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Il mito della bellezza in "Occhi senza volto"

2021

My shop is the face I front I'm real when I shop my face. (SOPHIE, Faceshopping, 2018) Nel 1990 Naomi Wolf sosteneva che «il mito della bellezza non riguarda affatto le donne.

My face is the front of shop My face is the real shop front My shop is the face I front I'm real when I shop my face. (SOPHIE, Faceshopping, 2018) Nel 1990 Naomi Wolf sosteneva che «il mito della bellezza non riguarda affatto le donne. Riguarda l’organizzazione maschile e il potere istituzionale» (Wolf: 20), dal momento che, privo di criteri oggettivi, esso trae alimento dall’uomo, il quale stabilisce di volta in volta i principi che regolano il piacere estetico dato dalla vista del sesso opposto. Occhi senza volto è un film del 1960 diretto da Georges Franju che avvalora in maniera calzante la tesi dell’autrice. Tratto dall’omonimo romanzo di Jean Redon, il film si apre con l’immagine di quella che poi scopriremo essere Louise, che guida di notte in direzione della Senna per gettarvi il cadavere che trasporta in macchina: una ragazza dal volto insanguinato vestita da uomo. Intanto il professor Génessier, chirurgo rinomato, tiene una conferenza sul trapianto dei tessuti. Egli viene a lungo applaudito dal pubblico, ma è subito costretto ad abbandonare la sala per recarsi d’urgenza all’obitorio, dove è chiamato per riconoscere una salma ripescata dalle acque del fiume. Il dottore afferma che si tratta di sua figlia Christiane, sebbene l’ispettore nutra dei sospetti. Infatti la donna manca della maschera epidermica che copre il volto, ma i contorni del taglio sono così precisi che sembrano fatti di proposito. Viene organizzato il funerale, a cui prendono parte Louise e il fidanzato della figlia, anche lui medico. Tuttavia quando il dottore torna a casa scopriamo che Christiane è ancora viva, mentre la morta non era altro che una ragazza operata da suo padre per tentare un innesto di pelle sul volto della figlia, sfigurata a causa di un incidente d’auto. Louise, vittima di un analogo incidente, deve molto al professor Génessier che è intervenuto con esiti felici sul suo viso deturpato, nonostante le abbia lasciato una cicatrice sul collo che è costretta a coprire con un collier di perle. La donna si occupa di cercare ragazze che assomiglino a Christiane in modo da permettere al dottore di proseguire i suoi esperimenti e restituire un volto grazioso alla figlia cosicché non debba più indossare una maschera. Avvicina così Edna, una studentessa di origini svizzere che cerca una stanza ammobiliata a Parigi. Louise si offre di aiutarla e la porta nella villa del chirurgo, non senza qualche obiezione della ragazza che lamenta l’eccessiva distanza dalla città. Qui Edna, all’inizio spaventata per il latrato dei cani sul retro dell’abitazione, viene narcotizzata e condotta nel laboratorio del professore. Christiane si accorge che i due stanno tramando qualcosa, perciò si reca nella stanza dov’è nascosta la ragazza e la guarda fiduciosa. Edna però si sveglia e urla alla vista del viso senza maschera che, dopo una lunga attesa, guardiamo in soggettiva anche noi, benché l’immagine appaia volutamente poco nitida. L’operazione ha successo e Christiane ricomincia finalmente a mangiare di gusto e a riacquistare la vitalità perduta. Edna sopravvive all’intervento e il dottore ordina a Louise di occuparsi di lei. Quando quest’ultima le porta da mangiare, Edna la colpisce alle spalle e tenta la fuga, ma inseguita da Génessier si getta dalla finestra. Tuttavia la guarigione di Christiane non va come sperato: si formano macchie e noduli e infine la necrosi dell’innesto obbliga suo padre a rimuovere il frammento. Ripiombata nella disperazione, supplica Louise di procurarle del veleno che il dottore usa nei suoi esperimenti con i cani. Nonostante Louise si premuri di cercare ragazze che non abbiano una fitta rete di contatti a Parigi, un’amica di Edna, Paulette denuncia la sua scomparsa dalla polizia, che di rimando le chiede di aiutarli a sbrogliare la matassa dei recenti misfatti, facendosi ricoverare nella clinica di Génessier. Paulette viene dimessa dopo qualche ora e Louise si offre di accompagnarla a casa, ma la inganna e la conduce invece nel laboratorio perché subisca la stessa sorte della compagna. Questa volta Christiane decide di intervenire e con un bisturi libera Paulette dai legacci che la tengono ancorata al lettino. Louise prova a fermarla, ma viene colpita nel punto in cui il padre le aveva lasciato la cicatrice. Nel frattempo Paulette scappa, mentre Christiane libera i cani rinchiusi nelle gabbie. Il professor Génessier, rientrato a casa, viene sbranato dai cani e, per un misero contrappasso, muore con la faccia deturpata. La figlia libera dalla gabbia anche delle colombe e si inoltra con loro nel bosco. Innanzitutto è utile specificare perché la bellezza è in questo contesto, e non solo, assoggettata al dominio maschile. Il professor Génessier è l’origine della condizione di Christiane, la quale si ritrova sfigurata per colpa di suo padre che guidava in maniera troppo spericolata. Egli è inoltre l’unico a prendere decisioni sulla vita e sul corpo di sua figlia: è lui che la nasconde al fidanzato Jacques e al resto del mondo, mentre si prodiga per cercare di restituirle il volto che le ha sottratto. È sempre lui che la dichiara ufficialmente morta per continuare a svolgere i suoi esperimenti indisturbato. Non è chiaro se lo faccia per aiutarla o se per conseguire un tanto millantato successo accademico, come lascia presagire la conferenza cui siamo invitat* a partecipare all’inizio e che subito richiama un film affine, La pelle che abito (2011) di Pedro Almodóvar, dove il chirurgo plastico Robert Ledgard spiega gli avanzamenti delle sue ricerche sulla terapia transgenica durante un congresso tenuto nella sua clinica privata. Le coincidenze vanno oltre: entrambi tengono sotto controllo le cavie umane di cui si occupano e nel caso di Robert la sorveglianza si spinge più in là, dal momento che Vicente, da lui operato in modo che diventasse identico alla defunta moglie e chiamato ora Vera, è chiuso a chiave in una stanza e osservato attraverso delle telecamere. I due medici considerano gli oggetti delle loro sperimentazioni degli esseri incompleti, i quali conducono la propria esistenza in funzione del prossimo intervento di chirurgia plastica e non possono abbandonare la villa in cui sono imprigionati perché non rispondono ancora all’immagine cui la società pretende che si conformino. Il padre di Christiane è convinto che Jacques si rifiuterà di sposare sua figlia se la vedesse sfigurata, mentre Robert modella a proprio piacimento il corpo di Vicente/Vera per soddisfare i propri appetiti sessuali e mimare il recupero del suo matrimonio ormai fallito. Se Vicente è un uomo che ha subito una vaginoplastica forzata, oltre che una serie non ben definita di interventi, per la colpa di aver stuprato Norma, la figlia di Robert, Christiane, invece, è innocente ed è costretta ad espiare la colpa del padre, il primo a non accettare di buon grado il viso deturpato della figlia. Più affine a Christiane sembra però essere ne La pelle che abito Gal, la moglie assente del chirurgo, rimasta ferita in un incidente d’auto. Robert era riuscito a salvarla dalle fiamme, ma in compenso la donna era rimasta sfigurata. Proprio come in Occhi senza volto, il dottore rimuove tutti gli specchi presenti in casa, ma un giorno Gal si vede riflessa nel vetro della finestra e si suicida per l’orrore provato. È vero che Robert sente la mancanza della moglie, ma quella che cerca di riportare in vita, novello Victor Frankenstein, operando Vicente, è la versione della donna che precede l’incidente, la figura per lui desiderabile e, nonostante ciò, non ancora perfetta. A proposito di desiderio maschile, è bene intessere un altro paragone cinematografico. Quando si parla di volti mascherati è ovvio il riferimento al capolavoro della Japanese New Wave The Face of Another (1966) di Hiroshi Teshigahara, che segue le vicende dell’ingegnere Okuyama, che è solito coprire la faccia con delle bende dopo un incidente sul lavoro. Egli è convinto che i continui rifiuti della moglie siano dovuti alle ustioni sul volto, perciò decide di pagare un uomo 10000 yen perché presti il suo volto come modello della sua nuova maschera. L’esperimento in questo caso va a buon fine e Okuyama, sotto mentite spoglie, riesce a sedurre di nuovo la moglie. Tuttavia la differenza sostanziale rispetto a Occhi senza volto sta nella possibilità di scelta dell’uomo, che rimane padrone delle proprie azioni dall’inizio alla fine, sebbene il dottor Hima lo avverta che la maschera possa cambiare la propria personalità. L’importante è per Okuyama poter decidere per sé. Quello del Dottor Hira è soltanto un suggerimento, che il protagonista coglie al volo di sua volontà e il modello della maschera è da lui scelto in tutta consapevolezza, cosa che al contrario Christiane non può fare. È suo padre che stabilisce che le ragazze da operare debbano avere tratti somatici simili a quelli della figlia prima dell’incidente e che, fatto superficiale e inspiegabile nel campo dell’innesto dei tessuti, siano tutte con capelli biondi e occhi azzurri. Tuttavia ciò che mi preme sottolineare di The Face of Another è la storia parallela alle vicissitudini di Okuyama: quella della ragazza senza nome che ha metà del volto ricoperto di cicatrici a causa del bombardamento atomico di Nagasaki, avvenuto il 9 agosto 1945. Al contrario di Christiane, che vediamo senza maschera una sola volta attraverso lo sguardo atterrito di Edna, la ragazza di Teshigahara non indossa la maschera ed è un personaggio mobile, proprio come Okuyama che non rimane confinato in casa. Si limita a coprire la parte deturpata con i capelli, ma non si preoccupa che rimangano fissi a nasconderla, nonostante la ferita sia per lei fonte di imbarazzo. Significativa è la scena in cui dei bambini, appena si accorgono di cosa si cela sotto i capelli, si fanno beffe di lei e le dicono che è un mostro, parola che Okuyama aveva precedentemente usato per definire se stesso. All’uomo però è data l’occasione di cambiare a suo piacimento, mentre la ragazza resterà per sempre con le cicatrici, a cui dovrà abituarsi volente o nolente. Chi non ha possibilità di autodeterminarsi nella prima fase della narrazione, oltre che Christiane, sono gli animali non umani che il padre tiene rinchiusi nelle gabbie, cavie per i suoi esperimenti. Christiane subisce la stessa sorte dei cani, ma alla fine, impossessandosi degli stessi strumenti del padre (il bisturi), si riscatta e libera i prigionieri. Sintomatico è che gli ultimi esseri a venire liberati siano proprio le colombe, noto simbolo di purezza, che ben si attaglia all’innocenza di Christiane, e di salvezza, a preannunciare la liberazione finale. Esattamente come la protagonista, che ci viene svelata a film già inoltrato, ma di cui si sente parlare sin da subito, anche i cani (e in sordina le colombe), si fanno prima sentire che vedere. La colonna sonora, infatti, gioca su un doppio binario: da un lato la musica indimenticabile di Maurice Jarre, padre dell’altrettanto indimenticabile Jean-Michel Jarre, e dall’altro il latrato dei cani che lamentano la propria prigionia per poi sbranare il dottor Génessier, il quale non sembra curarsi molto né del benessere degli animali né di sua figlia, mezzi per raggiungere l’affermazione nella professione medica. Come sostiene Carol J. Adams, «ovunque gli animali sono in catene, ma noi li immaginiamo liberi» (Adams: 30) ed è questo il caso di Génessier, convinto che nella prigione da lui stesso costruita abbia un margine di libertà chiunque vi trovi posto. La detenzione è però possibile grazie alla complicità di Louise e alla peculiare posizione della villa, ben isolata dalla città. Essa si configura come un’eterotopia, uno spazio altro dove le ordinarie norme sociali sono sospese a vantaggio del carceriere. Allo stesso tempo, anche Christiane subisce un processo di “animalizzazione”. Sempre Carol J. Adams vede nello stupro una forma di macellazione. Si potrebbe dire che gli interventi a cui vengono sottoposte Christiane e le altre ragazze costituiscano un ulteriore profilo della macellazione, in quanto non richiesti o addirittura imposti con la forza. Un altro concetto che voglio prendere in prestito da Adams è quello del referente assente, di cui si serve per fare riferimento all’occultamento della morte che si cela dietro il consumo di carne. Non che manchi la consapevolezza da parte di chi mangia che ciò di cui si ciba un tempo è stato un essere vivente, ma nel linguaggio lo stesso termine “carne” può essere considerato un eufemismo che porta sullo sfondo il fatto che ciò che vediamo nel piatto è un cadavere, c’è un fattore di distanziamento che serve a rendere tollerabile la cosa. Lo stesso, io direi, avviene con il volto sfigurato di Christiane, che il padre vuole coprire con la maschera o con l’innesto. La maschera è un oggetto a cui deve abituarsi, poiché non è concepibile che mostri ciò che c’è sotto. Il referente assente è proprio il viso di Christiane che non a caso non vediamo mai, se non una volta. E non è un caso che sia una soggettiva di Edna, la quale non conosce i trascorsi della ragazza, anziché di Louise o di Génessier. Alla fine Christiane si fa coraggio e si ribella contro il padre-demiurgo, simbolo dell’intero dominio maschile. Abbandona la maschera e si allontana verso l’ignoto, anche se comporta l’abbandono delle prescrizioni sociali e una spaventosa quanto elettrizzante indipendenza. Bibliografia: - Adams, Carol J., Carne da macello. La politica sessuale della carne, Milano, VandA. Edizioni, 2020. - Wolf, Naomi, The Beauty Myth, HarperCollins Publishers, 2002. Filmografia: - Almodóvar, Pedro, La pelle che abito, 2011. - Franju, Georges, Occhi senza volto, 1960. - Teshigahara, Hiroshi, The Face of Another, 1966.