Una specie di teatrino privato.
La Torino nera di Fruttero e Lucentini
fra poliziesco e best seller di qualità
Roberto Risso
Sono ormai note e riconosciute le qualità artistiche e narrative, la raffinatezza e l’alto livello di elaborazione stilistica
della coppia di autori torinesi Fruttero e Lucentini (per citare Fruttero: «una società di mutuo soccorso»1) uniti da mezzo secolo in una collaborazione intellettuale ‘a quattro mani’,
nata «non scrivendo, ma leggendo»2. Da queste ‘letture’ sono
scaturite antologie di racconti e romanzi, traduzione di prosa e teatro che non poco hanno contribuito a svecchiare e
aggiornare la conoscenza di altre culture e particolarmente
della tradizione della short story angloamericana3. La coppia
di autori è unita anche ‘graficamente’ da un’ironica e amara &- commerciale che nel suo esistere su tutte le copertine dei
libri e in calce agli articoli, agli editoriali e alle note sui periodici, denuncia con un solo semplice tratto l’inscindibile coesistenza di qualità letteraria e di creazione narrativa come opera d’arte di successo. Se è vero, come scrisse Italo Calvino nella prima delle sue Lezioni americane, che: «È difficile per un
romanziere rappresentare la sua idea di leggerezza»4, la coppia, che di romanzo e di tecnica narrativa era assai esperta vista
la comune formazione nel gruppo einaudiano di Torino, trovò
proprio nell’espressione della propria leggerezza il cardine ironico su cui far ruotare apparentemente senza sforzo la mole
del bagaglio culturale e letterario che entrambi si portavano
appresso: letture vastissime di opere in lingua originale, russo
compreso, traduzioni di autori diversi e diversamente complessi quali Beckett e Stevenson, la partecipazione assidua al
dibattito di cultura e di costume da una postazione privilegiata
quale la Torino dal Secondo dopoguerra al Duemila. Questa
espressione della leggerezza trova nel genere poliziesco una
sua peculiare realizzazione, anzi, come scrive Spinazzola, «un
alleggerimento tonale nella pagina»5 che nulla toglie al progetto creativo della coppia, di realizzare il poliziesco di qualità, cioè il ‘giallo’ brillante; secondo l’equazione: Vacanze =
brama di spensieratezza = lettura di evasione = polizieschi brillanti = F&L6. Parte integrante di questo intento è la consapevolezza degli autori di aver dato vita, sia da un punto di vista
stilistico che contenutistico, a prodotti letterari «di eccellente
manifattura che sono calibrati, dai professionisti del successo,
con un’affabile medietas commerciale»7.
In un contesto assai multiforme e complesso come quello del poliziesco italiano di qualità del Novecento, i romanzi
1
CARLO FRUTTERO, Backstage, in
ID., Ti trovo un po’ pallida, Milano,
Mondadori, 2007, p. 52.
Il tema delle vacanze e delle tipologie umane che intorno a questo fenomeno esistono e sussistono in Italia,
almeno da Goldoni in avanti, è un tema
assai caro alla coppia F&L che vi dedicò
alcune fra le sue opere – brevi e meno
brevi – più riuscite. Basti pensare alle
acute pagine contenute ne Il Cretino in
sintesi (a cura di Domenico Scarpa,
Milano, Mondadori, 2003) e particolarmente alla sezione IV, Viaggi e avventure che contiene l’abrasivo Cuore di
Turista (pp. 79-83), il feroce Maldicenze,
ultima libertà (pp. 83-87), per non tacere il bijou mondadoriano Breve storia
delle vacanze (Milano, Mondadori, 1994).
2
CARLO FRUTTERO, Nota all’edizione tascabile in Le meraviglie del possibile. Antologia della fantascienza, a cura
di Sergio Solmi e Carlo Fruttero,
Torino, Einaudi, 1992 (1957), p. VII.
3
Fra le varie antologie curate dalla coppia mi sembra opportuno ricordare, per delinearne i percorsi intellettuali e testuali eclettici, le antologie
ormai per più aspetti storiche e classiche di fantascienza, prima fra tutte
l’einaudiana Le meraviglie del possibile. Antologia della fantascienza, del
1959, Storie di fantasmi. Antologia di
racconti anglosassoni del soprannaturale, a cura di Carlo Fruttero e Franco
Lucentini, Torino, Einaudi, 1960 e
CARLO FRUTTERO E FRANCO LUCENTINI,
La verità sul caso Smith. Antologia della nuova narrativa americana, Milano,
Mondadori, 1963, nonché, fra le altre,
Quaranta storie americane di guerra: da
Fort Sumter a Hiroshima, Milano,
Mondadori, 1964; Il Dio del 36° piano:
storie del futuro prossimo, Milano,
Mondadori, 1968 e Storie americane di
guerra, Torino, Einaudi, 1991.
4
ITALO CALVINO, Leggerezza, in ID.,
Lezioni americane (1985), Milano,
Mondadori, 1993, p. 11.
5
VITTORIO SPINAZZOLA, L’egemonia
del romanzo, Milano, Il Saggiatore/
105
‘gialli’ di Fruttero e Lucentini spiccano per un progetto di qualità letteraria alta, strettamente connessa alla prosa narrativa
italiana ed europea di due secoli, l’Ottocento e il Novecento,
praticata attraverso un magistero di lettura e traduzione di
Dickens – cui, tra l’altro, seppero tributare un’opera fuori dal
comune come La verità sul caso D.8 – Stevenson, Verne, Desnos,
Simenon, Beckett, e, non ultimo, Robbe-Grillet9. Il lavoro della coppia attorno a questi autori e a molti altri ha permesso di
sviluppare una prosa agile, diretta, cristallina nella chiarezza e
nella pregnanza dei personaggi delineati con tratti sapienti. C’è,
nei polizieschi di Fruttero e Lucentini, il senso ottocentesco
del dolore, della perdita e del male uniti al novecentesco senso incombente dell’assurdo, dell’opprimente, del non senso
istituito a legge universale, non scritta ma spietatamente applicata in ogni rapporto umano. In opere come La donna della
domenica (1972), A che punto è la notte (1979), Il palio delle
contrade morte (1983), L’amante senza fissa dimora (1986),
Enigma in luogo di mare (1991) sono compresenti temi e moduli del romanzo europeo Otto e Novecentesco quali il gusto
descrittivo per l’umano errare, la descrizione delle peripezie
dei personaggi non principali, la caratterizzazione accorta e
magistrale del ‘personaggio-uomo’ attraverso tratti quali l’indiretto libero, lo stream of consciousness, la delineazione della
non logica del crimine, la sua assoluta mancanza di originalità,
la meschinità senza speranza dei personaggi che uccidono come
il fatalismo di coloro che soffrono e periscono. Sotto la patina
‘brillante’ dei polizieschi citati, al di là del puro divertissement
narrativo alla maniera di Dickens (ma anche di Mailer, Stevenson,
Moravia, Silone, Primo Levi), si cela la costruzione sorvegliatissima e calibrata tipica di un certo romanzo novecentesco italiano, particolarmente sveviano, pirandelliano e gaddiano. I
polizieschi della coppia di autori si propongono di colmare la
mancanza di «un artigianato pulito dignitoso»10 nella cultura
non solo letteraria italiana, denunciata da Del Monte dieci anni
prima della pubblicazione de La donna della domenica, quando la coppia si dedicava soprattutto a traduzioni e antologie
della tradizione anglosassone, notoriamente ricca e fiorente in
quanto a polizieschi, romanzi di fantascienza e ghost stories,
non a caso cardini della loro successiva produzione narrativa.
È tuttavia il cinema in generale, e quello di Hitchcock in
particolare, a dare uno spunto di primaria importanza alla
produzione romanzesca delle coppia di autori: Dickens,
Stevenson, Simenon quindi, ed Alfred Hitchcock. La Torino
degli anni Settanta del Novecento era una città difficile, dove
si respirava un’aria pesante, fra crisi industrial produttive,
riprese, contestazioni, rivendicazioni (studentesche, femministe, operaie, sindacali) anni di piombo, memorie spesso
insincere di gloria sabauda e presente denso di pericoli e
degrado. La decisione della coppia di ambientare un poliziesco proprio nella loro città, nel presente e negli ambienti
soprattutto borghesi, se da un lato rispondeva all’impulso di
descrivere ciò che si conosce più intimamente, dall’altro era
un tentativo di rappresentazione dell’ignoto sotto le vesti e
Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2007, p. 41.
6
CARLO FRUTTERO, Al foro romano, in ID., Ti trovo un po’ pallida cit.,
p. 52.
7
GINO TELLINI, Il romanzo italiano dell’Ottocento e Novecento, Milano,
Bruno Mondadori, 1998, p. 471.
8
Si veda il volume einaudiano:
DICKENS FRUTTERO & LUCENTINI, La
verità sul caso D., Torino, Einaudi,
1989 e 2005.
9
Opera di capitale importanza per
avvicinarsi al lavoro di mediatori prima che di traduttori e divulgatori di
F&L certamente il volume: FRUTTERO
E LUCENTINI, I ferri del mestiere. Manuale involontario di scrittura con esercizi svolti, Torino, Einaudi, 2003 e
2004.
10
ALBERTO DEL MONTE, Breve storia del romanzo poliziesco, Bari, Laterza,
1962, p. 7: «Nella cultura italiana, nella letteratura, come nel cinema, come
nella musica, manca, salvo rare eccezioni, un artigianato pulito, dignitoso,
fatto con finalità commerciali, ma con
serietà e accuratezza».
106
le maschere del molto noto, del quotidiano. E se per molti
aspetti la Torino borghese di Fruttero e Lucentini non è dissimile dalla Torino borghese e positiva (ma con molti lati noir,
fra occultismo e crimine) fin de siècle di De Amicis, l’elemento che la coppia inserisce nel proprio romanzo, e di elemento hitchcockiano senza dubbio si tratta, è una trovata
geniale. Né poteva essere altrimenti da chi respirava quotidianamente l’aria della città di Cuore novant’anni dopo, e lo
faceva traducendo e curando l’edizione di molte opere ottocentesche angloamericane, Dickens in testa:
Il massimo assoluto del terrore si raggiunge quando una cosa
vista sempre come familiare, sia gatto, albero, pioggia, marito, figlio,
segretario comunale, [...] eccetera, rivela di colpo la sua “diversità”. Una diversità ostile, s’intende; o ritenuta tale. Non altro faceva Hitchcock se non allargare delicatamente, elegantemente, questo solco “diverso”, questo margine di mistero latente in ogni cosa
intorno a noi, animata o inanimata11.
Torino12, che «del miracolo economico, fu artefice, protagonista e vittima»13, è la città in cui si svolge l’azione romanzesca di entrambi i gialli di Fruttero e Lucentini.«Protagonista
indiscussa»14 è la scacchiera, lo sfondo, il contesto e l’habitat
della varia e multiforme umanità descritta, ma è allo stesso
tempo personaggio – come scrisse Luigi Firpo, «studioso
bibliofilo» nonché «appassionato commentatore della quotidianità»15: «una Torino che sembra di poter toccare quanto
è vera»16 – quando è al centro della concezione che di essa
hanno gli altri personaggi, e diviene fulcro della riflessione
stessa della concezione e dell’idea di città come luogo e come
insieme di infinite potenzialità. Questo duplice livello – Torino
come luogo dell’azione (secondo Firpo, «uno scenario ideale per rappresentare alienazioni e compromessi, snobismi e
luoghi comuni, l’affollamento disorganico e l’incomunicabilità»17) e Torino come concetto storico/ideologico – è a mio
parere ben presente e operante in entrambi i romanzi.
Se un esempio eclatante della percezione di Torino come
luogo concettuale del male e della devianza si trova già perfettamente enunciato più o meno a metà del primo romanzo, con un gustoso capovolgimento del senso di primato dei
torinesi18, certo le due opere non sono avare di riferimenti
costanti alla topografia reale e storica della città:
Torino è una città pericolosamente mascherata. Non è affatto
sobria e diffidente. Anzi. È la più pronta a captare il Male da ogni
angolo della terra, e la sua funzione è di spargerlo in giro per il resto
della penisola. Dice che se uno ci fa caso, in ognuno dei flagelli che
opprimono la patria ci trova sempre sotto la mano torinese [...] la
prima automobile, i primi consigli di fabbrica, il cinema, la prima
stazione radio, la televisione, gl’intellettuali di sinistra, i sociologi, il
Libro Cuore, il cioccolatino di lusso, l’opposizione extraparlamentare, insomma tutto [...] è una città straniera che odia il resto d’Italia
e manda i suoi messaggeri maledetti a diffonderci ogni più abominevole trovata19.
11
Una sola parola: Murder! (1980),
in FRUTTERO E LUCENTINI, I ferri del
mestiere cit., p.155.
12
Come scrivono Tranfaglia e
Mantelli a proposito della Torino degli
anni ’70, ‘personaggio’ e sfondo dei
due romanzi presi in esame: «All’inizio
degli anni Settanta Torino attraversa
un momento di crisi dei vecchi equilibri politici e di notevoli difficoltà
dovute a fattori politici, culturali, sociali ed economici». NICOLA TRANFAGLIABRUNELLO MANTELLI, Apogeo e collasso della «città-fabbrica»: Torino dall’autunno caldo alla sconfitta operaia
del 1980, in Storia di Torino. Gli anni
della repubblica, a cura di Nicola Tranfaglia, Torino, Einaudi, 1999, vol. 9,
p. 830.
13
GIOVANNI GARBARINI, Le culture
dello sviluppo, in Storia di Torino cit.,
p. 714.
14
ELENA CLERICO, Polilinguismo nei
romanzi torinesi di Fruttero e Lucentini,
in «Studi Piemontesi», XXXIV, 1
(2005), pp. 15-26: «la realtà urbana,
pur essendo estremamente organizzata, strutturata, tecnologica, affollata, è
in verità una giungla avventurosa,
minacciosa, caotica, in cui gli abitanti, anonimi, si mimetizzano fra la folla e si scontrano» (p. 16).
15
ANGELO D’ORSI, Laboratorio di
culture, in Storia di Torino cit., p. 472.
16
LUIGI FIRPO, Giallo a Torino. La
donna della domenica, in «La Stampa»,
25 aprile 1972, p. 3.
17
Ibidem.
18
Come scrive Garbarini: «Molti
torinesi si sono convinti di vivere in
un luogo in cui tutto avviene in modo
straordinario ed anticipatore: dai meriti storici per aver attuato l’Unità italiana, a quelli derivati dall’aver fatto
nascere ciò che ha contraddistinto il
nostro secolo: il cinema, la televisione, e l’automobile. Né la convinzione
del primato è appartenuta soltanto ad
una parte politica o sociale della città:
È stata valida in tutti gli ambienti».
GIOVANNI GARBARINI, Le culture dello
sviluppo, in Storia di Torino cit., p 753.
19
FRUTTERO & LUCENTINI, La donna della domenica, Milano, Mondadori,
1972, pp. 245-246. D’ora in poi DD.
107
La Torino reale e topografica del centro storico, dei grandi mercati, del Po e della Dora, dei corsi e viali alberati, delle strade e vie umide e perennemente intasate di traffico, è
al centro dei romanzi in quanto tutti i personaggi e particolarmente i protagonisti non fanno che spostarsi continuamente da un punto all’altro della città, dal centro alla periferia, alla cintura, e perfino (nel secondo romanzo soprattutto) nella Provincia. Gli autori hanno impostato ognuno
dei romanzi in modo da privilegiare l’aspetto dinamico della vita e delle vicende dei personaggi e dello sviluppo delle
indagini, condotte in entrambi i libri dal commissario
Santamaria, meridionale ex-partigiano e di recente immigrazione a Torino. Costui, che di Maigret 20 ha la flemma, di
Sherlock Holmes l’implacabilità e l’acume, di Poirot lo spirito dell’umorismo e di italiano ha un certo fatalismo e un
fondo di coriaceo buon senso, «aveva i capelli nerissimi (con
una percentuale non decisiva di fili grigi), occhi nerissimi,
baffi nerissimi, sopraccigli nerissimi»21 e, ironicamente, alla
fine di ogni indagine –indagine che l’ha invariabilmente condotto a battere Torino palmo a palmo- finisce a letto con un
personaggio femminile, la ricca Anna Carla nel primo romanzo, la madre di Thea, anch’essa alto borghese e con pretese
di raffinatezza, nell’altro romanzo. Attraverso gli occhi e la
mente del commissario Santamaria, uomo venuto da fuori,
Torino e i suoi abitanti possono agire e venire rappresentati. Il tema scottante dell’immigrazione e dell’accoglienza dei
meridionali a Torino, il razzismo e le discriminazioni seguite all’arrivo massiccio d’immigrati soprattutto meridionali
degli anni Sessanta, il sentimento diffuso di paura, disprezzo e colpevolizzazione22 viene dagli autori descritto nei suoi
effetti più aberranti:
A Torino il commissario aveva incontrato perfino dei Pugliesi,
dei Calabresi che parlavano dall’alto in basso dei ‘terroni’. Era come
un morbo locale e inevitabile, la malaria, la febbre gialla: dopo un
po’ che stavano qui, tutti cominciavano a cercare qualcuno che fosse più a sud di loro, anche di mezzo chilometro (DD: p. 161).
La caratterizzazione della malavita meridionale impiantata a forza nel Nord Italia è ampia e dettagliata in A che punto è la notte. La riflessione muove dalla descrizione delle vicende di un ragioniere della mafia, Graziano, con cui la bella e
libera Thea ha una storia d’amore. Graziano è l’ ’altro’ rispetto a Thea e al suo ambiente alto borghese torinese, ma è altro
anche rispetto all’onesto servitore dello Stato commissario
Santamaria, altro lato di una medaglia tutta italiana, da nord
a sud. La squallida realtà mafiosa, e soprattutto di quegli emissari mafiosi obbligati a vivere nel Nord, è concepito in modo
pittoresco e surreale da Thea che non può che fantasticare
davanti ad una realtà che non può conoscere:
20
In un recente saggio Elisabetta
Bacchereti, tracciando un agile e acuto percorso tematico e critico all’interno del genere ‘noir’ e ‘poliziesco’,
scrive a proposito del personaggio creato da Simenon, parole che a mio parere si adattano benissimo all’intento che
Fruttero e Lucentini si sono prefissati scrivendo i loro polizieschi, e particolarmente quelli di ambientazione
torinese: «Con Maigret il giallo esce
dalle camere chiuse e dagli interni borghesi o aristocratici, respira l’aria cittadina, l’atmosfera dei quartieri, delle strade e dei vicoli, si incontra con
la miseria e il vizio». ELISABETTA BACCHERETI, Giallo e noir. Dalla tradizione al postmoderno, in «Paragone letteratura», LIX (2008), p. 123.
21
FRUTTERO & LUCENTINI, A che
punto è la notte, Milano, Mondadori,
1979, p. 438. D’ora in poi PN.
22
Fabio Levi così descrive la percezione dei meridionali da parte dei
torinesi, orientati dal maggior organo
d’informazione quotidiano, «La Stampa»: «Se un lavoratore [meridionale]
s’infortunava era quasi sempre perché
non aveva prestato sufficiente attenzione, spinto magari dalla sottovalutazione delle misure di sicurezza e dall’ignoranza della dura realtà dell’industria o dei grandi cantieri moderni.
Se le famiglie d’immigrati erano per
lo più stipate in abitazioni fatiscenti,
questo accadeva per l’inveterata abitudine dei meridionali di avere troppi figli o per la loro diffusa tendenza
a non rispettare la proprietà altrui: tanto che in quelle condizioni i torinesi
erano pienamente legittimati a non
affittare i loro alloggi alle famiglie del
Sud [...] In fin dei conti dunque qualsiasi responsabilità era fatta ricadere
sugli immigrati. Loro erano la causa
di tutto». FABIO LEVI, L’immigrazione,
in Storia di Torino cit., pp. 176-177.
Il pensiero della Sicilia cominciò a ricaricarla. Graziano era
sicuramente un mafioso, e la mafia proteggeva i suoi come figli,
tutti lo dicevano, film, libri, giornali, inchieste sul Mezzogiorno.
108
Non era una leggenda, c’erano le prove. appena uno di loro veniva preso, tutta l’organizzazione si metteva immediatamente in moto
(PN: p. 218).
Assai meno immaginifica e romantica è al contrario la
realtà del crimine organizzato meridionale impiantato a Torino
e dintorni, descritto dagli autori con ironico distacco:
Chissà com’era stato fiero della sua invenzione, chissà come gli
era parsa geniale l’idea di allontanare quei criminali dal loro habitat in Sicilia e in Calabria, costringendoli a vivere nei piccoli comuni attorno alle metropoli del nord, dove l’ambiente li avrebbe domati, se non addirittura redenti. A questo colossale errore di valutazione, che aveva sparso la mafia per tutta l’Italia come la rete di
assistenza Fiat (PN: p. 340).
Non solo quindi Torino è continuamente percorsa e attraversata durante le serratissime indagini di Santamaria, via per
via, quartiere per quartiere, dal centro alla periferia e viceversa23, ma questa struttura narrativa a due livelli permette
anche, come si accennava, la riflessione sistematica su Torino
come luogo fisico, simbolico, e come autentico ‘personaggio’
romanzesco. Personaggio ‘nero’ per eccellenza, la Torino degli
anni ’70 descritta nei due romanzi, è anzi, ‘marcia’, in quanto vi aleggia:
Un indefinibile senso di marciume che emanava dal Garrone
come se in lui fossero concentrati – ma corrotti, putrefatti, sinistramente esasperati, stravolti da una mortuaria alchimia – difetti
e virtù di una Torino sepolta di fresco, o comunque in rapida decomposizione: la parsimonia, ma incancrenita nei modi del morto di
fame; il riserbo, ma degradato a losca elusività; il conformismo, ma
fermentato in progressive purulenze; la cortesia, ma liquefatta in
adulazione; il vecchio stile, ma mangiato dai vermi di abbiette civetterie, di atroci vezzi (DD: p. 79).
La Torino del primo romanzo è squallida e sinistra in
modo integrale, non solo, è una città brutta a prescindere da
differenze sociali e topografiche al punto che, ironicamente,
«Non era questione di quartieri ricchi e quartieri poveri, come
di solito succede nelle altre città: qui, il lugubre, evidentemente, era distribuito con puntigliosa equità, era democratico» (DD: p. 107). Squallore invincibile e opprimente, che
compare nella narrazione fin dall’inizio dell’altro romanzo24,
A che punto è la notte, più cupo perché incentrato sui legami fra fanatismo religioso, miseria morale, giochi di potere,
truffe alla Fiat e malavita organizzata meridionale in città e
provincia. Lo squallore invade e distrugge25 perfino un quartiere-giardino mancato, creato ad hoc all’estrema periferia26
della città, dove «ciuffi d’erba giallastra, calve radure, informi gibbosità e tumuli di aiuole sconfitte erano tutto ciò che
restava delle zone verdi e fiorite immaginate dai pianificatori» (PN: p. 8).
Se anche l’azione di questo cospicuo romanzo spazia dalla
periferia, alla cintura «una spelacchiata giungla di provincia,
23
La donna della domenica, non a
caso, si apre con un periplo nel centro della città della prima vittima del
romanzo, l’architetto Garrone, che si
muove nelle centralissime Via Cibrario,
Piazza Statuto, Via Garibaldi, Porta
Palazzo (p. 7) per giungere nella piazza centrale di Torino per antonomasia, Piazza Castello (p. 8), e Via Venti
Settembre (Ibidem), di nuovo la centralissima Via Mazzini, luogo del delitto (p. 46). Come altro elemento di
caratterizzazione torinese compare
spesso il nome della testata giornalistica più diffusa a Torino da due secoli a questa parte, La Stampa (per esempio alle pp. 9 e 60). Di Torino e del
suo centro compaiono inoltre la
Galleria e i Portici di Corso Vittorio
Emanuele II (p. 88), la Stazione di
Porta Nuova e il quartiere di San
Salvario (pp. 88-89 e segg.); la collina
torinese (pp. 120 e 190). Particolarmente significative sono le descrizioni di Corso Belgio, viale alberato,
secondo il commissario Santamaria
«uno dei massimi campioni europei,
se non mondiali, del lugubre urbano»
(p. 239); il Po e i vari ‘Lungo Po’ (p.
390), la cascina-villa sulla collina torinese (luogo hitchcockiano per eccellenza, versione torinese del sinistro
Motel di Psycho, in cui non a caso la
vicenda si conclude con lo svelamento del colpevole, del movente e del
modus operandi, pp. 190; 403 e segg.)
Le centrali Piazza Madama Cristina e
via Berthollet (p. 267); il folcloristico
e immancabile mercatino torinese delle pulci detto ‘Balon’ (pp. 271 e segg.)
luogo fondamentale del romanzo, in
cui una lunga e complessa sequenza
permette d’incontrare e descrivere contemporaneamente un’ampia lista di
personaggi fondamentali dell’opera,
sequenza che occupa varie decine di
pagine e che si conclude con il secondo e ultimo omicidio dell’azione narrativa (pp. 303 e segg.) I centralissimi
e labirintici Uffici tecnici della Regione
(p. 370), poi di nuovo il centro di
Torino: «La via era stretta, buia, e la
luce che passava tra le stecche delle
persiane aveva, dall’alba al tramonto,
variazioni gradualissime, impercettibili. Solo i rumori cambiavano, regolavano il corso del tempo: ma oggi era
domenica, una domenica di giugno nel
vecchio centro della città, tagliato fuori dall’arco dei grandi rientri festivi,
chiuso in un guscio forse sicuro, prezioso, inalterabile, o forse invece di
una fragilità senza avvenire» (p. 422).
24
Come scrisse nel 1979 Luigi
Firpo: «E ritorna il fondale della città
smorta, spruzzata di nevischio: torna-
109
talvolta un po’ sinistra, sempre deprimente» (Firpo 1979)
fino al centro storico dove sorge la fondamentale – dal punto di vista dell’azione romanzesca – Chiesa di Santa Liberata27,
nulla dell’ampio potenziale descrittivo e caratterizzante della Torino topografica e ambientale28 è lasciato al caso pur
restando, come scrisse Firpo, il ruolo di protagonista della
città29. Il senso dell’incombenza, a tratti raggelante e minacciosa, dello squallore e del degrado, nei due romanzi autentico riflesso del degrado e dello squallore esistenziale dei personaggi, sia colpevole che innocenti, sia vittime che oppressori, trova una concretizzazione visiva, a mio parere, unica
nella descrizione del degrado della cintura torinese, del caos
assoluto e desolante delle costruzioni e dei resti di un passato remoto e recente che in Fruttero e Lucentini non ha mai
dimensioni mitiche né gloriose:
Sentieri da pascolo in terra battuta correvano accanto a superstrade a quattro corsie, tortuose carreggiate comunali e provinciali si dilatavano in grandi arterie di circonvallazione, levigatissimi
asfalti incrociavano bubbonici strati di bitume rappezzati alla meglio
da cantonieri in bicicletta. In quella aggrovigliata trama di snodi e
raccordi, di bivî, quadrivî, sopravvie, diramazioni, ponti a schiena
d’asino e campate d’acciaio e di cemento, orientarsi era diventato
un problema anche di giorno e senza nebbia (PN: p. 52).
Incroci, sovrapposizioni, intersezioni, complessità, finzioni e scioglimenti: la descrizione del degrado urbano e
suburbano, unita all’eviscerazione della casistica umana e del
degrado del tessuto sociale cittadino così ben delineati e descritti dai due autori giustifica l’inserimento delle loro opere nel
contesto culturale e letterario del romanzo italiano del secondo Novecento e particolarmente nell’ambito di quel ‘best seller all’italiana’ studiato da Ferretti30 proprio per il periodo cruciale dei decenni compresi fra gli anni Sessanta e Ottanta del
secolo scorso. Romanzi di qualità, quindi, best sellers (e, aggiungerei, long sellers) polizieschi brillanti che permettono agli autori un’autentica ed approfondita analisi nonché la descrizione
di una città e di un vasto e multiforme campionario umano
che la popola, senza d’altro canto nulla togliere al genere letterario scelto come contenitore, il noir, o meglio il poliziesco
italiano contemporaneo31, con i suoi schemi narrativi, i suoi
moduli formali, i topoi contenutistici e il corredo di personaggi
e situazioni caratterizzanti.
L’abiezione, la pochezza e lo squallore umano informano
di sé le azioni dell’assassino – anzi dell’assassina – del primo
romanzo, un’anziana vedova piemontese benestante che si traveste (hitchcockianamente!) da prostituta per il primo omicidio e da vedova in lutto stretto nel secondo, per uccidere per
futili motivi, anzi: «solo per dei soldi, alla fine» (DD: p. 421),
e peggio ancora: «perché lei mica li voleva spendere: non li
voleva dare. È diverso» (DD: p. 422). In A che punto è la notte, pur continuando a non sfiorare temi caldi della Torino degli
anni Settanta32, da moventi quali la lottizzazione di un prato
no le viuzze del vecchio centro, buie,
con le decrepite bottegucce artigiane
–il riparatore di ceramiche spezzate,
il materassaio- le beghine contegnose
e ciarliere, le piccole chiese semideserte, gelide, con i loro taumaturghi
di gesso, le immagini sacre zuccherose o truculente, gli odori di cera o d’incenso». LUIGI FIRPO, Notti di mistero
e delitti a Torino. Il romanzo di Fruttero
e Lucentini, in «La Stampa», 1° dicembre 1979, p. 3.
25
I piani di urbanizzazione e ricostruzione del secondo dopoguerra,
oggetto dello studio di De Magistris,
rivelano come nei decenni centrali del
Novecento, e particolarmente negli anni
Cinquanta e Sessanta, fossero lacunosi e non alieni da disordini e disinteresse verso l’ambiente umano e naturale. In questo contesto la Torino dei
due romanzi di Fruttero e Lucentini
risente dell’incuria delle amministrazioni e delle costruzioni selvagge, purtroppo in un contesto in cui il «primato
della libera iniziativa e quel diritto alla
legittima rendita da parte dei proprietari [...] costituì, senza dubbio, il vero
filo conduttore del periodo». ALESSANDRO DE MAGISTRIS, L’urbanistica della grande trasformazione (1945-1980),
in Storia di Torino cit., p. 211.
26
Scrive Stefano Musso a proposito della crescita disordinata di Torino
nei decenni del dopoguerra, e particolarmente degli anni di maggior immigrazione, a ridosso degli anni Sessanta:
«La crescita urbana, dunque, non seppe soddisfare criteri di equità né di efficienza quanto alle funzioni residenziali e alla vivibilità urbana, che restò confinata alle poche isole felici già da tempo prevalentemente riservate alla residenza borghese», STEFANO MUSSO, Il
lungo miracolo economico. Industria,
economia e società (1950-1970), in Storia
di Torino cit., pp. 59-60.
27
Attraverso la descrizione della
buia, fredda e allucinante chiesa fittizia di Santa Liberata e della varia umanità di esseri feriti, ingannatori, fanatici e trafficoni che la frequenta, gli
autori delineano una tematica tutt’altro che secondaria nella Torino degli
anni Settanta, la riorganizzazione inquieta e problematica della città con
il corollario di polemiche e conflitti.
Con l’usuale acume e ironia Fruttero
e Lucentini descrivono un ambiente
angusto e difficile che però in qualche
modo sembra già presagire futuri e
gravi problemi: «l’istituzione ecclesiastica diocesana, tradizionalmente meno
solida che in altre Diocesi italiane,
incontrò notevoli difficoltà non solo a
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sulla collina Torinese si passa ad una complessa frode aziendale in cui sono coinvolti, un prete misticheggiante, un ingegnere e un quadro Fiat, attivi a vario livello in una truffa dissacrante che permette agli autori di aprire la loro opera a temi
assai familiari ai lettori torinesi e italiani in quanto coinvolgono l’industria pesante leader del settore prima delle crisi degli
anni Novanta e i riassesti trasformistici degli ultimi anni. Parlare
della Fiat è parlare di Torino33, descrivere la Fiat è descrivere
la città di Torino34 e i suoi equilibri, squilibri, speranze, nevrosi e sconfitte:
Perché la Fiat era la prima responsabile delle degradazioni, le
vergogne, le disastrose miserie cui era arrivata Torino. La Fiat s’era esclusivamente, ciecamente preoccupata di fabbricare il maggior
numero di automobili e di venderle al maggior numero possibile
di persone (PN: p. 105).
Muoversi con e attraverso la Torino nera degli anni Settanta
permette a Fruttero e Lucentini di enucleare un universo
umano e materiale di rara complessità e di suggestivo splendore nell’ambito di due romanzi magistralmente concepiti e
finemente delineati, due opere che s’inseriscono nel panorama romanzesco italiano contemporaneo35 come autentici best
sellers di qualità e sostanza.
rispondere, ma soltanto ad adeguarsi
alla somma di sollecitazioni e di problemi che le vennero posti in un ventennio in cui il volto di Torino mutò,
sotto ogni aspetto, con accelerata progressione». BARTOLO GARIGLIO, FRANCESCO TRANIELLO PAOLO MARANGON,
Chiesa e mondo cattolico, in Storia di
Torino cit., p. 357.
28
Anche nel secondo romanzo di
ambientazione torinese della coppia
di autori, A che punto è la notte, sono
poche le parti di Torino e dintorni che
vengono lasciate in ombra. Come nel
romanzo precedente anche qui i personaggi non fanno che muoversi e spostarsi da una parte all’altra della città.
Nei due romanzi infatti, inquirenti a
parte, cambiano i personaggi mentre
resta centrale il ruolo ambientale e
caratterizzante della città e del suo
ampio (e spesso assai degradato) tessuto urbano. Dalla periferia estrema
dell’inizio del romanzo al centro delle pagine immediatamente successive
si passa con il solito eccezionale dinamismo alla cintura, di una Torino
‘scoppiata’ (p. 52) : «Tra Leinì e Volpiano, tra Pianezza, Venaria, Alpignano, Orbassano, None, fra tutti gli
antichi paesi della cintura, la città,
scoppiando, aveva piantato le sue
schegge e disseminato i suoi brandelli». Dalla periferia estrema e dalla cin-
tura si torna poi nella centralissima
(percorsa due secoli prima da Alfieri
a cavallo!) Via Po, con le caratteristiche bancarelle di libri usati (p. 68),
agli Uffici dirigenziali della Fiat di
Corso Marconi nel popolare quartiere di San Salvario (p. 74), a Stupinigi,
dove sorge una suggestiva palazzina
di caccia dei Savoia da anni teatro di
restauri e degrado, luogo di cultura e
luogo di prostituzione e spaccio (p.
96); Via Accademia delle Scienze, via
assai elegante e centrale (p. 118); i fiumi Dora e Stura (pp. 230 e 250); la
centrale e sobria Piazza Carlo Emanuele II, detta familiarmente dai torinesi Piazza Carlina e di cui gli autori
fanno un’irresistibile storia e descrizione secondo i crismi di un’impeccabile classica descriptio loci (pp. 3456). Compare inoltre l’immancabile e
pittoresco mercato di Porta Palazzo
(p. 395) per proseguire con una rapida e incalzante enumerazione di vie,
corsi, luoghi accelerata ma pur sempre godibile: Corso Allamano (p. 399),
Corso Rosselli (p. 406), Via Sacchi e
Corso Sommeiller (p. 407), Via Stradella (p. 416) e Porta Susa (p. 427).
Né può del resto mancare lo Stadio
Comunale (pp. 492-3), e, verso la fine,
una via molto caratteristica del quartiere San Salvario, Via Valperga Caluso
(p. 585).
29
«Ma la Torino che nel secondo
libro si arroga il ruolo di protagonista
è quella delle anonime periferie, dei
casamenti-alveare tutti uguali, allineati lungo i nastri d’asfalto, e ancora più
quella degli incerti suburbi, la degradata terra di nessuno che ancora affiora a chiazze tra le proliferanti escrescenze della città e gli agglomerati in
espansione esplosiva della cintura».
Firpo 1979.
30
G. C. FERRETTI, Il best seller all’italiana. Fortune e formule del romanzo ‘di qualità’, Roma-Bari, Laterza,
1983.
31
Oltre ai già citati studi di Alberto
Del Monte e di Elisabetta Bacchereti
mi sono stati particolarmente utili ai
fini della stesura di questo studio, sia
per l’approccio critico che per la metodologia di analisi, gli studi di GIUSEPPE
PETRONIO, Sulle tracce del giallo, Roma,
Gamberetti, 2000 e La trama del delitto. Teoria e analisi del racconto poliziesco, a cura di Renzo Cremante e
Loris Rambelli, Parma, Pratiche, 1980,
oltre naturalmente a opere ormai classiche come le pagine sul poliziesco di
Gramsci e Sciascia.
32
«All’inizio degli anni Settanta
Torino attraversava un momento di
crisi dei vecchi equilibri politici e di
notevoli difficoltà economiche dovute a una molteplicità di fattori». NICOLA
TRANFAGLIA, L’incerto destino della capitale del miracolo, in Storia di Torino
cit,, p. 42.
33
Un passo rivelatore, a mio avviso, riguarda la Fiat e le possibili conseguenze di un’inchiesta che la riguarda, situazione ironicamente e realisticamente immaginata nella seconda
metà de A che punto è la notte: «Nulla
infatti come l’eventualità di tirar dentro a un’inchiesta la Fiat aveva il potere di trasformare in giganti del pensiero dei semplici funzionari di polizia. Nessun ragionamento, argomentazione, ipotesi, nessuna forma di sillogismo, nessuna analitica o sintetica
sottigliezza poteva essere trascurata
per accertare se fosse veramente il caso
di andare a rompere i coglioni alla
Fabbrica Italiana Automobili Torino»
(PN: p. 471).
34
Scrive ancora Tranfaglia a proposito della Fiat e del suo rapporto
viscerale d’interdipendenza con la città
di Torino: «Una grande azienda che
aveva ormai assunto dimensioni gigantesche ed era in grado di dominare
completamente l’economia cittadina e
regionale e diventava quasi l’unico referente dello sviluppo, ma anche del-
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l’organizzazione cittadina. La Fiat,
diventata la maggiore impresa privata nazionale, disponeva di conseguenza
a livello politico e mediatico (l’assenza a Torino di quotidiani che potessero competere per mezzi e qualità del
prodotto con «La Stampa» di proprietà della famiglia Agnelli accentuava
il monopolio)». Nicola Tranfaglia,
L’incerto destino della capitale del miracolo, in Storia di Torino cit., p. 18.
35
A questo proposito sono a mio
parere importanti le parole della
Bacchereti che scrive a proposito del
genere poliziesco: «Un genere letterario bollato fin dalle origini come
romanzo d’evasione e intrattenimento, buono per ammazzare il tempo
nell’anticamera di un gabinetto medico o durante un viaggio in treno, ora
presenta le credenziali, oltre che di
fenomeno editoriale di straripante
successo (in tutte le sue varianti), di
una letteratura di rinnovato ‘impegno’ etico e civile». Elisabetta Bacchereti, Giallo e noir Il nome della
rosa di Eco.
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