Impresa
Sociale
Comitato editoriale
Felice Scalvini
Michele Andreaus, Gregorio Arena, Gianpaolo
Barbeta, Andrea Bassi, Marco Bombardelli,
Luigino Bruni, Fabrizio Cafaggi, Maurizio
Carpita, Ivo Colozzi, Pierpaolo Donati, Giulio
Ecchia, Antonio Fici, Gianluca Fiorentini,
Giorgio Fiorentini, Gianna Giannelli,
Danilo Galleti, Giorgio Giorgeti, Andrea
Giovanardi, Benedeto Gui, Mauro Magati,
Domenico Marino, Antonio Matacena, Marco
Musella, Luca Nogler, Giorgio Osti, Fabrizio
Panozzo, Salvo Petinato, Giancarlo Provasi,
Giovanna Rossi, Lorenzo Sacconi, Marina
Schenkel, Luca Solari, Claudio Travaglini,
Stefano Zamagni.
Direzione scientifica
Comitato di redazione
Istituto Studi Sviluppo Aziende Nonprofit
Via Inama, 5 - 38100 Trento
e-mail:
[email protected]
Tel. 0461.88.22.89 Fax 0461.88.22.94
Direttore responsabile
Carlo Borzaga, Luca Fazzi
Sara Depedri, Ermanno Tortia, Flaviano Zandonai.
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IMPRESA SOCIALE
luglio ~ settembre 2009
Sommario
GLI AUTORI
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EDITORIALE
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Carlo Borzaga
INTRODUZIONE
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Luigino Bruni, Luca Crivelli
L’ECONOMIA DI COMUNIONE: SFIDE E PROSPETTIVE
Le imprese di Economia di Comunione sono anch’esse imprese sociali?
Luca Crivelli, Benedeto Gui
L’Economia di Comunione e l’America Latina. Via alternative di sviluppo
Cristina Calvo
I limiti del neo-contratualismo e la giustizia globale
Vitorio Pelligra
Sull’arte di gestire le crisi nelle organizzazioni a movente ideale
Luigino Bruni, Alessandra Smerilli
Responsabile recensioni
(cui inviare i volumi da recensire)
Marco Musella
Università degli Studi di Napoli Dip.to Teoria Economica
Via Rodinò, 22 - 80100 Napoli
Proprietà
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di Solidarietà Sociale Gino Matarelli
Soc. Coop. a r.l.
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Redazione
Federica Silvestri - ISSAN
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Grafica e fotocomposizione
èdiZac grafica (Tn) -
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Stampa
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Diffusione nazionale
Cadenza trimestrale
Registrazione
Tribunale di Trento n. 1257 del 15/07/05
SOMMARIO
Percorsi di cultura e strutura organizzativa nelle imprese di Economia di Comunione
Giampietro Parolin, Elisa Golin
Economia di Comunione e management: un modello
di letura
Giuseppe Argiolas
Economia di Comunione, microfinanza e impresa
sociale: l’esperienza della Bangko Kabayan, Inc. Una
banca rurale filippina
Teresa Ganzon
Il Polo Lionello come distreto dell’economia civile?
Nicolò Bellanca, Renato Libanora, Enrico Testi
L’imprenditore di Economia di Comunione. Alcune
piste di riflessione sull’identità del principale (sebbene non unico) atore di Economia di Comunione
Luigino Bruni
IL FORUM
167
????
Intervista a:
L’IMPRESA SOCIALE IN ITALIA
185
L’innovazione delle imprese sociali nelle regioni meridionali: il caso delle cooperative sociali di “Libera
Abbonamenti:
sostenitore 70 euro
ordinario 45 euro
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L’impegno di abbonamento è continuativo,
salvo regolare disdeta da notificarsi entro il
31 dicembre.
Ci si abbona tuto l’anno.
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che escono nel corso dell’anno.
Ufficio Abbonamenti
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IMPRESA SOCIALE
luglio ~ settembre 2009
Terra”
Daniela Farina, Luca Fazzi
RECENSIONI, SEGNALAZIONI E DOCUMENTI
Recensioni
233
English abstract
235
Referenti regionali
Franco Alleruzzo (Regione Marche);
Andrea Bernardoni (Regione Umbria);
Angelo Bodra (Regione Liguria); Gabriella Bon (Regione Friuli Venezia Giulia); Simone Brunello (Regione Veneto);
Luciano D’Angelo (Regione Sicilia);
Teodora Di Santo (Regione Abruzzo);
Davide Drei (Regione Emilia Romagna);
Paolo Ferraro (Regione Calabria); Anna
Ferretti (Regione Toscana); Michele Fininzio (Regione Basilicata), Guido Geninatti (Regione Piemonte); Massimo Giugler (Regione Valle d’Aosta); Giuseppe
Guerini (Regione Lombardia); Michele
Odorizzi (Provincia di Trento); Klaudia
Resch (Provincia di Bolzano); Ruggero Signoretti (Regione Lazio); Giacomo
Smarrazzo (Regione Campania); Gavino
Soggia (Regione Sardegna); Gianfranco
Visicchio (Regione Puglia).
GLI AUTORI
Gli autori
GIUSEPPE ARGIOLAS
Ricercatore di Economia e gestione delle imprese presso la Facoltà di Economia dell’Università degli Studi di Cagliari
NICOLÒ BELLANCA
Professore associato di Economia presso la Facoltà di Economia dell’Università degli Studi di Firenze
LUIGINO BRUNI
Professore associato presso la Facoltà di Economia dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca
CRISTINA CALVO
Docente presso la Catedra “Amartya Sen” della Facoltà di
Scienze economiche dell’Università di Buenos Aires
LUCA CRIVELLI
Professore aggregato di Economia politica presso la Facoltà di
Scienze economiche dell’Università della Svizzera Italiana
DANIELA FARINA
Laureata in Economia e Commercio presso l’Università degli
Studi di Trento
LUCA FAZZI
Professore associato di Sociologia generale presso la Facoltà di
Economia dell’Università degli Studi di Trento
TERESA GANZON
Managing Director di Bangko Kabayan, banca rurale e istituto
di microfinanza ativa nelle Filippine
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IMPRESA SOCIALE
luglio ~ settembre 2009
ELISA GOLIN
Pedagogista, si occupa di formazione e organizzazione del
personale
BENEDETTO GUI
Professore ordinario di Economia politica presso la Facoltà di
Economia dell’Università degli Studi di Padova
RENATO LIBANORA
Docente a contrato di Antropologia dello sviluppo presso la
Facoltà di Economia dell’Università degli Studi di Firenze
GIAMPIETRO PAROLIN
Manager finanziario in azienda di servizi e docente di Bilancio sociale presso la Facoltà di Economia dell’Università degli
Studi di Milano-Bicocca
VITTORIO PELLIGRA
Ricercatore presso la Facoltà di Economia dell’Università degli Studi di Cagliari e presso il Centro Ricerche Economiche
Nord-Sud (CRENoS)
ALESSANDRA SMERILLI
Docente aggiunto presso la Pontificia Facoltà di Scienze
dell’educazione “Auxilium”
ENRICO TESTI
Borsista in Economia dello sviluppo presso il P.I.N. di Prato
dell’Università degli Studi di Firenze
Partecipanti al Forum
EDITORIALE
Carlo Borzaga
Editoriale
Il conceto di impresa sociale è oggi oggeto di un’ampia e articolata
discussione sia scientifica che politica. Diversamente da quella americana, nella tradizione europea, con il termine “impresa sociale” si
fa riferimento ad una tipologia specifica di impresa caraterizzata dal
perseguimento di obietivi di caratere sociale e da vincoli normativi alla distribuzione degli utili. Questo conceto d’impresa sociale
a ben vedere non è esaustivo di una serie di iniziative e progeti di
impresa che, pur non essendo condizionati da un limite legislativo
nella distribuzione degli utili, decidono volontariamente di destinare parte degli stessi al conseguimento di atività sociali.
Tra le diverse iniziative di impresa sociale non vincolate per legge
all’uso sociale degli utili può essere annoverata l’esperienza dell’economia di comunione.
L’economia di comunione è un progeto imprenditoriale che nasce su
stimolo di Chiara Lubich nel 1991 all’interno del Movimento catolico dei Focolari e che gode atualmente di una crescente popolarità
a livello sia nazionale che internazionale. Le imprese che volontariamente aderiscono al progeto di economia di comunione si impegnano a metere in comunione i profiti secondo tre obietivi: i) fornire
aiuto ai poveri e alle persone svantaggiate, creando nuovi posti di
lavoro e rispondendo ai bisogni di prima necessità, dando vita a dei
progeti di sviluppo specifici; ii) diffondere la cultura evangelica della reciprocità e iii) sviluppare l’impresa, che deve restare e ciente e
competitiva pur contaminandosi con i principi di gratuità.
Nonostante si trati di un movimento ancora limitato per numeri e fatturato, l’economia di comunione solleva per il dibatito sull’impresa
sociale interrogativi dirimenti e non è un caso che in riferimento
all’esperienza dell’economia di comunione abbiano preso corpo riflessioni importanti come quelle che stanno alla base del dibatito
sull’economia civile in Italia. Quello che il progeto imprenditoriale di
economia di comunione mete in discussione è la convinzione radica-
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IMPRESA SOCIALE
luglio ~ settembre 2009
ta secondo cui il mercato non può essere il luogo dove si manifestano
comportamenti altruistici i quali sono confinati al mondo del nonprofit. La diffusione di forme di impresa che liberamente destinano parte
del proprio profito a scopi sociali dimostra invece come un comportamento etico basato sul principio di reciprocità, in realtà, non sia monopolio di chi è finito per legge a rispetare particolari vincoli.
L’economia di comunione evidenzia piutosto come l’essere impresa sociale sia e rimanga un problema e una sfida di coniugazione dei principi
di e cienza ed economicità con i valori di solidarietà e reciprocità.
Questo numero della Rivista interamente dedicato al tema
dell’economia di comunione si propone di fornire un importante stimolo di riflessione su quali sono i confini entro i quali si può parlare
legitimamente di impresa sociale evidenziando al contempo come il
fare impresa sociale sia anche una sfida di contaminazione del mondo del nonprofit con quello dei mercati. Indipendentemente dalla
valutazione personale che ciascun letore può dare rispeto ai valori
di fondo che muovono il movimento, l’esperienza dell’economia di
comunione ripropone con forza il tema della pluralità dei modi attraverso i quali l’economia può essere utilizzata per la condivisione
della ricchezza e la lota alla povertà e all’esclusione sociale indicando indiretamente anche possibilità di collaborazione in larga parte
inedite tra il mondo delle imprese e quello del nonprofit.
Coordinatori di tale sforzo analitico e di riflessione sono stati Luigino Bruni e Luca Crivelli, due tra i più importanti teorici e studiosi
di economia di comunione a livello internazionale. Il loro impegno
intelletuale e professionale ha consentito di raccogliere un numero
di saggi che per qualità e contenuti offre uno spaccato estremamente
approfondito e articolato dell’atuale esperienza di economia di comunione in Italia e nel mondo.
Per tuti coloro che credono che nella società umana “nessuno debba essere indigente”, l’auspicio è che la letura di questi saggi motivi ad una riflessione scevra da pregiudizi ideologici e capace di
andare al fondo della questione centrale dell’esistenza e del futuro
dell’impresa sociale: l’esigenza di contribuire a costruire un mondo
meno diseguale e meno conflituale di quello che un’economia senza
solidarietà è destinata inevitabilmente a riprodurre.
La dedica di questo numero della Rivista in parte unico nella storia
di Impresa Sociale, è a Chiara Lubich: una persona che ha dedicato la
vita per costruire una società più umana. L’augurio è che anche lo
scopo delle imprese sociali continui ad essere a lungo questo.
Luca Fazzi
INTRODUZIONE
Luigino Bruni, Luca Crivelli
Introduzione
Luigino Bruni, Luca Crivelli
1. Uno dei messaggi più forti e chiari che provengono da questi tempi di crisi è l’insu cienza, economica ed etica, di un capitalismo fondato sui soli interessi e sulle “passioni tristi”. L’economia di mercato,
per poter continuare a portare fruti di civiltà, ha bisogno di un supplemento di umanità, di una rifondazione antropologica e morale
che la faccia evolvere in qualcos’altro, in un sistema economico più a
misura di persona, senza dover rinunciare ai valori e alle conquiste
che il mercato ha portato e porta sul terreno della libertà individuale
e su quello dell’eguaglianza.
Questo numero è dedicato all’esperienza dell’Economia di Comunione (EdC), che i letori avranno modo di conoscere soto le sue varie vesti, di progeto di imprenditorialità sociale in cui sono coinvolte circa 750 imprese, ma anche di proposta più articolata e universale
di un agire economico solidale e relazionale.
Il progeto concreto ha avuto la sua scintilla ispiratrice in Brasile nel
maggio del 1991, in occasione di un viaggio di Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari, alla comunità di San Paolo. Ma le
sue radici affondano più in profondità: nella storia dei primi tempi
dei Focolari a Trento, durante la seconda guerra mondiale; nel carisma francescano da cui Chiara Lubich trasse le prime ispirazioni (e
il suo stesso nome nuovo da terziaria: il suo nome di batesimo era
infati Silvia); nella tradizione cooperativa trentina, nella quale Chiara è cresciuta e si è formata.
9
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IMPRESA SOCIALE
luglio ~ settembre 2009
In quel viaggio in Brasile accadde qualcosa di nuovo, sebbene la novità vada leta in continuità con la storia della comunità dei Focolari
in Brasile che, come tanti altri movimenti, da decenni stava cercando
una risposta ai crescenti divari economici e sociali di quel grande
paese. Davanti allo scenario di una cità che mostrava le tipiche contraddizioni del nostro sistema di sviluppo, gratacieli circondati da
baracche (favelas), Chiara avvertì forte l’urgenza di dover fare qualcosa di più e di diverso per contribuire ad una economia e ad un
mondo più fraterni. Con la concretezza tipica della donna e delle
persone spirituali, Chiara non diede vita ad un centro studi per approfondire le ragioni della povertà nel mondo, ma invitò subito i
membri del suo Movimento ad avviare nuove imprese, che avessero
come principale ragion d’essere il voler contribuire con la propria attività a ridurre l’indigenza, dei brasiliani, ma non solo. La proposta
fu accolta con grande entusiasmo e generosità dall’intero Movimento dei Focolari. Nel giro di poco tempo nacquero nuove imprese,
altre che già esistevano si trasformarono, e dal Brasile la proposta di
quella che fu subito chiamata l’Economia di Comunione nella libertà
fu raccolta da imprenditori di vari paesi del mondo.
L’EdC è oggi una delle strade concrete che si offrono a chi vuole, qui
ed ora, immaginare e vivere la vita economica come luogo di reciprocità e di fraternità.
Va però immediatamente chiarito un possibile fraintendimento: ad
originare l’EdC non è stata l’esigenza di rendere le imprese più etiche
o più socialmente responsabili, ma l’urgenza di dare un contributo
concreto ad un mondo più giusto, con meno persone costrete a vivere
in condizioni di miseria. L’EdC nasce da un disagio e da uno sdegno
nei confronti dell’atuale modello di sviluppo o di capitalismo.
La prima idea nell’EdC fu di guardare alle imprese come “agenzie
produtrici di ricchezza” (di utili) e di posti di lavoro, due elementi
considerati come un mezzo di lota all’indigenza e alla miseria. Per
rispondere ad un’ingiusta distribuzione della ricchezza e delle opportunità, l’EdC si rivolse e si rivolge alle imprese, e non primariamente alla politica o alle organizzazioni non governative. Per queste
ragioni, come si dirà (sopratuto nel saggio di Crivelli e Gui che,
non a caso, apre il volume), l’EdC non è collocabile né nel setore
for-profit né in quello nonprofit: potremmo chiamarle imprese forproject, con un termine che evoca l’azienda “guidata da un obietivo”
suggerita da Yunus nel suo libro “Un mondo senza povertà”.
Inoltre l’EdC non considera il “buon imprenditore” solo colui che
crea ricchezza, posti di lavoro, paga le tasse, e produce beni e ser-
INTRODUZIONE
Luigino Bruni, Luca Crivelli
vizi di qualità (il che già non sarebbe poco); per l’EdC un “buon
imprenditore” è chi concepisce la propria atività come un contributo ad un mondo più umano, più fraterno, più unito, anche mentre
lavora e opera nel mercato. Agli imprenditori e alle imprese EdC
viene dunque chiesto molto: produrre ricchezza in modo e ciente,
confrontandosi con i mercati globalizzati di oggi; condividere tale
ricchezza distribuendo gli utili otenuti in tre parti (una parte donata
ai poveri in progeti di sviluppo, una parte investita nella formazione alla “cultura del dare”, una parte reinvestita nell’azienda); dar
vita ad una comunità aziendale ispirata ad una fraternità concreta
e visibile in una “governance di comunione”; far nascere e sostenere
“poli produtivi” che svolgano la funzione di catalizzatori di tuto
il movimento EdC in una regione o in un paese; farsi promotori di
iniziative culturali per diffondere la proposta e la cultura dell’EdC
a tuti i livelli. Gli imprenditori e gli atori delle aziende non sono
però soli in questo: studenti, citadini, studiosi, politici, artisti, poveri, sono anch’essi protagonisti del progeto: senza di loro esso perderebbe la sua carateristica di essere un programma economico e imprenditoriale, ma anche qualcosa di più e di diverso. L’EdC, infati,
fin dall’inizio fu avvertita da molti non solo come un modo nuovo
di concepire l’impresa o la “lota alla povertà”, ma come una diversa concezione del mercato e dell’economia, intesi anche come luogo
privilegiato in cui vivere i principi di reciprocità e gratuità.
2. Questo volume si propone di presentare l’Economia di Comunione
da diverse angolature. I nove articoli che seguono non sono il fruto
di una precisa programmazione, basata su una ragionata divisione
del lavoro e sull’assegnazione di un compito specifico a ciascuno degli autori. Rappresentano piutosto un caleidoscopio, atraverso il
quale si intravede un disegno i cui contorni si ridefiniscono (dando
vita a nuove figure e giochi di colori) ogni volta che, sfogliando le
pagine della Rivista, il letore farà ruotare il caleidoscopio nelle proprie mani.
Il volume si apre con un contributo di Crivelli e Gui, che analizza il
progeto EdC atraverso la lente dei vari modelli di imprenditorialità
sociale descriti da una recente leteratura sull’argomento (sia nordamericana che europea). Emergono, da un lato, parecchi punti di
contato e a nità con i tre principali approcci (Social Enterprise School, Social Innovation School e modello Emes); dall’altro, risulta però
evidente che non è possibile assimilare l’Economia di Comunione a
nessuno di questi modelli. Appare dunque legitima la conclusione
dell’articolo: ci troviamo di fronte ad “un’ulteriore specie nella varie-
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IMPRESA SOCIALE
luglio ~ settembre 2009
gata fauna dell’economia sociale”, ma ciò non toglie che il confronto
con i modelli esistenti sia fonte di ispirazione e possa offrire indicazioni a chi è chiamato a definire l’orientamento futuro del progeto.
Segue un articolo che presenta l’EdC dal punto di vista dell’America Latina, la terra in cui è stato getato il primo seme del progeto
ed il contesto sociale e culturale (in particolare Brasile e Argentina)
in cui l’Economia di Comunione ha raggiunto una fase di sviluppo
più consolidata. Nel contributo di Cristina Calvo vengono messe in
risalto le ferite e le contraddizioni di questo continente, in cui più
che altrove è evidente il fallimento del modello capitalista, ma anche
la fecondità del dialogo tra l’EdC e le diverse correnti dell’economia solidale. In America Latina si sente l’importanza di recuperare
il patrimonio culturale delle popolazioni autoctone e, per dirla con
la recente premio Nobel Elinor Ostrom, il valore di soluzioni per la
gestione delle risorse comuni elaborate dalle comunità che abitavano originariamente queste terre.
Vitorio Pelligra presenta una lucida analisi di quella che può essere
considerata la più solida teoria contemporanea della giustizia sociale: la teoria della giustizia di John Rawls. Per la sua matrice contratualista, la teoria di Rawls è stata oggeto di critiche autorevoli
(Nussbaum e Singer in primis), che hanno messo a nudo alcune contraddizioni di fondo. Secondo l’autore l’Economia di Comunione ha
da offrire un contributo originale a chi sta cercando una via d’uscita
per superare in particolare due quesiti: il problema degli esclusi e la
questione della giustizia globale.
La conoscenza dell’esperienza concreta di molte imprese EdC è stata per Bruni e Smerilli un terreno fertile da cui trarre ispirazione
per elaborare un modellino teorico in grado di offrire indicazioni
di grande rilievo per tute le organizzazioni a movente ideale. Queste organizzazioni, per andare avanti, devono saper conservare nel
tempo la motivazione intrinseca e la carica ideale (in una parola, la
vocazione) dei propri membri. Per questo è fondamentale che esse
si preparino ad affrontare (e governare) adeguatamente le situazioni
di crisi, così da evitare che la crisi (e l’eventuale uscita di membri
molto motivati) porti ad un deterioramento del capitale motivazionale dei collaboratori, tale da infliggere una ferita mortale all’organizzazione stessa.
La seconda parte del numero ospita articoli dal taglio più aziendale
e due studi di caso. Negli ultimi anni è cresciuta la riflessione interna
al progeto su come l’orientamento delle aziende alla comunione, un
aspeto che definisce la cultura e l’identità stessa dei soggeti EdC,
INTRODUZIONE
Luigino Bruni, Luca Crivelli
possa e debba impatare sulla mission aziendale, sulla strutura organizzativa e sugli strumenti di management applicati in azienda. In
quest’otica i contributi di Parolin e Golin e di Giuseppe Argiolas
rappresentano una buona sintesi della riflessione teorica e delle buone prassi del progeto. Da entrambi gli articoli si evince lo sforzo di
superare l’isomorfismo organizzativo proprio dell’impresa capitalista, atingendo al patrimonio di esperienze di vita e di pensiero del
Movimento dei Focolari, per tentare una via inedita, fruto di una
mediazione tra la spiritualità di comunione e l’atuazione di soluzioni operative capaci di far sperimentare la fraternità anche in azienda
senza nel contempo pregiudicare il buon funzionamento e l’e cacia
dei processi decisionali.
I due studi di caso sono fra loro molto diversi. Il primo presenta
l’esperienza di una Banca rurale filippina, leta dal punto di vista di
Teresa Ganzon (che dell’istituto bancario è la managing director). Ci
è parso importante includere in questo numero anche la prospettiva dell’Asia, per ribadire la mondialità e la multiculturalità del
progeto. Nell’articolo, tradoto dall’inglese dalla Redazione della
Rivista, si racconta la storia di questa piccola banca che ha saputo
coniugare l’appartenenza al progeto EdC con l’atività di microcredito, rivelatasi uno strumento particolarmente e cace per riscatare,
nel contesto filippino, molti indigenti dalle trappole della povertà.
Il secondo studio di caso riguarda il polo produtivo italiano, sorto in Toscana (località il Burchio) e inaugurato nel 2006. L’articolo
di Nicolò Bellanca, Renato Libanora ed Enrico Testi costituisce la
sintesi di uno studio commissionato dalla Banca Popolare Etica per
valutare, in modo sistematico e neutrale (mediante focus group e analisi SWOT partecipative), l’esperienza del Polo Lionello in quanto
“distreto dell’economia civile”. Si trata dunque di una valutazione
esterna all’EdC, molto preziosa poiché garante di uno sguardo lucido e neutrale, capace di identificare le insidie presenti nel percorso
di distretualizzazione e di offrire possibili piste per superare queste
problematicità.
La raccolta di articoli si conclude con un contributo di Luigino Bruni,
in cui si traccia il profilo dell’imprenditore orientato alla comunione.
Ricollegandosi al lavoro di Schumpeter sulle virtù dell’imprenditore così come alle ulteriori doti messe in evidenza dalla tradizione
dell’economia civile, Bruni afferma che l’imprenditore orientato alla
comunione è chiamato a vivere una vocazione ancor più complessa,
per certi versi contradditoria, poiché desidera tenere in equilibrio
prospetive apparentemente inconciliabili: l’autonomia, il dinami-
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IMPRESA SOCIALE
luglio ~ settembre 2009
smo e la propensione al rischio, che lo qualificano in quanto imprenditore; le categorie di “responsabilità” e di apertura al confronto con
gli altri nella presa di decisione, per il fato di sentirsi chiamato a
generare, nella propria azienda, l’esperienza della comunione.
3. Oggi, a dicioto anni dal suo lancio, l’EdC continua il suo sviluppo,
anche al di là dei confini dei Focolari. Altre realtà ecclesiali stanno
ispirando la propria vita economica all’EdC, e anche la società civile
(pensiamo allo Stato del Cearà in Brasile) guarda al progeto con
interesse e come paradigma per coniugare i valori del mercato con
quelli della solidarietà. Le imprese che vi aderiscono sono 750 (stando all’ultimo censimento del 20071), di dimensioni medio-piccole,
concentrate prevalentemente in Sud America e in Europa, ma con
realtà significative anche negli Stati Uniti e in Asia (in Corea e Filippine sopratuto). Le imprese sono prevalentemente imprese tradizionali, anche se non mancano significative esperienze di imprese
sociali (come il gruppo di cooperative sociali “Roberto Tassano”, in
Liguria e Toscana e l’Associazione “per tuti”). Nel 2001 è partito in
Italia il progeto Polo imprenditoriale Lionello Bonfanti, nei pressi
di Firenze (Loppiano), che è operativo dal 2006 con una ventina di
imprese ed ha segnato una tappa importante per il movimento EdC
in Italia e in Europa. Complessivamente i Poli imprenditoriali sono
sete, localizzati in Sud America (Brasile e Argentina) e in Europa
(Belgio, Croazia e Italia).
Fin dai primi tempi la riflessione teorica ha accompagnato lo sviluppo delle imprese e dei poli. Sono iniziate nel 1992 le prime tesi
di laurea, e ben presto sono stati organizzati convegni e seminari.
Ad oggi sono oltre trecento le tesi discusse sull’EdC, di cui alcune di
dotorato. Significativo, a questo proposito, è il riferimento all’Economia di Comunione contenuto nell’enciclica Caritas in Veritate (n.
36) di Benedeto XVI.
La comunità accademica ha guardato e guarda con interesse all’evoluzione dell’EdC, come anche questo numero testimonia. Se oggi
nella teoria economica si parla di gratuità, reciprocità incondizionale, fraternità, ciò lo si deve anche al programma di ricerca nato e
cresciuto atorno al progeto EdC. Per questa ragione l’EdC è anche
una visione dell’economia nel suo insieme, una proposta di agire
economico, un ethos, una cultura.
In conclusione vogliamo ringraziare Carlo Borzaga e Luca Fazzi,
così come Federica Silvestri e la Redazione di Impresa Sociale, per
Da due anni è partito un nuovo Censimento, i cui dati saranno disponibili nel 2010. Per tutte
le informazioni sul progetto rimandiamo al sito ufficiale www.edc-online.org.
1
INTRODUZIONE
Luigino Bruni, Luca Crivelli
averci chiesto, con coraggio, di organizzare questo numero unico e
per averci concesso più di una proroga sui termini di consegna . Un
grazie particolare a tuti gli autori dei saggi qui contenuti, che hanno
accetato di rivedere e rielaborare più volte il loro testo, e ai partecipanti al Forum. Il nostro augurio è che i letori apprezzino il nostro
lavoro, e che la maggiore conoscenza dell’EdC sia un’occasione per
arricchire l’intero movimento dell’impresa sociale.
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L’Economia di Comunione:
sfide e prospettive
LE IMPRESE DI ECONOMIA DI COMUNIONE SONO ANCH’ESSE IMPRESE SOCIALI?
Luca Crivelli, Benedetto Gui
Le imprese di Economia di Comunione sono
anch’esse imprese sociali?
Riflessione sui modelli di riferimento,
gli obiettivi e le logiche di governance
Luca Crivelli, Benedetto Gui 1*
Sommario
1. Introduzione - 2. Analogie tra il progetto EdC e l’idea di imprenditorialità sociale di orientamento nord-americano - 3. Affinità tra progetto EdC e l’approccio europeo all’impresa sociale
- 4. Una visione più ampia dell’EdC - 5. Conclusioni
1. Introduzione
Il fato che questa rassegna di articoli sul progeto di Economia di
Comunione (EdC) sia ospitata in una rivista intitolata Impresa Sociale
ci ha stimolato a ragionare sulle analogie e sui punti di collegamento tra queste due manifestazioni dell’economia sociale e civile2, così
Le conoscenze sui vari modelli di impresa sociale sono stati acquisiti nell’ambito di un
progetto DORE, finanziato dal Fondo Nazionale Svizzero per la ricerca scientifica (Project no.
117954), realizzato presso la SUPSI (periodo ottobre 2007-settembre 2009).
2
Siamo consapevoli delle peculiarità e della diversa tradizione in cui si collocano l’economia
sociale (Borzaga, Ianes, 2006), con le sue varie correnti nazionali (francese, tedesca, italiana),
e l’economia civile (Bruni, Zamagni, 2004). Ciononostante, nel prosieguo del testo questi due
termini verranno assimilati e utilizzati indistintamente per indicare quelle proposte economiche e imprenditoriali che trascendono la finalità del profitto per fare spazio, al loro interno,
al principio di gratuità come espressione di fraternità. Non è un caso che le due tradizioni
1*
19
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IMPRESA SOCIALE
luglio ~ settembre 2009
come sulle loro carateristiche distintive. In particolare la prospetiva
adotata in questo saggio è di evidenziare gli spunti che la riflessione sulle imprese sociali, atualmente in corso in Europa e negli
Stati Uniti, può offrire per capire il presente ed orientare il futuro del
progeto di Economia di Comunione. L’itinerario in cui ci stiamo per
avventurare prende le mosse da un filone recente di leteratura sulle imprese sociali e/o sull’imprenditorialità sociale (Defourny, Nyssens, 2008; Laville, La Rosa, 2009; Musella, 2009), che si è occupato di
analizzare i punti di convergenza e di divergenza tra le due visioni
nord-americane di imprenditorialità sociale (Dees, Anderson, 2006),
da una parte, e la riflessione europea sull’impresa sociale promossa
in particolare dal network Emes (Borzaga, Defourny, 2001; Nyssens,
2006), dall’altra.
Come avremo modo di discutere nel paragrafo 2, a prima vista il
progeto di Economia di Comunione presenta delle carateristiche
che lo rendono a ne al modello americano della Social Entrepreneurship School: un gruppo di aziende che, quanto a profilo giuridico e a
meccanismi formali di governance, non sembra metere in discussione il modello di impresa capitalista e che svolge atività economiche
orientate al profito per generare un surplus con il quale finanziare
la missione sociale (di caratere redistributivo e formativo) di quella
che potremmo definire un’organizzazione nonprofit a sfondo religioso (il Movimento dei Focolari). Questa prima interpretazione ha
trato in inganno un autore illustre quale Serge Latouche, che ha relegato l’EdC nel “girone” del capitalismo filantropico. Ma se si guarda al progeto con più atenzione è possibile ravvisare forti analogie
con la seconda scuola di pensiero americana sull’imprenditorialità
sociale, quella della Social Innovation, che ha trovato in figure quali il
premio Nobel per la pace 2006 Muhammad Yunus (peraltro citadino del Bangladesh) uno dei suoi più autorevoli interpreti.3
Se infine si analizza l’EdC ancor più da vicino, è possibile cogliere - nell’intuizione iniziale di Chiara Lubich, in alcune realizzazioni
concrete (in particolare i “poli produtivi”) e nelle linee di svilupconfluiscano nelle voci che compongono il Dizionario di Economia Civile, di recentissima pubblicazione (Bruni, Zamagni, 2009).
3
In particolare Yunus (2008, p. 11) racconta come il suo incontro con l’amministratore delegato del Gruppo Danone, nel 2005, abbia dato vita ad una joint venture denominata “impresa
con finalità sociali”. In una nota al prologo del libro si precisa che social business è il termine
utilizzato nel testo per indicare un nuovo modello idealtipico di impresa “che risponde a criteri
di carattere sociale anziché al principio classico della massimizzazione del profitto”. Quanto
Yunus sia diventato un punto di riferimento nel dibattito nord-americano sull’imprenditorialità
sociale emerge, per esempio, in Martin e Osberg (2007).
LE IMPRESE DI ECONOMIA DI COMUNIONE SONO ANCH’ESSE IMPRESE SOCIALI?
Luca Crivelli, Benedetto Gui
po emerse con forza negli ultimi anni - significative analogie con
l’obietivo perseguito (in modo più o meno esplicito) dalle imprese
sociali di impostazione europea: rendere le organizzazioni produttive, e più in generale la vita economica, più solidali ed inclusive. Il
terzo paragrafo dell’articolo si propone di sotolineare questi punti
di contato.
C’è poi da dire, e lo faremo nel paragrafo 4, che l’EdC non si esaurisce nella sua manifestazione più concreta, ossia in quell’insieme di
(circa 750) piccole e medie imprese e nella destinazione degli utili
da queste donati. Economia di Comunione è anche e sopratuto un
modo di porsi di fronte alle faccende economiche che nasce da una
forte radice spirituale che porta a sotolineare, appunto, la comunione e la fraternità universale. Essa quindi non riguarda solo il modo
di operare e la destinazione degli utili delle organizzazioni produtive, ma ha anche a che fare con le scelte di consumo, o di destinazione
dei propri risparmi, fino al modo di intendere gli stessi conceti di
ricchezza e di povertà (Bruni, 2006, pp. 150-154).
Nel paragrafo conclusivo, convinti che l’esame dei vari modelli di
impresa sociale non sia stato un semplice esercizio di classificazione,
ma abbia rappresentato un itinerario utile per rifletere sull’identità in divenire dell’EdC, cercheremo di sintetizzare gli stimoli che le
esperienze europee di cooperazione sociale e quelle di imprenditorialità sociale americane “di seconda generazione” hanno da offrire
a questo progeto e, più in generale, a tuti coloro che, nei modi più
vari, si impegnano per realizzare un’economia più fraterna e a misura d’uomo.
2. Analogie tra il progetto EdC e l’idea di imprenditorialità
sociale di orientamento nord-americano
In un volume del 1998, Burton A. Weisbrod (uno dei massimi studiosi del setore nonprofit sul piano internazionale) ha cercato di documentare e di analizzare criticamente il processo di trasformazione in
senso commerciale che da alcuni anni caraterizza molte organizzazioni nonprofit nord-americane.4 Non è questo il luogo per soffermarci sulle conseguenze di tale evoluzione5, a cui è dedicato il libro
Ricordiamo che una caratteristica importante del settore nonprofit statunitense è il vincolo di
non distribuzione degli utili, a cui corrispondono delle agevolazioni sul piano fiscale.
5
La trasformazione in senso commerciale delle organizzazioni nonprofit riduce la dipendenza
dalle donazioni filantropiche a vantaggio dei ricavi generati attraverso il mercato, sia mediante
l’introduzione di tariffe (user fees) per i servizi resi, sia attraverso l’avvio di attività accessorie
4
21
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IMPRESA SOCIALE
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di Weisbrod, quanto piutosto di ricordarne le cause. Negli Stati Uniti tra gli anni ‘70 e gli anni ’90 il setore nonprofit ha registrato una
massiccia crescita, sia in termini di apporto al Pil che di occupazione.
Dietro questo sviluppo si celano verosimilmente parecchi fatori, tra
cui possiamo ricordare l’insu ciente quantità di beni colletivi e di
servizi sociali erogati dal setore pubblico statunitense6 e la necessità di far fronte all’aumento continuo dei costi delle organizzazioni
nonprofit (quasi inevitabile in setori ad alta intensità di lavoro come
i servizi alla persona). Esse, infati, si sono rese conto che pur intensificando i propri sforzi di fund raising sarebbe stato di cile colmare
il divario venutosi a creare tra le risorse filantropiche disponibili ed
i bisogni sociali in continua espansione. Per questo i dirigenti delle
organizzazioni nonprofit hanno iniziato a vedere nell’avvio di atività produtive di tipo continuativo e nella vendita di beni e servizi
di vario genere degli strumenti interessanti, capaci di generare risorse finanziarie con cui soddisfare i bisogni della comunità e dei sui
membri più fragili.
È a questa evoluzione che fa riferimento la prima generazione di
modelli di imprenditorialità sociale di impostazione nord-americana, che Skloot (1983) definisce inizialmente nonprofit entrepreneurship e che, due decenni più tardi, Dees e Anderson (2006) rinominano Social Enterprise School. L’atenzione di questa scuola è tuta
focalizzata sulla capacità di generare surplus di mercato (earnedincome), con cui sostenere la missione della propria organizzazione
nonprofit. Gli imprenditori sociali, in questa prima accezione, sono
pertanto dirigenti d’azienda e manager che eccellono nella capacità
di realizzare atività commerciali ad alto rendimento economico,
forse proprio perché atenti a non mescolare le motivazioni sociali
con le ferree logiche del business. In altre parole, questa scuola non
riconosce l’utilità di operare, nella sfera for-profit, in sintonia con
la mission dell’istituzione nonprofit che ci si appresta a sostenere.
L’obietivo sociale viene infati perseguito in un secondo momento,
una volta che gli utili sono stati prodoti. Di conseguenza, poco
(non collegate con la mission) il cui scopo è aumentare il flusso dei finanziamenti. Due sono,
secondo Weisbrod, i possibili effetti collaterali di questa trasformazione: (1) l’esclusione dal
beneficio dei servizi di gruppi di persone per le quali l’organizzazione era storicamente nata,
per il semplice fatto che esse sono incapaci di sostenerne il prezzo; (2) la distrazione del management dell’organizzazione dal perseguire la propria missione primordiale.
6
La celebre teoria della government failure di Weisbrod (1975) associa la crescita del nonprofit all’esistenza di una quota di domanda di beni pubblici non soddisfatta dallo Stato: essa
sarebbe pertanto il sintomo di un crescente gap tra bisogni sociali percepiti dai cittadini e
l’offerta istituzionale promossa dal settore pubblico.
LE IMPRESE DI ECONOMIA DI COMUNIONE SONO ANCH’ESSE IMPRESE SOCIALI?
Luca Crivelli, Benedetto Gui
importa anche se il setore commerciale scelto per queste ancillary
activities non presenta in sé alcun contenuto sociale e se l’atività
economica è gestita in modo analogo a quanto farebbe qualunque
altra impresa for-profit. La dimensione valoriale di questo genere
di imprese è solo indireta e si esprime nel fato che la finalità dei
profiti non è la remunerazione del capitale e/o dell’imprenditore,
ma il dono degli stessi ad organizzazioni che, queste sì, producono
“valore sociale”.
A prima vista, il progeto EdC sembrerebbe avere almeno due punti
in comune con i principi della Social Enterprise School:
• anche l’Economia di Comunione nasce in seguito ad una scarsità
di risorse: la comunione dei beni, vissuta sul piano individuale dai membri del movimento, non bastava più per affrancare
dall’indigenza tute le persone che partecipavano alla vita della
“comunità focolarina”: alcuni aderenti risiedevano, ad esempio,
nelle favelas di San Paolo (che il cardinale Arns aveva definito
“una corona di spine” atorno ai palazzi della cità) e vivevano in
situazioni di forte deprivazione;
• pure nel caso dell’EdC il ricorso all’impresa e ai proventi di mercato sembra avere sopratuto una funzione strumentale, nel senso che gli utili donati cercano di ovviare ad un’insu ciente mobilitazione di risorse - che nel linguaggio della Social Enterprise
School potremmo, seppur impropriamente, chiamare “filantropiche” - rispeto all’entità dei bisogni (“la corona di spine”). Nel
maggio 1991 Chiara Lubich suggerì la soluzione di costituire imprese che metano a disposizione i propri utili. Queste furono le
parole con cui, il 29 maggio, lei stessa spiegò il progeto alle persone del movimento convenute per l’occasione nella citadella di
Araceli, nei pressi di San Paolo: “In questa citadella dovrebbero
sorgere delle industrie, delle aziende. (…) La gestione dovrebbe
essere a data ovviamente ad elementi competenti e capaci, in
grado di far funzionare tali aziende con la massima e cienza,
ricavandone quindi degli utili. E qui sta la novità: questi utili non
saranno ripartiti tra quanti partecipano al capitale, ma saranno
‘messi in comunione’” (Lubich, 2001, pp. 12-13).
La similitudine tra la scuola statunitense della Social Enterprise e
l’EdC si rende manifesta nel fato che ancora oggi il progeto si fonda
su una neta distinzione tra il momento della produzione degli utili
(se ne occupano sostanzialmente le imprese EdC, che poi ne donano
una parte consistente) ed il momento della distribuzione degli stessi, a dato ai canali istituzionali del movimento e, in virtù di una
23
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IMPRESA SOCIALE
luglio ~ settembre 2009
presenza capillare di centri in tute le parti del mondo, realizzato
all’insegna di una cultura della prossimità.7
Se i due punti appena menzionati esaurissero le finalità del progeto,
il giudizio piutosto negativo sull’EdC espresso da Serge Latouche
nel suo libro Justice sans limites potrebbe apparire, a chi intende muovere delle critiche sostanziali al sistema capitalista, tuto sommato
condivisibile. Così scrive Latouche nel 2003: “L’EdC è un’esperienza
che, un secolo dopo, si riallaccia in modo quasi caricaturale sia alla
riflessione dell’economia politica cristiana che alla pratica del capitalismo filantropico. (…) Il progeto non mete veramente in questione l’economia nel suo cuore produtivo. È solo a posteriori, al momento della messa in comune dei profiti, che la morale evangelica
o la solidarietà laica intervengono, in una prospetiva di comunione.
(…) Ne risulta che il messaggio evangelico non mete assolutamente
in discussione il funzionamento del mercato nelle sue logiche profonde. La carità, ancora una volta, diventa il rimedio all’ingiustizia, senza che il problema della giustizia economica sia veramente
affrontato.”8
Vedremo, nel prosieguo del testo, che la realtà dell’EdC è molto più
articolata di quanto percepito da Latouche e contiene un notevole
potenziale di innovazione per superare i limiti atuali del sistema
capitalista e per contribuire a promuovere una soluzione radicale ai
problemi sociali e di giustizia globale.9
Il dibatito statunitense sull’imprenditorialità sociale ha però avuto
un secondo (importante) apporto. Nonostante le sue radici risalgano
(come per la Social Enterprise School) ai primi anni otanta, possiamo
considerare la visione suggerita dalla cosiddeta Social Innovation
School10 un “approccio di seconda generazione”. È a partire dalla
Recentemente, al fine di rendicontare in modo più trasparente la distribuzione dei fondi
donati dalle aziende, parte degli aiuti vengono dati in gestione ad una organizzazione non
gorvernativa (l’AMU, Azione Mondo Unito), che da anni promuove iniziative di aiuto allo sviluppo e che per questo ha maturato una grossa esperienza in questo campo. Dal 2008 viene
pubblicato su internet un resoconto sulla destinazione degli aiuti (http://www.edc-online.org/
index.php/it/idee-forza/comunione-degli-utili.html). Il numero 29 della rivista Economia di Comunione è interamente dedicato al resoconto sulla destinazione degli utili EdC 2009.
8
Nostra traduzione di alcune frasi tratte da un capitolo dal titolo e sottotitolo emblematico:
L’oximore de l’économie morale. Du patronage à l’entreprise citoyenne: l’enfer des bonnes
intentions, cfr. Latouche (2003), p. 80, p. 82, p. 83.
9
Il saggio di Pelligra (2009), pubblicato in questo stesso numero della Rivista, offre spunti
interessanti per capire come l’EdC possa contribuire a superare alcuni ostacoli che rendono
oggi difficile la promozione della giustizia su scala globale.
10
Anche in questo caso ci allineiamo alla denominazione suggerita da Dees e Anderson
(2006).
7
LE IMPRESE DI ECONOMIA DI COMUNIONE SONO ANCH’ESSE IMPRESE SOCIALI?
Luca Crivelli, Benedetto Gui
metà degli anni ’90 che Bill Drayton, uno degli autori di riferimento di questa corrente, cessa di utilizzare la terminologia iniziale di
public entrepreneur (Drayton, MacDonald, 1993) sostituendola con
quella di social entrepreneur. Anche in questo secondo approccio l’attenzione è incentrata sulla figura dell’imprenditore (Light, 2008), le
cui qualità consentirebbero di superare la tradizionale logica delle organizzazioni ative nella produzione di servizi sociali (Martin,
Osberg, 2007), portando pure in questi ambiti il dinamismo e la capacità di autofinanziamento tipici delle imprese di mercato. Le qualità dell’imprenditore sono: prontezza di riflessi nel cogliere nuove
opportunità (alertness to opportunity), creatività, determinazione e
propensione al rischio. Sono queste virtù a fare di lui un uomo di
successo, ammirato e riverito da tuti, e a renderlo capace non solo di
scovare opportunità di business che, atraverso l’ideazione di nuovi
beni e servizi, migliorano la vita di tante persone, ma - e qui sta la
novità - anche di produrre innovazione sociale. Mutuando metodi
e strumenti sia dal mondo degli affari che dalla sfera del nonprofit,
l’imprenditore sociale riesce a creare valore, sostenibile nel tempo
e con un potenziale di impato su vasta scala, scoprendo modalità
nuove e migliori per affrontare i problemi sociali e per soddisfare i
bisogni della comunità.
Nella visione della Social Innovation School l’atività dell’imprenditore sociale si presenta dunque soto una luce ben diversa: assistiamo
ad uno spostamento di atenzione dalla generazione di surplus di
mercato (da donare alle organizzazioni nonprofit) alla produzione
direta di impato (outcome) in termini di innovazione e di risoluzione
dei problemi sociali (Bornstein, 2004). Per questo ci siamo azzardati
a definirlo imprenditore sociale “di seconda generazione”: poiché a
questa tipologia di imprenditori non basta più assecondare “indiretamente” gli obietivi di un’organizzazione nonprofit atraverso
il dono degli utili delle proprie atività commerciali. Queste figure
cominciano a preoccuparsi di come articolare l’atività imprenditoriale in modo da poter contribuire in modo direto al benessere della
società.11
Particolarmente significativo è l’identikit dell’imprenditore sociale
proposto da Gregory Dees in un breve documento pubblicato su internet nel 1998 e poi rielaborato nel 2001, un testo tanto influente da
essere oggi considerato una sorta di “magna carta” del modello di
Scrive a questo riguardo Yunus (2008, p. 36): “Un’impresa con finalità sociali è un’azienda
guidata da un obiettivo invece che dalla ricerca del profitto e, potenzialmente, può agire come
fattore di cambiamento del mondo”.
11
25
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imprenditorialità sociale di seconda generazione. Scrive Dees (1998,
p. 4): “Gli imprenditori sociali svolgono il ruolo di agenti del cambiamento nel setore sociale: i) adotando una mission per creare e
sostenere valore sociale (e non solo valore privato); ii) riconoscendo
e inseguendo incessantemente nuove opportunità per servire quella
missione; iii) impegnandosi in un processo di innovazione continua,
aggiustamento e apprendimento; iv) operando in modo audace,
senza farsi limitare dalle risorse atualmente in loro possesso e v)
mostrando un accresciuto senso di responsabilità verso le persone
servite e nei confronti degli outcomes realizzati.”
Se andiamo a guardare con atenzione al progeto EdC, vediamo che
alcuni degli elementi che caraterizzano il modello di imprenditore
sociale della Social Innovation School sono presenti anche lì. Molto
evidente, fin dall’inizio, è una forte atenzione ai rapporti con e tra
gli stakeholder in azienda. Dalla metà degli anni ’90 ha preso avvio
anche una riflessione sistematica atorno alle modalità di condurre
le imprese EdC, che ha portato, nel 1997, alla stesura e all’approvazione di impegnative linee guida riguardanti tuti gli aspeti della
gestione (dall’atenzione all’ambiente e alla salute all’osservanza delle leggi e della normativa fiscale, dal rispeto e dalla valorizzazione dei lavoratori alla corretezza nei confronti dei clienti, e così via)
(Pellagra, Ferrucci, 2004, pp. 212-215). Il rinnovamento della vita in
azienda atraverso la coltivazione e la pratica di una particolare “cultura” economica incentrata sulla comunione è uno dei temi principali delle cosiddete “scuole” (incontri di formazione periodici per
gli aderenti al progeto, imprenditori in primis) che hanno preso il
via a partire dal 2001 su scala sia locale che internazionale.12 In pratica, le scuole si propongono di approfondire l’identità e rafforzare
le motivazioni degli appartenenti al progeto, favorire lo scambio di
esperienze, metere in comune le buone prassi e formare giovani con
“vocazione imprenditoriale”.13
L’analogia con la Social Innovation School è significativa anche nell’ampiezza delle finalità degli imprenditori. Secondo Yunus (2008, p. 42)
Enti promotori di queste iniziative sono sempre più spesso le associazioni che si sono via
via costituite a livello nazionale per supportare il progetto EdC, insieme all’associazione internazionale AIEC (Associazione Internazionale per un’Economia di Comunione).
13
Uno dei messaggi portanti del progetto EdC è il seguente: per sostenere una prassi economica contro corrente è necessario coltivare una visione del mondo rinnovata. “Un compito
particolare è quello di formare ‘uomini nuovi’, perché senza ‘uomini nuovi’ noi non faremo
niente …”, affermava Chiara Lubich il 31 maggio 1991, due giorni dopo la nascita del progetto
(2001, pp. 62-63).
12
LE IMPRESE DI ECONOMIA DI COMUNIONE SONO ANCH’ESSE IMPRESE SOCIALI?
Luca Crivelli, Benedetto Gui
al centro dell’azione di un’impresa sociale c’è “il conseguimento di
obietivi sociali (…) [come] la riduzione della povertà, l’assistenza
sanitaria per i poveri, la giustizia sociale, la sostenibilità globale”
e nella tensione verso questi obietivi l’imprenditore sperimenta
“soddisfazioni di natura psicologica, emozionale e spirituale”. Dieci
anni prima, nel 1998 a Palermo, Chiara Lubich aveva sotolineato la
vocazione laica che muove gli imprenditori EdC a farsi interpreti
di questo approccio più ampio all’atività aziendale14: “Essi non si
accontentano di realizzarsi con un lavoro, con una carriera, o con
la semplice vita di famiglia (...) Non basta loro tuto ciò; essi non
sono sazi, non si sentono loro stessi, se non si dedicano anche esplicitamente all’umanità (…) Si realizzano, perché possono servire
l’umanità” (Lubich, 2001, pp. 68-69). La prima, più visibile, forma di
questo servizio degli imprenditori è la donazione degli utili. Ma gli
imprenditori coinvolti nel progeto EdC hanno sempre inteso quelle
parole anche in un altro senso, che identifica un altro modo di servire società: il loro impegno ad introdurre elementi di comunione
nella vita delle aziende può inietare germi di cambiamento nell’intero tessuto economico e sociale circostante. Ci sembra di poter affermare, invece, che il tema più originale che viene suggerito dalla
Social Innovation School, ovvero che le capacità imprenditoriali di titolari e dirigenti delle imprese sociali possano esplicarsi anche nel
trovare soluzioni innovative ai problemi della società circostante, sia
stato finora abbastanza assente nel dibatito sul ruolo e le modalità
di azione delle imprese EdC. E ciò nonostante il fato che all’interno
del progeto se ne trovino vari buoni esempi.15
In conclusione, si può dire che l’Economia di Comunione, congiuntamente al movimento per l’imprenditorialità sociale lanciato
negli Stati Uniti, rappresenta una sfida alla concezione tradizionale dell’impresa simbolizzata dal celebre moto di Milton Friedman
the business of business is business. Anch’essa infati intende superare
quello che Yunus (2008, p. 32) definisce “un capitalismo sviluppato
solo a metà”, per far sì che l’economia di mercato sia abitata anche
Per capire meglio, alla luce di un esempio concreto, le motivazioni di un imprenditore EdC
si consiglia la lettura di Bourgenot Dutru (2007). In questo libro viene raccontata la storia (e la
vocazione) di François Neveux, imprenditore francese deceduto nel 2006, uno dei pionieri del
primo polo produttivo EdC in Brasile.
15
Oltre all’esempio del microcredito, visto contemporaneamente come linea di business e
come opportunità di favorire il riscatto economico di popolazioni sfavorite, presentato nel
saggio di Ganzon in questo stesso volume, ricordiamo, tra gli altri, quello di una fabbrica di
saponi spagnola nata per rispondere all’inquinamento causato dalla dispersione nell’ambiente
degli oli di frittura.
14
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da “uomini [e donne] a molte dimensioni” (p. 53). Deto questo, occorre aggiungere che neanche la prospetiva dell’innovazione sociale corrisponde perfetamente al modo di interpretare le faccende
economiche proprio dell’EdC.
3. Affinità tra il progetto EdC e l’approccio europeo
all’impresa sociale
Anche in Europa le imprese sociali nascono in un momento caraterizzato da crescente scarsità di finanziamenti. Ad essere insu cienti in questo caso non sono tanto le risorse filantropiche (tipicamente
poco rilevanti nel contesto europeo), quanto i fondi pubblici destinati all’erogazione di servizi sociali. A ciò contribuiscono la crisi dello
Stato-Provvidenza e l’a orare nei citadini di nuovi bisogni che non
trovano una risposta adeguata né da parte del setore for-profit né
da parte delle politiche pubbliche di protezione sociale. È tutavia ridutivo legare l’emergere dell’impresa sociale europea alla sola mancanza di mezzi. Dietro alle prime esperienze di cooperazione sociale
troviamo anche una visione diversa del mercato e della società, unita
alla convinzione che l’inclusione sociale e lavorativa di persone che
sperimentano nella propria vita forme diverse di disagio costituisca
un approccio più prometente rispeto all’istituzionalizzazione o ai
trasferimenti monetari per dare a questi citadini pienezza di vita.16
La realtà delle imprese sociali di impostazione europea è ben nota ai
letori di questa Rivista.17 Possiamo allora subito esaminare quelli che
a nostro avviso sono i principali punti di contato con l’EdC. Nella
visione europea di impresa sociale si considerano molto importanti:
a. il legame con l’economia sociale e la cultura del terzo setore;
b. il fato che le imprese sociali non nascano dall’alto (da un imprenditore-filantropo), ma piutosto “dal basso”, da una comunità di “citadini insoddisfati dall’offerta garantita da un rigido
modello dicotomico (Stato-Mercato)” (Borzaga, 2009);
c. la salvaguardia della dignità delle persone svantaggiate, che
spinge a considerare l’offerta di un posto di lavoro e l’integrazioCome giustamente ricorda Borzaga (2009, p. 517), le prime esperienze italiane di cooperazione sociale rappresentano una risposta “civile” alla chiusura di strutture residenziali per
malati mentali basate sulla logica della contenzione e della segregazione, “con l’obiettivo esplicito di favorire la creazione di luoghi di lavoro, educativi e, in senso lato, sociali dove persone
svantaggiate e normodotate potessero interagire”.
17
Se questo non fosse il caso, suggeriamo la lettura di Borzaga e Defourny (2001) e Nyssens
(2006).
16
LE IMPRESE DI ECONOMIA DI COMUNIONE SONO ANCH’ESSE IMPRESE SOCIALI?
Luca Crivelli, Benedetto Gui
ne sociale che ne consegue una forma superiore di aiuto rispeto
all’assegno assistenziale o alla donazione caritatevole;
d. l’obietivo di rendere più democratica e inclusiva la sfera economica; recuperando lo spirito originario del movimento cooperativo, l’impresa sociale europea presta molta atenzione al
coinvolgimento, anche formale, dei vari stakeholder nel governo
dell’organizzazione e a forme partecipate e democratiche di presa di decisione.
Dei quatro elementi appena menzionati, i primi tre sono presenti
nell’EdC fin dall’enunciazione del progeto, nel 1991. Per contro, il
quarto aspeto è emerso in modo esplicito solo a partire dal 2004, in
virtù della legge dei vasi comunicanti, grazie cioè allo scambio di
esperienze e all’arricchimento reciproco che si è verificato con le altre anime che compongono l’economia sociale e civile. Per dimostrare che nel DNA dell’EdC (il cui principio ispiratore, come dicevamo,
è la fraternità universale) vi sono pure dei cromosomi tipici dell’approccio europeo all’impresa sociale basterebbe alludere al sototitolo
dell’articolo di Bruni in questa stesso volume: gli imprenditori sono
sì “atori principali” dell’EdC, ma non sono gli unici atori. La cultura e l’impegno personale di dirigenti e titolari ha giocato senz’ombra
di dubbio un ruolo essenziale nel progeto EdC (e in questa sotolineatura dell’imprenditore c’è vicinanza con i modelli americani), ma
sempre più si avverte la necessità di valorizzare anche ruoli aziendali diversi, a nché la comunione non sia solo uno stile di leadership,
ma una qualità propria a tuta l’impresa, avvicinandosi così alla visione europea.18 Ma andiamo con ordine.
a. La prima realizzazione economica a cui venne idealmente associato il progeto EdC fu una cooperativa agricola, costituitasi a
Loppiano, in Toscana, nel 1973.19 Dai verbali delle discussioni
intercorse tra Chiara Lubich ed i suoi più streti collaboratori nei
giorni “fondativi” dell’EdC emerge che la prima idea per organizzare le nascenti imprese fu proprio quella della cooperativa,
anche per il favore con cui la Chiesa catolica guardava a questo modello organizzativo. Nello spazio di pochi giorni si decise
però di percorrere un’altra strada, in particolare nel definire lo
Sono interessanti a questo proposito le conclusioni a cui giungono Colozzi e Prandini (2008)
nel loro studio sull’impatto della cultura e degli stili di leadership sulla capacità delle organizzazioni del terzo settore di generare capitale sociale. La cultura dei leader sembrerebbe essere
una condizione necessaria, ma non sufficiente per produrre capitale sociale.
19
Il riferimento di Chiara Lubich alla cooperativa Loppiano prima nel discorso inaugurale
sull’EdC del 29 maggio 1991 fu molto esplicito (Lubich, 2001, p. 14).
18
29
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IMPRESA SOCIALE
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Statuto giuridico del primo polo produtivo che avrebbe dovuto sorgere in Brasile. Le ragioni esate di questo cambiamento
di rota non sono note, ma la letura di quei verbali permete di
avanzare un’ipotesi. Era opinione diffusa tra i dirigenti del Movimento che una cooperativa tradizionale avrebbe incontrato
delle di coltà nel condividere i propri utili con i non soci.20 Per
questo la scelta alla fine cadde sulle società di capitale (a responsabilità limitata o per azioni). Siamo personalmente convinti
che la decisione avrebbe anche potuto essere diversa e non vada
dunque considerata come l’espressione di una predilezione ideologica per le forme giuridiche for-profit. In molti scriti e presentazioni del progeto, infati, è stato sotolineato che la novità
delle imprese EdC non sta nel profilo giuridico, poiché la novità
va cercata altrove, nello spirito di fraternità che anima la vita di
queste organizzazioni. È da notare anche che in alcuni discorsi
pubblici importanti (per esempio a Strasburgo, nel 1999, in un
convegno organizzato dal Consiglio d’Europa), Chiara Lubich
ha posto l’EdC accanto alle numerose manifestazioni del terzo
setore, lasciando sotintendere che non c’è discontinuità tra le
imprese che vi aderiscono ed altre espressioni dell’economia sociale e del setore nonprofit.21 Va deto, infine, che tra le organizzazioni collegate all’EdC, troviamo oggi, sopratuto in Italia, un
numero significativo di cooperative sociali.
b. La nascita dei poli produtivi è stata intesa, fin dal primo momento, come un processo “dal basso”, come un’iniziativa popolare in cui potesse coinvolgersi ogni aderente al movimento, a
cominciare dai giovani e dai poveri. “Siamo poveri ma tanti” è
stato il moto che ha accompagnato l’esortazione di Chiara Lubich a dar vita ad un azionariato diffuso per raccogliere il capitale
necessario ad avviare nuove aziende. “Queste aziende, di vario
tipo, dovrebbero essere sostenute da persone di tuto il Brasile;
20
Si rammenta che solo nel novembre 1991 il parlamento italiano ha approvato la legge 381
sulla cooperazione sociale, destinata con gli anni a diventare un punto di riferimento per la
legislazione di molti altri paesi europei. Nel maggio 1991 appare inverosimile che i collaboratori di Chiara Lubich fossero a conoscenza della normativa e delle esperienze che il legislatore
italiano si proponeva di disciplinare tramite la nuova legge.
21
“L’EdC si pone a fianco delle numerose iniziative individuali e collettive che hanno cercato
e cercano di “umanizzare l’economia” … [accanto] a molte iniziative di tipo cooperativo, a
innumerevoli organizzazioni nonprofit” (Lubich, 2001). In effetti nell’EdC confluiscono e si
contaminano vicendevolmente le culture del settore for-profit e del settore nonprofit, il che
rende difficile collocare queste imprese nell’uno o nell’altro di questi due settori (su questo si
veda, ad esempio, Gui, 1992).
LE IMPRESE DI ECONOMIA DI COMUNIONE SONO ANCH’ESSE IMPRESE SOCIALI?
Luca Crivelli, Benedetto Gui
dovrebbero nascere società dove ognuno abbia la possibilità di
una propria partecipazione: partecipazioni anche modeste, ma
molto diffuse” (Lubich, 2001, pp. 12-13). Nell’idea di una partecipazione popolare alla proprietà dei poli rinveniamo dunque lo
spirito di uguaglianza delle cooperative sociali. Persino i poveri
dovrebbero possedere almeno un’azione della società che gestisce i poli EdC: solo così quando visiteranno un polo si sentiranno comproprietari di quelle aziende (e non i semplici destinatari
degli aiuti resi possibili dall’atività industriale ivi realizzata) e
potranno dire con orgoglio ai propri figli: questo polo è anche
nostro. 22
c. Fin da quando fu lanciata l’Economia di Comunione, fu chiaro
che il modo migliore di aiutare le persone in condizioni di indigenza fosse offrire un posto di lavoro a chi ne era sprovvisto: un
terzo degli utili avrebbe dovuto essere utilizzato “per aiutare, in
primo luogo, coloro che sono nel bisogno, per offrire loro lavoro,
per sistemarli, fare in modo che, nell’ambito della comunità, non
ci sia alcun indigente” (Lubich, 2001, p. 13).23 Ciò basta a far capire come sia connaturata al progeto EdC una logica “inclusiva”
prima che “redistributiva”.24 Fin dai tempi della prima comunità
di Trento, alla fine della seconda guerra mondiale, Chiara Lubich
e le sue prime compagne si prodigarono in modo particolare per
i poveri e lo fecero prima di tuto con lo stile della comunione:
non con elemosine o donazioni ad istituzioni caritative erogate
mantenendo le distanze, ma piutosto invitandoli a tavola con
loro, e per giunta imbandendola con la tovaglia migliore. Al di
là dei pochi mezzi di cui disponevano, l’orizzonte era ampio e
L’aspetto della proprietà di una quota di capitale da parte dei poveri è sottolineato anche da
Yunus (2008, p. 43): “Le imprese di secondo tipo, invece (…) sono socialmente benefiche
grazie alla composizione del loro azionariato. Dato che in questo caso le azioni sono in mano
a poveri e disagiati (…) è a loro che andrà direttamente ogni profitto finanziario prodotto dalla
gestione dell’impresa”.
23
Nei verbali delle riunioni del maggio 1991 abbiamo trovato traccia di un pensiero di Chiara
Lubich che include esplicitamente anche le persone invalide (verso le quali è rivolta l’attività
delle cooperative di tipo B), a dimostrazione che fin dall’inizio anche questo possibile ruolo
dell’impresa non era assente: “(…) finché tutta la comunità non trova il modo di trovare lavoro, dì inserire nella società queste persone, non so, magari handicappati”.
24
L’attenzione all’inserimento lavorativo è stata ribadita nell’ultimo messaggio che Chiara Lubich ha trasmesso al mondo EdC, nel novembre 2007: “Dobbiamo tenere l’anima e il cuore
attenti alla voce di chi il lavoro non ce l’ha. L’EdC è nata anche per questi fratelli e sorelle, per
dare loro l’opportunità di svolgere un lavoro, che resta il mezzo più efficace per sconfiggere
ogni forma di indigenza.” (si veda il notiziario “Economia di Comunione - Una cultura nuova”,
n. 27 (dicembre 2007), p. 4).
22
31
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IMPRESA SOCIALE
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la meta ambiziosa: risolvere alla radice la questione sociale. A
questo si univa una visione molto alta della dignità del lavoro,
in nulla inferiore alla preghiera come modo di vivere la propria
fede.25
d. Come anticipato, il quarto elemento che contraddistingue l’approccio europeo all’impresa sociale, ossia l’atenzione ad adotare regole di governance partecipative, non è stato un aspeto centrale nelle fasi iniziali del progeto EdC, quanto piutosto un’esigenza emersa con il passare degli anni e alla luce dell’esperienza
e delle buone prassi di alcune aziende. È sopratuto a partire
dal 2004 che si è intensificata la riflessione colletiva sulle forme
di gestione e sulle regole di governance necessarie a rendere le
imprese EdC un vero luogo di fraternità e di comunione anche in
materia di organizzazione del lavoro e di governance.26 In questo
campo la strada è stata dunque aperta, ma il cammino da compiere appare ancora lungo.
4. Una visione più ampia dell’EdC
L’EdC oggi si presenta come un gruppo di imprese a movente ideale
e una strutura (peraltro molto snella) per la distribuzione degli utili
da queste donati. Essa, tutavia nasce da un’ispirazione ideale forte,
che va molto al di là delle realizzazioni economiche in cui essa si è
concretizzata a partire dall’avvio del progeto. Ciò fa sì che, più che
per altre manifestazioni dell’economia sociale e civile, il suo specifico non risieda tanto nelle formule organizzative adotate quanto
nell’impegno a tradurre quella ispirazione in pratiche economiche,
e non solo individuali ed isolate, ma anche condivise e istituzionalizzate. Non stupisce allora se, a distanza di quasi vent’anni dall’avvio del progeto, le modalità e i confini operativi del progeto EdC
25
Notiziario “Economia di Comunione - Una cultura nuova”, n. 27 (dicembre 2007), p. 4 (ftp://
bbs.quasarbbs.net/universi/tesi2/Not-edc/Edc27.pdf).
26
Si vedano gli articoli di Parolin e Golin (2009) e di Argiolas (2009), ospitati in questo stesso
volume. L’importanza di elaborare regole formali di governo e di gestione delle imprese EdC è
stata sottolineata dalla stessa Lubich, nel suo ultimo pensiero del novembre 2007: “La comunione vissuta all’interno dell’azienda, infatti, consente che funzioni e ruoli aziendali diventino
servizio, attenzione responsabile alla gestione delle attività affidate e non alle posizioni gerarchiche. La cultura della comunione, infatti, non cambia solo l’atteggiamento individuale nel lavoro ma dà anche vita a ‘strutture di comunione’, che facilitano la vita dell’amore scambievole
nell’impresa (…) L’EdC non giungerà a piena maturazione finché il ‘vino nuovo’ del carisma
dell’unità non trovi degli ‘otri nuovi’ ad esso consoni”.
LE IMPRESE DI ECONOMIA DI COMUNIONE SONO ANCH’ESSE IMPRESE SOCIALI?
Luca Crivelli, Benedetto Gui
restano ancora alquanto indefiniti. Una condizione, questa, che costituisce per alcuni versi un punto di debolezza e per altri un punto
di forza.
Cerchiamo di spiegarci. Il Movimento dei Focolari si è costituito attorno ad un carisma spirituale che sotolinea fortemente uno scopo
e uno strumento: l’unità del genere umano (la fraternità universale),
da realizzarsi vivendo una spiritualità colletiva. Il terreno di coltura dell’EdC, che da quello nasce, è quindi una spiritualità incentrata sull’amore evangelico (come è naturale che sia per un ramo
del ceppo cristiano), con una forte sotolineatura della comunione
come punto di arrivo, come dover essere, della relazione con l’altro.
Comunione sta qui ad indicare la modalità più elevata e profonda
di interazione tra due persone, che si realizza quando esse si aprono
reciprocamente, al di là delle molte barriere che usualmente ci separano, riconoscendo ciascuna la preziosità dell’esistere dell’altra e
realizzando una comunicazione vitale.27
L’altro a cui si riferisce il richiamo alla comunione è certamente colui (o colei) che condivide quel particolare sguardo sul mondo che
nasce dall’adesione ad una tale spiritualità e che quindi condivide
anche l’impegno a vivere di conseguenza, nella vita personale, ma
anche agendo nel mondo sociale e civile (del quale l’economia è evidentemente parte). Ma “altro” è anche il “tu” da cui si compra o a
cui si vende, o con cui ci si ritrova a lavorare fianco a fianco, qualunque siano le sue convinzioni o il suo stile di vita. Senza dimenticare
tuti gli altri “altri”, il cui volto può esserci sconosciuto, ma a cui
siamo comunque indiretamente legati dalla redistribuzione pubblica, dal commercio internazionale o dal comune ambiente naturale
che ci ospita, la cui vita comunque ci riguarda e le cui sofferenze ci
interrogano.
Tuto ciò ha molto da dire, ad esempio, a riguardo dei criteri a cui
vuole ispirarsi l’atività di destinazione di quella parte degli utili
messi in comune che è destinata al sostegno economico di persone in
condizioni di indigenza: in primo luogo la “prossimità”, che oltre ad
assicurare un’adeguata informazione (una risorsa cruciale per qualunque atività di aiuto), è in grado di creare un contesto parificante
Sulla comunione si possono trovare pagine bellissime negli scritti di Emmanuel Mounier (si
veda, ad esempio, il suo “Manifesto”, 1975, p. 130 ss.). Nella spiritualità di Chiara Lubich, più
che di comunione si parla di unità, nel significato della frase del Vangelo “che tutti siano uno”
(Lubich, 1994). Unità, sembra di poter dire, è un’espressione più difficile da comprendere a
prima vista, anche a causa delle stratificazioni lasciate dalla storia; qui il suo significato si avvicina a quello di fraternità universale.
27
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IMPRESA SOCIALE
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entro cui il potenziale di umiliazione che il dono porta con sé può
essere disinnescato e, ancora, può rafforzare in chi riceve la motivazione a fare tuta la sua parte; un secondo criterio è di promuovere la
“reciprocità”, non necessariamente verso chi dona, ma magari verso
terze persone anch’esse in di coltà, per far sì che nessuno resti confinato nel ruolo subalterno di mero destinatario dell’aiuto altrui, ma
possa a sua volta essere atore dando.28 È naturale, però, che l’atività
di distribuzione degli aiuti economici svolta in questi anni all’interno del progeto EdC abbia dovuto, pena il fallimento di quanto sopra, fare tesoro del bagaglio di esperienza accumulato nel corso di
molti decenni dai numerosi organismi che in questo campo hanno
operato. In vari casi la formula adotata, seppure in modo informale,
è stata quella dei piccoli crediti. Qui si è atinto largamente all’esperienza del “microcredito”, che, dalla Grameen Bank in poi, si è rivelato uno strumento molto e cace per fare uscire migliaia e migliaia
di famiglie da situazioni di estrema indigenza, responsabilizzando e
rendendo protagonisti gli stessi beneficiari.29
Qualcosa di analogo si può dire, a nostro avviso, a riguardo dell’operare delle imprese che oggi rendono visibile, tangibile, l’EdC. L’ispirazione del progeto chiede che titolari, dirigenti, stakeholder, destinatari degli utili condivisi, siano tuti visti come candidati alla
comunione. Ciò chiama senz’altro l’impresa a porre atenzione alle
esigenze di ciascuno, riconoscendogli pari dignità, e al tempo stesso
a promuovere il dialogo in tute le direzioni. Tutavia, al di là di queste indicazioni generali, cosa la tensione alla comunione comporti
in fato di disegno organizzativo o di governance non è affato scontato.30 È nostra convinzione che alcune specificità dell’EdC a questo
riguardo emergeranno con il passare del tempo, ma che ad oggi non
si vedano ancora, o comunque non in modo su cientemente nitido.
In parte ciò può essere dovuto al fato che molte delle imprese che
hanno aderito al progeto avevano già un’impostazione preesistente,
È chiaro che, finché gli aiuti vengono destinati a persone appartenenti alla cerchia degli
aderenti e dei simpatizzanti del Movimento dei Focolari, come finora è in gran parte avvenuto,
il soddisfacimento di questi criteri è grandemente facilitato: da un lato, ci si può servire di
una rete di rapporti già consolidata; dall’altro, i beneficiari stessi condividono un ideale di
fraternità.
29
In almeno un caso, come evidenzia l’articolo di Teresa Ganzon in questo stesso volume, il
microcredito costituisce un’attività formale, una linea di business, di un’impresa EdC, che, pur
nel rispetto delle sue compatibilità economiche, si è impegnata ad esaltarne il più possibile le
potenzialità di strumento di lotta all’indigenza e, al tempo stesso, di crescita umana e sociale.
30
Rimandiamo nuovamente agli articoli di Parolin e Golin e di Argiolas in questo stesso volume.
28
LE IMPRESE DI ECONOMIA DI COMUNIONE SONO ANCH’ESSE IMPRESE SOCIALI?
Luca Crivelli, Benedetto Gui
a partire dalla quale hanno avviato vari percorsi di evoluzione, il
cui esito non è chiaramente prevedibile. Ma anche guardando alle
imprese che all’EdC hanno aderito fin dal momento del loro avvio,
e quindi della loro struturazione, si vede che molto resta ancora
da fare, prima a livello di elaborazione teorica e poi di idee guida
condivise da imprenditori e dirigenti. Il fermento, ad ogni modo,
non manca. Una delle esperienze a cui si guarda con più interesse, e
da cui si atinge, è proprio quella delle cooperative sociali. E ciò non
solo perché alcune imprese aderenti al progeto EdC ne adotano la
veste giuridica, ma anche perché la cooperazione sociale costituisce
un esempio molto significativo di contaminazione virtuosa (anche
se non sempre, ovviamente) tra la logica, tipica del mondo for-profit,
della razionale gestione delle risorse e la logica, tipica del mondo
del volontariato, del servizio ad una causa di interesse comune o ad
una categoria svantaggiata. Una contaminazione, come già si diceva,
molto atenta anche al versante interno (partecipazione dei lavoratori alle decisioni, ricerca dell’equità retributiva, ecc.), oltre che a quello esterno (dove pure sono state realizzate interessanti esperienze di
partecipazione, in questo caso di utenti e beneficiari).
Merita osservare che, anche se finora poco si è visto a questo riguardo, in futuro l’ispirazione dell’EdC potrebbe trovare espressione in
istituzioni economiche diverse da quelle che finora la caraterizzano, che sono società di persone o di capitali, dite individuali e cooperative di produtori (o in cui comunque questi hanno un ruolo predominante). È pensabile, infati - e alcune prime esperienze
lo confermano - che quell’ispirazione si incarni in istituzioni come
cooperative di consumo, banche del tempo, mutue di credito o di
previdenza, fondi di investimento, ecc. , intese anch’esse a favorire
l’uscita dall’indigenza di membri o beneficiari esterni, sempre all’insegna della comunione.
Questa osservazione ci riporta alla di cile domanda su quale sia
allora la vera specificità dell’EdC. L’accento posto sulla comunione, è
la risposta quasi obbligata. Atenzione, però, perché qui si nasconde
la possibilità di due opposti malintesi. Se in questa specificità ravvisiamo una forte novità, rischiamo di svalutare quanto di atenzione
all’altro, di condivisione, di collaborazione concorde è stato e viene
vissuto in innumerevoli altre iniziative economiche. Al contrario,
proprio l’esistenza di queste altre esperienze potrebbe portare a concludere che nell’EdC una vera novità non ci sia. A farci ritenere che
l’EdC abbia un suo particolare apporto da dare al panorama economico di oggi ci esorta la reazione di apprezzamento e insieme di sor-
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IMPRESA SOCIALE
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presa di chi ne incontra le manifestazioni più genuine, che mostrano
spezzoni di vita economica illuminati, appunto, da una scintilla di
comunione realizzata.31
5. Conclusioni
Come preannunciato nell’introduzione, la lente offertaci dai vari
modelli di impresa sociale discussi in leteratura ci ha consentito di
chiarire meglio (forse prima di tuto a noi stessi) quali siano l’identità e le specificità delle imprese di Economia di Comunione. Nei paragrafi precedenti ci siamo preoccupati di far emergere sopratuto
le a nità esistenti con le tre principali tradizioni di impresa sociale
(Social Enterprise School, Social Innovation School e modello europeo
definito dal network Emes). Il fato che le imprese EdC non possano
riconoscersi interamente in nessuno di questi modelli (anche se vi
sono punti di contato con ciascuno di essi) sembra confermare che
ci troviamo di fronte ad un’ulteriore specie nella variegata e interessante “fauna” dell’economia sociale.
In questa conclusione vorremmo però soffermarci in particolare su
un’idea suggeritaci dallo studio degli approcci esistenti e che può
rappresentare un utile stimolo di riflessione per lo sviluppo futuro
dell’EdC.
Il modello americano di imprese sociali di “seconda generazione”
sta sotolineando fortemente che non solo la società civile, con le sue
tipiche organizzazioni, ma anche gli imprenditori possono essere
vetori di innovazione sociale e contribuire a promuovere approcci
inediti per la soluzione di problemi sociali e per il riscato degli indigenti dalle tipiche trappole della povertà. Il Movimento dei Focolari,
nei suoi oltre sessant’ anni di esistenza, ha dato vita ad innumerevoli
opere sociali, mediante le quali ha cercato di realizzare un modello di sviluppo integrale delle persone e delle comunità, capace di
determinare una reale fioritura umana. Queste realtà, nate in gran
parte prima del 1991, non sono però finora entrate in una relazione
direta di collaborazione con le aziende associatesi al progeto EdC
o costituitesi atorno ai poli produtivi, mentre l’aiuto agli indigenti
è passato quasi interamente atraverso interventi personalizzati. La
lezione che ci viene dalla Social Innovation School è un tacito invito al
Una conferma di questa affermazione si può avere leggendo le testimonianze e le storie
aziendali presentate nei vari numeri del notiziario Economia di Comunione, disponibili all’indirizzo http://www.ecodicom.net/notiziario.php.
31
LE IMPRESE DI ECONOMIA DI COMUNIONE SONO ANCH’ESSE IMPRESE SOCIALI?
Luca Crivelli, Benedetto Gui
progeto EdC a dialogare più stretamente con le opere sociali, del
Movimento e non, nell’intento di generare nuove sinergie. Un accrescimento della comunicazione tra le due realtà potrebbe orientare
verso la soluzione dei problemi sociali il potenziale di innovazione
degli imprenditori collegati all’EdC e, nel contempo, far sì che parte
dell’aiuto agli indigenti avvenga atraverso progeti di crescita umana e sociale più struturati. Una recente esperienza che si è mossa in
modo prometente in questa linea, fruto della collaborazione con
un’organizzazione per il reinserimento dei ragazzi di strada, è un
laboratorio inserito nel polo produtivo del nord-est brasiliano in cui
i ragazzi imparano tecniche artigianali con cui mantenersi. Esperienze come questa mostrano, tra l’altro, una via per allargare la cerchia
della condivisione al di fuori degli aderenti al Movimento dei Focolari in un modo coerente con i criteri di prossimità e di reciprocità
che caraterizzano l’aiuto fornito dal progeto EdC, a nché avvenga
anch’esso all’impronta della fraternità.
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L’ECONOMIA DI COMUNIONE E L’AMERICA LATINA. VIE ALTERNATIVE DI SVILUPPO
Cristina Calvo
L’Economia di Comunione e l’America Latina.
Vie alternative di sviluppo
Cristina Calvo1
Sommario
1. Premessa - 2. Il contesto culturale latino-americano - 3. Un nuovo paradigma - 4. Iniziative dell’economia solidale e imprese di Economia di Comunione - 5. Conclusioni
1. Premessa
L’Economia di Comunione (EdC) nasce in America Latina nel 1991
per confluenza di fatori diversi e da qui si diffonde in tuto il mondo. Questo non è un caso. Il continente latino-americano è segnato
da parole quali povertà, inequità, diseguaglianza. Sono ferite alla
dignità umana, che richiedono una risposta struturale.
A sua volta, l’Economia di Comunione è atenta a valorizzare la cultura locale, caraterizzata dalla ricca eredità dei popoli che abitavano
originariamente queste terre: gli Aztechi, i Maya, gli Incas, che più
di 500 anni fa sotolinearono l’importanza della comunione nella gestione comunale dei beni e delle risorse.2
Phd in Human Behavior. Docente presso la Cattedra “Amartya Sen” della Facoltà di Scienze
Economiche dell’Università di Buenos Aires, consulente regionale dell’area di Cittadinanza
Attiva e Incidenza Politica della Segreteria per l’America Latina e i Caraibi di Caritas e membro
della Commissione Internazionale ¨per una economia di comunione¨.
2
Scrive Ortega Pérez (2005), riferendosi all’economia guaranì: “La loro economia è organizzata secondo queste caratteristiche: a) la proprietà delle risorse naturali è comunale, quindi, non
esiste la proprietà privata su di esse; b) è un’economia intensiva nell’uso della mano d’opera,
1
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IMPRESA SOCIALE
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Dal lancio del progeto fino ad oggi sono trascorsi 18 anni. Sono
cambiate molte cose per quanto riguarda l’economia e la società. Nel
1989 l’Occidente è stato testimone della caduta del Muro di Berlino,
per cui due anni più tardi si percepiva nel sentire colletivo della società civile internazionale un grande otimismo per un nuovo ordine
economico pacifico, senza miserie e senza fame. In un momento in
cui le buone ragioni per guardare con otimismo e speranza al capitalismo erano parecchie, Chiara Lubich lancia il progeto EdC, che
rappresenta una sfida silenziosa, ma integrale a quel capitalismo.
Nel mondo EdC si parla spesso di imprese e di imprenditori, ma in
realtà la proposta è molto più ampia: è una nuova visione dell’economia (in cui, beninteso, è compresa anche l’impresa e l’imprenditore)
che invita a ripensare l’idea stessa di atività economica e di mercato.
Questa “sfida silenziosa” è l’idea soggiacente dell’intero progeto il
cui fine ultimo è elevare i più poveri.3
2. Il contesto culturale latino-americano
Quando parliamo di America Latina dobbiamo situarci mentalmente in un contesto contraddistinto dai seguenti fenomeni:
• ricchezza concentrata in poche mani, che provoca ingiustizia sociale: ricchi ogni giorno più ricchi e poveri ogni giorno più poveri che rimangono “esclusi” dalla società. Questo in cifre significa
che tra il 40 e il 50% della popolazione è costreta a vivere soto la
soglia di povertà e che il 20% si trova in situazione di indigenza.
Questi valori sono persistenti da almeno 25 anni (CEPAL - Commisisione Economica per l’America Latina e i Caraibi-Nazioni
Unite, Panorama sociale dell’America Latina, 1996-2003);
• scarso esercizio dei diriti fondamentali delle persone. Possiamo
affermare che la povertà ammazza e ammala. Se analizziamo il
tasso di mortalità materna ogni 100.000 nati vivi costatiamo come
in paesi come il Canada esso raggiunga un valore di 8, mentre la
media per tuta l’America Latina è di oltre dieci volte superiore
particolarmente per quanto riguarda la forza di lavoro familiare; c) si produce generalmente
per il valore di uso del prodotto; d) i prodotti sono immagazzinati per semi e per la sicurezza alimentare; e) le terre di produzione comunale consentono di ricreare la reciprocità e la
“logica del dono”; f) non è presente nella vendita il concetto di risparmio; g) la tecnologia è
rudimentare e manuale, anche se durante gli ultimi anni attraverso programmi di cooperazione
internazionale, alcune comunità sono state fornite da trattori”.
3
L’obiettivo centrale dell’Economia di Comunione, lo ricordiamo, è superare la povertà e fare
in modo che non ci sia più alcun indigente.
L’ECONOMIA DI COMUNIONE E L’AMERICA LATINA. VIE ALTERNATIVE DI SVILUPPO
Cristina Calvo
(94,7).4 Queste differenze si ripetono in proporzioni simili se consideriamo la mortalità infantile, l’indice di omicidi e la speranza
di vita;
• fragilità nello sviluppo istituzionale (politico e giuridico). Rapporti spesso al limite della legalità e poco etici tra aziende, élites
sociali e classe politica;
• società civili deboli, caraterizzate da organizzazioni frammentate e poco tutelate nelle proprie opportunità di sviluppo, chiamate non di rado a fronteggiare richieste contradditorie da parte
dei citadini;
• aziende multinazionali che spiazzano le aziende nazionali e
adotano condote molto diverse da quelle seguite nei propri paesi di origine;
• diseguaglianza nelle condizioni di accesso ai mercati dei paesi
sviluppati che, mantenendo in vigore sussidi alle imprese domestiche e barriere doganali, inibiscono lo sviluppo delle economie
latino-americane e ne provocano la frammentazione sociale.
Questa situazione ha conseguenze nefaste per le fasce di popolazione costrete dalle varie forme di povertà, diseguaglianza e discriminazione a subire una condizione di “radicale esclusione”.5 La povertà in America Latina è ormai una componente struturale della
sua stessa conformazione socio-politica. Le statistiche riportate nella
tabella 1 ci offrono informazioni ancor più detagliate per cogliere
appieno la gravità della situazione (Klikberg, 2002).
In Argentina si registra una mortalità di 43,6, in Bolivia di 230, in Brasile di 73 e in Honduras
di 108.
5
Definiamo “escluso” colui che “rimane fuori” da un gruppo, un settore, un territorio, un sistema sociale, uno spazio politico, culturale, economico; egli non accede quindi a relazioni, non
partecipa alle decisioni, alla creazione dei beni e dei servizi. Quando parliamo di esclusione
non ci riferiamo dunque alla povertà relativa e alle diseguaglianze nella piramide sociale, ma
all’esistenza o meno di uno spazio nella società per una parte della popolazione. Se, da un lato,
ci sono persone che traggono benefici e partecipano alla dinamica sociale, ve ne sono altre
che ne rimangono totalmente escluse, con il conseguente rischio di rottura della coesione
sociale e l’insorgere di fenomeni di aggressività e violenza (personale e sociale). Le patologie
sociali manifestate sono molteplici: dipendenze di ogni genere (tabacco, alcol, sesso, gioco,
consumo compulsivo, ecc.) e disaffezioni (isolamento, malattie mentali, perdita del senso
della vita, incomunicazione, aggressività, violenza).
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IMPRESA SOCIALE
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TABELLA 1 - QUADRO DELLA POVERTÀ IN AMERICA LATINA
Bambini a rischio
58% dei bambini di età inferiore ai 5 anni sono poveri (CEPAL)
36% dei bambini con meno di 2 anni sono in situazione di alto rischio alimentare (CEPAL)
190.000 bambini muoiono ogni anno per malattie prevenibili o controllabili (OMS)
22 milioni di bambini minori di 14 anni lavorano (OIT)
In Bolivia, Perú ed Ecuador, il 20% dei bambini tra 10 e 14 anni lavora
La popolazione di bambini che vive sulla strada è in aumento. Appartengono per
lo più a famiglie distrutte dalla povertà. Sono la faccia dell’esclusione sociale
Vulnerabilità giovanile
a) Più povertà
Tra 1990 e 2002 ci sono stati 17.600.000 di giovani poveri in più, raggiungendo
una cifra di 58 milioni
800.000 giovani indigenti in più, raggiungendo i 21 milioni
b) Disoccupazione
La disoccupazione giovanile supera di 2,5 volte l’alto indice di disoccupazione
generale
Su ogni 100 nuovi posti di lavoro, 93 sono per adulti e 7 per giovani
Instabilità dell’impiego giovanile/variabile di adeguamento
c) Esclusione
Ogni 4 giovani tra i 15 e i 29 anni, uno è fuori dal mercato del lavoro e dal sistema
educativo
Inchiesta sulle “Maras” (una delle piú famose forme di violenza giovanile, frutto
della esclusione) in America Centrale
UNICEF: “Questo problema non può essere affrontato soltanto dalla prospettiva
della sicurezza pubblica”
Situazione delle popolazioni indigene
(oltre 400 popoli, per un totale di 40-50 milioni di persone)
a) Livelli di povertà tra le popolazioni indigene (alcuni esempi)
Perú: 75%; Guatemala: 77%; Bolivia: 81%; Ecuador 81%
b) Mortalità materna tra le popolazioni indigene (alcuni esempi)
Honduras: da 190 a 255 ogni centomila; Bolivia e Perú: da 270 a 390 ogni centomila
Diseguaglianza (indice di Gini)
Paesi più sviluppati, in termini di equità (Svezia, Danimarca, Paesi Bassi, altri): da
0.25 a 0.30
Paesi svilupati: 0.30
Media globale: 0.40
America Latina: 0.57 (il 10% più ricco detiene il 48% Pil, il 10% più povero solo
l’1,6% del Pil).
L’ECONOMIA DI COMUNIONE E L’AMERICA LATINA. VIE ALTERNATIVE DI SVILUPPO
Cristina Calvo
Diversi documenti internazionali sotolineano quanto questa situazione sia peggiorata con il passare degli anni, anche per gli effeti della
globalizzazione che ha determinato un aumento delle diseguaglianze.
Nel rapporto ONU 2005 si afferma: “C’è un’evidenza sempre più forte
sul fato che l’impato della crescita economica sulla riduzione della
povertà risulta essere significativamente minore quando la diseguaglianza aumenta invece che diminuire”. Si legge nel Rapporto della
Banca Mondiale 2005 : “Le inequità tendono a riprodursi nel tempo, di
generazione in generazione. Questo tipo di fenomeno viene chiamato
‘trappola di inequità’. Quindi è lecito atendersi che molti dei bambini
che oggi vivono in condizioni svantaggiate, domani (quando saranno
adulti) guadagneranno meno dei bambini che oggi dispongono di più
risorse”. La figura 1 illustra, sulla base di dati argentini, i meccanismi
che determinano questa trappola (Karina Ludica, 2005).
FIGURA 1 - LA TRAPPOLA DELL’ESCLUSIONE IN ARGENTINA
Adeguato
Bimbi che
controllo di nascono con
gravidanza
basso peso
Bambini
non
poveri
45%
Bimbi che
frequentano
la scuola
dell’infanzia
Bimbi senza Ripetizione
copertura di classi nella
sanitaria
scuola
elementare
Abbandono
della scuola
media
Giovani
esclusi
5%
7%
96%
5%
76%
10%
90%
10%
5%
Si apre la breccia...
Bambini
poveri
55%
29%
60%
27%
30%
23%
• La conseguenza della disuguaglianza è la frammentazione sociale
• Confusione tra ¨mezzi¨ e ¨fini¨
3. Un nuovo paradigma
Le crisi ricorrenti del capitalismo, espresse nelle statistiche descrite
al paragrafo precedente, fanno sorgere nuove domande a cui è possibile offrire risposte mediante un nuovo paradigma, che nasce da
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IMPRESA SOCIALE
luglio ~ settembre 2009
una ridefinizione del principio di comunione e di reciprocità.
In America Latina i citadini sono alle prese con la transizione da
una democrazia passiva ad una democrazia ativa, realizzata anche
grazie ad una maggior decentralizzazione dello Stato. Le tappe di
questo itinerario sono: i) il passaggio al ruolo di Stato promotore, ii)
l’eliminazione delle più varie forme di corruzione, iii) l’atenzione
alla responsabilità sociale delle politiche pubbliche e delle imprese
private, iv) l’avvio di un dialogo costrutivo tra Stato, setore privato
e società civile e v) l’assunzione di responsabilità e di un condice
etico di condota da parte dei mass media.
Come abbiamo ricordato all’inizio, gli archetipi di molte risposte comunitarie alle problematiche sociali erano già presenti nelle
culture originarie dell’America Latina, sebbene non sempre accompagnate da libertà ed uguaglianza. Tra gli economisti latinoamericani è molto diffusa la consapevolezza di un cambiamento
di indirizzo, anche se purtroppo non è ancora chiaro quale debba
essere la direzione verso cui muoversi. La leteratura degli ultimi
anni insiste sul bisogno di allargare il campo di azione della ricerca
economica, segnatamente in virtù del fato che i mezzi non possono essere dissociati dall’oggeto (e in questo caso nemmeno dal
soggeto) sul quale agiscono. Le teorie economiche non sono, infati, strumenti neutrali di conoscenza del comportamento umano,
poiché finiscono sempre e comunque con il legitimare determinati
comportamenti nelle persone; in altre parole i modelli teorici e le
analisi empiriche non veicolano gli esiti di esperimenti e simulazioni in modo neutrale, ma, diretamente o indiretamente, sono
pure strumenti che modificano le condote di molti esseri umani.
Pertanto l’economia non può avere un’esistenza autonoma, del tutto separata dalla riflessione sui valori e sulle questioni normative
(Zamagni, 1997).
In considerazione di ciò sono nati modelli alternativi di sviluppo che
considerano la crescita economica un presupposto necessario, ma
non su ciente del progresso umano. Questi modelli si concentrano
sulla qualità della crescita e sulla necessità di favorire un dialogo
intersetoriale in grado di promuovere un accordo solidale capace
di realizzare un nuovo modello di sviluppo integrato, fondato sulla
rivalorizzazione del ruolo delle politiche pubbliche e del capitale sociale, su accordi e alleanze strategiche e sull’integrazione delle novità apportate dalle economie alternative, sociali e solidali.
L’ECONOMIA DI COMUNIONE E L’AMERICA LATINA. VIE ALTERNATIVE DI SVILUPPO
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FIGURA 2 - ACCORDO SOLIDALE
Settore Privato
Settore
Pubblico
Settore Sociale
Eco
Sociale
Responsabilità,
Codici etici.
Concertazione,
Investimento Sociale,
Regolazione, Preventivo
partecipativo.
Approfondire e
contagiare la
solidarietà.
In questo contesto l’Economia di Comunione propone un suo contributo al nuovo paradigma emergente. Si trata di uno sguardo inedito, che prende le mosse dalla “cultura del dare” e che trova applicazione nel contesto aziendale. È questo il suo “valore aggiunto”, il
fato di riportare al centro delle faccende economiche il principio di
reciprocità. L’EdC condivide con altre esperienze economiche solidali il cosiddeto “fatore C”: “C” come “Comunione”, “Cooperazione” e “Condivisione”. La solidarietà convertita in forza produtiva,
per il fato di operare con margini minimi di eccedenza e livelli alti
di austerità, è molto più e cace nel distribuire la scarsità (Razeto,
1997). Nello stesso tempo l’Economia di Comunione si distingue da
altre espressioni dell’economia sociale per la sua diversa mediazione
tra azienda e poveri e per il fato di non presupporre in modo formale il conceto di “autogestione”. Ciononostante negli ultimi anni
stanno emergendo, sopratuto in America Latina, alcuni progeti di
autogestione, economicamente democratici, che si ispirano all’Economia di Comunione.
Solidarietà e comunione sono conceti che possono avere accenti diversi, nel senso che la solidarietà a volte può manifestarsi in modo
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IMPRESA SOCIALE
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non costante e struturale, ma piutosto occasionale e spasmodico.
Per contro la comunione, in quanto radicata nel principio di fraternità, non può essere praticata una volta ogni tanto, per il fato incontrovertibile che “tuti nasciamo fratellli, membri di un’unica famiglia
umana” (Bruni, 2001).
La proposta dell’EdC si situa fondamentalmente sul piano antropologico e culturale. Il pensiero e l’azione di Chiara Lubich si fondano
su una “spiritualità di comunione” ed è questa spiritualità che porta
a lanciare la sfida di un “mondo senza povertà” da realizzarsi attraverso una comunione dei beni su scala produtiva nel rispeto di
tre principi: l’amore verso i poveri, l’avvio di iniziative economiche
e sociali, la formazione delle persone ad una cultura della condivisione. L’EdC non si sofferma sulla forma giuridica dell’impresa
(lasciata fondamentalmente aperta), ma punta in modo chiaro ad
una trasformazione interna della realtà aziendale, facendo leva sulle
motivazioni intrinseche delle persone (presupponendo che la scala
di valori a cui si ispira l’azione degli individui negli altri campi della vita possa trovare applicazione anche nella sfera economica). Da
qui nasce la necessità di un forte richiamo alla cultura. Senza una
cultura di comunione vissuta su scala universale non si intravede la
possiblità di un vero sviluppo umano, né per i singoli né tanto meno
per i popoli (Bruni, Zamagni, 2003).
4. Iniziative dell’economia solidale e imprese di Economia di
Comunione
Siamo in grado di affermare che in America Latina l’obietivo di
“umanizzare l’economia” sia presente in diverse realizzazioni.
Iniziative dell’economia solidale6
Da una parte troviamo le varie espressioni dell’economia solidale,
soto il cui cappello confluisce un insieme vasto di iniziative di produzione, commercializzazione, finanza e consumo etico, che valorizzano l’autogestione e la cooperazione atraverso la costituzione
di associazioni e cooperative, l’avvio di microimprese finalizzate al
recupero di fabbriche dismesse e al rilancio di catene produtive. In
Nonostante le differenze esistenti fra le varie Scuole, ai fini del presente lavoro utilizzeremo
il termine “economia solidale” come sinonimo di altre espressioni quali “economia sociale”,
“economia popolare”, “economia del lavoro”, “economia alternativa”, ecc.
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L’ECONOMIA DI COMUNIONE E L’AMERICA LATINA. VIE ALTERNATIVE DI SVILUPPO
Cristina Calvo
tute queste iniziative riveste un ruolo centrale l’aspeto comunitario
e lo sforzo creativo colletivo per dare risposte adeguate a situazioni
di emarginazione che colpiscono sopratuto i più poveri. Soltanto in
Brasile sono state censite oltre 15.000 iniziative economiche solidali,
con più di 1.200.000 uomini e donne che svolgono le più varie atività di produzione di beni e di servizi (Bruni, Calvo, 2009).
Le proposte dell’economia solidale sono molto varie e portano denominazioni diverse a seconda della Scuola e dell’autore di riferimento
(tab. 2).
Per meglio cogliere la natura di queste esperienze di economia solidale, riteniamo utile presentare alcuni esempi di iniziative legate
alle comunità dei Focolari dell’America Latina (Bruni, Calvo, 2009).
Fazenda Esperanza (Brasile) (Dos Santos, Brusche, 2007)
L’esperienza ha inizio nell’anno 1979, con l’arrivo di Hans Stapel, Frate dell’Ordine dei Frati Minori, a Guaratinguetá (San Paolo - Brasile).
Il religioso francescano avvia nella Parrocchia di Nostra Signora della Gloria una nuova esperienza di vita basata sull’amore crisitano,
a partire dalla quale prendono forma numerose iniziative di azione
sociale che si ispirano alla frase del Vangelo “tuto quanto farete al
più piccolo dei miei fratelli, lo avrete fato a me”.
Questo frate francescano, appartenente al Movimento dei Focolari,
conosceva l’esperienza di formazione delle Mariápolis7. Decide di
applicare gli stessi principi di queste citadelle ad una proposta terapeutica per il recupero di tossicodipendenti.
I giovani delle fazendas riescono a recuperare la propria dignità scoprendosi figli di un Dio che è Padre di tuti e che dunque ama tuti.
La vita in comunità è scandita dalla letura e dalla pratica della Parola, senza il ricorso a medicine, e consente ai giovani di ricostruirsi
un’identità e di coinvolgersi in atività produtive di autosostentamento in cui si sperimenta la cultura di comunione e si vive la comunione dei beni.
È la logica di reciprocità a sorreggere le molteplici iniziative produttive delle fazendas. I giovani sperimentano un’enorme soddisfazione quando vedono il fruto del proprio lavoro e questa esperienza
Le Mariápolis sono cittadelle di testimonianza e formazione per i membri del Movimento dei
Focolari. Attualmente le Mariápolis sono 35, sparse nei cinque continenti e contraddistinte da
livelli di sviluppo molto diversi. Si presentano come piccole città moderne, con case, negozi,
luoghi di ritrovo, laboratori, piccole imprese che contribuiscono al sostentamento degli abitanti, luoghi di culto, scuole di vita e di spiritualità (www.focolares.org.ar).
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IMPRESA SOCIALE
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consente loro di riscoprire la propria dignità, per anni oscurata dal
disordine delle droghe e dai furti necessari per otenerla. Il lavoro
svolge un ruolo essenziale nel processo di recupero di questi giovani. È molto più di una terapia occupazionale: consente di applicare
nel lavoro la propria energia, il tempo, l’intelligenza e la creatività
e di scoprire il valore stesso del lavoro. La grande maggioranza degli abitanti delle fazendas ha poca dimestichezza con il lavoro (molti
infati non hanno mai lavorato prima). La sfida di assumere un incarico lavorativo richiede disciplina, forza di volontà per uscire dalla
comodità, tenacia, sforzo fisico e mentale, superamento dell’instabilità dovuta alla dipendenza dalle droghe, coraggio di affrontare
le di coltà e la routine della giornata di lavoro, nel rispeto di orari e responsabilità. Per acquisire o recuperare tuto questo ci vuole
allenamento. I giovani assumo le mansioni lavorative in gruppo e
questo li aiuta ad imparare a lavorare insieme, a cooperare, a condividere e assumere compiti e mansioni.8
Oggi le fazendas sono 37, distribuite nelle varie regioni del Brasile.
A queste se ne aggiungono altre oto avviate nel fratempo in altri
paesi: due in Germania, una rispetivamente in Paraguay, nelle Filippine, in Russia, in Messico, in Guatemala e in Argentina. Tuti i
centri sono autogestiti e nella maggior parte si sostengono economicamente atraverso le microimprese produtive.
Non è importante il tipo di mansione svolta, perché tuti hanno la
stessa dignità. In genere le atività produtive sono di tipo agricolo o
industriale: produzione di candeggina, riciclaggio di plastica, prodotti alimentari come pastasciuta, pani e conserve, articoli di cartoleria.
Tute le microimprese sono autogestite, partecipative e cooperative.9
Scuola Aurora (Argentina) (Gati, 2006)
In quest’opera sociale viene affrontata la problematica della povertà
congiuntamente a quella dell’emarginazione, che storicamente si è
radicata nel continente latino-americano con particolare riferimento
alle culture autoctone; da una cultura di comunione si è sviluppato
un progeto di inclusione che puntando sulla formazione lavorativa
cerca di raggiungere l’inclusione socio-culturale dei più poveri.
Cfr. http://www.fazendadeanfunes.org.ar/Paginas%20en%20uso/terapia.htm.
Anche le famiglie dei giovani partecipano a questa esperienza di produzione: quando vengono in visita, sempre portano con sé una cesta con i prodotti elaborati dal proprio figlio
nella fazenda. Questo è importante per il recupero, dato che i giovani cominciano a sentire
che non sono un peso per le loro famiglie ma che contribuiscono in qualche modo al loro
sostenimento.
8
9
L’ECONOMIA DI COMUNIONE E L’AMERICA LATINA. VIE ALTERNATIVE DI SVILUPPO
Cristina Calvo
TABELLA 2 - VARIETÀ DI PROPOSTE SULL’ECONOMIA SOLIDALE
Denominazione e autore
di riferimento
- Economia popolare (L.
Razeto)
- Economia del lavoro
(J.L. Coraggio)
- Economia sociale (L.
Favreau, J.L. Laville)
- Socioeconomia solidale
(M. Arruda, L.López
Llera)
- Economia solidale (P.
Singer)
Nozioni e visioni
- Corrente di pensiero e
azione che cerca di recuperare il senso etico
e sociale dell’economia
- Ritorno alla radice etimologica della parola
“economia”: oikos +
nomos, cioé regole per
la gestione di una casa
universale (una società
senza esclusi)
- Attività economica finalizzata a risolvere i problemi di disuguaglianza
e povertà
- La persona va considerata in termini sia di
realizzazione di un progetto di vita individuale
sia all’interno di un
collettivo sociale: integralità dei diritti umani
Caratteristiche principali
- Finalità di servizio alla
comunità
- Autonomia di gestione
- Processi decisionali
democratici
- Primato della persona
Strategie di intervento
- Produzione locale sostenibile
- Commercio equo
- Consumo etico
- Finanze solidali
- Turismo sociale e sostenibile
- Moneta sociale
- Sviluppo economico
locale
Tipologia di attività
- Cooperative e imprese
sociali in ambito urbano; comunità rurali a
prevalenza femminile e
indigena
- Associazioni di produttori, commercianti e
consumatori
- Banche comunali o
“banche dei poveri”
- Autoconsumo e microimprese
Principi ispiratori
- Fiducia nel funzionamento
della società civile
- Riconoscimento delle
differenze di capacità e
competitività delle persone
- Stimoli alla complementarietà, alla cooperazione e
alla solidarietà
- Costruzione dello sviluppo
umano con equità
- Passaggio da un paradigma centrato sul capitale e
la competitività posizionale
ad uno centrato su lavoro
e cooperazione
- Parità di genere
- “Fattore C”: collaborazione, cooperazione,
comunità, condivisione,
complementarietà, confidenza, coscienza, cuore,
comunione, la cui assenza
(o presenza) influisce
direttamente sulla produttività dell’unità economica,
sull’aspetto etico e sui
rapporti umani.
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IMPRESA SOCIALE
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La Scuola Aurora è situata nel distreto di Santa Maria di Catamarca,
nel Nord-Ovest argentino, zona in cui fin dai tempi remoti è presente una ricca cultura andina, erede dell’Impero Inca. L’esperienza nasce 36 anni fa, in un contesto che paradossalmente molti chiamano
di “marginalità culturale”.
Il primo obietivo della Scuola è stato quello di collegare l’atività artigianale alla possibilità di uno sbocco lavorativo; in un secondo momento si è accertata l’esistenza di un bisogno formativo, per offrire
non solo uno spazio di formazione tecnica nei laboratori artigianali,
ma anche una formazione integrale. Si è pertanto profilata l’opportunità di un riorientamento dei laboratori di arti e mestieri verso
l’atuale scuola di formazione integrale per artigiani.
Nel DNA della Scuola Aurora è da sempre presente il senso della
comunità, perché la Scuola Aurora non è stata progetata a tavolino.
È nata da una comunità con scarsissime risorse, ma con un grande
impegno nei confronti del rispeto della dignità umana. Anita, una
delle leader del gruppo, afferma: “Pensavamo a cosa si potesse fare
per i più poveri della nostra comunità; dovevamo aiutarli a mantenere la dignità atraverso un lavoro autonomo, che consentisse
l’autosostentamento; abbiamo osservato i giovani, in particolare del
quartiere Palomar che in quel tempo si trovava in una terribile situazione. Siccome uno di noi sapeva fare il falegname e un’altra la sarta,
ci siamo deti: avanti, insegniamo loro ciò che sappiamo.”10
La fiducia è il leivmotiv della cultura organizzativa e di gestione che
gli alunni, i professori e gli addeti all’amministrazione vivono nella
scuola. “La Casa Grande”, definita così da una delle alunne, è grande non per la sua ampiezza fisica, ma per lo spazio amplificato che
l’esperienza di reciprocità genera: uno spazio di tuti, in cui tuti trovano posto. Le risorse della Scuola sono sopratuto le persone. È
straordinario constatare che è stato su iniziativa degli stessi alunni e
dei professori, quale risposta all’investimento operato su di loro, che
sono sorti nel tempo i progeti di espansione e di sistematizzazione
del sistema formativo da loro stessi direto.
La Scuola Aurora è nata per dare continuità al progeto di recupero
della cultura autoctona e, per le sue carateristiche, è considerata la
prima di questo genere in Argentina e la seconda in America Latina.
L’obietivo fondamentale è la formazione integrale delle persone, rispetando la cultura locale degli antenati e consentendo agli alunni,
atraverso lo sviluppo dell’arte e dell’artigianato, di generare risposte
10
Moya, Anita (2005), intervista, VT documentario: “L’origine di Aurora”.
L’ECONOMIA DI COMUNIONE E L’AMERICA LATINA. VIE ALTERNATIVE DI SVILUPPO
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produtive, commerciali, turistiche e culturali. La Scuola promuove
e accompagna anche i gruppi pre-cooperativi11 sorti su iniziativa di
ex alunni: Laboratorio Armonia, Laboratorio “Alas de Colibrí”, “Manos Vallistas”, Laboratorio “TinkuKamayu”.12
Poli industriali e imprese di Economia di Comunione
L’EdC si presenta oggi come una realtà plurale e di grande sviluppo, composta, da un lato, da imprese che, per rendere più visibile il
progeto, si sono trasferite o si sono costituite ex novo nei vari poli
industriali EdC e, dall’altro, da aziende che pur non trovandosi fisicamente nei poli si ispirano all’EdC, da cooperative sociali e imprese
sociali di diversa natura (progeti di sviluppo, azioni di volontariato,
educative, ecc.), che vivono e promuovono una cultura di comunione (Lubich, 2003).
I poli industriali
Va sotolineato che fin dalla sua nascita, nel 1991, un importante
obietivo del progeto EdC è stato la costituzione di poli industriali,
nei quali si potesse mostrare una convivenza rinnovata dalla cultura
di comunione in tuti i suoi aspeti.13
In America Latina si sono costituiti tre poli industriali: due in Brasile
e uno in Argentina, collegati al resto delle imprese distribuite sul
territorio in ciascuno dei due paesi. Il primo polo in assoluto è stato
il Polo Spartaco, sorto nei pressi di San Paolo e gestito da una società
che coinvolge 3.000 azionisti con 9 aziende in funzionamento: imballaggi, materiali plastici, abbigliamento, prodoti farmaceutici, servizi
educativi, cure mediche e servizi di consulenza. In Argentina, a 230
km da Buenos Aires, è sorto il Polo Solidarietà, su un appezzamento
I laboratori pre-cooperativi sono piccole imprese produttive in cui si sono riuniti artigiani
ed ex alunni della Scuola Aurora con l’obiettivo di generare opportunità di lavoro. Ogni laboratorio condivide questi principi: riscattare le tecniche artigianali degli antenati proprie della
zona e fare un’esperienza di lavoro comunitario e fraterno a partire dalla reciprocità. Sebbene
i laboratori si trovano in fasi di sviluppo diverse, tutti puntano verso la stessa meta. È da
sottolineare che questi gruppi sono composti da persone povere che possiedono come unico
capitale iniziale, il capitale umano: i propri talenti e la propria buona volontà.
12
Laboratorio Armonía: produce capi di abbigliamento e accessori fatti al telaio (prodotti ecologici). Laboratorio “Alas de Colibrí”: artigianato in metallo (alpaca, bronzo) e legno, bigiotteria
artigianale di buon gusto con l’iconografia indigena. Manos Vallistas: produce pezzi artigianali
in ceramica rossa e nera con tecniche indigene. Laboratorio Tinku-Kamayu: filatura di lana di
lama e pecora, produzione di copriletti, coperte e altri articoli con la stessa lana.
13
Per un approfondimento della realtà dei poli, con particolare riferimento al polo italiano, si
veda l’articolo di Bellanca, Libanora e Testi in questo stesso volume.
11
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IMPRESA SOCIALE
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di terra di 35 etari in cui sono ative aziende per la coltivazione di
ortaggi in serra, ateliers per la produzione di oggeti artigianali in
ferro, prodoti di apicoltura, prodoti di pasticceria.
Le imprese associate
In America Latina sono state recentemente censite 218 aziende che
vivono l’Economia di Comunione e che sono in qualche modo collegate ai poli. In questi anni, uno dei fruti più importanti dell’iniziativa è stato senza dubbio la nascita di una comunità di imprenditori,
che si riunisce regolarmente per incoraggiarsi a vicenda nell’aderire
ai principi del progeto e per elaborare insieme iniziative volte a diffondere e consolidare l’Economia di Comunione in America Latina.
Atorno agli imprenditori “di prima generazione” si è costituito un
gruppo di giovani, che ha colto con la stessa radicalità dei primi imprenditori il messaggio dell’EdC e che oggi è garanzia di continuità
del progeto e di maturità.14
Fanno atualmente parte del progeto persone di ogni condizione:
alcuni sono titolari di piccole imprese, altri dirigono aziende di medie dimensioni; alcuni sono diretamente legati al Movimento che
ha dato origine a questo progeto, ma molti altri aderiscono ai valori
proposti senza nessun tipo di legame istituzionale.
Betina Gonzaléz, una delle giovani imprenditrici di “seconda generazione”, porta avanti un’interessante esperienza di gestione di
un’agenzia viaggi. “Boomerang Viajes” è un’azienda di turismo che
nasce con l’impegno di realizzare un’impresa sociale che aderisce
al progeto di Economia di Comunione e alle proposte di economia
solidale quali il commercio equo e il turismo solidale.
Queste motivazioni hanno spinto a realizzare una proposta turistica
originle: i “viaggi solidali”, caraterizzati dall’elaborazione di programmi per destinazioni meno sviluppate turisticamente, allo scopo
di stimolare lo sviluppo economico e sociale della comunità locale.
La priorità è quella di preservare la cultura locale e di fare in modo
che una percentuale maggioritaria del prezzo pagato dai turisti per
il viaggio rimanga nella comunità e non venga concentrato in poche
mani. Quest’atività solidale ha come principale carateristica la pratica della reciprocità, poiché le comunità indigene contadine partecipano al disegno stesso dei programmi turistici.
I primi prodoti sono stati pensati per giovani che facevano un viag14
Sull’importanza di curare, in tutte le organizzazioni, ma soprattutto in quelle a movente
ideale, il passaggio di generazione si veda il contributo di Bruni e Smerilli in questo stesso
volume.
L’ECONOMIA DI COMUNIONE E L’AMERICA LATINA. VIE ALTERNATIVE DI SVILUPPO
Cristina Calvo
gio studi, con la proposta di includere nel loro viaggio un’atività
solidale da realizzare in una cità, un paese o una comunità lungo il
tragito.
Per sviluppare i prodoti turistici sono stati studiati in modo approfondito i possibili itinerari, si sono stabiliti dei contati con le comunità delle destinazioni selezionate, per conoscere la situazione
sociale ed economica di ogni posto, e sopratuto, i bisogni di queste comunità. Si è preso contato con i governi locali e le istituzioni
pubbliche e private, in modo da formare una rete che consentisse di
ideare proposte originali e di dare vita a nuove iniziative turistiche
a caratere solidale.
Gli obietivi strategici del progeto si situavano a livello socio-culturale
(apprezzare le tradizioni culturali delle comunità, rafforzare il senso
della comunicazione, permetere ai turisti di participare alla vita delle
comunità e lotare contro l’esclusione culturale di etnie minoritarie) e
a livello ambientale (rivalorizzare l’ambiente naturale di ogni comunità per stimolarne la tutela e conservazione, dare priorità al rapporto
uomo-natura, rispetare la comunità visitata in maniera integrale, rendere il turismo un agente di sviluppo umano integrale).
In questo modo l’azienda ha contribuito a rendere più ampia la visione del turismo solidale, quale espressione del conceto di “turismo sostenibile globale” che si prefigge un equilibrio degli impati
prodoti dal turismo per quanto riguarda l’aspeto economico, ambientale e socio-culturale.
Siccome tuta l’atività turistica implica uno spostamento, è fondamentale in questa proposta il protagonismo di tuti gli atori. Si ritiene di vitale importanza, per l’e cacia della proposta, la preparazione e la formazione dei turisti prima di intraprendere il viaggio,
poiché questo consente di ridurre al minimo gli impati negativi. Il
tempo libero implicito in qualunque viaggio dà luogo a spazi solidali che promuovono il rispeto totale nei confronti della comunità visitata. Per meglio illustrare come questo approccio al turismo possa
determinare un’azione trasformatrice sullo sviluppo delle comunità
locali, riportiamo un’esperienza concreta. Lasciamo parlare Betina:
“Un gruppo di studenti aveva deciso di fare un viaggio alle Cascate
dell’Iguazù (Nord-Est argentino). Abbiamo analizzato per parecchi
mesi l’offerta da fare in questa regione per vivere un’esperienza di
turismo solidale.
Tra il capoluogo di provincia e le Cascate ci sono 300 km con punti
turistici poco conosciuti. Dopo aver valutato le diverse possibilità,
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IMPRESA SOCIALE
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abbiamo scelto la comunità di Caraguataí, a Misiones, per conoscere
la “foresta Misioner” e inoltre avere la possiblità di uno scambio con
le persone del luogo. Abbiamo trovato una realtà di grande povertà: l’indice di denutrizione era molto alto, molti abitanti ricevevano
sussidi per l’indigenza, ma senza possibilità di lavoro. In uno dei
viaggi, gli studenti avevano osservato un alto tasso di disoccupazione, sopratuto tra le donne. In occasione del viaggio, i ragazzi hanno
montato un laboratorio, con cinque macchine da cucire. I giovani
della zona, in segno di reciprocità, hanno organizzato passeggiate
a cavallo per i turisti. L’effeto moltiplicatore è stato molto grande.
Ci siamo messi in contato con le madri degli alunni di una scuola
di campagna, che erano in condizione di offrire uno spuntino (pagato) ai turisti, durante una visita. Più tardi, abbiamo contatato un
negozio che poteva offrire il servizio di ristorazione, una persona
che poteva organizzare camminate e passeggiate a cavallo. Abbiamo
informato tuti su come otenere un’autorizzazione legale per poter
offrire questi servizi. In questo modo abbiamo conosciuto la diretrice dell’u cio locale del tursimo, che subito ha iniziato a contatare i
possibili prestatori di servizi della zona, favorendo in questo modo
lo sviluppo di questa parte della provincia. Il progeto è stato in ultima analisi sviluppato dagli stessi atori del territorio locale: mentre
noi siamo stati soltanto degli intermediari, i protagonisti sono stati i
turisti insieme alla comunità locale. Abbiamo verificato che quando
c’è un legame tra i membri della società civile, tra l’ambito pubblico
e quello privato, quando ci si unisce per rendere i meno abbienti dei
protagonisti, si produce uno sviluppo umano per tuti. Stiamo ora
sviluppando atività simili a Beberibe (Nord-Est del Brasile), in Venezuela (Parco Nazionale Canaima), in Ecuador, Perú, Bolivia, Messico, Guatemala, Colombia, Senegal, Burkina Faso”.
A partire da queste esperienze, l’azienda è stata convocata dalla Segreteria del Turismo dell’Argentina, l’ente u ciale più importante nel
setore turistico, ed incaricata di sviluppare questo tipo di proposta
in tuto il paese: il mondo politico ha intravisto in questo progeto un
importante contributo all’inclusione sociale e allo sviluppo umano.
Il turismo internazionale muove ogni anno 850 milioni di persone,
ma soltanto 8 milioni scelgono questo tipo di turismo sostenibile.
Sebbene la percentuale sia ancora proporzionalmente bassa, è indubbio che queste nuove tendenze siano un fenomeno recente (dell’ultimo decennio) ed abbiano pertanto ancora ampi margini di crescita.
Alla fine dei viaggi molte persone affermano di “aver ricevuto molto
L’ECONOMIA DI COMUNIONE E L’AMERICA LATINA. VIE ALTERNATIVE DI SVILUPPO
Cristina Calvo
di più di quanto hanno dato”, “che è stato il migliore viaggio della
loro vita”, “che condividere la vita e la ricchezza delle comunità ha
dato un senso nuovo alle loro vite”.
Dialogo tra le esperienze di economia solidale e l’Economia di Comunione
L’Economia di Comunione costituisce un progeto tridimensionale:
• da una parte, essa comprende una serie di atività economiche
e sociali, nell’ambito delle quali si fa portatrice di una cultura di
comunione e di una determinata visione della povertà;
• dall’altra, il progeto presenta un nuovo umanesimo, che nasce
da un Carisma. Offre dignità teorica all’economia sociale e solidale, in virtù di prime elaborazioni teoriche e studi empirici sui
principi di gratuità e reciprocità in economia;
• l’Economia di Comunione è infine anche una visione meta-economica, che presuppone atività economiche e sociali orientate al
bene comune, il rispeto dei diriti dei lavoratori, dei fornitori, dei
citadini ed il riconoscimento dei compiti dello Stato, superando
una forma giuridica determinata, cercando di promuovere condizioni di vita degne per tuti e lasciando uno spazio anche alla
providenza. L’EdC sotolinea che l’economia è in primo luogo un
fato culturale, in cui la persona diventa l’asse centrale di tuta la
proposta, di tuta l’atività.
Quale visione della povertà? (Bruni, Calvo, 2009)
Il giudizio sulla povertà può variare a seconda di come essa venga
definita. Esiste infati una povertà che viene subita, generalmente
causata e amplificata dalle ingiustizie e dalle struture di peccato: è
la miseria, il sopruso dei diriti umani, della dignità delle persone.
Questa è la povertà che bisogna eliminare a tuti i costi e che il progeto EdC si impegna a combatere con gli sforzi personali e istituzionali di tuti i suoi atori.
Ma c’è un’altra povertà, quella scelta liberamente, quella che proviene dalla “buonaventura” e che costituisce la precondizione per
sconfiggere la prima forma di povertà, ingiusta e disumana; una povertà che rappresenta un ideale per coloro che vivono e credono in
un’economia di comunione.15
Questo concetto è stato pure affermato dai Vescovi dell’America Latina, riuniti a Medellín
(1968, XIV,II,4) quando hanno distinto tre tipi di povertà: 1) mancanza di beni: si tratta di un
male prodotto dall’ingiustizia; 2) la povertà spirituale: l’apertura e la disponibilità dinnanzi a
Dio dà il valore ai beni di questo mondo, senza produrre attaccamento nei loro confronti; 3)
come impegno volontario ad una vita sobria, per amore al prossimo.
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È possibile dire che mentre la prima povertà (miseria) è provocata dagli altri o dalle circostanze, la seconda e la terza povertà possono essere unicamente scelte, per cui occorre una “cultura”: non si può capire
la povertà-per-scelta finché non si vive l’esperienza della comunione.
5. Conclusioni
Il XX secolo, con il suo sviluppo economico carateristico, ha enfatizzato i valori “nordici” dell’indiviuo e della libertà.
Le tradizioni dei popoli originari dell’America Latina hanno invece
sotolineato l’aspeto comunitario, senza forse sotolineare a su cienza la libertà e l’uguaglianza.
La proposta di dialogo tra questi paradigmi, di cui abbiamo riferito
in questo articolo, può aiutarci a ripensare l’economia e produrre un
riorientamento da un paradigma incentrato sul capitale e la competitività (con fatori scarsi) ad un paradigma centrato sul lavoro e la
comunione (fatori abbondanti).
Questo cambiamento di prospetiva potrà senz’altro aiutarci a concretizzare un’economia al servizio delle persone e del loro sviluppo
integrale.
A cosa ci riferiamo quando sosteniamo la necessità di ripensare il
nucleo della teoria economica in funzione della centralità dell’uomo
come persona, senza trascurare la sua dimensione trascendente?
Al sorgere di un nuovo paradigma, non solo economico e sociale,
ma anche culturale, comparabile ad una “rivoluzione copernicana”
che ha determinato un cambiamento di paradigma nelle scienze naturali e il passaggio dalla premodernità alla modernità.
Copernico non inventò nulla, mise soltanto le cose nel luogo giusto;
disse che non era la Terra, ma il Sole al centro del sistema, e a partire
da quel momento cambiò la visione delle scienze naturali.
Le scienze sociali ed economiche sono atualmente in un guado.
Stanno cercando il paradigma che consenta, in questo XXI secolo,
di vincere la cultura della crescita delle ambizioni personali, dell’eccesso di autonomia dell’individuo e l’affermarsi di élite che non tengono su cientemente conto del bene di altre persone, della rivalità
cronica che molte volte genera violenza, della sempre più grande
sproporzione tra una fascia di persone che si arricchisce in modo
ingiusto e tante altre sospinte ai margini della società e costrete a
vivere nell’indigenza (Zamagni, 1997).
Se Copernico, semplicemente metendo le cose al posto giusto, ha
segnato il passaggio da un momento della storia ad un altro, anche
L’ECONOMIA DI COMUNIONE E L’AMERICA LATINA. VIE ALTERNATIVE DI SVILUPPO
Cristina Calvo
noi passando dalla centralità del soggeto individuale verso una centralità del “noi” potremmo segnare un cambiamento epocale nella
rifondazione dell’etico, del sociale, del politico, dell’economico secondo il senso di comunione della vita così come viene descrito dal
Vangelo.
L’unica alternativa di fronte alla disintegrazione sociale è la solidarietà umana ad ogni livello. È questa la sfida che sta cercando di
raccogliere il progeto di Economia di Comunione.
Riferimenti bibliografici
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económica, Editorial Ciudad Nueva, Buenos Aires.
Bruni L. (a cura di) (2001), Humanizar la Economía. Reflexiones sobre la “Economía de
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Zamagni S. (a cura di ) (1997), Economia, democrazia, istituzioni in una società in trasformazione, Il Mulino, Bologna.
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I limiti del neo-contrattualismo e la giustizia globale
Vittorio Pelligra
Sommario
1. Introduzione - 2. Una teoria della giustizia - 3. La questione degli “esclusi” - 4. La questione delle “frontiere” - 5. L’Economia di Comunione ed il problema della giustizia - 6.
Conclusioni
1. Introduzione1
Il neocontratualismo, nella versione elaborata da John Rawls a partire dal suo Una teoria della giustizia (1971), è indubbiamente la teoria
della giustizia sociale più solida e meglio sviluppata di cui oggi disponiamo. L’opera di Rawls presenta molti pregi, non ultimo quello
di aver rivitalizzato un campo di indagine, la filosofia politica, che
fino alla pubblicazione del libro atirava poco interesse forse perché legato a schemi antiquati e spesso poco rigorosi. Costituendo
il punto di riferimento per tuti coloro che si occupano, anche indiretamente, di questioni di filosofia politica, la teoria rawlsiana ha
naturalmente atirato verso di sé una quantità di critiche più o meno
fondate, più o meno ideologiche, più o meno radicali. Due tra queste, in particolare, mi paiono degne di nota, sopratuto perché, ponVorrei ringraziare Luca Crivelli, Luigino Bruni e Pasquale Ferrara che hanno letto e commentato una precedente versione del saggio. Un ringraziamento va anche ai partecipanti alla I^
Summer School in Economia di Comunione (3-6 settembre 2009, Rocca di Papa, Roma), per
gli stimoli e le proficue discussioni sul tema dell’EdC e la giustizia globale. La responsabilità
per le idee espresse rimane naturalmente a carico dell’autore.
1
I LIMITI DEL NEO-CONTRATTUALISMO E LA GIUSTIZIA GLOBALE
Vittorio Pelligra
gono in relazione l’impostazione neocontratualista della Teoria della
giustizia con problemi di grande rilevanza, sia teorica che pratica. Su
questi due punti in particolare vorrei soffermare la mia atenzione in
questo saggio, con l’intento di creare uno sfondo teorico ampio sul
quale leggere alcune delle carateristiche, a mio avviso, più interessanti, del progeto di Economia di Comunione (EdC).
Il primo aspeto riguarda la posizione originata inizialmente nell’ambito della filosofia femminista e poi sistematizzata da Martha Nussbaum (2003, 2008), che atiene al cosiddeto problema degli “esclusi” (outliers); il secondo punto concerne, invece, la critica sostenuta inizialmente da Peter Singer (1972) che è sfociata nella linea di
pensiero della cosiddeta Global Justice, sostenuta principalmente da
Charles Beitz (1979) e dall’allievo di Rawls, Thomas Pogge (2001a,
2001b, 2002). Il tema principale della “giustizia globale” riguarda la
giustizia internazionale con tuti i problemi connessi alle relazioni
morali tra soggeti, individuali e istituzionali, che risultano separati
tra loro da confini nazionali.
La finalità di questo saggio, come si diceva, è quella di metere a
confronto questi due aspeti problematici della teoria rawlsiana con
le pratiche e con le idee che in questi anni sono emerse nell’ambito
del progeto di EdC. Siamo infati convinti che tali pratiche e tali idee
possano in qualche modo getare luce sugli elementi che rendono
problematica la posizione di Rawls riguardo i due temi sopraindicati, e al contempo, possa trarre beneficio dall’essere inserite in un
quadro teorico ampio e largamente dibatuto.
2. Una teoria della giustizia
La teoria della giustizia di Rawls è sicuramente una delle opere di
filosofia contemporanea più note e più discusse in assoluto. Per questa ragione può non essere tanto necessario illustrarla qui nei suoi
detagli minuti, quanto piutosto discuterne l’impostazione di fondo. Il punto di partenza di Rawls è la constatazione secondo cui ogni
società produce beni primari atraverso i quali i soggeti possono
perseguire i loro obietivi di vita. Data questa constatazione, la teoria
della giustizia deve occuparsi di trovare un criterio in base al quale
tali beni possano essere distribuiti in maniera giusta. Un simile criterio distributivo inoltre, per essere accetato e condiviso, deve emergere da un processo di contratazione, e per poter essere implementato, deve essere ritenuto razionale e giusto da ogni citadino.
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In continuità con la tradizione del contratualismo hobbesiano, Rawls immagina che il processo di contratazione abbia inizio in una situazione simile allo “stato di natura” descrito da Hobbes nel Leviatano, stato di fato che Rawls definisce “posizione originaria”. In
questo momento osserviamo individui autonomi, autointeressati, e
cooperativi che cercano di accordarsi su una regola da utilizzare per
distribuire un insieme di beni, assumendo che, una volta raggiunto l’accordo, tale regola diventi vincolante per tuti. Quale regola,
possiamo ora chiederci, emergerà da tale processo? Quale principio
distributivo verrà accetato? Naturalmente nessuno. Perché, come
già Hobbes aveva fato notare, nello stato di natura, così come nella
posizione originaria, la strutura degli incentivi cui ogni citadino è
soggeto, descrive una situazione simile a quella di un Dilemma del
Prigioniero. In questa situazione, come è noto, si evidenzia come il
perseguimento individuale dell’interesse personale produca un esito sub-otimale anche in presenza di esiti alternativi più vantaggiosi,
sia da un punto di vista sociale che da un punto di vista individuale.
Nel tentativo di otenere il massimo per sé ognuno dei decisori si ritrova in una situazione peggiore di quella in cui si sarebbe trovato se
avesse posposto il proprio interesse personale e si fosse focalizzato
sull’otimo sociale.
Già Hobbes aveva notato questa “trappola” dell’individualismo ed
infati ipotizza che grazie allo scoccare di una scintilla di razionalità
illuminata, si pervenga alla creazione del Leviatano. Una forma di
potere assoluto in grado di indurre, con la forza, i soggeti verso
comportamenti cooperativi. Il ricorso al potere non rientra nella prospetiva liberale di Rawls, il quale, per superare l’impasse dello stato
di natura, immagina un dispositivo informativo capace di mitigare
l’egoismo individuale, introducendo elementi di imparzialità e favorendo, in questo modo, il raggiungimento di un accordo sulle regole
distributive. Tale dispositivo è il cosiddeto “velo di ignoranza”, un
espediente teorico che consente, ad ogni potenziale sotoscritore del
contrato sociale, di avere informazioni detagliate sulle conseguenze che le varie regole distributive oggeto di discussione avranno
sullo stato di cose che si determinerà a seguito della loro applicazione, impedendogli, allo stesso tempo, di conoscere quali conseguenze
le stesse regole avranno per lui personalmente. “Coloro che sono
chiamati a decidere - afferma Rawls - dovrebbero ignorare sia la loro
posizione personale nella società, sia la distribuzione dei talenti naturali, sia la religione o le concezioni morali professate nella società
I LIMITI DEL NEO-CONTRATTUALISMO E LA GIUSTIZIA GLOBALE
Vittorio Pelligra
da pateggiare. Non conoscono neppure a quale generazione appartengono”. Il grande contributo di Rawls è quello di aver dimostrato in modo rigoroso che un processo di contratazione tra soggeti
razionali mutuamente indifferenti, che abbia luogo nella posizione
originaria, purché si svolga dietro il velo di ignoranza, porterà ad
un accordo basato sull’accetazione di due principi basilari: quello di
libertà e quello di differenza. Il primo principio, quello “di libertà”,
recita che: “Ogni persona avrà un eguale dirito alla più ampia libertà possibile, posto che questa sia compatibile con la stessa libertà per
ciascuno”, mentre il secondo principio, quello “di differenza” afferma che: “Le ineguaglianze economiche e sociali devono essere tali
che (a) il massimo beneficio vada a favore dei più svantaggiati e (b)
siano atribuite a posizioni il cui accesso è equamente garantito”.
Uno degli aspeti più interessanti che emergono dall’elaborazione di
Rawls è che la procedura di contratazione che egli propone è in grado, in maniera elegante e rigorosa, di risolvere contemporaneamente due problemi. Il primo è quello di ridurre una situazione di scelta
sociale, con tute le di coltà che essa implica, ad un caso di scelta
individuale, più semplice ed agevole da gestire. Il secondo problema
è quello della giustificazione morale del contrato risultante. I due
principi di giustizia definiscono infati un contrato che è al contempo razionale ed equo, senza la necessità di assumere soggeti con
preferenze morali, ma solo soggeti autointeressati. Se questi infati
sono disposti a sotoscrivere un tale contrato, a fortiori lo saranno
soggeti non autointeressati, ma che rispondono a principi morali.
Ci troviamo ora in una situazione nella quale conosciamo le regole
di base che stanno a fondamento di una “società ben ordinata”, la
cui convivenza è informata da principi di redistribuzione accetati
da tuti e da tuti ritenuti giusti.
3. La questione degli “esclusi”
Ora che abbiamo descrito, siappure sommariamente, i principali
elementi della teoria della giustizia rawlsiana, e le sue conclusioni,
possiamo iniziare a discutere alcuni dei problemi che da essa originano, in particolare alcune contraddizioni e limitazioni che derivano
dall’impostazione contratualista adotata da Rawls. Queste limitazioni emergono chiaramente non appena si cerchi di dare una risposta
a questa domanda: i principi di giustizia che abbiamo discusso poco
sopra sono realmente accetati e ritenuti giusti da tuti i citadini? Se
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ci si concentra su quelli che sono i decisori chiamati a contratare le
regole di giustizia e successivamente su quelli che sono i beneficiari
di tali regole, immediatamente emergono due questioni cruciali: non
tuti i citadini sono chiamati a partecipare alla fase originaria di contratazione sulle regole e, secondariamente, tali regole non si applicano a tuti gli esseri umani, ma solamente a coloro che condividono
una stessa appartenenza nazionale. Questi due elementi definiscono i
punti sui quali ci concentreremo, e cioè la questione degli “esclusi” e
la questione della giustizia oltre le frontiere, o giustizia globale.
Ma per comprendere appieno la portata nonché l’origine di tali problemi occorre fare un passo indietro e rivolgere brevemente la nostra
atenzione a quelle che sono le radici culturali e filosofiche della teoria
della giustizia. Come abbiamo più volte sotolineato, l’impostazione
rawlsiana è di natura contratualista e quindi trae origine dall’opera
principale di Hobbes, il Leviatano, che in una delle sue lezioni Rawls
(2009, p. 28) definisce come: “Il più grande libro di filosofia politica
che sia mai stato scrito in lingua inglese (…) - aggiungendo poi - mi
fa un’impressione smisurata”. Da Hobbes, Rawls atinge l’idea di
posizione originaria e di contrato sociale ma anche, almeno da un
punto di vista formale se non proprio sostanziale, parte della sua antropologia. Ma mentre Hobbes vede nel Leviatano la giustificazione
della monarchia assoluta come antidoto alla guerra di tuti contro
tuti, Rawls, nel solco della tradizione liberale, non può accetare una
simile conclusione. Per questo egli fa ricorso al pensiero di un altro
grande protagonista della filosofia occidentale, Immanuel Kant, per
addolcire, se così possiamo dire, i trati più estremi dell’antropologia
negativa hobbesiana. Rawls assume infati che una volta raggiunto
un accordo sulle carateristiche del contrato sociale, una volta cioè
stabilite le regole base che regoleranno la redistribuzione dei beni
primari, tali regole avranno valore vincolante per tuti. I citadini
cioè si impegnano, deontologicamente, ad atenersi alle regole condivise, anche contro il loro interesse contingente, ma in ossequio ad
un imperativo di stampo kantiano, appunto. Un terzo elemento fondante dell’impostazione neocontratualista rawlsiana è rappresentato dalle cosiddete “condizioni di giustizia”, originariamente introdote da David Hume. Per Hume, tali condizioni rappresentano,
nelle parole dello stesso Rawls (1971, p. 126): “Le normali condizioni
nelle quali la cooperazione umana diventa possibile”. Ed in particolare, la cooperazione diventa possibile quando ognuno dei soggeti
coinvolti nell’azione cooperativa si trova nelle condizioni di poter
contribuire in maniera ativa alla produzione di benefici comuni che
I LIMITI DEL NEO-CONTRATTUALISMO E LA GIUSTIZIA GLOBALE
Vittorio Pelligra
verranno poi distribuiti secondo i principi di giustizia. Da qui scaturisce, a ben vedere, la possibilità stessa di un contrato sociale, di
uno scambio in definitiva, nel quale grazie al contributo congiunto
di più soggeti ciascuno di essi otiene più di quanto non avrebbe potuto otenere se avesse agito in isolamento. Ma perché tale “di più”
possa concretizzarsi, occorre assumere, come si fa nella Teoria della
Giustizia e nelle riformulazioni successive, che tra i sotoscritori del
contrato siano ammessi solo coloro che sono “membri autonomi,
normali e pienamente cooperativi per tuta la vita” (Rawls, 1993, p.
159). Ciò significa che alla fase primaria di contratazione potranno
partecipare solo coloro che in uno scambio hanno qualcosa da dare e
non, invece, coloro che, almeno apparentemente, hanno solo da ricevere. Per questo tale impostazione esclude da questa prima fase tuti
quei soggeti che non sono, per qualche ragione, pienamente cooperativi, coloro che versano in condizioni di bisogno anche economico
grave o che soffrono per disabilità fisiche o psichiche temporanee o
permanenti. Questa posizione per Rawls non equivale naturalmente
ad affermare che i problemi di queste persone non siano importanti
e che una società ben ordinata non vi debba far fronte; egli pensa
piutosto che tali problemi siano questioni di ordine pratico e non
normativo, e che la loro soluzione pertanto debba essere demandata alla fase legislativa, successiva a quella della contratazione sulla
strutura dei principi e delle regole di grado costituzionale. In altre
parole, gli “autonomi e normali” scelgono tra loro le regole distributive di base e poi le utilizzano per risolvere le di coltà di coloro che
autonomi e normali non sono, degli “esclusi” appunto.
Tale conclusione ha suscitato comprensibilmente non poche critiche
nei confronti dell’impostazione contratualista. Un’analisi siappure
sommaria di tali posizioni rischierebbe di portarci fuori strada; possiamo comunque riassumere l’aspeto saliente di tali critiche con una
frase di Martha Nussbaum, che a questo tema ha dedicato pagine
importanti e appassionate. Secondo la Nussbaum (2003, p. 438), la
posizione di Rawls in merito agli esclusi trasforma il suo approccio
in “una questione di carità e non di giustizia”.
4. La questione delle “frontiere”
Un secondo problema di ordine fondativo, che è stato recentemente evidenziato dai critici della teoria della giustizia rawlsiana, atiene all’ambito territoriale nel quale le regole della giustizia devono
essere ritenute legitimamente applicabili. Fino a che punto cioè, ci
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si chiede, è possibile parlare di una giustizia globale? In quale misura ai citadini di uno stato nazionale, ad un popolo unito da un
“comune sentire”, può far capo un obbligo morale nei confronti dei
citadini di un altro Stato, degli appartenenti ad un altro popolo? La
posizione di Rawls a riguardo è minimale. Egli infati sostiene che il
suo impianto contratualista debba essere applicato esclusivamente
nell’ambito delle relazioni interpersonali che non travalicano le frontiere nazionali. Il contrato sociale viene stipulato da ogni singolo
popolo, una comunità nazionale, all’interno dei confini statuali, senza nessun riferimento a coloro che vivono fuori da questo ambito.
La scelta di una dimensione nazionale per il contrato rawlsiano ha
varie ragioni, ma tra queste emerge con forza un radicato sceticismo
rispeto all’e cacia e alla praticabilità di un’effetiva redistribuzione
del reddito a livello transnazionale. Secondo Rawls (2001, pp. 144145) tale redistribuzione non solo sarebbe di di cile atuazione, in
mancanza di un’istituzione sovranazionale credibile capace di implementarla, ma sopratuto essa sarebbe inutile, perché: “Le cause
della ricchezza di un popolo risiedono nella sua cultura politica e
nelle tradizioni religiose, filosofiche e morali su cui poggia la strutura di base (…) nonché nell’industriosità e nella capacità di cooperare
dei suoi membri”. In base a questa visione delle determinanti dello
sviluppo economico, quindi, bisognerebbe puntare non tanto su una
redistribuzione del reddito a livello internazionale, quanto piutosto
sulla rimozione interna degli ostacoli culturali e religiosi che impediscono o rallentano i processi di crescita.
Voci critiche si sono levate contro questa posizione stato-centrica
sopratuto in considerazione dei grandi processi di globalizzazione che hanno ridoto drasticamente l’importanza dei confini nazionali quale categoria politica fondativa. Un crescente interesse per i
problemi di giustizia che travalicano le frontiere nazionali, l’acuirsi
dei problemi legati alle guerre di aggressione, la centralità dei temi
connessi al surriscaldamento globale e ad altri problemi ambientali, una nuova coscienza riguardo a sofferenze e povertà in molti
casi evitabili, un’inedita capacità d’azione globale, benché ecletica e
frammentaria, e infine il sorgere di una società civile transnazionale,
sono alcuni degli elementi che hanno ridoto l’importanza teorica e
fatuale dell’idea di “confine” nella riflessione politica e filosofica recente e che hanno, al contempo, suscitato sempre maggiore interesse
sul tema della giustizia globale. Non è forse plausibile, si afferma
infati, che una teoria della giustizia si debba occupare non solo delle
I LIMITI DEL NEO-CONTRATTUALISMO E LA GIUSTIZIA GLOBALE
Vittorio Pelligra
questioni interne, ma anche di quelle esterne, che travalicano cioè i
confini nazionali? È questa l’obiezione di fondo che i teorici della
giustizia globale muovono all’impostazione fondamentalmente domestica di Rawls. A fronte di tale critica, viene proposta una visione della citadinanza internazionale nella quale il debito morale nei
confronti dei soggeti più svantaggiati produce una serie differente
di reazioni: di tipo valutativo e di tipo ativo. Le prime atengono
alle considerazioni che possiamo svolgere riguardo l’ordine politico
ed economico nazionale ed internazionale, con riferimento particolare alle responsabilità che i vari Stati, individualmente e colletivamente, hanno o hanno avuto nel determinare una distribuzione
del reddito e delle risorse in generale così iniqua come quella che
atualmente osserviamo. Ma a fianco di tali valutazioni possono, e
secondo alcuni devono, esserci reazioni di tipo comportamentale,
vale a dire, scelte di consumo, di investimento, di donazione e di
impegno direto, conseguenti, volte quindi a ridurre, come è possibile, tali diseguaglianze e a ripristinare una situazione di equità e
giustizia internazionale.
Soto la pressione di una situazione di disuguaglianza crescente2 e
di un rinnovato spirito interventista, anche i filosofi politici e i teorici delle relazioni internazionali hanno iniziato ad interrogarsi sulla
questione, trovando le risposte tradizionali del tuto insu cienti. Da
questo ripensamento sono emerse varie proposte. Ne considereremo
brevemente due: la prima, quella del “contrato a due livelli” vede lo
stesso Rawls lavorare ad un’implementazione a livello globale della
sua teoria della giustizia; la seconda, quella del “contrato globale”,
parte dalle limitazioni della proposta rawlsiana, mantenendone lo
spirito, ma cercando di superarne i difeti.
L’idea di contrato a due livelli, che Rawls (2001) sviluppa principalmente nel suo Il Dirito dei Popoli, immagina la sotoscrizione di un
contrato internazionale in due fasi: nella prima la contratazione avviene di solito all’interno dei confini nazionali, mentre nella seconda
fase i governi rappresentanti dei popoli del mondo, si troveranno per
stipulare un contrato nel quale ai citadini si sostituiscono gli Stati,
anche questi riuniti nella prospetiva fondata sul vantaggio reciproco e necessariamente considerati come approssimativamente uguali
in potere e risorse. Una rapida occhiata alle statistiche economiche e
politiche rende palese l’inapplicabilità dell’idea rawlsiana, proprio a
Durante il periodo 1980-2000 il reddito pro-capite negli Stati Uniti è cresciuto del 50%. Nella
sola Africa, 350 milioni di persone potevano godere, nel 2000, di un reddito più basso di quello di cui disponevano nel 1980 (Sala-i-Martin, 2002; Milanovic, 2007).
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causa dell’irrealismo di queste ipotesi di fondo. Se anche fossimo disposti ad ammetere che i governi agiscono sempre nel migliore interesse dei citadini, è realistico pensare che due paesi come l’Uganda
(ma potrebbe essere il Bangladesh, l’Angola, la Namibia, ecc.) e gli
Stati Uniti, possano trovarsi a contratare in una condizione di parità
e per un mutuo ed equilibrato vantaggio? Anche qui emerge con
evidenza la contraddizione di fondo dell’approccio contratualista,
questa volta applicato agli Stati: o il contrato non si stipula per mutuo vantaggio oppure moltissime nazioni non potranno sedersi al
tavolo delle decisioni.
La prospetiva del “contrato globale” cerca di rimuovere le di coltà della contratazione a due livelli suggerendo che i soggeti della
contratazione internazionale non debbano essere i governi, ma ogni
singolo citadino indipendentemente dalla sua appartenenza nazionale. In altre parole, si suppone che il velo di ignoranza cali su ogni
essere umano e nasconda anche le carateristiche relative all’appartenenza nazionale. Le risorse naturali, per esempio, perderebbero
così il loro caratere nazionale e dovrebbero essere amministrate secondo il principio di differenza. In questo modo è possibile superare
la prima obiezione, quella relativa cioè alla benevolenza dei governi,
perché ora i soggeti chiamati a contratare sono i singoli citadini e
non più i loro, più o meno fedeli, rappresentanti; pur tutavia, anche questa prospetiva continua ad essere soggeta alle “condizioni
di giustizia” che determinano, come abbiamo visto, il problema degli esclusi. D’altro canto se si dovesse rinunciare all’impostazione
contratualista accetando il fato che la base dell’accordo non è più
il vantaggio reciproco, diverrebbe impossibile derivare il principio
di differenza da un processo di contratazione che avesse luogo tra
agenti razionali.
Come si intuisce anche da questi pochi elementi che abbiamo richiamato, la questione è complessa, ed infati ha dato vita ad un acceso
dibatito nel quale si fronteggiano i sostenitori delle più varie posizioni che nel fratempo si sono aggiunte: cosmopolitismo, liberalismo del laissez-faire, umanitarismo, approccio delle capacità, ecc..
Non vogliamo addentrarci ulteriormente nell’analisi di tali questioni
che, benché importanti, rischierebbe di portarci fuori strada.
A questo punto, infati, il quadro dovrebbe essere su cientemente
chiaro, anche se non siamo in possesso di tuti i detagli, e dovremmo
essere in grado di ricostruire una visione d’insieme della questione.
Abbiamo una teoria politica estremamente ra nata, potente ed ele-
I LIMITI DEL NEO-CONTRATTUALISMO E LA GIUSTIZIA GLOBALE
Vittorio Pelligra
gante, che produce conclusioni e prescrizioni liberali ed ugualitarie
allo stesso tempo, che appaiono in linea di principio assolutamente
sotoscrivibili. Eppure tale teoria, per le ragioni che abbiamo cercato di ricostruire, e principalmente per la sua matrice contratualista,
presenta falle e contraddizioni interne relativamente a due aspeti
che appaiono cruciali. Li abbiamo designati come il “problema degli
esclusi” e la “questione della giustizia globale”.
5. L’Economia di Comunione ed il problema della giustizia
Ci siamo concentrati in queste poche pagine principalmente su tali
aspeti, perché ci pare che su questi particolari punti il progeto di
Economia di Comunione abbia qualcosa di originale da dire. Non
tanto nel senso di una riflessione teorica specifica che possa farci
superare le contraddizioni rawlsiane, neanche tanto in termini di
proposte operative capaci di rendere e cace l’implementazione dei
principi di giustizia e di differenza. Molto più semplicemente il progeto di EdC ha prodoto una vita, delle pratiche, dei codici culturali,
che in qualche modo possono dialogare con la teoria della giustizia,
in particolare sul tema degli esclusi e su quello della giustizia globale, a tuto beneficio sia della riflessione di teoria politica, sia del
progeto di Economia di Comunione stesso. L’analisi del neocontrattualismo e anche dei suoi difeti, lungi dall’essere una critica distruttiva, vuole essere qui un’operazione di interpretazione e di visione
prospetica di un progeto, che per la sua carica innovativa e novità
storica, stenta ancora a trovare categorie descritive adeguate. Leggere quello che fanno le aziende di economia di comunione atraverso la lente della teoria rawlsiana, con i suoi pregi e i suoi difeti, può
aiutarci a cogliere meglio le novità di cui il progeto è portatore.
Ma veniamo ora allo specifico. L’economia di comunione si innesta in una realtà di vita e di pensiero riconducibile al Movimento
dei Focolari. Tale esperienza fin dal suo inizio, durante la Seconda
Guerra Mondiale, manifesta una forte connotazione sociale. Le prime azioni infati non hanno l’aspeto di una mobilitazione spirituale, quanto piutosto quella di una grande comunione dei beni materiali tra centinaia di persone. Il primo pensiero è quello di aiutare
coloro che nella guerra avevano perso tuto, e tale aiuto è primariamente materiale: cibo, vestiti, un teto. Ma tale azione ha anche
una carateristica di fondo peculiare: la vulnerabilità, il dolore, la
miseria, non sono solo mali da evitare o da cui risollevarsi, anche
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certo, ma appaiono sopratuto come occasioni per stabilire relazioni, non solo o non tanto relazioni di aiuto, ma relazioni tout court,
tra esseri umani. Da questa radice si sviluppa allora la convinzione, che ancora oggi anima il progeto di economia di comunione, e
cioè che la miseria è innanzituto una povertà di relazioni, prodota
da “relazioni spezzate”. Per questo gli utili che le aziende donano
non possono essere compresi come una forma di filantropia o di
beneficenza, ma come un mezzo per ristabilire relazioni spezzate. Il primo aiuto è l’offerta di un rapporto di prossimità e di reciprocità, l’appartenenza ad una comunità. Senza tale appartenenza,
sarebbe di cile instaurare un rapporto autenticamente reciproco,
e senza tale reciprocità, l’aiuto sarebbe un dono avvelenato e una
regalia improdutiva.
Già queste poche righe avrebbero dovuto far saltare agli occhi il legame forte con i temi che abbiamo tratato poco sopra: gli indigenti
che non sono “esclusi” e la ricchezza che viene redistribuita (il principio di differenza) oltre i confini nazionali. Tale pratica quotidiana,
di pensiero e di azione, ha qualcosa da dirci rispeto alle considerazioni di teoria politica che siamo andati svolgendo fin qua? Noi
crediamo di sì. Tale pratica, ci pare evidenzi tre aspeti importanti: il
primo atiene al livello antropologico; il secondo a quello relazionale
e il terzo, infine, a quello contratuale.
La prima differenza di fondo che possiamo notare è quella che attiene l’idea stessa di agente morale. Mentre la tradizione contratualista considera gli agenti morali come individui autointeressati, autonomi, mossi dal conatus sese conservandi e accomunati dalla paura
per la reciproca uccidibilità, nell’antropologia che sotende all’EdC
i soggeti sono persone, vale a dire esseri per i quali la relazione assume un caratere ontologico. In questa prospetiva, per dirla con
Pareyson (1995, p. 23): “L’uomo è una relazione, non nel senso che
egli è in relazione con, oppure, intratiene relazioni con; l’uomo è
una relazione, più specificamente una relazione con l’essere (ontologico), con l’altro”. La relazione con l’altro, l’incontro, sia pure con le
sue ineliminabili ambivalenze, non è il prezzo da pagare per poter
godere dei benefici della vita sociale, ma è l’essenza stessa dell’essere sociale. Questo primo elemento ci aiuta ad inquadrare meglio la
differenza che sussiste rispeto al tipo di legame sociale primario. In
ambito contratualista abbiamo la “reciproca indifferenza”, mentre
l’EdC si fonda su rapporti umani incentrati primariamente sul valore intrinseco della relazione. E questa considerazione ci porta diret-
I LIMITI DEL NEO-CONTRATTUALISMO E LA GIUSTIZIA GLOBALE
Vittorio Pelligra
tamente verso il secondo elemento che volevamo evidenziare.
La tradizione contratualista considera il mutuo vantaggio come
l’unica forza centripeta che atira gli individui uno verso l’altro; in
un’antropologia relazionale, tale avvicinamento occorre in virtù non
tanto dell’autonomia e dell’indipendenza (che costituiscono prerequisiti individuali dello scambio), quanto piutosto della vulnerabilità e della dipendenza reciproca. Dice a proposito Alasdair MacIntyre (2001, p. 4): “La vulnerabilità (…) e la dipendenza nelle loro
correlate manifestazioni paiono talmente evidenti da far pensare che
non sia possibile dare una spiegazione credibile della condizione
umana senza riconoscere la centralità del loro ruolo”. La vulnerabilità, l’essere bisognosi dell’altrui assistenza, l’essere, temporaneamente o permanentemente, dipendenti da altri è la regola della vita,
quindi. Autonomia e indipendenza appaiono come nient’altro che
assunzioni teoriche, eccezioni di fato. Tanto più sorprendente allora, come sotolinea sempre MacIntyre (2001, p. 5), che: “ [nella] storia
della filosofia occidentale (…) il sofferente (e quindi anche l’indigente n.d.a.), il malato o il disabile trovano posto nelle pagine di un libro
di filosofia morale, solo e sempre in veste di un possibile oggeto di
benevolenza da parte dei veri agenti morali”.
Nell’ambito dell’Economia di Comunione, i poveri, gli svantaggiati,
gli indigenti, non sono oggeto di benevolenza, sono protagonisti e
membri a pieno titolo di una comunità che si fonda sulla reciprocità.
A ben vedere la logica di fondo di tale comunità può essere individuata nella ben nota “regola aurea”. La regola aurea è probabilmente una delle norme morali più antiche e largamente diffuse che
esistano. Nella sua formulazione tradizionale essa afferma di non
fare agli altri ciò che non vorresti fosse fato a te. Di tale norma troviamo traccia anche in Rawls; in particolare nel suo dell’imperativo
kantiano che rende il contrato sociale, una volta stipulato, del tuto
vincolante. Si rispeta il contrato perché non si vuole che gli altri lo
vìolino. Eppure tra questa versione della regola aurea e quella che
ispira il progeto di Economia di Comunione esiste una differenza
sostanziale. Tra tute le formulazioni di questo preceto morale, c’è
n’è una decisamente peculiare, quella che troviamo nel Vangelo e
che potremmo definire “positiva”. Mentre la versione tradizionale
infati afferma: “non fare agli altri...”, quella che troviamo nel Vangelo dice invece: “Fai agli altri ciò che vorresti fosse fato a te”.
La prima formulazione rappresenta una regola di giustizia simmetrica. Garantisce una convivenza ordinata, fruto del comportamento
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conforme orientato principalmente dal principio del “non nuocersi”;
per questo la sua natura è principalmente difensiva.
Al contrario, la seconda formulazione, seppure apparentemente simile, rappresenta una regola morale anch’essa di giustizia simmetrica, ma non è tanto caraterizzata da un ateggiamento di difesa,
quanto piutosto di apertura. Fare agli altri ciò che vorremmo fosse
fato a noi, implica l’accetazione del bisogno, della dipendenza e, in
ultima analisi, della vulnerabilità di ogni persona nei confronti dei
propri simili. Il supporto su cui si basa tale versione positiva della
regola aurea non è, dunque, la sanzione, come nel caso della regola
negativa, quanto piutosto la spinta al supporto, l’aiuto reciproco, il
bisogno di dare, non contrapposto, ma quale complemento del bisogno di ricevere.
Il terzo aspeto che viene evocato dall’esperienza dell’Economia di
Comunione e che in qualche modo supera i limiti dell’impostazione
rawlsiana, procede verso il cuore stesso dell’impostazione contrattualista e suggerisce una trasformazione del vincolo sociale, da un
vincolo basato sull’idea di “contrato” ad un vincolo basato sull’idea
di “pato”. Mentre un contrato infati viene stipulato tra soggeti
mutuamente indifferenti, ma capaci di darsi vicendevolmente dei
benefici anche in presenza di una di denza e sfiducia di fondo, un
pato scaturisce dalla fiducia e non trova la sua ragion d’essere nella
possibilità del mutuo vantaggio, ma piutosto nell’accetazione e nel
riconoscimento della propria vulnerabilità.
Una società giusta non esclude “gli esclusi”, né all’interno, né all’esterno delle frontiere nazionali. Ma se, allo stesso tempo, non possiamo
fondare la relazione né sull’autonomia, né sull’indipendenza, e neanche sui reciproci benefici derivanti da un accordo contratuale, dove
possiamo rinvenire un fondamento più basilare ed originario del legame sociale? Ecco, a questo proposito l’esperienza dell’Economia di
Comunione sembra suggerire che la vicinanza, il rapporto scaturisce
dal limite, dalla vulnerabilità e dalla reciproca dipendenza. Questa, se
riguarda gli esclusi in maniera più evidente, non risparmia nessuno
degli altri (nessuno di noi) che in un momento o nell’altro della loro
vita, per un periodo più o meno lungo, hanno fato, fanno o faranno
tale esperienza di vulnerabilità e dipendenza.
Ma in che senso la vulnerabilità può essere posta alla base del legame sociale? Basicamente ciò è possibile perché è proprio dalla vulnerabilità che nasce la dipendenza e dalla dipendenza la fiducia, e
da questa la responsabilità. In un pato fiduciario, la fiducia di chi
I LIMITI DEL NEO-CONTRATTUALISMO E LA GIUSTIZIA GLOBALE
Vittorio Pelligra
si a da contribuisce a generare la responsabilità e l’a dabilità di
coloro che sono nelle condizioni di far fronte alla vulnerabilità altrui.
Questo meccanismo di “rispondenza fiduciaria” (Pellagra, 2007) affinché possa funzionare in maniera e cace ha necessità che alcune
condizioni siano soddisfate: il rapporto fiduciario deve sussistere
tra persone che sono innanzituto libere, uguali e capaci di dare gratuitamente (Petit, 1995).
La sostituzione dell’autonomia rawlsiana, quale pre-condizione alla
partecipazione ativa alla definizione delle regole sociali, con la vulnerabilità intesa quale fondamento e giustificazione della socialità
umana rappresenta indubbiamente un passaggio radicale, ma non
arbitrario. Nel progeto di economia di comunione assistiamo alla
nascita e al consolidarsi di una comunità transnazionale accomunata
non tanto dalla possibilità del mutuo vantaggio, quanto piutosto da
un principio di fraternità universale, che trova nella regola evangelica del “fai agli altri...” il suo principio operativo. Gli esclusi vengono
inclusi e le frontiere superate dall’appartenenza ad una comunità
transnazionale.
6. Conclusioni
In queste poche pagine abbiamo cercato di guardare al progeto di
Economia di Comunione cercando di inserirlo in una prospetiva filosofica ampia, metendolo cioè in dialogo con la principale teoria
della giustizia sociale che la teoria politica del XX secolo ha prodotto. L’approccio del neocontratualismo rawlsiano appare particolarmente adato ad una letura sistematica dell’economia di comunione, sia nella sua parte più robusta, con la sua opzione preferenziale
per i poveri che si ritrova nel principio di maximin, sia anche quando
evidenzia limiti e problemi irrisolti. Anzi, forse sono proprio questi
ad illuminare meglio le carateristiche peculiari ed innovative della
proposta dell’economia di comunione. La questione degli esclusi e
quella della giustizia globale, per contrasto, fanno apparire in tuta
la loro importanza e novità, sia la scelta che si opera all’interno del
progeto di EdC di considerare “gli esclusi”, i poveri, come soggetti ativi e non oggeti di beneficenza, sia quelle di operare concretamente una redistribuzione della ricchezza che è indipendente da
ogni considerazione di caratere nazionale o frontaliera.
Non vogliamo certamente affermare che in questo modo si possano
superare tuti i limiti dell’approccio neocontratualista, ma piutosto
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che siamo convinti, e abbiamo cercato di argomentarlo, che un confronto con tale teoria ci aiuti a cogliere più pienamente la novità e la
carica profetica insita nel progeto di EdC.
Riferimenti bibliografici
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pp. 29-43.
SULL’ARTE DI GESTIRE LE CRISI NELLE ORGANIZZAZIONI A MOVENTE IDEALE
Luigino Bruni, Alessandra Smerilli
Sull’arte di gestire le crisi nelle organizzazioni a
movente ideale
Luigino Bruni, Alessandra Smerilli1
Scrita in cinese la parola crisi è composta di due carateri.
Uno rappresenta il pericolo e l’altro rappresenta l’opportunità.
(John Fitzgerald Kennedy)
Sommario
1. Introduzione - 2. Protesta come segnale - 3. Gli effeti cumulativi delle crisi - 4. Motivazioni e fragilità delle organizzazioni - 5. Conclusioni
1. Introduzione
Le motivazioni intrinseche hanno un valore molto importante nella
vita civile, e, ne siamo convinti, anche nella vita economica e nelle
organizzazioni. Fino a quando e nella misura in cui le organizzazioni e i mercati restano luoghi umani, motivazioni più ricche della
semplice ricerca del profito non possono essere assenti, se è vero
- è questa la nostra ipotesi di lavoro - che entriamo nel territorio
dell’umano tute le volte che abbiamo a che fare con comportamenti
Il presente scritto è uno sviluppo di un articolo pubblicato nella rivista Nuova Umanità, 165166(2006). Ringraziamo Luca Crivelli e i partecipanti alla Summer School EdC (2-6 settembre
2009, Rocca di Papa, Roma) per preziosi suggerimenti.
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che sono praticati perché buoni in sé, prima e indipendentemente
(almeno nel breve periodo) dai risultati materiali che queste pratiche
portano (Bruni, Zamagni, 2009).
Se c’è, però, un luogo nel quale le motivazioni intrinseche giocano
un ruolo tuto speciale, questo è quello delle “organizzazioni a movente ideale”, un’espressione che oggi è usata per indicare quelle
organizzazioni - associazioni, organizzazioni non governative, imprese sociali, ecc. - nelle quali il movente che le ispira (o che ha ispirato la loro costituzione) non è primariamente il profito né elementi
solo strumentali, ma un movente ideale, una mission o una “vocazione” che, in vari modi, nasce dalle motivazioni intrinseche dei suoi
promotori. Esempi di organizzazioni a movente ideale includono
organizzazioni nonprofit, organizzazioni non governative, organizzazioni ambientali, educative, di cura, o culturali2.
Il principale obietivo di ogni organizzazione a movente ideale è di
evolversi e crescere senza perdere la propria identità a cui è legata
la sopravvivenza della stessa organizzazione nel medio e nel lungo
periodo.3
Anche le imprese di Economia di Comunione (EdC) possono essere
definite organizzazioni a movente ideale, anzi ne rappresentano una
sorta di idealtipo, dato il ruolo chiave dell’idealità nella loro identità.
Inoltre, anche se in leteratura non esiste una definizione condivisa
sulle organizzazioni a movente ideale, in generale esse sono identificate con organizzazioni religiose4, e con una forte identità legata al
campo spirituale.
La nostra analisi, comunque, anche se nasce in particolare dall’osservazione del mondo dell’economia sociale e dell’EdC, è valida per
ogni organizzazione a movente ideale, organizzazioni che possiedo2
Ovviamente non tutte le nonprofit sono organizzazioni a movente ideale, e ci possono essere
organizzazioni formalmente for-profit, come le Spa o altre società commerciali che aderiscono
all’EdC, che sono sostanzialmente organizzazioni a movente ideale.
3
In un senso più ampio, molte organizzazioni posso essere incluse nella categoria organizzazioni a movente ideale. La lista potrebbe includere, per esempio, piccole imprese familiari
for-profit il cui sviluppo e la cui sopravvivenza sono seriamente minacciati dopo la prima
generazione di fondatori (ciò che sta accadendo oggigiorno nei distretti italiani, compresi
quelli del made in Italy). Quando la prima generazione lascia, queste piccole imprese incontrano solitamente grandi difficoltà nel trovare sul mercato nuovi manager che sono capaci di
preservare l’identità e la cultura aziendale. Questa cultura specifica legata alle persone rappresenta il più grande potere competitivo di tali organizzazioni, incorporando il know-how degli
imprenditori.
4
Mitroff e Denton (1999), ad esempio, hanno identificato cinque modelli di organizzazioni a
movente ideale tutti basati su religiosità e spiritualità.
SULL’ARTE DI GESTIRE LE CRISI NELLE ORGANIZZAZIONI A MOVENTE IDEALE
Luigino Bruni, Alessandra Smerilli
no tre elementi, di cui uno legato all’organizzazione, e due ai suoi
membri:
a. l’atività svolta dall’organizzazione è una parte essenziale della
sua identità, perché tale atività è generata da una “vocazione”
che rappresenta i valori, l’identità e la missione dell’organizzazione. Mentre i proprietari di un’impresa capitalistica possono
normalmente cambiare setore di atività se lo ritengono conveniente, un’organizzazione a movente ideale nasce per uno scopo
specifico, che è legato indissolubilmente all’organizzazione stessa. In altre parole, in un’organizzazione a movente ideale l’atività che si svolge non può essere, né praticamente né logicamente,
distinta dal risultato che si vuole raggiungere: l’atività è parte
costitutiva dello scopo per cui si opera;
b. l’identità dell’organizzazione, elemento essenziale, sebbene sia,
come ogni identità, una realtà dinamica e in continua evoluzione, non è un fatore formale o astrato, ma è profondamente legata ad un nucleo di persone che condividono, ed in un certo senso
incorporano la “vocazione” e i valori etici dell’organizzazione a
movente ideale5. Noi chiameremo questi membri, che spesso, ma
non necessariamente, sono i fondatori dell’organizzazione stessa, “intrinsecamente motivati”;
c. tale nucleo di membri intrinsecamente motivati ha la carateristica di essere meno reativo a segnali di prezzo (ad esempio,
salario) rispeto ad altri membri meno motivati. Al tempo stesso,
i membri del nucleo sono i più sensibili, e i primi a protestare, nei
confronti della qualità ideale dell’organizzazione a movente ideale, della quale svolgono una funzione di guardiani dell’identità
e della qualità ideale.6
Chiunque operi nel campo dell’economia sociale sa che in tali organizzazioni il successo e la crescita armonica dipendono principalmente da un numero limitato di persone chiave che sono intrinsecamente motivate. Queste persone influenzano la cultura dell’orQui usiamo i termini “vocazione,” “motivazioni ideali,” e “motivazioni intrinseche” come
sinonimi. Infatti, tra motivazioni ideali o vocazione e motivazioni intrinseche c’è uno stretto
legame: non esistono motivazioni ideali senza motivazioni intrinseche per l’attività che si porta
avanti.
6
Per comprendere la peculiarità di un’organizzazione a movente ideale si pensi a ciò che
l’organizzazione non è: imprese, ad esempio, che hanno come scopo la ricerca del profitto,
nelle quali l’attività è solo uno strumento per ottimizzare qualcosa di esterno, ben distinto
dall’attività stessa che quindi non ha alcun valore intrinseco ma, per definizione, unicamente
strumentale, dove gli impiegati reagiscono solo ad incentivi materiali, e dove non è richiesta
una particolare “vocazione” ai propri membri, a parte le abilità tecniche.
5
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ganizzazione in via direta e, cosa molto importante per la nostra
analisi, in via indireta atraverso i loro comportamenti che sono
imitati da altri membri meno motivati. Se alcune di queste figure chiave lasciano l’organizzazione (perché, per esempio, il nuovo
management non rispecchia gli ideali originari) spesso si verificano
effeti cumulativi e al tempo stesso potrebbe iniziare un processo di deterioramento all’interno dell’organizzazione. Un rimedio
importante contro tale processo di deterioramento è la lealtà dei
membri motivati, che potrebbe essere accresciuta da una governance pluralistica e partecipativa.
Il principale obietivo di questo scrito è quindi quello di analizzare le dinamiche che operano nelle organizzazioni a movente ideale
quando si manifestano confliti tra le persone intrinsecamente o idealmente motivate e altri membri interessati maggiormente agli incentivi di mercato. Questi momenti di crisi sono passaggi importanti
in ogni organizzazione, ma sono assolutamente cruciali nelle organizzazioni a movente ideale. In particolare, esamineremo il meccanismo che può portare le persone intrinsecamente motivate, cioè quelle più interessate alla mission dell’organizzazione, ad abbandonare
(exit) la stessa quando essi percepiscono che la loro protesta (voice) è
ignorata e, come conseguenza, la qualità ideale dell’organizzazione
cade in un processo di deterioramento. Vedremo infati che, colpendo la crisi dell’idealità prima e più intensamente proprio i soggeti
più idealmente motivati, quelli cioè più atenti alle dimensioni di
“vocazione”, se la loro protesta (voice) non incontra l’ascolto, diventa abbandono (exit), un abbandono che può far precipitare l’organizzazione a movente ideale in una trappola mortale.7
L’analisi è duplice: innanzituto combiniamo il modello exit and voice
di Hirschman con le teorie della massa critica di Schelling e Granoveter, e inoltre applichiamo questa combinazione inedita alle organizzazioni a movente ideale.
Questo saggio è dunque un tentativo di analisi teorica di alcune dinamiche che possono verificarsi in momenti di crisi delle organizzaInoltre, il deterioramento dell’idealità ha anche l’effetto di danneggiare la capacità competitiva e di sviluppo dell’organizzazione, quando questa fronteggia una domanda di mercato. Va
notato che, sebbene il deterioramento delle motivazioni intrinseche non investa direttamente
le motivazioni intrinseche dei clienti dell’organizzazione, tuttavia esso ha un effetto indiretto
anche verso di essi. In altre parole, gli effetti negativi del deterioramento delle motivazioni
intrinseche non dipendono dall’indebolimento dell’idealità nei clienti dell’organizzazione (non
occorre infatti pensare che chi si rivolge per una cura ad una cooperativa sociale debba avere
particolari motivazioni intrinseche per quella scelta), ma normalmente una parte di essi “domanda” idealità, e se ne trova meno tende, coeteris paribus, ad uscire.
7
SULL’ARTE DI GESTIRE LE CRISI NELLE ORGANIZZAZIONI A MOVENTE IDEALE
Luigino Bruni, Alessandra Smerilli
zioni a movente ideale. Sarebbe opportuna una ricerca empirica che
verifichi il quadro teorico, in particolare rispeto alla massa critica
e al fenomeno di imitazione. Infati, mentre esiste un’abbondante
evidenza empirica circa l’importanza della massa critica nelle organizzazioni, e nelle loro dinamiche di cambiamento, sarebbero ancora necessari studi empirici sui meccanismi cumulativi di deterioramento della qualità nei momenti di crisi, e sulle best practices che
hanno risolto felicemente queste crisi. Siamo convinti che il mondo
dell’economia sociale, compresa l’EdC, è un campo estremamente
prometente per una tale analisi empirica, che vorremmo diventasse
presto un progeto di ricerca.
Il saggio inizia richiamando la distinzione, dovuta a Hirschman
(1970), tra concorrenza di prezzo e di qualità, ed estende il modello
al caso delle organizzazioni a movente ideale. (par. 2). Presentiamo
quindi un semplice modello, con rivisitazione della leteratura sulla
massa critica (par. 3), per spiegare i processi degenerativi che diventano cumulativi nella cultura organizzativa, quando i membri
chiave scelgono l’opzione exit. Nell’ultima sezione (par. 4) lasciamo
spazio alla lealtà, discutendo i risultati otenuti.
2. Protesta come segnale
In questo articolo proponiamo una dinamica organizzativa in cui il
ruolo chiave è giocato dalle minoranze motivate e dagli effeti imitativi delle loro azioni. Sosteniamo che poche persone intrinsecamente motivate determinano la cultura cooperativa (o non cooperativa)
dentro le organizzazioni, specialmente nelle organizzazioni a movente ideale. Per questo motivo non perdere i membri chiave può
risultare cruciale.
Nell’analisi di tali fenomeni relazionali ci faremo aiutare dal saggio
Exit, Voice and Loyalty di Albert Hirschman (1970), un libro ancora
tuto da scoprire nell’ambito dello studio delle organizzazioni a movente ideale.8
L’ipotesi di partenza dell’analisi del saggio di Hirschman è il funzionamento “speculare” dei mercati nei quali si compete sulla “qualità”
rispeto ai mercati nei quali si compete sul “prezzo”.
L’attenzione nei riguardi del libro di Hirschman all’inizio fu grande, ma dopo l’entusiasmo dei
primi anni, negli ultimi due decenni se ne parla molto poco in economia, e, a nostra conoscenza, quel modello non è stato ancora applicato alle organizzazioni a movente ideale. Conviene
quindi ripartire da quel piccolo (ma inspiring) libro, ripercorrendo la sua linea argomentativa,
per poi inoltrarci nell’analisi oggetto del nostro studio.
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L’esempio classico è quello dell’istruzione. Alla fine degli anni sessanta si discuteva negli Stati Uniti la proposta dell’introduzione di
voucher (buoni) avanzata dall’economista liberale Milton Friedman.
Il governo, proponeva Friedman, per finanziare l’istruzione (tipico
bene meritorio che quindi va sussidiato), invece di intervenire con
sussidi nei confronti dell’offerta (i classici aiuti economici alle scuole,
di vario tipo), sarebbe dovuto intervenire diretamente sulla domanda, assegnando cioè dei buoni ai genitori da spendere nella scuola
che consideravano migliore per i loro figli: free to choose, quindi, secondo la nota filosofia sociale della scuola di Chicago.9 Il meccanismo
dei voucher avrebbe così aumentato la concorrenza, e, conseguentemente, l’e cienza dei servizi scolastici e la qualità dell’istruzione
negli Stati Uniti. Il voucher, infati, fornisce o rafforza per le famiglie
l’opzione exit, introducendo nella gestione di quel servizio il tipico
meccanismo di mercato: se il “bene” non mi piace “esco”. L’exit offre
così un segnale all’organizzazione, la quale, se è razionale, cerca di
retificare la qualità se non vuole continuare a perdere clienti e alla
lunga essere espulsa dal mercato, e svolge una funzione che aumenta l’e cienza e quindi il benessere sociale.
L’introduzione dei voucher crea così un mercato nel quale si compete
essenzialmente sulla “qualità”. Hirschman - e noi con lui - non vuol
negare che in certi contesti il sistema dei voucher possa anche funzionare (sopratuto in situazioni molto ine cienti e rigide, dove la
protesta non accompagnata dalla minaccia di exit non è e cace per
otenere il miglioramento), ma, in base alla sua metodologia, vuole “complicare il discorso economico”, aggiungendo considerazioni
assolutamente importanti anche e sopratuto per le organizzazioni
a movente ideale.
Il punto di partenza della sua analisi consiste nella presa di coscienza che quando si ha a che fare con la concorrenza basata sulla “quaFriedman aveva criticato, tra l’altro, la scuola (l’università in particolare) pubblica gratuita in
base all’assunto che “nessun pasto è gratis”, perché la scuola “gratis” di fatto viene pagata
con le imposte dei cittadini, evidenziando così il paradosso dei neri (poveri) che pagavano
buona parte dei costi dell’istruzione dei figli dei bianchi (ricchi) - le tasse venivano pagate
essenzialmente da lavoratori dipendenti i cui figli non accedevano normalmente all’università,
mentre l’università veniva frequentata dai figli di imprenditori e di professionisti che, a detta
di Friedman almeno, di tasse ne pagavano poche. Il sistema universitario americano era di
fatto un sistema iniquo dove i poveri pagavano la scuola ai ricchi. Un’analisi simile viene ancora oggi rivolta da quegli economisti che criticano i finanziamenti pubblici dei teatri, poiché,
dicono, chi usufruisce di quei beni meritori sono persone benestanti, mentre chi contribuisce
sono in gran parte lavoratori dipendenti che raramente entrano in quei teatri. Ovviamente il
discorso è troppo articolato (i benefici pubblici dei teatri e della cultura vanno ben oltre i diretti
utilizzatori), per sbrigarlo con una nota.
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SULL’ARTE DI GESTIRE LE CRISI NELLE ORGANIZZAZIONI A MOVENTE IDEALE
Luigino Bruni, Alessandra Smerilli
lità”, il mercato reagisce in modo sostanzialmente diverso rispeto
al classico caso della concorrenza basata sul “prezzo” (per la quale
i meccanismi di mercato sono stati pensati e studiati). Nei casi di
concorrenza di qualità, infati, il mercato con i soli suoi meccanismi
non è uno strumento e cace. Vediamo perché. Nel modo normale
di utilizzare (e insegnare) l’economia, la domanda dei consumatori
è espressa come una funzione che lega tra loro quantità (x) e prezzo
(px) di un dato bene, e un cambiamento di qualità viene considerato
equivalente ad un cambiamento di prezzo: “Una merce di qualità
scadente può spesso essere considerata semplicemente una quantità
minore della stessa merce di qualità standard; è il caso, ad esempio,
dello pneumatico d’auto che duri in media soltanto metà (in termini chilometrici) di uno pneumatico di alta qualità” (Hirschman,
1982[1970], p. 44). La concorrenza di qualità, pertanto, dalla teoria
economica viene considerata come un caso particolare della concorrenza di prezzo; da cui segue che nelle analisi economiche “non” si
trata la competizione di qualità come un genus diverso da quella di
prezzo.
Per Hirschman, invece, il punto cruciale del discorso sta nel sotolineare le insidie che si nascondono proprio in questa mancata distinzione tra i due tipi di concorrenza. Infati, nella tradizionale analisi
della concorrenza di prezzo (quella classica di tuti i manuali di economia), quando il prezzo sale chi esce è il “consumatore marginale”,
quello cioè caraterizzato da un minore apprezzamento soggetivo
del bene, colui che ha il “prezzo di riserva”10 più basso. Chi esce è,
per così dire, il “peggiore” del mercato, nel senso che soggetivamente stima relativamente meno quel dato bene.
Nella concorrenza di prezzo, i clienti sono quindi ordinati in ordine
decrescente rispeto al loro prezzo di riserva.
Supponiamo che ci siano tre consumatori (A, B, C): A ha il prezzo
di riserva più alto (poniamo pari a 20); B pari a 15, e C, il più basso,
uguale a 10. Se il prezzo di mercato è 10, tuti e tre i consumatori lo
acquistano. Quando il prezzo sale (ad esempio, da 10 a 12) è il “peggiore” (C) ad uscire dal mercato (colui, cioè, con il prezzo di riserva
più basso), e rimangono in quel mercato coloro che apprezzano relativamente di più quel bene (B e A). Si verifica, quindi, un meccanismo simile ad una gara di salto in alto: quando sale l’asticella, coloro
Il prezzo di riserva è il prezzo più alto che un consumatore è disposto a pagare per un dato
bene pur di non rinunciarvi. Il prezzo di riserva ha a che fare con le preferenze dei consumatori, e non dipende dal reddito (che invece è un vincolo, dal quale anche dipende la scelta del
consumatore).
10
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che restano in gara sono i migliori (a meno di trucchi come il doping
o giudici corroti).
Per queste ragioni, il meccanismo concorrenziale di mercato basato sul prezzo è normalmente visto dagli economisti come uno strumento che garantisce l’e cienza del sistema economico (e sociale),
proprio perché funziona selezionando i soggeti “migliori”. Inoltre,
tradizionalmente l’economia vede di buon grado una domanda dei
beni elastica: più la domanda reagisce velocemente alle variazioni
di prezzo, più e ciente è il mercato. La “protesta” (che Hirschman
chiama voice) dei clienti, quindi, è vista con sospeto dall’economia,
perché crea atriti all’e ciente funzionamento del meccanismo di
mercato, richiedendo tempo; rende la domanda più rigida e alza i
“costi di transazione”. Mentre l’uso dell’exit porta e cienza (se sono
rispetate le varie ipotesi sulla concorrenza).
Che cosa accade, invece, nella competizione giocata principalmente
sulla “qualità”?
La qualità è un conceto multidimensionale. Come già accennato, per
molti beni di mercato non c’è una distinzione significativa tra prezzo e qualità in termini di concorrenza ed e cienza. Esiste, tutavia,
un tipo (o una dimensione) della qualità che, secondo Hirschman,
opera in modo diverso rispeto alla concorrenza standard. È il caso
in cui la qualità non è una carateristica oggetiva e perfetamente
osservabile del bene, quanto piutosto una qualità associata ad una
dimensione intrinseca di quel bene particolare.
Hirschman (1982[1970]) sostiene, per noi corretamente, che potrebbe verificarsi un risultato esatamente opposto a quello che si verifica
con la concorrenza di prezzo: quando si determina un deterioramento della qualità, colui che esce per primo è il soggeto “migliore”, chi
cioè è più sensibile alla qualità (che normalmente non corrisponde
al consumatore marginale che uscirebbe dal mercato in caso di un
aumento del prezzo)11. Questo succede perché il deterioramento di
qualità è: “Spesso differente per differenti consumatori dell’articolo,
in quanto l’apprezzamento della qualità è molto diverso tra di loro”
(p. 48).
In questo tipo di concorrenza, quindi, l’ordine dei consumatori potrebbe essere invertito; il soggeto che reagisce per primo ad un deterioramento di qualità è lo stesso che valuta di più la qualità.
Hirschman (1982[1970]) suppone che il cliente che lascia per primo,
Hirschman dimostra che un deterioramento di qualità è equivalente ad un aumento di prezzo, coeteris paribus.
11
SULL’ARTE DI GESTIRE LE CRISI NELLE ORGANIZZAZIONI A MOVENTE IDEALE
Luigino Bruni, Alessandra Smerilli
come conseguenza di una crisi di qualità, è il primo in termini di
qualità di riserva.12 Se, infati, la qualità si deteriora, significa che
per A, il migliore in questo mercato, il deterioramento di qualità: “È
equivalente ad un aumento di prezzo che consuma il suo intero surplus” (p. 138), mentre per C: “L’equivalente aumento di prezzo può
essere così piccolo che egli rimane sul mercato” (p. 138).
Quindi, quando si assiste ad un deterioramento di qualità, il consumatore A lascerà il mercato. Per lui, infati, un piccolo deterioramento di qualità è equivalente ad un incremento di prezzo che annulla
tuto il suo surplus. Di conseguenza, il consumatore marginale dal
punto di vista del prezzo diventa “il più centrale in caso di un deterioramento di qualità” (Hirschman, 1982[1970], p. 138). In altre parole, la persona più interessata a questo tipo di qualità non è molto
interessata ai prezzi (o lo è meno di altri consumatori), se la qualità
rimane alta.
È importante notare che questa analisi basata sulla distinzione tra
concorrenza di prezzo e di qualità non è applicabile a tuti i tipi di
beni. Hirschman limita l’analisi ai cosiddeti connoisseur goods, che
hanno due carateristiche principali (e che rappresentano le condizioni necessarie per il reversal phenomenon): 1) gli aumenti di prezzo equivalenti ad un declino di qualità sono differenti per differenti
consumatori; 2) tali aumenti equivalenti sono correlati positivamente con il corrispondente surplus del consumatore.
Un esempio tipico ci viene dal mercato dei vini di alta qualità (come,
per esempio, il Chianti). I consumatori “migliori” (quelli che apprezzano di più il vino, cioè che hanno il prezzo di riserva più alto) non
sono molto reativi ad un aumento di prezzo se gli standard di qualità rimangono alti. Se, invece, il vino perde in qualità, gli stessi consumatori sono i primi che tendono ad abbandonare il bene.
Quali sono, allora, le conseguenze di questa analisi?
Torniamo all’esempio dei voucher nelle scuole. Se davanti ad una crisi
di qualità escono i genitori più sensibili che si rivolgeranno a scuole
di eccellenza, il risultato potrebbe essere - sopratuto in presenza di
qualità non codificata e non “oggetiva”, come nel caso della qualità
relazionale o motivazionale - assistere ad un peggioramento della
qualità media (l’offerta può essere ri-calibrata sulla base degli standard più bassi di chi resta).13
La qualità di riserva esprime la massima tolleranza in termini di deterioramento di qualità:
il consumatore A, con qualità di riserva di 10, è più sensibile al deterioramento di qualità del
consumatore B, che ha una qualità di riserva di 15.
13
Si verificherebbe in questo caso una forte polarizzazione: da una parte, poche scuole di
12
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È facile intuire che questa teoria di Hirschman si applica perfetamente alle dinamiche delle organizzazioni a movente ideale. Pensiamo, per esempio, ad un’impresa di Economia di Comunione che ad
un certo punto del proprio ciclo di vita subisce un deterioramento
nella qualità motivazionale dei suoi dirigenti. Il caso più comune è
il passaggio dalla prima fase di fondazione alla seconda fase di normalizzazione dell’atività. In certi casi questo passaggio può coincidere con l’invecchiamento dei fondatori, e il necessario avvio del
processo di ricambio generazionale. In questi frangenti accade - e
sono molti gli esempi che si possono portare - che l’organizzazione
spesso entra in una situazione di conflito.
Il modello di Hirschman ci dice che in casi come questi siamo di fronte
ad una situazione in cui la qualità (ideale) si sta deteriorando. Alla luce
di questa teoria, in quello che segue supponiamo che i membri più interessati alla qualità saranno i primi a protestare qualora osservino un
deterioramento di qualità ideale e di valori nell’organizzazione a movente ideale. Qualità ideale, infati è lo stesso che connoisseur goods. Secondo la definizione di Hirschman la qualità ideale, infati, rispeta le
due carateristiche chiave dei connoisseur goods: a) gli aumenti di prezzo equivalenti sono differenti per persone differenti (intrinsecamente
motivate oppure no); b) i primi a reagire (A) ad un deterioramento di
qualità ideale sono quelli con il più alto surplus in termini di prezzo (le
persone intrinsecamente motivate sono meno sensibili a variazioni di
prezzo (effort, stipendio, ecc.), ma nello stesso tempo i più sensibili ad
un deterioramento di qualità. È il caso, per esempio, dei consumatori
etici o degli investitori che sono disposti a pagare un prezzo più alto
(o a guadagnare meno in termini di tassi di interesse) quando le scelte dell’organizzazione che essi supportano con le proprie scelte sono
etiche e responsabili. Allo stesso tempo, queste persone sono le prime
a protestare e a minacciare di andarsene in caso di un deterioramento
della qualità etica dei prodoti e/o dell’organizzazione. Se le proteste
dei veteres sono considerate dai novatores (la seconda generazione di
dirigenti) solo come un costo organizzativo ed ignorate, allora l’uscita, cioè il lasciare l’organizzazione, diventa l’unica opzione disponibile per i veteres.14
Nella prossima sezione ci soffermeremo su alcune conseguenze rilevanti per l’organizzazione dovute a tale uscita.
élite, dall’altra, un alto numero di scuole mediocri. Un’analisi costi-benefici denuncerebbe una
perdita netta d’efficienza, misurata sulla base della qualità.
14
Nella nostra analisi è implicita un’ipotesi, e cioè che i membri più motivati hanno la possibilità di trovare beni di migliore qualità se lasciano l’organizzazione a movente ideale.
SULL’ARTE DI GESTIRE LE CRISI NELLE ORGANIZZAZIONI A MOVENTE IDEALE
Luigino Bruni, Alessandra Smerilli
3. Gli effetti cumulativi delle crisi
Una prima implicazione di quanto abbiamo appena analizzato è
semplice da intuire.
Se l’organizzazione fronteggia una domanda, come accade per le
imprese EdC e per le imprese sociali, il deterioramento della qualità
ideale produrrà subito effeti in termini di capacità di tratenere i
clienti migliori (quelli più sensibili alla qualità “ideale”). L’organizzazione deve molto del suo successo alla sua mission ideale: atira
clienti e finanziatori perché essi le atribuiscono un valore sociale e
la produzione di esternalità positive. Un deterioramento motivazionale nei suoi membri porta ad una minaccia di abbandono proprio
dei clienti “migliori”.
Inoltre, in presenza di una crisi di qualità ideale, che potrebbe verificarsi, ad esempio, nel passaggio dalla prima alla seconda generazione di soci e/o di manager15, per una crescita (nel nostro esempio) che
porta l’organizzazione a rivolgersi al mercato per nuovi dirigenti,
l’organizzazione tenderà a perdere i membri più motivati. È questo
un fenomeno che si somma al precedente, e che forse è ancora più
preoccupante.
Infati, quando un numero su ciente di persone motivate sono presenti in un’organizzazione a movente ideale, esse possono avere effeti di spill-over sugli altri lavoratori, che possono iniziare ad imitare
le persone più motivate nel lavorare di più e meglio, nel riempire
di gratuità gli spazi appartenenti al “non contratabile”16. Potremmo chiamare questo fenomeno “cultura dell’organizzazione”, che,
sebbene creata dalle persone più motivate (per esempio, i fondatori
dell’atività), permea lo stile di tuti gli altri membri. Vale la pena di
notare qui, che quel “di più” dato dal clima presente nelle organizzazioni a movente ideale e dall’impegno dei membri (che porta, per
esempio, a fare bene il proprio lavoro anche se non controllati) ha le
carateristiche di un bene pubblico che viene in esistenza solo se c’è
un numero adeguato di contributori.
La nostra ipotesi, illustrata nell’introduzione, è che la presenza di
persone intrinsecamente motivate in un’organizzazione a movente
Qui ipotizziamo che non ci sia un rapporto principale-agente tra soci e dirigenti, e quindi
ci sia assenza di conflitti di interesse tra le due figure: ipotizziamo cioè che i dirigenti siano i
soci stessi.
16
Per esempio, se si lavora a contatto con i clienti, la presenza di almeno una persona che
sa prestare attenzione alle esigenze del cliente, che sa sorridere e che non si spazientisce
facilmente, può creare un clima in cui anche gli altri membri siano portati a comportarsi allo
stesso modo.
15
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ideale è importante non solo perché queste persone contribuiscono
diretamente a preservare la qualità ideale dell’organizzazione, ma
anche perché la loro presenza influenza indiretamente il comportamento degli altri membri atraverso l’imitazione.
Ma che cosa vuol dire “numero su ciente” di persone motivate?
Nelle parole di Schelling è la “massa critica”, cioè il numero minimo
di persone che può far scatare una reazione a catena.
Per sviluppare questo aspeto della nostra analisi, facciamo uso dei
modelli di massa critica, specialmente nelle versioni sviluppate da
Schelling (1978) e Granoveter (1978). In altri studi, questi modelli
sono stati utilizzati per spiegare alcuni fenomeni circa i comportamenti colletivi, come, per esempio, scioperi e manifestazioni, diffusione delle innovazioni, immigrazione, ecc. Più recentemente, Durlauf (2001), Brock e Durlauf (2000); Blume e Durlauf (2000), hanno
proposto una formalizzazione dei modelli di massa critica nel loro
progeto di ricerca conosciuto come social economics. Questi studiosi offrono un’abbondante evidenza empirica e storica di comportamenti colletivi che avvalorano le ipotesi che sono alla base di questi
modelli di massa critica.17 Per di più la storia è piena di esempi (dal
Cristianesimo al movimento di indipendenza di Gandhi, dalle organizzazioni ambientali a quelle per i diriti umani), in cui cambiamenti
culturali significativi sono stati generati dall’azione di poche persone intrinsecamente motivate. Gladwell (2002), per esempio, mostra
una convincente evidenza di come poche persone con particolari carateristiche siano su cienti per cambiare situazioni su larga scala.
Egli chiama questo fenomeno la legge dei pochi (the law of the few).
Secondo questa teoria, dunque, la cultura di una data comunità o di
un dato gruppo non dipende da un gran numero di persone o dalla
maggioranza. Dipende, invece, da un piccolo numero di persone che
riescono ad ativare degli imitatori, i quali costituiscono la maggioranza dei membri di un’organizzazione o di una comunità.
Noi estendiamo questa “legge dei pochi” alle dinamiche interne delle organizzazioni, sulla base dell’ipotesi che la cultura organizzativa, anche se creata da poche persone, influenza il comportamento di
tuti i membri dell’organizzazione. Quando, cioè, un numero su ciente di persone intrinsecamente motivate sono presenti in un’organizzazione a movente ideale, un effeto di spillover influenza gli altri
membri motivandoli ad emulare o imitare i primi, e a migliorare la
Per esempio, Durlauf (2001) analizza la diffusione della Silicon Valley, un fenomeno di diffusione dell’innovazione e di migrazione.
17
SULL’ARTE DI GESTIRE LE CRISI NELLE ORGANIZZAZIONI A MOVENTE IDEALE
Luigino Bruni, Alessandra Smerilli
loro performance sul lavoro18. Quando invece alcuni di questi membri chiave lascia l’organizzazione, si verificherà un effeto smile (ma
di senso inverso) che può portare l’organizzazione a movente ideale
in una specie di trappola.
In quello che segue sviluppiamo un modello stilizzato. Esiste un’ipotesi abbastanza comune nella teoria organizzativa: un’organizzazione cresce e si sviluppa quando un’atitudine cooperativa si sviluppa
tra i suoi membri, che quindi vedono il bene comune più saliente
dell’interesse individuale; di contro, un’organizzazione è portata al
declino quando i membri guardano maggiormente ai propri guadagni personali19.
Supponiamo, in parallelo con il modello di Schelling (1978), che in una
data organizzazione a movente ideale esistano tre tipi di membri:
• gruppo 1, composto di persone intrinsecamente motivate che
cooperano senza badare ai comportamenti delle altre persone,
perché essi sono ricompensati dall’atività stessa (Bruni, Smerilli,
2004). Nel nostro caso i membri chiave appartengono a questo
primo gruppo. Tali membri, come già deto, non condizionano il
loro effort al numero di persone che si comportano in maniera cooperativa; essi hanno, invece, un secondo livello di condizionalità. Essi cooperano se la qualità dell’organizzazione a movente
ideale è mantenuta ad un livello che per essi è “abbastanza” alto;
altrimenti tendono ad abbandonare l’organizzazione;
• gruppo 2, costituito da membri che non coopereranno mai, indipendentemente da quanti altri cooperano nell’organizzazione;
• gruppo 3, comprendente gli imitatori, ossia membri che si trovano tra il gruppo uno e il gruppo due ed hanno la carateristica di
cooperare se vedono “abbastanza” altri membri che cooperano.
In un contesto di agenti eterogenei, il numero degli “abbastanza” motivati da vedere atorno a sé per iniziare a lavorare di più e meglio
(cioè da motivati) è differente per ogni agente appartenente al medesimo gruppo. Possiamo chiamare questo numero (o proporzione) valore soglia (threshold value). Avendo ogni agente di questo gruppo un
differente valore soglia, allora esisterà una distribuzione di frequenze dei valori soglia, e quindi anche una distribuzione cumulativa. La
distribuzione cumulativa F(x) misura, per ogni numero o proporzioIl punto chiave è comprendere cosa significhi esattamente un “numero sufficiente”. Qui
usiamo il concetto di numero sufficiente nel senso utilizzato da Schelling nella teoria della
massa critica, e cioè il numero minimo che può produrre una reazione a catena.
19
Per una rassegna della letteratura sull’argomento cfr. Astley, Van de Ven (1983); Keley
(1978) e un testo classico come Williamson (1995).
18
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ne x di persone che si vedono lavorare come motivate, il numero, o
la proporzione di persone per cui quel numero è su ciente per fare
altretanto. Quindi, se m rappresenta il numero di persone che sono
motivate in t, il numero di persone che lavoreranno come motivate in
t + 1 è dato da F(m). La condizione di equilibrio è quindi:
F(m*)= m*
Graficamente, se si pone m sull’asse delle ascisse e F(m) sull’asse delle ordinate, i punti di equilibrio sono quelli in cui la distribuzione
cumulativa incrocia la bisetrice (45°).
FIGURA 1 - DISTRIBUZIONE DEI VALORI SOGLIA CON TRE EQUILIBRI
F(m)
50
nm’
e3
e2
e1
F(0)=m’
m
0
12
25
40 50
La F(m) può variare a seconda di come è fata la distribuzione dei valori soglia sotostante. La proporzione di soggeti che hanno valore
soglia uguale a 0 è data dal valore di F(0), cioè, nel grafico, dal punto
di partenza (sull’asse Y) della nostra funzione cumulativa. Se F(0) =
0 ciò vuol dire che non esistono lavoratori intrinsecamente motivati
(appartenenti al gruppo 1).
Il grafico può essere anche visto in un contesto dinamico. In questo
caso sull’asse delle X è rappresentato il numero di coloro che oggi
lavorano come motivati20, sull’asse Y, invece, la distribuzione mi dice
Tale interpretazione si riferisce all’approccio di Granovetter, uno dei pionieri nell’applicazione
dei modelli di massa critica ai fenomeni sociali: “Si assegni ad ogni persona un valore-soglia
20
SULL’ARTE DI GESTIRE LE CRISI NELLE ORGANIZZAZIONI A MOVENTE IDEALE
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quanti sono coloro (in base ai valori soglia) che domani si comporteranno come motivati. In questo contesto un punto di equilibrio è un
punto in cui il numero di coloro che cooperano oggi sarà uguale al
numero di cooperatori di domani, e da questo punto non ci si sposta,
a meno di perturbazioni.
Se, per esempio, tre persone hanno valore soglia 2 e una ha valore soglia 3, qualora si osservassero nel periodo t 3 lavoratori motivati, nel
periodo successivo ci saranno altre 4 (3+1) persone disposte a cooperare, e così via. Quando il numero di persone che oggi si comportano
da motivate è uguale al numero delle persone che lo saranno domani
(i punti lungo la bisetrice), siamo in un punto di equilibrio.
Come possiamo vedere, a seconda della distribuzione dei valori soglia ci possono essere equilibri multipli, ma si può anche avere il caso
di un solo equilibrio, o addiritura casi in cui l’equilibrio diverso da
zero non c’è, e cioè quando la distribuzione cumulativa giace soto la
bisetrice. Quest’ultimo è il caso in cui non ci sono persone del primo
gruppo (con valore soglia 0), il caso, quindi, in cui nessuno comincia
se non vede qualcun altro cominciare. Il caso degli equilibri multipli,
come il diagramma rappresentato in figura 1, è il più interessante. Il
diagramma presenta tre equilibri, di cui due stabili (e1, e3) ed uno instabile (e2). Con la stessa distribuzione dei valori soglia si può, quindi, a seconda del punto di partenza, trovarsi in una situazione di alta
(e3) o bassa (e1) proporzione di lavoratori motivati.
Il livello dei possibili punti di equilibrio dipende quindi da tre fattori:
a. il numero delle persone intrinsecamente motivate (la numerosità
del gruppo 1);
b. la distribuzione dei valori soglia tra le persone del gruppo 3, i cui
comportamenti imitativi dipendono da quanti cooperatori sono
presenti (la forma della funzione cumulativa); e
c. il numero delle persone non intrinsecamente motivate (la numerosità del gruppo 2).
Il fatore chiave della dinamica di questo processo è il numero delle
persone intrinsecamente motivate (i membri del nucleo).21 Che cosa
(il numero o la proporzione del gruppo che egli vuole vedere prendere una decisione, prima
che anch’egli la prenda) (…). Se alcuni individui k hanno valore-soglia 0, questo numero di
individui prenderà la decisione rilevante e in t=1 abbiamo k cooperatori. (…) Se esistono alcuni individui m con valore soglia minore o uguale a k allora essi si attiveranno e in t=2 avremo
k+m cooperatori” (Granovetter, Soong, 1983, p. 167).
21
Come già menzionato nell’introduzione, l’importanza delle motivazioni intrinseche nelle organizzazioni è stata sottolineata da numerosi studiosi come Frey, o Le Grand. In particolare,
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può accadere se alcuni cambiamenti nell’organizzazione ne riducono la qualità ideale?
Come abbiamo visto, se non c’è la possibilità di protestare, le persone più motivate sono le prime che minacciano l’uscita. Se alcuni del
gruppo 1, cioè dei più motivati, lasciano l’organizzazione, l’effeto
sulle persone del gruppo 3, i cui comportamenti dipendono da quanti motivati operano nell’organizzazione, potrebbe essere sostanzioso.
Nel peggiore dei casi, il punto di equilibrio di alto livello potrebbe
anche essere distruto. La figura 3 esemplifica questo esito.
Nell’esempio qualitativo rappresentato nella figura 1, nella nostra
organizzazione a movente ideale abbiamo un totale di 50 lavoratori,
di cui circa 10 (indicati dal segmento m’ nel grafico) sono intrinsecamente motivati (gruppo 1) e 10 (nm’) sono non motivati (gruppo
2). Abbiamo due equilibri stabili (12 e 40 lavoratori): si può finire
nell’uno o nell’altro a seconda delle condizioni iniziali. In questo
esempio gli equilibri sono tre (due stabili e uno instabile), ma ci sono
casi, come nella figura 2, in cui l’equilibrio è unico, o addiritura può
non esserci (o meglio è semplicemente uguale a zero). Tuto dipende
dalla distribuzione dei valori soglia.
In questo secondo esempio, la curva A mostra il caso in cui c’è solo un
equilibrio (positivo), mentre la curva B mostra il caso in cui nell’organizzazione a movente ideale non c’è un equilibrio con una proporzione positiva di persone che lavorano come motivate. In quest’ultimo caso, nessuno è intrinsecamente motivato, quindi il processo
semplicemente non comincia.
Il livello, quindi, dei possibili equilibri è stretamente collegato al
numero delle persone intrinsecamente motivate, atraverso la distribuzione dei valori soglia tra le persone il cui comportamento dipende da quante persone motivate sono presenti. Inoltre, la cosa più importante, a nché il processo si ativi, è avere la presenza di almeno
alcune persone appartenenti al gruppo 1.
Frey (1997) distingue tra motivazioni intrinseche ed estrinseche, mentre Le Grand (2003)
parla di soggetti knavish e knightly. Lo scopo di entrambi gli studiosi è disegnare schemi di
incentivazione che permettano ai lavoratori di mantenere alte le motivazioni. La nostra analisi
delle motivazioni nelle organizzazioni a movente ideale, sebbene condivida i principi di base
di queste teorie, enfatizza un punto differente, e cioè la relazione tra i membri intrinsecamente
motivati e altri membri non del tutto intrinsecamente motivati, ma neanche interessati solo
a motivazioni estrinseche, che attraverso meccanismi di imitazione giocano un ruolo chiave
nel determinare i punti di equilibrio (o la cultura) che possono essere raggiunti in una data
organizzazione a movente ideale.
SULL’ARTE DI GESTIRE LE CRISI NELLE ORGANIZZAZIONI A MOVENTE IDEALE
Luigino Bruni, Alessandra Smerilli
FIGURA 2 - DISTRIBUZIONE DEI VALORI SOGLIA CON UN EQUILIBRIO O SENZA EQUILIBRIO
F(m)
50
nm’
A
B
m’
m
0
12
25 30
50
4. Motivazioni e fragilità delle organizzazioni
La presenza di persone appartenenti a gruppo 1 è condizione necessaria perché il processo si ativi: è questo il messaggio che abbiamo
enfatizzato nel discorso fin qui svolto. Ma, come vedremo nell’analisi che segue, la motivazione del tipo 1 non è una condizione “su ciente” perché il processo duri nel tempo e sia robusto di fronte alle
inevitabili crisi. C’è, infati, un ruolo cruciale giocato dalla distribuzione dei valori soglia. Se, infati, i motivati sono pochi, e non si riesce a creare una cultura media di cooperazione nell’organizzazione,
l’organizzazione a movente ideale è molto vulnerabile e fragile. Una
buona governance deve dunque saper puntare sui tipi 1, ma valorizzare molto anche la cultura media dei tipi 3 i quali, sebbene siano
cooperatori condizionali, sono coloro dai quali dipende la cultura
generale dell’organizzazione a movente ideale. Infati, un buon numero di tipi 3 con un basso valore soglia all’interno dell’organizzazione (caso ben rappresentato dalla curva A) la rende più robusta
di fronte alle crisi e crea le precondizioni a nché possa scatare il
processo virtuoso di una cultura cooperativa.
89
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Ora, alla luce del discorso fato, cosa succede se si presenta una crisi
generazionale o comunque una crisi che fa scendere la qualità ideale
dell’organizzazione? Abbiamo visto che se non ci sono possibilità di
esprimere una voice ideale e aspetative di essere ascoltati, i più motivati sono i primi che minacciano l’opzione exit. Ci si potrebbe chiedere
perché questo accada, dal momento che i più motivati sono disposti
ad andare avanti anche da soli (sono cioè quelli disposti a contribuire
al bene pubblico “clima” dell’organizzazione anche se gli altri non lo
fanno). Questi soggeti vanno avanti anche da soli se il livello di qualità ideale (dato dalle scelte di fondo) dell’organizzazione a movente
ideale rimane alto. Altrimenti non trovano più le ragioni per il loro
commitment. È come se il soggeto intrinsecamente motivato avesse
una componente psicologica tra i suoi pay-off che, quando ha un valore su cientemente alto, lo spinge a cooperare nell’organizzazione in
modo incondizionale, anche conscio del free-riding che i non-motivati
possono fare nei suoi confronti. Questo valore non è però un parametro costante, ma una variabile che risente dell’ambiente. In particolare, i
soggeti intrinsecamente motivati è come se avessero un “vincolo identitario”: se vedono che l’organizzazione sta perdendo (magari a causa
del nuovo management) l’identità ideale originaria, quella componente intrinseca dei loro pay-off può abbassarsi di molto. Con quali effetti? Un primo effeto potrebbe essere appunto l’exit, cioè l’abbandono
dell’organizzazione. Non è però necessario ipotizzare questa soluzione
estrema. È su ciente che il valore intrinseco non sia più su ciente per
la cooperazione incondizionale, e la crisi identitaria faccia passare il
lavoratore e/o socio dal gruppo 1 al gruppo 3: diventa un cooperatore
condizionale, che coopera in base alla convenienza relativa.
Ma se i più motivati lasciano l’organizzazione (sia leteralmente, o
trasformandosi in cooperatori condizionali), l’effeto sugli altri membri potrebbe essere considerevole. Nel caso peggiore, l’equilibrio con
un alto livello di persone che si comportano in modo cooperativo
potrebbe addiritura scomparire, come ci illustra la figura 3.
Supponiamo che nel primo periodo si raggiunga l’equilibrio con un
alto numero di motivati (ad esempio 40). Ipotizziamo quindi che una
crisi motivazionale faccia abbassare il livello di qualità ideale dell’organizzazione, e l’assenza di ascolto delle istanze ideali faccia sì che i più
motivati, quelli più interessati alla qualità ideale, lascino l’organizzazione (o “cambino gruppo”). Se i più motivati se ne vanno (concretamente o solo “interiormente”), la curva dei valori soglia si abbassa.22
Sicuramente il punto di partenza della curva sull’asse delle ordinate è più basso, a causa del
minor numero di tipi 1; poi, a seconda che ci sia un uscita o un cambiamento nelle motivazioni
22
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FIGURA 3 - EFFETTO DELL’EXIT DEI TIPI 1
F(m)
50
nm’
m’
0
m
12
25
40 50
Nella figura 3 mostriamo il caso in cui circa 6 membri più motivati
(del tipo 1) lasciano: in questo caso non sarà più possibile raggiungere l’equilibrio con un alto numero di membri che si comportano
cooperativamente, in quanto questo equilibrio semplicemente non
esiste più. L’uscita di soli pochi membri intrinsecamente motivati
porta così ad un nuovo equilibrio nell’organizzazione a movente
ideale, composto da soli 7 lavoratori motivati invece di 40 come nella situazione precedente! In una tale organizzazione qualcuno potrebbe dire: “Perché se sono uscite 6 persone cooperative, e prima
eravamo in 40 a cooperare, ora non ci ritroviamo con 34 cooperatori
(40-6), ma con soltanto sete cooperatori?”. Il punto è che sono usciti
soggeti del tipo 1, che hanno effeti moltiplicativi sull’intera cultura
organizzativa (se invece fossero uscite persone del tipo 3, si sarebbe
verosimilmente passati a 34 cooperatori).
Tuto ciò ci sembra un risultato di una certa rilevanza.23
(quindi tipi 1 che diventano tipi 3), la curva subirà una traslazione verso il basso o un cambiamento di forma. Su questo cfr. Schelling, 1978.
23
Abbiamo mostrato il peggiore dei casi: non è detto che uno degli equilibri (ammesso che in
partenza esista) vada distrutto, ma innanzitutto questa possibilità esiste e, in secondo luogo
è importante notare che una piccola variazione nel nucleo delle persone più motivate, può
generare effetti notevoli.
91
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Il caso precedente ci offre la possibilità di rifletere su aspeti importanti nella dinamica motivazionale delle organizzazioni, le organizzazioni a movente ideale in modo particolare. La situazione che
abbiamo appena illustrato ci rivela una dimensione cruciale quando
si ha a che fare con organizzazioni a movente ideale: se i fondatori, o
i motivati intrinsecamente, sono una minoranza, questi, se vogliono
dar vita ad un’organizzazione robusta di fronte alle crisi, non debbono preoccuparsi soltanto delle proprie motivazioni alte (elemento
importante, ovviamente), trascurando la cultura dei tipi intermedi,
gli imitatori (i tipi 3): se infati la cultura cooperativa di questi soggeti è molto bassa (i valori soglia sono cioè alti), l’organizzazione
a movente ideale è terribilmente esposta a crisi gravi: è su ciente
la pensione, o l’uscita, di pochi membri del primo gruppo perché
l’intera cultura si perda. È questo il caso di organizzazioni, dalle
cooperative sociali all’impresa famigliare EdC, nelle quali quando
il fondatore lascia, nell’impresa non rimane poco o nulla della sua
cultura originaria.
Se, invece, quel o quei fondatore/i lavora nell’alzare la cultura media
dell’intera impresa, formando i lavoratori, a tuti i livelli, creando
le possibilità a nché tuti i soggeti dell’organizzazione possano, in
qualche misura, far propria quella data cultura, in questi casi l’impresa resiste molto meglio agli shock dovuti al cambiamento generazionale, o all’uscita dei membri intrinsecamente motivati.
È questo il caso illustrato dalla curva A nella figura 2, quando cioè
sono presenti molti soggeti appartenenti al gruppo 3 e con un basso
valore soglia, gli effeti sono notevoli, ma non così devastanti, come
vediamo dalla figura 4.
Anche qui una piccola riduzione di membri appartenenti al gruppo
1 porta a conseguenze importanti, ma non devastanti come nel caso
precedente. Vediamo quindi come sia importante per l’organizzazione a movente ideale saper tenere nella dovuta considerazione sia i
membri del gruppo 1 che quelli del gruppo 3, che se presenti in buon
numero, e sopratuto con un basso valore soglia (persone cioè che
si ativano in freta), aiutano a gestire bene i cambiamenti generazionali, o a limitare i danni nei tempi di crisi. Se invece l’organizzazione
punta solo sui tipi 1, si possono raggiungere anche alti equilibri nei
momenti felici, ma nei tempi di crisi l’organizzazione diventa, come
abbiamo visto, molto fragile.
C’è infine un corollario rilevante del discorso appena fato: l’importanza di saper individuare da quale gruppo (1, 2 o 3) proviene la
SULL’ARTE DI GESTIRE LE CRISI NELLE ORGANIZZAZIONI A MOVENTE IDEALE
Luigino Bruni, Alessandra Smerilli
protesta. Infati la protesta dei tipi intrinsecamente motivati (tipi 1)
va accolta e svolge un ruolo importante, perché è normalmente tesa
al recupero della qualità ideale; non altretanto la protesta che proviene dal gruppo 3, poiché in questo caso essa non nasce dal desiderio di recupero della qualità ideale dell’organizzazione, ma spesso
solo da interessi privati e opportunistici. Una gestione atenta è quella che sa distinguere “da chi” proviene la protesta, e quindi riconoscere la voice che ha un potenziale costrutivo per l’organizzazione,
da quella che non lo ha, e gestire questi due tipi di protesta in modo
sostanzialmente diverso: una crisi può deteriorare anche perché non
si è capaci di capire che tipo di protesta sta emergendo all’interno
di un’organizzazione a movente ideale, non si ascoltano le proteste
“buone” e si dedica tempo ed energie all’ascolto di quelle “cative”
e distrutrici24. Anche, e vorremmo dire sopratuto, in ciò sta l’arte
dell’amministrare organizzazioni relazionalmente complesse come
quelle che stiamo qui esaminando.
FIGURA 4 -
F(m)
50
nm’
A
A’
m’
m
0
12
25
50
Inoltre non dobbiamo avere una lettura statica dei “tipi”: per certe dimensioni della vita
dell’organizzazione a movente ideale il tipo può coincidere con la persona (il fondatore, ad
esempio), ma per molte altre dinamiche in ogni persona coesistono i tre tipi, e si attivano in
base ai contesti, gli umori o le fasi della vita. Ciò per dire che non tutte le proteste dei tipi 1
sono per principio sempre costruttive e buone.
24
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IMPRESA SOCIALE
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5. Conclusione
Quando un’organizzazione è capace di dar vita ad una governance pluralista, ascolta le proteste (buone), e non emargina i soggeti
complicati e scomodi che sollevano istanze ideali, allora è possibile
che la voice non produca l’exit, ma la “lealtà”. Se infati la protesta
è “ogni tentativo di cambiare una situazione di cile” (Hirschman,
1982 [1970], p. 30), allora se chi protesta intravede la possibilità reale
di un miglioramento della qualità, egli può decidere di restare, e
quando fa questo la sua protesta si trasforma in “lealtà”. La lealtà è
però molto esigente per l’organizzazione, perché implica la speranza in chi protesta che le sue istanze siano ascoltate: se invece questa
speranza manca, allora l’exit può diventare l’unica alternativa, con le
conseguenze che abbiamo visto, e discusso.
In conclusione, le organizzazioni a movente ideale vivono anche, e
per certi versi sopratuto, di motivazioni intrinseche: sono quelle
richieste dalla società civile, dagli stake- e need holders, e che non possono essere “acquistate” sul mercato del lavoro, ma solo selezionate
con meccanismi indireti. Le motivazioni sono incarnate nelle persone, e non in tute: solo quelle portatrici di un “capitale motivazionale” che è stato costruito in anni o decenni, e che non ha sostituti di
mercato.
Il discorso che abbiamo cercato di articolare in questo scrito guarda alle motivazioni umane come ad una forma di ricchezza, come
ad una misura della civiltà di ogni organizzazione umana e di ogni
comunità. Le crisi - di ogni natura - tendono di per sé a ridurre questa ricchezza, e a far perdere così gradi di libertà. Le crisi diventano
insostenibili quando distruggono il capitale simbolico e identitario
delle organizzazioni, un capitale che, sopratuto nelle organizzazioni a movente ideale, non può essere offerto né da prestiti agevolati
né da sussidi statali. In questi tempi di crisi speriamo che le considerazioni che abbiamo suggerito in queste pagine possano essere di
qualche aiuto.
SULL’ARTE DI GESTIRE LE CRISI NELLE ORGANIZZAZIONI A MOVENTE IDEALE
Luigino Bruni, Alessandra Smerilli
Riferimenti bibliografici
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luglio ~ settembre 2009
Percorsi di cultura e struttura organizzativa
nelle imprese di Economia di Comunione
Giampietro Parolin, Elisa Golin
Sommario
1. Introduzione - 2. Come un arcobaleno - 3. Cultura e strutura: un modello interpretativo
- 4. Cultura e strutura nelle imprese EdC: verso la “comunione del management”
1. Introduzione
“(…) siamo infati convinti che occorre informare dei valori in cui si crede
ogni momento della vita sociale, e quindi anche economica, che così diventa
anch’essa luogo di crescita umana e spirituale L’Economia di Comunione,
quindi, non si presenta tanto come una nuova forma di impresa alternativa a quelle già esistenti. Piutosto essa intende trasformare dal di dentro
le usuali struture d’impresa, siano esse società per azioni, cooperative od
altro, impostando tuti i rapporti intra ed extra aziendali alla luce di uno
stile di vita di comunione. Il tuto nel pieno rispeto degli autentici valori
dell’impresa e del mercato”.
Chiara Lubich - Laurea Honoris Causa in Economia - Piacenza 1999
Nel diciotesimo anno dalla nascita del progeto di Economia di
Comunione (d’ora in poi EdC), a contato con tanti imprenditori
e dirigenti di imprese che vi si orientano, leggendo le esperienze
pubblicate e condivise in questo lasso di tempo, navigando nei blog
del progeto, sorge spontanea l’esigenza, perché mossi dal senso di
PERCORSI DI CULTURA E STRUTTURA ORGANIZZATIVA NELLE IMPRESE DI ECONOMIA DI COMUNIONE
Giampietro Parolin, Elisa Golin
responsabilità, di avviare un processo di valutazione inteso come
momento di riconoscimento autentico del percorso intrapreso (Fontana, Varcheta, 2005). L’obietivo è capire più profondamente cosa
sia successo, cosa si stia muovendo in quell’orizzonte di trasformazione dal di dentro delle struture aziendali, alla ricerca dei possibili
percorsi di sviluppo futuro del progeto stesso.
È innegabile il valore della riflessione accademica, lo sviluppo teorico avviato fin dal 1991, nell’impegno a produrre un nuovo modo di
pensare l’economia e la gestione aziendale partendo dall’ispirazione
originale del progeto. Così come è indiscutibile la tensione operativa degli imprenditori nel dare concretezza alle intuizioni iniziali, in
particolare alla tripartizione della destinazione degli utili.
Molte delle esperienze imprenditoriali raccontano e contengono anche i tentativi di portare nella vita aziendale quelle categorie tipiche
del progeto, come la reciprocità e la gratuità1.
Sembra avvenire una sorta di contaminazione - e non potrebbe essere altrimenti - fra la tradizionale cultura economica e le idee portate
dall’EdC , nell’esigenza sempre più viva, che il “vino nuovo” abbia
“otri nuovi”, ovvero che gli elementi di novità portati dall’EdC trovino struture di gestione coerenti.
La sfida di esplorare modelli e strumenti gestionali che siano contemporaneamente espressione e supporto alla generazione di comunione,
elemento fondante del progeto, è tuta aperta: ed è una sfida che anche
altre realtà, come il movimento cooperativo, hanno cercato di affrontare con esiti non sempre vincenti e convincenti (Hansmann, 2005).
Il rischio, infati, anche per l’EdC è di ricadere nell’isomorfismo organizzativo, di rinunciare ad una sostanziale trasformazione mantenendo il modello dell’impresa capitalista, con la conseguenza di
depotenziare gli effeti della nuova cultura e l’e cacia complessiva
del progeto stesso.
Si trata di ricercare un possibile realistico percorso evolutivo fra cultura e strutura, in quello che è il sempre atuale tema del rapporto
fra carisma ed istituzione: un percorso oggi costituito da tappe che
hanno la forma della domanda più che della risposta, della ricerca
di segnali più che di indicazioni, prendendo spunto dalla prassi organizzativa di alcune imprese orientate o ispirate alla cultura EdC
così come dagli impulsi con cui si confrontano, nella teoria e nella
pratica, quanti assumono la centralità della “persona-in-relazione”
nello sviluppo delle organizzazioni2.
1
2
Una rassegna di casi aziendali è in Parolin (2004).
Tra tutti ci sembra utile segnalare Folador (2006) e Pievani e Varchetta (1999).
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Indubbiamente una comune esperienza nell’immissione di categorie come il dono, la gratuità e la relazionalità all’interno della vita
aziendale, economica ed organizzativa, è quella di confrontarsi con
la dimensione immateriale di essa: come se utilizzando la categoria
della comunione - quale lente di letura dei processi che portano alla
condivisione degli utili - prendessero luce tute le forme e le componenti che contribuiscono a realizzare tale valore; chiedendo a chi ha
la responsabilità organizzativa di occuparsi non solo del buon andamento aziendale e della conseguente possibilità di condividerne i
fruti, nella sensibilità che la comunione suggerisce, ma anche di tutti i processi e i passaggi che sostengono e producono tale andamento, di tute le conseguenze evidenti o tacite che nella vita, nei cuori e
nelle menti delle persone implicate avvengono atraverso di essi.
La responsabilità imprenditoriale e gestionale assume un valore se
possibile ancora più ampio; si fa evidente una consapevolezza più
detagliata, esige un’atenzione maggiore ai livelli micro oltre che
alle macro dimensioni, perché oltre ad occuparsi della gestione ordinaria di commesse e processi -come se fosse poco! si fa carico di immetere nel tessuto relazionale interno ed esterno all’organizzazione
semi di reciprocità e di felicità (Bruni, Porta, 2004; Bruni, 2004).
Farsene carico, avviarne un’intenzionale e cosciente gestione, condividerne i risultati e avviare una riflessione su di essi, sono queste
le tappe di un percorso spontaneo di molti imprenditori e dirigenti,
alla ricerca di buone prassi e nel confronto con i pari. Un percorso
che per molti, all’interno del progeto EdC, ha seguito una chiave
metaforica comune, nota a chi appartiene al progeto e condivide il
Carisma da cui esso prende forma: la chiave dell’arcobaleno3.
Anche l’impresa - e la vita che al suo interno matura - è come un
oggeto che illuminato da luce bianca appare colorato perché riinvia
nello spazio circostante - per diffusione, riflessione o trasmissione
- alcune delle radiazioni monocromatiche che lo colpiscono. Anche
all’impresa si può guardare come atraverso un prisma e ritrovare al
suo interno molteplici componenti indipendenti e interrelate, armoniosamente composte in un unico fenomeno.
Questa prospetiva di analisi, che sviluppa la metafora dei sete colori dell’arcobaleno per cogliere i vari aspeti della vita di un’organizzazione, può essere di aiuto per la valorizzazione delle componenti
3
Linee di conduzione di impresa (edizioni 1997 e 2007 in www.edc-online.org); RaibowLife
Adventure, di Tita Datu Puangco (Filippine - www.ancillaedc.com.ph); RainbowScore in Golin
e Parolin (2003).
PERCORSI DI CULTURA E STRUTTURA ORGANIZZATIVA NELLE IMPRESE DI ECONOMIA DI COMUNIONE
Giampietro Parolin, Elisa Golin
immateriali del valore, la revisione delle diverse forme di capitale e
risorse presenti, l’avvio di una possibile gestione multidimensionale
- che considera cioè processi e monete diverse. Si arricchisce così lo
sguardo, interpellando sia la dimensione strategica che quella operativa e gestionale, richiedendo altri processi e probabilmente nuovi
strumenti, “otri” dalla nuova forma per dare spazio concreto alla
comunione.
2. Come un arcobaleno
Di tuto conosciamo il prezzo,di niente il valore
Nietzsche
Rosso, arancio, giallo, verde, azzurro, indaco, violeto, ecc.
Come i sete colori dell’arcobaleno rivelano una parte dello spetro
e svelano le componenti della luce bianca, allo stesso modo la considerazione di diverse forme e tipologie di valore può sostenere una
maggiore consapevolezza e intenzionalità nella gestione e valutazione dell’andamento di quella realtà unica e complessa che è un’organizzazione.
Guardare ai processi produtivi, relazionali, sociali che avvengono
all’interno nei processi e tra le persone di un’organizzazione, approfondirli, meterli in relazione tra loro, permete di svelarne molte
componenti generalmente tacite, la cui gestione avviene spesso più
a livello spontaneo o informale che in modo intenzionale e consapevole: si trata, indubbiamente, di un primo passo che complica le
variabili in gioco, ma arricchendone la conoscenza diventa prezioso per conciliare, nella concezione della persona e di ogni insieme
organizzativo, la dimensione dell’unitarietà con diversificazione e
distinzione, rendendo possibile accogliere in una prospetiva multidimensionale diversità e unicità, identità e differenza, ordinando i
diversi costituenti, portando armonia e completezza.
Ha senso allora provare ad abbozzare i possibili temi, le probabili
sfaccetature di toni, che ogni colore contiene dal punto di vista di
un’organizzazione imprenditoriale, per cogliere se e in che misura il posizionamento e l’accostamento di ogni tono sia in grado di
promuovere esperienze di comunione, trasformando dal di dentro
le stesse struture organizzative. Siamo del tuto consapevoli che si
trata del primo passo per aumentare la consapevolezza di cosa - a
livello di contenuti e processi - quegli “otri nuovi”, che l’Economia
di Comunione sta cercando di realizzare, possano contenere.
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La relazione con i beni: il rosso
Nell’arcobaleno il primo colore è il rosso, e il primo aspeto della
vita e della gestione aziendale che ne decreta valore e successo, almeno a lungo termine, è quello che fa riferimento alla dimensione
economico-finanziaria: ma molti obietivi concorrono al raggiungimento di tale traguardo, molte componenti intangibili ne decretano
l’atuazione e ne compongono il risultato.
Se analizziamo il valore profondo di questa dimensione, ci imbatiamo sull’interessante e delicato tema che è il rapporto con i beni e con
il denaro (che dei beni è strumento).
Le organizzazioni orientate all’EdC si confrontano, in questo contesto, con il tema della povertà, che è la ragione da cui prende forma il
progeto (rispondendo all’urgenza di condivisione di risorse per aiutare chi vive nella miseria) e il percorso di sobrietà da intraprendere
per vivere la comunione (che consiste nella condivisione di quanto
più tipicamente appartiene all’imprenditore, vale a dire i profiti):
ecco che i risultati economici sono indubbiamente fruto di impegno,
produtività, redditività e come tali del contributo professionale di
ogni atore, ma possono derivare anche dall’esperienza di diverse
forme di scambio e dono che permetono la crescita di persone e
degli stessi risultati economici.
Si trata di risultati che, conciliando e includendo obietivi personali e professionali dei diversi componenti dell’organizzazione, sono
fruto di una vera e propria squadra orientata ad un successo comune: nella squadra la diversità di risorse e competenze è preziosa,
offre ai singoli giocatori la possibilità di sperimentare pienamente la
delega e la responsabilizzazione, è ragione di mutua cooperazione
piutosto che di competizione, implementa la motivazione oltre che
la condivisione stessa.
Ancora, la dimensione economica e la sua gestione richiedono processi di esplicitazione ed equità relativamente alle modalità ed ai mezzi
di riconoscimento della responsabilità e del successo: retribuzione e
benefit di tipo economico hanno valore molto soggetivo, ma sempre
meno incidente rispeto all’esigenza di ampliamento delle opportunità, siano esse di crescita o di distacco dall’azienda (formazione, riduzione del tempo di lavoro, ecc.). La loro erogazione non può che
poggiare su processi di valutazione trasparente e oggetiva, mentre
la loro forma può differenziarsi in base alle preferenze e ai bisogni
dei collaboratori. Ma la relazione con i beni in un’impresa orientata
alla comunione è preziosa e delicata anche quanto i beni in gestione
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Giampietro Parolin, Elisa Golin
diventano scarsi - prima di tuto il lavoro o la liquidità - quando l’esigenza di condivisione si misura con la responsabilità nei confronti di
collaboratori e fornitori, e le esigenze della squadra si confrontano con
le urgenze dei singoli.
La dimensione economica va pertanto considerata nella multifatorialità che la compone e la permete, ben oltre ciò che racconta l’ultima riga di bilancio e per la sua migliore e più completa comprensione.
L’imprenditore e il suo staff diventano, nel rosso, veri e propri homo
economicus nel significato etimologico di economia, e si fanno carico
della “casa” che hanno in comune, che è l’azienda.
La rete di relazioni: l’arancio
Il secondo aspeto, che corrisponde all’arancio, apre la riflessione sul
capitale relazionale, come insieme reale e potenziale delle relazioni
interne ed esterne all’azienda.
Per quanto riguarda l’esterno si trata di dare rilievo ad una dimensione immancabile per l’azienda, che è quella della rete costituita
prima di tuto da clienti e fornitori. La cultura della qualità e la teoria
degli stakeholder hanno già fato emergere e praticare una forte atenzione alle diverse connotazioni del “cliente”, nell’identificazione di
forme e modalità differenziate per identificarne i bisogni ed offrire
loro una risposta adeguata.
Lavorare sulla qualità delle relazioni esterne e sulla possibile reciprocità tra soggeti permete, da un lato, di identificare gli elementi
di reale soddisfazione del cliente, orientandolo anche ad una consapevolezza nei criteri di scelta, dall’altro, di costruire con fornitori,
pubblica amministrazione e soggeti della società civile un vero e
proprio tessuto, una rete fiduciaria: è proprio la qualità delle relazioni, al cui interno trova posto e significato la qualità del prodoto/
servizio, che costruisce la reputazione per cui un’organizzazione è
stimata e conosciuta.
Anche la stessa atribuzione al personale di un ruolo di cliente interno ha permesso lo sviluppo di atenzioni e misure di promozione
del benessere relazionale con i dipendenti: un elemento ulteriore, un
passo in avanti, può essere dato dal superamento della concezione
individuale di tale atenzione (impresa versus ogni singolo lavoratore) nella tensione a creare una vera e propria comunità, della quale
facciano parte anche i manager e gli imprenditori.
Un gruppo di lavoro - e poi, a ricaduta, un’intera azienda - può fare
l’esperienza di essere una comunità nella misura in cui si svilup-
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pa non solo il “sentimento reciprocante”, ma l’interdipendenza, la
capacità e volontà di sperimentare l’incontro con l’altro, con le sue
competenze e il suo punto di vista, ma anche con la sua interiorità e
particolarità. Ed un gruppo di lavoro ne fa l’esperienza nella misura
in cui il suo leader, in modo intenzionale, è promotore di incontri e
a sua volta si lascia incontrare, al di là del ruolo e delle forme convenzionali.
La modalità con cui viene ativata e agita la dimensione relazionale
è naturalmente diffusiva, da diventare lo “stile aziendale”: un modello sfidante è la rete, che nella dimensione gestionale permete di
ordinare responsabilità e potere in un policentrismo tale da superare
ogni tentazione di centralizzazione gerarchica.
Possiamo così pensare all’imprenditore e ai manager come a tessitori
di relazioni, a persone di rete e in rete.
Valori, regole, cultura: il giallo
Il giallo immete nell’intenzionalità gestionale l’aspeto della cultura
aziendale, che consta dell’insieme dei principi ispiratori orientanti
l’atività d’impresa, nella loro definizione ed esplicitazione oltre che
nella possibilità di un’autentica condivisione con le persone che vi
operano. È un aspeto generalmente scontato e come tale si mantiene ad un livello implicito, ma costituisce di fato la base che orienta
decisioni, scelte e sostiene la soluzione di dilemmi etici.
Gli strumenti utilizzati per esplicitare la cultura aziendale sono generalmente di tipo normativo, come il codice etico, o di tipo dichiarativo/programmatico come la carta dei valori: la dimensione in gioco, come per tute le norme, è la capacità di esprimere un orizzonte
universale di significato, piutosto che interessi o sensibilità di pochi
o di una minoranza, e per questo tali strumenti risultano utili quando sono esito di processi di condivisione che chiamano in causa tuti
gli atori dell’organizzazione.
È all’interno di questi processi che diventa possibile fare spazio, tra
i valori ispiratori, alla dimensione della comunione: e se la comunione ha natura di tipo relazionale, l’inserimento di questo valore
corrisponderà alla creazione di spazi relazionali nei quali maturarla
e sperimentarla, mediante fantasia e sensibilità, innovazione e tradizione.
Su questo tema, un elemento terribilmente incidente è la coerenza:
non potremo mai chiedere ad un nostro collaboratore comportamenti e atenzioni etiche diverse da quelle da noi stessi praticate. Per
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Giampietro Parolin, Elisa Golin
questo vivere il giallo per un imprenditore, come per un responsabile, significa indubbiamente dare il primo esempio, sia nel rispeto
della cultura aziendale che nell’ammissione di di coltà ed errori.
Fiducia e salute ambientale: il verde
Il quarto colore è il verde.
Rappresenta quel complesso di elementi cui possiamo fare riferimento come qualità socio-ambientale di un’organizzazione: si tratta dell’insieme delle componenti che permetono di stare bene in
azienda, che ne rappresentano in qualche modo l’indicatore di salute relazionale.
Se è assodata, anche per indicazioni normative, l’atenzione alla
salubrità di luoghi e mansioni lavorative, la comunione si esprime
anche nel clima di lavoro: si trata, chiaramente, del fruto di dimensioni percepite e di dinamiche vissute in modo molto soggetivo, per
quanto esso esprima nella sua complessità un indicatore colletivo.
È, in fondo, il prodoto della capacità fiduciaria di ogni persona inserita nell’organizzazione, che accoglie la possibilità di metersi in
gioco dal punto di vista relazionale anche in un contesto, quello professionale, in cui può non essere necessario: e acceta il rischio di
sperimentare la fatica, talora la ferita (Bruni, 2007) che la differenza
di cui l’altro è portatore può causare, in una prospetiva di un più
profondo modo di appartenere alla comunità di lavoro.
In questa concezione anche un clima di lavoro conflituale può avere
significato positivo, perché contiene il potenziale relazionale da cui
evolvere: richiede il lavoro, faticoso e talora doloroso, dell’esplicitazione, un surplus di dialogo e di motivazione all’incontro autentico,
passa per la capacità di ciascuno di farsi carico della differenza propria e altrui sino a sperimentarne la bellezza.
Infine, la qualità socio-ambientale di un’organizzazione, contiene il
delicato equilibrio tra benessere personale e benessere del gruppo,
che sa non solo prevenire fenomeni patologici - pensiamo alla diffusione di episodi di burn out e di mobbing - ma anche apprendere e
condividere capacità di gestione dello stress, offrendo piena risposta
ai bisogni di ogni persona del gruppo di lavoro.
Tra chi si confronta con l’esigenza di diffondere un’esperienza di comunione nel contesto organizzativo, è su questo versante del verde
che si realizza la sfida di valorizzare i momenti e gli strumenti aggregativi tradizionali - come la mensa, la pausa caffè, la cena aziendale - per trasformarli in occasioni di condivisione, di conoscenza e
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valorizzazione reciproca, dove ogni persona, con la sua quotidianità
e interezza trova spazio, indipendentemente dal ruolo professionale
esercitato.
La forma delle relazioni: l’azzurro
L’azzurro fa riferimento invece al capitale umano, in modo particolare nelle sue forme organizzative ed espressive.
Un’organizzazione strutura le aree produtive, gli spazi e i gruppi
di lavoro per ragioni indubbiamente organizzative, funzionali, ecc.
e nel processo con cui dà forma alla sua strutura, definisce i vetori
di implementazione e sviluppo del capitale umano, nella misura in
cui preferisce promuovere e diffondere responsabilità individuali o
di gruppo, sistemi di condivisione e diffusione di obietivi e risultati
piutosto che di autonomizzazione delle singole competenze e delle
specifiche prestazioni.
L’organizzazione improntata alla comunione immete nella gestione
del potere - economico e di ruolo - una nuova categoria: il servizio,
mediante il quale l’esercizio della responsabilità assume una dimensione particolarmente generativa, che sa promuovere dialogo e adattamento reciproco tra le persone, che sostiene e protegge, che favorisce lo sviluppo umano e personale di ciascuno, che sa rispondere
in modo personale e flessibile ad esigenze e dinamiche del gruppo,
metendo in gioco risorse umane e non solo professionali.
In quest’otica la forma che un’organizzazione definisce per il disegno struturale così come per gli spazi, per il sistema di funzionamento interno nei processi operativi e decisionali, esprime la sostanza dell’organizzazione stessa, così come ne è espressione il percorso
mediante il quale si arriva alla definizione formale (delega esterna,
piutosto che decisione oligarchica, o recepimento di esigenze e sensibilità di tuti).
Strutura organizzativa, organigramma, sistemi decisionali narrano
lo spazio e il tempo nel quale le persone sono chiamate ad operare
insieme, descrivono la possibilità di metere in gioco le proprie risorse piutosto che giocare singolarmente, prevedendo, o meno, la
possibilità di “riscrivere l’organizzazione” (Varcheta, 2006).
Conoscenza diffusa: l’indaco
L’aspeto correlato all’indaco fa riferimento al capitale intelletuale e
ai processi di apprendimento, formazione e innovazione per sviluppare, migliorare e innovare questa dimensione di valore.
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Punta ad offrire e cogliere la molteplicità di stimoli che il mondo
esterno come le risorse interne propongono, in modo implicito o
esplicito, per lo sviluppo organizzativo: lo scenario in cui si opera
in questo aspeto è quello dell’innovazione e della crescita del know
how, alla ricerca delle competenze fondamentali per operare in modo
e cace.
In un’epoca in cui il successo si gioca sui temi dell’informazione e
della formazione poiché la nuova ricchezza non è più legata a ciò che
si possiede, ma a ciò che si conosce, è proprio dall’implementazione
della dimensione di conoscenza che ogni organizzazione costruisce
la propria possibilità di futuro.
Ma per chi conosce il valore della comunione, il valore della conoscenza deriva dall’esperienza di un’elaborazione colletiva, dalla
chance per le persone dell’organizzazione di pensare insieme in e su
quel contesto in cui stanno operando insieme.
La gestione del capitale intelletuale, i percorsi in cui esso può maturare ed evolvere, assumono una connotazione plurale, e superano
ogni rischio di concentrazione, grazie a gruppi di lavoro interdisciplinari o multi-competenza, struturati o anche autogestiti (technical
meeting), a tuti quei momenti e luoghi di elaborazione e sperimentazione di un know-how comune e diffuso.
L’apprendimento, in un’organizzazione atenta alle relazioni, diventa naturalmente cooperativo, perché è insieme, nel gruppo, atraverso la collaborazione e la comunicazione che le situazioni quotidiane
trovano una più e cace soluzione.
Se l’uomo è naturalmente cooperativo - poiché ha bisogno di un continuo confronto con le persone che vivono accanto a lui - non si può
dare per scontato che cooperare sia per lui un valore acquisito. Una
metacompetenza diventa particolarmente significativa in questa
concezione della conoscenza: la “pro-socialità”. Si trata di un complesso di comportamenti capaci di altruismo disinteressato, finalizzati all’aiuto altrui indipendentemente da motivazioni estrinseche
- ricompense, fama, ecc. -: per quanto tali ateggiamenti prendano
forma da potenzialità e motivazioni personali, così come da scelte di
tipo etico, esse sono anche fruto di un percorso di crescita razionale,
derivano dallo sviluppo di competenze cognitive, emotive e relazionali centrate sul valore dell’altro.
Sono pertanto la capacità di decentramento, di interpretazione del
contesto, di negoziazione, la responsabilità, l’autocontrollo, l’elaborazione di risposte cooperative o di dono di fronte a situazioni pro-
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blematiche, la capacità riflessiva che sa imparare dai fallimenti, che
possono sostenere lo sviluppo di un capitale intelletuale comune e
co-costruito, l’elaborazione di conoscenze trasferibili e ricontestualizzabili, la crescita del know-how organizzativo coerente con una
cultura di comunione.
Tutto a tutti: il violetto
Infine l’ultimo colore dello spetro è il violeto, che nella metafora
organizzativa pone un tema chiave e trasversale: quello della comunicazione, sia all’interno che all’esterno dell’azienda.
Il significato di comunicazione sembra talvolta andare a sovrapporsi
a quello di informazione, tanto che l’uno diventa di cilmente scomponibile dall’altro.
Eppure nell’origine etimologica del termine comunicare significa
metere in comune, non solo nel senso informativo dello scambio,
ma in quello più profondo che permete all’informazione di diventare operante, tanto da indurre nuovi comportamenti.
In questa accezione ci sembra si apra una prospetiva di comunione
utilizzando i processi comunicativi in tute le loro dimensioni formali
e informali, preferendo circolarità e disponibilità delle informazioni,
chiedendo partecipazione, scegliendo strumenti e uno stile comunicativo in cui ha posto l’ascolto, la gestione del feedback, l’incontro tra
la molteplicità dei linguaggi, l’apertura alla vera reciprocità.
Dopo aver scorso lo sguardo alla molteplicità di temi che l’idea di
multidimensionalità veicolata dalla metafora dell’arcobaleno suggerisce, è doverosa una precisazione: il percorso compiuto nell’approfondimento dei diversi colori non è certamente esaustivo, né concluso, e ciascuna delle tappe affrontate può e potrebbe essere approfondita e richiamare molti altri “toni e sfumature” di contenuto.
È un approccio che porta con sé un potenziale di legame con la strategia della comunione, poiché coniuga la pluralità nell’unicità e per
questo lascia già intravedere come l’organizzazione possa divenire
luogo di relazione, e assumere nella società civile il ruolo di cellula
innovatrice, portatrice di partecipazione e armonia.
Ma sembra chiedere nuovi approfondimenti e nuovi percorsi, poiché nell’integrata complessa considerazione di strategia e operatività che la comunione richiede, evidenzia il limite della prassi gestionale ordinaria.
D’altro canto, la storia dell’economia civile e sociale è ricca di passaggi simili, della ricerca e valorizzazione di strumenti per dare ragione
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del proprio specifico, del proprio ruolo nella società: dall’esigenza di
dare conto agli stakeholder si è diffuso lo strumento del bilancio sociale, per rispondere ad esigenze di trasparenza e provare la buona
fede dell’organizzazione hanno preso forma codice etico e comitato
etico, ecc. sono esempi di strumenti pre-esistenti, valorizzati da esigenze di un’economia più umana e ritornati all’economia tradizionale a contaminarla dei valori di cui sono portatori.
Allo stesso modo l’irruzione della comunione nell’organizzazione
d’impresa comporta un’innovazione di sensibilità, apre cuore e mente a valori e scenari più ampi, esprime una cultura che cerca di farsi
strada nei processi organizzativi e ativa processi di cambiamento.
3. Cultura e struttura: un modello interpretativo
Gli economisti legati al progeto EdC hanno fato un grosso sforzo di definizione, declinazione e modellizzazione della comunione
nella vita economica: dai beni relazionali alle forme di reciprocità si
va certamente delineando un tipo di agente economico (sia esso un
imprenditore, un lavoratore, un consumatore, ecc.) che considera la
comunione nella sfera delle motivazioni, delle scelte e degli obietivi4. Accanto a questa riflessione più matura, si stanno esplorando le
tematiche della governance5. Anche gli economisti aziendali hanno
iniziato un percorso teorico di esplorazione del conceto di comunione nella vita aziendale6, percorso che non ha ancora maturato il confronto empirico con quanto va emergendo nella vita delle imprese.
La comunione è infati una strategia desiderata e al tempo stesso
l’esito della vita organizzativa, trasformando dal di dentro l’esperienza di impresa.
Si trata evidentemente di un’innovazione culturale e operativa, auspicata ma ancora da sperimentare e conoscere nelle sue reali potenzialità - anche per i numeri e i tempi della vita del progeto EdC:
se ne può immaginare uno sviluppo evolutivo, non esente però da
rischi, tensioni e contraddizioni, dato che quando si introduce un
forte elemento di cambiamento culturale la dimensione istituzionale
- struture e metodi tradizionali - viene messa in discussione.
Non sono emersi né si sono stagliati ancora modelli e strumenti gestionali tipici del progeto di EdC, come spesso avviene in una fase
Si veda ad esempio l’ampia letteratura in Bruni e Pelligra (2002).
Esemplificativo il lavoro di Crivelli (2008).
6
In questo contesto si vedano i lavori di Baldarelli (2005, 2009).
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di esplorazione e di contaminazione, tra due versanti tradizionali:
quello spiritualistico/ideologico - per il quale le scelte hanno ragione
nella motivazione intrinseca, ma non sono razionalmente proponibili a chi non la condivide - e quello pragmatico - che decreta la non
fatibilità concreta di nuove idee continuando a fare business as usual,
e aumentando il livello di cura delle persone, come in un paternalismo avanzato. Ma da essi si può guardare in prospetiva di crescita
e sviluppo.
D’altro canto la cultura proposta dall’EdC, partendo dal carisma
ispiratore, fornisce una chiave interpretativa molteplice, etica ed
estetica, spirituale e sociale, economica e antropologica: è ricca e affascinante, ma anche impegnativa nella sua traduzione in pratica.
Sono questi allora i fuochi su cui rifletere: l’impato innovatore della
cultura nella dimensione struturale istituzionale e la gestione di tale
cambiamento, che per chi si occupa di organizzazione, porta necessariamente al tema del management.
Le leterature economica e manageriale ben descrivono e analizzano i percorsi di cambiamento organizzativo, evidenziando quanto il
successo si giochi sulla coerenza e la condivisione fra la componente
cultura e la componente strutura (Greiner, 1967, 1972).
Si definisce cultura organizzativa l’“insieme coerente di assunti fondamentali che un dato gruppo ha inventato, scoperto o sviluppato
imparando ad affrontare i suoi problemi di adatamento esterno e
di integrazione interna, e che hanno funzionato abbastanza bene da
poter essere considerati validi, e perciò tali da essere insegnati ai
nuovi membri come il modo correto di percepire, pensare e sentire
in relazione a quei problemi” (Schein, 1995); per strutura organizzativa si intende invece non solo l’organigramma (ruoli, responsabilità), ma anche gli strumenti gestionali utilizzati.
Il modello proposto nella leteratura dello sviluppo organizzativo
da J.A. Chapman (2002) spiega il cambiamento della strutura in
modo trasformante soto l’effeto di un cambiamento della cultura
organizzativa: esso immagina una cultura organizzativa esistente,
che viene influenzata o modificata da una nuova cultura (cambiamento di atitudini, credenze e valori): tale cambiamento di primo
ordine spinge verso un cambiamento di secondo ordine sulla struttura organizzativa, modificando i ruoli delle persone ed i sistemi e
i processi operativi e strategici, come è sintetizzato nella figura 1 di
nostra elaborazione.
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FIGURA 1 - CAMBIAMENTO TRASFORMANTE
Forse non è diverso quanto avviene nell’impato di una cultura di
comunione con una strutura organizzativa. Immaginando una dinamica evolutiva dello stesso modello, considerando il diverso impato sulle persone ed il tempo di evoluzione del processo, diventa
possibile concepire percorsi diversi.
A questo scopo, facciamo un esempio utilizzando una matrice a
doppia entrata (fig. 2).
I quadranti 2 e 3 sembrano esprimere una coerenza fra cultura e
strutura organizzativa. Sono certamente più interessanti (e forse
realistici) i quadranti 1 e 4, che fanno riferimento a situazioni in cui
è presente una cultura nuova con una strutura organizzativa tradizionale, oppure una cultura atuale con una strutura nuova: è in
queste situazioni esemplificate che potrebbero verificarsi alcune discrepanze o condizioni problematiche.
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FIGURA 2 - COMBINAZIONI DI CULTURA E STRUTTURA
L’immissione di una nuova cultura infati porta ad uno “shock culturale”, che influenza diverse tipologie di soggeti nell’organizzazione, o penetra in modo diverso i diversi livelli di strutura, creando
potenziali frizioni tra chi assume diversamente lo stile di gestione. Si
possono verificare diverse situazioni, sintetizzate nella figura 3:
• la scelta e la formazione culturale rimane a livello dell’imprenditore, ma si possono verificare discrasie fra lui ed i suoi collaboratori: tuto rimarrà come prima, a parte forse lo stile dei rapporti
interpersonali con l’imprenditore;
• la nuova cultura penetra tra alcuni atori, creando gruppi diversi
con culture incoerenti e/o in conflito tra loro;
• la nuova cultura si diffonde atraverso l’interpretazione personale, con esiti imprevedibili;
• vengono dichiarati i nuovi valori, che con di coltà diventano
pratiche organizzative;
• la nuova cultura è percepita come incoerente rispeto alla struttura organizzativa esistente;
• viene impostata una nuova strutura coerente con la nuova cultura, ma non su cientemente interiorizzata, così da rendere la
nuova strutura ine cace ed ine ciente.
Il tuto fa pensare, di primo acchito, che servano canali di comunicazione e condivisione della nuova cultura, ma utili anche a verificarne
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la sua accetazione. Altretanto evidente è la processualità, forse la
gradualità degli step immaginabili nel percorso di cambiamento.
FIGURA 3 - EFFETTI DI CULTURA E STRUTTURA
I principali studiosi di organizzazione dicono che cultura e strutura
devono andare insieme ed essere allineate: ma non può che tratarsi
di un allineamento dinamico, che coinvolge tute le persone dell’organizzazione con tempistiche che possono essere diverse.
Il modello della Chapman suggerisce non solo come la cultura impati sui cambiamenti organizzativi, ma ci fa anche intuire il percorso di atuazione, indicando che prima cambia la cultura e poi la
strutura: questo significa che se la cultura chiede un’adesione sostanzialmente volontaria alle persone, la strutura dipende invece da
scelte operate dal vertice aziendale.
La coerenza quindi diventa fondamentale per non delegitimare (e
spiazzare) le motivazioni intrinseche, così come la gradualità del
percorso sembra indispensabile per non lasciare parti dell’organizzazione ancorate alla cultura precedente: è ben vero che nelle organizzazioni “a movente ideale” possono bastare poche persone motivate (ma in numero su ciente) per generare l’effeto di spill-over su
tuta la compagine dei collaboratori, e arrivare a permeare lo stile
di tuti7. Ma è altretanto vero che l’innovazione culturale poggia su
7
Cfr. l’articolo di Bruni e Smerilli in questo stesso volume e Bruni e Smerilli (2006).
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un’identità che è struturale e culturale insieme, fruto di contenuti e
prassi sedimentate e funzionali a mantenere l’organizzazione ativa
nel mercato. Per il mondo EdC, questa consapevolezza comporta il
coraggio di intraprendere percorsi di sperimentazione, di apertura a
soluzioni graduali e diversificate.
Ancora una volta, la chance di uno sguardo multidimensionale, la
considerazione delle molteplici interdipendenze, la possibilità di
operare su diversi versanti può essere preziosa, se “fare organizzazione” non significa più solo ridisegnare la strutura e i compiti
(segnatamente l’organigramma, i flussi di lavoro e il mansionario),
ma agire sui comportamenti e le prestazioni dell’organizzazione, attraverso la gestione degli schemi cognitivi degli atori organizzativi
chiave, delle relazioni tra i soggeti interni dell’organizzazione, e tra
questi e l’esterno” (Camuffo, 1997).
In una prospetiva che è operativa e di ricerca, è interessante cogliere
la stimolazione di Gagliardi (1995), l’invito a guardare alla cultura non tanto come contrapposta all’organizzazione formale, quanto
come chiave unitaria di atribuzione di senso sia agli aspeti informali che a quelli formali dell’organizzazione reale: in questa prospettiva è possibile riconoscere la comunione come motore di diverse
componenti: sono azioni e misure messe in ato ora da intenzionalità
motivazionale piutosto che da spontaneità comportamentale, in un
interessante intreccio tra cultura e strutura, vita e pensiero.
4. Cultura e struttura nelle imprese EdC: verso la “comunione
nel management”
La disponibilità a metere in questione lo status quo
rende possibile la cura preventiva dell’organizzazione
e crea un’atmosfera di continuo apprendimento
Kets de Vries
Un’organizzazione empowered, che comprende la sua cultura
e le sue sotoculture,
può utilizzare questa conoscenza e derivarne una forza strategica
Schein
Gli effeti della categoria culturale ed esperienziale della comunione, all’interno di ogni singola organizzazione che la accoglie come
dimensione orientante, permetono di intravedere “stili di gestione”
PERCORSI DI CULTURA E STRUTTURA ORGANIZZATIVA NELLE IMPRESE DI ECONOMIA DI COMUNIONE
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improntati ad essa, modelli di leadership centrati sul dialogo, l’ascolto, il coinvolgimento, confermando di fato un’influenza della cultura e dei valori, da cui l’EdC prende forma, sulla strutura e sulle
pratiche manageriali delle imprese che vi si orientano.
FIGURA 4 - IMPATTI DELLA NUOVA CULTURA
È probabilmente l’ambito della gestione, e chi della gestione ha
la responsabilità - si trati dello stesso imprenditore o di persone
delegate - quello che maggiormente viene sollecitato nella tensione tra cultura e strutura: nei processi gestionali ancor più che in
quelli decisionali si giocano infati le chances di trovare conciliazione tra vincoli e risorse, l’opportunità di declinare in operatività gli
obietivi dichiarati e desiderati, la necessità di portare a soluzione
dilemmi etici salvaguardando l’organizzazione e il suo ruolo socioeconomico.
Ancora una volta l’apertura multidimensionale - e multidisciplinare
- può venire in supporto nella ricerca, permetendo il superamento di competenze e prospetive esclusivamente tecniche, per quanto
indispensabili, verso un orizzonte capace di contenere e farsi carico
delle molteplici dimensioni del vivere umano, delle complesse situazioni personali e organizzative, economiche e sociali: e per chi
ha responsabilità gestionali la multidimensionalità può costituire in
qualche modo anche un approccio di tipo esistenziale, e sostenere
l’integrazione delle sue scelte gestionali con quelle valoriali, rinsaldando il legame tra cultura e strutura, appunto.
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Il percorso cui abbiamo spesso accennato come luogo e tempo utile e necessario per declinare, contaminare, sperimentare scelte e
motivazioni idealmente ispirate alla comunione con la concretezza
dell’esperienzialità quotidiana, talora faticosa e banale, diventa icona
anche dello sviluppo delle persone che ne hanno intrapreso l’affascinante strada e desiderano metere in gioco le loro risorse personali e
professionali per “informare dei valori in cui credono ogni momento
della vita”8: è una crescita che non avviene in solitudine, ma in un
gioco di scambio e reciprocità con se stessi e con gli altri, risultato di
processi intrapersonali e interpersonali e per questo “capacitante”
(Sen, 2000), poiché prende forma e sviluppa risorse e opportunità
del singolo e del contesto.
I vetori di riferimento, nella costruzione di uno scenario su cui sperimentarsi, non possono che essere, allora, quello della condivisione
e quello della formazione.
È naturale, spontaneo, forse ovvio, collegare l’idea di un’organizzazione “di comunione” con l’immagine di un corpo plurale, di un
gruppo composito dove i singoli trovano uno spazio comune di dialogo e condivisione. E nella prassi sono sopratuto due i versanti su
cui dialogo e condivisione diventano strumenti di cambiamento e
innovazione organizzativa.
Un primo ambito è la condivisione tra decisori, nell’esigenza di “decidere insieme”: sopratuto quando la proprietà è plurale (sono presenti più soci), o nelle struture a matrice, un passo per dare esperienza concreta alla comunione è l’avvio di momenti in cui decidere
insieme sia la strategia che le principali decisioni operative. Vengono così intensificate le riunioni, utilizzando spesso come criterio decisionale l’unanimità9, atraverso un processo non esente da fatiche,
sopratuto in fase di avvio, ma con effeti di e cacia organizzativa
preziosa, nella costruzione di un modo di pensare comune.
Per le stesse ragioni, molteplici sono le esperienze di coinvolgimento
dei collaboratori e degli stakeholder. Molte organizzazioni inseriscono nei processi organizzativi, a conferma dell’intenzionale innovazione struturale a partire da ragioni culturali, momenti di incontro
periodici con il personale: hanno obietivi di ascolto - per recepire
di coltà e problematiche - così come di informazione - per aggiornare su decisioni, sviluppo, condizioni dell’organizzazione.
Cfr citazione iniziale di Lubich.
Sulla regola dell’unanimità la stessa letteratura manageriale si interroga, vedi Romme
(2004).
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FIGURA 5 - PERCORSI DI CULTURA E STRUTTURA
Ancora, si sperimenta il bilancio sociale dei lavoratori, capitalizzando uno strumento (Petrolati, 1999) noto alla leteratura, come dispositivo prezioso perché tute le iniziative di miglioramento dell’esperienza lavorativa dei collaboratori - siano esse di solidarietà, di miglioramento degli ambienti di lavoro, di creazione di spazi di svago
in azienda - siano fruto di ascolto e comunicazione reciproca autentica e diffusa, volàno di sviluppo di fiducia e reciprocità.
FIGURA 6 - PERCORSI DI CULTURA E STRUTTURA
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Nello stesso versante assumono un valore di investimento e sviluppo
del capitale relazionale i momenti di confronto o formazione comune con i fornitori, che superano l’idea celebrativa della convention per
alimentare il dialogo, il confronto, metendo a disposizione knowhow e tecnologie per continuare a crescere insieme in una logica di
vera e propria partnership.
Anche il vetore della formazione è connaturato all’idea di comunione, sia perché la formazione culturale è una delle idee forza del
progeto, strumento per sperimentare e diffondere l’esperienza della reciprocità da cui esso prende forma; sia perché è la formazione
il processo atraverso cui l’innovazione può trovare sedimento in
un’organizzazione, cambiarla nel profondo atraverso le persone che
ne fanno parte, interpellando la loro cultura ed esperienza di impresa, gestionale, di comportamento professionale insieme al dominio
di tecnologie, conoscenze, competenze così come alla loro personalità, allo stile e ai comportamenti di vita.
Superate infati le concezioni addestrative ed istrutive del processo di apprendimento, accogliendone un’idea dinamica ed evolutiva centrata sull’evoluzione delle singole persone e del loro evolvere
insieme, è possibile intravvedere già nell’esperienza organizzativa
un luogo e un tempo prezioso di formazione: è nella quotidiana,
continua interrelazione che una comunità organizzativa produce
routine, regole colletive, rappresentazioni comuni e risorse comunitarie semplicemente lavorando insieme, condividendo spazi, tempi,
ritmi, compiti, orari.
Riconoscendo l’esperienza organizzativa quale sorgente di apprendimento, ne possiamo aumentare la consapevolezza diffusa del
valore e della ricaduta di ogni scelta e processo, ammetendone il
caratere e il ruolo sociale, e recependo la domanda di riflessione
ed elaborazione dell’esperienza stessa: ecco il ruolo insostituibile
della narrazione, processo ato a “mantenere, preservare, e trasmettere atraverso struture simboliche i risultati di azioni organizzative
portate avanti da uomini e donne che lavorano” (Pievani, Varcheta,
1999). Si trata di una narrazione che può essere ora individuale, a
tu per tu, tra colleghi come tra referente e collaboratore, ma anche
narrazione corale, nel gruppo di lavoro o nell’intera comunità organizzativa, comunque occasioni di confronto, di ascolto, di riflessione sull’azione. E come tale apprendimento colletivo, scambio di
esperienze, racconto di storie, coniugazione di pluralità di interessi
e visioni del mondo.
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FIGURA 7 - IL CIRCOLO CULTURA-ESPERIENZA-NARRAZIONE
Il conoscere è un processo ativo, che avviene entro pratiche sociali
situate - coinvolgendo tanto la mente delle persone (la cognizione)
quanto il corpo (il sentire, la conoscenza estetica), quanto la società (le relazioni con gli altri), quanto la materialità del mondo (tecnologia, sapere incorporato dagli artefati) (Gherardi, 2003): non è
indifferente la stimolazione che viene dalle esperienze di comunità
di pratiche, né da tanta riflessione sul sensemaking (Weick, 1997): certamente il processo di narrazione può costituire momento di diffusione, qualificazione e sviluppo del know-how e perché no, anche di
innovazione, ma è prima di tuto processo relazionale, aperto alla
dialogicità autentica (Buber, 1997).
Nell’interazione che si fa dialogo è possibile comprendere profondamente l’evoluzione del sistema a cui si appartiene, condividendo la
fatica e l’entusiasmo di prove e successi, partecipando diretamente
alla realizzazione della strategia, maturando l’atitudine alla scoperta, costruendo un mondo comune, definendo un senso e significati
condivisi pur nella differenza costitutiva di ciascuno.
Prende forma così una polifonia organizzativa (Rossi, 2008), che coniuga soggetualità e relazionalità autentica, valorizza ruoli e professionalità, ne arricchisce l’espressione in un’esperienza che non è
possibile non collegare alla comunione. Si trata indubbiamente di
una méta sperimentabile, ma dinamicamente mai raggiunta, continuamente perfezionabile e migliorabile atraverso l’apporto di tuti.
D’altro canto la vita delle organizzazioni è un continuo dinamismo,
una continua ricerca e mediazione tra cultura e strutura, tra tensione al cambiamento e preservazione delle istituzioni, una coniugazione tra ambiguità e purezza per generare e ri-generare la comunione
come spazio per la diversità e la ricchezza di valore, come fine e
metodo della vita organizzativa.
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Economia di Comunione e management:
un modello di lettura
Giuseppe Argiolas1*
Sommario
1. Introduzione - 2. Cultura di comunione e imprese di comunione - 3. I drivers della comunione - 4. Conclusioni
1. Introduzione
Se prendiamo in considerazione l’evoluzione delle teorie manageriali, emerge con chiarezza quanto esse siano state e siano influenzate,
nella costruzione teorica e nella pratica operativa, dalla cultura che
le anima e quindi da una precisa visione antropologica a ciascuna
di esse sotostante. Se in ogni periodo storico è emerso un “archetipo manageriale” (Di Bernardo, Rullani, 1990) dominante non sono
mancate le eccezioni che hanno proposto soluzioni innovative e, in
qualche modo, alternative.
Il contesto atuale proprio perché caraterizzato da profonde criticità
può costituire un momento privilegiato per una ricerca autentica di
ciò che l’impresa può e deve essere nelle sue dinamiche interne e nelle
Ringrazio Luigino Bruni e Luca Crivelli per aver letto e commentato precedenti versioni di
questo lavoro e per le preziose occasioni di dialogo avute sui temi oggetto del presente saggio. Ringrazio anche Maria-Gabriella Baldarelli, Caterina Ferrone, Anouk Grevin, Giampietro
Parolin, Vittorio Pelligra, Benedetto Gui, Gusti Oggenfuss e tutti i partecipanti alla I Summer
School dell’Economia di Comunione per il profondo e proficuo dialogo instaurato sui contenuti di questo lavoro.
1*
ECONOMIA DI COMUNIONE E MANAGEMENT: UN MODELLO DI LETTURA
Giuseppe Argiolas
relazioni con l’esterno. La crisi che stiamo affrontando pur essendosi
manifestata in tuta evidenza negli ultimi anni ha radici lontane, e
questo è dimostrato anche dal proliferare di una certa leteratura sui
temi della responsabilità sociale dell’impresa, sino a poco tempo fa
considerato argomento di “nicchia”. Così pure dai molteplici interventi di organismi sovranazionali ed istituzioni internazionali e nazionali sospinti dalle sempre crescenti pressioni della società civile
nel tentativo di favorire il sorgere di una nuova relazione tra impresa e società. In ogni caso, il tema stesso della responsabilità sociale
dell’impresa se non adeguatamente impostato rischia di proporre
un’analisi riduzionista della realtà offrendo indicazioni quantomeno
inutili se non addiritura dannose per la società e per l’impresa. Data
la complessità che qualifica le problematiche atuali anche le risposte
ad esse non possono essere nè ovvie nè scontate.
Di fato la crisi che atraversa l’economia ai giorni nostri è una crisi
più profonda di quelle viste in passato perché non è solo economica,
è piutosto una crisi culturale e sociale, relazionale, per cui la di coltà a trovare risposte adeguate trova origine nella stessa crisi culturale che atraversa l’occidente (Zanghì, 2007) e che è rappresentata
da una profonda domanda di “senso”. Per questo l’operare insieme
delle persone, sia nelle relazioni infraorganizzative che interorganizzative costituisce il problema centrale che il management deve,
oggi più che mai, saper considerare (Drucker, 2003).
Se appare chiara la necessità di puntare ad una gestione d’impresa
che non si chiuda in una prospetiva esclusivamente tecnica, pur indispensabile, ma che sappia rendersi capace di abbracciare le molteplici dimensioni del vivere umano rispondendo così alle pressanti
sfide lanciate dal tempo presente, occorre trovare delle vie concrete
per raggiungere questo obietivo, proietandosi verso il perseguimento di un successo multidimensionale, in cui la persona e le sue
relazioni siano poste al centro dell’agire dell’impresa e nell’impresa,
interiorizzando uno stile manageriale relazionale coerente.
D’altra parte, accanto ai fati preoccupanti che evidenziano le contraddizioni della nostra epoca, emergono segnali nuovi di speranza, proposte non legate al contingente, ma ancorate a culture solide,
radicate nella storia più antica ed in quella più recente (Bruni, 2008;
Bruni, Smerilli, 2009). È la società civile che anziché contrapporsi
semplicisticamente al modo “antisociale” di fare impresa si pone
in modo positivo e propositivo traendo dal proprio cuore risorse e
motivazioni ideali capaci di generare una costellazione di entità, imprese ed organizzazioni, ad un tempo come le altre per dimensioni,
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prodoti e servizi offerti, ma diverse dalle altre per il modo con cui
interpretano il loro stesso modo d’essere ed il loro ruolo nel mercato e nella società. Queste organizzazioni costituiscono il variegato
mondo dell’economia civile (Bruni, Zamagni, 2004, 2009).
In questo lavoro cercherò di evidenziare diversi drivers correlati sistemicamente in un modello manageriale, emergente dalla pratica
operativa di imprese ed organizzazioni animate dalla cultura che
caraterizza l’Economia di Comunione (Argiolas, 2009), allo scopo
di individuare percorsi dinamici da intraprendere perché le imprese
che lo desiderino possano diventare o essere sempre più “imprese
di comunione”.
2. Cultura di comunione e imprese di comunione
Non è la prima volta che la comunione entra a far parte del lessico manageriale. Colui che per primo ha inserito tale conceto in
quest’ambito è Chester J. Barnard nella sua opera The Functions of the
Executive (Le funzioni del dirigente) pubblicata negli Stati Uniti nel
1938. In un periodo dominato dalla prospetiva taylorista, Chester
Barnard propone un’idea di impresa come un sistema cooperativo,
ossia un’organizzazione che raggiunge i propri obietivi atraverso
la cooperazione dei soggeti che la costituiscono al suo interno ed
all’esterno, anticipando - tra l’altro - ampiamente i temi della teoria
degli stakeholder e ponendosi in controtendenza alla prospetiva tayloriana.
Barnard sotolinea che i soggeti trascorrono solo una parte del loro
tempo nell’impresa, e che ciò che vivono all’esterno di essa non può
essere “lasciato fuori dalla porta”, quindi occorre creare le condizioni perché le persone possano profondere il massimo impegno
nel raggiungere gli obietivi organizzativi tenendo conto della loro
umanità. Questo deve avvenire non eludendo il raggiungimento
degli obietivi personali, anzi l’impresa verrà considerata e ciente
nella misura in cui raggiungerà gli obietivi organizzativi ed e cace
nella misura in cui raggiungerà quelli dei singoli. Un soggeto sarà
quindi spinto a produrre un maggiore o minore sforzo in favore del
raggiungimento dei fini dell’organizzazione a seconda degli incentivi che egli riceverà in cambio, ma atenzione, Barnard non si riferisce
solo agli incentivi economici, anzi egli afferma che quando le necessità minime sono soddisfate la pura forza degli incentivi materiali
risulta essere ine cace per la maggior parte delle persone (Barnard,
ECONOMIA DI COMUNIONE E MANAGEMENT: UN MODELLO DI LETTURA
Giuseppe Argiolas
1938). Quindi grande rilievo hanno gli incentivi non materiali, quali
le gratificazioni morali, la stima, il prestigio, la familiarità degli atteggiamenti, ma ancor più, quelle che vengono definite “condizioni
di comunione”, cioè “quel sentirsi a proprio agio nei rapporti sociali
che è talvolta chiamato solidarietà, integrazione sociale, socievolezza o sicurezza sociale (nel senso originale, non nel suo presente svilito senso economico)” (Barnard, 1938, p. 148).
Così conclude Barnard: “Credo nella capacità della cooperazione di
uomini di libera volontà di rendere gli uomini liberi di cooperare;
che solo quando scelgono di lavorare insieme possono raggiungere
la pienezza di sviluppo personale, che solo quando ciascuno acceta
una responsabilità di scelta possono entrare in quella comunione di
uomini da cui nascono i fini più alti di comportamento individuale
e parimenti di quello cooperativo. Credo che l’aumento della cooperazione e lo sviluppo dell’individuo siano realtà reciprocamente dipendenti e che una conveniente proporzione o equilibrio fra essi sia
una condizione necessaria al benessere umano. Poiché è soggetiva,
sia per quanto riguarda una società nel suo complesso sia per quanto riguarda l’individuo, credo che la scienza non possa dire quale
questa proporzione possa essere. È questo un problema di filosofia e
religione” (Barnard, 1938, p. 296).
La “questione” culturale viene quindi fortemente in luce. Considerarla con atenzione rappresenta “un tentativo per stabilire quali elementi essenziali introdoti dall’uomo costituiscono gli schemi di vita
in una data società” (Pfiffner, Sherwood, 1992, p. 272). La cultura
può essere considerata come “quel complesso che include conoscenze, pensiero, arte, morale, legge, costume ed ogni altra capacità ed
abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro di una determinata società” (White, 1959, p. 227). In ambito più specificatamente
organizzativo la si considera “interpretabile come una strutura di
codici di senso, espressi in un sistema simbolico, che indirizza il
comportamento degli atori organizzativi, sia in occasione di eventi
colletivi unici e straordinari, sia in occasione di atività e interazioni
quotidiane” (Costa, Giubita, 2004, p. 122) per cui si fa riferimento
alla “co-presenza di alcuni aspeti: l’esistenza di assunti, norme, valori codificati o identificati anche informalmente o tacitamente; la
loro condivisione - talora inconsapevole - all’interno di un gruppo;
la loro espressione/realizzazione nel funzionamento della strutura
(azienda, associazione, famiglia, ecc.) nella quale il gruppo opera
concretamente” (Parolin, 2009, p. 262), e può essere sinteticamente
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intesa come “insieme di valori, convincimenti, interessi e finalità di
vita che sono alla base dei comportamenti individuali e colletivi”
(Giudici, 1992, p. 37).
La “cultura del dare o di comunione” sotostante all’esperienza
dell’Economia di Comunione porta con sé una precisa visione antropologica. L’uomo, la donna cui si fa qui riferimento non sono di certo l’individuo autointeressato che, anche nell’esercizio altruistico, si
muove in una logica meramente utilitaristica, per esercitare il potere
sulle cose o nei confronti delle persone le quali si vengono così a trovare in una condizione di dipendenza o di strumentalizzazione. Ciò
cui si intende qui riferirsi, invece, è alla persona, un soggeto capace
di donare e di ricevere, ma ancor più di “donarsi” e di “ricevere l’altro da sé” in dono trovando in questa relazione la propria ed altrui
realizzazione (Sorgi, 1998; Zappalà, 1992; Zanghì, 1980). Ma perché
la relazione tra due o più soggeti sia autenticamente di comunione
e non semplicemente solidaristica o meramente di cameratismo è
necessario che essa sia libera, aperta e universale.
La comunione può essere indota, generata, nel senso che può essere
il fruto dell’iniziativa ora dell’uno ora dell’altro, ma non può essere
imposta, pena la perdita della sua vera e propria essenza: l’unità rende
liberi se coniugata con la distinzione e correlata al suo obietivo intrinseco, la fioritura umana, che per sua natura richiede una partecipazione ativa e libera della persona. Si trata di un movimento reciproco
e convergente, tra gli atori della relazione in cui ciascuno, per scelta
propria, si proieta verso l’altro e verso gli altri. Anche se caraterizzata da forti relazioni interne aventi lo scopo di preservare e sviluppare
la comunione stessa, essa deve essere non solo aperta all’ingresso di
nuovi atori, ma anche aperta alla diversità vista come valore, come ricchezza, patrimonio della famiglia umana e quindi anche dell’impresa.
Proprietà dell’autentica comunione è l’universalità, nel senso che
non tiene conto soltanto di coloro che la costituiscono o in qualche
modo la generano, ma è orientata al bene comune.
Essere in comunione, vivere in comunione significa quindi partecipazione piena e reciproca alla vita dell’altro con le gioie ed i dolori,
i successi e gli insuccessi che ogni esperienza umana porta con sè.
Così ogni incontro vissuto in questo modo ha la capacità di trasformare e arricchire la persona in quanto essa sperimenta di portare
dentro di se l’altro (gli altri) e di essere in qualche modo nell’altro
(negli altri). Per cui secondo la cultura del dare o di comunione, “non
si trata di essere generosi, di far beneficienza o filantropia o tanto
meno di abbracciare la causa dell’assistenzialismo. Si trata piutosto
ECONOMIA DI COMUNIONE E MANAGEMENT: UN MODELLO DI LETTURA
Giuseppe Argiolas
di conoscere e vivere la dimensione del dono e del donarsi come
essenziale all’esistenza della persona. La cultura del dare ingloba sia
una visione d’insieme - l’uomo nel suo relazionarsi come centro e
fine di ogni atività e realtà - che tuta una serie di ateggiamenti e
comportamenti che qualificano le relazioni umane e le indirizzano
verso la comunione, sinonimo qui di unità. Cosicché tuto è dono e
un continuo donarsi. La vera identità della creatura umana si esprime nell’essere dono in tute le espressioni del suo vivere, nell’essere
sempre nella posizione di donare, di dare. Questa vera arte del dare
sprigiona tuta una gamma di valori che qualificano l’ato del dare:
gratuità, gioia, larghezza, disinteresse; e lo sotraggono ai rischi e
pericoli di essere frainteso o strumentalizzato. Dalla reciprocità di
queste relazioni nasce la comunione, l’unità” (Araùjo, 2000, p. 36).
3. I drivers della comunione
Evidentemente per raggiungere la “comunione” occorre dotarsi di
strumenti utili allo scopo, capaci cioè di dare spazio a quelle dinamiche relazionali tipiche della persona, proprio in quanto soggeto
dialogico e relazionale. La complessità dell’organizzazione-impresa
suggerisce l’adozione di più modalità, ma senz’altro una via privilegiata per raggiungere questo obietivo può essere rinvenuta nella via
del dialogo (Lubich, 2006; Argiolas, 2009). Il dialogo inteso non solo
quale semplice comunicazione tra più ma, in senso più ampio, come
capacità di immedesimarsi nell’altro. Evidentemente la via del dialogo sarà facilitata se i soggeti dialoganti sono animati dalla fiducia
ed il loro agire si sviluppa nella reciprocità. Dialogo, fiducia e reciprocità vengono qui considerati come un sistema di determinanti
che operando congiuntamente creano le condizioni perché si generi
la comunione, quindi veri e propri pilastri dell’edificio manageriale
di un’impresa di comunione.
Ma, andiamo per ordine. È infati possibile evidenziare tre differenti
tipi di drivers che ativano e sviluppano e, se necessario, riorientano
il processo di creazione della comunione nell’impresa. Gli aspeti (o
dimensioni) della comunione, i pilastri della comunione e gli strumenti della comunione. Già dal 1997 le imprese di comunione si sono
impegnate a seguire le cosiddete “linee guida” per la conduzione
delle imprese EdC, poi riaggiornate nel 2007,2 caraterizzate proprio
Si veda a questo proposito il periodico Economia di Comunione, una cultura nuova, n. 28,
dicembre 2008. Per un approfondimento si veda anche Golin, Parolin (2003).
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dall’espressione della comunione in ogni momento ed aspeto della vita delle persone e dell’impresa. Per un approfondimento degli
aspeti intesi come strumenti di gestione multidimensionale si rinvia
al saggio di Parolin e Golin pubblicato in questo stesso volume. Nel
presente lavoro soffermerò l’atenzione sui pilastri e gli strumenti
della comunione.
I pilastri
I pilastri della comunione sono, dalla mia prospetiva, tre: il dialogo,
la fiducia e la reciprocità.
È grazie al dialogo che si può realizzare la relazione tra le persone.
Dialogo che può essere ben più che uno scambio di idee o una conversazione, basti pensare all’importanza del linguaggio non verbale. Emozioni, sentimenti, motivazioni, aspirazioni, addiritura le più
profonde esperienze valoriali e spirituali possono costituire oggeto di
condivisione quando si ativa un profondo dialogo tra le persone.
Certamente quella del dialogo è un’arte che non si improvvisa. Il
dialogo può essere portato avanti atraverso due forme di comportamento stretamente connesse e complementari: l’ascolto e la parola.
La parola, a seconda della modalità in cui si ativa, può essere uno
strumento di “incontro”, un ponte tra i dialoganti, se va alla ricerca
di ciò che unisce, se è rispetosa dell’altro, anche nel dissenso, se è
coerente espressione di ciò che si è; oppure di “scontro” o di separazione, nei casi opposti. In tal modo sarà possibile ed e cace esprimere il proprio punto di vista nella consapevolezza che l’altro non
è estraneo a ciò che si dice, anzi vi è in qualche modo - ancorché inconsapevolmente - compreso, se nella relazione di interazione cui si
partecipa ciascuno è arricchito dal pensiero e dall’ascolto dell’altro,
dall’essere che è l’altro (Foresi, 2001). Parlare ed ascoltare possono
quindi essere considerati come due facce della medesima medaglia.
Perciò, se è importante parlare - e lo si può fare con differenti modalità - è altresì importante essere consapevoli che dialogare significa
anche e sopratuto saper ascoltare (Crozier, 1992).
Un’importante carateristica dell’ascolto è il silenzio, il quale può
estrinsecarsi a diversi livelli che potremmo definire (in ordine crescente di profondità): a) il silenzio della voce; b) il silenzio della
mente; c) il silenzio delle radici culturali.
Il primo rappresenta la forma più semplice di ascolto, con il quale
l’interlocutore può parlare ed esprimere se stesso senza che ci siano
sovrapposizioni nella conversazione.
ECONOMIA DI COMUNIONE E MANAGEMENT: UN MODELLO DI LETTURA
Giuseppe Argiolas
Il secondo si atua quando la persona da spazio nella propria mente
al pensiero dell’altro cercando di capire ciò che l’altro intende dire.
La situazione antitetica - che purtroppo spesso si verifica nelle organizzazioni - rispeto a quanto appena deto può essere chiaramente
illustrata da frasi del tipo: “So già cosa stai per dire…”. In questo
modo viene ativato una sorta di filtro che non permete a chi parla
di esprimersi a pieno e, allo stesso tempo, non permete a chi ascolta
di capire completamente ciò che l’interlocutore vorrebbe realmente
dire.
L’ultima forma di silenzio mete in condizione colui che parla di essere accolto pienamente. Non solo nelle parole che egli proferisce,
bensì nelle sue idee, motivazioni, valori e obietivi, condividendo
con lui le gioie, le sofferenze ed i problemi, e - laddove possibile aiutandolo. In questo modo si ativa un’accoglienza dell’altro aperta,
profonda e completa. Colui che parla sperimenta l’accetazione piena e colui che ascolta può sentire nella propria pelle ciò che l’interlocutore sta vivendo; da ciò si può capire che questa forma di silenzio
non è di certo passiva (qualcosa che non deve essere fato), bensì richiede un comportamento ativo - cercare di vivere l’altro realmente,
concretamente.
Perché il dialogo possa funzionare e cacemente è necessario che le
persone coinvolte si pongano in una condizione di reciproca apertura. In questo senso, è importantissimo considerare il ruolo svolto
dalla fiducia.3 Secondo John Locke, la fiducia è quel vinculum societatis (Locke, 1660/1954) (cioè “obbligazione sociale, relazione sociale”) senza la quale anche le più elementari forme di vita sociale ne
verrebbero fortemente limitate. Basti pensare a tuti quegli ati che
poniamo in essere ogni giorno senza rifleterci troppo, ma che richiedono comportamenti fiduciari come quando si va dal medico o
si prende l’aereo, ecc. È possibile notare questa disposizione anche
nel mercato. È stato osservato, ad esempio, che “gli uomini d’affari
spesso preferiscono concludere con la loro ‘parola d’onore’, la loro
streta di mano, la ‘comune onestà e rispetabilità’, addiritura quando la transazione implica l’esposizione a seri rischi” (Macauley, 1963,
p. 58) negli scambi tra imprese (Parolin, 2002) come nelle relazioni
al loro interno.
È stato altresì sotolineato che, perché si possa stabilire una relazione
di fiducia reciproca è necessario che il soggeto che pone la fiducia
nei confronti dell’altro soggeto della relazione faccia questo su un
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A proposito di fiducia e rispondenza fiduciaria si veda Pelligra, 2007.
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piano di sostanziale parità dal punto di vista ontologico, senza obiettivi nascosti e liberamente (Pelligra, 2007; Luhmann, 2000). Infati, se
le persone non sono allo stesso livello, ma una è più forte dell’altra,
la “fiducia” non è genuina e perde la sua e cacia; allo stesso tempo,
se la fiducia non è riposta liberamente, ma si ha fiducia nell’altro
perché si sa che egli in realtà è obbligato a comportarsi in un certo
modo, non si sta dando fiducia, ma solamente sfrutando una posizione di preminenza; anche in questo caso il meccanismo fiduciario
troverà notevoli ostacoli a funzionare.
Non si può comunque negare che ordinariamente nell’impresa
emergano situazioni di conflito. Per cui la qualità delle relazioni
deve essere verificata periodicamente, atraverso un reciproco ascolto così che anche i momenti di crisi possano essere trasformati in
occasioni di crescita per tuta l’organizzazione, nella consapevolezza
che i confliti non devono essere esorcizzati bensì superati facendo
della diversità tra i soggeti una vera e propria ricchezza. Il dialogo
aperto, sincero e continuo, portato avanti con impegno, cura e perseveranza costituisce, inoltre, un significante antidoto contro la tentazione di tradire la fiducia (Elangovan, Shapiro 1999). Esso ha in sè la
potenzialità di condurre le persone alla comunione, ad una relazione che non è mera vicinanza o semplice appartenenza ad un gruppo
ma, molto di più, è partecipazione degli uni agli altri e di ciascuno
al tuto (Bohm, 2003). Tale forma di interazione è bene espressa dalla
relazione di reciprocità in cui si sperimenta il dare ed il ricevere, il
donarsi ed il ricevere l’altro, il donarsi ed il riceversi dall’altro, perché il rapporto con l’altro trasforma.
Bruni (2006) specifica che, se la reciprocità è una, le forme in cui essa
si può esprimere sono tante. Egli considera, in particolare, tre forme
di reciprocità: la reciprocità cauta, la reciprocità philía o dell’amicizia e la reciprocità agápe.
La prima, che considera il rapporto sinallagmatico tipico della relazione contratuale, “consiste nel fato che ai soggeti non è richiesto
di sacrificare qualcosa del proprio interesse personale: la cooperazione emerge sulla sola base dell’interesse, della convenienza, cui
vanno aggiunti requisiti istituzionali” (Bruni, 2006, p. 59).
La seconda forma si può distinguere dalla prima in quanto “richiede una certa dose di sacrificio e di rischio, e il rapporto non è solo
un mezzo per raggiungere interessi “esterni” al rapporto stesso, ma
ha per i soggeti un valore in se stesso” (Bruni, 2006, p. 62). Questa
seconda forma di reciprocità non è meramente condizionale, soprat-
ECONOMIA DI COMUNIONE E MANAGEMENT: UN MODELLO DI LETTURA
Giuseppe Argiolas
tuto all’inizio del suo operare nella relazione interpersonale, ma
funziona solo se la risposta dell’interlocutore è adeguata.
La terza forma, invece, è incondizionale e gratuita, in essa trovano ampio spazio le motivazioni intrinseche. Ancor più, per avere
la reciprocità incondizionale “la ricompensa intrinseca è solo una
condizione necessaria: la condizione su ciente a nché un dato
comportamento possa essere inquadrato all’interno di questa forma
di reciprocità è che il comportamento reciprocante degli altri non
condizioni la scelta di chi segue una tale logica di azione, ma condizioni il risultato della scelta” (Bruni, 2006, p. 73) ossia “l’azione è
pienamente e cace solo se anche gli altri si comportano allo stesso
modo (se reciprocano)” (Bruni, 2006, p. 75). Peraltro, l’agape ha una
carateristica contro intuitiva - che richiama le carateristiche sopradescrite di libertà, apertura e universalità della comunione, infati,
“nel dono gratuito ovvero nel dono come reciprocità, ti do perché tu
possa a tua volta dare (non necessariamente a me)” (Zamagni, 2006,
p. 35) quindi essa può produrre effeti anche su persone non diretamente coinvolte dalla relazione.
È estremamente importante che nelle imprese siano presenti tute e
tre le forme di reciprocità. La prima, la reciprocità-cauta, introduce
all’interno dell’impresa le “dinamiche di mercato” assicurando maggiore libertà ai soggeti della relazione. Nel contrato, infati, viene
definito il quadro normativo all’interno del quale ognuno può agire
e se questo, almeno in prima batuta, può apparire come un vincolo di fato può essere considerato come un elemento che amplia la
libertà di azione nel senso che definisce il dovuto di ciascuna parte
(per esempio, la quantità di ore di lavoro, di straordinari, di ferie, il
salario, ecc.) ed anche ciò che è, in qualche modo, indisponibile alla
contratazione delle parti.
La reciprocità-philía richiama il fato che la sola logica del contrato
non è su ciente perché l’impresa venga gestita in modo e ciente
ed e cace. I contrati sono per loro natura incompleti e risulta problematico operare se le logiche d’azione dei soggeti sono del tipo
“questo non è compito mio”. Allo stesso tempo quando essa funziona mete al riparo anche da logiche totalizzanti: si pensi al comportamento (tipico in taluni contesti asiatici) di chi si sente costreto a
dimostrare ataccamento all’impresa rimanendo continuamente oltre l’orario di lavoro o non usufruendo di periodi di ferie. Tale tipo di
reciprocità evidenzia la necessità che ciascuno faccia un passo verso
l’altro rimuovendo i comportamenti opportunistici che, da una parte
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e dall’altra, erodono la relazione di reciprocità inficiando il raggiungimento della comunione, oltre che dell’e cienza.
La reciprocità-agápe ricomprende la gratuità e l’incondizionalità
dell’azione orientandola essenzialmente e primariamente alla costruzione di legami di fraternità tra le persone. In questo senso essa
si differenzia dalla filantropia in quanto “laddove l’organizzazione
filantropica fa per gli altri, l’azione gratuita fa con gli altri” (Zamagni, 2006, p. 34). Se riconsideriamo le carateristiche tipiche della comunione (libertà, apertura, universalità, orientamento alla fioritura
umana) si capisce come sia necessario ativare anche questa forma
di reciprocità per raggiungere la piena comunione. Infati, il dono
autenticamente gratuito è libero e liberante, nel senso che chi intende farlo lo fa senza costrizioni, inoltre non intende esercitare e non
esercita alcuna forma di dominio su chi lo riceve.4 Allo stesso tempo, l’incondizionalità del donare, che rende libero il donante anche
dalla risposta di chi riceve, non esclude il desiderio di rafforzare la
relazione tra chi dona e chi riceve, anzi la risposta reciprocante di
quest’ultimo porta la relazione stessa al suo compimento, alla comunione.
Gli strumenti
La comunione nelle imprese come in tute le organizzazioni deve
essere continuamente ricercata. È assolutamente irrealistico pensare
che sia possibile raggiungerla una volta per tute. Per questo è importante dotarsi di strumenti che possano favorire processi facilitatori
per incrementarla o per ricostruirla laddove sia andata infranta.
Gli strumenti di comunione sono: Il pato sulla missione dell’impresa; la condivisione di sé; la comunione delle esperienze; la verifica;
il colloquio.
Il patto sulla missione dell’impresa
La missione esprime un conceto ampio e non univocamente definito dagli studiosi (Caselli, 1995; Coda, 1998; Carrus, 2000; Usai, 2002;
Dat, 2007). Certamente può essere considerata sinteticamente come
la finalità, la ragion d’essere dell’impresa, ossia in che modo l’impresa interpreta il suo ruolo nel mercato e nella società. Introdurre la
categoria della comunione, con i suoi pilastri, in questo strumento
richiama la necessità di compartecipare alla definizione della mis4
Specificando così la differenza sostanziale tra comunione-unità e massificazione-uniformità.
ECONOMIA DI COMUNIONE E MANAGEMENT: UN MODELLO DI LETTURA
Giuseppe Argiolas
sione e della vision (proiezione della missione nel tempo) che da essa
scaturisce (Baldarelli, 2005) e quindi del contenuto del pato stesso. Il
pato non è un semplice contrato, anche se conserva alcune carateristiche di questo. Nel pato sono le persone le protagoniste, laddove
nel contrato solo le cose che occupano il centro della scena Il pato
rimanda alla categoria biblica dell’alleanza, dove insieme a dimensioni sinallagmatiche di diriti e di doveri di ogni parte, esiste anche
il perdono, la misericordia, il ricominciare.
In particolare, non basta che il management definisca la missione e la
vision e che questa venga in qualche modo sotoscrita dagli altri soggeti dell’impresa, così come viene talvolta fato nelle imprese che
intendono praticare la responsabilità sociale atraverso la sotoscrizione di codici etici, che sovente “cadono dall’alto”. Questa compartecipazione potrà avvenire in modi diversi da impresa ad impresa
ed in relazione alle capacità e competenze di ciascuno, per esempio
atraverso commissioni di lavoro tematiche di caratere temporaneo
o permanente.
Siglare un pato sulla missione significa definirla chiaramente, sebbene sempre dinamicamente, indicando a quali valori di fondo l’impresa dovrà ispirarsi nelle relazioni che essa instaurerà con tuti gli
stakeholder - interni ed esterni. Per cui introdurre il pato nelle relazioni interne significa creare le condizioni perché si passi da una
visione della produzione determinata da elementi di natura strettamente tecnica di produtività ad una notevolmente più ampia di
productiveness (Blum, 1956) che sappia ricomprendere e cienza ed
e cacia, comunque di importanza imprescindibile nella gestione
d’impresa, ma anche i valori umani considerandoli al cuore della
gestione stessa dando rilievo non solo al cosa si fa ma al come lo si fa,
in ultima analisi alla qualità dell’azione personale e della relazione
interpersonale.
Il pato sulla missione ha due carateristiche complementari: la tradizione e l’innovazione. La prima esplicita il fato che non sia possibile
ridiscutere i contenuti del pato stesso ogni qualvolta si inserisca un
nuovo membro dell’impresa; entrando nell’impresa si potrà aderire
al pato stesso, ma la carateristica dell’innovazione mantiene la possibilità di trovare nuove vie per atuare il contenuto del pato riatualizzandolo - se utile e necessario - alle mutate condizioni interne ed
esterne mantenendo viva la capacità di accogliere in qualche modo
il contributo di tuti.
Siglare il pato non significa sovrapporre un istituto giuridico a quelli definiti dalla legge o stabiliti dai contrati di lavoro. Infati ciò che
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può facilitarne l’applicazione è una condivisione sostanziale (ossia
non solo formale) anche implicita dei principi che sovraintendono
all’azione. L’incongruenza delle modalità di azione operative con
quanto condiviso e sancito precedentemente può minarne, certamente, l’e cacia. Il pato fa leva sulla morale, sulla motivazione,
sull’impegno personale dei singoli soggeti e del gruppo di persone
costituenti l’impresa; trasformarlo in qualcosa di meramente giuridico ne limiterebbe fortemente la portata e - probabilmente - anche
l’e cacia.
In questo senso, avere presenti le varie forme di reciprocità può essere importante per non considerarlo come un grimaldello per pretendere qualcosa dagli altri, bensì un valido strumento per ricordare a
se stessi ed agli altri la medesima vocazione alla comunione, quindi
nell’orientarsi e ri-orientarsi ad “essere-in-dono”.
La condivisione di sé
Essere in dono, non donare qualcosa, ma donare se stessi. La comunione si alimenta del dono di sè, il quale assume le più varie sfumature. Una di queste è appunto rappresentata dalla possibilità di
poter condividere con gli altri ciò che si è con le proprie carateristiche e capacità, successi o gli insuccessi, preoccupazioni o speranze
correlate o anche non diretamente correlate alla dimensione lavorativa (Barnard, 1938; Crozier, 1992). Evidentemente perché le persone
siano spinte a condividere con gli altri le proprie prospetive sulla
realtà aziendale occorre che si sentano comprese e valorizzate. Se,
ad esempio, si richiede di esprimere creatività e innovazione, ma
alla lunga non le si considera affato, si finisce per svilire anche il più
piccolo tentativo di offrire il proprio contributo al successo dell’impresa, appiatendo le proprie posizioni su quelle di chi la governa
con conseguenze negative che possono essere anche di notevole portata.
Occorre quindi creare le condizioni perché tali volontà e capacità
siano rinforzate da un contesto organizzativo che sappia autenticamente rispetare e valorizzare la persona e, allo stesso tempo, che
favorisca e sviluppi la capacità relazionale dei singoli e dei gruppi
creando cioè “spazi” adeguati di comunione formale ed informale
in cui si condivida la visione sull’impresa e dell’impresa. Evidentemente, perché si possano sperimentare tute le potenzialità della
condivisione di sé si richiede che tra i soggeti della relazione sussista una notevole fiducia. Quanto grande è la fiducia reciproca tanto
ECONOMIA DI COMUNIONE E MANAGEMENT: UN MODELLO DI LETTURA
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grande sarà la possibilità di aprirsi all’altro. La fiducia, qui, si nutre
di fati concreti, di comportamenti coerenti con quanto dichiarato, di
tato, di rispeto.
Non si può pensare che l’altro comunichi se stesso come una macchina del caffè fornisce il prodoto non appena si introduce la moneta;
in altri termini, si intende sotolineare l’importanza delle motivazioni intrinseche dei soggeti, motivazioni che sono per così dire “impagabili”, non si possono acquistare, piutosto si possono riconoscere
ed apprezzare otenendo, in questo modo, l’effeto di un loro rafforzamento (Deci, 1975). Ma perché sia un autentico strumento di
comunione, la condivisione di sé deve arrivare ad essere - prima o
poi - reciproca. Essa potrà essere tanto più e cace se sarà accompagnata da una corrispondente accoglienza, intensa e profonda che
dica partecipazione e immedesimazione, in grado di comprendere
(prendere con sè) ciò che l’altro intende condividere favorendo la
valorizzazione e lo sviluppo delle sue capacità (Sen, 1999).
La comunione delle esperienze
Se nel passato l’impresa era caraterizzata dal predominio del fattore capitale, con l’avvento della società dei servizi, il predominio
è certamente appannaggio della conoscenza (Rullani, 2004). Il fattore conoscenza è detenuto dalle persone, ma la massima profusione d’impegno da parte di queste nella condivisione del proprio
patrimonio conoscitivo e quindi nel raggiungimento degli obietivi
organizzativi non è né ovvia né automatica. Tali circostanze costringono i manager a ricercare ed adotare nuove vie nella conduzione
delle imprese. In particolare un ruolo non secondario è svolto dalla
conoscenza tacita. Essa è una forma di conoscenza stretamente legata all’esperienza che le persone maturano nella pratica operativa,
quindi correlata alle carateristiche personali dei soggeti stessi e del
contesto nel quale essi sono inseriti. Il punto è che le persone “sanno di più” di ciò che riescono ad esplicitare, a spiegare, a codificare
(Polanyi, 1967), quindi risulta del tuto evidente l’importanza di far
emergere tale tipo di conoscenza che, proprio per la sua conformazione e unicità costituisce un potenziale estremamente importante
per chi la detiene. La condivisione della conoscenza (quella codificata e, ancor più, quella tacita) risulta tanto importante quanto tut’altro che agevole. In questo senso, un ruolo estremamente importante
è svolto dalle reti di relazione (Rullani, 2004) che si sviluppano nei
vari contesti organizzativi.
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Questo strumento si pone nell’intento di favorire l’ativazione di
“processi facilitatori” in cui la conoscenza si alimenti e si diffonda.
Talune conoscenze, esperienze, rischiano di “spegnersi” in chi le
possiede se non vengono condivise. Ativare le “condizioni di comunione” atraverso le sue determinanti costituisce una via non soltanto per condividere le conoscenze di cui si dispone consapevolmente,
ma acquisirne di nuove ed anche per scoprire quelle di cui si dispone in modo inconsapevole e che la relazione, non qualunque tipo di
relazione, con gli altri fa emergere. L’apprendimento, infati, “non riguarda semplicemente parti di informazione, ma relazioni che danno senso a ciò che si è appreso e le conoscenze non sono statiche né
additive, ma fruto di un’interazione costante con l’applicazione in
concreto” (Boi, 2009, pp. 85-86). La narrazione delle esperienze può
essere di incoraggiamento in chi ascolta per superare eventuali di coltà similari, per non commetere errori già commessi, o per trarre
vantaggio dalle esperienze di successo.
La conoscenza intesa anche nella sua dimensione di sapere relazionale costituisce un patrimonio irrinunciabile per l’impresa. Tanto
più per un’impresa di comunione risulta importantissimo favorire
lo scambio di esperienze, in cui il focus è posto su ciò che nei propri
comportamenti ha favorito o meno il raggiungimento della comunione tra le persone. Metere in comune le esperienze è quindi importante non soltanto per trasformare la conoscenza individuale in
conoscenza organizzativa, bensì per svilupparle entrambi e, non da
ultimo, costituisce uno strumento preziosissimo per la condivisione
di senso (Weick, 1995) nell’agire e nell’operare insieme nell’impresa
e dell’impresa.
La verifica
Il quarto strumento è orientato alla verifica ed al miglioramento continuo sia nel modo di operare nelle varie aree aziendali (produzione,
marketing, ecc.) sia nella qualità delle relazioni interpersonali evidenziando i punti di debolezza su cui intervenire e quelli di forza da
sviluppare. Perché la verifica vada a buon fine “non deve essere un
rito; non deve essere una procedura; non deve essere un una tantum;
non deve essere un processo (nel senso giudiziario del termine)”
(Costa, Gianecchini, 2005, p. 326).
Questo strumento può essere messo in pratica atraverso incontri
periodici in piccoli gruppi coordinati da un moderatore avente il
compito di assicurare che ciò che viene deto vada a reale beneficio
ECONOMIA DI COMUNIONE E MANAGEMENT: UN MODELLO DI LETTURA
Giuseppe Argiolas
delle singole persone e dell’impresa: un’occasione per rimuovere insieme ciò che è di ostacolo, o puntare decisamente su ciò che favorisce, il buon andamento della gestione e la comunione tra le persone
e le aree funzionali dell’impresa.
Punto di riferimento e faro di questo strumento è rappresentato
senza dubbio dalla missione dell’impresa. La verifica diverrà più efficace nella misura in cui essa sarà espressione delle dinamiche di
dialogo, fiducia e reciprocità sviluppate e vissute, non solo in quella
circostanza, ma nella quotidianità delle relazioni.
Il colloquio
Se impiegare il tempo con i collaboratori per il dialogo, approfondendo la reciproca conoscenza metendo in ato l’ascolto reciproco,
inteso in un’accezione ampia, come apertura all’altro e immedesimazione nell’altro, genera effetivamente un costo, costituisce allo
stesso tempo non solo una modalità relazionale che valorizza la
persona. Creando le condizioni per la fioritura umana, favorisce
indiretamente, da una parte, l’effetivo esercizio della leadership e,
dall’altra, la libera espressione delle peculiari capacità personali. È
stato infati sotolineato che anche nelle situazioni di crisi e caraterizzate da rigidità, nel senso che non è possibile realizzare turnover
nel personale, “le relazioni [dei manager] con i dipendenti sono un
dato praticamente non modificabile; a fare la differenza sono le loro
relazioni con le persone” (Drucker, 2003, p. 102). A questo proposito
occorre tenere presente che “molte relazioni di mentoring si possono
creare grazie alla condivisione di interessi e valori” (Noe et al., 2006,
p. 277) tra i soggeti della relazione.
Nel colloquio si considerano, di volta in volta a seconda dei soggeti
coinvolti, sia le questioni relative all’andamento della vita dell’impresa, delle relazioni di comunione tra i suoi protagonisti, ma anche
la posizione del singolo con le sue esigenze di vario genere, come,
ad esempio, i suoi fabbisogni formativi, prospetive di sviluppo e
crescita professionale, trasferimento ad altri servizi e così via. L’attivazione dei pilastri della comunione permete agli interlocutori di
esprimersi più liberamente e pienamente facendo sì che anche questo strumento possa manifestare tute le sue potenzialità a servizio
della performance personale e relazionale.
Il colloquio non deve essere necessariamente fato con l’imprenditore o con chi occupa una posizione gerarchica superiore anzi, a seconda delle circostanze, realizzato in questo modo potrebbe rivelarsi
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inutile ed inopportuno se non addiritura dannoso. Può essere proficuo fare ricorso a figure quali quella del coach (Noe et al., 2006), sia
esso un collega, un manager o un consulente esterno che, dotate di
adeguate competenze, possono supportare le persone nello sviluppo delle proprie conoscenze, della propria professionalità, nonché
della capacità di costruire relazioni interpersonali armoniose.
Pur senza ignorare la rete di relazioni definita formalmente, gli strumenti realizzano, sviluppano ed infitiscono sopratuto la rete di relazioni informale, la quale riveste un ruolo sempre più determinante
per il successo economico e sociale di ogni organizzazione (Barnard,
1938; Peters, Waterman jr., 1984; Drucker, 2003).
4. Conclusioni
Imprese di comunione dunque, condote con uno stile manageriale
espressione di quel rinnovamento che la comunione vissuta porta
nella vita delle persone e dei gruppi, sino a creare delle organizzazioni che siano luoghi e struture di comunione dal momento in
cui la ricchezza viene prodota a quello in cui essa viene distribuita.
L’Economia di Comunione offre quindi una prospetiva che supera
la neta separazione tra logica d’azione nel momento della produzione ed in quello della distribuzione della ricchezza (Negri, 2005)
orientando l’azione manageriale a vivere le molteplici dimensioni
dell’impresa in modo unificato. Questa costituisce, forse, una delle
peculiarità e, allo stesso tempo, una delle sfide più ardite con cui le
imprese EdC sono e saranno chiamate continuamente a confrontarsi
se intendono essere fedeli al progeto.
L’impresa di comunione dimostrerà di essere coerentemente tale
nella misura in cui riuscirà a metere al cuore della propria azione, del proprio modo di essere la centralità della persona ed il bene
comune. Questa opzione che potrà sostanziarsi di una molteplicità
di significati ed espressioni, dovrà puntare, senz’altro, sulla qualità
delle relazioni che essa sviluppa al suo interno come all’esterno con
il contesto ambientale nel quale è inserita e con quello più ampio, internazionale e mondiale, di cui si sente parte. Così darà alla propria
azione il crisma del consenso inteso non solo come legitimazione
ad agire o semplice accordo tra più, bensì anche come individuazione di obietivi comuni da raggiungere atraverso vie da percorrere
condivise e, sopratuto, inteso come foriero di nuovi e più profondi
significati da atribuire all’operare ed all’operare insieme.
ECONOMIA DI COMUNIONE E MANAGEMENT: UN MODELLO DI LETTURA
Giuseppe Argiolas
In questo modo l’impresa di comunione assumerà un ruolo culturale
e sociale ben più esteso del suo stesso essere semplicemente impresa, ampliandone la mission, o meglio rispondendo pienamente alla
vocazione comunitaria che scaturisce diretamente dalla sua stessa
natura ed offrendo un contributo concreto e visibile alla diffusione
della cultura di comunione su scala planetaria e con essa di un nuovo modo di essere impresa.
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Economia di Comunione, Microfinanza e Impresa
Sociale: l’esperienza della Bangko Kabayan, Inc.
Una banca rurale filippina1
*
Teresa Ganzon
Sommario
1. Il mandato delle banche rurali - 2. Professionalizzazione ed espansione della Ibaan Rural
Bank - 3. La Ibaan Rural Bank e il progeto di Economia di Comunione - 4. La Fondazione
Ibaan Rural Bank, Inc. - 5. La crisi finanziaria asiatica del 1998 - 6. L’ingresso della Bangko
Kabayan nella microfinanza - 7. La Bangko Kabayan come impresa sociale
1. Il mandato delle banche rurali
La Ibaan Rural Bank Inc.2 è stata fondata nell’agosto 1952, come risposta all’appello lanciato dal governo filippino per un direto coinvolgimento del setore privato nello sviluppo delle zone rurali mediante la creazione di istituti finanziari nelle municipalità di tuta la
nazione. Lo scopo di tale appello era di incrementare la concessione
di crediti in favore di agricoltori, pescatori, piccoli commercianti e
lavoratori di altri setori che, sopratuto a causa della dimensione
delle loro imprese e per la mancanza di garanzie accessorie, non
avrebbero potuto accedere a crediti formali, secondo le regole in
vigore per l’otenimento di finanziamenti commerciali. Pertanto, in
1*
2
L’articolo è stato tradotto in italiano dalla dott.sa Martina Marzocchi.
Ragione sociale originale della Bangko Kabayan.
ECONOMIA DI COMUNIONE, MICROFINANZA E IMPRESA SOCIALE: L’ESPERIENZA DELLA BANGKO KABAYAN,
Teresa Ganzon
base al mandato contenuto nella legge che diede vita alle Rural Banks3, la Ibaan Rural Bank comprese il ruolo di sviluppo che era stata
chiamata a svolgere - principalmente quello di intermediario - favorendo l’accesso al credito della popolazione rurale che non possedeva garanzie accessorie o la cui terra era oggeto di dichiarazione
fiscale o di free patent, un documento, quest’ultimo, considerato di
rango inferiore dalle banche commerciali e dagli istituti di credito.
Nel corso degli anni, e in particolare durante gli anni ‘70, la Ibaan
Rural Bank fu soggeta a dissesti aziendali dovuti a programmi di
prestito direto o non garantito promossi dal Governo4. Nonostante il
Governo fornisse le fonti necessarie per tali programmi, tramite meccanismi di rifinanziamento elaborati dalla Banca Centrale, il rischio
era quasi interamente assunto dalle banche rurali che fungevano da
canale per il rilascio di prestiti, poiché anche in caso di mancato incasso delle rate degli agricoltori le banche rurali erano responsabili
della restituzione di tali fondi nei confronti della Banca Centrale.
A posteriori, il fallimento di questi programmi ha messo in luce la
mancanza di capacità tecniche, sia da parte degli agricoltori (nella
gestione della loro produzione e nell’organizzare la restituzione del
debito), sia da parte degli istituti di credito che non applicarono filtri
e caci o non seppero monitorare i prestiti concessi, lasciando che si
trasformassero in problemi di rilevanza contabile. Le banche rurali,
semplicemente, concedevano prestiti, (ampiamente finanziati dalla
Banca Centrale) secondo quanto disposto da una serie di principi
forniti dalla Banca Centrale stessa, a fronte di depositi da parte degli
abitanti delle cità. Non vi era la consapevolezza di servire un particolare segmento della popolazione rurale, partendo dal semplice
presupposto che chi patrocinava i servizi della banca rurale erano
i piccoli imprenditori o i depositanti, dato che i più grandi avevano
accesso alle banche commerciali.
Inoltre, siccome la formazione del personale e dei dirigenti delle
banche rurali venne relegata ad un corso base sulla gestione delle
banche rurali della durata di due setimane, richiesto dalla Banca
Centrale (ma successivamente dimenticato da molti dei banchieri,
che gestivano i loro istituti come aziende a conduzione familiare, nominando membri della propria famiglia, non sempre qualificati, per
la gestione), la maggior parte delle banche rurali risultò essere mal
organizzata per affrontare le di coltà economiche degli anni post
Republic Act 720: Legge regolamentante le Banche Rurali del 1954.
Riferimento specifico a Masagana ‘99 (un programma di prestiti per coltivatori di riso) e a
Bakahang Baranggay (prestiti per l’allevamento e l’ingrasso di bestiame).
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legge marziale. Di conseguenza, negli anni ‘80 più di 100 banche
rurali furono chiuse per non essere state in grado di far fronte alle
insolvenze derivanti dal mancato rientro dei prestiti concessi o dalla
mancanza di volontà di pagare per conto dei loro debitori. Un’ulteriore e significativa ragione dei fallimenti delle banche rurali in questo periodo (e fino ai giorni nostri) furono le irregolarità commesse
da dirigenti e membri di staff. L’agenzia preposta al controllo, ovvero la Banca Centrale5, non individuò e non risolse immediatamente
queste irregolarità, non riuscendo così ad evitare una dissipazione
delle risorse della banca fino alla bancarota e/o alla riduzione del deposito pubblico. E certamente non fu di aiuto la repentina decisione
della Bangko Sentral ng Pilipinas di rideterminare il prezzo di fondi
destinati al rifinanziamento, da tassi altamente agevolati dell’1-3%
annuo a tassi di mercato del 12-16% annuo, cogliendo la maggior
parte delle banche rurali impreparate e gravandole di obbligazioni a
tassi di interesse che non erano abituate a gestire.
2. Professionalizzazione ed espansione della Ibaan Rural Bank
Quando la Ibaan Rural Bank si trovò in questa situazione di di coltà, dovete compiere una trasformazione a 360°, tra cui un completo
rinnovamento di tuto il personale per poter allontanare coloro che
avevano commesso delle irregolarità. Venne lanciata un’aggressiva
campagna di raccolta depositi che fece nascere una nuova consapevolezza rispeto al conceto di cliente, per lo meno in termini di
importanza del depositante, dato che la banca aveva un serio bisogno di fondi per poter superare la crisi, fermo restando il fato che la
Bangko Sentral ng Pilipinas non avrebbe concesso ulteriori rifinanziamenti fino a quando la posizione finanziaria della Ibaan Rural
Bank non fosse migliorata.
La ripresa della Ibaan Rural Bank divenne quindi fortemente ancorata alla professionalizzazione dei suoi dirigenti e lavoratori, all’evoluzione di una cultura del servizio a favore dei clienti - siano essi
depositanti o mutuatari - e alla destinazione degli asset acquisiti e
accumulatisi in seguito a prestiti insoluti. Ci vollero quasi dieci anni
(1978-1986) per effetuare una vera inversione di tendenza e riportare la banca rurale a guadagnare sulle operazioni.6
Questa è meglio conosciuta come Bangko Sentral ng Pilipinas.
Negli anni precedenti le perdite o i guadagni registrati erano derivati dalla vendita degli asset
acquisiti.
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ECONOMIA DI COMUNIONE, MICROFINANZA E IMPRESA SOCIALE: L’ESPERIENZA DELLA BANGKO KABAYAN,
Teresa Ganzon
Entro il 1990, la Ibaan Rural Bank aveva riguadagnato terreno come
istituto di credito agricolo, sia a livello finanziario che organizzativo. Contava su un corpo dirigenti e lavoratori selezionati e durante
una riunione di programmazione strategica nel 1991 venne presa la
decisione di perseguire una strategia di espansione mediante la creazione di filiali nelle varie municipalità della provincia di Batangas.
Il programma mirava a fornire servizi di deposito e di prestito ad
una clientela rurale, e si scelse di situarsi proprio nelle zone rurali a
discapito delle cità, supponendo che i clienti delle aree urbanizzate fossero già ampiamente serviti dalle numerose banche presenti,
mentre i clienti di villaggi e cità minori avessero bisogno di servizi
e cienti, analoghi ai prodoti offerti dalle banche commerciali (conto correnti, servizi di rimessa valutaria, ecc.) e non ne stessero beneficiando da altre banche rurali.
La più significativa concretizzazione di tale strategia (di espansione)
fu la decisione degli azionisti di maggioranza di trasformare la banca in un’impresa di Economia di Comunione (EdC).
3. La Ibaan Rural Bank e il progetto di Economia di Comunione
Il progeto di Economia di Comunione fu lanciato da Chiara Lubich,
fondatrice del Movimento dei Focolari, nel 1991, quando scendendo
dall’aereo a Sao Paolo, in visita alla comunità “focolarina” del Brasile, notò quante favelas circondavano i gratacieli della cità. Paragonandole alla corona di spine posta sul capo di Gesù, comprese che
era necessario un impegno maggiore da parte dei membri del Focolare verso i poveri, anche perché molti dei membri del movimento
proprio facevano parte di quei poveri. Nonostante ogni membro si
impegnasse a condividere i propri “beni” materiali e spirituali, mettendoli in comune come era prassi tra i primi Cristiani7 e a disposizione degli altri membri bisognosi della comunità, soddisfare le
necessità basilari di coloro che si trovavano in gravi di coltà non
era più su ciente. Pertanto la Lubich lanciò una sfida agli imprenditori impegnati nel movimento: convertire le loro imprese in enti
i cui profiti, invece che finire nelle tasche degli azionisti, fossero
destinati a tre diverse finalità: i bisogni dei poveri (a partire dalla
gente povera della comunità del Focolare); a favore di struture per
la formazione che assicurassero la continuità degli studi, coltivando
“La comunità dei credenti aveva un cuor solo e un’anima sola … Nessuno tra essi era bisognoso” (Atti degli Apostoli 4: 32-37).
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e fortificando questo nuovo orientamento aziendale (la cultura del
dare); ed infine a favore del reimpiego o reinvestimento di capitali
all’interno dell’azienda stessa, nell’intento di assicurare la sostenibilità e la crescita dell’impresa, essendo così in grado di provvedere
maggiormente ai primi due obietivi.
Il conceto di Economia di Comunione di Chiara Lubich fu rivoluzionario ed ebbe una risonanza immediata nei cuori della seconda
generazione di azionisti di maggioranza della Ibaan Rural Banc,
Inc., Francis e Teresa Ganzon, già membri del Movimento dei Focolari tanto da rivoluzionare la loro visione di azienda. Scoprirono
un rinnovato impegno nel lavoro, un nuovo tipo di gestione della
banca rurale, e come questo possedesse un incredibile potenziale a
beneficio del bene comune. Decisero, dunque, di adotare tale filosofia e, coerentemente, di costruire un’azienda che si allontanasse
dal tradizionale conceto di banca rurale come singola unità operativa. In questo modo, si poteva generare più occupazione, si poteva
estendere la copertura geografica dei servizi finanziari e sarebbero
aumentati i profiti da condividere nell’Economia di Comunione.
Due grandi sfide rimanevano da affrontare per compiere tale decisivo passo verso la trasformazione della Ibaan Rural Bank: maggior
capitale e maggiore know-how, poiché la direzione dei coniugi Ganzon non possedeva competenze né aziendali né finanziarie: Francis
era avvocato e Teresa giornalista. Essi capirono che per rendere concreta la visione di Economia di Comunione della Lubich, l’entusiasmo, le buone intenzioni e il duro lavoro non bastavano da soli, ma
occorreva anche aumentare know-how e capitale.
Ancilla, una società di consulenza aziendale nonché un’impresa di
EdC, subentrò e fornì gli strumenti e la formazione che la direzione
amministrativa della Ibaan Rural Bank necessitava per far crescere l’impresa. Questa esperienza di reciprocità tra Ancilla e la Ibaan
Rural Bank fu importante in quanto, unendo due imprese di EdC,
si rafforzò per entrambe l’adesione e la fiducia al nuovo paradigma
economico.
Rispeto al bisogno di ricapitalizzazione, nonostante il reinvestimento della maggior parte degli utili degli anni precedenti, l’espansione
richiedeva ancora quantità di capitale superiori a quanto gli azionisti di maggioranza potessero immetere nella banca. In maniera
provvidenziale (e i ripetuti “interventi della provvidenza”, da quel
momento in poi, sono stati un marchio della trasformazione della
Ibaan Rural Bank in un’impresa di EdC), il secondo più importante
ECONOMIA DI COMUNIONE, MICROFINANZA E IMPRESA SOCIALE: L’ESPERIENZA DELLA BANGKO KABAYAN,
Teresa Ganzon
azionista, sebbene socio di minoranza, avendo a sua disposizione
maggiori risorse finanziarie si offrì di prestare ai Ganzon il denaro necessario per adatare (pro rata) la loro quota di partecipazione all’aumento di capitale prospetato. Sebbene avesse offerto una
somma tale da renderlo di fato azionista di maggioranza, insistete
perché i coniugi Ganzon mantenessero la maggioranza e gli rimborsassero il denaro prestato senza una scadenza predeterminata, ma
esclusivamente in funzione della capacità della coppia di risanare il
debito.
Pertanto, nel 1991, in risposta a questa sfida, gli azionisti di maggioranza della Ibaan Rural Bank rivoluzionarono l’impresa, convertendola nell’odierna realtà imprenditoriale di sviluppo sociale che si affida alla strategia della mobilizzazione delle risorse. Il nuovo asseto
avrebbe dovuto consentire alla banca di offrire servizi alla comunità
rurale e destinare due terzi degli utili in favore di un’entità più vasta
e globale, rappresentata dalla comunità mondiale del Focolare.8
4. La Fondazione Ibaan Rural Bank, Inc.
Quasi contemporaneamente, la Ibaan Rural Bank costituì un nuovo
ente, la Ibaan Rural Bank Foundation, Inc., la cui finalità era la continuità dei progeti sociali sotoscriti dalla Ibaan Rural Bank nell’adesione
all’impegno dello sviluppo delle comunità locali in cui era presente
e di fato, la Fondazione mantenne l’atenzione su tale prospetiva
finale. Negli anni precedenti al 1991, la Ibaan Rural Bank aveva già
intrapreso programmi di borse di studio per aiutare studenti dotati,
ma indigenti nel farli proseguire sino ad un grado di istruzione secondaria e terziaria, con la speranza che questi, a loro volta, terminati gli studi, potessero aiutare sia le famiglie che la comunità. Questo
è ciò che spinse la Fondazione a perseguire ed estendere la copertura di tali programmi di borse di studio. In qualità di istituzione
finanziaria locale, contribuì generosamente ai progeti della Chiesa e
del Governo locale mediante un supporto finanziario9. Inoltre, diede
vita e divenne promotrice di atività della comunità come il “forum
dei candidati e dei gruppi”, il cui intento era favorire il dialogo tra
Direttamente alle famiglie e persone bisognose o alle strutture della comunità (piccole città,
zone industriali, centri di formazione), dedite alla testimonianza, allo studio e alla formazione
della cultura di comunione e unità.
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Durante le elezioni, la Ibaan Rural Bank supportò il NAMFREL locale (Movimento Nazionale
per le Libere Elezioni) con locali, personale, computer e materiali vari a servizio della COMELEC (Commissione sulle Elezioni) quale braccio cittadino.
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differenti partiti politici e gruppi di interessi persino durante periodi
di forti divisioni eletorali, in modo tale che programmi politici diversi potessero comunque convivere in un’atmosfera di rispeto e di
ricerca del bene comune. Ancora una volta, il desiderio di utilizzare
il prestigio e lo status di comunità a servizio della ricerca del dialogo, ha rappresentato una svolta significativa per la Fondazione e la
Ibaan Rural Bank come istituzioni locali.
5. La crisi finanziaria asiatica del 1998
In occasione del suo quarantennale, la Ibaan Rural Bank adotò l’attuale ragione sociale di Bangko Kabayan, sentendosi pronta a compiere il processo di espansione al di fuori della provincia di Batangas e all’interno di altre aree della Regione 4. Aveva conseguito una
crescita fenomenale (passando da 50 milioni di peso nel 1991 ad 1
miliardo di peso nel 1997), principalmente grazie ad un’aumentata
fiducia da parte dei depositanti a cui la banca si era assiduamente
“dedicata” negli anni atraverso l’orientamento verso il servizio al
cliente ed il management delle relazioni. Tutavia, la crisi finanziaria
del 1998 lasciò il segno portando a numerosi fallimenti aziendali. Fu
solo in questo momento che la Bangko Kabayan si rese conto che le
sue procedure di concessione dei crediti non erano così solide e che
la banca aveva investito in prestiti senza un’adeguata valutazione
dei rischi e senza un’appropriata conoscenza e analisi della capacità
di restituzione dei mutuatari. Il vecchio sistema di concessioni di
prestiti, vincolato alle garanzie accessorie, era stato applicato di nuovo, ma questa volta a quantità di denaro elevate in virtù di progeti
che la banca non aveva saputo analizzare con il su ciente know-how
tecnico.
Pertanto un’ingente quantità di quei prestiti andò insoluta. Fortunatamente, questi erano coperti da proprietà immobiliari che la banca
fu costreta a pignorare e iniziò a vendere, per poter sopravvivere
alla crisi così come avrebbe fato una normale istituzione finanziaria. L’atenzione venne quindi interamente rivolta alla lota alla crisi
- recuperando vecchi prestiti dovuti, limitando i crediti quasi unicamente a clienti privi di rischi, gestendo nell’ambito di ridoti volume
d’affari e liquidando un’enorme quantità di immobili acquisiti come
asset. Oggigiorno, queste preoccupazioni sono ancora fortemente
tangibili, e la quantità di asset acquisiti resta una preoccupazione
della banca anche per il suo statuto di impresa finanziaria soggeta a
ECONOMIA DI COMUNIONE, MICROFINANZA E IMPRESA SOCIALE: L’ESPERIENZA DELLA BANGKO KABAYAN,
Teresa Ganzon
regolamentazione, in modo particolare nel conformarsi alle prescrizioni sempre più rigide imposte dalla Bangko Sentral ng Pilipinas
nel tentativo di fortificare il sistema bancario.
Nonostante la Bangko Kabayan stesse incassando i vecchi prestiti e
vendendo gli asset acquisiti, l’atenzione doveva comunque essere
posta a generare ricavi e quando anche i processi di acquisizione del
credito migliorarono, la quantità dei clienti sicuri, per lo meno all’interno del setore della piccola e media impresa che sino ad allora
aveva rappresentato il nucleo dei mutuatari della Bangko Kabayan,
si ridusse ad un numero esiguo e prezioso. A fronte della domanda
di concessione di nuovi mutui, solo pochi progeti rispetavano i requisiti di fatibilità e di capacità di restituzione.
6. L’ingresso della Bangko Kabayan nella microfinanza
In una situazione di volumi d’affari ridoti, fu la base di deposito
stabile, coltivata e nutrita negli anni atraverso sincere relazioni di
reciprocità verso i clienti, che salvò la Bangko Kabayan in termini
di liquidità. Ciò nonostante la banca si trovava ancora in assoluta
necessità di aumentare i prestiti, pena l’insorgere di perdite per un
buon numero di anni.
Vennero esaminate varie alternative. Nonostante la crisi, alcune
banche erano cresciute offrendo conti stipendi e prestiti al consumo
alla categoria degli insegnanti. La Bangko Kabayan richiese e otenne l’accreditamento al Ministero dell’Istruzione incaricato di questo
progeto. Tutavia, alcuni burocrati richiesero, a titolo personale, una
“commissione extra” oltre la somma legale. Questa “commissione
extra”, anche definita percentuale per “instaurare relazioni”, era
una prassi aziendale comune per assicurare i fondi. Coerentemente
con l’impegno sotoscrito nella EdC, che tra i vari punti, comprende
l’impegno di trasparenza e le pratiche di eticità, la banca decise di
non accetare tale offerta e di continuare a cercare alternative coerenti alla visione e alla missione scelta, ovvero uno sviluppo rurale
catalizzatore.
Nel fratempo, il termine “microfinanza” risuonava sempre più nel
setore finanziario, anche se per molti anni solo le organizzazioni
non governative offrivano tale servizio. Questo consisteva nella concessione di piccoli prestiti variabili da 2.000 a 150.000 peso, svincolati da gravose garanzie, a favore di segmenti di popolazione considerati altamente rischiosi o anche deti “non bancabili”. Essendo
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comunemente considerato un programma sociale, fu la Ibaan Rural
Bank Foundation che inizialmente ne esplorò la fatibilità, concedendo prestiti ad un gruppo-pilota di donne marginalizzate che vivevano nelle aree più lontane (rispeto al centro della cità).
In soli due anni, tutavia, la quantità inizialmente stanziata per la microfinanza (150.000 peso - 2,500 euro circa) venne triplicata e i clienti
salirono a 500. Questo fato, supportato dalle esperienze condivise
da alcuni generosi banchieri rurali che si resero pionieri del progeto
Grameen di microfinanza, spinse la Bangko Kabayan a trasformarlo
in un prodoto finanziario regolare.
Tale decisione richiese un impegno istituzionale e manageriale sostanziale sino a cambiamenti fondamentali di molte aree operative:
assumere più personale, fornire maggiore formazione, sopratuto ai
funzionari amministrativi il cui lavoro prevedeva molte ore in quel
setore, progetazione di nuove procedure adate alle piccole, ma frequenti transazioni di microfinanza, investire in hardware e sotware
ati all’individuazione di frodi, e sopratuto spostare la mentalità
tradizionale imperniata sulla necessità di garanzie - presente da oltre 30 anni come sistema tradizionale di concessione prestiti - verso
il riconoscimento di altre forme di capitale (come, ad esempio, il capitale sociale costruito grazie alla vicinanza e il contato costante con
i clienti), confidando in esse.
Con il tempo, stava silenziosamente accadendo una significativa trasformazione dell’asseto della Bangko Kabayan: questi micro prestiti
stavano lentamente dando una nuova dimensione a clienti cosiddetti “non bancabili”, persone sostanzialmente povere e indigenti. Attraverso questi micro prestiti, esenti da garanzie accessorie, la banca
stava apponendo un imprescindibile marchio di fiducia, ponendo le
basi per costruire e rafforzare il capitale sociale sia della banca che
dei clienti.
Questi prestiti fornirono ai micro imprenditori il sostegno e la fiducia necessari per avviare piccole atività domestiche, per scoprire e
sfrutare nuove opportunità per generare introiti. Contemporaneamente alla crescita di queste atività, i micro imprenditori erano in
grado di sostenere se stessi, le proprie famiglie e di guadagnare autostima. Simultaneamente al successo delle loro atività, imparavano
a gestire metodicamente i propri guadagni e a restituire i prestiti.
Nel contempo all’aumento dei guadagni, apprendevano il valore del
risparmio e iniziavano ad assumersi la responsabilità del proprio
destino finanziario.
ECONOMIA DI COMUNIONE, MICROFINANZA E IMPRESA SOCIALE: L’ESPERIENZA DELLA BANGKO KABAYAN,
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Mediante incontri di gruppo regolari tenuti da funzionari amministrativi, i clienti, principalmente donne, impararono ad aiutarsi
vicendevolmente - in maniera positiva incoraggiandosi e, negativa, cedendo alle pressioni dei propri pari; sperimentarono il potere
dell’unità e scoprirono che in esso risiede la forza. Parlando all’unisono, impararono ad esercitare pressione su funzionari locali per ottenere i servizi che meritavano.
Cambiando il tipo di clientela, la banca a sua volta cambiò il modus
operandi aziendale. I clienti preferiti della Bangko Kabayan divennero i micro agricoltori, piccoli o medi imprenditori, e le loro necessità
divennero la base di studio per capire quali ulteriori servizi finanziari la banca potesse offrire. Divenne così un obietivo aperto quello
di fornire loro - tramite i prodoti e servizi bancari - l’opportunità, i
mezzi e gli strumenti per diventare produtivi, autonomi e da ultimo, finanziariamente indipendenti.
Questa esperienza confermò l’intuizione secondo cui quando un’impresa si trasforma in uno strumento per l’uomo, questa mete in
moto un processo che genera, non solo un’incalcolabile quantità di
bene, ma anche il vero meccanismo capace di assicurare all’azienda
sopravvivenza, crescita e prosperità.
Oggi, aiutando i non bancabili - i mutuatari ad alto rischio senza
accesso ai prestiti - si interrompe la catena di povertà, perché la banca consente loro di alzare il tenore di vita e il potere d’acquisto. In
questo modo, il cliente non bancabile di oggi si converte nel cliente preferito di domani, in quanto in grado di acquistare per sé, per
la propria famiglia e per la propria impresa sempre più prodoti e
servizi della Bangko Kabayan, diventando così un catalizzatore di
crescita della cerchia di impiegati, amici e associati della banca.
Oggi, infati, questo sta già accadendo poiché i clienti della Bangko
Kabayan stanno rispondendo con fiducia e benevolenza. In una recente esperienza, quando il setore bancario rurale ha subito un calo
di fiducia pubblica in seguito alla chiusura di due banche rurali nella
stessa provincia a causa di azioni fraudolente, è stato il contributo
dei clienti di microfinanza della stessa comunità in cui il panico stava dilagando, ad aiutare a sfatare le dicerie che tute le banche rurali,
compresa la Bangko Kabayan, stessero per chiudere. Forti di questo
rapporto di reciprocità, il “sostegno del capitale sociale” ha consentito alla banca di uscire dalla crisi con la massima fiducia.
Lo stesso evento ha offerto alla direzione amministrativa della Bangko Kabayan l’opportunità di metere in pratica un preceto dell’EdC:
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tratare tuti i portatori di interesse, compresi i concorrenti, con rispeto e trasparenza. I dirigenti di Bangko Kabayan si sono coinvolti in un’azione colletiva (in collaborazione con altre banche rurali
della zona), per otenere (nella massima trasparenza) il sostegno dei
funzionari governativi a nché venisse frenato l’istinto generale della gente di ritirare i depositi dalle banche rurali.
Oggi, oltre 70 impiegati sono impegnati nella concessione di microcredito. I prestiti di microfinanza provvedono ad oltre 8.000 clienti e
rappresentano il 12% del portafoglio prestiti della Bangko Kabayan
(dati di giugno 2009). Questo si traduce in 90 milioni di peso (1.5
milioni di euro) di prestiti non coperti da garanzie. Il 97% delle rate
sono ripagate puntualmente e le cancellazioni sono state inferiori
all’1% nel corso degli oto anni in cui la banca ha continuato ad offrire prodoti micro finanziari.
Questi 8.000 clienti sono riusciti ad accumulare 60 milioni di pesos
(1 milione di euro) in depositi e questa esperienza, senza precedenti,
ha dato loro gioia e fiducia in quanto ha fato loro sperimentare che
nonostante le modeste dimensioni dell’atività economica e la condizione di poveri, la capacità di risparmiare era alla loro portata.
Iniziando con due programmi base di microfinanza (programmi per
prestiti di gruppo o individuali), la banca ha, oggi, aggiunto tre nuovi prodoti, che consentono ai mutuatari di richiedere prestiti più
elevati per le proprie imprese e per l’istruzione dei figli. È atualmente in fase di sperimentazione un prodoto pilota di microfinanza
abitativa.
Viene perseguita una strategia graduale, che segue lo sviluppo dei
clienti di microfinanza passando da un programma iniziale di gruppo ad una maggiore indipendenza nei programmi singoli e, infine,
quando le atività crescono e raggiungono la dimensione di “grandi” piccole e medie imprese (negli ultimi oto anni questo stadio è
stato raggiunto dal 5% dei clienti), gli imprenditori sono in grado
di assumere personale e di generare occupazione all’interno delle
proprie comunità.
In collaborazione con un’azienda di telecomunicazioni, sono stati
ativati servizi bancari di telefonia mobile per permetere alla banca
di contatare clienti che vivono in aree molto distanti e che, da oggi,
possono ripagare i prestiti tramite gli sms.
Oltre 200 banche rurali del paese si sono allineate a questa filosofia,
fungendo da pionieri dei prestiti di microfinanza. Oggi è questo il
comparto che elargisce microcredito al maggior numero di clienti,
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unendo il know-how della banca, la gestione del rischio e la mobilizzazione di fondi a basso costo all’impegno di sviluppo sociale sostenibile ad ampio raggio; questa evoluzione consente alle banche
rurali di migliorare la propria posizione di istituzioni finanziarie,
grazie agli utili “sani” provenienti dai programmi di prestito.
Dal 1991, anno in cui Chiara Lubich annunciò per la prima volta
la sua profetica visione di Economia di Comunione, la Bangko Kabayan è profondamente cambiata; da un unico u cio, oggi vanta
quatordici filiali; dai 21 impiegati del 1990, agli atuali 250 tra staff e
dirigenti diventati anche soci nella realizzazione di un tipo differente di organizzazione aziendale caraterizzata da grande fraternità e
condivisione, sia nei confronti del proprio personale che della comunità. I 50 milioni di peso dell’unica sede sono diventati nel fratempo
1.6 miliardi di peso di asset gestiti.
Per cinque anni consecutivi alla Bangko Kabayan è stato conferito
un riconoscimento nazionale per essere una della principali banche
rurali delle Filippine nel setore della microfinanza. La base del successo è sempre stata costituita dai valori che la Bangko Kabayan si è
assunta come impresa. Tra questi ne emergono tre in particolare: (1)
il costante impegno nel costruire unità e reciprocità con tuti i portatori di interesse - clienti, impiegati, fornitori, soci, Governo, agenzie pubbliche, comunità e concorrenti; (2) l’impegno ad essere un
partner fedele per lo sviluppo delle aree rurali; (3) per molti membri
della banca, la profonda e totale fiducia della presenza di Dio nella
banca, che accompagna le atività aziendali quotidiane.
Come una bussola, i principi dell’EdC oggi guidano i dirigenti della
Bangko Kabayan, conducendoli con sicurezza atraverso la di coltosa gestione delle pratiche aziendali. Oltre alla richiesta di condivisione degli utili, l’EdC mantiene la Bangko Kabayan fortemente
ancorata alle correte procedure gestionali dell’impresa di fronte alle
sfide odierne: pratiche quali l’eticità delle decisioni e la ricerca di
consensi; il rispeto per i diriti e la dignità umana; la salvaguardia
dell’ambiente e la creazione di relazioni di reciprocità a lungo termine con tuti i portatori di interesse.
7. La Bangko Kabayan come impresa sociale
Recentemente la Bangko Kabayan, considerata la sua localizzazione, ha deciso di servire con maggior enfasi il mercato delle micro
piccole e medie imprese, che rappresenta il suo naturale e legitimo bacino d’utenza. Si è avvertita la necessità di acquisire nuove
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competenze per diventare ancora migliori nell’atività di offerta di
credito rurale, in particolare nei confronti di clienti di microfinanza e di piccole-medie imprese, nella consapevolezza che le atuali
capacità di atirare depositi e di offrire servizi finanziari aggiuntivi
rappresentano un grande vantaggio competitivo, poiché consentono di produrre le proprie risorse a costi inferiori e di adeguare il
servizio di accesso al credito in funzione dei bisogni di un’allargata
base di mutuatari.
Tra gli atuali clienti della Bangko Kabayan troviamo una delle più
grandi cooperative saccarifere nonché altre istituzioni finanziarie
rurali. Questo offre alla banca la possibilità di erogare prestiti all’ingrosso aggiuntivi a cooperative associate e ad organizzazioni non
governative, in particolare grazie all’e cienza della Bangko Kabayan nel mobilizzare fonti di rifinanziamento a buon mercato, come i
depositi a risparmio.
In conclusione, la Bangko Kabayan si considera un’impresa sociale
in virtù del suo impegno a realizzare due strategie.
1. come istituzione aziendale, in quanto istituto di credito rurale,
è principalmente impegnata nella concessione di depositi, di
crediti e di altri servizi finanziari destinati alla popolazione rurale dei territori in cui opera. In altri temini, la Bangko Kabayan
è impegnata nella “intermediazione funzionale” e da questo
momento in poi dovrà essere sempre più consapevole del suo
ruolo e del suo impato, per stabilire il grado di raggiungimento della propria missione. È, tutavia, consapevole che esistono
obblighi e regolamentazioni da rispetare, indicatori da migliorare per poter continuare ad operare come un’istituzione finanziaria rurale credibile. La capacità di misurazione dell’impatto nell’area di intervento rimane una competenza da costruire
per la Bangko Kabayan. Dalla sua ha però un chiaro vantaggio
in termini di know-how e competenza nella mobilizzazione dei
risparmi, non solo della popolazione locale, ma anche di altri
portatori di interesse che desiderano essere atori di un’impresa etica, il cui obietivo è migliorare le condizioni di marginalizzazione di molti, ma anche di rispondere diretamente alle
esigenze primarie dei poveri grazie ai suoi utili.10 Così facendo,
la Bangko Kabayan utilizza la strategia di “mobilizzazione delle risorse”;
10
Questo avviene sia attraverso l’allocazione del 3% dell’utile della banca (al netto delle imposte) alla Ibaan Rural Bank Foundation, sia tramite la destinazione dei dividendi spettanti agli
azionisti di maggioranza al progetto EdC.
ECONOMIA DI COMUNIONE, MICROFINANZA E IMPRESA SOCIALE: L’ESPERIENZA DELLA BANGKO KABAYAN,
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2. il secondo obietivo strategico riguarda la questione dell’assegnazione della proprietà delle azioni della banca ad altri portatori di
interessi (a partire dai funzionari e dallo staff che compongono la
Bangko Kabayan) e alla popolazione rurale (dove, nella migliore delle ipotesi, è pensabile una forma di “intermediazione progressiva”, verso un asseto in cui meno del 50% dell’impresa sia
in mano ad azionisti primari). Al momento atuale si registrano
più di 400 azionisti della Bangko Kabayan. Tra questi, ecceto il
gruppo degli azionisti di maggioranza (due famiglie possiedono
tutora il 90% delle azioni), si trovano molti funzionari e lavoratori della banca, ma anche membri della comunità di Ibaan, luogo
dell’iniziale sede della Bangko Kabayan. Questo è il risultato del
pensiero dei sui padri fondatori, che sin dall’inizio auspicarono la
partecipazione della comunità locale nella proprietà dell’istituto,
anche se in proporzioni limitate, come conseguenza della capacità
da parte di ulteriori azionisti di aumentare il capitale necessario
ad ogni fase di espansione della banca. Nel periodo di crescita, tra
il 1991-1995, la seconda generazione di azionisti di maggioranza
contemplò anche la partecipazione del personale della banca nella
proprietà stessa, con lo scopo di incrementare la consapevolezza
che lavorare per la banca non significasse solo lavorare per un ente
bensì lavorare per se stessi e per la propria comunità. Tutavia, la
supposizione che la proprietà di azioni e l’otenimento di dividendi su base annua sarebbe stata su ciente per offrire soddisfazione e impegno nel lungo periodo, sia da parte degli azionisti della
comunità che dei funzionari o dello staff della Bangko Kabayan, si
dimostrò errata. Gli azionisti di minoranza furono atrati dall’immediato guadagno ricavabile dalla negoziazione e dalla vendita
di tali azioni, in alcuni casi quatro volte superiore il valore di acquisto. In momenti di contingenza, anche funzionari storici della
Bangko Kabayan vendetero le proprie azioni ad altri membri o
impiegati della comunità, in modo da monetizzare l’incremento
di valore delle proprie partecipazioni. Siccome questa non era la
finalità di co-proprietà dell’impresa, i vantaggi delle stock option e
del relativo progeto sono stati sospesi per consentire studi più approfonditi e per rendere questi strumenti maggiormente rispondenti alle preoccupazioni finanziarie dei soci e al desiderio degli
azionisti di maggioranza di allargare la base della proprietà al fine
di creare una comunità più ampia di persone coinvolte che beneficino degli utili della banca, ma che nel contempo contribuiscano
alla divulgazione della cultura del dare e di comunione.
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La Bangko Kabayan sarebbe infine disponibile a convertire centri
femminili di microfinanza in cooperative per renderli indipendenti dal suo controllo amministrativo, acquisendo la necessaria competenza per la gestione del credito e della multifunzionalità della
cooperativa. Assegnare il controllo e una maggior quota di utili ai
centri stessi è la direzione auspicabile, anche se molto dipenderà dal
ruolo di “costruzione delle capacità” nel setore della microfinanza,
a dato alla Ibaan Rural Bank Foundation e tutora in fase di consolidamento.
Chi sono gli atori principali della Bangko Kabayan in quanto impresa sociale? Come entità aziendale i principali atori sono:
• il Consiglio di amministrazione, che decide le diretive e le politiche che la banca intraprenderà;
• i funzionari e gli impiegati, il cui impegno è necessario per rendere servizi e cienti e onesti, in modo tale da conservare la fedeltà e la fiducia dei clienti, siano essi depositanti o mutuatari;
• i clienti, depositanti o mutuatari, pensionati o destinatari di rimessa valutaria - l’intera popolazione rurale, il cui supporto è
indispensabile alla banca per poter generare e mantenere i fondi che canalizza come prestiti per i micro clienti delle piccole
e medie imprese, ora identificati come il suo target di mercato
principale;
• le possibili cooperative, le organizzazioni non governative, le
organizzazioni commerciali, le agenzie governative con cui la
banca può instaurare alleanze strategiche in termini di offerta di
servizi congiunti in favore dei suoi membri/beneficiari finali;
• la comunità del Focolare, locale ed internazionale, che offre non
solo la motivazione e la chiarezza rispeto alla distribuzione degli
utili, ma anche il supporto, a livello finanziario, tecnico e culturale, per consentire alla Bangko Kabayan di conseguire una vera
trasformazione in un’impresa di sviluppo sociale e Cristiano.
La principale filosofia aziendale della Bangko Kabayan continuerà
ad essere la fornitura di significativi servizi finanziari - micro prestiti, prestiti per piccole aziende, servizi di conti correnti e depositi
a risparmio, servizi di rimessa valutaria, prodoti micro assicurativi,
mutui pensionistici, ecc. - a favore della clientela rurale. Il sogno della direzione della banca è stato quello di portare i più recenti servizi
finanziari ai clienti rurali (compresi i punti bancomat e altri servizi
tecnologici) con lo stesso grado di e cienza che ci si aspeta da una
banca commerciale, ancorché resi in modo più personalizzato e con
ECONOMIA DI COMUNIONE, MICROFINANZA E IMPRESA SOCIALE: L’ESPERIENZA DELLA BANGKO KABAYAN,
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una maggiore comprensione delle esigenze e delle realtà di clienticonsumatori e delle piccole imprese. Quest’atività fornirà alla direzione i mezzi finanziari per intraprendere servizi complementari,
atraverso la Ibaan Rural Bank Foundation, il cui budget dipenderà
dai profiti generati dalla banca. Tuto ciò, nell’otica dell’adesione al
progeto più grande dell’EdC.
Atraverso la Ibaan Rural Bank Foundation, la Bangko Kabayan
vorrebbe sviluppare le capacità delle donne all’interno dei centri
di microfinanza, così come delle piccole imprese di microfinanza,
mediante la cooperazione con altre organizzazioni che abbiano le
competenze nel setore della costruzione di capacità e di sviluppo
della piccola impresa. Facciamo soltanto un esempio. Riconoscendo l’assenza di un progeto di smaltimento rifiuti sostenibile nelle
campagne, la Bangko Kabayan vorrebbe esplorare tale possibilità,
assieme alla Ibaan Rural Bank Foundation e in partenariato con i
centri femminili creati dalla banca, per diventare catalizzatori di
questo sforzo, cercando di dar vita al progeto di differenziazione
dei rifiuti e di riciclo, facendo di questa atività un’ulteriore atività
imprenditoriale che possa contribuire al sostegno e al rafforzamento
di centri più lontani delle baranggays (n.d.t.11) dove sono ativi uno o
più centri.
11
All’interno della provincia, è la più piccola unità di governo locale.
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Il Polo Lionello come distretto
dell’economia civile?
Nicolò Bellanca, Renato Libanora, Enrico Testi1*
Sommario
1. Una distretualizzazione del terzo setore? - 2. L’EdC e il Polo Lionello - 3. Sulle insidie
del percorso di distretualizzazione
1. Una distrettualizzazione del terzo settore?
Accanto al setore capitalistico e a quello pubblico, il “terzo setore”
include, quali principali tipi di atività economica, l’impresa nonprofit e quella cooperativa. La discussione teorica ha posto in evidenza
alcune di coltà evolutive per entrambe le popolazioni d’impresa.2
Questa ricerca, frutto di un’elaborazione comune, è attribuibile, in questa sua stesura, a Bellanca per i par. 1 e 3; a Libanora e Testi per il par. 2. Ringraziamo gli studenti della laurea magistrale
in Economia dello sviluppo avanzata di Firenze Serena Barbacetto, Raffaele Bertini, Francesca
Bracali, Marina Ciceri e Giovanni Federighi, per il decisivo contributo alla ricerca. Ringraziamo i
dirigenti e gli operatori del Polo Lionello per la gentile disponibilità. Siamo grati per i confronti
su questi temi a Giovanni Avogadri, Stefano Bartolini, Giacomo Becattini, Mario Biggeri, Ugo
Biggeri, Luigino Bruni, Luca Crivelli, Vittorio Rinaldi e Stefano Zamagni: con alcuni di loro il
colloquio dura ormai da molti anni. Desideriamo infine ringraziare la Fondazione Responsabilità
Etica di Banca Popolare Etica per avere co-finanziato la ricerca “Ripensare le metodologie di
valutazione e le pratiche partecipative degli interventi delle associazioni nonprofit in Italia”, in cui
questa indagine e riflessione si collocano, nonché EconomEtica, per averci fornito un sostegno
integrativo. La responsabilità di quanto scritto è ovviamente degli autori.
2
Non essendo questa una rassegna dell’intero dibattito, ci concentriamo su alcuni punti di
criticità. Per un’illustrazione dei punti di forza delle imprese del terzo settore, rinviamo per
tutti a Angeloni, 1996.
1∗
IL POLO LIONELLO COME DISTRETTO DELL’ECONOMIA CIVILE?
Nicolò Bellanca, Renato Libanora, Enrico Testi
Cominciamo dall’impresa cooperativa. Lo scopo mutualistico della
cooperativa dovrebbe consistere nel retribuire meglio il lavoro dei
soci e/o nel migliorare le loro condizioni di lavoro: il surplus generato dall’impresa - la differenza tra i ricavi e il monte salari - dovrebbe
tradursi in salari superiori a quelli previsti dal contrato colletivo
nazionale, oppure nel pagamento del ristorno,3 o infine in un elevamento della qualità del lavoro. In realtà, i soci tendono spesso a
massimizzare la continuità organizzativa, anche mediante il cosiddeto autosfrutamento, che è la non corresponsione di parte dei salari o dei ristorni e che quindi nega proprio lo scopo mutualistico.
Mediante l’esercizio colletivo (per delega ai manager) della funzione
imprenditoriale, i soci tendono a contrastare anzituto i pericoli di
fallimento dell’impresa, costituendo in proprietà indivisa un patrimonio di mezzi propri, piutosto che impegnarsi a decidere dentro
percorsi incerti di cambiamento. Ma se la stabilità del posto di lavoro appare sovente l’obietivo prioritario dei soci, ciò segnala una
seconda di coltà: le imprese cooperative appaiono inferiori rispeto
a quelle capitalistiche sul versante dell’e cienza dinamica e della
spinta innovativa. Una terza di coltà riguarda la capacità di autofinanziarsi: i soci sono restii a reinvestire tuti gli avanzi nell’impresa
da cui già traggono il reddito da lavoro, e da cui non possono facilmente uscire, preferendo diversificare il rischio; ma ciò porta ad
una cronica sotocapitalizzazione. Peraltro, a misura che si verifica
la carateristica di minore e cienza appena ricordata, s’indebolisce la possibilità di ovviare alla sotocapitalizzazione con la ricerca
all’esterno dei capitali, poiché i finanziatori tenderanno a non preferire queste imprese, razionando loro il credito e rendendoglielo più
costoso. Una quarta di coltà sorge poiché, quando una cooperativa
guadagna, gli insider tendono a non accetare nuovi soci, preferendo
assumere semplici salariati;4 se poi il socio uscente non riceve una
Richiamiamo alcuni noti concetti. L’utile lordo è lo scarto tra ricavi totali e costi totali; detraendo le imposte e le tasse, abbiamo l’utile netto. Togliendo la parte accantonata a riserva,
l’utile netto può essere distribuito sotto forma di dividendi o di ristorni. Mentre i dividendi
sono una remunerazione del capitale, e vengono ripartiti in proporzione al capitale conferito
da ognuno, i ristorni sono erogati ai soci in proporzione alla retribuzione percepita, oppure,
se si tratta di una cooperativa di consumo, in proporzione all’esborso effettuato dai soci per
l’acquisto di beni o servizi.
4
Ciò accade soprattutto nelle cooperative di lavoro e contrasta con il “principio della porta
aperta”, secondo il quale l’ingresso dei nuovi soci non può essere limitato per Statuto. Di fatto,
la contraddizione viene risolta stabilendo che i nuovi soci debbono ottenere l’accettazione da
parte dei soci esistenti, o addirittura da parte degli amministratori dell’impresa cooperativa, in
quanto delegati dai soci.
3
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quota di capitale d’impresa, può esservi un interesse, da parte dei
soci sopravvissuti, a chiudere sempre più la cooperativa, riducendo
la dimensione d’impresa, per fruire in pochi di una posizione acquisita. Una quinta di coltà segnala che una parte delle imprese cooperative - quelle tra soci imprenditori - conseguono vantaggi che sono,
ad ogni effeto, dei plusprofiti: ciò accade, ad esempio, quando una
cooperativa per l’esportazione di prodoti agricoli compera dai soci
ad un maggior prezzo, rispeto a quello praticato sul mercato. Qui
la differenza tra queste imprese e quelle lucrative tende a svanire.
È importante infine menzionare una sesta di coltà, malgrado essa
non abbia, diversamente dalle altre, uno streto caratere economico:
nelle regole costitutive dell’impresa cooperativa non vi è nulla che
smantelli le gerarchie organizzative interne; ciò facilita, a dispeto
della proprietà formale dei lavoratori,5 l’affermarsi di leadership manageriali con comportamenti poco distinguibili rispeto a quelli dei
manager capitalistici. L’empowerment resta debole. “I soci vengono
chiamati, una volta all’anno, ad approvare o a disapprovare il bilancio consuntivo; essi non sono chiamati, invece, a decidere le scelte
future dell’impresa mutualistica, che vengono rimesse alla discrezione degli amministratori e delle quali costoro risponderanno solo
al termine dell’esercizio sociale. Si asseconda così un fenomeno di
‘delega del potere’, che lascia insoddisfate quelle istanze di partecipazione di base che pure sono tra i motivi ispiratori del movimento
cooperativo” (Galgano, 1980, pp. 248-249).
Passiamo alle di coltà dell’impresa nonprofit. Essa si forma quando il donatore, non consumando diretamente i beni e servizi che
offre ad altri, fronteggia un’asimmetria informativa, ossia ignora sistematicamente la qualità di ciò che finanzia. In queste condizioni,
se l’impresa avesse uno scopo di lucro, guadagnerebbe al ridursi
della qualità dei beni e servizi prodoti; ma anche se l’impresa fosse cooperativa, potremmo avere un interesse dei soci a ridurre la
qualità per elevare l’utile da ridistribuire. Soltanto se all’impresa è
vietato ripartire tra i propri membri qualsiasi tipo di beneficio, essa
può gestire il dono con gli incentivi appropriati (per il donatore)
(Hansmann, 1980; Mori, 2008). Il profito svolge tutavia la funzione
di meccanismo che lega le ricompense interne a precisi risultati: la
sua mancanza svincola i manager dal controllo di azionisti esigenti,
5
Stabilire per Statuto che tutti i lavoratori sono soci su un piede di parità, e che si effettua
il profit sharing, ossia la suddivisione dell’utile netto prodotto tra i lavoratori, non implica la
scomparsa di una forma gerarchica di organizzazione d’impresa, né l’assenza di controllo
verticale (cioè esercitato da un controllore che non lavora lui stesso) sui lavoratori.
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rendendoli meno e cienti. Si aggiunga che se la qualità dei beni
e servizi è poco accertabile, come nel caso dei beni culturali o dei
servizi alla persona, l’impresa ha di coltà a stabilire criteri per autovalutare le proprie prestazioni, così come il mercato ha di coltà
a generare una selezione competitiva. Ciò rafforza l’inerzia organizzativa, in cui molteplici interessi - amministratori, dipendenti, finanziatori privati, utenti - sono poco pungolati e verificati, dall’interno e dall’esterno dell’impresa, e tendono a paralizzarsi a vicenda
(Horch, 1994; Meyer, 1989; Ranci, 1999). In terzo luogo, se in una fase
“eroica” iniziale le risorse sono reperite nella logica del dono, ovvero sopratuto mediante il volontariato e la beneficenza, il processo
d’istituzionalizzazione solleva pesanti contraddizioni. Il lavoro volontario, portatore di slanci entusiastici, non può essere piegato a
qualsiasi impiego e spesso non è adeguatamente qualificato; esso va
quindi in parte rimpiazzato con lavoro professionale che, remunerato ai prezzi di mercato, non di rado esprime motivazioni diverse da
quelle che hanno ispirato l’impresa. L’esigenza di rispondere alle responsabilità gestionali, per assicurare un funzionamento quotidiano
a dabile dell’impresa, comporta inoltre l’introduzione di regole di
comportamento “rigide”, che atenuano la centralità delle relazioni informali e personali e allontanano gli idealisti e gli innovatori.
D’altra parte con l’espandersi dell’impresa, o anche col semplice trascorrere del tempo, i fondi donati da benefatori e dai membri non
bastano; occorre rivolgersi a finanziatori esterni, che possono avere
sensibilità e obietivi non coincidenti.
Sono questi, in maniera estremamente sommaria, alcuni termini critici del dibatito sul terzo setore. Si trata di di coltà che toccano la
“singola” impresa cooperativa o nonprofit; ma cosa avverrebbe se
sperimentassimo un “coagulo” di simili imprese, ossia se provassimo ad approntare una sorta di cluster o di distreto industriale del
terzo setore? Prima di esaminare un importante tentativo pratico in
questa direzione, introduciamo alcune considerazioni teoriche.
Il punto cruciale del fito dibatito intorno ai distreti industriali e
ai cluster, riguarda la tesi secondo cui questi organismi riescono a
supplire gran parte delle debolezze delle singole imprese che li costituiscono (Viesti, 2003). Nella stessa direzione si consuma la scommessa di quello che possiamo denominare “distreto mutualistico e
solidale”,6 composto da una combinazione di imprese cooperative,
I termini “mutualismo” e “solidarietà” rinviano a due differenti strutture organizzative: nell’un
caso si ha una coincidenza tra i decisori ultimi e i beneficiari dei beni e servizi, mentre nell’altro una parte del surplus è destinata a beneficiari diversi dai lavoratori-investitori, e che non
6
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nonprofit e perfino for-profit purché “socialmente responsabili”.7
Nei riguardi delle di coltà, appena richiamate, per i vari tipi d’imprese che popolano il terzo setore, le migliorie potenzialmente apportate da un distreto mutualistico e solidale fanno leva su quatro
elementi. Il primo riguarda il matching delle competenze: “La mia
produtività come lavoratore è tanto più alta quanto più è qualificato il mio collega. [...] Un chirurgo indiano riceverà una retribuzione
più alta dove potrà collaborare con infermieri, anestesisti, radiologi,
personale tecnico, contabili e receptionist qualificati. Preferirà recarsi negli Stati Uniti [...]. Se i lavoratori qualificati possono muoversi
liberamente, allora essi tenderanno a radunarsi in luoghi in cui possono unirsi a un gran numero di altri lavoratori qualificati. L’economia sarà caraterizzata perciò da forti concentrazioni di lavoratori
qualificati in pochi luoghi, circondati da distese di lavoratori poco
qualificati” (Easterly, 2006, pp. 193, 194, 196). In termini più ampi,
la stessa logica può venire così declinata: chi è animato da certi valori ideali e da certe motivazioni intrinseche, prova gratificazione a
percorrere la propria strada imprenditoriale accanto ai propri simili.
Va rimarcato che i vantaggi del matching non si manifestano soltanto
quando un infermiere complementa un chirurgo, ossia quando le
atività si collocano nella stessa “industria”. Colui che si bate per dei
valori e delle motivazioni, trae convinzione e vigore sperimentando
l’incarnarsi di quegli stessi stimoli in altri. È una sorta di “principio dell’omofilia” che qui si realizza. Ovviamente, il rovescio della
medaglia sta nel pericolo di autoreferenzialità. Se tuti i mormoni si
radicano a Salt Lake City, si riducono le chance che la loro religione,
e ancor più le loro pratiche economiche, contaminino i non mormoni. Si può obietare che se i mormoni accolgono nella propria citàcomunità molti visitatori, e se le merci da loro eticamente prodote
arrivano su mercati lontani, si effetuano forme di contaminazione.
Ma delle due l’una: o l’exemplum della loro citadella si converte in
dieci, cento, mille Salt Lake City, oppure è destinato a restare un
prototipo-fine-serie.
Un secondo punto di forza dei distreti mutualistici e solidali si lega
alla riduzione dei costi del controllo gerarchico. In un’impresa tradizionale, il prodoto congiunto di una squadra è superiore a quello
hanno dunque il controllo dell’impresa. Si veda Gui, 1991, pp.551-572.
7
Ovviamente, a rigore, nessuna impresa a scopo di lucro rientra nel terzo settore. Vi sono
tuttavia alcune “imprese civili” che stanno a cavallo tra comportamenti tipici del nonprofit e
del for-profit e che appaiono pertanto attori legittimi di un distretto mutualistico e solidale. Si
veda Gui, 2004.
IL POLO LIONELLO COME DISTRETTO DELL’ECONOMIA CIVILE?
Nicolò Bellanca, Renato Libanora, Enrico Testi
che i membri della squadra oterrebbero lavorando singolarmente.
Ma, data la di coltà di misurare il contributo di ciascuno agli esiti
colletivi, prospera l’opportunismo: ognuno s’impegna meno, a parità di compenso, nella convinzione che lavoreranno gli altri. Occorre
dunque un controllore centrale, che possa assumere e licenziare chi
sgarra. Questa modalità organizzativa non è però inevitabile. Si immagini di stipulare un contrato con l’intera squadra, per il quale i
membri di essa vengono retribuiti a misura che la squadra raggiunge un livello di produzione corrispondente a quello che si avrebbe
qualora nessuno facesse il furbo: in tale circostanza, il monitoraggio
sarebbe inutile e la strutura gerarchica dell’impresa verrebbe allentata.8 Un distreto mutualistico e solidale stipula contrati del genere:
infrastruture e beni colletivi sono finanziati, allestiti e gestiti nei termini di una streta “azione congiunta”, tale che o il distreto funziona
adeguatamente, oppure nessuna tra le imprese che lo compongono
otiene risultati significativi. Un’implicazione interessante è che nel
distreto mutualistico e solidale gli organigrammi verticistici, in cui
qualcuno supervisiona e comanda qualcun altro, dovrebbero avere
uno spazio minore.
La terza ragione dei distreti mutualistici e solidali nasce da una riflessione - che qui non possiamo riassumere - sulla natura del sistema capitalistico contemporaneo (Bellanca, 2009): per superare alcune tra le
più gravi asimmetrie di potere che tale sistema riproduce: “Il problema vero non è più come socializzare la proprietà, ma come socializzare la funzione imprenditoriale” (Ruffolo, 1978, p. 115; Jossa, Cuomo,
2000, p. 129). Si sostiene al riguardo che una delle possibili tendenze
racchiuse nel grembo del capitalismo atuale è “verso un mondo di
comunità produtrici che crescono su se stesse, sviluppando ognuna - in una sfida continua con le altre, che si esprime principalmente
nel confronto, insieme, delle rispetive merci e delle rispetive civiltà,
sull’unico teatro mondiale - il suo genio particolare (globalizzazione =
concorrenza fra sistemi locali autoriprodutivi)” (Becatini, 2004, p. 93).
I distreti mutualistici e solidali rappresenterebbero uno dei percorsi
tramite cui quella tendenza sistemica s’implementa; in essi le figure
del lavoratore esecutivo, dell’imprenditore e del manager dovrebbero
Holmström, 1982. Un meccanismo alternativo prevede “la concessione da parte di un ente
pubblico (o da parte di una fondazione privata grant making) di un finanziamento a condizione che [l’impresa] provveda per conto proprio ad un cofinanziamento ottimale, e che in
caso contrario viene ritirata. [Esso] opererebbe esattamente nel senso di dissuadere tutti [...]
dall’agire da free rider, poiché la mancanza di ciascuna contribuzione sarebbe probabilmente
determinante per la perdita del contributo”. Sacconi, 2002, p. 268.
8
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presentare contorni sempre più sovrapposti, permetendo a motivazioni, impegni, competenze e rischi economici di solito separati, se
non contrapposti, d’integrarsi a vicenda. In una certa misura ciò si
verifica effetivamente. Ma questo, si obieta, accade perché le imprese
del distreto sono mediamente così piccole da non generare una piena
specializzazione delle funzioni, ed anche per processi struturali generali riguardanti la transizione verso la cosiddeta “economia della
conoscenza” (Rullani, 2004). Mancherebbe dunque una ratio peculiare
di questo tipo di distreto, il quale si limiterebbe a convergere, con vari
gradi di successo, su traietorie da esso indipendenti.
La quarta ragione di forza dei distreti mutualistici e solidali può
risiedere nei medesimi ingredienti che talvolta determinano il radicamento dei distreti high tech. In questi ultimi la prossimità tra
imprese è consapevolmente voluta, non deriva della contiguità
storicamente ereditata con cui i pratesi o i biellesi condividono un
territorio. Diversamente dai distreti industriali marshalliani, essi
dunque nascono artificialmente e in tempi rapidi, al verificarsi congiunto di alcune condizioni ben precisabili e abbastanza regolari. La
presenza di centri di ricerca pubblici, di risorse umane qualificate,
di uno spirito imprenditoriale nel campo delle nuove tecnologie, di
legami informali basati su comunità professionali, di organizzazioni
intermedie, di strumenti finanziati appropriati ad iniziative ad alto
contenuto d’innovazione: se almeno una parte di questi elementi
“precipitano” assieme, il distreto high tech può decollare (Trigilia,
2005). Nel caso dei distreti mutualistici e solidali, può contare il radicamento del movimento politico o religioso in una certa area, la
solidità particolare dei quadri dirigenziali, l’esistenza di struture
di supporto da parte dello stesso movimento, l’interazione virtuosa
con banche cooperative etiche e con un reticolo di sotoscritori privati, il rilievo simbolico della cità, la buona posizione per visitatori
e clienti, l’azione di un leader carismatico.
Il matching delle competenze, la riduzione dei costi della gerarchia,
la socializzazione dell’imprenditorialità e la connessione progetuale
ad una congiuntura di fatori favorevoli, non esauriscono i vantaggi relativi del distreto mutualistico e solidale: sono però un tentativo di coglierne alcune peculiarità dinamiche. Tuto ciò non basta a
comprendere le effetive potenzialità del distreto mutualistico e solidale. Non è su ciente sul piano della teoria, poiché, come abbiamo
visto, ciascuno dei quatro fatori appare limitato da altretante controtendenze. E non basta sul piano della sperimentazione empirica.
Per rendercene conto, immaginiamo di abolire, in un esperimento su
IL POLO LIONELLO COME DISTRETTO DELL’ECONOMIA CIVILE?
Nicolò Bellanca, Renato Libanora, Enrico Testi
piccola scala, la proprietà privata d’impresa e di rimpiazzarla con la
proprietà cooperativa. L’idea sarebbe di verificare le conseguenze del
cambiamento in un ambito limitato, per poi gradualmente estendere
la riforma qualora il tentativo avesse successo. Come annota Jon Elster
(1993, pp. 202-203), vi sono tutavia almeno quatro ragioni per le quali questa sperimentazione sarebbe viziata. Potremmo avere un’autoselezione, positiva o negativa, poiché le cooperative, operando accanto
a tante imprese capitalistiche, atrarrebbero o persone straordinariamente motivate, oppure incapaci di collocarsi altrove. La seconda
distorsione riguarderebbe la discriminazione positiva o negativa: le
poche cooperative potrebbero ricevere particolari appoggi, o speciali
ostacoli, rispeto ai loro competitori capitalistici, da parte di gruppi
che le sostengono o che le osteggiano. Avremmo poi esternalità positive o negative, in quanto le cooperative si avvantaggerebbero delle
innovazioni introdote nelle capitalistiche, o sarebbero danneggiate se
i lavoratori o i finanziamenti migrassero verso quel tipo di imprese.
Infine, conterebbero le preferenze adative o controadative, poiché i
lavoratori potrebbero aderire o evitare le cooperative, a seconda che i
loro desideri siano stati frustrati oppure plasmati dall’ambiente capitalistico prevalente. Queste distorsioni svuotano la sperimentazione.
Se, infati, il limitato numero di imprese cooperative dovesse esprimere performance inferiori a quelle delle imprese capitalistiche, resterebbe inevaso il quesito: quali prestazioni avrebbe un sistema economico
interamente cooperativistico? Analoghe considerazioni si applicano
al tentativo di far fiorire un distreto mutualistico e solidale, quale
“germe” di un progressivo differente funzionamento dell’economia
centrata sull’impresa capitalistica. Pertanto, preso ato che il distreto
mutualistico e solidale non è esaminabile “in quanto tale”, bensì unicamente nell’ambito delle interferenze che il sistema socio-economico
atuale gli trasmete, volgiamoci allo studio di un caso concreto: quello del Polo Lionello a Burchio, in provincia di Firenze.
2. L’EdC e il Polo Lionello
“Qualcosa di nuovo sta già avvenendo con i ‘poli produtivi’ che
stanno sorgendo accanto alle citadelle del Movimento dei Focolari.
I poli si stanno configurando come una forma produtiva originale e
importante: non sono un classico gruppo aziendale, né un semplice
“distreto industriale” (cioè quelle aree caraterizzate dalla presenza
quasi esclusiva di una sola industria, che porta allo sviluppo di tante
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piccole imprese), anche se, come nei distreti tradizionali, la cultura
sociale che vi si respira ha un ruolo fondamentale” (Bruni, 2004, p.
23). Il Polo Lionello Bonfanti (d’ora in avanti Polo) è stato edificato
a Burchio,9 vicino alla citadella di Loppiano, una delle sedi storiche
italiane del Movimento dei Focolari, sul modello del Polo Spartaco,
il primo polo imprenditoriale sorto in Brasile negli anni ’90. Il Polo
ha una superficie di oltre 9.000 mq articolati su tre livelli. L’idea di
realizzare il Polo italiano emerge nell’aprile 2001 a Castelgandolfo
(Roma), durante i dibatiti per il decennale dell’Economia di Comunione (d’ora in avanti, EdC). Nell’otobre del 2001 nasce l’EdC spa,
una società per azioni formata appositamente per la costruzione e
la gestione del Polo, il quale verrà messo a disposizione, con contrati di locazione, delle aziende aderenti al progeto EdC. La missione dell’EdC spa prevede altresì servizi contabili, amministrativi,
organizzativi e di formazione sia per le aziende del Polo che per
la clientela esterna. Nel 2002 il progeto del Polo viene mostrato ad
imprenditori, operatori economici, studenti e politici raccogliendo
buoni consensi.10 Nel 2006 il Polo viene inaugurato, alla presenza, oltreché di un folto pubblico, di autorità locali e regionali, di numerosi
giornalisti e dell’allora presidente del consiglio Romano Prodi. Tra
il 2001 e il 2006, EdC spa aumenta il proprio capitale da 185.400,00
a 5 milioni di euro. Le sue azioni sono per l’87% in mano a piccoli
azionisti, che finanziano 5 dei 7 milioni di euro complessivamente
necessari alla costruzione del Polo.
Nel provare ad esaminare il Polo come un (embrione di) distreto
mutualistico e solidale, appaiono decisive le relazioni intercorrenti
al suo interno e tra esso e l’esterno. La figura 1 è la rappresentazione
grafica semplificata di tali relazioni; per costruirla, ci siamo ispirati ai
“sete livelli di relazionalità del Polo” individuati da Luigino Bruni
in occasione del suo discorso all’inaugurazione del Polo nel 2006.11
Nella figura ogni atore è rappresentato da un insieme. Alcuni insiemi, come quello ampio del Movimento dei Focolari, si intersecano
con altri insiemi, come quello dei “clienti” o dei “sostenitori”; ciò
significa che alcuni clienti e sostenitori fanno parte del Movimento dei Focolari. Le frecce che uniscono gli insiemi rappresentano le
relazioni intercorrenti tra di essi, mentre la grandezza della linea di
Burchio è un paesino toscano a pochi chilometri da Incisa in Val d’Arno.
Cfr. http://www.edicspa.com/storia_polo.shtml.
11
Cfr. L. Bruni, “Che cos’è l’Economia di Comunione?”, discorso per l’inaugurazione
del Polo Lionello, 2006.
9
10
IL POLO LIONELLO COME DISTRETTO DELL’ECONOMIA CIVILE?
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contorno dei vari insiemi segnala il grado di importanza atribuita a
questi, per come è emersa durante una ricerca di campo che nel 2007
abbiamo condoto al Polo.12
FIGURA 1 - IL POLO LIONELLO BONFANTI E L’AMBIENTE CIRCOSTANTE
Movimento dei Focolari
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Altre Aziende
E.di C.
Durante l’inchiesta abbiamo effetuato interviste semi-struturate e focus group con alcuni membri del Consiglio di amministrazione di EdC
spa e con alcuni degli imprenditori ativi all’interno del Polo; abbiamo
somministrato questionari tradizionali agli azionisti di EdC spa e agli
abitanti dei comuni di Burchio e Incisa, nonché un questionario sperimentale sulle capability ad alcuni lavoratori del Polo. Infine, abbiamo
realizzato varie analisi SWOT partecipative, coinvolgendo tute le tipologie di atori presenti nel Polo.13 I dati otenuti durante l’indagine sono una fotografia delle istanze, delle opinioni e delle aspetative
delle persone che si relazionavano entro e con il Polo nel 2007. In quei
Il team di lavoro era composto, oltre che dagli autori, dagli studenti ringraziati nella
nota di apertura.
12
Le principali modifiche all’analisi SWOT da noi introdotte hanno riguardato l’ordinamento
delle opzioni e il doppio voto su di esse, così da parte degli abitanti del Polo, come da parte di
un “occhio esterno” (i membri del team di ricerca).
13
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mesi, va rimarcato, il Polo contava 18 aziende e si trovava in una situazione diversa da quella atuale. Le aziende presenti, tute le piccole
e medie imprese, erano: 6 di produzione e vendita, 9 di servizi alle
imprese, un bar, una libreria e un gruppo editoriale. Gran parte delle
aziende di servizi alle imprese avevano al Polo una filiale e non la propria sede. In questo saggio non abbiamo spazio per presentare i nostri
risultati, che sono stati pubblicati altrove (Bellanca, Libanora, Testi,
2009). Ci limitiamo a riportare alcune tendenze e criticità del Polo nel
2007, quale caso di studio per riprendere, nel par. 3, le riflessioni avanzate nel par. 1. Esse sono: [1] il distacco tra l’idea originaria di Chiara
Lubich e la constatazione di quello che il Polo italiano diventa; mentre
Lubich discorre dell’esigenza di poli industriali con le ciminiere fumanti, e mentre immagina poli che siano crocevia per aziende e clienti
di tuto il mondo, il Polo Lionello assume una composizione ibrida
contenente principalmente aziende commerciali e di servizi, nonché
esprime una vocazione in larga misura rivolta al mercato locale o nazionale; [2] l’assenza di un disegno strategico iniziale, adeguatamente
precisato nei suoi obietivi e nelle tappe di avvicinamento ad essi, che
funga da “pietra di paragone” per ragionare su, e controllare il, corso effetivo degli eventi; [3] nelle stesse parole del gruppo dirigente,
realizzare il Polo è una missione che Chiara Lubich ha a dato al Movimento italiano, poiché la più importante citadella (Loppiano) non
può non essere associata alla migliore espressione dell’EdC; ciò però
comporta che una volontà “di principio” venga calata in un contesto
concreto poco preparato e forse poco appropriato, creando il rischio
di una “catedrale nel deserto”; [4] il punto precedente genera altresì
l’aspetativa che l’esistenza della citadella e la spinta del Movimento
siano una premessa decisiva per la vita e le prospetive del Polo; [5]
l’elevata eterogeneità degli atori che ruotano atorno al Polo: i membri
del Movimento dei Focolari, gli imprenditori che di esso fanno parte,
i membri del Consiglio di amministrazione di EdC spa, i dipendenti,
gli azionisti, gli abitanti delle zone circostanti, i “poveri” aiutati dal
Movimento, le aziende con cui il Movimento entra in contato, le altre
aziende di EdC e, naturalmente, i clienti e i visitatori. Questa eterogeneità viene da ognuno riconosciuta come motivo di ricchezza relazionale, ma nel contempo suscita riserve sull’identità e sul significato che
quel piccolo “sistema economico territoriale” aspira a raggiungere.
[6] Il capitale sociale che il Polo genera non sembra in prevalenza di
tipo intergruppo (bridging), nel senso che produce benefici anche per
i gruppi che non lo hanno generato, bensì di tipo intragruppo (bon-
IL POLO LIONELLO COME DISTRETTO DELL’ECONOMIA CIVILE?
Nicolò Bellanca, Renato Libanora, Enrico Testi
ding), nel senso che eroga miglioramenti al gruppo che lo genera in
virtù della cesura tra esso e chi non ne fa parte.14 [7] Da questo consegue che appaiono ridote le capacità del Polo di “contaminare” il
territorio e l’economia circostanti. [8] È emerso durante i focus group,
le interviste e l’analisi SWOT partecipata un discreto grado di conflittualità latente tra imprenditori e tra questi e EdC spa. I motivi di ciò
sono ricondoti sopratuto a: (a) modelli diversi d’imprenditorialità;
(b) interazione streta e frequente che genera problemi di relazioni
umane; (c) mancanza di linee-guida condivise e verificate; (d) rischio
di sotostimare la prospetiva stessa di una conflitualità latente. [9]
Alcune persone appartenenti al Movimento svolgono mansioni all’interno delle aziende del Polo con una retribuzione nulla o molto bassa.
[10] Gli azionisti di EdC spa sono assimilabili a donatori, poiché non
si aspetano un ritorno economico per i 5 milioni di euro prestati; pur
in minore misura, l’accesso a capitali “con vincoli ridoti” è stato possibile anche per altre aziende del Polo.
3. Sulle insidie del percorso di distrettualizzazione
Proviamo a svolgere un breve ragionamento astrato - molto semplificato, sebbene, ci auguriamo, non caricaturale - che riprenda i
temi e i nodi seminati lungo le pagine precedenti. I problemi economici di coordinamento possono essere esaminati all’incrocio tra
due importanti coppie di categorie: esternalità positive/negative e
complementi/sostituti strategici (Bowles, 2004). Le esternalità sono
gli effeti, non misurati dal mercato, delle azioni del soggeto A sul
“livello” di benessere del soggeto B (più in generale, di altri soggetti): il beneficio complessivo derivante dall’atività di B è crescente
nel livello dell’atività di A. Due variabili organizzative sono strategicamente complementari (sostitutive) quando, innalzando (riducendo) il soggeto A l’esercizio dell’una, aumentano (diminuiscono)
i benefici incrementali o “marginali” per il soggeto B dell’innalzare
(ridurre) l’esercizio dell’altra: il rendimento otenibile dall’aumento
(diminuzione) dell’atività di B è crescente (decrescente) nel livello
dell’atività di A. Quando sorge un’esternalità di A su B, essa si limita a far variare l’utilità di B; tale variazione, eventualmente, può
modificare le azioni di B, ma in generale essa non implica che le
Nell’accezione qui adottata, il “capitale sociale” indica il valore della rete di relazioni che
le persone stabiliscono tra loro e la tendenza, all’interno di queste, di supportarsi reciprocamente nello svolgimento dei propri compiti. La distinzione tra i due tipi di capitale sociale è in
Putnam, 2004.
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nuove azioni di B si rivolgano (anche) ad A. Quando invece sorge
l’opportunità di un complemento o sostituto strategico, le azioni di
A e di B sono tra loro costitutivamente legate: se A applica a livelli
maggiori una variabile, B reagisce variando il livello della variabile
organizzativa da lui controllata. La differenza sta nella circostanza
che, nel caso delle esternalità, un’azione che A ha comunque scelto di effetuare comporta conseguenze su B; mentre, nel caso dei
complementi/sostituti strategici, è l’azione “congiunta” di A e di B
a modificare l’utilità marginale sia di A che di B. Questa differenza
chiarisce perché la seconda coppia di categorie sia particolarmente
e cace nel contribuire a spiegare alcune forme di azione colletiva: è
essa, tra l’altro, che permete di elaborare la nozione di matching delle competenze, che abbiamo impiegato nel par. 1 discutendo delle
possibili ragioni del distreto mutualistico e solidale.
In un’evoluzione virtuosa del Polo Lionello, i complementi strategici sono ovviamente centrali e decisivi. Essi possono formarsi in
maniera endogena, come quando in un classico distreto industriale marshalliano si respira un’“atmosfera industriale” collaborativa,
grazie alla sedimentazione plurigenerazionale di una cultura locale.
Oppure possono essere implementati da interventi esogeni al sistema-Polo, sebbene interni al Movimento dei Focolari: è questo che
sembra essersi verificato nel nostro caso di studio. La presenza della
citadella di Loppiano, il ricorso al network di contati e conoscenze
politico-istituzionali, fino all’accesso a finanziamenti agevolati o addiritura sostanzialmente “a fondo perduto”, hanno rappresentato
altretante cruciali esternalità positive, sulla cui base i complementi
strategici interni al Polo - nei termini presentati illustrando il distretto mutualistico e solidale e poi incontrati nell’inchiesta di campo hanno potuto stabilirsi. Il punto è rilevante, poiché la genesi di una
forma-distreto comporta conseguenze sulla sua stessa sostenibilità:
se il distreto scaturisce, per dirla con la terminologia cara agli economisti della scuola austriaca, da un “ordine spontaneo”, esso sarà
in grado di autoriprodursi finché i parametri di quell’ordine non siano sconvolti; ma se esso nasce da un “investimento deliberato dedicato”, che si traduce in una massa critica di esternalità positive, allora diventa problematico (non scontato) se esso, una volta avviato,
acquisisca o meno capacità autopropulsiva.
Inoltre, una volta individuati certi complementi strategici, di per se
stessi economicamente virtuosi, dobbiamo esaminare quali esigenze/
di coltà suscitano. In primo luogo, maggiormente elevata è la com-
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plementarietà tra due beni o tra due atività, in maggior grado tali
beni o atività diventano “indivisibili”; al limite, per citare uno dei
testi fondativi dell’economia dello sviluppo, “parliamo di uno invece
che di due beni o fatori: un paio di scarpe è un paio, non una scarpa
destra e una sinistra” (Streeten, 1973, p. 253). In un Polo che aspiri
a distretualizzarsi, le indivisibilità abbondano: esso non può avere
un numero frazionario di Consigli di amministrazione, di impianti di
aerazione o di imprese aderenti; né può entrare parzialmente in un
mercato. Ma se due beni o atività sono indivisibili, ciò comporta la
non-convessità dell’insieme di scelte e la non-concavità della funzione
obietivo; dove la non-convessità significa che, se sono possibili due
opzioni, non lo è anche ciascuna soluzione intermedia, mentre la nonconcavità segnala che non è individuabile un’unica scelta che massimizza il risultato. A sua volta, ciò implica che non è possibile transitare
gradualisticamente da una strutura organizzativa ad un’altra: poiché
tali struture non sono infinitamente divisibili, non si può miscelarle
a piacimento; piutosto, occorre “saltare” dall’una all’altra. E implica
altresì che possono aversi molteplici scelte migliori “localmente”, nel
senso che per ciascuna di esse nessun piccolo aggiustamento può ottenere innalzamenti della performance, e tali che una di queste scelte
può eventualmente essere migliorata soltanto se tuti gli elementi di
strategia e di progetazione organizzativa sono modificati in maniera
congiunta (Roberts, 2006). Se ne conclude che, nella sua evoluzione
verso il distreto mutualistico e solidale, il Polo abbisognerebbe della
capacità strategica di riconoscere quando si situa su un “otimo locale” prospeticamente inadato, e della connessa capacità decisionale
di cambiare strutura organizzativa. Va rimarcato che, se le indivisibilità percorrono l’intera vita economica, e se sono ben presenti anche
nell’operare della singola impresa, esse diventano assai più robuste e
pervasive in un’agglomerazione di imprese basata sui complementi
strategici. Pertanto, nel Polo l’esigenza di un’elevata, ed essa stessa indivisibile, capacità strategica e decisionale appare davvero cruciale; ai
tempi della nostra indagine, era affrontata in maniera inadeguata.
In secondo luogo, se due beni o atività sono indivisibili, ciò significa
che nessuno può fruire dell’uno senza consumare l’altro. Ma i beni
per i quali non è possibile razionare il (escludere dal) loro consumo,
sono beni pubblici,15 i quali, com’è noto, sollevano i più gravi tra i
Nella definizione canonica, i beni pubblici puri sono quelli per cui né è possibile, né è desiderabile razionare il loro consumo. Seguiamo qui l’approccio di Mancur Olson, che definisce
i beni collettivi in base al solo requisito della non-escludibilità. È interessante rimarcare che i
beni pubblici costituiscono una classe particolare di esternalità, poiché chi li offre genera un
15
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dilemmi della cooperazione (Bellanca, 2007). Questi dilemmi possono riguardare la divergenza tra razionalità individuale e collettiva, tra razionalità assiologica e strumentale, tra razionalità di breve e di lungo termine. Ma possono anche concernere, ed è il nostro
caso, il contrasto tra una razionalità centrata su strategie direte ed
una ispirata a strategie indirete. Un soggeto è capace di ricorrere a
“strategie indirete se può dire sì ad una mutazione sfavorevole per
poter essere in grado più tardi di dire sì ad un’altra mutazione molto
favorevole” (Elster, 1983, p. 47). Il dilemma espresso dalla strategia
di arretrare di un passo per poter avanzare di due passi è caturato
dal seguente episodio. Un’imbarcazione trasporta una statua sacra.
Il fiume si gonfia e spinge la barca verso gli scogli. Ciascun marinaio sa nuotare e, se si buta in acqua, salverà se stesso. Per salvare
la barca, tuti i marinai dovrebbero remare sincronicamente nella
stessa direzione con il massimo sforzo. Ma ciascuno di loro è così
devoto alla statua, che ritiene ancora più importante che la statua
non cada “dentro” la barca. Ognuno si impegna così anzituto nel
nobile proposito di tenere in equilibrio la barca, a nché la statua
resti salda sul piedistallo, mentre la barca stessa sta per schiantarsi.
È interessante osservare che esistono due strategie cooperative, accanto a quella stretamente di defezione (il singolo che abbandona).
La prima è la “strategia direta” del salvare la statua (il che, stiamo
supponendo, richiede il contributo congiunto di più persone), mentre la seconda è quella “indireta” del salvare la barca, con sopra gli
uomini che pregano la statua e (forse, se non cade dal piedistallo)
la statua medesima. Tra le due strategie cooperative può correre divergenza, fino all’incompatibilità: se la statua hic et nunc traballa,
il “calcolo razionale” intorno alle conseguenze indirete può essere
travolto dall’urgenza e dalle emozioni.16
Calando questo dilemma nel Polo, ritroviamo i tre scenari possibili. [a] La singola impresa adota un comportamento opportunistico.
[b] La singola impresa rinuncia a sviluppare pienamente le proprie
occasioni di guadagno, per conferire priorità alla sopravvivenza del
Polo; lo slogan che catura questa linea strategica di comportamento suona così: “finché esiste il Polo, esiste la mia azienda” (anziché:
vantaggio non solamente a se stesso. Dunque, i complementi strategici, a misura che sono
elevati, danno forma ad indivisibilità, le quali a loro volta generano esternalità: le due coppie di
categorie che stiamo usando interagiscono dinamicamente.
16
Vale la pena notare che stiamo discutendo un dilemma che non comporta necessariamente
sfasamenti tra interessi di breve e di lungo periodo: infatti, ciò che avviene nella/alla barca è tutto
situato nel breve termine. Non è la lunghezza del periodo che caratterizza questo dilemma.
IL POLO LIONELLO COME DISTRETTO DELL’ECONOMIA CIVILE?
Nicolò Bellanca, Renato Libanora, Enrico Testi
“finché migliora la mia azienda, esiste il Polo”). [c] L’impresa s’impegna, anche sopportando oneri direti, lungo una strategia collaborativa indireta che probabilmente procuri, al Polo come tale e a
ciascuna impresa, benefici superiori. Ai tempi della nostra indagine,
prevalevano i primi due scenari. Il [c] latitava per le di coltà di capacità strategica (“indireta”) e decisionale, richiamate al punto precedente. Il [b] si estrinsecava mediante la generosa dedizione (“strategia direta”) degli imprenditori e degli operatori alla causa ideale
dell’EdC. L’affermarsi (anche) dello scenario [a] non si esprimeva,
ovviamente, tramite comportamenti greti, avidi e individualistici;17
bensì per gli spazi d’indeterminazione lasciati dalla carenza di [c].
Le sue forme di manifestazione riguardavano principalmente i rapporti tra l’impresa e il Polo, e quelli tra l’impresa e i suoi stakeholder.
Soto il primo profilo, nel 2007 erano poche e/o piccole le imprese
aderenti al Polo che avevano lì spostato il proprio core business; non
di rado esse si limitavano ad a tare un locale del Polo quale succursale di rappresentanza. Soto il secondo profilo, parecchie tra le
imprese presenti, e la stessa EdC spa, giostravano con l’ampia indeterminatezza consentita dalla “regola della suddivisione dell’utile”, suggerita da Lubich quale peculiarità dell’EdC. Le imprese a
movente ideale dovrebbero ripartire i propri utili in tre parti: “Una
parte da destinare ai poveri, per sovvenire alle loro necessità, sino
a che troveranno un lavoro; una parte per le struture deputate alla
formazione di “uomini nuovi”, animati dalla “cultura del dare”; una
parte allo sviluppo dell’impresa stessa”.18 Ovviamente, maggiore è
la parte dell’utile destinata a scopi differenti dall’investimento, minore è la competitività dinamica dell’impresa. Con la proposta delle
“tre parti uguali”, due terzi dell’utile escono dal processo produtivo, senza in alcun modo alleviare i costi,19 mentre soltanto un terzo
Il livello medio di impegno personalmente disinteressato che abbiamo potuto constatare
nei vari abitanti del Polo era elevato; ma il free riding scaturisce da determinate dinamiche
dell’interazione strategica, non dai cattivi/buoni propositi di ognuno.
18
Argiolas (2009, p. 334). Si rimanda altresì a Lubich, 2001. Ovviamente, la tripartizione
degli utili rappresenta soltanto la punta dell’iceberg, a misura che queste aziende riescono a
procedere secondo i propri valori - la reciprocità, la fraternità, l’ascolto, la comunione - nei riguardi di tutti gli elementi aziendali: dipendenti, clienti, fornitori, concorrenti. Andare in questa
direzione dà gratificazione e conferisce uno spiccato senso di appartenenza.
19
Se queste quote vanno a “strutture deputate alla formazione di ‘uomini nuovi’, animati dalla
‘cultura del dare’”, come scrive Argiolas nel brano prima menzionato, oppure alla formazione
dei soci dell’impresa, oppure a ridurre la povertà di soggetti esterni all’impresa, esse comunque appesantiscono i costi dell’impresa di EdC rispetto ai costi di un’impresa ordinaria. Né
il punto cambia qualora un terzo dei profitti/utili costituisca un benefit con il quale l’impresa
17
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capitalizza l’impresa. Poiché ciò costituisce un onere aggiuntivo affrontato esclusivamente dalle imprese di EdC, non stupisce che di
fato esse spesso “atenuino” la regola.
Le strategie di aggiramento che abbiamo constatato nel 2007 sono
molteplici. Si può sostenere che quando l’utile è inadeguato, la regola non si applica. Si può affermare che quando un’impresa è in
formazione, la regola va sospesa. Si possono identificare come “poveri” alcuni stakeholder dell’impresa stessa, in modo da usare parte
dell’utile per coprire alcuni costi. Si può altresì spostare l’atenzione
dall’utile al profito puro, che è una grandezza più piccola e talvolta dal segno negativo. Ricordiamo che gli economisti definiscono il
profito o quale differenza tra il totale dei ricavi e il totale dei costi
dell’impresa, e in tal caso esso corrisponde al conceto contabile di
utile d’esercizio;20 oppure, depurandolo del “costo opportunità”21
dei fondi investiti nell’impresa e dell’atività svolta dal proprietario-imprenditore, esso è un residuo (positivo o negativo) chiamato
profito puro.22 Soltanto il profito puro segnala l’e cienza economica dell’impresa, e può quindi raccogliere la sfida più ambiziosa
dell’EdC: stare davvero sul mercato, nel mentre lo si “contamina”
con i propri ideali. È forse per questo motivo che “nel manifesto del
progeto [di EdC] si parla di ‘profiti’ che gli imprenditori decidono liberamente di destinare ai tre obietivi ‘di comunione’”.23 D’altra parte è soltanto il profito-come-utile, di cui discorre Lubich, che
permete un’applicazione non irrilevante della regola della suddivisione delle tre quote: invocare il profito puro può dunque equivalere ad uno svuotamento della regola.
In terzo luogo, quando si creano beni o atività indivisibili, essi/e richiedono ulteriori beni o atività complementari. Un esercito richiede
caserme, magazzini, armi, strade. Una piscina in un giardino richiede
finanzia gli investimenti in capitale umano dei propri addetti, i quali sono già retribuiti al prezzo
di mercato. Sono infatti di solito le famiglie, e non l’impresa, a sostenere i costi di produzione
del capitale umano.
20
Il profitto, come l’utile, si definisce lordo se è comprensivo degli ammortamenti; qui ci
riferiamo sempre al profitto netto.
21
È il rendimento che un fattore potrebbe ottenere nel miglior impiego alternativo.
22
“La differenza principale tra la nozione economica di profitto e quella giuridica di utile è
che il profitto si ottiene includendo tra i costi anche quelli imputabili all’impiego di risorse da
parte dei proprietari”. Gui (2004, p. 181 nota). Se un individuo lavora in un’impresa di cui è
proprietario, il suo lavoro va considerato come un input, e deve quindi pure essere incluso nel
calcolo dei costi: il suo salario corrisponde al prezzo di mercato del lavoro che presta, cioè a
quanto “guadagnerebbe” se offrisse il proprio lavoro sul mercato.
23
Cfr. Rocchi (2004, p. 212, parentesi quadra aggiunta).
IL POLO LIONELLO COME DISTRETTO DELL’ECONOMIA CIVILE?
Nicolò Bellanca, Renato Libanora, Enrico Testi
atrezzature per purificare l’acqua, riscaldarla, filtrarla, nonché arredi
adeguati. Un’organizzazione innovativa richiede una rete innovativa
di infrastruture sociali e servizi privati qualificati. Su queste catene di
complementarietà si imperniano alcune tra le più convincenti teorie
dello sviluppo economico.24 Ma, come visto più sopra, una differenza
campale risiede nella natura endogena e spontanea, oppure esogena
e deliberata, di queste catene. In modelli di localizzazione come quelli di Krugman, ad esempio, sono evidenziate le forze endogene che
spingono alla concentrazione di beni e atività complementari in una
determinata area (Krugman, 1995). Qualora Burchio come luogo, e
il Polo come strutura fisica, non rappresentino di per sé “atratori”
adeguati per agglomerare capitale umano, imprenditorialità, capitali di rischio, innovazioni tecnologico-organizzative, tipologie varie
di clientela, e così avanti, allora occorre replicare nel tempo la massa critica di esternalità positive che era stata necessaria per avviare
l’esperienza stessa del Polo. Mentre però nella fase di avvio ci si era in
prevalenza riferiti ad uno stock accumulato di risorse, nelle fasi successive occorre volgersi a flussi nuovi. E se il Polo come tale non è in
grado di generare questi flussi di risorse, diventa necessario atingere
all’esterno, con maggiori di coltà e oneri.
Questo snodo ci conduce ad un groviglio di esternalità negative che,
nel quadro che stiamo descrivendo, tendono ad emergere. Il Movimento dei Focolari ha, come qualsiasi soggeto economico, risorse
scarse. D’altra parte esso esprime una vocazione universalistica: tende a estendersi in ogni continente, e tende a trasferire e rafforzare
ovunque le proprie esperienze più carismatiche, tra cui si colloca
l’EdC e la progetualità dei poli industriali. Se tutavia il Polo Lionello assorbe risorse strategiche (i migliori manager dell’“economia
civile”, i migliori intelletuali di supporto, i finanziamenti più liquidi
e convenienti, ecc.); e se, sopratuto, continua ad assorbirle nel tempo, non generandone un adeguato flusso interno, ciò si traduce in
una riduzione dei livelli di utilità per altre atività del Movimento
e dell’EdC in altri luoghi, ossia appunto in esternalità negative. Un
esempio riguarda lo spostamento che di fato, all’interno del Movimento italiano, si sta effetuando dal modello-citadella al modello
dei Focolari che operano nelle cità: mentre le citadelle continueranno ad assolvere funzioni di formazione e di rappresentanza, le
atività più dinamiche si collocheranno tra la gente. Secondo un’opiI due testi recenti più rilevanti, nell’ambito di questo approccio, sono a nostro
avviso Kremer (1993, pp. 553-575); Jones (2009).
24
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nione critica da noi raccolta, il Polo rischia di bloccare questo vitale
cambiamento, puntando ad accorpare nuove funzioni nei pressi di
una citadella. Un altro esempio recente è rappresentato dal trasferimento, nei pressi del Polo, dei più importanti intelletuali del Movimento, che hanno creato l’Università Sophia: ci si può chiedere
se questa ambiziosa iniziativa sarebbe stata realizzata a Loppiano,
senza la presenza e senza le esigenze del vicino Polo; torneremo su
questo punto discorrendo della “logica dell’escalation”.
Di fronte a risorse di qualità che sono scarse e che vanno convogliate
verso il Polo, per rispondere alle catene di complementarietà che esso
suscita, non va sotostimato un problema aggiuntivo: nonostante tali
risorse siano in larghissima parte interne o vicine al Movimento, il
loro grado di omogeneità tende, ovviamente, a ridursi, al crescere
del loro ammontare e al moltiplicarsi delle fonti e dei luoghi da cui
esse vengono prelevate. Un esito probabile, che sembra essere corroborato nel 2007 dalla nostra inchiesta, è un’innalzarsi delle tensioni
e della conflitualità latente all’interno del Polo.
Le tre fonti di di coltà/insidia che abbiamo discusso possono
condurre ad un mission drit, ossia ad un inavvertito cambiamento
d’identità del Polo.25 Ciò accade a misura che le performance raggiunte, non raggiunte e potenzialmente accessibili modificano in
modo endogeno le credenze e le preferenze degli atori del Polo.26
Tale fenomeno può retroagire negativamente sulla complementarità
strategica che è alla base del Polo quale embrione di distreto mutualistico e solidale. Le atività che esploravano e cercavano di rafforzare la rispetiva complementarità, si collocano adesso in un contesto
organizzativo e progetuale mutato, e possono non “incontrarsi”
ancora. Ma se accrescere una delle atività implica un maggiore costo o una maggiore di coltà nel fare l’altra, allora, come sappiamo,
esse diventano sostituti strategici. Più accentuato è il passaggio da
complementi a sostituti strategici, più vigoroso è il processo di dedistretualizzazione del Polo.
L’ultimo possibile passaggio segnala il culmine dell’involuzione. Il
mission drit avviene di solito con una ridota autoconsapevolezza,
poiché esso nasconde “la spazzatura soto il tappeto” conformando le
credenze/preferenze ai comportamenti de facto. Ciò si traduce in imPer una disamina del fenomeno del mission drift nell’ambito della cooperazione
internazionale, rimandiamo a Bellanca (2008).
26
Un modello di cambiamento endogeno di credenze e preferenze, nell’ambito della
teoria delle capability, è avanzato in Bellanca, Buggeri, Marchetta (2009).
25
IL POLO LIONELLO COME DISTRETTO DELL’ECONOMIA CIVILE?
Nicolò Bellanca, Renato Libanora, Enrico Testi
postazioni mediante cui la nuova identità del Polo viene giustificata.
Esaminando la dinamica diacronica degli aiuti allo sviluppo, sugli
effeti dei quali svolge una disamina estremamente critica, William
Easterly pone in evidenza le più ricorrenti tra queste impostazioni:
l’escalation e il ciclo delle idee. A misura che un impegno di cooperazione internazionale manca il bersaglio, i suoi promotori, anziché
riconoscerne le intrinseche carenze, decidono di rilanciare, in nome
della tesi implicita che gli esiti hanno deluso solo perché non si è fatto abbastanza e abbastanza in grande. Alternativamente, invece di
apprendere accuratamente dal passato, al fine di scartare le opzioni
strategiche “perverse” o inadeguate, si realizza una ciclicità nelle concezioni dell’aiuto, per cui un approccio che viene abbandonato oggi,
verrà ripreso dopodomani, quando sarà messo ai margini l’approccio
adesso in voga (Easterly, 2009). I due scenari dipinti acutamente da
Easterly possono riferirsi anche al maggior pericolo prospetico che
il Polo fronteggiava nel 2007. Da una parte, le debolezze del progeto
iniziale, le carenze di visione strategica, la non-sostenibilità sui mercati
delle iniziative, anziché tradursi in una severa autoriflessione, poteva
scaricarsi in una voglia di escalation: essendo troppo complicato cambiare davvero, anziché lasciare, era meglio raddoppiare. Qual era il
problema del Polo? Perché non atirava abbastanza clienti e visitatori?
Perché incorporava aziende che spesso non lo consideravano “prima
scelta”, bensì una succursale di rappresentanza? Ebbene, il problema
era che il Polo non s’impegnava abbastanza sul fronte delle “campagne di comunicazione”, o che era troppo angusto. Dunque, spendiamo di più in pubblicità, oppure espandiamo il Polo acquistando il terreno accanto, e avremo la soluzione. Dall’altra parte, il Polo Lionello
non aveva preso le mosse da un progeto strategico compiuto, rispeto
al quale poter accertare con qualche esatezza cosa ha funzionato e
cosa no. Era mutato nel tempo senza rumore e con un’inadeguata coscienza. Accanto a ciò e perciò, il Polo non aveva approntato metodi di
controllo interno e di seria partecipazione decisionale. Esso era dunque aperto al pericolo del ciclo delle idee: l’altro ieri si metevano al
centro le ciminiere, ieri Loppiano, oggi i servizi al territorio, domani
magari di nuovo le ciminiere.
Davanti a queste possibili insidie, consideriamo alcune possibili
risposte.27 [1] Elaborare periodicamente progeti strategici (scriti,
Come già indicato nel par. 2, la nostra indagine di campo risale al 2007 e non rientra tra i
compiti di questo saggio esaminare che cosa è effettivamente accaduto successivamente al
Polo. In quel che segue, intendiamo soltanto argomentare che, accanto alle insidie, vi erano
nel 2007 possibili soluzioni.
27
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firmati e datati!) quali benchmarks. Essi costituiscono la pietra di paragone per ogni evoluzione successiva. Alcune domande che essi
pongono sono: Quale è l’obietivo? Chi sono i beneficiari? Che cosa
vuole diventare il Polo? Come diventare ciò che vuole? Come capire
se ciò che sta facendo il management corrisponde all’ideale iniziale?
Cosa è successo rispeto a quello che delineava il precedente progeto? Perché certe atività si sono affermate in maggiore o minore
misura rispeto a quanto preventivato? La qualità di tali atività è
inferiore, superiore o semplicemente differente da quella progettata? Quando ha senso misurare i risultati? Se ha senso misurarli,
come procediamo? E quali sono i risultati? [2] Una valutazione della performance in termini di social opportunity cost. Mentre l’analisi
costi-benefici esamina l’outreach ateso da un dato investimento, qui
si affronta un’analisi costi-e cacia, che considera anche ciò che si otterrebbe mediante investimenti alternativi. Per limitarci a menzionare un esempio concreto e stringente, la quantità di profiti distribuiti
è un indicatore di quanto il Polo funzioni e di quanta “solidarietà”
sia in grado di produrre ed erogare; ma tale ammontare va leto in
chiave comparata, verificando la redditività media di pari capitali
investiti in fondi di finanza etica. [3] Se certe atività si avvicinano
più a sostituti che a complementi strategici, gli incentivi debbono
essere “bilanciati” (Holmström, Milgrom, 1991 pp. 24-52): se, infati,
i rendimenti marginali non sono eguali in entrambe le atività, quella penalizzata tende a scomparire, accentuando lo sfaldamento del
distreto mutualistico e solidale. [4] Occorre infine un protocollo di
monitoraggio e valutazione, che si svolga in itinere e che abbia carattere partecipativo (Libanora, Testi, Togneti, 2008). Accanto a percorsi più complessi, su cui qui non possiamo soffermarci, buona parte
degli indicatori possono essere estremamente semplici. Ad esempio,
i numeri degli accessi al sito internet, dei visitatori esterni e delle
citazioni su organi di informazione non appartenenti al movimento,
sono possibili modi, facilmente reperibili e poco costosi, per misurare la capacità di diffondere le idee e la conoscenza del Polo. Un
altro esempio riguarda il tema delle asimmetrie di potere e dei nessi gerarchici all’interno del Polo. Esso solleva questioni molteplici e
ardue,28 ma possono escogitarsi indicatori tanto elementari quanto
Viene massimizzato il numero di persone in grado di partecipare efficacemente alla formulazione e attuazione di decisioni di rilievo? Viene minimizzato il numero delle posizioni
gerarchiche superiori? Quante tra le posizioni gerarchiche superiori sono occupate da individui liberamente eletti dai componenti delle unità organizzative che contengono le rispettive
posizioni come centri di coordinamento? Quante tra le cariche sono a termine? Quante tra
28
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dirimenti: Chi esce per ultimo, alla fine della giornata lavorativa, calando la serranda o spegnendo la luce? È sempre la stessa persona?
Se sì, perché? Se no, perché?
Le argomentazioni appena svolte sono sintetizzate nella figura 2,
che tenta di rappresentare pregi e opportunità, ma pure limiti e minacce, di un importante tentativo come quello del Polo Lionello. Ci
auguriamo che altri team di ricerca possano proseguire l’indagine da
noi avviata nel 2007, per sotoporre a verifica questo quadro ampiamente indiziario.
FIGURA 2 - ALCUNE POSSIBILI INSIDIE
DEL POLO LIONELLO
E RISPOSTE NEL PERCORSO DI DISTRETTUALIZZAZIONE
INDIVISIBILITÀ:
-Salti tra strutture organizzative
-Miglioramenti “locali”
BENCHMARK
ES TERNALITÀ POSITIVE:
-Cittadella di Loppiano
-Aperture politico-istituzionali
-Finanziamenti agevolati o gratuiti
-Eccetera
ESCALATIO N
CICLO
DELLE IDEE
SOCIAL O PPORTUNITY
COST
CO MPLEMENTI
STRATEG ICI:
embrione del DSM
STRATEG IE INDIRETTE
-Del Polo come tale
-Dentro l’impresa
-Tra impresa e Polo
MISSIO N DRIFT
INCENTIVI BILANCIATI
SOSTITUTI
STRATEG ICI:
sfaldamento del DSM
ES TERNALITÀ NEGATIVE:
-Pochi manager “ civili”, tutti al Polo;
-Troppo spazio al modello “Cittadella”;
-Spostamento dei migliori intellettuali;
-“Tutti assieme lì”, ma siamo diversi,
dunque maggiori tensioni/conflittualità
M&V PARTECIPATIVO e
IN ITINERE
le cariche rispondono dinanzi ai componenti dell’organizzazione? Quanti individui hanno la
possibilità di formarsi per essere in grado di occupare un ampio spettro di posizioni di autorità, e possono presentarsi come candidato eleggibile a diversi tipi di carica? Gli individui
che concorrono per occupare le posizioni di autorità sono più numerosi delle posizioni stesse
e possono liberamente competere tra loro per ottenere il mandato collettivo? Nell’assumere
decisioni, il conseguimento di un vantaggio per un soggetto non può essere ottenuto senza
tener conto delle privazioni (esternalità negative) per altri soggetti, interni all’impresa o meno?
Si rinvia a Gallino (2007, pp. 39-40).
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L’imprenditore EdC. Alcune piste di riflessione
sull’identità del principale (sebbene non unico)
attore EdC
Luigino Bruni
Sommario
1. Premessa - 2. Chi è l’imprenditore? - 3. Alcune carateristiche specifiche dell’imprenditore
EdC - 4. Conclusioni
Le qualità necessarie a costituire un imprenditore
ideale sono così importanti e numerose che pochissime persone possono possederle tute in grado molto alto. […] Deve prima sapere scegliere
bene i suoi assistenti, e poi fidarsene completamente, interessarli nell’azienda e far sì che essi
fidino in lui, per modo da far germogliare quanto
v’è in essi di iniziativa e virtù creatrice (A. Marshall, Principles of Economics, 1890).
1. Premessa
L’imprenditore è nel progeto EdC una figura centrale. Nel 1991 esso
sembrava quasi l’unico protagonista del progeto. Con il passare del
tempo, e come testimonia anche questo numero della Rivista, ci siamo accorti che l’imprenditore non è l’unico protagonista, e che altre
dimensioni (lavoro, poveri, poli, ecc.) erano coessenziali nell’Econo-
L’IMPRENDITORE EDC. ALCUNE PISTE DI RIFLESSIONE SULL’IDENTITÀ DEL PRINCIPALE ATTORE EDC
Luigino Bruni
mia di Comunione. Nondimeno, senza imprenditori, non si dà e non
si fa EdC. Questo mio testo è dedicato a questa figura di imprenditore. Per far ciò, articolerò il mio discorso in due passaggi. Primariamente cercherò di mostrare che, almeno all’interno della tradizione
dell’economia civile, tradizione sopratuto italiana, l’imprenditore,
che chiameremo “civile”, ha una natura e funzione più complessa
rispeto a come oggi esso ci viene presentato dalla cultura dominante, sempre più schiacciata sul modello americano. In secondo luogo,
e sulla base della carateristiche dell’imprenditore civile, cercherò di
individuare alcune note che differenziano l’imprenditore EdC dal
“semplice” imprenditore civile.
Ogni esperienza originaria di economia sociale ha una sua specifica
identità: il cooperatore tradizionale, ad esempio, ha molte carateristiche in comune con il cooperatore sociale (sono entrambi, nel mio
linguaggio, imprenditori “civili”), ma esistono anche delle specifiche differenze identitarie. L’imprenditore che opera nel commercio
equo e solidale, quello che agisce nel microcredito, chi dà vita ad una
banca etica o ad un’organizzazione non governativa per lo sviluppo,
ciascuno presenta trati identitari tipici o vocazionali. Analogo discorso può allora essere fato anche per l’imprenditore EdC.
2. Chi è l’imprenditore?
Partiamo sfatando un’idea ben radicata nella cultura economica
contemporanea, almeno nei libri di testo di microeconomia, ma non
solo in questi: che, cioè, lo scopo dell’atività dell’imprenditore sia la
massimizzazione del profito o, in ogni caso, la ricerca del profito.
Anche la distinzione tra impresa nonprofit (che non avrebbe come
scopo il profito) e quella for-profit, insiste esatamente sullo stesso
conceto, che rimanda, poi, ad una dicotomia ancora più profonda
che caraterizza la modernità: quella tra l’ambito economico (visto
come luogo dei rapporti strumentali, individualistici e auto-interessati) e l’ambito civile (come luogo dei comportamenti “genuini” sociali e altruistici).
Dalla buona teoria economica, dalla storia delle idee e dalla prassi
economica, scopriamo invece che l’imprenditore è un tipo di persona che presenta carateristiche particolari. Innanzituto, il talento
imprenditoriale non è presente in tute le persone, non siamo tuti
potenziali imprenditori: ecco perché, tra l’altro, una visione della società dove scompare il “lavoro dipendente”, o dove tuti sono con-
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siderati imprenditori di se stessi, non è né realistica né auspicabile.
L’imprenditorialità è un talento che alcune persone hanno, e altre
no, e che in ogni caso è distribuito in modo diseguale nella popolazione, come lo sono in generale i talenti e carismi (doni). Inoltre, è
altretanto evidente che gli imprenditori sono indispensabili in ogni
idea di autentico bene comune, poiché sono una componente essenziale per una buona economia e società1.
Sul piano della teoria economica, almeno a partire dall’economista
austriaco J.A. Schumpeter sappiamo che l’imprenditore è mosso da
una razionalità più complessa di quella strumentale e massimizzatrice. Innanzituto l’imprenditore è essenzialmente un innovatore, qualcuno capace di spezzare la routine e di generare così nuova ricchezza, destinata ad essere riassorbita quando gli “imitatori”
accorreranno in quel setore produtivo ripristinando ben presto lo
stato stazionario. Schumpeter (1911) ha infati proposto atorno alla
figura dell’imprenditore e la dinamica del capitalismo una delle teorie economiche più suggestive e rilevanti del Novecento. Una sua
idea chiave è la distinzione tra imprenditori “innovatori” e “imitatori”. L’imprenditore in senso proprio e originale è solo l’innovatore, quell’agente che rompe lo stato stazionario (dove non ci sono né
profiti né perdite), e grazie ad una nuova idea crea valore aggiunto
e sviluppo, porta avanti l’economia e la società tuta. Questa innovazione può essere di prodoto, di processo, organizzativa, ecc., ma
è sempre un novum che spezza l’equilibrio e produce ricchezza. Per
Schumpeter, dunque, il valore aggiunto è generato dall’innovazione. Poi arrivano, come uno sciame di api atrate dalla nuova opportunità di profito, altri “imprenditori” imitatori (che non dovremmo
chiamare propriamente imprenditori), che fanno propria quell’innovazione, la quale da quel momento in poi diventerà parte integrante
dell’intero mercato e della società. Così il profito ha per sua natura
uno statuto temporaneo, dura quel tanto che passa tra l’innovazione
e l’imitazione. L’imprenditore è tale finché innova; se smete di innovare, perché rinuncia alla sua vocazione di imprenditore, il sistema
economico e sociale si ferma. Il ciclo innovazione-imitazione è per
Schumpeter il vero circolo virtuoso creatore di ricchezza e di sviluppo economico e civile.
Un’altra nota “vocazionale” dell’imprenditore è poi una certa naturale propensione al rischio. Tecnicamente, la teoria delle decisioni
1
Per smentire subito la nota precedente, la figura di dirigente è più comune rispetto a quella
di imprenditore. La si può spesso comprare sul mercato, invece nessun imprenditore si “costruisce” sul mercato o a scuola.
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considera gli agenti economici normalmente “avversi” al rischio, nel
senso che l’incertezza è di per sé un male o un costo.2 L’imprenditore, invece, è normalmente un soggeto propenso al rischio. In altre
parole, l’imprenditore sa che senza rischio non c’è innovazione. Al
tempo stesso la propensione al rischio dell’imprenditore è diversa
da quella dello speculatore, poiché la prima non ha “scopo di lucro”,
ma è una dimensione intrinseca o vacazionale del mestiere dell’imprenditore. Invece di provare paura e bloccarsi di fronte all’incertezza, l’imprenditore si galvanizza di fronte ad una nuova impresa
e sfida, ama misurarsi con se stesso, con il mondo e con gli altri. La
stessa concorrenza è, ad esempio, vissuta dall’imprenditore con la
stessa passione con cui un atleta vive la gara: è il gareggiare stesso
che lo appassiona e lo spinge avanti, non solo il voler vincere (e vincere senza gareggiare gli piace molto meno).3
A queste carateristiche universali che caraterizzano ogni imprenditore, la tradizione italiana dell’economia civile ha aggiunto altre
carateristiche. Innanzituto ha specificato che chi mete al centro
della propria atività il profito non è l’imprenditore, ma altre figure
dell’economia, come lo “speculatore”. Questa affermazione è comune all’interno della tradizione dell’economia civile (Bruni, 2009; Bruni, Zamagni, 2009).
Una persona avversa al rischio preferisce, ad esempio, 100 euro con certezza rispetto a 150
euro con probabilità = 0.5, e 50 euro con prob.= 0.5. Se vogliamo che una persona avversa
al rischio accetti una scommessa, occorre che questa sia tale per cui il suo valore atteso sia
maggiore della somma certa (ad esempio, invece di 150 con prob. = 0.5 offrirle, ad esempio,
200).
3
Occorre però stare attenti a non spingere troppo avanti l’analogia tra sport e competizione, o
tra concorrenza (sportiva) e competizione (economica). Infatti, mentre in una gara (di atletica,
per esempio) vince chi riesce a battere gli avversari, nella competizione di mercato non vince
chi batte gli altri imprenditori, ma chi soddisfa meglio il bisogno dei clienti. In altre parole, se
A è un imprenditore e B un altro imprenditore suo competitore, la competizione tra A e B è
riuscire a soddisfare meglio i bisogni di C: i rapporti (di cooperazione) sono A-C, e B-C, non
A-B: lo scopo diretto di A non è battere B, ma soddisfare al meglio i bisogni di C; se B fa questa
cosa peggio di A, egli (B) esce dal mercato, ma come effetto non-intenzionale: non è lo scopo
di A far uscire B, ma lo scopo di A è servire C. Questa visione del mercato, un po’ diversa da
quella che ci viene normalmente presentata dalla teoria economica, è in linea con una visione
del mercato come luogo di cooperazione e di reciprocità. Invece, chi legge la competizione
come una gara diretta tra A e B, ha un’idea di mercato dove lo scopo diretto di A è battere
B, e la soddisfazione dei bisogni di C è solo un effetto indiretto. Si potrebbe, in conclusione,
mettere in discussione anche l’idea che lo scopo dell’atleta che vuol vincere la gara sia “battere” il con-corrente (chi corre assieme a lui), e non invece dare il meglio di sé per “battere se
stesso”, andare oltre i propri limiti (qui A è l’atleta oggi, e B sarebbe lo stesso atleta ieri), e la
“sconfitta” dell’altro non è lo scopo, ma un effetto indiretto dell’azione di A. Non c’è nulla di più
pericoloso, nelle scienze sociali in particolare, dell’uso sbagliato o impreciso delle metafore.
2
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A questo proposito, così si esprimeva Luigi Einaudi (1964[1944], p.
257) riguardo la figura dell’imprenditore: “Accanto agli uomini, i
quali concepiscono la vita come godimento individuale, vi sono altri uomini, fortunatamente i più, i quali, mossi da sentimenti diversi, hanno l’istinto della costruzione. Forse in nessuna epoca storica
l’istinto della costruzione fu così evidente come nel Medioevo, quando si costruiva per l’eternità. […] L’uomo dotato dell’istinto della
perpetuità, costruisce perché un demone lo urge a getare le fondamenta di qualcosa. Il patrimonio sarà destinato ai parenti, ad opere
pie, a scopi educativi o benefici”. Ciò che muove questi “costrutori” non può essere la massimizzazione del profito, anche perché,
come il liberale Einaudi (1964[1944], p. 220) sapeva, in un regime di
concorrenza il profito è nullo, e la remunerazione dell’imprenditore
non è “né più né meno come il salario di ogni altro lavoratore”.
“L’imprenditore è dunque, da questa prospetiva, un costrutore,
che ha uno speciale istinto: fondare un’impresa. Il suo scopo non è il
profito, ma ambisce a far riconoscere la sua impresa come ‘primaria’ tra le altre. Investire una parte, spesso la gran parte del reddito
dell’impresa nell’acquistare nuove macchine, nel costruire un nuovo
padiglione, nell’abbellire le vetrine del negozio, nel trasportarlo dai
ristreti locali, dove ebbe inizio la sua fortuna, in altri più spaziosi e
centrali e bene arredati; […] Di solito codesti cosiddeti ricchi vivono vita modesta e parca di cibi e di godimenti materiali; primi ad
arrivare sul luogo di lavoro ed ultimi ad abbandonarlo. Quelli che li
osservano, pensano: perché tanto lavorare e faticare? Perché non gustare, come sarebbe ad essi possibile e lecito, qualcuna delle dolcezze
della vita? Perché rimanere, talvolta, rozzi e poco coltivati, occasione
di sorriso ironico per gli intelletuali? Ma fate che essi discorrano
dell’impresa che han creato e diventano eloquenti ed inspirati al par
del sacerdote e del poeta. Chi li ascolta si avvede di trovarsi dinnanzi a uomini sperimentati e sapienti, i quali hanno creato qualcosa
che senza la loro opera non sarebbe esistito.” (Einaudi, 1964[1944],
pp. 274-75).
Una chiave di letura simile, è quella proposta dall’economista Giacomo Becatini (2002, p. 778) il quale distingue tra “imprese nucleolo” e
“imprese progeto”. In una intervista così si esprime a riguardo: “Io
vedo tanti nucleoli di capitale, i quali, per realizzare la loro astrata
natura, se trovano aspra (per ragioni di rischio e/o di rendimento)
la via del prestito ad interesse, decidono, obtorto collo, di immobilizzarsi in edifici, macchine, materie prime e, quel ch’è peggio per loro,
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in lavoratori in carne ed ossa. Le imprese che questo movimento
genera, le chiamo imprese nucleolo. […] A fronte di questa popolazione, continuamente rinnovantesi di imprese nucleolo, sta una
popolazione di imprese tese primariamente a realizzare un progeto
di vita, qualcosa che si può vedere come una sorta di prolungamento e specificazione della personalità dell’investitore-imprenditore”.
E poi aggiunge: “Le imprese-progeto non commisurano, per tuta
una fase della loro crescita, i risultati via via otenuti al rendimento del capitale investito, ma, semmai, al grado di realizzazione del
‘progeto iniziale’ o di qualche revisione di esso. Il gelido calcolo
finanziario potrebbe suggerire ad un’impresa progeto, in una certa
fase congiunturale, la smobilitazione, ma le sue ragioni per restare
sul mercato sono così complesse, che essa può dispiegare una resistenza ‘irrazionale’, da un punto di vista stretamente finanziario,
alla smobilitazione. E alcune volte accade che, contro il parere degli
esperti, quella resistenza abbia successo”.
Su questa stessa linea si muoveva un altro economista italiano, Umberto Ricci (1926, p. 119) (una figura molto interessante, morto esule in Egito nel 1946 dove si era dovuto recare per non aver voluto
giurare come professore al regime fascista), il quale, commentando
l’approccio dei suoi colleghi che vedevano l’egoismo come movente
di tute le azioni umane, così commentava: “Non occorre arrivare a
queste conclusioni estreme, che allargherebbero il dominio dell’economia politica, ma rimpicciolirebbero l’uomo”.
All’interno di questa tradizione, dunque, è lo speculatore, o l’impresa nucleolo, che ha come scopo il profito (Einaudi, 1964, pp. 224 ss.).
È costui che dovremmo definire propriamente un operatore for-profit, che per questo movente (il profito) apre oggi un’impresa edile,
domani un ospedale, dopodomani una scuola, perché il suo scopo
è far profiti “tramite” l’atività che svolge, che quindi è solo strumentale. Ma l’imprenditore è un altro personaggio, un altro tipo di
agente economico, almeno per la tradizione di pensiero economico
che possiamo chiamare “civile”, tradizione tipicamente italiana.
Ovviamente, non tuti gli economisti italiani condividono la distinzione tra imprenditore, e, diciamo, speculatore. Pareto (1948, p. 86),
forse l’economista italiano più importante di sempre, così definiva
l’imprenditore: “Gli imprenditori sono persone che si occupano della trasformazione del risparmio in capitali e dei servizi di capitali in
beni economici diretamente consumabili, ovvero, in altri termini,
si valgono dei beni strumentali per produr beni direti. In quanto
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imprenditori non hanno che un fine: conseguire il più grande guadagno di numerario possibile”.
Pareto, in linea con la migliore tradizione italiana, ci dice che la ricerca del profito è il fine, ma il risultato può essere persino il bene
comune poiché in regime di concorrenza il mercato “usa” del movente individuale dell’imprenditore (e dei consumatori) e spinge i
prezzi verso i costi (contro le intenzioni degli stessi agenti economici) - come Smith ci aveva già magistralmente svelato con la metafora
della “mano invisibile”.
Su una linea simile a quella di Pareto è Maffeo Pantaloni (1904[1898],
pp. 210-211), altro protagonista della scienza economica italiana e europea tra l’Otocento e il Novecento, che con ogni probabilità è stato
anche una delle fonti della teoria paretiana dell’imprenditore. In un
famoso saggio sui “principi teorici della cooperazione”, così scriveva:
“Se un’impresa fabbrica, poniamo, rotaie, il servizio che essa presta ai
soggeti della medesima, cioè, diciamo, agli azionisti, è il dividendo
che essi spartiscono a fine d’anno: l’impresa è un mezzo per procacciarsi un reddito; questo reddito è il suo servizio; questo servizio lo
consumano soltanto i soci. Ma le rotaie? Non sono anch’esse il servizio
definitivo e ultimo dell’impresa e non consumano codesto servizio
dei terzi? Ecco qua. Le rotaie non sono il servizio definitivo e ultimo
dell’impresa. Questa non è stata fata, né si continua da coloro che la
fecero, per dare all’umanità il piacere di avere delle rotaie”.4
In altri luoghi della sua opera, poi, Pantaleoni ridicolizzava quegli
economisti (in particolare gli umanitari e i catolici sociali) che criticavano l’ipotesi egoistica (da lui posta invece a pietra angolare del suo
sistema di economia pura), e li sfidava a mostrare che i moventi che
portano: “Gli spazzini a spazzare le strade, la sarta a fare un abito, il
tramviere a fare 12 ore di servizio sul tram, il minatore a scendere nella
mina, l’agente di cambio ad eseguire ordini, il mugnaio a comperare e
vendere il grano, il contadino a zappare la terra, ecc.”, siano: “L’onore,
la dignità, lo spirito di sacrificio, l’atesa di compensi paradisiaci, il patriotismo, l’amore del prossimo, lo spirito di solidarietà, l’imitazione
degli antenati e il bene dei posteri”, e non invece: “Soltanto un genere
di tornaconto che chiamasi economico” (Pantaloni, 1925, I, p. 217).
4
A questo proposito si nota subito un’anomalia: se lo scopo dell’azione economica è soddisfare
il bisogno, come Pantaleoni aveva affermato in tutta la prima parte dei suoi Principii (del 1889),
e buona parte della scienza economica a lui coeva, affermava, come mai allora lo scopo dell’imprenditore non è anche soddisfare i bisogni dei clienti ma massimizzare i profitti? Il principale
protagonista del mercato, che è l’ambito principale di studio della nascente scienza economica
basata sui bisogni, è un’anomalia rispetto all’agente economico “normale” che invece agisce per
soddisfare i propri bisogni? E secondo quale logica possiamo giustificare tale anomalia?
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In una tale visione dell’impresa lo “scopo” di una compagnia aerea, ad esempio, non è trasportare passeggeri, ma massimizzare i
profiti; quello del calzolaio non riparare le scarpe, ma fare profiti,
dell’ospedale non curare malati, ma fare soldi per gli azionisti, della
scuola non educare giovani, ma massimizzare profiti, ecc. Ecco, allora, che per giustificare che ci possono essere atività dove lo scopo
è diverso, che questa stessa visione teorica e culturale deve inventare
la categoria dell’impresa nonprofit. L’atività d’impresa è un mezzo,
un semplice strumento; lo scopo è il profito, tuto il resto non ha
valore intrinseco, ma funzionale a tale scopo. Questa visione, oltre
ad essere molto lontana da quella dell’EdC5, non è certamente quella
di Einaudi, lo abbiamo visto, né quella di Becatini, né quella della
tradizione civile italiana, come vedremo, né quella della tradizione
dell’economia aziendale6.
3. Alcune caratteristiche specifiche dell’imprenditore EdC
Fin qua le carateristiche che, sebbene non siano tipiche dei soli imprenditori EdC, anche l’imprenditore orientato alla comunione deve
possedere. In altre parole: nell’imprenditore EdC il sostantivo (imprenditore) conta quanto l’atributo orientato alla comunione sia che
manchi l’uno, sia che manchi l’altro, l’imprenditore EdC non viene
ad esistenza.
Al tempo stesso, l’imprenditore EdC ha altre peculiarità che lo fanno
tale, che fanno cioè sì che l’imprenditore sia non solo imprenditore,
ma anche di comunione.
Qualcuno potrebbe, per errore, pensare che lo scopo dell’EdC sia produrre profitti allo scopo
di realizzare i suoi tipici scopi: in realtà, come emerge anche da questo numero della Rivista,
gli scopi di un’impresa EdC sono molteplici, tanto che ci sono imprese sociali che aderiscono
all’EdC (che non distribuiscono profitti), e molte aziende che pur non generando profitti includono poveri, portano avanti una diversa cultura d’impresa nel loro territorio, ecc.
6
Lo stesso Pantaleoni, poi, in un suo scritto dove delineava le prospettive economiche per
il XX secolo, si apre ad immaginare qualcosa di diverso dalla sua stessa teoria: “Potranno,
ad esempio, sentimenti di onore sostituire la forza motrice che ora è fornita dall’interesse
individuale, e sentimenti di carità, benevolenza, mitigare gli istinti feroci che ruggiscono nella
bête humaine. […] Questa speranza non è fallace. Ma è fallace credere che possa essere un
prodotto artificiale, ed è fallace non scorgere che scaturisce spontaneamente dalla cerchia dei
contatti ognora allargati tra gli uomini. […] Più diventano numerosi i contatti e più diventano
intrigati gli interessi che collegano gli uomini tra di loro, più si estende eziandìo la zona della
loro sensibilità e si lima, al contatto con gli altri, il loro egoismo, faccettandolo come un brillante” (Pantaleoni, 1925, I, p. 266).
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Propensione al rischio e responsabilità
Innanzituto, le carateristiche tipiche di ogni imprenditore assumono anche una sfumatura particolare. Riguardo la propensione al rischio, l’imprenditore EdC sa che anche il suo prendere rischi non
può restare una faccenda puramente individuale. Sa, e impara col
tempo, che la spinta a rischiare va coniugata con la responsabilità;
come tuti gli imprenditori civili, certamente, che quando assumono
rischio, assecondando il proprio istinto imprenditoriale rischiando,
devono sempre tener presente la responsabilità verso i vari portatori
di interessi dell’impresa (lavoratori, clienti, fornitori, fisco, società
civile, ecc.). L’imprenditore EdC, in più, sa che ci sono altri stakeholder e needholder (portatori di bisogni) che dipendono dalle sue scelte.
Questi sono senz’altro i poveri aiutati dal progeto che, di fronte al
venir meno dell’impresa per una scelta sbagliata (che magari porta
l’impresa al fallimento o alla cessione), subiscono dei danni; ma questi sono anche gli altri imprenditori EdC, la comunità di riferimento,
la società civile che guarda e prende forza ed esempio dall’imprenditore EdC, gli studenti, gli studiosi, la comunità scientifica che studia
l’EdC, e potremmo continuare. Tuti questi soggeti debbono essere
tenuti presenti da un imprenditore EdC nel contemperare rischio
e responsabilità nelle scelte strategiche, ma anche in quelle quotidiane. Quindi, per fare un esempio, se un imprenditore EdC vende
l’azienda ad una multinazionale, forse tuti gli stakeholder tradizionali possono non risentire o addiritura essere avvantaggiati da questa
scelta; ci sono però effeti importanti su altri stake-needholder tipici
dell’EdC che, in certi casi, possono anche spingere l’imprenditore
EdC a rivedere la propria scelta proprio perché il “peso relativo”
di questi effeti secondi può essere considerato maggiore dei primi.
Ovviamente, il peso relativo dei vari soggeti coinvolti da una scelta
è sempre questione delicata e non può essere stabilito a tavolino, ma
la presenza di questi aspeti tipici dell’EdC può, e deve, condizionare ogni scelta strategica dell’impresa.
Comunione nel processo decisionale
C’è poi una seconda carateristica tipica dell’imprenditore EdC.
Questi sa, e impara, che le sue intuizioni, anche quelle più originali,
vanno passate al vaglio della comunione con altri, e che la comunione non è solo un obietivo da raggiungere (dentro l’azienda, con la
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comunità, con i poveri, ecc.), ma è anche un “metodo ordinario di
gestione” dell’impresa.
Infati, uno dei trati-chiave della “carta d’identità” di un imprenditore EdC è l’aver rinunciato ad una gestione individualistica
dell’azienda, anche quando fosse giuridicamente o formalmente imprenditore individuale. Non gli basta l’ubbidienza o l’indifferenza
degli altri atori dell’impresa, ma sente il bisogno che le scelte d’impresa (sopratuto quelle importanti), siano il fruto di un vero processo di condivisione a vari livelli, nel quale si “entra” con un’idea e
se ne esce con altra, pronto ad ascoltare qualsiasi atore dell’impresa
al di là dei ruoli aziendali.
Inoltre, questo processo di comunione non si limita ai soci o ai lavoratori dell’azienda, ma si allarga agli altri imprenditori EdC con i
quali si porta avanti un vero processo di comunione, che non può e
non deve limitarsi ai soli aspeti “spirituali” o “etici”, ma coinvolgere
anche le scelte propriamente economiche. L’imprenditore orientato
alla comunione, ad esempio, è disposto a metere in comune con altri
anche gli aspeti più economici e finanziari dell’azienda, a metersi in
discussione, ad esempio, in un dialogo vivo e franco sul se e quanto
calcolare le “parti” degli utili, e non rifugiarsi in una privacy che di
fato spesso significa gestione individualistica della propria atività.
Molta della maturità dell’EdC si gioca proprio sulla capacità di ben
dosare questo rapporto, senza che, da una parte, la comunione diventi una strada per un’ingerenza indebita di soggeti “esterni” nelle
scelte aziendali, o che, dall’altra, per paura di ciò ogni imprenditore
effetui le proprie scelte economiche e strategiche in beata solitudo,
senza avvertire il bisogno di vivere la comunione anche in questi
aspeti più delicati, ma fondamentali, della vita di un’azienda. Personalmente sono convinto che questa dimensione della vita dell’EdC
sia quella sulla quale ci si gioca molta dell’appartenenza effetiva (e
non solo formale) al progeto, e la possibilità che l’esperienza cresca
e maturi nel tempo; sopratuto in considerazione del fato che, a
differenza delle cooperative sociali nelle quali esiste una governance
e regole formali oggetive di partecipazione e di democrazia economica, nelle imprese EdC spesso le regole formali sono quelle tipiche
delle imprese capitalistiche, e l’imprenditore ha pochi meccanismi
istituzionali che lo portano oggetivamente a condividere le proprie
scelte strategiche.
Infine, quando il consenso non arriva e ci sono confliti e/o diversità
di vedute, l’imprenditore EdC vive un deto di Chiara Lubich che
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trovo talmente appropriato alla vita di un’organizzazione economica da far pensare che potrebbe essere stato scrito appositamente
per queste: “Meglio il meno perfeto in unità, che il più perfeto in
disunità”. L’imprenditore sa quindi aspetare, soffrire, rischiare (anche questa è una dimensione del rischio), perdere tempo (e magari
a volte anche opportunità di mercato che richiederebbero velocità
di scelta), perché è consapevole che il grande patrimonio intangibile
della sua azienda è proprio quel capitale relazionale fato di fiducia,
di consenso ativo, che se non ha una manutenzione e un’atenzione costante e costosa tende a deteriorarsi (come tuti i capitali); ma,
quando c’è, è fatore vero di innovazione e di crescita anche economica. Quindi questi imprenditori (e atori tuti) di comunione non
considerano il tempo trascorso insieme per prendere le decisioni e
per “persuadersi a vicenda” come una perdita di tempo, ma soprattuto come un investimento in una forma di capitale prezioso almeno quanto quello finanziario e umano.
4. Conclusioni
La dinamica che ho accennato riguarda forse l’aspeto più delicato
della vita di un imprenditore, dove si trova lo snodo, anche teorico, del nostro discorso. Da quanto finora deto sembrerebbe, infati,
che le due componenti dell’espressione “imprenditore orientato alla
comunione” non siano coerenti l’una con l’altra: potrebbe sembrare
che ciò che una persona dovrebbe fare per essere un “imprenditore”
(rischio, innovazione, decidere velocemente, carisma individuale,
ecc.), sia esatamente ciò che deve “perdere” per poter essere “imprenditore EdC”. L’imprenditore, infati, ha per vocazione una forte
natura individualistica: tra i suoi skill non c’è normalmente la capacità di dialogare alla pari con altri; quando invece entra in una dinamica di comunione - penso sopratuto alle esperienze dei poli imprenditoriali dell’EdC - deve sviluppare anche una capacità di lavoro di
team, di partenariato, che spesso si rivela di cile e dolorosa. Infati,
l’imprenditore di comunione vive in una tensione dove è chiamato
a “perdere” la propria vocazione imprenditoriale individuale per ritrovarla più matura e vera nella comunione con gli altri. L’imprenditore muore per rinascere continuamente imprenditore EdC.
In particolare questo tipo di imprenditore sa che nel momento in
cui dà vita ad una impresa EdC rinuncia all’esercizio del nudo potere e alla mediazione immunizzatrice della gerarchia: rischiando la
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fraternità è sistematicamente esposto alla “ferita dell’altro” (Bruni,
2007). Diventa più fragile e vulnerabile nelle relazioni interpersonali, per poter creare vera fraternità, non paternalistica e su un piano
di uguaglianza sostanziale con tuti: è questo il prezzo per costruire
la comunione nell’impresa; ma ne è anche il suo valore.
Da questo punto di vista questi imprenditori, quando stanno al gioco,
vivono una vera e propria ascetica, perché l’imprenditore di comunione ha l’impressione che giorno dopo giorno gli stia sfuggendo di
mano il controllo della sua “creatura” (l’impresa). Sono passaggi difficili e meravigliosi assieme, nei quali si perdono i riferimenti, quasi
l’identità. Si ha l’impressione, che può durare anni, di perdere tempo
in cose che un imprenditore serio e responsabile non dovrebbe fare, ci
si può sentire come un uccello cui sono state tarpate le ali, e non riesce
più a volare. In questi dicioto anni abbiamo visto che alcuni imprenditori EdC di fronte a questa dinamica vanno in crisi e lasciano tuto;
altri vanno avanti, e si incamminano lungo vie di eccellenza umana
e spirituale. L’esperienza sta infati dicendo che chi si mete davvero
con docilità alla scuola della comunione diventa costrutore di comunione in tuti gli ambienti. Ma è anche in questi momenti che inizia
veramente la fraternità nell’impresa EdC tra tuti i soggeti coinvolti,
che non può mai essere una faccenda di sole struture di governance, di
strumenti o di diriti di proprietà, perché è sempre esperienza interiore e spirituale, dell’imprenditore, di tuti, di ciascuno.
Riferimenti bibliografici
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Schumpeter J.A (1911), Teoria dello sviluppo economico, ed. italiana, Sansoni,
Firenze.
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Il Forum
L’ECONOMIA DI COMUNIONE
Flaviano Zandonai
L’economia di comunione
a cura di Flaviano Zandonai
Il Forum dedicato all’economia di comunione approfondisce principalmente i legami tra le organizzazioni che si riconoscono in questa
esperienza e altre istituzioni economiche e sociali: il terzo setore in
particolare, ma anche il mondo delle imprese “tradizionali”. Questa
analisi, molto articolata, mete in luce l’esistenza di un paradosso: da
una parte si segnala un potenziale notevole di collaborazione, sia per
a nità di obietivi e missione (sopratuto rispeto al terzo setore), sia
per questioni di tipo congiunturale, come la crisi atuale che obbliga
il sistema economico a ripensare i suoi fondamenti, dando spazio a
dimensioni più marcatamente sociali . Questo potenziale è però solo
parzialmente agito, almeno nel nostro paese. A fronte di una produzione scientifico-culturale ormai consistente, sono infati relativamente poche le esperienze struturate di collaborazione e di scambio tra
l’economia di comunione e i sistemi economici e sociali - sia micro
che macro - in cui le iniziative ad essa ispirate sono presenti. Quali
sono le ragioni che hanno fin qui limitato, o rallentato, il processo? Le
risposte alle domande del Forum, sopratuto nella parte finale, propongono alcune soluzioni che, in questa sede introdutiva, possono
essere riepilogate in forma di tassonomia di priorità. In primo luogo
l’economia di comunione si propone come un progeto volto a “sovvertire” il paradigma economico - e forse anche sociale - esistente, in
quanto sa riproporre in veste contemporanea principi di cooperazione e solidarietà - in una parola di comunione - che negli ultimi decen-
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IMPRESA SOCIALE
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FORUM
ni erano passati in secondo piano a favore di dinamiche relazionali
basate su un eccessivo schematismo dei ruoli. Ad esempio, separando
rigidamente le figure del “produtore” da quelle del “consumatore”
o dell’“utente”, sia che si trati della fruizione di beni materiali che di
servizi di welfare. Si trata quindi di un approccio che richiede tempi
lunghi per essere adeguatamente metabolizzato e sopratuto implementato nelle prassi sociali, financo nelle politiche e negli schemi di
regolazione giuridica. In secondo luogo il sistema di motivazioni che
sostanzia la proposta dell’economia di comunione è legato ad un’opzione di fede. La centralità assegnata a questo aspeto rappresenta
una soglia d’ingresso che, da un lato, può facilitare, ma in altri ambiti
può anche rallentare, se non ostacolare, l’avvio di forme di interazione
struturate con persone e organizzazioni dove questa scelta di fede
non è così rilevante. E’ pur vero che, a ben vedere, il sistema di valori
proposto dall’economia di comunione è largamente condivisibile anche in contesti laici e ciò appare comunque legato alla costruzione di
tessuti comunitari in cui - forzando l’utilizzo di concetualizzazioni
elaborate in riferimento al capitale sociale - prevale un approccio relazionale di tipo bridging. In terzo luogo può essere ricordata la difficoltà da parte di molte organizzazioni, comprese quelle del setore
sociale, ad esplicitare e aggiornare in modo consapevole i fondamenti
etico-valoriali del proprio agire così da disporre di adeguate cornici
di senso all’interno delle quali è più agevole dialogare con realtà come quella dell’economia di comunione - che fondano su consistenti
elementi di significato e di appartenenza la propria operatività e le
proprie opzioni strategiche. Su questo fronte è necessario procedere
ad una revisione di strumenti come dichiarazione di missione, bilanci
sociali, carte dei servizi, ecc. che in questi anni si sono molto diffusi
anche in ambito nonprofit, ma che sembrano aver subìto una deriva da adempimento burocratico che limita molto la loro e cacia. In
tal senso ha giocato un ruolo negativo l’averli imposti come obbligo
normativo, generando così una spirale al ribasso che dovrebbe essere
invertita grazie anche al sostegno delle organizzazioni di rappresentanza e di coordinamento del setore.
Hanno partecipato al Forum: Alberto Ferrucci (…); Maria Grazia
Fioreti (Comunità Solidali - gruppo cooperativo Cgm); Stefano Granata (Consorzio Sis Milano - gruppo cooperativo Cgm); Ilaria Pedrini (laureata all’Università degli Studi di Trento); Paolo Venturi
(diretore di Aiccon - Associazione italiana per la promozione della
cultura della cooperazione e del nonprofit).
L’ECONOMIA DI COMUNIONE
Flaviano Zandonai
1. SECONDO LEI
COMUNIONE?
COME VIENE VISTA DAL TERZO SETTORE L’ESPERIENZA DELL’ECONOMIA DI
FERRUCCI
Chi è impegnato nel volontariato può essere portato a considerare
l’esperienza di economia di comunione, che ha come protagonisti
anche persone ed organizzazioni economiche con fini di lucro, in
modo ridutivo, fino alla visione di Serge Latouche che in un suo
libro l’ha definita un ritorno al capitalismo filantropico. Se questo
accade è per la scarsa conoscenza delle realizzazioni più autentiche del progeto, invero presenti nel mondo ancora in numero
ridoto. Il progeto è nato per applicare a tute le atività economiche i paradigmi della gratuità e della fraternità, fondamento del
terzo setore, per evitare che tali paradigmi siano magari lodati ed
ammirati, ma considerati applicabili solo alle atività di un gruppo ristreto di persone di buona volontà, senza però che incidano
sull’economia reale, come tuti gli operatori del terzo setore auspicherebbero.
FIORETTI
Secondo me l’economia di comunione non è particolarmente conosciuta. Chi la conosce credo che la apprezzi e la veda come una
punta di eccellenza delle scelte ideali del terzo setore. Una specie
di ideale a cui tendere, sopratuto per quanto riguarda la gestione di atività imprenditoriali.
GRANATA
Il mondo del terzo setore in generale, ma particolarmente quello legato alla realtà più spiccatamente imprenditoriale, tende a
leggere l’economia di comunione, in quanto sempre più oggeto
di studio delle scienze economiche, come una sorte di chiave di
accesso a nuovi approcci al mercato. In verità l’economia di comunione non presenta importanti novità in quanto diversa o alternativa forma d’impresa, tanto è vero che l’adesione al progeto
non modifica la forma giuridica né l’asseto istituzionale dell’impresa stessa. L’economia di comunione è espressione di un agire
economico improntato alla cultura del dare , che tanti, in tuto
il mondo, cercano di realizzare nella vita di ogni giorno: dalle
scelte di consumo, a quelle di risparmio e investimento, a quelle
produtive e di impresa. Uno stile economico che a livello di organizzazioni produtive si esprime nel voler coniugare il rispeto
delle regole e dei valori dell’impresa con altri valori, motivazio-
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FORUM
ni ed obietivi, sintetizzabili come cultura della comunione nella
libertà. Dall’economia di comunione il mondo del terzo setore
ha saputo valorizzare alcune categorie economiche che da questa
sono state generate e divenute fondamento di approfondimento
culturale e motore esperienziale quali reciprocità, gratuità, fraternità, beni relazionali.
PEDRINI
Non mi è possibile dire univocamente come un mondo tanto
vario come quello che va soto il nome di “terzo setore” guardi
all’economia di comunione; certo ho l’impressione che si stia entrando nella fase di una reciproca scoperta, con la valorizzazione
di profonde analogie e di un compito comune. Lo dico in riferimento alle frequenti occasioni di confronto e di riflessione, in ambito accademico e non solo, e alle collaborazioni a diversi livelli.
Complice forse questo tempo di crisi dell’economia del profito
speculativo e il vacillare del suo primo atore, l’individualismo di
singoli, gruppi e nazioni; complice il dileguarsi nella frammentazione del presente dell’idea di un bene comune da realizzare
con gli strumenti del governo statale della cosa pubblica, le esperienze della cosiddeta “economia civile” sono incalzate ad affrettare il passo in un dialogo fativo da cui molto si può sperare.
Dalla condivisione di prospetive e valori si potrà presto arrivare
a muovere i primi passi di un’azione congiunta ed e cace nel
rinnovare profondamente le dinamiche economiche e renderle
davvero più “civili”.
VENTURI
Il giudizio del terzo setore non può che essere positivo rispeto
alla presenza ed alla crescita dell’esperienza dell’economia di comunione. E’ infati una testimonianza virtuosa in quanto ponendo al centro del proprio agire economico il protagonismo del civile, rompe il dualismo del pensiero tradizionale che classifica in
modo schematico l’impresa for-profit unicamente orientata alla
massimizzazione del profito e l’organizzazione nonprofit tesa
al raggiungimento di finalità di utilità sociale. Si crea perciò una
“comunione” con il terzo setore in quanto co-promotori di un
cambiamento ispirato al bene comune.
L’ECONOMIA DI COMUNIONE
Flaviano Zandonai
2. QUALI SONO GLI SPUNTI CHE IL TERZO SETTORE PUÒ TRARRE DALL’ESPERIENZA DELL’ECONOMIA DI COMUNIONE?
FERRUCCI
Le atività del terzo setore nascono dall’impulso di una o più persone ad affrontare un problema che interessa altre persone in difficoltà, geograficamente vicine o lontane: spesso si è fato l’errore
nel realizzare lo scopo sociale, “amando, ma senza ‘essere’ amore”,
cioè di seguire il proprio impulso e modo di vedere senza tenere
abbastanza conto della cultura e del punto di vista di chi è destinatario della nostra atenzione, cioè senza considerare queste persone
veramente dei fratelli con pari dignità. Il progeto dell’economia
di comunione pone al primo posto, sia nell’atività produtiva che
nell’utilizzo dei profiti conseguiti, la “comunione”, cioè l’instaurarsi di un rapporto di fraternità, di pari dignità, in cui nessuno è
donatore e nessuno è assistito, perché tuti sono parte di una comunità fraterna in cui non si guarda a chi dà e chi riceve: questo
lo si nota dall’accento posto dall’economia di comunione alla creazione e ricerca di posti di lavoro per chi è in di coltà, in modo
che ciascuno otenga l’inclusione sociale e la possibilità di farsi a
sua volta carico del prossimo, senza diventare un assistito. Ma a
mio avviso il progeto dell’economia di comunione ha un insegnamento da offrire anche all’economia tradizionale e ai soggeti che
in essa operano. La storia dello sviluppo industriale degli ultimi
decenni ha dimostrato che le aziende che sono maggiormente fiorite sono quelle nate dall’ingegno e dalla comunione di conoscenze
di pochi (nel setore del web spesso solo di alcuni giovani, come
nel caso di Google, Skype ed altri). Il loro segreto è stata una “comunione”, nata da una motivazione comune, che ha innescato la
creatività di ciascuno: uno status di cile da mantenere quando
l’azienda si espande e le persone che vi lavorano diventano molte,
perché richiede la capacità di mantenere nel tempo un obietivo
condiviso. Invero negli ultimi tempi la crisi economica sta offrendo
un obietivo verso il quale convergono gli interessi di tuti, quello
della sopravvivenza dell’azienda, in quanto diventa evidente che o
si opera insieme per il bene comune o il posto di lavoro lo perdono
tuti. Ma l’economia di comunione può offrirne anche un approccio
diverso, in grado di rimanere valido anche in momenti di prosperità economica: quando i soci si impegnassero ad utilizzare per il
bene comune i maggiori guadagni, l’obietivo condiviso potrebbe
diventare la maggiore e cienza aziendale, resa possibile proprio
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dal coinvolgimento di tuti i lavoratori. Da questo punto di vista
l’economia di comunione suggerisce tre obietivi per il bene comune a cui destinare i risultati di questa maggiore e cienza, che nella
mia esperienza personale si sono tradoti in altretante modalità di
impiego degli utili: il primo è di rendere l’azienda più solida e produtiva perché siano creati più posti di lavoro, visto che il lavoro si
prospeta sempre più come un bene fondamentale per la crescita
umana; il secondo è di realizzare opere sociali nei territori in cui
l’azienda opera: migliorare le atrezzature sportive, le struture per
la sanità, la formazione per salvaguardare l’ambiente e realizzare
l’inclusione sociale degli emarginati anche in altre aree del mondo;
il terzo obietivo è migliorare - tramite premi di produzione condivisi tra tuti - la condizione economica dei dipendenti. L’incentivo
per aumentare davvero l’e cienza diventa così non solo economico, ma anche morale e valido per tuti, non solo per i manager. Questi obietivi sono importanti anche per l’azienda e i suoi soci, considerata la crescente necessità di dimostrarne la positiva funzione
sociale delle imprese per chi ne utilizza prodoti e servizi e per il
territorio in cui operano; obietivi che diventano anche “formativi”
per chi vi opera e ne è portatore di interesse, perché trasformano la
spesso conclamata “fratellanza” aziendale, ripiegata su se stessa, in
una “fraternità” aziendale aperta al mondo.
FIORETTI
Senz’altro è possibile identificare diversi spunti: di tipo motivazionale, poiché l’economia di comunione è caraterizzata da scelte personali di vita prima ancora che di volontariato o impegno
professionale. Poi direi anche di tipo comunitario, in quanto è forte in questa esperienza la dimensione della condivisione e della
vita insieme nell’esperienza associativa. Aggiungerei anche uno
spunto legato alla dimensione politica, perché l’economia di comunione propone un impegno rilevante nell’ambito della pace,
della giustizia, della reciprocità e della comunione dei beni. Infine
non va trascurato l’aspeto religioso, perché alla base di questo
tipo di economia c’è una notevole dimensione di fede, che accomuna la maggior parte dei suoi componenti.
GRANATA
Innanzituto divenire consapevoli che la proposta dell’economia
di comunione è veramente economia, e non una esperienza marginale che imprenditori buoni portano avanti per tappare i buchi
dell’economia che conta. E’ una novità non inquadrabile nello sche-
L’ECONOMIA DI COMUNIONE
Flaviano Zandonai
ma dualistico for-profit e nonprofit, tipico della tradizione capitalistica. Inoltre il superamento del conceto secondo cui il valore fondativo dell’azione volontaria starebbe nella gratuità e quindi legato
alla filantropia. Il principio di reciprocità, che nulla ha a che vedere
con il principio dello scambio tra equivalenti, va oltre, generando
una reale produzione di valori di legame sociale. Tale approccio
dovrebbe così educare i soggeti economici a cercare, allo stesso
tempo, il maggior benessere per sé e per l’altro atraverso la pratica ricorrente dell’interazione sociale come valore in sé e non come
strumento per il raggiungimento di vantaggi individuali.
PEDRINI
Gli spunti sono sempre reciproci. Il terzo setore è una galassia
che ha ormai grande solidità, esperienza, spessore scientifico.
L’esperienza dell’economia di comunione ha molto da imparare.
Se qualcosa può offrire di ciò che le è proprio, credo che questo
qualcosa vada ricercato in tre direzioni. La prima nell’accento,
posto già nel suo nome, sul tema della comunione: il termine è
impegnativo, ma ben traduce l’ispirazione del progeto e la visione della fraternità universale che lo accompagna, categoria
esperienziale possibile nei microcontesti quotidiani come nelle
sfide globali del presente. La seconda direzione va nella diffusione internazionale del progeto, ossia nella dutilità di adatarsi a
contesti culturali differenti e nella capacità di creare integrazione
solidale fra realtà economiche molto distanti per livello di sviluppo. La terza risiede nell’atenzione alle questioni culturali, sotese
ad un’atività economica orientata dalla fraternità (la “cultura del
dare”) e alle questioni politiche in senso lato: per questa strada
ogni imprenditore e ogni lavoratore di un’impresa dell’economia
di comunione riscopre in pieno la sua responsabilità nella costruzione della “polis”, di quel bene comune che si fa vero nella prospetiva di una democrazia ascendente e aperta alla dimensione
planetaria. Infine, entrando in ciò che distingue l’atività delle imprese di economia di comunione dalle atività delle imprese nonprofit, il progeto mete a disposizione il suo approccio al mercato
e al profito posti soto la medesima lente della comunione e nella
riscoperta dell’imprenditore come figura sociale, in linea con la
tradizione italiana dell’economia aziendale. Il mercato viene infati ricondoto alla sua funzione di incontro e di espressione di
talenti, mezzo privilegiato per rispondere ai bisogni delle famiglie e a farlo sempre meglio, spazio aperto ad una disseminazio-
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ne di valori e di comportamenti tanto fraterni e gratuiti quanto
“economici”, apportatori di benefici maggiori dei sacrifici. Analogamente, il profito - così conseguito e relativizzato - ha il suo
posto come indicatore di successo, come remunerazione di singoli atori del processo produtivo, e infine come “dono” che va ad
alimentare progeti di “comunione internazionale”.
VENTURI
Penso che il “movente ideale” posto all’origine della conoscenza
delle persone impegnate nell’esperienza di economia di comunione possa essere un aspeto da riscoprire e rilanciare all’interno del
terzo setore. I rischi di istituzionalizzazione, da un lato, e la deriva e cientista, dall’altro, rischiano di far perdere al nonprofit la
propria identità; la dimensione di “senso” che guida l’economia
di comunione penso debba essere recuperata e posta al centro
dell’agire di tuti i volontari e rappresentanti del terzo setore.
3. QUALI SONO, CHE LEI SAPPIA, LE COLLABORAZIONI IN ESSERE TRA IL TERZO SETTORE E LE
ESPERIENZE DI ECONOMIA DI COMUNIONE?
FERRUCCI
Sono già varie le collaborazioni. Il progeto di economia di comunione a da una parte considerevole degli utili che mete in comune
ad Azione Mondo Unito - AMU (organizzazione non governativa
riconosciuta dal Ministero degli Esteri italiano per la cooperazione
internazionale), per finanziare progeti che rispondono ai fini di
economia di comunione, chiedendo ad AMU di applicare i suoi
paradigmi. Esistono alcuni consorzi di cooperative legati all’economia di comunione che condividono i profiti anche al loro interno,
rendendo possibile l’equilibrio economico di singole cooperative
sociali (di tipo B) che operando nel libero mercato non avrebbero
altrimenti modo di far tornare i conti e permetere l’inclusione sociale di molte persone disabili. Nelle Filippine una Banca aderente
al movimento sta collaborando con la Grameen Bank di Yunus assieme ad una multinazionale alimentare francese, per un progeto
di microcredito basato sul paradigma della comunione. Nel mondo
delle aziende di economia di comunione è ultimamente nata una
rete web atraverso la quale è possibile ai giovani trovare un’esperienza lavorativa all’estero nel setore di loro interesse, in aziende
che vivono questi principi. Banca Etica finanzia varie aziende del
setore, e molte di esse la utilizzano.
L’ECONOMIA DI COMUNIONE
Flaviano Zandonai
GRANATA
Certamente sino ad ora ha affascinato un pensiero che vede il
mercato e l’impresa non come regno dei soli interessi individuali, ma come una faccenda di reciprocità e di fraternità: tutavia le
contaminazioni sono ancora ridote con il mondo del terzo setore se non per approfondimenti seminariali, momenti formativi
comuni o tentativi di sperimentazione nel mondo della cooperazione sociale come l’esperienza del Consorzio Tassano in Liguria. Il contesto sociale, economico e politico atuale, sembra
esigere un’economia basata, anziché su una lota per prevalere,
su un impegno per crescere insieme, rischiando risorse economiche, inventive e talenti, per condividere gli utili con coloro
che l’atuale sistema economico tende ad escludere perché non
produtivi.
PEDRINI
Prima che di singole collaborazioni mi piace parlare di un “clima” di reciproca scoperta, come si diceva, che si respira in molte
occasioni. E’ questo clima che spiega le collaborazioni in essere e
che non mancherà di produrne di nuove. Va anzituto sotolineato - a proposito di collaborazioni - che alla proposta dell’economia di comunione si orientano numerose aziende che appartengono al terzo setore, in quanto cooperative e/o consorzi sociali
e che operano nel territorio in modo integrato con tute le realtà
dell’economia civile (alcune di esse sono associate al gruppo cooperativo Cgm). E’ inoltre osservazione ormai frequente la presenza di stand dell’economia di comunione nelle manifestazioni del
terzo setore (penso in particolare a Civitas, a Padova) e il veder
associate le due sigle nella comune denominazione di economia
civile, un’economia che comprende a pieno titolo anche tuto un
“popolo”, ormai numericamente significativo, di consumatori e
risparmiatori, eticamente sensibili e quindi disponibili a premiare
sul mercato chi parla la loro lingua con coerenza. Quello dell’economia civile è anche un fecondo ambito di ricerca nella prospettiva di dare dignità anche teorica ad una miriade di realizzazioni
pratiche. E’ fresco di stampa il “Dizionario dell’economia civile”,
curato dai professori Bruni e Zamagni, pubblicato dall’Editrice
Cità Nuova: un testo che segna una tappa raggiunta di questo
approfondimento culturale sulle comuni ragioni e principi a cui
convergono i percorsi anche molto diversi. Gli esempi di collaborazione anzideti sono oggi comunque ancora limitati all’ambito
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locale, concentrati prevalentemente nell’organizzazione di eventi
culturali; non hanno ancora la forza di diventare esperienze economiche reali e a lungo termine. Laddove l’economia di comunione ha avuto origine ed è più matura, in Brasile, la collaborazione
con associazioni e movimenti, così come con le istituzioni governative, è molto più solida e stabile e rappresenta già una concreta
risposta alle urgenze sociali del paese.
VENTURI
Lo spazio delle collaborazioni credo sia una pagina ancora da
scrivere. Conosco alcuni casi di partnership frutuose con il mondo della cooperazione sociale sul tema dell’inclusione sociale e
dell’inserimento di persone svantaggiate, ma non mi risultano
collaborazioni strategiche e di lungo periodo con istituzioni di
rappresentanza del terzo setore; credo che questa seconda fase
sia la naturale conseguenza di un lavoro serio che prima deve
partire dai territori.
4. QUALI POTREBBERO ESSERE INVECE LE COLLABORAZIONI AUSPICABILI?
FERRUCCI
Tuti sappiamo che ogni organizzazione ha nella sua storia vari
momenti: l’entusiasmo iniziale, le prime di coltà, lo struturarsi, il passaggio generazionale, a volte le problematiche della sopravvivenza col venire meno di soci fondatori o di fonti di finanziamento fondamentali per le atività svolte, portando a volte al
punto di sostituire in pratica lo scopo sociale con l’obietivo della
sopravvivenza. L’apporto della riflessione teorica che si è sviluppato atorno al progeto economia di comunione può essere di
grande aiuto a chi si trova ad affrontare da solo dei passaggi di cili della propria atività. In questi giorni si è tenuto un convegno
su questi temi, dedicato alle opere sociali degli ordini religiosi,
che per vari motivi si trovano ad affrontare problematiche analoghe: riduzione delle vocazioni, necessità di adeguare l’atività
all’evoluzione dei bisogni sociali, ecc.
GRANATA
Direi che le considerazioni proposte nella domanda precedente
possono essere considerate anche degli auspici per ulteriori possibilità di collaborazione.
L’ECONOMIA DI COMUNIONE
Flaviano Zandonai
PEDRINI
Come si è deto l’incontro fra i due mondi è incalzato dall’urgenza e dalla gravità dei fenomeni che la crisi ha fato emergere,
primo fra tuti il tema del lavoro. Economia di comunione e terzo setore costituiscono una palestra di dinamismo produtivo
che cresce al di fuori e con logiche nuove rispeto ai tradizionali
setori delle imprese private e della pubblica amministrazione.
Secondo alcune stime, nei prossimi anni l’economia tradizionale
potrà occupare non più dei 2/3 dei lavoratori. E’ un problema
grave dai risvolti complessi. C’è una via di uscita ancora poco
percorsa: potenziare e sviluppare la capacità e la vocazione produtiva della società civile. Occorre cioè che una quota maggiore
di società civile e di famiglie si riscopra capace di creare essa
stessa lavoro, e non solo nei servizi di cura, ma anche in altri
campi (penso, ad esempio, a quello dell’istruzione) e in setori
ad alto valore aggiunto. E occorre che lo si faccia in sinergia
con le imprese tradizionali e con le istituzioni, puntando ad una
nuova alleanza per uno sviluppo di qualità. Ancora, terzo setore ed economia di comunione insieme potranno portare avanti un approfondimento ed un pensiero nuovo rispeto all’agire
economico, rivalutando le categorie della gratuità e della corresponsabilità non come “accessorie” al sistema, “terze” rispeto
ad un agire fondato sui valori dell’uso e dello scambio, ma come
valori sommamente necessari al funzionamento stesso del sistema economico nel suo complesso. Anche il recente premio Nobel assegnato a Elinor Ostrom, studiosa di quel fenomeno che
va soto il nome di “tragedia dei beni colletivi”, è un sintomo
importante di tempi ormai maturi per un cambio di paradigma
anche per la scienza economica. Chi meglio delle comunità di
lavoro nate nell’ambito dell’economia di comunione o del terzo setore può cogliere e rilanciare questo invito che enfatizza
i comportamenti collaborativi, la democrazia partecipata, le regole condivise e rispetate in quanto percepite come giuste e non
per calcolo di convenienza?
VENTURI
L’economia di comunione potrebbe rappresentare quell’”anello
di congiunzione” tra il mondo del terzo setore e l’economia favorendo una “contaminazione” tra profit e nonprofit tesa ad aumentare il capitale sociale e la coesione sociale nel territorio.
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5. IN
FORUM
CHE MODO E CON QUALI STRATEGIE L’ESPERIENZA DELL’ECONOMIA DI COMUNIONE PUÒ
ESSERE PROMOSSA, PORTANDO ESITI POSITIVI PER LO SVILUPPO DEL TERZO SETTORE
?
FERRUCCI
Mi auspico che in futuro un numero sempre maggiore di imprenditori, lavoratori ed aziende vorranno aderire al progeto dell’economia di comunione per loro scelta di vita. Ma probabilmente
essi saranno sempre e comunque una minoranza: quello che invece può e deve diventare patrimonio diffuso dell’umanità sono i
paradigmi della comunione e della fraternità come fatori di realizzazione umana, applicabili anche in economia: questi principi
con il progeto di economia di comunione vengono all’atenzione
del mondo economico proprio grazie all’esistenza di aziende che
operano, sopravvivono e crescono nel libero mercato, applicando questi paradigmi. Un’atenzione che oggi è maggiore, perché
tuti gli operatori economici atenti vedono incombere problemi
sociali, ambientali e di scarsità di risorse naturali che rendono
problematica la via tradizionale dell’economia. Il mondo è cambiato grazie ad uno slogan dell’atuale presidente Obama: “Yes
we can”. E’ cambiato perché questo messaggio di speranza si è
diffuso grazie alle nuove tecnologie dell’informazione, grazie a
Twiter e Facebook. Mi auspico che operatori e studiosi di economia di comunione e di terzo setore sappiano formulare, grazie
alla loro riflessione e alla loro esperienza di vita, nuovi slogan
vitali, “pillole medianiche” applicabili ad azioni concrete da tuti
realizzabili, che poste in rete grazie alle tecnologie dei nostri tempi, permetano di diffondere questi doni del Carisma dell’Unità di Chiara Lubich, colei che ha ideato il progeto che definiva
“dono di Dio per l’umanità del terzo millennio”.
FIORETTI
Può essere senz’altro promossa a livello di esempio e riferimento
di tipo ideale e valoriale. L’aspeto che io ritengo più significativo
e apprezzabile infati è quello della condivisione e dell’autentica
comunione tra i suoi componenti. L’economia di comunione non
è certo un mero modello economico, ma è un’esperienza di vita
di un grande gruppo di persone, provenienti da tuto il mondo e
accomunate da ideali, dalla fede e da coerenti scelte di vita che,
come conseguenza - e non come mero espediente tatico volto ad
ricercare aderenti e/o risorse economiche -, può sempre più attrarre ed essere credibile.
L’ECONOMIA DI COMUNIONE
Flaviano Zandonai
GRANATA
L’economia di comunione dovrebbe essere promossa come un vero
e proprio cambio di paradigma. Potrebbe divenire il paradigma di
quelle imprese for project le quali non si collocano né per, né contro
il profito, in cui i soggeti interessati sono costrutori di progeti
condivisi, nei quali il profito è solo un elemento: si pensi al tema
della sostenibilità dello sviluppo economico, ambientale, sociale.
L’economia di comunione può essere in grado di orientare il mondo
del terzo setore, atraverso la sua piena realizzazione, verso il convincimento e l’implementazione di esperienze di eccellenza, che è
possibile servirsi del mercato come mezzo per conseguire obietivi
di natura pubblica. In particolare, che si possa utilizzare il mercato,
non solo per produrre in maniera e ciente ricchezza, ma anche
per ridistribuirla secondo canoni di equità. Lo Stato, quindi, non
emerge più come la sola istituzione deputata alla redistribuzione,
ma il mercato, a condizioni precise determinata dal principio di reciprocità, può diventare strumento per rafforzare il vincolo sociale,
favorendo sia la promozione di pratiche di distribuzione della ricchezza, sia la creazione di uno spazio economico in cui sia possibile
rigenerare quei valori quali fiducia, simpatia, solidarietà, dalla cui
esistenza il mercato stesso può dipendere.
PEDRINI
La prima e fondamentale strategia sta in questa disponibilità e
desiderio di conoscersi e di imparare gli uni dagli altri. Dalla stima nasce una osmosi di pensiero e di prassi e quindi un naturale
convergere su obietivi e strategie comuni. Per entrambi è fondamentale la formazione: i valori in gioco coinvolgono i destini
delle persone e non meramente il loro portafoglio. Per questo è
importante sostenere gli atori dell’uno e dell’altro campo, nutrendo l’azione con adeguati percorsi formativi capaci di accrescere consapevolezza e responsabilità, oltre che con la tessitura di
reti di supporto e di servizio.
VENTURI
Credo che il miglior contributo da offrire al terzo setore sia quello di affermare e costruire nel proprio agire quotidiano la prospetiva di un’economia civile. Un’economia che riconosce non
solo la valenza sociale del terzo setore, ma la sua indispensabile
presenza nel costruire sviluppo e competitività ossia un paradigma economico in cui non vige la contrapposizione tra gratuità e
mercato, tra dono ed economia.
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L’impresa sociale in Italia
L’INNOVAZIONE DELLE IMPRESE SOCIALI NELLE REGIONI MERIDIONALI
Daniela Farina, Luca Fazzi
L’innovazione delle imprese sociali nelle regioni
meridionali: il caso delle cooperative sociali di
“Libera Terra”
Daniela Farina, Luca Fazzi1
Sommario
1. Introduzione - 2. La storia - 3. Le atività e i risultati raggiunti - 4. Una nuova cultura
imprenditoriale - 5. Innovare le reti dell’impresa sociale - 6. Conclusioni
1. Introduzione
Il problema dell’innovazione costituisce uno dei nodi centrali per lo
sviluppo dell’impresa sociale (Borzaga, 2009; Fazzi, Longhi, 2009).
Tra le recenti esperienze di innovazione realizzate dalla cooperazione sociale a livello nazionale, una di particolare significato anche
simbolico è quella delle cooperative sociali di “Libera Terra” impegnate nella gestione dei beni confiscati alla mafia. In Italia atualmente un certo numero di cooperative sociali usufruisce di beni confiscati che vengono utilizzati per fini sociali. Si trata in particolare di
immobili che sono riutilizzati per svolgere atività di erogazione di
servizi assistenziali o sociali. Rispeto a questo modello che si colloca all’interno della tradizione della cooperazione sociale impegnata
nella produzione di servizi di welfare, le cooperative di “Libera Terra”
presentano alcuni rilevanti elementi di innovazione sia per quanto
L’articolo è frutto di un lavoro di discussione comune. Daniela Farina ha scritto introduzione
e i primi due paragrafi, Luca Fazzi i rimanenti e le conclusioni.
1
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IMPRESA SOCIALE
luglio ~ settembre 2009
riguarda le finalità della loro azione che per le modalità di produzione dei beni e servizi. Il successo imprenditoriale di tali cooperative
costituisce pertanto un esempio concreto dei processi di differenziazione in ato all’interno del movimento cooperativo, evidenziando
al contempo la concreta possibilità di pensare ad uno sviluppo che
vada oltre il modello del welfare mix fino ad ora conosciuto.
2. La storia
Il 25 marzo 1995 nasce “Libera - Associazioni, nomi e numeri contro
le mafie” con l’intento di sollecitare la società civile nella lota alle
mafie e promuovere legalità e giustizia, favorendo la creazione e lo
sviluppo di una comunità alternativa alle mafie stesse. Il Presidente dell’organizzazione è Don Luigi Cioti, già fondatore del Gruppo
Abele di Torino e diretore della rivista Narcomafie.
La prima iniziativa di “Libera” è stata la raccolta di un milione di
firme per una proposta di legge che prevedesse il riutilizzo sociale
dei beni confiscati alle mafie. Sarà approvata anche a seguito di tale
pressione a scadenza di legislatura la legge 109/96 sull’uso sociale
dei beni confiscati alle mafie, che dà inizio ad una legislazione antimafia nel nostro paese, presa come modello dalle altre legislazioni
in Europa e dalla stessa Convenzione delle Nazioni Unite che è stata
firmata a Palermo nel dicembre del 2000.
Atualmente “Libera” è un coordinamento di oltre 1.300 associazioni,
cooperative sociali, gruppi, scuole e realtà di base, territorialmente
impregnate per costruire sinergie politico-culturali e organizzative
capaci di diffondere la cultura della legalità. La legge sull’uso sociale
dei beni confiscati alle mafie, l’educazione alla legalità democratica,
l’impegno contro la corruzione, il sostegno alle vitime delle mafie,
i campi di formazione antimafia, i progeti sul lavoro sostenibile, le
atività antiracket e antiusura, sono alcuni dei concreti impegni di
“Libera”. “Libera” è riconosciuta come associazione di promozione
sociale dal Ministero del Lavoro, della salute e della solidarietà sociale; e come associazione con Special Consultative Status del Consiglio economico sociale delle nazioni unite (Ecosoc)2.
Sulla spinta dell’associazione “Libera” è nata l’esperienza di “Libera
Terra”, il marchio di produzione che raggruppa un piccolo nucleo di
cooperative sociali di inserimento lavorativo operanti atualmente
in quatro regioni Sicilia, Calabria, Puglia e, più di recente, Lazio.
2
Cfr. il sito www.libera.it.
L’INNOVAZIONE DELLE IMPRESE SOCIALI NELLE REGIONI MERIDIONALI
Daniela Farina, Luca Fazzi
L’obietivo di “Libera Terra” si basa sul principio secondo il quale
solo atraverso un uso socialmente responsabile ed economicamente
imprenditoriale della terra confiscata è possibile incidere sul potere
di dominio della mafia e diffondere una nuova cultura della legalità
a livello sia sociale che istituzionale.
Come ha deto la vicepresidente della più conosciuta cooperativa
di “Libera Terra” - la “Placido Rizzoto”: “La mafia controlla il territorio atraverso il potere di decidere chi lavora e chi non lavora.
Liberare la terra significa, poter offrire un lavoro regolare, restituire
dignità ai lavoratori, rendere consce le persone dei propri diriti e
fare capire loro che è possibile anche un altro modo di vivere che
non sia quello del silenzio e dell’omertà”.
Nel progeto di “Libera Terra” si intrecciano tre ingredienti fondamentali: ambiente, economia e responsabilità sociale:
• i metodi di coltivazione biologica sono rispetosi dell’ambiente;
• la storia dell’economia locale viene valorizzata dalla coltivazione di varietà tradizionali;
• viene creato un circuito economico alternativo alla mafia (ricchezza viene creata laddove c’era riciclaggio di denaro sporco
e ricato lavorativo) finalizzato ad offrire lavoro a persone svantaggiate o senza lavoro.
L’associazione “Libera” si configura come l’ente che certifica la qualità dei progeti delle cooperative di “Libera Terra” a cui il Ministero
o i Comuni assegnano con comodato gratuito le terre confiscate alla
criminalità organizzata. Il ruolo di “Libera” è dunque fondamentale
per garantire la reputazione e l’a dabilità sociale delle cooperative
concessionarie dei beni confiscati.
L’uso del marchio “Libera Terra” da parte delle cooperative concessionarie è regolamentato da un disciplinare. Queste per otenere e
mantenere il marchio dovranno rispetare requisiti di caratere sociale (condizioni di lavoro, atività sociali sul territorio, rapporti con
la società civile) ed economico-tecnici (carateristiche qualitative per
i prodoti e i servizi offerti, selezione fornitori e contoterzisti, rendicontazione economico-sociale).
I principali requisiti di tipo sociale riguardano:
• la scelta dei lavoratori, fata orientandosi prevalentemente verso la
realizzazione di percorsi di inclusione di persone disoccupate inoccupate o appartenenti a categorie svantaggiate (ai sensi della legge
381/91). I soci non devono essere stati condannati e/o inquisiti per
reati connessi all’associazione a delinquere di stampo mafioso;
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IMPRESA SOCIALE
luglio ~ settembre 2009
•
•
il rapporto di lavoro deve essere regolato da contrati di lavoro;
ai soci lavoratori e agli eventuali collaboratori devono essere garantite le condizioni di lavoro previste dalla normativa nazionale
in materia.
Quanto ai principali requisiti di tipo tecnico-economico si fa riferimento:
• alle carateristiche produtive (è richiesto il metodo di produzione biologica);
• ai requisiti qualitativi e merceologici (rispeto delle normative
nazionali e degli standard relativi alla sicurezza, alla salubrità dei
prodoti e alla loro tracciabilità) e le ordinarie verifiche di conformità al disciplinare;
• all’impegno al miglioramento costante della qualità dei processi
produtivi e dei prodoti;
• all’impegno ad ispirarsi, nella realizzazione delle atività, ai
principi di sostenibilità sociale ed ambientale e alla valorizzazione delle esperienze del riuso sociale dei beni confiscati anche con
riferimento alle concessionarie che offrono servizi ai terzi o ad altre struture che gestiscono beni confiscati (ad esempio, aziende
agrituristiche, distribuzione e commercializzazione dei prodoti,
servizi turistici, ecc.);
• all’impegno a redigere una rendicontazione economico e sociale,
evidenziando nel bilancio economico annuale consuntivo o nella
nota integrativa o in un documento apposito (rendimento sociale consuntivo) il livello raggiunto rispeto agli obietivi esplicitati
nel rendiconto sociale preventivo, verificando l’eventuale scostamento del volume di affari realizzato con il marchio “Libera
Terra”; lo scopo è quello di dare evidenza della ricaduta sociale
delle atività svolte dalla concessionaria e di valutare, atraverso
una forma di autocontrollo, il grado di adesione della concessionaria agli scopi di “Libera”.
Periodicamente vengono svolti dei controlli da parte di un ente terzo
incaricato da “Libera” di certificare la correta applicazione del disciplinare, e alle cooperative che non rispetano i requisiti richiesti dal
disciplinare viene tolto il marchio (ciò è accaduto con l’Associazione
“Casa dei Giovani” che non aderisce più al progeto “Libera Terra”,
poichè non ha superato i controlli relativi al rispeto del disciplinare di produzione), con danni gravissimi sul piano commerciale e
dell’immagine.
L’INNOVAZIONE DELLE IMPRESE SOCIALI NELLE REGIONI MERIDIONALI
Daniela Farina, Luca Fazzi
3. Le attività e i risultati raggiunti
Le cooperative sociali di “Libera Terra” svolgono atività di inserimento lavorativo di soggeti svantaggiati. Esse si collocano da questo punto di vista nella ricca tradizione della cooperazione sociale di
inserimento lavorativo. Il focus delle cooperative non è rappresentato tutavia soltanto dall’occupazione dei soggeti svantaggiati, bensì
dal valore sociale più ampio delle atività svolte.
Come ha riassunto un membro del Consiglio di amministrazione
della Cooperativa “Valle del Marro”: “La forma della cooperativa B
è lo strumento che è stato giudicato più appropriato per perseguire lo scopo della lota alla mafia e della restituzione del territorio
alla cultura della legalità. La cooperativa significa innanzituto una
condivisione di responsabilità tra più persone. Atraverso la cooperativa di inserimento lavorativo si possono offrire inoltre opportunità a soggeti svantaggiati. La cooperativa però è anche un’impresa
finalizzata a produrre reddito in territori socialmente ed economicamente depauperati e uno strumento di emancipazione per chi è
costreto ad elemosinare il lavoro alla criminalità organizzata.”
Con queste parole è riassunta in larga parte la filosofia che sotende
all’azione delle cooperative di “Libera Terra”. Tale azione si propone
di raggiungere un obietivo di sviluppo della legalità utilizzando la
forma della cooperativa sociale come strumento per coagulare interessi e mobilitare risorse in una prospetiva di impresa che persegue
un bene comune individuato nella fatispecie nel recupero alla legalità e all’utilizzo sociale di beni prodoti atraverso atività criminali
con lo scopo di restituire dignità e potenziare lo sviluppo locale di
un territorio (Fazzi, 2009).
Le atività svolte dalle cooperative sociali sui beni confiscati si basano
su un metodo di lavoro che coinvolge i soggeti del territorio, facendo del bene confiscato una risorsa per lo sviluppo dell’intero circuito
socio-economico locale atraverso il coinvolgimento degli agricoltori
e altri setori produtivi del territorio, tramite degli accordi di produzione e delle struture artigianali che effetuano la trasformazione
dei prodoti3 e fornendo lavoro a persone disoccupate o che sono
costrete a lavorare per la criminalità organizzata atraverso contrati
di lavoro precari o in nero.
Le cooperative sono pensate, inoltre, come lo snodo di una rete di
relazioni con istituzioni scolastiche, associazioni e cooperative che
3
Cfr. il sito www.cooperareconliberaterra.it.
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IMPRESA SOCIALE
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come duplice fine si propone di promuovere culturalmente lo sforzo
imprenditoriale e i risultati raggiunti e di veicolare un messaggio
sulla possibilità concreta di contrastare la mafia atraverso un riutilizzo sociale e imprenditoriale dei beni confiscati.
Il lavoro sui terreni confiscati ha portato alla produzione di olio, vino,
pasta, legumi, conserve e tanti altri prodoti rigorosamente biologici,
tuti contrassegnati dal marchio “Libera Terra”. Questi prodoti oggi
vengono venduti all’interno degli Ipercoop, nelle boteghe del commercio equo e solidale” e nelle boteghe dei sapori e dei saperi della
legalità (il primo negozio in Italia che mete in vendita i prodoti
ricavati dai terreni confiscati alla mafia: vino, olio, pasta, passata di
pomodoro, farina di ceci, marmellate, taralli e tanti altri alimenti biologici) a Roma, Napoli, Palermo e si sta pensando ad una prossima
apertura a Reggio Calabria.
Atualmente, “Libera Terra” è un marchio che coinvolge l’esperienza
di sei cooperative sociali mentre è in fase di definizione il progeto
della prima cooperativa di “Libera Terra” in Campania. Le tre più
importanti soto il profilo economico sono la “Placido Rizzoto” e la
“Pio La Torre”, in Sicilia, e “Terre di Puglia” operante nel brindisino.
Tali cooperative si sono recentemente consorziate in “Libera Terra
Mediterraneo”, nuovo soggeto imprenditoriale, nato per realizzare processi di collaborazione e di coordinamento delle atività delle associate e con un ulteriore obietivo: “Aprirsi agli agricoltori del
territorio che condividano un’idea di qualità, fondata su produzioni
buone, pulite e giuste”. Partecipano al Consorzio quali supporto alle
atività del setore turismo responsabile, insieme ad Alce Nero Mielizia, Slow Food, Banca Etica, Coop Fond e Firma Tour Operator. Alla
base di quest’atività ci sono due agriturismi, un maneggio, una cantina nuovissima e 620 etari di terreno coltivati a grano e vigneto.
Accanto alle tre cooperative principali, partecipano al progeto “Libera Terra” le Cooperative “Lavoro e non solo”, che dal febbraio
2000, gestisce un’azienda agricola su terreni confiscati alla mafia
nel territorio di Corleone e Monreale; “Valle del Marro”, che coltiva
dal 2007 nella Piana di Gioia Tauro 60 etari di terreni confiscati alla
‘ndrangheta ed offre percorsi di inserimento lavorativo ai soggeti
deboli e il “Il Gabbiano”, che gestisce terreni nell’area di Latina.
La Cooperativa “Placido Rizzoto” è atualmente quella che è riuscita
a fare frutare nel modo più visibile i propri investimenti economici
e sociali. La Cooperativa è nata nel 2001 a seguito di un lavoro di collaborazione tra “Libera” e il Consorzio “Sviluppo e Legalità” com-
L’INNOVAZIONE DELLE IMPRESE SOCIALI NELLE REGIONI MERIDIONALI
Daniela Farina, Luca Fazzi
posto da oto Comuni dell’Alto Belice - Corleonese che ha sotoscritto una carta degli impegni con Sviluppo Italia Spa, Italia Lavoro Spa
e Consorzio Sudest. A Italia Lavoro Spa è stato a dato inizialmente
il compito di effetuare selezioni, formazione, tutoraggio e accompagnamento alla professionalizzazione dei giovani della Cooperativa.
Il Consorzio Sudgest e l’Associazione “Libera” hanno predisposto
un progeto, chiamato “Legalità e Sviluppo”, per l’utilizzazione in
chiave economica dei beni confiscati. La società Sviluppo Italia Spa
ha avuto invece il compito di assistere le cooperative sociali nella
predisposizione dei piani di impresa per verificarne la finanziabilità
con fondi agevolati.
Il progeto è stato realizzato atraverso la selezione e formazione per
tre mesi di 15 giovani che avevano mandato domanda per aderire
al bando. Oggi la Cooperativa offre lavoro a circa 40 persone, di cui
10 soci, 25 dipendenti e 2 soci volontari. Dal grano biologico raccolto sono stati prodoti circa 3.000 quintali di pasta, per un totale di
850.000 confezioni vendute, i vigneti producono complessivamente
circa 1.050 quintali di uva tra Catarato, Trebbiano e Nero d’Avola,
nel 2007 sono state commercializzate circa 100.000 botiglie di “Placido Rizzoto Bianco ‘06”, vino bianco prodoto con uve di Catarrato,
e 25.000 di “Placido Rizzoto Rosso ‘06”. Per il 2008, la Cantina “Centopassi” ha presentato tre vini, i due degli anni passati più un nuovo
“Placido Rizzoto Catarrato ‘07”, per un totale di circa 190.000 bottiglie, esportato anche all’estero. Il 27 otobre 2009 in collaborazione
con il Consorzio “Sviluppo e Legalità” e l’Associazione “Libera” è
stata inaugurata a San Cipirello la Cantina “Centopassi” realizzata
all’interno di un immobile sequestrato alla mafia.
Grazie alle assegnazioni alle cooperative sociali di “Libera Terra”
sono state rimesse in produzione circa 600 etari di terreni confiscati,
nei quali si crea ricchezza trasparente e si produce olio, pasta, legumi, vino, farina, passata di pomodoro, melanzane, peperoncino,
miele. I prodoti vengono commercializzati con il marchio “Libera
Terra” e distribuiti dalla Coop e dalle boteghe del commercio equo
e solidale; nella maggior parte dei casi si trata di prodoti tipici e di
qualità, otenuti con metodi di agricoltura biologica e sponsorizzati
come prodoti che hanno un sapore in più, quello della legalità.
Tra i risultati conseguiti dalle cooperative di “Libera Terra” sono da
segnalare:
• più di 300 beni confiscati e assegnati;
• circa 600 etari di terreno confiscati e coltivati, che si sono trasformati in più di 1.000.000 di pacchi di pasta, circa 200.000 botiglie
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IMPRESA SOCIALE
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tra olio e vino, 100.000 vaseti di melanzane, miele, peperoncino,
più di 250.000 confezioni di taralli, ceci, lenticchie e cicerchie;
• 8.000 pacchi di Natale, confezionati con i prodoti a marchio “Libera Terra”;
• 1.000 giovani che hanno partecipato ai campi di lavoro del progeto “E State Liberi!”, per un totale di 100.000 ore di lavoro volontario sui terreni confiscati, offrendo così anche opportunità di
lavoro ai giovani.
Inoltre, le cooperative hanno offerto un’opportunità occupazionale a
più di un centinaio di disoccupati e soggeti svantaggiati atraverso
contrati regolari.
“[…]dare la possibilità di un contrato regolare è fondamentale per
emancipare le persone dal controllo mafioso. I mafiosi controllano il
territorio atraverso la discrezionalità di dare lavoro. I braccianti che
lavoravano prima per i mafiosi venivano fati lavorare due o tre mesi
senza contrato e il potere di influenza della mafia era di conseguenza
altissimo. La cooperativa adesso assume le persone regolarmente e
lentamente la gente capisce il valore della legalità e dei diriti.”
Un prodoto di grande successo è il vino di qualità denominato
“Centopassi”, prodoto dalle cooperative siciliane, con un faturato
di 512 mila euro nel 2008, e “Hiso Telaray” e “Negroamaro”, produzioni della Cooperativa sociale “Terre di Puglia”, con un faturato di
circa 700 mila euro. Tuti rigorosamente ad indicazione geografica
tipica.
Il faturato totale per tuti i prodoti a marchio “Libera Terra” si avvicina ai due milioni di euro: i 483 mila euro del 2004 sono diventati
486 mila euro nel 2008, dei punti vendita Coop, ai quali si aggiungono 830 mila euro dei punti vendita specializzati. L’offerta non è
atualmente ancora in grado a soddisfare la domanda dei prodoti
etici, in fase di forte crescita.
4. Una nuova cultura imprenditoriale
Il progeto delle cooperative sociali di “Libera Terra” rompe con la
tradizione delle cooperative germogliate da consorzi o da cooperative sociali di più vecchia data e inserite nel setore della produzione
di servizi di welfare. La spinta originaria alla costituzione delle cooperative di “Libera Terra” proviene infati da un ente esterno che è
impegnato nella lota alla criminalità organizzata e non nell’erogazione di servizi di welfare e è stata realizzata atraverso la collaborazione con agenzie specializzate come “Sviluppo Italia” o “Italia
L’INNOVAZIONE DELLE IMPRESE SOCIALI NELLE REGIONI MERIDIONALI
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Lavoro”. Nonostante le cooperative di “Libera Terra” inseriscano
anche soggeti svantaggiati all’interno della propria compagine lavorativa, il loro fine è dunque diverso e più ampio rispeto a quello
delle cooperative sociali tradizionali.
Lo stesso diverso obietivo delle cooperative sociali di “Libera Terra”
mobilita culture cooperative con una marcata vocazione imprenditoriale. Come ha sotolineato un amministratore della cooperativa
“Placido Rizzoto”: “Noi sappiamo che per raggiungere i nostri fini
dobbiamo essere prima di tuto capaci di stare sul mercato. Certo è
un mercato particolare dove i compratori non acquistano i prodoti
per il migliore rapporto prezzo qualità, ma anche per il valore simbolico che (tali prodoti) portano con sè. Però senza la qualità non
riusciremo a vendere niente e senza un sistema commerciale che rispeta gli ordini perderemmo in breve i nostri clienti”.
La preparazione ad affrontare in prospetiva imprenditoriale lo sviluppo delle cooperative costituisce un elemento specifico per la selezione dei soci. La strutura e il sistema di competenze delle cooperative di “Libera Terra” è disegnato con una particolare atenzione verso la preparazione professionale specifica nei campi della gestione,
della commercializzazione e della produzione. Gli organigrammi di
tali cooperative sono dunque fin dall’origine pensati in modo diverso da quelli delle cooperative sociali di educatori o di professionisti
del sociale. Le figure sociali integrano nelle cooperative di “Libera
Terra” la compagine tecnica, e non viceversa.
La presenza di professionisti di estrazione anche diversa da quella
stretamente sociale ha costituito storicamente per molte cooperative sociali un insormontabile problema di ordine etico. Tali professionisti erano considerati come un corpo estraneo alla mission sociale
delle cooperative e nei loro confronti si guardava spesso con un forte
sospeto come se a tali figure mancassero costitutivamente le motivazioni valoriali necessarie a governare in modo correto una cooperativa sociale. A promuovere una selezione di individui eticamente
e valorialmente orientati contribuisce nelle cooperative di “Libera
Terra” in modo decisivo la mission di fondo di tali imprese che ne
sancisce il ruolo sociale ed etico e il terreno in cui esse si muovono
che promuove una selezione delle persone meno motivate dal punto
di vista valoriale.
Come ha raccontato un socio di una delle cooperative operanti in
Sicilia: “All’inizio la selezione è stata effetuata sopratuto sulla base
delle competenze (…) era stato un laureato in giurisprudenza molto
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preparato (…) molte persone avevano inviato i curriculum perché
non avevano capito bene quale era la finalità vera della cooperativa (…) siccome il bando era stato fato da un ente pubblico diverse
persone avevano partecipato alla selezione con l’idea del posto fisso
(..) solo dopo si è capito bene quali erano i rischi a cui si andava incontro (…) i primi mesi è stata molto dura e ci sono stati molti ati di
intimidazione, la gente poi ci evitava perché avevano paura di fare
uno sgarbo alla mafia e facevano finta di non conoscerci (…) così chi
era entrato senza una motivazione forte se ne è andato subito e sono
rimaste solo le persone che veramente credevano nel progeto”.
Le capacità imprenditoriali all’interno delle cooperative di “Libera
Terra” vengono sviluppate trasferendo know-how anche atraverso
la formazione e l’aggiornamento dei soci e metendo a disposizione
competenze altamente professionalizzate.
Per favorire il trasferimento e l’aggiornamento continuo delle conoscenze necessarie a sostenere lo sviluppo imprenditoriale delle
cooperative è stata costituita, su iniziativa di “Libera Terra” e in
collaborazione con Legacoop nazionale, un’agenzia per lo sviluppo
cooperativo e la legalità. Tale agenzia nata nel maggio 2006 prende
il nome di “Cooperare con Libera Terra” e si occupa di promozione cooperativa e della cultura della legalità. È un ente senza scopo
di lucro, costituito da diverse realtà del mondo della cooperazione,
del biologico e dell’agricoltura di qualità, per sostenere l’atività e i
progeti di “Libera Terra”. La mission dell’agenzia è quella di fornire servizi finalizzati alla nascita, allo sviluppo e all’integrazione di
iniziative imprenditoriali, di norma in forma di società cooperativa,
costituite allo scopo di gestire beni e patrimoni aziendali confiscati
alla criminalità organizzata.
Le aree di intervento di “Cooperare con Libera Terra” sono in particolare:
1. l’ accompagnamento nella fase di start-up delle nuove imprese
sociali atraverso: i) il coordinamento e la messa in rete con altre
imprese cooperative; ii) la messa a punto di studi di fatibilità, di
piani d’impresa e di budget; iii) la definizione insieme alle altre
cooperative dei piani colturali, di trasformazione, degli aspeti
produtivi, qualitativi e commerciali, la pianificazione di risorse
economiche e finanziarie in pratica, tuto quanto si renda necessario per determinarne la sostenibilità sul piano economico;
2. la formazione e gli stage di aggiornamento presso altre imprese
cooperative o in loco per i soci delle imprese sociali per far crescere competenze e professionalità all’interno di ogni realtà;
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3. la promozione commerciale e di mercato per lo sviluppo dell’attività sociale delle Onlus, nonché per la diffusione dei prodoti a
marchio “Libera Terra”.
Uno degli obietivi indireti dei programmi di formazione è la creazione di una rete relazionale tra tuti gli atori coinvolti nel processo
che porterà all’utilizzo del bene confiscato e quindi i rappresentanti
di associazioni, cooperative, istituzioni pubbliche e sistema cooperativo saranno messi in condizione di utilizzare una serie di conoscenze qualificate e trasversali in campo giuridico, economico e sociale.
L’esperienza imprenditoriale delle cooperative di “Libera Terra” è
stata resa dunque possibile da un tipo di cultura di impresa sociale
diversa rispeto a quella delle cooperative sociali tradizionalmente
impegnate nel setore dei servizi sociali e in parte anche di quelle di
inserimento lavorativo tradizionali.
5. Innovare le reti dell’impresa sociale
Lo sviluppo della rete delle cooperative sociali di “Libera Terra” è
stato reso possibile da un utilizzo innovativo delle reti. Tradizionalmente le cooperative sociali sono inserite nelle reti consortili
di primo e secondo livello. Tali reti sono state storicamente molto
importanti per lo sviluppo della cooperazione sociale in Italia svolgendo funzioni di general contractor nei confronti degli enti pubblici,
massimizzando le economie di scala e favorendo il coordinamento e
l’innovazione (Zandonai, 2008). Tutavia, le reti consortili di cooperative sociali rimangono ancora un meccanismo di coordinamento
che si realizza all’interno di una prospetiva di collaborazione tra
eguali e permetono di massimizzare vantaggi struturalmente limitati. L’esperienza della rete delle cooperative aderenti al marchio
“Libera Terra” mete invece in luce un utilizzo di reti più plurali ed
eterogenee rispeto a quelle tradizionalmente conosciute dalle cooperative sociali.
Le reti commerciali
Il primo tipo di rete che ha permesso lo sviluppo e il successo del
progeto “Libera Terra” è quella commerciale. Le atività condote
sui beni confiscati dalle cooperative sociali non sono autosu cienti,
ma si inseriscono in una rete di trasformazione di prodoti, acquisto
e commercializzazione rispeto alla quale è cruciale il contributo di
partner esterni al mondo della cooperazione sociale tradizionale. Per
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IMPRESA SOCIALE
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commercializzare i prodoti con il marchio etico, ad esempio, è stato
stipulato un accordo di collaborazione con la rete Coop nazionale
che permete di effetuare una vendita sull’intero territorio nazionale. Come ha ricordato uno dei presidenti delle cooperative intervistate tale accordo è risultato fondamentale perché il consumo etico
è una pratica poco diffusa sulle aree dove operano le cooperative di
“Libera Terra”. In alcune aree come la Sicilia o la Calabria esiste inoltre un forte timore a commercializzare un marchio che simboleggia
esplicitamente l’intenzione di contrastare la criminalità organizzata
locale.
“(…) La vendita maggiore nelle regioni del Centro-Nord, in parte
è una questione legata alla sensibilità dei compratori che in quelle
regioni è superiore. In parte l’acquisto di prodoti etici in un ipermercato locale non sempre è ben vista dagli stessi proprietari dei supermercati o delle rivendite che hanno paura della reazione dei mafiosi.
Specie all’inizio questo timore era fortissimo, si respirava nell’aria
(…) se non ci fosse stata la possibilità di vendere i nostri prodoti
lontano dal territorio in cui lavoriamo avremmo dovuto cessare le
atività da molto tempo”.
Gli accordi co mmerciali inoltre hanno permesso di coinvolgere in alcune realtà gli agricoltori biologici del territorio che, tramite accordi
di produzione, conferiscono alle cooperative i prodoti consentendo
una produzione di maggiori dimensioni e una commercializzazione
più diffusa e regolare.
“(…) Lavorare con la rete nazionale degli Ipercoop e delle boteghe
del mondo è una sfida imprenditoriale grossa (…) certo che loro credono nel nostro progeto e ci hanno aiutati spesso, ma alla fine dobbiamo garantire una produzione adeguata e invii regolari e per fare
questo è stato importante iniziare a collaborare anche con produtori
locali(…)”.
Gli accordi commerciali permetono di dare forza alla funzione di
vendita nei confronti dei privati che garantisce l’autonomia economica e in parte progetuale delle atività delle cooperative. Questo
forte rapporto con il cliente privato non confonde l’azione delle cooperative con quella di normali imprese che si confrontano con la
domanda pagante come rischia di accadere, ad esempio, quando le
cooperative di servizi assistenziali o socio-sanitari vendono le proprie prestazioni a famiglie paganti. In questo caso, la vendita di prodoti serve infati a finanziare quello che rimane il cuore portante
e la mission delle atività ossia l’azione di contrasto alla criminalità
organizzata realizzata atraverso il riappropriamento della terra alla
comunità e la diffusione della cultura della legalità. Al contempo, il
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rapporto con il privato permete di allentare le pressioni derivanti
dal finanziamento pubblico e in alcune realtà locali anche le eventuali istanze provenienti da ambienti politici non sempre immuni da
infiltrazioni malavitose.
Le reti associative
Il secondo tipo di rete è quella associativa rappresentata prevalentemente dall’adesione all’Associazione “Libera”. “Libera” è un’associazione di associazioni con un forte radicamento sull’intero territorio nazionale. Il forte legame con “Libera” è strategico perché è
atraverso tale rete che passa sia l’immagine sociale che il sostegno
associativo alle iniziative territoriali. Inoltre l’Associazione “Libera”
riesce a mobilitare con la sua strutura informazioni, risorse umane
e interesse continuativi rispeto allo sviluppo e ai risultati economici
e sociali delle cooperative territoriali.
Ogni anno atraverso il supporto delle associazioni che fanno parte
di “Libera Terra” arrivano centinaia di volontari che operano nei
campi estivi e nei periodi della semina e della raccolta. “Libera”
con l’esperienza pionieristica del suo fondatore Don Cioti costituisce un fatore reputazionale cruciale per motivare volontari da
tuta Italia a recarsi nelle regioni meridionali a prestare gratuitamente il proprio lavoro per fini di cui si è sentito parlare in sedi alle
volte completamente estranee e distanti dai luoghi dove avviene la
produzione.
Come ha raccontato un volontario che ha lavorato presso la Cooperativa “Placido Rizzoto” il ruolo reputazionale di “Libera” è
risultato spesso decisivo per promuovere la partecipazione dei volontari all’esperienza delle cooperative: “Io e la mia ragazza siamo
venuti in Sicilia tre setimane durante setembre e otobre per la
vendemmia. (…) Io sono di Torino, Franca di Alba. Io sono studente al terzo anno di ingegneria Franca lavora in un u cio. Per me
è stato più semplice anche se ho avuto qualche problema con gli
esami (…) Franca ha dovuto prendere ferie. In pratica le vacanze le
abbiamo fate in questo modo. (…) la giornata era di lavoro anche
il sabato e la domenica anche se poi la domenica in realtà andavamo anche al mare a Mondello. Io avevo già lavorato in campagna
perché i miei hanno un po’ di terra coltivata a vite in Piemonte e
io li ho sempre aiutati fin da quando ero ragazzo: per me un po’ è
stato come tornare a casa con tute le differenze tra il Piemonte e la
Sicilia (…) il caldo tra il resto perché la valle è abbastanza ventilata
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la sera, ma durante il giorno era caldissimo (…) se fai il turista in
spiaggia è anche piacevole ma se devo lavorare si fa fatica (…). Per
Franca è stata più dura perchè lei è abituata a lavorare in u cio e la
campagna la aveva vista praticamente solo in cartolina, la campagna del lavoro intendo, quella che devi sudare. Perché siamo andati in Sicilia come volontari? (…) Io volevo fare questa esperienza da
parecchio tempo (…) sono da sempre impegnato nell’associazionismo scout e per me esperienze di solidarietà di questo tipo fanno
come dire parte del mio bagaglio personale. (…) ‘Placido Rizzoto’
qui a Torino è molto conosciuta per via di ‘Libera’, l’Associazione
di Don Cioti che è stata la promotrice dell’esperienza delle cooperative antimafia. (…).
La grande presenza di volontari e la capacità di mobilitazione della
rete di “Libera” sono da considerare elementi fondamentali per il
successo delle cooperative di “Libera Terra” anche per la loro capacità di tenere viva l’atenzione sociale nei confronti delle atività di
contrasto alla criminalità organizzata. Come è stato deto in diverse interviste “la Mafia colpisce quando cala il silenzio sulle cose”.
Volontari e atività politica e mediatica dell’Associazione “Libera Terra” hanno consentito una mobilitazione costante di risorse
umane che con la loro presenza sul territorio svolge una funzione
di disincentivo sostanziale alle intimidazioni della criminalità organizzata. Il caso della Cooperativa “Valle del Marro” è emblematico al riguardo. Nella primavera del 2007 si sono verificati gravi
ati di sabotaggio alle coltivazioni e ai raccolti. Atraverso l’ativazione della rete “Libera”, la risposta a tali ati vandalici è stata una
grande manifestazione di solidarietà organizzata a Polistena a cui
hanno partecipato diverse migliaia di persone e che si è tradota
successivamente in un aiuto concreto di centinaia di volontari e
decine di iniziative di solidarietà anche economiche a favore del
riavvio delle atività.
Le reti intercooperative
Il terzo tipo di rete è quella intercooperativa. Tradizionalmente, il
comparto delle cooperative sociali ha operato all’interno delle varie centrali cooperative (Lega Confcooperative) in un regime di separazione sostanziale rispeto alle altre categorie di cooperative (di
produzione e lavoro, agricole, di consumo, ecc.). L’organizzazione
setoriale delle centrali cooperative è spesso un ostacolo alla collaborazione intercooperativa perchè ogni setore costituisce una centrale
L’INNOVAZIONE DELLE IMPRESE SOCIALI NELLE REGIONI MERIDIONALI
Daniela Farina, Luca Fazzi
di potere che tende a preservare la propria autonomia. Per tale motivo i progeti intercooperativi sono poco diffusi e l’utilizzo di tali reti
infrequente.
Il potenziale di sostegno e innovazione che può essere ativato e
veicolato atraverso le reti intercooperative può risultare tutavia
sostanziale per permetere lo start-up e lo sviluppo di progeti che
esprimono livelli elevati di complessità (sociale, strategica, economico-gestionale).
L’aggancio con le reti intercooperative oltre che atraverso la rete
di vendita Coop è assicurata per le Cooperative di “Libera Terra”
dall’Agenzia “Cooperare con Libera Terra”, fondata a Bologna da
Legacoop e da Conapi. Tale Agenzia offre alle cooperative una serie
di servizi quali il sostegno alla commercializzazione, la promozione
e il marketing, il raccordo con partner istituzionali, ecc. Le prestazioni di servizi, le competenze e le professionalità necessarie per sviluppare le finalità dell’Agenzia, sono rese dagli associati, dai dipendenti e dai collaboratori in maniera volontaria e per quanto possibile
gratuita.
Sempre atraverso la collaborazione intercooperativa le cooperative
di “Libera Terra” hanno potuto beneficiare, a partire dal 2002, del
sostegno di Unicoop Firenze e Coop Adriatica, mentre Unipol Banca fornisce il proprio supporto atraverso la concessione di crediti a
tasso agevolato rispondendo ad un ostacolo classico per lo sviluppo
delle iniziative di terzo setore in Italia.
Le reti istituzionali
L’ultimo tipo di rete utilizzata dalle cooperative di “Libera Terra” è
infine quella istituzionale.
Il rapporto con le istituzioni non assume la forma tipica della vendita di prestazioni bensì quello più articolato del coordinamento e
della collaborazione per il raggiungimento di obietivi condivisi.
Le cooperative di “Libera Terra” operano in streto raccordo con
gli enti pubblici destinatari dei beni confiscati. Tali enti, a loro volta, metono a disposizione una serie di competenze per rinforzare le possibilità di sviluppo imprenditoriale delle atività svolte
dalle cooperative assegnatarie dei beni. Il Consorzio “Sviluppo e
Legalità”, nato nel 2000 su iniziativa del Prefeto di Palermo, ha
elaborato, ad esempio, il “Progeto Pilota”, finanziato con il Programma Operativo Nazionale 2000-2006 “Sicurezza per lo sviluppo del Mezzogiorno” nell’ambito del quale sono stati recuperati
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fondi FESR per finanziare nell’ambito del progeto di sviluppo
della cooperativa “Placido Rizzoto” la realizzazione di una rete
agrituristica costituita da due centri agrituristici (uno a Corleone
e uno a Monreale); un centro ippico al servizio dell’agriturismo di
Monreale; uno stabilimento enologico a San Cipirello (sempre a
servizio del centro agrituristico di Monreale), finalizzato alla produzione del vino “Centopassi”, commercializzato con il marchio
“Libera Terra”. Con i fondi FSE il Programma Operativo Nazionale
Sicurezza ha finanziato programmi formativi in collaborazione con
la scuola, con la Chiesa e con il mondo dell’associazionismo, nella
consapevolezza che per contrastare la criminalità mafiosa è necessario costruire una cultura diffusa della legalità.
Il rapporto con la rete dei soggeti istituzionali ha permesso anche
di intratenere una relazione costrutiva con le forze dell’ordine sul
territorio che rappresenta un importante deterrente contro ati di intimidazione o di sabotaggio da parte della criminalità organizzata.
Inoltre di fondamentale importanza è il rapporto con le intendenze
scolastiche atraverso le quali il progeto viene promosso all’interno
delle scuole.
In generale, l’esperienza delle cooperative di “Libera Terra” evidenzia come la possibilità di affrontare problemi complessi e di ampliare i campi di intervento della cooperazione sociale implica anche un
cambiamento dell’approccio alle reti entro cui le cooperative sono
abituate ad operare.
Le reti tradizionali della cooperazione sociale sono costituite prevalentemente da legami tra simili piutosto che non tra diversi. Le
reti commerciali consortili, ad esempio, costituiscono un caso tipico di di coltà ad interloquire con agenzie e soggeti che svolgono
come propria mission costitutiva l’atività di commercializzazione
di beni e servizi con fini di profito. Molte delle risorse necessarie
allo sviluppo di un’esperienza come quella di “Libera Terra” (ad
esempio, le risorse economiche provenienti dalla vendita in catene
di negozi nazionali, la reputazione dei fondatori dell’Associazione “Libera”, le competenze strategico-manageriali della rete Coop,
ecc.) non possono essere struturalmente recuperate all’interno
delle reti di cooperative sociali e necessitano per essere acquisite
di un’apertura molto maggiore rispeto a quella tradizionalmente
sperimentata.
L’INNOVAZIONE DELLE IMPRESE SOCIALI NELLE REGIONI MERIDIONALI
Daniela Farina, Luca Fazzi
6. Conclusioni
La legge 109/96 costituisce lo strumento più avanzato di contrasto
alla criminalità organizzata nel campo culturale, sociale ed economico, prevedendo la restituzione alla colletività di grandi patrimoni accumulati illecitamente e colpendo le mafie in uno degli
ambiti più importanti: la creazione del consenso sociale. Secondo i
dati dell’Agenzia del Demanio, aggiornati al 30 giugno 2008, i beni
immobili confiscati alla criminalità erano 8.385, di cui 4.940 destinati per finalità sociali o istituzionali (59%). L’uso sociale dei beni
confiscati alle mafie ha permesso di creare in molteplici territori,
non esclusivamente nel Sud d’Italia, condizioni di lavoro per i giovani e per i lavoratori svantaggiati, anche atraverso la creazione di
associazioni e cooperative sociali, trovando in questo modo anche
un’occasione di riscato dalla propria situazione sociale ed economica. Nell’esperienza delle cooperative di “Libera Terra”, l’uso dei
beni confiscati ha dato luogo ad una nuova idea di imprenditorialità sociale che porta con sé elementi di innovazione molto significativi per rifletere sullo sviluppo della cooperazione sociale
nazionale in una fase in cui i mercati dei servizi sociali si rivelano
sempre più saturi e coordinati da logiche produtive che rischiano
di svilire le carateristiche più originali dell’esperienza cooperativa. Il progeto “Libera Terra” fonda la propria ragione d’impresa nell’utilizzo del bene “territorio” nella sua più vasta accezione - agricoltura e trasformazione dei prodoti agricoli, ospitalità,
educazione alla legalità, sostegno solidale agli svantaggiati, ecc. Le
atività delle cooperative sono dunque svincolate dal tradizionale
rapporto di vendita di prestazioni con l’ente pubblico e possono
ricercare e trovare nuove e inedite alleanze in una serie di partner
che di cilmente sarebbero stati percepiti come tali in un’otica tradizionale di produzione di servizi per conto terzi. Tale processo è
avvenuto innovando a fondo le culture d’impresa della cooperazione sociale e al contempo ristruturando le reti di collaborazione e coordinamento tradizionali in una prospetiva di maggiore
apertura e contaminazione con altri mondi. L’insegnamento che si
può trarre da queste considerazioni è che l’innovazione per la cooperazione sociale passa atraverso processi di riletura del modo
di intendere il conceto di impresa sociale non banali e che possono
richiedere anche alcuni cambiamenti di ordine struturale sia nella
composizione delle dirigenze e delle basi sociali che del sistema di
alleanze che consentono lo sviluppo.
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Riferimenti bibliografici
Borzaga C. (2009), “Le lezioni della cooperazione sociale”, in Borzaga C., Zandonai
F. (a cura di), Primo rapporto sull’impresa sociale in Italia, Donzelli, Roma.
Fazzi L. (2009), “Vino nuovo in boti vecchie: nuovi trend di sviluppo della cooperazione sociale in Italia”, Aretè, 1.
Fazzi L., Longhi S. (2009), “Le politiche di sviluppo dell’impresa sociale nel setore
dei servizi sociali: carateristiche e evoluzione”, in Borzaga C., Zandonai F. (a
cura di), Primo rapporto sull’impresa sociale in Italia, Donzelli, Roma.
Zandonai F. (2008), “Le relazioni tra imprese sociali”, in Borzaga C., Fazzi L. (a cura
di), Governance e organizzazione per l’impresa sociale, Carocci, Roma.
Recensioni,
segnalazioni e
documenti
RECENSIONI E SEGNALAZIONI
Recensioni e segnalazioni
E. RANCI ORTIGOSA (A CURA DI), DIRITTI SOCIALI E LIVELLI ESSENZIALI DELLE PRESTAZIONI, I QUID
2, SUPPLEMENTO AL N. 10 DI PROSPETTIVE SOCIALI E SANITARIE, MILANO, 2008.
INEDITA, N.
Il volume, suddiviso in tre parti, è fruto del lavoro di un gruppo di esperti, coordinato da Emanuele Ranci Ortigiosa e composto da Barbara Da Roit, Paolo Bosi, Cristiano Gori, Franco
Pesaresi e raccoglie i risultati della ricerca promossa dell’Osservatorio nazionale sulla legge 328/2000. I contributi in esso
contenuti si propongono di dare un quadro dei complessi problemi legati alla “definizione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali” con l’intento di indicare le possibili strade da
percorrere per atuare una più piena riforma delle politiche
sociali. Come è ovvio, non si ha riforma del welfare se non si
scioglie il nodo della “definizione” dei livelli essenziali e ciò si
evince chiaramente dal saggio introdutivo di Ranci Ortigiosa
che rappresenta una sintesi e cace delle conclusioni a cui è
pervenuta l’intera ricerca.
La prima parte del lavoro, partendo dalla definizione e dalle
modalità di costruzione dei livelli essenziali, identifica, tra i
principali ostacoli alla realizzazione di tali obietivi, la scarsità
delle risorse per il finanziamento dei sistemi locali e regionali
del welfare e la complessa implementazione dei servizi e degli
interventi sul territorio, sopratuto nelle aree dove si registrano le maggiori debolezze (Da Roit, Bosi, Gori, Pesaresi). Ai fini
della definizione dei livelli essenziali è determinante, in primo
luogo, analizzare i carateri generali e le finalità dei livelli essenziali delle prestazioni sociali. Essi si collocano entro politiche e interventi sociali a caratere universalistico, rivolti cioè a
tuta la popolazione che presenta quel bisogno e la necessità di
quell’intervento. All’universalità si può associare la seletività
- in base al livello di reddito, individuale o familiare, o ad altri
fatori di bisogno - atraverso la quale si determina inclusione,
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esclusione, o priorità di accesso in fase di implementazione
dei livelli essenziali. Terzo elemento principale, ai fini della
definizione dei livelli essenziali, è di garantire la tutela dei diriti essenziali per renderli effetivamente esigibili.
Le finalità delle prestazioni connesse ai livelli essenziali, come
sintetizza Ranci Ortigosa, possono essere: costitutive di diriti
(intese quali precondizioni fondamentali per la stessa rivendicazione ed esigibilità dei diriti essenziali), distributive, redistributive, promozionali e di sviluppo; si trata di finalità tra
loro complementari e non succedanee. Tutavia, per qualunque discorso sui livelli essenziali che voglia essere concreto, è
fondamentale conoscere la consistenza delle risorse finanziarie e se esse sono adeguate e su cienti a garantirli. Nell’atuale ordinamento ciò richiede di considerare come concorrono
Stato, Regioni ed enti locali, nonché le dimensioni della compartecipazione degli utenti (Bosi).
Nel saggio di Pesaresi, contenuto sempre nella prima parte del
volume, viene messo a punto uno schema, una “griglia”, per
costruire il sistema dei livelli essenziali, individuare i diversi
campi e struturare la declinazione dei livelli essenziali, indicando le aree di bisogno e di intervento, con i rispetivi titolari
di diriti, le corrispondenti diverse tipologie di prestazioni da
assicurare, i relativi standard quantitativi e qualitativi nonché
le risorse ativate per produrli. Tutavia, Pesaresi ritiene che
la “griglia” debba permetere ulteriori disaggregazioni, sopratuto all’interno delle tipologie dei servizi e prestazioni,
includendo anche altre atività, quali quelle domiciliari o professionali, che dovrebbero essere monitorate costantemente e
rispeto alle quali sarebbe opportuno immaginare procedure
di autorizzazione ed accreditamento, già previste per i servizi
residenziali e semiresidenziali, al fine di garantire qualità ed
omogeneità degli interventi regionali. E, aggiunge, occorrerebbe includere, altresì, la voce relativa alle prestazioni monetarie, “che rappresentano la grande maggioranza delle prestazioni italiane”.
I contributi della seconda parte del volume, propongono alcune ipotesi ed osservazioni in merito all’applicazione dei livelli
essenziali in tre aree specifiche di intervento: assistenza alle
persone non autosu cienti, contrasto alla povertà e servizi
della prima infanzia, tre aree su cui, allo stato, risulta più urgente intervenire.
RECENSIONI E SEGNALAZIONI
Nel contributo di Gori sull’assistenza alle persone non autosu cienti, si sotolinea la necessità di introdurre una porta
unica di accesso al sistema, con funzioni di informazione, indirizzo e promozione e con il compito di garantire la presa in
carico, riconoscendo il dirito ai non autosu cienti di essere
accompagnati nel percorso assistenziale. Si suggerisce, inoltre,
di rafforzare i trasferimenti monetari, assegnando un ruolo significativo all’indennità di accompagnamento nella definizione dei livelli e prevedendo agevolazioni fiscali a favore degli
assistenti familiari.
Ranci Ortigiosa, nel saggio sulle politiche di contrasto alla povertà, sotolinea la necessità di costruire un’intesa concertata
tra Stato, Regioni ed autonomie locali per l’introduzione del
reddito minimo di inserimento, già sperimentato negli anni
che vanno dal 1999 al 2004, quale misura universalistica, non
categoriale e seletiva sul bisogno. Propone, inoltre, delle possibili soluzioni rispeto a quelle obiezioni e resistenze all’introduzione della misura in esame, che sono fondate sui rischi di
favorire la “trappola della povertà”.
Infine, Gori presenta alcune riflessioni e proposte rispeto agli
aspeti qualitativi, quantitativi, alla spesa e alle modalità attuative necessarie per l’introduzione dei livelli essenziali nei
servizi alla prima infanzia. Osserva, inoltre, che l’introduzione
dei livelli con “il piano nidi”, già sperimentato dal Governo
Prodi per promuovere una reale crescita di questo servizio,
deve intervenire sui costi di gestione e sulla spesa familiare,
in modo tale da consentire uno stanziamento adeguato alle
esigenze degli utenti e del territorio.
L’ultima parte del volume presenta un’analisi detagliata della
normativa nazionale e regionale sui livelli essenziali e della
spesa pubblica per le prestazioni sociali, alla luce delle normative europee in subiecta materia (Pesaresi). I mutamenti intervenuti nel quadro costituzionale con la riforma del titolo V, II parte Cost., impongono una diversa letura della legge 328/2000.
Il nuovo testo costituzionale, com’è noto, assegna alla potestà
legislativa esclusiva dello Stato il compito di individuare le
“prestazioni” su cui occorre investire risorse struturali per la
garanzia dei diriti sociali in tute le regioni del paese; e lascia
in capo alle Regioni la responsabilità dell’individuazione delle
modalità organizzative, degli standard da adotare.
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IMPRESA SOCIALE
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La determinazione dei livelli essenziali (Leps) da parte dello
Stato presuppone un processo di confronto, di intesa istituzionale e di concertazione che coinvolga le Regioni e le Autonomie locali. In atesa della definizione da parte dello Stato dei
livelli essenziali, le Regioni hanno avviato un processo volto
all’identificazione dei Leps che tiene conto di due elementi
fondamentali: l’identificazione dei beneficiari e la delimitazione del territorio. A tal proposito, risulta particolarmente interessante l’analisi fornita da Pesaresi, il quale sostiene che per
garantire un livello di servizi assistenziali uniforme in tuto
il territorio, occorre assumere come riferimento territoriale i
“bacini di popolazione” e non gli ambiti territoriali, al fine di
evitare iniquità nella distribuzione dei servizi, derivanti dalla
varietà delle dimensioni medie degli ambiti; si passa, infati,
da una “popolazione media di 113.500 in Campania ai 29.200
in Molise, mentre la media italiana è di 81.800 abitanti per ambito sociale”. Pertanto, applicare lo stesso livello essenziale in
Regioni diverse in riferimento all’ambito sociale, per esempio,
prevedendo di “realizzare un centro diurno per anziani con 20
posti per ogni ambito”, significherebbe farne “uno ogni 29.200
abitanti in Molise, mentre in Campania se ne realizzerebbe solamente uno ogni 113.500 abitanti”.
L’individuazione dei livelli essenziali da parte dello Stato presuppone l’assunzione di responsabilità per il finanziamento
delle politiche sociali, che deve essere ripensato ed adeguato
in termini di strumenti, dotazioni finanziarie e finalità, verso un nuovo sistema che individua prestazioni da garantire
a tuti i citadini. Com’è noto, con la riforma del titolo V, non
sono più ammissibili finanziamenti a destinazione vincolata.
Ciò implica che oltre al fondo nazionale per le politiche sociali
si dovrà prevedere l’utilizzo di risorse aggiuntive e di interventi speciali dello Stato (art. 119, 5 comma) per finanziamenti
vincolati direti a garantire livelli essenziali nelle Regioni più
svantaggiate ed arretrate, realizzando un “fondo perequativo
finalizzato” (Pesaresi). Tutavia, a causa della limitatezza delle
risorse disponibili per interventi e servizi sociali e dato il basso
livello di copertura dei servizi rispeto alla popolazione di riferimento, per giungere ad una definizione dei livelli essenziali
delle prestazioni che garantiscano diriti soggetivi o estendano, in maniera significativa, i livelli di copertura dei servizi e
RECENSIONI E SEGNALAZIONI
degli interventi sociali, occorre necessariamente riconsiderare
ed integrare le risorse atualmente disponibili destinate alle
erogazioni monetarie nazionali. Per raggiungere tali obietivi, secondo Da Roit, si potrebbe prevedere la presenza, in un
dato territorio, di alcuni servizi definiti, con un livello di offerta proporzionato alla “popolazione obietivo”, rafforzando
il fine prioritario di garantire la progressiva riduzione della
disomogeneità territoriale atraverso una crescita delle regioni
dove meno forte è la presenza dei servizi.
I saggi raccolti in questo volume, dunque, contribuiscono a
fare il punto, ad oggi, sulla complessa questione della definizione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali. Il legame
tra determinazione delle prestazioni ricomprese nei Leps, la
necessità di garantirle a tuti coloro che rientrano nel target individuato ed il rapporto con le risorse economiche necessarie
per finanziarle, fa sì che si debba necessariamente pensare ad
un processo di definizione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali “graduale” per le diverse aree di problemi - in
relazione alle risorse disponibili e al riequilibrio territoriale
dell’offerta - e “progressivo” nel perseguimento degli obietivi
- suscetibile, cioè, di un progressivo ampliamento del diritto sociale di accesso a determinate prestazioni. Tale processo
dovrà essere accompagnato da un’azione di monitoraggio e
verifica dell’impato sull’intero sistema sociale, in termini sia
finanziari che organizzativi. La concertazione con tuti gli attori del processo di programmazione partecipata diviene, a
tal fine, presupposto indispensabile per promuovere un reale
confronto sull’analisi dei bisogni dei citadini e, per stimolare
un dialogo proficuo tra Governo e Regioni al fine di definire i
livelli essenziali ed il loro adeguato finanziamento.
Maria Santoro
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English Abstract
ENGLISH ABSTRACT
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L’ECONOMIA
CO O
DI COMUNIONE
CO
O : SFIDE
S
E PROSPETTIVE
Le idee chiave dell’economia di comunione
L’economia di comunione come economia civile
L’economia di comunione: una prospetiva teologicofilosofica
Economia di comunione nella cultura dell’America Latina
Modelli di governance nelle imprese di economia di
comunione
Accountability ed aziende di economia di comunione:
problemi e prospetive
Economia di comunione e management: un modello
di letura
Economia di comunione, contratualismo e giustizia
globale
Economia di comunione e microcredito
Strumenti di gestione nelle imprese di economia di
comunione
Dinamiche relazionali e gestione delle crisi
IL FORUM
L’IMPRESA SOCIALE IN ITALIA
OSSERVATORIO INTERNAZIONALE
RECENSIONI, SEGNALAZIONI E DOCUMENTI
Finito di stampare
nel mese di agosto 2009