, p. 80
«Trieste, nova città, che tiene d’una maschia adolescenza» e soprattutto Il
piccolo Berto (1929-1931), Infanzia, vv. 17-18, p. 390 «che tiene / del villaggetto carsico natio» (riferito alla balia), richiamanti da vicino Inf. XV
63 «e tiene ancor del monte e del macigno» (detto della parte del popolo
fiorentino discesa dai fiesolani) e, tra i verbi parasintetici, L’uomo (1928),
p. 337, vv. 88-89 «il cuore / attosca», per il quale cfr. Inf. VI 84 «se ’l ciel
li addolcia, o lo ’nferno li attosca» (rammento altresì l’occorrenza dell’ossimorico «un salubre tosco» in A mamma, p. 22, v. 66) e Preludio e fughe, Sesta fuga (a 3 voci), p. 369, vv. 285-287 «che [scil. il diamante] in
bei gialli, in rossi, in blu, / quando a un raggio di sol brilla, / lo splendor
nativo immilla», che ricorda Par. XXVIII 92-93 «eran tante, che ’l numero loro / più che ’l doppiar de li scacchi s’inmilla» (ma qui non è esclusa, anzi è probabile, la reminiscenza del pur non amato Guido Gozzano,
con cui più stretto è il parallelismo – cfr. La via del rifugio, 5 [L’amica di
nonna Speranza], vv. 11-12 «il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone / e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto»; d’altronde il verbo appare più volte ripreso, sulla scia di Dante, soprattutto
13
Come emerge da quanto scrivo, tratto l’apposizione che forma il verso conclusivo,
per il suo carattere gnomico, alla stregua di un presente sentenzioso atemporale.
14
Non reputo dirimente la presenza al v. 10 del participio passato «lasciata», visto
il suo minor peso semantico; comunque, a voler sottilizzare, anche il testo dantesco reca,
quale ultimo verbo, un preterito (v. 107 «spense»).
15
In merito, cfr. anche L. SCORRANO, Dante cit., p. 142, e altresì pp. 141 e 144 (quindi
Presenza cit., pp. 119 e 122).
Su Dante in Saba
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in epoca decadentistica); 16 quanto infine all’impiego sabiano di «figgere»,
frequente in Dante, per il quale la studiosa tira in causa esclusivamente
Intermezzo a Lina (cfr. p. 74, v. 54 «figgi»), non posso esimermi dal rammentare che il verbo ricorre già in Versi militari, Soldato alla prigione, v.
4, p. 51 («figgeva»).
Tutto questo ben si comprende alla luce della relazione più generale di
Saba con Dante, di cui, a sua volta, costituisce una chiara spia. Al riguardo, mi limito a richiamare le esplicite, reiterate dichiarazioni del triestino
circa il primato, da lui conferito, a Dante rispetto al Petrarca (Dante, per
ammissione del poeta, pur «non […] capito […] che verso i ventitré, ventiquattro anni»): si vedano, ad esempio, Storia e cronistoria del Canzoniere, in U. Saba, Tutte le prose cit., pp. 118-119: «Chi molto fa molto sbaglia; e forse, nell’arte come nella vita, perfezione e grandezza non vanno
sempre d’accordo. Dante ha sbagliato più, e più spesso, del Petrarca; ciò
non toglie che questi stia al primo come una candela al sole»; Le schegge
del «mondo meraviglioso» (1945-1957), Due suppliche (1955), 1a: «la poesia (non parlo della letteratura) è rara, così rara che omettendo Dante (la
cui grandezza è quasi fuori della misura umana) […]», ivi, p. 1080. Esse
e altre simili, tuttavia, vanno lette all’interno del complesso rapporto di
adozione dei Rerum vulgarium fragmenta a modello della propria raccolta poetica complessiva e di drastico rifiuto del petrarchismo e di ogni legame con esso che percorre genesi ed esiti della raccolta, affiorando nei
testi in prosa: 17 illuminante, in merito, tacendo d’altro, è la testimonianza
offerta dalla «Lettera all’editore» (Alberto Mondadori), del maggio 1946,
epistola prefatoria di Mediterranee.18
Valido ciò che si è finora cercato di dimostrare, si evince come, proprio mentre proclama la dimessa verità della sua poesia, Saba non rinunzî
a seguire le orme di una somma auctoritas,19 quasi a innalzare il messaggio di un testo del quale, per il suo valore di bilancio/programma, avver16
Cfr. S. BATTAGLIA, Grande dizionario della lingua italiana, s.v. «Immillare» (VII
[1972], p. 364), specialmente n. 1, e altresì L. SCORRANO, Dante cit., p. 140 (poi Presenza
cit., 117); per il giudizio negativo di Saba su Gozzano, cfr. N. PALMIERI, in U. SABA, Il
canzoniere (1900-1954) cit., p. VI, specialmente nota 5, nonché M. LAVAGETTO, in U. SABA,
Tutte le poesie cit., pp. XXIII-XXIV; sulla categoria dei verbi parasintetici richiama l’attenzione,
adducendo esempî differenti, G. DI PAOLA DOLLORENZO, Dantismo cit., p. 205.
17
Al riguardo, cfr. N. PALMIERI, in U. SABA, Il canzoniere (1900-1954) cit., pp. XXIIXXXII, specialmente XXV-XXVII; per la tarda ‘comprensione’ dell’Alighieri, cfr. anche G. DI
PAOLA DOLLORENZO, Dantismo cit., p. 203.
18
Riprodotta in U. SABA, Tutte le poesie cit., pp. 1084-1086, nonché in ID., Tutte le
prose, a cura di A. Stara, con un saggio introduttivo di M. Lavagetto, Milano, Mondadori,
2001, pp. 1131-1134.
19
E che tale fosse sentita da Saba stesso, si desume da varie testimonianze, fra cui
quelle citate poc’anzi.
280
Francesco De Nicola
te tutto il valore esistenziale e letterario: un sapiente intarsio, nell’apparente, persino ostentata modestia del registro.20
La tessera che – spero a ragion veduta – si è ora posta, darà forse
l’abbrivo alla composizione di un più vasto e articolato mosaico.
FRANCESCO DE NICOLA
APPENDICE
Sul ricorso all’anafora e alla ripetizione in genere da parte di Saba, riporto qui
alcuni casi, nell’ordine in cui compaiono nel libro: Casa e campagna (1909-1910),
A mia moglie, pp. 64-66 («Tu sei come»); 21 Trieste e una donna, Nuovi versi alla
luna, p. 101 («La luna»), La malinconia amorosa, p. 103 («Malinconia amorosa»,
pressoché identico al titolo), Nuovi versi alla Lina, 1, p. 111 («Una donna»), L’ultima tenerezza, pp. 128-129 («Ti vedo, mia povera Lina, / ti vedo, e»); Cose leggere e vaganti (1920), Paolina, p. 182 («Paolina», coincidente con il titolo); Ultime cose (1935-1943), C’era, p. 475 («C’era», caso analogo al precedente). Dei non
infrequenti esempî di ripetizione predominante, ma non estesa a tutte le strofe,
per brevità ricordo solo i seguenti: Poesie dell’adolescenza e giovanili (1900-1907):
A mamma, pp. 21-24 («Mamma») e Meditazione, pp. 26-27 («La luna»); Trieste
e una donna, Città vecchia, p. 81 («Qui»), Intorno ad una casa in costruzione, p.
92 («I comignoli rosa e il cielo azzurro»), L’ora nostra, p. 93 («È l’ora»), Il poeta, p. 95 («Il poeta ha le sue giornate / contate»); Cuor morituro (1925-1930), Tre
punte secche, 2. Il caffelatte, pp. 318-319 («Amara», in due strofe, «Bramerebbe»,
in altre due, con disposizione chiastica, e due irrelate); 1944, Avevo, pp. 489-490
(«Avevo», in cui si osservi pure che in ogni strofa iniziante così il distico finale suona «Tutto mi portò via il fascista abbietto / ed il tedesco lurco» – invero,
il primo verso del penultimo distico «Tutto mi portò via il fascista inetto» e l’ultimo in assoluto «– anche la tomba – ed il tedesco lurco», con patente ripresa
dantesca: cfr. Inf. XVII 21 «là tra li Tedeschi lurchi»; ma l’espressione era passata quasi in proverbio, soprattutto in età risorgimentale e postrisorgimentale,22 ed
è il poeta per primo a denunziare l’origine ‘popolare’ del recupero).23 Altrove, in-
20
Che non esclude comunque uno scaltrito gioco di rimandi, parallelismi e altri artifizî
metrici e lessicali, per cui si rinvia di nuovo a R. SACCANI, G. LAVEZZI, Umberto Saba cit.,
Analisi, p. 659.
21
Alcune «parole-rima dantesche» vi segnala G. DI PAOLA DOLLLORENZO, Dantismo
cit., p. 205.
22
Cfr. S. BATTAGLIA, Grande dizionario della lingua italiana, s.v. «Lurco» (IX [1975],
p. 319), n. 3 (è citato per ultimo questo luogo sabiano).
23
Cfr. Storia e cronistoria del Canzoniere, in U. SABA, Tutte le prose cit., p. 311, come
rammenta L. SCORRANO, Dante cit., p. 142, nota 23 (a p. 149), poi Presenza cit., p. 120,
nota 23.
Su Dante in Saba
281
fine, sono ripresi, sempre o in prevalenza, sintagmi simili, ma non identici (anche qui seleziono): Nuovi versi alla Lina, 14, p. 124 («Dico» / «Ti dico»); La serena disperazione (1913-1915), Caffè Tergeste, p. 151 («Caffè Tergeste» / «Caffè di
ladri» / «Caffè di plebe»); Cose leggere e vaganti (1920), La mia fanciulla, p. 186
(«La mia fanciulla» / «La mia piccola cara»); Preludio e fughe (1928-1929), Sesta
fuga (a 3 voci), pp. 360-369 («Io non so più dolce cosa» / «Io non so più grande
cosa» / «Io non so più lieta cosa» / «Io non so più caldo amore» / «Io non so più
cieco amore» / «Io non so di questo amore» / «Io non so più breve cosa»); Parole, Neve, p. 413 («Neve che turbini in alto ed avvolgi» / «Neve che cadi dall’alto e noi copri»); Mediterranee (si noti), Tre poesie a Linuccia, 1, p. 527 («Era un
piccolo mondo» / «Era un mondo difficile»; in 2, p. 528 «Era un piccolo porto»).
Tralascio deliberatamente iterazioni (anch’esse frequenti) di corradicali (mi limito
ad accennare a quelle di «amare» / «amore», per cui cfr. Nuovi versi alla Lina, 11,
p. 121 e Autobiografia, 12, p. 254); più significative, semmai, quelle – contraddistinte in genere dalla variatio – di sintagmi al principio e in chiusa del componimento, che ingenerano una composizione anulare (produco un solo esempio: Trieste e una donna, Il poeta, vv. 1-4 e 23-26 [rispettivamente prima e terza strofa],
p. 95: «Il poeta ha le sue giornate / contate, / come tutti gli uomini; ma quanto,
/ quanto variate!» [al v. 26 «variate» cede il posto a «beate»]).