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Cavalleria rusticana vs Pagliacci

2020, Casicritici

Analisi di "Cavalleria rusticana" di Pietro Mascagni, regia di Emma Dante, e di "Pagliacci" di Ruggero Leoncavallo, regia di Serena Sinigaglia.

casicritici di teatro, cinema e altro ancora 2 GENNAIO 2020 STEFANO CASI Cavalleria rusticana vs Pagliacci “Cavalleria rusticana” Il tradizionale abbinamento di Cavalleria rusticana e Pagliacci porta spesso a leggere i due titoli in sintonia. In fin dei conti, le opere sono coeve (una è del 1890, l’altra del 1892), entrambe di ambientazione contadina e ispirazione verista e con una trama riducibile al minimo come la vendetta di un uomo geloso che uccide l’amante della propria donna (nel secondo caso anche l’amata stessa). L’abbinamento tra gli allestimenti diretti da Emma Dante e Serena Sinigaglia mostra invece l’esistenza di dissonanze, che le due registe portano all’estremo. Pur rispondendo alle stesse logiche di ‘possesso’ maschile della donna e di violenza e vendetta come soluzione del ‘problema’, all’interno di una cornice popolare-agricola e pre-moderna simile, i due cornuti vendicatori con le loro lacrimose storie sono sideralmente distanti l’uno dall’altro perlomeno quanto il 27enne livornese Mascagni lo è dal 35enne napoletano Leoncavallo. “Cavalleria rusticana” Cavalleria rusticana, ambientata in una piazza siciliana, e quindi presumibilmente in uno spazio luminoso e mediterraneo, è trasformata da Emma Dante in uno spettacolo sprofondato nel nero. La trasformazione riguarda anche la data di svolgimento dell’azione, che dalla domenica di Pasqua è arretrata qui ai giorni della Passione, innescando così un inedito parallelo tra la vicenda del protagonista con quella di Cristo, entrambe vittime sacrificali di un sistema più grande di loro, che lasciano alle donne superstiti il peso di un dolore senza resurrezione. Nell’opera di Mascagni Santuzza rivela ad Alfio che Lola da lui amata se la fa con il suo Turiddu: e così i due maschi, nell’interstizio fisico e concettuale tra chiesa e taverna, si affrontano in duello, fuori scena, finché non arriva il grido straziante che conclude l’opera: “Hanno ammazzato compare Turiddu!”. Il fuori scena è strategico nell’opera di Mascagni, che appunto inizia con una canzone dialettale di Turiddu che arriva da dietro le quinte e finisce, come in una tragedia greca, con l’omicidio compiuto lontano dagli occhi del pubblico. Strategico perché riflette il senso profondo del teatro verista come tranche de vie, come frammento di una realtà che nasce e prosegue al di fuori dello spazio teatrale. La devozione dei due librettisti al verismo, fedeli a Giovanni Verga da cui viene proprio il testo originale di Cavalleria rusticana, si riflette nella quasi assenza delle didascalie, evidentemente avvertite come orpelli narrativi, come mediazione autorale rispetto a una realtà che parla di per sé. “Cavalleria rusticana” Rispetto a questo deciso affondo nel verismo Emma Dante opta per il suo svuotamento, sostenuta da una diversa interpretazione di quei dispositivi che il verismo condivide con la tragedia classica: l’azione fuori scena, appunto, e la carenza di didascalie che suggerisce una libertà totale di invenzione. Così, la regista astrae la narrazione dai codici del verismo e dal contesto sociale e geografico, puntando su un racconto assoluto e simbolico, dove la Sicilia lascia il posto a una terra di nessuno (e quindi di tutti), sprofondata nel nero (con un solo elemento architettonico, una doppia scala che si compone in diverse soluzioni), completamente priva della tipica atmosfera cromatica dell’isola, che sopravvive appena in pochissimi ma folgoranti tocchi di vivacissimi colori (come i ventagli e i pennacchi dei cavalli). Ma più che alla tragedia classica il riferimento è al rito e alla sacra rappresentazione. Strappata la storia alla sua collocazione pasquale (cioè al trionfo della vita, che per Mascagni rappresentava dunque un forte segno di contrasto con la morte di Turiddu), Emma Dante insiste sulla via crucis, scegliendo quindi un segno di concordanza anziché di contrasto. “Cavalleria rusticana” Lo spettacolo inizia proprio nel segno della sacra rappresentazione, con il lento e straziante passaggio in scena di Cristo che trascina la croce zoppicando, preceduto da un centurione e seguito dalle inconsolabili tre Marie. Un Cristo nero, a sottolineare ancor maggiormente la diversità della vittima sacrificale che già Gesù rappresentava: capro espiatorio nella Palestina antica in quanto Cristo, e capro espiatorio nell’Italia contemporanea e razzista in quanto nero. L’indicazione è sottolineata con la moltiplicazione dei passaggi della via crucis e dei crocifissi stessi, che calano in scena in tutte le dimensioni, a ribadire una trionfante idea della morte in un giorno che non prevede resurrezione. Lo stesso colore nero nel quale sono intinti la scena e i costumi di tutti i personaggi non è solo un’elegante allusione atemporale, ma anche presagio del lutto. Tutto, insomma, rimanda alla morte, che segue il doppio binario della narrazione religiosa, qui distillata nei suo segni minimi (la via crucis, i crocifissi), e della narrazione laica, qui interpretata dal sacrificio di Turiddu, che avviene per aver infranto le regole di una società guidata dai valori arcaici del possesso maschile del femminile. “Cavalleria rusticana” E’ proprio su questo arcaico confronto di genere, pacificato dalle consuetudini sociali, che Emma Dante impernia la sua Cavalleria rusticana. La società maschile e quella femminile, già ben distinte nel libretto di Targioni-Tozzetti e Menasci, presentano evidenti punti di vista diversi, che arrivano al culmine in un finale in cui la soluzione maschile del plot (la vendetta) innesca una soluzione femminile (il dolore). La chiave di lettura sta nella scena finale composta dalla regista: lo straziante pianto delle tre Marie della via crucis, con il volto sfigurato da un grido muto a bocca spalancata (che sembra fondere l’urlo di dolore di Helene Weigel in Madre Coraggio con le donne della Pietà bolognese di Nicolò Dell’Arca), che attorniano la nuova mater dolorosa, cioè Lucia, la madre di Turiddu, vittima terminale delle vendette della società patriarcale. In lei, vero e proprio perno di senso dell’opera secondo l’approccio di Emma Dante, si ricompongono la Passione religiosa e quella laica, trasferendo anche visivamente nel dolore del corpo femminile la sofferenza di una storia che sembrava erroneamente avere come vittima principale Turiddu. E dunque, quel parallelismo tra Turiddu e Cristo, accennato durante l’opera, nel finale svela il suo vero obiettivo: Turiddu è Cristo solo in quanto ogni madre addolorata è una Madonna. E quindi la Cavalleria rusticana di Emma Dante non è un dramma folkloristico della gelosia e della vendetta, ma piuttosto la sacro-laica rappresentazione universale del dolore della donna nell’oppressione di genere imposta da una visione e una pratica maschile. “Pagliacci” Tutt’altro è l’approccio di Serena Sinigaglia a Pagliacci, che peraltro si presenta come un’opera ben diversa dalla precedente. Basterebbero la prolissità narrativa delle didascalie del libretto o il doppio delitto esibito in scena a rivelare la diversa intenzione di Leoncavallo. Il compositore e librettista apparentemente sposa il verismo: il riferimento è dichiarato non solo nel prologo (“L’autore (…) al vero ispiravasi”), ma anche nelle dichiarazioni extra-testuali in cui ribadisce che la storia deriverebbe da un fatto di cronaca di cui egli è stato testimone infantile. Un’insistenza che, a prescindere dall’effettiva verità dell’avvenimento, diventa sospetta e si presenta come un depistaggio. Infatti dietro una flebile patina verista, affidata soprattutto al coro, l’opera nasconde una più corposa dimensione romantica e simbolica (melodrammatica, insomma), che arriva a comporre una sorta di dramma pirandelliano ante litteram, non solo e non tanto per il meccanismo del teatro nel teatro, quanto per il complesso rapporto dei personaggi con la realtà e la simulazione, che trascende la quotidianità per attingere a una sorta di ritualità ancestrale fino ad arrivare a esiti imprevedibili. “Pagliacci” La trama vede una serie di intrecci amorosi che hanno al loro centro l’attrice girovaga Nedda, che fa coppia con il capocomico Canio, ma è insidiata dallo scemo della compagnia Tonio ed è innamorata del paesano Silvio con il quale medita la fuga d’amore. L’ambientazione temporale è metà agosto, più precisamente il giorno dell’Assunta: come in Mascagni, una festa religiosa è testimone di un piccolo fattaccio di cronaca nera, ma qui la chiesa è lontana, e l’occasione religiosa è una pura coincidenza senza reale attinenza con la storia. L’indagine di Canio per scoprire chi sia l’amante si trasferisce dal backstage della prima parte alla rappresentazione dei comici nella seconda, durante la quale Canio (con la maschera di Pagliaccio) uccide davvero Colombina (Nedda) e il suo amante venuto invano a soccorrerla. La battuta finale “La commedia è finita” sui corpi morti dei due amanti ribalta la dichiarazione fatta dallo stesso Canio all’inizio dell’opera: “Il teatro e la vita non son la stessa cosa”. Se ne ricorderà bene proprio Pirandello, disseminando di spunti da Pagliacci le sue opere, da Enrico IV a I giganti della montagna. “Pagliacci” Analogamente al percorso di Emma Dante per Cavalleria rusticana dal crudo verismo verso l’astrazione (che pure è in nuce nel libretto), Serena Sinigaglia procede in Pagliacci dalla dimensione romantico-simbolica verso l’ostentazione del realismo (che pure ne è il vestito). Dal vuoto nero dell’opera di Mascagni si passa ora alla ricostruzione allusivamente realistica di un campo di grano in mezzo al quale si erge il palcoscenico dei comici girovaghi, circondato dai colori soffusi di una calda estate. Quanto più è ostentato il realismo nell’allestimento di Sinigaglia, tanto più è esplicitamente finto e dunque coerente con il verismo simulato di Leoncavallo: finto perfino nella costruzione a vista della scenografia, con tanto di tecnici che montano le distese di grano, ‘intimiditi’ dal trovarsi al centro dell’attenzione del pubblico: un pezzo di esibita verità che esalta proprio la finzione che è il cuore dell’opera di Leoncavallo. Al contrario di Alfio in Cavalleria rusticana, Canio appare già fin dall’inizio come una figura complessa, se non proprio tormentata, sulla quale la rivelazione del solito delatore (che qui è Tonio) ha un effetto dirompente. Insomma, se nell’opera di Mascagni il delitto matura all’interno di dinamiche sociali di genere e si presenta attraverso il rito codificato del duello, in quella di Leoncavallo il desiderio di vendetta e il delitto rispondono a una pulsione interiore e a un tormento personale, che ugualmente fa riferimento a un’idea maschilista del possesso della donna, ma che fa ricadere sull’individuo Canio la piena responsabilità di quanto accade, ben evidenziata dall’ostentazione del duplice delitto sul palcoscenico dei comici che sta dentro il palcoscenico dell’opera, quindi in una sorta di messa in cornice al quadrato. “Pagliacci” Cavalleria rusticana, per così dire, ha toni più tragici e assoluti e sembra celebrarsi sotto l’egida di un fatalismo esistenziale in cui l’omicida appare quasi come una mano del destino: il soggetto della battuta finale “Hanno ammazzato” è impersonale, strappa Alfio dalla responsabilità per redistribuirla in una condivisione omertosa (siamo cronologicamente in una Sicilia proto-mafiosa), ma che effettivamente riflette una corresponsabilità sociale. Pagliacci, invece, è più vicino al feuilleton e alla precisa caratterizzazione dei singoli personaggi, che quindi sono titolari totali delle loro azioni: Canio, che più volte minaccia di morte la compagna, è moderno protagonista di un vero e proprio femminicidio, che rivela una sua incapacità soggettiva nel gestire la decisione della donna di voler cambiare relazione. La scenografia ‘caratteristica’ che riporta a certe pitture nostalgiche sottolinea l’ispirazione post-romantica da bozzetto paesano, insistendo in particolare sulla citazione iconografica dei comici dell’arte. Se la scena di Carmine Maringola per Cavalleria Rusticana racchiudeva tutto in un vuoto profondo, una sorta di buco nero dal quale emergevano le figure per venirne poi risucchiate, quasi materializzate da un humus indistinto, quella di Maria Spazzi per Pagliacci (sostenuta dalle luci empatiche di Claudo De Pace) si sviluppa tutta in senso bidimensionale, schiacciando la vastità dei campi, il palco dei saltimbanchi, il folto pubblico dei contadini e l’esito cruento della vicenda nello spazio pressato di una formella decorativa, dove i sentimenti stessi sono compressi chiedendo di scoppiare drammaticamente, mentre i personaggi sono ancorati anche visivamente a una funzione quasi pittoresca (e qui vale la pena sottolineare la ricerca compiuta da Carla Teti per i costumi); e la scena non è più rimando a un humus indistinto e collettivo, ma semplice ambiente in cui ogni personaggio decide la propria collocazione narrativa. E ancora una volta sono le due celebri battute finali a definire le due opere e la loro distanza: da una parte quel “hanno ammazzato” che dichiara la condivisione collettiva di un’azione, e dall’altra quel “La commedia è finita” che ricorda che ognuno ha una parte in questo mondo che è chiamato a interpretare. “Pagliacci” Cavalleria rusticana libretto di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci; musica di Pietro Mascagni; direttore Frédéric Chaslin; regia Emma Dante, ripresa da Gianni Marras; maestro del coro Alberto Malazzi; con Veronica Simeoni, Roberto Aronica, Agostina Smimmero, Dalibor Jenis, Alessia Nadin, Mariella Celia, Silvia Giuffrè, Samuel Salamone, Yannick Simons, Sabrina Vicari, Marta Zollet; scene Carmine Maringola; costumi Vanessa Sannino; luci Cristian Zucaro; coreografia Manuela Lo Sicco; produzione del Teatro Comunale di Bologna. Pagliacci musica e libretto di Ruggero Leoncavallo; direttore Frédéric Chaslin; regia Serena Sinigaglia; maestro del coro Alberto Malazzi; maestro del coro di voci bianche Alhambra Superchi; con Carmela Remigio, Stefano La Colla, Dalibor Jenis, Paolo Antognetti, Vittorio Prato, Paolo De Giudici, Sarah Giulia Gibbon; scene Maria Spazzi; costumi Carla Teti; luci Claudio De Pace; produzione del Teatro Comunale di Bologna con Grand Théâtre de Genève. Orchestra, coro, coro di voci bianche e tecnici del Teatro Comunale di Bologna. In collaborazione con la Scuola di Teatro di Bologna Alessandra Galante Garrone. Visto a: Bologna, Teatro Comunale, 20 dicembre 2019. Foto di Andrea Ranzi – Studio Casaluci.