Pubblicare e/è mentire
Scrittori senza nome, strani tipografi, inesistenti località
In questi ultimi decenni c’è a chi piace vedere nella ‘rivoluzione digitale’ nuovi rischi – per esempio quello che verrebbe ad
affliggere la tutela della proprietà intellettuale1 a causa dei minimi costi della riproduzione delle opere e della loro evanescente
tracciabilità, dato che ogni “riproduzione” digitale è, a sua volta, un “originale”, diversamente da quello che avviene allorché la
riproduzione di un’opera è affidata a una tipografia tradizionale o a uno studio di registrazione – e nuovi pericoli per i poteri
costituiti, pericoli e rischi ai quali si deve rispondere, qualcuno pensa, con strumenti affatto nuovi e inusitati. In realtà c’è molto meno
di nuovo di quanto a qualcuno piaccia o al quale sia conveniente credere.
Nuova è sicuramente la scala o, meglio, neanche nuova ma di ben più ampia portata: dalle poche copie di un’opera che un
amanuense (o, piuttosto, uno scriptorium) poteva riprodurre in un arco ragionevole di tempo, al qualche centinaio che rappresentava
la capacità di una tipografia tradizionale2, fino alla riproducibilità potenzialmente infinita che caratterizza l’era digitale e che ha i suoi
1
La proprietà intellettuale dell’opera e, come per ogni forma di possesso, i diritti che su questa si esercitano è più recente di quanto spesso
non si pensi. Nella Francia della prima metà del Seicento
«[...] souvent les auteurs ou leurs héritiers se contentent de demander aux libraires un certain nombre d’esemplaires. [...]
Très souvent pourtant, les écrivains vendent soit le manuscrit d’une oeuvre, soit le privilège qui leur a été accordé pour
l’impression de celle-ci. Parfois encore, ils s’obligent par contrat envers un libraire à composer, moyennant rétribution, un ouvrage donné.
L’habitude de vendre un manuscrit apparaît particulièrement courante, et peut-être précoce, pour les pièces de théâtre, sans
doute parce que les auteurs de celles-ci étaient déjà par ailleurs accoutumés à céder contre argent aux comédiens les textes par eux
composés. [...]
[...] à quelques exceptions près, la plupart des auteurs de ce temps, s’il prennent l’habitude d’exiger un payement de leur
libraire, ne peuvent point en obtenir ce qu’il leur faudrait pour subsister décemment [...]» [Henry-Jean MARTIN Livre, pouvoirs et société
à Paris au XVII siècle (1598-1701) Genève: Librairie Droz, 1984 (réimpr. de l’édition de Genève, 1969, p. 424-429 passim <BUG
15.E.VI.19>]
In Inghilterra il copyright venne introdotto nel 1774 e negli Stati Uniti – dove aveva una durata di 14 anni, rinnovabili per altri 14 con
l’autore ancora in vita - nel 1790, per passare, nel 1831, a una durata che poteva raggiungere i 42 anni.
Occorre prestare particolare attenzione a non confondere il concetto di “proprietà intellettuale” con quello precedente dei “privilegi”.
Questi ultimi denotavano un regime di monopolio (limitato nel tempo) al fine di garantire che l’autore e chi altro fosse coinvolto nella produzione e
nella diffusione di una creazione dell’intelletto (letteraria, poetica, filosofica... grafica e musicale, tutto ciò insomma che potesse essere riprodotto per
mezzo della stampa) fosse in grado di recuperare le spese sostenute e auspicabilmente potesse ottenere un utile economico.
Sebbene oggi possa apparire strano che un autore non abbia il possesso, e i conseguenti diritti, di un’opera di sua creazione, non bisogna
risalire poi così addietro nella storia per scoprire che l’autore non viveva grazie ai diritti (che peraltro non aveva) sulla sua opera ma sulla fama, sulla
notorietà che questa rifletteva su di lui. Era grazie alla fama che otteneva doni, stipendi, incarichi di precettore per i figli di nobili e di ricchi borghesi,
cattedre universitarie, incarichi di organista o maestro del coro in una cattedrale, cariche nell’amministrazione dello stato o a Palazzo... L’ambito
musicale è forse quello che meglio illustra che cosa significasse, per lo meno fino alla fine del barocco, essere un compositore. Se si guardano le
partiture originali di quell’epoca, si può restare stupiti di fronte all’esigua quantità di note scritte rispetto a quelle che si ascoltano nel corso
dell’esecuzione. E in effetti le note scritte sono in minor numero di quelle eseguite perché il compositore e l’esecutore sanno dove e in che modo
devono essere inseriti, per usare il termine più generico, gli “abbellimenti” (che in seguito verranno codificati, alcuni sotto forma di una specifica
simbologia, altri attraverso la precisa trascrizione di tutte le note che, a questo punto, devono essere eseguite. Per avere un’idea su questo interessante
tema si veda almeno: Walter EMERY Gli abbellimenti di Bach Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 1998), senza contare che il compositore si
aspetta inoltre che l’esecutore apporti il suo contributo con “variazioni” e personali interpretazioni. Sebbene il lavoro del compositore sia riconosciuto
e opportunamente valutato per la qualità delle sue creazioni, è lo stile esecutivo a essere premiato, è la capacità di creare seguendo il canovaccio
prestabilito dall’autore. Se così non stessero le cose, sarebbe difficile comprendere perché tanti autori, anche famosi (in tutto circa 150 in un arco di
tempo di tre secoli. Tra questi: Lully, Corelli, Marais < http://www.youtube.com/watch?v=ylBj5qZb71M >, A. Scarlatti, Vivaldi, Geminiani, Händel,
J.S. Bach, Liszt, Rachmaninov), si siano cimentati con un tema, che ha le sue radici nella musica popolare spagnola, come quello della “Folia”.
Si può riscontrare lo stesso meccanismo, lo stesso approccio creativo di fronte a un “tema dato”, di fronte a schizzi e suggerimenti che
vengono da un passato anche lontano, in due ambiti artistici apparentemente distanti come quello della musica afro-americana e quello dei grandi
poemi epici dell’antichità. Nessun jazzista, come nessun aedo, pretende il possesso di ciò che propone al suo pubblico: è solo il portavoce di una
tradizione e sarà premiato solo per le sue peculiari capacità nel rivestire questo ruolo. In altri termini un esecutore, anche di mediocri capacità,
dell’epoca barocca (ma questo vale anche negli ambiti del jazz, del blues e del rock) era in una certa misura anche un “compositore”, sebbene le sue
interpretazioni, le sue variazioni, le sue improvvisazioni ben di rado venissero fissate dalla scrittura. Gradatamente questa libertà esecutiva venne
limitata, fino ad arrivare alla scrittura, precisa nel modo più assoluto, non solo di tutte le note ma anche dello stile interpretativo e, per quello che
riguarda gli strumenti ad arco, di quale porzione dell’archetto dovesse essere utilizzata, se il movimento dell’archetto dovesse andare dal tallone alla
punta o viceversa, quale e che tipo di pressione si dovesse esercitare sull’archetto e, di conseguenza sulle corde, ecc. Conseguenza di questa
privazione di libertà esecutiva fu una perdita della capacità di improvvisare, di interpretare autonomamente, portando a una netta separazione tra il
musicista-compositore e il musicista-esecutore, al punto che, in epoca romantica, la capacità di improvvisazione è ormai appannaggio solo dei grandi
virtuosi (Paganini, Liszt, Chopin...) che, proprio da questa capacità, trarranno una considerevole parte della loro fama.
Si veda anche: Lawrence LESSIG Free culture: the nature and future of creativity New York: Penguin Books, 2004, p. 86 ss.
2
Per rendere un’idea di quale fosse la capacità produttiva di un’officina tipografica di Età Moderna (e dunque con l’impiego del torchio “a
braccia”, in pieno ‘700 ancora sostanzialmente indistinguibile da quello utilizzato da Gutenberg) si riportano alcune informazioni tratte dalla ricca
opera di MARTIN Livre, pouvoirs et société...
Il 4 settembre 1641 il tipografo Vaudran prende l’impegno di stampare 1300 esemplari di un processionale, precisando che per ogni foglio
saranno necessarie due giornate di lavoro. Essendo il libro in questione formato da 13-15 fogli (recto e verso), per la stampa in rosso e nero dei 1300
esemplari sarà necessario almeno un mese [cfr. t.I, p. 379]
Per i casi più correnti, come quello di un libro in 8° di una quindicina di fogli (circa 240 pagine), con una tiratura di 1350 esemplari, la
stampa vera e propria (con un torchio a braccia) avrà una durata di una quindicina di giorni, mentre per la composizione in caratteri ‘cicero’ se ne
devono prevedere trenta. [ibid. p. 378-79]
E infine:
limiti solamente in quelli fisici – definiti dalla capacità di calcolo di un processore e dalla quantità di dati immagazzinabili in una
porzione di “memoria” di dimensioni date – e in quelli economici, questi ultimi in diminuzione progressiva, sebbene non parallela e
speculare al miglioramento delle prestazioni e all’aumento delle capacità di immagazzinamento3.
Se proprio si vuole parlare di “nuovo” e di “antico”, di continuità/discontinuità/frattura, di epifania dell’inatteso,
dell’inattendibile o, al contrario, di risultati conseguenti a una sorta di normale processo “evolutivo”, si può forse far notare che, per
quello che riguarda la trasmissione del testo scritto (e, nell’era digitale, non solo di questo ma anche di brani musicali, di illustrazioni,
di filmati e, con l’elaborazione e la massificazione della “stampa” tridimensionale, di concreti oggetti4), l’era digitale ha, per certi
aspetti, fatto tornare indietro le lancette della storia. La differenza tra un odierno blogger e chi, nell’era della stampa, trasmetteva i
suoi testi in forma manoscritta (vuoi per la loro pericolosa eterodossia e/o per la loro pornografia, vuoi per l’essere escluso dai
circuiti accademici, vuoi per il fatto di non rappresentare un’attendibile fonte di guadagno per un editore, vuoi perché lo scrittore
stesso era sprovvisto della copertura finanziaria per procedere in proprio alla stampa) è solo quantitativa: dalle poche unità – o al
limite decine – di lettori a un numero che, potenzialmente, va dallo zero fino al numero di tutti quelli che hanno la possibilità di
connettersi al suo blog. È probabile che i temi trattati dal blogger siano in buona parte diversi da quelli del suo antico omologo, ma la
qualità della forma e dei contenuti sarà essenzialmente identica e cioè assolutamente indefinibile (dalla patologica farneticazione
all’eccelsa e fondata disquisizione) in mancanza di quei parametri (peer review, interesse utilitaristico dell’editore, risposta del
pubblico, risposta della critica letteraria, artistica, musicale o scientifica, ascesa dello scrittore/artista/musicista/filosofo/scienziato nei
ranghi della sua categoria, ecc.) che permettono, certo con approssimazioni e margini di errore, di attribuire variabili gradi di
apprezzamento/utilità/profitto a un’opera.
Ma la presenza di invarianti nella storia della trasmissione del testo scritto non si arresta certo qui. Grazie agli ipotetici (ma
non troppo!) scenari che verranno ora presentati, si cercherà di evidenziarne alcune e, soprattutto, di inquadrarne alcune interessanti
implicazioni.
Scena I
Parigi, attorno alla metà del XVIII secolo, in una signorile abitazione un personaggio dall’aria grave
distribuisce dei fogli manoscritti a diversi individui che, separatamente e all’insaputa dell’uno dall’altro, si recano presso di lui.
Raggiunte le loro abitazioni, questi a loro volta ricopiano il testo ricevuto e lo affidano nelle mani di fidati tipografi... oddio, magari
non un veri e proprio tipografi ma anche qualcuno che, in un solaio, in una cantina o in un locale preso a pigione, ha installato una
piccola tipografia clandestina. A quale scenario storico si è di fronte? Quali le ragioni di tanta riservatezza, di tale segretezza? Quali
pericolosi testi sono dati alle stampe? Si è forse di fronte a predecessori delle BR, della RAF, dell’IRA? No, questa è la normale
prassi di pubblicazione del periodico giansenista, e clandestino, Nouvelles Ecclésiastiques.
«En ce qui concerne les compositeurs [...] un règlement du 1654, nous apprend ce que ceux-ci devaient fournir chaque jour a
partir de cette date [...] Ainsi, dans le cas plus normal, celui d’une impression en caractères cicero, le compositeur donnait une forme par
jour. Et si l’on accepte la composition en très petits caractères [...] et celle en très gros caractères [...] la cadence journalière de la
composition oscillait entre un demie et deux formes.
Le travail demandé au presseurs avait été fixé à la fin du XVI siècle à 3000 feuilles par jour pour les impressions normales et à
2500 pour les impressions en rouge et noir. Par la suite entre 1649 et 1654, ces chiffres furent légèrement abbaissées, et les maîtres se
contentèrent d’exiger désormais que les compagnons fournissent 2700 feuilles par jour pour les compositions en noir composées avec des
caractères allant du gros canon au petit canon, à 2600 pour les impressions en noir en caractéres plus petits, à 2500 pour les impressions en
rouge et noir en grands caractères, à 2400 pour les mêmes impressions réalisées avec des caractères ordinaires et à 2200 dans le cas de
caractères microscopiques.
Ainsi, la presse à bras, cet instrument rustique, au cours des quatorze heures que durait à peu près la journée de travail dans nos
ateliers, devait normalement “sortir” plus de 200 feuilles à l’heure, soit trois ou quatre par minute. Si l’on ajoute qu’il fallait alors, pour
imprimer une feuille, donner deux coups de barreau, on constate que, tous les dix seconde environs, l’un des compagnonsmaniait celui-ci
tandis que l’autre devait, toutes les vingt secondes, déployer la frisquette et le tympan, en ôter la feuille imprimée, la remplacer par une
feuille vierge et, le cas échéant, encrer à nouveau la forme: rythme hallucinant, à la vérité, sanctionné par un salaire relativement élevée
pout l’époque.» [ibid. p. 376-77]
È bene anche ricordare che per lungo tempo la tipografia non forniva il “prodotto finito”, il libro, ma solo i fogli stampati i quali, con
ulteriore dispendio di tempo, di mano d’opera e quindi di denaro, dovevano poi essere consegnato a un legatore per le operazioni conclusive di
piegatura, taglio e rilegatura dei fogli.
3
Per quello che riguarda gli aspetti meramente fisici basta pensare alla famosa “Moore Law”. Introdotta nel 1965, prevedeva che il numero
dei transistor all’interno di un microchip sarebbe raddoppiato con cadenza biennale. Le previsioni della “legge” vennero rispettate per più di
quarant’anni finché non incontrarono i limiti imposti dai materiali che compongono i microchip. La ricerca di nuovi materiali (per esempio passando
da componenti di natura minerale a componenti di natura biologica) fa pensare alla possibilità di una ripresa dell’accelerazione della
miniaturizzazione.
Simile alla “legge di Moore” è quella di Kryder, indirizzata alla capacità di immagazzinamento del disco fisso, “legge” che, anzi, ha fatto
previsioni per difetto a causa di alcune ottimizzazioni dovute sia all’individuazione e correzione di errori di codifica sia alla scoperta e allo
sfruttamento di particolari effetti fisici dei materiali utilizzati.
Ma, dato che si parla di riproducibilità di un’opera, si deve anche fare riferimento ai suoi possibili fruitori. In questa prospettiva, si può
almeno citare la cosiddetta “Metcalfe’s Law” (introdotta da Bob Metcalfe nei primi anni ’80), secondo la quale come gli individui si connettono,
l’utilità e il valore del loro network aumenta con una progressione pari al quadrato della sua base di utilizzatori.
4
E, se non è ancora stato formulato, presto sorgerà il quesito di come controllare/impedire il download del software necessario per la
riproduzione di oggetti pericolosi (come un’arma da fuoco) o, in ogni caso, sottomessi a specifiche restrizioni di legge. Problematica, questa, certo
ben più importante di quella di impedire – con un costo economico e umano spesso sproporzionato – che i Rolling Stones vengano defraudati di
qualche centesimo per il download illegale di “Satisfaction”.
Scena II
Milano, seconda metà del XVIII secolo. L’Inquisitore è furioso: sul suo ampio tavolo una pila di libelli
di recente pubblicazione appena sequestrati a un malaccorto e sfortunato colporteur. Tutti editi da una tristemente nota stamperia di
Lugano. Vessato dall’ennesimo affronto non solo e non tanto alla sua persona quanto e soprattutto alla Chiesa, alle sue gerarchie e
alle misure da questa prese per preservare il popolo dal morbo dell’eresia e, con sempre maggior forza, dalla corruzione dei costumi e
dalla corrosione dei vincoli che, per volontà divina, legano il popolo sia alle autorità ecclesiastiche sia a quelle crismate nella loro
figura e funzione regale, l’Inquisitore decide finalmente di reagire, di dare una risposta forte a quest’ultima provocazione e ordina al
suo segretario di fare le pressioni più urgenti e autorevoli sulle autorità civili affinché i controlli alla frontiera con i cantoni svizzeri
siano sempre più pressanti e minuziosi. Peccato per lui e per la sua parte che quei libelli non provengano affatto dalla Svizzera ma da
un altro Stato che, pur fregiandosi di un duplice controllo censorio (quello inquisitoriale e quello dei Riformatori dello Studio di
Padova), tiene “purtroppo” anche in conto il ritorno economico e occupazionale dell’industria editoriale e concede quindi la
possibilità di stampare nel suo territorio opere potenzialmente “pericolose” o comunque foriere di polemica da parte dell’autorità
romana (ma anche di altri Stati e di alcuni influenti ordini religiosi), a patto che non si faccia menzione del reale editore e soprattutto
del reale luogo di stampa5 e venga invece impresso sul frontespizio il nome di una falsa località (Lugano, Amsterdam...) o addirittura
di una località di fantasia (per esempio “Cosmopoli”).
5
Per non lasciare Venezia totalmente nell’ombra, talvolta nelle note editoriali si legge qualcosa del tipo: “Stampato ad Amsterdam presso
..., si vende a Venezia presso ... libraro”.
Scena IIIProspera e ricca di storia città italiana attorno alla metà dell’ ‘800. In un antico palazzo nobiliare, una maestosa
biblioteca con libri di ogni formato, tutti rilegati in pelle e il titolo impresso in oro sul dorso. Testi di diritto e di storia; qualche
stravaganza “scientifica”, come le opere di Kircher, di Schott, di Lana-Terzi, accanto ai “testi sacri” di Newton, di Copernico, di
Galilei e di altri suoi colleghi lincei; relazioni di viaggio e rendiconti di esseri e fenomeni “mirabili”, “miracolosi” o “mostruosi”;
molte le opere di carattere religioso: trattati di teologia, testi di controversistica e di morale, vite di santi, per non parlare poi delle
opere devozionali... come questo piccolo libro di preghiere in 16° che, tra due varianti del “sigilllo di Salomone”, porta sul dorso
l’iscrizione “HOHENLOHE – HEURES CATHOLIQUES”6, ma che aperto alla pagina del frontespizio si rivela una delle tante opere
esecrate e condannate dalla chiesa cattolica: Il corriero svaligiato (e la sua Continuazione) di Ferrante Pallavicino7, copia edita nel
1644 (e la Continuazione nel 1660) apparentemente a Villafranca, ma presumibilmente a Ginevra.
Scena IV Inizio del Terzo Millennio; ammezzato di un antico ma ormai fatiscente palazzo nel centro storico di una città
italiana in piena decadenza. Vi è ospite una libreria “specializzata” nel vasto, variegato, multiforme mondo della produzione e
trasmissione della “cultura esoterica”: dai tarocchi all’I-Ching; dal Feng-Shui all’astrologia; dall’esoterismo sulfureo a quello
angelico; da autori a torto o a ragione associati alla sfera della destra estrema, paganeggiante, nazista e antisemita ad altri autori
disinvoltamente New-Age, pacifisti ed ecologisti, figli e nipoti dei fiori; cultori di alchimia, UFO, viaggi astrali, misteri delle
piramidi, templari, esoterismo islamico, kabbalah, sciamanesimo ma anche di qualcosa di più concreto come i “fiori di Bach”, gli
incensi, le essenze, le candele, i monili, i pentacoli, le pietre e le gemme... il mozartiano catalogo al confronto impallidisce e si ritira
di buon ordine... La conduzione della libreria è di buon livello (anzi, di questi tempi, ottimo!). La sua clientela variegata e spesso
discutibile. Accanto a seri studiosi (sempre più in difficoltà ad aggirarsi e trascegliere tra tanto ciarpame), vi sono maghi in pectore,
veri e propri psicopatici, nazisti, attempati hippies, donne borghesi in cerca di emozioni “forti” (ma non tanto forti da condurle in un
sex-shop), avvocati/medici/ingegneri/imprenditori (in gran parte aderenti a una delle svariate comunioni massoniche, che cercano sia
di capire un po’ di più di quello che i rituali dei “lavori” in Loggia solamente adombrano, sia di trovare “qualcosa” – un libro, un
tema... – grazie al quale potersi esibire davanti al consesso dei confratelli). Oggi la peculiare libreria è in grado di offrire di meglio
dei soliti “classici” (le edizioni moderne dello pseudo-Aristotele, di Apuleio, dello pseudo-Alberto Magno, di Ramon Llull,
Sendivogius, Michel Maier... per non parlare della riproduzione anastatica del Thetrum Chemicum, ormai consumata dagli anni ma
anche dagli occhi e dalle mani di centinaia di potenziali acquirenti che, alla fine, sempre indietreggiano di fronte al suo costo),
“classici” spesso filologicamente molto discutibili, spesso tradotti in fretta e inappropriatamente, spesso privi di apparato critico che,
se presente, il più delle volte è fuorviante e decisamente partigiano per il credo esoterico del curatore. Oggi, finalmente un’opera che
fa scorrere un brivido tanto nelle schiene dei bibliofili che in quelle degli “iniziati” o aspiranti tali. Si tratta di un libriccino in 16°,
con legatura in pergamena purpurea che si chiude con tre lacci in cuoio. Lo sta sfogliando, con aria da intenditore, un docente
universitario di chiara fama... seppur solo nell’ambito di questa città. Questi si sofferma a lungo sulle primitive incisioni xilografiche
e, in particolare, sul frontespizio che in caratteri rossi, recita: Le DRAGON ROUGE ou l’art de commander les esprits Célestes,
Aériens, Terrestres, Infernaux; AVEC LE VRAI SECRET De faire parler les Morts, de gagner toutes les sols qu’on met aux Loteries,
6
Le Heures catholiques del principe Alexandre de Hohenlohe furono pubblicate a Parigi nel 1827, debitamente annunciate nel n° 1257 de l’
Ami de la Religion et du Roi: Journal ecclésiastique, politique et littéraire edito a Parigi da Adrien Le Clerc a partire dal 1808. Il titolo della rivista,
così come quelli dell’Ami du clergé e dell’Ami du Roi, parodiava il nome di club avversari (come gli Amis de la Constitution) e di giornali (come Les
amis du peuple di Marat).
7
Per l’attribuzione dell’opera si veda MELZI t. I, p. 450-51 e per il luogo di stampa presunto (Ginevra) PARENTE Dizionario dei luoghi di
stampa falsi... p. 197-98 e Italian 17th Century Books n° 3865
Il Corriero svaligiato è l’opera che ha decretato la condanna a morte del suo autore (secondo le parole del suo biografo e collega
all’Accademia degli Incogniti, Girolamo Brusoni, la «sola cagione di tutte le sue disgrazie»). A partire dal 1636, anno della prima condanna all’Indice
di una delle sue opere (La pudicizia schernita), seguiranno altre diciassette condanne, in gran parte dopo la morte dell’autore nel 1644, il che la dice
lunga su che cosa rappresentasse Pallavicino per le autorità cattoliche.
de découvrir les Trésors cachés, etc. ------ 1522. Posto tra le pagine del libro, un cartoncino dall’aspetto molto professionale fornisce
altre informazioni, tra le quali quella riguardante l’autore (Antonio Venitiano, detto “del Rabina”) e il prezzo (€ 3000.00). È un’opera
che mescola caratteri satanisti a preghiere a Dio e a rituali necromantici. È nota sia tra gli “addetti ai lavori” – sebbene ben pochi ne
abbiano avuto diretta esperienza – sia tra quei “profani” che, incuriositi dal film Red Dragon8, si chiesero che cosa, al di là della
finzione filmica, stesse a significare quel titolo. Molti avranno scoperto che una delle prime e più potenti attestazioni del “dragone
rosso” compare in Apocalisse 12, 3-4:
Ap. 12.3
Ap. 12.4
E apparve un altro segno nel cielo; ed ecco un gran dragone rosso che aveva sette teste e dieci corna e sulle teste
sette diademi.
E la sua coda trascinava la terza parte delle stelle del cielo e le gettò sulla terra. E il dragone si fermò davanti alla
donna che stava per partorire, affin di divorarne il figliolo, quando l'avrebbe partorito.
Molti di meno, vuoi per la tecnicità della questione, vuoi per lo scarso interesse stimolato da notizie di carattere “pedante”,
vuoi per l’aspetto (la carta, i caratteri di stampa, le xilografie) in cui si presenta l’opera si sono resi conto di non trovarsi di fronte a
un libro del Cinquecento, bensì a un’opera stampata con ogni probabilità in Francia nel secondo decennio dell’Ottocento.
Di quale rappresentazione teatrale potrebbero far parte queste quattro scene e quale potrebbe essere il suo titolo? Tra i più
appropriati si potrebbe pensare a qualcosa come Pubblicare e/è mentire o anche Segreti e bugie, visto che in ognuno di questi scenari
– ma numerosi altri avrebbero potuto essere proposti – la segretezza e la menzogna rivestono, in proporzioni diverse, un ruolo
fondamentale. Si potrebbe pensare che sono casi estremi, marginali e numericamente irrilevanti, ma non è così. Basta guardare alla
storia del libro a stampa per rendersene conto. Alcuni esempi.
Per l’anno 1764, dei 1548 titoli pubblicati in francese a Parigi e attualmente conservati, solo il 40% figura tra le richieste di
autorizzazione alla stampa; tutti gli altri sono stati pubblicati sotto la “protezione” di un’autorizzazione segreta e verbale o senza
alcuna autorizzazione o in aperta violazione di un divieto9.
Da calcoli ipotetici ma sufficientemente attendibili si pensa che il clandestino periodico giansenista Nouvelles
Ecclésiastiques, dato alle stampe nelle complesse modalità sopra descritte, avesse una tiratura di circa seimila copie, che non sono
poi così poche come può sembrare a prima vista se si considera l’uso di far circolare il giornale di mano in mano – moltiplicando per
molte volte il numero reale dei lettori – e se si considera che il suo bacino d’utenza era ristretto sia socialmente (per la maggior parte
ecclesiastici e rappresentanti di una porzione della classe media10) sia geograficamente (la Champagne, la Valle della Loira, la
regione parigina e Parigi, la Normandia).
8
Ma, prima ancora, dal romanzo d’esordio di Thomas Harris nel 1981, diventato poi famoso con il suo secondo romanzo e soprattutto con il
film The Silence of the Lambs (Il silenzio degli innocenti) con Anthony Hopkins come protagonista nella parte di Hannibal Lecter, che poi, qualche
anno dopo, riprenderà questa parte per la versione filmica di Red Dragon.
9
10
Cfr. Roger CHARTIER Le origini culturali della Rivoluzione francese Bari: Laterza, 1991, p. 74 <BUG Cont.II.874.49>.
Cfr. René TAVENEAUX
<BUG.II.618.24>.
La vie quotidienne des jansénistes aux XVII et XVIII siècles
Paris: Hachette, 1973, p. 234 ss.
Si consideri, infine, la vasta produzione pamphlettistica pro- o antigesuita che, in misura preponderante, mostra sui
frontespizi falsi luoghi di stampa (Lugano, Amsterdam o, con calcolata ironica allusione, Fossombrone11) e agli scritti relativi alla
contesa dell’Interdetto. A quest’ultimo riguardo, come risulta dalle ricerche di Filippo De Vivo12, per gli anni 1606 e 1607,
«[...] quel conflitto produsse 142 scritti e 295 edizioni, equamente ripartiti tra quelli a favore di Venezia e quelli a favore delle
posizioni romane. È significativo che mentre questi ultimi erano in genere pubblicati con il nome dell’autore e con regolari permessi di
stampa (al 90%), quelli a sostegno di Venezia apparivano più frequentemente anonimi e per lo più senza menzione della licenza (70% delle
edizioni), a dimostrazione che per un autore sostenere apertamente le posizioni della Repubblica determinava maggiori rischi. Ma lo stesso
stato veneziano, in molte circostanze, preferiva lasciare dubbi e ambiguità piuttosto che assumersi la diretta ed esplicita responsabilità
sull’opera che magari autorizzava tacitamente, ma senza una pubblica registrazione.» [Mario INFELISE “Introduzione” a False date.
Repertorio delle licenze di stampa veneziane con falso luogo di edizione (1740-1797) a cura di Patrizia BRAVETTI e Orfea
GRANZOTTO. Firenze: Firenze University Press, 2008, p. 9 <BUG D 070.5094531 FALD 1>]13
La storia del libro, dunque, è in una misura non irrilevante e anzi decisamente significativa, almeno per certi periodi
storici14, una storia intessuta di segreti e di menzogne. A uno sguardo superficiale, fatto paradossale per il libro a stampa che, forse
con eccessivo ottimismo, è stato ed è visto come strumento principe della democratizzazione del sapere, del diffondersi e
dell’espandersi della conoscenza e della facilitazione all’esprimersi e confrontarsi di visioni differenti, divergenti o contrapposte. Con
un minimo di riflessione, però, ci si rende conto che nell’intreccio di menzogne e di segreti nella storia del libro a stampa non c’è
nulla di assurdo né di paradossale, né tanto meno di inattendibile. La trasmissione di testi manoscritti (che, è bene ricordarlo, non è
stata affatto arrestata dall’avvento della stampa15), soprattutto quando si tratta di testi “scomodi” (quelli politici in particolare),
11
I dati editoriali dei pamphlet editi a “Fossombrone” riportano il nome di “Gino Bottagriffi” come tipografo. In realtà questo tipografo non
è mai esistito e il nome stesso è un anagramma di due accaniti avversari dei gesuiti: Bottari e Foggini. La datazione topica di “Fossombrone” è invece
ironica allusione al cardinale Passionei (bibliofilo, appassionato di cartografia e acerrimo nemico dei gesuiti), nativo di questa città. Dietro il nome di
“Bottagriffi” si nasconde in realtà il tipografo veneziano Antonio Zatta, filogesuita, da questi sostenuto finanziariamente e la cui officina era ospitata,
dopo la soppressione dell’Ordine, proprio in alcuni locali dell’ex-casa gesuitica. L’ironica allusione di Zatta a Passionei è sicuramente dovuta alla
partigianeria e alla riconoscenza del tipografo nei confronti dei gesuiti prima e dopo la loro soppressione, sebbene non si possa escludere anche
l’influenza di fattori di carattere più personale. L’attività in cui Antonio Zatta eccelse fu quella di editore di libri geografici (editi anche in forma di
fogli sciolti) ed è quindi possibile che il tipografo veneziano non abbia troppo apprezzato la ricca commissione di carte geografiche che il cardinale
affidò a un’officina olandese (alcuni decenni fa queste carte sono state identificate tra il patrimonio della Biblioteca Angelica, altre sono custodite
dalla Biblioteca Civica di Fossombrone.
È bene ricordare, inoltre, che il cimentarsi nelle imprese editoriali di pamphlet anti- o filogesuitici era, per gli editori, estremamente
attraente, in considerazione dei «limitati sforzi editoriuali e investimenti irrisori, a fronte di una diffusione sicuramente elevatissima, [che garantiva]
buoni profitti» (cfr. Mario INFELISE L’editoria veneziana nel Settecento Milano: Franco Angeli, 1989, p. 89 <BUG 11.C.II.32>).
12
Filippo DE VIVO Information and Communication. Rethinking Early Modern Politics Oxford: Oxford Un. Press, 2007, p. 215-219.
13
Il fenomeno della falsa datazione topica rappresenterà, nel 1765, il 25% delle licenze veneziane.
14
La concessione dei “privilegi di stampa” (qualcosa di analogo, mutatis mutandis – innanzitutto per quello che riguarda il concetto di
“proprietà intellettuale” -, all’odierno copyright, con i connessi, inevitabili, tentativi di frodarla, risponde infatti a istanze diverse a seconda del
contesto storico. Vediamo così, per esempio, che mentre nel XVII secolo la concessione era funzionale, essenzialmente, a esigenze di tipo politico e/o
religioso, nel XX-XXI le istanze sono prevalentemente economiche (si pensi al “Sonny Bono Copyright Extension Act”), sebbene le odierne
possibilità di controllo (tramite la supervisione dei files scaricati e l’adozione di “watermarks” digitali) gratifichino eventuali “controllori” di un
potere ispettivo, coercitivo e repressivo nei confronti della libertà di espressione ben maggiore che nel passato. A questo proposito si veda Lawrence
LESSIG Free culture: the nature and future of creativity New York: Penguin Books, 2004, p.214-15.
15
In certi ambiti la circolazione di testi manoscritti (e poi dattiloscritti, ciclostilati, fotocopiati...) non è stata infatti interrotta dalla sempre più
imvadente presenza del testo a stampa, certo potenziale garante di una ben più vasta diffusione ma, con pari certezza, soggetto a identificazione,
controllo e persecuzione sia nella sua materialità di oggetto, sia nell’individualità di tutti coloro (con proporzioni diverse a seconda dei tempi e delle
politiche censorie) che con esso avevano a che fare (autori, librai, stampatori, colporteurs, lettori...). Nel XVII e XVIII secolo la pratica della
diffusione di testi manoscritti era comunque ampiamente diffusa e difficilmente controllabile e controllata. A parte i casi in cui qualche vagabondo
venisse colto in flagrante mentre cercava di smerciare, in cambio di qualche soldo, fogli recanti formule incantatorie, pronostici, talismani..., il più
delle volte l’incriminazione per il possesso di un testo proibito in forma manoscritta era conseguenza di controlli di polizia eseguiti o per altro motivo
o per esplicita delazione da parte di altri inquisiti che cercavano di alleggerire la propria posizione.
È anche bene ricordare che, differentemente dal testo a stampa in cui ogni copia di un’edizione è un “multiplo” non distinguibile da
qualsiasi altra copia, i testi manoscritti sono invece caratterizzati da variazioni anche consistenti, da uno “sviluppo” che, dopo qualche passaggio
trascrittivo, può produrre, vuoi per materiali errori di trascrizione, vuoi per la peculiare forma mentis dei trascrittori, a varianti del testo non solo
differenti dal testo originale ma, in certi casi, anche di senso opposto. Questa produzione di “varianti” intrinseca alla produzione manoscritta,
soprattutto se ripetuta “a catena”, può sfociare infine in forme di vera e propria creatività quando porzioni di differenti testi vengono collazionate e
arrivano a formare una nuova “opera” con una sua originalità.
Queste peculiarità della trasmissione manoscritta di testi eterodossi è bene illustrata, per la Repubblica di Venezia nei secoli XVII e XVIII,
da Federico Barbierato:
«[...] nella contaminazione e nella continuità fra discussione ed elabortazione dei testi sta una delle caratteristiche principali del
mercato del libro clandestino veneto tra Sei e Settecento. [...] ragioni di carattere censorio piuttosto ovvie e motivi di opportunità pratica
contribuirono a fare in modo che un sotterraneo mercato di testi eterodossi copiati a mano si affermasse come uno dei tratti distintivi della
circolazione del materiale proibito fino a Settecento inoltrato, non solo ovviamente in area veneta. Ma oltre a costituire una forma di
comunicazione che ben si prestava a eludere i controlli, il manoscritto rispondeva molto agilmente alle esigenze del lettore che manifestava
curiosità nei confronti di un’opera o di una sua parte. Il lettore diventava così a sua volta fedele trascrittore o libero scrittore esso stesso
variabilmente in grado di compiere scelte su di un testo e di piegarlo a situazioni, aspettative, interessi propri o altrui. Si poteva pertanto
copiare per se stessi, seguendo criteri del tutto personali. Più spesso però copiatura e scrittura mettevano in moto processi che finivano per
coinvolgere altri individui, attraverso la messa in circolazione di nuovi esemplari attraverso il prestito, oppure essere al centro di un vero e
proprio commercio. In entrambi i casi si aprivano possibilità di indefinite nuove scritture.» [Federico BARBIERATO “Attraverso la
censura. La circolazione clandestina dei testi proibiti nella Repubblica di Venezia fra oralità e scrittura (secoli XVII-XVIII)” in: Aggirare
“sconvenienti” (si pensi a quelli di carattere pornografico, in non pochi casi inframmezzati da recriminazioni anche violente contro le
autorità politiche e religiose16) o addirittura “proibiti” implica un’attestazione di stima da parte di chi affida ad altri il manoscritto e
una sorta di “investitura” al rango di eletto e di iniziazione e di appartenenza a segreti invisibili, concesse a chi lo riceve.
Differente è il caso del libro a stampa che, sia per il fatto di comportare un elevato impegno finanziario, che per quello di
essere ben spesso soggetto a controlli e concessioni da parte di varie autorità, vede assegnarsi una quasi automatica attestazione di
veridicità. In altri termini: un’affermazione è di solito considerata “più vera” se viene stampata17.
Già prendendo in considerazione i quattro scenari proposti, ci si rende conto che le motivazioni sottese all’impiego della
segretezza e della menzogna nell’ambito della produzione e diffusione del libro a stampa sono varie e di vario segno.
Il perché di tanta segretezza nel complesso sistema di produzione e diffusione delle Nouvelles ecclésiastiques è evidente: in
conseguenza alle posizioni assunte nei confronti dei giansenisti dalla monarchia borbonica (ampiamente sollecitata in questa
direzione dai gesuiti e da una rilevante parte dell’episcopato), condizione imprescindibile per chi scrive, stampa e diffonde le
Nouvelles è quella di sfuggire alla censura (con conseguente distruzione dei libri sequestrati) e alla polizia (con conseguente
incarcerazione e sequestro dei propri beni).
Più complesso è il caso dei pamphlet pubblicati con falsa datazione topica. Certo, vi sono casi in cui una delle componenti
della falsificazione è irridere l’avversario (si pensi ai pamphlet stampati a “Fossombrone” dal tipografo “Bottagriffi”). Ma questa
componente è solo “un di più”, una sovrastruttura resa possibile da quella che è la vera motivazione della falsa datazione topica:
evitare l’identificazione del vero luogo di stampa. Differentemente dal caso delle Nouvelles, il tentativo qui non è quello di sfuggire
alle maglie della censura, ma è quello di evitare che uno Stato (in questa circostanza è Venezia, ma la pratica è diffusa un po’
dappertutto: si pensi alle toscane – e in particolare lucchesi – “stampe alla macchia”18 o alle opere parigine con falsa datazione
topica19) prenda una posizione troppo netta, si sbilanci a favore di una delle parti in causa in una controversia (nell’esempio
la censura. Circolazione del libro e sfera pubblica in età moderna (sezione monografica di: Rivista di Storia del Cristianesimo anno IX, n.
2 Luglio-Dicembre 2012 <BUG 098.4 RIVDSD>), p. 398-400]ß
Dello stesso Barbierato si veda anche: Nella stanza dei circoli. Clavicula Salomonis e libri di magia a Venezia nei secoli XVII e XVIII
Milano: Edizioni Sylvestre Bonnard, 2002 <BUG DA 098.11 BARBF 1>.
16
Si pensi a Thérèse philosophe, ou Mémoires pour servir à l’histoire du P. Dirrag et M.lle Eradice a carattere decisamente pornografico, o
ai licenziosi Pucelle d’Orléans di Voltaire e ai Bijoux indiscrets di Diderot. A questo proposito: Robert DARNTON Libri proibiti: pornografia,
satira e utopia all’origine della Rivoluzione francese Milano: Mondadori, 1997 <BUG 16.E.IV.17> e Bette Lou TALVACCHIA Taking positions:
on the erotic in Renaissance culture Princeton: Princeton University Press, 1999 <BUG 00.E.230>.
17
Per gli “iniziati”, i maghi e i cospiratori di vario tipo vale ovviamente la logica contraria: i testi dati alle stampe sono per la massa, per il
volgo, per chi si conforma placidamente allo status quo e non sente l’anelito, proprio di ogni buon rivoluzionario, “iniziato”, ecc. di guardare al di là
della cortina che viene posta davanti agli occhi di tutti, di andare oltre, di mutare la propria condizione o addirittura quella del suo popolo o
dell’umanità intera. Esiste un modo, però, in cui il testo a stampa può guadagnarsi l’attenzione e l’interesse di chi ha gusti difficili e sofisticati: quello
di essere individuato, perseguitato e minacciato di censura o di soppressione da parte di una qualche autorità (e, ovviamente, quanto maggiori sono il
potere e l’efficienza dell’autorità, tanto maggiore è la rilevanza che i testi sotto la sua mira vengono ad assumere). Questo meccanismo, con i suoi alti
e bassi, non solo accompagna il libro a stampa in tutta la sua storia, ma era anche ben conosciuto già nel mondo classico:
«Il senato decretò che gli edili facessero bruciare i suoi libri [il riferimento è a Cremuzio Cordo, che aveva lodato M. Bruto e
chiamato G. Cassio “l’ultimo dei Romani”]; ma l’opera è rimasta dapprima nascosta, poi pubblicata. Tanto più è degna di scherno la
capacità di colo che, con la loro potenza presente credono di poter spegnere anche la memoria nei posteri. In realtà, la condanna accresce il
prestigio dei nobili ingegni; e i re stranieri, o coloro che hanno usato la medesima ferocia, non altro hanno procurato che vergogna a sé e
maggiore rinomanza a quelli.» [TACITO Annali IV.34]
Concetto puntualmente ripreso in Età Moderna:
«Gli errori non possono fare danni, ammesso che gli uomini più illuminati abbiano l’autorizzazione di confutarli. Gli errori sono
pericolosi solo quando vengono perseguitati, e sono sempre divulgati se vengono proibiti.» [Pierre-Samuel DU PONT DE NEMOURS in
Ephémérides du citoyen I, 1771, p. VII-XVIII]
«Ma vedo che la proscrizione, quanto più è severa, tanto più fa crescere il prezzo del libro, tanto più eccita la curiosità di
leggere; quanto più lo si compra, tanto più lo si legge. E quanti non ne ha fatti conoscere la condanna, che sarebbero stati condannati
all’oblio della loro mediocrità. Quante volte l’editore o l’autore di un’opera privilegiata, se avessero osato, non avrebbero detto ai
magistrati dell’alta polizia: “Signori, di grazia, un piccolo decreto che mi condanni a essere distrutto, bruciato in fondo alla vostra
scalinata”. Quando si pubblica la condanna di un libro, gli operai della tipografia dicono: “Bene, ancora un’edizione!”» [Denis DIDEROT
“Lettre sur le commerce de la librairie” p. 87 (“Sulla libertà di stampa” in Potere politico e libertà di stampa Roma: Editori Riuniti, 1966,
p. 112)]
18
Si veda Sandro LANDI Il governo delle opinioni. Censura e formazione del consenso nella Toscana del Settecento Bologna: il Mulino,
2009 <BUG D 945.5074 LANDS 1>
19
Sebbene anche da parte delle autorità francesi sia costante il tentativo di non esacerbare le tensioni con Roma su temi quali il
gallicanesimo, le opere parigine del XVII secolo con falsa datazione topica sono in gran parte di carattere libertino e cercano invece di sfuggire alla
censura e alla repressione da parte delle autorità dello Stato, soprattutto negli anni successivi alla condanna al rogo di Vanini, quando si scatenò una
vera e propria crociata anti-libertina che riuscì a far convergere l’intervento di personalità dalle tendenze più eterogenee: rappresentanti di ordini
religiosi, protestanti come Hugo Grotius, laici benpensanti e un indipendente, e anomalo, come Tomaso Campanella.
In questo stesso periodo si assiste, sempre in Francia, a una serie di eventi di carattere speculare, e cioè alla comparsa sul mercato di opere
con datazione topica “Parigi” ma in realtà stampate in Fiandra e in Olanda (in particolare nelle città di Amsterdam e di Leiden con gli Elzevier).
Questa volta non si trattava però di tentativi di sfuggire a controlli inquisitoriali e polizieschi, sebbene controlli e repressioni anche in questo peculiare
fenomeno avessero una loro responsabilità. Infatti i controlli e le repressioni che, attorno alla metà del XVII secolo, si erano fatti in Francia sempre
più pressanti (con i punti chiave della definitiva condanna di Arnauld da parte della Facoltà di Teologia e le perquisizioni e i sequestri che
considerato la controversia è quella tra i gesuiti e i loro avversari). Sia accettando ufficialmente la pubblicazione di certi pamphlet nel
proprio territorio (e quindi facendoli anche passare indenni attraverso le maglie degli organi di controllo sul libro a stampa della
Repubblica di Venezia), sia rifiutandola del tutto, la Repubblica sarebbe andata incontro solo a svantaggi: dalle possibili frizioni
diplomatiche con Roma e i suoi alleati più fedeli, alle sicure reazioni da parte di chi si sentiva penalizzato. In ultima istanza, una
posizione netta, trasparente, si sarebbe immancabilmente tradotta per la Repubblica in termini di perdite economiche e occupazionali.
In casi come questo dei pamphlet con falsa datazione topica le falsità si intrecciano: spesso l’autore mente sulla sua identità
adottando uno pseudonimo o la omette, pubblicando in forma anonima; mente il libraio/editore rinunciando alla paternità dell’opera,
talvolta però lasciandone una traccia per fini pubblicitari (adottando la già ricordata formula “stampato a ... si vende presso ... libraro”
e sue varianti); mentono soprattutto gli organi dello Stato che non solo accettano ma addirittura impongono come conditio sine qua
non l’apposizione della falsa datazione topica. Nel caso di Venezia non si tratta dunque di mera connivenza, quale potrebbe essere
quella delle parigine permissions tacites, ma di frode preordinata e rigorosamente organizzata, tanto è vero che le opere da stampare
con falso luogo di stampa sono registrate con cura e che per questo specifico tipo di operazione editoriale viene adottata la particolare
denominazione di “terminazione”20
Anche nel caso del fortunato possessore della bella biblioteca che ospitava libri proibiti camuffati da testi devozionali si
può parlare, in un certo qual modo, di falsità di tipo “diplomatico”. Per un appartenente all’élite cittadina e che dunque intratteneva
contatti sociali e professionali con suoi pari e con autorità civili e religiose e, non da ultimo, con facoltosi commercianti stranieri in
visita nella sua città per avviare o concludere importanti affari, lo svelare apertamente certe sue propensioni filosofiche e/o religiose o
anche, semplicemente, certe sue peculiari curiosità, le conseguenze avrebbero potuto essere sgradevoli o dannose su tutti i piani:
ostracizzazione da parte dell’aristocrazia cittadina e stigma che si sarebbe riflesso sui membri della sua famiglia (con tutto ciò che
questo poteva comportare in termini di alleanze commerciali e matrimoniali), preclusione all’accesso a cariche ufficiali,
investigazione da parte della polizia che, non meno dell’Inquisizione, è capace di cogliere o costruire complessi retroscena a partire
da minimi “indizi” e, infine, possibili ritrosie da parte dei commercianti stranieri poco propensi a “sporcarsi il nome” concludendo
affari con personaggi “discussi”. Parafrasando l’apocrifa asserzione di Enrico IV re di Francia, «il benessere proprio e della propria
famiglia val bene una falsa copertina!». Per non parlare del suo intimo e immanifesto piacere nel vedere certi suoi devoti ospiti
scorrere, con uno sguardo di approvazione, certi pii titoli impressi in oro sul dorso dei libri della sua biblioteca, ignari di ciò che quel
millimetro di pelle in realtà celava. Se, da un lato, casi come questo sono di facile interpretazione, da un altro sono del massimo
interesse perché portano in evidenza un’altra invariante nella storia del libro e cioè che questi non solo riflette pensiero e propensioni
di chi l’ha scritto ma anche fornisce indizi (e, in certi contesti storici, prove) sulle tendenze filosofiche, politiche e religiose di chi lo
acquista, lo legge, lo trasmette... È per questo motivo che l’Inquisizione romana, a un certo punto, spostò l’obiettivo dalla produzione
alla fruizione del libro: il raggio dei possibili “colpevoli” o indiziabili divenne sempre più ampio e, sebbene l’Inquisizione fosse ben
consapevole di non poter esercitare un effettivo controllo sulla massa dei lettori, più forte fu la pressione psicologica esercitata su chi,
per scelta o per caso, avesse avuto contatto con un “libro proibito” e maggiore fu la possibilità di stimolare la delazione:
l’Inquisizione non avrebbe più avuto a che fare con circoli ristretti, compatti e con forti vincoli reciproci di scrittori, filosofi, libertini,
“maghi”, scienziati, librai e tipografi (non poche volte protetti da membri della nobiltà e dell’amministrazione dello Stato), ma con
una massa fluida, poco coesa, in media meno colta, motivata e preparata ad affrontare certi rischi. Senza contare poi che questa
massa in gran parte impreparata era anche facilmente ingannabile, e in effetti incerta e confusa, dai margini delle proibizioni, talvolta
netti, talaltra sfrangiati, mutevoli e soggetti alle interpretazioni. Sia quel che sia, a partire soprattutto da un certo punto, per chi
esercitava il controllo l’uomo divenne “ciò che leggeva” e dunque c’è ben poco da stupirsi se qualcuno abbia pensato di fare ricorso a
“pie copertine” per nascondere sue private predilizioni!
Più articolati sono invece i meccanismi di segretezza e di falsità sottesi al Dragon Rouge perché più di uno è il piano su cui
viene condotto il gioco. Sebbene, da subito, il frontespizio faccia sorgere almeno un dubbio – quello relativo alla promessa, agli inizi
costellarono la pubblicazione delle Provinciales di Pascal), avevano indotto gli editori francesi a una maggiore prudenza, a tutto vantaggio
dell’editoria dei paesi confinanti. Gli Elzevier, in particolare, si distinsero con successo nella contraffazione di opere stampate in Francia, sia per
quello che riguarda le opere allora più in voga (prime fra tutte quelle di Corneille), sia con uno sguardo alla produzione di area giansenista, favoriti in
questo dai loro stretti contatti con Port-Royal:
«[...] les éditeurs belges et hollandais et les imprimeurs de province – ceux de Lyon surtout – vécurent essentiellement en cette
fin du XVII siècle de la publication d’ouvrages interdits ou de contrefçons.
Evidemment, les provinciaux ne puvaient pas mettre au jour les impressions illicites sous leur véritable adresse, sous peine de
poursuites. Les étrangers eux-même avaient, d’autre part, tout interê à ne point provoquer trop ouvertement le Pouvoir et leur
collèguesparisiens en plaçant ouvertement leur nom au titre de certains livres. Les uns et les autres enfin se trouvaient, en bien des cas,
incités à commettre de véritables faux pour écouler leur production. L’ère des supercheries allait donc commencer.
Là, encore, les Elzevier jouèrent un rôle important. Lorsqu’ils entreprirent de contrefaire les succès littéraires français, ils
prirent l’initiative de faire précéder l’adresse de l’éditeur de l’ouvrage dont ils reproduisaient le texte, de la mention jouxte la copie, écrite
en caractères minuscules. Réimprimant souvent des livres interdits, ils adoptèrent et firent connaître les adresses fantaisistes des
publications originales. [...]
En règle générale [...] les libraires qui remettent sous presse ces livret clandestin, copient simplement l’adresse fictive imeginée
par le responsable de la première édition: c’est ainsi que le nom de Pierre Marteau, imaginé par les Elzevier, fut trè vite employé par leurs
émules hollandais et flamands, puis français.» [Henry-Jean MARTIN Livre, pouvoirs et société à Paris au XVII siècle (1598-1701)
Genève: Librairie Droz, 1984 (réimpr. de l’édition de Genève, 1969, p. 753-54 passim <BUG 15.E.VI.19>]
20
«Nel linguaggio amministrativo veneto per “terminazione” si intendono le deliberazioni di una magistratura. Nella fattispecie si tratta dei
decreti tramite i quali le autorità veneziane rilasciavano licenze di stampa a condizione che sul frontespizio si apponesse un falso luogo di stampa. Di
norma ogni terminazione presenta i seguenti elementi: data cronologica secondo il more veneto, nome del tipografo/libraio a cui era concessa
l’autorizzazione, titolo dell’opera spesso in forma abbreviata. [...] Infine sono indicati il falso luogo scelto dai Riformatori per la stampa (che non
sempre coincide con il luogo presente effettivamente sul frontespizio), il nome dei revisori che hanno preventivamente esaminato il libro.» [Mario
INFELISE “Introduzione” a False date. Repertorio delle licenze di stampa veneziane con falso luogo di edizione (1740-1797) a cura di Patrizia
BRAVETTI e Orfea GRANZOTTO. Firenze: Firenze University Press, 2008, p. 29 <BUG D 070.5094531 FALD 1>]
del ‘500, di vincite alla lotteria, un gioco che in Francia sarà attestato solo nel quarto decennio del ‘50021 e che solleverà interessi
diffusi solo nel ‘700 – un aspetto apparentemente certo è che ci si trovi di fronte a un libro proibito, proibitissimo, visti certi suoi
caratteri esplicitamente satanisti e necromantici. È indubbio che il carattere del libro lo renda “proibito” secondo i parametri stabiliti
dal Sant’Uffizio, è un dato di fatto però che non sia mai stato oggetto di una specifica condanna. In ogni caso è di estremo interesse
che l’opera offra chiavi diverse di interpretazione a seconda della preparazione e del grado di consapevolezza dei suoi lettori. Il laico
razionalista, consapevole del falso e sufficientemente disgustato dal coacervo di superstizioni, ingenuità e vere e proprie
farneticazioni che si trova davanti, lo scarica come spazzatura senza alcun ripensamento. L’aspirante mago o uno dei tanti “iniziati”
in una delle numerose associazioni che promettono qualche brivido a timidi borghesi vede in quel libretto uno scrigno contenente
tesori della “tradizione eterna” e dunque ben più antichi di quanto la loro messa in stampa nel XVI secolo potrebbe far pensare. Chi
sa coniugare invece consapevolezza storica e razionalità a un interesse per quelle forme di pensiero che sono state cancellate o quanto
meno sottomesse e occultate dalla forma di pensiero diventata dominante e monopolistica nella cultura occidentale, vede nel Dragon
Rouge (e in altri libri a questo simili) interessanti tracce e corrispondenze con aspetti della cultura popolare o di altre civilizzazioni,
temi presenti in ambito letterario e iconografico, per non parlare di quegli aspetti simbolici – soprattutto per quello che riguarda i
simboli dell’ “inconscio collettivo” – individuati e analizzati da C.G. Jung e dalla sua scuola.
Guardando invece la questione dal punto di vista di chi ha, più che scritto, “composto” quest’opera – trattandosi infatti di
una sorta di raccolta di temi e di “ricette” di una certa disomogeneità22 – la motivazione è quella più terra terra possibile: il ritorno
economico. Nella prima metà dell’ ‘800 il Sant’Uffizio non incute più timore, privo com’è, al di fuori dei territori pontifici, di
esercitare un controllo materiale; la magia, le esperienze para-scientifiche come il magnetismo23, gli ordini “iniziatici” di varia
ispirazione e di varia serietà prosperano come sempre avviene nei periodi di crisi e di ricerca di nuove risposte a vecchi quesiti; il
21
In Età Moderna la lotteria fa la sua ricomparsa nel mondo occidentale durante il Rinascimento, con ogni probabilità a Genova. In Francia
(sembra a opera di un italiano) la sua prima comparsa attestata è del 1539, e dunque 17 anni dopo la fittizia datazione di stampa del Dragon Rouge.
22
Nell’opera vi sono passi di carattere chiaramente satanista, con tanto di invocazioni a Lucifero (evocazione di Lucifuge Rofocale grazie al
potere di una “verga fulminante”) e alla sua corte, con una profanazione della Messa della notte di Natale il tutto mescolato a preghiere a Dio affinché
questo tuteli dagli spiriti malvagi e a rituali necromantici. Nel testo sono incluse anche ricette che fanno, ovviamente, uso di grasso umano, “olio di
nervo”, “polvere di mummia” (tenendo presente che per “mummia” si intendeva il più delle volte il midollo osseo) ... Dal nome dell’autore (che
compare alla fine del I° capitolo : “...signé Antonio Venitiana del Rabina”) e da alcuni segni sparsi per il testo (insegnamenti di una pretesa tradizione
rabbinica di derivazione salomonica che consentirebbero di comandare gli spiriti) si ha l’impressione che egli avesse, o volesse far credere di avere,
un qualche tipo di relazione con l’ambiente ebraico.
Il titolo dell’opera richiama una figura simbolica estremamente vitale tanto in Oriente quanto in Occidente. Simbolo della vita in Cina,
ricettacolo delle acque vivificanti in India, punto di unione delle forze opposte e complementari tanto in Oriente quanto presso gli Aztechi (il
quetzalcoatl nasce dalle acque della terra per innalzarsi nel cielo trasfigurandosi in luce), il drago ha ricevuto nella tradizione giudeo-cristiana
un’interpretazione decisamente negativa. Associato alla primitività e negatività della materia, ha finito ben presto per incarnare l’avversario per
eccellenza : Satana. Per contro, nella tradizione celtica il drago rosso è inserito nel contesto di una via iniziatica solare, ‘eroica’, e rappresenta il
coraggio, la forza, il valore. Dall’incontro delle due tradizioni, quella giudeo-cristiana e quella celtica nasce così la figura simbolica del drago nella
sua accezione medievale tale che la sconfitta del drago e la sua uccisione saranno viste come il superamento di una prova iniziatica che consente al
cavaliere di passare a un nuovo stato dell’essere e di acquisire dunque poteri che gli erano prima inaccessibili. Prova di questa nuova funzione
simbolica del drago è il suo vasto impiego nell’araldica dove viene appunto a rappresentare la potenza e il valore. Si ritrova il dragone rosso in
alchimia dove, nella “via umida”, costituisce il minerale (ossido o protossido di piombo) dal quale, grazie al “fuoco segreto”, si estrae l’Azoth o
mercurio dei filosofi. Non si creda però che la figura del dragone rosso sia confinata ai racconti medievali, alle oscure ricette alchemiche o ai
grimoires (dei quali il Dragon rouge di Antonio Venitiano costituisce probabilmente una tardiva imitazione, non senza essere però considerato come
una delle opere “più diaboliche”), prova ne è che ancora oggi vengono fondati sotto questo nome “ordini iniziatici” che si dedicano a rituali magici e a
pratiche “alchemiche”, “tantriche” e “cabalistiche” (per esempio l’ordine denominato Dragon Rouge F.A.Q. fondato nel 1989 in Svezia e tuttora
attivo con logge presenti in Svezia, Norvegia, Finlandia e Germania.
Partendo dalle antichità giudaiche, passando attraverso le condanne della chiesa e le segrete ricette dei grimoires, il dragon rouge, come
tutti i grandi simboli del profondo, ha evidentemente ancora conservato la sua antica potenza.
23
Il magnetismo ha, da sempre e ovunque, destato il più grande interesse e la più grande curiosità. La capacità di attirare, respingere o unire
con occulti legami corpi fisici e la constatazione di regolarità nei suoi effetti (per esempio attirare i metalli ferrosi ma non il legno) e dunque la
possibilità di definire leggi fisiche, per lungo tempo ha conferito al magnetismo la duplice appartenenza sia alla sfera magica che a quella scientifica.
Quale fosse l’importanza dei fenomeni magnetici basta pensare, solo per parlare dell’Età Moderna, alla posizione che occupavano nei lavori di
Athanasius Kircher il quale, oltre a riferimenti sparsi un po’ avunque nelle sue opere, dedica loro tre opere: Ars Magnesia (1631) all’esordio della sua
carriera di poligrafo, Magnes sive De arte magnetica (1641, più volte riedita e con la riedizione del 1654 notevolmente aumentata) e, un quarto di
secolo dopo, Magneticum naturae regnum sive disceptatio physiologica (1667). All’epoca di Kircher «Il fenomeno del magnetismo era oggetto di
speciale considerazione in quel tempo, soprattutto per l’importanza che un esatto riconoscimento della declinazione magnetica aveva per la
determinazione della longitudine e quindi per risolvere i problemi della navigazione…». Egli tuttavia, per inserire organicamente questo fenomeno
nella cornice del suo pensiero, scartò le correnti ipotesi sul magnetismo e lo spiegò nei termini dei concetti della “simpatia” e “antipatia” tra le cose:
«La proprietà motrice del magnetismo, in senso lato, non si distingue… da quella forza occulta presente nelle cose naturali che spinge gli oggetti gli
uni verso gli altri quasi per un nascosto consenso della loro natura o che reciprocamente li allontana per un analogo dissenso. Per questa ragione, ogni
aspetto della simpatia e dell’antipatia può venir considerato per analogia come un movimento magnetico […] Gli influssi astrali… non sono altro che
un’applicazione del principio di attrazione del simile da parte del simile. Se la materia celeste differisse da quella terrestre nessun influsso potrebbe
verificarsi. Per la stessa ragione si deve ammettere che la terra costituisce l’immobile centro dell’universo… Anche gli influssi astrali vengono
ricondotti da Kircher a una pretesa spiegazione fisica. Quando un corpo celeste viene percosso dai raggi solari, l’intensissimo calore prodotto suscita
la sua forza naturale. Questa, per l’eccitazione degli umori dovuta in parte alla rarefazione, in parte al moto orbitale dell’astro, si diffonde e la sua
virtù viene recepita dalla terra…» [Dino Pastine La nascita dell’idolatria…” Firenze, La Nuova Italia, 1978, p. 58-9 e 62-3].
Con alti e bassi il magnetismo continuò ad attirare l’interesse di studiosi e ciarlatani raggiungendo, per questo secondo aspetto, il suo apice
nel periodo a cavallo tra XVIII e XIX secolo con l’attività del medico tedesco Franz Anton Mesner (a un certo punto vera e propria vedette tra la
nobiltà di Francia e Germania) che sviluppò la concezione degli effetti terapeutici del magnetismo come forza fisica nell’elaborazione del
“magnetismo animale”, una forza che metterebbe in condizione gli individui che più ne sono dotati di curare chi si sottoponesse ai suoi “influssi”. In
un certo sottomondo queste credenze hanno ancora oggi un loro seguito... e un loro mercato.
bacino di utenza è composto per lo più da solidi borghesi che, allora come oggi, non badano a spese quando si tratta di mettere le
mani su qualcosa che li distingua dagli altri (e, nel caso di “iniziati”, magari faciliti loro l’ascesa nella lunga scala che, così viene loro
assicurato, porterebbe ai livelli supremi della conoscenza esoterica): su queste basi, in queste condizioni, c’è forse da stupirsi se
qualcuno, in grado di attingere alle “giuste” informazioni e di far produrre un falso sufficientemente credibile, non dia sfogo alla sua
“creatività” traendo ispirazione da una delle figure più potenti di questo mondo liminare?
Non si deve però credere che la creatività fosse un’esclusiva di solo una delle parti in causa, quella di chi era passibile di
controllo e repressione o di chi cercava di sfruttare a proprio vantaggio le debolezze e/o le ingenuità altrui. Infatti anche dalla parte di
chi esercitava il controllo, accanto ai consueti mezzi di investigazione, prezzolamento, incitamento e sfruttamento della delazione,
ecc. vennero talvolta ipotizzati e persino messo in pratica, espedienti per controllare o per ostacolare la stampa del tutto allogeni a
quelli consueti.
La produzione, la diffusione e la conservazione della cultura da sempre trova uno dei suoi limiti più potenti nei fattori
economici. Se gran parte della cultura del XX secolo, intesa nel suo senso più largo (non solo libri e registrazioni musicali, ma anche
programmi radiofonici e televisivi, rappresentazioni teatrali, balletti, performances, film, pubblicità, manifesti, ecc.), è andata
irrimediabilmente perduta, ciò è dovuto al costo proibitivo della sua registrazione analogica materiale e al suo successivo
immagazzinamento. Ciò che si è conservato risponde alle esigenze di fasce di utenza ristrette ma, per aspetti diversi, potenti (quali lo
charme della cultura “alta” - i film di Fellini e di Bunuel piuttosto che certi sboccati e grossolani b-movies – o la prevedibile
attrattiva e lucrabilità di certi generi – film con Moana Pozzi o Rocco Siffredi piuttosto che documentari sulla natura). Oggi, con il
passaggio al digitale, il costo della registrazione e archiviazione di libri, brani musicali, film, ecc. si riduce a cifre sostenibili e lo
stesso si può dire per gli spazi fisici necessari all’immagazzinamento. Ma i fattori economici non entrano in gioco solo per la
registrazione di quello che è già stato prodotto, ma anche nelle fasi precedenti alla produzione, basta pensare che fino a poco più di
un decennio fa il musicista che avesse voluto far eseguire e registrare una sua sinfonia (o chi avesse voluto far “girare” un suo film) si
sarebbe trovato del tutto impossibilitato a meno che non avesse già raggiunto un certo grado di notorietà, mentre oggi grazie
all’ausilio del computer e di pochi altri strumenti elettronici, di alcuni software e di suoni campionati chiunque è in grado di coronare
sogni di questo tipo a costi tutto sommato ampiamente accessibili. Ed è appunto nella consapevolezza del ruolo svolto dai fattori
economici nella produzione della cultura che un uomo come Jean-Baptiste Colbert, ministro di Louis XIV, mirando a colpire la
stampa scomoda, indesiderata, introdusse una tassazione che avrebbe gravato sulla carta destinata alla stampa dei libri non protetti da
privilegi. Furono però considerazioni sempre di ordine economico – le proteste di librai e tipografi, colpiti in modo sensibile nei loro
giri di affari e il vantaggio che automaticamente si accordava alla stampa d’oltre confine, già pericolosamente penetrata sul mercato
francese – che fecero rientrare questa astuta disposizione. La volontà, la necessità di frenare e al limite impedire il diffondersi di idee
indesiderate senza dover ricorrere a misure propriamente poliziesche – spesso, peraltro, di scarsa efficacia – non poteva però basarsi
solo sul regime dei privilegi di stampa, già collaudato e mantenuto per la sua indubbia efficacia, efficacia che però non riusciva a
ricoprire tutto il campo che le Autorità avrebbero voluto porre sotto il più rigido controllo. Con ulteriore sfoggio di creatività Colbert
pensò che il problema avrebbe potuto essere risolto apponendo uno specifico segno distintivo su determinati punzoni di ogni
tipografia, in modo tale che dalla stampa risultasse chiaramente, almeno all’occhio dei controllori, da quali torchi le pagine in esame
fossero state stampate. Purtroppo per Colbert, in epoca analogica un’operazione del genere era difficilmente realizzabile e infatti,
nonostante ripetuti tentativi, non fu mai realizzata. Ma se la tracciabilità dei caratteri da stampa in epoca analogica si è rivelata
impraticabile, in epoca digitale si è, almeno parzialmente, realizzata con il Digital Millenium Copyright Act, a ulteriore testimonianza
del ruolo che il segreto e il sotterfugio da sempre rivestono all’interno del processo della diffusione della cultura.
Inibire la stampa di opere grazie alla politica dei “privilegi” concessi a chi sottoponesse le proprie opere al giudizio della
censura preventiva e, soprattutto, avesse sempre dimostrato e dimostrasse un’immacolata adesione ai principi dei poteri costituiti,
aumentare il prezzo della carta da stampa per chi fosse sprovvisto di privilegi, avere la possibilità di identificare con sicurezza
l’operato di una tipografia grazie ad apposite, tracciabili, microsegnature apposte sui punzoni consegnati a ogni officina... passi
preliminari di quella censura d’eccellenza che verrà messa alla berlina da Orwell in 1984 dove lo sforzo del Potere di armonizzare
l’andamento delle cose con quell’andamento che il Potere pretende sia avvenuto e avvenga, arriva al punto di fare aggiornare
continuamente il contenuto dei quotidiani del passato remoto e recente.
Anche nella finzione letteraria “pubblicare e/è mentire”.