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Document finale

Indice Introduzione ....................................................................................................... 2 Capitolo 1 L’europeizzazione ............................................................................. 4 1.1 Definire l’europeizzazione, un processo complesso ................................. 4 1.2 L’europeizzazione, un processo differenziato ........................................... 7 1.3 I meccanismi dell’europeizzazione applicati alle politiche pubbliche ........ 9 Capitolo 2 La politica sociale e dell'occupazione nell’Unione Europea ............ 15 2.1 Le politiche sociali e del lavoro europee: breve panoramica storica ....... 15 2.2 Europeizzazione e politiche sociali europee ........................................... 20 Capitolo 3 L’europeizzazione delle politiche del lavoro: il caso dell’Italia negli anni 90 ......................................................................................................................... 22 3.1 Le politiche del lavoro in Italia dal dopoguerra agli anni 90 .................... 23 3.2 L’europeizzazione delle politiche del lavoro: modelli di analisi ............... 29 Conclusione ..................................................................................................... 34 Bibliografia ....................................................................................................... 36 1 Introduzione È indubbio che l’Unione Europea abbia influenzato e trasformato il panorama politico e giuridico degli Stati membri, dalla sua nascita al giorno d’oggi, e che continuerà a farlo nel futuro. Gli studi di scienza politica si sono da sempre interrogati sulle caratteristiche e sul funzionamento di tale unicum istituzionale. Solo a partire dagli anni 90, però, si è affermata una vera e propria corrente di studi volta ad analizzare concretamente l’impatto europeo sugli Stati membri: gli studi sull’europeizzazione. Tale approccio politologico si distingue dai precedenti in quanto risponde espressamente alla domanda: «in che modo l’evoluzione delle politiche comunitarie ha influenzato le politiche nazionali nel corso degli anni?» (Graziano 2004b). Il seguente elaborato si pone come obiettivo l’analisi dell’europeizzazione applicata ad un determinato fenomeno che ha avuto luogo in Italia tra gli anni 80 e 90: la deregolamentazione e la flessibilizzazione delle politiche del lavoro. Tale scelta non è causale, dato che si tratta di un periodo di sostanziale cambiamento, il cui il risultato si distacca fortemente dallo status quo iniziale, al punto tale che alcuni autori hanno definito gli anni 90 come gli anni del new deal del mercato del lavoro italiano (Ferrera Gualmini 2004). Inoltre, la natura composita delle politiche utilizzate nel riorientamento della politica del lavoro, permette di individuare più modelli di europeizzazione. Per poter analizzare l’influenza europea, nel primo capitolo verrà analizzata l’europeizzazione da un punto di vista ontologico, successivamente ne verranno approfondite alcune teorie riguardanti i processi di policy making. 2 Nel secondo capitolo verranno analizzati gli strumenti europei di politica sociale, sviluppati dal Trattato di Roma fino alla fine degli anni 90, per mostrare l’evoluzione dei mezzi europei che sono evoluti da un metodo più impositivo, l’uso della direttiva o del regolamento, ad un metodo più flessibile, la Strategie Europea per l’Occupazione. Nel terzo capitolo, invece, dopo una panoramica storica dell’evoluzione della politica del lavoro italiana da un approccio welfare ad uno workfare, verranno applicate le teorie esposte nella prima sezione, individuando i diversi canali di trasmissione dell’europeizzazione a livello statale. 3 Capitolo 1 L’europeizzazione L’interesse accademico nei riguardi dell’europeizzazione si diffonde relativamente tardi rispetto alla nascita del sistema europeo. È possibile, infatti datare gli inizi del dibattito agli anni 90. In quegli anni gli esperti di studi europei non trovavano nei vecchi paradigmi di analisi politica degli strumenti adatti all’analisi dell’impatto dell’Unione Europea. Le principali correnti di ricerca, infatti, si dedicavano allo studio del sistema politico europeo, cercando di coglierne la peculiare natura istituzionale, o si interessavano alle cause dell’integrazione europea. Tali approcci non permettevano uno studio dinamico dell’interazione reciproca tra il livello europeo ed il livello statale. Di conseguenza, gli studi sull’europeizzazione si sono via via specializzati in diversi ambiti della politica, con un’attenzione particolare all’analisi delle politiche pubbliche. 1.1 Definire l’europeizzazione, un processo complesso Prima di procedere ad un’analisi del fenomeno, è necessario fare chiarezza sui confini e sul campo di applicazione del concetto, dato che una valida analisi empirica si fonda su una altrettanto valida analisi concettuale (Olsen 2002). Facendo riferimento alla teoria sulla comparazione di Sartori, è necessario, dunque, delimitare il campo di analisi per evitare due problemi teorici legati alla comparazione. Il primo è il «gradismo» che «risulta dall' abuso della massima secondo la quale tutte Ie differenze sono differenze di grado da disporre lungo un continuo di più-meno»: in tal caso esisterebbero tanti gradi di europeizzazione ma si correrebbe il rischio di associare due fenomeni che differiscono per tipo e non per grado. Il secondo rischio è quello di «slargatura dei concetti», che avviene quando 4 un concetto è talmente vasto da risultare inapplicabile ad alcuna analisi (Sartori 1990). Risulta dunque necessario definire l’europeizzazione partendo da cosa non è. È possibile escludere tre nozioni dal campo semantico in considerazione: convergenza, armonizzazione e integrazione politica (Radaelli 2000). In primo luogo, la convergenza delle politiche di più stati non deve necessariamente derivare dall’azione europea, ma può essere il semplice prodotto di valutazioni interne. Per chiarire tale differenza può essere utile analizzare due esempi: l’adozione di politiche monetariste a seguito della creazione dell’Unione Economica e Monetaria e, al contrario, la convergenza in termini di politiche di cittadinanza che non risulta essere un prodotto dell’influenza europea, bensì una scelta autonoma del potere statale (Graziano Vink 2013). L’armonizzazione può essere invece considerata come un importante obiettivo dell’Unione Europea che però presenta un impatto eterogeneo sugli stati membri. Si pensi ad esempio agli atti normativi da essa emanati: mentre i regolamenti «pongono norme generali ed astratte, direttamente applicabili in ciascuno degli Stati membri» le direttive impongono agli stati un «obbligo di risultato» ma lasciano una certa «discrezionalità per quanto riguarda la scelta delle forme e dei mezzi» (Bin, Caretti, Pitruzzella 2015) Europeizzare non significa dunque necessariamente armonizzare. Infine, l’europeizzazione non è sinonimo di integrazione politica. Sebbene il primo concetto sia strettamente legato al secondo, nella misura in cui non esisterebbe senza di esso, i due fanno riferimento a due differenti domande di ricerca. 5 L’integrazione politica indaga su cosa spinga paesi differenti tra loro a costruire dei meccanismi sovranazionali che li uniscano. Gli studi sull’europeizzazione cercano, in generale, di comprendere le dinamiche a posteriori e gli effetti della presenza europea nell’ambiente politico nazionale. Fatta chiarezza su cosa non sia l’europeizzazione, è possibile proporre una definizione esaustiva del concetto. Uno dei primi tentativi accademici descrive il fenomeno come «il processo incrementale che riorienta la direzione e la forma della politica a tal punto che le dinamiche politiche ed economiche della Comunità Europea diventano parte della logica di organizzazione della politica e del policy-making nazionale» (Ladrech 1994) Tale definizione, all’avanguardia per il periodo accademico, è connotata da una forte approccio top-down e segue un approccio analitico fortemente incentrato sullo studio del funzionamento delle istituzioni. Un’altra definizione da prendere in considerazione è quella di Olsen. Egli adotta una definizione descrittiva del fenomeno, elencando alcuni elementi che lo compongono: - “Central penetration of national systems of governance” con cui l’autore si riferisce ai cambiamenti dell’organizzazione di ciascuno stato, anche alla luce degli equilibri interi di multilevel governance, nell’ottica di un riequilibrio del centro di potere - “Exporting forms of political organization” con cui indica il meccanismo di adesione degli stati alle politiche europee (Olsen 2002). 6 Nonostante questi autori abbiano analizzato degli aspetti determinanti del processo, per poter avere una visione più globale del fenomeno è auspicabile una definizione che inglobi anche una referenza al modello bottom-up. A tal proposito, gran parte degli studi accademici convengono sull’esaustività della definizione di Claudio Radaelli che insiste sui due approcci (Graziano Vink 2012; Bulmer Radaelli 2004). Egli descrive il fenomeno come «processes of (a) construction (b) diffusion and (c) institutionalization of formal and informal rules, procedures, policy paradigms, styles, “ways of doing things” and shared beliefs and norms which are first defined and consolidated in the making of EU decisions and then incorporated in the logic of domestic discourse, identities, political structures and public policies». Per quanto la più esaustiva possibile, tale definizione presenta un solo difetto, sottolineato successivamente dallo stesso autore, ossia la possibilità di interpretare il processo di europeizzazione in maniera deterministica, non tenendo conto della possibilità che la proposta europea possa essere rifiutata o modificata (Radaelli, Pasquier 2006). 1.2 L’europeizzazione, un processo differenziato Nel corso del tempo gli studi sull’Europeizzazione si sono specializzati e settorializzati. Nella fattispecie un’importante distinzione accademica si è sviluppata attorno alle diverse facce della politica: polity, politics e policy. Gli studi sulla polity si occupano notoriamente della legittimazione del potere politico e delle dinamiche di riconoscimento del cittadino all’interno del sistema. Nel caso dell’Europeizzazione uno degli oggetti di studio è stato il rapporto dialettico tra la nascente cittadinanza europea e la cittadinanza nazionale. A tal proposito è stata 7 formulata l’idea di cittadinanza composita, costituita in primo luogo da una cittadinanza indiretta, quella che deriva dallo Stato di residenza, e una seconda cittadinanza diretta, conseguenza dello sviluppo delle politiche e delle istituzioni europee (Cotta Isernia, 2009). Gli studi di politics, invece si interessano alla «sfera del potere, inteso come la capacità di influire sulle decisioni prese dagli individui» (Cotta, Dalla Porta, Morlino 2008). Le ricerche sull’europeizzazione si sono dunque soffermate sull’analisi degli attori politici che influenzano direttamente o indirettamente la gestione del potere nella società: istituzioni, partiti, gruppi di interesse. Ad esempio, con riguardo ai cambiamenti a livello di partiti e sistemi partitici, Vivien A. Schmidt ha sottolineato come i partiti politici siano ancora fortemente nazionalizzati e ha aggiunto che le elezioni europee hanno reso più complessi i sistemi elettorali nazionali per due motivazioni. Le elezioni europee, spesso utilizzate dai governi come mezzo per indagare la continuità del sostegno elettorale e percepite dai cittadini come occasione per valutarne le performance. Inoltre, la presenza europea nel campo politico ha determinato la formazione di un’ulteriore frattura politica, la dicotomia sovranità/integrazione, che ha variegato i discorsi politici delle coalizioni di destra e sinistra (Schmidt 2006). L’europeizzazione ha anche toccato altri attori politici, non istituzionali, come i movimenti sociali. Per quanto tendenzialmente legati alla sfera nazionale, essi hanno ottenuto nuove opportunità di visibilità politica. Per esempio, i movimenti sociali di protesta hanno sfruttato i vantaggi della multilevel governance, rivolgendosi all’Europa per mobilitare cambiamenti a livello nazionale e, viceversa, 8 rivolgendosi al governo nazionale per ottenere risultati a livello europeo (Dalla Porta, Caiani 2009). In ultima istanza, l’ambito della policy è stato ed è quello più soggetto ad analisi empirica. La crescita delle competenze delle istituzioni europee e l’aumento del campo di azione dell’Unione Europea hanno indotto dei cambiamenti all’interno del processo di policy making nazionale. Nella prima fase, le politiche pubbliche coinvolte erano meramente di tipo economico e agricolo ma a partire dagli anni 80 è possibile affermare l’influenza dell’Europa si sia fatta gradualmente strada all’interno di numerose politiche pubbliche, precedentemente di esclusiva competenza statale. Dato che questo elaborato ha come obiettivo quello di analizzare i meccanismi e le dinamiche dell’europeizzazione nell’Italia degli anni 90 in un particolare ambito delle politiche pubbliche, le politiche del lavoro, è necessario analizzare più a fondo come il fenomeno agisca a livello di policy. 1.3 I meccanismi dell’europeizzazione applicati alle politiche pubbliche La strategia accademica adottata per analizzare questo aspetto prevede la distinzione di diversi modelli di policy making ai quali corrisponde un differente andamento del fenomeno. Al loro interno sono state ulteriormente individuati dei sotto-modelli, a seconda delle variabili che agiscono nel processo. Al fine comparativo tale modellizzazione implica una semplificazione dei meccanismi, necessaria ai fini comparativi (Bulmer, Radaelli 2004). Combinando i lavori dei succitati autori, è possibile individuare tre modelli di policy-making: integrazione positiva, integrazione negativa e coordinamento. Per 9 chiarezza espositiva si riporta una tabella riassuntiva dei modelli e dei sotto-modelli ad essi collegati. Modello Sotto-modello Integrazione positiva Goodness of fit Integrazione negativa Concorrenza normativa Coordinamento Learning Per “integrazione positiva” si intende l’introduzione di politiche sovranazionali. È essenzialmente il campo di azione dell’Unione Europea in cui essa presenta competenze esclusive e in cui, dal punto di vista giurisprudenziale, vi è supremazia degli atti legali dell’Unione Europea. Lo stato membro deve pertanto adottare le politiche seguendo un processo di downloading. L’Unione Europea, infatti, “prescrive” un determinato modello e concede una limitata discrezionalità agli stati membri nell’adottarlo; successivamente la Commissione Europea si assicura dell’effettiva adozione della politica e può ricorrere all’uso della Corte di Giustizia Europea nel caso di Stati non particolarmente performanti. Al contrario l’integrazione negativa non prevede l’adozione diretta di una politica, bensì la rimozione di ostacoli ed elementi che impediscano al modello europeo di funzionare, andando ad agire indirettamente su altri ambiti. L’esempio più chiaro per spiegare questo processo è il caso della creazione del mercato unico. In questo contesto gli stati hanno dovuto progressivamente rimuovere barriere che impedissero la libera concorrenza: discriminazione dei prodotti esteri, barriere fisiche o fiscali che distorcessero il principio del libero scambio. Il tutto ha condotto ad una serie di aggiustamenti nelle politiche delle telecomunicazioni, energetiche, 10 dei trasporti. In questo caso Bulmer e Radaelli sottolineano come il processo di integrazione negativa sia un processo più orizzontale: gli stati apportano delle modifiche interne a causa di una competizione normativa e socioeconomica tra pari e non per necessità di adesione al modello europeo (Bulmer, Radaelli 2004). L’ultimo esempio da analizzare è il coordinamento, che concerne abbraccia un’ampia serie di ambiti: le aree di policy coperte dal Metodo Aperto di Coordinamento (MAC) o dagli accordi all’unanimità tra stati, come la politica estera e di sicurezza. In questo contesto i prodotti del processo possono prendere sia la forma di soft law che quella di mere dichiarazioni politiche, come ad esempio le conclusioni dei summit politici. Questo modello, in maniera più accentuata rispetto all’esempio dell’integrazione negativa, evidenzia un meccanismo di europeizzazione orizzontale, incentrata sull’interazione tra attori formalmente alla pari. È possibile passare in rassegna i tre sotto-modelli collegati ai modelli principali. Nell’ambito dell’integrazione positiva è stata elaborata la teoria del goodness of fit, secondo la quale il grado di conformità/difformità tra politiche statali e politiche europee è centrale nel determinare il livello di pressione generata dall’europeizzazione. A minori livelli di conformità corrisponde una maggiore intensità di pressione al cambiamento. Borzël e Risse spiegano infatti che se le norme, le politiche e le idee a livello europeo sono già compatibili, non c’è motivo per cui possano sorgere problemi di implementazione. Questa teoria è stata via via completata introducendo altre variabili: nei casi di accentuata difformità tra politica europea e politica statale, possono agire diversi fattori di mediazione come gli elementi di veto e l’esistenza di istituzioni formali. Nel primo caso per fattori di veto 11 si intende la presenza di elementi o di circostanze che rendono difficoltoso il processo di adattamento limitando la creazione di una coalizione per l’adozione della politica pubblica. Nel secondo caso, le istituzioni formali, provvedendo risorse materiali e teoriche, possono agire da catalizzatori nel processo di adempimento. Tali istituzioni possono essere: sindacati, regioni, movimenti sociali o gruppi di interesse (Borzël Risse 2000). In ottemperanza al secondo tipo di policy making, il modello esplicativo corrispondente è rappresentato dalla cosiddetta concorrenza normativa (letteralmente regulatory competition). Come abbiamo precedentemente spiegato, in presenza di un obiettivo prefissato dall’unione europea e tenendo presente una serie di comportamenti proibiti dalla stessa, gli stati devono eliminare ostacoli ed elementi di impedimento. Si determina così una competizione tra attori di pari livello (almeno formalmente) per il raggiungimento di un risultato. Questo aspetto è accademicamente trascurato in quanto le ricerche accademiche di questo tipo si incentrano più sul processo di adattamento degli stati che sulla competizione stessa. Inoltre, dal punto di vista esplicativo non è ancora ben chiaro se le modifiche raggiunte e la competizione siano causate dall’europeizzazione o, più generalmente, dalla globalizzazione: alcuni approcci accademici si pongono infatti come obiettivo quello di chiarire quale delle due forme agisca o in che misura una prevalga sull’altra. L’ultimo modello esplicativo, applicato al processo di coordinamento, è rappresentato dal learning. Meccanismi di learning sono presenti sia informalmente in ambiti come le riunioni di Consiglio e Comitati, ad esempio tra i governatori delle banche centrali all’interno del Sistema Monetario Europeo. Da un punto di vista più 12 istituzionalizzato il learning corrisponde alla soft law e più nello specifico al Metodo Aperto di Coordinamento (MAC) formalizzato dalla Strategia di Lisbona (2000). Esso «può essere descritto come uno strumento giuridico non vincolante (soft law). Si tratta di una forma di politica intergovernativa che non si traduce in misure legislative vincolanti per l’UE. […] Si basa principalmente su: identificazione e definizione congiunta di obiettivi da raggiungere (adottati dal Consiglio); strumenti di misura definiti congiuntamente (statistiche, indicatori, orientamenti); «benchmarking», vale a dire l’analisi comparativa dei risultati dei paesi dell’UE e lo scambio delle migliori pratiche» (da eur-lex.europa.eu) Dalla definizione istituzionale è possibile notare che tale metodo tende a rendere sistematiche e spontanee le pratiche di confronto, che spesso venivano utilizzate solo in casi di crisi economica o politica. Il tutto avviene in assenza di obblighi formali: i classici meccanismi di controllo non sono presenti in quanto il successo della strategia si fonda sull’emulazione tra stati membri. Non è possibile tuttavia affermare che le istituzioni europee abbiano un ruolo secondario in questo processo. Sebbene il ruolo della Commissione Europea non abbia la stessa centralità che riveste in un processo legislativo ordinario, essa è in grado di adempiere compiti in maniera più efficiente rispetto a qualsiasi altro attore politico. Di conseguenza, essa agevola il processo di confronto monitorando le situazioni nazionali o contribuendo alla stesura di documenti che chiariscano la situazione a livello europeo. Esercita inoltre un’influenza informale rappresentata dalla presenza di esperti tecnici e specialisti di policy making (Dehausse 2003). 13 Per concludere, è necessario dissociare il processo di learning da un’analisi deterministica: il dialogo a livello europeo possa aiutare a legittimare il contenuto e l’implementazione della riforma a livello nazionale ma la convergenza di policy, non è un risultato obbligatorio. Non è pertanto possibile stabilire facilmente una relazione lineare tra la formazione di un consenso diffuso a livello europeo e la traduzione di tale consenso all’atto pratico (Kohler-Koch 2002). 14 Capitolo 2 La politica sociale e dell'occupazione nell’Unione Europea Nella presente sezione verrà analizzato il processo di costruzione delle politiche sociali nell’Unione Europea, dai primi anni fino alla fine degli anni 90, con una particolare attenzione alla politica del lavoro. Verrà effettuata una breve panoramica storica e verranno analizzati successivamente i metodi di policy che agiscono in questo ambito. 2.1 Le politiche sociali e del lavoro europee: breve panoramica storica La dimensione sociale dell’Unione Europea è definita come l’insieme di politiche che servono a facilitare la libertà di movimento dei lavoratori a livello sociale e l’armonizzazione dei diversi standard sociali e lavorativi degli stati membri (Falkner 2016). Nonostante la sua genesi dibattuta e il suo sviluppo frammentato, il Modello Sociale Europeo continua a rappresentare un unicum all’interno del mondo globalizzato, in cui stati membri e Unione Europea «si assumono la responsabilità di produrre sicurezza economica e sociale per ciascun singolo individuo» (Gallino 2012). La questione sociale ha avuto un’importanza secondaria durante i primi anni della nascita della Comunità Economica Europea, a causa della ritrosia degli stati membri nel rinunciare alla propria sovranità in questo ambito, ma anche a causa della matrice intellettuale che ha condotto alla formazione della Comunità Economica Europea (Dodo 2014). Le autorità europee credevano nella liberalizzazione del mercato come mezzo per ridurre le disparità economiche e sociali, senza ricorrere ad un’azione redistributiva. Tuttavia, il Trattato di Roma presenta una parte dedicata alle politiche sociali, nella quale però solo alcuni provvedimenti hanno carattere 15 obbligatorio, ossia la retribuzione equa per entrambi i sessi (art. 1151 Trattato di Roma) e «l’equivalenza dei congedi retribuiti» (art. 120 Trattato di Roma). Le restanti disposizioni sono mere dichiarazioni politiche. È possibile inoltre desumere altre disposizioni di matrice sociale nella seconda parte del Trattato, nella quale viene enunciata la necessità di libertà di movimento di beni, lavoro, capitali e servizi e, di conseguenza, l’abolizione di qualsiasi tipo di discriminazione legata alla nazionalità (artt. 48-51 Trattato di Roma). In generale l’azione europea era funzionale e quindi strettamente legata all’integrazione dei mercati nazionali, come dimostra la nascita del Fondo Sociale Europeo (FSE), l’unico strumento attivo della Comunità in campo sociale. Tale mezzo finanziario fu stabilito al fine di «promuovere all'interno della Comunità le possibilità di occupazione e la mobilità geografica e professionale dei lavoratori» (art. 123 Trattato di Roma) e si rivolgeva in primis ai lavoratori delle regioni danneggiate dalla creazione del mercato unico, favorendone la riqualificazione professionale in caso di disoccupazione, attraverso un rimborso del 50% alle spese statali per tali finalità. Fino all’approvazione dell’Atto Unico Europeo nel 1987, l’azione della Comunità era estremamente limitata a causa di vincoli di carattere procedurale, dato che le politiche sociali erano “protette” dalla trappola del voto all’unanimità (Scharpf 2007) Ciò nonostante alcuni passi avanti furono compiuti soprattutto nell’ambito delle politiche del lavoro. Durante il Vertice di Parigi nel 1972, le autorità europee avevano «Ciascuno Stato membro assicura […] l'applicazione del principio della parità delle retribuzioni fra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro. Per retribuzione deve essere inteso, ai sensi del presente articolo, il salario o trattamento normale di base o minimo, e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell'impiego di quest'ultimo» 1 16 ammesso che la crescita economica non dovesse essere un «fine in sé» ma che dovesse essere accompagnata da un’attenzione maggiore rivolta alla riduzione dei divari economici, sociali e tecnologici» (Dichiarazione del Vertice di Parigi, 19-21 ottobre 1972). Una delle conseguenze fu l’uso della maggior parte dei fondi del Fondo Sociale Europeo, sebbene limitati dal primo shock petrolifero, per l’avanzamento della formazione professionale. Grazie ad un ruolo più attivo della Commissione, inoltre, il fondo divenne uno strumento di «promozione di iniziative» e non più un meccanismo di «rimborso spese» (Graziano 2004b). In seguito, l’Atto Unico Europeo riduce il ricorso al voto all’unanimità, introducendo la maggioranza qualificata per questioni legate alla salute ed alla sicurezza dei lavoratori, rendendo in tal modo possibile una più celere approvazione delle direttive. L’articolo 118a2 era stato formulato in maniera vaga, permettendo dunque un’interpretazione più estesa del concetto di “salute e sicurezza” che servì a migliorare più genericamente le condizioni di lavoro (per esempio, limitandone il numero di ore); tale pratica è conosciuta come treaty base game ossia usare un articolo come base teorica per direttive che si occupano di aspetti più generici (Falkner 2016). A partire dagli anni 80 un maggiore impulso viene destinato alla dimensione sociale. Tale slancio più interventista fu sostenuto dalla Commissione Delors (in carica dal 1985 al 1994) sotto la quale venne elaborata la “Carta comunitaria dei 2 «Gli Stati membri si adoperano per promuovere il miglioramento in particolare dell'ambiente di lavoro per tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori, e si fissano come obiettivo l'armonizzazione, in una prospettiva di progresso, delle condizioni esistenti in questo settore». 17 diritti sociali fondamentali dei lavoratori” conosciuta altrimenti come Carta Sociale. Redatta a Strasburgo nel 1989, essa si presenta come una dichiarazione di intenti, a carattere non vincolante, a causa della ferma opposizione del Regno Unito, guidato da Margaret Thatcher. Per questo motivo tale documento non venne inglobato all’interno del Trattato di Maastricht (1993), del quale rappresenta un corollario. Paolo Graziano indica tale documento come l’embrione per la formazione di una “strategia europea per l’occupazione” in ragione di un ruolo sempre più attivo della Commissione nel coordinamento delle politiche del lavoro degli stati membri e nella promozione di determinati obiettivi da raggiungere, per esempio la riforma del Fondo Sociale Europeo, più orientato verso la formazione professionale (Graziano 2004b). La Commissione inizia già a utilizzare dei metodi di policy che verranno in seguito mutuati dagli altri paesi, come l’Italia, ovvero le procedure di monitoraggio, valutazione ed il coinvolgimento delle parti sociali non governative. Oltre a contenere un allegato sulle politiche sociali, che determina un’estensione delle competenze europee nell’ottica di un’armonizzazione minima (approfondimento delle pari opportunità ed integrazione di soggetti esclusi dal mercato del lavoro), il Trattato di Maastricht estende la maggioranza qualificata ad altri aspetti come l’informazione e la consultazione dei lavoratori, mantenendo l’unanimità per sicurezza sociale, protezione sociale dei lavoratori oltre che per la rappresentanza sindacale. La fine degli anni 90 rappresenta un momento estremamente importante per le politiche sociali e, nello specifico per le politiche del lavoro. Con il Trattato di Amsterdam, firmato nel 1997, viene meno l’opt-out del Regno Unito alle disposizioni del protocollo sociale. Viene inoltre inserito un apposito titolo VI, denominato 18 “occupazione”, nel quale gli stati membri si impegnano a «sviluppare una strategia coordinata a favore dell'occupazione, e in particolare a favore della promozione di una forza lavoro competente, qualificata, adattabile e di mercati del lavoro in grado di rispondere ai mutamenti economici» (art. 109 Trattato di Amsterdam). Nello stesso anno, con il consiglio di Lussemburgo, nasce la Strategia Europea per l’Occupazione (European Employment Strategy, EES), un chiaro esempio di Metodo Aperto di Coordinamento, che diverrà nel corso dell’evoluzione delle politiche sociali europee, la corsia preferenziale dell’azione del modello sociale europeo. Tale strategia si costruiva attorno a quattro pilastri: imprenditorialità, occupabilità, adattabilità e pari opportunità. Gli stati, attraverso pratiche di concertazione, peer review e benchmarking si impegnavano ad agevolare le imprese che, in ragione di un mercato del lavoro più flessibile e di sistemi fiscali più favorevoli, potevano creare nuovi posti di lavoro. Si trattava dunque di spingere gli stati a promuovere politiche attive, ossia creazione di posti di lavoro e prevenzione/soluzione dei principali problemi alla radice della disoccupazione, attraverso politiche di sostegno alla disoccupazione giovanile e femminile. Nel 2000 venne approvata la cosiddetta Strategia di Lisbona che sostiene un pieno utilizzo del Metodo di Coordinamento Aperto, al fine di ottenere una «economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale» (Conclusioni della Presidenza del Consiglio Europeo, 23 24 marzo 2000). Risultava dunque auspicabile una modernizzazione del modello sociale europeo su più fronti: da una parte politiche attive di creazione di posti di lavoro e aumento delle opportunità per ottenerlo, tramite formazione e 19 professionalizzazione, dall’altra mediante un rinnovamento dei meccanismi di protezione sociale. 2.2 Europeizzazione e politiche sociali europee Rispetto agli albori della Comunità Economica Europea, le competenze dell’Unione in ambito sociale hanno vissuto una forte crescita che si accompagna allo sviluppo di metodi di governance alternativi. A tal proposito gli anni 90 rappresentano una «forte cesura» tra il vecchio e nuovo metodo di intervento regolativo: nel primo periodo il mezzo privilegiato era quello della «pressione regolativa» ma gli ambiti nei quali l’Unione poteva legiferare attraverso direttive e regolamenti erano limitate (Graziano 2004b). Attraverso lo sviluppo della Strategia Europea per l’Occupazione e, più in generale, grazie all’istituzionalizzazione del Metodo Aperto di Coordinamento, gli stati membri hanno dovuto adattare più ambiti agli standard europei È dunque possibile riconoscere i tre modelli di europeizzazione esposti nel primo capitolo. L’integrazione positiva delle norme europee recepite a livello nazionale, approccio più diffuso nella fase pre – anni 90, non si limita agli ambiti strettamente definiti dagli articoli europei, che vengono interpretati in maniera più estensiva. Ll’integrazione negativa riguarda, invece, l’adattamento delle politiche sociali degli stati alle pressioni dell’UE che si ripercuotevano indirettamente sull’aspetto sociale, come ad esempio i limiti budgetari imposti tramite il Patto di Stabilità e Crescita. Il coordinamento, infine, riguarda tanto le strategie europee, il Metodo di Coordinamento Aperto e, in generale, la socializzazione degli attori statali ed 20 europei. Si tratta di contesti estremamente fertili per lo scambio di idee, opinioni e pratiche che, come vedremo nel successivo capitolo, hanno generato cambiamenti all’interno del contesto statale italiano. Inoltre, in queste occasioni di scambio orizzontale (o quasi, dato il ruolo propulsore della Commissione che emerge in molti casi) è possibile anche analizzare il processo di europeizzazione bottom up, dato che sono gli stati stessi che, interagendo con la Commissione per la definizione degli obiettivi da raggiungere, incidono sulla forma e la direzione che essi devono prendere. 21 Capitolo 3 L’europeizzazione delle politiche del lavoro: il caso dell’Italia negli anni 90 Il seguente capitolo si pone come obiettivo l’analisi della flessibilizzazione e della deregolamentazione della politica del lavoro italiana, processo iniziato negli anni 80 e proseguito più intensamente negli anni 90. Questo periodo è considerato da molti esperti di politiche pubbliche un periodo di cesura tra il vecchio modello di welfare all’italiana, ed un nuovo modello worfare di matrice più europea. Tale cesura è considerata talmente profonda da aver fatto avanzare l’ipotesi di un salvataggio dell’Italia da parte dell’Europa che ha contributo alla messa in atto di un «new deal» del mercato del lavoro italiano (Ferrera Gualmini 2004). Per welfare all’italiana si intende un modello di politica sociale, nella fattispecie di politica del lavoro, incentrata principalmente sulle politiche passive, ossia «di mera tutela del reddito della persona in cerca di occupazione (ad es. i sussidi di disoccupazione)», a discapito di quelle attive, ovvero «volte a rendere più efficiente il mercato del lavoro (ad es. la formazione ed i servizi di collocamento» (Ferrera 2012). Per workfare si intende quella tendenza alla minimizzazione dei benefit sociali e al rafforzamento della partecipazione al mercato del lavoro, in linea con l’imperativo “making work pay” già diffuso in altri paesi europei come il Regno Unito (Graziano 2004a) Dopo un’analisi storico politica in cui verranno analizzati i principali cambiamenti della politica del lavoro italiana, ne verranno isolati alcuni processi che verranno successivamente ricondotti ai modelli di analisi dell’europeizzazione esposti nel primo capitolo di questo elaborato. 22 3.1 Le politiche del lavoro in Italia dal dopoguerra agli anni 90 Con politica del lavoro si intende «un insieme composito di interventi pubblici volti al raggiungimento e al mantenimento di une elevato e stabile livello occupazionale» (Beveridge 1994). Per perseguire tale fine, lo Stato si può avvalere di due categorie di interventi, passivi o attivi. La politica del lavoro in Italia dal dopoguerra agli anni 70, ed in parte anche fino agli anni 80, è caratterizzata dalla predominanza delle politiche passive sulle politiche attive. La previdenza sociale si focalizzava principalmente sul sostegno al reddito dei lavoratori temporaneamente disoccupati, attraverso le indennità di disoccupazione erogate dalla Cassa Integrazione Guadagni. Vi era, inoltre, un timido esempio di politica attiva, rappresentato dal contratto di apprendistato, con il quale si voleva stimolare l’assunzione di giovani lavoratori, a seguito dell’acquisizione della formazione necessaria. Un terzo elemento è rappresentato dall’imponente ruolo dello Stato nel funzionamento dei servizi di collocamento che in teoria poteva essere un valido strumento di politica attiva, ma alla prova dei fatti costituiva una presenza pressoché formale, giacché gli imprenditori assumevano autonomamente i lavoratori, per registrarne l’assunzione a posteriori. Un’importante tappa nell’evoluzione della politica del lavoro italiana è caratterizzata dall’approvazione dello “Statuto dei lavoratori” nel 1970 che varia gli equilibri di potere a livello negoziale, aumentando l’importanza dei sindacati e delle organizzazioni di settore nella fase di negoziazione. Tendenzialmente, tale ratifica si inscrive in un periodo di recessione economica, a seguito del primo shock petrolifero del 1972, che ebbe forti ripercussioni sulla situazione occupazionale. Di riflesso, vengono adottate delle misure che consolidano il modello del primo 23 periodo, come la legge n°285/1977 che crea il contratto di formazione per i giovani e una riforma della Cassa Integrazione Guadagni che permetteva il contributo statale non solo in caso di chiusura temporanea ma anche in casi di crisi del settore. In questo contesto è necessario sottolineare il primo timido segno della «penetrazione europea in un ambito di formazione fino ad allora di esclusiva competenza nazionale»: la formazione professionale (Graziano 2004b). Due leggi, rispettivamente del 1977 e del 1978 sanciscono la competenza regionale in materia, conditio sine qua non per poter ottenere il sovvenzionamento del Fondo Sociale Europeo. A seguito di questi timidi cambiamenti, ha inizio un’ulteriore fase anch’essa di modesta portata, che si snoda negli anni 80. A cavallo tra i due decenni si succedono due importanti avvenimenti, che avranno un forte impatto sulla situazione economica italiana ed europea. In primo luogo, il secondo shock petrolifero e la conseguente crisi delle grandi imprese; in secondo luogo, l’ingresso dell’Italia nel Sistema Monetario Europeo (1979) che segna l’inizio delle politiche monetarie restrittive. Nel discorso politico di quegli anni iniziano a farsi strada i temi come la deregolamentazione, sinonimo di politiche attive e di flessibilizzazione del mercato del lavoro. Di riflesso la politica del lavoro italiana inizia a sviluppare una batteria un po’ più consistente di politiche attive, aventi come fine l’inserimento di categorie a rischio o escluse dal mercato lavorativo: donne e giovani. La legge n°863/1984 introduce tre nuovi strumenti deregolamentativi: contratti di solidarietà3, contratti 3 «avevano la funzione di favorire i licenziamenti nelle grandi aziende e, al contempo, di accrescere la solidarietà tra i dipendenti che, consentivano al personale in esubero di continuare a lavorare a tempo parziale» (Graziano 2004b) 24 part-time e contratti di formazione e lavoro4, Tali misure, tuttavia, non hanno riscontrato un successo omogeneo: dei tre strumenti creati dalla suddetta legge solo i contratti di formazione e lavoro sono stati effettivamente utilizzati dalle imprese (Ferrera, Gualmini 2004). Un’ulteriore misura di politica attiva fu la legge sull’imprenditorialità giovanile5, misura espressamente creata per agevolare i giovani del Mezzogiorno, attraverso un sistema di finanziamenti a fondo perduto. La concessione di tali fondi rispecchiava lo stile di policy richiesto dalle autorità europee, un sistema «di valutazione dei progetti e monitoraggio dell’andamento della politica» (Graziano 2004b). Allo stesso modo, il processo di regionalizzazione dei sistemi di collocamento si stava stabilizzando, andando così a decostruire il vecchio sistema centralizzato e monopolistico. Questi due ultimi provvedimenti si iscrivono in un manifesto cambio di orientamento ideologico: il piano del lavoro redatto nel 1984 dall’allora ministro del lavoro e della previdenza sociale Gianni De Michelis, enuncia espressamente l’importanza della Comunità Economica Europea nella definizione degli obiettivi e dei mezzi da utilizzare. Tale piano di lavoro non venne mai messo in opera, ma rimane comunque una testimonianza di come le scelte politiche di quegli anni, la promozione delle politiche attive e il ridimensionamento di quelle passive, si inscrivono in un unico sistema di respiro europeo (Graziano 2004b). 4 Hanno parzialmente modificato la portata dei contratti di formazione introdotti nel 1977. Avevano una durata di due anni, non rinnovabile e consentivano alle aziende di assumere giovani lavoratori senza farsi carico delle spese di formazione (Graziano 2004b) 5 Legge n°863/1984 25 Gli anni 90 cominciano anch’essi con un’ulteriore crisi economica derivante dall’internazionalizzazione dei processi produttivi, che ebbe delle conseguenze sulla riorganizzazione delle grandi aziende e più generalmente sul mercato del lavoro occidentale. La presenza europea diventa più ingombrante. A seguito dell’adozione del Trattato di Maastricht, i paesi europei si impegnano al rispetto dei parametri di convergenza economica, rinunciando così alla possibilità di utilizzare politiche economiche espansive. Inoltre, la produzione giuridica del diritto del lavoro europeo si intensifica e, al contempo, si afferma l’uso di strumenti meno coercitivi, a causa della nascita della Strategia Europea dell’Occupazione (1997). In questo contesto, la spinta verso la flessibilizzazione e il decentramento diviene evidente, e non appena tratteggiata come nei decenni precedenti. Le principali innovazioni di questo periodo possono essere raggruppate in tre aree: a) la privatizzazione e decentramento dei servizi di collocamento, b) l’introduzione delle politiche di sviluppo locali e c) la flessibilizzazione dei contratti di lavoro (Ferrera, Gualmini 2004). Per ciò che concerne il primo punto, verso la fine degli anni 90 la gestione dei servizi di collocamento venne delegata al potere regionale e provinciale. Tale frammentazione della gestione di una prerogativa che nel vecchio modello era statale, si traduce nella creazione di apposite agenzie regionali. Vengono creati anche dei comitati volti al coordinamento dell’azione regionale: si tratta delle Commissioni Regionali Tripartite, che a differenza del precedente organo, le Commissioni Regionali per l’Impiego, riuscivano a coinvolgere non solo gli attori classici (sindacati, associazioni di settore e potere pubblico) ma anche i poteri regionali, provinciali e comunali. Tale regionalizzazione di queste prerogative si 26 inscrive in un più generico processo di «trasferimento di competenze esclusive ai mesogoverni», competenze riguardanti le politiche sociali, battezzato da Maurizio Ferrera la «devolution» (Ferrera 2008). Un altro aspetto importante da sottolineare riguarda la logica dell’azione pubblica che cambia notevolmente direzione. I decenni precedenti erano caratterizzati da un approccio più burocratico della gestione dei servizi di collocamento che correggevano le distorsioni del mercato del lavoro a posteriori. Negli anni 90 si assiste ad un cambio di rotta attraverso un’azione preventiva, l’individuazione dei problemi, la consultazione e la selezione dei servizi da offrire alle categorie più a rischio. Un ulteriore cambiamento è rappresentato dall’apertura della gestione del suddetto servizio ai privati, a patto che questi ultimi rispettassero i requisiti richiesti e le procedure previste. Attore principale di questo cambiamento fu la Corte Europea di Giustizia che, nel 1997, aveva pesantemente condannato il monopolio pubblico dei servizi di collocamento, denunciandone il comportamento “abusivo”. La Corte affermava che le prestazioni limitate degli uffici di collocamento pubblici potessero «incidere potenzialmente sugli scambi fra gli Stati membri» nel caso in cui i cittadini di questi ultimi volessero «entrare sul mercato italiano del lavoro in qualità di lavoratori o datori di lavoro» (comunicato stampa N· 78/97 sulla sentenza della Corte di Giustizia C-55/96). La seconda innovazione è rappresentata dall’introduzione delle politiche di sviluppo locali, a seguito della legge n°662/1996 del Governo Prodi. Tale nuovo approccio si basava sulla pratica nella programmazione negoziata, attraverso la quale venivano promossi programmi specifici per la promozione dell’imprenditorialità, la valorizzazione delle risorse locali e la creazione di nuovi 27 posti di lavoro. Non si tratta espressamente di politiche del lavoro, ma di misure che nel senso largo del termine potessero stimolare la crescita economica, soprattutto nelle aree a rischio, utilizzando strumenti quali i patti territoriali e i contratti d’area, strumenti che si occupano delle zone con difficoltà economiche, creando delle reti tra pubblico e privato (banche, camere di commercio, associazioni private etc). L’ultimo cambiamento fondamentale in quegli anni è rappresentato dalla flessibilizzazione dei contratti di lavoro. Tali cambiamenti, che interessano principalmente i rapporti a termine, giacché i rapporti a tempo indeterminato fruivano di maggiori garanzie, si traducono nella promozione di forme di lavoro atipiche. Il pacchetto Treu6 nel 1997 concerne numerosi provvedimenti, tra i quali: la legalizzazione e la disciplina del lavoro interinale, ossia i contratti «per la fornitura e lo svolgimento di prestazioni di lavoro temporaneo», e «l’incentivazione dei contratti di formazione e lavoro, dell’apprendistato e dei tirocini» (Ferrera 2012). Nel 1997 e nel 1999 attraverso due direttive europee7, recepite rispettivamente nel 2000 e 20018, vengono altresì disciplinati il lavoro a tempo parziale e il lavoro a tempo determinato. L’ulteriore flessibilizzazione dell’utilizzo del contratto part-time, introdotto già nel 1984, viene accolta di buon grado dai sindacati e da Confindustria. Inversamente, la trasposizione della seconda direttiva avverrà durante il secondo governo Berlusconi e non per mano del precedente governo di centro sinistra, dal momento che tale direttiva aveva causato dei forti movimenti di protesta dalla CGIL n°196/1997, che prende il nome dall’allora ministro del Lavoro Tiziano Treu Direttiva 97/81/CE del Consiglio del 15 dicembre 1997 relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES; Direttiva 1999/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999 relativa all'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato 8 Decreto legislativo n 61/2000; Decreto legislativo n 368/2001 6legge 7 28 che denunciavano una limitazione dei poteri sindacali a fronte di una maggiore liberalizzazione (Ferrera 2012). Queste misure di liberalizzazione e flessibilizzazione, in generale, hanno contribuito alla crescita occupazionale. Esse segnano un punto di non ritorno nell’evoluzione delle politiche del lavoro italiane, nonostante i rischi di precarietà e l’abbassamento del livello di qualità dei posti di lavoro (Ferrera, Gualmini 2004). 3.2 L’europeizzazione delle politiche del lavoro: modelli di analisi Dopo una panoramica storico-giuridica dei principali cambiamenti che hanno portato alla flessibilizzazione delle politiche del lavoro in Italia, è possibile isolare l’impatto che l’Unione Europea ha avuto nella ridefinizione dell’azione pubblica. A tal proposito è necessario riprendere i modelli descritti nel primo capitolo, ossia: integrazione positiva, integrazione negativa e coordinamento. Per quanto riguarda l’integrazione positiva, gli atti giuridici europei sono stati degli efficienti strumenti di cambiamento. Nel discorso politico l’Unione Europea è stata spesso presentata come “vincolo esterno” e, di conseguenza utilizzata per forzare la legittimazione delle riforme che, diversamente, non sarebbero state accolte di buon grado dall’opinione pubblica (Ferrera, Gualmini 2004) Le disposizioni più vincolanti esposte nella precedente panoramica storicopolitica riguardano la formazione professionale. La legge del 1978 di cui abbiamo parlato precedentemente9, imponeva che questo ambito fosse di competenza regionale. Veniva imposta anche struttura di policy da utilizzare, ovvero la presentazione di progetti di formazione da parte delle regioni al fine di ottenere i 9 Cfr pag 23 29 finanziamenti previsti. Nel caso della formazione professionale, dunque, la presenza europea agisce sia nella definizione degli obiettivi, sia nello stile di policy, e, in ultima istanza, nella filosofia di intervento, che vira gradualmente verso una prospettiva della promozione attiva di lavoro. Un altro caso emblematico è rappresentato dalla privatizzazione dei servizi di collocamento, come chiara conseguenza della sentenza Job Centre II della Corte di Giustizia che aveva condannato l’eccessiva ingerenza dello Stato italiano che avrebbe dovuto aprire tali centri alla logica del libero mercato. Anche nel caso della flessibilizzazione dei contratti di lavoro è centrale il ruolo giuridico dell’Unione Europea, giacché la riforma dei contratti part-time e la disciplina del contratto a tempo determinato sono delle dirette conseguenze di due direttive europee. Nel primo capitolo10 si è fatto riferimento la goodness of fit, secondo la quale ad un’accentuata difformità tra politiche europee e politiche statali corrisponde una maggiore pressione al cambiamento. All’interno di tale processo giocano un ruolo chiave tanto i fattori di veto quanto la presenza di catalizzatori istituzionali. La flessibilizzazione del mercato del lavoro ha completamente trasformato il contesto delle politiche pubbliche, attraverso la promozione di politiche attive e l’abbandono dell’approccio burocratico nel processo di policy making. Tali provvedimenti hanno stimolato la creazione di una coalizione che, inizialmente, ostacolava l’adempimento di tali politiche. Si trattava di «rappresentanti sindacali, esponenti della burocrazia ministeriale (ministero del lavoro) e del mondo partitico 10 Cfr pag 10-11 30 (DC e PCI) che sostenevano la tutela degli occupati e non l’inserimento degli inoccupati». Questi stessi attori, negli anni 90, a seguito di una maggiore pressione del vincolo esterno europeo, rilanciato a seguito del Trattato di Maastricht, crearono una coalizione favorevole ai nuovi principi che guidavano la formazione professionale e alle politiche del lavoro nel senso largo del termine. Tale coalizione era «formata da una parte del mondo sindacale (CISL e UIL), esponenti della burocrazia ministeriale, rappresentanti del governo e reti di esperti provenienti dalla Banca d’Italia». In generale gli orientamenti comunitari furono accettati anche dai rappresentanti della sinistra e dell’estrema sinistra (DS e Rifondazione Comunista) che però rivendicavano maggiori tutele per i lavoratori. A causa di questa doppia legittimazione era assente in quegli anni un’unica coalizione di sostegno al progetto comunitario, sebbene questo stato di cose non ne impedì l’adattamento progressivo (Graziano 2004b). Per ciò che concerne l’integrazione negativa, è necessario far riferimento allo sviluppo di vincoli europei che, nella fattispecie, non riguardavano direttamente le politiche del lavoro, ma hanno causato indirettamente dei cambiamenti. Tali vincoli si sviluppano in primo luogo attraverso l’ingresso dell’Italia nel Sistema Monetario Europeo (SME) il quale rappresentava la perdita della sovranità monetaria italiana e vincolava gli stati a mantenere un tasso di cambio con margini di fluttuazione dello ± 2.25%, che nel caso italiano corrispondeva al ± 6%. In seguito, la contrazione della spesa pubblica si accentua dopo la ratifica del trattato di Maastricht, attraverso il quale vengono istituzionalizzati i criteri di convergenza (ex art. 104 TUE). Seppur non agendo direttamente sul fronte delle politiche del lavoro, tali obblighi per l’Italia, rivelano l’impossibilità di proseguire con le vecchie politiche di stampo keynesiano 31 e di svalutazione competitiva della moneta. Emerge, al contrario la necessità di promuovere «politiche restrittive, volte al pareggio di bilancio, accompagnate dall’avvio di una politica di privatizzazione di aziende ed enti controllati dallo stato» (Ferrera 2012). Tale stato di cose rappresenta una spiegazione ulteriore rispetto alla forma attiva assunta dalle politiche del lavoro. In terzo luogo, è necessario analizzare il processo di europeizzazione attraverso il terzo modello, quello del coordinamento e dunque del learning. Quest’ultimo non esclude le altre due teorie (integrazione positiva e negativa) giacché queste sono possibili anche grazie al learning. Modificare le proprie preferenze sulla base di eventi imprevisti, costrizioni improvvise o ancora interazioni basate sulla discussione e persuasione, è una condizione necessaria sia per sviluppare nuovi metodi di problem solving, che per dare avvio al processo di costruzione del consenso (Ferrera Gualmini 2004). Per di più, maturare un certo tipo di competenze, cambia il ruolo di uno stato nella fase di policy making a livello europeo, in quanto esso ha i mezzi per cominciare contribuire attivamente alla fase di negoziazione. In primo luogo, sono presenti alcuni esempi di «spill over orizzontale tra il disegno delle politiche del lavoro europee e quelle nazionali» (Graziano 2004b). Uno tra questi è la legge n°196/1997 sul lavoro interinale, che mostra l’influenza europea in ambiti di policy non ancora espressamente toccati dall’Unione Europea. In secondo luogo, la partecipazione alla Strategia Europea per l’Occupazione ha condotto l’Italia a confrontarsi costantemente con gli attori europei e a adattare progressivamente la sua strategia di policy making, di tipo top-down, con scarse attitudini di problem solving e a basso livello di decentramento. Dal punto di vista 32 pratico, per esempio, al momento del lancio della Strategia, l’Italia non disponeva a pieno di mezzi per la raccolta e l’analisi dei dati, come anche per la diagnosi dei problemi e la conseguente elaborazione di soluzioni, seguendo le linee generali della strategia. Colte impreparate, le autorità italiane procedettero dapprima a tentoni nella fase di adattamento, che a causa dell’elevata difformità e della pressione non vincolante della soft law fu estremamente difficoltosa. Difatti, nel 1999 l’Italia si distinse negativamente nella stesura e nella presentazione del piano nazionale da presentare alla Commissione, nonostante fosse stato preparato da un piccolo comitato presieduto dall’allora presidente del consiglio D’Alema. Una volta interiorizzati gli errori, nel 2000 tale comitato si trasformò notevolmente: il nuovo “Gruppo di monitoraggio” era composto non solo dai membri del ministero del lavoro, ma coinvolgeva anche l’ISTAT, l’INPS e l’ISFOL (Istituto per lo sviluppo e la formazione professionale dei lavoratori). Grazie all’efficienza di questo gruppo di lavoro rinnovato nella composizione, l’Italia ha potuto rilanciare una partecipazione attiva tanto alla fase discendente quanto a quella ascendente del policy making europeo (Ferrera Gualmini 2004). Paolo Graziano, difatti, cita l’esempio del contributo dell’ISFOL. In un rapporto del 2002 tale istituto solleva alcune critiche nei confronti di un approccio delle politiche del lavoro troppo incentrato sul modello attivo, dal momento che la situazione peculiare italiana avrebbe necessitato anche di un trattamento «prima e fuori del mercato del lavoro». Un caso citato è quello delle zone del Mezzogiorno, le quali avrebbero avuto bisogno in primis di un piano di sviluppo territoriale all’interno del quale inscrivere le politiche attive del lavoro (Graziano 2004b). 33 Conclusione L’analisi di questo periodo storico caratterizzato dalla ricalibratura della politica del lavoro italiana, da un approccio di welfare ad uno di workfare ha permesso di individuare le diverse forme che l’europeizzazione può assumere nell’impatto sulle politiche pubbliche. Inoltre, in questo periodo anche l’Unione Europea ha ricalibrato la sua azione politica, attraverso un uso crescente degli strumenti di soft law a discapito dei vecchi metodi più coercitivi. È possibile dunque ricapitolare l’analisi effettuata in questo elaborato in tre punti principali. Attraverso l’integrazione positiva, l’Italia ha dovuto recepire interamente direttive e regolamenti riguardanti, in primo luogo, la formazione professionale, chiaro esempio di politica attiva, in secondo luogo la flessibilizzazione dei contratti di lavoro e in terzo luogo la privatizzazione dei servizi di collocamento. Non è possibile però descrivere il processo di recepimento delle direttive in maniera asettica: l’alto grado di misfit tra modello europeo e modello italiano ha comportato uno sforzo elevato per portare a termine la trasformazione. In questo processo hanno giocato un ruolo essenziale le coalizioni, politiche e non, che si sono schierate a favore del modello europeo. In secondo luogo, attraverso il modello dell’integrazione negativa è possibile leggere i cambiamenti avvenuti attraverso una lente più ampia. I nuovi vincoli economici pattuiti nell’arena europea hanno indirettamente esercitato una forte influenza sulle politiche del lavoro, nella misura in cui hanno determinato una riduzione generale della spesa pubblica. 34 Infine, per ciò che concerne il modello del coordinamento, la messa in atto di una nuova strategia politica da parte dell’Unione Europea, caratterizzata da metodi di soft law, come la Strategia Europea per l’Occupazione, ha fatto in modo che la classe politica italiana sviluppasse nuove competenze. L’approccio burocratico della vecchia classe italiana è stato a poco a poco sostituito da uno più issue oriented, che valorizzasse l’analisi preventiva dei problemi attraverso un ampio uso di indagini e ricerche. La distinzione di più forme dell’azione europea, è fondamentale per riuscire a fare chiarezza su un fenomeno pressoché dato per scontato, l’influenza europea, andando a distinguere i differenti meccanismi di trasmissione, differenti per forma e per grado, riuscendo anche a integrare nell’analisi la presenza degli attori statali, virando infine verso un approccio bottom up. «Europe matters, but how?» (Radaelli 2000) 35 Bibliografia Beveridge, W. H. (1944). Full Employment in a Free Society. London: Allen & Unwin. Bin, R., Caretti, P., & Pitruzzella, G. (2015). Profili costituzionali dell’Unione Europea - Processo costituente e governance economica. Bologna: Il Mulino. Börzel, T. A., & Risse, T. (2000). When Europe Hits Home: Europeanization and Domestic Change. European Integration Online Papers (EIoP), 4(15). Bulmer, S. J., & Radaelli, C. M. (2004). The Europeanisation of National Policy? Queens Papers on Europeanisation, (1), 1–22. Cotta, M., & Isernia, P. (2009). 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