Perché per molti ebrei ortodossi il dialogo con i cattolici è ancora difficile
I rischi dell'autosufficienza
Pubblichiamo l'articolo scritto dall'Ambasciatore di Israele presso la
Santa Sede per il numero di gennaio del mensile "Pagine ebraiche"
diretto da Guido Vitale.
di Mordechay Lewy
Solo pochi rappresentanti dell'ebraismo sono realmente impegnati
nell'attuale dialogo con i cattolici. Nel fare questo, a volte fanno
miracoli per essere ovunque in qualsiasi momento. Quali sono le
ragioni per cui così pochi partecipano a questo dialogo? Per quanto
siamo favorevoli al continuo
dialogo ai massimi livelli
ufficiali, tra il Rabbinato
Centrale d'Israele e la Santa
Sede, rimane scetticismo da
parte della corrente principale
degli ortodossi. Perché la
corrente principale
dell'ebraismo ortodosso, in
Israele come anche altrove,
non è pronta per essere
coinvolta?
Vorrei premettere che il
dialogo è caratterizzato da
molte dimensioni di
asimmetria; e con ciò non
intendo soltanto la nostra
sproporzione numerica
rispetto ai cattolici. Mi sembra
che l'ostacolo principale al confronto risieda in quello che la maggior
parte degli ebrei considera come autosufficienza nel definire la propria
identità religiosa. Non abbiamo bisogno di nessun altro riferimento
teologico, se non la Bibbia, per spiegare la nostra vicinanza a Dio
come suoi figli prescelti.
Essere i prescelti non è sempre stata una benedizione, per usare un
eufemismo. All'inizio l'ebraismo non era ostile al proselitismo.
Nell'antichità post-biblica l'ebraismo assorbì innegabili elementi della
cultura greco-romana. Durante l'esilio, gli ebrei hanno dovuto segnare
la loro identità in un ambiente potenzialmente e spesso realmente,
ostile che non ha mai abbandonato il suo zelo religioso atto a
convertire gli ebrei. Questa tecnica di sopravvivenza includeva
un'autosufficienza teologica, l'esclusività e la negazione del
proselitismo. Lo spirito medievale con l'impulso enciclopedico alla
compilazione delle summae ha portato Maimonides a scrivere la sua
Mishneh Torah. La sua opera fu codificata nel XVI secolo dal
catechismo di Josef Caro, il Shulkhan Arukh. L'ebraismo halachico
ortodosso oggi si affida largamente al catechismo di Caro. Il suo scopo
è di preservare la tradizione e la tecnica di sopravvivenza a ogni costo,
persino in Israele dove abbiamo creato l'unica società in cui gli ebrei
costituiscono la maggioranza.
È un dato di fatto che l'ebraismo riformato e conservatore siano più
aperti al dialogo con i cristiani. Lo fanno dal punto di vista della loro
esperienza americana dove la convivenza tra gruppi etnici e religiosi è
intrinseca alla società. L'autorità principale dell'ortodossia in America,
rabbi Soloweitchik, non provava un dialogo interreligioso che
conducesse alla discussione di principi di fede con i cattolici. Allo
stesso tempo, non rifuggiva da un dialogo che si basasse su questioni
che potessero migliorare il bene comune della convivenza sociale.
Pertanto, il dialogo con i cattolici viene circoscritto ad argomenti
"leggeri" che toccano più questioni di politica religiosa (bioetica,
ecologia, violenza, eccetera) e che non comprendono questioni
"intransigenti" quali principi dottrinali di credo (la Trinità, la venuta
del Messia, i Sacramenti, eccetera). Ma ciò non è dovuto solo alla
teologia esclusiva dell'autosufficienza. La maggior parte degli ebrei
percepiscono la loro storia durante la Diaspora come una battaglia
traumatica per la sopravvivenza contro i costanti sforzi da parte dei
cattolici di convertirli gentilmente, o, nella maggioranza dei casi,
coercitivamente.
L'avversione ebraica al cristianesimo esisteva già nell'antichità ed era
dovuta alla "spaccatura familiare" nella
quale le due parti erano in competizione
per ottenere la benevolenza di Dio. Il
processo di separazione della prima
comunità cristiana dai vincoli
dell'ebraismo tradizionale creò un vasto
corpus di letteratura polemica nella
quale anche gli ebrei hanno fatto la loro
parte. L'animosità si è estesa al
medioevo europeo, durante il quale gli
ebrei vivevano come una minoranza
sotto la dominazione cristiana, e fu
persino ritualizzata in alcune preghiere
ebraiche. Molti ebrei ortodossi non
volevano entrare in una chiesa né
confrontarsi con un crocifisso.
Questo comportamento che mostra un
trauma continua oggi come un riflesso
pavloviano. Una ferita grave e dolorosa, inflitta nel passato, si apre
ogni qualvolta la vittima si trova di fronte ai simboli del carnefice.
Questo modello di comportamento può essere considerato offensivo.
Contribuisce a un nuovo ciclo di polemiche e di posizioni apologetiche
da parte cattolica. Tuttavia, oltre a ciò, vi è anche un ostacolo invisibile
e di cui non si parla. L'avvio di ogni dialogo è il senso di curiosità
fondamentale di conoscere meglio la controparte. Conoscere meglio
l'altro implica il comprenderlo meglio. Tolstoj, nel suo Guerra e Pace,
ha coniato la famosa frase: tout comprendre c'est tout pardoner.
Potrebbe essere che molti di noi, ancora traumatizzati, desiderino
evitare ogni situazione in cui si debba perdonare qualcuno,
specialmente se viene identificato giustamente o erroneamente come
rappresentante del carnefice. La vittima ebrea sembra essere incapace
di concedere l'assoluzione per misfatti lontani o recenti perpetrati
contro i suoi fratelli e sorelle. Abbiamo anche un'importante
asimmetria di carattere normativo. I cattolici sono abituati alla pratica
settimanale della confessione per ricevere l'assoluzione. Nell'ebraismo,
non esiste questa prassi: solo in occasione dello Yom Kippur
cerchiamo l'assoluzione da Dio e chiediamo perdono ai nostri simili.
Ma questo accade, come sappiamo, solo una volta l'anno.
(©L'Osservatore Romano - 13 gennaio 2010)