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GLI OBLATI NEI MONASTERI AGOSTINIANI NEL MEDIOEVO

Esaminando attentamente la documentazione antica di S. Chiara da Montefalco (processo di canonizzazione, biografia di Berengario e relazione dei tre cardinali) ci si imbatte in alcune figure particolari a cui Chiara era molto legata: si tratta degli Oblati.

GLI OBLATI NEI MONASTERI AGOSTINIANI NEL MEDIOEVO. Articolo I. Esaminando attentamente la documentazione antica di S. Chiara da Montefalco (processo di canonizzazione, biografia di Berengario e relazione dei tre cardinali) ci si imbatte in alcune figure particolari a cui Chiara era molto legata: si tratta degli Oblati. Innanzitutto vediamo il significato di questa parola: viene da oblatus,participio passato del verbo latino offero, offers, obtuli, oblatum, offerre, che vuol dire offrire. Offrire che cosa? E a chi? Gli oblati erano di entrambi i sessi, c’erano dunque oblati ed oblate; essi erano conosciuti anche con il termine di conversi o converse. Costoro erano persone laiche che sceglievano di consacrarsi in qualche modo a Dio offrendosi al servizio di conventi, monasteri, ospedali ed altre istituzioni ecclesiastiche. Essi, però, non si limitavano a prestare la loro opera in favore di un convento, di un monastero o di un ospedale, bensì offrivano all’ente di riferimento anche tutti i loro beni. Era quindi una consacrazione laica, ma che aveva una forte incidenza sulla vita di queste persone. Non si trattava dei terziari secolari degli ordini mendicanti (Agostiniani, Francescani e Domenicani) tanto celebri dal XIII secolo in poi: questi infatti si impegnavano a vivere il Vangelo rimanendo nel loro stato di vita e nelle loro case; gli oblati, invece, dovevano lasciare le loro abitazioni per andare a vivere nei pressi dei conventi o monasteri a cui si erano offerti, si verificava, dunque, un grande cambiamento di vita anche se non di stato. Non bisogna confondere gli oblati nemmeno con i penitenti che proprio in quei secoli conoscevano una vera esplosione diffondendosi in Italia ed in Europa: in Francia, Belgio, Germania, ed altrove essi erano chiamati Beghine o Begardi, in Italia, invece, furono noti con il termine di penitenti; quei terziari degli ordini mendicanti che sceglievano di vivere in questo modo erano chiamati Bizzochi, Pinzocheri, etc., mentre i loro reclusori erano i Bizzocaggi. Essi non seguivano nessuna regola monastica, non avevano organizzazione giuridica, ma vivevano spontaneamente una dura vita di penitenza, di preghiera e di elemosina. Alcune persone, soprattutto donne, si riunivano in comunità rinchiudendosi in piccoli reclusori sparsi un po’ dovunque (un esempio illuminante è proprio il caso di Giovanna di Damiano che a Montefalco nel 1271 si rinchiuse con alcune compagne in un piccolo reclusorio alle quali nel 1274 si unì la sorellina Chiara di appena 6 anni). Non erano oblati i sindaci e procuratori che lavoravano per i conventi o monasteri: si trattava di persone laiche o ecclesiastiche esperte in materie giuridiche ed economiche di cui ci si serviva per seguire affari complicati o beghe giuridiche che i frati o le religiose non potevano seguire per mancanza di tempo o perché troppo complesse; i sindaci o procuratori rimanevano in carica solo per un certo periodo e solamente per sbrigare certe faccende ed erano pagati. Il fenomeno degli oblati nacque verso il XII secolo in ambiente benedettino, ma dal XIII secolo in poi ebbe un grande sviluppo negli ordini mendicanti, i quali si servivano degli oblati per mandare avanti la vita quotidiana dei loro conventi o monasteri. Essi sbrigavano le faccende ordinarie: piccoli lavori, commissioni da parte della comunità, secondo le loro capacità; se c’era bisogno dovevano anche andare a fare la questua chiedendo l’elemosina. Un ruolo molto importante gli oblati lo avevano negli ospedali perché si occupavano in prima persona dell’assistenza agli ammalati, ai poveri, ai derelitti, ai pellegrini ed ai viaggiatori che usufruivano dei servizi di queste istituzioni (gli ospedali nel passato non erano certo come oggi, ma erano ospizi che davano assistenza non solo ai malati, ma a tutti coloro che avevano bisogno, inoltre essi erano enti organizzati come un convento di frati o suore di vita attiva). Nella documentazione medievale riguardante le varie istituzioni ecclesiastiche si può notare una grande presenza degli oblati i quali potevano essere sposati, celibi e nubili, o vedovi. Si registravano casi di coppie che offrivano loro stessi insieme, un’oblazione di coppia, continuando così a vivere e lavorare uniti per il loro monastero o convento, molti di essi, invece, erano vedovi o vedove che volevano così mettersi sotto la protezione di qualcuno offrendo in cambio i loro beni e le loro prestazioni. Non mancano casi di ecclesiastici che si rendevano oblati dei monasteri di cui erano cappellani oppure per la devozione che avevano verso qualche personalità di un monastero, pensiamo al Card. Pietro Colonna che volle essere oblato del monastero di S. Croce per la grandissima devozione che aveva nei confronti dell’abbadessa, sorella Chiara della croce. I vantaggi dell’oblazione erano diversi: i conventi, i monasteri o le altre istituzioni dovevano garantire loro vitto e alloggio per tutta la vita, in tempi difficili come i secoli del medioevo ciò non era da trascurare. Potevano essere difesi dalle angherie dei malviventi, ma anche dai soprusi dei vari signorotti locali o perfino delle pubbliche istituzioni. In cambio i conventi o i monasteri si avvalevano di persone che lavoravano gratuitamente, ma soprattutto ne acquisivano i beni; gli oblati, dunque, erano anche una fonte di arricchimento. Nei momenti di crisi, però, essi potevano diventare anche un problema nel senso che, dovendo i conventi o monasteri mantenere gli oblati, quando scarseggiavano i viveri i primi ad esserne privati erano proprio loro, ma non era facile liberarsene perché l’oblazione era un atto pubblico con conseguenze giuridiche, come vedremo successivamente Articolo II. Le fonti giuridiche che ci tramandano i riti di oblazione dei conversi o oblati sono diverse: vi si accenna in vari documenti pontifici; alcune regole monastiche prescrivono norme ben precise per gli oblati (ad esempio la regola di Urbano IV per le Clarisse in cui il cap. XX è dedicato proprio ai conversi); le informazioni più numerose, però, ci sono fornite dagli atti di oblazione ai conventi o monasteri. Se si dà uno sguardo d’insieme a tutto questo materiale documentario si può ricostruire con precisione il rito di oblazione con le sue varianti. Alla sua formazione vi concorsero diversi elementi: i riti della professione religiosa in vigore negli Ordini mendicanti, alcuni elementi della professione monastica, ma soprattutto il contratto feudale, tanto diffuso in quei secoli. Nell’epoca classica del feudalesimo (secc. X-XIII) il contratto fra il feudatario ed il vassallo si stipulava quando quest’ultimo entrava al servizio del signore, ed avveniva così: il candidato (junior) si inginocchiava e metteva le mani giunte in quelle del feudatario (senior). Questo gesto era l’immixtio manuum, centro di tutta la cerimonia, con esso il vassallo si metteva sotto la protezione del signore (commendatio) promettendogli la sua fedeltà. Il signore si impegnava a sua volta alla difesa ed alla protezione del vassallo (tuitio); come segno di accettazione, il feudatario gli dava il bacio della pace (osculum pacis) per suggellare questo patto in modo solenne. Questa procedura fu introdotta nella vita religiosa dai Canonici regolari fin dall’XI secolo all’inizio del noviziato, ma gli Ordini mendicanti (Agostiniani, Francescani, Domenicani, Servi di Maria, etc.) nel XIII secolo la posero al centro della professione religiosa perché con l’immixtio manuum il candidato esprimeva la sottomissione e l’obbedienza al Superiore Generale del proprio Ordine o ad un suo rappresentante, contrariamente alla professio super altare che invece prevedeva la ffedeltà ad un luogo, questa professione era caratteristica degli Ordini monastici come i Benedettini. Una tale scelta fu giustificata dalla vita apostolica itinerante tipica dei frati degli Ordini mendicanti i quali cambiavano spesso convento, mentre l’autorità del Superiore Generale a cui si doveva l’obbedienza rimaneva sempre valida in ogni luogo. Come nel caso dei religiosi e delle religiose, ogni persona che desiderava offrirsi ad un convento o monastero per vivere santamente, salvare la sua anima e quelle dei suoi parenti defunti, e consacrarsi in qualche modo a Dio, doveva chiedere al superiore o all’abbadessa di essere accettato come oblato. Il superiore allora convocava il capitolo conventuale e sottoponeva ai suoi confratelli la domanda di colui o colei che avevano espresso l’intenzione di offrirsi come oblati. Si procedeva ad una discussione molto franca sulla vita del candidato,sull’opportunità o meno di accettarlo. Innanzitutto si discuteva sulla sua condotta morale, ma anche sulla sua situazione economica e la salute fisica: non si voleva certo aggravare la comunità con un altro ammalato o povero, sarebbe stato un ulteriore peso. Il capitolo si concludeva con la votazione: se i voti favorevoli erano i due terzi il candidato veniva accettato, in alcuni luoghi era sufficiente la metà più uno dei voti. Per votare si usavano le fave bianche per il voto favorevole, quelle nere per il voto contrario. Dopo la pronuncia positiva del capitolo il candidato poteva affrontare un periodo di prova e di preparazione prima dell’oblazione vera e propria, ma non sempre: a volte il rito di oblazione avveniva poco dopo la delibera del capitolo. I riti di oblazione dei conversi si rifacevano a quelli della professio in manibus di cui abbiamo parlato, infatti l’oblato non offriva soltanto la sua fedeltà, la sua obbedienza, ma se stesso e tutti i suoi beni. Coloro che entravano nella vita religiosa dovevano rinunciare ai beni vendendoli o lasciandoli a qualcuno; gli oblati, invece, dovevano donare i loro beni al convento o monastero a cui si offrivano. Diversamente dai religiosi degli Ordini mendicanti, gli oblati, oltre a prestare obbedienza al superiore della comunità, dovevano impegnarsi anche ad essere fedeli a quel luogo specifico: gli oblati non potevano trasferirsi da un convento ad un altro, quindi nei riti di oblazione c’era anche l’impegno del candidato alla stabilitas loci (con essa egli si impegnava a risiedere sempre presso quel convento o monastero) ed alla conversatio morum (con essa egli si impegnava a vivere un’irreprensibile vita virtuosa), si tratta di elementi tipici della professio super altare degli antichi Ordini monastici. Queste due caratteristiche, la stabilitas loci e la conversatio morum, furono adottate anche da quelle comunità femminili non di clausura, in quanto gli elementi citati avevano un valore vincolante. Le cerimonie di oblazione avvenivano nella chiesa del convento o monastero, vicino all’altare, proprio per significare la doppia valenza dell’atto che il candidato si accingeva a compiere: fedeltà al luogo simboleggiata dall’altare, ed al superiore rappresentata dall’immixtio manuum. Spesso il candidato esprimeva la sua volontà di oblazione con una formula pronunciata ad alta voce, per rendere più solenni gli impegni presi. A ricevere l’oblazione era in genere il superiore del convento o l’abbadessa del monastero, ma molte volte lo faceva anche il vicepriore dei frati, mentre nei monasteri ciò era di esclusiva competenza dell’abbadessa. Era presente tutta la comunità riunita in capitolo perché il superiore accettava l’oblazione in nome del Generale e del capitolo conventuale; in molti atti la comunità viene nominata per esteso. Di tutto questo, naturalmente, il superiore locale era tenuto ad informare i superiori Provinciale e Generale del suo Ordine. Articolo III. Negli anni 30 del secolo scorso il p. Saturnino lópez fece una capillare ricerca negli archivi di Gubbio a caccia di documenti riguardanti il convento di S. Agostino di quella città e li pubblicò nei voll. XVI e XVII di Analecta Augustiniana in una grande raccolta intitolata Documenta eugubina; tra questi ci sono numerosi atti di oblazione che vanno dal 1293 al 1518 fornendoci un ampio quadro degli sviluppi giuridici della figura dei conversi: riportiamo alcuni esempi. nell’atto di oblazione di Mattiolo di Paganuccio di Ventura di Gubbio del 17 aprile 1364 si legge: “... secondo il modo e la forma del privilegio degli oblati concesso al detto Ordine dal sommo pontefice”. (la traduzione di tutti i brani tra virgolette è nostra). Si riferisce probabilmente alla bolla Religiosam vitam suscipientibus promulgata a Rieti da Nicolò IV il 23 agosto 1289 con cui poneva l’Ordine agostiniano sotto la sua diretta protezione. Parlando degli oblati afferma: “Poniamo sotto la sola potestà della Sede apostolica le persone in qualunque modo offertesi a voi come esenti per qualsiasi loro mancanza come siete voi stessi (cioè il Priore Generale ed i frati dell’Ordine) e lo affermiamo con il privilegio del presente documento, non impedendolo nessun decreto o altra legge sui frati. Disponiamo così di obbligare anche gli oblati che non portano l’abito alle osservanze regolari, affinché servano incessantemente Dio ed il vostro Ordine, conducano la loro vita nella gravità dei costumi, e quando giungeranno alla fine della vita, non possano scegliere la sepoltura fuori dal vostro Ordine, ma siano deposti dai loro confratelli nella cripta comune dei vostri frati”. Gli esempi seguenti dimostrano che l’Ordine agostiniano aveva recepito diffusamente questo privilegio. Il 3 dicembre 1293 “la signora Druda di Giacomo, moglie del fu Mattia di Forte, volendo aderire alla vita religiosa, si è offerta come conversa e familiare della chiesa o luogo di S. Agostino di Gubbio ed ha offerto i suoi beni alla detta chiesa o luogo per la redenzione dell’anima sua, di suo marito, di suo figlio e dei suoi parenti. Ed ha fatto e ha offerto ciò a Dio, al B. Agostino ed a fr. Deodato priore della detta chiesa o luogo che l’ha ricevuta per conto ed in nome del detto luogo”. Il priore ed il capitolo dei frati accettarono Druda come conversa e familiare, “e l’hanno ricevuta all’obbedienza, alla riverenza ed alla stabilità del luogo ammettendola a tutti e singoli benefici di detta chiesa o luogo che competono o in futuro potranno competere ai conversi di detta chiesa o luogo”. Il 19 dicembre 1342 “Uderighello di Angelo, del quartiere di S. Giuliano di Gubbio, e la signora Flora sua moglie presente e consenziente dandogli il permesso, spontaneamente e di loro iniziativa, volendo provvedere alla salvezza delle loro anime ed intendendo regolare in seguito il resto della loro vita e desiderando di finire la loro vita sotto la Regola del Beato Agostino, si sono offerti a Dio, alla Vergine Maria sua Madre ed al Beato Agostino, con le mani unite alle mani del religioso uomo frate Angelo di Galgata vicepriore del convento di Gubbio dell’Ordine dei frati Eremitani di S. Agostino, che li ha ricevuti a nome e per contodel detto convento e dei suoi successori in questo modo: Noi, Uderighello di Angelo e Flora, moglie del detto Uderighello, offriamo a Dio ed al Beato Agostino e promettiamo obbedienza e riverenza fino alla morte, secondo il modo e forma contenuti in questa regola. E il sopradetto frate Angelo vicepriore, accettandoli come oblati tra le sue mani, ha detto: Ed io, in nome e per conto del sopradetto convento, vi ricevo ed accetto come oblati del detto convento ed Ordine”. Questa cerimonia non avvenne in chiesa, come al solito, ma in casa dei due coniugi alla presenza dei testimoni, figure che non mancano mai nelle oblazioni. Interessante la formula che recitano gli oblati di cui ci sono pochi esemplari, mentre la risposta del superiore accettante è sempre riportata. Questo è lo schema di base di tutti gli atti di oblazione, i quali pian piano si andavano arricchendo di particolari formule giuridiche sempre più complesse, ma senza alterarlo. Il 10 gennaio 1355 “Maffeo, nato dal fu Villano del sig. Maffeo di Gubbio e del quartiere di S. Andrea, non per forza, non per malevolo inganno, ma in piena consapevolezza e non per errore, considerando che regnare non è altro che servire Dio, bramando e desiderando la salvezza della sua anima e volendo vivere in perpetuo sotto la Regola e con l’abito del Beato Agostino; si è offerto in ginocchio e con le mani unite tra le mani del religioso uomo frate Pietro Perugino di Gubbio priore del luogo e convento dei frati Eremitani di S. Agostino vicino a Gubbio, che lo ha accettato in nome e per conto del detto luogo, del predetto capitolo e convento, e dei suoi successori in questo modo: Io, Maffeo predetto, mi offro a Dio e al Beato Agostino e prometto al detto priore che mi riceve come sopra, obbedienza e riverenza fino alla mia morte, secondo il modo e la forma della Regola del Beato Agostino e vivere in perpetuo in questa Regola. E ha giurato sui santi Vangeli di Dio, toccando fisicamente le Scritture, di osservare le cose predette per quanto possibile secondo il rito e l’ordine della sopradetta Regola. Frate Pietro priore sopradetto, ha benignamente ricevuto ed ammesso il detto Maffeo come oblato tra le sue mani dicendo: Io, Fr. Pietro priore predetto, in nome e per conto del detto luogo, ricevo ed accetto te Maffeo come oblato del sopradetto luogo secondo il modo e l’ordine contenuti in detta Regola”. La cerimonia avvenne presso l’altare alla presenza di due testimoni. In questa raccolta vi sono tanti altri atti, ma pensiamo di aver fornito un quadro sufficiente per rendersi conto di come avvenivano le cerimonie di oblazione, ovviamente ogni documento riporta particolari propri, ma la procedura era ormai consolidata. Articolo IV. Il 10 giugno 1290 il reclusorio di S. Croce di Montefalco ricevette dal vescovo di Spoleto Gerardo la regola di S. Agostino; da allora divenne un monastero che si organizzò secondo un modello molto diffuso allora tra i monasteri: regola agostiniana; obbedienza vescovile; direzione spirituale varia (la maggior parte dei confessori erano frati Minori); tradizioni e consuetudini proprie che continuavano quelle penitenziali delle origini. La prima abbadessa fu naturalmente Giovanna di Damiano, dopo la sua morte (22 novembre 1291) venne eletta all’unanimità nuova abbadessa la sorella, Chiara di Damiano della Croce. Come tanti altri anche il monastero di S. Croce di Montefalco si valse dell’opera degli oblati. Nella documentazione più antica di S. Chiara ne troviamo alcuni esempi: certamente erano più numerosi, ma sono stati citati soltanto quelli che ebbero un ruolo importante. La prima cosa che colpisce è la variante procedurale che l’abbadessa Sorella Chiara della Croce aveva apportato al rito di ricezione degli oblati. Scrive Berengario: “Quando riceveva del denaro o altro attraverso la finestra, o riceveva gli oblati per l’obbedienza, nascondeva la faccia e copriva col mantello le mani prima di stenderle per l’accoglienza”. E prosegue raccontando questo episodio: “Volendo essa ricevere Raino come oblato, il canonico Tommaso le disse: - Bisogna che tu lo riceva con le mani scoperte, come fanno le altre abbadesse -. Ma Chiara rispose: - Io non farò così”. (Berengario di Donadio, Vita di Chiara da Montefalco, traduzione a cura di Rosario Sala OSA). Ella non rinunciò mai alla sua rigorosissima linea di condotta, a costo di cambiare le procedure. Questo comportamento è ampiamente attestato anche nel processo di canonizzazione. Sr. Giovanna di Egidio afferma: “Quando ricevette Massolo e Raino come oblati, coprì le sue mani con il mantello quando li ricevette; ...”. Sr. Tommasa di Angelo aggiunge: “ ... vide e fu presente quando la predetta santa Chiara ricevette come oblati del monastero Raino, Tommaso e frate Ventura, che li ricevette con le mani coperte dal suo mantello ...” (Traduzione nostra. Addirittura un cardinale volle essere oblato del monastero di S. Croce per la devozione che nutriva verso Chiara: si tratta di Pietro Colonna. Scrive Berengario: “Passato del tempo, un uomo venerabile, poco dopo innalzato al cardinalato della Chiesa romana, pregò con molta insistenza che (Chiara) lo ricevesse sotto la sua protezione spirituale. Solo con molta difficoltà Chiara accettò di acconsentire alle sue preghiere, perché non aveva abitudine di tali accoglienze, ma, non immemore dell’abituale onestà, prima si coprì le mani col mantello” (Vita di Chiara da Montefalco, traduzione di Rosario Sala OSA). Nelle vicende di Chiara e del monastero si incontrano spesso gli oblati. Massolo di Andreetto da Montefalco, teste al processo di canonizzazione, fu ricevuto come oblato dalla stessa santa. Tra l’altro la mattina in cui Chiara morì (sabato 17 agosto 1308) entrò in monastero al seguito del dottor Simone da Spello. Il giorno precedente Chiara lo aveva inviato a Spoleto a chiamare il fratello Francesco. La sua attività per il monastero è molto documentata dal 5 gennaio 1307 al 23 gennaio 1354. Frate Ventura da Trevi, detto “santo Ventura”; si trattava forse del santo eremita che viveva nell’oratorio di S. Marco. Fu grande ammiratore di Chiara; morì l’11 luglio 1310. (Per le notizie sugli oblati cf. Silvestro Nessi, Schede biografiche, in Il processo di canonizzazione di Chiara da Montefalco). Fin qui la storia. Può riproporsi oggi un tipo di consacrazione laica come quella degli oblati? Se esaminiamo la situazione odierna ci rendiamo subito conto che è dominata da una grande fragilità psicologica delle persone, non più all’altezza di scelte durature e definitive come quelle vocazionali: il matrimonio e la consacrazione sacerdotale e religiosa. Forse oggi sarebbero necessarie tappe intermedie che permettano all’individuo di realizzare le sue buone intenzioni senza sentirsi schiacciato dal peso di impegni definitivi percepiti come troppo pesanti. L’oblazione potrebbe essere un valido strumento: vivere vicino o dentro ai conventi o monasteri facendo vita con i religiosi senza emettere voti solenni può invogliare più di qualcuno a consacrarsi a Dio esercitando le opere in favore di una comunità. Dal versante dei consacrati avere persone che li aiutano nella vita di ogni giorno può essere una valida soluzione visto che ormai molte comunità sono formate da pochi anziani con tanti problemi. Si tratta di studiare giuridicamente questa figura inquadrandola nei vari livelli di consacrazione laica oggi esistenti; gli oblati dovrebbero essere diversi dai terziari dei vari ordini o dalle donne che costituiscono l’Ordo virginum poiché essi non rimarrebbero nelle loro case, ma dovrebbero trasferirsi in un convento o monastero per stare fianco a fianco ai religiosi. Bisogna disegnare un itinerario di formazione molto efficace: un periodo di probandato, un noviziato più o meno lungo; una cerimonia che ricalchi le professioni degli oblati medievali. Auspichiamo che gli ordini religiosi, così carenti di vocazioni e con mille problemi, propongano di reintrodurre nella Chiesa gli oblati; tanto più che alcuni già li hanno, ad esempio l’Ordine Benedettino. Mauro Papalini