Dall’alternanza
scuola-lavoro
all’integrazione formativa
a cura di
Emmanuele Massagli
ADAPT
LABOUR STUDIES
e-Book series
n. 66
ADAPT LABOUR STUDIES E-BOOK SERIES
ADAPT – Scuola di alta formazione in relazioni industriali e di lavoro
DIREZIONE
Michele Tiraboschi (direttore responsabile)
Lilli Casano
Pietro Manzella (revisore linguistico)
Emmanuele Massagli
Flavia Pasquini
Pierluigi Rausei
Francesco Seghezzi (direttore ADAPT University Press)
Silvia Spattini
Francesca Sperotti
Paolo Tomassetti
Davide Venturi
SEGRETERIA DI REDAZIONE
Laura Magni (coordinatore di redazione)
Maddalena Magni
Francesco Nespoli
Lavinia Serrani
@ADAPT_Press @adaptland @bollettinoADAPT
Dall’alternanza
scuola-lavoro
all’integrazione formativa
a cura di
Emmanuele Massagli
ISBN 978-88-98652-85-3
© 2017 ADAPT University Press – Pubblicazione on-line della Collana ADAPT
Registrazione n. 1609, 11 novembre 2001, Tribunale di Modena
INDICE
Introduzione .......................................................................... VIII
Per una corretta definizione di “integrazione formativa” di Emmanuele
Massagli .......................................................................................................... IX
Quale comunicazione per quale alternanza scuola-lavoro? di Francesco
Nespoli ...................................................................................................... XVIII
Capitolo I. Inquadramento giuridico dell’alternanza scuolalavoro ........................................................................................... 1
Origini, fondamenti e finalità dell’alternanza scuola-lavoro. Una lettura
costituzionale di Federico D’Addio ................................................................. 2
Inquadramento giuslavoristico dell’istituto dell’alternanza scuolalavoro di Laura Angeletti ............................................................................... 29
Capitolo II. L’alternanza scuola-lavoro dopo La Buona Scuola:
esperienze e relazioni di lavoro ................................................. 37
La progettazione di percorsi di alternanza scuola-lavoro di Alessia
Battaglia ........................................................................................................... 38
Finalizzare, non strumentalizzare, l’alternanza scuola-lavoro di Simone
Caroli ............................................................................................................... 48
Fare insieme, per una alternanza di qualità di Marco Bentivogli ............... 54
Sì all’alternanza, ma solo se di qualità di Sabrina De Santis e Matteo
Monetti ............................................................................................................. 57
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VI
Indice
Capitolo III. L’evoluzione recente dell’alternanza scuola-lavoro.
I commenti di ADAPT .............................................................. 63
L’alternanza scuola-lavoro può decollare solo se si ridà all’impresa il
valore che merita di Michele Tiraboschi ........................................................ 64
Significato e modalità pedagogiche dei tirocini curricolari ed extracurricolari di Giuseppe Bertagna ..................................................................... 67
I ragazzi contestano l’alternanza perché nessuno gliela spiega di
Emmanuele Massagli ........................................................................................ 74
La novità culturale e la sfida operativa dell’alternanza scuola-lavoro de
La Buona Scuola di Emmanuele Massagli ....................................................... 77
Buoni intenti, poca sussidiarietà. Alternanza e apprendistato ai tempi
del Jobs Act e de La Buona Scuola di Emmanuele Massagli .......................... 82
Scuola-lavoro: meglio l’integrazione dell’alternanza di Emmanuele
Massagli ........................................................................................................... 87
Appendice .................................................................................. 99
Legge 13 luglio 2015, n. 107. Riforma del sistema nazionale di istruzione e
formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti. Commi
33-43 ............................................................................................................. 100
Notizie sugli autori .................................................................. 104
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Indice
VII
PROIEZIONE INFORMATICA
Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, Attività di alternanza
scuola lavoro. Guida operativa per la scuola, 8 ottobre 2017
Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, Attività di alternanza
scuola lavoro – Chiarimenti interpretativi, nota del 28 marzo 2017
Protocollo d’intesa tra Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca e Agenzia nazionale politiche attive del lavoro, 12 ottobre 2017
ADAPT, ANCL Veneto, Fare apprendistato di primo livello in Veneto,
2017
Silvio Moretti, Andrea Stoccoro, Alternanza Scuola Lavoro a misura di impresa, 2017
Vita, La scuola va al lavoro, 2017
Alternanza formativa. Una freccia spuntata?, Rivista Formazione lavoro persona, novembre 2016, n. 18
Confindustria, Alternanza scuola-lavoro per le imprese, Una guida pratica,
2015
Matteo Monetti, L’alternanza scuola-lavoro nel settore turismo. Perché
puntare sulla integrazione tra scuola e lavoro, 2014
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Introduzione
Per una corretta definizione di
“integrazione formativa”
di Emmanuele Massagli
Tra le tante critiche che vengono costantemente rivolte alla alternanza tra scuola e lavoro, la più pericolosa non ha la forma di un
attacco diretto, bensì quella di una semplice definizione, apparentemente neutrale, elegante e comprensibile a tutti: “l’alternanza
scuola-lavoro è un moderno strumento per facilitare il rapporto
tra scuola e lavoro”.
Tale definizione, in sole nove parole, contiene tre gravissimi errori e due capziose imprecisioni. Ripercorrere queste sviste (nella
maggior parte dei casi involontarie, ma non di rado maliziosamente ricercate) vuole dire battere un sentiero più lungo di quello
usuale per arrivare alla corretta definizione di questo istituto; una
fatica che vale la pena intraprendere in un momento nel quale si
parla tantissimo di alternanza, spesso a sproposito.
1. L’alternanza è uno strumento: primo errore
Già la prima definizione legislativa di alternanza scuola-lavoro intese sgombrare il campo dall’equivoco circa la natura strumentale
dell’istituto: «modalità di realizzazione del percorso formativo»1.
1
Art. 4 della l. 28 marzo 2003, n. 53.
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X
Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
Ancora più chiaro il decreto del 2005 recante le norme generali
relative proprio all’alternanza scuola-lavoro: «modalità di realizzazione dei corsi del secondo ciclo»2, in tutto e per tutto inserita
nell’offerta formativa dei percorsi secondari superiori e in nessun
caso costituente un percorso aggiuntivo e parallelo rispetto a
quelli ordinari; si tratta di un metodo caratterizzante il curriculum
dei ragazzi, non di un canale a sé stante.
Se queste furono le volontà iniziali, come mai nel sentire comune
l’alternanza è molto di più uno strumento che un metodo? Perché
nel primo caso è accettata dal mondo della scuola; nel secondo
no. Se si riscostruiscono le statistiche curate dall’INDIRE negli
anni, si vedrà che l’avanzata della alternanza è stata lentissima
dopo il suo ingresso nell’ordinamento (dal 2005 al 2010), decisamente più spedita tra il 2011 e il 2015. Questo non perché sia stata compresa in ritardo, ma proprio perché i c.d. decreti Gelmini
approvati nel 2010 pur di rilanciarla si piegarono alla volontà dei
docenti, riducendo l’alternanza a uno strumento3, una sorta di
“momento formativo”, una occasione di “apprendimento diverso”, come fosse una visita didattica, un laboratorio digitale, una
competizione atletica. L’alternanza è accettata dal “sistema scuola” quando non è vissuta fino in fondo, ovvero quando
l’integrazione non è reale, ma soltanto programmatica, di principio. Nessun problema, quindi, nell’incoraggiare la strutturazione
di momenti di tirocinio sconnessi dall’attività in aula e dal programma svolto: né vero lavoro, né vero momento di scuola. “Sì”
al lavoro simulato, ovvero una dimensione “letterale”
dell’alternanza, “no” al lavoro “vero”, ovvero una dimensione
“sostanziale” dell’alternanza.
Art. 1 del d.lgs. 15 aprile 2005, n. 77.
Si legge all’art. 5, comma 2, lett. e, del d.P.R. 15 marzo 2010, n. 88, dedicato al riordino dell’istruzione tecnica che «stage, tirocini e alternanza scuola
lavoro sono strumenti didattici per la realizzazione dei percorsi di studio».
2
3
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Introduzione
XI
Ecco allora che nel comune sentire è andata diffondendosi una
accezione del termine parziale, che giustifica pienamente
l’opposizione all’azzardo legislativo compiuto da La Buona Scuola,
che improvvisamente ha imposto l’obbligatorietà di questa esperienza a un milione e mezzo di studenti. Questi (e con loro le famiglie e i docenti) fanno bene ad opporsi ad una alternanza improvvisata e strumentale. Si promettono ai ragazzi i frutti maturi
del metodo dell’alternanza correttamente intesa (rafforzamento
delle competenze personali di natura trasversale, moderno calendario scolastico, lezioni integrate di teoria e pratica, interdisciplinarietà ecc.), ma li si ciba con le bacche avariate del cespuglio
dell’alternanza ridotta a mero dispositivo didattico. Inevitabile
che i ragazzi protestino; è però necessario che qualcuno gli spieghi che ad essere velenosa non è l’alternanza di per sé, ma la sua
riduzione, che viene operata proprio perché questo dossier possa
essere chiuso ancora una volta senza alcun effetto sulle metodologie pedagogiche, sui programmi e sull’organizzazione amministrativa di una scuola uguale e immobile da oltre quarant’anni.
2. L’alternanza è un moderno strumento: secondo errore
Non è infrequente ascoltare argomentazioni a riguardo del modernismo dell’alternanza scuola-lavoro, la strategia giusta, così
viene detto, per formare le competenze necessarie all’epoca
dell’Industria 4.0, della connessione perpetua, dell’intelligenza artificiale. Al pari di queste dimensioni, l’alternanza sarebbe allora
una invenzione, seppure pedagogica e non tecnologica, figlia del
suo tempo, legata a doppio filo con il contesto storico all’interno
della quale sta maturando. Conseguentemente, come tutto ciò
che è nuovo, ha bisogno di essere rodata e, soprattutto, verificata: sarà davvero una metodologia efficace, oltre che “di moda”?
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XII
Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
Non è così. Il metodo della alternanza tra formazione pratica e
formazione teorica, tra analisi e sperimentazione, tra tattica sulla
lavagna e gioco in campo è vecchio come l’uomo e anche
nell’ambito scolastico si tratta di una riscoperta, non di una creazione. Guardando alla sola epoca contemporanea, è con il regio
decreto 1906 del 1938 che viene regolato anche nel nostro Paese
un sistema di apprendistato capace di superare i diffusi sfruttamenti della manodopera giovanile diffusi precedentemente. Un
sistema costruito attorno al dialogo costante tra scuola e impresa.
Qualche decennio dopo, non a caso, le scuole tecniche e professionali, sovente non pubbliche, bensì di proprietà industriale, si
dimostreranno protagoniste assolute del boom economico. Il
successo di questi canali di formazione non fu interrotto dagli
eventi della storia economica (tanto è vero che in altri Paesi è
perdurato fino ad ora), ma dalla storia politica e sociale, ossia dal
fermento di statalizzazione post-sessantottino, che ha affermato
il valore dei licei come sovraordinato a quello delle scuole tecniche e professionali, cristallizzando così il pregiudizio ancora oggi
diffuso circa le capacità meramente esecutive in possesso di chi si
diploma in queste scuole, a differenza della vocazione ad essere
“futura classe dirigente” per coloro i quali frequentano i licei e, a
seguire, l’università.
Inversamente a quanto accaduto cinquanta anni fa, la riscoperta
del metodo della alternanza tra scuola e lavoro pare essere determinato dalla storia economica più che da quella politica e sociale: è una conseguenza della tempesta perfetta generata dalla
crisi economica e scaricatasi in buona parte sul mercato del lavoro giovanile. Durante tale crisi è apparso evidente (quasi) a tutti
come una formazione solo teorica non sia in grado di formare
giovani capaci di affrontare il mondo. Il mondo tutto, non solo
quello “del lavoro”. Ecco allora che si è intuito (solo raramente
compreso) come l’alternanza sia l’unica strategia pedagogica per
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Introduzione
XIII
formare persone a tutto tondo, integralmente (e non parzialmente e a comparti stagni) educate: non una opzione didattica, ma
una necessità pedagogica che ha già dimostrato la sua validità nella storia, in momenti anche più drammatici di quello attuale.
3. L’alternanza è un moderno strumento per facilitare il
rapporto tra scuola e lavoro: terzo errore
La stessa crisi economica, contemporanea alla affermazione della
c.d. quarta rivoluzione industriale, se da una parte ha permesso la
riscoperta della corretta alternanza tra scuola e lavoro, dall’altra
ha costruito le fondamenta di un grave equivoco che spesso inganna anche chi convintamente sostiene le ragioni dell’alternanza
intesa come metodo pedagogico.
Le principali istituzioni internazionali da tempo individuano nei
giovani tra i quindici e i trenta anni le principali vittime del tracollo del mercato del lavoro occidentale durante la crisi economica.
Come in un immenso e tradizionale magazzino, questi ragazzi
sono stati trattati dal mercato alla stregua di un residuo merce
non deperibile: last in, first out. Conseguentemente, chi si è affacciato nel mondo dei “grandi” nell’ultimi decennio non solo ha
avuto a che fare con una domanda di lavoro diminuita, ma anche
quando ha trovato occupazione è stato il primo a perderla in ragione della minore anzianità aziendale o della natura temporanea
del contratto di lavoro sottoscritto. È quindi comprensibile
l’attenzione della politica verso questa grave disfunzione del mercato del lavoro, concretizzatasi, quantomeno a livello europeo,
nella ricerca delle migliori prassi da poter diffondere su tutto il
continente. Si trova proprio in Europa quella che la dottrina economica, giuslavoristica e (parzialmente) pedagogica individuano
da tempo come la migliore politica di transizione dalla scuola a
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XIV
Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
lavoro: il sistema duale tedesco. In ragione dei suoi stupefacenti
risultati occupazionali4, il German Dual System è diventato il modello per tutte le politiche del lavoro europee, in particolar modo
nei Paesi con i peggiori tassi di disoccupazione giovanile (Spagna,
Grecia e Italia).
I ragionamenti logici e politici che hanno portato alla promozione di questa particolare tipologia di formazione professionale sono assolutamente fondati, ma pedagogicamente molto carenti. È
andata diffondendosi la convinzione che l’alternanza scuolalavoro fosse da incoraggiare come politica di contrasto alla disoccupazione giovanile (“alla tedesca”) e non come occasione per la
formazione integrale della persona (“alla italiana”). Tuttavia è
proprio questo secondo il principale scopo di questo istituto; la
creazione di un ponte fra scuola e impresa è una conseguenza.
Un effetto inevitabile, se il percorso di alternanza è correttamente
concepito (e per questo anche una cartina di tornasole del livello
della esperienza proposta ai ragazzi), ma comunque postordinato rispetto alla trama pedagogica ed educativa.
4. Parliamo di alternanza scuola-lavoro? Due significative
imprecisioni terminologiche
Riassumendo: l’alternanza tra scuola e lavoro è una metodologia
pedagogica (non uno strumento) da sempre (non da oggi) presente nella formazione italiana funzionale alla crescita integrale
del giovane e, per questo, alla sua occupabilità lungo tutto l’arco
La Germania è l’unico tra i principali Paesi del mondo occidentale nel
quale è cresciuta l’occupazione giovanile durante gli anni di crisi economica. Fonte: Eurostat, 2017.
4
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Introduzione
XV
della vita (non piegata sulla emergenza occupazionale dell’oggi,
quindi).
Perché questa definizione possa concretizzarsi in percorsi reali è
di tutta evidenza la necessità di concepire l’alternanza non come
un momento a sé stante, ma in tutto e per tutto come occasione
di circolarità tra formazione e lavoro, intese come dimensioni
coordinate e non distanti, contemporaneamente concepite ed entrambe funzionali allo stesso scopo ultimo, che è la formazione
della persona. È allora fuorviante l’utilizzo dello stesso termine
“alternanza” che rimanda al susseguirsi cadenzato di contesti diversi, certo ordinati tra loro, ma non contaminati, in fondo sconnessi, tanto da avere bisogno di essere separati dal trattino posizionato tra i vocaboli “scuola” e “lavoro”. Un millimetro di inchiostro che nasconde un muro di giudizi e pregiudizi che non
hanno nulla di grammaticale. Non era questa l’intenzione definitoria del legislatore del 2003; è però indubbio che la diffusione
anche tra i non addetti ai lavori del lemma esiga l’individuazione
di un termine che risulti subitaneamente comprensibile a tutti. La
parola “integrazione”, pur presentando essa stessa dei margini di
equivocità, pare più adatta a visualizzare la ricercata circolarità
che si vuole conseguire con esperienze di questo genere.
Esperienze, tra l’altro, che non riguardano solo la “scuola”, bensì
ogni occasione formativa. Se infatti l’integrazione è innanzitutto
un metodo, allora può valere in ogni contesto, ordine e grado.
Effettivamente anche la scuola dell’infanzia può essere organizzata con un approccio “integrativo”, lo stesso la scuola primaria,
ancor più quelle secondarie e i percorsi terziari. Cambieranno gli
strumenti (osservazione, visita, laboratorio, simulazione, tirocinio, apprendistato ecc.), permarrà il metodo. Non è quindi corretto richiamare nella definizione dell’istituto la sola “scuola”: più
coerente con l’impostazione presentata parlare di “formazione”
tutta, sia essa di impostazione scolastica o inserita nel canale di
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XVI
Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
istruzione e formazione professionale regionale, sia essa obbligatoria o continua, terziaria universitaria o terziaria non universitaria (ITS).
5. Dalla alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa: il percorso di questo ebook
I tanti e rilevantissimi temi solo accennati in questo contributo
sono sviluppati nelle pagine a seguire.
Il contributo di Francesco Nespoli è prezioso per comprendere
l’importanza assunta da questo argomento ben oltre l’interesse
degli addetti ai lavori. La riforma della alternanza scuola-lavoro
operata da La Buona Scuola ha innescato un dibattito pubblico ancora accesissimo e dagli esiti tanto incerti quanto pericolosi: il rischio è quello di “buttare via il bambino con l’acqua sporca”.
ADAPT intende dare il proprio contributo a questo dibattito
provando a superare le sterili opposizioni ideologiche mediante
approfondimenti di natura definitoria e riflessioni tratte da esperienze reali.
In primo luogo, grazie agli articoli di Federico D’Addio e Laura
Angeletti, si è voluto fornire ai lettori una rigorosa ricostruzione
giuridica, di natura costituzionale e giuslavoristica, dell’istituto
della alternanza tra scuola e lavoro.
I contributi di Alessia Battaglia e Simone Caroli hanno lo scopo
di stimolare al lettore una riflessione su due dimensioni centrali
dell’integrazione formativa: la progettazione congiunta di scuola
e impresa e la cosciente finalizzazione dell’esperienza (quale lo
scopo di ogni singolo progetto di alternanza?).
A seguire, in piena coerenza con il metodo raccontato, si potranno leggere le considerazioni del mondo del lavoro, rappresentato
in questa sede dal Segretario generale della Federazione dei Me-
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Introduzione
XVII
talmeccanici aderente alla CISL Marco Bentivogli e dei funzionari
di Federmeccanica (controparte datoriale della stessa FIM-CISL)
Sabrina De Santis e Matteo Monetti.
Da ultimo, il terzo capitolo vuole essere una occasione di ricostruzione del dibattito recente sull’integrazione formativa reso
possibile dalla lettura (a mesi o anni di distanza) di alcuni contributi pubblicati da ADAPT nei momenti di snodo principale del
lungo confronto su questo tema.
In appendice sono pubblicati i commi de La Buona Scuola che tuttora regolano l’istituto e sono linkati alcuni documenti particolarmente significativi per chi voglia cimentarsi nello studio approfondito di una tematica tanto complessa, quanto affascinante.
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Quale comunicazione
per quale alternanza scuola-lavoro?
di Francesco Nespoli
Mai l’argomento dell’alternanza scuola-lavoro era diventato così
popolare sul web come in occasione del «primo grande sciopero
delle studentesse e degli studenti in alternanza» svoltosi lo scorso
13 ottobre 2017. Almeno dacché Google ne ha memoria.
Questo momento di particolare esposizione mediatica ha reso
evidente quanto la fase che si è aperta con il nuovo anno scola-
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Introduzione
XIX
stico sia cruciale per la reputazione dell’alternanza scuola-lavoro.
Da un lato prefigurando l’opportunità di cominciare a sgombrare
il campo da pregiudizi consolidati nell’opinione pubblica,
dall’altro con il rischio, reso evidente dalla recente vicenda, di
appiattire il concetto di alternanza sulle contraddizioni della sua
versione obbligatoria voluta da La Buona Scuola. Con buona pace
di chi si impegna ad affermarne la natura di metodologia didattica.
Rischio paradossale, se si pensa che, come ha fatto notare Emmanuele Massagli, a tale corrente aderisce anche il volantino
dell’Unione degli studenti dedicato allo “sciopero”, che, lungi dal
inseguire una rottamazione riottosa dell’alternanza, ne reclama
una più corretta implementazione. Col risultato che
un’associazione che come slogan dichiara di essere “in direzione
ostinata e contraria” offre una rappresentazione dell’alternanza
meno manichea di quelle circolate a suo sostegno.
Il che legittima il dubbio che una generazione di commentatori,
magari influenzata dalle reminescenze di un ‘68 di cui era stata
protagonista, con uno sguardo a metà tra il compiaciuto e il paternalista, dello “sciopero” abbia dato una rappresentazione a suo
uso e consumo.
A spiegare il successo mediatico dell’iniziativa degli studenti concorre infatti certamente l’incontro di diversi criteri di notiziabilità
(i grandi numeri del milione e mezzo di studenti per la prima volta coinvolti dall’alternanza obbligatoria, l’attinenza alla questione
della disoccupazione, che costituisce il tema più associato alla pa-
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XX
Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
rola “giovani” dalla stampa su Twitter1), ma soprattutto il luogo
ormai letterario, ma ancora contemporaneo ed emotivamente efficace, del “precariato” giovanile.
A guardare le conversazioni sui social pare che il concetto di “alternanza scuola-lavoro”, ancora amorfo nell’opinione pubblica,
sia quindi stato accomodato come specie del genere “sfruttamento”. Tra il 12 e il 14 ottobre la #alternanzascuolalavoro diventa
trending topic su Twitter e le parole più connesse all’hashtag sono,
“studenti” e “gratis”2. Non manca di fare la sua comparsa la vera
e propria bufala degli studenti che imbustano patatine gratis a Mc
Donald’s, rilanciata anche da un lungo monologo di Maurizio
Crozza. Secondo il quale, tra l’altro, l’alternanza scuola-lavoro significherà “500 milioni di ore di lavoro non pagate, con il rischio
che, con la scusa di formare i nostri figli si mandino a casa dei
dipendenti che sono retribuiti”. La vulgata, dal vago sapore complottista, è servita.
Di fronte all’alto rischio di buttare il bambino con l’acqua sporca,
è stata però retoricamente poco efficace la risposta che è stata
fornita da una parte delle istituzioni, che si riassume nel titolo
comparso sul Corriere della Sera: “Gli studenti? In azienda e non
importa cosa fanno”. Un’impostazione secondo la quale
l’alternanza servirebbe semplicemente ad acquisire quelle competenze trasversali che ogni lavoro richiede. Certo: guardando i dati
Rilevazione Catchy Big Data su account Twitter selezionati dal 1 aprile al
1 settembre (@Corriere @LaStampa @ilmessaggeroit @repubblica
@fattoquotidiano @qn_carlino @sole24ore @qn_giorno @ilsecoloxix
@mattinodinapoli
@Avvenire_NEI
@iltirreno
@ilgiornale
@qn_lanazione @ItaliaOggi @Libero_official @ilfoglio_it).
2 Rilevazione Catchy Big Data per alternanzascuolalavoro tra il 7 e il 10 ottobre 2017.
1
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Introduzione
XXI
Ocse si capisce che gli studenti italiani nel contesto comparato
hanno un rapporto difficile con il lavoro in generale, collocandosi
quartultimi nella classifica per percentuale di occupati. Ovvio
quindi auspicare un incontro anticipato con il mondo del lavoro,
ma, a rigore, ciò esula dai percorsi di alternanza scolastica, e non
dovrebbe comunque servire a giustificarne una implementazione
spannometrica.
Affermare un’alternanza del tipo “in azienda ad ogni modo”
equivale a dire che la mera spartizione oraria tra aula e azienda è
sufficiente per parlare di alternanza scuola-lavoro, contraddicendo il chiarimento interpretativo del Miur secondo il quale la quidditas dell’alternanza è un’intenzionalità formativa, che la rende
«coerent[e] con i risultati di apprendimento previsti dal profilo
educativo dell’indirizzo di studi frequentato dallo studente».
In definitiva, volere gli studenti in azienda, comunque vada, significa dire che la criticità del disallineamento nel percorso scuo-
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XXII
Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
la-lavoro evidenziata dagli studenti è un falso problema, irrigidendo quindi lo scontro.
Servirebbe invece condure un dibattito pubblico che confronti le
diverse esperienze concrete per discriminare tra quelle che possono essere definite come esperienze di alternanza scuola-lavoro
in senso proprio. Senza che ciò significhi chiedere passi indietro
sull’obbligatorietà dell’alternanza. E forse a questo riguardo aiuterebbe cominciare a ragionare del superamento proprio del termine “alternanza”, che a livello letterale implica che aula e azienda restino luoghi concettualmente separati. Al di là della fattispecie normativa, è ragionevole pensare che le esperienze di connessione tra scuola e lavoro nella realtà si dispongano su di un continuum che va dall’alternanza in senso letterale alla completa integrazione teorica e pratica di scuola e lavoro. Tale per cui si potrebbe giocare con le parole parlando di “alternanza”, “alternanza
scuola-lavoro integrata”, “integrazione scuola-lavoro alternata”, e
infine “integrazione scuola-lavoro”.
Ad ogni modo, rispetto all’elogio del mero collocamento in
azienda, è un’altra e diversa la strategia di difesa più in sintonia
con l’obbiettivo di un reale confronto tra esperienze. Si tratta di
quella che mira a diffondere gli esempi, le buone pratiche. Tecnicamente un’argomentazione induttiva, ossia che parta dal racconto di un caso esemplare per concludere che una regola è possibile. È in sostanza il cosiddetto storytelling, pratica comunicativa
spacciata come soluzione taumaturgica nelle nuove teorie del
marketing, del giornalismo, dell’organizzazione aziendale, ma che
in materia di orientamento professionale trova la sua applicazione più convincente.
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Introduzione
XXIII
L’idea di fondo è quella descritta dallo psicologo Jerome Bruner
secondo cui «la condivisione di storie comuni crea una comunità
di interpretazione» ed «è soprattutto attraverso le nostre narrazioni che costruiamo una versione di noi stessi». L’obiettivo è
quello del cosiddetto self-empowerment, che nel caso specifico
riguarderebbe sia gli studenti, sia le scuole, i tutor aziendali, nonché i genitori degli studenti. Sono diversi gli studi che hanno indagato le possibilità di un tale “meccanismo” culturale. Tra di essi il più recente ha mostrato per esempio la correlazione tra rappresentazioni positive dell’ enterpreneurship nei media e livelli più
elevati di autoimpiego.
Resta da chiedersi però se davvero riuscirà la narrazione positiva
a risollevare le sorti dell’alternanza nel momento cruciale in cui si
contende la sua percezione pubblica. Per quanto riguarda il breve
periodo la risposta è no. Anche lo stesso attacco l’alternanza
scuola-lavoro, infatti, è stato condotto a colpi di storytelling e naturalmente si stratta di storie quasi sempre più eclatanti, emotivamente efficaci. È una storia quella di Marta raccontata dal volantino pro “sciopero” letto da Crozza in prima serata, è una storia
quella delle studenti che raccontano alla Ministro Fedeli la loro
esperienza a Mc Donald’s, è una storia quella del caso delle studentesse di Monza che la scorsa estate hanno denunciato il loro
datore di lavoro per molestie sessuali, è una storia quella contenuta in un tweet che allude al supposto disegno per sostituire i
lavoratori con studenti in alternanza. Basta uno sguardo alla cronologia dell’hashtag #alternanzascuolalavoro per accorgersi che se
un messaggio del genere ottiene 275 condivisioni, i molti racconti
di esperienze virtuose non sfiorano nemmeno lontanamente le
tre cifre.
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XXIV
Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
A ciò bisogna aggiungere che non c’è empowerment duraturo senza
un’esperienza di conferma perché tra il racconto ascoltato e quello vissuto si saldi una valutazione positiva e la reputazione
dell’alternanza scuola-lavoro si diffonda così dal basso, in primo
luogo a partire dal passaparola tra studenti e famiglie. Va quindi
riconosciuto il rischio concreto che le molte difficolta tra le quali
si è avviata l’alternanza obbligatoria offrano molte storie alla faretra dei suoi detrattori. Storie alle quali si sarà tentati di rispondere
nuovamente con un “meglio di niente”.
Tutto ciò non significa però che la condivisione di buone pratiche ed esperienze risulti meno necessaria e va anzi portata avanti
con convinzione, nella consapevolezza che questo racconto deve
dispiegarsi nel lungo periodo per produrre degli effetti. Il punto è
che sin d’ora ciò dovrebbe avvenire con un’accortezza fondamentale: nelle condizioni attuali non servirà ingaggiare una “guerra di storie”, che permetterebbe ai disfattisti di tacciare la comunicazione delle esperienze virtuose come propaganda. A chi pretende di raccontare l’ottimale, o addirittura l’ideale, si fa presto a
ribattere che “la realtà è un’altra”. Il necessario racconto delle
buone esperienze non dovrebbe quindi presentarsi come se avesse come principale obiettivo quello di negare i problemi, bensì
dovrebbe raccontare quali sono state le soluzioni efficaci già
adottate dalle diverse realtà.
Solo così si potrà additare, anche indirettamente, la fallacia del
ragionamento induttivo proprio di un certo pessimismo aprioristico: proponendo premesse diverse per una diversa conclusione.
Partendo dall’alternanza che “si è fatta” e “si fa”, concludere che
la buona e vera alternanza “si può fare” e “si fa”. Incontrando sì
delle criticità, ma affrontandole.
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Capitolo I.
Inquadramento giuridico
dell’alternanza scuola-lavoro
Origini, fondamenti e finalità
dell’alternanza scuola-lavoro.
Una lettura costituzionale
di Federico D’Addio
1. Introduzione: le plurime dimensioni e funzioni della
scuola. Nessuna tecnica è neutrale
Qualsiasi discorso sull’alternanza scuola-lavoro presuppone, a monte, una presa di posizione, consapevole o inconsapevole che sia, in ordine all’essere o al dover-essere del
“lavoro” e, prima ancora, della “scuola”.
In altri termini, qualsiasi discorso sull’alternanza scuola-lavoro è
necessariamente preceduto da una risposta (implicita o esplicita)
ad una serie di questioni attinenti alle funzioni e modalità di
azione (e quindi ai metodi pedagogici e contenuti formativi)
della istituzione Scuola1 e ai suoi rapporti con l’“esterno”, con ciò
che è “altro”.
Proprio per evidenziare le funzioni “istituzionali” della Scuola (o meglio,
di un certo tipo di scuola), si è scelto di riportare il termine con la lettera
iniziale maiuscola (come si sarebbe fatto con il Parlamento, la Corte costituzionale, il Presidente della Repubblica, ecc.). Si è, però, consapevoli che la
nostra Costituzione non ricorre (forse non a caso) all’uso della lettera maiuscola in quanto propone un’idea di scuola “aperta”, “libera” e “pluralista”
(si pensi alla libertà di insegnamento o al diritto di istituire scuole non stata1
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Inquadramento giuridico dell’alternanza scuola-lavoro
3
Queste risposte non possono che essere politiche nel senso che
sono condizionate da e, al tempo spesso, sono espressione dei
“valori” a cui si è scelto, in un dato momento storico, di aderire e
dei “fini” che si intende perseguire con il sistema scolastico.
Ed infatti, ferma restando l’importanza della Scuola nel percorso
di costruzione della personalità, identità, coscienza nonché cultura dei cittadini (o aspiranti tali), sono cambiati, nel corso del
tempo, i contenuti e i metodi formativi dell’istruzione ed il
rapporto tra Scuola e ciò che sta fuori dalla stessa e che la
“organizza”, ne determina le funzioni o in qualche modo la
condiziona (società, sistema politico, democrazia, economia,
mercato, ecc.).
Ricostruire una simile evoluzione non solo è compito poco agevole – in quanto è delicata e risalente la questione e diffusa la letteratura (anche di diverse discipline del sapere) sul punto –, ma
esula anche dai fini del presente contributo.
Tuttavia, quel che preme evidenziare è che la Scuola, in quanto
istituzione educativa, è oggi, al tempo stesso, luogo di tensione esistenziale, dove la vita e l’identità ancora acerbe cercano la
propria forma, luogo di tensione sociale, dove la società viene
“organizzata” e “preparata/avviata” per un domani (più o meno
vicino) e luogo di cittadinanza, dove sono affermati e resi effettivi diritti fondamentali della persona, dove si costruisce e
promuove una cultura ed identità comuni e dove si formano i cit-
li di cui all’art. 34, comma 3, Cost.). Allo stesso tempo, con ciò non si vuole
dire che la scuola è o deve essere “istituzione” in senso stretto (tuttavia,
quella pubblica, facendo parte della pubblica amministrazione, rientra a
pieno titolo nell’Ordinamento della Repubblica, Parte II della Costituzione, con
tutte le conseguenze che ne derivano, si veda § 3).
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Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
tadini2. Ovviamente le scelte in ordine a quali di tali dimensioni e
funzioni privilegiare e in che modo determinano il modello di
scuola in concreto inverato, espressione del relativo punto di
equilibrio tra interessi diversi.
Tutto ciò per evidenziare come la scuola sia terreno nevralgico
dove si condensano e, talvolta, scontrano dimensioni e interessi di varia natura (esistenziale/sociale, privato/pubblico, essere/dover essere, ecc.) e che nessuna tecnica3 (che sia essa una
disposizione di legge, una modalità pedagogica, una tecnologia, ecc.) è neutrale rispetto ai problemi che intende risolvere
ma anzi è una risposta, un modo di organizzare (o eludere) tali
problemi riproponendoli sotto altre vesti.
Uno dei nessi più recenti, emerso con l’introduzione del suffragio universale, è quello tra Scuola e democrazia che pone il problema dell’educazione
dei cittadini (futuri elettori).
3 Qui intesa nell’accezione più ampia di τέχνη (téchne) nel greco antico “arte”, poi anche nel senso di “perizia”, “saper fare”, “saper operare”: insieme
di conoscenze, acquisizioni e norme applicate e seguite in una attività, che
presuppone, a monte, l’adozione di un metodo e di una strategia
nell’identificazione precisa degli obiettivi e dei mezzi più efficaci per raggiungerli. Ed infatti, il codice della tecnica è quello del «poter fare»: «questa
è la via occidentale del pensare e della sua filosofia, cioè la via più breve tra
il problema e la sua soluzione, ormai del tutto dimentica di quella che
all’origine era la pensosità (Nachdenklichkeit) del racconto che induceva perplessità, indugi, dubbi e che, per questo, modificava mondi e non li lasciava
mai come li aveva trovati», cfr. E. Resta, Diritto vivente, Laterza, Roma, 2008,
p. 88, che riporta il pensiero di H. Blumenberg, Arbeit am Mythos,
Suhrkramp, Frankfurt am Main, 1979.
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Inquadramento giuridico dell’alternanza scuola-lavoro
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2. L’interesse crescente delle istituzioni (in particolare sovranazionali) alla riforma dei sistemi di istruzione e
formazione professionale e alla promozione di forme di
alternanza
Sebbene alcune tendenze ed attenzioni siano da sempre presenti,
quantomeno in nuce, nel dibattito pubblico ed anche in letteratura
sin dal secondo dopoguerra4, a livello nazionale5 e, prima ancora,
sovranazionale la necessità di riformare i sistemi di istruzione e
formazione e di promuovere modalità pedagogiche in situazioni
di compito o di lavoro (c.d. work based learning) è stata avvertita con maggiore insistenza a cavallo tra gli anni ‘90 e 20006.
Nella dottrina giuslavoristica si veda, tra i primi, U. Prosperetti, Il problema
sociale dell’istruzione professionale, in Riv. inf. mal. prof., 1956, 4, pp. 1 e ss. In
ambito economico, a partire dagli anni ‘60 si sviluppa un’idea diversa di
scuola e un approccio nuovo verso la stessa. Sono, infatti, gli economisti
della Scuola di Chicago ad enfatizzare il concetto (economico) di “capitale
umano” (si vedano, tra tutti, T.W. Schultz, Investment in Human Capital, in
The American Economic Review, vol. LI, 1961, n. 1; G. Becker, Human Capital,
Columbia University Press, New York, 1964).
5 Sul punto si veda anche M. Biagi, M. Tiraboschi, La rilevanza della formazione in apprendistato in Europa: problemi e prospettive, in DRI, 1999, n. 1, p. 92,
in particolare nota 5 dove viene riportato, quale esempio di contrattazione
bilaterale, il Protocollo d’intesa tra Confindustria e Cgil, Cisl, Uil del gennaio 1993 sull’integrazione del sistema scolastico con il mondo del lavoro,
dove si evidenziava la necessità di una profonda revisione normativa al fine
di collegare i diversi percorsi della formazione professionale e sviluppare,
soprattutto attraverso l’alternanza, un processo di osmosi tra lavoro e formazione.
6 Sul punto, cfr. E. Massagli, Alternanza formativa e apprendistato in Italia e in
Europa, Studium, Roma, 2016, p. 15 e ss., in particolare p. 23 da dove sono
stati presi parte dei riferimenti bibliografici.
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6
Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
In particolare, a livello di Unione europea (Ue), i primi documenti che iniziano ad occuparsi, seppur marginalmente (stante le
limitate competenze in materia dell’allora Comunità), di istruzione e formazione sono il Libro bianco su Crescita, competitività, occupazione del 19937 e il Libro bianco su Istruzione e
Formazione. Insegnare e apprendere del 19958.
In questi documenti la Commissione (all’epoca presieduta da
Jacques Delors), spinta quasi esclusivamente dal problema occupazionale che affliggeva la maggior parte dei Paesi membri9,
pur riconoscendo l’urgenza di iniziare a considerare l’istruzione e
relazione
con
il
problema
la
formazione «in
dell’occupazione», da un lato, ricordava che la «funzione essenziale» di queste è «l’inserimento sociale e lo sviluppo personale, mediante la condivisione dei valori comuni, la trasmissione di un patrimonio culturale e l’apprendimento
dell’autonomia», dall’altro lato, ammoniva però che tale nuova
prospettiva non doveva ridurre il sistema scolastico e la formazione a mera «offerta di qualificazioni», ossia soltanto «mezzo
per fornire manodopera qualificata alle imprese» (cfr. il Libro bianco del 1995, pp. 7 e 37).
COM (93) 700, 5 dicembre 1993.
8 COM (95) 590 def., 29 novembre 1995. Scopo del Libro bianco era quello
di «additare la via verso tale nuova società individuando le linee d’azione
accessibili all’Unione europea nei settori dell’istruzione e della formazione».
Si trattava di formulare «proposte, orientamenti e obiettivi a sostegno e ad
integrazione di politiche d’istruzione e di formazione di precipua competenza delle autorità nazionali, regionali e locali» e non di «imporre regole
comuni quanto, sulla base di un ampio dibattito, di individuare convergenze e strumenti adeguati alle attuali poste in gioco».
9 Cfr. p. 9 del Libro bianco del 1993 dove alla domanda «Why this White
Paper?» la risposta è «The one and only reason is unemployment».
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Inquadramento giuridico dell’alternanza scuola-lavoro
7
Tuttavia, nell’ottica della Commissione, la “funzione essenziale”
dell’istruzione risultava essere di fatto “minacciata” se non fosse
stata accompagnata dall’apertura di prospettiva (in materia di occupazione) sopra richiamata, ferma restando la consapevolezza
che «non si può […] chiedere alle sole iniziative in materia
d’istruzione di risolvere problemi collettivi che ne oltrepassano le competenze. L’istruzione e la formazione non possono
evidentemente
risolvere
da
sole
il
problema
dell’occupazione e più in generale quello della competitività
delle industrie e dei servizi» (cfr. il Libro bianco del 1995, p.
5).
Pertanto, la costruzione della c.d. società della conoscenza era
rimessa, nell’ottica della Commissione, alla capacità di elaborare
due “grandi risposte” all’emergere di tre fenomeni dirompenti
(la nascita della società dell’informazione, lo sviluppo della civiltà
scientifica e tecnica e la mondializzazione dell’economia): una
prima risposta incentrata sulla cultura generale, una seconda
volta a sviluppare l’attitudine al lavoro e all’attività, anche in
considerazione del fatto che il mondo del lavoro stava cambiando articolandosi sempre di più in attività e compiti «che richiedono spirito di iniziativa e di adattamento» e che «la scuola e
l’impresa sono luoghi di acquisizione di conoscenze complementari che è necessario ravvicinare» (cfr. il Libro bianco del
1995, pp. 10 e p. 37).
Tale prospettiva è stata poi se non abbandonata quantomeno attenuata dalle istituzioni europee nel corso degli anni10,
Al riguardo, occorre far presente che già nel marzo 2002 il Consiglio europeo di Barcellona approvava un programma di lavoro («Istruzione e
formazione 2010») con cui si istituiva, per la prima volta, un solido quadro
per la cooperazione europea in quel settore, fondato su obiettivi comuni e
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8
Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
forse anche a causa della crisi economica iniziata nel 2008 o del
definitivo affermarsi nella società di determinati valori, privilegiando una visione della scuola che sembra essere prevalentemente “strumentale” e “funzionale” al mercato del lavoro
e, più in generale, all’economia11.
Prendendo, a mero titolo esemplificativo, le Conclusioni del
Consiglio del 12 maggio 2009 su un quadro strategico per la
cooperazione europea nel settore dell’istruzione e della
formazione (ET 2020) (2009/C 119/02) si può osservare che,
da un lato, i valori culturali, democratici e di cittadinanza
vengono posti in secondo piano e, comunque, sempre connessi a concetti “economici” quali l’occupabilità (si veda
l’obiettivo strategico n. 3), dall’altro lato, i sistemi scolastici sono
visti e trattati alla stregua di un’impresa o, meglio, di un settore produttivo, atteso che essi devono essere “efficaci” rispetto al raggiungimento dei vari obiettivi primariamente economici
(«Sistemi d’istruzione e di formazione di elevata qualità, al tempo
stesso efficaci ed equi, sono essenziali per garantire il successo
dell’Europa e per potenziare l’occupabilità» nonché
il cui scopo essenziale era quello di incoraggiare il miglioramento dei sistemi d’istruzione e di formazione nazionali attraverso lo sviluppo di strumenti complementari a livello di Ue, l’apprendimento reciproco e lo scambio di
buone prassi tramite il metodo di coordinamento aperto (c.d. MAC). Ed
infatti, l’Ue ha competenze anche nel capo dell’educazione e formazione.
Tuttavia, le azioni perseguibili a livello europeo in tali materie non conducono ad atti con carattere “vincolante” ma sono dirette soltanto a «sostenere, coordinare e completare l’azione degli Stati membri» (art. 6, § 1 Tfue),
senza possibilità di sostituirsi ad essi.
11 In senso simile, cfr. G. Bertagna, Per una pluralità di soggetti nella formazione
superiore, in G. Bertagna, V. Cappelletti (a cura di), L’Università e la sua riforma, Studium, Roma, 2012, pp. 147-148, riportato in E. Massagli, op. cit., p.
27.
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Inquadramento giuridico dell’alternanza scuola-lavoro
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l’«adattabilità» delle persone, si vedano gli obiettivi strategici
nn. 1 e 2). Fine ultimo è, infatti, quello di costruire sistemi di
istruzione e formazione «più reattivi di fronte al cambiamento e più aperti verso il mondo esterno».
Nella Comunicazione della Commissione del 20 novembre
2012 Ripensare l’istruzione: investire nelle abilità in vista di
migliori risultati socioeconomici12 tale prospettiva sembra essere confermata e forse anche accentuata.
In essa sono, infatti, contenute affermazioni quali: «investire
nell’istruzione e nella formazione per sviluppare abilità è essenziale ai fini della promozione della crescita e della competitività» (p. 2); e ancora, pur ricordando che «La missione generale dell’istruzione e della formazione comprende obiettivi
quali la cittadinanza attiva, lo sviluppo personale e il benessere […] indissociabili dalla necessità di migliorare le abilità
funzionali all’occupabilità», è stato però precisato che «in un
contesto caratterizzato dal rallentamento della crescita economica
e dalla contrazione della forza lavoro conseguente
all’invecchiamento della popolazione – le sfide più urgenti che
gli Stati membri devono affrontare riguardano le esigenze
dell’economia e la ricerca di soluzioni alla disoccupazione
giovanile in rapido aumento», tant’è che scopo del documento
è quello di concentrarsi sull’«erogazione di abilità adeguate
per il mondo del lavoro, sull’incremento dell’efficienza e su
una maggiore inclusività dei nostri istituti di istruzione e formazione e sulla collaborazione con tutti gli stakeholder» (pp. 23).
12
COM(2012) 669 final, del 20 novembre 2012.
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Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
La prospettiva è, invero, quella di un’istruzione la cui funzione è
addirittura quella di «contribuire alla crescita e alla creazione
di posti di lavoro»13, cosa possibile «solo se l’apprendimento è
incentrato sulle conoscenze, sulle abilità e sulle competenze che
gli studenti devono acquisire (risultati dell’apprendimento)»
(p. 8), approccio, quello basato sui risultati dell’apprendimento,
che costituisce (non a caso) il fondamento del quadro europeo
delle qualifiche e dei quadri nazionali delle qualifiche.
I sistemi scolastici e formativi dovrebbero, pertanto, permettere
che le «abilità» siano «valutate, convalidate e riconosciute al
di fuori della scuola in modo che si possa tracciare un profilo
delle abilità da presentare a potenziali datori di lavoro», ciò
anche perché, «grazie a informazioni sulla qualità e sulla quantità
delle abilità possedute dalla popolazione, le autorità potranno
meglio individuare le potenziali carenze e concentrarsi sui settori
nei quali il rendimento degli investimenti è maggiore» (p. 9).
È evidente (perché espressamente enunciato) che, ad avviso della
Commissione, «investire nell’istruzione e nella formazione è
fondamentale per incrementare la produttività e promuovere
la crescita economica» (p. 2). Per tali ragioni, la Commissione
conclude nel senso che «Solo attraverso una maggiore produt-
Questa idea, in realtà, non è nuova ma è da tempo presente nel dibattito
pubblico e non, si veda nella letteratura giuslavoristica, U. Prosperetti, op.
cit., p. 6 , il quale afferma che la politica scolastica dovrebbe promuovere la
migliore preparazione professionale «non solo al fine di agevolare il più
possibile l’accesso alle occasioni di lavoro ma anche al fine di aumentare le
stesse occasioni di lavoro stimolando le iniziative imprenditoriali». Già negli
anni ‘80-’90, però, si criticava questo approccio chiarendo che la formazione professionale non è uno strumento in grado di generare di per sé nuova
occupazione, cfr. M. Biagi, M. Tiraboschi, op. cit., p. 110 e gli Autori ivi richiamati.
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Inquadramento giuridico dell’alternanza scuola-lavoro
11
tività e un’offerta di lavoratori altamente qualificati l’Europa
riprenderà il cammino della crescita – obiettivo per il quale è essenziale riformare i sistemi di istruzione e formazione» (p.
19).
Proprio il ricorso a termini e concetti propri del mondo
dell’economia e degli affari (l’investire, l’incrementare, la produttività, la crescita economica, l’efficienza, la collaborazione con
tutti gli stakeholders, l’“erogazione” di “abilità” come se fossero
normali “beni”14, ecc.) sembrano mostrare con chiarezza la prevalente dimensione e missione che le istituzioni europee riconoscono in capo al sistema scolastico e promuovono15.
In passato, è stato anche osservato che questa attenzione delle
istituzioni europee verso soltanto determinati aspetti
dell’istruzione non desterebbe particolare “sorpresa” ma, an-
Ed infatti, come è stato evidenziato in letteratura sulla base di argomenti
squisitamente pedagogici, «la scuola, la formazione professionale,
l’università gli ITS, i corsi di formazione continua possono trasmettere informazioni e conoscenze e, al più, allenare le abilità, ma non insegnare
“competenze”, in qualunque modo le si voglia aggettivizzare, […] perché
dimensione innata della persona», cfr. E. Massagli, op. cit., p. 36.
15 Non stupisce, pertanto, la motivazione con cui la Commissione europea
ha accolto con favore la riforma italiana del sistema scolastico del 2015
(c.d. La Buona Scuola): nella Relazione di monitoraggio del settore dell’istruzione e
della formazione 2016. Italia del novembre 2016 si legge che quella riforma
potrebbe «migliorare i risultati delle scuole», in particolare è stata valutata
positivamente l’introduzione dell’obbligo di svolgere l’alternanza scuolalavoro per gli studenti del triennio della scuola superiore, ciò perché tale
misura è vista come «un passo nella giusta direzione in quanto potrebbe
aiutare l’istruzione e la formazione professionale a rispondere meglio alle
esigenze del mercato del lavoro» (p. 7).
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12
Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
zi, sarebbe in larga parte “scontata” in considerazione della natura e dei fini di quell’organismo sovranazionale16.
In ogni caso, come avremo modo di vedere (cfr. par. nn. 3 e 6),
un’altra idea di scuola e di alternanza non solo è possibile, e
di fatto è stata anche in parte “positivizzata” nel nostro ordinamento (cfr. par. n. 4), ma anche “utile” e costituzionalmente
(se non necessitata quantomeno) orientata.
3. Fondamenti costituzionali (e non) dell’alternanza scuola-lavoro
Ricostruite così gli input, anche sotto forma di leva economica17,
provenienti dal contesto sovranazionale, prima di analizzare nel
Cfr. M. Biagi, M. Tiraboschi, op. cit., p. 93. È anche vero, però, che oggi
l’Ue «si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della
democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti
umani» (art. 2 Tue) e che, ormai da tempo, ha il potere di prendere «misure
per assicurare il coordinamento delle politiche occupazionali degli Stati
membri, in particolare definendo gli orientamenti per dette politiche» (art.
5, § 2, Tfue). In particolare, l’obiettivo fissato dal Trattato in materia è quello di sviluppare una «strategia coordinata a favore dell’occupazione, e in
particolare a favore della promozione di una forza lavoro competente, qualificata, adattabile e di mercati del lavoro in grado di rispondere ai mutamenti economici», scopo, questo, a sua volta, strumentale al «raggiungimento degli obiettivi di cui all’articolo 3 del trattato sull’Unione europea»
(art. 145 Tfue), tra cui vi rientrano anche la «promozione» dei «suoi valori»
(quelli elencati nell’art. 2 Tue), della «giustizia e protezione sociali», e la «vigilanza» sulla «salvaguardia e sviluppo del patrimonio culturale europeo»
(art. 3 Tue).
17 In molti ordinamenti nazionali la politica di valorizzazione di istituti quali, ad esempio l’apprendistato, è stato reso possibile grazie al supporto fi16
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Inquadramento giuridico dell’alternanza scuola-lavoro
13
dettaglio l’alternanza scuola-lavoro nei suoi aspetti più rilevanti
(finalità, funzioni e contenuti), pare utile svolgere una disamina
delle disposizioni della Costituzione italiana che qui interessano
al fine di trovare uno o più fondamenti costituzionali dell’istituto.
Nella Costituzione italiana del 1947 sono tre le disposizioni
che si occupano specificatamente della materia: gli artt. 33 e 34
in materia di istruzione e l’art. 35 in materia di formazione professionale. Tali disposizioni sono sì contigue, ma appartengono a
due Titoli diversi della Parte I Diritti e doveri dei cittadini:
gli artt. 33 e 34 chiudono il Titolo I sui Rapporti etico-sociali,
l’art. 35 apre il Titolo II dedicato ai Rapporti economici, ciò a
dimostrazione della tradizionale ambiguità/ambivalenza di
quest’ultimo istituto che, da un lato, appartiene al mondo
dell’istruzione, ma, dall’altro lato, è strumentale allo svolgimento dell’attività lavorativa e, più in generale, al mercato
del lavoro.
e proprio tale scelta di collocare in due distinti titoli della Costituzione l’istruzione generale (artt. 33 e 34 Cost.) da quella “professionale” (art. 35, comma 2 Cost.), secondo alcuni, è espressione (del pregiudizio) della separazione, e del conseguente diverso “valore”, tra l’otium dell’istruzione (studio) e il neg-otium
della formazione professionale (lavoro pratico)18. Secondo
nanziario del Fondo sociale europeo, cfr. M. Biagi, M. Tiraboschi, op. cit., p.
92.
18 In tal senso, cfr. G. Bertagna, Lavoro e formazione dei giovani, La Scuola,
Brescia, 2011, pp. 22 e ss. Secondo l’Autore, la Costituzione del 1947 («figlia del suo tempo») sembrerebbe aver accordato alle istituzioni di istruzione di cui agli artt. 33 e 34 soltanto il fine di promuovere il «pieno sviluppo
della persona umana» (ossia «accrescere […] l’intelligenza critica di sé, della
storia e del mondo, la volontà buona e giusta, il gusto estetico, l’armonia
corporea, la responsabilità morale verso se e gli altri, l’impegno sociale e civile, l’espressività artistica e linguistica, la sensibilità metafisica e/o religiosa
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Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
questa opinione, tale separazione, superabile attraverso una valorizzazione degli artt. 1 e 4 Cost., sarebbe stata di fatto “eliminata”, a livello costituzionale prima ancora che a livello legislativo,
nel 2001 (l. cost. n. 3/2001) con il riconoscimento, all’art. 117,
comma 2 Cost., dell’integrazione e della circolarità tra «istruzione e formazione professionale»19.
Per cogliere la portata e funzioni (potenziali)20 dell’istruzione e
della formazione all’interno del nostro ordine costituzionale,
sembra infatti necessario leggere gli artt. 33 e 34 Cost. insieme
ai Principi fondamentali della nostra Costituzione, in particolare con i primi quattro articoli:
di ciascuno»), non anche «il lavoro inteso sia come ampliamento della produttività e del profitto dell’impresa, sia come incremento delle competenze
professionali del lavoratore necessarie a questo scopo, oltre che per elevare
la sua posizione stipendiale» (p. 29).
19 Cfr. sempre G. Bertagna, op. cit., pp. 35-37. Ad avviso dell’Autore, dopo
la riforma costituzionale del 2001, «studio e lavoro, istruzione e formazione
(professionale), otium e negotium, schola e officina, al contrario, non hanno più
potuto essere letti in maniera antagonistica e gerarchica, ma soltanto integrata e circolare».
20 Non è mancato, infatti, chi ha fortemente criticato le disposizioni costituzionali sulla scuola definendole normativa «statica» che «registra mutamenti già avvenuti invece che indicare prospettive nuove» o, addirittura,
«uno “sviamento” rispetto alle premesse» stesse della Costituzione, in particolare rispetto al principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3,
comma 2 Cost., cfr. S. Cassese, Artt. 33-34 Cost., in G. Branca (a cura di),
Commentario alla costituzione, Zanichelli, Bologna, 1976, pp. 223 e ss., in particolare pp. 225 e 227.
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Inquadramento giuridico dell’alternanza scuola-lavoro
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art. 1, comma 1: «L’Italia è una Repubblica democratica,
fondata sul lavoro»21;
art. 2: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni
sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede
l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale»22;
art. 3, comma 2: «È compito della Repubblica rimuovere
gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e
l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all’organizzazione politica, economica e sociale del
Paese»;
art. 4: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto
al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto» (comma 1) e «Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la
propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al
progresso materiale o spirituale della società».
Il concetto di “lavoro” di cui all’art. 1 (e 4 Cost.) è quello con significato
più ampio che ricomprende qualsiasi attività ritenuta “utile” (anche in senso non materiale) dalla collettività, in tal senso cfr. C. Mortati, Il lavoro nella
Costituzione, in Dir. lav., 1954, 1, p. 155.
22 Il principio secondo cui ogni uomo ha valore di fine in sé, è dotato di
una propria dignità ed è titolare di diritti inviolabili (desumibile dall’art. 2
Cost.) è utile per comprendere appieno l’esatto significato delle disposizioni
costituzionali in materia di lavoro nonché il rapporto libertà-autorità, cittadino-Stato, cfr. C. Mortati, op. cit., p. 149.
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Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
E così, tenendo conto anche di questi articoli (secondo una certa
dottrina vincolanti sia per il legislatore che per l’interprete), si
può desumere l’importanza cruciale dell’istruzione e della
formazione all’interno del nostro sistema costituzionale nonché
i rapporti con il lavoro. Ed infatti, è stato osservato che tanto
l’art. 34 quanto l’art. 35, comma 2 Cost. sono attuative dell’art.
3, comma 2 che dell’art. 4 della nostra Carta costituzionale.
Proprio con riferimento a quest’ultimo articolo, è stato evidenziato che la portata del diritto al lavoro, pur non postulando ulteriori specificazioni da parte di altre disposizioni costituzionali, è
in un certo senso completata dall’art. 35, comma 2 Cost. che indica
la formazione professionale quale uno degli strumenti principali (anche se non l’unico) attraverso cui l’ordinamento intende realizzare quel diritto23.
D’altro canto, anche il diritto all’istruzione rende effettivo il
diritto al lavoro di cui all’art. 4 Cost.: la formazione complessiva
che deriva al cittadino dall’istruzione contribuisce, infatti, ad incrementare le “possibilità” (lavorative e non) del singolo nonché ad agevolare la “scelta” consapevole dell’«attività o […]
funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della
società».
Inoltre, l’istituzione scolastica, in quanto ricompresa da e facente
parte dell’ordine costituzionale, dovrebbe anche diffondere i valori e la “cultura” del lavoro promossi dalla nostra Carta. Nello
spirito informatore che ha ispirato i nostri costituenti e contraddistingue la nostra Costituzione, sin dal primo articolo, l’activitas
(concetto che ricomprende anche le attività relative allo spiritus
che prescindono dalla materialità) non solo è “dovere” di ogni
F. Mancini, Commento all’art. 4 Cost., in G. Branca (a cura di), Commentario
della Costituzione, p. 199 e ss.
23
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Inquadramento giuridico dell’alternanza scuola-lavoro
17
cittadino (art. 4, comma 2 Cost.), ma è sempre, e a prescindere
dalla sua “forma” e “applicazioni” (art. 35, comma 1 Cost.), anche strumento di sviluppo e realizzazione personale, di
emancipazione e partecipazione alla vita politica, economica e
sociale del Paese (artt. 3, comma 2 e 4, comma 2 Cost.)24.
Da ultimo, occorre ricordare che anche altre Carte di diritti fondamentali della persona internazionali o afferenti all’ordinamento
dell’Unione europea affermano principi simili. Sul punto, e a mero titolo esemplificativo, basti richiamare la Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea (che, ai sensi dell’art. 6 Tue
ha pari valore dei Trattati) dove, all’art. 14, viene affermato il diritto all’istruzione che ricomprende anche l’«accesso alla formazione professionale e continua» (comma 1).
Chiariti così i fondamenti costituzionali (e non) dell’alternanza
scuola-lavoro, è ora possibile procedere ad un’analisi delle origini
dell’istituto o meglio delle spinte all’introduzione e alla diffusione
dell’alternanza.
4. Funzioni e contenuti dell’alternanza scuola-lavoro
nell’ordinamento giuridico italiano
In Italia l’alternanza scuola-lavoro è stata per la prima volta prevista, a livello legislativo, dall’art. 4 della l. n. 53/2003 (c.d. Riforma Moratti) che ha fissato i principi e criteri direttivi in materia ed ha conferito al governo la delega per adottare un apposito
decreto legislativo.
Secondo una risalente ed autorevole dottrina, infatti, il «diritto al lavoro
postula una politica scolastica diretta a promuovere la migliore preparazione professionale», cfr. U. Prosperetti, op. cit., p. 6.
24
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18
Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
La delega è stata, poi, esercitata con l’emanazione del d.lgs. n.
77/2005 recante Definizione delle norme generali relative all’alternanza
scuola-lavoro, a norma dell’articolo 4 della L. 28 marzo 2003, n. 53.
All’interno del d.lgs. n. 77/2005, l’alternanza scuola-lavoro viene
definita quale «modalità di realizzazione dei corsi del secondo ciclo» (tanto nel sistema dei licei quanto nel sistema
dell’istruzione e della formazione professionale) volta ad «assicurare ai giovani, oltre alle conoscenze di base, l’acquisizione
di competenze spendibili nel mercato del lavoro» (art. 1,
comma 2) e quale «opzione formativa rispondente ai bisogni
individuali di istruzione e formazione dei giovani» (art. 2, comma 1).
Nessun dubbio vi è sulla natura esclusivamente formativa (e
di orientamento) dell’alternanza. Qualche dubbio potrebbe
sorgere, invece, sul contenuto della stessa, dal momento che non
è chiaro se la preposizione “oltre” si riferisca ai compiti propri
dell’alternanza stessa o dell’istruzione scolastica più in generale.
Tale questione potrebbe avere discreta rilevanza nella qualificazione in concreto del rapporto, dal momento che non è di
poco conto (anche ai fini di una corretta progettazione di tali
percorsi) ritenere che l’alternanza debba “assicurare” anche le
conoscenze di base oppure soltanto l’acquisizione di competenze
spendibili nel mercato del lavoro.
A ben vedere, le finalità dell’alternanza scuola-lavoro sono molteplici e di diversa natura. Nello specifico, l’art. 2 del d.lgs. n.
77/2005 le raggruppa in cinque macro-aree:
a) promozione di modalità di apprendimento flessibili e valorizzazione del collegamento tra formazione teorica ed espe-
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Inquadramento giuridico dell’alternanza scuola-lavoro
19
rienza pratica («attuare modalità di apprendimento flessibili e
equivalenti sotto il profilo culturale ed educativo, rispetto agli esiti dei percorsi del secondo ciclo, che colleghino sistematicamente
la formazione in aula con l’esperienza pratica»);
b) integrare e arricchire la formazione con l’acquisizione di
competenze spendibili (anche) nel mercato del lavoro («arricchire la formazione acquisita nei percorsi scolastici e formativi
con l’acquisizione di competenze spendibili anche nel mercato
del lavoro», occorre però evidenziare l’antinomia tra questa lettera, in particolare il ricorso all’«anche», e la breve definizione di alternanza contenuta nell’art. 1 dove non compare tale congiunzione);
c) orientare gli studenti e valorizzare le vocazioni, gli interessi e le modalità di apprendimento individuali («favorire
l’orientamento dei giovani per valorizzarne le vocazioni personali, gli interessi e gli stili di apprendimento individuali»);
d) creare un collegamento tra sistema scolastico e mondo del
lavoro-società civile nonché favorire la partecipazione attiva
nei processi formativi di soggetti tradizionalmente “estranei”
alla scuola, ossia imprese, relative associazioni di rappresentanza,
camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, enti
pubblici e privati (inclusi quelli del terzo settore), ordini professionali, musei e altri istituti pubblici e privati operanti nei settori
delle attività culturali, artistiche e musicali, patrimonio ambientale
o enti attivi nel settore dello sport riconosciuti dal CONI («realizzare un organico collegamento delle istituzioni scolastiche e
formative con il mondo del lavoro e la società civile, che consen-
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20
Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
ta la partecipazione attiva dei soggetti di cui all’articolo 1, comma
2 nei processi formativi»)25;
e) migliorare la corrispondenza tra offerta formativa e sviluppo culturale, sociale ed economico del relativo territorio
(«correlare l’offerta formativa allo sviluppo culturale, sociale ed
economico del territorio»).
Più nello specifico, e sebbene i percorsi in alternanza abbiano
una “struttura flessibile”, essi si articolano in periodi di formazione in aula e in periodi di apprendimento mediante
esperienze di lavoro che le istituzioni scolastiche e formative
sono tenute a progettare ed attuare sulla base di apposite convenzioni stipulate, a titolo gratuito, con i soggetti ospitanti.
In ogni caso, i periodi di apprendimento svolti mediante esperienze di lavoro sono parte integrante dei percorsi formativi
personalizzati e sono strumentali e finalizzati alla «realizzazione
del profilo educativo, culturale e professionale del corso di studi
e degli obiettivi generali e specifici di apprendimento stabiliti a livello nazionale e regionale» (art. 4, comma 2).
Tuttavia, tale modalità formativa, per espressa previsione di legge
(si veda art. 4, comma 1, l. n. 53/2003), non incide né preclude
la possibilità di realizzare un percorso scolastico (dai 15 ai 18
anni) in apprendistato (ai sensi del vigente art. 43 del d.gs. n.
Nelle intenzioni del legislatore (delegante e delegato), infatti,
l’introduzione dell’alternanza scuola-lavoro è finalizzata ad utilizzare, a fini
educativi, il grande potenziale formativo del mondo delle imprese e degli
altri enti pubblici e privati, cfr. P. Pascucci, op. cit., pp. 150-151, in particolare nota n. 209, che richiama le Relazioni accompagnatorie della l. n.
53/2003 e del d.lgs. n. 77/2005.
25
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Inquadramento giuridico dell’alternanza scuola-lavoro
21
81/2015) o di attivare appositi tirocini (ai sensi dell’art. 18 della
l. n. 196/1997).
Proprio in ragione del fatto che i percorsi in alternanza sono
progettati, attuati, verificati e valutati dall’istituzione scolastica o
formativa, essa ha la “responsabilità”, nei confronti degli studenti, della bontà e genuinità del percorso.
Di contro, in forza della stipula (seppure a titolo gratuito) della
convenzione, i soggetti “ospitanti” di cui all’art. 1, comma 2 del
d.lgs. n. 77/2005 (ossia le imprese e gli altri enti pubblici o privati
ivi elencati) si impegnano, in primis nei confronti dell’istituzione
scolastica, a rispettare i contenuti formalizzati in quella sede. Da
qui la centralità e rilevanza giuridica di quella convenzione.
Occorre, infine, far presente che, con la l. n. 107/2015 (c.d. La
Buona Scuola), l’alternanza scuola-lavoro da “opzione” (si veda
art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 77/2005) è diventata “obbligo” dal
momento che tali percorsi devono essere programmati e svolti
«negli istituti tecnici e professionali, per una durata complessiva, nel secondo biennio e nell’ultimo anno del percorso di studi, di almeno 400 ore» e «nei licei, per una durata complessiva
di almeno 200 ore nel triennio”, ciò al dichiarato fine di “incrementare le opportunità di lavoro e le capacità di orientamento degli studenti» (art. 1, comma 33).
In conclusione, seppur nel sistema di alternanza scuola-lavoro,
come positivizzato nel nostro ordinamento (d.lgs. n. 77/2005, integrato dalla l. n. 107/2015), vi sia (anche) un’attenzione ad
aspetti legati all’occupabilità e al mercato del lavoro (si veda,
ad esempio, la finalità di cui alla lett. b, dell’art. 4 del d.lgs. n.
77/2005), la prospettiva sembra essere sempre quella legata alla
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Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
educazione e formazione della persona anche in un’ottica di
valorizzazione delle vocazioni, interessi e modalità di apprendimento individuali, quindi «rispondente a bisogni individuali» (anche se la modifica del carattere dell’alternanza, da
“opzione formativa” ad “obbligo”, potrebbe avere un qualche
impatto anche su questo profilo, se non altro per le indubbie difficoltà per le scuole di organizzare un numero così elevato di
percorsi).
5. Perché il diritto del lavoro non dovrebbe ignorare
l’alternanza scuola-lavoro
L’alternanza scuola-lavoro e, più in generale, esperienze di formazione in situazione (anche lavorativa), quali, ad es., i tirocini,
hanno assunto nel corso degli anni sempre più rilevanza nella
prassi e, di conseguenza, hanno trovano espresso riconoscimento
all’interno del nostro ordinamento giuridico.
Come è stato correttamente rilevato dalla dottrina, il diritto del
lavoro non può ignorare tali fattispecie ed istituti ma ne deve tener conto ed occuparsene dal momento che dietro a questi strumenti, caratterizzati dalla rilevanza che acquista la “formazione” all’interno delle dinamiche e degli ambienti di lavoro, possono in realtà nascondersi importanti deviazioni ed elusioni di
norme imperative26.
In tal senso cfr. P. Pascucci, Stage e lavoro. La disciplina dei tirocini formativi e
di orientamento, Giappichelli, Torino, 2008, p. 7. L’Autore osserva anche che
strumenti, quali lo stage, hanno caratteristiche simili a normali rapporti di
lavoro in quanto hanno a che fare con la professionalità e il mercato del lavoro e si svolgono con modalità assimilabili a quelle tipiche della prestazione lavorativa (inserimento in un’organizzazione produttiva altrui, sottoposizioni a vincoli propri del lavoro subordinato, riconoscimento di una serie
26
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Inquadramento giuridico dell’alternanza scuola-lavoro
23
E così lo studioso di diritto del lavoro deve studiare attentamente
non solo questi istituti, in particolari i contenuti, le finalità e le
forme degli stessi, ma anche le conseguenze giuridiche di
eventuali scostamenti da quanto previsto dal legislatore o dalla
stessa autonomia individuale e/o collettiva.
Ed infatti, secondo il noto principio dell’indisponibilità del
tipo, non ha alcun valore ed efficacia (in concreto)
l’enunciazione da parte del legislatore in ordine alla qualificazione
di un determinato rapporto giuridico, ma sarà eventualmente
compito del giudice valutare caso per caso che quel determinato rapporto si sia svolto effettivamente con quelle modalità prescritte a livello generale e astratto dalla legge o
dalle pattuizioni delle parti27.
Tuttavia, occorre anche rilevare che un eventuale scostamento
dalla convenzione stipulata e dalle disposizioni di legge in materia
avrà limitate e, comunque, tenui conseguenze giuridiche di
tipo strettamente giuslavoristico (sempreché trovi applicazione, per via analogica, la disposizione di cui all’art. 2126
c.c., Prestazione di fatto con violazione di legge), ciò in considerazione sia dell’esiguo monte di ore svolto presso il soggetto
ospitante (nel triennio, 200 ore per i licei e 400 ore negli istituti
di diritti con funzione protettiva, ad es. in materia di salute e sicurezza. Discorso, questo, però che, al momento, non sembra essere valido anche per
l’alternanza scuola-lavoro dove la componente formativa è ancora più forte
e fortemente limitata (nel tempo) è l’attività svolta dagli studenti all’interno
dei locali dei soggetti ospitanti.
27 «Allorquando il contenuto concreto del rapporto e le sue effettive modalità di svolgimento - eventualmente anche in contrasto con le pattuizioni
stipulate e con il nomen juris enunciato - siano quelli propri del rapporto di
lavoro subordinato, solo quest’ultima può essere la qualificazione da dare al
rapporto, agli effetti della disciplina ad esso applicabile» (cfr., fra le altre, C.
cost. n. 115/1994).
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Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
tecnici e professionali) che del presumibilmente modesto apporto
professionale offerto dal giovane studente.
Occorre, infine, accennare ad uno dei nodi più problematici che
sta emergendo nel dibattito pubblico e anche tra gli addetti ai lavori, quello relativo ai rapporti tra alternanza scuola-lavoro e
tirocini. In particolare, ci si domanda se l’alternanza è qualificabile come tirocinio curriculare oppure no ed eventualmente, in
caso di risposta positiva, da quale “fonte” (o fonti) essa viene regolata.
In dottrina, è stata avanzata una tesi ricostruttiva di tali rapporti
in termini, se non proprio di genus (tirocini curriculari) a species (alternanza scuola-lavoro), quantomeno in termini di sovrapposizione delle due fattispecie nonché di sostanziale somiglianza tra le due discipline28.
A questa riflessione, che pare in parte corretta, si potrebbe forse
aggiungere – ma il profilo è, senza dubbio, da approfondire – che
la differenza potrebbe individuarsi sul piano della incorporazione dei percorsi di alternanza nei corsi scolastici del secondo
ciclo, tanto da assurgere a «modalità di realizzazione» degli
stessi (al contrario dei tirocini che sono qualificati come meri
«momenti» di alternanza tra studio e lavoro «nell’ambito
dei processi formativi» che possono essere semplicemente
Cfr. P. Pascucci, op. cit., p. 156, dove afferma che l’alternanza «costituisce
uno strumento che, di per sé, non interferisce con gli stages che le istituzioni scolastiche possono promuovere ai sensi della norma del 1997», nondimeno «è presumibile che, almeno nel settore dell’istruzione professionale
[…], il sistema di alternanza disciplinato nel 2005 possa di fatto ridurre gli
spazi dei tirocini».
28
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Inquadramento giuridico dell’alternanza scuola-lavoro
25
“promossi” e “proposti” da vari soggetti, si veda art. 18 della l. n.
196/1997 e artt. 1 e 2 del d.m. n. 142/1998)29.
Tesi che sembra confermata dalla lettura data dallo stesso MIUR
nella Guida operativa per la scuola del 2016, dove il tirocinio
curriculare è definito come «un momento dell’alternanza, ovvero la fase “pratica” di un percorso di alternanza, il periodo
di formazione svolto dallo studente presso la struttura ospitante»30.
Sul punto, giova richiamare la sentenza n. 34/2005 con cui la Corte costituzionale, chiamata a decidere alcune questioni di legittimità costituzionale di varie disposizioni di una legge della Regione Emilia Romagna, ha
avuto modo di affermare che «l’“alternanza scuola-lavoro”, secondo
l’ispirazione della legge di delegazione n. 53 del 2003, che peraltro riprende
in parte principi già presenti nella precedente legislazione (la citata legge n.
196 del 1997, l’art. 68 della legge del 17 maggio 1999, n. 144 e la legge del
10 febbraio 2000, n. 30, poi abrogata dalla stessa legge di delegazione), costituisc[e] uno degli elementi centrali del sistema integrato istruzione/formazione professionale, in armonia con orientamenti invalsi in ambito comunitario, nel quale si è andata rafforzando sempre più una politica
indirizzata alla riqualificazione dell’istruzione e della formazione professionale quale fattore di sviluppo e di coesione sociale ed economica», pertanto
essa rientra nella «competenza statale» di «definire gli istituti generali e fondamentali dell’istruzione» (in altri termini le “norme generali”
dell’istruzione di cui all’art. 117, comma 1, lett. n, Cost.).
30 «benché sia corretto dire che il tirocinio non possa essere identificato con
l’alternanza tout court, è altrettanto corretto affermare che il tirocinio curriculare sia un momento dell’alternanza, ovvero la fase “pratica” di un percorso di alternanza, il periodo di formazione svolto dallo studente presso la
struttura ospitante. Tuttavia, è necessario ricordare che, non essendo ancora definita una disciplina del tirocinio curriculare, le scuole, nel momento in
cui stipulano le Convenzioni con i soggetti ospitanti, fanno ancora riferimento all’art. 18 della legge 196/97 (“Tirocini formativi e di orientamento”) e al relativo decreto attuativo (DM 142/98). Ad oggi, infatti, sono ancora i provvedimenti appena richiamati, benché ormai ampiamente supera29
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Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
6. Conclusioni: la necessità di un’alternanza scuola-lavoro
“costituzionalmente orientata” e genuina
Prima ancora di essere parte di un sistema economico e produttivo, la Scuola è e deve essere parte di un sistema democratico e sociale, di cittadinanza.
Ad avviso di chi scrive e secondo la lettura data delle disposizioni
costituzionali (cfr. par. n. 3), infatti, il ruolo dell’istituzione scolastica è quello di educare e formare i “futuri” cittadini (e non)
in modo tale da consentire loro, non solo, di condurre
un’esistenza libera e piena ma anche di partecipare attivamente alla vita politica, economica e sociale del Paese. Ruolo, questo, tanto più delicato quanto più si considera lo stato in
cui versano le nostre democrazie ed il contesto “globale” (stravolgimenti sociali, economici e tecnologici in atto senza precedenti, emergenza occupazionale, questione ambientale, crisi internazionali, ecc.).
Nell’ordinamento italiano, dato che la nostra Costituzione, al pari
della nostra società, attribuisce al lavoro un valore fondamentale
(e fondante della Repubblica) come strumento di realizzazione
personale ma anche di emancipazione e partecipazione, compito
della Scuola è anche quello di formare e orientare gli studenti
affinché essi abbiano più “contezza” del mondo, in generale, e del mondo del lavoro, in particolare, e siano “attrezzati” per “adattarsi” ad esso ma anche per affrontare, in modo
autonomo, libero e consapevole, i problemi e le situazioni
ti, a costituire l’unico quadro normativo di riferimento per l’attivazione dei
tirocini curriculari» (si veda p. 6, nota 3).
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Inquadramento giuridico dell’alternanza scuola-lavoro
27
che la vita sottopone loro, anche con vero spirito critico (nel
senso di eventuale contestazione della direzione che sembra
prendere ineluttabilmente la “realtà”, la società, l’economia, la
politica, ecc., sempre nel rispetto del metodo democratico e in
via costruens, e cioè con formulazioni di idee, visioni e risposte “alternative”).
Uno strumento, senza dubbio, utile e forse anche necessario31
per realizzare tali obiettivi “formativi” è l’alternanza scuolalavoro, la quale ha il pregio non solo di orientare gli studenti
verso scelte (attuali e/o future) più consapevoli perché fondate su maggiori informazioni, conoscenze ed esperienze,
ma anche di offrire momenti educativi (pratici ma anche “di vita”) che hanno un’importante funzione pedagogica in quanto
aprono l’orizzonte su altri dimensioni, ambienti e attività.
Che poi tutto questo si traduca in una maggiore “occupabilità”
può essere una conseguenza/effetto senz’altro “utile” per
tutti (studenti, imprese, mercato, finanze pubbliche, ecc.), ma
non deve costituire l’unico fine della Scuola proprio perché
l’educazione e la formazione a cui essa aspira sono funzionali alla
“costruzione” della personalità, coscienza, cultura ed identità della persona (e del futuro cittadino) e pertanto, non si esauriscono
nella
dimensione
dell’occupabilità
(quantomeno
non
nell’accezione giuslavoristica del termine)32.
Come è sostenuto in dottrina da vari autori, cfr., fra tutti, E. Massagli, op.
cit., p. 40, il quale utilizza a tal fine soltanto l’argomento pedagogico (e non
anche quello economico).
32 In dottrina sono state avanzate anche letture ed accezioni diverse del
termine “occupabilità”, sul punto cfr. E. Massagli, op. cit., pp. 24 e ss., dove
viene recuperata una dimensione esclusivamente pedagogica del termine
che diventa «occupabilità lungo tutto l’arco della vita»: «Non si tratta di
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Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
Pertanto, oltre ad essere costituzionalmente se non imposto
quantomeno “orientato” (secondo la lettura che ne è stata data al
par. 3), è anche “utile” prendere sul serio l’alternanza scuola-lavoro considerandola, trattandola e attuandola come vera
modalità formativa, e non svalutandone le funzioni e finalità
con pratiche abusive o discorsi (giuridici e non) limitati e limitanti
perché comprensivi soltanto di una delle tante dimensioni e finalità che contraddistinguono questo istituto.
Si potrebbe fare ciò a partire dalla denominazione che, allo stato, sembra alludere a due momenti distinti, se non contrapposti,
che si succedono ma di fatto non comunicano tra loro. In realtà,
ciò che dovrebbe indicare l’attuale “alternanza scuola-lavoro” è
una combinazione sintetica di due “mondi”, spesso pensati come
“altri”, che si incontrano ed integrano in un unico processo
per un obiettivo comune: l’educazione e formazione in senso lato della persona33.
È questa l’idea pedagogica che sta alla base di questo istituto,
bisognerà verificare poi, nei fatti, se essa risulterà realizzabile, a quali costi e per chi.
scegliere manicheisticamente e artificiosamente tra teoria e pratica, tra autocontemplazione didattica e operatività lavorativa, ma ordinare entrambe le
dimensioni in una pretesa formativa più vasta, che permetta al discente di
comprendere appieno la realtà nella quale vive e non solo di apprendere le
competenze individuali» (p. 33).
33 In senso analogo, si vedano P. Pascucci, op. cit., pp. 98 e 101; M.G. Garofalo, La legge delega sul mercato del lavoro: prime osservazioni, in Riv. giu. lav., 2003,
I, p. 369.
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Inquadramento giuslavoristico
dell’istituto dell’alternanza scuola-lavoro
di Laura Angeletti
1. Introduzione alla problematica e metodologia
L’alternanza scuola-lavoro è una metodologia didattica che si
svolge sotto la responsabilità dell’istituzione scolastica o formativa. Il soggetto che riceve la formazione ha lo status giuridico dello studente e l’inserimento in azienda non costituisce un rapporto
di lavoro. L’unico ambito ai fini del quale lo studente in alternanza (che svolge l’attività in ambienti esterni a quello scolastico) è
equiparato ad un lavoratore è quello della salute e sicurezza nei
luoghi di lavoro (art. 2, comma 1, lett. a, d.lgs. n. 81/2008).
Il tirocinio curriculare si qualifica come un momento o uno
strumento con cui si attua la metodologia dell’alternanza; pregiudiziale, alla comprensione del rapporto tra le due fattispecie, il
chiarimento del significato di ognuna di esse. A tal fine si ritiene
di svolgere un’analisi delle definizioni legislative seguendo un ordine diacronico.
2. Alle origini dell’interazione tra formazione e lavoro
La valenza formativa del lavoro viene riconosciuta già in epoca
fascista: il r.d. n. 1906/1938 sull’apprendistato afferma che è un
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Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
contratto di lavoro rivolto a chi necessita un periodo di formazione finalizzato al conseguimento di una qualifica professionale.
Si pone in capo al datore l’obbligo di concedere al lavoratore
permessi retribuiti per svolgere attività formativa e al lavoratore
l’obbligo di frequentare i corsi, pena la decurtazione dal salario
delle ore di assenza.
In epoca più recente, la l. 285/1977 introduce nell’ordinamento
repubblicano un istituto che coniuga l’istanza del lavoro e
dell’apprendimento, nell’orizzonte di riferimento di un contratto
di lavoro avente anche una funzione formativa: l’art. 8 della legge
disciplina il “contratto di formazione” e i cicli formativi che fanno parte del programma. Tuttavia l’istanza formativa risulta secondaria rispetto alle rationes di collocamento, incentivo
all’occupazione e allo svolgimento di attività agricole della norma, che si evincono dalla lettura delle finalità richiamate dall’ art.
1 della legge (Incentivare l’impiego straordinario di giovani in attivita’
agricole, artigiane, commerciali, industriali e di servizio,[…] Incoraggiare
l’accesso dei giovani alla coltivazione della terra); inoltre tra le principali
innovazioni della legge figura l’istituzione di una commissione
regionale di collocamento per i giovani inoccupati.
3. L’ingresso del tirocinio nell’ordinamento italiano
Alla fine degli anni ‘90 la l. 196/1997 introduce nell’ordinamento
giuslavoristico le nozioni di tirocinio (“formativo e di orientamento”) e di alternanza: all’art. 18, si legge che sono emanati
principi e criteri generali «Al fine di realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro e di agevolare le scelte professionali mediante la conoscenza diretta del mondo del lavoro, attraverso iniziative di tirocini pratici e stages», che possono essere promossi da università; provveditorati agli studi, istituzioni
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Inquadramento giuridico dell’alternanza scuola-lavoro
31
scolastiche statali e non statali; centri pubblici di formazione e/o
orientamento; comunità terapeutiche, enti ausiliari e cooperative
sociali; servizi di inserimento lavorativo per disabili gestiti da enti
pubblici delegati dalla regione.
La finalità proclamata dalla norma e la natura delle istituzioni che
possono ospitare i tirocini fanno sì che non vi sia alcun dubbio
sulla funzione formativa di questi ultimi.
3.1. I tirocini formativi e di orientamento
La l. 196/1997 verrà implementata dal d.m. 142/1998 che disciplina i «tirocini formativi e di orientamento»: l’istituto è indirizzato agli studenti, riguardo le attività di tirocinio dei quali si
prescrive che vi sia «raccordo con i percorsi formativi svolti
presso le strutture di provenienza», si formulano indicazioni
specifiche quanto alla durata massima dell’esperienza e si conferma che sono promossi da scuole e università.
Tutto questo viene confermato dal decreto del Ministero
dell’Università e della Ricerca del 1999, che all’art. 10 (Obiettivi
e attività formative qualificanti delle classi) ne sottolinea ulteriormente la funzione formativa: «I decreti ministeriali individuano preliminarmente, per ogni classe di corsi di studio, gli obiettivi formativi qualificanti e le attività formative indispensabili
per conseguirli, raggruppandole in sei tipologie: […] nonché attività formative volte ad agevolare le scelte professionali,
mediante la conoscenza diretta del settore lavorativo cui il
titolo di studio può dare accesso, tra cui, in particolare, i tirocini formativi e di orientamento di cui al decreto del Ministero del Lavoro 25 marzo 1998, n. 142».
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Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
4. La Riforma della Costituzione
Nel 2001 la materia viene investita dalla riforma del Titolo V della Costituzione, che affida alla competenza regionale la materia
della formazione e apre uno spazio ai conflitti di competenza tra
legislatore nazionale e regionale. Poco tempo dopo, con la sentenza n. 50/2005 la Corte costituzionale abrogherà l’art. 60 del
d.lgs. n. 276/2003 (impugnato dalle regioni Marche, Toscana ed
Emilia-Romagna) che aveva disciplinato direttamente i tirocini
estivi di orientamento, in quanto «la disciplina dei tirocini estivi
di orientamento, dettata senza alcun collegamento con rapporti
di lavoro, e non preordinata in via immediata ad eventuali assunzioni, attiene alla formazione professionale di competenza esclusiva delle Regioni».
5. Alternanza scuola-lavoro e tirocinio formativo
Negli stessi anni la l. n. 30/2003 dà espressione compiuta
all’esistenza nell’ordinamento dell’istituto dell’alternanza scuolalavoro. All’art. 4, Alternanza scuola-lavoro, si legge che, «Fermo restando quanto previsto dall’articolo 18 della legge 24 giugno
1997, n. 196, al fine di assicurare agli studenti che hanno compiuto il quindicesimo anno di età la possibilità di realizzare i corsi del
secondo ciclo in alternanza scuola-lavoro, come modalità di
realizzazione del percorso formativo progettata, attuata e
valutata dall’istituzione scolastica e formativa in collaborazione con le imprese» delega il Governo ad adottare un apposito decreto-legge.
I soggetti ospitanti, sotto la responsabilità dell’istituzione scolastica o formativa e sulla base di convenzioni appositamente sti-
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Inquadramento giuridico dell’alternanza scuola-lavoro
33
pulate sono «disponibili ad accogliere gli studenti per periodi di
tirocinio che non costituiscono rapporto individuale di lavoro».
Da questa disposizione emerge chiaramente che il tirocinio costituisce la componente “pratica” di un percorso formativo che alterna formazione “teorica” e “sul campo”.
Tale impostazione viene confermata dal decreto del Ministro
dell’università 22 ottobre 2004, n. 270, (art. 10) in cui si legge
che i tirocini – formativi – costituiscono parte integrante dei
corsi di studio: «Oltre alle attività formative qualificanti, […] i
corsi di studio dovranno prevedere: attività formative relative
agli stages e ai tirocini formativi presso imprese, amministrazioni pubbliche, enti pubblici o privati ivi compresi
quelli del terzo settore, ordini e collegi professionali, sulla
base di apposite convenzioni».
Nel 2005 il Governo dà corso alla delega del 2003 emanando il
D.lgs. n. 77/2005: definisce l’alternanza come «modalità di realizzazione dei corsi del secondo ciclo, […] per assicurare ai giovani, oltre alle conoscenze di base, l’acquisizione di competenze
spendibili nel mercato del lavoro» e costruisce un sistema in cui
gli studenti presentano la richiesta di svolgere, sotto la responsabilità dell’istituzione scolastica, il percorso formativo che si compone di periodi in aula e esperienze lavorative, coerente con il
profilo educativo del corso di studi ordinario.
Si realizza mediante la stipulazione di apposite convenzioni tra la
scuola e l’ente ospitante e ha una struttura flessibile il cui fulcro è
costituito dalla collaborazione tra il tutor interno e quello esterno, che supervisionano i due percorsi dello studente garantendone la coerenza.
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Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
Il decreto-legge non nomina i tirocini ma si riferisce a «periodi di
apprendimento mediante esperienze di lavoro [che] fanno parte
integrante dei percorsi formativi personalizzati».
6. La diversificazione delle fattispecie
Nel 2007 si assiste ad un’interruzione della sostanziale unitarietà
della fattispecie del tirocinio. La nota del ministero del lavoro
4746, relativa agli adempimenti connessi alla instaurazione, trasformazione e cessazione dei rapporti di lavoro, afferma che «la
comunicazione preventiva si applica anche “ai tirocini di formazione e orientamento e ad ogni altro tipo di esperienza lavorativa
ad essi assimilata”. A questo riguardo […] si è ritenuto di includere non solo i tirocini previsti dall’art. 18 della legge n. 196/97 e
dal relativo regolamento di attuazione, nonché quelli disciplinati
da leggi regionali, ma anche quelli inclusi nei piani di studio dalle
università e dagli istituti scolastici sulla base di norme regolamentari. In fase di prima attuazione, tuttavia, perplessità sono
emerse circa l’opportunità di estendere l’obbligo anche a
quelle esperienze previste all’interno di un percorso formale
di istruzione o di formazione, la cui finalità non è direttamente quella di favorire l’inserimento lavorativo, bensì di
affinare il processo di apprendimento e di formazione. Pertanto, […], si ritiene di escludere l’obbligo di comunicazione
per i tirocini promossi da soggetti ed istituzioni formative a
favore dei propri studenti ed allievi frequentanti, per realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro».
Da questo momento la normativa distingue concettualmente i tirocini che fanno parte dei corsi di studio dai tirocini formativi e
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Inquadramento giuridico dell’alternanza scuola-lavoro
35
di orientamento e postula l’eterogeneità di questi ultimi rispetto
all’alternanza scuola-lavoro.
7. Tirocini formativi e di orientamento non curricolari
Questa impostazione sarà mantenuta dalla c.d. Manovra di agosto (d. l. 138/2011) che condivide la ratio antielusiva della nota
4647. Nel determinare «i livelli di tutela essenziali per
l’attivazione dei tirocini» opera una nuova distinzione tra «tirocini
formativi e di orientamento», «tirocini formativi e di orientamento non curricolari» (che possono essere promossi solo a favore di
chi abbia conseguito una laurea o un diploma durante i precedenti 12 mesi) e afferma che, in assenza di specifiche regolamentazioni regionali trovano applicazione, per quanto compatibili, la l.
n. 196/1997 e il d.m. n. 142/1998.
La Corte costituzionale con sentenza n. 287/2012, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disposizione, in quanto lesiva
del riparto di competenze tra Stato e Regioni. Questo revoca in
dubbio anche la sopravvivenza nell’ordinamento del richiamo alla l. n. 196/1997.
8. Questioni esegetiche e conclusioni
Le norme fin qui citate si riferiscono a fattispecie di cui manca
una definizione univoca, in particolare per quanto riguarda il tirocinio curricolare. Si rintracciano nella circolare ministeriale del
12 settembre 2011 (che richiama la nota del 2007) indici per determinare quando la fattispecie è integrata: il tirocinio deve essere
promosso da un’istituzione scolastica, a favore dei propri studenti, da svolgersi all’interno della durata del corso di studi e finaliz-
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Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
zata a perfezionare il processo di apprendimento mediante la
modalità dell’alternanza.
Questa informazione assume particolare rilevanza alla luce del
contenuto delle linee-guida emanate in sede di Conferenza
Stato-Regioni su impulso della l. n. 92/2012: in entrambe le
versioni delle (una del 2013 e l’altra del 2017), i tirocini non curricolari sono espressamente eslcusi dal novero delle materie oggetto delle linee-guida. Ciò probabilmente, alla luce della prevalente ratio anti elusiva della disciplina sui tirocini, si deve al fatto
che, dato l’elevato livello di controllo da parte dell’istituzione
scolastica sull’attività svolta dallo studente che svolge un tirocinio
curricolare, il rischio di abuso dell’istituto e di simulazione di lavoro sommerso è notevolmente ridotto; pertanto non è stato ritenuto necessario intervenire in tal senso.
Nel frattempo, il legislatore nazionale è nuovamente intervenuto
in materia con la l. 13 luglio 2015, n. 107 che rende il metodo
dell’alternanza obbligatorio e generale e fissa un monte ore di
formazione che, stando ai parametri pocanzi richiamati, integra
esattamente la fattispecie di tirocinio non curricolare e il parametro normativo più prossimo in tal senso (sempre che sia da ritenere ancora valido) è la l. n. 196/1997.
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Capitolo II.
L’alternanza scuola-lavoro dopo
La Buona Scuola:
esperienze e relazioni di lavoro
La progettazione di percorsi
di alternanza scuola-lavoro
di Alessia Battaglia
1. La progettazione di percorsi di alternanza scuola-lavoro
In quanto metodologia pedagogica di formazione integrale della
persona, l’alternanza scuola-lavoro non mira semplicemente a facilitare il futuro ingresso dei giovani all’interno del mercato del
lavoro ma, in senso più ampio, contribuisce a sviluppare la cultura, la personalità, la maturità necessarie per consentire
all’individuo di partecipare attivamente alla società in cui è inserito e, di conseguenza, di gestire con più facilità le transizioni
all’interno del mercato del lavoro. Così sembra aver recepito il
legislatore della riforma de La Buona Scuola (l. n. 107/2015) che,
nella Guida operativa sull’alternanza scuola-lavoro, evidenzia
come – in coerenza con la missione generale dell’istruzione e della formazione di perseguire obiettivi quali la cittadinanza attiva,
lo sviluppo personale e il benessere – l’alternanza scuola-lavoro
abbia il merito di integrare il mondo della scuola e quello
dell’impresa ospitante, a loro volta «consapevoli che, per uno sviluppo coerente e pieno della persona, è importante ampliare e diversificare i luoghi, le modalità ed i tempi dell’apprendimento»1.
Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Attività di alternanza scuola lavoro. Guida operativa per la scuola, p. 12.
1
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L’alternanza scuola-lavoro dopo La Buona Scuola
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Tuttavia, affinché tale funzione venga effettivamente realizzata e
le attività svolte in alternanza scuola-lavoro non siano soltanto
delle parentesi nei percorsi di istruzione e formazione degli studenti, ma siano parte integrante del curricolo scolastico, è indispensabile che a priori vi sia un’attività di co-progettazione del
percorso formativo tra la scuola e il soggetto ospitante, qualunque sia lo strumento scelto per realizzarla.
Nell’ipotesi in cui l’alternanza scuola-lavoro venga attuata attraverso lo strumento del tirocinio curriculare, la guida operativa del
Miur, al paragrafo 4, lettera b, impone la «coerenza con il Piano
dell’Offerta Formativa dell’istituzione scolastica». Sin da questa
prima indicazione appare evidente che l’attività di tirocinio svolta
in azienda debba essere coerente con l’indirizzo di studio cui è
iscritto lo studente. Si badi però che coerenza con il piano
dell’offerta formativa non implica coerenza con le materie caratterizzanti l’indirizzo, ma con le competenze del profilo in uscita
da quel percorso di istruzione, così come delineate dalle lineeguida per il riordino dell’istruzione secondaria superiore2.
È sempre la guida operativa che conferma questa prima impressione, stabilendo al paragrafo 4, lettera b), che «la progettazione
di percorsi di alternanza, che con la l. 107/2015 assume una dimensione triennale, contribuisce a sviluppare le competenze ri-
Il riferimento è al d.P.R. 15 marzo 2010, n.87, Regolamento recante norme per
il riordino degli istituti professionali, a norma dell’art. 64, comma 4, del decreto-legge 25
giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133;
al d.P.R. 15 marzo 2010, n. 88, Regolamento recante norme per il riordino degli istituti tecnici a norma dell’articolo 64, comma 4, del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112,
convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133; al d.P.R. 15 marzo,
n. 89, Regolamento recante revisione dell’assetto ordinamentale, organizzativo e didattico
dei licei a norma dell’articolo 64, comma 4, del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112,
convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133.
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Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
chieste dal profilo educativo, culturale e professionale del corso
di studi».
La tabella che segue dà un’idea del percorso necessario per progettare una “buona alternanza”.
Tabella 1 – Programmazione triennale dei percorsi di alternanza scuolalavoro
Fonte: Dossier – L’ALTERNANZA SCUOLA LAVORO. Approcci e
strumenti in Lombardia
La tabella è un chiaro indice del fatto che in via preliminare sia
necessario suddividere l’ammontare delle ore nei tre anni, come
richiesto dalla legge, poi individuare quelle situazioni nell’ambito
delle quali lo studente può sviluppare le competenze proprie del
suo indirizzo di studi, stabilire quali di queste hanno luogo nel
contesto scolastico e quali in quello aziendale e, successivamente,
incrementare, nell’arco dei tre anni, il livello di autonomia e di responsabilità nello svolgimento delle prestazioni individuate. Infi-
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L’alternanza scuola-lavoro dopo La Buona Scuola
41
ne,
sarà
necessario
collegare
le
competenze/performances/prestazioni con le competenze del profilo in
uscita dall’istruzione secondaria di secondo grado, sia ai fini della
valutazione del raggiungimento degli obiettivi specifici di apprendimento, sia ai fini della certificazione delle competenze.
2. L’esperienza di Confindustria Lecco e Sondrio e della
Fondazione A. Badoni
2.1. L’alternanza scuola-lavoro nell’istruzione secondaria superiore
Credendo nella necessità di investire in formazione per rendere le
proprie imprese più competitive nei mercati internazionali, Confindustria Lecco e Sondrio e la Fondazione per la salvaguardia
della cultura industriale - A. Badoni hanno creato un canale di
comunicazione tra le scuole e le aziende del territorio, progettando e attivando percorsi di alternanza scuola-lavoro.
Le iniziative hanno preso avvio nel 2015 con i progetti ASSIST e
Traineeship che vedevano coinvolti rispettivamente l’ITIS “E.
Mattei” di Sondrio per gli indirizzi meccanico e biotecnologico, e
l’IIS A. Badoni di Lecco per gli indirizzi meccanico ed elettronico. In seguito al successo di queste prime due iniziative, grazie al
crescente coinvolgimento delle aziende, a partire dall’anno scolastico 2016/2017 ha avuto inizio una collaborazione anche con il
liceo classico e linguistico “A. Manzoni” di Lecco e con il liceo
scientifico “G. Grassi” che si innestavano sulla precedente esperienza nell’ambito dell’istruzione tecnica.
Seppur profondamente diversi gli indirizzi di studio, il filo conduttore delle tre iniziative è stata la progettazione dei percorsi.
Attraverso l’intermediazione di Confindustria Lecco e Sondrio e
della Fondazione A. Badoni, le scuole coinvolte e le aziende dei
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Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
due territori sono state messe in comunicazione al fine di verificare come potessero conciliarsi le esigenze formative scolastiche
e la necessità di competenze e di capitale umano specializzato
delle imprese.
Il risultato è stato un piano triennale di acquisizione di competenze tecnico-professionali e trasversali, coerenti con le competenze in uscita dal percorso scolastico, concordato tra scuola e
impresa. Mentre per ciascun indirizzo dell’istruzione tecnica sono
state individuate le competenze tecnico-professionali specifiche
del profilo e correlate con le attività da svolgere nell’area produzione, per i licei sono state individuate quattro aree aziendali in
cui ciascuno studente avrebbe potuto scegliere di svolgere il proprio tirocinio: commerciale e marketing, risorse umane, ricerca e
sviluppo, contabilità e controllo. Per ciascuna area aziendale, in
seguito ad incontri con alcune delle aziende partecipanti ai progetti, sono state individuate le competenze specifiche dell’area
sotto forma di performance e, infine, queste ultime sono state
declinate in prestazioni, ossia nelle attività che concretamente ci
si aspetta che lo studente sia in grado di svolgere al termine del
percorso di alternanza. Essendo la programmazione triennale,
come espressamente richiesto dalla legge, le prestazioni attese
sono state declinate sui tre anni prevendo un grado di responsabilità e di autonomia nello svolgimento crescenti di anno in anno.
Ciascuna performance è stata infine ricondotta ad una o più delle
competenze del profilo, così come delineate dalle c.d. linee-guida
del riordino del 20103.
Per quanto riguarda la durata dei periodi di tirocinio, si è scelto di
attenersi al numero minimo di ore previsto dalla legge: 200 ore
Di supporto nell’attività di progettazione è stato il Dossier - L’ Alternanza
Scuola-Lavoro. Approcci e strumenti in Lombardia pubblicato dall’Ufficio Scolastico Regionale della Lombardia.
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L’alternanza scuola-lavoro dopo La Buona Scuola
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distribuite sui tre anni in 40 ore al terzo e al quinto anno e 80 ore
al quarto anno. A tali attività si affiancano poi quelle preparatorie
al progetto: la frequenza del corso in materia di sicurezza della
durata di 4 ore, la partecipazione ad una serie di incontri tenuti da
alcuni dei rappresentanti delle aziende ospitanti che hanno illustrato le attività principali di ciascuna delle aree aziendali in cui gli
studenti sarebbero stati inseriti.
È dunque evidente la coerenza tra percorso scolastico e attività di
apprendimento informale, ossia di attività sul campo. La “buona”
alternanza scuola-lavoro è una modalità di formazione che integra la modalità tradizionale, erogando quelle stesse competenze
che la scuola ha il dovere di erogare ai propri studenti attraverso
l’apprendimento in aula.
2.2. Il progetto “alternanza potenziata e apprendistato di I livello” nella
IeFP
Per far fronte all’esigenza espressa dalle aziende del territorio di
Lecco di avere a disposizione personale con competenze tecnico
professionali coerenti ai propri fabbisogni, nel 2014 ha preso avvio la progettazione di un percorso che formasse giovani operatori metalmeccanici da inserire in azienda sin dal secondo anno di
un percorso di formazione professionale.
Il progetto, giunto nell’ottobre 2017 alla sua seconda edizione, ha
visto coinvolti al suo avvio 11 studenti del secondo anno
dell’indirizzo meccanico del Centro di Formazione Professionale
“Aldo Moro” di Valmadrera (sede operativa della Fondazione
“Mons. Giulio Parmigiani”) e 10 aziende del territorio di Lecco.
L’obiettivo del progetto è stato sin dall’inizio quello di far sì che
l’unica modalità per conseguire la qualifica di operatore meccanico e il diploma di tecnico dell’automazione industriale nella IeFP
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Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
locale fosse quella dell’alternanza scuola-lavoro. Per tale ragione,
gli studenti hanno frequentato il primo anno del percorso in modalità tradizionale, attraverso la sola formazione in aula e, al termine del primo anno formativo, i docenti hanno selezionato gli
studenti più idonei costituendo, a partire dal secondo anno formativo, un’intera classe che avrebbe conseguito i due titoli attraverso lo strumento del tirocinio curriculare prima e
dell’apprendistato di primo livello poi.
Tabella 2 – Articolazione del progetto “alternanza potenziata e apprendistato di primo livello”
Articolazione del progetto
ottobre 2015 –
maggio 2016
Gli studenti svolgono il primo anno di formazione
in modalità tradizionale, con le sole lezioni in aula e
senza tirocinio
ottobre 2016 –
maggio 2017
Alternanza potenziata: 85 giornate di tirocinio curriculare + 85 giornate presso il CFP
giugno 2017 –
luglio 2017
Tirocinio curriculare estivo
settembre 2017 – Assunzione in apprendistato di primo livello
luglio 2019
2018: qualifica professionale (49 giornate di
formazione esterna + formazione interna);
2019: diploma professionale (48 giornate di
formazione esterna + formazione interna.
luglio 2019 –
luglio 2020
Assunzione in apprendistato professionalizzante
Qualificazione contrattuale (80 ore di formazione in azienda + 40 ore presso enti formativi esterni)
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L’alternanza scuola-lavoro dopo La Buona Scuola
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Come illustra la tabella sopra riportata, il secondo anno del percorso di formazione professionale si svolge secondo la modalità
dell’alternanza potenziata che prevede 85 giornate di tirocinio in
azienda e 85 giornate di lezione frontale in aula. Al termine
dell’anno formativo, prenderà avvio un tirocinio curriculare estivo della durata di sei settimane. Con l’avvio del nuovo anno formativo, gli studenti saranno assunti con un contratto di apprendistato di primo livello della durata di 22 mesi, finalizzato a conseguire la qualifica professionale di operatore meccanico al termine del terzo anno formativo e il diploma di tecnico
dell’automazione industriale al termine del quarto anno formativo. Una volta terminato il percorso di formazione, il contratto di
apprendistato di primo livello verrà trasformato in contratto di
apprendistato professionalizzante della durata di un anno.
L’articolazione del percorso, tuttavia, non è stato l’unico risultato
dell’attività di progettazione. Attraverso una stretta collaborazione con il Centro di Formazione Professionale, si è giunti ad una
progettazione delle competenze da acquisire nel corso dei tre anni, sia attraverso la formazione in azienda on the job, sia attraverso
la formazione formale in aula. Nell’individuazione delle competenze, il riferimento principale a cui si è guardato è stato il profilo
professionale in uscita dal percorso formativo: l’operatore meccanico addetto alle macchine utensili e il tecnico
dell’automazione industriale.
Trattandosi di un percorso di formazione di competenza regionale, i due profili professionali in uscita sono già declinati per competenze, conoscenze e abilità direttamente dalla Regione che ha
normato gli obiettivi specifici di apprendimento delle competenze tecnico professionali per ciascun profilo in uscita dal sistema
di istruzione e formazione professionale.
La difficoltà dell’attività di progettazione per questa specifica iniziativa, dunque, non è consistita tanto nel declinare le competen-
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Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
ze da raggiungere al termine del percorso, ma nello stabilire in
quale contesto di apprendimento debbano essere acquisite. A tal
fine si è reso necessario un costante dialogo tra il tutor scolastico
e le imprese aderenti all’iniziativa, un’attenzione particolare per le
attività svolte in azienda e per le mansioni che avrebbe svolto il
futuro apprendista. In questo senso, il primo anno in alternanza
potenziata ha svolto una funzione di orientamento sia per lo studente, al fine di comprendere se quel tipo di lavoro potesse essere la sua scelta professionale futura, sia per la scuola per comprendere come strutturare il percorso di formazione in apprendistato di primo livello.
Se il percorso in alternanza potenziata puntava maggiormente
all’acquisizione di competenze trasversali e all’orientamento
all’interno di una specifica azienda e nell’ambito di una specifica
professione, la redazione dei piani formativi degli apprendisti ha
rappresentato il completamento, ma anche il cuore del percorso.
Tenendo sempre in considerazione le competenze tecnico – professionali da acquisire per legge, l’attività di progettazione ha
puntato sulla personalizzazione del percorso formativo, sia su
misura dello studente che su misura dell’azienda. Attraverso un
costante dialogo, è stato possibile individuare per ogni azienda e,
dunque, per ogni studente le competenze che avrebbero potuto
essere erogate on the job (sulla base dei macchinari a disposizione,
delle competenze del personale specializzato, della specifica mansione che avrebbe svolto l’apprendista, della possibilità di brevi
periodi di job rotation) e quelle che avrebbe erogato la scuola in via
suppletiva. Inoltre, alle aziende è stata data la possibilità di declinare le competenze in abilità e conoscenze aggiuntive rispetto a
quelle già definite dalla normativa regionale, in modo da renderle
più vicine a ciascuna realtà.
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L’alternanza scuola-lavoro dopo La Buona Scuola
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3. Conclusioni
Se dal lato dello studente l’alternanza scuola-lavoro si presenta
come un’importante occasione di crescita individuale, per le
aziende ospitanti questa svolge una funzione di non minore importanza. In una realtà come quella attuale in cui per le aziende è
difficile essere competitive riducendo il costo del lavoro, il fattore
su cui bisogna puntare è la formazione del capitale umano. Si
tratta di un nuovo modo di fare impresa, per cui non basta più
limitarsi a formare il proprio personale in un’ottica di ingresso o
di permanenza in azienda, ma si rende necessario diffondere sul
territorio la tradizione del tessuto produttivo e la cultura del lavoro a questo connaturata. Soltanto instaurando un dialogo tra sistema produttivo, sistema di istruzione, con i diversi attori del
territorio (associazioni di rappresentanza, enti pubblici e privati),
sarà possibile creare un circolo virtuoso, un sistema generatore di
competenze che vada a colmare il gap esistente sul mercato del
lavoro.
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Finalizzare, non strumentalizzare,
l’alternanza scuola-lavoro
di Simone Caroli
Lo scorso venerdì 13 ottobre, nelle maggiori città italiane, è sceso
in piazza il primo sciopero contro La Buona Scuola e, in particolare, contro l’alternanza scuola-lavoro, promosso da associazioni
studentesche sia delle scuole superiori che del sistema universitario, avallato e sostenuto anche dalle associazioni sindacali dei lavoratori della scuola.
«13 ottobre. Sciopera dall’alternanza scuola-lavoro. ROVESCIALA! Aderisci all’appello e incrocia le braccia per avere giustizia!»,
questo lo slogan della giornata di protetsa, direttamente dal sito
della FLC CGIL1.
Astensionismo, imperativi, braccia incrociate, rivendicazioni. Sarebbe ipocrita non avvertire una punta di strumentalizzazione, in
questa esposizione di vocabolario sindacale.
Anche per questo, oggi più che mai, è necessario tornare alle radici dell’alternanza scuola-lavoro, alla l. n. 53/20032 che la quali-
Vedi http://www.flcgil.it/attualita/formazione-lavoro/alternanza-scuolalavoro-la-flc-cgil-sostiene-la-protesta-degli-studenti-del-13-ottobre-2017.flc.
2 Art. 4, l. 28 marzo 2003, n. 53, da cui si cita la definizione di «alternanza
scuola-lavoro, come modalità di realizzazione del percorso formativo progettata, attuata e valutata dall’istituzione scolastica e formativa in collaborazione con le imprese».
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L’alternanza scuola-lavoro dopo La Buona Scuola
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fica come «modalità di realizzazione del percorso formativo».
Modalità, non strumento. Sono distinzioni importanti, tutt’altro
che sofismi terminologici, perché, tanto più si percepisce
l’alternanza come formativa in sé, tanto meno sarà facile strumentalizzarla per condurre battaglie politiche di parte.
Evitare la strumentalizzazione, però, non vuol dire che i percorsi
in alternanza debbano fini a se stessi. Anzi, la questione della finalizzazione di queste esperienze sta diventando sempre più centrale, di pari passo con la diffusione di progetti e di testimonianze, positive e negative, della loro realizzazione. Quale finalità per
i progetti di alternanza? A favore di chi? Sono gli studenti, certamente, i primi beneficiari dell’alternanza formativa. Ma tutti o solo alcuni? E inoltre, a quale scopo?
Le risposte stanno arrivando sia dai teorici che dagli operatori, da
chi studia così come da chi progetta e mette materialmente in atto l’alternanza scuola-lavoro. La teoria indica due concezioni: per
i critici l’alternanza è un percorso di addestramento3, di preparazione all’esecuzione di un lavoro e nulla più; per i sostenitori, invece, è formazione a tutto tondo, che completa il cerchio tra lo
studio e la pratica4. Per gli operatori, la teoria si riflette negli scopi della progettazione: da un lato l’alternanza è funzionale al recupero degli studenti meno capaci, dall’altro lato può essere un
premio per i migliori, per i più “presentabili” al mondo del lavoro.
G. Ferroni, La scuola impossibile, Salerno Editrice, Roma, 2015, p. 55 e 107.
Su tutti, G. Bertagna, Pensiero manuale. La scommessa di un sistema educativo di
istruzione e formazione di pari dignità, Rubettino, Soviera Mannelli, 2006.
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Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
Gli slogan dello sciopero di venerdì 13 sono una buona sintesi
delle critiche mosse in Italia contro il metodo dell’alternanza.
«Gli studenti non sono operai», «lavare i piatti non è formazione», o «no allo sfruttamento» sono banalizzazioni di una realtà
più articolata, ma riflettono le preoccupazioni che animano il dibattito ad ogni livello e in ogni paese. Non sorprende che proprio la Germania, il paese che attua il più consolidato modello di
formazione in alternanza, abbia prodotto le critiche più puntuali.
I difetti del sistema duale sono stati identificati e analizzati: rischio di intrappolare gli utenti della formazione professionale,
strumento di canalizzazione precoce, meccanismo di segregazione sociale5. Il sistema duale è accusato di riproporre le fratture
che indeboliscono la società tedesca.
Le critiche sono preziose: mostrano agli operatori cosa bisogna
evitare progettando percorsi in alternanza. Anzitutto, bisogna
evitare di settorializzare la destinazione delle esperienze. Alternanza è virtuosa se è alla portata di tutti, per il liceo e per
l’istituto professionale, per la facoltà di filosofia e per quella di
ingegneria, per l’istruzione pubblica e per quella privata. Per eviare di strumentalizzare l’alternanza, occorre evitare di progettarla
solo per un certo ordine di istruzione. Ogni ordine e grado di
istruzione, secondo le peculiarità che gli sono proprie, è funzionale alla formazione della persona a tutto tondo e l’alternanza è
trasversale rispetto a questo obiettivo. Se così non fosse, se si
sposasse l’idea dei critici, il sistema dell’alternanza sarebbe adatto
solo alla formazione dei “pratici”, risultando inaccessibile a chi
svolge percorsi “teorici”. Danneggiati sarebbero prima i “teori-
Su tutti, H. Solga et al., The German vocational education and training system: its
institutional configuration, strenghts, and challenges, WZB Discussion Paper, I502, 2014.
5
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L’alternanza scuola-lavoro dopo La Buona Scuola
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ci”, costretti a dover dimostrare di non vivere nella proverbiale
torre d’avorio e di sapersi mettere all’opera, poi i “pratici”,
anch’essi costretti a dimostrazioni, ma di segno opposto. Una
concezione che settorializza l’alternanza, insomma, non fa bene a
nessuno. Sarebbe percepita come ripiego, perdendo appeal agli
occhi non solo dei partecipanti, ma anche di insegnanti, imprese,
territori, e sostenitori.
Quanto di questo rischio sta interessando l’alternanza italiana?
L’alternanza non è mai stata boicottata quando era volontaria, lo
sciopero, infatti, si è svolto due anni dopo che questa è stata resa
obbligatoria, per ogni studente di ogni ordine e grado, dalla legge
battezzata La Buona Scuola. Eppure proprio l’obbligo, scelta brusca e forse azzardata da parte del legislatore, è stato un bene. La
forzatura di legge ha avuto innegabili risvolti positivi. Le scuole
hanno fatto di necessità virtù, si sono attrezzate. Sono nati specialisti dell’alternanza scuola-lavoro, sono emersi metodi e paradigmi, condizioni necessarie per la tenuta e l’ulteriore diffusione
delle nascenti buone prassi6. Le imprese familiarizzano con il territorio e, specularmente, provano a rispondere alla richiesta di
ospitalità con il metodo che è proprio del fare impresa: cercare di
creare valore.
Questi passi sono stati compiuti da molti, a prescindere
dall’estrazione. Proprio l’aspetto della trasversalità va sottolineato: studenti professionali e liceali, universitari e di ITS iniziano a
condividere lo stesso percorso in alternanza, affrontato da prospettive diverse. Studenti di ragioneria e di liceo classico possono
A. Tonarelli, La promozione di un approccio partecipativo all’alternanza scuola lavoro: introduzione al progetto SM.I.LE, in A. Tonarelli (a cura di), Un approccio
partecipativo all’alternanza scuola lavoro. Linee guida e strumenti per la scuola, Pacini
Editore, Pisa, 2014, pp. 13-24.
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Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
condividere la stessa esperienza di tirocinio, o perché no di apprendistato, nel medesimo studio professionale, ciascuno ben potendo decidere se proseguire negli studi universitari o se entrare
subito nel mercato del lavoro – l’augurio è, naturalmente, che le
due strade possano essere condotte contemporaneamete.
Questa è forse la finalità più alta a cui l’alternanza scuola-lavoro
può ambire: fare dell’alternanza una modalità di formazione ed
un’esperienza comune a prescindere dall’indirizzo intrapreso, superando anche la più critica problematicità che già interessa i sistemi formativi in genere: la gerarchia rigida e verticale
dell’istruzione7.
Ma non solo. La sfida teorica e pratica che attende l’alternanza è
la progettazione di percorsi coerenti con gli studi intrapresi anche
a fronte di esperienze di lavoro in cui non è immediatamente palese un nesso tra pratica e teoria. Se è vero che ogni canale
d’istruzione può formare la persona, ogni esperienza di lavoro
può, con la giusta contestualizzazione, essere tesoro per una crescita a tutto tondo. Con giudizio, ma senza pregiudizi.
L’alternanza scuola-lavoro, ormai anche in Italia, è un sistema
abbastanza maturo da poter rendere pienamente formativa
l’esperienza di uno o due giorni al bancone di un fast-food, con
una congrua preparazione. Che spaccato della società può vedere
uno studente liceale da questo osservatorio? E quali tempi di lavoro affronta uno della scuola alberghiera? L’aspirante economista aziendale cosa può imparare? Vale lo stesso discorso per tutti
gli studenti che si confrontano anche con l’operatività più basica
del lavoro, se il percorso in azienda non si limita a questo.
G. Ballarino, Istruzione, formazione professionale, transizione scuola-lavoro. Il caso
italiano in prospettiva comparata, IRPET, Firenze, 2013, p. 17.
7
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L’alternanza scuola-lavoro dopo La Buona Scuola
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Se invece l’alternanza si limita a banalizzare le esperienze lavorative lasciando gli stuenti da soli di fronte a compiti non contestualizzati, se qualche azienda pensa di avvantaggiarsi di lavoro
gratuito, o se alcune frange della protesta continueranno a comunicare solo i casi più negativi, e ad incitare gli studenti ad un inutile presa di posizione, l’alternanza continuerà ad essere strumentalizzata per scopi che non sono la formazione circolare della
persona.
Questa è la sfida della finalizzazione: rottamare le concezioni più
chiuse dell’alternanza scuola-lavoro sforzarsi di allargare gli orizzonti alle aperture più creative. In questi due anni di alternanza
obbligatoria, fortunatamente, non ci sono stati solo apprensione
e lassismo, e i numerosi progetti diffusi in tutta Italia sono la migliore testimonianza. Si tratta ora di non perdere la bussola e
mantenere la rotta migliore, quella che si snoda fra la trasversalità
e la contestualizzazione dei percorsi.
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Fare insieme, per una alternanza di qualità
di Marco Bentivogli
Il paradosso italiano è che, mediamente, rispetto al resto
d’Europa le nuove generazioni abbandonano troppo presto gli
studi, iniziano al contempo più tardi degli altri ragazzi europei a
lavorare e l’inizio del lavoro, troppo spesso, corrisponde con la
fine del loro rapporto con la formazione.
L’alternanza scuola-lavoro è un modello di apprendimento favorito dall’integrazione tra il sapere e il saper fare, quell’ “educare
facendo” possibile proprio dove esiste una relazione positiva tra
la scuola ed il lavoro. Mondi che ovunque dialogano e in Italia si
comportano troppo spesso come se fossero monadi. L’alternanza
scuola-lavoro si fonda sull’intreccio tra le scelte educative e formative della scuola, i fabbisogni professionali delle imprese di un
territorio o settore produttivo e le personali esigenze formative
degli studenti.
In molti paesi le novità legislative vengono testate e poi sulla base
di una valutazione (il più oggettiva possibile), qualora fosse necessario, vengono introdotti i necessari correttivi. In Italia il primo provvedimento in merito è di quasi 15 anni fa nel generale
disinteresse e solo l’esplosione della polemica, dettata da un lato
dalla legittima opposizione ai vari Governi dall’altra però da
un’iper-ideologizzazione che porta a degradare a scontro tra tifoserie tutto ciò che riguarda il lavoro, ha portato questo tema al
centro dell’attenzione.
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L’alternanza scuola-lavoro dopo La Buona Scuola
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Per fortuna, la gran parte degli studenti non si è schierata “contro” lo strumento in sé ma rivendica un’alternanza scuola-lavoro,
di qualità.
Sull’alternanza il nostro paese arriva in clamoroso ritardo, altrove
da decenni si è capito che è finito il tempo della formazione lineare, del lavoro uguale per tutta la vita, dell’apprendimento che
avviene esclusivamente sui banchi di scuola. Il futuro è di chi integra esperienze, conoscenze e competenze. Non solo sui libri,
ma in alternanza formazione lavoro. Non si tratta di sostituire i
percorsi didattici ma di arricchirli, come ci ricorda Emmanuele
Massagli, sfruttando il giacimento culturale ed educativo del lavoro.
Dalle esperienze positive (e da quelle negative) emergono delle
regole fondamentali da seguire affinché l’alternanza sia utile ed
efficace per i ragazzi. Le imprese devono essere in primo luogo
“preparate” per tempo ad “accogliere” gli studenti, servono progetti specifici per chi svolge il ruolo di tutor aziendale, lo stesso
vale per la “professionalizzazione” dei responsabili organizzativi
e dei tutor scolastici. L’alternanza scuola-lavoro è un percorso
didattico che deve coinvolgere a matrice, i servizi per l’impiego,
le organizzazioni sindacali, le scuole, le imprese e le famiglie dei
ragazzi.
È quanto avviene alla Ducati con il progetto DESI, o alla Iseo
Serrature dove l’alternanza scuola-lavoro è frutto di un accordo
sindacale e costruita con un coinvolgimento della RSU. Alla Iseo
Serrature, il piano di studi di 20 ragazzi è stato modificato ed al
termine del percorso scolastico ne sono stati assunti 7. Accordo
sindacale, coinvolgimento delle RSU, delle famiglie dei ragazzi,
delle scuole, sono elementi utili a comprendere il progetto e tolgono spazi a fraintendimenti e improvvisazioni.
I problemi non mancano, da un lato infatti l’obbligatorietà ha
colto molti istituti scolastici e imprese assolutamente impreparati,
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Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
dall’altro non si può negare, anzi è un dovere riconoscerlo, la
presenza di una quota non trascurabile di abusi. Ma se davvero le
imprese stanno, come qualcuno denuncia, utilizzando la forza lavoro disponibile grazie all’alternanza dopo il vuoto lasciato
dall’abolizione dei voucher, sappiamo bene che l’alternanza scuola-lavoro ha un monte ore talmente ridotto (400 ore per gli istituti tecnici e 200 ore per i licei in un triennio) che un eventuale utilizzo in sostituzione dei lavoratori se avvenisse sarebbe macroscopicamente evidenziabile e sanzionabile.
Il nostro è un paese che invece di contrastare gli abusi, consente
che gli abusi diventino il modello per arrivare a cancellare le
buone pratiche e la loro potenzialità contaminatrice.
Esiste il registro nazionale per l’alternanza scuola-lavoro, che deve contenere le disponibilità delle imprese ma che deve anche essere utile ad escludere le imprese in cui si sono svolti abusi o
quelle che non sono in grado di sviluppare un progetto consono
alle normative e alle finalità didattiche.
L’integrazione tra scuola, imprese e mondi vitali del territorio
non rende “meno libero” il sapere, consente di contare realmente
sulla somma delle proprie forze. Proprio per questo dove viene
realizzata da anni, pensiamo al nord Europa, la transizione scuola-lavoro è meno casuale e la disoccupazione giovanile è più bassa.
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Sì all’alternanza,
ma solo se di qualità
di Sabrina De Santis e Matteo Monetti
L’alternanza costa all’azienda. L’alternanza occupa il tempo del
tutor. L’alternanza espone il l’impresa a dei rischi.
Perché, allora, le aziende sono impegnate nel promuovere questa
metodologia didattica e nel definire un modello che funzioni?
L’alternanza scuola-lavoro, se di qualità, è un investimento per le
imprese così come per gli studenti e le scuole. È lo strumento
ideale per adeguare le competenze degli studenti con quelle richieste da un sistema produttivo in rapida evoluzione, che si trova ad affrontare le sfide dell’Industria 4.0. L’alternanza, inoltre,
non è altro che l’inizio di un percorso che prosegue con la formazione continua, in una logica circolare tra momenti di apprendimento e lavoro che è propria del life long learning.
Per questo motivo Federmeccanica sostiene con convinzione, da
tempi antecedenti l’obbligatorietà, l’alternanza scuola-lavoro, attraverso un impegno che parte dal 2012, prima con il progetto “Il
CTS in laboratorio”, poi con “IMO – Industria Metalmeccanica
per l’Occupabilità” e infine con “Traineeship”.
Non si tratta, tuttavia, di un sostegno acritico e a prescindere dal
modello di alternanza.
Federmeccanica promuove un’idea di alternanza di qualità che,
per essere tale, deve essere caratterizzata da:
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Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
1. Progettazione congiunta del percorso formativo triennale,
sulle competenze da acquisire e sui criteri di valutazione
delle prestazioni eseguite dagli studenti in azienda;
2. Realizzazione dell’alternanza in prevalenza in un contesto
lavorativo;
3. Co-valutazione e attestazione delle competenze conseguite
nel corso dell’esperienza;
4. Formazione congiunta di tutor aziendali e scolastici.
Queste sono le basi sulle quali è stato sviluppato Traineeship, il
progetto nazionale di alternanza scuola-lavoro promosso da Federmeccanica, Miur, Indire che ha coinvolto 50 Istituti scolastici
su tutto il territorio nazionale, 5.000 studenti e più di 900 aziende. Tra gli Istituti, selezionati tramite bando Miur, figurano anche
l’IIS Badoni di Lecco, l’ITIS Pinifarina di Torino e l’ITIS Meucci
di Firenze, scuole che già avevano partecipato, con successo, al
progetto IMO.
Il modello Traineeship si fonda sulla centralità della coprogettazione, sviluppata a valle di un percorso di formazione
congiunta dei tutor aziendali e scolastici gestito da quattro formatori.
Le misure di accompagnamento, in questo senso, rappresentano
un elemento imprescindibile in queste prime fasi di obbligatorietà
dell’alternanza, per allineare i linguaggi tra le parti, per trasmettere un metodo, per elaborare, condividere e valutare gli strumenti.
La coprogettazione in Traineeship prevede l’individuazione congiunta delle competenze obiettivo che dovranno essere sviluppate dagli studenti nel triennio, tenendo conto delle performance
(ciò che deve essere in grado di fare lo studente), delle condizioni
(il contesto in cui deve essere realizzata la performance: aula, laboratorio, reparto aziendale, etc.), dei criteri di verifica (i parame-
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L’alternanza scuola-lavoro dopo La Buona Scuola
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tri di misurazione della prestazione e la soglia per cui essa è considerata accettabile).
In questo processo le academy aziendali, laddove presenti, hanno
dato un impulso significativo per la qualità delle progettazioni,
come testimoniato, a titolo esemplificativo, dalla collaborazione
tra ISIS Bassa Friulana di Udine e Danieli o tra IIS Berenini di
Fidenza e Dallara.
Una volta individuate le competenze obiettivo, la scuola le «aggancia» alle competenze del Profilo Educativo Culturale e Professionale dello studente (PECUP).
Si procede così ad una integrazione curricolare dell’alternanza
scuola-lavoro, che prevede anche una riorganizzazione della programmazione di istituto, anticipando o posticipando alcuni argomenti o esercitazioni. Il processo viene sviluppato attraverso
un approccio interdisciplinare, consentendo così di inserire
l’alternanza all’interno dell’intera programmazione disciplinare,
come applicato puntualmente nell’esperienza dell’ITIS Rossi di
Vicenza.
La condivisione degli obiettivi tra tutor aziendale, scolastico e
Consiglio di classe ha permesso di superare numerose rigidità organizzative, attraverso una puntuale calendarizzazione delle attività, ma anche prevedendo forme di rotazione degli studenti in
azienda su base annua, modularizzando gli insegnamenti oltre i
quadrimestri, strutturando forme di individualizzazione e personalizzazione “per livelli di padronanza”.
Tra le innovazioni introdotte da Traineeship c’è il sistema della
rotazione degli studenti in azienda, che si è sviluppato in modalità diverse a seconda delle esigenze delle scuole e delle disponibilità aziendali. Il sistema di rotazione maggiormente utilizzato è stato quello inter-classi, attraverso l’accoglienza di un intero gruppo
classe contemporaneamente presso alcune aziende, che successi-
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Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
vamente hanno ospitato altre classi nell’arco dell’anno scolastico.
Altri, come, ad esempio, l’ITIS Fermi di Roma, hanno utilizzato
un sistema di rotazione intra-classi, prevedendo l’alternarsi in
azienda di piccoli gruppi di studenti appartenenti alla medesima
classe. Quest’ultima ipotesi è sicuramente più sfidante e maggiormente invasiva rispetto all’organizzazione della didattica, ma
esperienze virtuose ci dimostrano che non è impraticabile, anzi,
attraverso il digitale e la peer education, quali lezioni video registrate
e tutoraggio dei compagni, il gruppo che ha fatto alternanza riesce a recuperare l’avanzamento del programma svolto in classe.
La rotazione è fondamentale e consente, organizzando al meglio
la didattica, anche nelle realtà meno strutturate, di ottimizzare al
massimo la capacità di accoglienza di un’azienda, riducendo così
il numero totale delle aziende necessarie.
In Traineeship la condivisione scuola-impresa si è sviluppata anche in merito alla valutazione, sia a livello di progettazione dei
criteri, che di giudizio sull’esperienza svolta dallo studente.
La valutazione dei risultati di apprendimento è generalmente avvenuta con il supporto di rubriche di valutazione, ossia griglie o
schede riferite, a seconda delle diverse esperienze, alle singole
prestazioni svolte dello studente in alternanza oppure alle competenze collegate ad un certo numero di prestazioni. La valutazione è un tema centrale per un’alternanza di qualità, in quanto
restituisce allo studente un riscontro su quanto appreso e, allo
stesso tempo, rappresenta uno strumento per effettuare
un’attestazione delle competenze acquisite in alternanza.
L’attestazione delle competenze, in una logica di tipo reputazionale di riconoscimento da parte della filiera di riferimento, si configura come strumento fondamentale in ottica di transizioni occupazionali, attraverso il quale il giovane aumenta la propria occupabilità nel mercato del lavoro.
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L’alternanza scuola-lavoro dopo La Buona Scuola
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Traineeship ha consentito di testare, in territori profondamente
diversi tra loro, modalità operative di progettazione, gestione e
valutazione dell’alternanza e ha fatto emergere alcune delle criticità che vanno affrontate per rendere sostenibile e strutturale
questa metodologia in Italia.
Si tratta di un modello che, come anche dimostrato dal monitoraggio effettuato da INDIRE, ha funzionato e necessita di essere
replicato in altri contesti, anche attraverso un’evoluzione del progetto stesso.
In particolare si ravvisa la necessità di approfondire alcune chiare
direttrici di azione: ricerca, per mettere a punto o aggiornare
strumenti di accompagnamento di scuole e aziende; formazione,
per trasmettere competenze ai tutor; comunicazione, per dare
voce agli studenti, superando pregiudizi e luoghi comuni1.
Aggiornamento dei repertori di competenza anche in ottica di
Industria 4.0 quindi, ma anche orientamento rispetto i profili
professionali maggiormente richiesti dalle imprese, standardizzazione e diffusione di progettazioni-tipo per indirizzo e istituzione
di una rete di scuole ed aziende, opportunamente formate, che si
facciano carico di esportare il modello attraverso una comunicazione tra pari.
L’alternanza scuola-lavoro può rappresentare un grande valore
per tutto il sistema, ma, affinché ciò accada, deve rispondere a
standard qualitativi elevati, garantiti da un processo nel quale la
scuola e l’impresa sono partner; entrambe responsabili
dell’educazione dello studente ed impegnate nello sviluppo della
In tal senso si veda l’iniziativa “Beata Alternanza”, promossa da Federmeccanica in collaborazione con 18 associazioni industriali territoriali.
https://www.youtube.com/watch?v=t8nWnyMaD2E.
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Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
didattica. Una didattica innovativa, basata sulla interdisciplinarietà, il rispetto e la presa in carico dei molteplici stili di apprendimento degli studenti ai quali devono corrispondere diversificate
modalità di trasmissione del sapere e acquisizione delle competenze.
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Capitolo III.
L’evoluzione recente
dell’alternanza scuola-lavoro.
I commenti di ADAPT
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L’alternanza scuola-lavoro può decollare
solo se si ridà all’impresa il valore che merita
di Michele Tiraboschi
Portare l’Italia nel futuro lasciandoci definitivamente alle
spalle quel Novecento ideologico e industriale su cui è stato
edificato il nostro diritto del lavoro. È questo l’ambizioso
obiettivo del Jobs Act ed è normale che l’attenzione sia ancora
una volta tutta concentrata sulla norma simbolo del vecchio Statuto dei diritti dei lavoratori: quell’art. 18 il cui superamento è divenuto oramai il metro con cui misurare la bontà del progetto
modernizzatore di Matteo Renzi.
Eppure la delega sul lavoro non è solo questo. Si parla di un
nuovo welfare universale: di moderni ammortizzatori sociali e
di servizi di ricollocazione al lavoro che dovrebbero sancire il
passaggio dalla tutela del singolo posto di lavoro alla tutela della
occupazione nel suo complesso fluidificando così le dinamiche
dell’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro. Si parla anche
di un codice semplificato del lavoro che riduca a unità e in
poche norme di legge la complessità dei moderni modi di lavorare e produrre. Centrale, in questa prospettiva, è non solo la razionalizzazione delle tipologie contrattuali e l’avvio del nuovo
contratto a tutele crescenti ma anche, e prima ancora, la riscrittura della stessa nozione di impresa. Perché la modernizzazione del
mercato del lavoro e il superamento del Novecento ideologico
passa anche da un ambiente culturalmente favorevole alla libertà
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L’evoluzione recente dell’alternanza scuola-lavoro. I commenti di ADAPT
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di iniziativa economica: dalla condivisione del valore della impresa che, ancora oggi, appare invece circondata da sospetti e resistenze che ne fanno il luogo inesorabile dello sfruttamento
dell’uomo sui propri simili. Non staremmo infatti ancora oggi a
discutere di art. 18 e di mercificazione del lavoro se l’impresa non
avesse più nemici che amici e se fosse davvero vista come un valore in sé senza il necessario corredo di comportamenti etici e socialmente responsabili per essere accettata o al più tollerata come
male necessario.
Della riforma del lavoro la prima norma da scrivere è dunque quella di cosa è oggi una impresa ben oltre l’attuale definizione del nostro codice civile quale freddo luogo dello
scambio di lavoro contro salario. Perché l’impresa è prima di tutto sede della creazione e condivisione di valore e ricchezza.
Un’impresa come formazione sociale e non solo economica: luogo di relazioni umane dove si costruiscono appartenenze e valori
e dove si forma e sviluppa la persona nelle sue espressioni certamente professionali ed economiche, ma anche culturali e morali.
Solo cambiando l’idea di impresa potremmo lasciarci alle spalle la
paralizzante conflittualità e i veti del nostro sistema di relazioni
industriali e, con essi, quella contrapposizione tra capitale e lavoro che non è più attuale.
Una definizione positiva di impresa cambia necessariamente anche l’idea del lavoro che oggi non è più solo subordinazione tecnica e gerarchica tipica di chi, sotto la minaccia di sanzioni e controlli, esegue ordini e direttive senza invece partecipare in senso pieno al processo produttivo e alla catena del valore.
Senza questo passaggio culturale e valoriale, vera cartina di tornasole di un cambio di epoca, non avremo mai l’altro pilastro su cui
si regge un sistema produttivo moderno e cioè quell’integrazione
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Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
tra sistema educativo e formativo e mercato lavoro essenziale per
la costruzione delle competenze e dei mestieri del futuro.
I fallimenti nel nostro Paese dell’alternanza scuola-lavoro e
dell’apprendistato scolastico e la radicata diffidenza verso i percorsi formativi tecnici e professionali si spiegano infatti anche a
causa del disvalore che la nostra società ha per lungo tempo lungo assegnato alla impresa, con il conseguente pregiudizio che chi
studia e si forma non può lavorare e viceversa. Cosa che non è
mai stata vera e che, comunque, oggi non è più possibile affermare in un mercato del lavoro moderno ed evoluto che richiede
continue innovazioni e, conseguentemente, persone con competenze professionali e relazionali idonee a gestire la rivoluzione
tecnologica e il cambiamento in atto. Persone che attraverso una
più stretta collaborazione tra scuola e impresa hanno imparato a
fare e non solo a imparare come ama dire il ministro Poletti.
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Significato e modalità pedagogiche
dei tirocini curricolari ed extra-curricolari
di Giuseppe Bertagna
Esercito. Da exerceo: al soldato romano era richiesto, infatti, un
lungo e duro allenamento prima di diventare probato, degno di essere affiancato ai veterani. I tirones, all’inizio, nell’antica Roma,
erano i novizi dell’aristocrazia e del cavalierato che si avvicinavano all’arte militare. Accadeva a 17 anni. A 18 i più bravi e svelti
diventavano milites, segnati col marchio militare sulla pelle e con il
diritto allo stipendium. Con l’Impero, l’età delle reclute divenne più
flessibile: dai 14 ai 32 anni, con la maggioranza che entrava tra i
17 e i 20 anni. Con lo straordinario incremento delle responsabilità imperiali romane, tuttavia, anche il tempo della condizione di
tirones divenne flessibile: da 2 fino a 8 anni, a seconda delle circostanze belliche, dei luoghi e delle funzioni. Dall’esercito alla società civile: tirones divennero poi, in genere, tutti i giovani romani
prima di poter vestire la toga virile ed entrare nel mondo degli
adulti, da professionisti e da cittadini.
C’è un significato inaugurante, di introduzione a nuovi compiti,
lavori e responsabilità professionali e civili, dunque, nel termine
“tirocinante”. “Tirocinio”, del resto, deriva dal verbo greco terein,
da cui il latino terere, verbi che portavano con sé un doppio significato complementare: da un lato, il consumare sfregando (come
accade con le pietre coti), un ripetere a lungo la stessa cosa,
l’esercitarsi più volte in un’abilità; dall’altro, anche il sorvegliare, il
prendersi cura, il riservare attenzione emotiva e razionale a chi
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Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
sta esercitandosi e “si consuma sfregandosi” nell’apprendimento
da parte di chi è esperto.
Il termine, quindi, fa riferimento ad una doppia realtà complementare: quella di chi deve imparare a fare qualcosa non semplicemente guardando, ma anche “facendo e rifacendo” in prima
persona; quella di chi, al contrario, esempio e modello esperto
d’azione, è chiamato a sorvegliare se il novizio, in questo suo reiterare gli stessi suoi gesti esperti, impara a fare bene, come si deve, a regola d’arte il compito in cui è stato coinvolto.
Appartiene alla natura del tirocinio, di conseguenza, da un lato
mobilitare in chi lo vive i meccanismi naturali, neurofisiologici,
dell’imitazione. È la lezione dei neuroni-specchio che, come è
noto, si attivano non solo quando qualunque soggetto compie
una determinata azione, ma anche quando vede compiere
quell’azione da qualcun altro oppure, cogliendone l’intenzione,
simula lo svolgimento dell’azione stessa a livello mentale.
Dall’altro lato, su questa base fisiologica tipica di ogni essere
umano, nessuno escluso, mettere in campo, sia per i tirones sia per
i loro magistri, le dimensioni più squisitamente educative
dell’intenzionalità, del logos, della libertà e della responsabilità personali. Dimensioni senza le quali l’apprendimento umano è meramente ripetitivo del passato e non introduce nel mondo e nelle
relazioni sociali e professionali invenzione, riflessività critica originale, perfezionamento, nuove pratiche e nuova cultura simbolica, rendendo tutti nani interdipendenti sulle spalle di giganti.
Ecco perché qualsiasi tirocinio non è mai, in re, semplicemente
un anodino rapporto di lavoro. Tanto meno un rapporto di lavoro come lo si è configurato nel Novecento sulla base del modello
industriale e sindacale taylor-fordista purtroppo ancora maggioritario. Un lavoro, perciò, segmentato nelle mansioni, ripetitivo,
esecutivo, così semplificato nella sua atomizzazione programmata da un’elitaria squadra di «tecnici creativi» e di «burocrati del di-
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sciplinamento» da aver bisogno di lavoratori – parole di Taylor –
anche «non molto aperti di mente», «così sciocchi e pazienti da
ricordare come forma mentis […] la specie bovina»1.
Il tirocinio risulta, al contrario, quando ben impiegato, soprattutto una straordinaria metodologia formativa «for work, at work,
through work and from work»2. E, naturalmente, per, al, con e a
partire da un lavoro così come deve essere sempre più configurato
in un’epoca come la nostra, caratterizzata dalle complessità delle
relazioni civili e professionali, dalla competizione globalizzata,
dalla disseminazione delle NTC (Nuove Tecnologie della Comunicazione), dal multilinguismo e multiculturalismo ormai diffusi
in ogni posto del mondo. Un lavoro, perciò, che richiede da parte di tutti, non solo di qualcuno (come appunto, ancora, si poteva
fare nel secolo scorso), molto più protagonismo, responsabilità,
competenze professionali, capacità di adattamento e di cambiamento, innovazione, relazionalità, qualità psicologiche ed etiche
(a partire dalla tenacia e dal senso del sacrificio). Proprio per
mantenersi e moltiplicarsi senza dissolversi come neve al sole. E
che ha bisogno come l’aria che si respira di autentica e continua
alternanza tra teoria e pratica per essere qualificato e reso migliore.
In questo senso, qualsiasi tirocinio formativo è sempre finalizzato a tre precisi e importanti obiettivi:
• far capire a chi lo svolge se davvero ciò che fa è anche ciò che
vorrebbe fare, temporaneamente o per sempre, con tutte le diverse sfumature esistenti tra questi due estremi temporali (orientamento/riorientamento formativo della persona);
F.W. Taylor, L’organizzazione scientifica del lavoro, Edizioni di Comunità,
1954, 189.
2 L. Seagraves, M. Osborne, P. Neal, R. Dockrell, C. Hartshorn, A. Boyd,
Learning in Smaller Companies. Final Report, University of Stirling, 1996.
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Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
• far capire a chi lo svolge se ciò che sta facendo e che vuole fare, per poco o tanto tempo che sia, lo sta facendo anche bene,
come si deve, con vere competenze riconoscibili e, soprattutto,
riconosciute da chi è esperto e le richiede come indispensabili per
organizzare processi produttivi davvero qualificati, efficaci ed efficienti (grado di occupabilità della persona);
• consentire a chi lo svolge di dimostrare, infine, di essere diventato così competente ed affidabile nell’esercizio delle funzioni
che ha avuto la possibilità di apprendere svolgendole, da rendersi
prezioso, se non indispensabile, nei processi produttivi coordinati
da un esperto (aiutare l’occupazione, l’inserimento o il reinserimento della persona nel mercato del lavoro).
Questi tre obiettivi caratterizzano tutte le tipologie di tirocinio
esistenti e sono, come si può intuire, tra loro circolari. Se i primi
due, tuttavia, hanno un peso molto più rilevante nei tirocini curricolari, il terzo lo riveste soprattutto in quelli extra-curricolari.
Anche per questo la norma riconosce a chi svolge questi ultimi
una congrua indennità di partecipazione.
Se vivessimo in una cultura meno corrotta dal diffuso pregiudizio
intellettualistico riguardante l’incompatibilità tra formazione e lavoro, scuola e fabbrica, pensare ed operare, si potrebbe a ragione
sostenere che i tirocini curricolari potrebbero cominciare anche
in tenera età, fin dalla scuola dell’infanzia. L’idea che il lavoro sia
uno dei mezzi e dei metodi più efficaci a disposizione degli educatori per il fine della formazione armonica e integrale della persona lungo tutto l’arco dell’età evolutiva ha, infatti, una più che
consolidata tradizione nella storia della pedagogia e delle società
occidentali. A partire da Benedetto da Norcia per giungere, per
esempio, alle esperienze formative di allevamento di animali, coltivazione della terra e pratiche gastronomiche promosse dalla
Pizzigoni o dalle sorelle Agazzi con i bambini della scuola
dell’infanzia.
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L’evoluzione recente dell’alternanza scuola-lavoro. I commenti di ADAPT
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La norma esistente, tuttavia, prendendo atto di questo diffuso
pregiudizio, anzi purtroppo quasi confermandolo come non superabile, dispone che i tirocini curricolari finalizzati
all’acquisizione delle conoscenze e delle competenze previste nei
piani di studio scolastici possano coinvolgere gli studenti solo a
partire dai 15 anni di età. Si possono, di conseguenza, promuovere soltanto in tutti corsi di istruzione e/o di formazione di livello
secondario o terziario (lauree, master e dottorati) e, in generale,
nei corsi secondari che rilasciano comunque un titolo o una certificazione con valore pubblico.
Al contempo, la stessa norma precisa che i tirocini extracurricolari possano essere declinati secondo le seguenti tipologie:
• «formativi e di orientamento», cioè finalizzati ad agevolare le
scelte professionali e l’occupabilità (employability) dei giovani nel
percorso di transizione tra scuola e lavoro; destinati quindi a soggetti che, dai 16 anni, concluso l’obbligo di istruzione o conseguito un titolo di studio, da e non oltre 12 mesi, risultino ancora
inoccupati in cerca di occupazione, disoccupati eppure occupati
con contratto di lavoro o collaborazione a tempo ridotto;
• di «inserimento/reinserimento al lavoro», rivolti a inoccupati
in cerca di occupazione, a disoccupati, a lavoratori sospesi, in
mobilità e a occupati con contratto di lavoro o collaborazione a
tempo ridotto;
• «formativi e di orientamento o di inserimento/reinserimento
in favore di disabili»;
• «estivi di orientamento», promossi con fini orientativi e di addestramento pratico durante le vacanze estive a favore di giovani
regolarmente iscritti ad un ciclo di studi presso un’istituzione
scolastica o formativa.
A tutela del carattere formativo e non soltanto produttivo/esecutivo dei tirocini non solo curricolari ma anche extracurricolari la norma introduce, poi, un’ulteriore serie di vincoli
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Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
che, senza indugiare in dettagli, è opportuno considerare nel loro
insieme.
Anzitutto, una netta distinzione tra soggetti promotori del tirocinio e soggetti che lo possono ospitare. I primi sono riconosciuti
nelle istituzioni scolastiche, negli operatori accreditati ai servizi di
istruzione e formazione professionale regionale e/o ai servizi al
lavoro regionali o nazionali, nonché nelle comunità terapeutiche
e cooperative sociali, iscritte negli specifici albi regionali, a favore
dei disabili. I secondi sono ricondotti a qualsiasi soggetto, persona fisica o giuridica, di natura pubblica o privata, che organizzi
processi e attività di lavoro in regola con la normativa sulla salute
e sicurezza e con la normativa di cui alla l. n. 68/1999 e successive modifiche e integrazioni, che, nei 12 mesi precedenti
l’attivazione del tirocinio e per le mansioni ad esso equivalenti,
non abbia effettuato licenziamenti e non abbia in corso procedure di CIG straordinaria o in deroga.
In secondo luogo, la norma obbliga all’identificazione di un tutor
sia nell’ente promotore sia in quello ospitante. Ambedue sono
chiamati a collaborare per la stesura del progetto formativo individuale del tirocinante, per l’organizzazione e il monitoraggio del
tirocinio stesso e per la redazione dell’attestazione finale, che
contempla anche il riconoscimento e la certificazione delle competenze maturate.
In terzo luogo, la legge stabilisce la durata massima del tirocinio:
6 mesi per i tirocini formativi e di orientamento, 12 mesi per i tirocini di inserimento e reinserimento, i tempi stabiliti dalle disposizioni degli ordinamenti di studio o dei piani formativi per i tirocini curricolari.
Infine, gli indirizzi regionali elencano una serie di condizioni tipo
l’esclusione del tirocinio in orario notturno o la presenza di un
solo tirocinante nel caso di strutture composte dal solo titolare o
con risorse umane in numero non superiore a 5, la presenza di 2
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L’evoluzione recente dell’alternanza scuola-lavoro. I commenti di ADAPT
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tirocinanti in strutture con risorse umane comprese tra 6 e 20 e
di tirocinanti in numero equivalente al 10% dei lavoratori nel caso di strutture con risorse umane in numero superiore a 20.
Come dimostra anche l’esperienza di altri Paesi europei, i tirocini
curricolari ed extra-curricolari diventano, in questa maniera, un
formidabile strumento per avvicinare scuola/università e impresa, per ridurre il mismatch tra competenze promosse nei percorsi
formativi e invece richieste dall’evoluzione del mercato del lavoro, per aumentare non solo l’occupabilità delle persone, ma anche e soprattutto l’occupazione delle persone, per rendere più efficace il placement dei sistemi formativi e l’outplacement delle
imprese in crisi e, infine, per falsificare la tesi secondo la quale
studio e lavoro sarebbero esperienze tra loro incompatibili.
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I ragazzi contestano l’alternanza
perché nessuno gliela spiega
di Emmanuele Massagli
Si terrà domani «il primo grande sciopero delle studentesse
e degli studenti in alternanza», come è stato definito
dall’Unione degli Studenti, la sigla che lo promuove.
È facile avere una prima reazione a questa notizia piuttosto
prevenuta, immaginando che le ragioni per il tradizionale
sciopero autunnale siano da inserire nella retorica
dell’opposizione al lavoro gratuito, dello sfruttamento del povero studente etc… Invero la sorta di piattaforma che annuncia
la manifestazione non si inserisce linearmente nello stereotipo
dello studente ribelle “senza se e senza ma”, ma prova a svolgere
qualche ragionamento più fondato, condivisibile anche da chi sostiene l’importanza della alternanza tra scuola e lavoro. Certo, c’è
anche l’attacco alle multinazionali che coinvolgono gli studenti in
alternanza, come se da McDonald’s fosse impossibile imparare
qualsiasi cosa; pensiero, tra l’altro, denigrante verso chi lavora
tutti i giorni nei ristoranti del colosso americano. Allo stesso modo si legge che «non dobbiamo precocemente entrare nel mercato del lavoro solo perché qualcuno ha deciso sulle nostre vite» e
che «le nostre scuole non devono essere specchio dei fallimenti
del mercato». Concetto tutt’altro che rivoluzionario: difende infatti la strutturazione di una scuola a misura di docente (e non
certo di discente), che proprio per questo non è «lo specchio» di
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un qualche fallimento, ma è addirittura la causa degli alti tassi di
disoccupazione dei giovani diplomati.
Tuttavia sul sito della associazione studentesca si legge anche la convinzione che l’alternanza debba rimanere una
esperienza gratuita, l’auspicio che sia organizzata in diretta
connessione con i programmi scolastici, che non si riduca a improvvisate esperienze estive. Soprattutto si legge che «l’alternanza
scuola-lavoro è una metodologia didattica che lega il sapere al saper fare, l’intelligenza teorica all’intelligenza pratica, che fa davvero da ponte tra ciò che studiamo a scuola e ciò che andremo a
praticare nei luoghi di lavoro». Insomma, lo scoglio concettuale
più grande insito nell’alternanza pare superato: per i ragazzi è
chiaro che si tratta di un metodo e non di un mero strumento o
momento didattico (come fosse una gita o l’utilizzo della sala
computer). È una conquista di significato non di poco conto, ancora non colta da buona parte della classe docente.
Perché allora non si riesce a fare il gradino gnoseologico e
pragmatico che manca, comprendendo che il fine di questa
metodologia non è fare da ponte tra scuola e lavoro (riduzione
economicistica), ma permettere la formazione integrale della persona grazie alla integrazione tra aula ed esperienza diretta?
Un suggerimento per la risposta arriva dal lungo monologo che
Maurizio Crozza ha dedicato a questo argomento nell’ultima
puntata del suo show televisivo: una sfilza di luoghi comuni che
della protesta degli studenti hanno colto solo la parte destruens, riducendola ad una caricatura del novecentesco scontro tra capitale
e lavoro.
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Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
I ragazzi non riescono a comprendere fino in fondo le ragioni del metodo dell’alternanza formativa semplicemente
perché non c’è nessuno che gliele spieghi, a scuola come
fuori da scuola, nell’ozioso pensiero dominante. D’altra parte, come possono comunicare le potenzialità educative e, in fondo, la bellezza del lavoro, degli adulti che vivono per primi il loro
lavoro come una fatica senza senso? Ecco allora una proposta
per gli studenti: a quando uno sciopero autunnale contro gli educatori annoiati e noiosi, finalizzato a chiedere di incontrare in aula maestri appassionati e liberi da pregiudizi? Chissà mai, intanto,
che una figura di questo genere non si abbia la fortuna di incontrarla fuori dalle aule. Magari proprio durante il tirocinio in alternanza.
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La novità culturale e la sfida operativa
dell’alternanza scuola-lavoro de La Buona Scuola
di Emmanuele Massagli
Lo scorso 8 ottobre è stata recapitata a tutte le scuole secondarie
di secondo grado italiane la guida operativa per le attività di alternanza scuola-lavoro redatta dal Dipartimento per il sistema
educativo di istruzione e formazione del Ministero
dell’istruzione, dell’università e della ricerca.
Nonostante la dimensione del manuale, tutt’altro che “operativa”
(92 pagine!), con questo atto il Ministero ha inteso permettere alle scuole di iniziare la programmazione delle attività in alternanza dei propri studenti.
I commi dal 33 al 43 dell’art. 1 della l. 13 luglio 2015, n.107, recante Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per
il riordino delle disposizioni legislative vigenti, meglio nota come La
Buona Scuola, hanno strutturato la metodologia didattica della alternanza scuola-lavoro nell’offerta formativa di tutti gli indirizzi
di studio della scuola secondaria di secondo grado a partire già
dall’anno scolastico appena iniziato. Concretamente, vuole dire
che tutti gli studenti italiani, a partire dalle classi terze, dovranno svolgere un numero di ore di alternanza pari a 200
nei licei e 400 negli istituti tecnici e professionali (la legge
nazionale non può invece intervenire sulla Istruzione e Formazione Professionale di competenza regionale). Le esperienze di
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Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
alternanza potranno essere realizzate anche durante la sospensione delle attività didattiche, all’estero e mediante il dispositivo didattico dell’impresa formativa simulata.
Si tratta di una novità da non sottovalutare, sia dal punto di vista
culturale che da quello gestionale/operativo.
Circa il primo aspetto, va realizzandosi l’intuizione avuta dal Legislatore italiano già nel 2003, quando, all’art. 4 della l. 28 marzo
2003, n. 53 (c.d. legge Moratti) si prevedeva che l’intera formazione dai 15 a 18 anni potesse essere svolta «attraverso
l’alternanza di periodi di studio e di lavoro, sotto la responsabilità
dell’istituzione scolastica, sulla base di convenzioni con imprese o
con le rispettive associazioni di rappresentanza o con le camere
di commercio, industria, artigianato e agricoltura, o con enti,
pubblici e privati, inclusi quelli del terzo settore, disponibili ad
accogliere gli studenti per periodi di tirocinio che non costituiscono rapporto individuale di lavoro». Il successivo d.lgs. delegato n. 77 del 15 aprile 2005 chiarì la natura profonda della alternanza, da intendersi non come uno “strumento”, ma come una
vera e propria «modalità di realizzazione dei corsi del secondo ciclo, sia nel sistema dei licei, sia nel sistema dell’istruzione e della
formazione professionale, per assicurare ai giovani, oltre alle conoscenze di base, l’acquisizione di competenze spendibili nel
mercato del lavoro» (art. 1).
Sono norme scritte ben prima della crisi economica, quando ancora il sistema duale tedesco non era la leggenda mediatica attuale
e le istituzioni europee non avevano colorato di funzionalizzazione economica la formazione situata o on the job. Pur partendo
dalle storture della dominante retorica sulla formazione da orientare al mercato del lavoro, La Buona Scuola ha il merito di ri-
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L’evoluzione recente dell’alternanza scuola-lavoro. I commenti di ADAPT
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scoprire il paradigma pedagogico dell’alternanza, che sospinge a tal punto da farlo diventare esperienza obbligatoria per
tutti.
A questo obbligo è connessa la seconda considerazione da farsi,
quella gestionale/operativa. I dati del monitoraggio annuale effettuato dall’INDIRE ci dicono che oggi la quota di scuole superiori italiane che attiva percorsi di alternanza scuola-lavoro
è ancora limitata (43,5%); tra queste solo il 13,3% sono licei. In
totale i ragazzi coinvolti superano di poco le 200.000 unità, che è
comunque meno dell’11% della popolazione scolastica complessiva. Le aziende ospitanti sono circa 55.000 e i percorsi durano
mediamente 97,9 ore di cui 25,7 in aula e 72,1 fuori da scuola,
per un totale di 12 giorni.
A partire da questo anno scolastico i numeri dovranno improvvisamente decuplicare: per rendere possibile una solida
esperienza di alternanza per tutti serviranno più imprese, una disponibilità all’ospitalità molto maggiore (come numero di ore),
un profondo ripensamento del calendario e dell’offerta formativa
delle scuole. Indipendentemente dalle buone intenzioni, le scuole
ce la faranno? Il Governo ha stanziato 100 milioni di euro annui
per finanziare l’organizzazione delle attività (nella quale rientrerà
anche l’erogazione di corsi di formazione in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro), l’assistenza tecnica
e il monitoraggio dei percorsi; dividendo la cifra per il numero di
scuole si capisce che il fondo è ancora troppo esiguo.
Ai Dirigenti scolastici spetta però da subito il difficile compito
di individuare le imprese e gli enti pubblici e privati disponibili per l’attivazione dei percorsi, anche in carenza del Registro nazionale per l’alternanza scuola-lavoro da costituirsi presso
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Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
le Camere di commercio per censire tutte le imprese ed enti pubblici e privati disponibili ad accogliere gli studenti, una sorta di
“menù” al quale in futuro le scuole potranno accedere per trovare le sedi di scambio più coerenti con i percorsi di studio dei ragazzi.
Le imprese non sono ovviamente obbligate da alcuna norma ad
ospitare giovani studenti nelle proprie strutture. Per questo sarebbe forse utile la pubblicazione anche di una Guida operativa per il tessuto produttivo (non certo di 92 pagine, ma nella forma di decalogo comprensibile e di facile lettura, da scriversi
con le parti sociali). Se gli imprenditori, infatti, pur credendo nel
metodo dell’alternanza, non avranno certezza di semplicità sulle
procedure per la stipulazione delle necessarie convenzioni (nella
Guida per le Scuole ci sono dei fac-simile che paiono ancora
piuttosto “burocratici”) e chiarezza circa le proprie responsabilità, difficilmente cederanno alla pressione dei tanti dirigenti scolastici che già si sono attivati per trovare le sedi di tirocinio dei
propri studenti.
È evidente che senza le imprese, senza un raccordo logico tra tipo di impresa e curriculo del giovane, senza un ripensamento
profondo di tutto il calendario scolastico del triennio conclusivo
in funzione dell’alternanza e, quindi, senza una reale disponibilità dei docenti a riprogrammare corsi e attività, l’alternanza
de La Buona Scuola finirebbe per essere solo un “super laboratorio” distante dal mondo del lavoro o la replicazione,
solo parzialmente efficace, del modello dell’impresa formativa
simulata in contesti poco vocati alla commercializzazione dei
prodotti di studio o, da ultimo, la somma di tanti tirocini svolti
nel periodo estivo per non disturbare l’ordinaria organizzazione
didattica.
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L’evoluzione recente dell’alternanza scuola-lavoro. I commenti di ADAPT
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Governo, docenti, imprese e parti sociali devono invece impegnarsi perché possa realizzarsi quanto la guida operativa appena
pubblicata recita a pagina 12: «Il modello dell’alternanza scuolalavoro intende non solo superare l’idea di disgiunzione tra momento formativo ed operativo, ma si pone l’obiettivo più incisivo
di accrescere la motivazione allo studio e di guidare i giovani nella scoperta delle vocazioni personali, degli interessi e degli stili di
apprendimento individuali, arricchendo la formazione scolastica
con l’acquisizione di competenze maturate “sul campo”. Tale
condizione garantisce un vantaggio competitivo rispetto a quanti
circoscrivono la propria formazione al solo contesto teorico, offrendo nuovi stimoli all’apprendimento e valore aggiunto alla
formazione della persona». L’alternanza correttamente progettata
e vissuta, quindi, permette non solo di essere più competitivi sul
mercato del lavoro, ma prima ancora la formazione integrale della persona, senza la quale è impossibile qualsiasi forma di occupabilità.
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Buoni intenti, poca sussidiarietà.
Alternanza e apprendistato
ai tempi del Jobs Act e de La Buona Scuola
di Emmanuele Massagli
La legge La Buona Scuola in corso di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, condivide con il capitolo “apprendistato di primo
livello” del Jobs Act finalità e tecnica, pur senza un vero e proprio coordinamento tra i testi. Di conseguenza, entrambi gli interventi scontano gli stessi limiti di visione.
La Buona Scuola ha tra i suoi snodi principali e più pubblicizzati il rilancio dell’alternanza scuola-lavoro (art. 1, commi
33-44, A.C. 2994-B) e il potenziamento degli Istituti Tecnici Superiori (commi 45-55). Le parti dedicate al contratto di «apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di
istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione
tecnica superiore» (il nome è nuovo) inizialmente contenute in
questo disegno di legge, durante l’iter di approvazione sono state
spostate nei decreti delegati del Jobs Act che già affrontavano lo
stesso argomento, in particolare in quello dedicato al riordino
delle tipologie contrattuali (si vedano quindi gli artt. 41-43 del
d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 per quanto concerne la parte normativa; all’art. 32 dello Schema di decreto legislativo recante disposizioni per il riordino della normativa in materia di servizi per il
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lavoro e di politiche attive – Atto Senato n. 177 – sono invece
contenute le misure di incentivazione economica).
Le finalità di entrambi gli interventi sono quelle di «incrementare le opportunità di lavoro e le capacità di orientamento degli studenti» (comma 33, La Buona Scuola) e «coniugare la formazione effettuata in azienda con l’istruzione e la formazione professionale svolta dalle istituzioni formative» (art. 43 del
d.lgs. n. 81/2015).
Il Governo ha molto enfatizzato il confronto con
l’esperienza tedesca della formazione duale, alla quale esplicitamente il Legislatore si è richiamato per trovare soluzioni (relativamente) nuove al crescente problema della disoccupazione e
inattività giovanile.
È però evidente che nessuna imitazione di norme legislative può avere successo se calata in un ambiente sociale incapace di interpretare e sfruttare correttamente gli spazi
creati dalla legge. Se non si scardina la dimensione culturale,
coerentemente la dimensione legislativa cristallizzerà in norma gli
stessi pregiudizi presenti in istituzioni, giovani e imprese.
L’opposizione all’apprendistato già regolato dall’art. 3 del Testo
Unico del 2011, infatti, non scaturisce innanzi tutto da ragioni
tecnico/normative, connesse al mezzo (l’apprendistato a scuola),
bensì origina da un vero e proprio rigetto concettuale del metodo, ossia l’educazione facendo, l’integrazione scuola-lavoro: più
in generale, l’alternanza formativa. Si tratta della stessa radice culturale degli stage curriculari previsti ne La Buona Scuola, che quindi dovranno superare i medesimi pregiudizi intellettualistici che
da anni frenano l’apprendistato, causando il “paradosso pratico”
che gli addetti ai lavori osservano da tempo: nonostante l’ampia
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Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
condivisione di principi generali e la straordinaria dimensione del
problema giovanile, l’ordinamento scolastico, professionale e
universitario non solo non opera alcun passo verso la costruzione di percorsi moderni ed europei di apprendistato, ma addirittura sembra procedere al contrario.
Per questo l’affermazione del metodo dell’alternanza formativa non può che nascere da una legittimazione “dal basso”,
da una rinnovata coscienza dell’utilità educativa, formativa ed occupazionale delle esperienze di tirocinio e di apprendistato. Una
consapevolezza invero presente tra i giovani, crescente tra le imprese, ma ancora molto scarsa negli ambienti scolastici e universitari.
Il Legislatore pare convinto di poter forgiare questa nuova
coscienza con l’intervento diretto, evidente tanto nel Jobs
Act quanto ne La Buona Scuola. Entrambi i testi, infatti, confermano la tendenza a ricentralizzare la regolazione del mercato
del lavoro e della formazione. Ecco quindi che nella riforma
della Scuola le esperienze di alternanza (finalmente non più
concepite come piccole “gite”, considerato l’elevato numero minimo di ore indicato al comma 33) diventano obbligatorie e
sono controllate dalla «Carta dei diritti e dei doveri degli studenti
in alternanza scuola-lavoro» e dal «registro nazionale per
l’alternanza scuola-lavoro». Nel d.lgs. n. 81/2015, invece, si rimanda a futuro decreto la creazione di un «protocollo» per la stipulazione delle convenzioni tra impresa e scuola, nonché per la
fissazione dei «criteri generali per la realizzazione dei percorsi di
apprendistato», dei «requisiti delle imprese nelle quali si svolge e
il monte orario massimo del percorso scolastico che può essere
svolto in apprendistato» e del «numero di ore da effettuare in
azienda».
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L’evoluzione recente dell’alternanza scuola-lavoro. I commenti di ADAPT
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Si prova, quindi, ancora una volta, a forzare per via legislativa ciò che in oltre dodici anni di storia (il riferimento è alla l. 28
marzo 2003, n. 53 e d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276) non è riuscito ad affermarsi nel nostro ordinamento, nonostante la continua approvazione di norme indubbiamente favorevoli.
I rischi sono i medesimi delle esperienze precedenti:
l’aggiramento sostanziale dei buoni propositi della legge.
Potremmo quindi scoprire tra qualche anno che le ore obbligatorie di alternanza sono svolte durante la sospensione delle attività
didattiche, come furbescamente è previsto nel comma 35 della
stessa La Buona Scuola, a protezione del numero di cattedre che
non può essere diminuito (è anzi aumentato grazie alle assunzioni
previste dalla stessa legge) e della tradizionale organizzazione dei
programmi dei corsi di studio; che, mancando reali incentivazioni
economiche e normative, le aziende disponibili ad ospitare giovani per tirocini curriculari sono molte meno dell’ingente numero
di cui ci sarebbe bisogno per adempiere all’obbligo di legge e che
quindi le scuole devono virare verso imprese formative simulate
e tirocini nella pubblica amministrazione; che poche imprese superano la diffidenza verso la stipulazione di protocolli formali
per l’apprendistato con le scuole e che le Regioni continuano a
non regolare l’apprendistato di primo livello.
Il cambio di paradigma di cui ha bisogno la formazione in
Italia per contrastare l’emergenza educativa può essere facilitato, ma non certo generato da alcuna norma. Se non si innescherà nei prossimi anni, in primis grazie al coinvolgimento e alla convinzione di dirigenti scolastici, docenti, studenti, imprese e
parti sociali, un rinnovato interesse verso la formazione in assetto
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Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
lavorativo, nessuna legge, anche se “buona”, riuscirà a cambiare
una scuola sempre più vecchia e ferma.
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Scuola-lavoro:
meglio l’integrazione dell’alternanza
di Emmanuele Massagli
Introduzione
Il tema del rapporto tra scuola e lavoro è scientificamente “occupato” dalla dottrina pedagogica. Ciononostante mi permetterò di
proporvi una analisi delle stesse problematiche da un punto di vista diverso, con la lente dell’appassionato di diritto ed economia
del lavoro, conscio che è esercizio sterilmente teorico scervellarsi
sul problema del lavoro dei giovani senza ricordare che prima di
iniziare a lavorare (o augurarsi di iniziare, di questi tempi) i giovani sono stati (e si sono) formati. È infruttuoso pretendere di
studiare l’occupazione giovanile senza inquadrare i nodi ancora
non sciolti della formazione scolastica e professionale.
Formare guardando anche al mercato del lavoro
La situazione del mercato del lavoro interroga in qualche modo
chi fa scuola tutti i giorni? I professori sono consci della “giungla” che aspetta i loro ragazzi dopo la maturità o la laurea?
I dati di febbraio 2013 comunicati dall’Istat ad inizio aprile, ci dicono di un tasso di disoccupazione giovanile del 37,8% (doverosa precisazione: per convenzione internazionale, col termine
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Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
“giovanile” si indica la popolazione compresa tra i quindici e i
ventiquattro anni). La percentuale indica coloro che stanno effettivamente cercando lavoro senza trovarlo; tecnicamente si dice
essere calcolata rispetto al numero degli “attivi”. Tale numero è
forse più preoccupante della percentuale citata, poiché il problema dell’occupazione giovanile italiana non è da ricercarsi tanto
nel tasso di disoccupazione, ma soprattutto nel tasso di inattività,
che stima il numero di giovani che non lavorano e non cercano
lavoro (in Europa questo insieme è meglio noto col nome di
NEET, Not in Education, Employment or Training). L’ultimo rapporto annuale dell’Istat calcola pari al 23,9% la percentuale dei giovani tra i 15 e i 29 anni totalmente inattivi. Ancora altri dati si potrebbero elencare per evidenziare la gravità della situazione: quasi
il 50% dei giovani disoccupati italiani sono disoccupati di lunga
durata, cioè senza lavoro da più di dodici mesi. La ricerca economica ha dimostrato che quando una persona è disoccupata da
più di un anno nel suo curriculum si genera quello che gli studiosi definiscono una cicatrice (scarring effect) che difficilmente si rimargina: più tempo è trascorso senza lavorare, più è difficile trovare occupazione. Gli abbandoni scolastici sono superiori al 18%
(peggior dato europeo dopo la Spagna). Solo il 35% di chi inizia
un percorso universitario lo finisce nei tempi previsti. Questo determina che tra i venticinque e i ventinove anni siano in ancora in
formazione il 15% dei giovani (27 anni è l’età media di un neolaureato magistrale).
Cosa chiede il mercato del lavoro
Come si può pensare che il problema “disoccupazione giovanile”, che è poi il problema dell’ingresso pieno dei giovani nella società “adulta”, riguardi solo le regole e i meccanismi del mercato
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L’evoluzione recente dell’alternanza scuola-lavoro. I commenti di ADAPT
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del lavoro e non anche chi si occupa di formazione? Quale rapporto tra formazione e lavoro?
Tentiamo una sintetica risposta ribaltando il copione tipico
dell’addetto ai lavori in questo ambito. Incominciamo il ragionamento dai dati del mercato del lavoro e non dalle esigenze culturali, pedagogiche ed economiche della scuola. La statistica non
può e non deve certo sostituire il ruolo dei formatori, ma può
aiutarli a rendere le offerte formative più concrete e rispondenti
alle richieste professionali del mondo dell’impresa, del no profit e
della pubblica amministrazione.
Un preziosa fonte per quest’opera di ricostruzione delle esigenze
del territorio è il sistema informativo Excelsior, curato da Unioncamere e dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Si tratta
di una indagine campionaria operata chiedendo alle imprese quali
siano le figure professionali di difficile reperimento. I risultati sono consultabili sia su scala nazionale che focalizzandosi sulla dimensione provinciale e hanno cadenza trimestrale. In questi anni
le imprese hanno dichiarato di aver dedicato specificatamente a
persone sotto i trenta anni all’incirca il 27% per cento delle posizioni di lavoro scoperte. Nel settore “terziario e servizi” addirittura il 43% delle c.d. vacancies è dedicato a giovani. Nel secondario
la stessa statistica è pari a circa il 35%. Le professioni più richieste sono cuochi e camerieri (5.000 a trimestre), commessi del terziario (4.000), assistenza alla clientela (3.500), operai specializzati
della edilizia e della manutenzione (2.500), tecnici amministrativi
bancari (2.000), tecnici informatici (1.900). A differenza di quanto si legge spesso sui quotidiani, non si tratta affatto di professioni solo manuali, né sono professioni per laureati. Sono, semplicemente, competenze (non nozioni) che il mercato del lavoro richiede.
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Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
È opportuno tenere conto di questo dato reale nel perfezionare
l’offerta didattica di scuole e centri di formazione professionale?
Non si tratta di ripensare la scuola perché addestri al lavoro, ma
perché riesca a (ri)avvicinarsene.
La fine della linearità
Provo a introdurre l’analisi del mutamento che sta vivendo il
mercato del lavoro tramite tre brevi premesse.
Prima. Un noto sociologo di New York, il prof. Richard Sennet,
ha calcolato che un giovane entrato nella forza lavoro nell’anno
duemila cambierà posto di lavoro da dodici a quindici volte
nell’arco della vita lavorativa. Gli economisti del lavoro correggono verso l’alto questa stima: nel mondo occidentale il cambio
di lavoro avverrà anche oltre venti volte. Chiunque ha esperienza
di colloqui con giovani lavoratori ed è avvezzo a leggerne i curricula, sa che né cosi.
Seconda. L’avvento delle nuove tecnologie ha creato il termine di
“società della conoscenza”. Nel mondo ogni anno vengono prodotte trecentomila riviste scientifiche. Più o meno tre milioni di
volumi che dovrebbero per definizione comunicare qualcosa di
nuovo. Trenta milioni di informazioni all’anno, quindi; ovvero
sei informazioni scientifiche nuove al secondo (dati di William
Hartston).
Terza. Il lavoro oggi non è più costruito attorno al “posto fisso”,
ma è svolgimento di un “percorso”, come efficacemente hanno
descritto i professori Marco Biagi (giurista del lavoro) e Marco
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Martini (statistico) ad inizio Duemila. Tale dinamicità obbliga tutte le legislazioni occidentali a ripensare le regole del mercato del
lavoro e le tecniche novecentesche di difesa del “contraente debole” (il lavoratore), ora molto più forte sul piano delle competenze individuali, ma ancor più spaesato nella dialettica con un
datore di lavoro non più unico, ma sempre diverso, per settore,
dimensione e addirittura posizionamento geografico.
Queste tre fotografie, seppur imprecise e “mosse”, ci permettono
di capire che in un mercato del lavoro siffatto il primo antidoto
alla disoccupazione non può più essere la rigida normativa di
protezione dell’impiego o la politica passiva dell’ammortizzatore
sociale, ma la formazione. Non solo (e non tanto) quella iniziale,
ma continua, lungo tutto l’arco della vita.
È finita l’epoca della linearità tra formazione e lavoro, quando a
scuola ci si preparava a svolgere un lavoro uguale per tutta la vita.
Prima si studiava, poi si lavorava. Anche per questo, più si riusciva a ritardare l’ingresso nel mondo del lavoro (vissuto come
momento di fatica inevitabile, se non addirittura sfruttamento),
meglio era. È la realtà tutta che mette in crisi il paradigma della
linearità, a tutti i livelli, non solo nel mercato del lavoro.
Si pensi alla crisi economica che stiamo vivendo. Come ci è stato
autorevolmente detto, affrontiamo una recessione che dimostra
che non solo finanza e attività produttiva devono stare insieme,
ma anche etica ed economia. È la fine del disciplinarismo, della
linearità scientifica.
Ancora: non poche domande porta con se la globalizzazione che,
indipendentemente da tutte le valutazioni più o meno ideologiche, appare in questo momento un processo storicamente vin-
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Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
cente. Anche la pretesa di linearizzare la storia è scorretta: siamo
tutti interconnessi.
Non meno quesiti generano le nuove tecnologie, che avvicinano
mondi diversi, eliminano le differenze di spazio: anche la gerarchia non è più lineare.
Da ultimo, occorre citare anche la multiculturalità: non ha futuro
chi non ha capacità di pensare “diverso”. Situazioni diverse esigono soluzioni fantasiose, non risposte rigide e lineari.
Non è più l’epoca del pensiero lineare, quindi (Giuseppe Bertagna, Lavoro e formazione dei giovani, La Scuola, 2012).
La fine del separazionismo
Un pericoloso corollario del linearismo ideologico è il separazionismo scientifico, formativo ed educativo. In Italia è in questi
anni crescente il numero di ragazzi che concludono il proprio
percorso formativo ritrovandosi tra le mani una laurea o un diploma di scuola superiore non richiesto dal mercato del lavoro,
nonostante il “bacio accademico” della Commissione che lo ha
valutato augurando certamente una carriera lavorativa di successo. Questa tardiva scoperta della propria “obsolescenza” (senza
ancora aver mosso un passo nel mercato del lavoro!) determina il
disadattamento (mismatch) scolastico e professionale che nel mercato del lavoro solitamente sfocia nello scoraggiamento e nella
inattività.
Ecco una delle cause del preoccupante dato citato in precedenza:
il separazionismo. La scuola è un mondo, il lavoro un altro; la
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teoria ha le sue regole, il lavoro manuale delle altre; l’intelligenza
è dote a sé stante, la pratica un’altra. Come scrive Giuseppe Bertagna in Fare Laboratorio (La Scuola, 2013) nelle separazioni appena citate si vede una «netta vittoria del dia-bolico rispetto al simbolico».
È ancora una volta la realtà a indicare una direzione diversa.
Innanzitutto rispetto ad altre epoche, oggi è ancor più urgente
una rivalutazione del lavoro manuale (come se non fosse “manuale” e ripetitiva la maggior parte dei lavori d’ufficio destinati a
laureati!). Secondo una ricerca europea, solo il 5% dei giovani italiani tra quindici e ventiquattro anni si vede occupato in futuro in
un lavoro manuale, mentre sono più o meno il 40% in Svezia, il
60% negli Stati Uniti. Questo nonostante l’Italia sia tradizionalmente il Paese europeo con la più diffusa creatività imprenditoriale, che non è certo attività speculativa e impiegatizia.
L’Eurobarometro ci dice anche che gli studenti italiani sono quelli che meno maturano a scuola lo “spirito imprenditoriale”, seguiti solo dai turchi. Altro dato curioso se pensiamo alla varietà del
tessuto imprenditoriale italiano. Sono solo due accenni, ma tutte
le statistiche paiono confermare l’avversione dell’ambiente scolastico verso il lavoro manuale. Nell’organizzazione didattica si avverte non solo una sottovalutazione del lavoro pratico, ma anche
(ed è conseguente) il timore di facilitare l’incontro con il lavoro
manuale durante i percorsi di studio. Se questo è vero, se davvero
è così culturalmente impostata la scuola, ovvio che un giovane
pensi che fare l’operaio specializzato valga meno di fare il direttore acquisti o l’analista contabile. Un recente articolo pubblicato,
se non erro, da La Stampa, osservava che undici dei dodici astronauti che sono stati sulla luna sono stati scout. Mi ha colpito
l’evidenza, così banale, e probabilmente anche scientifica, del
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94
Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
nesso tra abitudine all’esperienza pratica e vocazione professionale, in questo caso tra l’altro di assoluta dignità anche teorica.
Ulteriore passaggio: il contatto col mondo del lavoro. Nelle scuole italiane l’impatto col mondo del lavoro è veicolato solo tramite
esperienze mediate, educati contesti laboratoriali che difficilmente riescono a fare incontrare i ragazzi con la realtà. Eppure sono i
ragazzi i primi a volerlo. Test ancora una volta non scientifico,
ma efficace: se chiedete a un bambino cosa vuol fare da grande,
cosa gli piace, è difficile che risponda una professione intellettuale. Solitamente indica una professione estremamente operativa.
Ciononostante per tanti anni (e ancora) la teoria del capitale
umano più in voga si è indirizzata verso tutt’altra direzione, nutrendo di equivoci il dogma della separazione. Separazione tra
cultura generale e cultura professionale; tra competenze di base e
competenze specialistiche; tra formazione interna e formazione
esterna all’impresa. Tra competenze professionali da lasciare alla
responsabilità formativa dell’azienda perché non hanno nessuna
valenza etica, intellettuale o di cittadinanza, e competenze di base
e trasversali, nobili e morali, che devono essere di monopolio statale (scolastico) e non devono/possono esigere nessuna valenza
economica o produttiva. Così, anno dopo anno, tutto sommato
nell’incosciente indifferenza collettiva, i pedagogisti più illuminati
sono riusciti a ribaltare il metodo: le singole discipline di studio
hanno smesso di essere mezzi per la formazione della persona (il
vero fine di ogni processo formativo) e quest’ultima si è dovuta
piegare alla pretesa dello Stato di decidere quando una persona è
formata, ovvero quando possiede le discipline scelte dal regolatore pubblico al livello determinato e verificato dallo stesso regolatore.
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L’evoluzione recente dell’alternanza scuola-lavoro. I commenti di ADAPT
95
La necessità dell’integrazione scuola-lavoro
Come si può superare il dogma della separazione, almeno nella
prospettiva (solo tentativamente) giuslavoristica?
Innanzitutto affermando la centralità del metodo pedagogico
dell’alternanza. “Alternanza” perché così la definisce l’art. 4 della
l. 28 marzo 2003, n. 53, non a caso rubricato Alternanza scuolalavoro, che specifica in seguito essere questa una «modalità di realizzazione del percorso formativo progettata, attuata e valutata
dall’istituzione scolastica e formativa in collaborazione con le
imprese».
A dieci anni da quel testo, considerate le urgenze culturali ed
economiche di questa stagione, sarebbe forse meglio superare
anche il termine dell’alternanza per affermare il valore della integrazione tra scuola e lavoro. A tutti i livelli.
Durante la scuola primaria si potrebbe fare osservare ai bambini
lo svolgimento completo di un processo produttivo locale, spiegandone il senso complessivo, dall’inizio alla fine.
Già in età di scuola media è possibile e fruttuoso svolgere qualche prima esperienza di lavoro. Il nostro ordinamento addirittura
prevedere uno strumento giuridico ad hoc, il c.d. buono lavoro,
introdotto dalla legge Biagi. I giovani, grazie al voucher, non sono pagati con soldi contanti, ma con un buono da riscuotere alle
Poste, che già comprende una piccola contribuzione previdenziale e l’assicurazione INAIL. La norma dice che col buono lavoro
si possono pagare esperienze occasionali per i giovani «iscritti ai
percorsi scolastici di ogni ordine e grado». Purtroppo la prassi
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96
Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
amministrativa (si veda il sito internet dell’INPS, per esempio) ha
illegalmente deciso che a questo strumento possano accedere solo «i giovani sopra i sedici anni». Eloquente e ulteriore testimonianza della paradossale paura del lavoro diffusa nella «Repubblica democratica, fondata sul lavoro».
La conoscenza del mondo del lavoro del giovane può continuare
in età di scuola secondaria con un altro, prezioso e poco sfruttato, strumento normativo: l’apprendistato. Si tratta di un vero e
proprio contratto, interessante nella prima (“apprendistato per la
qualifica e per il diploma professionale”) e terza (“apprendistato
di alta formazione e di ricerca”) tipologia. Il primo livello è destinato ai ragazzi dai 15 ai 18 anni socialmente considerati di “serie
B” perché iscritti alla formazione professionale. Il terzo livello è
accessibile anche agli altri iscritti a scuole secondarie, seppure (e
purtroppo) a partire solo dai 18 anni. Interessante notare che,
nonostante l’esiguo numero di apprendisti di questo genere censiti (il riferimento è al primo livello) e le caratteristiche soggettive
che li accomunano (sono solitamente dispersi recuperati o pluriripetenti), più del 60% di questi ha trovato lavoro entro sei mesi
dal titolo (dati Isfol e Fondazione per la Sussidiarietà).
Da ultimo è doveroso citare il più noto degli strumenti che possono facilitare il rapporto tra giovani e lavoro: il tirocinio formativo (o stage). Materia che ogni anno si fa più complessa e che in
questa sede è opportuno citare solo nella modalità “curricolare”,
più leggera normativamente. Se si guarda ai dati pubblicati annualmente da INDIRE, difficile non chiedersi quale senso pratico abbia organizzare stages di durata media di 15 giorni e solo per
i ragazzi del quarto o quinto anno. Così concepito, il tirocinio
rimarrà esperienza di pochi, che nulla serve al ragazzo e ancor
meno all’impresa, disponibile ad ospitarlo solo se volenterosa di
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L’evoluzione recente dell’alternanza scuola-lavoro. I commenti di ADAPT
97
fare del bene sociale, non perché tramite lo stage può formare,
orientare e selezionare un proprio futuro dipendente.
Dalla teoria alla pratica. Un esempio concreto: la Scuola di
ADAPT
Quando una metodo è efficace, è efficace sempre. Per questo mi
permetto di dedicare l’ultima sezione a un esempio pratico. Nel
2003, a Modena, si è incominciato organizzare un dottorato senza le tradizionali pretese accademiche, ma particolarmente vocato
all’incontro con le impresa. Questo corso di dottorato, poi diventato Scuola, è ora svolto a Bergamo, grazie all’incontro tra
ADAPT e il CQIA dell’Università degli Studi della città. È la
Scuola di dottorato più grande di Italia, quella con più finanziamenti privati e l’unica impostata sul metodo dell’alternanza, nonostante interessi discipline (pedagogia e diritto del lavoro) che
nel sentire comune non vengono associate all’attività aziendale.
Questa Scuola di Dottorato, dedicata alla Formazione della persona e
mercato del lavoro dimostra che i mondi della formazione e del lavoro non sono separati. Che si può concepire anche il più teorico
dei corsi (il dottorato tradizionalmente inteso è il regno della dottrina “alta”) in ottica di placement qualitativo. Gli studenti, come
avviene nel sistema scolastico duale tedesco tanto chiaccherato,
operano on the job in impresa per quattro giorni alla settimana. Altri due sono dedicati alle attività universitarie e alle lezioni (obbligatorie). Nessuno di loro paga per frequentare i corsi, tutti sono
coperti da borsa di studio, la metà delle quali finanziate da imprese e associazioni private. Si tratta di investimenti sostanziosi, che
non vengono decisi per mecenatismo, ma perché i finanziatori
credono nella qualità e competitività della formazione ricevuta
dal loro futuro dipendente (nel 90% dei casi il ragazzo che ha ri-
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98
Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
cevuto la borsa “privata” viene assunto dal finanziatore). Il dottorando porta in università tutta la complessità e la ricchezza
dell’esperienza “pratica” e restituisce in azienda l’aggiornamento
e l’analisi “teorica” svolta in aula.
È un esempio piccolo, ma significativo, delle potenzialità formative offerte dal superamento del dogma della separazione, per
una reale integrazione tra scuola università e lavoro.
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Appendice
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Legge 13 luglio 2015, n. 107.
Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e
delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti
Commi 33-43
33. Al fine di incrementare le opportunità di lavoro e le capacità
di orientamento degli studenti, i percorsi di alternanza scuolalavoro di cui al decreto legislativo 15 aprile 2005, n. 77, sono attuati, negli istituti tecnici e professionali, per una durata complessiva, nel secondo biennio e nell’ultimo anno del percorso di studi, di almeno 400 ore e, nei licei, per una durata complessiva di
almeno 200 ore nel triennio. Le disposizioni del primo periodo si
applicano a partire dalle classi terze attivate nell’anno scolastico
successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore della
presente legge. I percorsi di alternanza sono inseriti nei piani
triennali dell’offerta formativa.
34. All’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 15 aprile 2005,
n. 77, dopo le parole: «ivi inclusi quelli del terzo settore,» sono
inserite le seguenti: «o con gli ordini professionali, ovvero con i
musei e gli altri istituti pubblici e privati operanti nei settori del
patrimonio e delle attività culturali, artistiche e musicali, nonché
con enti che svolgono attività afferenti al patrimonio ambientale
o con enti di promozione sportiva riconosciuti dal CONI,».
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Appendice
101
35. L’alternanza scuola-lavoro può essere svolta durante la sospensione delle attività didattiche secondo il programma formativo e le modalità di verifica ivi stabilite nonché con la modalità
dell’impresa formativa simulata. Il percorso di alternanza scuolalavoro si può realizzare anche all’estero.
36. All’attuazione delle disposizioni di cui ai commi 34 e 35 si
provvede nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o
maggiori oneri per la finanza pubblica.
37. All’articolo 5, comma 4-ter, del decreto-legge 12 settembre
2013, n. 104, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2013, n. 128, il primo periodo è sostituito dal seguente: «Ai
fini dell’attuazione del sistema di alternanza scuola-lavoro, delle
attività di stage, di tirocinio e di didattica in laboratorio, con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di
concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali e con
il Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione
nel caso di coinvolgimento di enti pubblici, sentito il Forum nazionale delle associazioni studentesche di cui all’articolo 5-bis del
regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10
ottobre 1996, n. 567, e successive modificazioni, è adottato un
regolamento, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23
agosto 1988, n. 400, con cui è definita la Carta dei diritti e dei
doveri degli studenti in alternanza scuola-lavoro, concernente i
diritti e i doveri degli studenti della scuola secondaria di secondo
grado impegnati nei percorsi di formazione di cui all’articolo 4
della legge 28 marzo 2003, n. 53, come definiti dal decreto legislativo 15 aprile 2005, n. 77, con particolare riguardo alla possibilità per lo studente di esprimere una valutazione sull’efficacia e
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102
Dall’alternanza scuola-lavoro all’integrazione formativa
sulla coerenza dei percorsi stessi con il proprio indirizzo di studio».
38. Le scuole secondarie di secondo grado svolgono attività di
formazione in materia di tutela della salute e della sicurezza nei
luoghi di lavoro, nei limiti delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili, mediante l’organizzazione di corsi rivolti agli
studenti inseriti nei percorsi di alternanza scuola-lavoro ed effettuati secondo quanto disposto dal decreto legislativo 9 aprile
2008, n. 81.
39. Per le finalità di cui ai commi 33, 37 e 38, nonché per
l’assistenza tecnica e per il monitoraggio dell’attuazione delle attività ivi previste, è autorizzata la spesa di euro 100 milioni annui a
decorrere dall’anno 2016. Le risorse sono ripartite tra le istituzioni scolastiche ai sensi del comma 11.
40. Il dirigente scolastico individua, all’interno del registro di cui
al comma 41, le imprese e gli enti pubblici e privati disponibili
all’attivazione dei percorsi di cui ai commi da 33 a 44 e stipula
apposite convenzioni anche finalizzate a favorire l’orientamento
scolastico e universitario dello studente. Analoghe convenzioni
possono essere stipulate con musei, istituti e luoghi della cultura
e delle arti performative, nonché con gli uffici centrali e periferici
del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo. Il dirigente scolastico, al termine di ogni anno scolastico, redige una
scheda di valutazione sulle strutture con le quali sono state stipulate convenzioni, evidenziando la specificità del loro potenziale
formativo e le eventuali difficoltà incontrate nella collaborazione.
41. A decorrere dall’anno scolastico 2015/2016 è istituito presso
le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura il re-
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Appendice
103
gistro nazionale per l’alternanza scuola-lavoro. Il registro è istituito d’intesa con il Ministero dell’istruzione, dell’università e della
ricerca, sentiti il Ministero del lavoro e delle politiche sociali e il
Ministero dello sviluppo economico, e consta delle seguenti
componenti:
a) un’area aperta e consultabile gratuitamente in cui sono visibili
le imprese e gli enti pubblici e privati disponibili a svolgere i
percorsi di alternanza. Per ciascuna impresa o ente il registro
riporta il numero massimo degli studenti ammissibili nonché i
periodi dell’anno in cui è possibile svolgere l’attività di alternanza;
b) una sezione speciale del registro delle imprese di cui
all’articolo 2188 del codice civile, a cui devono essere iscritte
le imprese per l’alternanza scuola-lavoro; tale sezione consente la condivisione, nel rispetto della normativa sulla tutela dei
dati personali, delle informazioni relative all’anagrafica,
all’attività svolta, ai soci e agli altri collaboratori, al fatturato,
al patrimonio netto, al sito internet e ai rapporti con gli altri
operatori della filiera delle imprese che attivano percorsi di alternanza.
42. Si applicano, in quanto compatibili, i commi 3, 4, 5, 6 e 7
dell’articolo 4 del decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 3, convertito,
con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2015, n. 33.
43. All’attuazione delle disposizioni di cui ai commi 41 e 42 si
provvede nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o
maggiori oneri per la finanza pubblica.
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Notizie sugli autori
Laura Angeletti
Dottoranda di ricerca in Formazione della
persona e mercato del lavoro, Università degli
Studi di Bergamo, ADAPT
Alessia Battaglia
Dottoranda di ricerca in Formazione della
persona e mercato del lavoro, Università degli
Studi di Bergamo, ADAPT
Marco Bentivogli
Segretario generale FIM-CISL
Giuseppe Bertagna
Professore ordinario di pedagogia generale e
sociale e direttore del Dipartimento di Scienze
umane e sociali, Università degli Studi di
Bergamo
Simone Caroli
ADAPT Senior Fellow
Federico D’Addio
Dottorando di ricerca in Formazione della
persona e mercato del lavoro, Università degli
Studi di Bergamo, ADAPT
Sabrina De Santis
Direttore
Education
Federmeccanica
Emmanuele Massagli
Presidente di ADAPT e docente a contratto di
pedagogia del lavoro, Università degli Studi di
Bergamo
Matteo Monetti
Education and Training, Federmeccanica
© 2017 ADAPT University Press
and
Training,
Notizie sugli autori
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Francesco Nespoli
ADAPT Research Fellow
Michele Tiraboschi
Professore ordinario di diritto del lavoro,
Università degli Studi di Modena e Reggio
Emilia
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ADAPT LABOUR STUDIES E-BOOK SERIES
ADAPT – Scuola di alta formazione in relazioni industriali e di lavoro
1.
P. Rausei, M. Tiraboschi (a cura di), Lavoro: una riforma a metà
del guado, 2012
2.
P. Rausei, M. Tiraboschi (a cura di), Lavoro: una riforma sbagliata,
2012
3.
M. Tiraboschi, Labour Law and Industrial Relations in Recessionary Times, 2012
4.
Bollettinoadapt.it, Annuario del lavoro 2012, 2012
5.
AA.VV., I programmi alla prova, 2013
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U. Buratti, L. Casano, L. Petruzzo, Certificazione delle competenze, 2013
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L. Casano (a cura di), La riforma francese del lavoro: dalla sécurisation alla flexicurity europea?, 2013
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F. Fazio, E. Massagli, M. Tiraboschi, Indice IPCA e contrattazione
collettiva, 2013
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G. Zilio Grandi, M. Sferrazza, In attesa della nuova riforma: una
rilettura del lavoro a termine, 2013
10.
M. Tiraboschi (a cura di), Interventi urgenti per la promozione
dell’occupazione, in particolare giovanile, e della coesione sociale, 2013
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U. Buratti, Proposte per un lavoro pubblico non burocratico,
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12.
A. Sánchez-Castañeda, C. Reynoso Castillo, B. Palli, Il subappalto:
un fenomeno globale, 2013
13.
A. Maresca, V. Berti, E. Giorgi, L. Lama, R. Lama, A. Lepore, D.
Mezzacapo, F. Schiavetti, La RSA dopo la sentenza della Corte
costituzionale 23 luglio 2013, n. 231, 2013
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F. Carinci, Il diritto del lavoro in Italia: a proposito del rapporto
tra Scuole, Maestri e Allievi, 2013
15.
G. Zilio Grandi, E. Massagli (a cura di), Dal decreto-legge n.
76/2013 alla legge n. 99/2013 e circolari “correttive”: schede di
sintesi, 2013
16.
G. Bertagna, U. Buratti, F. Fazio, M. Tiraboschi (a cura di), La regolazione dei tirocini formativi in Italia dopo la legge Fornero,
2013
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R. Zucaro (a cura di), I licenziamenti in Italia e Germania, 2013
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Bollettinoadapt.it, Annuario del lavoro 2013, 2013
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L. Mella Méndez, Violencia, riesgos psicosociales y salud en el
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20. F. Carinci (a cura di), Legge o contrattazione? Una risposta sulla
rappresentanza sindacale a Corte costituzionale n. 231/2013,
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M. Tiraboschi (a cura di), Jobs Act - Le misure per favorire il rilancio dell’occupazione, riformare il mercato del lavoro ed il sistema delle tutele, 2014
22. M. Tiraboschi (a cura di), Decreto-legge 20 marzo 2014, n. 34. Disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e per
la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese Prime interpretazioni e valutazioni di sistema, 2014
23. G. Gamberini (a cura di), Progettare per modernizzare. Il Codice
semplificato del lavoro, 2014
24. U. Buratti, C. Piovesan, M. Tiraboschi (a cura di), Apprendistato:
quadro comparato e buone prassi, 2014
25. M. Tiraboschi (a cura di), Jobs Act: il cantiere aperto delle riforme
del lavoro, 2014
26. F. Carinci (a cura di), Il Testo Unico sulla rappresentanza 10 gennaio 2014, 2014
27. S. Varva (a cura di), Malattie croniche e lavoro. Una prima rassegna ragionata della letteratura di riferimento, 2014
28. R. Scolastici, Scritti scelti di lavoro e relazioni industriali, 2014
29. M. Tiraboschi (a cura di), Catastrofi naturali, disastri tecnologici,
lavoro e welfare, 2014
30. F. Carinci, G. Zilio Grandi (a cura di), La politica del lavoro del
Governo Renzi - Atto I, 2014
31.
E. Massagli (a cura di), Il welfare aziendale territoriale per la micro, piccola e media impresa italiana. Un’indagine ricostruttiva,
2014
32. F. Carinci (a cura di), La politica del lavoro del Governo Renzi Atto II, 2014
33. S. Stefanovichj, La disabilità e la non autosufficienza nella contrattazione collettiva italiana, alla luce della Strategia europea
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36. M. Tiraboschi (a cura di), Occupabilità, lavoro e tutele delle persone con malattie croniche, 2015
37. F. Carinci, M. Tiraboschi (a cura di), I decreti attuativi del Jobs
Act: prima lettura e interpretazioni, 2015
38. M. Soldera, Dieci anni di staff leasing. La somministrazione di
lavoro a tempo indeterminato nell’esperienza concreta, 2015
39. M. Tiraboschi, Labour Law and Industrial Relations in Recessionary Times, 2015
40. F. Carinci (a cura di), La politica del lavoro del Governo Renzi.
Atti del X Seminario di Bertinoro-Bologna del 23-24 ottobre
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42. U. Buratti, S. Caroli, E. Massagli (a cura di), Gli spazi per la valorizzazione dell’alternanza scuola-lavoro, in collaborazione con IRPET, 2015
43. U. Buratti, G. Rosolen, F. Seghezzi (a cura di), Garanzia Giovani,
un anno dopo. Analisi e proposte, 2015
44. D. Mosca, P. Tomassetti (a cura di), La trasformazione del lavoro
nei contratti aziendali, 2015
45. M. Tiraboschi, Prima lettura del decreto legislativo n. 81/2015 recante la disciplina organica dei contratti di lavoro, 2015
46. F. Carinci, C. Cester (a cura di), Il licenziamento all’indomani del
d.lgs. n. 23/2015, 2015
47. F. Nespoli, F. Seghezzi, M. Tiraboschi (a cura di), Il Jobs Act dal
progetto alla attuazione, 2015
48. F. Carinci (a cura di), Commento al d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81: le
tipologie contrattuali e lo jus variandi, 2015
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54. F. Carinci (a cura di), Jobs Act: un primo bilancio. Atti del XI Seminario di Bertinoro-Bologna del 22-23 ottobre 2015, 2016
55. G. Rosolen, F. Seghezzi (a cura di), Garanzia Giovani due anni dopo. Analisi e proposte, 2016
56. L. Casano, G. Imperatori, C. Tourres (a cura di), Loi travail: prima
analisi e lettura. Una tappa verso lo “Statuto dei lavori” di Marco Biagi?, 2016
57. G. Polillo, ROMA – reset. Una terapia contro il dissesto, 2016
58. J.L. Gil y Gil (dir.), T. Ushakova (coord.), Comercio y justicia
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59. F. Perciavalle, P. Tomassetti (a cura di), Il premio di risultato nella
contrattazione aziendale, 2016
60. M. Sacconi, E. Massagli (a cura di), Le relazioni di prossimità nel
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61.
Bollettinoadapt.it, Annuario del lavoro 2016, 2016
62. E. Dagnino, F. Nespoli, F. Seghezzi (a cura di), La nuova grande
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ricercatori ADAPT, 2017
63. G. Cazzola, D. Comegna, Legge di bilancio 2017: i provvedimenti
in materia di assistenza e previdenza, 2017
64. S. Fernández Martínez, M. Tiraboschi (a cura di), Lavoro e malattie
croniche, 2017
65. E. Prodi, F. Seghezzi, M. Tiraboschi (a cura di), Il piano Industria
4.0 un anno dopo, 2017
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ANCL Milano
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