La nascita della sociologia:
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La sociologia nasce in un momento storico abbastanza significativo che è la fine del XVIII secolo, e viene riconosciuta e battezzata come disciplina autonoma nel 1835, perché il padre di tale corrente, Auguste Comte, un filosofo francese, scrive "Cours de sociologie positive". Perché "positive"? Perché venne scritta durante l'epoca del positivismo (positivismo: dal latino "positum" ovvero "dato") ed è la filosofia che si confronta con la scienza e la tecnologia e riconosce la necessità di uno scambio tra queste dimensioni, dato che la filosofia non si era mai occupata di dati. La sociologia positiva comtiana si confronta con la realtà e cerca delle tracce in essa che confermino quello che lui dice della realtà stessa, per questo induce questo circolo virtuoso tra ipotesi-teoria-conferma empirica. Nel momento in cui Comte parla di sociologia positiva inserisce la sociologia in questo tipo di filone, il quale ha fiducia nei dati (oggigiorno noi ci troviamo in un'epoca neo-positivista). Ma perché Comte decide di smettere di fare il filosofo e decide di diventare un sociologo? Perché la società era in evoluzione. Comte con questa scelta segnala la presenza di una difficoltà cognitiva; segnala il fatto che gli strumenti disponibili per l'analisi della società, esistenti fino a quel momento, non sono più adatti a parlare della modernità a causa delle mutazioni avvenute nel tempo, inoltre quello che si trova davanti è un sistema di valori e di modi di comportamento che non è più quello con cui ragionavano i filosofi sociali. Difatto c'è un forte cambiamento valoriale: tramonta un sistema di organizzazione e strutturazione del mondo che andava avanti da pressoché mille anni, ovvero quello medioevale (ancien régime: si può pensare a Versailles e al Roi Soleil, all'organizzazione della società francese suddivisa in tre strati: il clero, l'aristocrazia e il terzo stato), il sistema che gestisce una delle parti più importanti del pianeta, che ha un suo peso e una sua rilevanza, crolla e si esaurisce, vuoi per dinamiche interne, per dei cambiamenti di stima e di valore che vengono fatti dalle società rispetto a certe attività e quella che viene più investita da questo discorso è l'attività economica. Fino ad allora (fine settecento) il tipo di ricchezza che portava prestigio era la ricchezza immobile (quella aristocratica, ovvero gestire feudi). [La logica attraverso la quale Re Sole gestiva la sua nobiltà era una logica di sciupio vistoso, al fine di legarli a sé e prosciugarli.
Sono le meccaniche presenti nell'ancien régime che poi portano alla rivoluzione francese, perché il problema è nella ricchezza: a fronte di una ricchezza immobile che diventa sempre più parassitaria e meno produttiva si afferma in quel periodo una ricchezza mobile che invece è in grado di fare enormi differenze anche nella popolazione: i Protocapitalisti: i grandi mercanti, fino ad allora sottovalutati da un punto di vista di prestigio sociale, che improvvisamente hanno una capacità di modifica dello stato delle cose che prima non era a loro disposizione. Perché? Il mercante prima andava da qualche parte a prendere le materie prime, le riportava indietro e massimo le distribuiva sul territorio al fine di diventare semilavorati. Ad esempio nell'ambito tessile, simbolo della rivoluzione industriale, il mercante distribuiva nelle varie cascine, fattorie un tot di materie prime che con i telai venivano lavorate e successivamente le portava in città, presso i sarti al fine di creare il modello finale. La sua attività era integrata nel settore primario (quello agricolo), poi però il mercante ha i fondi necessari per aprire le prime aziende, per avere i telai a vapore, per incrementare la sua produzione ben oltre l'immaginabile. Qual è la causa del cambiamento? Il fatto che i telai a vapore non li può distribuire nelle cascine, la fabbrica implica un accentramento e modifica quindi l'andamento sociografico e demografico della regione; tutto ciò non era mai successo prima. Qui compare qualcosa di cui non si sa nulla, di una fonte di energia che non fosse animale, ambientale o umana, c'è il vapore. Questa nuova fonte di energia dà un impatto enorme perché la gente non sa come capirlo, devasta il modo di vivere. Chi richiama la popolazione dalle compagnie e la fa concentrare nelle città è l'industria. La popolazione che fino a quel tempo viveva in campagna, e che viveva sparpagliata sul territorio, diventa focalizzata in certi luoghi, vicino l'industria. L'industrializzazione inoltre ha una serie di altre conseguenze: Essa porta con sé cambiamenti radicali nell'organizzazione nel rapporto col mondo, perché l'industria prescinde radicalmente dall'armonizzazione con la natura, vuol dire che fino ad all'ora, con l'economia del primario, l'uomo era costantemente immerso in un processo di vita e di lavoro contemporaneamente, nell'attività agricola non c'è mai tempo libero. L'industria invece prevede che tu lavori un certo numero di ore e poi basta. Ed è proprio da qui che comincia l'organizzazione (la prima istanza organizzativa in senso moderno è quella per le assicurazioni per le navi).
La nascita dell'azienda comporta quindi: concentrazione della popolazione, nascita del tempo libero, l'organizzazione e soprattutto capacità politica e di potere di modificare le condizioni di un territorio intero. Per fare tutto ciò si dovevano applicare modifiche a livello urbano, arterie di comunicazione che portavano una ricaduta concreta del territorio. Inoltre la gente non andava a lavorare in fabbrica con piacere, anzi tendevano ad evitarla, perché esse erano insalubri, puzzavano. La gente andava in città solamente durante le guerre. Ma come mai adesso c'era così tanta gente disponibile ad andare in città? A metà del Seicento compare un ente con cui Marx ha avuto spesso da ridire, ovvero la proprietà privata. Essa comincia in Inghilterra nel momento in cui prendono piede le enclosures, ovvero i nobili decidono improvvisamente di non permettere ad altri di entrare nei loro domini ("privata" perché si priva la possibilità di essere sfruttata da altri). Mentre prima esisteva un regime di sfruttamento delle risorse molto più intelligente, perché nessuno aveva diritto esclusivo di sfruttamento di un certo bosco ma c'erano delle possibilità scaglionate di sfruttamento (canzone di De André: impiccheranno Geordie perché aveva ucciso i cervi del re, però poteva raccogliere la legna, raccogliere i frutti). Le enclosures, con i guardiacaccia e i nobili, mettono fine a tutto ciò; tutti quelli che vivevano grazie ai commons, ovvero le proprietà pubbliche, adesso non riescono più a vivere. Per questo il protocapitalista gestisce un potere non solo economico ma anche politico, perché la sua decisione sul dove aprire la fabbrica, cambia il destino (in meglio) delle regioni. Improvvisamente il protocapitalista è una figura di riferimento contro il nobile, ovvero colui che gestisce il territorio, il quale viene gestito in modo conservativo e in modo assolutamente non produttivo. Il protocapitalista aumenta di conseguenza il suo prestigio sociale, ma non se lo vede riconosciuto formalmente, perché egli fa parte del terzo stato e non fa nessuna differenza a livello politico. Ed è qui il nocciolo della rivoluzione francese, ovvero l'affermazione della borghesia, che ha in quel momento una potenza economica e sociale effettiva che il sistema non le riconosce, e non è possibile continuare. Si sono innescati dei processi che vanno oltre i re e gli aristocratici, che hanno una loro inerzia.
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La sociologia comincia con la rivoluzione industriale e uno dei motivi significativi con cui questa cosa si collega è la comparsa di un nuovo strato sociale, che è la borghesia, tant'è che una delle accuse che viene mossa alle scienze sociali (in particolare alla sociologia) è quella di essere un discorso APOLOGETICO (in difesa di) del primato della borghesia, una giustificazione dello status dell'importanza della sociologia in questa nuova società che viene costituendosi, società che chiameremo "moderna" [noi siamo gli EPIGONI (gli ultimi) della società moderna]. I nostri antecedenti si trovarono a ragionare della realtà in cui vivevano con delle categorie che non erano più adatte a descriverla.
[Oggi noi siamo completamente ALIENATI (estraniati) da ciò che ci accade intorno].
Il concetto di sicurezza è un concetto difficile da maneggiare: noi viviamo in un mondo di insicurezza culturale: non sappiamo le condizioni, le possibilità di rischio. La cultura dovrebbe farci sentire bene, sentire sicuri.
[noi siamo poco fondati, non riusciamo ad avere ed occupare una nostra posizione contro i problemi, e questo è anche dovuto a come ci viene proposto il conoscere, che è anche farsi carico di ricerche, riflessioni, autocritiche. Il modello di ciò è quello che era scritto sul tempio di Delphi: conosci te stesso". Conoscere se stessi non è facile; devi essere capace di autocritica e autoascolto. Noi non vogliamo sapere o perché non abbiamo tempo o perché non siamo pronti. Il conoscere se stessi non necessita di un sapere particolare, deve essere disposto a guardare quello che fai, per te stesso. Quello che a noi ci crea difficoltà è che noi tendiamo a non uscire da quelle che si chiamano le comfort zones, abbiano con esse un rapporto patologico. Il nostro è un problema di atteggiamento e di disponibilità al di là di strumenti particolari. Edgar Morin nasce come figlio di un operaio ma è diventato un intellettuale influente: devi essere disposto a credere in te stesso. (PRINCISBECCO: oro degli stolti). Noi pensiamo che tutto sia pensabile; nel romanzo "1984" di Orwell c'è alla fine un'appendice che parla della NEOLINGUA, quella nuova lingua che il sistema dittatoriale che ha originato il grande fratello sta mettendo appunto per far sì che non sia più pensabile la critica nei suoi confronti. Le parole ti permettono o meno di pensare qualcosa. Se io tolgo le parole che permettono la critica, tu non mi critichi più. Tu pensi quello che PUOI pensare, più parole abbiamo, più strumenti possediamo per fare un discorso. Noi oggi siamo in un tempo di parole sfinite]
Il fattore scatenante di una serie di cambiamenti culturali piuttosto marcati è la comparsa della borghesia, perché essa non ha posto nello schema di cose precedenti. Prima vigeva l'ordine feudale e in questo il criterio di distinzione è il criterio di discendenza. Tu vali se il tuo sangue vale. Tant'è che il potere era tutto incardinato su aspetti legati a questo discorso: la ricchezza non era importante in sé quanto era importante a seconda del tipo di ricchezza: la ricchezza immobile (possessioni di contee, regioni), o la ricchezza mobile, la quale veniva considerata disdicevole, tant'è che i nobili non potevano trafficare, commerciare. Il problema è che il borghese non ha niente di nascita e ha tanta ricchezza mobile, ma per l'ottica dell'ancien régime non vale nulla. Con l'avvento della rivoluzione industriale questa situazione diventa insostenibile: i borghesi hanno bisogno di poter incidere sulle politiche dello stato, ne hanno bisogno per via delle necessità della gestione industriale, la quale porta con sé un vento di organizzazione. L’industrializzazione porta con sé la razionalizzazione, cioè un crescente bisogno di coordinare diverse questioni, cercare di farle connettere e che quindi generare dei processi e dei cicli che siano affidabili, perché la fabbrica ha bisogno di un flusso di cose che arrivino in tempi richiesti, ha bisogno di infrastrutture che consentono che queste cose di cui ha bisogno la fabbrica arrivino e così dicendo. (INDOTTO: è tutto il giro economico che si forma intorno alla fabbrica). Nella città dove veniva messa la fabbrica nascevano tutte le cose che potevano servire alla fabbrica, c'erano dei luoghi dove passare il tempo libero, che viene introdotto proprio in questo periodo: l'operaio lavorava solamente un tot di ore ed è per questo che nasce anche lo SPORT (nel lasso di tempo che arriva da Roma al 1830 lo sport non c'era, era un'attività del tutto inutile. Esso ricomincia quando ormai la necessità di fare la guerra sempre era finita, e le attività di preparazione alla guerra erano diventate sempre meno cruente, e per questo alla classe militare non rimane che fare i tornei. Cominciano inoltre gli scontri fra squadre e il primo sport a nascere è il rugby). Lo sport ha tutta una serie di caratteristiche: esso aiuta la forma fisica e la risorsa principale per gli stati nazione sono i maschi adulti e questo è un problema serio. Questi stato-nazione hanno tutto l'interesse a far si che questi maschi adulti siano in buona forma perché essi non solo sono carne da fabbriche, ma anche carne da cannone, ovvero serve negli eserciti, ed è per questo che lo sport aiuta, perché esso è anche una forma di disciplina (tutti i totalitarismi del XX secolo non facevano altro che organizzare manifestazioni sportive: Germania, Italia... ), tant'è che lo sport, fino alla fine della seconda guerra mondiale è un'attività pubblica (tu fai sport perché devi). Lo sport inoltre venne (e viene) utilizzato come mezzo di competizione internazionale non cruenta: per questo ricompaiono le Olimpiadi: si ritiene che gli stati possono "combattere" anche senza fare la guerra. Quindi lo sport ti permette di: dar qualcosa da fare alla gente, ti permette di allenarla e di disciplinarla.
Con l'avvenimento dell'industrializzazione e la nascita della fabbriche accadono un sacco di cose: incremento di presenze, necessità igieniche e materiali (cibo, acqua). Difatti il borghese ha un potere vero. Il fatto di decidere il dove posizionare la fabbrica, cambia il destino di intere regioni, nonostante tutto questo potere non gli viene riconosciuto, viene ancora messo insieme a coloro che fanno parte del terzo stato (questo tipo di definizione è interessante perché ci mostra quali sono gli artifici del linguaggio.
[non a caso ci è rimasto questo gioco di attribuire un nome generico a una categoria che non è degna di un nome particolare: Terzo stato= terzo mondo. Non siamo cambiati]
Tutto questo alla borghesia non va più bene, perché essa ha bisogno di poter fare delle scelte sia di potere che strategiche, che organizzative: la borghesia deve poter garantire i suoi traffici al di là delle decisioni della politica, che questo nel periodo non accade (se il re sta facendo la guerra con qualcuno, dichiara l'embargo e impedisce tutti i traffici con quel determinato paese e quelli che dovrebbero trafficare rimangono senza nulla). Il quel periodo l'utilizzo dell'economia era un utilizzo strumentale da parte della politica, ma l'economia vuole affrancarsi dalla politica. Per cui non è soltanto rivoluzione industriale, né soltanto rivoluzione francese, ma è anche la nascita dell'economia come disciplina scientifica. A metà dell'Ottocento compare " la ricchezza delle nazioni" di Adam Smith, che è un testo nel quale si ventila per la prima volta l'esistenza di quella che si chiamava la mano invisibile del mercato. Questo discorso avviene perché Adam Smith sta giocando di rimessa, nel senso che sapendo che l'economia contava ben poco, fa delle pretese stratosferiche per poter avere un genere di ritorno.
[ liberismo di Bush: il mercato si autoregola ]
Adam Smith, quando formula questa teoria della mano invisibile ha dei motivi ben chiari: vuole far sì che l'economia si affranchi dal politico, perché in larga misura tutto quello che accade a fine '800 vuole far sì che dalla sfera del politico si emancipi la sfera dell'economico, ed oggi questo è missione compiuta. Possiamo osservare la storia dell'evoluzione della nostra cultura dall'emancipazione del politico dal religioso verso il 1400 (ad esempio Machiavelli, "il principe" sono il momento in cui il politico comincia a ritenere di contare di per sé senza contare sull'aiuto del Papa) e poi nel 1800 dal politico si emancipa l'economico. Tre sfere di senso (che Simmel chiamerebbe mondi), ovvero tre modi di interpellare la realtà diversi, autonomi e concorrenti (oggi possiamo vedere come l'economico ha tante volte sopravvento sul politico). Noi ci troviamo all'interno di questa traiettoria ed effettivamente e inizialmente il problema per cui Comte fonda la sociologia è capire la borghesia, questo nuovo sistema di valori, capire l'importanza del denaro che prima non c'era, importanza di persone che non erano importanti prima ma che adesso lo sono, e tutti i rapporti che cominciano a impostarsi sulla base di questi cambiamenti, la filosofia sociale precedente non era in grado di vedere, perché ragionava ancora come se si vivesse in un mondo medioevale; qui invece siamo in un mondo moderno con delle esigenze. Inoltre c'è anche il problema della scienza e della tecnologia, quindi una serie di modi innovativi e vincenti di concepire e costruire il mondo, ecco perché Comte parla di corso di sociologia positiva, perché così facendo lui vuole portare le scienze sociali verso le scienze naturali. Il metodo che viene riconosciuto vincente al tempo è quello delle scienze naturali perché è quello che sta portando dei risultati incredibili e vincenti (tutte le nuove scoperte vincenti, le navi a vapore, le armi da fuoco). Tutto questo non può portare l'idea che bisogna fare così. Le scienze umane cominciano cercando di formulare leggi, attenzione notevole ai dati oggettivi, scambio con la realtà e la sperimentazione, ovvero tutte pratiche scientifiche.
Comte dice che la sociologia è la regina delle scienze e scienza della società, il che da un punto di vista definitorio è un grande errore perché la domanda immediata dei detrattori è: COS'E' LA SOCIETA'? Non c'è una definizione. Dal punto di vista del sapere occidentale (un sapere specializzato e settoriale) è lasciare la disciplina in balia di qualunque genere di interpretazione. Con questa formulazione comtiana compare il problema centrale della sociologia ancora oggi, ovvero sia: COSA STUDIA LA SOCIOLOGIA? Come vedremo è una domanda che attanaglia tutti i sociologi da circa 200 anni.
Al tempo sono parecchi che ritengono che ci sia bisogno di una nuova disciplina perché gli studiosi più avvertiti, che fossero filosofi, pensatori, ingegneri o economisti (come Vilfredo Pareto, importantissimo sociologo italiano) ritengono che i vecchi strumenti non sono più utili e tutti quanti convengono in questo corpo che sta sviluppandosi di temi e modi di studio e ognuno dice la sua. Ci sono milioni di proposte per cos'è la sociologia e cosa studia. [Noi] Ne vedremo soltanto due, quelle più generali, per questo i padri della sociologia si distinguono per chi sceglie di studiare la struttura della società e chi studia l'azione umana. Sono due oggetti abbastanza diversi.
Coloro che studiano la struttura della società: essi possono essere definiti strutturalisti o struttural-funzionalisti, con l'andare avanti dei punti di vista; COSA SIGNIFICA STRUTTURA? "la struttura è un insieme di elementi interconnessi e stabili nel tempo". I due tratti focali sono l'interconnessione e la stabilità. In quella che noi chiamiamo società, quindi nell'insieme di processi e di cose all'interno delle quali viviamo, questi studiosi mettono in evidenza queste due cose, ovvero sia la durata e la connessione, ovverosia qualcosa che supporti tutto il resto.
Coloro che studiano l'azione umana: essi possono essere definiti teorici dell'azione. Questi studiosi mettono in luce l'agire umano che è in grado di cambiare le cose, di costruire la struttura e modificarla (principio di mutamento)
Nonostante la diversità, queste due parlano dello stesso soggetto.
COME E' POSSIBILE CHE PARLANDO DELLO STESSO OGGETTO, QUESTI DUE LATI SONO COSI RADICALMENTE DIVERSI RISPETTO A UNA STESSA TEMATICA? Per cercare di capire questo discorso dobbiamo andare ai fondamenti prerazionali del conoscere e del sapere, ovverosia riconoscere che le teorie scientifiche viene formulato da uomini che hanno dei caratteri e degli atteggiamenti. Quelli che privilegiano la struttura, che si concentrano sulla stabilità e l'interconnessione, sull'ordine, sono quelli che noi chiamiamo pessimisti antropologici, come Hobbes: disse "homo hominis lupus" (l'uomo è lupo in mezzo agli altri uomini). A questo punto non possiamo non renderci conto del fatto che è vero che la struttura è un supporto, ma anche una costrizione. Le parole legate a struttura sono ordine, controllo, costrizione. I pessimisti antropologici sostengono lo studio della società perché non hanno una buona opinione dell'essere umano e per questo vanno concentrati sui tratti che tengono a bada l'essere umano (le norme, le istituzioni, la polizia). Chi ragiona in termini di struttura in quest'ottica non può ragionare in termini di azione. Quello che per la struttura conta è impedire l'azione umana, agendo liberamente l'uomo non può che fare danno agli altri. Hobbes riteneva che l'unico modo per tenere a bada gli uomini fosse la minaccia della pena di morte, tant'è che è arrivato alla sua nemesi (ovvero la sua visione si è rivelata non sufficiente) con le guerre di religione, perché in queste guerre la gente voleva morire (questo problema è presente anche oggi).
Se questo è l'atteggiamento hobbsiano, pessimistico, l'atteggiamento ottimistico è quello di Jean-Jacques Rousseau, colui del "buon selvaggio". Rousseau dice che l'uomo è buono, ma è la società che lo rovina, per questo egli può essere definito un ottimista antropologico.
[ottimismo e pessimismo sono due tratti caratteriali che non hanno a che fare con la razionalità, se sei pessimista non ti possono dire nulla, perché tu la reinterpreti nella chiave del tuo pessimismo. Questo dimostra come il modo d'essere del ricercatore è fondamentale per quello che viene detto e scritto: esso può provare ad essere più oggettivo possibile, ma non lo sarà mai al 100%. E' lui che nel pensare trasferisce i suoi atteggiamenti]
Se noi guardiamo effettivamente la realtà, quella che siamo abituati a interpretare come società, di fatto vediamo sia la struttura che l'azione. Vediamo che ci sono dei tratti di questa realtà che durano oltre il passo intergenerazionale, ma vediamo anche che in molti luoghi e in molte istanze l'azione umana riesce a modificarle, per questo abbiamo difficoltà a definire quale delle due sia più importante o rilevante, e soprattutto ci sembra che studiarne una sola sia limitante. Per questo dobbiamo capire perché questi uomini abbiano ragionato in questo determinato modo e non abbiano trovato questa cosa un minimo parziale. Per capirlo dobbiamo utilizzare un concetto matematico: la variabile. Y=F(X). Davanti a noi abbiamo una variabile dipendente e una indipendente. Nell'ottica del conoscere occidentale, la scelta dell'oggetto si fonda su questo discorso: si sceglie l'oggetto che si ritiene essere la variabile indipendente perché così studiando quello si capisce anche il resto. Un esempio è la teoria di Marx: esiste una struttura e una sovrastruttura. Quest'ultima varia al variare della struttura (economica) e non serve studiare la sovrastruttura, ma basta per questo studiare la struttura. Non è che i teorici dell'azione disconoscono la struttura o viceversa, ma dicono: la struttura (da parte dell'azione) è il risultato dell'azione, basta studiare l'azione per comprendere la struttura. Questo è il modo, anche, in cui si struttura la quasi totalità del nostro sapere. Noi scegliamo un argomento e attraverso quell'argomento possiamo comprendere tutto il resto. Però questa scelta non è una scelta oggettiva, è una scelta arbitraria, o comunque fondata su degli stimoli, su delle considerazioni non spiegabili e razionalizzabili. Per questo nelle scelta gioca la razionalità ma anche il pessimismo o ottimismo.
Oggi, quello che i sociologi cercano di fare, è conciliare struttura e azione, perché è vero che alcune cose della struttura possono essere comprese in termini di struttura e viceversa, ma questo scambio non è totale, e così ci sono dei resti. C'è bisogno che struttura e azione diventino due criteri di comprensione della realtà che convivano.
[Ragionamento aut-aut: è un modo di pensare, e vuol dire "O-O", quindi o una cosa o un'altra, altrimenti noto come terzo escluso. Inoltre anche il concetto struttura-azione è un concetto aut-aut. Un altro modo di pensare sarebbe l' "et-et", quindi da una parte, per comprendere la società, o quello che noi intendiamo come società, servono la struttura e l'azione, per comprendere noi stessi, serviamo noi e serve anche l'esterno. L'istanza che fa le scelte sei tu, perché se tu ti interpreti come frutto di quello che ti circonda, chi sei? Quello che costituisce noi come unicità è il fatto che siamo NOI all'interno di un contesto particolare, dal quale prendiamo cose, nel quale incontriamo persone, però se tu sopprimi la capacità di scelta per questo discorso diventi un errore storico. Non si può scegliere dove si nasce, per questo devi giocare con le carte che il destino ti ha dato, ma come giochi è modo tuo, è affar tuo. Nessuno di noi ha il controllo totale della vita. Si deve essere in grado di gestire l'incertezza (MORIN). Più siamo bravi a gestire l'incertezza, meglio possiamo vivere. Questo è uno dei problemi per cui siamo qui, perché l'idea della modernità era quella del controllo; la modernità è quanto oggi in particolare quanto di più pessimista antropologicamente esiste. La modernità è un insieme soffocante di regole: non ci si fida più di nessuno. L'atteggiamento aut-aut costa in termini cognitivi, perché non è vero che il mondo è fatto o in un modo o in un altro, il mondo è fatto in una miriade di modi diversi. Più ti rendi conto di conoscere il sapere, più ti rendi conto di quali strumenti usi in certi contesti: in alcuni concetti è più intelligente la struttura, in altri lo è di più l'azione, in altri struttura e azione sono alla pari. Tu sei in parte il risultato della tua vita, ma per quello che sei è tua la colpa. Se non è colpa tua, non è neanche merito tuo. Qualunque cosa accada è merito tuo. Non c'è niente nel pianeta oggi che non ci riguarda, che ci piaccia o no. Oggi non ci si può chiamare fuori da niente, siamo coinvolte in dinamiche così ramificate che è difficile uscirne fuori. Uno dei punti che va riscoperto è la responsabilità.]
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CHE COS'E' LA SOCIOLOGIA? CHE COS'E' LA SOCIETA'? Non è facile da definire la Società. Ci sono diversi rami, che però sono già stati intrapresi: il diritto viene studiato dalla giurisprudenza, l'economia dalla facoltà di economia e così via.. Questo è il problema che ci troviamo ad affrontare anche oggi. Non è Comte che non aveva le idee chiare il problema, è che nel momento in cui Comte percepisce questa necessità non ci sono le idee chiare.
[Esattamente come oggi: noi non sappiamo dove ci sta portando la società, cominciamo a sapere che certe cose non bisogna farle, però non vediamo la destinazione del nostro cammino. Siamo in una fase di transizione e bisogna cercare di inventarsi delle nuove strategie cognitive]
Questo fatto viene ripreso da una serie di autori molto importanti, come ad esempio i tre padri della sociologia: MAX WEBER, EMILE DIURKHEIM,GEORG SIMMEL. Questi tre pensatori in qualche modo si prestano su posizioni diverse rispetto a quello che è l'oggetto della sociologia.
Max Weber è il padre della teoria dell'azione, quindi è colui che privilegia il fattore di mutamento, colui che nella famosa equazione [lezione precedente], dice che la struttura è funzione dell'azione, quindi se io studio l'azione comprendo anche la struttura e non solo, ma anche il fattore di mutamento della struttura. Ciò è importante, perché queste due interpretazioni (azione e struttura) non sono simmetriche, ci sono delle avarie, delle difficoltà che generano, in particolare quella della struttura. Il suo problema, dello struttural-funzionalismo, come diventerà nel corso del XX secolo partendoo da Diurkheim e passando attraverso Talcott Parsons e Robert Merton in America, ci crea una difficoltà dal punto di vista del mutamento: la struttura si caratterizza per interconnessione e stabilità, quindi se io mi focalizzo sulla struttura ottengo una società statica, quindi COME FACCIO A SPIEGARE, IN TERMINI DI STRUTTURA, IL CAMBIAMENTO? La struttura tendenzialmente si autoriproduce, ma non si evolve. Dal punto di vista logico, privilegiare la struttura mi lascia sguarnito di fronte a quello che è il cambiamento all'interno della società. La struttura come principio euristico (= di scoperta della verità) raggiunge il suo apice/acme negli anni '50 del XX secolo. Facendo un po’ di sociologia della scienza e della cultura, noi ne inferiamo che questo anelito verso la stabilità è più marcato nei momenti in cui questa stabilità non c'è, perché se si pensa ai primi cinquant'anni del XX secolo abbiamo un panorama devastante. In sintesi che il fatto che la struttura come principio di interpretazione della realtà raggiunga il suo apice a metà del XX secolo è anche giustificabile da un punto di vista storico-sociale, perché la prima metà del XX secolo vede una totale incrinatura del principio dell'ordine, c'è la guerra ovunque. Non a caso Diurkheim, che è il padre dello strutturalismo, nasce nell'Alsazia-Lorena (nella Francia-Germania) e dal suo punto di vista la stabilità era un pregio. Evidentemente le circostanze storiche, gli avvenimenti storici sia biografici influenzano il pensiero, non solo quello delle scienze umane, ma influenzano anche il pensiero scientifico. Esso si presenta come oggettivo, ma non lo è. Il pensiero scientifico è influenzato da parte delle esigenze storiche, che siano esigenze politiche o economiche,belliche.
[non a caso l'ultimo momento del quale possiamo veramente affermare che c'è stato un boom della ricerca tecnologica, del quale ancora oggi continuiamo ad affinare le armi, è stata la SECONDA GUERRA MONDIALE: il codice enigma, la scoperta del computer, le chiavi crittografiche. Noi siamo ancora oggi debitori allo sforzo scientifico della seconda guerra mondiale. Di fondamentale negli ultimi 50 anni non si è inventato nulla di nuovo, ma ci sono stati solamente dei miglioramenti per quanto riguarda gli enti scoperti in questa guerra. Nel giro di 5 anni (pre-bellico e post-bellico) il mondo era completamente diverso, sia per quanto riguarda il contesto tecnico e culturale, sia per motivi demografici. Si pensi a quanti milioni di maschi adulti sono rimasti uccisi da queste guerre. I maschi adulti a quel tempo erano il fulcro del processo di socializzazione, per questo in termini culturali la seconda guerra mondiale è un disastro assoluto, tant'è che tra la cultura pre- e post-bellica c'è un gap incredibile, si passa da valori tradizionali a valori moderni, ad esempio la coppia consumo-risparmio: fino all'anteguerra il risparmio è una virtù cardinale, dopo la seconda guerra mondiale diventa fondamentale il consumo.]
L'ordine è strettamente collegato a una certa impostazione mentale, però ci crea una difficoltà perché è difficile spiegare il cambiamento in termini dell'ordine. Il cambiamento necessita di un agente. Non a caso la teoria dell'azione si focalizza sugli agenti, perché l'azione dell'uomo è il principio grazie al quale è possibile comprendere il cambiamento della struttura della società, dei valori e di tutto quello che oggi testimoniamo.
[Il ritmo di cambiamento al quale siamo abituati noi oggi è un unicum da un punto di vista storico: prima, all'incirca fino a 40 anni fa, il cambiamento era normalmente intergenerazionale (ovvero che si trovava tra la generazione dei padri e quella dei figli), però la gente viveva in un panorama stabile; ma noi oggi abbiamo un cambiamento intragenerazionale (ovvero tra la nostra generazione). Tra 5 anni fa ed oggi testimoniamo delle mutazioni sostanziali da parte di moltissime cose. Questo ritmo di cambiamento è assolutamente nuovo per l'umanità. Prima i cambiamenti venivano di secolo in secolo, come ad esempio dall'inizio alla fine dell'ancien régime, dove passano mille anni, ed erano mille anni di staticità, perché i cambiamenti avvenivano lentamente. Oggi non abbiamo idea di cosa accadrà domani, e questo è uno dei fattori dell'incertezza, perché non avere idea di cosa sarà il futuro è una questione ansiogena: non saprai se lavorerai,dove,quando, come. Questa situazione genera inoltre richieste di stabilità e noi non riusciamo a soddisfarle.]
Questa distinzione tra autori che privilegiano l'una categoria e l'altra si fonda in parte anche su delle caratteristiche caratteriali di noi stessi, e sono caratteristiche pre-razionali per l'atteggiamento verso il mondo, ovvero il pessimismo antropologico e ottimismo antropologico. Esse non sono due posizioni simmetriche perché:
l'ottimismo antropologico dice: l'uomo è una fonte di cambiamento e creazione, e questo non è necessariamente un bene. Questo ottimismo accetta anche dei comportamenti non in accordo con l'ottimismo stesso: l'uomo può essere buono o cattivo, proprio perché possiede il libero arbitrio.
il pessimismo antropologico dice: l'uomo è cattivo per natura e che di conseguenza occorre qualcuno che li tenga in ordine.
MA CHI E' CHE CI DEVE TENERE IN ORDINE SE GLI UOMINI SONO TUTTI CATTIVI?
Il pessimismo antropologico non spiega perché dovremmo dar retta a qualcuno, perché se sono tutti cattivi non si capisce perché qualcuno abbia un magistero. Qui entrano in gioco le famose radici religiose: noi interpretiamo il mondo secondo sfere di significato e la sfera primordiale è quella religiosa. Colui che ci dice quello che dobbiamo fare è Dio, il quale non si trova tra di noi. Per questo Mosè quando si presenta con le tavole scritte da Dio funziona, perché lui crea uno stacco tra chi è il titolare delle rivelazioni e gli altri, e quello che è il titolare può dire allora che se credete in Dio credete anche a me. Successivamente questo stadio viene sorpassato, e siamo arrivati in una situazione nella quale teoricamente dovremmo essere tutti noi che ci diamo le varie leggi e ci governiamo. Ma il problema di chi ti da il magistero resta, e non si è risolto.
Noi continuiamo ad usare la struttura, continuiamo a dire che gli uomini sono cattivi e abbiamo persone che continuano a dirci cosa fare perché loro sanno cosa è giusto e cosa invece è errato. Questa è una situazione controversa, perché noi accettiamo questa condizione.
[oggigiorno noi accettiamo tutti i suggerimenti che ci vengono posti, tutti i consigli, perché non ci fidiamo di noi stessi. Se si genera una società la quale non si fida di se stessa, quella società è disposta a fidarsi di chiunque. Oggi noi tendiamo a seguire gli altri, coloro che magari hanno più personalità. Noi abbiamo paura e non ci fidiamo più di noi stessi. Per questo nasce la richiesta di rassicurazione ed è diventata uno degli strumenti della politica.]
Struttura e azione da un certo punto di vista possono apparire simmetriche, ma non lo sono perché la struttura ha delle difficoltà esplicative a giustificare il cambiamento di se stessa e nel fondamento della questione, ovverosia nel giustificare perché qualcuno dovrebbe essere meno cattivo degli altri e questo qualcuno poi si trova a gestire il potere. E' anche vero che però la struttura ha i suoi pregi (non del tutto razionali ma immaginari, perché hanno a che fare con un altro tipo di pensiero) e sono la rassicurazione, la stabilità e il controllo. La struttura di per sé è una forma di rifugio perché permane, e sembra metterti al riparo di cose che testimoni costantemente: attentati, fallimenti economici e catastofi climatiche. Essa inoltre è deresponsabilizzante. Vuol dire che quello che fai è a colpa di qualcun altro.
[questo ragionamento può essere collegato ad un'autrice del XX secolo, Hanna Arendt, la quale ha scritto "la banalità del male" e che parla del processo di Norimberga. Molto importante è la rilevanza che questo libro dà al comportamento di una grande parte dell'umanità. "io eseguivo degli ordini"]
Noi tendiamo a evitare troppe responsabilità. Nonostante ci siano delle falle logiche nel concetto di struttura, essa continua ad essere sempre più gettonata. Noi stiamo cercando da 2500 anni le fondamenta.
[si pensi all'atomo, che letteralmente significa "non divisibile". PERCHE' CERCAVAMO L'ATOMO DAI PRESOCRATICI? Lo cercavamo per scoprire il mattone fondamentale della realtà poi si poteva ricostruire senza problemi e sapendo quello che facciamo. Secondo Husserl ed Heidegger noi ci troviamo gettati nel mondo, del quale non sappiamo nulla, non sappiamo cosa fare e come. Ci si trova in una situazione di instabilità essenziale. Trovato l'atomo non abbiamo risolto nulla, anzi si sta peggio di prima, perché quest'atomo si è rilevato infinitamente indivisibile e in modi che non capiamo, e da cui derivano il principio di incertezza di Heisenberg, la relatività di Einstein e altri, i quali ci fanno capire che le scienze stesse che dovevano trovare il fondamento invece hanno ribaltato la situazione. Ci sono solamente probabilità statistiche. Si cercava l'atomo per stare più sereni ed invece è accaduto il contrario.]
[tutto quello che noi facciamo sta diventando sempre meno più duraturo. Il problema è che ci muoviamo troppo in fretta. Questo nostro tempo intacca qualunque sentimento di stabilità e rassicurazione e di protezione che possiamo richiedere, a meno che non ci cominciamo a rivolgere ad altre istanze. Tutto questo però può essere visto anche da un punto di vista ipotetico: noi siamo grandemente più sicuri rispetto ai nostri antenati.]
L'incertezza è uno degli argomenti chiave di Morin, è uno dei sette saperi fondamentali. Il suo libro ci dice che dobbiamo reimparare a gestire l'incertezza, perché l'incertezza per l'essere umano è uno stato naturale, non è un problema. E' la struttura che ci presenta l'incertezza come un difetto, come una malattia, ma noi siamo essenzialmente incerti. Tutta questa pretesa di sostanzialità e stabilità e di certezza proviene dal fatto che noi sappiamo che sono cose inesistenti. Inoltre è la modernità che ci disse che con la tecnologia saremmo stati in grado di dominare la natura e non avere più tutti quei problemi, ma la modernità ha fallito. Noi dobbiamo rinunciare a quella retorica.
Ormai non c'è nulla di stabile e sotto controllo.
Nel dibattito fra struttura e azione noi dovremmo applicare un modello di pensiero che è l'et-et. La struttura e l'azione sono una combinazione che ci permette di comprendere un po' meglio dove siamo. Noi abbiamo bisogno della struttura. Se noi siamo così infondati c'è bisogno di qualcosa che ci faccia sentire stabili, il problema è: QUANTA STABILITA' CI SERVE? Oggi, avendo privilegiato troppo la struttura per via di tutte le incertezze e le difficoltà, ci troviamo in una situazione dove siamo soffocati dalle norme (ipertrofia della struttura). Citando Diurkheim, "l'opposizione fra norme e libertà è un falso problema, perché la libertà esiste soltanto all'interno delle norme". L'unica questione sulla quale occorre fermarsi è vedere qual è il peso delle norme nella vita.
Concetti fondamentali della descrizione della società
Il primo è la stratificazione sociale: il modo attraverso il quale rappresentiamo graficamente lo spazio sociale nel quale viviamo. QUAL E' LA FORMA DELLA DIVISIONE?
La piramide sociale. Come dice Mongardini, il problema della stratificazione sociale è la raffigurazione delle ineguaglianze che sussistono all'interno della società, perché coloro che si trovano nei diversi strati della piramide non sono tutti nelle stesse condizioni; la piramide sociale è una strategia per raffigurare il monte privilegi-benefici-ineguaglianze vigenti all'interno della società. Il concetto fondamentale per noi all'interno della stratificazione sociale è quello di status.
[ognuno di noi ha uno status, e quest'ultimo è di fatto la posizione che si occupa all'interno della stratificazione sociale]
La sociologia ha tre livelli di analisi:
livello micro: quello che succede tra un piccolo gruppo di persone comuni;
livello meso: rapporto tra il singolo e l'istituzione;
livello macro: rapporto tra le istituzioni.
Il discorso della stratificazione sociale è inizialmente un discorso macro: abbiamo a che fare con gruppi, valori, poi dopo ci siamo dentro noi. La prima domanda riguardo questa stratificazione non è tanto perché io sono qui, ma COME MAI TUTTI QUELLI CHE STANNO NEGLI STRATI SOTTOSTANTI ACCETTANO DI STARCI? (Questa è una domanda da un punto di vista macro). Si accettano le cose senza porci alcun problema. Come mai questa piramide non è un perenne ciclo di autodistruzione con rivoluzioni, dato che sono in molti a stare peggio, e che superano di numero quelli che stanno peggio? inoltre: COME FACCIO A CONCILIARE IL FATTO CHE LA PIRAMIDE SOCIALE MI VIENE SPONTANEA COME RAFFIGURAZIONE DELLO SPAZIO SOCIALE, CON DELLE PRETESE EGUALITARIE? Non sarebbe una piramide se tutti quanti stanno bene, non è possibile una piramide; forze potrebbe essere come la famosa utopia marxiana, la quale non si è mai vista da nessuna parte. Non esiste una società in cui siamo tutti uguali. Quando si parla di uguaglianza, non si parla di quella materiale, ma di pari dignità. L'uguaglianza materiale era quella che vigeva in Cina con Mao, il quale era una distorsione concettuale, perché noi siamo tutti uguali, ma siamo anche tutti diversi. PERCHE' ACCETTO DI RESTARE DOVE SONO? Perché all'interno dello spazio sociale, dove io sono occupante, vigono dei valori più o meno condivisi. I valori creano gerarchie, esso è una strategia di messa in ordine del mondo. Dare valore a qualcosa significa preferire qualcosa. Questo aiuta il sistema delle scelte. L'uomo sceglie, perché egli è limitato, non può essere tutto e avere tutto, perché ha un tempo limitato e delle risorse limitate. Inoltre l'attività politica, come Mongardini mette bene in luce, è l'arte di assegnare le risorse nel modo migliore per la collettività. I valori sono lo strumento il quale attraverso i singoli e le collettività operano le loro scelte; per questo i valori sono condivisi.
La stratificazione sociale è un indicatore sintetico, ovvero è un valore che racchiude in sé tutta un'altra serie di valori. Lo status inoltre è un indice complesso nel quale confluiscono tutta una serie di considerazioni sull'essere umano. Perché una società si regga, si ha bisogno di una forza di condivisione di valori tale per cui anche coloro che non stanno bene accettano di non stare bene. Il valore è un oggetto complesso da maneggiare, è difficile creare un valore condivisibile. I valori esorbitano la sfera razionale, per il quale sei disposto a morire. QUALE TIPO DI DINAMICA FA SI CHE CERTE SITUAZIONI VENGANO ACCETTATE O MENO DI BUON GRADO? Perché alcuni valori mi danno la possibilità di stare bene? Per rimanere nella stratificazione a livello morfologico (o topologico) la questione della piramide è legata all'ancien régime, cioè la piramide sociale descrive delle società tradizionali, dove pochi hanno molto e molti hanno poco. La forma della stratificazione cambia nel tempo, perché non c'è niente di immutabile.
[noi ne abbiamo passata una e quella più comoda era la picca, ovvero il trionfo della classe media: pochi con tanto, pochi con poco, molti con abbastanza (fino alla fine del XX secolo). Il problema è che la nostra generazione è cresciuta con una determinata concezione ma adesso si trova totalmente svuotata e si è immersa in un altro tipo di concezione. Oggi abbiamo quello a coppa di champagne: non esiste il ceto medio, pochissimi hanno molto, e la grande maggior parte che non ha più niente. Famosa è la formula di Wall Street: l'1% al 99% e il 99% in mano all'1%. Ed è una situazione di fatto, che è inaccettabile che noi però accettiamo. Evidentemente riteniamo giusto questo.]
Il sociologo prova ad essere il più distaccato possibile. Siamo acquiescenti.
13/10
La stratificazione sociale si fonda su una serie di valori condivisi, è una raffigurazione grafica del sistema di diseguaglianza di gente all'interno di una certa società, essa ospita ciascuno di noi e dà a noi stessi una posizione grafica all'interno di essa che chiamiamo status. Questo concetto è importante per noi perché noi ci regoliamo su di esso, anche se inconsapevolmente e automaticamente. Grazie all'idea di status che abbiamo con l'altro, ci comportiamo in certi modi, noi giudichiamo il prossimo proprio attraverso lo status.
[la gente tratta i questuanti (ovvero quelli che chiedono l'elemosina) i quali sono in punto imprecisato al di sotto della scala sociale,come se non esistessero. Il nostro atteggiamento, nei termini dei valori condivisi e di utilità possibile nei loro confronti si basa sul giudizio a priori; noi non ci comporteremmo mai in questo modo con un nostro "pari" di status, o addirittura superiore]
Nonostante il discorso di uguaglianza tra uomini è un discorso di pari dignità, noi continuiamo a comportarci in questo modo. Questo comportamento può essere definito dialettica del riconoscimento.
[il riconoscimento per noi è fondamentale: quando qualcuno fa mostra di non vederci fa male, non ci lascia indifferenti, perché ci sono dei meccanismi profondi per i quali quel comportamento risulta un qualcosa in grado di minare il vostro fondamento. Noi abbiamo tendenzialmente una buona opinione di noi. C'è quindi anche una questione di relazione: noi viviamo piuttosto bene finché siamo all'interno di relazioni dove ci si conferma che esistiamo, perché comunque sia, il dubbio dell'esistere, dell'essere importanti e dell'avere senso è un dubbio che ci portiamo sempre.]
Noi dipendiamo dall'altro molto più di quanto non si voglia ammettere e non si crede, ma quando l'altro non si sa come maneggiarlo, abbiamo dei problemi. Quindi lo status è uno strumento utile dal punto di vista strumentale e utilitario, da un punto di vista di cose che possiamo ottenere. Ma non è questo l'importante grammatica della questione: la grammatica è importante perché ci permette di entrare nelle relazioni con gli altri, all'interno delle quali abbiamo conferme e diamo conferme; siamo più solidi dopo la relazione con l'altro che prima e senza le relazioni con l'altro abbiamo dei problemi.
Lo status è indice sintetico: in un giudizio istantaneo noi combiniamo tutta una serie di informazioni che traiamo dall'apparenza dell'altro. Da queste informazioni si genera tutta una serie di dinamiche di status. Questo argomento è uno degli sviluppi più interessanti di SIMMEL alla sociologia, perché egli ha parlato di tre apriori che servono a spiegare come è possibile la società: il primo dice che noi conosciamo per tipi.
Noi ci aspettiamo dagli altri un tipo di comportamento e quando l'altro non compiace le nostre aspettative, ci allontaniamo istintivamente. Questo è un tipo di cultura implicita, ovvero un sapere che si possiede e che si usa ma del quale non si è consapevole (i gesti, il portamento, il modo di scrivere); questi comportamenti ci permettono di interagire ma anche di difendersi, nel caso, ed anche loro convergono nel concetto di status.
Definizione di status da tre dei maggiori sociologi italiani: ALESSANDRO BAGNASCO, MARZIO BARBAGLI e ALESSANDRO CAVALLI
"il sistema delle disuguaglianze sociali di una società nei suoi due principali aspetti, quello distributivo, riguardante l'ammontare delle ricompense materiali e simboliche ottenuti dagli individui e dai gruppi di una società, e quello relazionale, che ha invece a che fare con i rapporti di potere esistenti tra di essi".
Quindi il problema non è semplicemente una difficoltà economica: noi tendiamo a utilizzare l'economia come chiave di lettura dell'esistente (sulla scorta di Marx); il nostro modo di pensare è prettamente economico. E' vero che è importante l'economia, ma fino ad un certo punto: tante volte noi travestiamo da economici dei gesti, degli intenti che hanno tutt'altro motivo di essere. Comunque vediamo, dalla definizione, che il discorso dello status e delle competenze di questo genere è un discorso che va in due direzioni: da una parte ci sono i benefici di ottenere guadagni e privilegi e dall'altra il problema della relazione con l'altro. (in che termini posso mettermi in questo rapporto,cosa posso ottenere da esso, e così via). Il problema della stratificazione sociale è che la nostra posizione all'interno della stratificazione sociale ci da un certo capitale di partenza (se si parla di capitale sociale: un tentativo di imporre un gergo e un modo di pensare su qualcosa che non è di quel genere).
[in sintesi vogliamo dire che tutto ciò che ha a che fare con le nostre competenze relazionali noi lo valutiamo in chiave economica, ovvero vediamo se questo rapporto può apportarci un guadagno]
In questo modo si distorce la realtà, e oltretutto poniamo in difficolta il mettersi in rapporto con gli altri (e ci sono diversi modi, ad esempio abbiamo quello strumentale).
Questo segna un'ambivalenza tra l'homo economicus (è un costrutto sul quale si fonda l'economia classica) e l'homo socialis.
[Homo economicus è una finzione per la quale si immagina un uomo che sia esclusivamente mosso da intenti economici. Avanti nel tempo però abbiamo pensato veramente che noi fossimo uomini economici, perché ragionavamo esclusivamente attraverso l'economia, ma ciò non è vero, e per questo ci sentiamo persi]
Per questo è ovvio che una posizione più alta all'interno della stratificazione sociale è la più desiderabile.
[il 12% degli universitari frequenta le lezioni solamente per aumentare il proprio
status. In Italia contano molto coloro che possiedono quel frammento di carta]
Per questo si parla di processo di mobilità ascendente. Conviene stare nello strato più alto della stratificazione perché è uno dei tratti della nostra cultura (noi nasciamo con la convinzione di dover essere più bravi degli altri, addirittura dei nostri genitori).
C'è una contraddizione di fondo, però. L'utilizzo del termine stratificazione è ambiguo: esso proviene dal gergo geologico, che significa solidità,pesantezza e stabilità; quindi parlare di mobilità nella stratificazione non è propriamente adeguato. Ma quando si era scelto il termine, al principio, lo scopo era proprio quello di far rimanere le cose immutate; non ci si poteva spostare da uno strato all'altro. Ciò significa che la società, nell'ultimo ventennio, dato che è cambiata per tre volte (piramide, picche e clessidra) è molto meno stabile di quanto non credessimo. Il cambiamento è diventato sempre più veloce, perché non c'è stato mai un momento storico così ristretto nel quale potevi evidenziare tre o quattro tipi di stratificazione sociale differenti.
[Economicismo : utilizzo di categorie economiche per descrivere qualunque cosa. Alcuni esempi: le Tasse sono uno strumento di redistribuzione dei redditi, e non sono l'acquisto di un servizio. Le tasse, nei giorni odierni, diventano qualcosa che paghi se ottieni qualcosa in cambio, ma non sono questo. Sono uno strumento di redistribuzione del reddito, perché in un gruppo sociale è noto che ci sono persone che vanno meglio e certe che vanno peggio ed è quindi opportuno che quelli che vanno meglio in qualche misura redistribuiscano i loro redditi per aiutare quelli a cui non è andata meglio; perché di fondo c'è un legame solidale, c'è una comune appartenenza che dà senso a questo tipo di attività. Ma nel tempo in cui questa comune appartenenza non è più sentita e ci percepiamo come singoli e tutto il mondo è contro di noi, a quel punto le tasse diventano un mezzo di pretensione di qualcosa dallo stato: " io pago quindi merito un qualcosa".
Un altro esempio chiaro di economicismo sono le ASL, che prima si chiamavano USL: una era Unità, invece l'altra Azienda. C'è una differenza: unità è una struttura che permette dei servizi, mentre Azienda vuol dire che è qualcosa che dovrebbe guadagnare. Perché un sistema sanitario dovrebbe portare un guadagno? E soprattutto a chi? Azienda è un privato, ma la salute è un diritto pubblico, e non dovrebbe essere sottomesso all'economia. La stessa cosa vale per Trenitalia, dato che si ha anche il diritto al trasporto. Noi trattiamo una serie di cose come se fossero merci, che però in realtà non lo sono. L'economicismo insegna che tutti siamo l'uno contro l'altro armati per avere il miglior ritorno.]
Il fatto che le stratificazioni cambiano ci dice che le forze in gioco stanno rimodellando la situazione in modi che non ci aspettiamo.
[Allungamento dello stile di vita: potrebbe essere una notizia eccitante all'impatto, ma non è molto allettante per i giovani del futuro. Il 70enne di oggi perché dovrebbe cedere il posto ad un giovane inesperto? Lui non s'importa del prossimo perché è stata la medesima cultura a imporgli ciò]
La dimensione dello status: un indicatore sintetico della collocazione dell'individuo nello spazio sociale. Come tale è multidimensionale e tra le sue dimensioni più rilevanti possiamo individuare:
provenienza, ovvero la nascita. Per la grandissima parte delle culture, il fatto della nascita è un fatto fondamentale, perché è sacra, invece per noi non è che un fattore scientifico.
cultura;
economia.
potrebbe essere la religione, proprio perché ad oggi è un tema centrale, la mancanza del tema religioso è condivisibile, ma non posso sapere se questo durerà più a lungo, proprio perché è stata la religione per molto tempo un criterio dirimente (anzi fu IL criterio).
[Oggi, il tema delle pari opportunità tra uomo e donna non ci tocca più di tanto. In tutto il mondo industrializzato la donna ha nel suo stipendio un 20% in meno nella busta paga. Questa è una delle cose che diamo per scontata. C'è un pregiudizio verso la donna: uno dei problemi è la maternità. Le grandi industrie stanno dando il benefit del congelamento di ovuli]
Un'altra suddivisione per quanto concerne lo status è:
Lo status ascritto (ovvero attribuito/assegnato) e lo ottieni per il fatto di essere nato in un certo modo: figlio, nobiltà etc etc..
lo status acquisito: si sceglie liberamente di procurarsi, un esempio è lo studente.
Questo per quanto riguarda la sfera della provenienza, MA PER LA SFERA DELLA CULTURA SI PARLA DI STATUS ASCRITTI O ACQUISITI? In questo caso si parla di una situazione "et-et". MA PER LA SFERA DELL'ECONOMIA? Sebbene la retorica con cui nasciamo sia una retorica del self-made-man, ovverosia tu sei libero di fare qualunque cosa.
La nascita oggi è sempre meno rilevante, ma non è vero affatto, perché il 35% degli studenti, tende a seguire la professione del genitore. Noi vediamo che il ruolo degli status ascritti, che ci piaccia o no, è ancora particolarmente rilevante, perché il fatto della nascita resta ed è pesantemente influenzato da essa.
[questo concetto può essere ritrovato in parte anche nella politica: quando c'è stata la Costituzione perché è un discorso che fonda un'altra opposizione interessante che è quella che forma tra democrazia formale e democrazia sostanziale: si è dibattuto ai tempi e si continua a dibattere ancora oggi, ma molto meno, sul fatto che la democrazia debba effettivamente metterti su un piano di parità con gli altri, per lo meno al livello di condizioni iniziali oppure sia semplicemente un'attribuzione formale di pari diritti politici. Ovvero, la democrazia formale, dentro la quale siamo noi oggi si limita a dire "una testa è un voto, il voto di un membro di uno strato sociale è uguale al voto di un membro di un altro strato sociale, e quindi la democrazia è realizzata, ma non è affatto così. Se non ci si prende cura delle condizioni di vita dei singoli, il voto diventa facilmente un voto di scambio. Una democrazia sensata è una democrazia che metta tutti alle posizioni di partenza più omogenee possibili. Democrazia sostanziale vuol dire che ognuno dovrebbe essere in grado di sopravvivere senza aiuti e quindi possa esercitare un diritto critico di voti e non fondato su necessità materiali. (Purtroppo) ha vinto la democrazia formale ed è per questo che il problema permane: come si vede perché in tutti e tre i campi al quale facciamo riferimento per rintracciare lo status altrui, il ruolo degli status ascritti è ancora molto importante]
Molto particolare è la sfera della cultura, la quale ci apre una serie di nuove prospettive con dei progressi scientifici accaduti negli ultimi anni. Il nascere in una cultura porta con se una forma di ascrizione, perché noi costruiamo il nostro bagaglio culturale con dei meccanismi molto complessi, dove il primo momento è molto importante.
Noi non abbiamo una coscienza quando nasciamo, questo però non vuol dire che non apprendiamo. Per i primi tre anni della nostra vita il nostro cervello è costruito in modo tale da garantire una ridondanza assoluta di apprendimento, perché la nostra struttura cerebrale è fatta in un certo modo e dove tu li vivi fa la differenza.
[un concetto importante è quello di cultura-ambiente,che vuole definire la cultura nella quale passi i primi tre anni, e tu conoscerai quella cultura come non conoscerai nient'altro. E' tutto un sapere implicito che tu hai]
Nella cultura è importante l'ambiente familiare, non solo tu nasci in una cultura europea, ma nasci una famiglia ed essa è il principale agente di socializzazione, è quella che ti da una serie di strumenti, informazioni con la quale tu operi per il resto della tua vita. L'ambiente in cui nasci non è solo rilevante in termini culturali, ma anche a livelli di struttura neurale. Nei primi tre anni le connessioni neurali del cervello sono molto più numerose, però è troppo, e ad un certo punto questo cervello subisce un processo di riduzione che si chiama pruning (potatura) e quindi tutte le connessioni neurali che non sono state attivate durante quegl'anni vengono rimosse. Un cervello non è uguale agli altri, ognuno di noi ha un valore unico. A seconda di quante attivazioni è riuscita ad attivare la famiglia in quei tre anni uno avrà più o meno connessioni neurali funzionanti.
Nella sfera della cultura quindi il quoziente ascritto continua ad essere importante.
L'economia si può distinguere in due rami: si può parlare del patrimonio familiare e della professione (ma è ascritta e acquisita, oggi come oggi si sceglie di fare la professione del genitore). Il fatto della nascita continua ad essere strettamente importante, abbiamo bisogno di avere un certo rapporto con loro.
[intelligenza: si può intendere in tanti modi, sappiamo che esistono sette intelligenze di base che poi si suddividono ancora e ancora. Noi tutti siamo diversamente intelligenti. L'intelligenza logico-matematica è quella più gettonata, ma non è l'unica. E' quella che si ricollega all'economia, alla razionalità. Ad esempio ci sono le intelligenze interpersonali e intrapersonali: L'intrapersonale è quella che ti permette di conoscerti bene; l'interpersonale è quella che ti permette di relazionarti con gli altri; l'intelligenza linguistica. L'intelligenza interpersonale sta surclassando quella logico-matematica.]
15/10
Noi associamo quasi automaticamente una migliore condizione a una posizione più elevata all'interno della stratificazione. Questa cosa è un meccanismo di attribuzione di senso e di valore che a noi viene spontaneo, e si chiama verticalizzazione valoriale e vuol dire che dal nostro punto di vista le cose che stanno più in alto sono migliori ed è per molti versi un riflesso antropologico di base che risale alla stazione eretta (circa 15 mila anni fa) ed è uno dei motivi per cui normalmente mettiamo gli Dei in cielo.
[pare che ci sia inoltre una diretta correlazione tra l'altezza e la leadership. Più sei alto più eserciti leadership.]
L'altezza per noi equivale a una qualche qualità. Per certi versi, GILBERT DURIN definiva la contemplazione monarchica (un esempio è quando ti affacci su una montagna e senti che tutto quello che vedi potrà essere un giorno tuo).
La stratificazione sociale cambia nel tempo e dipende da tre sfere di significato: provenienza, economia, cultura. A seconda del giudizio che si da a queste tre sfere di significato, la stessa stratificazione cambia di nuovo. Difatti quella che abbiamo visto per adesso è la stratificazione focalizzata sull'economia, perché nella nostra società il valore economia è il valore al quale guardiamo per orientamento di massa; quasi l'interezza dei significati e dei sensi del vivere sono tradotti in termini monetari. Possiamo assumere come valore chiave della nostra cultura il valore economico.
Ma se scegliessi di fare una stratificazione sociale focalizzata sulla cultura, otterrei dei risultati diversi; se scegliessi di fare una stratificazione sociale orientata alla provenienza avrei ancora risultati differenti. In linea di massima la stratificazione sociale è uno stratagemma per comprendere un po' meglio la nostra cultura, tant'è che anche le stesse distinzioni (i famosi strati) spesso vengono chiamati in un altro modo e definiti in un altro modo, precisamente ce ne sono 3:
Casta (non ha a che fare con politici, giornalisti etc..): è una distinzione/modo di suddividere la società di diritto e non di fatto; vuol dire che c'è una normativa che la definisce. Esse sono regolamentate attentamente e in modo estremamente pedante e preciso. Trattandosi di una definizione tradizionale, evidentemente nella casta si entra per nascita. La casta è uno status ascritto e porta con sé la grandissima parte dei comportamenti futuri di colui che vi accede: nascere in una determinata casta implica dover parlare con determinata gente e non con altra, poter vestire certi colori e stoffe e non altre. Questo era ciò che succedeva nelle nostre società pre-moderne. Per questo l'atto della nascita è fondamentale, perché tu nascendo in questo contesto, in una determinata famiglia, avevi il copione già scritto (salvo casi eccezionali). Essa ti definisce in ambito di matrimonio, di vestiti, di attività. Si tenga presente che la libertà di movimento tipica dei nostri tempi è recentissima: fino a qualche anno fa si pagano i dazi per uscire da un comune all'altro, c'erano una serie di impedimenti più marcati.
[si pensi che in Cina non ci si può spostare dalle campagne in città, se si viene presi senza documenti si viene condannati a pene significative; stanno cercando di alleviarlo ma è un tratto normale. Nelle culture non moderne anche il luogo conta, se fai parte di una determinata casta.]
Una delle poche strategie comuni a tutti quante le culture per poter risolvere e
migliorare questa situazione è il matrimonio. Noi abbiamo una lettura parziale del
matrimonio, questo atto è pubblico, collettivo, non ha a che fare con gli interessi
dei singoli. Nelle culture tradizionali ti sposi chi ti viene detto di sposare perché
attraverso il tuo matrimonio, tutta la famiglia può migliorare la sua condizione
sociale, può trarre dei benefici. Siccome la famiglia è un gruppo e questo è
prevalente rispetto all'individuo,in quasi tutte le culture del pianeta (tranne la
nostra) tu sei invitato ad adeguarti. Essendo noi titolari di una cultura
individualistica, siamo in difficoltà ad accettare che qualcuno ci possa dire cosa
fare (anche se per gli ultimi dati, non è del tutto vero).
Inoltre questo discorso ricorda che la famiglia non è soltanto il luogo degli affetti,
ma anche un gruppo, un'agenzia, un'istituzione. Essa è uno degli oggetti più
complicati con i quali ci misuriamo e sebbene la si reinterpreti costantemente,
mantiene una serie di caratteristiche e di pretese.
[il termine "famiglia deriva dall'osco (lingua spenta ormai da secoli) e viene dalla parola famul che significa "servo"]
La famiglia inoltre è il luogo dove avvengono più delitti.
Quindi, la casta è un'articolazione della società fondata sul diritto e basata sul
fatto della nascita.
[Un altro fatto è la religione, come quella indiana, dove si crede nella reincarnazione: il che vuol dire che questa vita è una delle vite. Nella visione indiana tutto ciò che è vivente rientra in questo ciclo, quindi le piante, gli insetti e gli altri animali potevano essere delle persone nella vita precedente, quindi non dovresti ucciderli. Questo incide anche sull'atteggiamento e sullo stile di vita indiano: l'individuo è immerso in un ciclo perenne di rinascita e morte, e di conseguenza se è nel posto in cui si trova adesso, è per merito suo. Nascere in una casta più bassa, significa che nella vita precedente hai fatto qualcosa di sbagliato, per questo non ti puoi lamentare,espii una colpa, e migliori per tornare ad essere qualcuno di più importante nella vita successiva. Questo spiega anche perché in India non esiste il concetto di solidarietà: se qualcuno si trova in una casta più bassa, non lo si aiuta, perché significa che ha fatto qualcosa di sbagliato e che deve espiare la colpa per questa vita. Questa cultura ha costruito la propria visione del mondo in un altro modo rispetto alla nostra visione. Questo è estremamente utile per quanto riguarda la solidità della struttura, perché ritengono giusto stare dove stanno e per questo non ci sono mutamenti sociali.]
2. Classe: la nostra cultura per molti anni è stata intimamente formata sui concetti
marxiani (non marxisti perché è un aggettivo che si riferisce a coloro che hanno
ragionato sulle basi di Marx, e spesso non erano molto d'accordo con lui). Essa è
una delle divisioni principali che articolano il corpo sociale, però Marx ha
elaborato una teoria a proposito: l'andamento della modernità, dell'economia
(che Marx intendeva come la variabile indipendente della funzione Y=F(X): la
società Y è funzione di economia X; per lui quindi guardando l'economia
comprendiamo tutto quello che ci circonda, non a caso definisce struttura il
sistema economico e sovrastruttura tutto il resto) nella struttura sociale è definita
in due classi (tendenzialmente) oggettivamente fondate (ovvero che non sono
oggetto di discussione o parere individuale, ma hanno un parere riscontrabile e
quindi oggettivo) e questo fondamento oggettivo è il possesso dei mezzi di
produzione. Il discorso marxiano è: "coloro che hanno i mezzi di produzione
formano la classe dei capitalisti, coloro che non hanno questi mezzi formano la
classe dei proletari (chiamata così perché dispongono di due cose: la forza lavoro
e i figli)". Questo discorso è oggettivamente fondato perché il possesso dei mezzi
di produzione è verificabile (e di nuovo tutto gioca intorno all'economia), però
non è solamente una componente oggettiva, ma deve esserci anche una
componente soggettiva, ovvero ti devi rendere conto che fai parte di questa
classe, e ciò viene chiamata coscienza di classe (essa è la consapevolezza di far
parte della classe che sta perdendo, perché attraverso delle dinamiche, come ad
esempio il plusvalore i capitalisti incrementano pesantemente i loro introiti a
scapito dei proletari). Il plusvalore funziona così: tu hai forza-lavoro, che ti viene
retribuita X, ciò che tu fai con la tua forza lavoro che ti viene retribuita X, viene
venduto per X+Y. Quindi il capitalista vende ciò che tu hai prodotto pagandotelo X
lo vende a Z. Il frutto del lavoro dell'operaio vale più di quello che viene
corrisposto, regolarmente quindi c'è un margine di guadagno.
Per essere membro di una classe devo avere delle caratteristiche oggettive, ma
anche soggettive, ma c'è un problema: la classe che domina, ovvero la borghesia,
fa di tutto per sfruttare la sua posizione di predominio per convincere gli operai di
altro. Questa è la chiave interpretativa di tutto il concetto di ideologia in Marx,
ovvero la falsa coscienza che la borghesia confeziona per convincere gli operai
che stanno bene dove stanno; ecco perché c'è bisogno del socialismo scientifico,
perché in questo modo scientifico l'operaio viene scosso dal suo torpore per
rendersi conto che lo stanno sfruttando. Quindi il marxismo è un antidoto che
serve a risvegliare le masse dei lavoratori e la loro coscienza di classe, al fine di
portarli alla rivoluzione che modificherà radicalmente le cose.
L'utilizzo del termine classe è un utilizzo complesso perché questa parola ha
senso all'interno di tutte queste cose dette fino ad adesso: io non posso parlare di
classe se non penso a Marx, è lui che ha fatto questo concesso e quindi mi
riferisco sempre a questo filosofo. E' un concetto talmente specifico che se lo uso
sto facendo riferimento a tutto il sistema di pensiero di Marx. Per questo motivo
dobbiamo stare attenti all'uso delle parole.
[il marxismo nel bene o nel male, ha modellato tutto il XX secolo. Inoltre, a livello di realizzazione,tra il marxismo secondo Marx e il marxismo reale e accaduto c'è un abisso, perché secondo Marx i protagonisti della rivoluzione dovevano essere gli operai (per esempio in Russia non vi erano operai). Questo pensiero attecchisce dove meno avrebbe dovuto attecchire. Prima esplode in Russia e poi in Cina (dove ci sono ancora meno operai). Inoltre risulta un altro problema in ambito economico: un operaio di una fabbrica che riceve delle azioni, a quale figura marxiana corrisponde? Perché nel momento in cui possiedi le azioni, possiedi in parte i mezzi di produzione. Quando compare la figura della società per azioni, il marxismo ha bisogno di essere rivisto.]
[in riferimento al film Matrix] Il grande problema dell'essere umano è che
preferisce accettare dei racconti,delle illusioni e delle assicurazioni che
confrontarsi con quella che è la scomoda realtà. Quindi di fatto il ragionamento
marxiano è vero. Marx era convinto che quando qualcuno fosse davanti al fatto
dello sfruttamento, avrebbe reagito. Invece noi moderni no, rimaniamo nelle
zone di comfort. Il marxismo non è fallito perché sbagliato, è fallito perché aveva
tratto delle conseguenze dalle sue scoperte che però poi non si sono verificate.
[la cultura è attività, e questa è la parte antipatica: la rivoluzione, le lotte, è la parte più scomoda della cultura. La cultura è quella per la quale ti metti in gioco, rischi.]
3. Ceto: Il discorso economico è molto più complesso, e non riguarda solo la
produzione. Ci sono dei modelli di comportamento che hanno a che fare con
l'economia ma non sono quelli della produzione, e un illustre oppositore di Marx,
ovvero MAX WEBER elabora un altro modo di guardare alla distribuzione sociale
che è proprio il ceto, il quale è molto più moderno della classe, perché le masse di
operai non ci sono più. Il ceto mi permette di capire la gran parte dei
comportamenti che vedo davanti a me e che adotto anch'io. Esso si fonda sulla
somiglianza degli stili di consumo, quindi non la parte della produzione, ma
quella del consumo, e per affar suo questo è un concetto molto moderno, inoltre
oggi il consumo è molto più importante della produzione. Quest'ultima avviene in
pochi luoghi, ci sono pochi guadagni immediati. Per questo si comincia a parlare
della filosofia dell'acquisto.
Nella nostra società il consumo è a tutti gli effetti un'attività economica, anzi il
consumo è un'attività che ha senso, tant'è che c'è una branca della sociologia (la
sociologia dei consumi) che indaga proprio su questo. Inoltre il consumo è un
fatto di notevole importanza, perché laddove noi siamo stati espropriati della
grandissima parte delle competenze che invece avevamo precedentemente, una
competenza che non è stato possibile espropriarci, ma che anzi ci hanno concesso
con gioia è proprio la competenza a consumare. Il consumo per questo diventa
l'unica attività alla quale siamo titolati, inoltre per un lungo lasso di tempo è
un'attività che viene considerata influenzabile.
[Ad esempio il marketing forzato. Inoltre a fine '800 in America, la grandissima parte di quello che si consumava, più o meno il 95% dei prodotti, venivano fabbricati all'interno della famiglia. Quest'ultima infatti è stata a lungo anche un'entità di produzione (possiamo pensare all'economia primaria, la famiglia era il fulcro). Pian piano però queste capacità di produzione ci sono state tolte, siamo stati espropriati da questa capacità in cambio della capacità di ottenere un reddito tale che ci permettesse di acquistare ciò di cui abbiamo bisogno da qualche altra parte, senza tenere presente che questo poteva portare a un soprassalto di coscienza. Da questo punto di vista il concetto di classe è utile: oggi i consumatori si rendono conto che possono essere una voce nel discorso dell'economia per svariati motivi: primo, perché queste dinamiche dell'acquisto si dimostrano ingannevoli; secondo: ci sono delle condizioni oggettive per le quali i consumatori possono diventare una forza consapevole (internet: un esempio è class action la quale ha avuto una certa influenza; anche in Italia stanno apparendo queste class action, anche se in misura più piccola).]
Questo però cambia in futuro: il consumatore ha (in parte) il coltello dalla parte
del manico. Il fatto che qualcuno si percepisca come consumatore,
evidentemente, è un piccolo indennizzo sulla questione dell'attività: il
comportamento di consumo di una persona non è più eterodiretto da una
multinazionale e dal marketing, ma diventa un comportamento autonomo. Il
comportamento di consumo è un comportamento che viene regolarmente
proposto da parte dei venditori come un comportamento che permette di
esprimersi. Ma il consumatore intelligente, per questo, diventa un ostacolo
all'interno del circuito di aziende, perché fa come vuole.
Il discorso del consumo è anche strettamente correlato all'identità: in qualche
modo consumiamo per informare gli altri di chi siamo, per questo la filosofia
dell'oggetto diventa importante. Nel momento in cui tu compri un determinato
disco, un determinato libro stai informando gli altri di cosa ti piace, di come sei
fatto. Tu sei quello che tu compri. Il momento dell'acquisto è un momento di
comunicazione, sebbene l'oggetto che tu compri di per sé non ha un valore.
Qui si ritorna al tema del riconoscimento (se non c'è qualcuno che mi conferma
del mio essere me stesso, non so se sono io, se ci sono, se sto vivendo questa
vita). Esso è una delle leve più importanti con il quale gestiamo i nostri equilibri
interiori. Il riconoscimento, tutt'oggi, è molto complicato: il tipo di rapporto
all'interno del quale il riconoscimento è più efficace, oggi è diventato
estremamente raro. Questo tipo di rapporto è un rapporto primario (o relazione
primaria), laddove in sociologia distinguiamo inoltre un rapporto secondario. Il
rapporto primario è quello che si instaura con qualcuno perché è lui: io sto bene
proprio con quella persona, non con un'altra persona che le assomiglia, ma
esattamente con lei, con la quale si instaura un'amicizia (se ci fosse un'altra
persona, somigliante a lei, non esisterebbe quel legame di amicizia). Questo è il
rapporto che abbiamo con i parenti, con gli amici e con i partner (non è quello
che si fa nell'infanzia!!!). I rapporti secondari sono rapporti strumentali e che
chiama in causa i ruoli che vengono rivestiti da quelli che ne fanno parte. Il
problema è che nelle nostre società c'è una spiccata tendenza alla
secondarizzazione dei rapporti, cioè i rapporti secondari sono molti di più rispetto
a quelli primari. Questo è molto importante per quanto riguarda il
riconoscimento perché è più importante che qualcuno mi parli perché sono me
stesso, o perché rivesto un determinato ruolo nella società? Il rapporto primario
ha come oggetto il valore assoluto in quanto persona. Il rapporto primario è
quella che ti fortifica per quanto riguarda il riconoscimento, perché che qualcuno
abbia piacere di stare con te è molto più gratificante rispetto a qualcuno che deve
stare con te a fine strumentale.
Sono tre modi per articolare la distribuzione della stratificazione sociale e sono diversi dagli strati, perché sono orientati a un certo tipo di interpretazione della stratificazione stessa.
20/10
Testo Movin' out - Billy Joel
[Movin out e movin up, è proprio qui che sta il gioco di parole. Movin up è il tema della lezione, vuol dire processo di mobilità ascendente, ovvero quel miglioramento di status che parecchie persone cercano; tutto il testo è una critica alla società]
Il problema della mobilità: le posizioni più alte, all'interno della stratificazione sociale, sono le più desiderate perché comprendono una serie di benefici e ulteriori miglioramenti di vita pratica, rispetto a quelli che si hanno ai piani inferiori. Una delle tendenze centrali del nostro tempo è quella di migliorare il proprio status, perché conviene. Ma ci sono dei momenti (come testimonia la canzone di Billy Joel) che ti chiedi PERCHE'?perché sottoporre il mio corpo a un tale stress? A CHE PRO? Questo è uno dei punti interessanti dell'oggi che possiamo comprendere solamente partendo dallo ieri, il quale ieri è la fine del Settecento. Questa mobilità sociale, prima, era assente (ci sono dei sistemi sociali in cui non c'è questa mobilità, come quello indiano). Nelle società precedenti il cambiamento è molto più
diluito nel tempo, di conseguenza per il singolo è appena percettibile, quindi la realtà nella quale nasce è la medesima (o quasi) realtà nella quale muore. Questo perché ciò che viene privilegiato è la struttura, l'aspetto della conservazione e della stasi, e all'interno della quale gli status ascritti sono estremamente funzionale, perché comportano una prevedibilità di comportamenti. Quindi, da un punto di vista di gestione dell'esistente la struttura è molto più utile che non l'azione (perché essa scardina le predizioni). Questo vale finché il mutamento ha un tasso gestibile, ma il mutamento accelera, e con questa accellerazione (la rivoluzione scientifica), l'uomo riesce a fare molte più cose rispetto a quello che faceva prima, per questo il vecchio sistema di gestione dell'esistente non è più adatto. Per un certo lasso di tempo si mantiene, perché i nuovi mestieri vengono reinterpretati alla luce di quelli vecchi. Poi però arrivano le fabbriche, le quali costituiscono una situazione assolutamente inedita e comportano una professione anch'essa inedita. Quindi le società si trovano di fronte a un bivio: non si fa lavorare nessuno in fabbrica perché nessuno ci ha mai lavorato e quindi non è possibile attribuire questo status con le vecchie strategie, o si fa un'eccezione e questo status viene concesso dopo? Quello di operaio diventa il primo status acquisito della storia. Col passare del tempo molti si domandano il motivo per cui si deve seguire il mestiere dei genitori, mentre gli altri cambiano.
[oggi gli status ascritti stanno diventando sempre meno. Inoltre: Mobilità arriva insieme al discorso degli status: se io non devo più rimanere dove sono nato, posso migliorarmi attraverso una serie di strategie e questo consiste nell'incrementare il valore simbolico/capitale sociale/prestigio connessi con il mio status, e questo si può fare attraverso due strategie principali: culturale ed economica; inoltre ci sarebbe anche una terza strada che è estremamente praticata, ed è quella del matrimonio. Nel momento in cui la cultura diventa una cultura un po' più permeabile a queste strategie diventa più o meno una prassi. Noi siamo sempre spinti a migliorare la nostra posizione, ma questa spinta sempre crescente, sempre più costrittiva al miglioramento porta una serie di conseguenze, come l'instabilità sociale, perché è sempre più difficile essere soddisfatti di ciò che si ha. Finora noi abbiamo parlato solamente di mobilità ascendente, ma esiste anche una mobilità discendente, perché non c'è nessuna garanzia che tu resti dove sei (questa garanzia esisteva solamente nel vecchio sistema) (Tu ti senti povero nei confronti del contesto nel quale vivi)]
La mobilità è un processo di modifica dello status; essa può essere sia collettiva che individuale, nel senso che possono essere interi gruppo che migliorano o peggiorano il prestigio di cui godono nella società e trasferiscono questo miglioramento/peggioramento ai loro membri.
La mobilità può essere interpretata sia a livello micro che a livello macro, perché non coinvolge solo me ma anche la mia famiglia.
Oltre a esserci una mobilità verticale, quindi ascendente quando miglioro o discendente se peggioro, esiste anche una mobilità orizzontale, serve a descrivere il fatto che per un certo lasso di tempo non c'era modo di spostarsi. Essa può essere sia di status che geografica, laddove la mobilità verticale è solo di status. Se ti sposti da una provincia all'altra non è detto che la tua professione di partenza venga valutata allo stesso modo. Mobilità orizzontale vuol dire che tu cambi o professione o area geografica senza influenzare completamente il tuo status e può essere anche la base della mobilità verticale, ascendente o discendente che sia. Possiamo immaginare quindi sia delle direttrici orizzontali che ci tengono comunque all'interno dello stesso strato o delle direttrici verticali che ci portano in strati diversi con cambiamenti di status.
(abbiamo visto che) Questa stratificazione sociale si fonda su una serie di convenzioni grafiche che ci danno un'idea generale della nostra struttura della società e che non è più così stabile come lo era precedentemente. Non tutti riescono ad ottenere il cambiamento in meglio, ma come mai questa situazione non porta a delle rivoluzioni, a dei cambiamenti violenti? Perché quello che è importante non è tanto che ci si riesca ma che è possibile provarci. Quindi la differenza portante tra le società pre-moderne e le società moderne è che in quest'ultime è pensabile un cambiamento, mentre in quelle pre-moderne no. In quelle moderne è pensabile che tu migliori e uno dei modi per spiegare chi migliora e chi no è il famoso discorso della meritocrazia: i migliori ce la fanno. Il discorso della mobilità sociale (detto anche ascensore sociale) è che ci sia, ovvero che è pensabile il mutamento, e nelle ultime società il cambiamento è necessario. Ma una volta che si migliora, che fai quando sei arrivato in cima? Ci sono degli imperativi che vengono lanciati con leggerezza, ma che in realtà comportano delle dure scelte. Quest'istanza al cambiamento non ha limite, quindi devi cambiare sempre, e diventa destabilizzante. (modello di successo)
RAPPORTI PRIMARI E RAPPORTI SECONDARI: (si parla inizialmente di rapporti, poi di gruppi e infine di ruoli) i rapporti primari vengono chiamati fondamentalmente relazioni, essi sono rapporti fondati sull'intera personalità, dove c'è una conoscenza diretta e non hanno altro fine all'infuori di sé stessi. Questi rapporti sono i più soddisfacenti per quanto riguarda l'equilibrio psichico, soprattutto per quanto riguarda il riconoscimento; il rapporto primario è una specie di assicurazione contro la paura di non esserci, di non essere sufficiente, di essere trasparente; il rapporto primario mi dice che c'è qualcuno per cui valgo.
[Nella pubblicità c'è un'importanza sul singolo,perché sanno che uno dei problemi degli uomini di oggi sono carenti di fiducia in sé stessi. LTV, ovvero lifetime value, ovvero le società calcolano l'importanza del singolo come consumatore, che diventa un oggetto bramato dalle aziende.]
Le relazioni primarie sono centrate sull'altro e hanno come scopo sé stesse. Esse prevedono la non-sostituibilità di chi ne fa parte (vale per la famiglia, gli amici, per i rapporti sentimentali); mentre i rapporti secondari sono dei rapporti strumentali: io entro in rapporto con qualcuno perché io devo fare qualcosa per lui o viceversa, esso prescinde da chi è che fa le cose e privilegia il ruolo di chi fa le cose. Il rapporto secondario è un rapporto fra ruoli (oggi però tendiamo a fraintendere ruolo e portatore di ruolo, inoltre ci sono dei ruoli particolarmente rilevanti, perché fanno parte di determinate istituzioni). Ognuno di noi porta dei ruoli e li interpreta quotidianamente.
La parola ruolo deriva dall'ambito teatrale, già la parola greca da cui origina il termine ha due significati: uno: l'ordine di comparsa in tribunale, e due: canovaccio (linea base teatrale su cui poi si basa l'interpretazione dell'attore) della commedia dell'arte. Vediamo come una medesima parola significa due cose completamente opposte: da una parte un ordine rigido e dall'altra una quasi totalità di libertà.
Si può vedere come già nella parola, il ruolo è la liaison tra la struttura e l'azione. Noi tendiamo il ruolo come un set di regole, ma non è così; esso nasce come strumento di aiuto per il singolo, serve ad ottenere dei fini condivisi.
[ come l'esigenza di sapere, nel Medioevo c'era molta gente che voleva sapere, che cercava dei dotti, e per questo nascono le università]
Il ruolo contempla una serie di obblighi, regole, ma anche moltissimi spazi liberi; c'è una soglia di interpretazione soggettiva.
"Non c'è nessun tipo di opposizione tra libertà e regole, perché la libertà esiste solamente all'interno di alcune regole" (Diurkheim) ed il ruolo è esattamente questo: il ruolo concede la struttura, dopodiché si è liberi di fare ciò che si vuole entro quei margini. Il ruolo è un sussidio per rendere diffuso un percorso verso un qualche tipo di fine. Quindi adesso accettiamo la prima definizione di ruolo: come insieme di modelli di comportamento.
Questi ruoli sono estremamente variegati e sin dalla nascita diventiamo portatori di ruolo. Ci sono ruoli formali (come il lavoro) e informali (padre/madre, amico, marito/moglie..) e su quest'ultimi ci sono tutta una serie di consuetudini, usi e traduzioni che convergono su questi ruoli e che li rendono perfino più cogenti di quanto non siano i ruoli formali. Questo ha a che fare con i ruoli relativi alle relazioni primarie: le pretese e le necessità sono estremamente importanti e significative.
[il termine famiglia deriva dal termine schiavo e per questo è formata più che altro da legami, piuttosto che relazioni, e per questo comporta una serie di cose che devi assolutamente fare]
Quando si ha a che fare con le relazioni primarie sono relazioni che comportano obblighi piuttosto vincolanti, non a caso la sfera economica tende a svalutare queste relazioni perché in qualche misura sono concorrenti nella distribuzione delle risorse e del tempo del singolo. Talvolta la sfera economica privilegia chi non ha vincoli familiari, chi non ha legami.
Oggi viviamo in un clima di costante secondarizzazione dei rapporti: i rapporti tendono a diventare sempre più secondari, ovvero sia i rapporti secondari sono di più rispetto a quelli primari, tanto da causare la scomparsa totale degli ultimi. Nello stile di vita secondario non hai nessun tipo di conferma di riconoscimento ed è uno dei motivi per cui siamo più deboli, abbiamo delle difficoltà. Pensare di poter sostituire una relazione primaria con mille rapporti secondari non funziona. Inoltre è presente un problema oggettivo nella secondarizzazione dei rapporti, ovvero sia quella che Diurkheim chiamava densità sociale: troppa gente in poco spazio, e questo modo di mettersi in rapporto non funziona più, e per questo cado in una relazione di tipo secondario.
[il vivere in piccoli contesti e avere molte relazioni primarie limita l'utilizzo della fiducia perché tu sai di chi stai parlando, se si parla di qualcuno si sa la sua generazione e non può mentire. La fiducia essenziale, ovvero quella per cui so chi ho davanti, in questi contesti non viene investita. Nella metropoli invece questo discorso salta. ]
Quindi, con la secondarizzazione dei rapporti diventa sempre più importante l'apparenza e l'immagine di quello che ho davanti, perché la uso per orientarmi. Nonostante ciò quest'immagine non ha nessuna garanzia di essere veritiera, ed è qui che investo la fiducia essenziale, perchè non so chi ho davanti.
MA QUAND'E' CHE SI E' CHI? Il problema dell'identità è un problema paradossale, perché essa è una nostra percezione di essere noi stessi, pur cambiando, pur maturando nel lasso di tempo della vita. L'identità è un gioco estremamente complesso che noi giochiamo costantemente su questo permanere qualcosa all'interno di un cambiamento costante, e questo cambiamento costante rende più accettabile il fatto di indossare diverse maschere, perché in ognuna di esse c'è effettivamente qualcosa di mio. Ciò ha a che fare strettamente con il ruolo, che è esattamente una maschera.
[il discorso della maschera è terribilmente intrecciato col discorso dell'essere umano; perfino il termine persona, che viene dal latino persòna, ovvero "suona attraverso" ed erano le maschere che si mettevano sui vecchi palcoscenici per amplificare la voce.]
Chi c'è dietro ogni maschera? Siamo di fatto qualcuno o siamo solo maschere? Citando Simmel "c'è una profondissima posizione di individualità che è innegabile" però è molto minacciata da tutta questa serie di cose. Tutte queste facce che noi indossiamo in che rapporto sono rispetto alla nostra verità? Noi siamo uno, nessuno o centomila? Si ha questo problema perché i ruoli si sono moltiplicati a dismisura, e sono tutti acquisibili (mentre prima no) e quindi si tende a esagerare nell'acquisizione dei ruoli perché si ha l'impressione che questi ruoli ci permettono di essere effettivamente una persona unica (l'unicità, per Simmel, si ottiene incrociando tutta una serie di cerchie).
["tutto ciò che è solido si sta disfacendo nell'aria" (Marx) oggi ci sono pochissime cose solide, perché noi siamo molto meno solidi di primi, grazie a questa facile acquisizione di status, mentre sono diminuiti gli status ascritti, che in qualche modo ci rendono quello che siamo veramente.]
Il mio interagire con l'altro sta diventando sempre più difficile. La realtà è estremamente illeggibile, ma noi ci viviamo dentro, e ciò ci mette in condizioni difficili e di inferiorità.
Ogni nostro passo all'esterno oggi potrebbe essere foliero di problemi, di difficoltà, e questa cosa si è affermata con la metropoli. Richard Sennet ci dice che, per cercar di far incontrare gli estranei, nella metropoli si ricorre al teatro (una figura che torna continuamente). Noi sappiamo benissimo che interpretiamo dei ruoli ( "un ruolo lo si deve interpretare credendoci", Sennet). I ruoli non sono meccanismi.
Il modello grafico di rappresentazione del singolo all'interno della società cambia con la cultura pre-moderna e moderna. Nella società pre-moderna, quella degli status ascritti, noi possiamo rappresentarci il singolo e tutto ciò che lo circonda come dei centri concentrici (il singolo all'interno della famiglia, la quale è all'interno del quartiere, che è all'interno della città). L'individuo è definito da queste appartenenze multiple, quindi il tuo essere è largamente influenzato dalle appartenenze. Mentre nella modernità tutte queste appartenenze sono revocate, nel senso che nel momento in cui non valgono più gli status ascritti, di fatto non si appartiene più a nulla, e ci si sceglie lo status, quindi uno status acquisito. Ci si definisce in base ai ruoli che ricopri. Le cerchie della società moderna sono tutte intrecciate, si tagliano tutte in un solo punto che sono io, però ognuna di esse ha delle richieste diverse, per questo saranno molto probabili i cosiddetti conflitti di ruolo. Con la moltiplicazione dei ruoli e la nostra tendenza ad assumerne molti è difficile interpretare bene un ruolo, perché ho poco tempo e una sola vita, e posso interpretare un ruolo alla volta.
22/10
I rapporti primari e i rapporti secondari sono una prima categorizzazione estremamente rudimentale, nel complesso la gran parte delle categorizzazioni che noi utilizziamo sono rudimentali, perché fatta la categorizzazione troviamo subito i casi che ci rientrano.
I rapporti primari sono quelli che originano da un motivo primario (un affetto, una parentela) il che non vuol dire che poi non debbano avere nulla di secondario; allo stesso modo i rapporti secondari possono evolvere in una relazione primaria. Nulla vieta che un tipo di rapporto si trasformi in un altro, perché le persone e le cose cambiano.
I tre apriori simmeliani sono un frutto di una riflessione di Simmel su una grande domanda: COME E' POSSIBILE LA SOCIETÀ'? Da quel periodo storico a noi perviene un senso di lotta continua tra gli uomini, un "homo homini lupus" hobbesiano; e allora come hanno fatto a nascere le metropoli se gli uomini sono in guerra perenne? Come è possibile che si convive, se è vero che siamo l'uno contro l'altro armati? Allora già KANT aveva parlato dell' "insocievole socievolezza" (un'espressione che serviva a sottolineare questa strana questione dell'essere umano, che vuole sia stare con gli altri ma anche non immischiarsi tra loro). Per questo Simmel scrive un saggio,per capire quali sono i pre-recquisiti per i quali posso pensare la società, nel quale ipotizza che esistano delle predisposizioni dell'essere umano che permettono di avere rapporti gli uni con gli altri, posto che riprende una cosa che dice San Paolo, "i simili si attraggono".
[nella storia abbiamo visto come la gente tende a stare più vicina alla gente alla quale assomiglia, per non avere stress e per non giustificarsi]
Nonostante ciò Simmel è convinto della unicità soggettiva, ognuno di noi possiede un'indiscutibile, profondissima posizione di individualità, ognuno di noi è diverso dagli altri. Ma questo pensiero non si può mettere a sistema con ciò che pensava San Paolo, perché non ci sono simili se tutti siamo diversi. C'è un modo per minimizzare questa questione, perché c'è un altro riflesso: il diverso spaventa.
Allora Simmel individua il primo trucco che riesce a smussare questa dinamica:
conoscere per tipi (L'interazione con l'altro): nel momento in cui incontro qualcuno, escludo il fatto di sapere che lui è profondamente diverso da me, ma cerco anche in lui qualcosa che me lo renda simile e non minaccioso. Uno dei livelli di interesse del rapporto con status è esattamente questo: io guardo l'altro per capire chi è, ma anche nella probabilità di avere un'interazione con lui. E' questa tipizzazione che mi permette il primo contatto, e vuol dire anche che questo primo contatto è per definizione secondario.
apriori dell'inconscio (L'interazione con frammenti di noi stessi): Simmel dice l'apriori è contemporaneamente all'interno del legame sociale e all'esterno del legame sociale, cioè il legame sociale non ci esaurisce, noi non siamo solo quello che sta vedendo l'altro, siamo di più. Questa circostanza ha dei riflessi diretti sul legame sociale stesso. Il fatto che ci fosse un inconscio consapevole e non evidente è presente sul legame sociale; io sono di più dell'io. La nostra apertura al mondo non si fonda solo sulla consapevolezza che noi chiamiamo io, ma c'è ben altro. Noi non sappiamo solo con l'attenzione consapevole, perché accadono cose nell'inconscio della quale non ci rendiamo conto.
apriori della struttura (L'interazione con l'esterno): io continuo a partecipare al "teatro del mondo" perché sono convinto che fuori esista un luogo dove io posso essere me stesso; questo va ben l'oltre alla realtà. Simmel dice che quest'ansia di trovare quel determinato posto ci spinge a continuare a cercare quel luogo dove si può essere sé stessi, anche se non lo troviamo, anche se il lavoro che facciamo non ci piace.
La sociabilità (definita da Mongardini come la possibilità di interagire e convivere) è il risultato degli apriori di Simmel. Nonostante ciò Simmel non ci sta dicendo che gli apriori sono questi e basta, ci sono altri apriori che bisogna cercare. L'aspetto centrale della sociologia di Simmel è lo scambio reciproco, Simmel sottolinea l'importanza degli sguardi (egli è l'anticipatore del feedback). L'interazione non è unidirezionale, ma a spirale,circolare; mentre nella sensibilità del tempo, uno scambio continuo non c'è. Le cose non avvengono mai in automatico (la routine è un concetto meccanico, non si adatta al cambiamento dell'essere umano).
I gruppi: il gruppo è la struttura di base con la quale noi ci rapportiamo e confrontiamo, ci conosciamo. Tutti noi siamo parte di gruppi, o ci nasciamo (gruppo ascritto)o ci vengono assegnati in seguito (gruppo acquisito). Noi passiamo di gruppo in gruppo. L'accento sull'individuo è un accento fuorviante perché nella nostra esperienza di vita siamo molto di più in rapporto con gli altri anziché da soli, e quindi uno dei motivi per i quali l'intelligenza inter- e intrapersonale è importante è che nella vita ti serve, perché si è costantemente in rapporto con qualcuno. Il gruppo è un insieme di persone che ha una struttura gerarchica (anche embrionale, ovvero anche in un gruppo non vige la totale uguaglianza) per permane per un lasso di tempo e cooperano per uno scopo comune e ulteriore (il quale è grandemente interpretabile). Ci sono molte cose che si ottengono con il gruppo e non da soli.
La gerarchia e l'organizzazione del gruppo (soprattutto se si parla di gruppi primari, ovvero dove prevalgono i legami primari) non è che non c'è una divisione di compiti e di ruoli, ma questa è autoprodotta, creata all'interno del gruppo stesso.
[uno strumento della sociologia per analizzare i gruppi nella modernità è il sociogramma, ovvero una resa schematica delle figure che compongono un gruppo]
Anche nei gruppi primari, di conseguenza, ci sarà un leader, che però lo è perché tutti sono convinti che lo è; il gruppo, formandosi, attribuisce dei ruoli a seconda delle doti e delle capacità (il leader quindi sarà un individuo che non crea delle difficoltà), allo stesso modo ci sono i gregari (coloro che seguono il leader), l'eminenza grigia (colui che ha i rapporti soltanto con il leader e lo consiglia, mentre il leader ha rapporti con tutti). Tutte queste forme si ripropongono in tutti i gruppi.
Simmel si è occupato attentamente di questi discorsi perché la sua sociologia è stata presentata (ed è anche) come una sociologia formale, ovvero che si focalizza su certi modi di essere dei gruppi.
[Simmel ha scritto dei saggi riguardo l'influenza del numero sul gruppo, che apparentemente sembrano insignificanti, ma che in realtà sono tutt'altro]
Ci sono delle figure particolarmente interessanti quali: lo straniero, l'estraneo e l’emarginato. Queste tre figure ci permettono di comprendere un po' meglio una serie di dinamiche, di intercultura e di convivenza. Lo straniero è qualcuno che non è della nostra cultura, qualcuno che è diverso da noi. PERCHE' LO STRANIERO E' UNA FIGURA COSI IMPORTANTE? Perché riesce a portare all'interno del gruppo quel tanto di diversità che permette di rendere la cultura più consapevole di sé e un po' più aperta al resto del mondo, perché lo straniero non è qualcuno che vuole entrare a far parte del gruppo, ma ha semplicemente gli strumenti necessari ad interagire con noi, ma rimane nonostante tutto straniero. Egli è un ponte, una presenza che per questa sua estraneità alla cultura, può ambire a delle posizione invidiabili (può essere un perfetto giudice non avendo degli interessi in gioco) e può essere una risorsa. Simmel pensa allo straniero che era il mercante dei tempi passati, da un lato però genera anche timore e un senso di pericolo perché non è identificabile, è una sorta di nomade---ne parla anche maffesoli--
Lo straniero è una risorsa perché la cultura, per rimanere viva, ha un costante bisogno di incontrare l'altro. E' una figura diversa dall'estraneo,perché, a differenza dello straniero, è qualcuno che vuole entrare a far parte del gruppo e di conseguenza pone molti problemi di accettazione, di consapevolezza e di norme.
[Etnocentrismo: il meccanismo mentale per il quale ogni popolo si concepisce come il migliore di tutti i popoli possibili. E' comune a tutti i popoli del pianeta. Nei primordi non si vedeva moltissima gente, e quella che vedevi era simile a te, non si ha un'immagine della diversità culturale, ma un'immagine omogenea, quindi tutti gli uomini diversi da noi non sono i migliori, non sono uomini]
3/11
Riepilogo generale: la nascita della sociologia, parlando delle sue connessioni con l'industrializzazione e la modernità, e anche con la razionalizzazione; inoltre si è visto che nella fondazione di questa disciplina ci sono un paio di questioni rilevanti: la prima è l'oggetto della sociologia, che riguarda la complicazione sul fatto che non si sapeva bene cosa studiare, per cui gli autori si sono divisi in molti filoni. I due temi più rilevanti sono struttura e azione. Ci sono una serie di concetti sociologici importanti che abbiamo affrontato: status e ruolo, con la stratificazione e lo spazio sociale a far loro da sfondo. Dopodiché si è parlato di relazioni,rapporti e gruppi: ovvero le varie figure della stratificazione (classi,ceti e caste), le logiche del riconoscimento in base al tipo di rapporto o relazione, nel senso che le relazioni primarie sono molto più significative rispetto alle secondarie per quanto riguarda il nostro equilibrio interiore, il nostro benessere esistenziale, perché essendo noi degli esseri dinamici e costantemente processuali, abbiamo bisogno di essere riconosciuti come noi stessi, abbiamo bisogno di conferme [questo è importante sottolinearlo in un'ottica di approccio verso Morin].
Il discorso di riconoscimento è utile perché mette in luce il fatto che noi non siamo autonomi. Noi siamo dipendenti dall'ambiente (una cosa che abbiamo dimenticato).
I VALORI: sono il motivo per cui, per quanto concerne la stratificazione, tiene uniti la gente presente in un determinato strato perché ritiene di essere nel posto giusto. Il sistema di valori (i quali dovrebbero essere condivisi) è un collante sociale ed è il fondamento del legame sociale. Ma come è possibile questa convivenza, quando l'economia ci mette l'uno contro gli altri? Si è visto che Simmel ci dà tre precondizione per questo vivere pacifico con gli altri, ma le dobbiamo integrare:
riconoscere l'altro attraverso stereotipi e modelli che ci permettono di maneggiarlo;
riconoscere che noi siamo dentro e fuori dalla società costantemente, ovvero abbiamo una parte che non è così addomesticata;
all'interno della società deve esserci un luogo dove noi possiamo essere noi stessi.
Ma si può aggiungere ulteriormente un'altra predisposizione:
convivere con gli altri: l'insocievole socievolezza di cui parlava Kant è qualcosa che è ancora a monte di tutto questo; il fatto che noi siamo mossi da una necessità di complementarietà. Noi abbiamo bisogno dell'altro, non solo in ambito meccanico ed economico come dice Durkheim, ma ne abbiamo bisogno di necessità interiori; noi abbiamo bisogno di non sentirsi soli (la folla solitaria: è facile sentirsi soli in mezzo a questa folla, con gente che non conosci, che non ti riconosce. La metropoli ti mette a contatto con la solitudine). Questa è una questione che si struttura sui sistemi di valore.
COSA SONO I VALORI? Questa parola si usa costantemente nella vita: gli oggetti di pregio, i bolli, il rispetto della vita umana, l'etica, l'ambiente. Ma come mai usiamo la stessa parola? Noi tendenzialmente veniamo parlati dalla lingua, essa ci suggerisce delle connessioni (Winkelstein, nel suo secondo periodo, parla di un'aria di famiglia per queste cose: ovvero quando usiamo una stessa parola per definire cose diverse, lo facciamo perché in qualche momento della nostra storia, qualcuno ha intuito che tra quelle parole ci fosse un rapporto, non prettamente chiari, ma spesso metaforici). Noi definiamo valori questi elementi (prima elencati) perché sono più importanti di altri; il valore è un principio di gerarchia (ovvero ciò che io preferisco o che gran parte di noi preferisce); si può parlare di lavori sia a livelli micro, che meso e che macro perché il valore vale per me e per il gruppo al quale faccio parte.
Inoltre i valori sono uno degli strumenti attraverso il quale facciamo delle determinate scelte. Un set determinato di valori, inoltre, trova in vari individui una collocazione e formulazione diversa, che può essere più o meno coerente con il contesto; è normale perciò che vediamo le cose in modo diverso da altri.
[l'idea stessa della democrazia nasce dalla costatazione delle differenze perché se non ci fossero le differenze non ci sarebbero neanche i mezzi per gestirle, ma è proprio a questo che serve la democrazia]
Noi siamo strutturalmente e valorialmente diversi da altri. Il valore è un concetto molto complesso e variegato e nel momento in cui faccio una scelta di vita, la faccio basandomi su quei valori che intendo come assoluti e universali, di un'importanza tale da permettermi di fare dei sacrifici; il valore è correlato con il mio essere me stesso, con la mia identità in quanto membro del gruppo e con l'identità del gruppo cui faccio parte, per cui io questo valore lo interpreto come se fosse eterno.
[il problema è che oggi noi sappiamo che questo non è vero, che non sono assoluti, tramontano e che ce ne sono una miriade; noi proviamo a convincere gli altri che i nostri valori sono più importanti: un esempio è la dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, ma la gran parte del pianeta non era d'accordo e per questo ognuno ha fatto una propria dichiarazione universale (uomo occidentale, uomo islamico)]
Per capire i valori abbiamo bisogno di uno strumento concettuale: il ragionamento aut-aut. Un paradigma mentale, conosciuto come paradigma esclusivo. Per quanto riguarda i valori, si dovrebbe dire: o sono universali, o non lo sono, ma sono entrambe le cose (un esempio storico: il valore della nazione, prima percepito come essenziale, perché moltissimi si sono immolati come eroi, adesso passa un periodo buio, nessuno si immolerebbe per la nazione. Questo ideale di nazione non è più lo stesso. In un certo momento storico si ha un determinato ideale.). Il valore ci chiama in causa, perché li abbiamo interiorizzati. Essi però non possono essere sottoposti a una analisi razionale. Ma nel momento in cui cominci a discutere il valore (esempio del semaforo) non funziona più come una volta, nonostante ciò esistono dei valori che avrebbero bisogno di una modifica, sempre in riferimento al momento storico (la famiglia). Il valore assoluto ci fa comodo perché di fa assumere una forma e una struttura.
Il contradditoriale: si è visto che c'è il discorso aut-aut che struttura gran parte dei nostri comportamenti e giudizi, però il problema è che non è realistico, perché noi non siamo o buoni o cattivi, ma siamo buoni e cattivi. Contro questa rigidità, si sta pian piano affermando un altro paradigma, che si chiama paradigma inclusivo, non esclusivo. Inclusivo vuol dire che accoglie, e si traduce con la formula latina che è quella dell' et-et. Questo è un paradigma che cambia completamente le prospettive; noi non siamo più costretti a dire che un paradigma è completamente assoluto o non è un valore, ma possiamo dire che un valore è assoluto e storico, entrambe le cose, a livelli e contesti diversi; l'equilibrio tra due concetti completamente opposti ci sostanzia la vita, noi viviamo costantemente in situazioni di questo genere. Questo concetto si poteva intuire parlando del secondo apriori di Simmel (siamo contemporaneamente dentro e fuori), siamo dentro e fuori da un contesto, uno spazio sociale; noi siamo "frammenti di noi stessi", siamo contemporaneamente sempre coscienza e inconscio, siamo frutto di equilibri fra componenti che consideriamo alternative. Noi siamo et-et (buoni e cattivi, fedeli e falsi).
Il paradigma aut-aut rientra nel paradigma et-et (non vale però il contrario): il paradigma et-et accetta l'aut-aut come caso specifico, ma l'aut-aut non accetta l'et-et come suo caso specifico. Quand'è che si applica l'aut-aut? Quando si fa una scelta, perché si può scegliere solo una possibilità, ma è solo in quel determinato momento che uso il ragionamento aut-aut, perché non è detto che io farò la medesima scelta in un tempo futuro. Ma la realtà è ben più complessa, e quindi come facciamo a tematizzare questo discorso? Lo facciamo attraverso l'aggettivo contraddittoriale, proposto dal francese Gilbert Durin. Contradditoriale vuol dire registrare una situazione dove due o più vettori sono in un equilibrio dinamico insuperabile, ovvero tramite il modo in cui ragioniamo (dialetticamente) diciamo che due posizioni diverse possono generarne una comune diversa dalle due che ci permette di ricominciare (il movimento tesi-antitesi-sintesi). Noi riteniamo che tutte le opposizioni siano superabili e quindi possiamo trovane una soluzione comune, il contradditoriale no, ci dice che ci sono delle opposizioni non risolvibili, che talvolta cambiano l'equilibrio. Un esempio è la coscienza e l'inconscio, sono fatto dell'uno e dell'altro, talvolta sono più cosciente e talvolta sono più incosciente. L'io non è ciò che ci esaurisce, perché talvolta non c'è (quando andiamo a dormire).
L'io non è ovvio, si nutre di una serie di cose, istinti, cose estremamente complesse.
Durin ci dice inoltre che l'energia vitale nasce da questi oggetti contradditoriali; quello che siamo in grado di realizzare si nutre di questa opposizione, un processo a catena. Persino la realtà è fatta di queste opposizioni; il discorso di struttura e azione adesso si capisce meglio: tutto ciò che a me capita è all'interno di un conflitto tra struttura e azione, in certi casi ha la meglio la struttura o altre volte l'azione, o qualche volte sono pari.
[Oggi ci troviamo in un periodo dove la struttura ha la meglio; inoltre è presente il trade-off: diamo sicurezza in cambio della libertà]
Noi viviamo in un mondo non coerente, fatto di cose che non capiamo.
Il contraddittoriale è uno strumento che ci permette di descrivere un po' meglio quello che ci criconda e ci permette di capire meglio anche il valore, il quale è sia materiale (una collana di diamanti) sia ideale (solidarietà), essi sono concetti e oggetti desiderabili. I valori sono uno degli oggetti principali sia della vita individuale sia collettiva di gruppo.
[verso il valore economico abbiamo un atteggiamento ipocrita, tendiamo a nasconderlo ma c'è, inoltre non tutto quello che facciamo è legato all'economia, non ha un fine economico.]
Contraddittoriale come coesistenza di dimensioni che vengono ritenute come alternative: noi siamo contemporaneamente cose diverse, e spesso incoerenti.
Quello che noi siamo è una miscela esplosiva e che va tenuta sotto controllo. La nostra convivenza con noi stessi è una questione controversa, perché con noi stessi si passa la gran parte del tempo (tranne quando si dorme); per cui contradditoriale è il discorso del paradigma esclusivo.
[Il discorso della coincidenza degli opposti è uno dei punti focali del sapere esoterico occidentale, come ad esempio l'alchimia, era una disciplina orientata su questo discorso. L'alchimia è stata definita come una protochimica. (Isaac Newton, è stato definito il primo scienziato, ma purtroppo non si considerava per nulla il primo scienziato, perché era un alchimista: è stato ritrovato un baule (poi nascosto in Israele) che era pieno di scritti inediti riguardanti l'alchimia. Perché? perché era alchimia e non scienza, e la scienza odierna non può accettarlo. Il nostro sapere si costruisce attraverso scelte a posteriori. Le culture selezionano e riscrivono la storia, eliminano parti, ne mettono altre. Essa tende a modellarsi secondo le esigenze del momento.]
Il tema del contradditoriale viene messo in luce dal sistema struttura-azione, ma anche dal ruolo. Si è parlato dell'etimologia del termine ruolo, rotolus, e che è un caso di evidente oggetto contraddittoriale: da una parte la libertà del canovaccio degli artisti della commedia dell'arte, dall'altra il rigore dell'accesso ai tribunali, due cose che non potrebbero convivere ma che, nonostante tutto, sono strettamente correlate; non c'è libertà senza norme e viceversa. Noi, come diceva Durkheim, non possiamo immaginare l'una senza l'altra, libertà senza norme.
La vita è costantemente fatta così; quasi tutto ciò che accade si sostanzia in condizioni di questo genere, non c'è niente che sia o bianco o nero, o solo corpo o solo anima. Dobbiamo imparare a valutare gli equilibri di queste dicotomie.
[un esempio è il TAO, il cerchio che compone lo Ying e lo Yang: qualunque unità è costituita da parti che sono in contraddizione l'uno con l'altro; all'interno di una parte si trova sempre un seme del suo opposto. E' un qualcosa che si muove continuamente, una spirale. Inoltre non ci sono linee rette, perché nella natura non ci sono forme definite, ma solo linee morbide, il che comportano un futuro mutamento, può cambiare l'equilibrio di questi due fattori.]
La comunicazione: La società nasce tramite l'interazione tra due attori sociali, e agiscono comunicando. La comuniazione è quando due attori entrano nello stesso spazio sociale, e in qualche modo cercano di scambiarsi informazioni. La comunicazione può essere divisa in tre categorie:
verbale: quando si utilizzano le parole e il linguaggio, l'importante è quello che si dice (a voce, per iscritto);
non verbale: con i gesti, con i sguardi, tutto ciò che non riguarda le parole;
para-verbale: sono importanti le parole, ma non per cosa dicono, ma per come si dicono.
Parallelamente la comunicazione può essere:
diretta: una persona che comunica dei messaggi indirizzati alla persona con la quale si sta parlando;
indiretta: una persona che comunica un messaggio ad un'altra persona, il quale è riferito ad un terzo.
La comunicazione ha 5 elementi costituenti:
l'emittente: chi invia il messaggio;
il ricevente o destinatario: l'altro, che può essere uno o tanti;
il canale: attraverso il quale avviene la comunicazione, come la parola, il libro, la tv, internet. Esso ha una sottocategoria che è il codice di comunicazione, il quale è qualcosa che conoscono sia l'emittente che il ricevente, in questo caso il linguaggio. (italiano)
il messaggio: quello che si vuole comunicare;
l'effetto: ogni messaggio ha una conseguenza che è diversa a seconda di chi lo riceve e di chi lo manda. Con gli effetti si può manipolare un'intera società (i mass media, la pubblicità). Da esso derivano le teorie apocalittiche dei media. Un esempio è la teoria dell'ago ipodermico, o teoria ipodermica, che spiega come i media iniettano, come una medicina, un'informazione che vogliono darci assolutamente.
Un'altra teoria: usi e gratificazioni, ovvero ci dicono quello che vogliamo sentirci dire.
Comunicazione verbale e non verbale possono essere viste come un esempio di contradditoriale, che non esistono l'una senza l'altra.
5/11
I valori: " in primo luogo, i valori appaiono come orientamenti dai quali discendono i fini delle azioni umane [...]. In secondo luogo,i valori, se non riguardano qualcosa che si ha e si teme di perdere, sono sempre in qualche misura trascendenti rispetto all'esistente, indicano cioè un dover essere che va al di là dell'essere, una tensione verso uno stato di cose ritenuto ideale e desiderabile" (BAGNASCO- BARBAGLI- CAVALLI in Corso di sociologia- 1997).
Nella prima parte della definizione possiamo vedere come i valori possono orientare le azioni a tutti i livelli di analisi sociologiche (le azioni verso le istituzioni, le azioni delle istituzioni).
[la democrazia è una strategia e una tecnica per far convivere diversi orientamenti valoriali e fare in modo che ne discendano delle conseguenze: nel momento in cui si va votare, si vota non per ragioni di scambio o simpatia ma perché colui che stiamo votando meglio incarna i nostri orientamenti di valore; questo è il motivo per il quale non c'è il vincolo di mandato (una questione che sta portando avanti il movimento cinque stelle, ed è quella per la quale che se ti eleggo devi fare quello che mi hai detto che farai, altrimenti te ne vai). Questo è un piegarsi totale alla situazione attuale, invece di correggerla, si creano ulteriori meccanismi. Questo vincolo di mandato non è stato implementato per motivi di spessore: quando si è concepita la nostra costituzione, ci si è resi conto che dei rappresentanti liberi sono uno degli ingredienti necessari per una democrazia funzionante. Ma la politica in realtà dovrebbe essere il modo per implementare dei valori]
La seconda parte della definizione vuol dire che il valore ha una sua intrinseca predisposizione a spingere all'azione, è un qualcosa che vuoi realizzare e che er questo ti spinge ad essere migliorato; si ricorda inoltre che il valore è un ideale e per questo non è mai perfettamente realizzato. "Prova ancora, sbaglia ancora, sbaglia meglio" (SAMUEL BECKETT), una delle frasi che descrive benissimo il fine del valore. Noi sbagliamo, ma nell'errore possiamo migliorare. Il valore si connota per questo suo essere, come nel secondo apriori di Simmel, qui e oltre: il valore è qui, ma è anche in una forma che può essere migliorata.
Un'altra definizione, appartenente a MONGARDINI dice "i valori sono quei criteri, presentati come oggettivi, attraverso i quali i gruppi e le società giudicano la rilevanza di persone, comportamenti, fini sociali e altri oggetti socio-culturali o avvenimenti". Le parole che indicano un punto dolente sono "presentati come oggettivi" perché i valori, per poter fare il loro lavoro, devono essere interpretati come assoluti e oggettivi, per giustificare la mia disponibilità a eventuali condizioni non favorevoli (come si è precedentemente detto, un esempio è la stratificazione sociale: io accetto la mia condizione di inferiorità rispetto a qualcun'altro in nome di un set di valori per i quali dico "è giusto così"). Il valore, per far si che succeda questo, deve essere stabile ma in realtà non lo è e noi viviamo questa doppia dinamica nei confronti dei valori. Oggi questi valori cambiano rapidamente, quindi è difficile agire sulla loro base in certe condizioni e situazioni, però questo è necessario, perché altrimenti non avremmo uno strumento per costruire la rilevanza. I valori sono i criteri secondo la quale noi ordiniamo per importanza le cose all'interno della società; se non ci fossero i valori sarebbe tutto uguale, e probabilmente sarebbe un problema serio operare delle scelte in queste situazioni, se non avessimo nessuna possibilità di differenziare il mondo. Il valore è un metodo di differenziazione del mondo, ti permette di dire "questo è importante e questo no", e per quasta cosa importante agisco, creo delle istituzioni, faccio una serie di politiche. I valori e la nostra identità sono strettamente correlati, difatto noi ci riconosciamo attraverso di essi. Ma quando arrivano individui portatori di altri valori, diversi dai nostri, la questione non è semplicemente teorica o politica, ma diventa una questione personale. Immediatamente c'è la stigmatizzazione, colui che è portatore di altri valori viene definito "altro", che diventa pericoloso e quindi deve essere evitato.
[il genocidio può essere una conseguenza, perché si vuole mantenere un certo tipo di cultura tradizionale che non può essere influenzata da fattori esterni e diversi]
I valori sono uno dei pomi della discordia. Inoltre non esiste alcun valore condiviso da tutte le culture umane: un valore X non è ritenuto importante da tutti, né adesso e né prima. Ciò ci dice che la famosa dichiarazione universale dei diritti dell'uomo non è universale. Il problema delle diversità concernenti i valori cominciano a nascere a partire dal 1400: la colonizzazione, il nuovo modo, arrivano i prigionieri provenienti da un altro continente in Europa. Cominciano ad arrivare tutta una serie di esemplari umani che non sono comprensibili secondo gli schemi correnti. Come già detto, noi "soffriamo" di etnocentrismo, e quindi ci riteniamo superiori rispetto a tutti gli altri. Correlato all'etnocentrismo esiste un livello inferiore, detto antropocentrismo (noi riteniamo che tutto quello che è stato creato nel cosmo, sia fatto a nostra misura). Noi quindi siamo portati a confrontarci con il diverso. Incontrare qualcuno che non rientra nei tuoi schemi mentali è complicato: la prima cosa che fai è non ritenerlo umano, dopo di che cominci ad osservare che ci assomiglia, per questo mi crea un problema perché come è possibile che se quello è umano come me, sia contemporaneamente così diverso da me? Tutto il mio ordinamento del mondo che era costruito proprio per me, che fine fa quando arriva un essere completamente diverso da me?
[ultimamente si sta frazionando tutto, perché stiamo cercando di eliminare tutti quelli che non sono come noi, e l'unico esito di questa strategia è che restiamo soli, perché non c'è nessuno che è come noi, nel bene e nel male]
Tornando al discorso dell'incontro con il diverso, per un certo lasso di tempo il contatto con l'altro era demandato allo spettacolo: esistevano le Corti dei miracoli, i Caravan serragli, tutta una serie di ferie ambulanti che avevano la donna barbuta, il selvaggio fortissimo, l'uomo nero ed avevano comprato degli schiavi che rientravano nella parte e li portavano in giro per farli vedere alla popolazione, la quale reagiva con gesti di scherno e orrore verso di loro. Questo era un modo per entrare in contatto con le altre realtà e finché era un evento contenuto tutto andava bene; ma quando tutto ciò diventava reale cominciano a nascere molti problemi anche teorici. Fino ad allora anche l'educazione era diversamente concepita: non c'era la scuola obbligatoria perché si era convinti che gran parte dei saperi erano innati (ovvero si era convinti che all'atto della nascita avessimo già un set di capacità e conoscenze).
MA COME MAI SI ERA COSI CONVINTI L'IDEA CHE NOI NASCESSIMO CON DETERMINATE CONOSCENZE? Perché si era convinti che tutto arrivasse con l'anima, che funziona come arsenale di cose. Ma questo discorso dura fino ad un certo punto, perché nel frattempo c'è la scienza e quindi ci si comincia ad interrogare sulla veriticità delle idee innate
[Tarzan: nasce come un romanzo filosofico che indaga su questa questione]
Tutte le varie teorie pedagogiche nascono proprio dalla rottura con le idee innate, rendendosi conto che tutta la diversità di culture è connessa anche a qualcos'altro, non c'è un sapere che è predisposto. Verso fine '700 si pone anche il problema COME EDUCHIAMO I BAMBINI?
La questione del come mai avessero ritenuto le idee innate come una soluzione plausibile al problema dell'educazione è un tema già affrontato: il neaonato esiste per mesi senza una forma di autoconsapevolezza. L'io compare circa 6/7 mesi dopo la nascita e perciò questi mesi che il neonato trascorre apprendendo cose fanno sì che quando poi raggiunge la coscienza abbia la sensazione di sapere già (dal punto di vista dell'io sono idee innate, ma è dal punto di vista dell'atto della nascita che questo discorso non funziona). Quindi queste idee innate avevano posto fine al problema del "come faccio io a sapere quello che so" ma non funziona più, per questo sono costretto a reinterrogarmi. In questo momento compare anche il concetto di cultura, il quale è oggetto di discussione. Ancora oggi il dibattito sulla cultura si struttura su due parole chiave: "Cultura" o "culture". Esiste una cultura universale del genere umano o esistono diverse culture a seconda dei gruppi? Questo concetto non è ancora ben chiaro. Il problema dell'unica cultura umana non è utilissimo a risolvere il problema delle diverse culture. Per certi versi DARWIN ci viene in soccorso. Egli ci fornisce un eccellente chiave di lettura per questo discorso, che ancora oggi utilizziamo: la cultura è una, ma i diversi gruppi umani la portano a compimento in gradi diversi.
[di nuovo qui torna il concetto di etnocentrismo, perché siamo noi ad aver sviluppato al meglio la cultura, ad averla compresa al meglio. E' in questo caso che nasce inoltre l'antropologia, il quale tende a giustificare la differenza tra noi e gli altri]
Ma persino gli antropologi, grazie alle loro esperienze sul campo, cominciano ad affermare che non c'è una sola cultura, ma bensì più di una.
Tutto proviene dall'illuminismo, l'uomo al centro del mondo, ed è quindi un uomo solo che ha determinate esigenze e bisogni, interessi e questa è l'idea generale; inoltre è chiaro che l'essere umano unico avrà anche una sola cultura. Perché si rinunci all'idea della cultura unica, bisogna anche rinunciare all'idea universalistica, ovverosia all'esistenza di leggi che valgono per tutti, valori che valgono per tutti, criteri di cura etc.. Ci accorgiamo che l'idea di universale sta decadendo.
Per capire la realtà com'è devo immaginare che ognuna di queste culture sia una versione semplificata di una realtà più complessa. In termini più chiari: perché la mia cultura sia la stessa dell'aborigeno, siano due culture di pari dignità e abbiano una visione del mondo così diversa, come posso giustificare l'esistenza di tale stato di cose? La posso giustificare facendo riferimento a un comune denominatore dove convivono sia i tratti che hanno scelto gli aborigeni, sia quelli che ho scelto io, una matrice di significati e di sensi, quella che si chiama Realität (chiamata in tedesco perché se dicessi realtà capiremmo quello che intendiamo noi per realtà, di conseguenza ci sarebbero molti problemi). Questa è l'originale complessità del mondo. Uno dei problemi della conoscenza dell'essere umano è che noi non abbiamo gli strumenti per comprendere la realtà del mondo così come è, e la dobbiamo ridurre: questa è la riduzione, il procedimento attraverso il quale i diversi gruppi sociali creano delle culture diverse, perché fanno delle scelte diverse in base ai loro valori, nel senso di convincimenti primordiali.
[questi sono gesti che risalgono agli albori delle civiltà: nel crescere e nel conquistare consapevolezza nello specificarsi come gruppi separati,ognuno di questi gruppi si è organizzato il mondo scegliendo delle cose invece di altre e così via. E da questo sono nate le diverse culture.]
Per questo si intende la cultura come una strategia di sopravvivenza di un gruppo umano; ogni gruppo umano formula una visione del mondo che dà senso al mondo in cui esistono e non è necessariamente correlata a culture di altri.
Nel momento in cui i gruppi hanno fatto le scelte che hanno configurato la loro cultura, probabilmente essi non sapevano di star facendo quelle scelte, perché la nostra consapevolezza si è accresciuta nel passare dei secoli. Noi probabilmente viviamo con delle scelte che sono state formulate chissà quando ma che sono diventate la realtà.
La Realität non si esaurisce, anzi ci saranno altri gruppi che creeranno una loro cultura. Succede però che a seguito di queste molteplici formazioni che ogni cultura ha effettuato, si è creato un sedimento di fatti esistenti che è il Mondo reale, ovvero l'insieme dei significati che tutte le varie culture che si sono succedute su questo pianeta (sia estinte che non) hanno dato al mondo, ciò che si è inverato di quelle che erano le possibilità infinite della Realität. Difatto il mondo reale è più contenuto rispetto alla Realität. Il mondo reale lo possiamo articolare attraverso i singoli contributi delle varie culture che l'hanno generato, che sono le culture oggettive. Quindi il mondo reale è l'insieme ei significati che gli uomini dalla preistoria ad oggi hanno regalato al mondo, mentre le culture oggettive sono un'organizzazione per gruppo di questi significati. Ogni gruppo, a seconda delle scale, formula una sua cultura.
[in Europa c'è una densità culturale molto grande, puoi attraversare 4 culture in 300 km]
Per poter giustificare a livello di comprensione la coesistenza di tante diverse culture che parlano dello stesso mondo, si è creata questa struttura. Il significato del mondo è un punto interrogativo.
Le culture oggettive possono essere affrontate in due modi diversi:
sincronico: analizzare le culture oggettive che convivono in un certo momento storico;
diacronico: (di sviluppo temporale) ovvero analizzare le culture in senso di sviluppo temporale;
[quand'è che comincia una cultura? Quando si affronta la questione da un punto di vista diacronico si stabiliscono dei limiti arbitrari]
Sotto le culture oggettive, c'è la cultura ambiente. Essa è quella cultura dove si è nati e cresciuti, e ognuno ha una sua cultura ambiente. E' un concetto soggettivo.
Le culture oggettive le chiamiamo in questo modo esclusivamente per un fatto di etichetta, non sono oggettive nel senso filosofico dell'aggettivo. Definirle oggettive mi serve per distinguere un aspetto della cultura, perché quest'ultima ha una terminologia molto complessa da maneggiare, perché si riferisce a una serie infinita di cose. Per orientarsi in questo termine, ci dice uno scrittore, bisogna utilizzare degli aggettivi e quelli che usiamo noi sono due più una funzione. Gli aggettivi che usiamo noi sono oggettiva e soggettiva (la cultura soggettiva è, ad esempio, la mia; la cultura oggettiva è come parlare della cultura francese dell' '800). La cultura oggettiva mi descrive una circostanza che ci illumina sulla faccenda della struttura e dell'azione: si può considerare la cultura attraverso tre dimensioni:
staticamente: come l'ambiente all'interno del quale l'uomo vive ed agisce;
teleologicamente: (ovvero "discorso sui valori") come il quadro di riferimento dell'azione individuale e l'insieme dei fini "approvati" da un gruppo, ovvero il contesto dei sensi dei valori e dei significati all'interno dei quali operano gli attori sociali;
dinamicamente: come il gesto, individuale e/o collettivo, che attribuisce un senso alla realtà, permettendone una lettura valoriale.
Per distinguere tutti questi aspetti ho bisogno di un aggettivo che mi permette di definire in quale delle tre dimensioni mi trovo. Se si parladi cultura oggettiva, in questo caso ci si riferisce alla dimensione statica perché si parla di un insieme di cose. Ma per essere più specifici ci affidiamo a una definizione di cultura dataci da EDWARD B. TYLOR (1871): "la cultura, o civiltà, intesa nel suo senso etnografico più vasto, è quell'insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine che l'uomo acquisisce come membro di una società". Qui c'è una delle prime formulazioni di un altro oggetto estremamente rilevante in questo periodo, ovvero il processo di socializzazione (il processo grazie al quale noi apprendiamo ciò che ci permette di essere parte di un gruppo specifico; la risposta alla domanda COME FACCIAMO A IMPARARE LE COSE?)
Tylor ci dice che la cultura non è un sapere consolidato ma è specifico di un ambiente culturale dato, quindi si può osservare come c'è poco di oggettivo nella cultura oggettiva (secondo Weber tutto ciò che facciamo è cultura, e c'è molto poco di natura in noi).
[natura e cultura è ormai una opposizione che non ha più senso: siamo cultura fino nei gesti (il modo in cui sorridiamo, il ritmo del discorso, la gestione dello spazio) e si tratta della cultura implicita: io non sono cosciente che imparo, ma neanche chi me lo insegna è cosciente.]
Tylor si focalizza su tutta una serie di dimensioni simboliche, relazionali più che oggettive, mentre MALINOWSKI ci dice "la cultura comprende gli artefatti, i beni, i processi tecnici, le idee, le abitudini e i valori che vengono trasmessi socialmente". Si vede come il peso dell'oggettività diventa maggiore, si può vedere come la tecnologia gioca un ruolo molto più importante. In entrambe le definizioni c'è un punto in comune: la trasmissione per via sociale; noi non riusciamo a disassociare dalla cultura l'idea della trasmissione della cultura, diventa una necessità.
[oggi giorno non sappiamo più cosa trasmettere, cosa è più opportuno trasmettere? e come? Cosa insegno a scuola? oppure vado su altri contenuti? Oggi serve che qualcuno ci insegni l'intelligenza emotiva, perché la famiglia non è più esauriente. Esiste una differenza abissale tra una famiglia nucleare e una estesa per quanto riguarda l'agente di socializzazione (uno dei vari soggetti che si occupa di trasmettere tutte le informazioni culturali al neonato): la famiglia è un'agenzia di socializzazione; una famiglia estesa è molto più funzionale rispetto alla famiglia nucleare. Peraltro si parlerà di agenzie vicarie di socializzazione come la televisione o internet. Colui che è esposto alla televisione come agenzia di socializzazione andrà in un mondo completamente diverso da quello della televisione. Inoltre, culturalmente, noi abbiamo delle attese per quanto riguarda la camminata, il modo di sedersi, altrimenti sarebbe strano.]
[OPS: Goffman ha scritto un saggio intero su questo argomento; la logica è garantire a quell'altro i aver fatto qualcosa di sbagliato ma avendone coscienza e per questo quell'altro è titolato a non preoccuparsi. E' un segno per dire agli altri "è semplicemente uno sbaglio". Un altro esempio è la locuzione "è ovvio": quando si dice " è ovvio" , come dicono i francese è qualcosa che non si dice ("ça va sans dire"), nel momento in cui qualcuno dice è ovvio, significa che qualcuno ha fatto qualcosa che non è ovvio e tu gli stai ricordando che non è ovvio e quindi non la dovrebbe fare. Nel momento in cui qualcuno rompe una convenzionalità si crea il famoso effetto domino.]
9.11
Il problema che abbiamo di fronte è la giustificazione della molteplicità delle culture (schema realitat-cultura). COME E' POSSIBILE CHE SE L'ESSERE UMANO E' UNO CI SIANO TUTTE QUESTE CULTURE DIVERSE? Perché il fatto che le culture siano diverse è empiricamente confermato, perché tutte queste culture differenti parlano dello stesso mondo. La cultura "diversa" ridefinisce gli oggetti che io definisco in un modo differente. Visto che la nostra cultura ha una vocazione universalistica (quello che la nostra cultura scopre si applica a tutti; questa usanza risale alla religione, la quale vuole imporsi anche agli altri la quale non la riconoscono), la nostra cultura presume che ci sia solo una Cultura, che si articola in modalità diverse per un problema di evoluzione: il percorso culturale è unico per ogni essere umano, però ogni gruppo si differenzia in base alle preferenze (alcuni hanno focalizzato meglio una cosa, altri l'opposto). Noi osserviamo una molteplicità di culture empiriche che però sono stadi temporali di sviluppo diversi della stessa Cultura. Questo ci permette tutta una serie di strategie di studio (Antropologia che studia i popoli primitivi). Ma vedendo come reagiscono gli antropologi (trovandosi in mezzo a dei gruppi di aborigeni), i quali dicono che non c'è un'unica cultura perché il sistema di senso, dei simboli e la visione del mondo che loro hanno visto in queste organizzazioni è completamente diversa dalla nostra e neanche in mille anni porterebbe quel gruppo a diventare come noi. Il problema cambia: non esiste una Cultura bensì più culture diverse. Questo genera un effetto domino: se ci sono culture diverse, come facciamo noi uomini ad essere tutti uguali? Come può l'essere umano essere uno, ma avere tutte queste culture diverse? Come devo interpretare la cultura? Io devo interpretare la cultura come un sistema di costruzioni di senso, vuol dire che ogni gruppo umano si trova in un cosmo che non capisce e utilizza le proprie risorse umane per dare un senso al luogo in cui esiste, perché questo luogo non ha senso di per sé, o ne ha troppo; questo eccesso di senso corrisponde alla Realität, quello che è una figura teorica alla quale noi associamo l'infinità dei sensi possibili. Questo eccesso garantisce che ogni cultura possa configurarsi in modo autonomo e originale, pur rimanendo nello stesso contesto e nello stesso cosmo. Noi possiamo interpretare il mondo in una miriade di modi possibili. Tutti gli aspetti con cui il mondo è stato interpretato fino ad adesso sono solo un piccola parte di tutti i modi di interpretare il mondo. E qui si arriva al mondo reale: una realizzazione materiale della Realität, e questo insieme di significati non esaurisce il primo livello. Il passaggio tra la Realität e il mondo reale avviene tramite il processo di riduzione: noi operiamo una riduzione che dovrebbe essere consapevole della eccedenza di significato del mondo per renderlo abitabile, comprensibile e manipolabile.
Tutta questa "dadità" del mondo è articolabile in culture oggetive: a seconda degli attori che hanno generato i diversi set di significati, si generano le culture oggettive diverse (italiana, francese atzeca..). Queste possono essere analizzate sia diacronicamente che sincronicamente.
[culture pure non ce ne sono, perché ogni cultura è bastarda. La cultura italiana è stata il centro di incontro e scontro di tutte le culture del pianeta]
Per quanto riguarda la cultura ambiente, si tratta di un discorso soggettivo, perché ognuno possiede la propria cultura ambiente, ed è quella nella quale ha trascorso i primi 3 anni di vita.
Si è scoperto inoltre, con gli anni, che la cultura non è un fattore che si trasmette geneticamente, ma è frutto di una trasmissione, di una serie di processi, sia Tylor che Malinovsky ne sottolineano l'importanza, e abbiamo bisogno di essere socializzati. Questo termine è ingannevole: oggi socializzazione ha un altro significato e vuol dire incontrare persone o fare cose; in sociologia essere socializzati vuol dire "diventare parte di un gruppo" perché non si diventa parte di un gruppo in modo automatico, condividendo la propria cultura, e ci stiamo accorgendo che questa cultura è un insieme di abitudini, espressioni ed è molto più profonda di quando noi pensiamo. L'interazione è un rituale complesso, non è un modo spontaneo di fare; ogni cultura ha delle sue esigenze di contatto, ha dei propri modi di aprirsi e chiudersi nei confronti di una persona.
Definizione di cultura di Max Weber (esponente della teoria dell'azione), con il quale vengono al pettine tutti i nodi dello sviluppo culturale negli ultimi 2000 anni:
"La Cultura è una sezione finita dell'infinità priva di senso del divenire del mondo, alla quale è attribuito senso e significato dal punto di vista dell'uomo"
Un caos infernale, nel quale c'è uno spazio ben definito, organizzato, all'interno del quale è possibile vivere. Per ogni gruppo la cultura rappresenta un ambito noto, accogliente, nel quale si può vivere, perché dà una spiegazione e un senso a tutto quello che accade. Non c'è bisogno che le cose siano vere perché funzionino, da un punto di vista culturale, altrimenti non capiremmo come hanno fatto a vivere i nostri antenati, e non vivevano nella totale menzogna. Dato che c'è un grande scarto tra il mondo reale e la Realität, la verità è un concetto ancora accettabile?
Cosa intendiamo per vero?
Weber ci sta dicendo che non c'è una verità, o ci sono tante verità culturali; ogni cultura ha le sue verità. Non ce n'è una data, perché c'è un'infinità priva di senso del divenire del mondo. Il mondo non ha un senso di suo, siamo noi a darglielo.
[Nella storia della nostra cultura, l'idea che il mondo abbia un senso è antica. Abbiamo regolarmente interpretato il sapere come una scoperta (che vuol dire "non più coperto"), quindi che è già lì. Il sapere è qualcosa che qualcuno ha nascosto e noi riusciamo a portarlo alla luce, ci preesiste. L'unica cosa che noi facciamo è rilevarlo.]
All'inizio del XX secolo, con Weber c'è anche Einstein che comincia a scrivere la "teoria della relatività", ma cosa vuol dire "relatività"? Che non ci sono universali. Nello stesso momento Weber prende atto che siamo noi che diamo un senso al mondo, non è il mondo che già ce l'ha.
In questo nostro costruire c'è uno scarto: quando io costruisco il mondo, per capirlo devo perderne delle parti. Per qualche ragione, ancora ignota, scelgo delle parti del mondo che mi sembrano più importanti invece di altre.
Il mito greco di Procuste: Procuste è un uomo che occupa un passo montano sul monte Goridallo in Grecia, un monte che controlla la via che va da Atene (il centro politico della Grecia) a Adeleusi (il centro dei miti greci e dei misteri) al fine di imporre un dazio. Il dazio che impone non sono soldi, bensì propone a coloro che devono passare la via, di sdraiarsi su un letto; se sono del formato giusto per il letto li lascia passare, se non sono del formato adatto, li adatta lui (tagliando i più lunghi e allungando i più corti). Ad un certo punto, data la grande quantità di cadaveri, uno dei più grandi eroi greci del periodo, Teseo, si trova a passare da quelle parti e viene precato di risolvere la questione, e per questo lo uccide. Ma come lo uccide? Teseo lo mette sul suo letto e scopre che anche lui non è del formato adatto, per questo viene giustiziato. La morale è che noi tutti siamo Procuste.
I miti greci raccontano cose che vanno ben oltre il mito: quest'ultimo è un modo di raccontare le cose che permette di essere letto in una miriade di modi e su vari livelli. Cosa fa Procuste? Riduce. Lui ha un letto, che noi chiamiamo quadro di comprensione/visione del mondo/paradigma, e ciò che non va in quel letto, Procuste lo taglia via; quello che non ci sta molto bene, lo adatta, perché Procuste, attraverso quel letto,conosce. La conoscenza è il letto di Procuste, ed è per questo che costa.
Quando conosciamo qualcosa, stiamo perdendo qualcos'altro perché per far sì che quel qualcosa diventi comprensibile io lo sto semplificando, lo sto mettendo in forma secondo i miei modi di vedere la realtà. La verità non c'è: quello che abbiamo oggi è frutto di una riduzione, di un adattamento, di una messa in forma del mondo, e tutte le culture lo fanno. Tornando al mito, Teseo uccide Procuste con il suo letto, ma il letto rimane, non può distruggerlo; il problema reale non è Procuste, ma il letto. Questo mito ci importa perché il nostro sapere è di volta in volta semplificato, perché anche all'interno di una cultura si semplifica. I letti di Procuste sono tanti.
Ed è così che il mondo diventa noioso, perché è stato estremamente semplificato.
Il mondo è frutto di una serie costante di riduzioni e ciascuno di noi lo semplifica ulteriormente. E' esemplare la frase di Socrate "io so di non sapere",la quale non significa essere ignorante e non quindi non si conosce, ma significa rendersi conto che non è possibile sapere tutto; so che non posso sapere.
Con tutti i vari letti di Procuste si perde la qualità delle cose; tutto quello che fa la differenza e che non si può definire, si taglia. Siamo costantemente vittime di letti di Procuste.
Edgar Morin dice "La semplificazione è necessaria ma deve essere relativizzata; accetto cioè la riduzione cosciente del suo essere riduzione".
Il processo di riduzione è fondamentale, inaggirabile (ad oggi) e dobbiamo sapere che stiamo riducendo; non abbiamo mai una garanzia certa delle cose.
Weber inoltre dice: "Presupposto trascendentale di ogni scienza della cultura non è già che noi riteniamo fornita di valore una determinata o anche in generale una qualsiasi cultura, ma che noi siamo esseri culturali..."
Il punto centrale della questione culturale è che non c'è nessuna cultura migliore delle altre, non dobbiamo ritenere "fornita di valore" solo una determinata cultura, ma Weber intende sottolineare che noi siamo esseri culturali, e noi ci muoviamo in quella cultura, senza la quale saremmo persi.
Weber continua "... Dotati della capacità e della volontà di assumere consapevolmente posizione nei confronti del mondo e di attribuirgli un senso".
Ed è proprio la parola "consapevolmente" che ci toglie ogni alibi, perché noi partecipiamo alla creazione del senso. Assumere consapevolmente posizione nei confronti del mondo: se la cultura è questo (si parla di cultura soggettiva) non c'è nessuno che è innocente.
10.11
La cultura oggettiva ha a che fare con ciò che l'intelletto umano ha prodotto e che produce, sia in termini di concetti, di morale, di simboli e artefatti.
Ma da dove prendiamo tutto ciò? Dall'immaginazione.
Oggi, l'immaginazione sembra un'attività priva di utilità, che possa essere riservata solo ad alcuni (bambini, poeti) e ci si dimentica che tutto quello che noi abbiamo tra le mani è frutto dell'immaginazione. L'immaginazione non è un tratto umano recessivo che deve essere soppresso, perché tutto quello che si ha è frutto dell'immaginazione dei nostri antenati. Oggigiorno noi siamo la cultura del fare e quindi facciamo senza pensare a ciò che succederà, alle conseguenze e soprattutto senza sapere il perché lo stiamo facendo. L'immaginazione è anche immaginare le conseguenze, è raffigurarsi un concetto in modo individuale.
[NEET: giovani di 21 anni che non fanno nulla; un articolista dice che è colpa dei genitori. Ma si può dare solamente la colpa ai genitori? Come dice Weber ognuno è capace di prendere consapevolmente posizione. Non posso dare sempre la colpa a qualcun'altro, sono anche io responsabile. Inoltre nel processo di socializzazione gli è stato imposto di studiare al fine di trovare un lavoro, ma quando il lavoro non c'è più, perché studiare? Questo concetto dei NEET sembra smentire il terzo apriori di Simmel (si continua ad agire perché sicuramente esiste un posto più adatto)Il trasferimento continuo di colpa sugli altri è complicato da gestire, ci sono cose che sono colpa di cose più ampie (colpe collettive)]
[Il NOI non c'è più, perché è il nocciolo delle relazioni primarie, il luogo della resistenza emozionale, dove la logica economica si applica meno]
Oggi è tempo di essere creativi e immaginativi. Bisogna inventarsi dei modi per intervenire sul mercato del lavoro, ma bisogna avere una certa cultura soggettiva, perché è il nocciolo dal quale ci si può muovere per comprendere, modificare ed adattarsi alle situazioni (in Italia ci sono il 70% dei lavori atipici).
Come ci fa capire Weber, la nostra azione può avere un peso sulla società, perché noi siamo agenti culturali; noi possiamo modellare la nostra realtà, ma anche quella di coloro che ci stanno accanto e quella di coloro che non conosciamo.
La cultura soggettiva è diversa dalla cultura ambiente: la prima è il nostro bagaglio di comprensione del mondo, di interpretazione del mondo e competenze.
Inoltre la cultura soggettiva non può essere comparata alla cultura oggettiva (ovvero quel sapere che va dall'architettura alla zoologia); oggi non è possibile sapere tutto. La cultura soggettiva è il nostro aver fatto nostri dei contenuti della cultura oggettiva, trasformandoli. La cultura soggettiva è un'attività trasformativa, e nel farsi della cultura soggettiva entrano molte cose: l'essere noi stessi, il frutto delle nostre esperienze di vita. Non esiste una cultura soggettiva uguale a quella di qualcun'altro; essa è l'unico fondamento sensato sul quale dare un senso all'idea di essere unici. Nel nostro creare una cultura soggettiva evidenziamo certi aspetti mentre ne oscuriamo altri, quindi abbiamo ancora a che fare con i letti di Procuste.
Non posso tentare di conoscere tutto, altrimenti diventerei pazzo, come succede al Blasé (che vuol dire disincantato) di Simmel, decidendo che è tutto "uniformemente insignificante" (Le metropoli e la vita dello spirito). All'inizio di questo libro, Simmel dice "riuscire a rimanere soggetti oggi è sempre più difficile perché la cultura oggettiva sta diventando ipertrofica (ce n'è troppa)". Essendoci troppe cose, cosa ci faccio? come mi comporto nei loro confronti? Simmel ci dice che tutte le cose possono essere lette come richieste di attenzione, ma avendo un'attenzione finita, come la distribuisco?
Ci sono le due alternative dell'aut-aut, o do attenzione a tutto, o a nulla; siccome non posso dare attenzione a tutto ciò che mi circonda, decido di ignorare tutte le cose che chiedono la mia attenzione. L'uomo Blasé di Simmel non vede nulla di nuovo, anzi "vede tutto di un colore uniforme, grigio, opaco". Questo vuol dire che la metropoli oggi ci costringe ad essere blasé perché non sappiamo come fare a scegliere; perché il modo per riuscire a vivere nonostante tutte queste richieste sarebbe sapere cosa ci interessa, e qui torna il discorso del "conosci te stesso". Nel momento in cui conosco me stesso posso dire cosa voglio e cosa non voglio; comincio a filtrare (questo è il mio letto di Procuste). La cultura soggettiva da questo punto di vista è anche un filtro, essa è l'unico strumento che noi abbiamo a disposizione per gestire l'ipertrofia della cultura oggettiva all'interno della quale viviamo.
Noi tutti abbiamo la necessità di sentirci unici e di affermare la nostra unicità. Ma come la manifesto la mia unicità? Oggi è quello di acquistare un determinato oggetto (un esempio è la pubblicità), ma come faccio ad essere unico con dei prodotti venduti in serie? Per questo il sistema economico inventa cose.
Abbiamo bisogno di sentirci unici perché dobbiamo riconoscerci, e le strategie per riconoscerci non funzionano più.
Quindi, la cultura soggettiva è la nostra competenza a collaborare alla creazione culturale del mondo, nel senso che è quel risultato di una riflessione, di una digestione della cultura oggettiva. Il processo per il quale noi diventiamo colti è un'azione inconscia; io assorbo cose che neanche mi interessano. Non siamo intuitivi e immediati, abbiamo bisogno di trasmutare i contenuti, li elaboriamo piano e forse qualcuno di questi contenuti diventa uno strumento cognitivo, il nostro modo di vedere il mondo. Questa cultura soggettiva è il modo di prendere posizione su certe cose; quel filtro che mi permette di interagire con la cultura oggettiva in modo creativo. Per Weber può agire solo colui che possiede la consapevolezza di cosa sta facendo, altrimenti è un agire privo di senso.
Nel momento in cui mi sono dotato di una certa cultura soggettiva, sono un Soggetto e posso fare e cambiare qualcosa. Perché è pensabile? Questo aggettivo è molto importante perché non è ovvio poter pensare le cose; noi spesso pensiamo solo quello che possiamo pensare, non pensiamo altro perché i nostri letti di Procuste ci impediscono di contemplare altre possibilità. Il fatto che qualcosa sia pensabile è un grande passo avanti.
[Per un lungo lasso di tempo non era pensabile che le donne potessero votare]
Il più grande problema del letto di Procuste è che tante cose non te la fa vedere perché si ha dell'ovvio in testa per cui certe cose non si fanno, non sono contemplabili. La pensabilità del poter agire ci trasforma in Soggetti, capaci di poter agire. Ma come faccio a pensarmi capace di poter agire in un mondo dove ci sono miliardi di persone, le multinazionali ecc..? Per rispondere, si cita un meteorologo norvegese degli anni '70, Lawrence.
Questo scienziato, che si trova uno dei primi computer a disposizione, decide di creare una simulazione del clima terrestre. Lawrence crea quindi un sistema di equazioni che descrivevano sinteticamente il clima terrestre e fa girare il computer nella simulazione. Ma a un certo punto Lawrence ha un'idea e trasforma il sistema in un sistema ritorsivo, ovvero i risultati di ogni volta che il sistema passava,vengono riforniti al sistema come dati iniziali, trasformando il sistema in un ciclo. Improvvisamente il sistema non si comporta più come da previsione; i risultati di questo sistema cominciano ad essere terribilmente variati, non prevedibili né previsto. Proprio in questo momento Lawrence scopre la teoria odierna del caos, ovvero dipendenza sensibile dai dati iniziali: vuol dire che non c'è alcuna proporzionalità tra una variazione e un effetto. In parole più semplici, minime variazioni possono avere effetti immensi, cosa che nella nostracultura scientifica non era mai stata contemplata. Ci sono stati alcuni esperimenti al seguito.
Ma cosa vuol dire esperimento? E' la prova di un'ipotesi in un ambiente controllato. Viene fatto in un ambiente controllato perché per gli scienziati la realtà "della strada" è troppo disordinata per poterci fare dei ragionamenti scientifici. Quindi fanno degli esperimenti in questa realtà semplificata (un altro letto di Procuste) ma come semplificano? Togliendo cose secondo la minima variazione, perché lo scienziato ritiene che a minime variazioni corrispondano minimi effetti. Ma la scoperta di Lawrence manda questo discorso completamente in tilt, perché non si può più dire che la variazione dello 0,001 abbiamo un effetto 0,001, ma può avere un effetto pari a 5000, ma non si può sapere. Questa teoria è conosciuta anche come "effetto farfalla": fatti minuscoli possono avere conseguenze immense. La nostra azione (che è il battito di farfalla) può causare un uragano; ecco perché noi possiamo agire, perché non c'è nessuna commisurazione tra il mio agire che l'effetto che ottengo. Se si è un po' avanti nel lavoro di conoscere se stesso, si può anche cominciare a pensare di fare qualcosa per gli altri.
La cultura soggettiva è una propria impresa, se non sei disposto a metterti in cammino non si va da nessuna parte. Quindi questa cultura è un compito: spiegarsi cosa succede non è facile, spiegarsi perché gli amici muoiono. Se si cerca di dare un senso, non lo trovi (Weber). In questo caso la fede aiuta, perché grazie a quella trovi sempre un appiglio, una risposta. Scegliamo se fare una cultura soggettiva o no.
12.11
La cultura soggettiva è saper discutere, saper organizzare; come trasmutazione della nostra cultura oggettiva. Tra cultura oggettiva e cultura soggettiva non c'è uguaglianza, ma similitudine.
Ad oggi però la cultura soggettiva è minacciata dalla molteplicità delle occasioni e dalla nostra espropriazione della nostra cultura.
Un'interpretazione che ci porta verso Morin è l'interpretazione di questa cultura in termini di paradigma. Il paradigma per il latino è il modo attraverso il quale vengono dati tutti gli elementi necessari per utilizzare un verbo. Al di là del latino, il paradigma è un nocciolo fondamentale di informazioni che ci permette di ampliare il raggio d'azione.
Un tale Thomas Kuhn ha scritto un libro intitolato La struttura delle rivoluzioni scientifiche che utilizza il concetto di paradigma portandolo verso la nostra direzione: lui definisce il paradisma come " il sapere condiviso da una certa comunità scientifica o anche culturale grazie al quale questa comunità riesce a trovarsi d'accordo e a costruire del sapere ulteriore". Kuhn pone l'accento sul paradigma perché nel momento in cui lo sottraggo alla logica esclusivamente scientifica, il paradigma diventa il letto di Procuste di ogni cultura (il modo attraverso il quale ogni cultura da forma al mondo in cui abita e che crea). Il mio paradigma è fatto da una serie di assunti che io non so neanche che ci sono, perché sono scontati. Però, come ogni letto di Procuste, il paradigma ha dei costi: esso permette di pensare qualcosa, ma non qualcos'altro; il paradigma accetta qualcosa ma rifiuta l'altro. Esso è un criterio di organizzazione della realtà e quando lo comincio ad espandere oltre i limiti della comunità scientifica mi rendo conto che il paradigma ha delle ricadute extrascientifiche; il paradigma diventa un criterio di organizzazione e di comprensione del mondo quotidiano (tutti noi vediamo il mondo in termini del paradigma dominante senza pensarci). Oltretutto, esso è anche una delle basi dei set valoriali, per cui l'organizzazione della società e del gruppo ruota attorno a questo paradigma.
[Se nel mio paradigma è importante la religione, troverò in cima alla piramide i religiosi; se nel mio
paradigma è importante la scienza, troverò in cima gli scienziati e così via]
C'è una stretta connessione tra il modo in cui io guardo il mondo e le ipotesi prevalenti all'interno di un gruppo, il che ci dice che la scienza è anche un fenomeno sociale; essa non ha una sua extraterritorialità rispetto al sociale, la scienza è un prodotto del sociale. L'idea che la scienza sia un qualcosa che accade secondo una sua logica più o meno oggettiva e meno corrotta da interessi umani è una menzogna; essendo fatta da esseri umani, essa si muove con tutte le limitazioni e distorsioni e potenziamenti che questo essere fatta da esseri umani comporta.
Il paradigma è questo insieme di ipotesi sulle quali c'è una grossa condivisione all'interno di un gruppo. Uno dei paradigmi più interessanti con i quali abbiamo ancora a che fare è il paradigma copernicano (la rappresentazione del sistema solare di oggi). Questo tipo di approccio però è recente (risale al '600) con Copernico e Galileo. Ma prima cosa pensavamo? Che la Terra era al centro dell'universo e che tutti i pianeti giravano intorno a noi; questo è un altro paradigma che nonostante tutto ha funzionato per 1500 anni e quindi ci sono state intere generazioni umane che sono vissute in um mondo configurate da quel paradigma (non a caso con questo paradigma la religione aveva un posto molto importante che non quello che occupa oggi). Fra il paradigma tolemaico e quello copernicano esiste una fase di rottura e Kuhn ci dice che "i paradigmi sono incommensurabili" (che non possono essere messi in relazione) e anche " la storia della scienza è un susseguirsi di paradigmi" che si affermano, si consolidano, si ampliano, entrano in crisi e vengono sostituiti da altri. Esistono delle fasi normali della scienza che sono le fasi nelle quali la scienza si costruisce e delle fasi rivoluzionare nelle quali bisogna cambiare i modi di riflettere e di vedere il mondo. Però il paradigma ha anche una sua inerzia: se il paradigma è anche uno dei principi di organizzazione del gruppo, il paradigma è un motivo per il quale alcuni godono di privilegi e altri no, è uno dei criteri discriminanti per l'attribuzione del rispetto e del prestigio ed inoltre tende a resistere. La scienza di nuovo non accetta i dati e prima di accettarli ci mette un lungo lasso di tempo. Ma quali sono questi dati? Sono quelli che noi chiamiamo anomalie ovverosia avvenimenti che il paradigma non è in grado di spiegare perché non è presente.
Quando il paradigma inciampa in queste cose che ha rimosso, non ha gli strumenti per spiegarle, non le comprende e per questo compaiono come anomalie, difetti di calcolo. Il paradigma si pone come spiegazione del mondo, ma ci sono certe cose che non è in grado di spiegare.
[l'ago puntura è un'anomalia. La medicina è tutta un'anomalia]
Prima che le anomalie diventino abbastanza da poter scansare un paradigma, il paradigma si difende dalle anomalie stesse, e per questo si inventa dei sistemi per renderle plausibili. Ma man mano che le anomalie aumentano, questo discorso cede e per questo si arriva a un punto tale da dover riconoscere che serve un cambiamento di paradigma.
[Noi siamo in una situazione di questo genere, oggi cominciamo ad avere troppe anomalie, un esempio delle anomalie è la materia oscura, ideata solo per salvare i calcoli della materia che noi possiamo vedere, ovvero il 25%]
Il paradigma è resistente, e spesso incorpora degli elementi talmente ovvi dell'esperienza di vita che porsi il problema del fatto che non è vero.
Il paradigma per Morin: " è il criterio di scelta delle operazioni logiche dominanti ". Egli porta la questione ad un livello ancora più profondo, più epistemologico e ci dice che questo paradigma significativo è quello che ci fa scegliere come naturali certe operazioni logiche contro altre, un esempio è l'inclusione e l'esclusione, una coppia di operazioni logiche paritetiche. Però il nostro paradigma ha scelto l'esclusione, per noi è spontaneo dividere e non unire, e questo influenza la pensabilità delle procedure. Il paradigma quindi è una strategia che influenza la pensabilità del possibile (noi pensiamo in accordo del paradigma in cui viviamo). Il mio modo di pensare non è automatico e spontaneo, ma si struttura su dei fondamenti paradigmatici (io posso pensare quello che la mia cultura mi permette di pensare, a meno che non diventi consapevole di questo e così modifico il mio paradigma, che è quello che sta succedendo oggi)
[oggi abbiamo enfatizzato così tanto la divisione che non capiamo più la cooperazione]
Il dividere inoltre è una strategia di comando (dividi et impera, come dicevano i romani). Questo fattore comporta inoltre il terzo non dato, il terzo escluso (o uno o l'altro), ma questo non è vero perché il mondo è pieno di altre possibilità. Il mondo si struttura sull'et-et e non sull'aut-aut.
Il paradigma ci sta costando parecchio, perché questo eccessivo dividere ci ha portato all'abrogazione di una serie di cose e tutta la cultura che abbiamo costruito negli ultimi quattrocento anni è tutta uguale.
[L'economia: quale è il suo paradigma? E' la concorrenza (o uno o l'altro) e tutti lottanol'uno contro gli altri. Poi arriva Darwin con la sua evoluzione e anche qui tutti lottano contro tutti. Studiando l'universo scopriamo l'entropia, ovvero unacostante divisione dei lineamenti degli uni e degli altri fino a raggiungere una soglia minima dove non ci sarà più vita. Lo stesso il Big Bang, che comporta una fine di tutto per ricominciare. Ma ci stiamo accorgendo che tutto ciò non è vero: in economia ci sono alcuni campi che implicano la cooperazione; con Darwin (da cui nasce la disciplina dell'ecologia) scopriamo che l'ecologia dice non è vero che è una lotta continua di tutti contro tutti, ma c'è anche una forte componente di coevoluzione e cooperazione. Noi siamo inseriti in processi di interazione e cooperazione che vanno ben oltre la nostra consapevolezza, e si torna a quello che diceva Simmel "il mondo è relazione", solo che il nostro paradigma non vede questa relazione, perché va da un'altra parte. Morin difatto scrive il suo libro per promuovere una relazione tra le discipline e non una competenza. Morin ci dice inoltre che ci sono certo dei processi di distruzione, ma anche dei processi di auto-organizzazione.]
Abbiamo creato un paradigma che va contro l'evidenza: i gruppi non combattono sempre, molto spesso stanno spesso in pace. Si vede gente che convive, e non che si uccide, ma dalla retorica questo dovremmo vedere: morte, lotte, guerre. Vediamo invece una razza umana che tende ad aumentare, e ciò va contro il nostro paradigma, quello della divisione. Come si vede con Simmel, ci sono una serie di ragionamenti che fanno sì che noi siamo socievoli, perché non possiamo essere diversamente; Morin ci definisce inoltre "sistemi aperti" e ci ricorda inoltre che la nostra vita è costantemente morte (le nostre cellule muoiono e si rigenerano).
La socializzazione
Quando noi iniziamo a comunicare e a interagire, socializziamo, ovvero trasmettiamo il nostro patrimonio culturale a qualcuno comunicando. Questo patrimonio culturale lo si acquisisce crescendo e vivendo. Si immagina una tabula rasa, come diceva John Locke, sulla quale vengono incise tutte le nostre esperienze, le quali ci insegnano sempre qualcosa, in un modo o nell'altro. Tutto questo è il processo di socializzazione che avviene in due fasi:
primaria: viene dalla nascita, dove avvengono l'individuazione e il riconoscimento grazie agli agenti di socializzazione, ovvero tutto ciò che ci induce a incidere qualcosa su questa tabula;
secondaria: dall'infanzia in poi e gli agenti principali sono la scuola e il gruppo di pari (le prime interazioni fuori dalla famiglia), ovvero coloro con i quali si ha qualcosa in comune.
Tutta questa socializzazione è stata studiata da un punto di vista psicologico da George Mead, analizzando come l'uomo proietta sé stesso, come l'uomo vede sé stesso in terza persona, proiettandosi nel futuro e progettando. Con la sua teoria della terza persona, teorizzò, intuendo un po' prima quello che intuì Freud, la teoria del Sé, dividendo il sé in:
Io: l'istinto, tutto ciò che mi porta a fare cose che non farei pensandoci.
Me: ciò che interagisce, e secondo Mead è la parte che pensa, che immagina, che va avanti.
Di questo ambito si è occupato un altro sociologo, Vilfredo Pareto che analizzò le azioni non logiche dell'uomo, dicendo che noi siamo per il 92% azioni non logiche e siamo quindi esseri non logici. Queste azioni non logiche vengono divise in due categorie:
residui: tutte le passioni, le credenze, le superstizioni, tutto ciò che non ci spieghiamo; Pareto li chiama residui perché comprende tutto ciò che ci è rimasto dell'evoluzione, residui di quando eravamo animali;
derivazioni: l'uomo, sentendosi potente, comincia a ritenere logico ciò che non è logico; sono le nostre giustificazioni per un'azione non logica.
Un altro sociologo, Weber, analizza le azioni logiche, dividendole in:
azioni razionali rispetto allo scopo: si fa un'azione per raggiungere qualcosa e ottengo qualcosa in cambio.
azioni razionali rispetto al valore: si fa un'azione perché credo in quella cosa, credo nei suoi valori, anche se non ottengo qualcosa in cambio.
Poi analizza le azioni irrazionali,non analizzate nel profondo e sono:
azioni passionali: sono i residui di Pareto;
azioni tradizionali: tutte quelle cose che noi facciamo sanza sapere perché le facciamo (usi e costumi).
17.11
La Socializzazione.
Questo processo consta di una serie di livelli: non c'è semplicemente quello che viene trasmesso consapevolmente ma ci sono anche tutta un'altra serie di cose che vengono recepite sia attraverso l'imitazione e la trasmissione inconsapevole (la cultura implicita), sia attraverso una serie di meccanismi ancora non molto chiari.
Finora il nostro modo di ragionare sull'uomo è stato parziale, abbiamo ridotto l'uomo alla pura razionalità (come ci dimostra anche Pareto).
Il processo di socializzazione ha sempre avuto luogo, ma quand'è che comincia a diventare un processo del quale abbiamo consapevolezza? Quando cominciamo ad accorgerci che non ci sono contenuti innati, ma abbiamo un ruolo all'interno di questa serie di imprese. Ma come si passano questi contenuti? Come fa una cultura a mantenersi attraverso le generazioni?
Come abbiamo precedentemente visto, il mondo è stato interpretato a lungo come una creazione di una o più divinità e questo ci forniva una serie di aiuti alla comprensione della vita. Nel momento in cui questo discorso non è più interpretabile, anche a livelli di destino, allora comincia a configurarsi quello che è il nocciolo della modernità, ovvero la necessità di operare delle scelte e influenzare il divenire del mondo. Man mano che andiamo avanti ci carichiamo sempre di più di responsabilità maggiori e il mondo diventa sempre di più una nostra responsabilità per cosa diventa; non c'è più qualcuno che ci guida e a cui possiamo dare le colpe e il merito di quello che sta succedendo. Come dice Weber, stiamo alla fine perché " è tutto una costruzione nostra ". Uno dei punti focali è: COSA PASSIAMO ALLE GENERAZIONI SUCCESSIVE? COSA PASSIAMO DELLA CULTURA? LA PASSIAMO TUTTA O SOLAMENTE UNA PARTE? (una domanda che si pone anche Morin)
Il sapere però è solo una parte, perché ci sono anche le competenze relazionali, i valori, le morali, le etiche e altre cose che improvvisamente diventano problematiche. Ma non c'è più nulla di già iscritto (né la morale e né l'etica), per questo bisogna passare tutto e questo tutto non è pacifico; non abbiamo una divisione monodimensionale di alcuno di questi aspetti (ci sono più morali, molti contenuti, molteplici etiche...) Come facciamo?
Per tutto il resto però, come le competenze di vita normali, la socializzazione le trasmette in modo meno didattico.
La socializzazione è quindi un processo estremamente complesso ed è un mestiere che viene svolto da quasi tutti noi: tutti ne siamo sia coinvolti come oggetti che coinvolti come soggetti, perché anche noi siamo di esempio per altri. Ma ci sono degli enti che vengono coinvolti ulteriormente e sono le famose agenzie di socializzazione, e molto spesso, molte di queste agenzie, neanche sanno di essere dei mezzi di socializzazione: la famiglia ne è un esempio; anche la scuola che si divide in primaria e secondaria proprio perché quella primaria è molto più consapevole del suo ruolo di agenzia di socializzazione che la secondaria; il gruppo dei pari fondato sulle relazioni primarie (gli amici); l'ambiente lavorativo.
Questa è la conformazione base del processo di socializzazione, che si divide in due fasi:
primaria: che prosegue per i primi 5 o 6 anni di vita;
secondaria: è quella che intraprendi nel momento in cui cominci a lavorare, ovvero per 6 mesi o un anno, dopodiché finisce il processo di socializzazione.
A queste agenzie possiamo aggiungere altre categorie: i mezzi di comunicazione di massa (la televisione, internet) e che sono anche dette agenzie vicarie, ovvero che fa le veci di qualcun altro, in questo caso della famiglia, perché quest'ultima, soprattutto negli ultimi tempi, ha difficoltà ad ottemperare ai suoi compiti di agenzia di socializzazione, data dal fatto che la famiglia è inconsapevole del fatto di essere un'agenzia di socializzazione. Questo perché applichiamo i nostri schemi riduttivi e ragioniamo in modo aut-aut: la famiglia o è un'unità lavorativa o il luogo degli affetti, e noi abbiamo deciso di essere un'unità lavorativa. Il problema centrale però è che la famiglia è un oggetto estremamente contraddittoriale: viene invocata come il ridotto all'interno del quale poter affrontare tutte le catastrofi che il mondo ci scaglia contro, ma è anche il luogo dove avvengono la maggior parte delle violenze.
Noi dobbiamo riuscire a ragionare in proposito uscendo da questo quadro di riferimenti rigidi, perché la famiglia è un continuo divenire di cose.
Difatto, se andiamo a vedere più attentamente il termine famiglia deriva da un termine di un'antica lingua latina che è famul ovvero "schiavo" e quindi viene vista nel suo aspetto vincolante, il quale permette di affrontare una realtà dura e rigida.
La famiglia è anche un modo per migliorare la propria posizione economica (i patti stretti per ragioni economiche, i matrimoni combinati); essa è anche un'istituzione perché riveste una serie di compiti, ha dei valori intrinseci che sono importanti: ci permette di consolidare il nostro posto nel mondo, ci permette di creare una rete che ci ammortizzi nel caso in cui le cose non vanno bene e soddisfa le dinamiche di riconoscimento (all'interno della famiglia io vengo confermato quotidianamente nel mio essere sé stesso, perché vigono i famosi rapporti primari). In sintesi la famiglia è uno strumento di mobilità sociale.
Ma un altro ruolo molto importante è quello economico: la famiglia è a lungo l'unità fondamentale dell'economia, soprattutto nel settore primario. Si riusciva a gestire l'economia (si parla però delle famiglie estese e non nucleari) e per questo la famiglia era autonoma e autoproducente. Ma negli inizi del Novecento l'economia, che comincia ad essere rilevante, priva la famiglia del suo ruolo di auto-produzione.
Addirittura Durkheim azzarda delle ipotesi sul futuro della famiglia che mettono in luce la sua concezione monodimensionale: per il sociologo la famiglia aveva un suo scopo nell'economia agricola, ma siccome quest'ultima non c'è più, allora la famiglia non serve più. Qui Durkheim riduce la famiglia al suo ruolo economico e dice che dovremmo trovare altri sistemi per educare i giovani purché vengano formati secondo la logica dello stato in cui si trovano, ma sbaglia completamente. Durkheim si limitò a "leggere" la famiglia esclusivamente dal punto di vista economico e sotto questo punto di vista per lui questa agenzia doveva sparire, ma ci sono altri innumerevoli modi di interpretare la famiglia, ed è proprio per questo che è ancora in piedi e addirittura oggi ci troviamo davanti a moltissimi tipi diversi di famiglia.
Alla famiglia estesa, tipica del '800, si contrappone la famiglia nucleare (formata dai genitori e dalla prole), la quale è strettamente legata a un certo tipo di assetto economico e culturale. Inoltre è proprio l'industria che separa il luogo di vita dal luogo del lavoro, chi fino ad allora non c'era; fino alla fabbrica si viveva dove si lavorara.
Non ci sono spazi nella metropoli dove possa continuare a sussistere una famiglia estesa e addirittura non c'è più motivo di avere una famiglia estesa economicamente. Nonostante tutto,questo tipo di famiglia è essenziale da un punto di vista della socializzazione, perché è nettamente superiore rispetto alla famiglia nucleare. La famiglia estesa non richiede le agenzie vicarie, perché è difficile che qualcuno rimane da solo e inoltre si ha un incontro tra le vecchie generazioni e le nuove generazioni, perché all’interno della famiglia estesa c'è un continuo commercio intergenerazionale. La famiglia nucleare offre una biodiversità culturale contenuta.
Nella famiglia sono importanti i componenti, e la donna soprattutto deve occuparsi non solo del lavoro ma della famiglia.
La lettura della famiglia in chiave economica comporta un crescere smisurato di conflitti di ruolo, perché il compito della procreazione e della cura viene dopo il compito lavorativo. Questo succede partire dagli anni ’70 , perché fino ad allora il vecchio modello tradizionale della donna che non lavora è un modello ancora consolidato. Ad oggi, salvo in alcune società in cui il problema è superato, ci sono alcuni in cui la questione resta aperta, ad esempio le donne recepiscono il 30% di meno sullo stipendio. Questa serie di conflitti di ruolo diventa un conflitto ulteriore, perché mentre il maschio tipico deve scegliere soltanto tra il lavoro e il passare del tempo con un eventuale figlio, per la donna tipo c'è il problema delle varie faccende di casa, il dover aver cura di vari parenti ed in 24h tutto ciò comincia ad essere complicato. Inoltre essa è l'agente di socializzazione più importante, anche se non ne sappiamo ancora il motivo,perché il ruolo di madre non è equiparabile a quello di altri ruoli.
Con un concetto quale la famiglia non posso usare un ragionamento aut-aut, perché la famiglia è un qualcosa di multidimensionale, non solo economica, non solo educativa, non solo il luogo degli affetti e del dolore ma è tutti e tre e anche di più contemporaneamente. La famiglia dovrebbe essere in grado di svolgere il suo compito al meglio, altrimenti potrei creare un danno a tutta la società, ed è qui che si pone l'accento sul compito, il quale non è più privato, ma diventa pubblico.
Un insieme di soggetti ben socializzati funziona meglio rispetto a un insieme di soggetti non socializzati, i quali non sanno valutare i loro compiti e i loro ruoli ed è proprio in questo campo che dobbiamo riuscire ad applicare una prospettiva inclusiva, dobbiamo riuscire a ragionare su più livelli (culturale, psicologico, economico, sociale ecc...).
La famiglia è quindi una serie di cose tutte comprese in una: luogo degli affetti, di agenzia di socializzazione, un luogo di violenze, un'unità economica ed un'istituzione.
Ma che cosa sono le istituzioni? Sono tutta una serie di tratti strutturali,come i ministeri, i tribunali, il parlamento e così via. Ma in sociologia è diverso: l'istituzione è un insieme di comportamenti,regole e norme alle quali il gruppo attribuisce un valore particolare, tant'è che esiste il processo di istituzionalizzazione, il che significa che attraverso l'analisi e la descrizione delle istituzioni di un gruppo si riesce ad avere un'idea abbastanza chiara di quelli che sono i valori che quel gruppo in un determinato momento storico ritiene essere i più importanti, perché attraverso questo processo a quel comportamento viene attribuito un peso diverso che non a tanti altri comportamenti (per la famiglia abbiamo il diritto di famiglia, i tribunali della famiglia e così via). Si possiede una serie di ordinamenti e strutture che disciplinano quel tipo di comportamento, il quale evidentemente non è privato perché altrimenti non gli avremmo dedicato tutta questa attenzione, ma estremamente rilevante.
Esistono vari tipi di istituzione, come quella giuridica, artistica, economica e altre, il che ci sta a significare che ci sono degli aspetti della vita e della realtà che noi riteniamo più importanti di altri e lo manifestiamo attraverso questa attenzione strutturante. La struttura per molti versi si compone di istituzioni, e si sposa perfettamente con il concetto che il valore duri nel tempo, facendo in modo che essi diventino dei punti di riferimento.
Le istituzioni sono il modo anche attraverso il quale questo valori si inverano, cioè diventano prassi di comportamento. Il valore della convivenza si articola attraverso una serie di istituzioni le quali producono leggi, regolamenti e modi di disciplinare i comportamenti collettivi che permettono che quel valore diventi una prassi, altrimenti avremmo il solito problema che i valori sono qualcosa che vanno “oltre”.
Quindi le istituzioni sono parte dello scenario attraverso il quale il valore, che è un oggetto contraddittoriale, passa dalla dimensione ideale e metaforica a quella di regolazione della convivenza e dei comportamenti. In un quadro tradizionale riterremo che i valori siano dati e che rimangano quelli, oggi invece sappiamo che i valori cambiano, e ci sono cose che pian piano diventano più importanti e altre che lo diventano meno (dal punto di vista economico si osserva che alcuni comportamenti che prima erano centrali, oggi sono residuali).
Il processo di istituzionalizzazione richiede però che si mettano a fuoco e che si strutturino dei modelli di comportamento, e che impegna moltissimo tempo.
Un'agenzia di socializzazione fondamentale è quella del gruppo dei pari, perché però l'aggettivo pari? Noi usiamo pari quando vogliamo parlare di pari dignità, di persone che sono al nostro stesso livello, il nostro stesso prestigio. Questo gruppo, per il socializzando neonato è l'unica occasione nel quale si trova in una situazione non connotata gerarchicamente; nella prassi il bambino è sempre l'ultima ruota del carro (deve obbedire a scuola, in famiglia), ma nel gruppo dei pari tutti hanno la stessa posizione di partenza, quindi il bambino non deve obbedire. Molto importante da sottolineare è che inizialmente hanno tutti quanti la stessa posizione, ma in realtà il gruppo dei pari ha una sua gerarchia che è auto-prodotta. Nel gruppo dei pari ognuno ha il ruolo che riesce a conquistarsi ed è il primo luogo nel quale tu metti alla prova tutte le tue abilità relazionali e le tue capacità. Addirittura, quando un adulto cerca di intromettersi all’interno del gruppo dei pari di un bambino, quest’ultimo lo ferma immediatamente, altrimenti il bambino perde qualunque tipo di status all'interno di quel gruppo. All'interno del gruppo dei pari si vale per quello che si è. Per questo il gruppo dei pari è il luogo dell’apprendistato alle relazioni umane, è dove si apprende l'intelligenza emotiva, è dove cominci a conoscerti. Ma anche qui si hanno dei problemi, perché i gruppi dei pari stanno finendo, perché i luoghi dove normalmente si riteneva che questo accadesse (cortili) non ci sono più. Oggi molti bambini ai quali viene posto di scegliere se uscire e giocare con gli altri oppure stare a casa e giocare con i videogames scelgono di giocare con quest’ultimi. Oggi si è più spinti ad avere rapporti virtuali, ma non è la stessa cosa, perché il virtuale non insegna l'intelligenza emotiva o a stare in contatto con qualcuno.
Il processo di socializzazione è composto da due fasi, primaria e secondaria e chi viene socializzato sono i nuovi nati. Ma esclusivamente i nuovi nati hanno bisogno di essere socializzati? No, anche coloro che vengono da altre culture i quali possiedono dei valori diversi devono essere socializzati. Ma mentre i nuovi nati sono una tabula rasa e quindi un terreno più fertile e più labile da un certo punto di vista, per quelli che provengono da altre culture hanno più difficoltà perché si deve operare sui valori che hanno e trasformarli. Per Morin una delle componenti da insegnare è proprio l'intelligenza emotiva, perché sono cose che nessuno ha mai preso in considerazione perché il nostro paradigma non le ha mai contemplate. Noi abbiamo ritenuto necessario insegnare tutte quelle materie in qualche modo razionali, mentre ritenevamo innate le competenze relazionali, per questo è presente il cosiddetto analfabetismo emozionale.
L'intelligenza emotiva quindi dovrebbe essere oggetto non solo di insegnamento ma anche di comprensione, il che implica un riconcepire tutta una serie di auto-rappresentazioni, in particolare il modo che va modificato radicalmente è quello di pensarci come esseri economici; non siamo solo esseri economici.
Il processo di socializzazione dovrebbe essere articolato diversamente, a seconda che si parli di nuovi nati o di provenienti da altre culture, ma comunque deve essere interpretato in un modo diverso. Quale tipo di società risponde al modello di socializzazione primaria e secondaria? Il tipo di società che risponde a questi canoni è quella che non cambia, perché il fatto che non muti spiega come mai uno possa decidere e pensare che nel complesso bastino quei cinque anni iniziali e poi l'anno successivo per essere socializzato. Una socializzazione lavorativa che dura sei mesi mi fa pensare a un lavoro a tempo indeterminato, ovvero quello della società degli anni ’50 nel quale viene formulata questa teoria. Ma oggi non è più così, perché noi siamo quelli dell’aggiornamento continuo.
Una socializzazione diventa una formazione continua, quindi sia la socializzazione che la formazione sono due attività che hanno tanto in comune e che accadono continuamente. È l'idea di poter limitare il ruolo di socializzazione alle agenzie tradizionali è piuttosto ridicolo, perché abbiamo visto che queste agenzie tradizionali stanno cadendo. L'idea di capire quali saranno le prossime agenzie di socializzazione è piuttosto interessante, ma soprattutto ci dobbiamo rendere conto che siamo sempre coinvolti in questo processo e abbiamo continuamente bisogno di essere risocializzati.
Inoltre il processo di socializzazione è anche il processo tramite il quale si diventa sé stesso, attraverso il quale interiorizzi una serie di convenzioni su te stesso, di decisioni sulle competenze e sono tutte cose che non sono così facilmente revocabili come piacerebbe al mercato del lavoro, il quale è orientato verso la mancanza di legami, ovvero è disfunzionale rispetto all'evoluzione della specie; il mercato del lavoro non tiene presente le componenti dell'essere umano. Per le aziende si è solamente una risorsa umana.
Quindi, in un tempo come quello di oggi, la socializzazione è un'azione continua ed è uno dei motivi per i quali ci si trova a confrontarci con il cambiamento imminente di tutto,ivi compresi i valori, ed è talmente veloce che noi dobbiamo ricondizionarci continuamente ai nuovi panorami, alle nuove esigenze lavorative, alle nuove scoperte scientifiche.
Morin mette l'accento sulla capacità di aggiornarsi, perché è un qualcosa che facciamo noi stessi, e decidiamo in cosa aggiornarci, come e quando.
Importanza del lavoro
Ne "L'uomo sensibile" Sennet ricorda come il termine carriera abbia a che fare con la potenzialità orientativa del comportamento lavorativo. Proprio questo termine proviene dalla strada, il che vuol dire avere un percorso, un orientamento; attraverso il lavoro noi diamo un senso alla nostra vita. Il nostro percorso lavorativo ha un suo andamento che dal punto di vista moderno si può considerare in costante salita (fare carriera vuol dire diventare sempre migliori nell'ambito lavorativo).
Per la costruzione del lavoro come valore, fatta dal '600 in poi, dobbiamo riconoscere che questo lavoro viene riconosciuto e accettato dai più come ingrediente fondamentale per la propria identità. Il lavoro non è quindi una sola necessità di salario, una relazione secondaria neutrale, ma in realtà diventa centrale nella società e sono proprio coloro che ritenevano la retorica del lavoro un non-valore ad averla resa un valore.
Un esempio possono essere i NEET, i quali sono i primi ad agire sulla base di questa distorsione e anomia.
Ma cos'è l'anomia? Anomia letteralmente significa mancanza di norme ed è un termine che propone per primo Diurkheim. E' un termine strutturalista; ossia nello strutturalismo, a cui è a capo anche Diurkheim, vi è un'esigenza marcata di disciplinare le attività degli esseri umani al fine di tenerli sotto controllo. Nell'immaginare un clima di anomia, Durkheim ne trae conclusioni molto ristrette: il suicidio anomico, in una situazione in cui non c'è modo di sapere come comportarsi perché nessuno lo ha detto qualcuno potrebbe suicidarsi. L'uomo non è capace di orientarsi da solo, esso ha bisogno di essere condotto lungo percorsi auspicati dallo Stato. Questa situazione è pressoché irrealizzabile, perché è impossibile che qualcuno che è stato socializzato non abbia delle norme.
Questo tema è stato ripreso da Robert Merton, un altro struttural-funzionalista, cambiandogli il senso. Merton, da struttural-funzionalista, condivide alcuni assunti con Durkheim (il fatto che la gran parte degli esseri umani ha bisogno di esser guidata) e per questo propone di suggerire ai membri di un gruppo cosa è meglio che facciamo; lo strumento di questi suggerimenti è il modello di successo, che è in grado di orientare le scelte dei più. Ma Merton si rende conto che tutto ciò non è così semplice e ad un certo punto c'è il rischio che si instauri un clima di anomia. Dal un punto di vista mertoniano l'anomia è un disallineamento tra le strutture dei fini e le strutture dei mezzi, il che vuol dire che non ci sono mezzi legittimi per perseguire i fini che vengono proposti come modelli di successo, e si genera un corto circuito; la gente pensa di sapere cosa vuole ma non sa come fare ad ottenerla. Ad oggi, il modello di successo da raggiungere è quello di essere giovane, bello e ricco, il quale è quasi impossibile da raggiungere per una persona comune; l'idea generale però sarebbe che esistano dei modelli di comportamento che se percorsi ti danno legittimità, che è l'equivalente sociale del riconoscimento. Ma il problema oggi è che non c'è riconoscimento.
Il problema è anomico, e non è necessariamente legato al modello di successo, abbiamo un problema di anomia anche quando si dice devi lavorare, ma non si da il modo di lavorare.
Come faccio ad essere me stesso se non lavoro? Cosa faccio se non lavoro? Come faccio a trovare il mio posto del mondo se non ho un lavoro?
19.11
Introduzione al libro di Morin, i sette saperi necessari all'educazione del futuro
Morin ha l'intenzione di fare una specie di guida su sette tappe dei saperi che serviranno per comprendere al meglio la realtà che si sta delineando,una realtà complessa e in continuo mutamento.
Oggi si parlerà di due saperi in particolare: il saper educare all'incertezza e il saper educare alla comprensione.
Da dopo l'Illumismo e con il Positivismo è nato un periodo di grande fiducia nella scienza, nella possibilità di prevedere qualsiasi cosa e di avere il controllo sul nostro destino. In verità, col XX secolo, tutte queste certezze sono andate crollando, ad esempio chi poteva sapere che con l'uccisione di un principe a Sarajevo potesse scoppiare la prima guerra mondiale? Inoltre, chi si aspettava che nel XXI secolo, nel giro di poche ore, il mondo sarebbe cambiato?
Alla base del pensiero di Morin c'è il pensiero complesso, ovvero la realtà è complessa e imprevedibile, e noi abbiamo da una parte una tensione verso una conoscenza che è parcellizzata (una visione già proposta da Cartesio), mentre Morin, abbracciando più la versione di Pascal, pensa che la parte e il tutto dialogano.
Imparare a conoscere attraverso l'incertezza è la sfida del momento. Morin fa una metafora significativa: conoscere attraverso l'incertezza significa navigare in un oceano di incertezze fra arcipelaghi di certezze. Smonta il mito del progresso, il quale è possibile ma incerto. Il pensiero di Morin anticipa quello che viene ripreso dagli autori del dopoguerra: ad esempio quello di Baumann, il quale definirà il concetto di modernità liquida, un qualcosa che né la mente umana né un computer riescono ad afferrare.
Ma anche la realtà che abbiamo è incerta; la realtà che pensiamo di capire e che vediamo non è che la proiezione delle nostre idee. Ognuno di noi ha una sua realtà.
Per Morin la conoscenza del tutto è impossibile, e alla base di questo pensiero complesso troviamo sempre l'incertezza della conoscenza.
Ma come è l'azione umana? In Morin troviamo il concetto di ecologia dell'azione, ovvero l'azione vive nell'ambiente e queste azioni, che sono alla base di una scelta, noi le lanciamo nell'ambiente e non sappiamo il ritorno; Morin definisce l'azione un boomerang.
Eppure ci illudiamo di poter controllare le nostre azioni, ci illudiamo che quello che facciamo ha un senso e poi rimaniamo spesso delusi.
Il secondo argomento è quello della comprensione: viviamo in un mondo in cui il fenomeno di informazione di massa è dilagante, ma informare di più, usare più mezzi di informazione aiuta veramente alla comprensione? Questa è la base del pensiero di Morin riguardo la comprensione. Lui dice "se è vero che più comunichiamo e più comprendiamo l'altro, è pur vero che nascono anche più incomprensioni; quindi Morin, ci riferisce che l'educazione oggi educa a comprendere le discipline classiche, ma quale educazione serve per comprendere l'uomo, per comprendere le relazioni umane?
L'autore individua due poli di conoscenza della relazione umana: il polo planetario, ovvero la conoscenza di individui lontani, e un polo locale, ovvero gli individui con cui ci troviamo più in contatto. Definisce inoltre due tipi diversi di comprensione, che è intellettuale, ovvero una comprensione nata dall'osservazione oggettiva, da una spiegazione; una conoscenza umana, che va oltre la spiegazione.
Ci dice Morin che però ci sono diversi ostacoli, uno dei quali è la cultura. Rifacendosi alla definizione di Weber di cultura, essa è un qualcosa che ha dei limiti per un uomo, ma per un altro può essere diversa. Un altro ostacolo è la differenza dei valori, che non necessariamente sono differenze legate alla cultura, ma ai riti, ai costumi; infine ci sono ostacoli legati semplicemente ai punti di vista.
Morin ci dice di più, che una delle caratterstiche dell'uomo è l'egocentrismo, che si caratterizza per la self-deception, che vuol dire autoinganno o autosuggestione. Secondo Morin noi mentiamo a noi stessi e ci autogiustifichiamo e molto spesso proiettiamo sugli altri cose che noi stessi non accettiamo.
Questo egocentrismo è dovuto dal fatto che comprendere l'altro vuol dire saper comprendere sé stessi, conoscersi e conoscere i propri limiti e difetti. Questa è la via per comprendere l'altro. Ma l'egocentrismo poi si trasforma in qualcosa di più grande, ovvero l'etnocentrismo, la sensazione che la propria etnia sia al centro del mondo e di conseguenza si va a screditare lo straniero.
Ma cosa succede quando c'è incomprensione? E soprattutto da che cosa è scaturita?
Essa è scaturita dal cosidetto spirito riduttore, la semplificazione; essa era tipica della società del XX secolo, ed è rimasta ancora. Una continua energia che ci spinge a ridurre tutto, a semplificare tutto e a categorizzare, è quell'energia che ci spinge a pensare che il tratto negativo di una parte, diventa il tratto negativo di tutta un'intera categoria, lo stesso accade con un tratto positivo. Una volta che Morin ha capito cosa è l'incomprensione e da cosa è scaturita,ci pone dei rimedi ad educare alla comprensione dell'altro, e questi modi sono: il ben pensare, ovvero il pensare complesso, il pensare che la parte è nel tutto e il tutto nella parte; il tutto non può essere semplificato ed è questo che ci permette di compredere l'altro. Un altro strumento è quello dell'introspezione, ovvero la capacità di comprendere se stessi e se capiamo le nostre debolezze e difetti, siamo più portati a comprendere le debolezze e i difetti degli altri.
Jean Baudrillard ci dice inoltre che l'informazione è il luogo del delitto perfetto della realtà, mentre la comunicazione è il luogo del delitto perfetto dell'alterità. La comunicazione e la comprensione hanno un forte legame, non vi può essere comprensione senza una buona comunicazione e viceversa. Morin inoltre spera che la comprensione tra i popoli passi attraverso una buona comunicazione.
Dato che le azioni ci possono ritornare indietro, sono state classificate tre tipi di conseguenze: perversa (otteniamo esattamente l'opposto), inamità dell'innovazione (più cambia e più rimane uguale) oppure otteniamo quello che vogliamo.
Il pensiero complesso è alla base di quasi tutte le scienza, per questo tutte le discipline comunicano, si toccano fra di loro.
Ecologia dell'azione
Si è visto che la gran parte delle definizioni sociologiche si inserisce all'interno di un quadro concettuale che le da senso; ogni definizione è figlia di una serie di ragionamenti e scelte che modificano la prospettiva. Ma qual'è la prospettiva che dobbiamo assumere quando ragioniamo in modo complesso sui testi di Edgar Morin? E' la prospettiva della complessità, la quale è il riconosciemento del fatto che c'è una fondamentale interconnessione di quasi tutto ciò che ci circonda. Il problema dell'interconnessione delle cose è il fatto che comincia ad essere complicato valutare le conseguenze di ciò che si fa; noi agiamo senza avere una conoscenza esauriente delle conseguenze di ciò che stiamo facendo, perché queste conseguenze si articolano in un'infinità di possibilità.
Il mondo ci ha spiegato che se tu fai A, si può ottenere B,C,D e così via, quindi sgretola il cosidetto mito della causalità lineare che ci viene spontaneo applicare.
Non è detto che le conseguenze delle nostre azioni ci ritornano indietro immediatamente, ma può darsi che si presentano tra 20 o 50 anni. Quando Beck parla del non poter sapere, non intende un problema di carenza di strumenti, ma è un problema radicato. Ci è impossibile sapere tutto, perché il nostro sapere è limitato.
Che cosa si dovrebbe fare secondo Morin? Dovremmo prendere atto del fatto che in ogni nostra azione c'è una componente di rischio e di scommessa. Questo atto è molto difficile perché enfatizza la nostra limitatezza.
L'idea del destino ci frustra, perché ci dà l'idea di non essere in grado di reagire e di essere costretti a qualcosa. Nella mitologia greca, perfino le divinità dovevano soccombere al destino. C'è quindi una percezione di un ordine non facilmente evadibile che regola le cose del mondo.
Questo concetto dell'ordine superiore alla quale non siamo percettivi è il problema del rischio e della scommessa. Inoltre se la cultura è riduzione allora tutto ciò che io ho lasciato da parte non smette di esistere, ma esiste e ha delle conseguenze e degli influssi su ciò che io faccio e per questo il mio sapere non è in grado di descrivere il comportamento del sistema complesso generale, ed ecco perché c'è il rischio e la scommessa. Un altro problema è il fatto che i miei strumenti cognitivi sono per definizione limitati, indi più aumenta la scala delle mie imprese e più questo viene al pettine.
Il discorso dell'ecologia dell'azione viene chiamato così anche per sottolineare quanto l'impattodell'agire umano sia in grado di perturbare l'intero sistema.
Oggi noi siamo titolari di energie che ci sfuggono per definizione dal controllo, anche se continuiamo ad usarle senza cautela. Morin ci sta dicendo che il tipo di perturbazione che l'uomo è in grado di esercitare su un ecosistema, il quale è estremamente fragile, è troppo profonda e infinita. Il problema non finisce, è un continuo divenire.
In Matrix si dice che "noi siamo un virus" e uccidiamo ciò che ci tiene in vita.
Nell'usare quindi il termine ecologia dell'azione, Morin fa un richiamo ovvio a queste dimensione. Inoltre egli ci dice che "anche le catastrofi hanno degli aspetti positivi" e paradossalmente questa situazione mette a disposizione dell'umanità, per la prima volta, un valore comune; questo concetto è chiamato anche comunità di destino. Noi sappiamo perfettamente che abbiamo tutti valori diversi e abbiamo tutti gerarchie di valori diversi, per questo l'idea di potersi accordare su macro scala è un'idea utopistica, ma è proprio nella catastrofe che c'è un valore comune: salvare l'ambiente, il quale non fa distinzioni. Siamo costretti a ragionare su un piano al quale non siamo abituati, perché cerchiamo di imporre il fatto che ci siano dei valori comuni ma in realtà non ci sono. Ed è proprio nel salvaguardare l'ambiente che tutti siamo d'accordo, nella catastrofe; bisogna superare l'inerzia paradigmatica, perché nel momento in cui comincio a ragionare in chiave ambientale, devo modificare tutta una serie di equilibri di potere a scala micro, meso e macro che tutti quelli che si trovano a gestire questo potere non hanno intenzione di modificare.
Il concetto di comunità di destino unito al concetto di ecologia dell'azione ci mette davanti a un'umanità che ha un modo per farsi capire al di là delle frontiere, dei particolarismi culturali e differenze valoriali e ci mette davanti a un tema al quale tutti quanti dovremmo essere d'accordo. Morin ci dice che è tempo di un cambiamento profondo di paradigma, perché questo funzioni.
Il processo di socializzazione è fondamentale, ma è anche un grande problema: moltissimi autori parlano di distorsione evoluta, parlano del processo di socializzazione come un massacro delle individualità.
Noi abbiamo bisogno di un altro modo di ragionare.
23.11
The Stranger- Billy Joel
Lo straniero, come ce lo presenta Billy Joel, ci ricorda l'argomento dei ruoli e delle maschere.
Cosa vuol dire transizione paradigmatica? Dobbiamo sapere che i paradigmi non sono definitivi, ma dei modi attraverso i quali comprendiamo il mondo e che pian piano si susseguono l'uno all'altro. Ma cosa succede nel momento in cui si passa da uno all'altro? Si ha un momento di transizione. Essendo però abituati a pensare in un modo molto meccanico, pensiamo che questo cambiamento accada senza alcun tipo di attrito; in realtà con il finire di un paradigma siamo davanti a una situazione complessa, perché non sappiamo quale sarà il paradigma successivo.
Per questo il paradigma, per un periodo, non sa più spiegare cosa accade, né da un punto di vista micro, che meso che macro, e si generano così moltitudini di anomalie. Questa è la transizione paradigmatica, un periodo nel quale la gente si pone il problema di come sarà il mondo dopo, come descrivere il mondo, con quali ruoli. La fase di transizione è strettamente correlata all'incertezza, perché se non so come definire il mondo, quest'ultimo è incerto.
Dobbiamo quindi pensare a un ripensamento radicale, il quale però diventa scomodo dato che implica un cambiamento di assetti, di valori e di situazioni di privilegio e così via. E' ovvio che, come dice Pareto, è un problema anche di élite: le élite consolidate fanno tutto quello che possono per evitare che le élite emergenti le sostituiscano, poiché hanno tutto da perdere.
In un periodo,come quello che stiamo vivendo, di cambiamento dobbiamo essere in grado di rinunciare a delle asserzioni che sono state fatte su come sarebbe stato il nostro futuro, poiché quelle asserzioni sono state fatte sui vecchi modi di vedere e vecchie prospettive che oggi non ci sono più. Come sarà il futuro?
Per risalire alle basi di questo paradigma che ci stiamo lasciando alle spalle occorre introdurre Renato Cartesio, un filosofo che viveva nel '600, generatore di asserzioni del nostro senso comune che abbiamo incamerato e che ancora oggi abbiamo; noi interpretiamo il mondo e noi stessi sulla scorta di osservazioni che lo stesso Cartesio fece (oltre al "Cogito ergo sum", noi siamo abituati a pensare anche secondo gli assi cartesiani).
Il gesto teorico fondante di Cartesio è quello di distinguere la realtà in due aspetti:
RES EXTENSA: ovvero tutto tranne l'anima, quindi anche il corpo, il mondo esterno, tutto ciò che era religiosamente connotato; essa ha un solo attributo, ovvero la misurabilità e non ha qualità di sorta, è inerte e neutrale; sulla scorta di strumenti di calcolo, la res extensa è sottoposta alle leggi della meccanica, le quali sono estremamente semplici e ovvie. Il gesto di Cartesio di svalutare tutto il mondo tranne l'anima è per certi versi alla radice del problema dell'ambiente, il quale diviene, dopo Cartesio, solamente un insieme di materiali.
RES COGITANT: L'anima razionale; vuol dire che Cartesio, di tutta le complessità dell'essere umano, ne sceglie una e dice che quella è la più importante, ma non solo, dice che io sono umano nel momento in cui sono razionale. Unisce due attribuzioni, l'umanità e la razionalità, di modo che l'uomo si comincia a percepire da allora come essere solo e soltanto razionale, perché tutto l'altro fa parte della res extensa.
In questo caso è molto importante ricollegarsi a Pareto con la sua teoria dell'azione e Charles Darwin con la sua teoria dell'evoluzione delle specie.
Le parole di Darwin vengono velocemente recepite dalle scienze sociali perché sono utili per comprendere lo spirito del tempo. La teoria di Darwin viene interpretata dal senso comune come se la vita fosse una continua lotta per la supremazia e il controllo delle risorse; le specie che si affermano, che sopravvivono e si evolvono sono quelle che hanno avuto successo in questo tipo di comportamento e difatto sono le specie di predatori. Quasi subito dopo Darwin ci si accorge come queste affermazioni non siano poi così vere, però questo tratto della competizione lo troviamo ancora oggi e fa parte del nostro paradigma.
Ma perché le scienze sociali recepiscono immediatamente questo discorso? Perché se questo funziona per gli animali, allora questo processo funziona anche con gli uomini, dato che anche in noi è presente quel senso di animalità, costituita dalle passioni e dalle emozioni. Ma quale è il tratto che ci rende più evoluti rispetto agli animali? E verso quale direzione va la nostra specie? Ed è in questo che si intromette Cartesio, facendo cenno alla razionalità. La specie umana diventa sempre più razionale andando avanti nel suo percorso evolutivo. Questo ci permette di chiarire il discorso sulle culture oggettive, perché è questo il criterio con il quale le culture si dispongono lungo il cammino dell'evoluzione: quelle di maggior successo sono quelle più razionali, mentre le altre devono ancora sviluppare questo tratto. Questo implica un comportamento sempre più razionale, tant'è che in economia, quello che era un'astrazione cognitiva, ovvero l'homo economicus, pian piano diventa una rappresentazione realistica dell'uomo. Con ciò si comincia a sostenere che razionale ed economico stanno diventando lentamente la stessa cosa, e da qui nascono i primi problemi. Cartesio, non pensandoci, lega il nostro essere umani a una caratteristica che non è ovvia, e neanche definitiva; noi abbiamo tante ragioni. Ma cosa vuol dire essere razionali? Essere organizzati, significa ordine, struttura. Secondo Morin la razionalità "è un confronto aperto con l'esistente, è uno sforzo di comprensione attraverso il quale si formulano delle letture della realtà, le si mettono alla prova, se funzionano vengono recepite altrimenti le si modifica e le si migliora".
Cerchiamo di costringere il mondo ad essere razionale e prevedibile. Inoltre, sempre in riferimento a Cartesio, il comportamento razionale dell'essere umano verte sempre su atteggiamenti sempre più specifici: tu sei umano se sei economico (ad oggi).
Per quanto riguarda Pareto, egli formula una teoria dell'azione divisa in due tipi:
azioni logiche: in cui mezzi e fini sono perfettamente commisurati secondo il giudizio di un osservatore esterno. Ma chi è l'osservatore esterno? E' lo stesso Pareto;
azioni non-logiche: mezzi e fini non hanno una connessione lineare.
Possiamo vedere come Pareto già definisce migliori le azioni logiche.
Ma si accorge, con il passare del tempo,che questa teoria funziona poco perché il 92% delle azioni umane sono non-logiche, e solo l'8% sono azioni logiche, il che non è un
buon risultato per una specie che si sta evolvendo verso la razionalità.
Ma da cosa originano le azioni non-logiche? Originano dai residui. Ma cosa si intende per residuo? Uno scarto di un processo evolutivo. Pareto ci fa vedere che questo nostro evolverci non è lineare e meccanico, e che inoltre restano dei residui, connotati negativamente. Ma un qualunque processo che origini il 92% di residui è un processo malfunzionante. Pareto però non è disposto ad accettare questo ostacolo, per questo continua a definire azioni logiche l'8% del processo e anche se i residui sono il 92% essi rimangono tali. Ma cosa c'è all'interno di questi residui? Ci sono le emozioni, le passioni, e gli istinti, ovvero tutto ciò che ci fa umani; l'unica cosa che non c'è è la ragione. Quindi man mano che si restringe la ragione, i residui aumentano. Questi residui ci spingono ad agire in un modo non razionale e facciamo delle cose che non capiamo, e le facciamo perché questi residui arrivano con una spinta che non siamo in grado di comprendere (con la ragione) ma le capiamo bene a livelli emotivi e sentimentali. Qui siamo di fronte a un grande problema: per colpa di Cartesio noi pensiamo di essere umani perché razionali. Allora come facciamo a gestire una situazione nella quale il 92% delle nostre azioni sono irrazionali? Non siamo umani?
Cartesio ci ha abituato a pensare a noi in un certo modo, ma i nostri comportamenti non collimano con questa aspettativa. Noi ci aspettiamo di essere razionali, mentre il 92% delle volte non lo siamo, per questo ragioniamo in termini di anomalie. Se dovessimo registrare questo 92% di azioni come fallimenti del paradigma, significa che c'è qualcosa che non va in quest'ultimo; evidentemente non siamo così razionali e per questo, teorizza Pareto, ci inventiamo le derivazioni. Le derivazioni sono un processo/razionalizzazione ex-post [dopo],attraverso il quale trasformiamo un'azione in razionale. Non facciamo ciò in piena consapevolezza, ma lo facciamo nel subconscio il quale inventa delle scusanti per le quali siamo in grado di dire che quello che abbiamo fatto è razionale, così riusciamo a convivere con questo 92% di irrazionalità.
Ci troviamo davanti a una situazione in cui le derivazioni sono colpa di Cartesio, perché che bisogno avrei altrimenti, di giustificarmi se non fossi convinto di essere in torto?
Sulla base delle aspettative generate da Cartesio, noi abbiamo qualche difficoltà ad essere all'altezza; non riusciamo ad essere tanto razionali quanto vorremmo o dovremmo e questo ci costringe a creare delle strategie (derivazioni, le correzioni in corso d'opera). Abbiamo la dimostrazione continua che questa prospettiva particolare con la quale noi cerchiamo di comprenderci deve essere rivista. Dobbiamo cercare di cominciare a riconoscerci per ciò che siamo e non pretendere da noi stessi cose che difatto non possiamo ottenere, perché è proprio questo il punto focale: la pretesa cartesiana è del tutto infondata e lo abbiamo scoperto grazie alla scienza.
Quale è la caratteristica simbolico-immaginale del sapere cartesiano? Come lui stesso dice, le idee devono essere chiare e distinte, il che significa attribuirle una posizione precisa che ce le faccia comprendere senza ambiguità.
Ma noi non riusciamo a ottenere questa mancanza di ambiguità, perché viviamo nell'ambiguo (nel reale e non reale), una situazione nella quale non sappiamo cosa è cosa. Per scorta di Cartesio però, ci si immagina che le cose siano chiare e che pensiamo in modo preciso e strutturale. Quando però pensiamo in questo modo e quindi siamo "umani"? Quando siamo freddi (la fredda ragione) e scansiamo quindi le calde emozioni, ovvero quando siamo razionali. Per Cartesio quindi noi siamo in grado di pensare in modo esclusivamente puro e razionale, senza residui.
Siccome non c'era modo di confutare questa tesi, perfino le scienze sociali si pongono come obiettivo quello di riuscire a raggiungere questa freddezza razionale eliminando le perturbazioni dovute agli osservatori, i quali interpretano male, possono suscitare delle reazioni nell'altro; come risultato lo scienziato sociale mira a fare a meno di sé stesso, riuscendo ad ottenere questo sapere disincantato e oggettivo.
Tra le altre cose, MacLean formula una interpretazione dell'evoluzione del cervello, perché effettivamente l'evoluzione ha luogo, e su questo non si può dire nulla a Darwin, ma il problema si trova nel modo in cui l'abbiamo immaginata. Noi tendiamo a conoscere le cose immaginandole, quindi ci è venuta in mente solo un'evoluzione lineare e continua, quindi meccanica. Ma dopo anni di studio, gli esperti ci dicono che l'evoluzione procede a balzi, non è regolare, e soprattutto non è garantita; il cambiamento non è necessariamente in meglio. Ed è proprio nell'evoluzione del cervello che questo non si applica.
(cervello trino di MacLean)
Ci sono tre stadi di evoluzione distinti che convivono (ecco perché si chiama trino o triunico).
Il primo stadio della nostra architettura neurale e cerebrale è il cervello rettiliano che si compone del cervelletto e del tronco cerebro-spinale. Questo cervello è quello che si occupa di farci vivere, quello che si occupa di tutti i meccanismi grazie alle quali il nostro corpo vive. Questa parte del cervello si occupa di una grandissima quantità di processi interni, tutti svolti contemporaneamente.
Nel secondo stadio evolutivo del cervello,si aggiunge al cervelletto originario il sistema limbico (limbico viene dal latino limbus che vuol dire "ciambella"), il quale circonda il cervello rettiliano. Questo stadio evolutivo contempla il luogo delle emozioni, della memoria e dell'umore.
Dopodiché si sviluppa l'ultimo e terzo stadio detto neocorteccia ed è il luogo della ragione, del pensiero astratto, del giudizio, ovvero di tutte quelle cose che ci rendono "umani" secondo Cartesio.
Queste tre strutture in che rapporti sono? Se dovessi ragionare secondo le regole darwiniane e dar retta a Cartesio, dovrei aspettarmi che il sistema limbico fosse in via di atrofizzazione, dato che lì sono presenti solamente i residui che non sono utili al mio vivere, e al contrario un ulteriore sviluppo della neocorteccia. Cosa accade però?
Si scopre che tra il cervello rettiliano e il sistema limbico ci sono dei canali privilegiati, quindi quello che viene avvisato prima di determinate cose non è la neocorteccia ma il sistema limbico. Ci sono dei comportamenti inoltre che un divulgatore, Goldman, chiama sequestri emozionali, perché non solo scopriamo che la ragione arriva seconda in certi momenti, ma in alcuni attimi viene completamente espropriata da qualunque caratteristica di controllo e il sistema limbico prende il sopravvento, dopodiché torniamo ad essere "razionali" (in caso di incidente, quando lo si vuole evitare, si commettono azioni irrazionali, che non ricordiamo). Questo dimostra inoltre che la nostra attenzione non è così esauriente come pensiamo: tramite i ricordi, ad esempio, possiamo ricordare anche le cose che ho visto senza accorgermi, perché la nostra attenzione è un letto di Procuste. Noi riceviamo tutto, ma quello che processiamo è poco. Per essere efficaci, non dobbiamo pensare, ma reagire con altri livelli di consapevolezza (la fortuna del principiante, è una questione di istinto, dopodiché la seconda volta entra la ragione che comincia a fare i conti e la fortuna accidentalmente finisce).
Uno scrittore portoghese, Antonio Damasio, ha cominciato ad utilizzare questo tipo di architettura per interpretare una serie di problemi, e da neurofisiologo ha pubblicato un libro intitolato "L'errore di Cartesio". Damasio si è resoconto che Cartesio è più di un filosofo, è un qualcosa con cui bisogna fare i conti per andare avanti e continuare a pensare a noi stessi, se vogliamo interpretare diversamente il mondo. Cartesio è uno dei cardini della nostra cultura, e bisogna scardinarlo.
Damasio è specializzato in traumi che separano il sistema limbico dalla neocorteccia. Dall'immagine del cervello trino si vede però come tutti e tre gli stadi sono strettamente connessi l'uno con l'altro, perché la natura è economica in senso buono (non mette da parte ma migliora), quindi il sistema limbico e la neocorteccia sono connessi da dei fasci neurali. Ci sono dei casi di trauma nel quale questi fasci vengono rotti e quindi ci si trova davanti a dei pazienti che sono soltanto intelligenza razionale. Se fosse vero quello che dice Cartesio, dovremmo avere il prossimo step della natura umana, perché questi sono liberi dai residui; in realtà sono disabili, perché non riescono a prendere una decisione.
Il paziente M. di Damasio, a seguito di un incidente che gli ha reciso questi fasci neurali, è diventato altro: è sempre intelligente da un punto di vista astratto (intelligenza logico-matematica), ma per le scelte ha bisogno di circa 5 h per riflettere.
Damasio, aiutandosi anche con altre ricerche, dimostra che il nostro pensiero non è mai razionale, il pensiero puro cartesiano non esiste; esso è complesso, come tutto ciò che ci accade. Anche quando pensiamo razionalmente, stiamo utilizzando una serie di risorse che ci vengono dal sistema limbico e dal cervello rettiliano; sommando il tutto ne traiamo delle direttive di comportamento. Ma perché? Damasio ci dice che difatto il sistema limbico, con la sua memoria di lungo termine, quindi con l'archivio delle situazioni simili a quella nella quale ci troviamo che abbiamo già vissuto, e quindi con i risultati che ce ne sono venuti, con le scelte che abbiamo fatto, funziona come un filtro e già di per sé esclude una miriade di possibilità di decisione di comportamento. La ragione interviene in seguito e può scegliere razionalmente su un set limitato di opzioni, già scelte dal sistema limbico. Nel momento in cui questo filtro non c'è più, si aprono tutte le possibilità esistenti (ha bisogno di 5h perché deve analizzare tutte queste possibilità). La nostra esperienza di vita diventa un ingrediente centrale per la nostra razionalità, perché ci permette di togliere, di ridurre (il quale può essere anche un pregio oltre che un difetto). Questo effetto di filtro permette alla ragione di esplicitarsi nel migliore dei modi su quello che resta, ma se non c'è questo filtro la ragione non è capace di analizzare tutte le possibilità da sola e quindi ne deriva la paralisi delle facoltà decisionali.
L'errore cartesiano si risolve in una specificità del nostro letto di Procuste, per cui noi quando studiamo il mondo, mettiamo da parte gli aspetti emozionali; quando Simmel ha detto che erano importanti le emozioni (nel suo secondo apriori) venne scansato dalla scena artistica per 50 anni. Dato che affrontò determinati argomenti, venne ostracizzato, ed è questo il problema del paradigma.
Gli antichi non facevano altro che studiare come gestire le emozioni, mentre noi le abbiamo radicalmente scansate.
IMMAGINAZIONE: la crei,la pensi e la rielabori a tuo piacimento
INTUIZIONE: una scintilla che avviene dentro di te, non è tangibile. Avviene in seguito a dei tuoi preconcetti,precondizioni.
24.11
Gabbia d'acciaio.
Agli albori dell'industrializzazione, le industrie cominciano a richiedere una serie di coordinamenti diversi rispetto a quelli che fino ad allora erano stati in atto: una costante rifornitura di materie prime, energia e trasporti. Questo coordinamento, che prima avveniva con molta più flessibilità, comincia man mano a diventare sempre più stretto e in qualche modo più "ansioso". L'orologio è uno dei primi esempi di questo coordinamento, e soprattutto noi tendiamo a raffigurare l'universo proprio in base a questo oggetto. Con il processo di socializzazione e con le varie esigenze, abbiamo assimilato questo modo di vedere il mondo in termini meccanici; vediamo l'universo come una macchina complessa, la quale è estremamente complicata e sofisticata ma regolare e capace di coordinare ogni evento.
Inoltre, il fatto di possedere un orologio, ci da un senso di dominio sul tempo, con il quale non abbiamo un bel rapporto. Gilbert Durin dice che la grandissima parte delle imprese umane è mirata a gestire o sconfiggere il tempo, perché il tempo è uno degli ingredienti centrali del nostro problema esistenziale profondo: la consapevolezza che il tempo finisce, quindi lo scorrere del tempo è poco piacevole. Il concetto di morte è un concetto del tutto antipatico al mondo, ma come sarebbe questo mondo senza morte? Ci sarebbero dei modi per "fare pace" con questo concetto, ma li abbiamo messi da parte proprio con l'avanzare del tempo, perché hanno a che fare con altri modi di concepire il mondo, che sono al di fuori del nostro paradigma.
Gli elementi dei nostri paradigmi implicano, usando dei termini di Morin, una cecità selettiva: un accecamento paradigmatico con il quale lo stesso paradigma ti induce a non vedere delle cose (anche se nonostante tutto le vedi). Un esempio possono essere le emozioni: per lunghissimo tempo abbiamo fatto finta che non esistessero, che fossero dei residui, ma in realtà esse erano e sono sempre state nella nostra mente e adesso (grazie anche a Damasio) ci stiamo accorgendo che le emozioni sono un ingrediente centrale del nostro essere umani. Per questo l'intelligenza emotiva e quella intrapersonale non sono state curate, ma si è sottolineato nel tempo l'importanza dell'intelligenza logico-matematica, ovvero quella coerente con il sistema cartesiano.
Per cui ci troviamo a fare delle selezioni su delle contraddizioni che non sono contraddittoriali nella realtà. Da una parte ci cominciamo a rendere conto dell'esigenza pressocché superficiale di certi comportamenti che abbiamo ormai rimosso, ma a livello profondo noi abbiamo rimosso questi comportamenti, perché non ci sono nel nostro paradigma. Il nostro è un paradigma della separazione, quindi nessuno mi ha dato delle indicazioni precise su come stare nel gruppo, come ci si comporta all'interno di esso.
Il nostro essere strutturalisti (ovvero di definire ogni cosa entro un determinato spazio, di essere precisi e curati) deriva dal fatto che abbiamo bisogno di stabilità, perché l'immagine del tempo è qualcosa che si sgretola (la clessidra), che qualcosa si disfa. A noi però piace la stabilità, una cosa che dura nel tempo e che quindi va a contrasto con quest'ultimo. Ma noi però immaginiamo tutto ciò; noi immaginiamo tutte le cose, anche quando impariamo immaginiamo, in modo che figuriamo mentalmente i concetti che ci vengono riferiti e ogni figurazione è soggettiva, è diversa per ogni individuo. La nostra epoca però non ritiene l'immaginazione un fattore essenziale alla vita, ma in realtà lo è.
Non c'è cultura senza immaginazione!
Damasio: il caso di Phineas Cage. Phineas Cage era un ingegnere che guidava una squadra di realizzazione delle ferrovie americane, una persona stimatissima all'interno della società, ovvero un perfetto soggetto moderno. Ma un giorno, durante il lavoro, esplode una mina e un chiodo gli trapassa un occhio e il cervello. Cage però non muore, anzi tutte le sue attività linguistiche e motorie sono rimaste sane, ma sono state recise le capacità relazionali. E' diventato un uomo che beve, tocca le donne, bestemmia, e non è in grado di prendere una decisione di senso. Ciò è possibile perché questo nostro percepirci come unici, come esseri umani deriva da una serie di conseguenze neurali: l'anima tocca miriadi di punti neurali, i quali grazie a un "miracolo" tengono aggiornato la rappresentazione che noi abbiamo di noi stessi in tempi reali. Ogni parte del cervello contribuisce. Noi siamo il frutto di una costante sincronia di "immagini",per utilizzare un termine di Damasio, fornite al corpo.
Il problema di Phineas Cage è interessante per capire il contribuire costante del sistema limbico alla comprensione e alla decodifica del mondo. Noi siamo molto più complessi di quanto immaginiamo.
Il modo in cui ci autorappresentiamo in un certo senso genera delle aspettative. Parlando di ruolo, definito come "un insieme di modelli di comportamento mirati al soddisfacimento di una qualche esigenza", esso può essere visto anche in altri due modi ulteriori:
insieme di diritti e di doveri che sono in capo a qualunque personaggio per lo status che occupa all'interno della società;
insieme di aspettative che derivano dal nostro status.
In queste due punti di vista del ruolo, una parte della differenza sta proprio nell'immaginazione. Nel momento in cui ci si rappresenta l'uomo portatore di un insieme di diritti e di doveri, ognuno di noi ha un'immagine precisa; quando ci si figura l'uomo portatore di aspettative, se ne ha un'altra.
Gli attributi dell'uomo portatore di diritti e doveri sono: alto, assertivo, autonomo e di essere all'altezza di ciò che deve fare. Questo ultimo punto è discutibile perché nel binomio diritti-doveri, questi ultimi non sono più ben chiari. Morgardini difatto dice "il cittadino della modernità è diventato l'avente diritto", il che tende a sottolineare la reale perdita dei doveri. Per una serie di egoismi e inconsistenze con la retorica corrente ci siamo persi questi doveri, perché sono dei limiti, degli obblighi, i quali limitano la mia libertà, che nel contempo non abbiamo. Non esiste una libertà che prescinde dagli altri, perché è arbitrio.
A quale sfera di significato appartiene l'insieme dei diritti e dei doveri? A quella della Legge, e noi siamo abituati a ragionare in termini di certezza del diritto, che poi nella prassi non esiste. La legge, come generatrice di aspettative, funziona benissimo e nel momento in cui parlo di ruolo nell'insieme dei diritti e dei doveri, li sto dando per certi. Nel momento in cui io prendo questa definizione come punto di riferimento, sto facendomi carico di una serie di precondizioni che non sono evidentemente formulate così, ma che creano in me un certo modo di pormi, per questo certezza, autonomia e solitudine. Il soggetto si immagina direttamente in rapporto con l'istituzione, non ci sono né vie intermedie né corpi intermedi. Per questo non serve il corpo intermedio, perché ognuno è autonomo, libero e capace di pensare e badare a sé stesso. Tutte le premesse, e tutto ciò che è legato al paradigma moderno non funziona più, tant'è che Beck ci parla di irresponsabilità organizzata, il che vuol dire che noi oggi interpretiamo il mondo con dei criteri che non valgono più, per questo non riusciamo a definire una responsabilità. Noi vogliamo conoscere il mondo con strumenti inadatti, ed è proprio per questo motivo che nacque la sociologia, per introdurre nuovi strumenti di comprensione del mondo. Quindi cosa nascerà nei prossimi anni? Una nuova sociologia?
Noi adottiamo delle strategie falsamente rassicuranti, un esempio è il silenzio assenso, ovvero un mondo per uscire dalla gabbia d'acciaio della burocrazia, perché si presume che certi uffici debbano dare dei responsi su delle questioni entro un certo lasso di tempo, il quale trascorso il tempo massimo è come se avessero acconsentito. Questo concetto è stato introdotto anche per quanto riguarda le questioni ambientali.
In sintesi, questo discorso dei diritti e dei doveri si configura come l'interpretazione moderna del concetto di ruolo, siccome però oggi non siamo più nella modernità (e non sappiamo dove siamo e verso dove stiamo andando), ci piace di più l'altra definizione di ruolo, ovvero quella delle aspettative. Ma cosa significa aspettativa? E' ciò che è lecito che tu ti aspetti; una proiezione che ha un fondamento di legittimità. Questo però concerne uno scarto (implicito) dell'aspettativa stessa: in essa troviamo l'incertezza. L'aspettativa traduce la nostra consapevolezza profonda del fatto che le cose potrebbero non andare come ci aspettiamo che dovrebbero andare; essa è la conseguenza del fatto che noi pur se ci siamo convinti di tante altre cose, profondamente lo sappiamo che il mondo potrebbe fare altro rispetto a ciò che ci immaginiamo. La componente principale dell'aspettativa è la sua consapevolezza del poter essere smentita, la certezza moderna di prima diventa una soglia di probabilità (la quale non è mai pari al 100%). Perché il nostro sapere migliore, ovvero il sapere del caos, è così più vicino al mondo? Perché ha preso atto dell'incertezza, della relatività, incompletezza e indeterminazione; tutti i teoremi della fisica del XX secolo ci dicono questo.
Una traduzione della teoria del caos è una filastrocca popolare, secondo la quale "il cavallo del messaggero perse uno zoccolo per via di un chiodo, quindi il messaggero non riuscì a raggiungere il generale in tempo, e quindi il generale non fece quello che doveva e per questo il re perse la guerra".
Come ci si può figurare un portatore di aspettative? Si ha l'immagine di una persona che non è sola, perché l'aspettativa comporta nell'altro; richiede implicitamente qualcun'altro. Per questo si può definire l'aspettativa come bidirezionale e relazionale.
L'aspettativa, dato il suo atteggiamento relazionale, è generatrice di capacità di giudizio (Charles Taylor).
[Per l'organizzazione della nostra vita, noi ci rifacciamo alle teorie di Frederick Taylor, il quale era notoriamente pazzo]
Charles Taylor ci parla del generarsi della morale in questi scambi, il che vuol dire che quando tu hai fatto quello che si riteneva dovessi fare, hai titolo a pretendere che lo facciano anche gli altri, non ci si aspetta l'intervento di un terzo, perché tu sei in una posizione di forza. Inoltre il realizzare le proprie aspettative conferisce una posizione di vantaggio morale, e si può quindi chiedere conto. Nel sistema di aspettative di Taylor la morale si genera autonomamente e non con l'intervento di una persona esterna.
Quindi il dovere è sempre presente, bisogna però ricordarselo, tenerlo presente.
La relazionalità e l'incertezza, due dimensioni implicite dell'aspettativa, sono fondamentali per muoversi meglio nel mondo. Ce n'è un'altra che deve essere unita alle due precedenti, dato che nel momento in cui ci confrontiamo con l'incertezza abbiamo delle difficoltà (tant'è che trasformiamo l'incertezza in certezza), perché tende a paralizzare. Nonostante ciò non posso fermarmi e aspettare, per questo faccio finta che le cose siano certe, faccio atto di una grande derivazione. Riesco in questa azione perché ho fiducia. L'ingrediente fondamentale del legame sociale è proprio la fiducia, perché se io non mi fido che gli altri faranno quello che dovrebbero fare, allora non faccio niente neanch'io (questo è il nostro clima). Laddove nella società "sana", l'atteggiamento principale è che tutti faranno quello che devono, facendo sì che io mi posso comportare tranquillamente come devo, fidandomi, tutto funziona; ma nel momento in cui io diffido degli altri, diventa tutto impossibile a farsi. Oggi non siamo in grado di operare da soli.
Inoltre la fiducia ha una stretta connessione con la fede, le quali sono aspetti dello stesso discorso. L'idea che si aspetta qualcosa, come un compleanno, è un atto di fede. Il fatto che arrivo al giorno dopo è sempre un atto di fede. Nel momento in cui io accetto la definizione weberiana per cui la sezione finita di un'infinità priva di senso, perché qualcosa ha più senso di qualcos'altro? Perché un comportamento è più importante di un altro?
[Carlos Castagneta scrive un libro, " scuola dallo stregone" si apre con una frase di Simmel. Questo stregone è una persone che dice cose intelligenti, e dice che lui vive sulla base di una follia controllata, ovvero ha la facoltà di decidere se qualcosa ha senso, perché in sé le cose un senso non ce l'hanno, e questo è un atto di fede]
Prima del XX secolo, dato che c'era un altro ordine, quest'ultimo poteva comportare una gerarchia, per cui un'azione poteva essere più importante di un'altra, ma oggi sappiamo che questa gerarchia è frutto di una convenzione, quindi difatto un'azione è uguale a un'altra.
Sennet ci parla dei codici di credenza e dice "il ruolo, quando lo interpreto, devo crederci". Se non credo in ciò che sto facendo, cado nel meccanismo, e quindi divento una macchina. Se si interpreta il ruolo come un qualcosa da fare svogliatamente, senza un fine, si arriva a ridursi in una gabbia d'acciaio. Il ruolo, per avere un senso, richiede l'investimento di qualcosa di personale, ovvero il codice di credenza, la convinzione.
Non c'è modo di giudicare l'importanza di un comportamento dai suoi risultati concreti, perché ogni comportamento è potenzialmente portatore del cambiamento. Nel momento in cui accedo al sapere caotico, non posso vedere la differenza tra un manager e un operatore ecologico. Questo sapere priva di qualsiasi tipo di pretesa.
La realtà sociale è fatta di relazioni e non di meccanismi, è il funzionalismo della nostra epoca che ci ha portato ad esaurire il nostro capitale di fiducia.
Un altro punto importante è che la fiducia, come gli altri aspetti "irrazionali", non è mai stata oggetto di studi fino a oggi. Ma come si fa quando la fiducia finisce? Uno dei modi è quello di essere all'altezza delle aspettative suscitate. E' vero che c'è l'incertezza, ma in un mondo dove si fa ciò che si dovrebbe fare per adesione e convinzione, è molto più probabile che le cose funzionino come dovrebbero; in un mondo meccanico questo non succede, perché è un mondo noioso e ripetitivo.
Sociologia 1.12
Riepilogo
Nel '700 avvengono due avvenimenti importanti: la rivoluzione francese e la rivoluzione industriale che cambiano tutto ciò che era la società. Prima c'erano i ricchi, gli aristocratici e i poveri, con l'avvento della tecnologia, dell'illuminismo e del positivismo questo assetto salta in aria. Auguste Comte, analizzando la società, decide che non si sta capendo più nulla, che la filologia, la filosofia e tutte le protoscienze che erano state usate fino a quel momento non sono più sufficienti per comprendere questo mutamento e per questo Comte "inventò" la sociologia. Da qui inizia tutto l'iter per analizzare la società. così nascono gli strutturalisti e i teorici dell'azione, rispettivamente pessimisti e ottimisti antropologici.
Gli strutturalisti definivano l'uomo come un qualcosa di completo e finito e che non si può cambiare; mentre i teorici dell'azione definivano l'uomo come un qualcosa che può cambiare se stesso e anche le cose che lo circondano. Da sottolineare che questo contrasto persiste ancora oggi.
Le azioni si possono dividere in:
azioni logiche: quello che noi pensiamo di fare razionalmente. Sono state analizzate da Weber e vengon suddivise in azioni razionali rispetto allo scopo e razionali rispetto al valore: le prime analizzano ciò che succede nei gruppi secondari, mentre le ultime è una cosa che facciamo per un tornaconto personale (un qualcosa che ci fa piacere);
azioni non-logiche, quelle che facciamo inconsapevolmente. Pareto le divide in derivazioni e residui: quest'ultimi sono ciò che ci resta dall'evoluzione (tutto ciò che facciamo e che non ci spieghiamo).
Che cosa è una società? E' un insieme di più attori sociali che interagiscono tra di loro e quindi comunicano. Interagendo fanno gruppo; trasmetto il mio sapere, il mio patrimonio culturale, la mia educazione, quindi un qualcosa che si conosce.
Tutto ciò si crea con il processo di socializzazione, il quale avviene nelle agenzie di socializzazione. Questi processi sono composti di due parti:
fase primaria: impariamo le prime cose;
fase secondaria:
Esistono anche gruppi primari, dettati dall'affetto, e secondari, dove si ha un tornaconto. Nei gruppi si possono incontrare tre tipi di personaggi:
L'estraneo: è visto in due modi diversi a seconda del gruppo primario e secondario: nel primario è vista come un intruso; mentre nel secondario è particolare, perché ha un posto già a lui prefissato e non si può fare nulla.
Lo straniero: può essere chiunque, anche un nuovo impiegato ed è "colui che viene ma che non vuole perdere la libertà di andare via" (Simmel), trae i benefici del gruppo e ne accetta gli svantaggi; esso esercita fascino su di noi.
L'emarginato: quello che viene messo in disparte, che passa inosservato; viene escluso perché non rispetta i nostri valori; esso può avere non solo connotazioni negative ma anche positive: può essere qualcuno che riteniamo superiori.
Questo ultimo punto è cllegato al concetto di status, ovvero cosa siamo, i valori che rispettiamo; essi possono essere ascritti o acquisiti. Lo status è diverso dal ruolo, perchè mentre lo status ci dice cosa siamo, il ruolo è quello che facciamo. I ruoli possono essere ascritti (esseri figli) o acquisiti.
Il discorso dei ruoli ci porta alla mobilità sociale o stratificazione. Essa ha una forma piramidale: chi ha uno status più basso si trova alla base, mentre chi ha uno status superiore si trova più in alto. Gli status possono cambiare in modo verticale e in modo orizzontale.
IL RUOLO: ha tre definizioni, di cui l'ultima (" insieme delle aspettative che derivano dall'occupante di uno status") è molto particolare. Per comprendere questi discorsi è molto importante la componente immaginale. Oggi però bisogna sdoganare il termine e liberarlo da una serie di sedimenti che tendono a fuorviare: immaginario è ritenuto solamente proprio ai bambini o comunque ai poeti, "filosofi" e così via. In realtà essa è una componente che tutti dovrebbero prendere in considerazione, ma la nostra cultura tende ad escludere questa componente come residuale. La nostra idea è che noi siamo gente concreta, la cultura del fare, la quale non si interroga come faccia. Io però faccio qualcosa immaginandolo prima, quindi è un discorso contorto.
Il ruolo inteso come insieme di diritti e di doveri (ovvero la seconda definizione) è fuorviante dato che risponde ad un paradigma in via di scomparsa. Se io cerco nei rapporti interpersonali certezza, autonomia e piena libertà sbaglio, perché non è più tempo né da un punto di vista teorico né pratico.
Morin parla spesso di sistema aperto: l'uomo ha un sistema aperto, il quale trova senso esclusivamente nella relazione (c'è l'uomo e l'ambiente, non l'uomo o l'ambiente, essi esistono contemporaneamente e collaborano). Noi da soli non andiamo da nessuna parte, fingiamo di esserlo perché così scompaiono i doveri; se io sono solo ho solo diritti. Ed è così che si alimenta la nostra cultura, la quale ci ha indotto a credere che la nostra libertà non ha né limiti né confini. Il mito moderno si alimenta di queste cose, difatto l'infinità ne è un punto chiave (come la crescita infinita economica).
La modernità è tutto un problema di immaginazione ma che nega l'immaginazione.
La nostra libertà finisce dove inizia quella degli altri; io non ho diritto nel calpestare l'altro, ma questo è un concetto non ben compreso oggi giorno.
Il problema dei diritti e dei doveri tende a occultare a nostra dipendenza, laddove il ruolo come insieme delle aspettative che derivano dall'occupante di uno status, è più descrittiva del sociale: noi siamo costantemente in relazione con gli altri. Nel concetto di aspettativa ci sono una serie di presupposti impliciti:
l'aspettativa è aspettarsi qualcosa con un fondamento, essere legittimati nel proprio aspettarsi;
l'aspettativa è relazionale e bidirezionale, mi aspetto qualcosa da qualcuno e anche quest'ultimo si aspetta qualcosa da me;
dall'aspettativa non si riesce a prescindere dalla parte del dovere, pertanto questa condizione è generatrice di morale, il che vuol dire che io non ho bisogno di un terzo che giudichi, ma nel rapporto con qualcuno, laddove io abbia adempiuto a ciò che dovevo fare, ho titolo a pretenderlo dall'altro;
l'aspettativa sono io, sono io che sono titolare nei tuoi confronti;
l'aspettativa è incertezza, è nei pressi del mondo, e sa che pur dovendo dare per scontate he certe cose debbano accadere, poi nella prassi non accadono.
Incertezza come componente essenziale della nostra vita. Tutto ciò che noi facciamo, inoltre a partire dalla conoscenza, è imperfetto e l'imperfezione genera la possibilità che le cose non vadano come previsto. La previsione statistica non è certificante perché lascia una sorta di richio che accada. Devo imparare a vivere con l'incertezza, la quale è sempre presente nella nostra quotidianità.
Ma come faccio nella pratica a vivere col problema dell'incertezza? Faccio finta che pur sapendo che le cose non andranno come devono, andranno come devono; mi fido che andranno come devono. La parola chiave è la fiducia e il titolare di quest'ultima può essere qualunque cosa, ma vivo come vivo perché mi fido e faccio finta. Il fare finta è l'unico attribbuto che ci permette di vivere, perché non siamo capaci di affrontare tutti i problemi e di sostenerli. Nel momento il cui io mi facio carico di tutta la sofferenza di tutti gli esseri umani vivrei meno di 5 secondi.
La mia fiducia si articola in molteplici livelli e quando intreccio questa fiducia con una serie di circostanze mi accorgo che le conseguenze sono ampie. Nei rapporti noi utilizziamo il termine fiducia nelle relazioni, abbiamo una tendenza a credere che questa fiducia si investa solamente nella relazioni personali, ma questa è solo una delle numerose sfaccettature della fiducia; parlando della secondarizzazione dei rapporti che noi viviamo in una metropoli, c'è un altro tipo di fiducia ed ha a che fare con l'essere, quelli che io vedo, ciò che sembrano.
Noi investiamo fiducia nel mondo, anche se non sono al corrente di come funzionano la maggior parte delle cose. Noi siamo stati espropriati delle competenze che prima si avevano, e per questo siamo dipendenti da tutto.
Nel '700 non esistevano gli indirizzi, ma è qualcosa che nasce perché sono un'imposizione di fattezze a un mondo che invece era autogenerato. Per questo la modernità è un'imposizione di sedentarietà imposta per renderci dipendenti.
La fiducia è un oggetto contradditoriale nei quali non sappiamo capire quanto è razionale e quanto no.
Parlando di espropriazione,si può cominciare ad affrontare il problema del sapere esperto, il quale deriva da una serie di assunti e decisioni che abiamo scelto di mettere in campo tempo fa. Il movimento che porta all'affermarsi della scienza come la conosciamo oggi inizia a metà del '600.
Ma perché comincia? Per rispondere a questo quesito si deve parlare di un argomento molto più remoto in termini di tempo (primi anni del '500), ovvero la riforma protestante. Questa riforma è un tema che non è stato sempre spiegato benissimo, nonostante ciò è un avvenimento epocale e probabilmente il più importante da un punto di vista di impatto sul mondo, a causa delle sue conseguenze politiche, economiche e soprattutto culturali. La riforma luterana arriva a infrangere un'omogeneità che durava da parecchi secoli, ovverosia l'Occidente (si deve sottolineare che in questo periodo c'erano altre culture, quella araba ad esempio),fino a Lutero, gode di un momento di accordo sui fondamenti del sapere, quindi il paradigma è saldo. Il fondamento del sapere sono gli scritti dei padri, i documenti religiosi e tutto ciò che si è sviluppato accanto alla religione proprio perché essa, per un lungo lasso di tempo, è stata l'unico modo attraverso il quale noi abbiamo costruito il mondo e il senso del mondo. I filosofi, i docenti universitari per la gran parte erano religiosi perché c'era un'omogeneità nei sistemi di riferimento (si scrive in accordo con l'autorità e per questo si poteva costruire il sapere normale). Nel momento in cui però Lutero opera lo scisma, tutto questo salta, perché come è possibile che gli stessi testi servano a leggittimare due punti di vista completamente diversi. Nel momento in cui la riforma prende piede non è più possibile questo riferimento all'autorità, ed è per questo che il moderno diventa l'affermazione del primato dei moderni sugli antichi (cosa che fino ad allora non era mai esistita, perché gli antichi erano sempre più importanti dei moderni) invece uno dei testi più importanti della modernità è proprio un discorso sui rapporti tra gli antichi e i moderni, nel quale si ribadisce che il sistema utilizzato dagli antichi per vivere non può essere riportato al tempo presente, perché c'erano cose differenti, stili di vita diversi, nuove teconologie e così via, e per questo siamo meglio noi. Per questo però bisogna trovare un modo per prendere autorità e per legittimare ciò che diciamo, quindi la filosofia naturale comincia a muovere i primi passi e a metà del '600 porta alla nascita delle prime società. La prima di queste società di protoscienziati è italiana e si trova a Firenze. In queste società c'erano molte persone, come nobili (che mettevano a disposizione i fondi), dei filosofi (i queli decisero che il fondamento del sapere andava ricercato nelle cose, nell'esperienza diretta) i quali facevano esperimenti per trovare un fondamento di autorità a ciò che si sarebbe affermato in seguito. Qui nasce il fatto, prima di qui non c'è, e questo è qualcosa che si è costruito nel tempo e non è un qualcosa di prefabbricato. Il fondamento della scienza sperimentale è oggi a rischio, perché la stessa scienza ha scoperto delle cose che modificano il quadro di riferimento. Nel momento in cui non abbiamo più l'ipotesi forte che presiede all'esperimento in laboratorio ed è la proporzionalità tra variazione ed effetti, non abbiamo più una logica per fare un esperimento. Inoltre abbiamo creato un sapere iperspecializzato e settoriale.
Il sapere scientifico si propone come un sapere oggettivo e disincarnato, in accordo a quello che diceva Cartesio, che propone un sapere universale che non ha distorsioni da parte del sapere sociale, dalla sfera storica ed economica; ma in realtà il sapare scientifico ad oggi è profondamente immerso in tutte e tre queste sfere e viene perfino mosso da esse. Non c'è alcuna logica oggettiva nella ricerca, perché, come dice Weber "la soggettività nella ricerca esiste e soprattutto si manifesta nella scelta di un problema". Non esiste un problema più importante di un altro a livello teorico, siamo noi a deciderlo, dopodiché la scienza può essere oggettiva.
Molto importante è ciò che dice Einstein a riguardo: "è assurdo cercare di risolvere un problema con lo stesso tipo di pensiero che lo ha generato", quindi non si può pensare di risolvere un problema scientifico con la scienza. Questo tipo di costruzione del sapere scientifico come strumento comincia con la nascita del sapere scientifico.
Morin parla di sapere iperspecializzato e settoriale, e il suo problema è che si tratta di un derivato di esigenze non scientifiche. Ma fino a che punto bisogna specializzarsi? Perché dopo un certo limite il sapere non circola più.
Ma in realtà non c'è un sapere pulito, ma è contaminato, perché la maggior parte delle invenzioni sono un mix di più saperi di diversi ambiti. Non c'è niente di definito e limitato nel mondo, ma siamo noi che li creiamo, e una volta fatti ci sentiamo inchiastrati. La specializzazione è buona fino ad un certo limite, perché questo sapere acquisito potrebbe servire anche ad altri. "L'iperspecializzazione genera un'intelligenza cieca" come dice Morin, e per questo lo studioso non capisce dove si incastra nel quadro generale il pezzettino che lui stesso ha così tanto analizzato.
Nel XX secolo cominciano a nascere dei saperi "locali".
Il nostro sapere non è più in grado di generare incroci e di arricchirsi, perciò si dovrebbero mettere in grado dei discorsi che devono essere tradotti nella realtà utilizzando però più saperi.
La libidiness: Maffesoli recupera un sapere scolastico quando ci si chiede perché voglio sapere? Qual è la libido che mi motiva? Qui Maffesoli ne verifica tre:
libido dominandi: tu vuoi sapere per dominare;
libido sciendi: tu vuoi sapere per il sapere, per capire come. Essa tende ad allearsi con la libido dominandi;
libido sentiendi: tu vuoi sapere per il piacere di sapere, non ha altro scopo e altro senso al di fuori di sé. Questa era presente in tutti filosofi a cui noi oggi facciamo riferimento, i quali hanno parlato del piacere enorme di quando si è capito qualcosa. Se si toglie questa facoltà, il sapere diventa banale, un'attività vendibile.
Sociologia 3.12
Il dominio della morte è incontrovertibile, non ci sono dinamiche alle quali appellarsi, perciò la morte porta corona. Essa è soprattutto capace di mandare in aria le nostre difese e questo può essere dimostrato tramite le teorie di un francese, Gilbert Durand che scrisse "Le strutture antropologiche dell'immaginario" nel quale opera una casistica dei simboli (per definizione essi hanno molti significati". Come dice Durand il simbolo ha una sciame di significati, ma per quale motivo usa la parola sciame? Perché sono significati disordinati che percepiamo instantaneamente tutti insieme. E' qui che si trova il grande problema della nostra cultura con i simboli, la quale tende a categorizzare in modo rigido i simboli, i quali sono completamente anarchici. Noi abbiamo dei notevoli motivi paradigmatici per avere dei problemi con l'immaginazione perché quest'ultima non è inquadrabile né addomesticabile. Noi abbiamo dei grossi pregiudizi contro l'immaginazione perché destabilizza il nostro ordine.
Cosa fa Durand per riuscire a rendere concepibile questo tipo di categorizzazione? Proma di tutto i simboli si organizzano sulla base di tre riflessi fondamentali, i quali servono a farci capire, ad esempio, che la questione "res cogitant et res extensa" non regge, perché:
nascono da riflessi corporei, come ad esempio il riflesso della stazione eretta, la quale ci rende ciò che siamo. In termini cosmogonici (cosmogonia: complesso di miti e leggende per spiegare le origini dell'universo) è il momento in cui si separa il cielo e la terra, perché l'uomo, alzandosi, riesce a vedere l'orizzonte e si accorge che c'è di più nel mondo. In questo momento comincia a dividere e crea i presupposti che lo fanno diventare uomo. Ma la nostra stessa postura è una condizione incerta, perché facendo un passo, rompiamo l'equilibrio. Siamo fatti in modo tale da essere incertezza. Compiendo un passo si compie una crisi per poi ritornare in equilibrio: la retorica del progresso è inscritta in noi. Un'altra cosa molto importante è l'uso delle mani, le queli ci permettono di "manipolare" il mondo.
[Noi, a differenza degli animali, siamo sprovvisti di qualunque struttura che ci possa essere utile a sopravvivere. Questo perché, dicono gli studiosi, deriviamo da uno stadio intermedio di crescita di una spugna e che questa intermedietà ci è rimasta nell'incompiutezza.]
Noi nasciamo come divisi, la nostra consapevolezza è la nostra divisione; prima
separiamo il cielo dalla terra poi separiamo la nostra consapevolezza dalla
nostra vita. Noi siamo frutto di una separazione.
Perciò i simboli che costellano accanto al riflesso della stazione eretta sono i
simboli diairetici (ovvero della divisione) che sono la spada e la luce. Un esempio
può essere quello del mito del nodo di Gordio, il quale narra di una questione
complessa come il nodo di Gordio e la risolve tagliandola, quindi la spada
risolve le questioni, semplificandole (come il letto di procuste, con uno spirito riduttore) Noi siamo quelli del nodo di Gordio per certi versi, riduciamo per semplificare e rendere piu accoglienti le idee e i concetti.
i riflessi dell'inghiottimento: accanto alla stazione eretta un altro riflesso fondamentale è quello del nutrimento. Da un punto di vista simbolico questo atto è rilevante: è l'unico momento in cui concediamo a un corpo estraneo di entrare dentro di noi. Questo accade quando respiriamo; in tutte le discipline e religioni del mondo, il momento della respirazione è il momento di base e la respirazione è quello che traduce in prassi il sistema aperto. Noi siamo perennemente un ponte fra fuori e dentro. Ma noi occidentali abbiamo completamente sbagliato, noi impediamo il respiro imponendoci una cravatta stretta al collo e la cintura stretta in vita, i quali ci ostruiscono il buon respiro. Il secondo step è il cibo, per non parlare di tutti i prodotti alchemici che inghiottiamo, questo processo non è ovvio. Ingerire costituisce anche i processi che accadono all'interno del nostro corpo. Mentre il primo riflesso sta per decisione, questo riflesso sta per confusione, perché una volta che si inghiottisce, si mescola il tutto.
i riflessi del ritmo: noi siamo fatti di ritmo (il ritmo del cuore, del respiro, delle stagioni...) Il ritmo ci permette di raggiungere stati di sopra-realtà (la trans). E' il riflesso mistico, dice Durand, quello nel quale si riescono ad unire le famiglie degli altri due che costituiscono una separazione netta. Quest'ultimo ci impedisce di disperare per la morte.
Questo però non basta. Questi tre orientamenti non sono sufficienti per attribuire a ognuno di questi spazi immaginali il simbolo pertinente. Uno dei simboli fondanti dell'inghiottimento è la caverna, con il quale possiamo avere un buon rapporto oppure no. Come faccio a sapere se la caverna è pericolosa o accogliente?
Durand unisce alla ripartizione riflessologica un'altra biripartizione in regime diurno e regime notturno, i quali indicano l'atteggiamento di fondo di colui che utilizza i simboli. La distinzione fra i regimi si fonda sull'atteggiamento nei confronti della morte.
il regime diurno è quello della divisione,della luce, diairetico. Io mi oppongo alla morte e cerco di sconfiggerla. La sconfiggo attraverso la scienza,che cerca il modo di sconfiggere la morte. Oltretutto l’essere umano pensa di poter sfuggire alla morte e quasi la rinnega, quando invece è l unica cosa certa.[Branduardi ci dice che il primo atteggiamento è condannato alla sconfitta, mentre riesci a dimenticare la morte quando ci balli]. L'aspetto rituale ripetitivo è uno dei sistemi che abbiamo attuato per convivere con la morte.
il regime notturno riguarda il compromesso con la morte.
Non esiste un simbolo che sia univoco, proprio perché il significato del termine è mettere insieme le cose; è il modo migliore per poter descrivere la complessità del mondo perché il simbolo è come il mondo: tante cose messe insieme.
L'opposto del simbolo è il diavolo, il quale significa separare. Questo tipo di intelligenza simbolica è comune a tutte le culture, perciò ci unisce. La nostra intelligenza del simbolo è trans-culturale, non è un tratto razionale ma precedente. Quando ci interroghiamo come è possibile la comunicazione tra culture, questo è basato su un ragionamemto fallace perché abbiamo assunto come significativo solo quello che è razionale (cartesianamente); abbiamo escluso tutto quello che ci unisce, perché non c'è solo l'intelligenza simbolica che è comune, ma anche quella emotiva. Quando ci disgusta qualcosa, tutti abbiamo la stessa smorfia. Un'altra cosa ci unisce: la propriocezione, ovvero la consapevolezza del proprio essere corporei, perché tutti noi abbiamo sete, fame, soffriamo, abbiamo desideri e sono uguali. Di tutto ciò che ci divide, ci sarebbero altrettante cose che ci uniscono e sono tutte cose che stanno nella res extensa. Il corpo, le emozioni e i simboli non hanno nulla di razionale, ciò che ci divide invece è il razionale. Ci siamo impediti di parlare con l'altro.
Ciò che ci sta separando ci sta anche annientando.
Maffesoli scrive un libro che si chiama "la trasfigurazione del politico" nel quale mette in opera una coppia contraddittoriale nuova, ovvero potenza-potere.
Il potere viene definito strapiombante ed è una componente estremamente formale, strutturata e fredda; si impone con i caratteri della razionalizzazione e comprende tutti quegli aspetti utili a comprendere il fatto sociale, si esercita dall’alto verso il basso e si impone.Il fenomeno sociale per eccellenza da studiare è la convivenza, come si convive con il potere?. Per spiegare ciò bisogna conoscere le tre forme di leggittimità del potere di Weber.
Weber si interroga su questo argomento, il che vuol dire trovare i motivi per i quali unl'altra persona limiti la mia libertà e trovo che sia giusto. Il potere legittimo è qualcosa che mi costringe a compiere un atto con il mio consenso. Weber ci dice che ci sono tre motivi per i quali chi è sottoposto al potere accetta il potere stesso.
forma tradizionale: io accetto un potere perché è sempre stato quel potere, perché già c'era quando sono nato, perché fa parte della mia vita e lo rispetto senza interrogarmi a proposito. Nelle dinastie c'è un motivo che viene individuato per giustificare questa trasmissione (il sangue, la terra) però difatto mi trovo dinanzi a un potere tradizionale.
forma legale-razionale: origina dall'idea del contratto sociale (come dicevano i filosofi del '700). Contratto è una parola che contiene un grande potere immaginale e ci viene immediatamente in mente l'economia. Il contratto è un documento che fa legge. Un esempio è la democrazia.
forma carismatica: carisma è una parola religiosa. Weber ci vuole indicare che ci sono degli individui che hanno delle caratteristiche inspiegabili che però portano a far sì che gli altri diano loro il dominio; qualcuno che per una sua qualità trascendente è in grado di dare la leggittimità del suo governo. Ma il carisma non si può trasferire. Il leader carismatico deve essere anche intelligente. Scientificamente, il carisma non si può spiegare; sappiamo che ci sono individui che tendono a focalizzare su sé stessi una serie di concessioni positive ma anche negative.
Il potere che ha in mente Maffesoli è quello legale-razionale, ovverosia un potere che è una diretta emanazione della ragione strumentale. Mentre quando parla di potenza va a toccare dei testi che la scienza politica moderna non ha mai preso in considerazione.
Per Maffesoli la potenza sotterranea (detto anche ectonio, ovvero del sottosuolo) ha a che fare col cemento sociale: un gruppo rimane coeso, riesce a evolversi e conservarsi se sta attento anche alla potenza, ovverosia a quella sorgente di energia comune, che ci permette di sentirci parte di un gruppo. L'appartenenza non è un fenomeno unicamente razionale, ma esiste una dimensione occulta nello stare insieme che fa siì che i gruppi tangano. C'è costantemente uno scontro tra potere astratto e una potenza che è sorgente dello stare insieme ma anche contraddittoria/simbolica e a tratti anarchica.
Peppone e Don Camillo si prestano perfettamente a questo discorso. Siamo nel dopoguerra e in questo paese c'è un parroco che è don Camillo e Peppone è il capo dei comunisti. Peppone fa battezzare suo figlio e il suo secondo nome è Lenin e già questo descrive i due livelli contraddittoriali dell'anima del luogo. C'è un costante scambio tra questi ruoli: Peppone è il capo dei comunisti ma è anche il sindaco e come tale dovrebbe far parte del potere. Uno dei racconti tratta di quando viene allontanato don Camillo e viene sostituito con un altro prete, cosa che il villaggio soffre come affronto. Questo prete spostò solamente il candelabro dalla destra alla sinistra dell'altare e da lì si genera un movimento di popolo per protestare contro il sindaco. Il problema è che nella massa c'è anche Peppone che sta protestando contro la sua finestra. Lui ha capito perfettamente che il suo posto riconosce alcune figure di riferimento al di là dell'ideologia del potere. Il prete e lui sono i due poli della potenza del luogo, che è quasi antropologica. Il fatto che questo venga allontanato per Peppone è uno squilibrio, non ha a che fare col prete che ha spostato il lampadario, il problema è che non c'è più l'equilibrio nella potenza, manca uno dei rappresentanti centrali dell'dentità del gruppo, il quale si riconosce nell'uno e nell'altro, ma in quanto rappresentanti della potenza, non del potere. Peppone, che è parte del potere, disconosce il suo esser parte del potere per qualificarsi in chiave di comprensione della potenza.
La maestra vecchia, che ha cresciuto tutti quelli del paese, è un personaggio peculiare e corregge i manifesti dei comunisti con la penna blu e rossa. Ad un certo punto la maestra sta per morire e convoca Peppone e don Camillo per le sue volontà al funerale e dice "il funerale dovrà essere senza musica, senza carro con la cassa portata a spalle e sulla cassa la bandiera". Il giorno dopo Peppone convoca il consiglio comunale e chiede se sono d'accordo che il funerale della maestra si svolga in questo modo. Tutti si oppongono però all'ostentazione di quell'emblema, così Peppone dice " in qualità di Sindaco vi ringrazio per la vostra collaborazione e come sindaco approvo il parere di rifiutare la proposta riguardo la bandiera della defunta, però siccome in questo paese non comanda il sindaco ma comandano i comunisti come capo dei comunisti me ne infischio del vostro parere e la maestra andrà al cimitero con la bandiera che vuole lei e io rispetto più lei morta che tutti voi vivi, se qualcuno ha qualcosa da obbiettare lo faccio volare giù dalla finestra". Il giorno dopo la maestra andò al cimitero portata in spalle da quattro comunisti e con la bandiera che voleva lei sulla cassa.
La potenza è questo grumo di energia contraddittoriale che permette che il gruppo si riconosca in quanto tale,maffesoli, nella potenza sotterranea ci vede un lato oscuro ed occulto, “notturno”.
Lo stare-insieme per Maffesoli è una categoria esplicativa della realtà, con il quale si può spiegare il fenomeno della convivenza che è più della condivisione di uno spazio o avere qualcosa da guadagnare.
Maffesoli, nei confronti del politico, ci dice che c'è un rapporto contraddittoriale, non solo c'è la coppia potenza-potere ma ci sono anche una serie di tratti che sono quelli che lui chiama l'astuzia del sociale. Quest'ultima ha a che fare con l'aderire superficialmente a delle richieste senza esserne convinti; uno dei suoi esempi sono le feste di partito, io vado alla festa di partito non perchè credo in quel valore ma per mangiare.
La democrazia come l'abbiamo concepita finora è il frutto di una lettura dell'uomo particolare, ed essendo un'istituzione moderna condivide con la modernità una serie di punti di vista e la modernità ritiene che l'uomo sia un essere razionale. La democrazia è concepita per essere irrazionale. Mettere in contatto la ragione con il valore in questo campo non è ovvio, però implica un tipo d'uomo che va bene per il sistema democratico, ovvero l'uomo moderno, quello che è informato e che è pronto a prendere posizione per le sue idee e vuole fare in modo che diventio criterio di gestione per la repubblica, quindi un personaggio definito. Ma come lo sposo l'individuo astuto di Maffesoli col soggetto moderno.
Noi ci troviamo davanti una serie di istituzioni e riti che sono previsti per qualcuno che in effetto rappresenta una frazione del corpo sociale, ma non tutti.
Oggi la distanza potere potenza aumenta, vorresti votare (potenza) ma non sai chi votare (potere).
10.12
La crisi della modernità
Questo argomento viene trattato da Sigmund Baumann. Cos'è la modernità? La modernità è il mutuato rapporto tra il tempo e lo spazio, qualcosa che ogni volta vogliamo raggiungere. Lo spazio viene definito come il lato solido della situazione, mentre il tempo è il lato liquido che cambia sempre.
La domanda che ci pone Baumann è: la modernità è un processo di liquefazione continua? Non tendiamo a liquefare il solido che abbiamo intorno?
Nell'antichità c'erano molte più strutture solide rispetto ad adesso ma che poi sono andate liquefacendosi nel tempo.
Baumann vede la società solida come una società di panoptikon (un progetto di un carcere sperimentale a forma di ciambella, le pareti interne erano le celle indirizzate verso il centro e al centro del buco c'è una torre dove c'erano le guardie, quest'ultime potevano guardare i carcerati in qualsiasi momento ma i carcerati non potevano sapere se erano osservati dalle guardie; ciò faceva sì che i carcerati vivessero in un clima di terrore e automaticamente si comportavano bene) ed è l'esempio di come un'autorità centrale se ci controlla, ci fa autogestire.
Ma nella nostra modernità noi non sopportiamo più che qualcuno ci controlli, vogliamo la nostra indipendenza e queste liquidità attraversano punti focali della nostra vita che incontriamo tutti i giorni, come prima di tutto l'emancipazione, la quale diventa liquida. Questo perché il concetto di emancipazione è legato al concetto di libertà. Questo concetto viene analizzato da Lamancuse, il quale critica il rapporto tra cittadino e società, quindi tra libertà e oppressione. L'uomo non vuole essere più succube ma autoaffermarsi e vuole uscire dal panoptikon, quindi decidere cosa farne della mia vita. Questo atteggiamento però porta a non curarci degli altri.
Nella modernità liquida c'è questa contraddizione tra le aspettative dell'individuo e quelle del cittadino rispetto alla società, quindi ciò comporta la divisione dell'individuo de iure dall'individuo de facto. Il passaggio dalla modernità solida alla modernità liquida ci indica che tutte le certezze sul quale è stata fondata la modernizzazione finora stanno venendo meno. Adesso si tende a sviluppare l'individuo e non il gruppo.
Ma chi può aiutarmi a raggiungere gli obbiettivi? Solamente l'altro e senza quest'ultimo l'individuo non può autoaffermarsi.
Questa modernità liquida ridefinisce anche i confini tra privato e pubblico.
Baumann inoltre analizza i luoghi pubblici e i non-luoghi pubblici.
luoghi pubblici: piazza e luoghi di consumo. La prima costituisce il passaggio degli individui; i luoghi di consumo invece stimolano l'azione ma non l'interazione. La piazza è un esempio di antropoemica: promuove un processo di esclusione (confinare lo straniero all'interno di un ghetto,espulsione oltre le frontiere, distruzione fisica degli stranieri); i luoghi di consumo sono un esempio di antropofagia: un processo di assimilazione (rendere simile il dissimile,fare in modo che qualcosa di ambiguo e pericoloso diventi simile e quindi pensabile entro un sistema identitario preciso,affievolire le distinzioni culturali e linguistiche,proibire le tradizioni e i legami ad eccezione di quelle che rientrano nell'ordine,promuovere e rinforzare un solo e unico criterio di conformità).
non-luoghi pubblici: si suddividono anch'essi in antropoemici e antropofagici ma sono luoghi di passaggio e dove viene talvolta un'interazione consumistica. Ad esempio l'aeroporto.
Nella modernità fluida però non possiamo parlare di progresso, perché noi non viviamo verso il futuro, ma viviamo in Carpe diem.
Per quanto stiamo puntando all'idea dell'individualismo, non possiamo fare a meno della comunità.
Baumann analizza il conflitto tra istinto e ragione, lui stesso dice:
L'amore teme la ragione e la ragione teme l'amore, entrambi si sforzano a fare a meno dell'altro, ma quando questo accade prima o poi cominciano i guai, questo è il dilemma dell'amore. La loro separazione è fuori da disastri, ma i negoziati, quando possibili, raramente producono un modus d'idea tollerabile. Ragione e amore parlano lingue diverse, difficilmente traducibili l'una nell'altra; gli scambi verbali producono più incomprensione e sospetto reciproco che autentica comprensione e simpatia. Ragione e amore non si parlano veramente, la maggior parte delle volte si riempiono solo di urla, la ragione parla meglio dell'amore e per questo l'amore trova atrocemente difficile,anzi impossibile, riscattarsi attraverso il discorso. I due verbali di regola terminano con la ragione trionfante e l'amore ferito, poiché l'argomentazione è più forte dell'amore. Si dice che l'amore è un pendolo sulla soglia dell'ignoto aldilà della quale diventa quasi impossibile parlare, esso ci porta aldilà delle parole. Sollecitati a parlare d'amore, annaspiamo la ricerca delle parole, ma le parole cedono, si rilevano su sé stesse e scompaiono. Tutti sappiamo cos'è l'amore, almeno fintanto non cerchiamo di dirlo forte e chiaro. Blaise Pascal diceva che il cuore ha le sue ragioni e l'accento ricade sia su "sue" che "ragioni"; "sue" perché il cuore ha le sue ragioni di cui l'intelletto non ne sa e non può saperne niente, ma anche le sue "ragioni" che sono condizioni obbiettive ed evidenti di cose a cui ogni intelletto è cieco, allo stesso modo di un cieco di fronte al colore e un sordo di fronte a un suono.
Questo concetto contraddittorio è possibile vederlo anche in criminologia con il triangolo di Karpman:
Nella realtà questo però non è facile, perchè è un esempio di modernità solida, oramai scomparsa, perché ci troviamo in una modernità al contrario liquida.
Nella modernità liquida si convive con l'incertezza.
Il triangolo di karpman può essere tradotto anche in spirale, perchè si muove, è liquido e coinvolge più personaggi.
15.12
L'animale.
Il nostro rapporto contraddittoriale con l'animale lo possiamo affrontare da due punti di vista: con la fobia o con l'adorazione. Al momento siamo in una fase di adorazione avanzata. Per Maffesoli, secondo la strategia di omeopatizzazione (curare con il simile), quindi assumendo pian piano delle piccole dosi controllate di una sostanza, in qualche misura diventi insensibile e guarisci dal problema che ti genera.
La strategia dell'omeopatizzazione vale per quanto riguarda la morte ("ballare" con essa e parlarne) vale anche per gli animali, quindi avere un animale a casa è un modo per rimanere in contatto con una parte di te.
Il discorso dell'animalità ha a che fare con il fatto che noi siamo un equilibrio instabile, ricordiamo il camminare, attraverso il quale rompiamo l'equilibrio stesso, ma siamo anche instabili perché l'Io non è tutto noi, anche se cerca di presentarsi in questo modo.
Ma da dove viene questo Io? Dalla coscienza, la quale viene fuori da una serie di sviluppi anche evoluzionistici per i quali, grazie alla stazione eretta, noi riusciamo a ottonere una massa cerebrale molto più significativa di quelle degli altri animali.
Cosa comporta però la percezione di sé? Questa porta con sé una separazione dal flusso della vita perché implica la possibilità di non pensare a ciò che si sta facendo. Io ho con la coscienza uno scarto rispetto alla mia vita normale ed è questa separazione che genera l'Io. E' questa separazione che genera l'Io, proprio perché il gesto del dividere non è soltanto il modo che utilizzo per conoscere il mondo, ma è anche il modo con cui io nasco.
Ma da cosa mi separo? Mi separo dalla mia componente animale. L'Io è un affrancarsi da una condizione animale non cosciente o forse cosciente in modo diverso.
L'idea che gli animali sono degli esserei meccanici (che è cartesiana) non è più pensabile.
Il nostro problema con l'animale si caratterizza nella paura del ritorno: visto che ci siamo affrancati dall'animale con la coscienza e la consapevolezza, la nostra coscienza sa perfettamente di essere costantemente in ballo, per questo l'animale è una minaccia; è lo stato nel quale potremmo ricadere se accadesse qualcosa, se perdessimo il controllo, se fossimo meno razionali. L'accento ricade sempre sempre sul razionale, il quale non è solo un problema di razionalità ma è anche un tentativo di autodifesa (più sono razionale, meno sono animale).
Ma noi siamo contraddittoriali per cui il problema dell'animale non concerne solo una paura di ritornare a quello stadio come se mi disgustasse, ma in parte mi attrae. In parte c'è un profondo desiderio di ritornare all'animalità perchè questa è tutto, fuorché quello che abbiamo costruito e nel nostro modo di vivere l'animalità è esattamente l'opposto perché abbiamo costruito un mondo che non è a portata di animale, quindi non c'è la gioia di vivere, non c'è l'emozione, la libertà. Nell'animale vediamo questa libertà di comportarsi come vuole quando vuole, una sessualità libera, una mancanza di regole.
Essi incarnano degli aspetti che dal nostro punto di vista sono appetibili, soprattutto quando il peso della realtà (come costruzione sociale) aumenta il desiderio di sperimentare e evadere, di non avere tutte queste aspettative e richieste fa sì che l'animale si carichi di un fascino che viene costantemente percepito come attraente e pericoloso, perché la regressione è sempre in agguato.
Questo discorso è ben espresso nell' Odissea, con il canto delle sirene, il quale è irresistibile e Ulisse riesce a resistervi solamente facendosi legare, perché queste sirene ti ammaliano, ti attirano, ti prendono e poi ti divorano.
Con la regressione nell'animalità l'Io scomparirebbe, quindi perfino i miti antichi lo sapevano, come lo sappiamo anche noi.
Uno degli aspetti animali che troviamo in noi e che abbiamo difficoltà a comprendere e anche a parlarne è il sesso, il quale porta a perdere la razionalità, porta a nonn capire più nulla e a comportarti in modi inconcepibili; il sesso è l'animalità libera e per questo tendiamo a rinchiuderlo in altre categorie sconcertanti. Tutti i processi che hanno a che fare con il sesso mettono a repentaglio l'Io, il quale è Esserci, mentre in questi processi noi non ci siamo, ed è questo che spaventa l'Io, che lo rende debole.
Erich Neumann, seguace di Jung, scrisse un testo di ricorstruzione mitico-simbolica che si chiama Storia delle origini della coscienza, nel quale troviamo le scansioni simboliche della crescita del soggetto, la nascita della coscienza e tutto questo viene riportato al mito dell'eroe. L'eroe è la coscienza consapevole di sé; tutti noi siamo eroi.
L'eroe come mito ci aiuta perché è vicario nei nostri comportamenti perché in lui riusciamo a vedere ciò che vorremmo essere senza doverlo essere, perché l'eroe, per essere eroe, muore giovane.
Gli eroi devono morire per definizione, per un problema simbolico, perché nel momento in cui l'eroe muore, non è più responsabile. Nel momento in cui l'eroe continua a vivere arrivano i compromessi, i cambiamenti storici e i danni, che sono correlati all'ecologia dell'azione, perché le loro azioni avranno delle conseguenze e neanche l'eroe è capace di prevederle. Nella logica dell'eroe è intrinseco il fatto che debba morire.
Ercole, che un eroe che tutti quanti conoscono, sconfigge un animale. Egli diventa ciò che è sconfiggendo il leone, l'hydra, il toro. Nei vangeli, come simbolo, ci sono gli animali.
Nel racconto del nostro essere uomo l'animale c'è sempre perché è con noi e siamo noi. Se vogliamo parlare di noi, parliamo in termini di animale. Il nostro Io, soprattutto nella modernità, soffre di un processo inflattivo; L'io pian piano si convince di essere tutto, e ogni volta che si presenta un'anomalia scattano gli allarmi, i tentativi di epurare e le espulsioni. I processi sono sempre gli stessi in tutti i livelli (micro/meso/macro).
Neumann quindi ci dice che ognuno di noi ripercorre nella sua genesi singolare le tappe della storia dell'umanità, quindi l'Io non nasce already made, ma noi nasciamo senza l'Io e che si strutturerà nel tempo. Tra i 0 e 18 anni tutti noi ripercorrono le stesse tappe che l'umanità ha percorso per 15.000 anni. C'è un costante ritorno di senso tra l'ontogenesi e filogenesi, siamo costantemente immersi in questo dialogo. L'io teme la ricaduta e si comporta di conseguenza, escludendo l'animale, secondo il nostro paradigma.
Ma nel momento in cui ragioniamo con il paradigma et-et, dobbiamo comprendere il nostro lato animale, perché è parte di noi.
Quindi siamo anche animali, e comportarsi come loro talvolta può portare sollievo a qualche tipo di pressione o disagio della quale fingiamo di non essere consapevoli.
Ma tutto questo discorso è una spiegazione razionale del perché noi abbiamo un certo atteggiamento nei confronti dell'animale, e proprio perché è razionale, manca un qualcosa. Gilbert Durand, quando affronta la questione dell'animalità, la affronta in modo pre-razionale e ci dice che noi abbiamo un gesto di ripulsa instantanea non mediata verso lo schema dell'animato. Lo schema dell'animato è un'agitazione priva di ragione insensata e del tutto caotica (il brulicare dei vermi su un animale morto). Durand non sta razionalizzando nel momento in cui si ritrae dal brulicare dei vermi, mi disgusta solamente; c'è qualcosa inme che reagisce negativamente a quello spettacolo. L'animato è un movimento privo di regole e caotico e ci troviamo di nuovo nel regime notturno, e soprattutto la mancanza d'ordine, il movimento non regolamentato (e quindi incapace di generare aspettative) sono strettamente connessi alla morte. Questo spettacolo è osservabile esclusivamente nei cadaveri, per questo nell'animale noi vediamo il volto del tempo,e li identifichiamo come portatori di morte, tant'è che nella gran parte dei casi il tempo è annunciato o trascinato dagli animali (questi vengono chiamati simboli teratomorfi), un esempio sono i cavalli del Sole.
Durand ci dice che con l'animale ho questo problema a prescindere dalle dinamiche dell'Io e della sua regressione, ma inconsapevolmente l'animale mi suscita l'immagine della morte, la sensazione del tempo che passa, e con il quale non riesco ad avere un rapporto sereno, anche qui però c'è un problema. Il caos, per quanto mi terrorizi, so che comporta anche la generazione, tant'è che si parla di caos primogeneo (Nietzsche scrive "non si può non avere il caos dentro se si vuole partorire una stella che danza"). Il caos è l'entità contraddittoriale per eccellenza, perché da una parte mi annienta, e da una parte fa generare "una stella".
La morte, di per sé, in gran parte delle culture, viene vista come un evento di trasformazione e non con il suo effetto negativo; viene visto come un'opportunità.
Il caos non è soltanto male. Inoltre nella teoria di struttura e azione, noi ci troviamo più a nostro agio nella struttura con tutti i suoi difetti perché azione e struttura non sono simmetriche perché da una parte c'è un peso simbolico dove noi ci troviamo più a nostro agio (nella struttura per quanto presupponga il pessimismo antropologico ci troviamo a nostro agio perché è quella che meglio riesce a lenire le nostre ansie del tempo che passa), mentre l'azione è qualcosa che ci fa perdere l'equilibrio e comporta la scommessa; l'azione è mettersi in gioco. La dinamica si può interpretare in chiave delle componenti immaginali: da una parte il disordine generativo e dall'altra l'ordine rassicurante. Come faccio a bilanciarle? Qui entra in gioco il carnevale.
Quello che noi osserviamo nelle culture più consapevoli di queste dinamiche è una notevole prevalenza del versante strutturale stemperata da irruzioni del versante caotico. Il carnevale nelle culture è sempre stato questo: giorni in cui non valevano le regole (adesso è diventata solo una festa in maschera). Gli antichi avevano capito che le regole da sole sono mortifere, quindi decisero di istituire due o tre giorni nei quali o non c'erano le regole o queste venivano completamente invertite. Questo, ci dicono molti sociologi, è rigenerante. Sono dei momenti di effervescenza sociale nei quali ti ricarichi in vista degli ulteriori giorni in cui sei sottomesso alle regole. Questo però è andato stemperandosi nel tempo perché l'assenza di regole comporta danni, ma allo stesso tempo troppe regole storpiano.
Il carnevale non odierno implicava mettersi delle maschere per essere qualcun'altro per un giorno, non essere più responsabile e tutta una serie di comportamenti che sono la negazione dell'obbligo. Quindi ci sono delle pratiche che tendono ad alleviare questo tipo di disagio, perché il disagio della normatività, anche oggi, è piuttosto percepibile. Al carnevale si puo ricondurre anche l’astuzia—la danza della pioggia nelle tribù indiane,che fanno festa e si mascherano per richiamare la pioggia (autogiustificazione)--
Man mano che vedi che le regole che hai posto non funzionano, piuttosto che rinunciare e cambiare registro, ne fai di nuove, le rendi sempre più stringenti e perfezionate.
Le norme diventano sempre più puntuali e precise: il paradigma si ripete. I comportamenti del pianeta spingono verso questo tipo di dinamica. Una delle azioni tipiche della nostra epoca è la rinuncia della libertà per favorire la nostra sicurezza, il che vuol dire nuove norme. Ma quello che dobbiamo notare è che il rapporto libertà-norma non è quantitativo, ma qualitativo. "Basta un momento di gioia per controbbattere un'esistenza di dolori" era uno dei segreti di Eleusi (Giorgio Colli).
Inoltre la felicità per come la intendiamo noi, non esiste. Una delle cose che Simmel ci dice è che l'uomo è un essere differenziale, ovverosia che l'uomo apprezza il cambiamento. Se sei sempre felice, non capiresti la vera essenza della felicità; una felicità perenne sarebbe l'equivalente di una non-felicità.
Il problema del carnevale è un problema quindi di ricarica, di rimessa a nuovo del legame sociale.
Maffesoli però nota nella società postmoderna anche una sorta di ritorno al TRIBALISMO-Neo tribalismo, in questo fenomeno prescinde la singolarità e l’individualismo di coloro che ne fanno parte. Un unione della parte sensibile quasi irrazionale. La modernità non li vede in senso positivo.
Uno dei punti centrali della teoria di Maffesoli è il tentativo di presentare un nuovo paradigma, che si trova nel libro L'elogio della ragione sensibile, e presenta questa nuova forma di ragione ossimorica. Per come interpretiamo noi la ragione, essa non può essere sensibile (perché non comprende i sensi), mentre sensibile da un punto di vista etimologico vuol dire che deriva dai sensi. Maffesoli ci dice che abbiamo bisogno di uno strumento che re-integri le due res cartesiane. Secondo il nostro criterio dominante la ragion non dovrebeb essere sensibile, anzi è proprio l'astrazione dalla sensibilità, perché proprio il grande salto verso la ragione come la interpretiamo noi oggi, sia nel 1600 quando le prime scoperte teconologiche ci permettono di scoprire e verificare che la realtà non è quella che ci sembra (il microscopio e il telescopio, ci fanno vedere cose che non possiamo vedere normalmente). Il discorso razionale si sposa perfettamente con l'insieme immaginale che aveva dei problemi con la corporeità e ci porta verso la ragione astratta, quella ragione universalistica razionale e precisa, che deriva dalla scienza e quindi da valutazioni e criteri oggettivi e razionali.
La ragione sensibile si fonda sul ritrovato equilibrio tra i processi razionali e la corporeità. Quest'ultima però non è scientifica, non si parla di formule e misurazioni, ma è una corporeità relazionale, ovverosia Maffesoli riconosce che lo stare insieme gli uni accanto agli altri modifica l'ordine dei rapporti; vuol dire che continuamente ci si influenza l'uno con l'altro. L'essere insieme significa condividere lo spazio, condividere delle condizioni di corporeità che noi non riconosciamo.
C'è,nelle relazioni primarie, qualcosa che va aldilà della componente caratteriale o di simpatia astratta, ma c'è anche un fortissimo nucleo di esperienza corporea. Il corpo detta delle leggi e dei desideri di contatto invece che di fuga.
L'estetica e l'erotica sono due cose completamente opposte: la prima risponde a un problema di rappresentazioni e di proporzioni, la seconda risponde a un problema di pulsioni profonde. Il termine estetico vuol dire fondato sui sensi, basato sull'esperienza sensoriale a tutto tondo; estetico è corporeo.
La questione del corpo rinvia a quella dell'animale e della fragilità. Il problema dello schema dell'animato è una questione di decomposizione e quindi di associazione di quest'ultima al caos: la struttura (corporea) viene meno. Nella nostra cultura abbiamo associato tutte queste problematiche anche al nostro corpo ecco perché finisce nella res extensa insieme a tutto il resto. Nella cultura occidentale il corpo è la parte deperibile, che effettivamente configura il brulicare della morte. Questa è anche una delle esperienze più traumatiche: un corpo morto non è più lo stesso, per questo cambiamo parola, usiamo cadavere invece di continuare ad usare corpo perché è innegabile che manca qualcosa, qualcosa è andato via. Questo stigma che imponiamo al nostro corpo e non riusciamo per molti versi a risparmiaci, lo continuiamo a vedere nelle pratiche di mantenimento del corpo. Oggi il corpo gioca un ruolo estremamente importante, ma come facciamo a venire a patti col fatto che il corpo continua a subire dei processi degenerativi? E soprattutto come conciliamo questo discorso con il modello di successo?
Un uomo (moderno) di successo deve essere giovane, ovvero colui che che ha il corpo in condizioni migliori e dove la possibilità delle decomposizione è più remota. Le prassi diventano conservative; abbiamo un'attenzione sempre crescente sulla medicina, su pratiche più o meno accettabili, ma anche interventi (si ha un accento sempre crescente sulla chirurgia estetica).
Oggi è più importante apparire giovane che essere in buona salute. Il nostro rapporto col corpo è quindi complesso e soprattutto ha delle grandi lacune: noi oggi non sappiamo quasi nulla della corporeità, del fatto che ci siano delle forme di regolazione inter-soggettive dovute alla vicinanza spaziale (se si ha un rapporto con una persona da tanto tempo, si hanno gli stessi stati fisiologici come febbre).
Noi sappiamo che ci sono alcune emozioni che si trasmettono, ma cominciamo a renderci conto che stare accanto agli altri fa una certa differenza. I rapporti primari si chiamano anche relazioni "faccia a faccia", nel momento in cui le zone di influenza si contagiano.
Noi siamo sprovvisti di informazioni a proposito delle emozioni. E il nostro non tener conto del versante non razionale dell'interazione è economicamente dannoso, è frutto di conflitti e problemi.
Maffesoli, dopo aver parlato dello stare insieme, ci parla dell'etica dell'estetica. Questa condivisione di cui sta parlando Maffesoli è il fondamento per dei legami etici; alimenta un qualche tipo di legame solidale con coloro con i quali ho condiviso l'esperienza ed è quindi il fondamento dello stare insieme. La solidarietà è soffrire o aiutare qualcuno per semplice fatto che è quello, non perché mi fa comodo; perché condivido con quell'individuo delle esperienze, delle emozioni. Non mi pongo la domanda "lo aiuto?", lo faccio e basta, ed è proprio per questo che oggi ci sono moltissimi problemi a proposito.Un altro termine che analizza Maffesoli è anche il NOMADE o NOMADISMO, colui che è padrone di se, libero dalle costrizioni e dai vincoli della società—un po come lo straniero per Simmel--
17.12
Morin si è occupato di politica mondiale, ha avuto un passato di attivismo politico, successivamente si è occupato di questioni internazionali.
Nel suo libro, precisamente nel quarto capitolo, Morin si occupa dell'identità terrestre, parla della mondializzazione (o globalizzazione). Lui parla della scoperta di un nuovo oggetto, il mondo in quanto tale, e soprattutto emerge una questione: qual è il problema vitale del pianeta? Secondo Morin il problema globale è un insieme di problemi conflittuali e contraddittori e questo insieme da quindi vita a un problema globale.
Morin dice che si è passati da un'era planetaria, che è nata con la scoperta delle Americhe, con le esplorazioni e con l'incontro delle culture, a un'era innovativa a inizio '900. Questa mondializzazione però, secondo Morin, ci unisce ma allo stesso tempo ci divide (Morin la chiama balcanizzazione: frammentazione di territori che prima erano uniti). E' con la mondializzazione che gli stati entrano in conflitto.
Inoltre ci fa notare come un cambiamento che concerne l'economia, può avere delle ripercussioni sulla nostra vita gigantesche. Una piccola porzione di mondo quindi può quindi creare delle conseguenze anche a livello globale; questo è alla base del pensiero complesso di Morin.
Marc Augé è un antropologo e ci dice che l'uomo della metropoli si trova in un posto dove può vedere tutto il mondo (ristorante cinese/negozi americani) allo stesso modo però quando viaggia e va in un'altra parte del mondo ritrova frammenti della sua parte.
A questo punto Morin tramite il conflitto tra il Nord e il Sud del mondo, tra Occidente e Oriente ci indica una zona di frattura tra l'Armenia, l'Arzebaigian e arriva fino in Sudan.
Morin quando parla di mondializzazione dice che c'è un problema vitale che è l'insieme di tutti i problemi vitale, ma c'è anche un problema più di tutti che ci sta unendo, che ci fa diventare una comunità di destino. Siamo comunità di destino perché i problemai ambientali coinvolgono tutti. Quando parliamo di sicurezza internazionazionale e ambiente, non stiamo parlando di due cose diverse e separate.
[una delle cause principali del conflitto in Siria è la siccità ambientale, una forte crisi idrica, che ha portato il malcontento popolare e quindi la gente si spostava in città, dove si è creato un'opposizione politica al regime e così via; un fatto così apparentemente lontano dalle logiche della sicurezza è diventata una delle sue cause scatenanti]
Uno scrittore Gaston Bouthoul aveva ipotizzato questa forte relazione tra contesti ambientali e conflitti bellici; disse che era possibile prevedere lo scoppio di conflitti dallo studio dei venti solari, i quali provocavano dei momenti di siccità che a sua volta avrebbero provocato dei conflitti. Prevedere i conflitti esattamente però è impossibile, perché viviamo in un mondo incerto. Dobbiamo accettare che il nostro mondo è vulnerabile e incerto.
Il libro "un mondo a spirale" procede per costellazioni ed è perché il termine stesso sta prendendo sempre più piede nelle scienze umane, essendo un termine più morbido rispetto a concetto. Il concetto ha una sua tonalità immaginale piuttosto evidente, che è quello della costrizione (Begriff: concetto/ griffer: attaccare qualcosa violentemente su qualcos'altro). Dal latino il termine concetto (cun-capio) indica il gesto del semplificare, raccogliere tante cose sotto la stessa intestazione, ovverosia qualcosa che astrae dalla realtà e tira fuori un'idea comune che può servire a descrivere cose diverse. Costellazione invece è un termine più morbido e soprattutto ha a che fare con il contributo immaginale che lo riguarda. Nelle costellazioni non c'è una logica, sono state scelte da qualcuno per chissà quale motivo per un aspetto estetico, perché sembravano disegnare qualcosa in cielo che aveva a che fare con i racconti fatti in terra. Rappresenta un rispecchiarsi della cultura nel cosmo e le stelle nelle costellazioni sono così perché ce le vediamo noi, ma esse nel tempo sono cambiate.
[le costellazioni dello zodiaco adesso sono impossibili da vedere perché sono molto basse sull'orizzonte, questo perché la terra si è spostata e anche a causa dell'eccesso di illuminazione]
La costellazione ha spesso un carattere mitico marcato, tant'è che tutti i capitoli cominciano con un breve racconto mitico. Bifolco è un'incarnazione di Dioniso, è la storia dell'inventore del vino, il quale diventa lo strumento per eccellenza dell'estasi. Nel testo di Maffesoli L'ombra di Dioniso, egli ricorre all'immagine di questio Dio per parlare dell'avvicedamento dei paradigmi, perché Dioniso è il sapere nascosto, cioè tutto quello che c'è nel profondo, da cui il regime diurno e la cultura occidentale, traggono le loro forze. Apollo, dio del responso e della divinazione, non è poi così lontano da Dionisio (come diceva Nietzsche); il loro è un legame contraddittoriale, nel tempio di Apollo se qualcuno si sedeva sul tre piede che era poggiato su una botola, si diceva che proprio sotto di essa abitava Dioniso. Non era un Dio tardo o reietto, era solamente un Dio nascosto, uno dei misteri della religione greca perché il suo ruolo è quasi invisibile, soprattutto da parte della ragione perché non sono in buoni rapporti. Ecco perché Maffesoli ci dice che "stiamo vedendo l'ombra di Dioniso", vediamo quello che accade e che é dionisiaco, ovverosia l'ebbrezza. Ma quest'ultima non è solo ebbrezza come la felicità, ma è l'ebbrezza che fa perdere il controllo, della violenza, dell'accoppiamento sanguinario. Quindi noi vediamo una ricerca di questo tipo di ebbrezza. Ma questo Dioniso è pericoloso per certi versi, perché quando questi versanti vengono lasciati liberi senza limiti possono recare problematiche, però sono lì, ci sono. E' impossibile pensare che nel nostro mondo non ci sia violenza, perché ne abbiamo perennemente una testimonianza, di ciò che sta accadendo nel mondo. Il problema odierno però è che non sappiamo chi siano gli attori di questa guerra, chi la sta giocando e chi la sta comandando, è fuori dalla nostra portata. Noi abbiamo questo grande problema con Dioniso che si vede anche in particolare nelle relazioni interpersonali dove sesso e violenza spesso sono vicine e l'ombra di dioniso annunciava esattamente questo, un cambiamento non annunciato né desiderato, ma che sta succedendo. Stiamo vivendo un cambiamento senza capirlo, lo subiamo e ne soffriamo. Dioniso è questo Dio del tradimento, quello che fa modo che tu perda il controllo e chiaramente la modernità non ha un buon rapporto con Dioniso,perché proprio questa pretende di avere perennemente questo controllo. Uno degli aspetti che più detestiamo di quest'essere agiti è il destino. [destino cinico e baro, in sociologia è detto effetto perverso]
MITO DI ER.L'unico modo per poter vivere bene è quello di abbracciare il proprio destino come se fosse una nostra scelta (Nietzsche), ma non c'è solo questa strategia. Platone, oltre essere un filosofo, era un grande creatore di miti, solamente che tante sue teorie sono state tramandate oralmente. Molto interessante è il mito di Er, che parla del destino ed è un mito che dovrebbe dirci di accogliere il nostro destino con un altro tipo di approccio.
Questo mito narra che prima che l'anima si reincarni (al contrario nel mito dell'auriga l'anima cadeva, quindi possiamo affermare che le idee di Platone non erano molto chiare) e viene condotta in un'enorme caverna, dove ci sono in immagine tutti i possibili esiti della sua vita e le viene chiesto di scegliere cosa vuole diventare nella vita che si accinge a intraprendere, e l'anima sceglie. Però nel momento in cui l'anima si reincarna dimentica la sua scelta e gli dei, per aiutarci, mandano in aiuto dei daimon (demoni) e questo demone è incaricato di ricordarci cosa avevamo scelto. Qual è la morale del mito di Er? Ci suggerisce che questo destino non è arbitrario, ma può essere anche ciò che in un momento di chiarezza divina dell'anima, noi abbiamo pensato che fosse il nostro miglior eisto nella vita che veniva. Er ci dice che la faccenda del talento e della vocazione, non è un qualcosa che gli dei ci hanno mandato addosso per farci un torto, ma è ciò che noi stessi avremmo voluto fare e se lo accettiamoin questo modo riusciamo ad essere ciò che dovremmo essere. Questo ci sottolinea inoltre quanto tutto quello che ha a che fare con le nostre capacità originali e marcate ha una componente religiosa. La vocazione è la chiamata fatta da qualcuno, quindi questo qualcuno ci chiama a fare qualcosa. Ciò ci rimanda al terzo apriori di Simmel.
A cosa ci rimanda la figura del demone? Ci ricorda la figura dell'angelo custode. Nella nostra tradizione i caratteri notturni del demone si sono persi. Nella tradizione greca il demone non è solo buono, e la chiamata non è solo buona. Noi tendiamo a vedere le cose solo da una parte e perdiamo il lato oscuro. Il demone è colui che porta a morire giovane, è smisurato ed standogli dietro, rischiamo di bruciarci. Mentre l'angelo custode pensa solo al tuo bene, il demone non ha problema etici e di conseguenza se la tua vocazione vuole che tu sia un assassino, ti continuerà a guidare sulla strada dell'assassino. Tutte queste dinamiche nella tradizione hanno sempre un versante chiaro e uno scuro. Questo è il motivo per cui i greci lo chiamavano demone, perché è una manifestazione trascendentale, è qualcosa che va aldilà della comprensione e utilizza i mezzi più biechi per percorrere il proprio fine. Questo demone è un compagno che può essere pericoloso. La dinamica del demone come quella della vocazione ci ricordano che noi tendiamo a rimuovere parte della realtà, prendiamo sempre il buono e facciamo finta che il nero non esista, anche se nelle radici delle nostre culture c'è. L'angelo è il momento in cui il trascendente irrompe sulla terra, prende carne; noi stiamo usando questi angeli (nella narrativa) per riprendere consapevolezza e cognizione della nostra vita.
Noi ci dipingiamo regolarmente come i buoni e il fondamento simbolico-operativo è un processo, chiamato da Durand, di eufemizzazione, ovverosia è un processo attraverso il quale si rimuovono dei segni digeribili della realtà e li si trasformano in una sua versione più gestibile; è un modo attraverso il quale rendiamo più accogliente la nostra sezione finita della cultura. Uno dei procedimenti di eufemizzazione più evidenti è il trattamento della divinità, la quale, nella sua versione iniziale terrorizza, perché non tiene a te, non gli importa che tu capisca o no, e questo è il Dio dell'antico testamento. Poi però, questa entità così infinitamente spiazzante e complicata, ci troviamo difronte un padre d'amore nel nuovo testamento. E' lo stesso Dio, ma dopo che lo abbiamo rielaborato e abbiamo tolto pian piano quelle componenti ingestibili, abbiamo ricavato, da un Dio crudele e feroce di prima, ci troviamo un Dio di pace e bontà. Il processo di eufemizzazione è applicabile anche alla memoria. L'eufemizzazione è una strategia umana che ci permette di convivere con delle manifestazioni che sono destabilizzanti, perché vanno aldilà delle nostre capacità di azione. Ma cosa le rende al di fuori della nostra portata? Il fatto che siano trascendenti, quindi appartenenti al di fuori della nostra sezione finita posta all'interno della sezione infinità; è l'uscire dalle mura che ci siamo messi attorno e le abbiamo costruite per un motivo fondante. Dobbiamo ricordarci costantemente che c'è una chiamata da fuori.
Quindi infine cosa ci dice il mito di Er? Che probabilmente esiste in noi una dimensione trascendente, la quale può essere interpretata differentemente. Questa consapevolezza del trascendente ha a che fare con la nostra vita lavorativa e con le nostre capacità.Quindi nella vita si ha una componente di causalità(angelo che ti ricorda cosa avevi scelto nella vita precedente), ma in fin dei conti siamo noi a scegliere la nostra vita, senza però tralasciare la componente casuale-trascendentale per la quale tu sarai sempre portato. QUINDI NON PUOI NASCERE TONDO E MORIRE QUADRATO. Rimarrai sempre portato per la tua componente casuale-----3 apriori per simmel, esiste un posto nel mondo dove io posso essere me stesso-
AURIGA. La biga è trainata da una coppia di cavalli, uno bianco e uno nero. Il bianco rappresenta il bene mentre il nero il male, l’auriga che gestisce i cavalli rappresenta la ragione che non si muove in modo autonomo ma ha solo il compito di guidare.
MITO DI ZEUS- Zeus ebbe un figlio da Alcamena, Eracle. Poiche egli teneva alla sua prol, inventò uno stratagemma per donare al figlio l’immortalità.Mentre la moglie Era dormiva, le attaccò al seno Eracle cosi che il latte divino operasse nel miracolo. Il bambino però strinse troppo forte il seno di Era, svegliandola, e facendo schizzare un fiotto di latte sulla volta celeste, dove da allora rimase per indicare la strada per il palazzo di Zeus.