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Il 'barone': Corso Donati

in Nel Duecento di Dante: i personaggi, a cura di F. Suitner, Firenze, Le Lettere, 2020, pp. 177-197.

Abstract

Uno cavaliere della somiglianza di Catellina romano, ma più crudele di lui, gentile di sangue, bello del corpo, piacevole parlatore, addorno di belli costumi, sottile d'ingegno, con l'animo sempre intento a malfare, col quale molti masnadieri si raunavano e gran sèguito avea, molte arsioni e molte ruberie fece fare, e gran dannaggio a' Cerchi e a' loro amici; molto avere guadagnò, e in grande alteza salì. Costui fu messer Corso Donati, che per sua superbia fu chiamato il Barone; che quando passava per la terra, molti gridavano: «Viva il Barone»; e parea la terra sua. La vanagloria il guidava, e molti servigi facea. 1 All'inizio di novembre del 1301 vendette, omicidi, incendi e violenze sconvolsero Firenze e i suoi abitanti. Quando, pochi giorni dopo, i falò si spensero e le armi tacquero, la città si svegliò sotto una luce diversa e una nuova fase politica ebbe inizio: i cosiddetti guelfi neri avevano vinto sui rivali bianchi, ipotecando, anche se temporaneamente, il controllo sul comune e le sue istituzioni. 2 Su tutti in particolare il successo aveva arriso a Corso Donati, il protagonista delle vicende fiorentine di quei giorni: non a caso, Dino Compagni ne delineò allora * Ringrazio per il loro aiuto

SOCIETÀ DANTESCA ITALIANA Centro di Studi e Documentazione Dantesca e Medievale QUADERNO 12 NEL DUECENTO DI DANTE: I PERSONAGGI a cura di FRANCO SUITNER ISBN 978-88-9366-125-6 Le Lettere SOCIETÀ DANTESCA ITALIANA Centro di Studi e Documentazione Dantesca e Medievale QUADERNO 12 NEL DUECENTO DI DANTE: I PERSONAGGI a cura di FRANCO SUITNER Le Lettere Copyright © 2020, Editoriale Le Lettere – Firenze ISBN 978 88 9366 125 6 www.lelettere.it NEL DUECENTO DI DANTE: I PERSONAGGI SILVIA DIACCIATI IL ‘BARONE’: CORSO DONATI* Uno cavaliere della somiglianza di Catellina romano, ma più crudele di lui, gentile di sangue, bello del corpo, piacevole parlatore, addorno di belli costumi, sottile d’ingegno, con l’animo sempre intento a malfare, col quale molti masnadieri si raunavano e gran sèguito avea, molte arsioni e molte ruberie fece fare, e gran dannaggio a’ Cerchi e a’ loro amici; molto avere guadagnò, e in grande alteza salì. Costui fu messer Corso Donati, che per sua superbia fu chiamato il Barone; che quando passava per la terra, molti gridavano: «Viva il Barone»; e parea la terra sua. La vanagloria il guidava, e molti servigi facea.1 All’inizio di novembre del 1301 vendette, omicidi, incendi e violenze sconvolsero Firenze e i suoi abitanti. Quando, pochi giorni dopo, i falò si spensero e le armi tacquero, la città si svegliò sotto una luce diversa e una nuova fase politica ebbe inizio: i cosiddetti guelfi neri avevano vinto sui rivali bianchi, ipotecando, anche se temporaneamente, il controllo sul comune e le sue istituzioni.2 Su tutti in particolare il successo aveva arriso a Corso Donati, il protagonista delle vicende fiorentine di quei giorni: non a caso, Dino Compagni ne delineò allora * Ringrazio per il loro aiuto Dario Canzian, Enrico Faini, Massimo Giansante, Piero Gualtieri, Lorenzo Tanzini, Ilaria Taddei, Gian Maria Varanini. 1 DINO COMPAGNI, Cronica, a c. di D. CAPPI, Roma, Carocci, 2013, II 20. 2 R. DAVIDSOHN, Storia di Firenze, Firenze, Sansoni, 1956-1968: vol. IV, p. 3 ss.; E. BRILLI, Firenze, 1300-1301. Le cronache antiche (XIV secolo ineunte), in «Reti Medievali Rivista», 17/2 (2016), pp. 113-151, http://www.serena.unina.it/index.php/rm/article/view/4998/5575 (ultimo accesso: ottobre 2019); EAD., Firenze, 1300-1301. Compagni e Villani (con i loro lettori) a Santa Trìnita e il «cacciare con molta offensione» (If 6, 66), in «Reti Medievali Rivista», 18/1 (2017), pp. 345-390, http://www.serena.unina.it/index.php/rm/article/view/5101/5746 (ultimo accesso: ottobre 2019); A. ZORZI, Dante tra i Bianchi e i Neri, in «Reti Medievali Rivista», 18/1 (2017), pp. 391-413, http:// www.serena.unina.it/index.php/rm/article/view/5102 (ultimo accesso: ottobre 2019). 178 SILVIA DIACCIATI il ritratto nella sua cronaca.3 Nobile cavaliere di grande fama, nel bene e nel male il Barone, come lo chiamavano a Firenze, fu di fatto il dominatore della storia fiorentina, e non solo, degli ultimi decenni del XIII secolo e i primi anni di quello successivo. Ne subirono il fascino gli alleati, ma anche avversari quali lo stesso Dino Compagni che, giunto al momento di descriverne la morte, lo salutò con un accorato epitaffio: Fu cavaliere di grande animo e nome, gentile di sangue e di costumi, di corpo bellissimo fino alla sua vecchieza, di bella forma con dilicate fattezze, di pelo bianco; piacevole, savio e ornato parlatore, e a gran cose sempre attendea; pratico e dimestico di gran signori e di nobili uomini, e di grande amistà, e famoso per tutta Italia. Nimico fu de’ popoli e de’ popolani, amato da’ masnadieri, pieno di maliziosi pensieri, reo e astuto.4 Anche l’altro grande cronista fiorentino contemporaneo ai fatti, Giovanni Villani, non poté fare a meno di dedicare un ritratto al Barone: Questo messer Corso Donati fue de’ più savi, e valente cavaliere, e il più bello parlatore, e ’l meglio pratico, e di maggiore nominanza, e di grande ardire e imprese ch’al suo tempo fosse in Italia, e bello cavaliere di sua persona e grazioso, ma molto fu mondano, e di suo tempo fatte in Firenze molte congiurazioni e scandali per avere stato e signoria; e però avemo fatto de la sua fine sì lungo trattato, però che fu grande novità a la nostra cittade, e seguirne molte cose appresso per la sua morte, come per gl’intendenti si potrà comprendere, acciò che sia assempro a quegli che sono a venire.5 Villani fornì anche una giustificazione per essersi dilungato tanto a descrivere gli ultimi istanti di vita di Corso Donati: l’evento ebbe importanti riflessi sulla città. In effetti, la morte del Barone, seguita a breve dalla dipartita dei principali protagonisti delle vicende fiorentine di quegli anni, avrebbe di fatto segnato la fine di una delle fasi più violente e confuse della storia di Firenze, quella del conflitto tra guelfi bianchi e guelfi neri. Tre anni più tardi, nel settembre del 1311, di fronte all’im- 3 Su Corso Donati è d’obbligo il riferimento a S. RAVEGGI, Donati, Corso, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, vol. 41, 1992, pp. 18-24. Sull’importanza di questa figura nella cronaca di Dino Compagni si veda D. CAPPI, Dino Compagni tra Cicerone e Corso Donati: i pericoli della parola politica, in «Studi Medievali», 50 (2009), pp. 605-673. 4 COMPAGNI, Cronica, cit., III 21. 5 GIOVANNI VILLANI, Nuova Cronica, a c. di G. PORTA, Parma, Guanda, 1991, IX 96. IL ‘BARONE’: CORSO DONATI 179 minente pericolo di una nuova discesa imperiale, la cosiddetta riforma di Baldo d’Aguglione avrebbe finalmente pacificato la città e posto definitivamente una pietra sul recente passato.6 Se contemporanei come i cronisti Dino Compagni e Giovanni Villani celebrarono nel Barone il protagonista della Firenze tra fine Duecento e inizio Trecento, qualcuno invece non ne fece neppure il nome. Inaspettatamente il loro contemporaneo più famoso, colui che con la sua opera avrebbe consegnato all’eternità il ricordo di grandi personaggi così come di modesti e altrimenti ignoti individui, non lo cita in nessuna occasione. Il silenzio di Dante Alighieri nei confronti del dominatore della scena pubblica di quegli anni fu casuale? Oppure fu una scelta dettata da precise motivazioni? Per tentare di dare una risposta a questi interrogativi è indispensabile rispondere prima a un altro quesito: chi era Corso Donati? 1. Cavaliere senza macchia I ritratti tramandati dai due principali cronisti fiorentini e per di più testimoni diretti degli eventi convergono: Corso Donati fu un nobile cavaliere, di bellissimo aspetto e di grande intelligenza, dotato di un eccezionale talento verbale. La natura era stata dunque particolarmente benevola con lui: oltre alla bellezza gli aveva donato un corpo vigoroso, ingegno, coraggio e carisma. Alla natura benigna si sommò poi la ventura di non nascere in una modesta famiglia di artigiani o salariati costretti a lottare ogni giorno per la sopravvivenza, ma in uno dei casati più antichi, ricchi e potenti di Firenze, nel quale le doti concessegli dalla natura avrebbero potuto esprimersi al meglio. Di antica tradizione, le origini della famiglia Donati si perdono in realtà nelle nebbie che avvolgono anche le prime manifestazioni di autogoverno cittadino.7 Quando fanno la loro comparsa, tuttavia, i Donati occupano già un posto di rilievo nella vita pubblica della città: partecipano al governo comunale nel corso del cosidDAVIDSOHN, Storia di Firenze, cit., vol. IV, pp. 619-621. Sulle quali, tuttavia, ha indagato di recente e fatto luce E. FAINI, Firenze nell’età romanica (1100-1211). L’espansione urbana, lo sviluppo istituzionale, il rapporto con il territorio, Firenze, Olschki, 2010. 6 7 180 SILVIA DIACCIATI detto periodo consolare nel XII secolo, e in posizione di preminenza, alcuni come consoli, altri come consiglieri.8 Alla ricchezza, derivante in larga parte dalle rendite fondiarie e da quelle garantite dall’esercizio della guerra, da attività meno esibite come, probabilmente, il prestito di denaro e la mercatura e, senza dubbio, dal possesso di opifici fondamentali per la nascente industria laniera, i Donati aggiunsero quindi ben presto un ruolo politico di primo piano.9 Appartenevano a quel gruppo sociale che dominò la scena comunale più o meno fino alla metà del XIII secolo, quando l’affermazione di un nuovo soggetto politico, il cosiddetto Popolo, ne modificò progressivamente connotati e composizione.10 Da alcuni anni ormai la storiografia identifica questo gruppo con il termine di militia, e milites, ossia cavalieri, sono coloro che lo componevano. La principale caratteristica che li contraddistingueva era infatti il combattimento a cavallo, cui si aggiungeva la condivisione di una vera e propria cultura dell’odio: frequente strumento di soluzione dei conflitti era l’azione violenta, consapevolmente preferita al rispetto delle regole di convivenza civile. È all’interno di questo gruppo che si formavano i cavalieri ed era quindi dalle loro schiere che proveniva il nerbo dell’esercito cittadino.11 I Donati riuscirono a mantenere pressoché intatte queste caratteristiche e l’attaccamento ai valori marziali anche nei decenni seguenti, quando, invece, sotto i colpi della politica popolare, molti milites furono costretti a rinunciare al loro passato e ad adeguarsi a un nuovo siste- 8 R. PIATTOLI, Donati, in Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1970, vol. II, pp. 555-557; E. FAINI, Uomini e famiglie nella Firenze consolare, distribuito in formato digitale da «Storia di Firenze. Il portale per la storia della città», https://www.storiadifirenze. org/pdf_ex_eprints/11-Faini.pdf (ultimo accesso: ottobre 2019), pp. 20-21; ID., Firenze nell’età romanica, cit., ad indicem. 9 Oltre agli studi indicati alla n. precedente si veda L. FABBRI, «Opus novarum gualcheriarum»: gli Albizzi e le origini delle gualchiere di Remole, in «Archivio storico italiano», 162 (2004), pp. 507560; ID., I Fiorentini tra Arno e Sieve: l’avanzata della proprietà cittadina in un territorio di frontiera, in Antica possessione con belli costumi, Due giornate di studio su Lapo da Castiglionchio il Vecchio (Firenze-Pontassieve, 3-4 ottobre 2003), a c. di F. SZNURA, Firenze, Aska, 2005, pp. 173-185. 10 Sui regimi di Popolo cfr. A. POLONI, Potere al popolo. Conflitti sociali e lotte politiche nell’Italia comunale del Duecento, Milano, Bruno Mondadori, 2010; G. MILANI, Contro il comune dei milites. Trent’anni di dibattiti sui regimi di Popolo, in I comuni di Jean-Claude Maire Vigueur. Percorsi storiografici, a c. di M.T. CACIORGNA, S. CAROCCI, A. ZORZI, Roma, Viella, 2014, pp. 235-258; per Firenze S. DIACCIATI, Popolani e magnati: società e politica nella Firenze del Duecento, Spoleto, CISAM, 2011, con relativa bibliografia. 11 J.-C. MAIRE VIGUEUR, Cavalieri e cittadini. Guerra, conflitti e società nell’Italia comunale, Bologna, il Mulino, 2004, in particolare pp. 359-425. IL ‘BARONE’: CORSO DONATI 181 ma di valori.12 A questa loro tenace resistenza e fedeltà furono debitori per l’iscrizione, a partire dagli anni Ottanta del Duecento, nelle liste dei cosiddetti magnati di cui il Barone, come vedremo, fu il più perfetto esemplare.13 Nato e cresciuto in una famiglia del genere non c’è dunque da stupirsi se Corso Donati manifestò per tutta la durata della sua esistenza un chiaro attaccamento ai valori guerrieri tipici del gruppo dei milites prima e dei magnati poi. Abituati da tempo a primeggiare nella scena pubblica, a sedere nelle istituzioni quanto a competere con altre casate per il predominio in città e sulla città, a partecipare alle lotte di fazione e alle spedizioni dell’esercito comunale, i Donati impartirono a Corso un’educazione adeguata. Essa prevedeva innanzitutto l’addestramento a combattere, in particolare a cavallo. Solo chi apparteneva a una casata come quella dei Donati poteva ricevere la preparazione indispensabile a un cavaliere, sia in termini di risorse economiche che di tradizione: armi, armature, cavalcature avevano un costo non indifferente, che non tutti, ovviamente, erano in grado di permettersi, senza contare poi la disponibilità di tempo da dedicare ad allenamenti duri e costanti.14 Chi ogni giorno era indaffarato nella ricerca di buoni affari, vendeva merci nella propria bottega o si dedicava alle arti meccaniche, non aveva certo il tempo per inscenare scontri a fil di spada o per imparare le complicate tecniche del combattimento a cavallo.15 La cavalleria aveva un ruolo fondamentale negli eserciti comunali ed era spesso dalle cariche dirompenti di questi guerrieri che dipendeva l’esito dello scontro. Per questo motivo i cavalieri erano addestrati con grande cura e attenzione, mentre i governi comunali a lungo ri- DIACCIATI, Popolani e magnati, cit., pp. 193-197. DIACCIATI, Popolani e magnati, cit., pp. 358-378; EAD., Intr. a La legislazione antimagnatizia a Firenze, a c. di S. DIACCIATI, A. ZORZI, Roma, ISIME, 2013, pp. XI-XXXVI. Sul permanere del ruolo centrale dell’esercizio della guerra tra i magnati cfr. P. SPOSATO, The Profession of Arms and Chivalric Identity in Late Medieval Florence. A Prosopographical Study of the Buondelmonti Family, in «Medieval Prosopography», 33 (2018), pp. 123-136. 14 MAIRE VIGUEUR, Cavalieri e cittadini, cit., p. 107; D. BALESTRACCI, La battaglia di Montaperti, Roma-Bari, Laterza, 2017, pp. 68-71. 15 ALDO A. SETTIA, Comuni in guerra: armi ed eserciti nell’Italia delle città, Bologna, CLUEB, 1993; ID., Tecniche e spazi della guerra medievale, Roma, Viella, 2006; ID., De re militari. Pratica e teoria nella guerra medievale, Roma, Viella, 2008; ID., Rapine, assedi, battaglie. La guerra nel Medioevo, Roma-Bari, Laterza, 2016; BALESTRACCI, La battaglia di Montaperti, cit.; F. BARGIGIA, Gli eserciti nell’Italia comunale: Organizzazione e logistica (1180-1320), Milano, Unicopli, 2010. 12 13 182 SILVIA DIACCIATI servarono trattamenti privilegiati per questi loro campioni: esenzioni fiscali, introito di determinate imposte, usufrutto di beni comuni, rimborsi proporzionati alle perdite subite nella lotta, diritto a razziare gli sconfitti sul campo di battaglia e a incassare i riscatti pagati per liberare gli eventuali prigionieri.16 Saper combattere a cavallo era tuttavia fondamentale non solo per le spedizioni del comune, ma anche per gli scontri tra casate rivali, tra fazioni o tra gruppi avversi che di frequente attraversavano le vie cittadine: se non scongiurate, le aggressioni a cavallo lanciate nelle strette vie urbane potevano essere letali. Corso Donati ricevette dunque un’educazione di stampo marziale, che fu convalidata da un riconoscimento ufficiale: l’investitura formale a cavaliere. A quando risalga questa cerimonia costosa ed esclusiva, accessibile a pochi, e da chi fosse investito cavaliere è ignoto: di sicuro avvenne entro il 1277, visto che nel maggio di quell’anno esibiva già il titolo di dominus (messere in volgare) proprio dei cavalieri addobbati.17 L’addestramento ricevuto e l’allenamento costante uniti a un fisico robusto, a un’indole coraggiosa e a una personalità carismatica fecero di Corso Donati un eccellente guerriero. Se nelle assemblee cittadine invocava la guerra in qualsiasi circostanza anche lontanamente propizia, quando l’occasione si presentò realmente dette mostra di tutte le sue capacità belliche.18 L’episodio che ne consacrò l’immagine di cavaliere imbattibile, audace e coraggioso, risale al giugno del 1289. Il giorno di san Barnaba l’esercito guelfo alleato ai fiorentini si scontrò con quello ghibellino degli aretini nella piana di Campaldino. Nonostante la superiorità numerica, la cavalleria guelfa apparve sul punto di soccombere di fronte all’irruenza di quella avversaria e la vittoria sembrò arridere ai nemici di Firenze. Fu allora che intervenne Corso Donati. A capo di un contingente di duecento cavalieri di riserva aveva ricevuto l’ordine di restare in disparte e di intervenire in battaglia solo se richiesto, a segnale convenuto. Di fronte alle prime fasi concitate MAIRE VIGUEUR, Cavalieri e cittadini, cit., pp. 207-267. Sulla cerimonia e la sua importanza a Firenze cfr. DIACCIATI, Popolani e magnati, cit., p. 27. Il primo documento attestante il possesso del titolo di dominus è in Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico, San Domenico del Maglio, 1277, maggio 26. 18 A. GHERARDI, Le Consulte della Repubblica fiorentina dall’anno MCCLXXX al MCCXCVIII, Firenze, Sansoni, 1896-1898, vol. I, p. 170. 16 17 IL ‘BARONE’: CORSO DONATI 183 dello scontro e alla manifesta incapacità da parte dei guelfi di contrapporsi all’impeto ghibellino, incurante dell’atto di insubordinazione che avrebbe in tal modo compiuto, senza attendere alcun segnale si lanciò al galoppo in battaglia, seguito dagli uomini del suo contingente. La tempestività dell’intervento e la destrezza mostrata nel combattimento furono risolutive e fu grazie a un atto di intemperanza da parte di Corso Donati che i guelfi riuscirono a trionfare sui nemici.19 Il Barone divenne allora l’eroe di Campaldino, il campione della città di Firenze. Alcuni mesi più tardi, quando il comune di Bologna lo scelse per ricoprire la carica di capitano del Popolo, si vide rifiutato il necessario nulla osta dal governo fiorentino: in vista di un imminente conflitto con Pisa, l’esercito non poteva privarsi del suo più valoroso combattente.20 2. Professionista della politica A Campaldino Corso Donati era a capo di un contingente di cavalieri pistoiesi e lucchesi: era allora podestà del comune di Pistoia. L’incarico al servizio della città toscana nel 1289 non fu un episodio isolato: il Barone fu un eccellente professionista della politica, per la sua preparazione e le sue capacità apprezzato e richiesto da molti comuni. Entrare a far parte dei circuiti dei professionisti itineranti della politica e essere dunque chiamati al servizio di diversi comuni in qualità di podestà o capitano del Popolo era chiara manifestazione del possesso di una formazione adeguata e di abilità, garanzia di prestigio e opportunità di tessere amicizie e alleanze proficue. Questi tecnici dovevano conoscere il funzionamento delle istituzioni comunali, le norme e gli statuti che le presiedevano, essere in grado di gestire i conflitti e imporre il rispetto della legge, parlare con proprietà di linguaggio e cognizione di causa in ogni circostanza, nelle assemblee cittadine o nell’esercito schierato a battaglia: in breve, dovevano saper governare una città.21 19 Il sabato di san Barnaba. La battaglia di Campaldino. 11 giugno 1289-1989, Milano, Electa, 1989; La battaglia di Campaldino e la società toscana del ’200, Tavarnelle Val di Pesa, Graficadue, 1994; A. BARBERO, 1289. La battaglia di Campaldino, Roma-Bari, Laterza, 2008. 20 Archivio di Stato di Bologna, Comune-governo, 407 (carteggi), fasc. g, c. 33v. 21 I podestà dell’Italia comunale, a c. di J.-C. MAIRE VIGUEUR, Rome, École Française de Rome, 2000. 184 SILVIA DIACCIATI Personalità e carisma completavano il profilo ideale del magistrato forestiero, caratteristiche che a Corso Donati non facevano difetto. Per un comune la sua nomina a podestà o a capitano del Popolo era dunque una scelta sicura, che difficilmente si sarebbe dimostrata fallimentare. Il Barone apparteneva a una casata da tempo abituata a frequentare le istituzioni comunali, sia a Firenze che al di fuori: molti Donati avevano preso parte al governo della città fin dal XII secolo e alcuni si erano distinti al servizio di altri comuni.22 Anche il padre di Corso, Simone di Forese, era stato chiamato a ricoprire incarichi fuori Firenze e il ricordo di una sua podesteria a Parma lasciò traccia anche in una cronaca cittadina.23 Che i Donati avessero dimestichezza con le istituzioni era dunque fuori di dubbio. Questa assidua frequentazione, affiancata da una preparazione giuridica adeguata, faceva sì che gli uomini della casata fossero in grado di orientarsi tra statuti e norme legislative. È vero che per districarsi tra i più complicati tecnicismi legali podestà e capitani del Popolo si avvalevano della consulenza dei giudici e notai che componevano la loro famiglia, ma se non tutti potevano vantare una preparazione giuridica approfondita, di sicuro non erano neppure analfabeti.24 Rivolgersi a personaggi di tale levatura sociale e politica, ben inseriti nelle reti di relazioni e alleanze sovracittadine (ad esempio quella guelfa o ghibellina) aveva vantaggi anche a livello diplomatico, per i legami, le amicizie e le solidarietà che mettevano a disposizione: se Simone di Forese, ad esempio, aveva rappresentato i guelfi fin in Germania presso il re fanciullo, Corradino di Svevia, il figlio fu intimo, tra gli altri, di papi come Bonifacio VIII o di sovrani quali gli Angiò.25 E i buoni rapporti con personaggi in vista o singole città potevano dimostrare la loro utilità non solo per l’eventuale comune che si era chiamati a amministrare, ma anche per quello di appartenenza: quando nel 1291 le rela- 22 S. RAVEGGI, I rettori fiorentini, in I podestà dell’Italia comunale, cit., vol. I, pp. 595-643: pp. 627-628, 641-642. 23 DAVIDSOHN, Storia di Firenze, cit., vol. III, p. 143. 24 Sulla presenza di numerosi giudici e esperti di legge all’interno della militia cfr. J.-C. MAIRE VIGUEUR, Gli ‘iudices’ nelle città comunali: identità culturale ed esperienze politiche, in Federico II e le città italiane, a c. di A. PARAVICINI BAGLIANI, P. TOUBERT, Palermo, Sellerio, 1994, pp. 161-176; S. MENZINGER, Giuristi e politica nei comuni di popolo: Siena, Perugia e Bologna, tre governi a confronto, Roma, Viella, 2006. 25 RAVEGGI, Donati, cit. IL ‘BARONE’: CORSO DONATI 185 zioni tra Firenze e Genova, tradizionali alleate, sembrarono sul punto di compromettersi, fu a Corso Donati che il comune toscano affidò il compito di recarsi in Liguria per scongiurare un incipiente conflitto. Il Barone vantava ottimi rapporti con quella città, della cui alleanza era sempre stato irriducibile sostenitore.26 Per la buona riuscita della missione, tuttavia, poteva contare non solo sul buon giudizio che su di lui circolava in Genova, ma anche su un’altra arma molto convincente: la parola.27 Se Dino Compagni lo dipinge come «piacevole, savio e ornato parlatore», Giovanni Villani si spinge addirittura a individuarvi «il più bello parlatore» dell’intera Italia. La natura aveva dunque dotato Corso Donati di una loquela non comune, facendogli dono di una qualità ritenuta all’epoca essenziale per ogni buon magistrato.28 La retorica era tra le doti allora più celebrate: con discorsi appropriati il buon podestà poteva trascinare le folle, pacificare le parti in lotta, dirigere un’assemblea e galvanizzare cavalieri e fanti sui campi di battaglia. Essere un abile ed esperto cavaliere, nobilitato dal possesso della dignità cavalleresca, era l’altro requisito fondamentale che un buon magistrato doveva possedere. In una società conflittuale come quella dei comuni, la perizia nel combattimento era di importanza vitale, sia per la gestione degli antagonismi cittadini e l’esercizio della giustizia, sia per la guida dell’esercito comunale in caso di necessità. E anche da questo punto di vista Corso Donati era un candidato ideale. Valoroso cavaliere di grande fama, esperto delle istituzioni comunali e del loro funzionamento, amico di grandi e potenti, oratore eccezionale, uomo carismatico e affascinante: il Barone fu tutto questo e non c’è dunque da stupirsi se ebbe una brillante carriera come professionista della politica al servizio di numerose città dell’Italia centro-settentrionale. Per quel che i documenti consentono di ricostruire, fu podestà di Bologna Ivi, p. 19. Sull’importanza della parola nella cultura dei milites ha riflettuto di recente E. FAINI, Italica gens. Memoria e immaginario politico dei cavalieri-cittadini (secoli XII-XIII), Roma, Viella, 2018, p. 189. 28 L’importanza della parola e la centralità dell’arte oratoria nella società comunale in generale e per i professionisti della politica in particolare è stata dimostrata da Enrico Artifoni in suoi numerosi studi tra cui: E. ARTIFONI, Sull’eloquenza politica nel Duecento italiano, in Federico II e le città, cit., pp. 144-160; ID., Retorica e organizzazione del linguaggio politico nel Duecento italiano, in Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento, Atti del Convegno internazionale (Trieste, 2-5 marzo 1993), a c. di P. CAMMAROSANO, Rome, École Française de Rome, 1994, pp. 156-182. 26 27 186 SILVIA DIACCIATI nel 1283 e nel 1288, di Padova nel 1287, di Pistoia nel 1289, di Parma nel 1294, di Orvieto nel 1299, di Treviso nel 1308. Fu poi capitano del Popolo a Bologna nel 1285 e nel 1293.29 In alcuni di questi comuni le sue capacità di governo furono talmente apprezzate da essere ricordate e celebrate nelle cronache cittadine: «vir strenuus et laudabilis rector» lo definisce ad esempio l’anonimo compilatore del Liber regiminum Padue.30 A Parma invece si distinse per la sollecitudine con cui rese giustizia e si recò con mille fanti del Popolo a guastare le case di due tali colpevoli di aver insultato un uomo.31 3. Magnate intransigente Di parole oltraggiose e infamanti, in effetti, Corso Donati aveva una certa pratica e non perché, da magistrato, fosse stato un paladino del rispetto altrui, come l’episodio di Parma potrebbe indurre a pensare. Il talento verbale che lo fece apprezzare come uomo politico e leader carismatico, in Firenze fu una vera e propria arma adoperata per tentare di influenzare assemblee e consigli ristretti della città, convincere alleati, offendere e provocare i propri nemici. Dino Compagni ricorda con quale perfidia Corso Donati attaccava quasi quotidianamente i suoi avversari: per il poeta Guido Cavalcanti pare che avesse coniato il soprannome ‘cavicchia’, mentre il suo più acerrimo nemico, Vieri dei Cerchi, ricco e potente quanto se non più di lui ma del tutto privo di eloquenza, era ‘l’asino di Porta’, che invece di parlare ragliava.32 L’aggressività verbale non fu tuttavia la forma più pericolosa di violenza cui Corso Donati fece ricorso. Se fuori dalla città natale era magistrato stimato e richiesto per le sue qualità e doti di comando e amministrazione, a Firenze per la sua superbia e i modi alteri era il Barone, vale a dire la quintessenza del magnate. Chi, come Corso Donati, era magnate apparteneva a una categoria 29 Cfr. RAVEGGI, Donati, cit. Ebbe forse un altro incarico nel comune di Treviso, ma il dato è incerto. 30 Liber regiminum Padue, a c. di A. BONARDI, Città di Castello, Lapi, 1905 (RIS2, 8.1), p. 339. 31 Chronicon parmense ab anno MXXXVIII usque ad annum MCCCXXXVIII, a c. di G. BONAZZI, Città di Castello, Lapi, 1902 (RIS2, 9.9), pp. 66-67. 32 COMPAGNI, Cronica, cit., I 20. IL ‘BARONE’: CORSO DONATI 187 giuridica ben precisa, a partire dagli anni Ottanta del Duecento definita per legge: era magnate, e pertanto iscritto in un’apposita lista, chi vantava in prima persona o tra i propri familiari il possesso della dignità cavalleresca e, al contempo, l’appartenenza a una casata la cui grandezza e potenza era a tutti notoria (la cosiddetta pubblica fama).33 I magnati erano in gran parte gli eredi di quei ricchi e potenti milites che avevano dominato fino a metà secolo e che erano usciti pressoché indenni da anni di politiche di stampo popolare indirizzate alla riduzione dei privilegi e al contenimento delle pratiche violente. I magnati si distinguevano in effetti per perizia militare e per un’evidente inclinazione alla violenza e alla sopraffazione. Ritenuti pertanto potenziali responsabili di prepotenze e di comportamenti passibili di compromettere gravemente la pace e la convivenza civile, furono oggetto di una legislazione specifica via via più inflessibile, che raggiunse il suo apice con l’emanazione dei celebri Ordinamenti di giustizia nel 1293: scopo fu disciplinarne gli atteggiamenti più odiosi, obbligandoli finalmente al rispetto delle norme e delle istituzioni cittadine.34 Come diversi episodi dimostrano, quando Corso Donati si trovava in città, incarnava alla perfezione la figura contro cui quei provvedimenti erano stati emanati.35 Violento, sprezzante di leggi e istituzioni fino a fuggirne la giustizia e vantarsi pubblicamente di aver corrotto magistrati, sempre pronto a lanciarsi contro il nemico anche a costo di mettere a ferro e fuoco la città, fu a tal punto superbo, avido di ricchezze e potere da non risparmiare neppure gli affetti. Le sorelle, Ravenna e Piccarda, furono entrambe sacrificate ai suoi interessi: la prima, costretta a passare da un matrimonio di comodo all’altro, divenuta vedova fu involontariamente al centro di un’annosa disputa processuale intorno alla tutela dei figli e, soprattutto, alla ricca eredità lasciatale dal marito, reale bersaglio del fratello.36 La Piccarda di dantesca memoria fu invece obbligata a abbandonare il velo monastico per andare in 33 G. SALVEMINI, Magnati e popolani a Firenze dal 1280 al 1295, Milano, Feltrinelli, 1966, p. 25. La definizione giuridica di magnate fu in seguito soggetta a mutazioni, divenendo un vero e proprio strumento di lotta politica nelle mani dei gruppi dirigenti alla guida della città, cfr. C. KLAPISCH-ZUBER, Retour à la cité. Les magnats de Florence. 1340-1440, Paris, EHESS, 2006, pp. 7-17. 34 DIACCIATI, Popolani e magnati, cit., pp. 309-337. 35 Sugli episodi riportati in questo paragrafo cfr. RAVEGGI, Donati, cit. e DAVIDSOHN, Storia di Firenze, cit., ad indicem. 36 RAVEGGI, Donati, cit., pp. 18 e 20. 188 SILVIA DIACCIATI sposa a un Della Tosa e rafforzare così l’alleanza tra le due importanti casate.37 Nel 1299 fu il turno della suocera, Giovanna degli Ubertini, cui il Donati intentò causa. La incolpò di avere mal gestito il patrimonio della figlia, sua seconda moglie, e di aver sottratto le carte relative alla sua amministrazione. Ottenne dal podestà una sentenza favorevole che obbligava la donna a versargli migliaia di fiorini. L’infondatezza dell’accusa e la totale assenza di prove, tuttavia, erano ben note in città e i fiorentini non accolsero bene la decisione del magistrato, che fu dunque imprigionato dalla folla inferocita. Il processo fu riaperto. Chiamato in giudizio, Corso Donati confessò con sfrontatezza di aver corrotto il podestà. Fu condannato a una multa di 1000 lire, che rifiutò di pagare. Fu allora bandito dalla città, ma Bonifacio VIII fu sollecito nel soccorrerlo e gli affidò alcuni prestigiosi incarichi al suo servizio. L’episodio non fu il primo nel quale, in spregio alla legge e alle istituzioni, Corso Donati tentò di piegare la giustizia al suo volere. Grazie alla corruzione, neppure cinque anni prima era riuscito a evitare una giusta condanna per omicidio facendola ricadere sul cugino, Simone Galastrone. I rapporti tra i due erano compromessi da mesi: sul finire del 1294 scoppiò una rissa tra i cugini e i rispettivi sgherri, e nel parapiglia che ne seguì uno scherano di Simone rimase ucciso. La notizia dell’assassinio fece rapidamente il giro della città e la responsabilità fu subito addossata a Corso Donati. I fiorentini si aspettavano dunque che il processo si sarebbe rapidamente concluso con la condanna a morte del Barone e grande fu la loro sorpresa quando, invece, il podestà dette lettura della sentenza che dichiarò colpevole il cugino. In buona fede, il magistrato si era fidato delle conclusioni cui era giunta l’inchiesta condotta dal giudice incaricato, non sapendo che quest’ultimo, con la minaccia o la corruzione, era stato convinto dal Donati a sostituire il proprio nome con quello del cugino. Riassumendo, con buona pace della giustizia, Corso Donati promosse un agguato nel quale un uomo fu ucciso, probabilmente per mano sua, corruppe un giudice dimostrando di poter piegare la legge al suo volere, e screditò anche l’istituzione nella persona del podestà ingannato. Per queste azioni gli fu vietato di ricoprire incarichi in altre 37 Si veda il saggio di Anna Pegoretti in questo stesso volume. IL ‘BARONE’: CORSO DONATI 189 città per cinque anni, proibizione che in realtà non avrebbe rispettato, e gli fu imposta una pena pecuniaria di ben 5000 lire. Una cifra importante, ma in fin dei conti modesta sia in rapporto ai crimini commessi, sia alle loro conseguenze: il caos scoppiato per la mancata condanna a morte contribuì alla caduta di Giano Della Bella, il paladino degli Ordinamenti di giustizia, costretto allora ad abbandonare Firenze. L’assassinio di quell’uomo non fu neppure il solo di cui fu accusato senza essere poi condannato. Circolavano voci insistenti che anni prima a Treviso, dove si trovava a ricoprire un incarico, avesse ucciso la prima moglie, una Cerchi. Questa volta la notizia non è tramandata dai cronisti fiorentini, sui quali potrebbe cadere il legittimo sospetto di aver dipinto intenzionalmente a tinte fosche il principale nemico del Popolo, ma dalla cronaca del vicentino Ferreto de’ Ferreti.38 E pare anche che il Donati avesse commissionato l’omicidio di uno dei suoi più acerrimi rivali, quel Guido Cavalcanti che, sopravvissuto al tentativo avvenuto nel corso di un pellegrinaggio a Santiago di Compostela e rientrato a Firenze, avrebbe poi cercato di vendicarsi scagliando una freccia contro il presunto mandante dell’agguato subìto. Se il Barone riuscì in più occasioni a fuggire in prima persona la giustizia, non pienamente soddisfatto, tentò talvolta anche di sottrarle altri condannati. Totto dei Mazzinghi, appartenente anch’egli a una casata di magnati, fu riconosciuto colpevole di omicidio e per questo condannato alla pena capitale. Il giorno prefissato per l’esecuzione, tuttavia, Corso Donati entrò in azione: insieme a un gruppo di seguaci si lanciò al galoppo contro gli sbirri che scortavano il condannato con l’intenzione di favorirne la fuga. Grazie al tempestivo intervento del podestà, il tentativo fallì, ma ciò non toglie che a Firenze Corso Donati si ritenesse al di sopra della legge e pertanto legittimato a sottrarre alla giustizia un suo sodale, anche se condannato per un delitto decisamente grave. Il rapporto quanto meno conflittuale con la giustizia e le istituzioni fiorentine, la ferrea volontà di sopraffare il nemico – quella parte bianca guidata da Vieri dei Cerchi, l’avversario più odiato – e l’ambizione 38 Le opere di Ferreto de’ Ferreti vicentino, a c. di C. CIPOLLA, Roma, Forzani e c. tipografi del Senato, 1908-1920, vol. I, pp. 83-84. Ammesso che il cronista veneto non avesse ricevuto la notizia da Dante stesso, che probabilmente conobbe, e alle cui posizioni filo-imperiali fu vicino: S. BORTOLAMI, Ferreti, Ferreto de’, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, vol. 47, 1997, pp. 57-60. 190 SILVIA DIACCIATI di dominare sulla città si manifestarono pienamente negli eventi del novembre del 1301. Il Donati era allora fuori Firenze, bandito in seguito agli eventi connessi al processo da lui intentato alla suocera pochi anni prima. Bonifacio VIII gli aveva affidato due importanti incarichi, la podesteria di Orvieto e il rettorato della Massa Trabaria; quindi, intenzionato a sottomettere Firenze al suo potere, lo aveva voluto a Roma, dove le trattative con il cadetto di Francia, Carlo di Valois, erano già in fase avanzata. Era sul fratello minore di Filippo il Bello che il pontefice aveva deciso di puntare per imporsi finalmente sulla città toscana. I piani papali trovarono concorde il Donati: per rientrare in città e vendicarsi di chi lo aveva allontanato aveva bisogno di alleati potenti. Il primo novembre del 1301 Carlo di Valois fece trionfalmente il suo ingresso in Firenze, ufficialmente per pacificarla. Il Donati, che lo aveva accompagnato nel viaggio da Roma, fece invece tappa a Ugnano, a qualche chilometro di distanza dalla città nella quale, essendo bandito, non poteva rientrare liberamente. Pochi giorni più tardi mise in atto il suo piano. Approfittando dell’oscurità della notte alcuni alleati gli aprirono la piccola porta di Pinti e con il loro aiuto occupò immediatamente il monastero di San Pier Maggiore. Alla notizia del suo rientro seguaci armati accorsero subito numerosi e dettero avvio alle operazioni: si recarono alle abitazioni degli ex-priori che lo avevano condannato e vi appiccarono il fuoco, dopo averle naturalmente saccheggiate. Cavalcarono poi verso le prigioni e liberarono tutti i carcerati; raggiunto il palazzo del podestà, lo trascinarono fuori e lo destituirono; stesso destino fu riservato ai priori in carica, dichiarati decaduti e sostituiti con altri. Per sei giorni in città ci fu solo una giustizia, quella di Corso Donati. L’ambizione e la sete di vendetta non lo fermarono neppure di fronte alla sua città, che fu messa letteralmente a ferro e fuoco. Questi episodi, cui se ne potrebbero facilmente aggiungere altri, forniscono un ritratto fosco, ma ben delineato, di Corso Donati: quello di un cavaliere di tenebrosa grandezza, che rifiutò con tutte le forze di sottomettersi al cambiamento dei tempi con azioni spettacolari e spesso violente, capaci di destabilizzare un’intera città. Assassino, corruttore, provocatore, avido di ricchezza e di potere personale: il Barone pare non avere nulla in comune con il Corso Donati professionista della politica itinerante. A Firenze è un magnate; a Bologna, Parma o Padova è un magistrato: in entrambi i casi impeccabile. IL ‘BARONE’: CORSO DONATI 191 4. Due nature, una sola persona Questa sorta di dualismo nella vicenda di Corso Donati potrebbe suscitare qualche perplessità. In realtà è esempio di una complessa questione della storia comunale, che pertanto non sarà affrontata, ma che è necessario richiamare per evitare di dare l’impressione di essere in presenza di un individuo affetto da disturbi della personalità. Il problema è quello della almeno apparente incompatibilità tra il ruolo e i compiti demandati agli ufficiali forestieri e la loro appartenenza sociale al gruppo dei milites prima e dei magnati poi. In particolare, si tratta di capire se un magistrato fosse in grado di staccarsi dai modelli comportamentali tipici del suo gruppo di appartenenza e, eventualmente, in quale misura.39 Jean-Claude Maire Vigueur ritiene ipotesi plausibile supporre la presenza di sensibilità diverse in seno alla nobiltà: gli ufficiali sarebbero stati selezionati tra i soggetti più aperti alle riflessioni e ai ragionamenti sull’arte della politica e, in generale, sulle regole di convivenza civile diffusi nelle città comunali dalla fine del XII secolo, grazie probabilmente alle prediche e all’insegnamento di intellettuali laici e ecclesiastici.40 L’idea è condivisibile, ma non in grado di fornire una risposta universalmente valida. Corso Donati, ad esempio, difficilmente può esser definito di larghe vedute: come riferisce Compagni, fu nemico del Popolo e alla sua politica oppose una fiera resistenza. Ciò nonostante, fuori Firenze fu un magistrato apprezzato, anche per la capacità di far rispettare la legge e amministrare quella giustizia, che in patria sfidò ripetutamente. Una prima ipotesi è che Corso Donati fosse perfettamente capace di adottare il comportamento più adeguato al ruolo ricoperto e che, pertanto, abbandonasse gli atteggiamenti più caratteristici del magnate una volta divenuto podestà o capitano del Popolo. A sostegno di questa eventualità può essere ricordato un esempio molto istruttivo come paragone, pur venendo da un contesto politico estremamente diverso, 39 J.-C. MAIRE VIGUEUR, L’ufficiale forestiero, in Ceti, modelli, comportamenti nella sociètà medievale (secoli XIII-metà XIV), Pistoia, Viella, 2001, pp. 75-97; ID., Il podestà che veniva dal mare: Gargano degli Arscindi e l’impianto del sistema podestarile a Spalato (1239), in Circolazione di uomini e scambi culturali tra città (secoli XII-XIV), Roma, Viella, 2013, pp. 197-221. 40 MAIRE VIGUEUR, Il podestà che veniva dal mare, cit., p. 216; ID., L’ufficiale forestiero, cit., p. 87. 192 SILVIA DIACCIATI quello sui generis di Venezia. Nelle sue estoires Martin da Canal descrive l’elezione di due dogi. Nel 1268 fu annunciata solennemente nella basilica di San Marco la nomina di Lorenzo Tiepolo: tra manifestazioni di gioia e tripudio, la folla acclamò il nuovo eletto, lo agguantò e gli lacerò le vesti. Così condotto davanti all’altare, giurò obbedienza alle leggi della città, ricevendo il gonfalone blasonato con il leone di San Marco. Salito poi nel palazzo ducale e ripetuto il giuramento, si rivolse al popolo molto saggiamente; convocò quindi coloro coi quali non era in buoni rapporti e fece pace con loro, assicurandoli dei suoi buoni intenti.41 In questo racconto sono due gli aspetti più curiosi: lo strappo delle vesti da parte della folla con successivo giuramento del doge davanti all’altare di San Marco e la sua prima azione, quella di far pace coi nemici con garanzia di adottare un comportamento equo e corretto. Che non si trattasse di una sequenza di eventi casuale, ma quasi di un vero e proprio rituale, sembra confermato dall’elezione del suo successore nel 1275, che si ripeté nella stessa identica forma:42 chi era eletto a guidare la città doveva spogliarsi dei vecchi abiti da privato cittadino per vestire quelli propri al nuovo ruolo istituzionale. Doveva abbandonare tutte le debolezze naturalmente connesse allo status originale, come coltivare odi e inimicizie, per governare saggiamente ed equamente sull’intera città. Come il caso veneziano pare suggerire, la possibilità che un individuo adeguasse i propri comportamenti a quelli consoni a un incarico istituzionale non può essere esclusa: da quel momento cessava di essere il fiorentino, il milanese o il privato cittadino implicato nelle quotidiane beghe politiche, di vicinato o di fazione del proprio comune, per divenire un ufficiale incaricato di governare un’altra città. Questa capacità di staccarsi dai modelli comportamentali del gruppo sociale di provenienza renderebbe meno singolare la nomina di un Corso Donati a capitano del Popolo. Da un ufficiale, d’altra parte, i comuni esigevano una determinata condotta, alla quale tentarono di obbligarlo tramite il ricorso a due strumenti fondamentali, strettamente connessi l’uno con l’altro: il giuramento a inizio incarico e il sindacato a sua conclusione.43 41 MARTIN DA CANAL, Les estoires de Venise. Cronaca veneziana in lingua francese dalle origini al 1275, a c. di A. LIMENTANI, Firenze, Olschki, 1972, pp. 272-283. 42 MARTIN DA CANAL, Les estoires de Venise, cit., pp. 364-365. 43 Sui podestà è d’obbligo il rimando a I podestà dell’Italia comunale, cit.; si veda anche P. IL ‘BARONE’: CORSO DONATI 193 Appena giunto nella città che era chiamato a amministrare, il neo-eletto era obbligato a declamare pubblicamente un giuramento estremamente dettagliato: vi si fissava nei più minimi particolari il suo spazio di manovra, specificando con grande cura tutto ciò che poteva o non poteva fare, doveva o non doveva compiere, nell’assoluto rispetto di quanto stabilito dagli statuti e dalle leggi di quella città. Il giuramento era un contratto vincolante: per questo motivo, a fine mandato, l’operato dell’ufficiale forestiero era sottoposto a un accurato esame per verificare l’applicazione rigorosa della normativa e la perfetta osservanza di quanto giurato inizialmente.44 Come in un processo, poteva capitare che il magistrato fosse chiamato a difendersi da una o più accuse; nel caso in cui la sua difesa non risultasse efficace e convincente, sarebbe stato condannato al pagamento di una pena pecuniaria, generalmente detratta dall’onorario dovutogli. Una condanna a conclusione del sindacato poteva anche trasformarsi in un grave problema di natura diplomatica, quando il rifiuto da parte dell’ufficiale di sottomettersi alla decisione costringeva il comune di provenienza a intervenire per tentare di risolvere la questione. In casi estremi il mal governo di un singolo magistrato poteva arrivare a compromettere le relazioni tra due città: i candidati a ricoprire incarichi podestarili dovevano quindi essere scelti con cura sia da parte delle città di provenienza, che spesso offrivano una rosa di nomi tra cui scegliere, sia da parte delle città che vi si affidavano. D’altra parte, se è vero che il prestigio di un comune si irradiava anche sui suoi cittadini inviati come magistrati in altri centri, è anche vero che l’esistenza di personaggi stimati e apprezzati, richiesti per le proprie qualità come ufficiali forestieri, poteva costituire per il comune di provenienza un’occasione unica di estendere o consolidare un’alleanza o un’area di influenza.45 Nella scelta di un ufficiale forestie- GRILLO, I podestà dell’Italia comunale: recenti studi e nuovi problemi sulla storia politica e istituzionale dei comuni italiani nel Duecento, in «Rivista storica italiana», 115 (2003), pp. 556-590. 44 Sul sindacato si veda: G. MASI, Il Sindacato delle Magistrature Comunali del sec. XIV (con speciale riferimento a Firenze), Roma, Sampaolesi, 1930; M. ASCHERI, Le città-Stato, Bologna, il Mulino, 2006, pp. 106-110; J. SABAPATHY, A Medieval Officer and a Modern Mentality? Podestà and the Quality of Accountability, in «The Medieval Journal», 1/2 (2011), pp. 43-79; G. GELTNER, Fighting Corruption in the Italian City-State. Perugian Officers’ End of Term Audit (sindacato) in the Fourteenth Century, in Anti-corruption in History: From Antiquity to the Modern Era, a c. di R. KROEZE, A. VITÓRIA, G. GELTNER, Oxford, Oxford University Press, 2017, pp. 103-121. 45 GRILLO, I podestà dell’Italia comunale: recenti studi e nuovi problemi, cit., p. 590. 194 SILVIA DIACCIATI ro pesava infatti anche la provenienza da centri affidabili da un punto di vista delle relazioni diplomatiche e dell’adesione a una determinata rete di alleanze – quella guelfa o quella ghibellina, ad esempio – ma anche caratterizzati da regimi politici di orientamento analogo.46 Corso Donati doveva fornire sufficienti garanzie delle sue capacità di ricoprire degnamente un incarico delicato e pieno di responsabilità come quello di podestà o capitano del Popolo, sia a Firenze sia nelle città che a lui si rivolgevano. D’altra parte, sarebbe stato sciocco assumere atteggiamenti contrari alle norme della città governata: avrebbero solo creato problemi diplomatici e compromesso una carriera brillante e foriera di vantaggi. E Corso Donati sciocco non era. 5. La vendetta dell’oblio Eroe di Campaldino, magnate e capo della fazione nera a Firenze, magistrato rispettato e apprezzato in varie città dell’Italia comunale: tra la fine del XIII secolo e l’inizio del XIV Corso Donati dominò la scena politica, non solo quella fiorentina. Era famoso in tutta Italia, come riferisce Giovanni Villani, che gli dedicò ampio spazio nella sua cronaca senza, tuttavia, raggiungere i livelli di Dino Compagni: seppur in negativo, il Barone è l’indiscusso protagonista del suo racconto e della storia fiorentina di quegli anni.47 Familiare di Bonifacio VIII, vicino alla casa regnante di Francia, amico di grandi condottieri come quell’Aymeric de Narbonne in onore del quale forse battezzò Amerigo uno dei suoi figli o come quell’Uguccione della Faggiuola di cui sposò in terze nozze la figlia, la sua figura attirò anche amicizie ed estimatori.48 Ne fu amico ad esempio un altro personaggio in vista di quegli anni, fiorentino di nascita ma bolognese di adozione e anch’egli abituato a frequentare ambienti esclusivi come la curia pontificia, Taddeo Alderotti. Il famoso medico gli dedicò un 46 Si veda ad esempio quanto scrive Sante Bortolami a proposito degli stretti legami che unirono le città di Firenze, Padova e Bologna negli anni di più intensa lotta antimagnatizia: S. BORTOLAMI, Politica e cultura nell’import-export del personale itinerante di governo dell’Italia medioevale: il caso di Padova comunale, in I podestà dell’Italia comunale, cit., pp. 203-258, in part. pp. 233-234. 47 CAPPI, Dino Compagni tra Cicerone e Corso Donati, cit. 48 RAVEGGI, Donati, cit. IL ‘BARONE’: CORSO DONATI 195 trattato nel quale lo consigliava su quali accorgimenti mettere in pratica per preservare la salute dai malanni dell’età e della pratica militare.49 Ammiratore spassionato ne fu il poeta e cavaliere della beata Vergine Maria, Guittone d’Arezzo: rivolgendosi direttamente al suo caro e buon amico, ne elogiò in rima il grande valore e lo esortò a non cessare mai di combattere, per nessun motivo.50 A distanza di più di due secoli la figura di Corso Donati e gli eventi che lo videro protagonista colpirono l’attenzione anche di uno dei più lucidi indagatori della storia fiorentina, Nicolò Machiavelli. Pur deprecandone atteggiamenti e comportamenti, lo storico non poté non riconoscerne la grandezza e citarlo tra quei fiorentini di cui fosse degno lasciare memoria.51 Nonostante l’eccezionale fama che ebbe presso i contemporanei e che si riverbera ancora nelle parole di Machiavelli, con il passare dei decenni la memoria di Corso Donati e delle sue gesta è divenuta sempre più tenue, ai più sconosciuta e mantenuta invece in vita quasi esclusivamente dai dantisti e dagli esperti della Firenze medievale. Robert Davidsohn si spinse addirittura a vedere nella morte di Corso Donati la scomparsa dell’ultima figura eroica della storia medievale fiorentina.52 In effetti, ne fu l’effettivo protagonista e non in un periodo qualsiasi, ma nel momento di maggior splendore della città, quando Firenze era tra i centri più popolosi del mondo allora conosciuto e i suoi abitanti dominavano il panorama come protagonisti negli scambi, nei commerci, nell’attività bancaria e finanziaria. Per un personaggio di tale portata è quasi scontato immaginare un destino diverso da quello di un diffuso oblio. Eppure così è stato e la responsabilità non può non essere in buona parte addossata che a un singolo colpevole, il poeta Dante Alighieri. Uomo politico di primissimo piano, assassino, corruttore, assetato di ricchezze e potere: Corso Donati avrebbe potuto essere condannato alle peggiori pene ultraterrene, se non addirittura divenire l’antieroe per eccellenza della cantica infernale. Tuttavia, per lui Dante aveva scelto una punizione diversa, ben più efficace ed eterna: il silenzio e la cancellazione del suo stesso ricordo. L’Alighieri non cita mai direttamente 49 50 51 52 F. PUCCINOTTI, Storia della medicina, Livorno, M. Wagner, 1850-1866, vol. II, p. XLIV. E. MONACI, Crestomazia italiana dei primi secoli, Città di Castello, Lapi, 1889, p. 183. N. MACHIAVELLI, Istorie fiorentine, a c. di V. FIORINI, Firenze, Sansoni, 1962, pp. 200-205. DAVIDSOHN, Storia di Firenze, cit., vol. IV, p. 485 ss., in part. p. 493. 196 SILVIA DIACCIATI Corso Donati, non lo nomina in nessuna delle sue opere. Si limita a riferirsi a lui tre volte: una nella tenzone con Forese, suo amico nonché fratello di Corso (Rime 78, 12-14), due nella Commedia. Nella tenzone fa genericamente allusione alla vita dissoluta di Forese e dei suoi fratelli, senza fornire alcun particolare sul Barone. Nella Commedia vi avrebbe invece fatto riferimento nel narrare le vicende di Piccarda, la sorella che Corso avrebbe trascinato fuori dal convento per darla in sposa a un Della Tosa e di cui oggi ignoreremmo addirittura l’esistenza se non fosse stato per quest’episodio ricordato da Dante. Assunta in Paradiso, l’anima della gentile fanciulla ricorda come colpevoli della sua sorte «uomini […] a mal più ch’a bene usi» (Par. III 106-108), abituati più al male che al bene. Nessun riferimento esplicito al fratello, dunque, anche se poi i commentatori danteschi lo hanno immediatamente caricato della colpa. Nel Purgatorio, infine, Dante ritrova Forese, il suo vecchio amico passato a miglior vita già da qualche anno, ed è a lui che affida la profezia della morte violenta di Corso (Purg. XXIV 82-87). Solo sei versi descrivono la sorte di colui di cui non si pronuncia neppure il nome: fu trascinato a coda di cavallo sino all’Inferno, col corpo orribilmente devastato dalla folle corsa dell’animale. A Firenze vi era l’abitudine di umiliare i condannati a morte per crimini gravi conducendoli al patibolo seduti in groppa a un asinello, col volto rivolto all’indietro come ultimo segno di disprezzo.53 I pochi e sintetici versi di Dante potevano sviare il lettore all’oscuro della vicenda e portarlo anche a pensare a una versione tragicomica di una fine infamante. La scelta di non citare mai Corso Donati non fu dettata da una sorta di rispetto dovuto a un lontano parente o a un uomo influente e degno: le allusioni al personaggio furono comunque di violenta condanna morale. Il silenzio fu invece la più grande vendetta che Dante, guelfo bianco esiliato dalla città dopo la vittoria nera, avesse modo di compiere nei confronti dell’individuo che probabilmente giudicava come il principale colpevole non solo delle sciagure di Firenze, ma anche delle 53 DAVIDSOHN, Storia di Firenze, cit., vol. V, pp. 606-607. L’immagine del cavallo che trascina Corso Donati all’Inferno potrebbe anche aver avuto come modello quello della cavalcata infernale del re ostrogoto Teodorico, attestata nella letteratura medievale e rappresentata, ad esempio, nei bassorilievi della basilica di San Zeno a Verona: cfr. A. DALLE MULE, La cavalcata infernale di Teodorico. Uno studio iconografico, tesi di dottorato discussa presso la Ludwig-Maximilians Universität München, 2016. Ringrazio moltissimo Enrico Faini per la segnalazione. IL ‘BARONE’: CORSO DONATI 197 proprie e che, pertanto, odiava con tutte le forze. L’oblio è la pena peggiore, l’unica davvero eterna, cui condannare qualcuno: senza memoria non c’è esistenza. Dante, che con la sua opera avrebbe reso immortali umili e oscuri personaggi altrimenti ignoti al pari di papi, imperatori e grandi protagonisti della storia, cosa poteva fare per annientare il Barone? Poteva solo farne sparire il ricordo, nascondendone addirittura il nome ai posteri. E in buona parte ci è riuscito. INDICE GENERALE FRANCO SUITNER, Premessa .......................................................... p. 1 GRADO GIOVANNI MERLO, Il santo: Domenico ............................. » 7 ANNA PEGORETTI, La suora mancata: Piccarda ............................. » 19 FRANCESCO ZAMBON, Il poeta-vescovo: Folchetto di Marsiglia ..... » 39 FRANZISKA MEIER, L’imperatrice: Costanza .................................. » 59 FRANCO SUITNER, Il cantore: Casella ............................................. » 83 PASQUALE PORRO, Il filosofo: Sigieri di Brabante .......................... » 103 MARCELLO CICCUTO, Gli artisti: Cimabue e Giotto ...................... » 129 GIUSEPPE CRIMI, Gli indovini ....................................................... » 143 MARINA BENEDETTI, L’eretico: Dolcino ........................................ » 163 SILVIA DIACCIATI, Il ‘barone’: Corso Donati .................................. » 177 LUCA FIORENTINI, I traditori toscani della Caina .......................... » 199 GABRIELLA ALBANESE, Il guelfo sanguinario: Fulcieri da Calboli.. » 215 FRANCESCO PIRANI, Il tiranno: Guido di Montefeltro ................... » 241 GIACOMO TODESCHINI, L’usuraio: Rinaldo Scrovegni .................. » 269 404 INDICE GENERALE DELPHINE CARRON, Il principe ‘senzaterra’: Carlo di Valois ......... p. 283 SANDRO CAROCCI, Il papa nepotista: Niccolò III ........................... » 307 NICOLINO APPLAUSO, Il capo della cancellieria imperiale: Pier della Vigna ....................................................................... » 327 ANDREAS BÜTTNER, Due imperatori: Rodolfo e Alberto d’Asburgo ...................................................................................... » 341 GIAN LUCA POTESTÀ, Il personaggio-enigma: «un cinquecento diece e cinque» ............................................................... » 361 Indice dei nomi ............................................................................. » 381 FINITO DI STAMPARE NEL MESE DI FEBBRAIO 2020 PER CONTO DI EDITORIALE LE LETTERE DALLA TIPOGRAFIA BANDECCHI & VIVALDI PONTEDERA (PI) ISBN 978-88-9366-125-6 E 50,00 9 788893 661256