casicritici
di teatro, cinema e altro ancora
2 GENNAIO 2020
STEFANO
CASI
Cavalleria rusticana vs Pagliacci
“Cavalleria rusticana”
Il tradizionale abbinamento di Cavalleria rusticana e Pagliacci porta spesso a leggere i due titoli in
sintonia. In fin dei conti, le opere sono coeve (una è del 1890, l’altra del 1892), entrambe di
ambientazione contadina e ispirazione verista e con una trama riducibile al minimo come la vendetta
di un uomo geloso che uccide l’amante della propria donna (nel secondo caso anche l’amata stessa).
L’abbinamento tra gli allestimenti diretti da Emma Dante e Serena Sinigaglia mostra invece
l’esistenza di dissonanze, che le due registe portano all’estremo. Pur rispondendo alle stesse logiche
di ‘possesso’ maschile della donna e di violenza e vendetta come soluzione del ‘problema’, all’interno
di una cornice popolare-agricola e pre-moderna simile, i due cornuti vendicatori con le loro lacrimose
storie sono sideralmente distanti l’uno dall’altro perlomeno quanto il 27enne livornese Mascagni lo è
dal 35enne napoletano Leoncavallo.
“Cavalleria rusticana”
Cavalleria rusticana, ambientata in una piazza siciliana, e quindi presumibilmente in uno spazio
luminoso e mediterraneo, è trasformata da Emma Dante in uno spettacolo sprofondato nel nero. La
trasformazione riguarda anche la data di svolgimento dell’azione, che dalla domenica di Pasqua è
arretrata qui ai giorni della Passione, innescando così un inedito parallelo tra la vicenda del
protagonista con quella di Cristo, entrambe vittime sacrificali di un sistema più grande di loro, che
lasciano alle donne superstiti il peso di un dolore senza resurrezione. Nell’opera di Mascagni
Santuzza rivela ad Alfio che Lola da lui amata se la fa con il suo Turiddu: e così i due maschi,
nell’interstizio fisico e concettuale tra chiesa e taverna, si affrontano in duello, fuori scena, finché non
arriva il grido straziante che conclude l’opera: “Hanno ammazzato compare Turiddu!”. Il fuori scena è
strategico nell’opera di Mascagni, che appunto inizia con una canzone dialettale di Turiddu che
arriva da dietro le quinte e finisce, come in una tragedia greca, con l’omicidio compiuto lontano dagli
occhi del pubblico. Strategico perché riflette il senso profondo del teatro verista come tranche de vie,
come frammento di una realtà che nasce e prosegue al di fuori dello spazio teatrale. La devozione dei
due librettisti al verismo, fedeli a Giovanni Verga da cui viene proprio il testo originale di Cavalleria
rusticana, si riflette nella quasi assenza delle didascalie, evidentemente avvertite come orpelli
narrativi, come mediazione autorale rispetto a una realtà che parla di per sé.
“Cavalleria rusticana”
Rispetto a questo deciso affondo nel verismo Emma Dante opta per il suo svuotamento, sostenuta da
una diversa interpretazione di quei dispositivi che il verismo condivide con la tragedia classica:
l’azione fuori scena, appunto, e la carenza di didascalie che suggerisce una libertà totale di
invenzione. Così, la regista astrae la narrazione dai codici del verismo e dal contesto sociale e
geografico, puntando su un racconto assoluto e simbolico, dove la Sicilia lascia il posto a una terra di
nessuno (e quindi di tutti), sprofondata nel nero (con un solo elemento architettonico, una doppia
scala che si compone in diverse soluzioni), completamente priva della tipica atmosfera cromatica
dell’isola, che sopravvive appena in pochissimi ma folgoranti tocchi di vivacissimi colori (come i
ventagli e i pennacchi dei cavalli). Ma più che alla tragedia classica il riferimento è al rito e alla sacra
rappresentazione. Strappata la storia alla sua collocazione pasquale (cioè al trionfo della vita, che per
Mascagni rappresentava dunque un forte segno di contrasto con la morte di Turiddu), Emma Dante
insiste sulla via crucis, scegliendo quindi un segno di concordanza anziché di contrasto.
“Cavalleria rusticana”
Lo spettacolo inizia proprio nel segno della sacra rappresentazione, con il lento e straziante passaggio
in scena di Cristo che trascina la croce zoppicando, preceduto da un centurione e seguito dalle
inconsolabili tre Marie. Un Cristo nero, a sottolineare ancor maggiormente la diversità della vittima
sacrificale che già Gesù rappresentava: capro espiatorio nella Palestina antica in quanto Cristo, e
capro espiatorio nell’Italia contemporanea e razzista in quanto nero. L’indicazione è sottolineata con
la moltiplicazione dei passaggi della via crucis e dei crocifissi stessi, che calano in scena in tutte le
dimensioni, a ribadire una trionfante idea della morte in un giorno che non prevede resurrezione. Lo
stesso colore nero nel quale sono intinti la scena e i costumi di tutti i personaggi non è solo
un’elegante allusione atemporale, ma anche presagio del lutto. Tutto, insomma, rimanda alla morte,
che segue il doppio binario della narrazione religiosa, qui distillata nei suo segni minimi (la via
crucis, i crocifissi), e della narrazione laica, qui interpretata dal sacrificio di Turiddu, che avviene per
aver infranto le regole di una società guidata dai valori arcaici del possesso maschile del femminile.
“Cavalleria rusticana”
E’ proprio su questo arcaico confronto di genere, pacificato dalle consuetudini sociali, che Emma
Dante impernia la sua Cavalleria rusticana. La società maschile e quella femminile, già ben distinte nel
libretto di Targioni-Tozzetti e Menasci, presentano evidenti punti di vista diversi, che arrivano al
culmine in un finale in cui la soluzione maschile del plot (la vendetta) innesca una soluzione
femminile (il dolore). La chiave di lettura sta nella scena finale composta dalla regista: lo straziante
pianto delle tre Marie della via crucis, con il volto sfigurato da un grido muto a bocca spalancata (che
sembra fondere l’urlo di dolore di Helene Weigel in Madre Coraggio con le donne della Pietà
bolognese di Nicolò Dell’Arca), che attorniano la nuova mater dolorosa, cioè Lucia, la madre di
Turiddu, vittima terminale delle vendette della società patriarcale. In lei, vero e proprio perno di
senso dell’opera secondo l’approccio di Emma Dante, si ricompongono la Passione religiosa e quella
laica, trasferendo anche visivamente nel dolore del corpo femminile la sofferenza di una storia che
sembrava erroneamente avere come vittima principale Turiddu. E dunque, quel parallelismo tra
Turiddu e Cristo, accennato durante l’opera, nel finale svela il suo vero obiettivo: Turiddu è Cristo solo
in quanto ogni madre addolorata è una Madonna. E quindi la Cavalleria rusticana di Emma Dante non è un
dramma folkloristico della gelosia e della vendetta, ma piuttosto la sacro-laica rappresentazione
universale del dolore della donna nell’oppressione di genere imposta da una visione e una pratica
maschile.
“Pagliacci”
Tutt’altro è l’approccio di Serena Sinigaglia a Pagliacci, che peraltro si presenta come un’opera ben
diversa dalla precedente. Basterebbero la prolissità narrativa delle didascalie del libretto o il doppio
delitto esibito in scena a rivelare la diversa intenzione di Leoncavallo. Il compositore e librettista
apparentemente sposa il verismo: il riferimento è dichiarato non solo nel prologo (“L’autore (…) al
vero ispiravasi”), ma anche nelle dichiarazioni extra-testuali in cui ribadisce che la storia deriverebbe
da un fatto di cronaca di cui egli è stato testimone infantile. Un’insistenza che, a prescindere
dall’effettiva verità dell’avvenimento, diventa sospetta e si presenta come un depistaggio. Infatti
dietro una flebile patina verista, affidata soprattutto al coro, l’opera nasconde una più corposa
dimensione romantica e simbolica (melodrammatica, insomma), che arriva a comporre una sorta di
dramma pirandelliano ante litteram, non solo e non tanto per il meccanismo del teatro nel teatro,
quanto per il complesso rapporto dei personaggi con la realtà e la simulazione, che trascende la
quotidianità per attingere a una sorta di ritualità ancestrale fino ad arrivare a esiti imprevedibili.
“Pagliacci”
La trama vede una serie di intrecci amorosi che hanno al loro centro l’attrice girovaga Nedda, che fa
coppia con il capocomico Canio, ma è insidiata dallo scemo della compagnia Tonio ed è innamorata
del paesano Silvio con il quale medita la fuga d’amore. L’ambientazione temporale è metà agosto, più
precisamente il giorno dell’Assunta: come in Mascagni, una festa religiosa è testimone di un piccolo
fattaccio di cronaca nera, ma qui la chiesa è lontana, e l’occasione religiosa è una pura coincidenza
senza reale attinenza con la storia. L’indagine di Canio per scoprire chi sia l’amante si trasferisce dal
backstage della prima parte alla rappresentazione dei comici nella seconda, durante la quale Canio
(con la maschera di Pagliaccio) uccide davvero Colombina (Nedda) e il suo amante venuto invano a
soccorrerla. La battuta finale “La commedia è finita” sui corpi morti dei due amanti ribalta la
dichiarazione fatta dallo stesso Canio all’inizio dell’opera: “Il teatro e la vita non son la stessa cosa”.
Se ne ricorderà bene proprio Pirandello, disseminando di spunti da Pagliacci le sue opere, da Enrico IV
a I giganti della montagna.
“Pagliacci”
Analogamente al percorso di Emma Dante per Cavalleria rusticana dal crudo verismo verso
l’astrazione (che pure è in nuce nel libretto), Serena Sinigaglia procede in Pagliacci dalla dimensione
romantico-simbolica verso l’ostentazione del realismo (che pure ne è il vestito). Dal vuoto nero
dell’opera di Mascagni si passa ora alla ricostruzione allusivamente realistica di un campo di grano in
mezzo al quale si erge il palcoscenico dei comici girovaghi, circondato dai colori soffusi di una calda
estate. Quanto più è ostentato il realismo nell’allestimento di Sinigaglia, tanto più è esplicitamente
finto e dunque coerente con il verismo simulato di Leoncavallo: finto perfino nella costruzione a vista
della scenografia, con tanto di tecnici che montano le distese di grano, ‘intimiditi’ dal trovarsi al
centro dell’attenzione del pubblico: un pezzo di esibita verità che esalta proprio la finzione che è il
cuore dell’opera di Leoncavallo.
Al contrario di Alfio in Cavalleria rusticana, Canio appare già fin dall’inizio come una figura
complessa, se non proprio tormentata, sulla quale la rivelazione del solito delatore (che qui è Tonio)
ha un effetto dirompente. Insomma, se nell’opera di Mascagni il delitto matura all’interno di
dinamiche sociali di genere e si presenta attraverso il rito codificato del duello, in quella di
Leoncavallo il desiderio di vendetta e il delitto rispondono a una pulsione interiore e a un tormento
personale, che ugualmente fa riferimento a un’idea maschilista del possesso della donna, ma che fa
ricadere sull’individuo Canio la piena responsabilità di quanto accade, ben evidenziata
dall’ostentazione del duplice delitto sul palcoscenico dei comici che sta dentro il palcoscenico
dell’opera, quindi in una sorta di messa in cornice al quadrato.
“Pagliacci”
Cavalleria rusticana, per così dire, ha toni più tragici e assoluti e sembra celebrarsi sotto l’egida di un
fatalismo esistenziale in cui l’omicida appare quasi come una mano del destino: il soggetto della
battuta finale “Hanno ammazzato” è impersonale, strappa Alfio dalla responsabilità per redistribuirla
in una condivisione omertosa (siamo cronologicamente in una Sicilia proto-mafiosa), ma che
effettivamente riflette una corresponsabilità sociale. Pagliacci, invece, è più vicino al feuilleton e alla
precisa caratterizzazione dei singoli personaggi, che quindi sono titolari totali delle loro azioni: Canio,
che più volte minaccia di morte la compagna, è moderno protagonista di un vero e proprio
femminicidio, che rivela una sua incapacità soggettiva nel gestire la decisione della donna di voler
cambiare relazione. La scenografia ‘caratteristica’ che riporta a certe pitture nostalgiche sottolinea
l’ispirazione post-romantica da bozzetto paesano, insistendo in particolare sulla citazione
iconografica dei comici dell’arte. Se la scena di Carmine Maringola per Cavalleria Rusticana
racchiudeva tutto in un vuoto profondo, una sorta di buco nero dal quale emergevano le figure per
venirne poi risucchiate, quasi materializzate da un humus indistinto, quella di Maria Spazzi per
Pagliacci (sostenuta dalle luci empatiche di Claudo De Pace) si sviluppa tutta in senso bidimensionale,
schiacciando la vastità dei campi, il palco dei saltimbanchi, il folto pubblico dei contadini e l’esito
cruento della vicenda nello spazio pressato di una formella decorativa, dove i sentimenti stessi sono
compressi chiedendo di scoppiare drammaticamente, mentre i personaggi sono ancorati anche
visivamente a una funzione quasi pittoresca (e qui vale la pena sottolineare la ricerca compiuta da
Carla Teti per i costumi); e la scena non è più rimando a un humus indistinto e collettivo, ma semplice
ambiente in cui ogni personaggio decide la propria collocazione narrativa. E ancora una volta sono le
due celebri battute finali a definire le due opere e la loro distanza: da una parte quel “hanno
ammazzato” che dichiara la condivisione collettiva di un’azione, e dall’altra quel “La commedia è
finita” che ricorda che ognuno ha una parte in questo mondo che è chiamato a interpretare.
“Pagliacci”
Cavalleria rusticana libretto di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci; musica di Pietro
Mascagni; direttore Frédéric Chaslin; regia Emma Dante, ripresa da Gianni Marras; maestro del coro
Alberto Malazzi; con Veronica Simeoni, Roberto Aronica, Agostina Smimmero, Dalibor Jenis, Alessia
Nadin, Mariella Celia, Silvia Giuffrè, Samuel Salamone, Yannick Simons, Sabrina Vicari, Marta Zollet;
scene Carmine Maringola; costumi Vanessa Sannino; luci Cristian Zucaro; coreografia Manuela Lo
Sicco; produzione del Teatro Comunale di Bologna.
Pagliacci musica e libretto di Ruggero Leoncavallo; direttore Frédéric Chaslin; regia Serena
Sinigaglia; maestro del coro Alberto Malazzi; maestro del coro di voci bianche Alhambra Superchi;
con Carmela Remigio, Stefano La Colla, Dalibor Jenis, Paolo Antognetti, Vittorio Prato, Paolo De
Giudici, Sarah Giulia Gibbon; scene Maria Spazzi; costumi Carla Teti; luci Claudio De Pace;
produzione del Teatro Comunale di Bologna con Grand Théâtre de Genève.
Orchestra, coro, coro di voci bianche e tecnici del Teatro Comunale di Bologna. In collaborazione con
la Scuola di Teatro di Bologna Alessandra Galante Garrone.
Visto a: Bologna, Teatro Comunale, 20 dicembre 2019.
Foto di Andrea Ranzi – Studio Casaluci.