LA MODERNITÀ LETTERARIA
collana di studi e testi
diretta da
Anna Doli, Alessandro Maxia, Nicola Merola
Angelo R. Pupino, Giovanna Rosa
[62]
Vittorini nella città politecnica
a cura di
Virna Brigatti e Silvia Cavalli
Premessa
di Alberto Cadioli e Giuseppe Lupo
Edizioni ETS
www.edizioniets.com
In copertina:
Elio Vittorini alla Darsena di Milano, 1959, foto ©Uliano Lucas, www.ulianolucas.it
© Copyright 2018
EDIZIONI ETS
Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa
[email protected]
www.edizioniets.com
Distribuzione
PDE, Via Tevere 54, I-50019 Sesto Fiorentino [Firenze]
ISBN 978-884675083-9
PREMESSA
Esiste un legame molto stretto tra Elio Vittorini e la città di Milano: nato
sul inire degli anni Trenta, si è rinsaldato nel secondo dopoguerra, nel periodo che dalle pagine di «Politecnico» (1945-47) arriva ino al «Menabò»
(1959-67), nel frangente degli intensi dibattiti politici e culturali che a Milano nascevano e si sviluppavano, tra la Casa della Cultura e le redazioni delle
case editrici con le quali lo scrittore pubblicava i propri libri, ma per le quali
soprattutto lavorava come traduttore, collaboratore, direttore di collane, ricoprendo nel tempo molteplici e sempre più incisivi ruoli.
La Milano che Vittorini vive e osserva è una città permeata di suggestioni
etiche e culturali che giungono da lontano, dal Secolo dei Lumi ino a Carlo Cattaneo, e proseguono con l’affermazione della città «capitale morale»,
sede dei quotidiani di maggiore diffusione («Corriere della Sera», prima di
ogni altro) e di un’editoria sempre più industria. È una Milano che, inoltrandosi nel XX secolo, non solo non nasconde le ambizioni di essere l’espressione del moderno, ma diventa il luogo dove si può sia inseguire il mito
del progresso tecnologico, sia analizzarne le aspettative e i limiti. E qui, del
resto, la stessa pagina stampata si presenta, prima di tutto, come sguardo
che indaga nella società e nei rapporti tra gli individui e tra questi ultimi e
processi culturali.
Vittorini è attento a tutto questo, per cui il suo legame con il capoluogo
lombardo rappresenta uno snodo cruciale nella sua vicenda di scrittore, da
un lato, e offre lo spunto per una rilessione più ampia, dall’altro, indicando
un modello di intellettuale – e la possibilità di una poetica e dunque di una
letteratura – in continuo dialogo con i codici del cinema, della fotograia,
delle arti, della sociologia, della ilosoia, della politica, del lavoro editoriale.
A partire da queste premesse, il convegno Vittorini nella città politecnica
6
VITTORINI NELLA CITTÀ POLITECNICA
(di cui qui si raccolgono i risultati) ha proposto una rilettura di quanto alla
letteratura italiana ha lasciato una delle igure più complesse e originali del
Novecento. Organizzato dal Dipartimento di Studi letterari, ilologici e linguistici dell’Università degli Studi di Milano e dal Centro di ricerca “Letteratura e cultura dell’Italia unita” dell’Università Cattolica, con il patrocinio
della MOD-Società italiana per lo studio della modernità letteraria, il convegno (che si è svolto il 19 e 20 febbraio 2016, a ridosso della data in cui ricorreva il cinquantesimo anniversario della morte di Vittorini), ha dunque
posto in risalto una igura di scrittore (e contemporaneamente un esempio
di letterato editore) che s’interroga sui fenomeni della contemporaneità, ne
indaga gli aspetti più contraddittori e, nell’attraversare la stagione in cui l’Italia transita dalla fase preindustriale a quella compiutamente industriale,
interpreta il lavoro intellettuale, letterario, editoriale in rapporto alle inquietudini e agli interrogativi che investono la nozione del moderno, davanti alla
vita di una metropoli come Milano.
Alberto Cadioli e Giuseppe Lupo
La curatela del volume è da attribuire a Virna Brigatti per le pp. 9-80 e a Silvia
Cavalli per le pp. 81-150.
STEFANO GIOVANNUZZI
VITTORINI, «IL MENABÒ» E LA NEOAVANGUARDIA
1. La ‘stroncatura’ – sempliicando – della Malora nel risvolto del “gettone” (1954) è nota; pochi anni dopo Vittorini ne recupera un frammento in
Diario in pubblico, con un titolo parlante: Scrittori dopo la guerra. (Il rischio
naturalista). Un’analoga stroncatura – questa volta di Minuetto all’inferno
di Zolla (1956) 1 – allarga il discorso al modernismo ed è l’occasione per
liquidare Thomas Mann: «Vi sono degli scrittori, e anche dei grandi scrittori, che io mi trovo assolutamente negato a gustare e persino a intendere,
a capire. Thomas Mann per esempio» (Gli scrittori come Thomas Mann) 2.
L’insofferenza nei confronti di Thomas Mann non è una novità, e non è legata ad un mutamento di prospettiva letteraria – il riiuto del neorealismo si
accompagna a quello del modernismo –; va retrodatata a un duro bilancio
sul rapporto fra letteratura e società negli anni Trenta apparso nel 1945 sul
«Politecnico»:
La cultura italiana è stata particolarmente provata nelle sue illusioni. Non vi è forse
nessuno in Italia che ignori che cosa signiichi la mortiicazione dell’impotenza o
un astratto furore. Continueremo, ciò malgrado, a seguire la strada che ancora oggi
ci indicano i Thomas Mann e i Benedetto Croce? Io mi rivolgo a tutti gli intellettuali italiani che hanno conosciuto il fascismo. Non marxisti soltanto, ma anche
agli idealisti, anche ai cattolici, anche ai mistici. Vi sono ragioni dell’idealismo o
del cattolicismo che si oppongono alla trasformazione della cultura in una cultura
Sull’accoglienza editoriale ‘controvoglia’, dal punto di vista di Vittorini, di Minuetto all’inferno, cfr. la documentazione in La storia dei «Gettoni» di Elio Vittorini, a cura di Vito Camerano,
Raffaele Crovi, Giuseppe Grasso, con la collaborazione di Augusta Tosone, introduzione e note di
Giuseppe Lupo, Torino, Aragno, 2007, III, pp. 1354-1365.
2
ELIO VITTORINI, Diario in pubblico, Milano, Bompiani, 1957, p. 419.
1
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VITTORINI NELLA CITTÀ POLITECNICA
capace di lottare contro la fame e le sofferenze3?
Nel pensiero di Vittorini letteratura e cultura rappresentano un nesso
inscindibile. Il ragionamento muove dalla guerra come veriica di un’insuficienza della cultura (e di conserva della letteratura) che prolunga i suoi
effetti, aggravandoli, nel presente; Vittorini mette in chiaro il limite di una
«funzione intellettuale» esclusiva ed elitaria, che si tiene fuori dalla storia
lasciando libertà di azione al complesso economico-industriale che nel dopoguerra esercita una vera «funzione di dominio “sull’anima” dell’uomo».
Lo scenario è italiano, ma le considerazioni hanno ovviamente una portata
più estesa. Il repertorio della vecchia cultura responsabile del più grande
fallimento storico racchiude l’intera cultura occidentale 4. Questa cultura,
la cultura umanistica, è rimasta sempre separata dalla società, incapace di
offrire risposte che non fossero consolatorie:
Per questo suo modo di consolatrice in cui si è manifestata ino ad oggi la cultura
non ha potuto impedire gli orrori del fascismo. Nessuna forza sociale era «sua» in
Italia o in Germania per impedire l’avvento al potere del fascismo, né erano «suoi»
i cannoni, gli aeroplani, i carri armati che avrebbero potuto impedire l’avventura in
Etiopia, l’intervento fascista in Spagna, l’«Anschluss» o il patto di Monaco. Ma di
chi se non di lei stessa è la colpa che le forze sociali non siano forze della cultura,
e i cannoni, gli aeroplani, i carri armati non siano «suoi»5?
Nel 1945 Vittorini si concentra sull’impotenza (ovvero l’isolamento) e
la responsabilità della cultura umanistica di fronte alla guerra. Venti anni
dopo, in un’intervista apparsa su «Paese sera», il giudizio negativo si è ulteriormente appesantito e il mancato aggancio con le «forze sociali» si è sviluppato in una diagnosi più serrata dell’intreccio fra la cultura umanistica
e la storia; l’impotenza si rivela in realtà un alibi dietro al quale si nasconde
una compromissione fra cultura umanistica e potere che mette in luce i gravi
limiti dell’altro polo della modernità, quello di una cultura scientiica a sua
volta irresponsabile e subalterna:
La vocazione degli scienziati ad abdicare mi pare certa, dal momento che essi si rimettono agli umanisti appena entra in campo un problema di valutazione morale.
Essi fanno la rivoluzione e la lasciano amministrare dagli umanisti. Ne consegue
che la cultura umanistica può tenersi separata da quella scientiica e può usare
3
ELIO VITTORINI, Una nuova cultura, in «Il Politecnico», 29 settembre 1945, 1; poi in Letteratura
arte società. Articoli e interventi 1938-1965, a cura di Raffaella Rodondi, Torino, Einaudi, 2008, p. 236.
4
Ivi, p. 234.
5
Ivi, p. 235.
VITTORINI, «IL MENABÒ» E LA NEOAVANGUARDIA
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strumentalmente le scoperte e i prodotti della scienza come mezzi che siano forniti
da una classe inferiore, subalterna. Gli scienziati hanno fatto la bomba H e l’hanno
data in mano ai generali, che sono degli umanisti6.
Nella dialettica tra le forze in campo, la cultura umanistica mantiene privilegi – le questioni etiche sono una spia evidente – che nel Novecento non
corrispondono più ad un effettivo primato. E tuttavia una cultura scientiica,
che ‘fa la rivoluzione’ ma poi arretra di fronte all’assunzione di responsabilità, di fatto lascia il potere nelle mani di una cultura umanistica in ritardo,
prigioniera di paradigmi ermeneutici sorpassati che le impediscono di avere
una visione dei processi in corso in cui scienza e tecnica costituiscono il nocciolo della modernità. Negli appunti per Le due tensioni Vittorini è convinto
che contro l’immobilismo della vecchia cultura, e i pericoli che ne derivano, la cultura scientiica è chiamata moralmente a impegnarsi per gettare le
basi di un nuovo umanesimo, espressione di una «visione» del mondo «in
divenire continuo»7, in cui la macchina viene accettata come la scommessa
che emancipa l’uomo:
1) l’uomo nasce macchina come l’animale e come la natura –
2) tende a liberarsi attraverso la macchina dei suoi compiti, delle sue attività naturali, di macchina –
l’animale resta una macchina – è inito in sé come macchina –
l’uomo tende a scaricarsi della sua animalità e meccanicità (animalità come meccanicità) passandola alla macchina1
la disumanizzazione attuale attraverso la macchina è un processo d’approccio alla
umanizzazione totale attraverso la macchina – i guai vengono dal fatto che la macchina non è ancora assoluta8.
1
Riconsiderato oggi, l’atteggiamento di Vittorini pecca di eccessivo schematismo e di una fede nella scienza perlomeno ottimistica e unilaterale:
prudentemente, lo rilevava già Leonetti nel 19629. Al crocevia tra anni Cin6
ELIO VITTORINI, L’umanesimo tradizionale deve togliersi dalla scena, in «Paese sera», 5 febbraio 1965; poi in Letteratura arte società cit., p. 1084.
7
ELIO VITTORINI, Le due tensioni. Appunti per una ideologia della letteratura, a cura di Dante
Isella, Milano, Il Saggiatore, 1967; ora con un’appendice di materiali inediti, a cura e con postfazione
di Virna Brigatti, prefazione di Cesare De Michelis, Matelica, Hacca, 2016, p. 119 (le due culture).
8
Ivi, p. 49 (macchina [macchina utensile]).
9
Lettera a Vittorini, 4 maggio 1962: «Ora, è assai facile dire che: l’errore del “Menabò 4” con
tutto il suo buono era di puntare troppo esclusivamente sull’avvenire tecnologico (piuttosto che usare
questo tema, consapevolmente, come elemento critico delle schematizzazioni culturali precedenti);
potrebbe l’errore di questo essere nel mostrare fretta culturale a concludere?» («Il menabò» di Elio
Vittorini (1959-1967), a cura e con postfazione di Silvia Cavalli, introduzione di Giuseppe Lupo, Torino, Aragno, 2016, p. 274).
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VITTORINI NELLA CITTÀ POLITECNICA
quanta e Sessanta, la sida ha però una sua ragione: Vittorini non promuove
un compromesso o una conciliazione fra le due culture che vede agire nella
storia, ma la svolta radicale di una cultura scientiica che si fa carico di fondare un nuovo umanesimo di fronte alle rovine del vecchio. La posizione
mette in evidenza il nodo di una cultura umanistica bloccata in una «scienza
vecchia»10, che tuttavia persiste per una forte spinta inerziale. L’insuficienza
degli strumenti di un umanesimo tradizionale rappresenta una linea critica nei confronti del riassestamento politico e culturale in atto nel secondo
dopoguerra all’insegna della continuità, come se fosse possibile mettere in
parentesi l’urto della tecnologia (e la catastrofe della guerra). Nello scenario
di queste trasformazioni storiche trova posto anche l’insoddisfazione verso
una letteratura, il romanzo in particolare, tentata dal ripiegamento su modelli ben collaudati, ma che a Vittorini paiono ormai del tutto scollati da una
realtà che sfugge a quegli schemi di rappresentazione. La deriva naturalista
rappresenta un equivoco e il rischio di un arretramento consolatorio e idillico, in ultimo conservatore, che di fronte alla storia e al presente si rivolge
al passato. Malgrado una realtà che sta cambiando – e il titolo dei “Gettoni” intende chiaramente spostare lo sguardo verso l’ambiente urbano –, il
pericolo che molta narrativa corre è riaffondare nel paradigma agrario del
naturalismo ottocentesco (nella versione italiana, è ovvio) senza riuscire a
vedere la novità del paesaggio industriale. Se guardiamo a dove la critica
militante punta nei primi anni Cinquanta è così: Le terre del Sacramento di
Jovine e la ripresa di Verga non sono una circostanza marginale. Verga e il
verismo tornano ad essere centrali nel dibattito e nelle polemiche; molto
più di Lukács e di un raccordo più articolato fra la letteratura e la società.
Non per nulla in dall’inizio nei risvolti dei “Gettoni” l’antinaturalismo si
presenta come la marca programmatica.
Anche nella distinzione che Vittorini fa, enunciando i criteri che orientano le scelte editoriali della collana, tra valore documentario e forza creativa, è evidente come la bilancia penda verso la spinta creativa; pur volendo
mantenere un atteggiamento equanime. Tra innocenza del testimone e vocazione a creare dello scrittore autentico non c’è veramente partita: al di là
della vocazione (che può anche essere una questione di dubbia accertabilità), lo scopo della letteratura (e della cultura) si pone oltre la registrazione
documentaria, mettendo a punto gli strumenti (e il romanzo è uno di questi) in grado di interpretare come muta l’intero sistema dei rapporti in cui
è immerso l’uomo in un’epoca dominata dalla macchina e dalla tecnologia.
Questo è l’orizzonte in cui Vittorini deinisce l’impegno della letteratura e
10
E. VITTORINI, Letteratura arte società cit., p. 1086.
VITTORINI, «IL MENABÒ» E LA NEOAVANGUARDIA
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il punto di raccordo progettuale fra letteratura e società. Un raccordo che
però nel corso degli anni Cinquanta stenta a riattivarsi, tant’è che in un’inchiesta del 1958 Vittorini dichiara:
Il limite maggiore della letteratura italiana contemporanea è una specie di complesso di inferiorità di fronte alla tradizione letteraria e culturale, per cui sembra esserle
negata la capacità di risultare storicamente puntuale. Questo può spiegare perché
essa non riesce a sfuggire ad una certa pedanteria e a un certo freddo moralismo.
Altre letterature invece – come quella francese e quella nord americana – hanno
imparato a trarre insegnamenti più dalla realtà umana che dalla tradizione culturale: dimostrando di capire l’uomo e di saperne interpretare gli interessi, i bisogni,
i problemi. Ma oggi il movimento letterario è critico dappertutto: anche per i nuovi
mezzi di espressione con i quali la letteratura si trova a competere, inendo spesso
per subirne l’inluenza11.
La tradizione letteraria garantisce un argine rassicurante contro il nuovo, che non riesce a entrare in scena; per Vittorini questo rende dificile, se
non improbabile, «essere storicamente puntuale»: il dato ricorrente nelle
scritture contemporanee è appunto una diffusa inadeguatezza. Alimentata
– aggiungiamo – da un dibattito ideologico spesso sterile. E questo mentre
Vittorini osserva – è un linguaggio che comincia a suonare famigliare – il
cambiamento in atto nel sistema della cultura e della comunicazione, in cui
sono i nuovi media a esercitare un’inluenza sulla letteratura, che la subisce in
modo passivo, più che dimostrarsi in grado di stabilire un dialogo e fronteggiare il quadro mobile e in rapida evoluzione della nascente società di massa.
La denuncia delle spinte restauratrici che vaniicano l’«eficacia artistica»
della letteratura ricompare ancora alle soglie dell’uscita del «Menabò», in
un altro intervento rimasto inedito:
4. Le roman de nos jours.
L’esperienza degli ultimi dodici-quindici anni circa non è stata dialetticamente inutile. Ma il suo bilancio in opere qualiicate non può dirsi molto positivo. Questo
perché la voga restauratoria ha contaminato (specie attraverso i ricatti culturali delle
varie ideologie politiche) il lavoro di quasi tutti gli scrittori coniguratisi dopo il ’45,
e l’ha reso più o meno equivoco, l’ha più o meno privato di rigore speciico, ne ha
più o meno ridotto l’eficacia artistica. Non siamo scesi ino alla crisi ma un arresto
di sviluppo c’è stato, ed è solo da un paio di anni circa che si tenta di rimetterci in
moto (ed è curioso notare che la giovane letteratura polacca, dal ’56 in poi sia tra i
11
ELIO VITTORINI, [Risposta a un’inchiesta jugoslava], 27 giugno 1958, in Letteratura arte società
cit., p. 822.
100
VITTORINI NELLA CITTÀ POLITECNICA
più attivi elementi di questo tentativo di ripresa)12.
La vischiosità delle forme del passato (anche recente) assume una marcata connotazione ideologica e politica: il richiamo alla «giovane letteratura
polacca, dal ’56 in poi» suona implicitamente polemico verso il conservatorismo della sinistra italiana. Vittorini si mantiene generico, ma dietro i «ricatti
culturali delle varie ideologie» c’è la limitatezza di orizzonte e il ritardo di
una vulgata marxista e gramsciana egemone, e dunque a maggior ragione
più pericolosa di altre ideologie scopertamente conservatrici: è una denuncia
che viene ripresa più volte anche all’interno del «Menabò».
La dificoltà di riallineare i mezzi espressivi della letteratura ai cambiamenti in corso rispecchia una condizione diffusa, ma è anche il frutto della
rilessione di Vittorini sullo stallo in cui versa il proprio lavoro creativo: non
a caso l’incompiutezza, o meglio l’indeterminatezza, e il continuo rilancio/
rinvio dei progetti recenti – dalle Donne di Messina alle Città del mondo –
ricorre nelle dichiarazioni e nelle interviste degli anni Cinquanta13. Non si
tratta però di uno scacco: il romanzo rappresenta una forma storicamente
determinata, non una categoria archetipica dello spirito. Nel transito fra
anni Cinquanta e Sessanta Vittorini sperimenta forme diverse dal romanzo: basti pensare alla sceneggiatura per il cinema come uno degli esiti possibili del progetto che ruota intorno alle Città del mondo. Benché rimanga
una residua attrazione ideologica che fa coincidere la letteratura con il romanzo, Vittorini costeggia ormai, più o meno consapevolmente, è dificile
dirlo, l’alveo di uno sperimentalismo che di lì a poco punta a rimettere in
discussione le forme tradizionali, facendo saltare i conini dei generi e dei
codici di rappresentazione della realtà. È un’attitudine maturata in dagli
anni Cinquanta, su cui si innestano nel decennio successivo le aperture nei
confronti della neoavanguardia.
2. Ricapitolando, le questioni sul tappeto sono due. La prima è quella più
evidente, su cui Vittorini insiste di più: nella dialettica fondamentale fra la
letteratura e la realtà, la letteratura si richiude su se stessa e sui propri protocolli (e dunque si fa sterile, decorativa), più che preoccuparsi di mantenere la presa sui fenomeni che rideiniscono il complesso sistema psicologico,
culturale e sociale in cui l’uomo si muove e agisce. Il secondo, collegato al
ELIO VITTORINI, [Quattro risposte sul romanzo], maggio-giugno 1959, in Letteratura arte società cit., p. 864.
13
Cfr., ad esempio, l’intervista «Scrivo libri ma penso ad altro», a cura di Roberto De Monticelli,
uscita sul «Giorno» il 24 febbraio 1959, ora in E. VITTORINI, Letteratura arte società cit., p. 847 e nota
13, a pp. 849-850.
12
VITTORINI, «IL MENABÒ» E LA NEOAVANGUARDIA
101
primo, è forse meno esplicito, e tuttavia lo si ricava con sufficiente chiarezza:
stanno emergendo nuovi canali e nuovi linguaggi comunicativi – in primo
luogo i nuovi media – di fronte ai quali la letteratura appare del tutto priva
di risorse, poco più di un relitto archeologico. Entrambi i versanti della rilessione si ritrovano nella premessa al primo fascicolo del «Menabò», uscito
nel giugno del 1959, ma in una prospettiva ancora più articolata e che rappresenta la migliore introduzione al pensiero dell’ultimo Vittorini sull’antropologia della modernità:
Però è crisi che procede da cause certo serie e profonde.
Tra le quali potremmo ricordare tutti i già risaputi strazi contemporanei tipo 1)
livellamento delle esperienze della cultura umanistica attraverso le manifestazioni
della cultura di massa come il cinema, la televisione, la radio, il giornalismo da rotocalco, il sanremismo, ecc. ecc.; oppure 2) accelerato «sviluppo» in senso verticale
della cultura scientiica e della tecnica, che si contrappone al primo con l’aspetto di
un processo quasi marziano pur agendo in congiuntura con esso; o ancora 3) «decadenza» dell’individuo come soggetto di autodeterminazione ideologica e insomma
come eroe (fatto storico che riguarda in particolar modo la sorte del romanzo nella
sua struttura ottocentesca ma che non ci angustia né per l’individuo né per il romanzo anche perché si manifesta ormai associato alla necessità ugualmente storica
di una rivalutazione della parte individuale come la sola possibile parte morale, e
cioè la sola che sconti in termini di coscienza ogni forma e ogni idea di vita ino a
trasformare tali forme e idee stesse in incentivi di vita ininiti)14.
È del romanzo che si parla, ovviamente, ma all’interno di una «crisi» più
generale della «cultura umanistica», che si proila come il nodo dal cui scioglimento dipendono le sorti e la funzione della letteratura. Uno scioglimento
che, per Vittorini è chiaro, comporta proprio la liquidazione della «cultura
umanistica» e delle sue forme inerti. Lo scenario è quello presente, dominato dalla cultura di massa e dai media, nuovi e meno nuovi; ma un ruolo
destabilizzante viene esercitato dallo sviluppo esponenziale «della cultura
scientiica e della tecnica», che rivela – malgrado tutto – una totale estraneità
ai protocolli di rappresentazione del mondo e all’antropologia della «cultura
umanistica». Non a caso proprio al crocevia tra processi di massiicazione
culturale e accelerazione scientiico-tecnologica si produce un terzo fenomeno: la perdita di centralità dell’individuo nel sistema sociale e di rilesso
il venir meno dei fondamenti che sorreggono l’impianto ideologico del romanzo ottocentesco costruito intorno alla igura, più o meno declassata ma
pur sempre presente anche nel Novecento, del personaggio «eroe»: non si
14
E. VITTORINI, Letteratura arte società cit., pp. 866-867.
102
VITTORINI NELLA CITTÀ POLITECNICA
può dire che il ragionamento sia del tutto trasparente, ma è chiaro come per
Vittorini la scomparsa del soggetto non costituisce una drammatica impasse;
è anzi un ulteriore colpo inferto al romanzo tradizionale, nella sua versione
modernista. Lo snodo, anche cronologico, è importante, perché da qui probabilmente scaturisce l’attenzione per una scrittura narrativa a bassa carica
di soggettività e quindi l’interesse per Robbe-Grillet.
La crescita esponenziale, si direbbe, di una cultura scientiica e tecnologica e la sua congiuntura con i nuovi media – un’evidenza per Vittorini,
benché inesplicabile: «un processo quasi marziano» – generano paradigmi
e linguaggi nuovi, in linea con le trasformazioni dello spazio di cui l’uomo
fa esperienza e che non coincidono con le retoriche elaborate dalla cultura
umanistica: una letteratura che continui meccanicamente a riprodurle è destinata all’obsolescenza. Non c’è bisogno di ricorrere a Heidegger, e ancora
prima al Nietzsche della seconda inattuale, per mettere a fuoco la profonda
crisi culturale che si apre nello scarto fra la deriva tecnologico-comunicativa
in cui si manifesta la modernità e il processo di monumentalizzazione dei
vecchi modelli, paradossale ma tranquillizzante, a cui si appiglia la letteratura. La riemersione di Verga nel secondo dopoguerra sembra corrispondere
a questa esigenza. E dunque, o si libera dalle forme ormai sclerotizzate del
passato e dialoga coi linguaggi della modernità o la letteratura diventa un
fenomeno residuale, senza più presa.
Nel primo fascicolo del «Menabò» compare anche Parlato e metafora.
Partendo da una prospettiva esclusivamente linguistica, Vittorini osserva la
ripetitività degli stereotipi – le «frasi fatte» – in cui la lingua, in primo luogo
l’oralità, tende a bloccarsi, rilettendo un’esperienza chiusa e scarsamente
adattevole del mondo:
La parola in sé, d’altra parte, raramente è «libera» nel parlato. Le varianti pur ininite delle «frasi fatte» formano una casistica minuziosa che non è proprio immobile
ma che muta con lentezza estrema e solo da ambiente ad ambiente o da generazione
a generazione. Un certo sostantivo verrà per solito fuori con tutta la famiglia della
«frase fatta» che un certo caso (pratico o polemico) richiede: insieme a un certo
aggettivo e a un certo verbo e a un certo avverbio, eccetera, eccetera; con varianti
di sfumature che sono ancora delle formule e non i prodotti di una «scelta» personale mediata o immediata15.
La lingua è indubbiamente storia come si legge ne Le due tensioni16, ma
rischia di issarsi come il «residuo di un sistema espressivo […] in cui fu
15
16
Ivi, p. 870.
Cfr. E. VITTORINI, Le due tensioni cit., p. 261.
VITTORINI, «IL MENABÒ» E LA NEOAVANGUARDIA
103
inventato, residuo depotenziato e depersonalizzato»17. Dove non c’è apertura
al nuovo. Il bersaglio è appunto la letteratura, ovvero il recupero tardivo dei
modi tardo ottocenteschi nel romanzo neorealista. Verga – «il nostro schifosissimo Verga il più reazionario fra gli scrittori moderni»18 – e i proverbi
non colgono più una modernità in cui tutte le coordinate sono in rapida
trasformazione. Vittorini demistiica l’illusione che il parlato sia una risorsa
per aderire più da vicino alla realtà: la lingua non è «“libera” nel parlato».
Ancora una volta la letteratura rispecchia una questione più impegnativa:
una lingua ridotta a formulaicità imposta entro uno schema preissato ma
obsoleto la relazione con il mondo, costituisce un corpo di metafore che non
consente di ‘appaesare’ una costellazione di valori radicalmente estranea ad
un mondo agrario e contadino. Rappresenta al contrario un orizzonte antropologico immobile: quello appunto immaginato dal «reazionario» Verga. Occorre liberare la parola dalle concrezioni della vecchia cultura – non
viene nominata, ma si comprende bene di che cosa si tratta – per restituirle
nuovamente la capacità di produrre una trama di metafore che possa restituire e interpretare l’esperienza della modernità:
Ma noi siamo piuttosto i posseduti che i possessori di un linguaggio se non raggiungiamo la possibilità di unire «liberamente» una parola a non importa quali
altre parole, e insomma di «inventare» a nostra scelta i rapporti tra le parole, pur
realizzando, si capisce, il fatto della comunicazione (e dei suoi ini). Anzi è in ragione direttamente proporzionale alla misura in cui disponiamo di una possibilità
simile che il fatto della comunicazione si produce più o meno con celerità, e più o
meno con esattezza e pertinenza19.
Ridotto a repertorio di forme stereotipe e autoreferenziali, il linguaggio
è il linguaggio del passato, perdendo così la libertà inventiva – metaforica –
che gli consentirebbe di ristabilire una connessione attiva con le trasformazioni del presente. È una lingua che non ha più lessibilità, che noi non
parliamo, ma da cui siamo parlati, per riprendere una formula di Barthes.
E tutto ciò all’interno di un quadro che per Vittorini è quello – non va dimenticato – della comunicazione e della cultura popolare di massa. Il risultato, come si legge nella premessa al «Menabò 2», del 1960, è una letteratura
nazional-popolare fortemente edulcorata:
Per via di questo «modo» (o «stile») prefabbricato e imprescindibile, esse sono cariche, esattamente come i dialetti, di signiicati morali precostituiti che premono
17
18
19
Ivi, p. 262.
Ivi, p. 103.
E. VITTORINI, Letteratura arte società cit., pp. 870-871.
104
VITTORINI NELLA CITTÀ POLITECNICA
sulle cose (via via che le cose entrano nel discorso) ino a riempirle, o ricoprirle,
della loro spiegazione. Sicché uno che abbia imparato ad usare, mettiamo, la manzoniana-crepuscolareggiante non si trova a disporre d’un mezzo con il quale può
dire tutto quello che vuole ma è semplicemente diventato portatore d’una variante
della morale manzoniana […]. E lo scrittore che imposta il suo lavoro sul piano
d’una lingua letteraria del genere può riuscire a rappresentare ex novo (a giudicare
e deinire ex novo) solo nel caso che abbia la forza di rompere le convenzioni morali annidate nel manierismo di essa20.
L’orizzonte torna a centrarsi sulla letteratura – e in modo esemplare sulla
minaccia «manzoniana-crepuscolareggiante» –, ma è evidente come nello
stesso tempo l’attenzione sia rivolta all’intero sistema della cultura. O più
esattamente, la linea della rilessione si sposta continuamente fra letteratura
e cultura: ciò che accade nella letteratura appare come la veriica delle dinamiche che modiicano e riassestano l’interfaccia cultura-società. Se la lingua
non riacquista una capacità attiva di produrre metafore e rimane incagliata
dalla vecchie, ormai fredde, non c’è possibilità di creare un discorso (non
solo letterario) che sappia riportare la letteratura nella modernità. Il limite non è più linguistico ma appunto ermeneutico e cognitivo. E dunque la
crisi è culturale prima che letteraria; e della cultura progressista, in primo
luogo: non a caso Industria e letteratura, nel numero 4 del 1961, ritorna – e
in maniera esplicita – sulla grave insuficienza che caratterizza gli strumenti
ideologici della cultura marxista; colpisce persino Gramsci: «Gramsci ch’è
Gramsci indicava nel frivolo naturalismo di Babbitt di Sinclair Lewis un
esempio di letteratura dell’industria a livello autocritico che sarebbe stato
bene seguire e sviluppare» 21. In una lettera a Vittorini, il 4 maggio 1962,
Francesco Leonetti registra puntualmente come la sida punti a scardinare
il pensiero unico della sinistra:
La decisiva risorsa della tua fase recente del «Menabò», culmine di tua ripresa di
coerenza d’invenzione culturale, è che tu, secondo nuove idee e discipline, critichi
esattamente la cultura di opposizione dominante22.
Industria e letteratura – intervento e fascicolo del «Menabò» sono un progetto interamente vittoriniano23 – non fa che riassumere l’intero quadro nella
Ivi, p. 883.
Ivi, pp. 956-957.
22
In «Il menabò» di Elio Vittorini (1959-1967) cit., p. 273.
23
Scrive Calvino a Vittorini: «Ma come sarà fatto questo numero sulla letteratura industriale?»
(29 settembre 1960, in «Il menabò» di Elio Vittorini (1959-1967) cit., p. 170). Gli risponde Crovi l’1
ottobre con una scaletta già abbastanza dettagliata (cfr. ivi, pp. 172-173). Ancora nel maggio del 1961
Calvino sembra non conoscere il titolo esatto del numero (non è forse ancora deinito?). Scrive a Davì
20
21
VITTORINI, «IL MENABÒ» E LA NEOAVANGUARDIA
105
formula della transizione da un’antropologia di matrice agraria ad una che
ha il suo centro nell’industria. Il nodo, lo si comprende bene, non investe
solo la letteratura in quanto produttrice di oggetti astratti, ma il potenziale
simbolico della lingua – letteraria o meno: il conine si assottiglia – e il ruolo
che essa ricopre nelle dinamiche della società e della comunicazione. Ancora
una volta può essere utile il ricorso a Heidegger, alla questione della tecnica,
su cui ritorna più volte nel secondo dopoguerra, e alla contrapposizione fra
«linguaggio tramandato» e «linguaggio tecnico» ripresa ancora in una conferenza del 1962, Linguaggio tramandato e linguaggio tecnico24. Il linguaggio
tecnico è per statuto altro da quello tradizionale, letterale e univoco; comporta una drastica sempliicazione della sfera simbolica originaria. La rilessione di Vittorini non si muove esattamente sullo stesso piano ‘spiritualista’,
ma l’attenzione che sviluppa per la polarità nomi/cose deinisce un territorio
limitrofo. Così si legge in Comunicazione a Formentor:
Noi rischiamo di fare del nominalismo, di obliterare le cose attraverso l’abbondanza dei nomi inadeguati e precostituiti che usiamo per indicarle. Liberté, j’ écris ton
nom, ha detto Eluard in una celebre poesia, ma non ci ha descritto nessuna libertà, egli non ha fatto che nominarla. E per sfuggire a questo rischio e ricominciare
a conoscere veramente io credo che possa essere un bene di rinunciare del tutto
a nominare, e di partirci dalle cose ino a trovare dei «nomi nuovi». È un aspetto
della nostra attività scientiica, trovare dei «nomi» in corrispondenza ai rapporti,
alle cose. Uwe Johnson non è come Robbe-Grillet uno scrittore che spinge la sua
preoccupazione ino al rigore di non usare dei nomi. Egli li usa, ne usa. Però è pieno di dubbi nell’usarli. Egli ne usa parecchi per la stessa cosa, nomina più volte
e in nomi sempre differenti la stessa cosa, fa delle congetture sulle cose. Con lui
l’antica eredità di nomi (storici, sociali, politici, psicologici, tecnici, ecc. ecc.) non è
riiutata, ma è messa nel sacco delle congetture, ciò che inisce per essere lo stesso
o quasi. In questo è la particolarità di scrittore di Uwe Johnson, particolarità di
valore conoscitivo, oggi di grande importanza25.
Tra i nomi (la dimensione simbolica della lingua del passato) di Éluard
e le cose (ovvero la tabula rasa dei nomi e del sedimento storico che li
il 15 del mese: «Perché (dato che con questo “Menabò” su “Letteratura e fabbriche” siamo scandalosamente in ritardo per colpa d’uno di Bologna che ci mena per il naso da un anno con un saggio che
deve scrivere) [Scalia], se a Vittorini piacesse si potrebbe farci entrare anche questo [I rapporti umani]
insieme al Capolavoro. E tu saresti il trionfatore di questo attesissimo “Menabò” che sarà certo molto
discusso» (ivi, pp. 184-185).
24
Cfr. M ARTIN HEIDEGGER, Linguaggio tramandato e linguaggio tecnico [1962], trad. it. a cura di
Costantino Esposito, Pisa, Edizioni ETS, 1997.
25
ELIO VITTORINI, Comunicazione a Formentor, in «Il menabò», 1962, 5; poi in Letteratura arte
società cit., p. 1009.
106
VITTORINI NELLA CITTÀ POLITECNICA
caratterizza) di Robbe-Grillet si gioca la partita della modernità in letteratura. Éluard incarna la vecchia letteratura – la letteratura fra le due guerre –
che presume di transitare nel mondo nuovo senza scosse: l’école du regard il
suo azzeramento, la discontinuità come atto necessario per essere al passo
con la storia. È all’interno di questa cornice concettuale che entrano in gioco
la neoavanguardia e, naturalmente, Robbe-Grillet, che contribuisce a fare
da tramite. Con una logica perfettamente conseguente: in Robbe-Grillet e
nella neoavanguardia Vittorini riconosce interlocutori che parlano la medesima lingua, o, con tutta la prudenza del caso, almeno una lingua molto
prossima alla sua.
3. Vittorini ha messo a fuoco un progetto di letteratura fortemente orientato
sulla modernità industriale, ma in anticipo sulla realtà concreta, tanto peggio
nel panorama italiano: se scorriamo la corrispondenza relativa al «Menabò»
è evidente come la ricerca di autori o opere all’altezza di una ‘letteratura
industriale’ si risolva quasi sempre in un nulla di fatto. Anche nei casi in cui
ci si potrebbe aspettare un giudizio positivo. L’insuficienza, clamorosa, di
Ottieri – dichiarata in Industria e letteratura – coincide del resto con una
presenza ancora in primo piano, esibita proprio per la forma diario, dell’io,
ovvero di un eroe, che per quanto indebolito continua a focalizzare il punto
di osservazione. In Sul disgelo, cinque risposte, apparso su «Questo e altro»
nel 1962, Vittorini propone, accanto alla francese e tedesca, una scena italiana in cui l’elemento oppositivo è chiaro, «la maggioranza neotradizionalista»; mentre è quantomeno precario il fronte del rinnovamento, che ruota
intorno ad alcuni nomi prevedibili riuniti sulla base di un gusto personale,
senza veramente disegnare uno scenario persuasivo:
alcuni scrittori e critici del «nuovo sguardo» francese, alcuni scrittori e critici della
nuova letteratura tedesca, e da noi, in netto antagonismo sostanziale rispetto alla
maggioranza neo-tradizionalista, C.E. Gadda, P.P. Pasolini, o certo lato ultimo di
scrittori e poeti che include il Moravia della Noia26.
L’apprezzamento per Gadda e Pasolini (soprattutto Pasolini) è un dato
ricorrente negli anni del «Menabò»27; ciò non toglie che rispetto all’obiettivo di documentare una nuova letteratura, l’elenco risulti di una notevole
genericità, riproponendo approssimativamente gli stessi nomi di Calvino nel
26
ELIO VITTORINI, Sul disgelo, cinque risposte, in «Questo e altro», 1962, I, 1; poi in Letteratura
arte società cit., p. 992.
27
Cfr. i numerosi riferimenti nelle lettere scambiate fra Vittorini e Leonetti (non a caso), ora
utilmente riunite in «Il menabò» di Elio Vittorini (1959-1967) cit.
VITTORINI, «IL MENABÒ» E LA NEOAVANGUARDIA
107
Mare dell’oggettività28. Chi sarebbero poi gli scrittori stranieri a cui si accenna in modo tanto ellittico (e perché)? Nel suo panorama europeo Vittorini
rimane abbastanza sfocato anche per la Germania – pensa a Gruppo 47 e a
Enzensberger? –; mentre, malgrado certa sommarietà – non parla di RobbeGrillet –, l’attenzione verso l’école du regard contiene un’indicazione molto
meglio circostanziata. Come del resto lo è, su un versante all’apparenza molto diverso, il quadro generale della storia letteraria del Novecento che Vittorini ritaglia a partire dalle vicende della letteratura russa post-staliniana:
Se tutti gli scrittori del disgelo parlano di Majakovskij o di Blok e magari di Esenin
non lo fanno diversamente da come i Krusceviani parlano, per la loro linea politica
e ideologica, di ritorno a Lenin: quasi solo perché è più facile rompere con la degradazione dei padri richiamandosi all’integrità dei nonni […]. I Blok, Esenin, ecc.
(Majakovskij è un po’ a sé, in effetti come una specie di pre-Brecht) non fecero che
ripetere, applicandola ai temi della rivoluzione trionfante, un’esperienza letteraria
europea che aveva già manifestato un po’ ovunque (e ovunque con lo stesso ardore
e la stessa genericità) anche l’esigenza della rivoluzione […]. E gli scrittori del disgelo, puntando da una parte sui culturalmente prerivoluzionari Majakovskij o Blok e
da un’altra su esempi lontani e pararivoluzionari (e non impegnativi) come quello
di Hemingway, mostrano esplicitamente di non volere dal passato che degli ausilii
polemici e di sapere che il loro movimento ha tante più probabilità di affermarsi,
di rendersi irreversibile, e di svilupparsi, quanto più riuscirà ad avere un senso di
nuovo passo storico e quanto meno ne avrà di passo restauratorio29.
Come in un esperimento condotto in vitro, la letteratura russa post-staliniana consente di tracciare un arco fra la contemporaneità e la letteratura
primonovecentesca, che taglia fuori tutta la produzione intermedia riallacciandosi direttamente all’esperienza del futurismo, che, con tutti i limiti,
«aveva manifestato […] anche l’esigenza della rivoluzione». L’operazione è
leggermente diversa, ma ha lo stesso effetto di quanto Vittorini scriveva sul
«Politecnico» nel 1945: tagliare fuori l’eredità del romanzo modernista – la
letteratura fra le due guerre –, disegnando, nel 1962, una larga campata per
cui l’avanguardia contemporanea si riallaccia all’avanguardia storica all’insegna dell’apertura verso la modernità.
Vittorini non è entusiasta di Robbe-Grillet: nel suo pessimismo legge un
28
Lo schema binario è lo stesso: anche per Calvino all’école du regard in Francia – ma Calvino
fa direttamente il nome di Robbe-Grillet – corrispondono in Italia Gadda e Pasolini. Manca solo Moravia (cfr. ITALO CALVINO, Il mare dell’oggettività, in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società,
Torino, Einaudi, 1980 e ora in Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 20074,
I, pp. 52-60).
29
E. VITTORINI, Sul disgelo, cinque risposte cit., p. 990.
108
VITTORINI NELLA CITTÀ POLITECNICA
difetto di progettualità30. E tuttavia è ben chiaro che cosa intende fare quando in Comunicazione a Formentor, del 1962, lo utilizza come termine di paragone per sostenere la novità della candidatura di Uwe Johnson – anche lui
del Gruppo 47. Abolendo lo sguardo uniicante del soggetto, Robbe-Grillet
abolisce i nomi (e dunque la rete simbolica cementiicata che li connota): il
risultato non è ancora un nuovo paradigma ermeneutico del mondo, ma il
grado zero delle cose. Robbe-Grillet compie l’operazione preliminare che
Vittorini stesso si preigge: libera le cose dalle «frasi fatte», dalle maglie di
una rete metaforica irrigidita, e nello stesso tempo libera la lingua, rendendola nuovamente utilizzabile per leggere la realtà contemporanea imperniata
sull’industria.
Nel 1959, all’uscita di Dans le labyrinthe, e prima ancora della traduzione
in italiano del romanzo, nel 1960, Robbe-Grillet trova sponda sul «Verri»
con un corposo intervento di Renato Barilli – ricordato anche nella corrispondenza fra Leonetti e Vittorini31 – che accompagna il saggio teorico Una
via per il romanzo futuro. Pochi numeri dopo lo stesso Barilli recensisce Dans
le labyrinthe: Barilli fa davvero da battistrada a Robbe-Grillet in Italia. Ovviamente sul «Verri», che è il terreno di cultura del nascente Gruppo 63. Nel
1963 sul «Menabò 6» esce il lungo saggio Le contestazioni di Alain RobbeGrillet, di Guido Guglielmi, un altro esponente del gruppo. In preparazione
del numero, il 13 novembre 1962 Vittorini ne scrive a Leonetti:
ho avuto da Guido Guglielmi il saggio su Robbe-Grillet che in effetti fa molto
gioco nell’argomento generale letteratura e industria (o, ormai, letteratura e realtà).
Inclino a dirgli di sì – ma desidero prima un tuo parere – sentire da te se invece
non m’inganno a vederlo di interesse esteso32.
Le contestazioni di Alain Robbe-Grillet verrà accolto perché «fa molto gioco» a «letteratura e industria», anche nel suo aggiornamento a «letteratura e
realtà»; ma all’interno di una partita politico-ideologica assai complessa, sulla
quale varrebbe la pena di insistere, di cui reca testimonianza la lettera a Calvino del 20 dicembre 1962, ancora nella fase di costruzione del «Menabò 6»:
Perché il lukaccismo non vuole che la letteratura si tiri fuori dall’ingenuità. La concepisce, bisogna dire, come dimensione ingenua dello storico-sociale, visione ingenua della storia che valga di rinfresco ristoratore nell’ardua fatica dei mutamenti
storici cui tutti siamo razionalmente impegnati. Ti ricordo, in proposito, la presunta
Cfr. E. VITTORINI, Le due tensioni cit., pp. 173-174.
Cfr. la lettera di Leonetti a Vittorini del maggio 1962, in «Il menabò» di Elio Vittorini (19591967) cit., p. 289.
32
«Il menabò» di Elio Vittorini (1959-1967) cit., p. 394.
30
31
VITTORINI, «IL MENABÒ» E LA NEOAVANGUARDIA
109
“ingenuità” epica […] che Lukács esalta, parlando dell’arte greca, come essenziale
appunto dell’arte […]. Oppure, più sintomaticamente, che razza di esempio tira in
ballo Cases nella sua introduzione a Peter Szondi in contrapposizione ai prodotti del nouveau roman: nientemeno che Les petits enfants du siècle della Rochefort;
confessando così in modo deinitivo come per un lukacciano la letteratura può
permettersi di entrare nel merito di un nuovo problema solo se lo fa trattandone
al livello ingenuo (e ben risaputo) dell’aneddoto – ciò che equivale a non entrare
nel merito affatto e ad ignorare ogni problematica anche sul piano tematico oltre
che sul formale33.
La scelta non è dunque neutra; rientra in una strategia culturale che oppone nettamente Vittorini al «lukaccismo» dell’ortodossia comunista: basta
leggere la lettera molto piccata che Giansiro Ferrata gli scrive nella primavera del 1962 34. Per Ferrata, che demolisce l’intero «Menabò 4», RobbeGrillet non è all’altezza della questione industriale posta da Vittorini: «un
buon petrarchista»35, se stiamo al confronto con la letteratura rinascimentale. Robbe-Grillet, e Guglielmi che scrive di Robbe-Grillet, rientrano a
pieno titolo nell’elaborazione ideologica di Vittorini. In altri casi, Eco per
esempio, non è esattamente così36. Robbe-Grillet e le implicazioni teoriche
del nouveau roman individuano uno dei punti di più intensa convergenza
fra Vittorini e il Gruppo 63. Una convergenza che va oltre l’école du regard
e che si traduce, concretamente, nel numero 5 (1962), e poi ancora 6 (1963)
e 8 (1965), del «Menabò» nell’inittirsi della collaborazione di esponenti del
gruppo 37, oltre che nella presenza di Vittorini ai convegni di Palermo, nel
1963, e di Reggio Emilia, nel 1964. Non si tratta di un rapporto esclusivo:
non vanno dimenticati i contatti con Pasolini e l’ambiente di «Oficina»
intorno al progetto di fusione prima e poi all’ipotesi di una rivista internazionale, «Gulliver»38. L’investimento sulla neoavanguardia testimoniato dal
Ivi, pp. 417-418.
Cfr. ivi, p. 251.
35
Ibidem.
36
In una lettera a Calvino, Vittorini rimprovera a Eco la «confusione» che accompagna nel
suo saggio (Oggettivazione e avanguardia, poi Del modo di formare come impegno sulla realtà, uscito
sul «Menabò 5») la categoria di ‘alienazione’. E aggiunge un suggerimento: «Tu ad ogni modo stai
attento, nell’eventuale aggancio che può capitarti di instaurare col saggio di Eco nel testo tuo, a non
lasciarti andare a incaute e ingenue solidarizzazioni» (lettera del 15 maggio 1962, in «Il menabò» di
Elio Vittorini (1959-1967) cit., p. 280).
37
Cfr. SILVIA CAVALLI, Postfazione, in «Il menabò» di Elio Vittorini (1959-1967) cit., p. 556.
38
Su questo cfr. la ricchissima documentazione epistolare riunita in «Il menabò» di Elio Vittorini (1959-1967) cit. Va segnalata almeno una lettera di Leonetti, perché serve a mettere a fuoco la
complessa posizione di Vittorini, aperta al dialogo con «Oficina» e il Gruppo 63: «Già il mettere a
ianco – distinti, ma non casualmente nello stesso volume – i “neoavanguardisti” era dubbio o pericoloso; ma di questo timore io mi sono tutto addolcito (in contrasto con gli altri bolognesi, per esempio,
33
34
110
VITTORINI NELLA CITTÀ POLITECNICA
«Menabò» è pero reale. In un’intervista radiofonica del 1965, apparsa sull’«Approdo letterario», Vittorini parla della «funzione contestatrice» verso
cui «dall’inizio dell’età moderna» punta la letteratura e la riconosce, rispondendo ad una domanda, anche al Gruppo 63:
Lei crede che i tentativi che stanno compiendo in Italia gli esponenti dell’avanguardia
letteraria, ad esempio quelli appartenenti al «Gruppo 63», muovano in una direzione
capace di soddisfare alle esigenze che ci ha ora indicato?
Quello che io credo al riguardo è che gli esponenti dell’avanguardia letteraria italiana, appartengano o no al «Gruppo 63», sono persone degne di rispetto. Si presume
che essi non facciano che ripetere quanto già fece in molti Paesi europei e in America l’avanguardia del primo ’900. Io ho sul loro conto un’opinione un pochino più
positiva; ma anche se fosse davvero come si dice il loro lavoro varrebbe in ogni caso
a testimoniare l’irreversibilità di fondo dell’operazione compiuta dall’avanguardia
di cinquant’anni or sono. E ciò è di per sé molto importante in una letteratura che
ha girato al largo dai problemi posti con quell’esperienza e che ancora evita nel suo
grosso di prenderne coscienza e di affrontarli39.
I conti dunque tornano: riallacciarsi all’avanguardia storica non è un disvalore e non si risolve in una forma di epigonismo, nel «ripetere» in ritardo le novità di primo Novecento. Nella lettura di Vittorini la ricerca della
neoavanguardia risponde all’esigenza di scavalcare a ritroso il modernismo
per riagganciarsi alle sperimentazioni futuriste di primo Novecento, ripartendo esattamente dal punto in cui la disgregazione dei codici tradizionali
sembra per la prima volta liberare la lingua dal suo guscio autoreferenziale
e retorico per affrontare la modernità industriale. Il problema non è salvare
il romanzo, «che è solo una struttura storica», ma «salvare la letteratura in
sé, […] ridarle una funzione che le consenta di essere ancora operativa»40. La
battaglia contro ciò che resta della «cultura umanista» è dunque il terreno
effettivo d’incontro con il Gruppo 63: una lettura corretta, ma che rischia
di essere riduttiva collocandosi esclusivamente sul versante della decostruzione del passato. Gli obiettivi generali non sono forse esattamente gli stessi,
e tuttavia, a ben vedere, il primato assegnato da Vittorini alla cultura scientiica non è così lontano dall’interesse attivo per la tecnologia e gli innesti
fra tecnologia e arte che ioriscono fra le varie anime dell’avanguardia. Nel
suo milieu culturale la modernità tecnologica non viene demonizzata, anzi:
Pignotti parla di arte tecnologica. C’è un esteso versante di sperimentazione
che sospettavano molto la cosa) per le tue idee esatte in se stesse » (lettera di Leonetti a Vittorini, 4
maggio 1962, in «Il menabò» di Elio Vittorini (1959-1967) cit., pp. 273-274).
39
ELIO VITTORINI, [Intervista radiofonica], in Letteratura arte società cit., p. 1093.
40
Ibidem.
VITTORINI, «IL MENABÒ» E LA NEOAVANGUARDIA
111
artistica con le nuove tecnologie che trova spazio in «marcatré» e «Malebolge». Ma c’è un’altra convinzione di fondo – e qui i conti si saldano ancor
meglio – che non rappresenta una coincidenza casuale: in un mondo dominato dalla comunicazione per Vittorini come per il Gruppo 63 la partita
passa interamente attraverso la lingua e la demistiicazione delle operazioni
illecite che sul linguaggio e col linguaggio continuano ad essere compiute.
INDICE DEI NOMI
Aalto, Alvar, 39
Aldovrandi, Renata, 13, 13n, 14, 14n
Algren, Nelson, 25, 75
Alicata, Mario, 12, 18, 60
Anceschi, Luciano, 38n, 72n
Antelme, Robert, 25, 75
Anzoino, Tommaso, 70n
Aragon, Louis, 36, 37n, 75
Argan, Carlo Giulio, 39
Asor Rosa, Alberto, 37n, 59n
Aveto, Andrea, 25n
Bacall, Lauren, 34
Bachelard, Gaston, 26
Balbo, Felice, 15, 16, 16n, 17, 18, 18n
Balestrini, Nanni, 90
Bani, Antonio, 10, 14
Bani, Daria, 10
Barberis, Alfredo, 74n
Bardi, Pier Maria, 38
Barenghi, Mario, 107n
Barilli, Renato, 108
Barthes, Roland, 28, 29n, 74, 103
Bassani, Giorgio, 89
Battistini, Andrea, 117n
Bersani, Mauro, 76n
Bigongiari, Piero, 10n
Bilenchi, Romano, 10n, 22
Biondi, Marino, 37n
Blanchot, Maurice, 74, 75, 75n
Blok, Alexander, 107
Bogart, Humphrey, 34
Bollati, Giulio, 24n, 28n
Bompiani, Valentino, 54, 55, 57n
Bongarzoni, Oretta, 41n
Bontempelli, Massimo, 38
Borges, Jorge Luis, 25
Borrelli, Claudia, 69n
Brecht, Bertold, 35, 107
Brigatti, Virna, 6n, 49, 59n, 62n, 67n, 69n,
92n, 97n, 113n
Bruegel, Pieter (il vecchio) 44n
Burnard, Lou, 129n
Cadioli, Alberto, 6, 49n
Caine, Hall, 22n
Caldwell, Erskine, 22, 23
Calvino, Italo, 17n, 45, 45n, 67, 67n, 68,
68n, 69, 69n, 70n, 71, 72, 72n, 73, 73n,
74n, 75, 76n, 77, 78, 78n, 79, 80, 85,
86, 87, 88, 90, 93n, 104n, 106, 107n,
109n, 113, 113n, 114, 114n, 115, 115n,
118
Cambria, Adele, 28n
Camerano, Vito, 19n, 69n, 70n, 93n, 95n
Candela, Elena, 69n
152
VITTORINI NELLA CITTÀ POLITECNICA
Cantoni, Remo, 10n
Caproni, Giorgio, 42
Carena, Carlo, 32n
Carné, Marcel, 36
Cassola, Carlo, 10n, 89
Cattaneo, Carlo, 5, 9, 10, 71, 73, 73n, 82
Cavalli, Silvia, 67, 67n, 68n, 70n, 93, 97n,
109n, 122n
Cerati, Roberto, 76n, 78n, 90
Ceresa, Alice, 77, 77n, 78
Cervellati, Pier Luigi, 39, 39n
Cesari, Severino, 18, 18n
Cézanne, Paul, 92
Churchill, Winston, 26
Cicala, Roberto, 32n
Cintioli, Giuseppe, 69, 69n, 70n
Ciotti, Fabio, 129n
Comisso, Giovanni, 125
Contini, Gianfranco, 128, 128n, 149n
Contorbia, Franco, 25n
Cortellessa, Andrea, 71n
Corti, Maria, 19n, 50n, 51n, 80n, 117,
117n, 128n, 130
Croce, Benedetto, 95
Crocenzi, Luigi, 41, 42, 57n, 120, 120n
Crovi, Raffaele, 23n, 68, 68n, 69, 69n, 70n,
71n, 74n, 75n, 76n, 77n, 78n, 80n, 86,
93, 95n, 104n, 123
Curiel, Eugenio, 10, 11, 12, 14
D’Arrigo, Stefano, 70, 70n, 74n
D’Ina, Gabriella, 57n, 80n
Danesi, Silvia, 38
Davì, Luigi, 69, 70, 70n, 104n
Davico Bonino, Guido, 77, 77n, 78, 78n,
79n
De Gaulle, Charles, 36
De Grada, Raffaele, 10, 10n
De Micheli, Mario, 10
De Michelis, Cesare, 61n, 67n, 68n, 80n,
81, 92, 97n, 113n
De Monticelli, Roberto, 100n
De Seta, Cesare, 32n, 38n
Defoe, Daniel, 22, 22n
Del Bo, Giuseppe, 10n
Depaoli, Massimo, 75n
Des Forêts, Louis-René, 74
Dewey, John, 26, 27n
Di Jacovo, Luigi, 70n
Di Marco, Roberto, 77, 77n
Doli, Anna, 117n
Donini, Ambrogio, 17
Duras, Marguerite, 25, 25n
Duvivier, Julien, 36
Eco, Umberto, 69, 70, 70n, 71, 109, 109n
Einaudi, Giulio, 12, 13, 13n, 14, 14n, 15,
16, 16n, 17, 17n, 18, 18n, 58, 76n, 78n,
86
Éluard, Paul, 105, 106
Enzensberger, Hans Magnus, 74, 107
Esenin, Sergej, 107
Esposito, Edoardo, 19, 57n, 79n, 119,
119n, 120n,
Esposito, Costantino, 105n
Fenoglio, Beppe, 95
Ferrata, Giansiro, 10n, 13, 14, 16, 22, 36,
51n, 52n, 53n, 109
Ferretti, Gian Carlo, 22, 23n, 25n, 26n,
28n, 49, 49n, 50n, 52n, 53, 54n, 55n,
56n, 60n, 71, 71n, 72n, 76n, 77n
Fiaccarini Marchi, Donatella, 93
Fiorentino, Mario, 39
Foi, Goffredo, 37n
Fortini, Franco, 10, 10n, 14, 15, 43, 70,
71n, 72
Fossati, Paolo, 15n
Franco, Ernesto, 77n
Fromm, Erich, 26
Fruttero, Carlo, 69n
Gadda, Carlo Emilio, 10n, 22, 24, 106,
107n
Gascar, Pierre, 25
Gatto, Alfonso, 10n
INDICE DEI NOMI
Geymonat, Ludovico, 17
Giovannuzzi, Stefano, 72n, 95
Gioviale, Fernando, 114n
Giudici, Giovanni, 70n
Giunti, Vittoria, 10n
Giusa, Antonio, 120n
Gramsci, Antonio, 104
Grass, Günter, 74
Grasso, Giuseppe, 69, 69n, 70n, 93, 95n
Grisi, Cesare, 117n
Gropius, Ise, 27
Gropius, Walter, 26, 27, 27n
Grosz, George, 35
Guarnieri, Silvio, 22, 24, 51n, 52, 57n
Guarracino, Vincenzo, 70n
Guglielmi, Angelo, 70, 71
Guglielmi, Guido, 70, 108, 109
Guttuso, Renato, 10, 84
Heidegger, Martin, 102, 105, 105n
Hemingway, Ernest, 11, 11n, 34, 35, 53n,
107
Huber, Max, 14, 14n
Isella, Dante, 61n, 67, 67n, 92n, 97n
Jaspers, Karl, 26
Johnson, Uwe, 74, 105, 108
Jovine, Francesco, 98
La Mendola, Velania, 32n
Lattuada, Antonio, 10n
Lenin, Nikolaj, 107
Lenzini, Luca, 72n
Leonetti, Francesco, 69, 69n, 70, 70n,
71, 71n, 72, 74, 75, 75n, 79n, 97, 104,
106n, 108, 108n, 109n, 110n
Lewis, Sinclair, 104
Leydi, Roberto, 14n
Liban, Laurence, 122
Longanesi, Leo, 34
Longo, Luciano, 127
Löwith, Karl, 26
153
Lukács, György, 26, 43, 98, 109
Lunardi, Raul, 70, 70n, 124
Lupo, Giuseppe, 57n, 65n, 67n, 68n, 70n,
73n, 80n, 93, 95n, 97n, 120n, 122n,
127, 127n
Majakovskij, Vladimir, 107
Manacorda, Gastone, 17
Manganelli, Giorgio, 77, 77n, 78, 78n, 79n
Mangoni, Luisa, 24n
Mann, Klaus, 44
Mann, Thomas, 95
Mansield, Katherine, 50n, 123
Mariani, Maria Anna, 117n
Martini, Carlo Maria, 39, 39n
Mascolo, Dionys, 25, 26, 74
Mastronardi, Lucio, 69, 69n, 70n, 73
McNeice, Louis, 33n
Mila, Massimo, 17, 17n
Minoia, Carlo, 11n, 20n, 23n, 25n, 51n,
53n, 68n, 120n
Modiano, Patrick, 122, 122n
Mondadori, Arnoldo, 54
Montale, Eugenio, 22, 24, 25, 25n
Montesano, Giuseppe, 73n
Moravia, Alberto, 106
Morris, Wright, 25, 75
Mounin, Georges, 25
Munari, Tommaso, 77n
Nabokov, Vladimir, 122
Nadeau, Maurice, 25
Nesi, Cristina, 73n
Niedieck, Gerda, 87
Nietzsche, Friedrich, 102
Nigro, Salvatore Silvano, 77n, 78, 78n
Ottieri, Maria Pace, 73n
Ottieri, Ottiero, 73, 73n, 106
Paci, Enzo, 38n
Pagano, Giuseppe, 32n, 38
Pagliarani, Elio, 70, 71, 71n, 73
154
VITTORINI NELLA CITTÀ POLITECNICA
Pajetta, Gian Carlo, 10
Palladino, Giuliano, 69, 69n, 70, 70n
Palma, Loredana, 72n
Panicali, Anna, 37n, 70n, 71n, 75n, 93, 119
Pasolini, Pier Paolo, 42, 42n, 72, 106, 107n,
109
Paterlini, Riccardo, 120n
Patetta, Luciano, 38
Pavese, Cesare, 12, 16, 16n, 17, 17n, 24,
59n
Pedio, Renato, 78
Penna, Sandro, 24
Perrone, Domenica, 127, 127n, 128, 128n,
130n, 145, 145n
Persico, Edoardo, 38
Piceni, Enrico, 54n
Pignotti, Lamberto, 70, 110
Pintor, Giaime, 12, 12n, 18
Ponti, Gio, 38
Pratolini, Vasco, 22
Proust, Marcel, 54n, 123
Pupino, Angelo R., 69
Quasimodo, Rosa, 20, 21, 22, 52, 52n,
53n, 55n
Quasimodo, Salvatore, 24
Questi, Giulio, 72n, 76n
Raboni, Giovanni, 71n
Rago, Michele, 70
Rappazzo, Felice, 37n
Rella, Angelo, 68n
Renoir, Jean, 36
Rizzarelli, Maria, 113, 120n
Robbe-Grillet, Alain, 102, 105, 106, 107,
107n, 108, 109
Rochefort, Christiane, 109
Rodocanachi, Lucia, 20, 21, 22, 25n
Rodondi, Raffaella, 23n, 26n, 50n, 51n,
55n, 58n, 59n, 63n, 64n, 65n, 69n,
80n, 96n, 115n, 117n, 118, 119n,
121n, 123n, 131, 131n, 136, 137, 139,
140, 142n
Rolland, Romain, 31n
Rosai, Ottone, 22
Rossanda, Rossana, 72n
Rosso, Francesco, 130
Roversi, Roberto, 71n, 72
Rusca, Luigi, 20, 21, 52, 52n, 54n
Sacchettini, Rodolfo, 117n
Salinari, Carlo, 17
Sanguineti, Edoardo, 77, 78
Saroyan, William, 22, 23
Savio, Davide, 57n
Scabia, Giuliano, 77
Scalia, Gianni, 105n
Scheiwiller, Vanni, 45n
Sechi, Mario, 31, 38n, 42n
Segre, Cesare, 37n
Sereni, Vittorio, 24
Sinisgalli, Leonardo, 41, 41n
Solmi, Sergio, 24
Spender, Stephen, 44
Sperberg-McQueen, C.M., 129n
Spinazzola, Vittorio, 38n
Stancanelli, Annalisa, 32n
Steiner, Albe, 14, 15, 15n, 32, 67, 67n, 68n,
120, 120n
Succi, Paolo, 40
Sullam, Sara, 21n
Szondi, Péter, 109
Tassi, Ivan, 117n
Temperini, Marta, 75n
Tesio, Giovanni, 68n
Testa, Gaetano, 78
Thibaudet, Albert, 26
Thomas, Dylan, 25
Togliatti, Palmiro, 18, 32, 60, 82
Tosone, Augusta, 70n, 93, 95n
Treccani, Ernesto, 10, 10n, 13
Trevelyan, George Macaulay, 26
Turi, Gabriele, 13n
Turi, Nicola, 117n
INDICE DEI NOMI
Varisco, Ginetta, 21, 53n, 115n
Vassalli, Sebastiano, 77, 79n
Verga, Giovanni, 98, 102, 103
Vigoni, Carlo, 64n
Vigorelli, Ezio, 10n
Vittorini, Giusto, 86
Vittucci, Fabio, 92, 114, 114n, 119, 119n,
120
Volponi, Paolo, 37, 37n, 42n, 71, 71n, 72
Walser, Martin, 74
Wilder, Thornton, 22, 23
Wilson, Edmund, 26
Wright, Frank Lloyd, 39
Zaccaria, Giuseppe, 57n, 80n
Zanantoni, Marzio, 68n
Zancan, Marina, 9, 10n, 58n, 60n, 68n
Zavattini, Cesare, 24
Zevi, Bruno, 32n, 38n
Zinato, Emanuele, 37n, 71n, 72n
Zolla, Elémire, 95
Zveteremich, Pietro, 13, 17
155
INDICE
Premessa di Alberto Cadioli e Giuseppe Lupo
5
Marina Zancan
«Il Politecnico»: progetti per una nuova cultura
9
Edoardo Esposito
Milano, città del mondo
19
Mario Sechi
Forme e igure di città negli anni del «Politecnico»
31
Virna Brigatti
La funzione Milano nella “poetica editoriale” di Elio Vittorini
49
Silvia Cavalli
L’oficina del «Menabò»
67
Cesare De Michelis
L’ostinata modernità di Vittorini
81
Stefano Giovannuzzi
Vittorini, «Il menabò» e la neoavanguardia
95
158
VITTORINI NELLA CITTÀ POLITECNICA
Maria Rizzarelli
«Qualcosa che somiglia al latte e al miele»:
le ragioni di un’autobiograia in pubblico
113
Luciano Longo
Molteplicità testuale e movimenti compositivi nel «ms. di Populonia»:
ipotesi di un lavoro digitale
127
Indice dei nomi
151
L’elenco completo delle pubblicazioni
è consultabile sul sito
www.edizioniets.com
alla pagina
http://www.edizioniets.com/view-Collana.asp?Col=MOD%20La%20modernita%27%20letteraria
Pubblicazioni recenti
62. VIRNA BRIGATTI, SILVIA CAVALLI [a cura di], Vittorini nella città politecnica. Premessa di Alberto
Cadioli e Giuseppe Lupo, 2017, pp. 164.
61. VITTORIO SPINAZZOLA, Il romanzo d’amore, 2017, pp. 108.
60. FRANCESCA RIVA [a cura di], Insegnare letteratura nell’era digitale, 2017, pp. 164.
59. FRANCESCO VENTURI, Genesi e storia della «trilogia» di Andrea Zanzotto, 2016, pp. 276.
58. FRANCESCO SIELO, Montale anglista. Il critico, il traduttore e la «fine del mondo», 2016, pp. 200.
57. SIRIANA SGAVICCHIA, MASSIMILIANO TORTORA [a cura di], Geografie della modernità letteraria,
2016, 2 tomi: tomo I, pp. 660 - tomo II, pp. 732.
56. ALDO MARIA MORACE, ALESSIO GIANNANTI [a cura di], La letteratura della letteratura, 2016, 2
tomi: tomo I, pp. 644 - tomo II, pp. 620.
55. FRANCESCO LUCIOLI [a cura di], Giulio Piccini (Jarro) tra Risorgimento e Grande Guerra (18491915), 2016, pp. 272.
54. PAOLO MARTINO, CATERINA VERBARO [a cura di], Pasolini e le periferie del mondo, 2016, pp. 184.
53. VIRGINIA DI MARTINO, Tra cielo e inferno. Arrigo Boito e il mito di Faust, 2016, pp. 144.
52. PATRIZIA BERTINI MALGARINI, NICOLA MEROLA, CATERINA VERBARO [a cura di], La funzione Dante
e i paradigmi della modernità, 2015, pp. 920.
51. ANTONIO LUCIO GIANNONE [a cura di], Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, 2015, pp. 204.
50. DAVIDE SAVIO, La carta del Mondo. Italo Calvino nel Castello dei destini incrociati, 2015,
pp. 288.
49. LAURA CANNAVACCIUOLO, Salvatore Di Giacomo. La letteratura e le arti, 2015, pp. 358.
48. MARINA PAINO, Il moto immobile. Nostoi, sonni e sogni nella letteratura siciliana del ’900, 2014,
pp. 248.
47. ANTONIO SICHERA, MARINA PAINO [a cura di], «La fedeltà che non muta». Studi per Giuseppe Savoca. Con una biobibliografia di Giuseppe Savoca a cura di Antonio Di Silvestro, 2014, pp. 152.
46. GIUSEPPE LANGELLA [a cura di], La didattica della letteratura nella scuola delle competenze,
2014, pp. 240.
45. MARINA PAINO, DARIO TOMASELLO [a cura di], Sublime e antisublime mella modernità. Con la
collaborazione di Emanuele Broccio e Katia Trifirò, 2014, pp. 928.
44. TERESA SPIGNOLI, Giuseppe Ungaretti. Poesia, musica, pittura, 2014, pp. 308.
Edizioni ETS
Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa
[email protected] - www.edizioniets.com
Finito di stampare nel mese di gennaio 2018