filoSofia
Platonismo e Stoicismo nel
De Trinitate di Novaziano
di Mariapaola Bergomi
All’alba del III secolo dC le comunità cristiane di tutto l’Impero erano
impegnate in una lotta per la sopravvivenza e l’espansione contro una
crescente onda di ostilità; mentre i Cristiani stavano costruendo una fede
con i suoi principi oltre che una chiesa, cercando di fronteggiare crisi
interne di ogni sorta nel tentativo di definire l’ortodossia, gli Imperatori
erano impegnati a contrastare la nuova superstizione, come spesso fu
chiamata nei primi secoli, con una serie di misure concepite per rinforzare il corpo civico dello stato e per contrastare o contenere le conversioni,
percepite come una minaccia del rispetto per le leggi e per la devozione
alla natura divina dello stesso Imperatore. È in questo spirito che Marco
Aurelio promulgò il suo editto nel 167, che rese obbligatori i sacrifici
come segno di lealtà. Quarant’anni più tardi, Settimio Severo decretò,
per la prima volta, contraria alla legge la conversione alla fede cristiana,
con la conseguenza di spingere ancor di più le comunità cristiane nell’ombra della clandestinità. Tuttavia, mentre fiorivano affascinanti sistemi di
pensiero come quello gnostico, i Cristiani – nel tentativo di tenere unita
la comunità, la “grande Chiesa” come soleva definirla in modo ironico il
pagano Celso – si resero ancora più visibili come gruppo riconoscibile di
fedeli nello sforzo di definire le regole di vita e i capisaldi di fede.
Nonostante la crescente ostilità, le comunità Cristiane sulle sponde
del Mediterraneo e a Roma non smisero di crescere: gli studiosi hanno stimato, all’epoca del Vescovo Callisto, circa diecimila, quindicimila
Cristiani nella città 1. Inoltre, col crescere delle comunità cresceva il desiderio di prendere pubblicamente le difese della fede, cosa che spinse
1
Cfr. ad es. Prinzivalli (2017) e inoltre Papandrea (2012). Per quanto concerne
Novaziano, faccio riferimento alla traduzione inglese di Papandrea ma soprattutto
alla recente ottima edizione italiana di Ricciardi (2016)
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i primi teologi apologeti a difendere la verità del messaggio evangelico.
L’approccio universalistico e l’inevitabile cosmopolitismo del messaggio dei Vangeli si scontrò aspramente con il bisogno di controllo e il
senso di appartenenza dell’Impero, espresso in massimo grado dall’editto di Caracalla del 212 che dichiarò tutti gli abitanti dell’Impero
cittadini romani de jure. Con l’elezione dell’Imperatore Decio la situazione peggiorò poiché tutti a tutti i cittadini fu richiesto di sacrificare in
pubblico, ottenendo una certificazione chiamata libellus, sorta di ricevuta che attestava l’avvenuto sacrificio e l’obbedienza dovuta all’Imperatore. Il possesso di un libellus non solo permise alle autorità di controllare la fedeltà dei cittadini, ma rese anche possibile, per i Cristiani,
individuare i fratelli che avevano rigettato Cristo per salvarsi la vita. Fu
proprio sotto il regno di Decio che morì il vescovo Fabiano, successore
di Callisto, martirizzato per aver rifiutato l’apostasia.
Al tempo in cui Cipriano – futuro santo e carismatico leader della
comunità di Cartagine – lasciava la città per riparare altrove e sfuggire la
persecuzione, il soglio di Pietro era vacante a Roma; mentre la comunità
attendeva tempi migliori per eleggere un nuovo vescovo, colui che fu un
tempo studente di filosofia e maestro di retorica, Novaziano, guidava la
chiesa della città in segreto. I due, Cipriano e Novaziano, iniziarono presto una corrispondenza sulla situazione della Chiesa esprimendo diverse
e sovente opposte visioni in particolare su due pressanti problemi, nello
specifico la questione dei lapsi – persone che avevano fatto apostasia sotto minaccia di persecuzione o condanna a morte ma che desideravano,
scampato pericolo, tornare nel seno della comunità – e la questione dei
cristiani battezzati in chiese scismatiche. Un anno dopo la morte del vescovo Fabiano la comunità di Roma era pronta per eleggere un nuovo
vescovo: la scelta cadde su Cornelio con la sostanziale influenza di Cipriano. Tuttavia, un grande numero di fratelli ancora fedeli a Novaziano
decise di consacrarlo vescovo in opposizione a Cornelio; al tempo della
sua elezione come anti-papa Novaziano era infatti non solo il leader della
comunità di Roma ma anche un rispettato teologo. Il suo capolavoro noto
con il titolo di De Trinitate risale molto probabilmente agli anni precedenti la crisi con il rivale Cornelio e con il vescovo Cipriano 2. La frattura
tra il vescovo cartaginese e Novaziano dopo l’elezione di Cornelio non
era solo una crisi politica di due fazioni all’interno della comunità ma era
anche e soprattutto uno scontro dottrinale sulle questioni dei lapsi e dei
2
Per i problemi di datazione e il contesto culturale di composizione dell’opera vedi Papandrea (2012) e Ricciardi (2016).
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cristiani battezzati in chiese scismatiche: mentre Cipriano, nel tentativo
di espandere e rafforzare la comunità esistente, era incline a riammettere
gli apostati e gli eretici dopo il pentimento completo, Novaziano e i suoi
seguaci (chiamati “novazianisti” a Roma e “καθαροί” in Oriente) rifiutavano del tutto l’idea del perdono e della riammissione dei peccatori.
Nei tardi anni Cinquanta del terzo secolo Novaziano era dunque
riconosciuto largamente non solo come un vescovo scismatico ma anche
e soprattutto, sul piano dottrinale, come rigorista, forse influenzato dalla
dottrina montanista che affascinò anche il contemporaneo Tertulliano
che, come Novaziano, non divenne mai dottore della Chiesa 3. Montano,
originario della Frigia, era il fondatore di un movimento religioso spiritualista e ascetico noto anche come “Nuova Profezia”, che tendeva a
enfatizzare l’azione carismatica del Paraclito adottando, sul piano etico,
un rigido rigorismo morale. L’origine di Montano può essere la causa di
un pettegolezzo in voga al tempo e specialmente a Cartagine, secondo
cui lo stesso Novaziano era di origine frigia e non autentico cittadino
romano. Al fine di screditare Novaziano, Cipriano e Cornelio riferiscono
nella loro corrispondenza che il presbitero romano non ricevette mai un
battesimo normale bensì un cosiddetto baptismus clinicorum (con riferimento al sacramento impartito a una persona malata e in serio pericolo
di morte) mentre era posseduto da un demone e oggetto di esorcismo 4.
La presenza di scritti concepiti esplicitamente contro il movimento spirituale di Novaziano e il suo rigorismo etico in opposizione alla posizione
egemonica detenuta da Cipriano testimonia l’impatto che il messaggio
di Novaziano ebbe sulle comunità in Occidente e oltre. I protagonisti
di questa storia vanno incontro al loro destino insieme dopo l’editto di
Valeriano del 258, a seguito del quale il vescovo Sisto, Cipriano e lo stesso Novaziano furono arrestati e martirizzati. Le cosiddette “Catacombe
di Novaziano” in prossimità della basilica di San Lorenzo fuori le Mura
sono così chiamate per una lapide ritrovata nei cunicoli di questo cimitero che recita “Il diacono Gaudenzio (pose) per il beatissimo martire
Novaziano”; nonostante gli studiosi non siano concordi nell’attribuire
l’identità del citato Novaziano, non escludono che si tratti precisamente
dell’antipapa morto a seguito delle persecuzioni di Valeriano 5.
3
Su Tertulliano, si veda l’ottimo Rankin (1995) e inoltre, per un’introduzione in lingua
italiana, Prinzivalli (2010).
4
Il dettaglio biografico dell’esorcismo – sebbene probabilmente non veritiero – è particolarmente curioso, se pensiamo ad altre grandi personalità del mondo tardo antico che ne fanno
cenno, come ad esempio Porfirio.
5
Su questo punto si veda l’ottima sintesi contenuta in De Simone (1970), pp. 35-36.
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Sotto il nome di Novaziano sono stati trasmessi un piccolo numero
di trattati di argomento etico, incluso un De spectaculis, De Bono Pudicitiae e un De cibis judaicis – in cui sono citati altri due trattati collegati
e ora perduti, uno scritto sullo Shabbat e uno sulla vera circoncisione –
e ancora tre lettere contenute nell’epistolario di Cipriano di Cartagine,
la numero 30, 31 e 36 in cui si discute il problema dei lapsi. La storia
del suo capolavoro De Trinitate è più affascinante ma anche più tribolata; nonostante Girolamo non ebbe dubbi nell’attribuire la paternità
dell’opera a Novaziano, alcuni dei suoi contemporanei, come Rufino,
ascrivevano lo scritto a Tertulliano, un errore che è perdurato nei secoli
e dovuto al fatto che i due sono molti simili in stile e argomentazione e
che inoltre l’opera di Novaziano era effettivamente letta sotto il nome
di Tertulliano in oriente a causa della posizione non ortodossa dei
καθαροί, come è del resto testimoniato dallo stesso Girolamo il quale
affermava che l’opera era letta a Costantinopoli come opera di Tertulliano. Anche il titolo De Trinitate è ingannevole e non sembra essere
originale: la parola “trinitas”, infatti, non compare mai nel testo ma
solo nell’inscriptio. La parola, l’equivalente del greco τριάς, appare per
la prima volta nell’orazione Adversus Praxean di Tertulliano, una fonte
diretta di Novaziano. La parola τριάς ricorre invece per la prima volta
nella lingua greca con riferimento alle persone divine nel Contra Noetum di Ippolito e nell’epistola Ad Autolycum di Teofilo di Antiochia,
anche queste fonti dirette di Novaziano. È solo nel 1579 che il francese
Jacques de Pamèle, lavorando all’edizione critica delle opere di Tertulliano, restituì la paternità del De Trinitate al presbitero romano.
Scopo generale del trattato è descrivere le persone divine e l’articolazione della Trinità, l’οἰκονομία del mistero trinitario, descrivendo
le caratteristiche fondamentali del Padre, del Figlio e dello Spirito con
una decisa e forte enfasi sul legame binario tra Dio Padre e Cristo, cosa
che ha fatto propendere alcuni studiosi per un’interpretazione binarista
dell’opera. Il fine di Novaziano era anche e soprattutto quello di combattere la dottrina delle eresie più pericolose del suo tempo (ebionismo
e adozionismo in particolare) e di offrire una prova tangibile di come la
nuova teologia cristiana fosse in grado di armonizzare Antico e Nuovo
Testamento. Il testo mostra infatti una conoscenza eccellente della Legge
con un numero impressionante di passi veterotestamentari, in particolare
dal libro della Genesi, dell’Esodo e dei Profeti. Mentre Tertulliano è sovente e in modo aperto critico nei confronti dei fedeli di religione ebraica
– prova evidente ne è il suo Adversus Judaeos – Novaziano sembra tenere
il Giudaismo in grande considerazione: secondo alcuni questo sarebbe
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la prova che la presenza della comunità ebraica era forte e rilevante nella
Roma del tempo e che abbia forse esercitato un’influenza importante sui
primi teologi latini; fonti antiche affermano, ad esempio, che il vescovo
Callisto avesse legami importanti con gli ebrei romani e che era affascinato dalla vita della sinagoga. La relazione col Giudaismo, la filosofia
ebraica e la tradizione rabbinica erano certo un punto importante del
dibattito teologico nei primi secoli della chiesa, sia da un punto di vista
dottrinale che da un punto di vista politico. Le prescrizioni rituali contenute nel Levitico, che ancora oggi caratterizzano lo stile di vita degli ebrei
ortodossi, furono progressivamente abbandonate a partire dalla riflessione paolina e quando fu chiaro che il Cristianesimo mirava a trascendere i
limiti del Giudaismo e i suoi riti di appartenenza, purificazione e passaggio (come la circoncisione o il bagno rituale del mikveh). Novaziano non
sembra preoccuparsi della dicotomia che consiste nell’esprimere la fede
cristiana in concetti appartenenti alle categorie del pensiero semitico o
al contrario in categorie di pensiero greco ellenistico: egli sembra anzi
utilizzare con una certa disinvoltura tradizioni diverse con lo scopo di
creare un nuovo linguaggio di fede in lingua latina.
Mentre in Oriente, con il fiorire della scuola di Alessandria, i lavori
di Clemente e Origene mostrano la più alta e realizzata forma di contaminazione tra il platonismo di Filone e la cristologia, la letteratura cristiana in lingua latina inziava a muovere i suoi passi e a farsi riconoscibile nella sua propria narrativa e nel suo linguaggio simbolico. L’uso che
sia Tertulliano che Novaziano fanno dell’Antico Testamento è molto
simile al metodo tipologico e al metodo allegorico dei padri greci; allo
stesso tempo, va ricordato che tipologia e allegoria non sono estranei al
metodo ebraico di interpretare la Torah. La più antica forma di esegesi
biblica, infatti, consiste nella collezione di testimonia (cioè liste di passi) su cui spesso gli autori operano un’interpretazione o una modifica
del testo in particolare dell’Antico Testamento, ai fini di renderlo compatibile con la cristologia. Questa pratica è ereditata direttamente dal
giudaismo, e specificamente dalla pratica dei cosidetti targumim (modifiche al testo genericamente intese come tagli e aggiunte) e midrashim,
cioè passaggi in forma di citazione che non corrispondono però a punti
precisi e alla versione canonica del testo biblico ma piuttosto in parafrasi e commenti. Nel suo Dialogo con Trifone, scritto da San Giustino
Martire attorno alla metà del II secolo 6, Giustino medesimo racconta
dell’incontro che ebbe a Efeso con l’ebreo Trifone; curiosamente, spes6
Per una ottima edizione italiana del dialogo vedi Visonà (2013, 3).
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so nel corso del dialogo Giustino accusa gli ebrei di interpretare male la
Legge e biasima l’abitudine del Rabbino di parafrasare le scritture, allo
stesso tempo però Giustino cita passi che non corrispondono al testo
canonico e sembrano, di fatto, midrashim cristiani.
In Novaziano è preminente la lettura tipologica, specialmente
quando si tratta di interpretare il concetto di teofania nell’Antico Testamento; nel De Trinitate, infatti, tutti i riferimenti alla teofania (come
l’albero di fuoco, o i numerosi incontri angelici) sono interpretati come
una vera prefigurazione di Cristo. Novaziano rende ragione della teofania come apparizione pre-incarnata di Cristo spiegando che è necessariamente Cristo l’essere apparso ai patriarchi e ai profeti in quanto Dio
è assolutamente trascendente, invisibile e ineffabile; di conseguenza, la
persona incontrata dai patriarchi e dai profeti come narrato nella Legge
deve essere il Λόγος di Dio, cioè Cristo che sempre è stato presso Dio
prima e dopo l’incarnazione 7. Quanto ai metodi di lettura del testo sacro, Novaziano adotta anche quello allegorico, come è chiaro ad esempio dal suo scritto De cibis judaicis, in cui interpreta in modo allegorico
i tabù alimentari dell’ebraismo (lo stesso metodo avrà adottato anche
negli scritti sullo Shabbat e la circoncisione). È interessante notare, a
proposito di esegesi ebraica ed esegesi cristiana della Bibbia, che in un
paio di passaggi del De Trinitate Novaziano segue la tradizione ebraico-alessandrina invece di altri autori come Giustino, seguito invece da
Tertulliano. È il caso del paragrafo 14 del capitolo 19 del trattato, dove
Novaziano descrive la lotta tra Giacobbe e l’angelo narrata nel libro
della Genesi: mentre Tertulliano, con Giustino, interpreta Giacobbe
come figura di Cristo e l’angelo come il diavolo, Novaziano – con Filone, Clemente e Origene – interpreta Giacobbe come Cristo e l’angelo
come il popolo ebraico riluttante alla conversione.
Nella cornice introduttiva del dialogo, Giustino informa Trifone che
egli attese diverse scuole filosofiche quando ancora era un giovane uomo,
finché un vegliardo (forse prosopopea letteraria creata da Giustino per impersonare la conversione) non gli aprì gli occhi annunciando la rivelazione
di Cristo. In questo affascinante passo – affascinante anche perché figlio
del suo tempo e della compenetrazione tra scuole filosofiche pagane e pensiero cristiano – Giustino descrive il suo cursus filosofico in un particolare
schema a climax ascendente che va dagli Stoici ai Platonici. La climax è
7
La teofania è un tema centrale per comprendere l’uso che Novaziano fa delle citazioni
veterotestamentarie, ed è inoltre un genuino problema teologico per il presbitero, soprattutto
quando definisce gli incontri col divino come incontri con angeli di Dio, che sono in realtà
Cristo stesso.
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intesa, a mio avviso, come un passaggio da una concezione del divino che
è sia immanente che privo di sentimento nei confronti del genere umano
(stoicismo), a una concezione dei divino che è trascendente e centro focale
di un sistema cosmologico (aristotelismo), a una concezione del divino che
è trascendente e legata alla numerologia oltre che alla cosmologia (pitagorismo) fino ad arrivare al dio dei platonici che è sì trascendente ma anche
legato alle sorti umane in quanto creatore buono del cosmo vivente. Scopo
di Giustino è affermare che la rivelazione dei Vangeli, analizzata razionalmente e illuminata dalla fede, alla fine rese i suoi interessi filosofici insufficiente o superficiali se paragonati alla Cristologia:
«sin dall’inizio desideravo anch’io incontrare questi pensatori, perciò mi
dedicai dapprima a un maestro stoico. Dopo aver speso parecchio tempo
con lui, dal momento che non progredì in nulla quanto alla conoscenza di
Dio [...] lo lasciai e andai da un peripatetico [...] Andai anche da un famoso pitagorico, un uomo rimarchevole quanto a sapienza [...] “E dunque”,
mi disse, “hai studiato musica, astronomia, geometria?” [...] Quando mi
trovai in un vicolo cieco, mi venne in mente di andare dai platonici, perché
erano davvero tenuti in grande considerazione [...] Fui affascinato dallo
studio delle realtà incorporee, e la contemplazione delle Idee eccitò la mia
mente. Pensai di essere divenuto sapiente in poco tempo, e, nella mia pigrizia, di poter concepire un’idea complessiva di Dio in una sola volta, perché
questo è lo scopo della filosofia di Platone (II. 3, 65)». (trad. mia)
È difficile valutare in che misura i padri latini considerassero la filosofia
indispensabile alla Cristologia e alla teologia in generale. La loro attitudine
nei confronti della filosofia sembra diversa da quella della scuola di Alessandria. Dobbiamo infatti attendere Ambrogio e naturalmente Agostino
perché i teologi occidentali e i ministri della chiesa riconoscano pubblicamente il loro debito nei confronti della filosofia pagana Greca e Romana.
Tuttavia, autori come Minucio Felice, Tertulliano, Lattanzio, Commodiano, Cipriano e anche Novaziano contribuirono alla vera e propria costruzione di un nuovo patrimonio linguistico filosofico in Latino e riuscirono
nell’impresa di realizzare la seconda grande operazione transculturale dai
tempi di Cicerone, questa volta accomodando la lingua della teologia Greca e alessandrina in Latino e non di rado creando neologismi, o arricchendo di significato termini tecnici già in uso, per concetti indispensabili alla
speculazione. È il caso delle parole confibulatio, contemplabilis, incarnari,
incorruptio, permixtio e soprattutto praedestinatio, parole dense utilizzate
da Novaziano per riferirsi all’incarnazione di Cristo e al legame delle sue
nature. E davvero, lungi dall’essere solo un semplice lavoro di traduzione,
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l’appropriazione culturale che riuscirono a realizzare questi “Ciceroni cristiani”, rimase indispensabile per i secoli a venire 8.
A proposito del rapporto tra Novaziano e la filosofia, occorre sottolineare che, anche in mancanza di informazioni attendibili sulla sua
infanzia e giovinezza, la prosa di Novaziano è elegante e sorvegliata
e mostra chiaramente la padronanza del discorso retorico, oltre che
una formazione filosofica. Nonostante una conoscenza probabilmente
solida della filosofia pagana, sono incline a pensare che Novaziano non
intendesse dimostrare apertamente una preferenza per nessuna scuola
di pensiero in particolare, ma piuttosto che abbia adottato una felice
sintesi di stoicismo e platonismo, con una decisa influenza dello stocismo romano (Posidonio e Seneca in particolare) e del medioplatonismo
(Apuleio e Filone ad esempio). Questo è vero anche nel caso di Minucio
Felice, il cui dialogo Octavius è molto infuenzato dalla filosofia pagana
sia nell’approccio alla cosmologia che alla dialettica; il dialogo contiene
infatti echi del De natura deorum e del De finibus di Cicerone, della
Epistola 90 di Seneca e delle Naturales Quaestiones. Anche se è difficile
stabilire se Novaziano dipenda direttamente da Minucio, l’Octavius è
ad ogni modo una fonte indispensabile per la caratterizzazione del Padre, per i suoi attributi come prima persona della Trinità, e per il ruolo
demiurgico della divinità.
Al contrario di molti suoi contemporanei, Tertulliano, nonostante una
conoscenza della filosofia greca, non sembra promuovere in alcun modo lo
studio di questa disciplina, nemmeno come ancilla theologiae; al contrario,
il suo atteggiamento verso la filosofia è spesso apertamente polemico. Se
da un lato non nega che diversi sistemi di pensiero possano contenere un
barlume di verità, egli è nondimeno aspro nel giudizio nei confronti di quei
filosofi che, nel vano tentativo di essere originali, operano una perversione
della ricerca intellettuale. E del resto, nobis curiositate opus non est post
Christum… Esempio di questo atteggiamento è un famoso passo contenuto nel De praescriptionibus adversus haereticos, un accorato discorso contro
le eresie cristologiche in forma di arringa forense:
«Queste sono le dottrine degli uomini e dei demoni, nate dallo spirito della sapienza terrena per quelle orecchie che hanno il prurito di udirle. Ma
il Signore chiamò “stoltezza” quella sapienza, e scelse ciò che è stolto del
8
L’espressione “Ciceroni cristiani” è mia e si riferisce all’operazione di transculturazione
linguistica con la traduzione di concetti teologici greci in latino. Sulla lingua di Novaziano,
vedi ad esempio Koch (1937) e Mattei (2012) oltre che Ricciardi (2016) nella sua introduzione
al testo.
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mondo per confondere anche la stessa filosofia. Che la filosofia è la materia
della sapienza terrena, interprete temeraria della natura e della disposizione
divina. Pertanto, le eresie stesse sono subornate dalla filosofia. Dalla filosofia
derivano gli eoni, e non so che forme infinite di numero e la triade dell’uomo
secondo Valentino: egli è stato filosofo platonico. Dalla filosofia deriva il dio
di Marcione, un dio migliore del nostro grazie alla sua mitezza: era un dio
proveniente dallo stoicismo. E perché si dica che l’anima perisce, si osserva
Epicuro; e perché si neghi la ricostituzione della carne, si attinge all’insegnamento unanime di tutti i filosofi; e quando si pone la materia sullo stesso
piano di Dio, è la dottrina di Zenone; e quando si introduce qualche nozione
di un dio di fuoco, interviene Eraclito. [...] Che hanno in comune, dunque,
Atene e Gerusalemme? L’Accademia e la Chiesa? Gli eretici e i Cristiani? La
nostra disciplina viene dal portico di Salomone, il quale aveva anche insegnato che si doveva cercare Dio in semplicità di cuore (VII. 9)». (trad. mia)
In questo passo Tertulliano traccia un’equivalenza tra determinate eresie e specifiche scuole filosofiche o singoli pensatori, implicando che entrambi sono connessi e interdipendenti. Il maestro gnostico Valentino
è considerato un Platonico, Marcione uno stoico, e i materialisti sono
detti discepoli di Zenone ed Epicuro. Atene e Gerusalemme non sono
solo diverse ma poli opposti esattamente come l’Accademia e la Chiesa,
perché la fede richiede semplicità, che è l’opposto della curiosità filosofica 9. Tuttavia, nonostante questa opposizione dichiarata alla curiositas
filosofica, Tertulliano fu autore profondamente coinvolto nella discussione teologica senza prescindere da strumenti filosofici e dall’apparato
concettuale nel discutere di precise questioni dottrinali sia con i pagani
che con i Cristiani eretici. Se paragonato a Minucio, Tertulliano non limita i suoi attacchi a un paragone critico tra la santità dei Cristiani e l’immoralità dei pagani: egli desidera andare a fondo di specifiche dottrine,
la più potente e controversa delle quali è certamente la concezione di
Cristo come Λόγος di Dio, o Logostheologie, che fu punto di incontro
privilegiato tra la cristianità e la filosofia greca per almeno due secoli. Su
questo tema, Tertulliano insiste sulla distinzione tra un logos immanente
di natura stoica e il logos trascendente di Cristo. Tertulliano fu, come
noto, abile polemista sia sul fronte esterno (ad esempio contro la comunità ebraica, nel suo Adversus Judaeos) che sul fronte interno: numerosi
sono i suoi scritti anti eretici verso varie perversioni della dottrina della
grande Chiesa. Uno dei più profondi tra questi scritti è certamente il suo
9
Per l’analogia tra correnti eterodosse della chiesa e scuole filosofiche vedi Boys-Stones
(2001) sul concetto stesso di “ortodossia” nei primi secoli della chiesa e nelle scuole platoniche,
e inoltre Prinzivalli (2017).
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Adversus Marcionem che consta di cinque libri, gli ultimi due dei quali
dedicati alla critica della Bibbia marcionita (un testo biblico pesantemente modificato, soprattutto nel Nuovo Testamento, Giovanni e le Lettere
paoline). L’eresiologia di Tertulliano è certamente la fonte primaria della
trattazione di Novaziano in tema di eresie, insieme all’Adversus Haereses
di Ireneo e all’opera di Ippolito.
Come ho già affermato, scopo primario dell’opera di Novaziano è
discutere la relazione tra le persone divine; tuttavia, l’attenzione dedicata
al Padre, al Figlio e allo Spirito nel suo trattato non è identica né per qualità né per quantità, intesa come lunghezza nel testo. Ogni parola e ogni
frase è accuratamente selezionata, ma è facile notare che le prime due
sezioni del trattato, quelle dedicate al Padre e al Figlio, sono molto più
lunghe e complesse della terza dedicata allo Spirito; inoltre, dopo le pagine dedicate al Paraclito, segue un’ultima sezione in cui Novaziano fa una
ricapitolazione e una nuova breve disamina della generazione del Figlio e
i suoi legami col Padre. Dovendo indicare un tema che al meglio rappresenta il De Trinitate, direi che è senz’altro la generazione di Cristo come
Λόγος e la relazione binaria che intercorre tra Padre e Figlio, con una
chiara preoccupazione per la doppia natura di Cristo ma specialmente
per il suo posto in relazione al Padre; mentre da un lato Novaziano
vuole sottolineare l’unità nella sostanza di Dio e Cristo, egli non può allo
stesso tempo evitare un accento sulla subordinazione del figlio 10. Cristo
è detto essere presso Dio e in Dio come suo Λόγος dal principio, e allo
stesso tempo l’agente attraverso cui si realizza non solo la redenzione ma
anche la creazione 11. Novaziano gioca dunque un ruolo importante nel
dibattito sulla Logostheologie insieme a Giustino, il suo allievo Atenagora, Teofilo di Antiochia, Clemente e Origene in oriente, e Tertulliano in
occidente. In particolare l’orazione Adversus Praxean di Tertulliano sembra essere il principale riferimento di Novaziano, un’opera in cui l’autore
si scaglia in particolare contro l’eresia monarchiana di Prassea, un’eresia
che affermava l’indistinzione sostanziale tra Padre e Figlio.
Ho affermato che platonismo e stoicismo sono le dottrine filosofiche che più influenzano la trattazione di Novaziano: le due correnti
di pensiero, nel II e nel III secolo, non vanno interpretate come antitetiche bensì come interdipendenti o per meglio dire compenetrate nel
dibattito di scuola. Autori come Apuleio, Filone, Plutarco mostrano
10
Su questo punto specifico, la questione dell’unità sostanziale di Cristo col Padre (anche
in relazione alla lettura che del problema dava Tertulliano, più deciso sulla corrispondenza
ontologica delle persone divine), si rimanda a Simonetti (1959)
11
Vedi in particolare Lloyd (2012) e in particolare il terzo capitolo in Papandrea (2012).
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decise influenze del dibattito medioplatonico sulla divinità demiurgica e delle discussioni di natura stoica sul λόγος immanente al mondo.
Novaziano eredita questo dibattito integralmente, sebbene non ne faccia menzione esplicita: letture platoniche e stoiche degli attributi divini
sono egualmente reinterpretate nel De Trinitate. Mentre il platonismo
– con decisi echi del Fedone e del Timeo di Platone 12 – è predominante per quanto concerne le caratteristiche della prima persona di Dio
Padre, echi stoici sono chiaramente visibili nella descrizione di Cristo
come λόγος non immanente al mondo bensì trascendente, e tuttavia
presente in Dio e dopo (o grazie a) Dio.
La prima sezione del trattato dedicata al Padre sottolinea principalmente tre caratteristiche: la sua trascendenza e ineffabilità, il suo potere
sui viventi e il suo ruolo demiurgico come creatore del cosmo mosso
da bontà. La sua bontà e la sua più che amorevole attitudine verso il
genere umano sono rimarcate in tutta la sezione e non c’è quasi alcuno
spazio per dimostrazioni di ira o spirito punitivo. Novaziano apre infatti la sua trattazione con una magnifica descrizione del creato, concepita
come omaggio e rilettura del Genesi. Jéan Daniélou (autore del ben
noto e fondamentale Le origini del Cristianesimo Latino), è stato forse il
primo studioso a riconoscere l’originalità e la cultura di Novaziano, e fu
il primo ad affermare l’influenza decisiva del platonismo, e in particolare del De Mundo dello Pseudo Aristotele e del De Mundo di Apuleio,
in questa descrizione cosmogonica 13. Nonostante siano passati diversi
anni dalla pubblicazione della tesi di Daniélou, le sue argomentazioni
sono ancora più che convincenti oltre che affascinanti per chi desidera
operare uno sguardo critico sull’influenza del pensiero pagano sulla
prima teologia cristiana. Nel passo in questione – che corrisponde ai
primissimi paragrafi del De Trinitate – Novaziano elenca in un ordine
non convenzionale i fenomeni naturali e gli elementi che compongono
il creato (De Trinitate I. 1-9). Secondo Daniélou, l’ordine in cui Novaziano nomina i fenomeni naturali che compongono il mondo terrestre
non è casuale ed è anzi rilevante: per prima cosa egli nomina il cielo con
12
Il Fedone ma soprattutto il Timeo vanno considerati senz’altro i riferimenti culturali più
pesanti per quanto riguarda l’influenza del pensiero platonico sui primi autori cristiani. Mentre
il Timeo è assurto (nella storia del Platonismo dal primo secolo aC) al rango di testo “di scuola”
e lettura imprescindibile per i suoi riferimenti alla cosmogonia, al Dio creatore e a una decisa visione antropocentrica, il Fedone resta un testo chiave per la discussione dell’immortalità
dell’anima e della visione del cosmo noetico. Più nello specifico, per quanto riguarda Novaziano, i suoi riferimenti alla divinità del Padre richiamano la caratterizzazione del principio divino
che Platone offre per l’appunto nel Fedone (106 d e ss) e soprattutto nel Timeo (28 a e ss)
13
Mi riferisco in particolare a Daniélou (1973).
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i corpi celesti, la terra con gli animali e le piante, poi il mare con i pesci;
quest’ordine specifico non ricalca infatti la tradizionale gerarchia degli
elementi che riflette l’armonia dei contrari 14. La descrizione della terra,
menzionata brevemente anche nel suo trattato De spectaculis, presenta
alcune affinità con il De natura deorum di Cicerone; per quanto concerne invece i legami con Apuleio, secondo Daniélou le assonanze tra
questo passo e il capitolo 4 del De Mundo sono significative, sia nel
contenuto che nel lessico. Tra queste Daniélou elenca in particolare i
fenomeni naturali della terra, come i monti (altitudine montium, in Novaziano altissimos montes), l’uniformità delle valli (camporum aequore,
in Novaziano campos aequalites), gli animali (animantibus, in Novaziano animalibus), le foreste (silvarum, in Novaziano silvarum) che sono
come vesti (vestitur, in Novaziano vestivit) – un dettaglio, questo, presente esclusivamente in Apuleio e Novaziano –, lo scorrere dei fiumi
(fluminum lapsus, in Novaziano fluminibus lapsuris) e i fiori multicolori
(infinitis coloribus floret, in Novaziano variis florum coloribus).
Il tema dell’armonia degli elementi e dell’intrinseca coerenza della
creazione è ricorrente nella descrizione dei poteri creativi di Dio; alle
volte, quando descrive la presenza divina nella creazione, Novaziano
combina una descrizione di Dio oltre e sopra il cosmo oppure attorno
al cosmo, come in un abbraccio, ma anche di Dio dentro la creazione,
oscillando con cautela tra una concezione immanente e trascendente
della sua presenza, come in De Trinitate, II. 1:
«Al di sopra di tutto si trova Dio stesso che, contenendo ogni cosa nel suo
complesso e non lasciando niente al di fuori di sé, non ha fatto spazio a
una qualche divinità superiore, come invece alcuni ritengono, poiché lui
stesso aveva racchiuso l’universo all’interno della sua perfetta grandezza e
potenza, con lo sguardo sempre rivolto verso il suo operato. Egli pervade
tutto, muove la totalità delle cose, dà vita all’universo, tiene sotto controllo
ogni cosa e unisce in armonia le sostanze discordanti di tutti gli elementi:
il suo obiettivo è che a partire da elementi diversi si formi un unico mondo
consolidato e unito da questi legami e che non potrà essere disgregato da
nessuna forza a meno che non ordini che si dissolva il solo che lo ha creato,
per assicurarci beni maggiori». (trad. Ricciardi)
La frase “in concordia, elementorum…solvi jusserit” sembra richiamare De Mundo, 21 con il peculiare utilizzo dei termini riservati agli
elementi (discordantes, dispares, impares) e per la mescolanza di cose
14
Come avviene ad esempio nel Timeo e in successivi scritti di scuola.
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Platonismo e Stoicismo nel De Trinitate di Novaziano
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separate raccolte in unità (unus, solidatus, conspiratione, coagmentata,
inconfusa) 15. Seguendo ancora una volta Daniélou, l’uso della parola
conspiratio in questo passaggio testimonia un’influenza stoica dal momento che il termine è la traduzione del Greco sympnoia, σύμπνοια, un
termine usato in origine negli scritti ippocratici ma adottato in seguito
da Crisippo per indicare la mescolanza vivente delle cose del mondo
grazie all’azione del pneuma divino, πνεῦμα.
Novaziano enfatizza fortemente gli attributi di immortalità, incorruttibilità e ineffabilità di Dio Padre, senza però renderlo estraneo o insensibile alle vicende umane (in chiara contrapposizione con il dio degli Stoici, o, come leggiamo in Tertulliano, di Marcione) grazie alla sua
bontà e alla sua continua azione creatrice per mediazione del λόγος di
Cristo. Poiché egli precede il λόγος – che è detto “procedere” da lui, un
dettaglio su cui è necessario soffermarsi – egli è oltre l’umana comprensione e il ragionamento discorsivo. Dio non si manifesta in altre immagini
che si discostino dalle manifestazioni delle altre due persone della Trinità
che sono a lui consustanziali. Quando Dio parla – e Novaziano sembra
particolarmente reticente su questo punto, nonostante menzioni passi
veterotestamentari in cui Dio si rivolge ai patriarchi e ai profeti – si esprime esclusivamente per affermare che egli è essenza stessa e vita stessa. In
questo senso Novaziano interpreta il celeberrimo passo di Esodo III, 14
spiegando che la frase Ego sum qui sum significa “Io mantengo sempre la
stessa natura”, cioè sono immutabile nella mia essenza immortale:
qualsiasi cosa possa essere ciò che è Dio, deve necessariamente esserlo per
sempre, in modo che sia Dio per sempre, mantenendo intatto sé stesso con
le sue qualità. E per questo dice “Io sono colui che sono”. Per il fatto che
ha questo nome, poiché mantiene sempre la medesima natura. [...]
Da qui si conclude che non può essere pronunciato il nome proprio di
Dio poiché non può essere neppure concepito. Nel nome è contenuto ciò
che si può comprendere a partire dalla sua essenza. Il nome infatti significa
quell’aspetto che può essere compreso a partire dal nome. Ma quando ciò
di cui si tratta è tale da non poter essere afferrato correttamente neppure
dalla capacità della ragione, con quale nome sarà giusto chiamare ciò che
è, mentre è aldilà della ragione, inevitabilmente va anche oltre il significato
di un nome? [...]
Dunque Dio è immortale e incorruttibile, non sperimenta perdite e
15
«et in concordiam elementorum omnium discordantes materias sic connectens, ut ex
disparibus elementis ita sit unus mundus ista coagmentata conspiratione solidatus ut nulla vi
dissolvi possit, nisi quum illum solus ipse fecit, ad majora alia praestanda nobis, solvi jusserit»
(Novaziano, De Trinitate II. 1).
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nemmeno la fine. È poiché è incorruttibile, dunque è anche immortale e
poiché è immortale, dunque è anche incorruttibile». (De Trinitate IV. 6,
10, 12. Trad. Ricciardi)
I passi che ho riportato contengono straordinario materiale concettuale
sapientemente utilizzato e articolato da Novaziano in una prosa originale. L’interpretazione di Esodo III, 14 va nella direzione di una decisa adesione al principio platonico dell’immutabilità del divino enunciato con
chiarezza per la prima volta nel Timeo di Platone e ripreso poi da tutti i
commentatori accademici 16. Il cambiamento, infatti, non intacca mai la
divinità, né in sostanza, né in quantità, né in qualità. Il secondo passaggio della citazione si collega al tema dell’ineffabilità: Novaziano sembra
basare la sua epistemologia su una concezione realista del linguaggio,
forse di matrice stoica, secondo cui possiamo cogliere l’essenza delle cose
mondane (ma appunto non di Dio che è oltre il pensiero discorsivo e il
linguaggio) grazie ai loro nomi e averne completa conoscenza grazie alla
ragione 17. Quanto all’ultimo stralcio di testo, lo trovo un esempio evidente di cripto-citazione Platonica: esattamente come Socrate nell’ultima parte dell’argomento contro Cebete nel Fedone di Platone – laddove
è l’anima a mantenere salda la sua natura, la natura di essere viva – Novaziano rende immortalità e incorruttibilità interdipendenti e necessariamente legate. Dio dev’essere incorruttibile in quanto immortale, e non
può che essere immortale essendo di natura incorruttibile.
La sezione dedicata al Padre si chiude con una magnifica descrizione del carro di Dio, con riferimento esplicito alla visione di Ezechiele
all’inizio del suo libro profetico. È una elegante e potente descrizione
del cosiddetto carro divino e della sua simbologia, specialmente le ruote
come simbolo del tempo, il cristallo, il fuoco, e le quattro creature umane e ferine che accompagnano Dio (l’angelo, il leone, l’aquila, il toro).
Novaziano interpreta il carro divino come simbolo della Provvidenza: il
carro è anzi il mondo stesso dove è tutto è contenuto, compresi i corpi
celesti con il loro movimento regolare. Dio governa il tutto con l’aiuto
dei quattro angeli in forma ferina; le ruote indicano il ritmo ciclico di
giorni e stagioni e gli occhi lo sguardo di Dio che tutto osserva, giudica e
guida. Per quanto concerne il fuoco, così importante nella visione di Eze16
Come ho già ricordato, si tratta del celeberrimo passo di Tim., 28 a. (ἔστιν οὖν δὴ κατ᾽
ἐμὴν δόξαν πρῶτον διαιρετέον τάδε: τί τὸ ὂν ἀεί, γένεσιν δὲ οὐκ ἔχον, καὶ τί τὸ γιγνόμενον μὲν
ἀεί, ὂν δὲ οὐδέποτε; τὸ μὲν δὴ νοήσει μετὰ λόγου περιληπτόν, ἀεὶ κατὰ ταὐτὰ ὄν, τὸ δ᾽ αὖ δόξῃ
μετ᾽ αἰσθήσεως ἀλόγου δοξαστόν, γιγνόμενον καὶ ἀπολλύμενον, ὄντως δὲ οὐδέποτε ὄν).
17
Così ad esempio Kelly (1981) e recentemente Mattei (2012).
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Platonismo e Stoicismo nel De Trinitate di Novaziano
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chiele e in generale nella cosmogonia giudaico-cristiana, può essere qui
un riferimento all’ekpyrosis, la conflagrazione, o allo spirito immanente
ancora una volta di origine greca, eraclitea e stoica. Pierre Boyancé per
primo ha suggerito un possibile legame tra la descrizione di Novaziano e
il Fedro di Platone 18, ma anche il Quis rerum divinarum heres sit di Filone
e le sue Quaestiones in Genesim. Secondo Daniélou, ancora una volta
Novaziano trae ispirazione dal De Mundo di Apuleio poiché la seconda
parte dell’opera è dominata dal tema di Zeus come cocchiere e auriga
del cosmo 19. Tuttavia, c’è un altro elemento solitamente trascurato che
può illuminare questo complicato passo di Novaziano: si tratta del fatto
che il carro è il tema portante del misticismo ebraico noto con il nome di
Merkabah o Merkavah (precisamente “carro” ma anche con riferimento
alle ruote del carro). Riferimenti al misticismo del carro, cui si collega il
misticismo detto Heikhalot, dei “palazzi celesti”, sono numerosi nella
letteratura rabbinica antica e nell’hassidismo medievale. Difficile stabilire se l’attenzione – evidentemente profonda per la lunghezza del passo e la dovizia di particolari – che Novaziano riserva a questo passo di
Ezechiele dipenda solo da influenze platoniche oppure se ci sia qualcosa
d’altro ad aver affascinanto l’autore; per la cura che riserva al passo biblico, si può forse ipotizzare che Novaziano fosse a conoscenza di fonti
ebraiche o rabbiniche, nonostante non ci siano, al momento, sufficienti
prove ragionevoli per dimostrarlo 20.
Come ho affermato in precedenza, Novaziano, come il contemporaneo Tertulliano, era profondamente angosciato dal moltiplicarsi delle
eresie che mettevano in discussione l’economia trinitaria. Nonostante il
concetto delle tre persone divine fosse ancora in via di consolidamento,
i due teologi sono entrambi molto diretti nell’esporre le loro critiche
e nulla concedono alle eresie cristologiche che negano la divinità di
Cristo (ebionismo, adozionismo), o l’umanità di Cristo (varie forme di
Gnosticismo, monarchianismo, patripassianesimo), o che le persone
divine siano di fatto persone distinte e non un’unità che si manifesta in
vario modo (modalismo o docetismo). I passi dedicati alla confutazione
delle eresie nella seconda sezione del De Trinitate sono molteplici e tutti di notevole complessità ed eleganza. In De Trinitate XIII. 5 abbiamo
un esempio di come Novaziano coniughi divinità demiurgica di Cristo
con la sua kēnosis di incarnazione:
18
In particolare con richiamo a Platone, Phaedr., 246 e.
In particolare con richiamo a De Mundo 35-36.
20
Sul misticismo cabbalistico vedi ad esempio Busi (2005)(2009) e Tretti (2007).
19
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Mariapaola Bergomi
«Allora, se mentre per una unione reciproca la carne porta in sé il Verbo
di Dio e il Figlio di Dio assume la debolezza della carne, salendo con la
carne come sposa là da dove era disceso senza carne, il Verbo recupera
giustamente la gloria che mostra di aver avuto prima della creazione del
mondo: in questo modo dimostra con la massima evidenza di essere Dio. E
nondimeno, mentre si annuncia che il mondo stesso è stato creato dopo di
lui, si scopre che è stato creato attraverso di lui». (Trad. Ricciardi)
In questo passo leggiamo la determinazione di Novaziano di mantenere
salde le due nature di Cristo affermando anche il principio che la creazione non avviene prima della concezione del Figlio ma attraverso il Figlio. Egli è davvero Figlio di Dio poiché fu inviato al mondo morendo
e ritrovando la gloria presso il Padre. I passi che seguono sono forse i
più intensi di tutta la sezione cristologica e forse dell’intero trattato per
i numerosi riferimenti filosofici e la potenza delle immagini:
È evidente che l’uomo è creato da Dio ma che non procede da Dio. E
mentre da Dio non procede alcun uomo, invece da Dio procede il Verbo
di Dio, del quale si dice “Il mio cuore ha emesso una buona parola” (Sal.
45). Poiché il Verbo viene da Dio, a buona ragione è presso Dio e siccome
non è stato proferito per rimanere inattivo, a buona ragione ha fatto tutte
le cose. Infatti “tutte le cose sono state create per mezzo di lui e senza di lui
non è stato fatto niente” (Gv. 1,3). Ma questo Verbo, per mezzo del quale
sono state fatte tutte le cose, è Dio. “E il Verbo”, si dice, “era Dio”. Dunque Dio procede da Dio, poiché il Verbo che procede è Dio che quindi
procede da Dio». (De Trinitate XV. 6. Trad. Ricciardi)
«Dunque è Dio Padre che ha stabilito e creato tutte le cose, lui solo non
conosce origine, è invisibile, senza limiti, immortale, eterno, l’unico Dio;
niente può essere non dico anteposto, ma neppure paragonato alla sua
grandezza, maestà e potenza. Da questi, quando Egli volle, nacque il Verbo, il Figlio. “Verbo” non è inteso nel senso di un suono che percuote
l’aria o nel senso del tono della voce che viene spinta fuori dall’interno, ma
viene riconosciuto nella sostanza della potenza proferita da Dio. Riguardo
al mistero della sua nascita sacra e divina, nessun apostolo lo ha appreso,
nessun profeta lo ha appurato, nessun angelo lo ha saputo, nessuna creatura lo ha conosciuto; è noto solo al Figlio, che conosce i segreti del Padre».
(De Trinitate XXXI, 1-2. Trad. Ricciardi)
Novaziano afferma che Cristo non può in alcun modo essere solamente
un uomo, poiché non fu creato da Dio, cioè con un atto di creazione
simile a quello riservato agli esseri umani, e poiché egli non è creato bensì procede dal Padre. Essendo Λόγος, Verbum, Cristo è “pronunciato”,
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Platonismo e Stoicismo nel De Trinitate di Novaziano
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“espresso” da Dio e non creato e plasmato come Adamo ed Eva. Cristo
procede da Dio come sua parola, non però come una parola umana proferita grazie all’aria che spira dai nostri polmoni alla nostra bocca, ma al
contrario come manifestazione – nell’incarnazione, anche visibile – del
suo pensiero, come una forma di pensiero proposizionale o linguaggio
che è il prodotto di un processo mentale o di un’intuizione. Il paragrafo
15 in particolare è il primo luogo dove Novaziano affronta esplicitamente la speciale relazione binaria tra Padre e Figlio. Mentre l’essere umano
è creato da Dio (a deo factum), Cristo, essendo Λόγος, è proferito da Lui
e procede da Lui (procedere e proferri sono i verbi che indicano la filiazione): sul tema, sarà solo il Concilio di Costantinopoli del 381 che sancirà
in modo definitivo che la relazione che intercorre tra il Padre e il Figlio
non è di processione bensì di generazione (mentre la processione è detta
dello Spirito Santo, “che procede dal Padre e dal Figlio” come del resto
recita il Credo di Nicea). Scegliendo di affermare che Cristo procede
dal Padre, Novaziano sembra inserirsi consapevolmente e in modo più
che significativo nella tradizione di pensiero platonica e “pre-neoplatonica”, in quanto sembra anticipare l’evoluzione della dottrina del λόγος
del pensiero di Plotino 21.
Un’altra questione, pressante e a questo relativa, è la questione
della subordinazione del Figlio al Padre, problema di cui certamente
Novaziano era accorto e che non può sfuggire alla nostra attenzione.
Se Cristo è davvero la seconda persona della Trinità, essendo Dio e
uomo, e se non è generato o creato ma invece procede da Dio, in quale
misura egli può essere detto subordinato al Padre? Ci sono almeno tre
tipi di potenziale subordinazione divina: ontologica, etica e funzionale.
Gli studiosi concordano nel dire che, nonostante Cristo esista perché
la mente di Dio da cui procede lo ha concepito, non esiste subordinazione ontologica strictu sensu in Novaziano, poiché la relazione che egli
descrive è forte ma anche reciprocamente significante, e inoltre non
intende mai mettere in dubbio la perfezione e l’immortalità assolutamente autonoma del Figlio. Tuttavia, una subordinazione funzionale è
ravvisabile, ma solo in relazione alla missione redentrice che il Padre ha
affidato al Figlio, cioè quella di redimere l’umanità per mezzo del suo
21
Questo breve accenno al pensiero di Plotino, che riprendo più avanti, non è inteso
come una tesi forte quanto come un’ipotesi di lavoro e ricerca che non ho modo di sviluppare
in questa sede. Tuttavia, ritengo interessante sottolineare l’opportunità di una ricerca sulle
evoluzioni del pensiero platonico dal medioplatonismo pagano alla speculazione di Plotino che
passi attraverso l’analisi della prima teologia in lingua latina, oltre che in lingua greca (laddove
il riferimento va soprattutto a Clemente e Origene). Su Plotino, rimando ad esempio a Bussanich (1988) e Emilsson (2007).
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Mariapaola Bergomi
sacrificio d’amore. Questi passi del De Trinitate dimostrano la solidità
della cultura di Novaziano e la sua innegabile conoscenza del patrimonio filosofico pagano. Voglio soffermarmi brevemente su due punti: (i)
la dottrina del Λόγος applicata al Cristo di Novaziano, (ii) il tema del
pensiero che procede dal Padre. La versione che Novaziano offre della teoria di Cristo come logos è fortemente originale, benché rimandi
alla speculazione medioplatonica in genere e in particolare all’ambiente
alessandrino. È stato sottolineato molto acutamente che la distinzione
tra Cristo come logos immanente al Padre prima della creazione e Cristo come logos proferito dopo l’incarnazione richiama esplicitamente il
dualismo stoico tra logos endiathetos (ragione compresa, posta dentro
l’agente) e logos prophorikos (ragione espressa, resa esplicita), una dicotomia di cui abbiamo varie testimonianze, ad esempio nell’Adversus
Mathematicos di Sesto Empirico. Tracce di una versione cristiana di
questa coppia concettuale le ritroviamo in Atenagora, allievo di Giustino, ma soprattutto nell’opera di Teofilo di Antiochia, anch’egli, forse,
una fonte diretta di Novaziano 22. Per quanto riguarda invece il tema
del pensiero espresso dal Padre, mi sento di affermare che la differenza tra il Dio ineffabile e assolutamente trascendente e il suo pensiero
come Cristo demiurgo che Novaziano sembra voler tratteggiare può in
un certo senso essere letta come anticipazione del rapporto tra l’Uno
e l’Intelletto di Plotino. L’Uno infatti non pensa e non agisce, crea per
sovrabbondanza di perfezione: è l’Intelletto, proferito dall’Uno e che
procede dall’Uno (la processione è infatti il secondo stadio creativo
delle ipostasi tra la manenza e la conversione) che crea, riflette, elabora.
De Trinitate 22, 2-4 offre un altro spunto di riflessione sul tema dello
statuto ontologico di Cristo da un altro punto di vista decisamente originale; in questi paragrafi è sottolineata la differenza ontologica tra Cristo e
l’uomo mediante l’utilizzo dei diversi concetti di “forma” e “immagine”:
«Se Cristo fosse soltanto un uomo, si sarebbe detto di lui che è “ad immagine di Dio”, non “in forma di Dio”. Sappiamo che l’uomo è stato fatto
secondo l’immagine di Dio, non secondo la forma di Dio. Chi è dunque
questo che come abbiamo detto è stato fatto nella forma di Dio? Un angelo? Ma non leggiamo che gli angeli hanno la forma di Dio: solo lui, straordinario e superiore a tutti per nascita, il Figlio di Dio, il Verbo di Dio,
imitatore di tutte le opere del Padre. Dal momento che egli opera come il
Padre suo, la sua forma, come abbiamo esposto, è quella di Dio Padre. E
giustamente si dichiara che è in forma di Dio, poiché lui stesso, che è sopra
22
Vedi ad esempio Ricciardi (2016) in particolare p. 120 e ss.
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Platonismo e Stoicismo nel De Trinitate di Novaziano
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ogni cosa e detiene l’autorità divina su ogni creatura, è anche Dio su modello del Padre, avendo ottenuto questo dal proprio Padre, cioè di essere
Dio e Signore di tutte le cose. Inoltre è Dio secondo la forma di Dio Padre,
poiché è stato generato e proferito da Lui». (Trad. Ricciardi)
Novaziano afferma che l’uomo è stato creato a immagine di Dio, mentre solo Cristo è stato generato nella forma di Dio. In questo passo
Novaziano sembra utilizzare il termine “immagine” nel senso debole
di “somiglianza”, mentre “forma” indica il potere dell’essere divino e
ha un significato molto simile a quello di “natura”. Novaziano intende
sostenere, credo, che mentre l’uomo può aspirare ad essere simile a
Dio solo nell’immagine, Cristo condivide di fatto la forma di Dio, cioè
l’intero della potenza divina poiché Cristo è l’unica persona che è detta
procedere dal Padre e che non è stata dunque creata dal Padre. Questi
termini non sono sempre utilizzati, nel corso dell’opera, in un senso
tecnico e ristretto; altrove Novaziano utilizza il termine imago anche
con riferimento a Cristo. Tuttavia, in questo passo specifico, Novaziano
vuole rimarcare la differenza tra mera somiglianza e consustanzialità.
Quello che mi colpisce in particolare e su cui vorrei porre l’attenzione
è la (quasi) perfetta corrispondenza di questa descrizione con un’ontologia genuinamente platonica, laddove (già nella Repubblica ma ancora meglio nel Timeo) l’immagine è ontologicamente inferiore al suo
modello, mentre la forma può corrispondere all’idea ma anche esserne
un’instanziazione 23. In questo senso, Cristo incarnato sarebbe la prova
visibile di Dio, della divinità assolutamente trascendente, e l’uomo invece sarebbe soltanto una copia del suo modello celeste, un’immagine
che è “tre volte distante dal vero”, ma in ogni caso indissolubilmente
legata al Vero e da esso, in ultima analisi, direttamente derivato 24.
Ho ricordato che le sezioni dedicate al Padre, al Figlio e allo Spirito
nel De Trinitate sono impari in lunghezza e profondità: ci sono molteplici ragioni per spiegare questa evidente assimetria, in relazione allo stato
della teologia trinitaria all’epoca di Novaziano ma anche alla sua vicenda
23
Per quanto concerne la Repubblica, mi riferisco in particolare all’ontologia della metafora
della Linea (Libro VI) e all’ontologia delle arti e delle immagini discussa nel Libro X, con
l’introduzione di un dio “creatore di oggetti materiali” che è anche divinità demiurgica. Per
quanto riguarda il Timeo, il discorso è più complesso e riguarda l’utilizzo del termine εἶδος e del
femminile ἰδέα, utilizzati non per indicare i modelli eterni contemplati dal demiurgo (indicati
come paradigmi, παραδείγματα) ma piuttosto per indicare le instanziazioni delle idee e dei
pensieri del demiurgo nella materia cosmica. Su questo punto rimando al mio Bergomi (2011).
24
È stato osservato come Novaziano in questo passo sembra richiamare passaggi della
Contra Celsum di Origene. Vari studiosi affermano anche che egli conosceva e leggeva i Principi. Vedi ad esempio Mattei (1992)(2001).
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Mariapaola Bergomi
personale e alle sue scelte dottrinali; se fosse vero che negli ultimi anni
della sua vita Novaziano fu sedotto dallo spiritualismo di Montano, possiamo ipotizzare che sviluppò visioni proprie sullo statuto ontologico e il
carisma dello Spirito, considerata l’enorme importanza che i montanisti
attribuivano al Paraclito come fonte di vera ispirazione per gli uomini e
la vita santa. Possiamo anche tentare di spiegare la brevità, a tratti anche
sconfortante, delle pagine dedicate allo Spirito con una sorta di riluttanza, da parte di Novaziano, di parlare del Paraclito, sia per oscurità
del concetto nell’economia trinitaria sia per una difficoltà oggettiva di
renderne ragione come Persona della trinità. È più che probabile che i
primi teologi incontrarono oggettive difficoltà nell’armonizzare lo spirito
dell’antico Testamento, per altro espresso con un termine femminile, ruā,
con il carisma pentecostale del nuovo Testamento. Le 380 occorrenze
del femminile ruā nella Torah spaziano dal significato di respiro vitale a
quello di spirito in un senso molto simile al pneuma stoico. Πνεῦμα è la
traduzione greca scelta per rendere l’aramaico e l’ebraico nel Nuovo Testamento ed è quasi sorprendente che Novaziano – se davvero fu filosofo
stoico in gioventù, come sembrano attestare sia Eusebio che il vescovo
Cornelio – non abbia dedicato più pagine alla speculazione sul Paraclito.
Al contrario, Novaziano accenna ai doni carismatici dello Spirito ma non
entra nel merito della sua posizione ontologica nei confronti del Padre e
del Figlio; di più, egli afferma che lo Spirito non fu rivelato sino all’incarnazione di Cristo, quando manifestò se stesso con il dono delle lingue e
della saggezza elargita agli apostoli dopo la Pasqua del Signore:
«Tuttavia non è stato rivelato prima della Resurrezione del Signore, ma è
stato dato attraverso la resurrezione del Signore». (De Trinitate XXIX 6.
Trad. Ricciardi)
«È lo Spirito che genera i profeti nella Chiesa, che rende dotti i maestri, che distribuisce il dono delle lingue, che esegue miracoli e guarigioni,
che compie opere straordinarie, che concede il discernimento degli spiriti,
che assegna i ruoli per il governo della Chiesa, suggerisce le decisioni, dispone e distribuisce qualsiasi altro dono carismatico e perciò porta a perfezione la Chiesa del Signore, in ogni aspetto e in ogni campo». (De Trinitate
XXIX, 10. Trad. Ricciardi)
Nel complesso, le tensioni filosofiche che Novaziano evidenzia non hanno
smesso, nemmeno dopo il Consilio di Nicea, di influenzare il dibattito teologico sulla Trinità. Questioni come il rapporto binario privilegiato tra il Padre e
il Figlio, l’economia delle persone divine, lo statuto ontologico dello Spirito
paragonato al Padre e al Figlio e soprattutto la posizione del Figlio in relaSTUDiUM - sett./ott. 2019 - n. 5 - iSSN 0039-4130
Platonismo e Stoicismo nel De Trinitate di Novaziano
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zione a Dio Padre – un Figlio che è allo stesso tempo Dio, Λόγος divino e
uomo – sono allo stesso tempo dogmi teologici, argomentazioni filosofiche e
misteri di fede. L’opera del presbitero romano va letta e apprezzata con un
nuovo approccio ermeneutico che tenga conto non solo dell’evoluzione della dottrina trinitaria nelle comunità cristiane in Occidente e in Oriente, ma
anche dell’evoluzione delle scuole filosofiche pagane, nello specifico quelle
platoniche. Novaziano eredita infatti parte del dibattito medioplatonico –
pesantemente influenzato dallo stoicismo romano e imperiale – e anticipa
certe riflessioni plotiniane sulla generazione dell’Intelletto dall’Uno. Solo
con uno sguardo di sintesi critica il De Trinitate ci parla di un passato sempre
complesso e nuovo agli occhi del lettore moderno.
Mariapaola Bergomi
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SOMMARIO
L’articolo mira a evidenziare alcuni punti di straordinario interesse filosofico e teologico dell’opera di Novaziano, De Trinitate. Novaziano, controverso protagonista
della storia della primitiva chiesa di Roma , è noto soprattutto per essere stato eletto
Antipapa in oppisizione a Cornelio e alla chiesa di Cartagine, ma fu per prima cosa
teologo raffinato, vicino sebbene diverso al pensiero di Tertulliano e debitore, sul
fronte greco, alla scuola di Alessandria. I punti su cui si concentra la mia analisi riguardano soprattutto la descrizione della natura immortale del Padre e la relazione
tra il Padre e il Figlio. Nel corso dell’analisi, l’articolo cerca di sottolineare il debito di
Novaziano nei confronti del pensiero stoico e platonico ma anche la sua indiscutibile
originalità.
SUMMARY
The aim of this paper is that of highlighting specific issues and topics contained in
Novatian’s treatise De Trinitate that are extraordinary interesting from both a theological and philosophical point of view. Novatian, a controversial protagonist of the life
of the early church of Rome, is known almost exclusively for his role as Antipope in
opposition to Cornelius, Cyprian and the church of Carthagene, but he was first of all
an excellent theologian, close but different to Tertullian’s thought; he shows a very significant influence, on the Greek speaking side, of the speculation of the Alexandrian
school as well. The paper focuses mainly on the description of the immortal nature
of the Father and the relation between Father and Son. In analysing some significant
passages, the paper wants to stress the debt Novatian owes to Stoic and Platonic philosophy, but also his undeniable originality.
STUDiUM - sett./ott. 2019 - n. 5 - iSSN 0039-4130