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Su Dante in Saba

ssumendo a oggetto di un recente intervento la presenza di Dante nell'opera in versi di Umberto Saba, Gabriella Di Paola Dollorenzo ne investiga tèmi e soprattutto forme, individua lessemi e stilemi, isola, con criterio esplicitamente antologico, determinati componimenti, in cui tale debito sarebbe più cospicuo, riconosce nella funzione nobilitante che eserciterebbe il modello illustre, su una poesia di per sé, com'è noto, improntata a un classicismo antinovecentesco, la sua cifra peculiare. 1 Credo, tuttavia, che, approfondendo i preziosi suggerimenti ivi forniti, si possa appuntare lo sguardo su un altro testo sabiano, per il quale mi sembra lecito riconoscere in filigrana una neppur tanto celata influenza dantesca. 2 Mi riferisco ad Amai, lirica «molto famosa perché si confi-1 Cfr. G. di Paola dollorenzo, Dantismo e dantismi di Saba, «Rivista di letteratura italiana», XXVI, 2-3, 2008 (= Saba extravagante. Atti del Convegno internazionale di studi (Milano, 14-16 novembre 2007), a cura e con introduzione di G. Baroni), pp. 203-205 (la studiosa afferma espressamente: «La vocazione alla classicità e all'epicità avvicina Saba a Dante» [ivi, p. 203]). Una sintesi dell'articolo ha steso V. CresCente, «La rassegna della letteratura italiana», CXIII, 1, 2009, p. 170. Qualche lume in materia gettano già tre interventi anteriori, che, non menzionati dalla Di Paola Dollorenzo, cito senza pretesa di esaurire la bibliografia pregressa: l. sCorrano, Dante in Saba, in Per le nozze di corallo 1955-1990 di Enzo Esposito e Citty Mauro, Ravenna, Longo, 1990, pp. 137-149 (riprodotto, con lievissimi ritocchi, in id., Presenza verbale di Dante nella letteratura italiana del Novecento, Ravenna, Longo, 1994, pp. 113-125 [bibliografia specifica sull'autore a p. 190]), F. BruGnolo, Il Canzoniere di Umberto Saba, in Letteratura italiana. Le opere, Direzione: A. Asor Rosa, IV: Il Novecento. I. L'età della crisi, Torino, Einaudi, 1995, pp. 497-559: 543-545 e m. GuGlielminetti, Dante e il Novecento italiano, in «Per correr miglior acque …». Bilanci e prospettive degli studi danteschi alle soglie del nuovo millennio. Atti del Convegno internazionale di Verona-Ravenna (25-29 ottobre 1999), Roma, Salerno, 2001, I, pp. 515-531: 517-518. 2 Preciso che per il Canzoniere sabiano cito dalla medesima edizione adoperata dalla studiosa (cfr. G. di Paola dollorenzo, Dantismo cit., p. 204, nota 5): u. saBa, Il canzoniere , Introduzione di N. Palmieri, Torino, Einaudi, 2004, edizione che riproduce, «con le necessarie correzioni», quella (la terza) del 1957 (ivi, p. li); ho tuttavia consultato con profitto anche quella mondadoriana, comprendente pure i componimenti esclusi dall'ultimo Canzoniere (Poesie rifiutate e Poesie disperse, nell'insieme il Canzoniere apocrifo): u. saBa, Tutte le poesie, a cura di A. Stara, Introduzione di M. Lavagetto, Milano, Mondadori, 1988Mondadori, (2004 ), ove -mi piace riportarlo -circa la riscoperta dei classici della letteratura italiana (fra cui Dante) e la loro ripresa nelle poesie degli esordî, a detta di M. laVaGetto, «si A

SU DANTE IN SABA di un recente intervento la presenza di Dante A nell’operaa inoggetto versi di Umberto Saba, Gabriella Di Paola DollorenSSUMENDO zo ne investiga tèmi e soprattutto forme, individua lessemi e stilemi, isola, con criterio esplicitamente antologico, determinati componimenti, in cui tale debito sarebbe più cospicuo, riconosce nella funzione nobilitante che eserciterebbe il modello illustre, su una poesia di per sé, com’è noto, improntata a un classicismo antinovecentesco, la sua cifra peculiare.1 Credo, tuttavia, che, approfondendo i preziosi suggerimenti ivi forniti, si possa appuntare lo sguardo su un altro testo sabiano, per il quale mi sembra lecito riconoscere in filigrana una neppur tanto celata influenza dantesca.2 Mi riferisco ad Amai, lirica «molto famosa perché si confi1 Cfr. G. DI PAOLA DOLLORENZO, Dantismo e dantismi di Saba, «Rivista di letteratura italiana», XXVI, 2-3, 2008 (= Saba extravagante. Atti del Convegno internazionale di studi (Milano, 14-16 novembre 2007), a cura e con introduzione di G. Baroni), pp. 203-205 (la studiosa afferma espressamente: «La vocazione alla classicità e all’epicità avvicina Saba a Dante» [ivi, p. 203]). Una sintesi dell’articolo ha steso V. CRESCENTE, «La rassegna della letteratura italiana», CXIII, 1, 2009, p. 170. Qualche lume in materia gettano già tre interventi anteriori, che, non menzionati dalla Di Paola Dollorenzo, cito senza pretesa di esaurire la bibliografia pregressa: L. SCORRANO, Dante in Saba, in Per le nozze di corallo 1955-1990 di Enzo Esposito e Citty Mauro, Ravenna, Longo, 1990, pp. 137-149 (riprodotto, con lievissimi ritocchi, in ID., Presenza verbale di Dante nella letteratura italiana del Novecento, Ravenna, Longo, 1994, pp. 113-125 [bibliografia specifica sull’autore a p. 190]), F. BRUGNOLO, Il Canzoniere di Umberto Saba, in Letteratura italiana. Le opere, Direzione: A. Asor Rosa, IV: Il Novecento. I. L’età della crisi, Torino, Einaudi, 1995, pp. 497-559: 543-545 e M. GUGLIELMINETTI, Dante e il Novecento italiano, in «Per correr miglior acque …». Bilanci e prospettive degli studi danteschi alle soglie del nuovo millennio. Atti del Convegno internazionale di Verona-Ravenna (25-29 ottobre 1999), Roma, Salerno, 2001, I, pp. 515-531: 517-518. 2 Preciso che per il Canzoniere sabiano cito dalla medesima edizione adoperata dalla studiosa (cfr. G. DI PAOLA DOLLORENZO, Dantismo cit., p. 204, nota 5): U. SABA, Il canzoniere (1900-1954), Introduzione di N. Palmieri, Torino, Einaudi, 2004, edizione che riproduce, «con le necessarie correzioni», quella (la terza) del 1957 (ivi, p. LI); ho tuttavia consultato con profitto anche quella mondadoriana, comprendente pure i componimenti esclusi dall’ultimo Canzoniere (Poesie rifiutate e Poesie disperse, nell’insieme il Canzoniere apocrifo): U. SABA, Tutte le poesie, a cura di A. Stara, Introduzione di M. Lavagetto, Milano, Mondadori, 1988 (20049), ove – mi piace riportarlo – circa la riscoperta dei classici della letteratura italiana (fra cui Dante) e la loro ripresa nelle poesie degli esordî, a detta di M. LAVAGETTO, «si 274 Francesco De Nicola gura come manifesto poetico dell’autore», compresa nella sezione Mediterranee del Canzoniere, apparsa la prima volta quale raccolta autonoma nel 1946 e quindi riprodotta in chiusa dell’edizione di quest’ultimo uscita due anni dopo.3 A fonte soggiacente vorrei additare le celeberrime tre terzine conclusive del primo discorso di Francesca (Inf. V 100-107). In particolare, mi ha suggerito questo confronto l’affinità tra i vv. 7-8 «[…] Con paura il cuore / le si accosta, che più non l’abbandona» del testo sabiano e i vv. 104-105 «mi prese del costui piacer sì forte, / che, come vedi, ancor non m’abbandona» di quello dantesco, segnatamente fra il secondo emistichio del v. 8 dell’uno e il v. 105 dell’altro. Di proposito dico affinità e non somiglianza per due ragioni essenziali: l’una, di macroscopica evidenza, è che in Dante la proposizione introdotta da «che» è una consecutiva, laddove in Saba è una relativa, il cui pronome, avente valore di soggetto, risulta, con prezioso iperbato, separato dall’antecedente al quale per vincolo logico si lega («il cuore»); 4 l’altra, di minor importanza, è avvertono come i residui di una “compitazione” infantile» (ivi, p. XV); quanto poi a Dante, per la Vita Nova ho tratto partito dall’impiego delle edizioni commentate di Domenico De Robertis (D. ALIGHIERI, Vita nuova, a cura di D. De Robertis, Milano-Napoli, Ricciardi, 1980) e di Guglielmo Gorni (D. ALIGHIERI, Vita nova, a cura di G. Gorni, Torino, Einaudi, 1996), fondate entrambe sul testo critico stabilito da Michele Barbi (1907, 19322), ma la seconda non senza cospicui mutamenti, mentre per la Divina Commedia mi sono avvalso del testo critico procurato da Giorgio Petrocchi (La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. Petrocchi, 4 voll., Milano, Mondadori, 1966-1967; Firenze, Le Lettere, 19942), riprodotto a più riprese. Rammento, una volta per tutte, che, nelle citazioni dell’opera in versi di Saba, di norma indicherò la lirica, premessa la sezione di appartenenza, la pagina dell’edizione della Palmieri e, fra parentesi, il termine ovvero i termini che mi interessa segnalare (in genere espliciterò anche il numero del verso, anteponendolo a quello della pagina, se la poesia si stende su più d’una, posponendolo, se su una sola). 3 Per queste notizie e per una fine analisi della poesia, che si avrà occasione di richiamare più volte, cfr. R. SACCANI, G. LAVEZZI, Umberto Saba, in C. SEGRE, C. MARTIGNONI, Testi nella storia. La letteratura italiana dalle origini al Novecento, IV: Il Novecento, a cura di G. Lavezzi, C. Martignoni, P. Sarzana, R. Saccani, Milano, Bruno Mondadori, 1992, pp. 658-659 (la citazione è tolta da p. 658; l’intera trattazione di Saba occupa le pp. 629682, alle quali si aggiunge la bibliografia a p. 1014), nonché N. PALMIERI, in U. SABA, Il canzoniere (1900-1954) cit., p. XLVII (la poesia si legge a p. 516); per una sinossi di Mediterranee e dell’edizione del Canzoniere del ’48, cfr. A. STARA, in U. SABA, Tutte le poesie cit., p. 1086 (precisamente Amai apriva – è lecito supporre, chioso, in virtù di tale carattere programmatico – il nucleo primitivo della raccolta, formato da cinque poesie, completate già alla fine del ’45 e pubblicate sul fascicolo V [luglio 1946] della rivista «Poesia»: cfr. ivi, pp. 1064 e 1128). A dire il vero, la stessa Di Paola Dollorenzo allude cursoriamente a essa, all’interno di un passaggio vòlto a dimostrare, sulla scorta di un giudizio di Gian Luigi Beccaria, il ‘realismo’ (Nomina sunt consequentia rerum) della poesia del triestino (cfr. G. DI PAOLA DOLLORENZO, Dantismo cit., p. 204, ove si ricordano le «trite parole», per cui vedi Amai, v. 1). 4 Che il pronome abbia tale funzione e sia unito a questo antecedente, e non a «le» («la verità»: vedi v. 5), è persuasivamente delucidato da R. SACCANI, G. LAVEZZI, Umberto Saba cit., nota ad loc., p. 659. Quanto al termine stesso «cuor», non si dimentichi che «cor» Su Dante in Saba 275 la distribuzione degli accenti secondarî dei due endecasillabi, ché nell’Alighieri essi cadono, con ritmo più regolare, in 4a, 6a e 10a sede, mentre nel novecentista in 3a, 6a e 10a. Tali differenze, a parer mio, non tolgono validità alla proposta or ora avanzata. In realtà, a quanto ho potuto ricavare da uno spoglio della LIZ,5 il termine abbandona (si trascurino forme con s[i] riflessivo o passivante) risulta a più riprese occorrere nella medesima posizione (punta di verso) 6 in varî autori, fino a tutto il Cinquecento; 7 nello stesso Dante, tacendo di Inf. VIII 109 e Par. VIII 66, è opportuno richiamare, con maggior attenzione, il sonetto Spesse fiate vegnonmi a la mente di Vit. N. 16 (9 Gorni), i cui vv. 5-6 (§ 8) suonano: «ch’Amor m’assale subitamente, / sì che la vita quasi m’abbandona»; qui troviamo figura al v. 100 del succitato luogo dantesco. Per alcuni casi di iperbato in Saba, ricordo, a puro titolo di esempio, tolti da due sezioni, cronologicamente prossime a Mediterranee: Ultime cose (1935-1943): Teatro, vv. 4-6, p. 465 «La voce tace da tanto alla quale, / alla sua eco lunga nel ricordo, / il mio giovane cuore si appoggiava» e Luciana, vv. 7-8, p. 478 «M’hai perdonata quella che t’infersi / – oh giovanezza! – amorosa ferita?»; 1944, Avevo, p. 490, vv. 52-53 «fu il piccolo / d’antichi libri raro negozietto»; attingendo ad altre sezioni, mette conto tirare in causa Poesie scritte durante la guerra, Milano 1917, vv. 1-3 (l’intera poesia), p. 161 «Per ogni via un soldato – un fante – zoppo / va poggiato pian piano al suo bastone, / che nella mano libera ha un fagotto». 5 Cfr. LIZ 4.0. Letteratura italiana Zanichelli, a cura di P. Stoppelli ed E. Picchi, Bologna, Zanichelli, 2001, s.v. «abbandona». Per l’uso in generale del verbo, gallicismo documentato sin dal Duecento, cfr. S. BATTAGLIA, Grande dizionario della lingua italiana, s.v. «Abbandonare» (I [1961], pp. 12-13; per il luogo dantesco, vedi n. 1). 6 Ove – si noti bene – in genere si addensano, in specie nella poesia sabiana più tarda, i dantismi: cfr. G. DI PAOLA DOLLORENZO, Dantismo cit., p. 205. 7 Esempî (trascelti) di occorrenze in chiusa di verso: C. D’ASCOLI, L’Acerba I, IX, 43 «al nostro ingiegno che ’l ben abandona» e II, XVI, 31 «La invidia che ’l mondo non abandona»; F. DEGLI UBERTI, Il Dittamondo I, X, 31-32 «bagna e frega / il Reno e questo mai non l’abbandona»; G. BOCCACCIO, Rime I, CI, 12 «Ma come ravveduto m’abbandona»; L. PULCI, Morgante XIX, CLX, 1-2 «Non si saziava a Morgante far festa, / tanto che ’l collo ancor non abbandona», XXI, XLI, 1 «Allora Orlando lo scudo abbandona» e XXVIII, XLIX, 5 «l’anima sua il secolo abbandona»; L. ARIOSTO, Orlando furioso I, LIX, 3-4 «intruona l’orecchia, / sì che mal grado l’impresa abbandona», XXII, LXXV, 5 «vien con lui sempre, e mai non l’abbandona» (e altrove); G. G. TRISSINO, Rime LXXIX, 71-72 «bella Citherea, / che benché morto sia, non l’abbandona»; P. ARETINO, Marfisa I, CVI, 8 «l’ombra irata con lor non gli abbandona». Per quelle nella produzione lirica di Saba, cfr. G. SAVOCA, Vocabolario della poesia italiana del Novecento. Le concordanze delle poesie di Govoni, Corazzini, Gozzano, Moretti, Palazzeschi, Sbarbaro, Rebora, Ungaretti, Campana, Cardarelli, Saba, Montale, Pavese, Quasimodo, Pasolini, Turoldo, Bologna, Zanichelli, 1995, pp. 25-26 (purtroppo lo spoglio è limitato all’edizione del Canzoniere del ’21, con l’aggiunta tuttavia delle «liriche riportate nell’Appendice, che comprende testi scritti fino al 1921, ma non inclusi» in quell’edizione: cfr. ivi, p. 8; comunque, nel resto della produzione in versi si rinvengono solo un’occorrenza del verbo in Preludio e canzonette [1922-1923], Canzonetta 2. Il dolore, p. 218, v. 28 «il mio cuor s’abbandona» e una del sostantivo corradicale in Parole [1933-1934], Stella, p. 428, vv. 6-7 «tace / ingiustizia, non pesa più abbandono», nessuna delle quali rilevante per il mio assunto). 276 Francesco De Nicola lo stesso costrutto consecutivo riproposto poi nella Commedia, ma assai diversi appaiono contesto, temperie spirituale e tono.8 A prescindere dalle divergenze, anzitutto grammaticali, fra i due passi, legittimo suona invece l’accostamento di quello dell’Inferno ad Amai: come Paolo è per sempre (anche nell’oltremondo) unito dal vincolo d’amore a Francesca, così il «cuore» di Saba pervicacemente non si stacca da quella «verità» con tanta fatica raggiunta e conquistata.9 E che forse, circa il senso di «paura» che il poeta dichiara di avvertire, non agisca pure, di là da più contingenti (e stringenti) motivazioni esistenziali, pure un’indiretta, forse irriflessa memoria letteraria del luogo (infero) dantesco? Occorre comunque tirare in causa anche altri argomenti. Anzitutto a favore della mia proposta ne torna uno non secondario: la struttura metrica dell’intero testo. Quest’ultimo si sviluppa in tre strofe, precisamente due quartine e un distico, che ricordano l’articolazione trimembre del passaggio summenzionato del discorso di Francesca, in verità, ancóra una volta, nel segno, tutto moderno, di una maggiore libertà compositiva; 10 alla medesima dialettica di ossequio al modello e di innovazione ri- 8 Per una fine lettura del componimento, compreso in un manipolo che suggella «il momento più spiccatamente patetico in senso cavalcantiano del libro», e i cui tèmi «sono avvivati […] dalla concatenazione compatta e drammatica», cfr. M. PAZZAGLIA, Spesse fiate vegnonmi a la mente, in Enciclopedia dantesca, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 19842, V, pp. 380-381 (le citazioni sono desunte da p. 380); lo studioso annovera anche il motivo della vita che abbandona l’io lirico, espresso dal v. 6, fra gli echi cavalcantiani (vedi p. 380), verisimilmente sulla scorta di Poesie, 35, vv. 17-18 «che la morte / mi stringe sì, che vita m’abbandona» di Guido (è quasi superfluo rilevare, anche qui, l’impianto consecutivo del periodo). Avrebbe riecheggiato il motivo, seppur con debiti mutamenti, Lapo Gianni: cfr. Rime 12, vv. 28-30 «dirai com’io son sempre disïoso / di far li suoi piageri oltre misura, / mentre la vita mia non m’abbandona» (rileva cursoriamente il rapporto con Cavalcanti M. BERISSO, nota ad loc.: cfr. Poesie dello Stilnovo, a cura di M. Berisso, Milano, Rizzoli, 2006, p. 440). Sull’uso del verbo in Dante, rinvio all’articolo, ricco di acuti rilievi, di F. ANCESCHI, abbandonare, in Enciclopedia dantesca cit., I, p. 10. 9 Su questo punto, vedi sotto, nota 12. In termini di «orgoglio», da parte del poeta, nel «rivendicare l’originalità delle sue scelte estetiche», si esprime S. PAVARINI, Umberto Saba, Giuseppe Ungaretti, Salvatore Quasimodo. Poetica e poesia dell’Ermetismo, in Storia della letteratura italiana. Diretta da Enrico Malato, IX: Il Novecento, Roma, Salerno, 2000, pp. 451-543: 466. Comunque, per M. LAVAGETTO, la poesia (intesa quale produzione poetica) costituisce «il più inquietante e il più evasivo, il più misterioso e il più presente di tutti i personaggi di Saba» (cfr. U. SABA, Tutte le poesie cit., p. XIII). 10 Appare significativo che P. G. BELTRAMI, La metrica italiana, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 137, a proposito di Saba, parli di «ricorso alle forme [metriche] tradizionali (peraltro temperato da un vario sperimentalismo, e con approdi, nel tempo, a forme relativamente libere)» e citi proprio Amai a prova che «lingua poetica, forma metrica e rima […] si presentano come un tutt’uno con la personalità morale che il poeta rivendica a sé». A una tale interpretazione, in certa misura, sprona Saba stesso, con quanto scrive in Storia e cronistoria del Canzoniere (1948): «per Saba il mezzo espressivo non lo preoccupò mai molto. Esisteva da prima della sua nascita (per lui quindi da sempre); era, tradotto in Su Dante in Saba 277 spetto a esso pare obbedire la scelta uniforme dell’endecasillabo, fuorché per il v. 3, un ternario costituito – non sarà un caso – dal solo termine «amore»,11 di cui assurge a maggior rilievo la pregnanza semantica e la risonanza intertestuale. E infatti l’ordito lessicale e l’impianto retorico valgono alla stregua di autentiche prove provate, a mio giudizio, del ragionamento sin qui svolto. In Dante, le tre terzine sono scandite dall’anafora della parola tematica «Amor» (cfr. vv. 100, 103, 106); analogamente, ricorrendo alla medesima figura dell’ornatus, Saba apre le tre strofe della sua poesia con una voce del verbo amare (cfr. v. 1 «Amai», v. 5 «Amai», v. 9 «Amo»); 12 nelle due terzine e nel distico finale danteschi con i tempi verbali si assiste alla sostituzione del passato remoto con il presente, un presente di fatto termini tecnici, il vecchio endecasillabo e gli altri metri triti e tradizionali: [segue citazione della prima quartina di Amai] […]. A quei vecchi metri, a quelle trite parole occorreva solo imprimere il suggello di una personalità nuova e ben definita, piegare gli uni e le altre a dire, col massimo di esattezza e di aderenza alla verità interiore, quel tanto di nuovo che ognuno porta in sé nascendo, e che Saba, per ragioni etniche od altre, portò in grado forse maggiore» (U. SABA, Tutte le prose cit., p. 329). 11 Sulle «“parole-verso” tipograficamente isolate, di memoria ungarettiana» (manca qui, tuttavia, l’artificio tipografico), che Saba introdusse già nella raccolta Parole del 19331934, per assecondare la «ricerca di una musicalità più complessa», cfr. N. PALMIERI, in U. SABA, Il canzoniere (1900-1954) cit., pp. XLII-XLIII (le citazioni sono tratte da p. XLIII). In Mediterranee se ne riscontra un unico caso (taccio dei sintagmi): cfr. Variazioni sulla rosa, 3, p. 532, v. 8 «Ancora». Quanto alla rima (baciata) con «fiore», di cui il poeta dice di aver avvertito tutta la fascinazione (cfr. vv. 2-3 «M’incantò la rima fiore / amore»), il riferimento è a Trieste e una donna (1910-1912), Trieste, p. 79, vv. 12-13 «per regalare un fiore; / come un amore» e Intorno ad una casa in costruzione, vv. 25 e 27, p. 92 (alternata, con «più»-«gioventù» [vv. 26 e 28]), ma anzitutto allo stesso Dante (Par. XXXIII 7-9 «Nel ventre tuo si raccese l’amore / per lo cui caldo ne l’etterna pace / così è germinato questo fiore» (rimando, quest’ultimo, come il riferimento a Trieste, còlti da L. SCORRANO, Dante cit., p. 145 e ibid., nota 27 [a p. 149; quindi Presenza cit., p. 123 e ibid., nota 27]). Per l’uso della rima baciata in Saba, mi limito a richiamare, desunta da La serena disperazione (1913-1915), la trilogia (in distici) costituente Dopo la giovanezza, pp. 136-138. 12 R. SACCANI, G. LAVEZZI, Umberto Saba cit., Analisi, p. 659, ben rilevano che il passaggio dal passato al presente suggerisce il «senso di […] continuità» nell’adesione al vero da parte del poeta. D’altronde di «intimo vero» Saba parla già ne Il sogno, del 1910, una delle Poesie rifiutate, come rammenta N. PALMIERI, in U. SABA, Il canzoniere (1900-1954) cit., p. XXI (cfr. pure p. XLVI). L’artifizio dell’anafora, in realtà, non è ignoto ad altre poesie di Saba, anzi vi ricorre con notevole frequenza (cfr. sotto, Appendice, pp. 280-281). Di fronte a sì copiosa documentazione, raccolta selettivamente, e prescindendo del tutto dal Canzoniere apocrifo – sarebbe sin troppo facile limitarsi a evocare, note le origini ebraiche (per parte materna) dell’autore, la tendenza ai costrutti iterativi propria della lingua biblica (ad es., per A mia moglie, M. LAVAGETTO, muovendo da un suggerimento di Saba stesso, parla di «litania fondata su strofe di alterna lunghezza che determinano la successiva» [U. SABA, Tutte le poesie cit., p. XXII, nonché, circa l’amore per i parallelismi, p. XXI]) –, conta, allora, per il caso che ho richiamato, il complesso coerente degli indizî, di quelli rilevati poc’anzi e di quanti mi accingo a segnalare. 278 Francesco De Nicola acronico, in quanto coincidente con l’eternità di un destino immutabile, nei primi due casi (v. 102 «e il modo ancor m’offende»; v. 105 «che […] ancor non m’abbandona»), equivalente a un futuro, anch’esso escatologico, nell’ultimo (v. 107 «Caina attende»); pure nelle quartine sabiane a un passato remoto o a un imperfetto succede un presente (vv. 1-4 «Amai […] osava. M’incantò la rima […], la più antica difficile del mondo»; 13 vv. 5-8 «Amai […] giace […] riscopre […] accosta […] abbandona»), tempo che s’impone nel distico conclusivo (v. 9 «Amo te che mi ascolti»).14 D’altronde, rispetto al recupero del canto quinto dell’Inferno dantesco nell’opera poetica tutta di Saba, spiccano I prigioni (1924), L’eroe, v. 14, p. 268 «costui, non mai da me diviso», nonché Autobiografia (1924), 9, vv. 1-2, p. 251 «Notte e giorno un pensiero aver coatto, / estraneo a me, non mai da me diviso», per i quali cfr. Inf. V 135 «questi, che mai da me non fia diviso» (compreso – si badi – nel secondo discorso di Francesca).15 A integrazione del contributo della Di Paola Dollorenzo, al fine di segnalare qualche altro dantismo senza uscire dallo scopo e dai limiti di questo intervento, cito soltanto Trieste e una donna, Verso casa, vv. 5-6, p. 80 «Trieste, nova città, che tiene d’una maschia adolescenza» e soprattutto Il piccolo Berto (1929-1931), Infanzia, vv. 17-18, p. 390 «che tiene / del villaggetto carsico natio» (riferito alla balia), richiamanti da vicino Inf. XV 63 «e tiene ancor del monte e del macigno» (detto della parte del popolo fiorentino discesa dai fiesolani) e, tra i verbi parasintetici, L’uomo (1928), p. 337, vv. 88-89 «il cuore / attosca», per il quale cfr. Inf. VI 84 «se ’l ciel li addolcia, o lo ’nferno li attosca» (rammento altresì l’occorrenza dell’ossimorico «un salubre tosco» in A mamma, p. 22, v. 66) e Preludio e fughe, Sesta fuga (a 3 voci), p. 369, vv. 285-287 «che [scil. il diamante] in bei gialli, in rossi, in blu, / quando a un raggio di sol brilla, / lo splendor nativo immilla», che ricorda Par. XXVIII 92-93 «eran tante, che ’l numero loro / più che ’l doppiar de li scacchi s’inmilla» (ma qui non è esclusa, anzi è probabile, la reminiscenza del pur non amato Guido Gozzano, con cui più stretto è il parallelismo – cfr. La via del rifugio, 5 [L’amica di nonna Speranza], vv. 11-12 «il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone / e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto»; d’altronde il verbo appare più volte ripreso, sulla scia di Dante, soprattutto 13 Come emerge da quanto scrivo, tratto l’apposizione che forma il verso conclusivo, per il suo carattere gnomico, alla stregua di un presente sentenzioso atemporale. 14 Non reputo dirimente la presenza al v. 10 del participio passato «lasciata», visto il suo minor peso semantico; comunque, a voler sottilizzare, anche il testo dantesco reca, quale ultimo verbo, un preterito (v. 107 «spense»). 15 In merito, cfr. anche L. SCORRANO, Dante cit., p. 142, e altresì pp. 141 e 144 (quindi Presenza cit., pp. 119 e 122). Su Dante in Saba 279 in epoca decadentistica); 16 quanto infine all’impiego sabiano di «figgere», frequente in Dante, per il quale la studiosa tira in causa esclusivamente Intermezzo a Lina (cfr. p. 74, v. 54 «figgi»), non posso esimermi dal rammentare che il verbo ricorre già in Versi militari, Soldato alla prigione, v. 4, p. 51 («figgeva»). Tutto questo ben si comprende alla luce della relazione più generale di Saba con Dante, di cui, a sua volta, costituisce una chiara spia. Al riguardo, mi limito a richiamare le esplicite, reiterate dichiarazioni del triestino circa il primato, da lui conferito, a Dante rispetto al Petrarca (Dante, per ammissione del poeta, pur «non […] capito […] che verso i ventitré, ventiquattro anni»): si vedano, ad esempio, Storia e cronistoria del Canzoniere, in U. Saba, Tutte le prose cit., pp. 118-119: «Chi molto fa molto sbaglia; e forse, nell’arte come nella vita, perfezione e grandezza non vanno sempre d’accordo. Dante ha sbagliato più, e più spesso, del Petrarca; ciò non toglie che questi stia al primo come una candela al sole»; Le schegge del «mondo meraviglioso» (1945-1957), Due suppliche (1955), 1a: «la poesia (non parlo della letteratura) è rara, così rara che omettendo Dante (la cui grandezza è quasi fuori della misura umana) […]», ivi, p. 1080. Esse e altre simili, tuttavia, vanno lette all’interno del complesso rapporto di adozione dei Rerum vulgarium fragmenta a modello della propria raccolta poetica complessiva e di drastico rifiuto del petrarchismo e di ogni legame con esso che percorre genesi ed esiti della raccolta, affiorando nei testi in prosa: 17 illuminante, in merito, tacendo d’altro, è la testimonianza offerta dalla «Lettera all’editore» (Alberto Mondadori), del maggio 1946, epistola prefatoria di Mediterranee.18 Valido ciò che si è finora cercato di dimostrare, si evince come, proprio mentre proclama la dimessa verità della sua poesia, Saba non rinunzî a seguire le orme di una somma auctoritas,19 quasi a innalzare il messaggio di un testo del quale, per il suo valore di bilancio/programma, avver16 Cfr. S. BATTAGLIA, Grande dizionario della lingua italiana, s.v. «Immillare» (VII [1972], p. 364), specialmente n. 1, e altresì L. SCORRANO, Dante cit., p. 140 (poi Presenza cit., 117); per il giudizio negativo di Saba su Gozzano, cfr. N. PALMIERI, in U. SABA, Il canzoniere (1900-1954) cit., p. VI, specialmente nota 5, nonché M. LAVAGETTO, in U. SABA, Tutte le poesie cit., pp. XXIII-XXIV; sulla categoria dei verbi parasintetici richiama l’attenzione, adducendo esempî differenti, G. DI PAOLA DOLLORENZO, Dantismo cit., p. 205. 17 Al riguardo, cfr. N. PALMIERI, in U. SABA, Il canzoniere (1900-1954) cit., pp. XXIIXXXII, specialmente XXV-XXVII; per la tarda ‘comprensione’ dell’Alighieri, cfr. anche G. DI PAOLA DOLLORENZO, Dantismo cit., p. 203. 18 Riprodotta in U. SABA, Tutte le poesie cit., pp. 1084-1086, nonché in ID., Tutte le prose, a cura di A. Stara, con un saggio introduttivo di M. Lavagetto, Milano, Mondadori, 2001, pp. 1131-1134. 19 E che tale fosse sentita da Saba stesso, si desume da varie testimonianze, fra cui quelle citate poc’anzi. 280 Francesco De Nicola te tutto il valore esistenziale e letterario: un sapiente intarsio, nell’apparente, persino ostentata modestia del registro.20 La tessera che – spero a ragion veduta – si è ora posta, darà forse l’abbrivo alla composizione di un più vasto e articolato mosaico. FRANCESCO DE NICOLA APPENDICE Sul ricorso all’anafora e alla ripetizione in genere da parte di Saba, riporto qui alcuni casi, nell’ordine in cui compaiono nel libro: Casa e campagna (1909-1910), A mia moglie, pp. 64-66 («Tu sei come»); 21 Trieste e una donna, Nuovi versi alla luna, p. 101 («La luna»), La malinconia amorosa, p. 103 («Malinconia amorosa», pressoché identico al titolo), Nuovi versi alla Lina, 1, p. 111 («Una donna»), L’ultima tenerezza, pp. 128-129 («Ti vedo, mia povera Lina, / ti vedo, e»); Cose leggere e vaganti (1920), Paolina, p. 182 («Paolina», coincidente con il titolo); Ultime cose (1935-1943), C’era, p. 475 («C’era», caso analogo al precedente). Dei non infrequenti esempî di ripetizione predominante, ma non estesa a tutte le strofe, per brevità ricordo solo i seguenti: Poesie dell’adolescenza e giovanili (1900-1907): A mamma, pp. 21-24 («Mamma») e Meditazione, pp. 26-27 («La luna»); Trieste e una donna, Città vecchia, p. 81 («Qui»), Intorno ad una casa in costruzione, p. 92 («I comignoli rosa e il cielo azzurro»), L’ora nostra, p. 93 («È l’ora»), Il poeta, p. 95 («Il poeta ha le sue giornate / contate»); Cuor morituro (1925-1930), Tre punte secche, 2. Il caffelatte, pp. 318-319 («Amara», in due strofe, «Bramerebbe», in altre due, con disposizione chiastica, e due irrelate); 1944, Avevo, pp. 489-490 («Avevo», in cui si osservi pure che in ogni strofa iniziante così il distico finale suona «Tutto mi portò via il fascista abbietto / ed il tedesco lurco» – invero, il primo verso del penultimo distico «Tutto mi portò via il fascista inetto» e l’ultimo in assoluto «– anche la tomba – ed il tedesco lurco», con patente ripresa dantesca: cfr. Inf. XVII 21 «là tra li Tedeschi lurchi»; ma l’espressione era passata quasi in proverbio, soprattutto in età risorgimentale e postrisorgimentale,22 ed è il poeta per primo a denunziare l’origine ‘popolare’ del recupero).23 Altrove, in- 20 Che non esclude comunque uno scaltrito gioco di rimandi, parallelismi e altri artifizî metrici e lessicali, per cui si rinvia di nuovo a R. SACCANI, G. LAVEZZI, Umberto Saba cit., Analisi, p. 659. 21 Alcune «parole-rima dantesche» vi segnala G. DI PAOLA DOLLLORENZO, Dantismo cit., p. 205. 22 Cfr. S. BATTAGLIA, Grande dizionario della lingua italiana, s.v. «Lurco» (IX [1975], p. 319), n. 3 (è citato per ultimo questo luogo sabiano). 23 Cfr. Storia e cronistoria del Canzoniere, in U. SABA, Tutte le prose cit., p. 311, come rammenta L. SCORRANO, Dante cit., p. 142, nota 23 (a p. 149), poi Presenza cit., p. 120, nota 23. Su Dante in Saba 281 fine, sono ripresi, sempre o in prevalenza, sintagmi simili, ma non identici (anche qui seleziono): Nuovi versi alla Lina, 14, p. 124 («Dico» / «Ti dico»); La serena disperazione (1913-1915), Caffè Tergeste, p. 151 («Caffè Tergeste» / «Caffè di ladri» / «Caffè di plebe»); Cose leggere e vaganti (1920), La mia fanciulla, p. 186 («La mia fanciulla» / «La mia piccola cara»); Preludio e fughe (1928-1929), Sesta fuga (a 3 voci), pp. 360-369 («Io non so più dolce cosa» / «Io non so più grande cosa» / «Io non so più lieta cosa» / «Io non so più caldo amore» / «Io non so più cieco amore» / «Io non so di questo amore» / «Io non so più breve cosa»); Parole, Neve, p. 413 («Neve che turbini in alto ed avvolgi» / «Neve che cadi dall’alto e noi copri»); Mediterranee (si noti), Tre poesie a Linuccia, 1, p. 527 («Era un piccolo mondo» / «Era un mondo difficile»; in 2, p. 528 «Era un piccolo porto»). Tralascio deliberatamente iterazioni (anch’esse frequenti) di corradicali (mi limito ad accennare a quelle di «amare» / «amore», per cui cfr. Nuovi versi alla Lina, 11, p. 121 e Autobiografia, 12, p. 254); più significative, semmai, quelle – contraddistinte in genere dalla variatio – di sintagmi al principio e in chiusa del componimento, che ingenerano una composizione anulare (produco un solo esempio: Trieste e una donna, Il poeta, vv. 1-4 e 23-26 [rispettivamente prima e terza strofa], p. 95: «Il poeta ha le sue giornate / contate, / come tutti gli uomini; ma quanto, / quanto variate!» [al v. 26 «variate» cede il posto a «beate»]).