Università degli Studi di Torino
DIPARTIMENTO DI PSICOLOGIA
Corso di Laurea Magistrale in SCIENZE DEL CORPO E DELLA MENTE
Tesi di Laurea Magistrale in Psiconcologia e Cure Palliative
DIGNITÀ NEL FINE VITA
UN’ANALISI OPERATIVA DELLA DIGNITÀ DEL PAZIENTE A TERMINE NEL CONTESTO DELLE CURE PALLIATIVE
Candidato Relatore Giacomo Asta Riccardo Torta
Matricola Correlatore
873968 Valentina Ieraci
A. A. 2018/2019
INDICE
Introduzione 3
Capitolo 1 – Cure Palliative 5
1.1 – Assistenza domiciliare 7
1.2 – Hospice 9
Capitolo 2 – La dignità nelle Cure Palliative 12
2.1 – Dignity model 13
2.2 – Patient Dignity Inventory e Patient Dignity Question 18
2.3 – Dignity in care 19
Capitolo 3 – Stato dell’arte sulla dignità del paziente a termine 22
Capitolo 4 – Contributi sperimentali 26
4.1 – Introduzione 26
4.2 – Materiali e metodi 28
4.2.1 – Partecipanti 28
4.2.2 – Design 30
4.2.2.1 – Focus group 30
4.2.3 – Metodo 32
4.2.3.1 – Content analysis 33
4.3 – Risultati 35
4.3.1 – Temi emersi dalla content analysis della prima domanda 35
4.3.2 – Temi emersi dalla prima domanda suddivisi per professione 37
4.3.3 – Temi emersi dalla content analysis della seconda domanda 38
4.3.4 – Temi emersi dalla seconda domanda suddivisi per professione 40
4.4 – Discussione 47
4.5 – Conclusioni 51
ALLEGATO A – PDI italiano (Ripamonti et al., 2012) 53
ALLEGATO B – Approfondimento: ABCD (Chochinov et al., 2007) 54
Bibliografia e Sitografia 57
Ringraziamenti 63
Introduzione
La dignità non consiste nel possedere onori,
ma nella consapevolezza di meritarli.
— Aristotele
Il primo articolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 attesta che «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.». Ma a che cosa ci si riferisce quando si parla di dignità?
L’Enciclopedia Treccani, interrogata in merito alla questione generale, cita come segue:
La condizione di nobiltà ontologica e morale in cui l’uomo è posto dalla sua natura umana, e insieme il rispetto che per tale condizione gli è dovuto e che egli deve a sé stesso. La d. piena e non graduabile di ogni essere umano (il suum di ciascuno), ossia il valore che ogni uomo possiede per il semplice fatto di essere uomo e di esistere è ciò che qualifica la persona, individuo unico e irripetibile. Il valore dell’esistenza individuale è dunque l’autentico fondamento della d. umana.
Partendo da tali premesse, questo lavoro si propone come riflessione sul tema della dignità contestualizzata nell’ambito del fine vita.
Il primo capitolo consisterà in una trattazione storica e strutturale sui contesti delle cure palliative. Dopo aver fornito una definizione di cosa siano le cure palliative e di come siano nate, si andrà a descrivere nel particolare i due ambiti principali nei quali esse vengono applicate, ossia l’assistenza domiciliare e l’Hospice. In entrambi, il paziente e la famiglia vengono seguiti da un’équipe multiprofessionale allo scopo di garantirgli, per quanto possibile, la miglior qualità di vita.
Nel secondo capitolo verrà approfondito il concetto di dignità nel contesto delle cure palliative, facendo specialmente riferimento all’impostazione operativa delineata da Chochinov in un modello teorico e nei relativi strumenti che verranno ampiamente descritti.
Nel terzo capitolo viene descritto lo stato dell’arte riscontrato nella letteratura riguardo al senso di dignità nei contesti di cura. Nel particolare, gli studi riportati presentano approfondimenti nelle differenze tra il senso di dignità per come lo intendono pazienti ed operatori, e conseguentemente come diversi orientamenti professionali possano avere diverse modalità di raffrontarsi alla stessa tematica.
Il quarto capitolo presenta i contributi sperimentali del presente lavoro. La ricerca è stata condotta mediante l’utilizzo di focus group al fine di acquisire informazioni riguardo alla percezione della dignità del paziente a termine da parte degli operatori, con lo scopo di poter effettuare un confronto con l’attuale stato dell’arte rilevato in letteratura descritto nel capitolo precedente.
L’obiettivo ultimo del presente lavoro è quello di ampliare il dibattito rispetto al concetto di dignità nell’ambito di cura, per favorire una presa di coscienza rispetto alla centralità che questo tema dovrebbe trovare nell’ambito dei processi terapeutici ed educativi.
Capitolo 1 – Cure Palliative
You matter because you are you, and you matter to the end of your life. We will do all we can not only to help you die peacefully, but also to live until you die.
— Dame Cicely Saunders
Le cure palliative possono essere descritte come quel contesto di cura globale per le persone affette da una malattia che non risponde più a trattamenti specifici finalizzati alla guarigione. Secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO), riguardano un processo di cura mirato al miglioramento non solo della qualità di vita dei pazienti in fase avanzata di malattia e delle relative famiglie, ma anche di una migliore qualità del morire. Questo approccio, che si fonda sull’utilizzo di una serie di interventi terapeutici ed assistenziali indirizzati alla cura attiva e totale della persona, ha come obiettivo primario il controllo del dolore ed in generale la gestione degli altri problemi che affliggono il paziente, siano essi di natura fisica, psicosociale o spirituale. Diverse ricerche hanno evidenziato che il 90% dei pazienti la cui patologia è stata diagnostica come non ulteriormente curabile presenta una fase terminale di malattia, e che il 75% di questi necessita di cure domiciliari, mentre i restanti di un ricovero in Hospice (Higginson, 1997).
Figura 1 – Cicely Saunders
L’istituzione dell’Hospice, movimento che ad oggi può contare più di 3000 strutture in tutto il mondo, è stata riconosciuta per la prima volta dalla WHO nel 1987. La prima struttura scientifica adibita alla medicina palliativista, tuttavia, risale già al 1967, alla fondazione del St. Christopher’s Hospice di Londra. Questa struttura deve i suoi natali a Dame Cicely Saunders (Figura 1), a cui è attribuita anche la nascita della moderna medicina palliativa intesa come consapevole e mirata opera del portare sollievo ai malati senza speranza di guarigione. Cicely Saunders nacque a Londra il 22 giugno 1918, ed allo scoppio della seconda guerra mondiale decise di prendere il diploma di infermiera per poter partecipare alla cura dei soldati e delle persone bisognose di aiuto. Nel 1947, per non abbandonare la cura dei malati dopo aver dovuto rinunciare al lavoro in corsia per problemi di scoliosi, intraprese il ruolo di assistente sociale sanitario presso il Royal Cancer Hospital, struttura specializzata nel trattamento dei pazienti oncologici. Il passo successivo per la sua esperienza nell’ambito del fine vita, oltre all’ottenimento della laurea in medicina nel 1957 e la conseguente specializzazione nel campo di ricerca della farmacologia, fu l’approdo al St. Luke, una casa di accoglienza per moribondi. In questa struttura, l’approccio ai pazienti era differente: ad ogni malato venivano riconosciute la propria individualità e la dignità del proprio vissuto esperienziale. La differenza sostanziale rispetto all’allora processo di cura ospedaliero consisteva nella modalità della somministrazione degli antidolorifici. Gli analgesici venivano infatti somministrati ad intervalli regolari, senza che il paziente dovesse richiederli quando il dolore diventava insostenibile, andando così a limare gli effetti della dipendenza da farmaci forti, come ad esempio la morfina. Sganciando il paziente dall’ottica di doverli richiedere per lenire le proprie sofferenze, e dal continuo promemoria della dipendenza dal farmaco stesso, gli si permise inoltre di ricevere dosi minori e rimanere vigili e coscienti. Questo approccio alla gestione del dolore divenne uno dei capisaldi del modello di assistenza dell’Hospice. Un altro dei punti cardine sta nel prendersi cura del dolore totale della persona, concetto che riguarda non solamente il trattamento del male fisico del paziente (dolore, nausea, vomito, difficoltà respiratorie,…) ma anche di tutti gli altri fenomeni che possono accrescere il generale stato di sofferenza. Queste problematiche possono riguardare la sfera d’indagine di ordine psicologico (ansia, paura, depressione, rabbia) o spirituale (domande esistenziali sul senso della vita e della morte, sul significato da attribuire alla sofferenza).
1.1 – Assistenza domiciliare
Chi nel cammino della vita ha acceso anche soltanto una fiaccola nell’ora buia di qualcuno non è vissuto invano.
— Madre Teresa di Calcutta
Molti sono i vantaggi legati alla scelta di operare le cure in ambito familiare piuttosto che in un contesto ospedalizzato, ad esempio il fatto che il paziente possa tornare ad un suo spazio di individuazione, un luogo rassicurante per la memoria, un riferimento importante per l’equilibrio emozionale della persona malata (Bovero et al., 2006). Altri vantaggi che sono stati messi in luce da recenti indagini possono essere il fatto che i pazienti seguiti a casa presentano livelli di dolore, depressione ed ansia inferiori a quelli di un malato curato in ospedale (Stromgren et al., 2002; Thome et al., 2003), come anche i fattori collegati alla scelta della sede del decesso. Quando un paziente sceglie il percorso di assistenza domiciliare, si attiva un intervento di équipe che coinvolge medici ed infermieri professionali esperti in medicina palliativa, psicologi, assistenti sociali, assistenti spirituali, ed il medico di medicina generale, che è il principale referente del paziente perché ne conosce la storia personale e famigliare. Proprio a quest’ultima figura professionale è dato l’incarico di valutare la condizione del paziente, e dell’attività di coordinamento degli interventi degli altri operatori per poter garantire un trattamento multiprofessionale continuativo. Per quanto riguarda le competenze di tipo tecnico ci si riferisce a medici specialisti, solitamente oncologi e anestetisti che abbiano ricevuto una formazione nell’ambito delle cure palliative, mentre è l’infermiere il principale tramite delle informazioni riguardo alle condizioni di salute del paziente. Si ha inoltre la possibilità di ricevere un intervento psicologico domiciliare atto a fornire supporto al paziente ed alla famiglia durante la fase di malattia. Questo intervento non si limita al processo di cura del paziente nelle fasi avanzate, bensì è strutturato in modo da poter proseguire come supporto alla famiglia anche dopo il decesso, in caso di lutto patologico (Kissane et al., 2006). Il supporto è fornito dalla figura dello psiconcologo, il cui ruolo dovrebbe essere il più continuativo possibile rispetto a quello ospedaliero. Un ruolo importante in questo ambito di cura è svolto anche, ove possibile, dai volontari specificamente selezionati e formati per le attività di accompagnamento ed aiuto. Nel particolare, i volontari si adoperano nelle aree di ascolto, informazione, socializzazione, conforto e di supporto anche al nucleo famigliare, soprattutto in caso di lutto (Addington-Hall e Karlse, 2005). Gli obiettivi della psicoterapia domiciliare nelle fasi avanzate riguardano principalmente il miglioramento dello stato d’animo, della qualità della vita e delle modalità finalizzate ad affrontare questa fase della malattia, il processo di facilitazione della presa di coscienza dell’ineluttabilità del decorso ed il contenimento dello stato di sofferenza soggettiva (Chochinov et al., 2004). Il compito di individuare e possibilmente risolvere i bisogni economici e sociali, come anche quello di illustrare ai famigliari le possibilità assistenziali, spetta agli assistenti sociali (Coyle et al., 1990). L’assistente spirituale, che può anche essere un ministro di culto, è invece una figura dotata di una preparazione psicologica, teologica e filosofica che gli consenta di instaurare una conversazione con persone credenti e non, o professanti altro credo. L’approccio domestico multimodale è quindi teso a mantenere e stimolare le potenzialità del malato, rendendolo il soggetto principale del processo decisionale, cercando di aiutarlo con il minor numero di interventi e medicamenti possibile, cercando al contempo di accompagnarlo con una presenza discreta fino alla fine.
1.2 – Hospice
Siamo qui per aiutare i pazienti a vivere la più alta qualità di vita e, quando non è più possibile, per facilitare la più grande qualità di morte.
— Hunter Doherty “Patch” Adams
La prima struttura documentata che possa essere considerata come simile a quella degli Hospice moderni risale all’epoca dell’Imperatore Giuliano l’Apostata, nel V secolo d.C. In quei tempi fu fondato in Siria un “hospitium” per viandanti, malati e morenti sulla via di ritorno dall’Africa. Gli Hospice oggigiorno sono situati all’interno di strutture ospedaliere o sul territorio, e possono essere gestiti direttamente dalle Aziende sanitarie o da associazioni di volontariato e no profit (onlus) in convenzione con il Sistema Sanitario regionale. Ci si riferisce agli Hospice, termine non facilmente adattabile ad una traduzione in italiano in quanto non corrispondente al concetto di ospizio né a quello di ospedale, come alle “case della buona morte”. Questi sono luoghi strutturati in regime di residenzialità per le persone affette da malattie a stadi di sviluppo considerati inguaribili, e sono quindi dedicati alla degenza dei malati terminali associati a condizioni cliniche, familiari o socio-economiche non idonee per la gestione a domicilio; luoghi, dunque, nei quali morire in pace e con dignità. Di conseguenza non vi ritroveremo soltanto pazienti oncologici, bensì anche anziani ed altri malati cronici costretti a letto. Il ricovero in Hospice può essere richiesto per periodi transitori di crisi, dunque temporaneo, oppure definitivo. L’assistenza sanitaria e psicologica è assicurata dalle medesime figure professionali citate a proposito dell’assistenza domiciliare. Le caratteristiche che contraddistinguono il modus operandi attuato all’interno degli Hospice (Torta e Mussa, 1997) sono:
Ridotto numero di letti (solitamente non più di 10-15)
Basso apporto tecnologico per garantire il contatto con il paziente
Alta qualità dell’assistenza infermieristica
Controllo dei sintomi e del dolore
Attenzione al comfort ed alla qualità di vita
Tutela della privacy
Assenza di restrizioni per le visite
Continua assistenza per i famigliari
Le modalità di realizzazione di un tale progetto, facendo riferimento a quella che è stata definita la “filosofia Hospice” (Cunietti et al., 1998), prevedono: 1. La valutazione a livello multidimensionale dei bisogni del paziente e della famiglia, facendo anche riferimento ai differenti apporti che la multi-professionalità che caratterizza l’équipe permette. 2. La stesura di un programma di cure palliative personalizzato che si adoperi per mantenere e far fruttare le energie residue del paziente, orientato al miglioramento della qualità della vita residua e volto ad evitare l’accanimento terapeutico. 3. La realizzazione di una valida alternativa alla casa, che possa accogliere il malato e promuovere per quanto possibile un senso di agiatezza. 4. Mantenere alta l’attenzione sulla sintomatologia del paziente, concentrandosi sul controllo globale del dolore e degli altri sintomi. 5. Molto importante è anche il fatto di spendersi affinché il paziente possa recuperare e mantenere un interesse per il mondo esterno, e godere al meglio delle possibilità della vita relazionale con i propri cari. 6. L’accompagnamento ad una morte dignitosa, supportando e preparando anche i famigliari, interfacciandosi con i meccanismi di difesa ed andando incontro alle caratteristiche fasi di reazione alla diagnosi (shock, negazione, accettazione), cercando altresì di evitare la cosiddetta congiura del silenzio. 7. La formazione specifica del personale di cura. 8. Fondamentale anche, in questo approccio, è il tentativo di umanizzazione della pratica medica, perseguendo la prospettiva d’intervento bio-psico-sociale concretizzata da Engel nel 1977.
In un contesto organizzato secondo queste direttive si può finalmente operare il passaggio dalla cura della malattia al prendersi cura del malato, “for the secret of the care of the patient is in caring for the patient” come ebbe a dire Francis Weld Peabody nel noto discorso indirizzato agli studenti di medicina di Harvard nell’autunno del 1925. Vi è dunque una filosofia condivisa soggiacente l’organizzazione degli Hospice, i cui valori fondamentali possono essere riassunti nei concetti di rispetto (dell’autonomia, dei valori, della cultura), trasparenza (condivisione degli obiettivi di cura, comunicazione efficace), attenzione (agli aspetti emozionali, psicologici, sociali e spirituali), e sostegno alla famiglia (informazione, consiglio, sostegno pratico). È sostanziale, infine, ribadire il diritto primario dell’uomo a non soffrire inutilmente.
Capitolo 2 – La dignità nelle Cure Palliative
Non lasciare che un uomo difenda la sua dignità, ma fai che la sua dignità difenda lui.
— Ralph Waldo Emerson
Riferendoci oggi al concetto di dignità nell’ambito delle cure palliative, è praticamente impossibile che non si finisca con il parlare del lavoro di Chochinov.
Figura 2 - Harvey Max Chochinov
Harvey Chochinov (Figura 2), oltre a detenere l’unica Canada Research Chair in cure palliative, è professore di psichiatria presso l’Università di Manitoba e direttore del CancerCare Manitoba, un’unità di ricerca nella medicina palliativista. Oltre a ciò, è membro della Royal Society of Canada, della Canada Academy of Health Studies e del Consiglio Direttivo dei Canadian Institutes of Health Research, nonché co-fondatore del Canadian Virtual Hospice, che è un canale digitale d’informazione aperto e gratuito sulle tematiche riguardanti il palliativo.
Già dall’inizio degli anni duemila, dopo aver passato l’ultima decade del vecchio secolo ad approfondire le cause del desiderio di morte prima del tempo nei pazienti terminali (Chochinov et al., 1995, 1998), Chochinov ed il team di ricerca da lui diretto sono stati attivi nella ricerca scientifica di come il concetto di dignità potesse influire sulla qualità della vita dei pazienti oncologici. Per usare le sue parole:
Difendere la dignità nelle cure è un po’ come difendere la maternità o la torta di mele. Ad un primo sguardo può sembrare superfluo, o forse perfino un argomento per il quale non vale nemmeno la pena di spendersi. […] Così come accade con l’amore, o la gioia, o la fede, si potrebbe concludere che anche la dignità dovrebbe essere lasciata al dominio dell’intuizione, senza sottoporla al vaglio di una lente empirica. Benché la letteratura relativa alla cura sia piena di riferimenti alla dignità in quanto indicatore della qualità delle cure mediche, il termine è utilizzato con scarsa uniformità.
2.1 – Dignity model
Mi sono interessato a fondo della dignità umana: ho disposto nel mio laboratorio le analisi più disparate sull'argomento. Tutti i tentativi sono falliti miseramente a causa della difficoltà che ho incontrato a procurarmi il materiale occorrente.
Karl Kraus
Per cercare di risolvere quest’ambiguità, in uno studio condotto con una coorte di cinquanta pazienti prossimi al termine (Chochinov et al., 2002), anziché limitarsi a valutare il senso di dignità percepito con una scala preesistente i ricercatori hanno chiesto direttamente ai pazienti di spiegare quale fosse la loro idea della dignità, con tutte le sue complesse implicazioni. Tra le domande che gli vennero poste vi furono, ad esempio, Cosa significa dignità in questa fase della tua vita? Puoi portare esempi di circostanze in cui la tua dignità è stata minata? Ricordi momenti in cui hai sentito che la tua dignità è stata particolarmente supportata? Ciò che è emerso da quest’indagine dettagliata è stato strutturato in un modello di riferimento che ha preso il nome di Modello della dignità del malato terminale, o - più semplicemente - “il modello della dignità” (Figura 3).
Figura 3 - Modello della dignità nel malato terminale (Chochinov et al., 2002)
Questo modello, interamente basato sui dati ottenuti dai pazienti, indica che ci sono tre fonti di influenza primaria che possono preoccupare i pazienti. La prima colonna riguarda i fattori legati alla malattia, all’interno della quale emergono i temi del livello di indipendenza e della gravità dei sintomi. Nella seconda colonna troviamo il catalogo degli indicatori della conservazione della dignità, elenco di prospettive e pratiche che prendono in considerazione una serie di fattori psicologici e di attitudini spirituali che possono influenzare il senso di dignità della persona. Nel dettaglio, molto importanti sono state le otto sotto-tematiche rilevate dalle prospettive di conservazione della dignità:
Continuità del sé. “Sono ancora me stesso?” Aspetto che indica fino a quale punto i pazienti siano in grado di mantenere integro il senso di essere persone nella loro interezza nonostante le modifiche dovute al loro stato di salute. Per il paziente vicino alla morte questa domanda non è una riflessione filosofica, è piuttosto l’espressione di un’estrema battaglia esistenziale.
Preservazione del ruolo. Per contrastare l’aggressione all’identità ed all’indipendenza funzionale da parte della malattia, vi è necessità di localizzare un senso del sé su cui la malattia abbia un effetto meno pesante, dove si possa tentare di preservare nuclei di identità cruciali. Vediamo infatti che l’abbandono anche totale di un ruolo può essere controbilanciato dal mantenimento del valore simbolico che quel ruolo incarnava o garantiva.
Generatività o lascito. Riflessioni sul modo in cui i pazienti possano estendere la loro influenza oltre la morte, volte ad affrontare una prognosi potenzialmente infausta. Questo è il concetto cardine su cui è improntata tutta la terapia della dignità (Chochinov et al., 2005), una forma di psicoterapia breve sviluppata da Chochinov e colleghi a partire dal 2004 che si basa sulla registrazione e successiva trascrizione delle risposte ad un’intervista semi-strutturata. In questa, l’intelaiatura di domande è finalizzata ad incoraggiare il paziente a parlare degli aspetti importanti della propria vita, delle cose che vorrebbe che gli altri sapessero o ricordassero. In seguito all’editing ed alla rilettura con il paziente stesso, si crea il Documento Generativo che potrà poi essere condiviso con la famiglia e con gli operatori.
Affermazione dell’orgoglio, o del rispetto di sé. Affermare l’amor proprio aiuta i pazienti a salvaguardare il loro senso di dell’essere persona, reindirizzando l’attenzione dal “cosa ho” (e quindi identificazione con la malattia) al “chi sono”.
Ottimismo e speranza. Verso la fine della vita, la speranza diventa intimamente connessa ai concetti di senso e di scopo, in mancanza dei quali è molto più probabile avvengano la perdita del desiderio di vivere o un aumento del desiderio di morire (Chochinov et al., 1998).
Autonomia / Controllo. Possibilità, a livello più mentale che fisico, di portare a termine un compito in maniera indipendente.
Accettazione, o capacità di adattamento alle mutate condizioni di salute. Consiste nell’approntare aggiustamenti graduali a situazioni di vita in cambiamento, ed è il risultato di consapevolezze successive che ci avvicinano progressivamente alla comprensione necessaria a prendere decisioni informate sulla vita e sui trattamenti.
Resilienza e combattività. Forza, o saldezza, nell’affrontare nuove situazioni; l’avere il coraggio di andare avanti. Questo genere di combattività può essere un’arma a doppio taglio. Nel caso in cui i pazienti finiscano col sentirsi unici responsabili del decorso della propria malattia, infatti, vi è anche il rischio di percepire il progressivo peggioramento della situazione come un fallimento personale, una debolezza, una mancanza di determinazione mentale.
Le sotto-categorie elencate nel tema delle pratiche, a loro volta, riguardano il vivere il momento, il mantenere la normalità ed il cercare un conforto spirituale. L’ultima colonna invece, quella dell’inventario della dignità sociale, riguarda quei fattori dell’ambiente sociale, esterni alla persona, che hanno in sé le potenzialità di aumentare o deprimere il senso di dignità di un paziente. Questa categoria è particolarmente saliente per andare a verificare come sia percepita dai pazienti l’interazione con i famigliari, con gli amici, e con il personale sanitario. I confini della privacy, il primo dei temi che emergono dall’inventario, si riferisce al fatto che il sacrificio della privacy inizia nel momento in cui facciamo riferimento ad una qualche figura sanitaria per il sospetto che qualcosa non vada nel corpo e nel suo funzionamento, ma anche al fatto che questo sia solo il principio di fratture più sostanziali. Il dover essere assistiti anche nelle cosiddette “dipendenze intime” – ovvero l’igiene, il vestirsi, l’andare di corpo – raramente diventa semplicemente parte di una routine per la persona assistita. Quando inoltre i pazienti devono dipendere dai famigliari, queste profonde minacce alla privacy possono essere aggravate da un senso di perdita del ruolo o dall’alterazione del senso di sé. Quando i figli o il partner diventano gli assistenti, non è a rischio la sola privacy ma, ad un livello ancor più profondo, anche il senso di ordine del mondo che ci circonda. La negoziazione di queste transizioni richiede tanta attenzione alle esigenze fisiche quanta a quelle esistenziali. Il secondo tema, il sostegno sociale, è quell’elemento che sta sull’altro piatto della bilancia in equilibrio con il bisogno di privacy. Tale bisogno varia di persona in persona, ed è così importante nel contesto delle cure palliative che enti autorevoli come la WHO e l’International Association of Hospice and Palliative Care hanno individuato l’unità indivisibile di cura nel paziente e nella famiglia (intesa qui in senso generale come coloro che si prendono cura). Il sostegno sociale può infatti essere d’aiuto in molte aree della vita che la malattia ha reso deficitarie. Al di là della sua portata pratica, le implicazioni esistenziali del contatto continuo sono strettamente connesse a quelle psicologiche, e di conseguenza la presenza stessa del supporto sociale fornisce una rassicurazione molto desiderata: «Tu meriti la mia attenzione ed il mio sostegno». Il tema successivo, il tenore delle cure, detto in parole semplici, caratterizza tutto ciò che viene dato al paziente, al di là delle sole parole. Idealmente, esso dovrebbe sottendere il meta-messaggio troppo spesso taciuto, onnicomprensivo delle cure che preservano la dignità, ovvero «Tu sei importante». In questo senso, dare un tono positivo alle cure non significa dedicare più tempo al paziente, quanto più dedicare al paziente tempo di qualità. Il tema che segue è quello che riguarda il sentirsi un peso per gli altri. Nel momento in cui i pazienti si trovano a dover affrontare il carico delle loro perdite (di salute, di funzione, dell’illusione dell’invincibilità), spesso si ritrovano a pensare con terrore al fatto che gli altri dovranno sopportare il peso delle loro inabilità, della loro dipendenza e del loro bisogno. E per quanto spesso la domanda che viene rivolta al personale di riferimento spesso sia “Cosa posso fare?”, in realtà l’interrogativo implicito e più profondo con il quale ci si deve interfacciare è: “Chi sono?”. Quando non riescono a trovare una risposta, i pazienti potrebbero concluderne che non sono altro che una pallida ombra di quel che sono stati, morti che camminano, o pensare infine che stanno semplicemente rubando uno spazio e delle energie che dovrebbero essere dedicate a qualcosa di più vitale che ad un guscio vuoto senza spirito. Questo è, in sostanza, il modo di pensare di chi si sente un peso per gli altri. Percepire di essere un peso per gli altri e svalorizzare la propria esistenza sono, almeno nella nostra cultura occidentale, due cose intimamente connesse, al punto che vivere un tale stato di malessere può condurre ad un sentimento di morte esistenziale. Non stupisce quindi che la quasi totalità delle ricerche che si concentrano su questa questione riferisca una stretta associazione tra questa percezione e la perdita del desiderio di vivere (Sullivan et al., 2000; Ganzini et al., 2006). Le ricerche citate dimostrano come, fra i malati terminali che si suicidano, la preoccupazione di essere un peso per gli altri sia sostanzialmente universale. Ulteriori elementi correlati alla percezione di essere un peso per gli altri sono la qualità della vita nelle fasi avanzate della malattia, l’efficacia qualitativa delle cure palliative e il senso di dignità al fin di vita (Wilson et al., 2000). L’ultimo tema emerso dal modello, ovvero la sfera che concerne le preoccupazioni per il dopo, consiste nel mettere il paziente in grado di badare per quanto è possibile ai bisogni futuri di coloro che saranno presto abbandonati, giacché è raro che la morte di qualcuno riguardi esclusivamente colui che muore. Ad esempio, questa sfera concerne il farsi carico delle questioni pratiche, come il redigere testamento e addirittura prendere accordi per il funerale, e dell’attuazione di tutte quelle azioni che hanno lo scopo di proteggere e salvaguardare il benessere dei propri cari.
2.2 – Patient Dignity Inventory e Patient Dignity Question
È più facile meditare che fare effettivamente qualcosa per gli altri. Limitarsi a meditare sulla compassione equivale a optare per l’opzione passiva. La nostra meditazione dovrebbe creare la base per l’azione, per cogliere l’opportunità di fare qualcosa.
— Dalai Lama
Ben consapevoli del fatto che la valutazione di un costrutto complesso come quello della dignità percepita richiede strumenti e approcci valutativi adatti, Chochinov e colleghi hanno sviluppato e proposto uno strumento di valutazione che potesse facilitare l’inserimento di questa cornice teorico-pratica nella presa in carico del malato in fase avanzata (Chochinov et al., 2008). Il Patient Dignity Inventory (PDI) è composto da 25 item a risposta multipla su scala Likert da 1 – Non è un problema – a 5 – È un problema che mi opprime – (vedi in Allegato A). Più alto è il punteggio, maggiore sarà il livello di distress percepito dalla persona malata. Questo strumento, che facilita l’apertura al dialogo sul distress emozionale e permette di andare ad indagare aree non sempre prese in considerazione dagli operatori, è stato validato in italiano in uno studio condotto su 266 pazienti con neoplasie solide o ematologiche (Ripamonti et al., 2012). Questi pazienti, nello specifico, non erano in fase avanzata ma durante il trattamento oncologico attivo e le terapie di supporto messe in atto per la prevenzione e la gestione delle tossicità legate ai trattamenti, o durante il trattamento riabilitativo.
La Patient Dignity Question (PDQ) è una semplice domanda aperta: “Cosa c’è bisogno che io sappia di te in quanto persona per poterti fornire la miglior assistenza possibile?” (“What do I need to know about you as a person to give you the best care possible?”) L’obiettivo di questa domanda è quello di identificare potenziali problematiche ed agenti stressogeni, di portare alla luce fattori che altrimenti potrebbero rimanere sottaciuti, cosicché la loro precoce identificazione possa permettere una miglior pianificazione e realizzazione del processo di cura del paziente. La PDQ non dev’essere per forza verbalizzata: l’intento è quello di portare gli operatori a considerare i pazienti come persone uniche nella loro interezza piuttosto che un complesso di sintomi. È inoltre un riferimento che può tornare utile in ogni fase del processo di cura, dai controlli di routine alla discussione delle possibili variazioni nel piano di cura.
2.3 – Dignity in care
Accingerci a risollevare qualcuno da terra: è il solo motivo che ci autorizzi a guardare qualcuno dall’alto in basso.
— Jesse Jackson Jr.
Figura 4 - L'ABC del pronto soccorso
Esattamente come è richiesto a tutti gli operatori sanitari di essere in possesso delle competenze cruciali necessarie a prestare il pronto soccorso, in un articolo pubblicato sul British Medical Journal (Chochinov, 2007) l’autore argomenta che tutti gli operatori sanitari dovrebbero parimenti possedere le competenze di base nell’area delle cure mirate alla conservazione della dignità. Rifacendosi al gioco mnemonico “A for airway - B for breathing - C for circulation” (Fig.4) usato nel contesto del pronto soccorso, Chochinov riformula l’abecedario adattandolo al proprio contesto di cura: A di Attitude – B di Behaviour – C di Compassion – D di Dialogue.
L’Attitude, ovvero l’atteggiamento, può essere definita come la duratura predisposizione del soggetto nel comportarsi in una certa maniera nei confronti di una stabilita classe di oggetti (o persone), o ancora come il permanente stato di prontezza mentale o neurologica a reagire ad una certa classe di oggetti (o persone), non per quello che essi in realtà sono ma per quel che li si intende essere. È necessario dunque tenere sotto esame i propri preconcetti e pregiudizi, perché questi possono avere una forte influenza nel rapporto con chi si ha di fronte, la cui realtà potrebbe come potrebbe anche non riflettere l’idea che noi ci siamo fatti a riguardo. Può essere utile a questo riguardo ripetersi domande quali “Come mi sentirei nella sua stessa situazione?” oppure “Potrebbe il mio atteggiamento nei confronti del paziente essere basato su qualcosa che ha a che fare con le mie esperienze, ansie, o paure?”
Il Behaviour, ovvero il comportamento, fa riferimento alla condotta ed ai gesti che il personale sanitario può mettere in atto per far sentire la persona non come un corpo da bucherellare ma come una persona meritevole di attenzioni. Piccoli atti di gentilezza possono fare molto nel rendere il paziente a proprio agio, e spesso impiegano poco tempo e poca fatica per essere effettuati, come ad esempio procurare al paziente un bicchiere d’acqua, aggiustargli il cuscino o le lenzuola. È altresì importante riporre la propria attenzione su alcuni aspetti delle cure che interessano la sfera intima della persona, per esempio usare dei paraventi per salvaguardare la privacy e chiedere sempre il consenso prima di svolgere un qualsiasi controllo fisico, per confermare al paziente il diritto al mantenimento del proprio libero arbitrio.
La Compassion, che non può essere resa come “compassione” giacché il termine in italiano possiede più una valenza di pietà, fa riferimento ad una consapevolezza profonda della sofferenza altrui e, nel caso specifico dell’operatore sanitario, al desiderio di alleviarla. Può essere veicolata da qualsiasi forma di comunicazione, verbale e non, che riconosca la persona oltre alla malattia, nonché da piccole premure, come un sorriso, uno sguardo comprensivo o un tocco gentile. Può essere descritta con il termine di “empatia in azione”, che per alcuni può essere parte di una predisposizione naturale e per altri invece emerge gradualmente durante l’esperienza di vita e la pratica clinica. Può anche essere coltivata con lo studio delle scienze umane e sociali, con l’approfondimento delle arti, o anche andando di pari passo con la progressiva consapevolezza del fatto che, esattamente come i pazienti, ciascuno di noi è vulnerabile e non v’è riparo dalle incertezze della vita.
Il Dialogue, ovvero la capacità comunicativa, è un elemento critico correlato al mantenimento della coscienza del fatto che nel nostro interlocutore, oltre alla malattia ed ai suoi correlati, esiste ancora un essere umano nella sua integrità. Un buon dialogo permette l’instaurarsi di un senso di apertura e fiducia, ed è necessario per ottenere più aspetti della salute psicofisica del paziente, potendo conseguentemente garantire il miglior servizio di cura attuabile.
Capitolo 3 – Stato dell’arte sulla dignità del paziente a termine
Perché darsi da fare per i malati, perché cercare di salvarli, se si pensa che non meritino di essere riconosciuti come persone? Quando un medico evita di riconoscere un paziente come persona, lo sta, in effetti, abbandonando alla sua malattia.
— Anatole Broyard
Diversi studi già presenti in letteratura si sono occupati di esaminare empiricamente quanto fossero vicine o lontane le prospettive dei pazienti e quelle degli operatori rispetto ai significati che un concetto ampio e multifattoriale come quello del “morire con dignità” possa avere nell’ambito delle cure palliative.
Tabella 1 - I significati attribuiti al morire con dignità nella prospettiva dei pazienti, dei familiari e degli operatori (Guo, Jacelon, 2014)
Un lavoro di Guo e Jacelon del 2014 (Guo et al., 2014), ad esempio, ha messo in luce il grado di accordo esistente tra un campione di pazienti e uno di operatori riguardo i sopracitati significati; al di là delle differenze esistenti tra i gruppi presi in considerazione, le strategie di revisione sistematica di altri lavori già esistenti in letteratura utilizzate in questo studio hanno permesso di portare a termine una meta-analisi di ricerche effettuate con metodi qualitativi, quantitativi e misti, dalle quali sono emersi 28 report diversi. Di questi report, 12 si sono occupati di analizzare il significato di “morire con dignità” dalla prospettiva degli operatori, 10 dalla prospettiva dei pazienti; come si osserva in Tabella 1, la quantità di temi che collimano tra i diversi gruppi campionari presi in analisi è notevole.
Questa ricerca presenta tuttavia il grosso limite di non differenziare tra le categorie di professionisti coinvolti nell’ambito delle cure palliative, come hanno invece fatto altri studi pubblicati in passato, ai quali si aggiunge il contributo sperimentale che è annesso al presente lavoro.
Esiste un intero filone di ricerca che si è servito di strumenti d’indagine qualitativa per l’analisi di queste tematiche. L’analisi qualitativa permette di potersi riferire a quel concetto multisfaccettato che è la dignità senza doversi rifare alle restrizioni imposte dalle categorie preconcette necessarie ad un’analisi quantitativa, approccio che in questo caso risulterebbe senza dubbio riduzionista. Nel particolare, possiamo notare come nella maggior parte degli studi il focus group sia stato selezionato quale strumento d’elezione per ottenere un riscontro diretto dagli operatori. Ad esempio, nel caso dello studio condotto da Fernandez-Sola e colleghi (Fernandez-Sola et al., 2015), da due focus group condotti con un campione di medici ed uno di infermieri sono emerse tre tematiche principali che riflettono l’ottica del campione analizzato riguardo alla dignità nel fine vita (Tabella 2): dignità come valore intrinseco individuale, dignità come condizione socio-ambientale e, in ultimo, dignità come insieme di azioni e atteggiamenti consapevolmente messi in atto.
Tabella 2 - Temi, sotto-temi e unità di significato (Fernandez-Sola et al., 2015)
Da questo studio sembrano non emergere differenze significative tra le due categorie di operatori prese in esame.
Gli stessi risultati, inoltre, sono stati replicati l’anno successivo in uno studio di Granero-Molina (Granero-Molina et al., 2016) nel quale ci si concentra, allo stesso modo, sulla dignità nel fine vita di individui in reparti d’emergenza di contesti ospedalieri.
Uno studio ancora più recente, svolto in Svezia da Östlund (Östlund et al., 2019), si è servito di due focus group e di interviste semi-strutturate con la stessa domanda di ricerca degli studi precedentemente citati. I dati raccolti sono stati analizzati tramite una content analysis qualitativa, utilizzando il dignity model di Chochinov come framework teorico. Questi dati sembrano suggerire come il preservare la dignità del paziente nel fine vita non sia solo questione di ciò che viene fatto per il paziente concretamente e materialmente, ma anche questione di come il paziente viene considerato all’interno dell’equipe medico-sanitaria, e questo secondo tutte e tre le categorie di professionisti incluse nella ricerca: infermieri, medici ed operatori socio-sanitari (OSS). Ancora una volta, dunque, la differenza tra le categorie professionali viene presa in considerazione nel corso dell’analisi, ma se si osservano i risultati, non sembra produrre delle differenze significative.
In uno studio di Albers e colleghi (Albers et al., 2013) viene ancora una volta indagato il concetto di dignità personale nel paziente a termine dalla prospettiva di operatori diversi, in questo caso di medici e volontari. Lo strumento di misura utilizzato è il PDI, al quale vengono aggiunti 22 item che vanno ad esplorare i seguenti domini: quello fisico, psicosociale, sociale ed esistenziale. In questo caso, i risultati indicano una differenza, tra medici e volontari, nell’identificazione degli item che maggiormente secondo loro influiscono sulla percezione di dignità del paziente a termine. I medici puntano il focus sugli aspetti fisici della malattia, considerandoli anche il motivo principale per il quale può risultare problematico mantenere la dignità del paziente durante la pratica clinica, mentre i volontari si concentrano sugli aspetti psicosociali ed esistenziali. Un’interpretazione di questo dato potrebbe certamente vertere sul fatto che queste figure professionali occupano, nel fine vita del paziente, un ruolo lavorativo diverso, tale per cui il volontario è coinvolto negli aspetti della vita privata e personale del paziente, quindi si immagina meglio, rispetto al medico, situazioni o elementi che potrebbero interferire con il suo senso di dignità personale.
Questi risultati sono coerenti con lo studio di Steinhauser e colleghi (Steinhauser at al., 2000), per il quale una chiara visione di ciò che ogni elemento della rete di supporto del paziente considera fondamentale a garantirne la cura è imprescindibile ai fini del mantenimento del senso di dignità del paziente stesso.
Il contributo sperimentale che conclude il presente lavoro si inserisce perfettamente sulla scia di questo filone di ricerca.
Capitolo 4 – Contributi sperimentali
L’errore più grande nel trattamento delle malattie è che esistono medici per il corpo e medici per l’anima, quando invece le due cose non possono essere separate.
— Platone
4.1 – Introduzione
Quando si parla di assistenza socio-sanitaria sembra oramai impossibile non fare riferimento a quello che è considerato uno degli aspetti fondamentali del contesto di cura: la dignità. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO), a tal proposito, sottolinea il bisogno di strutturare interventi sanitari sempre più mirati che abbiano il focus incentrato sul paziente e sulla necessità di preservare il suo senso di dignità, ma la complessità nella definizione di tale costrutto rende ostico non soltanto il portare avanti studi sistematici, ma inevitabilmente anche lo strutturare piani di cura adeguati a ogni categoria di paziente.
Nel presente lavoro ci siamo concentrati in modo particolare sui pazienti a termine, ossia pazienti con bisogni specifici a causa delle loro condizioni cliniche, e per i quali il mantenere la dignità personale è un obiettivo critico che non può non essere tenuto ampiamente in considerazione durante il trattamento e la pratica clinica.
A causa della sua natura multidimensionale, il concetto di dignità può essere indagato a partire da diverse prospettive e con diversi approcci; studi recenti nell’ambito delle cure palliative hanno fatto ampio uso di metodi d’indagine qualitativi, utilizzando strumenti come le interviste semi strutturate e i focus group. Questo perché, rispetto ad un approccio quantitativo, quello qualitativo consente di giungere ad una più ampia riflessione sul tema trattato, e di raccogliere una quantità di informazioni significativamente maggiore. In particolare, in questo ambito di ricerca tali strumenti sono stati utilizzati per esplorare le diverse prospettive adottate dagli health care providers (HCPs) sulla percezione di dignità del paziente.
Ad esempio, una interessante review di Guo e Jacelon (Guo et al., 2014) ha messo in luce come la dignità possa essere diversamente concepita dalle diverse figure professionali: come ad esempio un diritto umano, come il sentirsi umano e il sentirsi sé stesso, il soddisfare i propri bisogni umani ed esistenziali, o il mantenere delle relazioni significative. Sempre nella stessa review, gli autori hanno messo in luce quali sono i fattori che potrebbero influenzare il senso di dignità del paziente durante la pratica clinica: come ad esempio elementi demografici, fattori legati alla malattia o più strettamente al piano di cura.
Un gruppo di ricercatori di Taiwan, invece, (Yea-Pyng Lin et al., 2011) adottando la stessa metodologia qualitativa d’indagine, ha individuato cinque aspetti sui quali mantenere il focus se si intende preservare la dignità del paziente: rispetto, privacy, supporto emotivo, il trattare tutti i pazienti allo stesso modo, e in ultimo, preservare l’immagine corporea dei pazienti.
Tali risultati indicano che c’è bisogno che gli operatori abbiano competenze e conoscenze innanzitutto rispetto al concetto di dignità nel fine vita del paziente, affinché possano poi strutturare degli interventi di cura che ne tengano conto concretamente e in maniera applicativa.
A tal proposito, il presente contributo sperimentale di propone di esplorare tramite un approccio qualitativo le diverse sfaccettature del concetto di dignità nel paziente a termine concepito nella prospettiva di differenti HCPs, in diversi contesti di cura come ad esempio l’Hospice e le Unità di diversi reparti ospedalieri.
Lo scopo della ricerca è quello di ampliare la riflessione già presente in letteratura sul tema della dignità nel fine vita del paziente, al fine di promuovere, in ottica psico-educazionale, strumenti di conoscenza e d’applicazione finalizzati al mantenimento della stessa. Inoltre, questo studio si propone di contribuire a promuovere una migliore relazione tra paziente ed operatori, nel rispetto dei bisogni specifici di ciascun elemento della rete assistenziale che ha come focus d’elezione il benessere dell’individuo in ogni momento della sua vita.
4.2 – Materiali e metodi
4.2.1 – Partecipanti
Il presente studio presenta un campione composto da 108 operatori sanitari, tra cui 32 medici e specializzandi, 39 infermieri, 16 operatori socio-sanitari (OSS), 17 psicologi e psicoterapeuti, 2 volontari e 2 fisioterapisti. Questi sono stati reclutati nel corso di un anno, da marzo 2018 a marzo 2019, con il fine ultimo di poter confrontare le differenti prospettive dovute ai differenti ruoli e background professionali. L’unico criterio di inclusione adottato riguarda il fatto di aver lavorato in un contesto che prevedesse il servizio di cura di pazienti in fine di vita per almeno due mesi. In relazione a ciò, i partecipanti non sono stati reclutati dal solo contesto oncologico e delle cure palliative, ma anche da altre Unità ospedaliere collegate al fine di vita, quali possono essere Ematologia, Neurologia ed il reparto di terapia intensiva di Cardiologia. I partecipanti, 38 uomini e 70 donne, presentano un’esperienza lavorativa nel contesto del fine di vita che va dai due mesi ai 40 anni. Come mostrato in Tabella 3, essi provengono da undici differenti strutture situate nel contesto italiano, precisamente: dai reparti di Oncologia Medica 1 e 2, Centro Oncologico Ematologico Subalpino (COES), Ematologia, Neurologia e Cardiologia dell’ospedale “Città della Salute e della Scienza” di Torino e dagli Hospice Luce per la vita e Valletta in Piemonte, dall’Hospice Sanremo in Liguria e dal reparto di Oncologia dell’ospedale San Pio da Pietrelcina di Castellaneta in Puglia. Oltre a queste, parte dei partecipanti è stata reclutata presso un seminario riguardante le cure del fine vita tenutosi a Torino. I partecipanti non hanno ricevuto alcun tipo di incentivo e tutti hanno sottoscritto il consenso informato.
Variables
Total (n %)
Gender
M
38 (35)
F
70 (65)
Profession
Physicians
32 (29.63)
Nurses
39 (36.11)
Nurse assistants
16 (14.81)
Psychologists
17 (15.74)
Volunteers
2 (1.85)
Physiotherapists
2 (1.85)
Working context
Medical Oncology 1
8 (7.41)
Medical Oncology 2
12 (11.11)
COES
11 (10.19)
Hematology
10 (9.26)
Neurology
9 (8.33)
Cardiology
6 (5.56)
LUCE PER LA VITA Hospice
12 (11.11)
VALLETTA Hospice
13 (12.04)
SAN REMO Hospice
8 (7.41)
CASTELLANETA Hospice
5 (4.63)
End-of-life Seminar
14 (12.96)
Working experience in end-of-life care in years
0 → 10
54 (50.00)
10 → 20
32 (29.63)
20 → 30
17 (15.74)
30 → 40
5 (4.63)
Tabella 3 - Caratteristiche del campione
4.2.2 – Design
Il presente studio è stato approvato dalla commissione etica dell’ospedale “Città della Salute e della Scienza” di Torino. Gli autori hanno selezionato un metodo d’indagine qualitativo, per permettere l’accesso al numero maggiore di informazioni possibile. La tecnica scelta si avvantaggia di gruppi di discussione, i cosiddetti focus group, durante i quali ai partecipanti è stato chiesto di rispondere a due domande riguardanti la dignità del paziente a termine. I dati ottenuti dai focus group sono stati elaborati in accordo con le direttive della Consolidated Criteria for Reporting Qualitative Research checklist (COREQ), che è una lista di controllo realizzata appositamente per interviste e focus group composta da 32 item che includono tutte le componenti del metodo d’indagine che devono essere riportate per promuovere la trasparenza e la replicabilità delle procedure e dei risultati (Tong et al., 2007).
4.2.2.1 – Focus group
Il focus group è uno tra gli strumenti qualitativi più utilizzati nell’ambito delle discipline psicologiche degli ultimi decenni. Una delle potenzialità di questo strumento risiede nella possibilità di essere utilizzato assieme con altri strumenti d’indagine quantitativi, andando così a spiegare il perché ed il come della materia presa in esame. Il focus group è una tecnica nata nel contesto della ricerca sociale, che serve ad approfondire un tema o particolari aspetti di un argomento mediante un’intervista di gruppo guidata da un moderatore che, seguendo una traccia più o meno strutturata, propone stimoli conversazionali ai partecipanti (Krueger, 1994). Molti autori concordano nell’attribuire la paternità di questo strumento a Robert K. Merton, il quale nel 1941 partecipò ad una sessione di lavoro del Lazarsfeld-Stanton Program Analyzer finalizzata a verificare l’efficacia di alcuni programmi radio sponsorizzati dal governo (Di Lellio, 1985). Nacque in quell’occasione la tecnica dell’intervista di gruppo focalizzata, dal momento in cui Merton fece ascoltare un programma registrato a venti persone, chiedendogli inoltre di esprimere il loro parere riguardo alle sensazioni evocate dal programma per mezzo di un pulsante verde per le sensazioni positive ed uno rosso per le negative, intervistandoli infine sui motivi delle loro scelte. Dagli anni Cinquanta del secolo scorso, i focus group sono divenuti uno strumento importante nel mondo del marketing per l'acquisizione di riscontri riguardo ai nuovi prodotti. Nel corso degli anni si sono sperimentate diverse innovazioni alla tecnica ed alla possibilità di realizzazione, discostandosi dalla versione originale al punto tale che Merton stesso ha più volte rimarcato la lontananza del focus group dal modello della sua intervista focalizzata. Seppur le modalità siano andate cambiando, come anche la denominazione con cui riferirsi a questa tecnica (intervista focalizzata, intervista focalizzata di gruppo, intervista di gruppo, focus group), è possibile notare una serie di elementi fissi, come ad esempio la centralità del gruppo come fonte di informazione, l’interazione prevista tra i soggetti, la focalizzazione su uno specifico argomento, la natura qualitativa e la presenza di un moderatore.
Il numero di soggetti che prendono parte ad un focus group si aggira solitamente tra i quattro ed i dodici partecipanti. Gruppi più ristretti favoriscono una maggior condivisione di idee, offerta a tutti e promossa dal moderatore, con il rischio tuttavia di avere una gamma di opinioni ristretta rispetto a quella che potrebbe fuoriuscire da un gruppo più numeroso. La durata media di un focus group è generalmente di due ore, considerando un minimo di un’ora ed un massimo di tre. La variabilità nella durata è determinata in gran parte dalle caratteristiche del campione dei partecipanti, e dalla natura della loro interazione. A questo riguardo, di fondamentale importanza per la buona riuscita della metodologia diventa il ruolo del moderatore, il quale deve essere in grado di gestire le personalità con caratteristiche dominanti stimolando al contempo la partecipazione dei partecipanti più introversi (Guglielmi, 1999). Per far sì che ciò accada, e per riuscire nell’intento di creare un buon clima di gruppo, l’ideale sarebbe per il moderatore astenersi dall’esprimere giudizi e opinioni personali sia riguardo all’argomento trattato che alle risposte dei partecipanti, evitando per quanto possibile elementi di comunicazione anche non verbale come cenni di approvazione o disapprovazione.
4.2.3 – Metodo
I focus group condotti nel presente studio hanno avuto una durata complessiva compresa tra l’ora e mezza e le due ore, durante le quali i moderatori hanno in un primo momento illustrato ai partecipanti l’obiettivo della ricerca, ed in seguito raccolto la loro opinione riguardo alle due domande sovracitate senza intervenire ulteriormente. Infine, si è lasciato spazio per un dibattito aperto riguardo alle tematiche emerse dalle interviste. La prima domanda cita come segue:
Che cosa ti viene in mente se dico “Dignità del paziente” rispetto al contesto nel quale lavori?
Questa domanda è stata formulata con il preciso intento di andare a sondare quali fossero le principali tematiche di riferimento degli operatori nei riguardi della dignità del paziente a termine, come possono essere ad esempio il rispetto o l’accoglienza. In secondo luogo, la raccolta di questi dati ha permesso agli autori di effettuare una ricerca incrociata per vedere se vi fosse una differenza nelle tematiche emerse dalle differenti categorie professionali.
La seconda domanda riguarda invece la sfera dell’agentività dell’operatore stesso ai fini del mantenimento della dignità del paziente:
Quali sono gli strumenti che pensi di avere a tua disposizione per mantenere la dignità del paziente?
Questa domanda è stata strutturata in modo da poter rendere evidenti quali siano le modalità di cura previste dagli operatori afferenti da diversi background professionali e contesti di cura, ed ancora una volta per poter mettere a confronto le eventuali differenze riscontrate dalle tematiche emerse.
Previo il consenso di tutti i partecipanti e dei moderatori, i focus group sono stati audio registrati, tralasciando la parte di discussione finale in quanto non significativa ai fini dell’indagine, ed in seguito trascritti dalle ricercatrici A.P. e I.F. Successivamente i ricercatori C.T., A.P., F.G. e G.A. hanno condotto un’analisi del contenuto direttamente dalle trascrizioni delle interviste. Lo scopo dell’analisi è stato quello di andare a determinare e suddividere gruppi di tematiche emerse dalle risposte, così da poter operare una conseguente comparazione delle percentuali rilevate. A questo proposito, due degli sperimentatori, C.T. e G.A., si sono focalizzati sull’analisi delle risposte alla prima domanda, mentre A.P. e F.G. hanno preso in carico l’analisi delle risposte alla seconda. Entrambe le analisi, condotte in parallelo, hanno previsto una fase iniziale di ricerca dei temi dalle risposte dell’intero campione ed una successiva di suddivisione di temi per professione, per concludersi con il calcolo delle percentuali ad esse correlate. Chiaramente, il totale dei temi emersi dalle risposte non corrisponderà al totale del campione, giacché dalla risposta di ogni operatore possono essere stati estratti nessuno, uno, o più temi.
4.2.3.1 – Content analysis
La content analysis, o analisi del contenuto nella sua formulazione italiana, è stata definita come un “insieme ampio ed eterogeneo di tecniche manuali o assistite da computer di interpretazione contestualizzata di documenti provenienti da processi di comunicazione in senso proprio (testi) o di significazione (tracce e manufatti), aventi come obiettivo finale la produzione di inferenze valide e attendibili” (Tipaldo, 2014). Sebbene già dai primi degli anni Venti l’insieme di queste tecniche avesse iniziato a circolare nell’ambito statunitense della sociologia delle comunicazioni di massa e degli studi sulla propaganda politica, bisognerà attendere il 1952 perché si possa infine giungere alla prima formulazione sistematica e scientificamente rigorosa definita da Bernard Berelson nel suo libro Content Analysis in Communication Research (Berelson, 1952). Storicamente, questo metodo d’indagine affonda le proprie radici teoriche nel paradigma comunicativo sviluppato da Harold Lasswell (1948) e basato sulle 5W: Who says What in Which channel to Whom with What effect (Figura 5).
Figura 5 - Il modello comunicativo di Lasswell (1948)
A ciascun passaggio risulta associato lo sviluppo di uno specifico filone di ricerca: il primo infatti definisce l’analisi degli emittenti, il secondo l’analisi del contenuto dei messaggi, il terzo l’analisi dei mezzi tecnici, il quarto l’analisi dell’audience e l’ultimo lo studio degli effetti della comunicazione (Morcellini-Fatelli, 1999).
L’analisi qui considerata, che privilegia in maniera quasi esclusiva il secondo elemento del processo comunicativo, utilizza metodi che scompongono i contenuti semantici in elementi più semplici attraverso il riferimento a sistemi di categorie, solitamente pensate ad hoc, che si cerca poi di quantificare per consentire inferenze oggettivabili. I punti cardine di questa tecnica si possono rintracciare nella sistematicità della rilevazione, nella trasparenza delle procedure e nella quantificazione del contenuto manifesto della comunicazione (Maneri, 2004).
4.3 – Risultati
4.3.1 – Temi emersi dalla content analysis della prima domanda
Nella prima domanda, che fa riferimento a ciò che è venuto in mente agli operatori intervistati riguardo alla dignità del paziente, è stato preso in considerazione un totale di 171 temi derivati da 106 delle 108 risposte, per via del fatto che due di esse mancavano di contenuti rilevanti ai fini della ricerca. La content analysis (Tabella 4) ha raggruppato i temi in nove macrocategorie:
Accoglienza/Ascolto/Attenzione (11.11%)
Si riferisce alla possibilità di accogliere il paziente nella maniera più appropriata, permettendogli, per quanto possibile, di sentirsi a suo agio ed in sicurezza.
Rispetto per la persona in toto (32.75%)
Si riferisce alla necessità fondamentale di dare al paziente la possibilità di potersi riconoscere non come un numero o un insieme di sintomi, bensì in primo luogo come una persona nella sua interezza, e di sentirsi sempre protagonista di ogni processo terapeutico.
Autodeterminazione/Libertà di espressione (12.87%)
Si riferisce, avendo assicurato la possibilità di sentirsi una persona e non un paziente come conseguenza al tema precedente, alla necessità di far sentire la persona libera di potersi esprimere, nel pieno diritto di scegliere come gestire gli aspetti riguardanti la propria vita e la propria morte.
Qualità della vita/Controllo dei sintomi e del dolore/Autosufficienza (11.11%)
Si riferisce al poter vivere una quotidianità scevra dal dolore e dagli altri sintomi menomanti, al meglio delle possibilità, nonché al poter essere il più indipendenti possibile.
Rispetto per i bisogni/desideri/volontà del paziente (14.62%)
Si riferisce alla capacità degli operatori e della rete sociale intima del paziente di supportare le sue decisioni, e per quanto possibile di esaudire i suoi desideri, evitando di forzarlo verso qualcosa che vada contro dalla sua libera scelta.
Privacy (4.09%)
Si riferisce alla possibilità per il paziente di essere tranquillo nell’informare gli operatori rispetto a quanto si sente di condividere, sapendo di essere in un ambiente sicuro che rispetterà i suoi tempi.
Mantenimento delle relazioni significative (2.92%)
Si riferisce alla necessità di mantenere attivi i contatti con il mondo esterno, con le proprie figure di riferimento.
Modalità di comunicazione (3.51%)
Si riferisce alle modalità con cui le informazioni sono condivise con il paziente, e fa perno sulla differenza che vi è tra il trasmettere informazioni in maniera asettica e distaccata ed il rendere il paziente il centro nevralgico e protagonista dello scambio comunicativo.
Corpo/Cura/Tocco (7.02%)
Si riferisce all’importanza per il paziente di mantenere un senso corporeo, del non trascurare sé stesso ed il proprio aspetto fisico, come anche alla possibilità di ricevere cure attraverso un tocco gentile e rassicurante che faccia sì che il paziente non si sente semplicemente un pezzo inerte di carne.
In Tabella 8 sono stati riportati degli esempi per ogni categoria tematica, mutuati dalle trascrizioni.
Come risulta chiaro dalle percentuali evidenziate nella Tabella 5, il tema più citato è stato il secondo, ovvero b. Rispetto per la persona in toto (tot=56), seguito da e. Rispetto per i bisogni/desideri/volontà del paziente (tot=25) e c. Autodeterminazione/Libertà di espressione (tot=22).
4.3.2 – Temi emersi dalla prima domanda suddivisi per professione
Per quanto riguarda il peso che possano aver avuto le diverse professioni sul totale delle categorie rilevate, notiamo in Tabella 6 il fatto che 66 dei 171 temi emersi (38.60%) derivano dalle risposte date dalle infermiere, rendendo queste le più influenti ai fini statistici di questa ricerca. Seguono i 50 temi dei dottori (29.24%) ed i 27 degli psicologi (15.79%).
Andando infine ad analizzare le percentuali di ogni tema all’interno delle singole categorie professionali (Tabella 7), vediamo che i dottori (tot. temi=50) hanno menzionato più di tutte le altre b. Rispetto per la persona in toto (38%). Seguono parimenti c. Autodeterminazione/Libertà di espressione ed e. Rispetto per i bisogni/desideri/volontà del paziente (16%); per le infermiere (tot. temi=66) il risultato è stato b. Rispetto per la persona in toto (33.33%), d. Qualità della vita/Controllo dei sintomi e del dolore/Autosufficienza (16.67%), e. Rispetto per i bisogni/desideri/volontà del paziente (15.15%); per le OSS (tot. temi=24) è stato b. Rispetto per la persona in toto (25%), a. Accoglienza/Ascolto/Attenzione (20.83%), i. Corpo/Cura/Tocco (16.67%); per gli psicologi (tot. temi=27) è stato b. Rispetto per la persona in toto (29.63%), c. Autodeterminazione/Libertà di espressione (22.22%), a. Accoglienza/Ascolto/Attenzione (18.52%); dalle risposte date dai volontari è emerso b. Rispetto per la persona in toto come unico tema; per i fisioterapisti (tot. temi=3) è stato d. Qualità della vita/Controllo dei sintomi e del dolore/Autosufficienza, e. Rispetto per i bisogni/desideri/volontà del paziente, i. Corpo/Cura/Tocco parimenti (33.33%).
4.3.3 – Temi emersi dalla content analysis della seconda domanda
Nella seconda domanda, che riguarda gli strumenti che gli operatori intervistati ritengono di possedere per mantenere la dignità del paziente, è stato preso in considerazione un totale di 189 temi derivati da 104 delle 108 risposte, per via del fatto che quattro di esse mancavano di contenuti rilevanti ai fini della ricerca. La content analysis (Tabella 9) ha raggruppato i temi in sette macrocategorie:
Caring skills (35.98%)
Si riferisce ad un gruppo di elementi di cura nei quali sono inclusi accoglienza, vicinanza fisica, dialogo aperto tra operatori e paziente ed il rispetto dei primi per le tempistiche, le abitudini e le caratteristiche individuali del paziente.
Strumenti sul sé a tutela dell’operatore (6.88%)
Si riferisce a quelle capacità, come per esempio il confronto con i colleghi, l’ascolto di sé ed il rispetto delle proprie tempistiche, che permettono agli operatori di evitare di andare incontro ad una iper-esposizione ad agenti stressogeni e, di riflesso, di favorire la dignità del paziente.
Privacy (3.70%)
Come sopra, si riferisce alla possibilità per il paziente di essere tranquillo nell’informare gli operatori rispetto a quanto si sente di condividere, sapendo di essere in un ambiente sicuro che rispetterà i suoi tempi.
Caregivers (3.70%)
Si riferisce alla possibilità per il paziente di sentirsi sicuro e non abbandonato a sé stesso, sapendo di poter contare su di una rete di connessioni sociali che lo seguono e lo supportano.
Empatia (28.04%)
Si riferisce a molteplici modalità che l’operatore dovrebbe mettere in atto, come ad esempio l’ascolto attivo, il dialogo, il far sì che il paziente si possa sentire capito e riconosciuto come una persona, oltre alla malattia.
Competenze professionali (12.70%)
Si riferisce alle capacità che fanno riferimento al contesto lavorativo e professionale dell’operatore, come ad esempio il colloquio clinico o la visita medica.
Rispetto per la persona in toto (8.99%)
Si riferisce all’importanza di far sentire il paziente come una persona nella sua interezza, rispettandone i tempi, i modi e l’individualità, facendolo sentire al contempo il vero centro focale di tutto il processo di cura.
In Tabella 13 sono stati riportati degli esempi per ogni categoria tematica, mutuati dalle trascrizioni.
Come risulta chiaro dalle percentuali evidenziate nella Tabella 10, il tema più citato è stato il primo, ovvero a. Caring skills (tot=68). e. Empatia (tot=53) ed f. Competenze professionali (tot=24) vengono a seguire.
4.3.4 – Temi emersi dalla seconda domanda suddivisi per professione
Per quanto riguarda il peso che possano aver avuto le diverse professioni sul totale delle categorie rilevate, notiamo in Tabella 11 il fatto che 67 dei 189 temi emersi (35.45%) derivano dalle risposte date dai dottori, rendendo questi i più influenti ai fini statistici della presente ricerca. Seguono i 62 temi delle infermiere (32.80%) ed i 27 degli psicologi (14.29%).
Andando infine ad analizzare le percentuali di ogni tema all’interno delle singole categorie professionali (Tabella 12), vediamo che i dottori (tot. temi=67) hanno menzionato più di tutte le altre a. Caring skills (35.82%). Seguono e. Empatia (22.39%) ed f. Competenze professionali e g. Rispetto per la persona in toto parimenti (13.43%); per le infermiere (tot. temi=62) il risultato è stato a. Caring skills (32.26%), e. Empatia (30.65%), f. Competenze professionali (14.52%); per le OSS (tot. temi=26) è stato a. Caring skills (38.46%), e. Empatia (23.08%), f. Competenze professionali (15.38%); per gli psicologi (tot. temi=27) è stato a. Caring skills ed e. Empatia parimenti (40.74%), g. Rispetto per la persona in toto (11.11%), d. Caregivers ed f. Competenze professionali parimenti (3.70%); dalle risposte date dai volontari (tot. temi=4) è emerso a. Caring skills ed e. Empatia parimenti (50%); per i fisioterapisti (tot. temi=3) è stato a. Caring skills, b. Strumenti sul sé a tutela dell’operatore, f. Competenze professionali parimenti (33.33%).
CONTENT ANALYSIS
Physicians (n=31)
Nurses (n=39)
Nurse assistants (n=16)
Psychologists(n=17)
Volunteers (n=1)
Physiotherapists (n=2)
a
4
5
5
5
-
-
b
19
22
6
8
1
-
c
8
7
1
6
-
-
d
4
11
2
1
-
1
e
8
10
3
3
-
1
f
2
2
3
-
-
-
g
4
1
-
-
-
-
h
-
4
-
2
-
-
i
1
4
4
2
-
1
Tabella 4 - Content analysis della prima domanda
THEMES
n (%)
a. Acceptance/
19 (11.11)
Listening/Attention
56 (32.75)
b. Respect for the person as a whole
22 (12.87)
c. Self-determination/Self-expression
19 (11.11)
d. Quality of Life (QoL)/Symptom control/Self-sufficiency
25 (14.62)
e. Respect for patient’s will/wishes/needs
7 (4.09)
f. Privacy
5 (2.92)
g. Maintaining affective social relations
6 (3.51)
h. Ways of communication
12 (7.02)
TOT
171 (100)
Tabella 5 - Percentuali dei temi nella prima domanda
PROFESSION
n (%)
Physicians (n=31)
50 (29.24)
Nurses (n=39)
66 (38.60)
Nurse assistants (n=16)
24 (14.04)
Psychologists (n=17)
27 (15.79)
Volunteers (n=1)
1 (0.58)
Physiotherapists (n=2)
3 (1.75)
TOT themes
171 (100)
Tabella 6 - Temi per professione nella prima domanda
%
Physicians (n=31)
Nurses (n=39)
Nurse assistants (n=16)
Psychologists (n=17)
Volunteers (n=1)
Physiotherapists (n=2)
a
8.00
7.58
20.83
18.52
-
-
b
38.00
33.33
25.00
29.63
100
-
c
16.00
10.61
4.17
22.22
-
-
d
8.00
16.67
8.33
3.70
-
33.33
e
16.00
15.15
12.50
11.11
-
33.33
f
4.00
3.03
12.50
-
-
-
g
8.00
1.52
-
-
-
-
h
-
6.06
-
7.41
-
-
i
2.00
6.06
16.67
7.41
-
33.33
TOT themes
50 (100)
66 (100)
24 (100)
27 (100)
1 (100)
3 (100)
Tabella 7 - Analisi delle percentuali di temi della prima domanda relative alle singole professioni
Tabella 8 - Lista temi della prima domanda ed esempi tratti dalle trascrizioni
CONTENT ANALYSIS
Physicians (n=30)
Nurses (n=37)
Nurse assistants (n=16)
Psychologists (n=17)
Volunteers (n=2)
Physiotherapists (n=2)
a
24
20
10
11
2
1
b
5
6
1
-
-
1
c
2
4
1
-
-
-
d
3
2
1
1
-
-
e
15
19
6
11
2
-
f
9
9
4
1
-
1
g
9
2
3
3
-
-
Tabella 9 - Content analysis della seconda domanda
THEMES
n (%)
a. Caring skills
68 (35.98)
b. Self-related tools favouring dignity
13 (6.88)
c. Privacy
7 (3.70)
d. Caregivers
7 (3.70)
e. Empathic skills
53 (28.04)
f. Professional skills
24 (12.70)
g. Respect for the person as a whole
17 (8.99)
TOT
189 (100)
Tabella 10 - Percentuali dei temi nella seconda domanda
PROFESSION
n (%)
Physicians (n=30)
67 (35.45)
Nurses (n=37)
62 (32.80)
Nurse assistants (n=16)
26 (13.76)
Psychologists (n=17)
27 (14.29)
Volunteers (n=2)
4 (2.12)
Physiotherapists (n=2)
3 (1.59)
TOT themes
189 (100)
Tabella 11 - Temi per professione nella seconda domanda
%
Physicians (n=30)
Nurses (n=37)
Nurse assistants (n=16)
Psychologists (n=17)
Volunteers (n=2)
Physiotherapists (n=2)
a
35.82
32.26
38.46
40.74
50.00
33.33
b
7.46
9.68
3.85
-
-
33.33
c
2.99
6.45
3.85
-
-
-
d
4.48
3.23
3.85
3.70
-
-
e
22.39
30.65
23.08
40.74
50.00
-
f
13.43
14.52
15.38
3.70
-
33.33
g
13.43
3.23
11.54
11.11
-
-
TOT themes
67 (100)
62 (100)
26 (100)
27 (100)
4 (100)
3 (100)
Tabella 12 - Analisi delle percentuali di temi della seconda domanda relative alle singole professioni
Tabella 13 - Lista temi della seconda domanda ed esempi tratti dalle trascrizioni
4.4 – Discussione
È trattando gli altri con dignità che si guadagna il rispetto per sé stessi.
— Tahar Ben Jelloun
L’obiettivo di questo studio è quello di identificare quali tematiche siano comuni o meno alle diverse professioni ed ai vari contesti di cura presi in considerazione, rispetto al concetto della dignità del paziente a termine di vita, e quali strumenti gli operatori ritengano di possedere per potersi adoperare nel mantenimento di quest’ultima.
Il nostro campione è composto da 108 operatori sanitari reclutati in diversi contesti di cura italiani. Il criterio d’inclusione riguarda il fatto di aver lavorato in un contesto che prevedesse cure di pazienti in fine di vita per almeno due mesi, e di conseguenza i partecipanti sono stati reclutati da differenti reparti ed Unità ospedaliere e non, e non solamente da quella oncologica.
I risultati della presente ricerca evidenziano, per quanto riguarda le tematiche emerse dalle risposte alla prima domanda, che il tema più citato, a prescindere dalla categoria professionale, è il “Rispetto per la persona in toto” (32.75%). Osserviamo poi come la frequenza degli altri temi cambi all’interno delle varie categorie professionali.
Ad esempio, prendendo in considerazione la categoria dei dottori, dopo il tema “Rispetto per la persona in toto”, i susseguenti temi più citati sono “Autodeterminazione/Libertà d’espressione” (12.87%) e “Rispetto per i bisogni/desideri/volontà” (14.62%). Lo stesso discorso non vale per la categoria delle infermiere, che citano, oltre al “Rispetto per i bisogni/desideri/volontà” (15.15%) il tema della “Qualità della vita/Controllo dei sintomi e del dolore/Autosufficienza” (16.67%); proseguendo l’esplorazione dei risultati della content analysis, osserviamo come per gli operatori sociosanitari (OSS) invece il secondo tema preponderante sia “Accoglienza/Ascolto/Attenzione” (20.83%), al quale fa immediatamente seguito il tema “Corpo/Cura/Tocco” (16.67%). Per gli psicologi, infine, le tematiche prioritarie emerse dai risultati sono “Autodeterminazione/Libertà d’espressione” (22.22%), esattamente come per quanto concerne i dottori, con la differenza che la tematica immediatamente a seguire è invece “Accoglienza/Ascolto/Attenzione” (18.52%).
Questi risultati sono in linea con altri lavori già presenti in letteratura, come ad esempio uno studio di Albers (Albers et al., 2013) nel quale emergono, sempre attraverso un’analisi qualitativa, delle differenze tra le varie categorie professionali nella concezione della dignità. Rispetto allo studio di Albers, il nostro lavoro presenta il vantaggio di includere un numero maggiore di diversi tipi di health care providers, e in tal maniera permette di ampliare la riflessione rispetto ai dati ottenuti, pur essendo questi in linea con l’altra ricerca precedentemente menzionata.
La differenza tra tematiche emerse tra dottori ed infermiere, ad esempio, ci spinge a considerare quanto le risposte alla presente ricerca possano essere influenzate dalla tipologia di pratica clinica quotidiana che ogni categoria professionale deve affrontare.
Il fatto che per le infermiere una tematica principale riguardi il controllo dei sintomi e l’autosufficienza è assolutamente indicativo del fatto che i problemi da affrontare nella sfida quotidiana che ha come obiettivo il benessere del paziente sono, per questa tipologia di operatori, di natura pratica e assistenziale; gli psicologi, ad esempio, avranno a che fare con altri tipi di problematiche nella pratica clinica, ed individuano come preponderanti tematiche che hanno a che vedere con l’autodeterminazione e la disponibilità all’ascolto, piuttosto che con il controllo del dolore attraverso il monitoraggio dei sintomi.
Partendo da una riflessione di questo tipo si può proseguire considerando le differenze tra i dottori e gli operatori socio-sanitari (OSS); il fatto che i primi si concentrino su tematiche come l’autodeterminazione e il rispetto per i bisogni del paziente, mentre i secondi siano più orientati verso tematiche d’accoglienza, d’ascolto e d’assistenza fa intuire quanto per i dottori sia fondamentale agire nei confronti dei sintomi, così da garantire l’espressione di tutte le tematiche sopracitate. Gli OSS, dal canto loro, sono inseriti in un percorso di cura del paziente in cui non è previsto dal loro ruolo professionale un intervento sui sintomi finalizzato a garantire una ideale autodeterminazione dello stesso, il loro ruolo è piuttosto di accoglienza e cura assistenziale, con un occhio di riguardo alla sfera corporea. Si tratta di un tipo di contenimento del paziente ancora diverso da quello che possono fornire gli psicologi, i quali essendo dotati di altri strumenti professionali individuano chiaramente altre tematiche d’intervento più scottanti e urgenti, come ad esempio la necessità di rendere il paziente consapevole di essere momento per momento il focus del piano terapeutico di un’intera equipe, facendolo in tal modo sentire accolto, ascoltato, e di volta in volta libero di esprimersi. Alla luce di ciò, questo primo dato può dunque essere interpretato considerando che ogni operatore svolge nella vita del paziente un ruolo diverso, e questa diversità è ben riflessa nelle diverse tematiche emerse dalla content analysis della prima domanda.
Per quanto riguarda invece la seconda domanda, ossia “Quali sono gli strumenti che pensi di avere a tua disposizione per mantenere la dignità del paziente?”, possiamo notare quanto le percentuali all’interno di ogni tematica emersa siano molto più omogenee rispetto a quelle emerse dalle risposte alla prima domanda, anche in relazione alle diverse categorie professionali. Gli strumenti principali che sono emersi sono, infatti, per ogni operatore: “Caring skills” in primis, seguono “Empatia” e “Competenze professionali”. La tematica che si discosta in maniera relativamente maggiore dalle altre che sono emerse è “Strumenti sul sé a tutela dell’operatore” (33.33%) per i fisioterapisti; c’è però da sottolineare che i fisioterapisti in questo studio sono soltanto 2, dai quali sono emersi tre temi in toto. Questa differenza campionaria non può non essere presa in considerazione durante l’interpretazione dei risultati della content analysis, specie se si considera che invece dal gruppo campionario dei dottori i temi emersi sono stati 67; questo indica che, statisticamente parlando, il loro impatto sui risultati della ricerca sarà inevitabilmente maggiore.
Anche questo secondo dato è in linea con tutto un filone di ricerca già presente in letteratura; nello specifico, possiamo notare come le tre caratteristiche professionali maggiormente emerse dalle risposte alla seconda domanda possano essere sfruttate nell’ambito di una serie di azioni di cura che altre ricerche hanno evidenziato come fondamentali al mantenimento della dignità del paziente (Brown et al., 2011; Östlund et al., 2019). Le tematiche nelle quali si inseriscono le azioni di cura di cui sopra sono: i sintomi di distress correlati alla malattia, le prospettive di mantenimento della dignità, e, infine, una serie di dinamiche sociali e relazionali che possono rafforzare o anche indebolire il senso di dignità del paziente.
Il fatto che il primo tra i temi emersi dalle risposte alla seconda domanda sia “Caring Skills” per ciascuna categoria professionale, può essere interpretato come un indice del fatto che un processo trasformativo, nella pratica clinica ospedaliera e non, potrebbe essere in atto. Ossia quel processo che auspicava Francis Weld Peaboy quando parlava di spastare il focus di ogni tipo di piano terapeutico dalla cura della malattia alla cura del malato.
Il presente lavoro si propone di essere un passo in avanti verso quella direzione, ampliando la riflessione su un tema vasto e complesso quale la dignità, e cercando inoltre di fornire un’impostazione sia teorica che empiricamente fondata rispetto alla relazione ideale che dovrebbe esistere tra paziente e operatori; una relazione bidirezionale, aperta e paritaria, nell’ambito della quale tutto il lavoro d’equipe svolto abbia come unico obiettivo quello di garantire al paziente la migliore qualità di vita possibile in ogni momento, preservando in primis il suo senso di dignità personale.
4.5 – Conclusioni
We HCPs are the beholders of our patients’ experience. What patients are looking for, at least metaphorically, is the reflection in our eye. If they see nothing, they feel that they vanished. If they see only their illness, then they feel they’ve been reduced to a problem checklist, a series of symptoms, but if they can see themselves, all that they are, their personhood, then we actually did something to uphold or maintain their dignity.
— Harvey Max Chochinov
Il presente lavoro ha certamente sia dei punti di forza che di debolezza.
Parlando dei punti di forza dello studio, individuiamo innanzitutto il fatto che si tratta di uno studio innovativo, dal momento che esiste ancora poca letteratura che tratta gli argomenti qui esposti; un ulteriore punto a favore riguarda il fatto che le analisi svolte abbiano preso in considerazione un campione eterogeneo e differenziato rispetto alle professioni di cura. Il campione in questione consta di 108 individui, per cui può essere considerato un campione rappresentativo della popolazione di riferimento.
Inoltre, è bene citare i risvolti applicativi di questo studio, sia da un punto di vista psico-educazionale per implementare le conoscenze e le competenze degli operatori, sia per ciò che concerne la relazione terapeutica tra operatori e pazienti.
Per quanto riguarda i limiti della ricerca, ci sembra corretto sottolineare che nonostante l’importanza di aver sfruttato un design between, la numerosità campionaria di ciascun gruppo era alquanto sbilanciata; ragion per cui ci saranno alcune categorie professionali che avranno fornito un impatto statisticamente maggiore nei risultati della ricerca, rispetto ad altri.
In ultimo, questo studio non prende in considerazione il senso di dignità dell’operatore stesso, tematica che hanno invece affrontato altri studi già presenti in letteratura (Karlsson et al., 2016; Stievano et al., 2018). Una di queste ricerche, ad esempio (Karlsson et a., 2016) pone in evidenza come il campione di infermiere selezionato per lo studio sia preda di emozioni contrastanti se nel corso della cura del paziente quest’ultimo si trova a manifestare una profonda sofferenza; la sfida, in quel caso, consiste nel porre in equilibrio le loro competenze professionali e le loro caratteristiche prettamente umane.
Studi futuri potrebbero approfondire questa tematica che è, al pari di quelle affrontate fino a qui, fondamentale sia ai fini della pratica clinica, che ai fini della crescita professionale e personale degli operatori coinvolti nella cura del paziente a termine.
ALLEGATO A – PDI italiano (Ripamonti et al., 2012)
ALLEGATO B – Approfondimento: ABCD (Chochinov et al., 2007)
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http://www.divitadimorte.it/cure-palliative-2/personaggi-di-spicco-delle-cure-palliative/cicely-saunders/
https://www.ohchr.org/en/udhr/
http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_803_allegato.pdf
http://www.senato.it/documenti/repository/relazioni/libreria/fascicolo_diritti_umani.pdf
http://www.treccani.it/enciclopedia/dignita/
https://it.wikipedia.org/wiki/
Ringraziamenti
Desidero ringraziare il Prof. Riccardo Torta ed il Dott. Andrea Bovero per avermi dato l’opportunità di partecipare ad un progetto su una tematica innovativa e fondamentale, quale la dignità al fine di vita. Ringrazio inoltre per avermi seguito personalmente e guidato nella redazione di questa tesi magistrale e dell’articolo ad essa correlato, oltre al Dott. Bovero, la dott.ssa Chiara Tosi e gli altri colleghi del reparto con cui ho avuto la fortuna di collaborare.
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