ARCHIVIO
DI STORIA DELLA CULTURA
ANNO XXX - 2017
ESTRATTO
LIGUORI EDITORE
L’«Archivio di Storia della Cultura» è una pubblicazione periodica della
Fondazione Pietro Piovani per gli Studi Vichiani.
Autorizzazione del Tribunale di Salerno n. 688 del 16.11.1988
«Archivio di Storia della Cultura» is a Peer-Reviewed Journal
Volume XXX - Anno 2017
ISSN 1124 - 0059 (edizione a stampa)
eISSN 2037 - 688X (edizione digitale)
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Prima edizione italiana Settembre 2017
ISBN
eISBN
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978 - 88 - 207 - 6734 - 1 (eBook)
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ARCHIVIO XXX (2017)
SOMMARIO
FULVIO TESSITORE, Trent’anni
pag.
1
ANNA MOTTA, La virtù basta da sola a dare la felicità?
Sulle fonti platoniche dell’etica stoica ciceroniana
”
9
SALVATORE GIAMMUSSO, Liberalità e virtù pratiche nel De Officiis di
Cicerone
”
27
ROBERTO BORDOLI, Critica e Aufklärung. La controversia su Mosè
(1685-1686): Jean Le Clerc contro Richard Simon
”
63
FRANCESCO TOTO, Dom Deschamps e «il grido della verità».
L’epurazione del linguaggio tra antropologia e politica
”
79
GIOVANNI MORRONE, Intuizione e interesse nella conoscenza storica.
Il “primo” Croce e Windelband
”
97
MATTEO PIETROPAOLI, Heidegger e la critica del soggetto
fenomenologico tra dogmaticità e tradizione moderna.
Sul corso universitario Prolegomeni alla storia del concetto di tempo (1925)
”
137
DOMENICO CONTE, Im Brunnen der Vergangenheit.
Thomas Mann und die Geschichte
”
153
ANTONELLO GIUGLIANO, Imago – imitago. Note filosofiche sullo status
storico e metafisico del concetto di immagine (Warburg, Benjamin,
Heidegger, Nancy)
”
171
MEMORIE
VIII Sommario
GIUSEPPE AUTERI, La teoria kantiana del male radicale e la riflessione
hegeliana sull’esperienza comune del dolore nella fenomenologia
dell’esistenza di Giuseppe Capograssi
”
209
PAOLO CASTALDO, “Lorenzo Valla filosofo”: studi e problemi
”
223
MARIANNINA FAILLA, La dialettica della giustificazione. Lutero versus
Lutero
”
237
ILARIA FERRRA, Bellezza e moralità: note generali per un concetto di
”
257
GIOVANNI SGRO’, Forgiata con l’«unico metallo della libertà».
L’interpretazione e lo sviluppo critico della Filosofia del diritto di Hegel
in Eduard Gans
”
285
CHIARA RUSSO KRAUSS, Per un riesame dell’empiriocriticismo
”
309
GIAN PAOLO CAMMAROTA, Esperienza come sapere, conoscere, esserenel-mondo
”
325
MARIA DELLA VOLPE, Benedetto Croce e la Germania anticristiana
”
347
FULVIO TESSITORE, Quarte note critiche di storia della cultura.
I. Ancora su Droysen politico e non solo; II. Storicismo e relatività, una
divagazione a partire da Otto Hintze; III. Francesco Gabrieli a trent’anni dalla
morte; IV. Una nota di Cesare Segre su Américo Castro; V. Minima Senilia
(aut Optima?)
”
357
FRANCESCO DONADIO, Nota alla traduzione italiana della Lettera a Voltaire
sul carattere del Dr. Martin Lutero e sulla sua riforma, di Justus Möser
”
387
JUSTUS MÖSER, Lettera a Voltaire sul carattere del Dr. Martin Lutero e
sulla sua riforma
”
401
ROBERTA VISONE, Un progressista con «antipatie per la riforma»:
Herbert Spencer tra gradualismo e anarchia
”
413
HERBERT SPENCER, Il diritto di ignorare lo stato
”
437
GIANCARLO MAGNANO SAN LIO, Maometto nella cultura europea del
diciannovesimo secolo: alcune considerazioni diltheyane
”
449
WILHELM DILTHEY, Maometto
”
457
DISCUSSIONI E RASSEGNE
καλοκαγαθία nel pensiero di Immanuel Kant
TESTI
Sommario IX
EDOARDO MASSIMILLA, Tipi ideali, storicismo come Weltanschauung e
altro ancora: intorno a quattro lettere di Max Weber a Heinrich Rickert
”
465
MAX WEBER, Quattro lettere a Heinrich Rickert (1904-1905)
”
487
ANDREA DI MIELE, Socialismo, nazione e pacifismo nel giovane Banfi
attraverso alcuni inediti
”
499
ANTONIO BANFI, Inediti (1915-1916)
”
519
PER UN RIESAME DELL’EMPIRIOCRITICISMO*
di Chiara Russo Krauss
1. Il termine “empiriocriticismo” nella storia della filosofia viene utilizzato d’abitudine per indicare il pensiero di due autori: Ernst Mach e Richard Avenarius.
Quest’uso è tanto sedimentato che spesso non ci si interroga sul fondamento e
la legittimità di tale associazione, che viene accettata acriticamente come un dato
acquisito.
La tendenza a trattare questi due pensatori come una sorta di entità unica è
stata facilitata tanto dalla fama indiscussa di Mach, quanto dalla speculare, sostanziale ignoranza che affligge il pensiero di Avenarius negli studi contemporanei.
Il risultato è che nella “stella doppia” Mach-Avenarius, l’astro “minore” è stato
progressivamente attratto nell’orbita di quello più grande e luminoso, finché non
ha finito per fondersi e scomparire in esso. Così, se il nome di Avenarius continua
a comparire ancora oggi, è per lo più come mero accompagnamento a quello di
Mach, privato però di una identità filosofica propria.
Di certo anche Avenarius non è esente da colpe per la scarsa considerazione
delle sue opere, avendo adoperato un linguaggio tanto ostico e saturo di neologismi da far dire allo stesso Mach che «è chiedere troppo a un uomo già avanti
negli anni di imparare, oltre alle molte lingue dei popoli, anche la lingua di un
singolo»1. Non a caso, l’impressione che si ricava leggendo i molti studi che citano
Avenarius schiacciandolo sulle idee di Mach, è che quest’ultimo venga utilizzato
*
Questo saggio è una traduzione e rielaborazione dell’intervento tenuto al Colloque international “Ernst Mach: genèse et actualité d’une philosophie de l’expérience”, 7-8 ottobre 2016,
Université Paris 1 - Panthéon-Sorbonne.
1
E. Mach, Die Analyse der Empfindungen und das Verhältniss des Physischen zum Psychischen, Jena,
19002, pp. 35-36; tr. it. a cura di. L. Sosio, L’analisi delle sensazioni e il rapporto fra fisico e psichico, Milano, 1975, p. 72.
310 Archivio di Storia della Cultura – Anno XXX-2017
come una scappatoia per evitare di confrontarsi con i difficili testi di Avenarius,
dando quindi per presupposta quella somiglianza tra le loro idee che dovrebbe invece
essere tutt’al più un risultato dello studio delle loro rispettive concezioni filosofiche.
Lo scopo di questo lavoro è quindi proporre un breve confronto delle posizioni di Avenarius e Mach, così da evidenziare le eventuali somiglianze e differenze
tra le loro idee e, per ciò stesso, le condizioni e i limiti dell’impiego del termine
“empiriocriticismo” come etichetta comune.
2. Prima di addentrarci nel contenuto delle loro filosofie sarà bene però fissare
alcuni dati di carattere storico sull’origine del termine “empiriocriticismo”, nonché
sui rapporti personali tra Mach e Avenarius.
Il primo a nascere fu l’aggettivo “empiriocritico”, chiaro esempio di quei tanti
neologismi impiegati da Avenarius nelle sue opere di cui or ora dicevamo. Fu solo
in un secondo momento, durante uno degli incontri colloquiali tra Avenarius e i
suoi allievi, che si scelse di adoperare il sostantivo corrispondente – “empiriocriticismo” – per indicare l’indirizzo filosofico inaugurato da Avenarius e sostenuto
dai suoi seguaci2.
Per quel che riguarda i rapporti personali tra Mach e Avenarius bisogna invece
rilevare come essi rimasero sempre su un piano esclusivamente epistolare3. In
particolare il primo scambio di lettere risale al 1882, quando i due si inviarono a
vicenda le loro opere già pubblicate, ovvero Die Geschichte und die Wurzel des Satzes
von der Erhaltung der Arbeit (1872) di Mach, e Philosophie als Denken der Welt gemäss
dem Princip des kleinsten Kraftmasses: Prolegomena zu einer Kritik der reinen Erfahrung
(1876) di Avenarius.
In entrambi gli scritti si sostiene quella concezione economica della conoscenza che è tradizionalmente considerata uno dei tratti distintivi dell’empiriocriticismo. Difatti nel suo testo Mach afferma che «se tutti i fatti individuali, tutti
i singoli fenomeni fossero immediatamente accessibili una scienza non sarebbe
mai nata», ma «poiché la forza di comprensione [Fassungskraft] del singolo, la
sua memoria, è limitata, allora il materiale deve essere organizzato»4; similmente,
Avenarius dichiara che, «dal momento che l’energia a disposizione dell’anima per
sviluppare le rappresentazioni non è infinita, ci aspettiamo che l’anima si sforzi di
eseguire i processi appercettivi con un impiego di forza relativamente minimo»5.
Dunque tanto Mach quanto Avenarius ritengono che il sapere umano – e
più in particolare la scienza – sia mosso dal contrasto tra la limitata capacità di
2
F. Carstanjen, Der Empiriokritizismus: zugleich eine Erwiderung auf W. Wundts Aufsätze “Über naiven
und kritischen Realismus”, in «Vierteljahrsschrift für wissenschaftliche Philosophie», XXII (1898), pp.
45-95, pp. 190-214, pp. 267-293, p. 54.
3
Stesso Mach in una delle sue opere sottolinea di non aver mai conosciuto il collega di persona
(cfr. E. Mach, Die Analyse der Empfindungen, cit., p. 37; tr. it. cit., p. 72.
4
E. Mach, Die Geschichte und die Wurzel des Satzes von der Erhaltung der Arbeit, Prag, 1872, p. 31.
5
R. Avenarius, Philosophie als Denken der Welt gemäss dem Princip des kleinsten Kraftmasses: Prolegomena
zu einer Kritik der reinen Erfahrung, Leipzig, 1876, p. 3.
Per un riesame dell’empiriocriticismo 311
tenere a mente i fatti da un lato, e la quantità di fatti da tenere a mente dall’altro,
contrasto che induce a cercare di comprendere, riassumere e organizzare quanti
più fatti possibile nel modo meno dispendioso possibile.
Considerando ciò, non stupisce che dopo lo scambio di opere i due pensatori
si felicitassero della scoperta di questa convergenza di opinioni. Nella sua risposta
a Mach, Avenarius – pur non mancando di sottolineare di essere venuto a conoscenza dell’opera del collega «solo dopo la composizione e pubblicazione del mio
libretto» – esprime la sua felicità nel notare che «un approccio simile ha portato,
sotto diversi aspetti, a concezioni simili»6. Mach, invece, dichiara pubblicamente
la sua affinità con Avenarius in Die Mechanik in ihrer Entwicklung historisch-kritisch
dargestellt (1883), affermando: «Oggi non sono più il solo a sostenere la mia idea
fondamentale che la scienza sia essenzialmente una economia di pensiero […].
Infatti concetti molto simili ha trattato, a suo modo, R. Avenarius, e con ciò mi
ha procurato molta soddisfazione»7.
Qualche anno più tardi Mach torna a esprimersi più diffusamente sulla sua affinità con Avenarius in un capitolo di Die Analyse der Empfindungen (1900), intitolato
appunto “I miei rapporti con Richard Avenarius”. Ancora una volta Mach segnala
l’economia di pensiero come uno dei temi su cui le loro posizioni convergono,
ma ora aggiunge anche altri due punti in comune: il fatto che «in conformità con
lo stimolo dato da Darwin, interpretiamo tutta la vita psichica, inclusa la scienza,
come un fenomeno biologico» e, soprattutto, «la concezione del rapporto tra l’ambito fisico e quello psichico», ovvero l’idea che se si parte dall’unità dell’esperienza
non c’è contrapposizione tra sfera mentale e materiale8.
Considerando quanto detto finora la situazione sembra piuttosto semplice,
in quanto l’“empiriocriticismo” appare caratterizzato da tre temi: la concezione
economica della conoscenza, l’interpretazione biologica del pensiero umano, e
il monismo dell’esperienza in opposizione al dualismo psico-fisico. Se però ci
fermiamo a questa affinità superficiale rischiamo di non vedere come questa intersezione tra Mach e Avenarius nasca da due traiettorie differenti. E se non si
considerano queste traiettorie differenti si ricade nel vecchio errore di sovrapporre
Mach ad Avenarius.
3. Rivolgendo l’attenzione al percorso intellettuale compiuto da Avenarius possiamo subito notare una peculiarità, ovvero il fatto che la sua carriera è divisa in
due fasi, separate da una assenza quasi decennale dalle pubblicazioni. Dopo aver
dato alle stampe l’opera precedentemente citata e alcuni articoli tra il 1876 e il
1879, Avenarius torna infatti sulla scena filosofica solo nel 1888, quando esce il
6
Lettera di Avenarius a Mach del 10 giugno 1882, pubblicata in J. Thiele (a cura di), Briefe
deutscher Philosophen an Ernst Mach, in «Synthese», XVIII (1968), p. 287.
7
E. Mach, Die Mechanik in ihrer Entwicklung historisch-kritisch dargestellt, Leipzig, 1883, pp. VI-VII;
tr. it. a cura di A. D’Elia, La meccanica nel suo sviluppo storico-critico, Torino, 2008, p. 28.
8
E. Mach, Die Analyse der Empfindungen, cit., p. 37; tr. it. cit., p. 72.
312 Archivio di Storia della Cultura – Anno XXX-2017
primo volume della Kritik der reinen Erfahrung, cui seguono nel giro di pochi anni
il secondo volume (1890), il breve Der menschliche Weltbegriff (1891) e la serie di
articoli Bemerkungen zum Begriff des Gegenstandes der Psychologie (1894-1895).
Da una lettura di queste ultime opere salta immediatamente all’occhio la
completa scomparsa del tema del “minor dispendio di forza” dalle problematiche
affrontate da Avenarius, tema che era invece il focus del primo libro. Questo significa che la questione dell’economia di pensiero non fa parte del pensiero maturo
di Avenarius.
Questa constatazione introduce sin d’ora un elemento problematico nella
suddetta definizione dell’“empiriocriticismo”, spingendoci inoltre a domandare
quale sia, allora, il contenuto di questa seconda fase della filosofia di Avenarius.
Per rispondere a questa domanda il miglior punto di partenza è il brano del
Weltbegriff, in cui Avenarius scrive:
Credo di poter affermare, sulla base di osservazioni personali, che c’è un’intera schiera di fautori dell’idealismo filosofico, formatisi sulle scienze naturali, che vivrebbero
con sollievo la restituzione del loro precedente ‘realismo’, e che lascerebbero con
gioia che ciò accadesse, se solo sapessero come poter sfuggire dall’‘idealismo’ con la
coscienza pulita – da un punto di vista logico. Ma per loro è un fatto ineliminabile
che, non appena si riflette sulle cose, si giunge allo schema di causa ed effetto, per
cui le cose sono la causa e le ‘sensazioni’ = ‘percezioni’ = ‘fenomeni di coscienza’
sono l’effetto; questi effetti sono valori ‘idealistici’ e questi valori ‘idealistici’ sono
‘ciò che è immediatamente dato’, e quindi – conseguentemente – ‘l’unica cosa che
è data’, a partire dalla quale si potrebbe forse ‘dedurre’ ‘ciò che si trova fuori dalla
coscienza’, stante che ogni ‘dedotto’ dovrebbe nuovamente essere soltanto ‘nella
nostra coscienza’9.
Come si può notare, Avenarius parla di “idealismo” per indicare la concezione
secondo cui avremmo a che fare sempre e solo con i nostri contenuti di coscienza,
ovvero quello che potremmo chiamare, più precisamente, “fenomenismo”.
Da quanto affermato nella citazione si evince che per Avenarius il fenomenismo, sotto un certo aspetto, ha ragione, in quanto, se non vogliamo “sporcarci la
coscienza” (ovvero commettere un peccato contro la logica), non possiamo negare
di avere a che fare sempre e solo con le nostre esperienze. E in effetti, sebbene
Avenarius parli genericamente di “fautori dell’idealismo filosofico”, è in primo luogo
a se stesso che si sta riferendo. Come ricorda nell’Introduzione dell’opera, all’inizio
del suo percorso filosofico egli aveva infatti adottato proprio un punto di vista
“idealistico” (fenomenistico), per poi allontanarsene successivamente10. Come scrive:
Quel che allora mi portò a chiedermi se la “vecchia strada” fosse anche quella
giusta fu la convinzione, divenuta ormai insopprimibile, dell’infruttuosità dell’idea9
R. Avenarius, Der menschliche Weltbegriff, Leipzig, 1891, pp. 108-110; tr. it. a cura di C. Russo
Krauss, Il concetto umano di mondo, Brescia, 2015, p. 225.
10
Cfr. ibid., p. IX; tr. it. cit., p. 53.
Per un riesame dell’empiriocriticismo 313
lismo filosofico-teoretico […] nel campo della psicologia, alla quale la conoscenza
e l’esperienza dovevano pur appartenere come concetti in primo luogo psicologici. In
effetti la trattazione di questi “fatti della coscienza” appariva molto più fruttuosa se
si fosse potuto muovere, con buon diritto gnoseologico, dal campo delle relazioni
tra l’ambiente e l’organo nervoso centrale dell’uomo, e di là “partire”! Ma l’accesso
a questo campo è bloccato dalla scoperta idealistica della “immediata datità della
coscienza”11.
In altre parole Avenarius racconta di come egli fosse diviso dal riconoscimento
di due fatti contrastanti: quello che potremmo chiamare “il fatto della psicologia”,
per cui esperienza e conoscenza dipendono dal rapporto tra ambiente e cervello;
e “il fatto dell’idealismo” (o del fenomenismo), in base al quale l’esperienza e la
conoscenza sono necessariamente il punto di partenza di ogni indagine, in quanto
sono ciò che è dato immediatamente. Dunque il fenomenismo e la psicologia
risultano in conflitto tra loro perché il primo afferma che l’esperienza è qualcosa
di originario, di immediato, laddove invece la psicologia sostiene che l’esperienza è
il risultato dell’interazione tra il cervello e l’ambiente. Il problema di Avenarius è
dunque l’impossibilità da parte del fenomenismo di rendere contro dell’altro fatto,
per cui oltre, prima e al di là dell’esperienza ci sono un ambiente e un cervello da
cui l’esperienza stessa dipende. Per questo motivo lo scopo fondamentale della
filosofia di Avenarius nella seconda fase della sua carriera è risolvere questa contraddizione, conciliando il monismo fenomenistico, proprio in particolare della
filosofia, con il dualismo realistico che caratterizza invece il pensiero comune, le
scienze e in particolare la psicologia.
Il problema che muove Mach è invece del tutto diverso, potremmo dire quasi
opposto. Egli lotta infatti contro le pretese della fisica meccanica, la quale ritiene
di essere l’unica vera scienza perché sola, tra tutte, ad essere in grado di scoprire
la vera realtà materiale al di là dell’apparenza dell’esperienza sensibile. In altre
parole, Mach vuole sconfiggere il realismo dualistico-metafisico secondo cui gli
oggetti di cui tratta la fisica indicherebbero una supposta effettività, contrapposta e sottostante al mero apparire fenomenico. Per questo motivo Mach vede il
fenomenismo come una soluzione. Perché se abbiamo a che fare sempre e solo
con le esperienze, allora non c’è più alcuna contrapposizione tra la fisica e le altre
scienze, in quanto tutte hanno a che fare con un’unica realtà, quella empirica, i
cui dati sono chiamate a organizzare secondo criteri economici.
Viceversa, per Avenarius il fenomenismo non è tanto la soluzione, quanto
il problema. Perché – come sosteneva nella citazione precedente – il suo scopo
è superare l’idealismo dell’immediata datità della coscienza per riconquistare la
capacità di affermare “realisticamente”, come fa la psicologia, che la coscienza
dipende da corpi (ambiente e cervello) esterni ad essa. Dal momento però che la
psicologia parte direttamente dalla dipendenza tra coscienza, ambiente e cervello,
11
Ibid., pp. IX-X; tr. it. cit., pp. 53-54.
314 Archivio di Storia della Cultura – Anno XXX-2017
senza passare prima per l’unico punto di partenza logicamente legittimo, quello
dell’immediata datità della coscienza, essa non risulta (ancora) giustificata da un
punto di vista filosofico-gnoseologico. Quel che bisogna fare è quindi arrivare al
realismo della psicologia partendo dalla prospettiva fenomenista.
Se si parte dal punto di partenza fenomenistico, che è il nostro orizzonte primario e fondamentale, secondo Avenarius dobbiamo riconoscere che l’esperienza
presenta due contenuti fondamentali: «io, con tutti i miei pensieri e sentimenti»
e «l’ambiente»12. Poiché entrambi questi contenuti fanno parte dell’esperienza,
questa concezione non implica affatto quel tipo di contrapposizione per cui da
un lato v’è l’ambiente come “mondo esterno” e dall’altro pensieri e sentimenti
come “esperienza interna”. Ambiente, io, pensieri, sentimenti fanno tutti parte
dell’esperienza, e al di fuori di questa non c’è nulla, perché qualunque cosa, per darsi,
deve darsi empiricamente. Ovviamente può esservi una differenza tra un oggetto
dell’ambiente e il pensiero o il ricordo dell’oggetto. Ma tanto l’oggetto, quanto
il suo pensiero o ricordo sono comunque parte dell’esperienza. In questo senso
Avenarius afferma che nell’esperienza c’è una «dualità», ma nessun «dualismo»13.
Come non c’è alcun “mondo esterno” al di là dell’esperienza, così non può
esservi nemmeno un “cervello esterno”, da cui tale esperienza dipenda, perché
anche questo cervello potrebbe darsi solo se fosse esperito, se ricadesse anch’esso
all’interno dell’esperienza.
Naturalmente si potrebbe obiettare che è ben possibile fare esperienza del
cervello. E lo stesso Avenarius ammette la possibilità di osservare il proprio cervello
attraverso un’apertura del cranio e uno specchio14 (o, traducendo il discorso in termini più attuali, tramite una tomografia computerizzata). Tuttavia, anche se in questo
caso il mio cervello fa parte della mia esperienza, non posso comunque affermare
che la mia esperienza dipende da esso, perché così facendo incorrerei in due problemi
logici: 1) il fatto che la totalità dell’esperienza dipenderebbe da una sua parte; 2)
il fatto che il cervello, proprio in quanto esperienza, dipenderebbe anch’esso dal
cervello, risultando così una sorta di esperienza che è causa di se stessa.
Dunque, come affermava in precedenza Avenarius, partendo dalla pur legittima prospettiva fenomenistica sembra impossibile poter affermare che l’esperienza
dipende dal cervello, sia esso fuori o dentro l’esperienza.
Per evitare questo cul de sac bisogna quindi fare un passo avanti. Ovvero
riconoscere che nella mia esperienza non ci siamo solo io e l’ambiente, perché di
questo ambiente fanno parte anche altre persone, i miei simili, i quali – proprio
in quanto simili a me – sono anche loro dotati di un’esperienza. Il punto da
chiarire, però, è proprio in che modo possa darsi tale esperienza del mio prossimo. Appare infatti evidente che l’esperienza dell’altro uomo non è parte della
12
13
14
R. Avenarius, Der menschliche Weltbegriff, cit., p. 4; tr. it. cit., p. 81.
Cfr. ibid., pp. 11, 13, 56, 64; tr. it. cit., pp. 89, 93, 145, 158.
Cfr. ibid., p. 20; tr. it. cit., p. 101.
Per un riesame dell’empiriocriticismo 315
mia esperienza, appunto in quanto appartiene all’altro e non viene esperita da me
(altrimenti sarebbe la mia esperienza). Ma se l’esperienza altrui non è parte della
mia esperienza, allora dov’è?
Solitamente si risponde a questa domanda collocando l’esperienza del prossimo dentro di lui. Ovvero affermando che noi non percepiamo l’esperienza
dell’altro uomo perché questa è nascosta al suo interno, nella sua sfera interiore.
Ed è così che secondo Avenarius nasce il concetto di “interiorità”, precisamente
in risposta al problema delle esperienze altrui. Infatti in origine, rispetto a me
stesso, io non sento le mie esperienze come qualcosa di “interno”. È solo dopo
aver iniziato ad attribuire agli altri un’interiorità che inizio a considerare anche
me stesso in questo modo, abituandomi a trattare pure i miei vissuti d’esperienza
come un qualcosa che accade dentro di me.
Questo processo – definito da Avenarius “introiezione” – sarebbe la radice
nascosta di tutti i principali problemi della filosofia, perché per causa sua l’esperienza non coincide più con l’intero orizzonte del reale, ma corrisponde a quel
che è dentro di noi, così che la realtà si trova spezzata tra il mondo esterno e il
mondo interno, tra res cogitans e res extensa, tra il soggetto e l’oggetto, tra la “vera
realtà” e la sua rappresentazione.
Per superare il fenomenismo – conciliando i due fatti che l’esperienza dipende
dall’interazione tra il cervello e gli oggetti del mondo, e che non possiamo procedere al di là dell’esperienza verso la realtà esteriore dove questo cervello e questi
oggetti dovrebbero risiedere – bisogna dunque evitare la trappola dell’introiezione,
dal momento che l’idea di un “mondo esterno” e quella di un “mondo interno”
sono soltanto due facce della stessa medaglia.
Ma come possiamo sfuggire all’introiezione?
In precedenza abbiamo visto come l’introiezione fosse la risposta alla domanda “dov’è l’esperienza del mio prossimo?”. Ebbene, per Avenarius è possibile
anche un’altra risposta a questa domanda. Infatti – a ben vedere – non è vero che
i vissuti degli altri uomini non possono darsi nella nostra esperienza, in quanto essi
sono comunicabili sotto forma di «asserzioni» (dove il termine è inteso in senso lato,
come significatività delle espressioni verbali e corporee altrui). Il linguaggio è dunque il modo in cui l’esperienza dell’altro può darsi all’interno della mia esperienza.
Ed è proprio in questa possibilità che Avenarius ritiene di poter trovare la
via d’uscita per superare il fenomenismo senza ricadere nel dualismo di mondo
esterno ed esperienza interna. Infatti delle esperienze del mio prossimo io posso dire
che dipendono dall’interazione tra cervello e ambiente, senza per questo andare
al di là dell’esperienza. Quando affermo che l’esperienza “albero” del mio prossimo
dipende dal suo cervello e dall’oggetto-albero, nessuno di questi elementi si trova
nel metafisico e non empirico “mondo esterno”, dal momento che tutti e tre
questi contenuti sono comunque parte dell’esperienza, ovvero della mia esperienza.
Ricorrendo all’esperienza altrui è quindi possibile risolvere il contrasto tra
l’idealismo o fenomenismo della filosofia e il realismo della psicologia, perché
316 Archivio di Storia della Cultura – Anno XXX-2017
l’affermazione che l’esperienza è qualcosa di primario e immediato non è più in
contraddizione con l’affermazione secondo cui l’esperienza è il risultato del rapporto tra cervello e ambiente. Adesso è infatti chiaro che solo la mia esperienza è
qualcosa di primario e immediato, mentre è l’esperienza del mio prossimo, comunicatami tramite il linguaggio, a dipendere dall’interazione tra il suo sistema nervoso
e gli oggetti del mondo.
In altre parole, il conflitto tra il fenomenismo della filosofia e il realismo
della psicologia viene risolto da Avenarius riconducendolo a due differenti punti
di vista: il fenomenismo corrisponde al mio punto di vista – per così dire – “in
prima persona”, che Avenarius definisce «prospettiva assoluta»; mentre il realismo
della psicologia corrisponde al punto di vista – per così dire – “in terza persona”,
indicato invece con il termine «prospettiva relativa»15.
Ovviamente viene subito da domandarsi se per Avenarius sia lecito affermare
che anche le mie esperienze dipendono dal mio cervello e dall’ambiente. E in effetti
ciò è possibile, ma appunto cambiando prospettiva, considerando me stesso come se
fossi un altro, mettendomi al suo posto:
Nell’istante in cui un altro uomo vuole comprendere un “trovato da se stesso” come
correlato dipendente del suo stesso “cervello”, egli stesso si deve osservare dalla
“prospettiva relativa”, come la abbiamo chiamata. Ma poiché egli non può porsi da
un punto di vista al di fuori di quello suo proprio, allora in quella “autoosservazione”
egli è in grado soltanto di imitare l’“osservazione degli altri individui”16.
Bisogna comunque sottolineare che questo gioco tra le due prospettive non
va interpretato come una sorta di trucchetto filosofico escogitato da Avenarius per
evitare la contraddizione tra fenomenismo e realismo. Difatti, a ben vedere, bisogna
ammettere che in un certo senso è vero che io non posso in alcun modo esperire
la dipendenza delle mie esperienze dal mio cervello e dall’ambiente. Non foss’altro
che per il fatto che nella mia esperienza l’oggetto che è parte dell’ambiente e il mio
vissuto di esso coincidono, così da rendere assurda l’idea stessa di una dipendenza di
un termine dall’altro. Quel che io esperisco è piuttosto la dipendenza delle esperienze
del mio prossimo dal suo cervello e dall’ambiente, in quanto questi tre termini sono
concretamente, empiricamente distinti: sono tre diversi contenuti della mia esperienza.
Come scrive Avenarius:
In favore del riferirsi all’altro uomo c’è inoltre il fatto che le determinazioni analitiche dell’individuo umano io le ho effettivamente tratte dagli altri individui: ciò che
“conosco” della costituzione interna del mio corpo, della mia muscolatura – compresi i suoi vasi –, dei vasi stessi, del sangue e del nutrimento, dei nervi e infine del
sistema C, lo “conosco” in misura nettamente predominante solo attraverso l’analisi
del corpo altrui, che poi trasferisco al mio solo in un secondo momento17.
15
16
17
Cfr. ibid., pp. 15 sgg.; tr. it. cit., pp. 95 sgg.
Cfr. ibid., pp. 89-90; tr. it. cit., p. 192.
Cfr. ibid., p. 22; tr. it. cit., p. 106. I corsivi sono miei.
Per un riesame dell’empiriocriticismo 317
4. Dopo aver presentato gli aspetti salienti della filosofia di Avenarius, possiamo
ora tornare a Mach, così da mostrare le affinità e le differenze tra le loro idee.
All’inizio abbiamo visto come lo stesso Mach indicasse tra i punti di contatto
con il collega il modo di intendere il rapporto tra fisico e psichico. Infatti, entrando
nel dettaglio, entrambe i pensatori propongono una nuova definizione di psicologia, basata non più sulla delimitazione di uno specifico oggetto di indagine (per
cui essa sarebbe la scienza che si occupa dello psichico, dell’interiorità), quanto
sull’indicazione del punto di vista da cui essa considera l’esperienza. È chiaro, infatti,
che se non esiste una contrapposizione tra la sfera di ciò che è “esterno” e quella
di ciò che è “interno”, perché c’è un unico orizzonte di riferimento – l’esperienza
–, allora la psicologia non può caratterizzarsi per l’ambito di realtà che indaga,
ma solo per il modo in cui tratta quell’unica esperienza che è l’oggetto di studio
comune a tutte le scienze. In particolare, secondo Mach e Avenarius, la psicologia
considera l’esperienza secondo il punto di vista della sua dipendenza dall’individuo.
Come scrive Mach in un noto passo de L’analisi delle sensazioni:
Il grande distacco tra ricerca fisica e psicologica sussiste solo per il punto di vista
usuale e stereotipato. Un colore è un oggetto fisico fintanto che prestiamo attenzione
alla sua dipendenza dalla fonte luminosa. Se rivolgiamo l’attenzione alla sua dipendenza dalla retina esso è un oggetto psicologico, una sensazione. Non è l’oggetto,
bensì l’orientamento della ricerca ad essere diverso nei due ambiti18.
Analogamente, in Avenarius leggiamo che:
[…] persino “l’albero di fronte a noi”, il “movimento delle foglie” o il “movimento
del mondo corporeo in generale” possano diventare oggetti della psicologia: ovvero nella misura in cui li possiamo pensare in relazione con l’individuo asserente,
e in qualche modo come (logicamente) dipendenti dalle caratteristiche di questo
individuo19.
Sebbene le due concezioni di primo acchito sembrino praticamente coincidenti, se si entra più nel dettaglio è possibile accorgersi delle differenze.
Mach sostiene che un dato complesso di sensazioni ABC… che di solito
consideriamo essere un corpo fisico (supponiamo sia un albero) di per sé non è
qualcosa né di fisico né di psichico, ma diventa o l’uno o l’altro a seconda che se
ne indaghino le connessioni con altri complessi di sensazioni simili (ad esempio se
studiamo i processi di fotosintesi dipendenti dal sole), oppure la sua dipendenza
da quel complesso di sensazioni KLM… che è l’organismo umano (per esempio
se consideriamo il fatto che all’occhio le foglie appaiono verdi)20.
18
E. Mach, Die Analyse der Empfindungen, cit., p. 13; tr. it. cit., p. 48. Traduzione modificata.
R. Avenarius, Bemerkungen zum Begriff des Gegenstandes der Psychologie, in «Vierteljahrsschrift
für Wissenschaftliche Philosophie», XVIII (1894), pp. 137-161, pp. 400-420; XIX (1895), pp. 1-18;
pp. 129-145, XIX, p. 2.
20
Cfr. E. Mach, Die Analyse der Empfindungen, cit., pp. 11 sgg.; tr. it. cit., p. 46 sgg.
19
318 Archivio di Storia della Cultura – Anno XXX-2017
Anche Avenarius sostiene che l’albero di per sé non è né fisico né psichico,
ma diviene oggetto della psicologia solo quando lo osserviamo nella sua dipendenza dall’individuo, il punto però è che per poter mettere in relazione l’albero
e l’organismo dell’uomo dobbiamo passare dal punto di vista in prima persona
a quello in terza persona. È questo il “punto di vista” che caratterizza la psicologia, non tanto e non solo “la dipendenza dall’individuo”, ma in primo luogo “la
prospettiva relativa” che è l’unica a consentirci di parlare di quella dipendenza.
Sebbene la differenza possa apparire sottile, per notare come questa vada
a modificare in profondità i sistemi elaborati dai due pensatori basti osservare
come questi si comportano di fronte alla domanda “Chi esperisce l’esperienza?”.
In particolare Mach sostiene che:
[…] se chiediamo chi ha questo complesso di sensazioni? Chi lo esperisce? Allora
sottostiamo alla vecchia abitudine di voler ricondurre ogni elemento (ogni sensazione) a un complesso non analizzato, ricadendo così inavvertitamente in un vecchio,
inferiore e limitato modo di vedere21.
Sebbene Mach con queste parole voglia polemizzare principalmente contro il
concetto filosofico di “soggetto” – che viene rifiutato anche da Avenarius – ciò non
toglie che la sua concezione non è in grado di rispondere in modo soddisfacente
alla domanda su chi ha le sensazioni, e così è costretto a rifiutarla in toto. Infatti dalla
prospettiva di Mach le uniche connessioni possibili sono quelle che sussistono tra le
sensazioni, così che è impossibile domandare da cosa dipendono le sensazioni nel
complesso (o, il che è lo stesso, da cosa dipendono le sensazioni in quanto sensazioni )
se con ciò si cerca qualcosa che non sia a sua volta un complesso di sensazioni. Ma
poiché per Mach l’unico modo legittimo di pensare la dipendenza delle esperienze
dal corpo è quello di una relazione tra i complessi di sensazioni esperiti e il corpo
dell’uomo in quanto è anch’esso un complesso di sensazioni, egli non è in grado di evitare
i due assurdi logici che avevamo discusso in precedenza parlando di Avenarius, in
quanto Mach non spiega né come possa la totalità delle sensazioni dipendere da un
corpo umano che, in quanto complesso di sensazioni, è necessariamente una parte
di quella totalità; né in che modo il complesso di sensazioni che costituisce il corpo
umano possa dipendere da se stesso nel suo essere esperito.
Invece, come abbiamo visto, Avenarius risolve questo problema grazie alla
distinzione tra le due prospettive, per cui è possibile tanto affermare che le uniche
connessioni legittime sono quelle che sussistono tra le esperienze (le mie), quanto
affermare senza timore di cadere in paradossi che la totalità dell’esperienza e i vissuti che costituiscono il corpo (intesi come quelli dell’altro, comunicatimi tramite
asserzioni) dipendono dal corpo (ovviamente sempre quello altrui).
In altre parole, anche se le concezioni di Mach e Avenarius sembrano simili, è evidente che Mach si muove ancora all’interno di un sistema di pensiero
21
Ibid., p. 17; tr. it. cit., p. 48.
Per un riesame dell’empiriocriticismo 319
integralmente fenomenistico, con tutti i problemi che questo comporta, mentre
Avenarius è andato al di là del fenomenismo.
Ma dal confronto tra le concezioni di Mach e Avenarius si evince anche qualcos’altro. Mach, infatti, distingue il modo in cui i complessi di sensazioni vengono
considerati dalla fisica dal modo in cui essi sono trattati nelle indagini psicologiche.
Avenarius, al contrario, chiarisce ciò che caratterizza il punto di vista della psicologia, ma non propone una teoria altrettanto compiuta per spiegare quand’è che
un’esperienza diviene oggetto della fisica. Non a caso proprio su questo punto si
divisero gli autori influenzati dalla definizione avenariusiana della psicologia, tra
chi – come Oswald Külpe – riteneva implicito il passaggio successivo, secondo
cui oggetto della fisica sono le esperienze in quando indipendenti dal corpo22, e
chi – come Edward B. Titchener – sosteneva che fosse più corretto affermare
che la fisica si occupa dell’esperienza «considerata come interdipendente »23. Ad ogni
modo, quel che ci interessa è come questa relativa “disattenzione” di Avenarius
vada a confermare quanto abbiamo affermato in precedenza circa i diversi interessi di fondo di Mach e Avenarius. In quanto filosofo, Avenarius è interessato
principalmente a risolvere la contrapposizione tra l’approccio idealistico-fenomenistico dell’immediata datità della coscienza, il quale costituisce il necessario
punto di partenza della filosofia della conoscenza, e l’approccio realistico-dualista
della psicologia della conoscenza, che prende invece le mosse dalla dipendenza della
coscienza dal sostrato fisiologico. Data la sua formazione come fisico e studioso
di psicofisiologia, e come rivela in modo lampante la citazione precedente, Mach
vuole invece colmare “il grande distacco tra ricerca fisica e psicologica”.
La differenza tra i punti di partenza dei due pensatori chiarisce anche perché
Avenarius ritenesse fondamentale combattere contro l’introiezione, laddove Mach
in Die Analyse der Empfindungen afferma di voler lottare piuttosto contro l’extraiezione. Infatti agli occhi di Avenarius il problema da affrontare è l’idea che siamo
confinati entro noi stessi, nelle nostre esperienze, nel nostro cervello, senza poter
mai afferrare ciò che c’è al di fuori; di contro il nemico principale di Mach è
l’opposta tendenza della fisica a voler considerare i suoi oggetti come esistenti in
una presunta realtà esterna al di là dell’apparenza dell’esperienza.
Dunque, riassumendo, sebbene tanto Mach quanto Avenarius sostengono che
il “fisico” e lo “psichico” non corrispondono a una divisione originaria, sostanzia22
Cfr. O. Külpe, Einleitung in die Philosophie, II ed. cit., p. 66.
E. B. Titchener, Systematic Psychology: Prolegomena, New York, 1929, p. 142. Il corsivo è mio. Nel
volume Titchener non manca di evidenziare come Avenarius avesse lasciato la questione dell’oggetto
delle scienze naturali relativamente aperta: «Poiché non c’è dubbio che Avenarius, nel definire la
psicologia, intendesse delimitare questa scienza empirica rispetto alle altre scienze empiriche, e allo
stesso tempo rispetto alla filosofia, dobbiamo supporre che egli ritenesse la definizione complementare di scienza naturale come autoevidente» (ibid., p. 118). Per un approfondimento sulla recezione
della definizione avenariusiana di psicologia in Külpe, Titchener e altri autori del periodo rimando
al mio volume Con Wundt, oltre Wundt. Richard Avenarius e il dibattito sulla psicologia scientifica tra Otto e
Novecento, Soveria Mannelli, 2016, in particolare pp. 67 sgg.
23
320 Archivio di Storia della Cultura – Anno XXX-2017
le, ma sono solo due modi di considerare quell’esperienza che è l’unico piano di
realtà, le loro concezioni presentano comunque alcune differenze apparentemente
minori, ma in realtà profondamente significative. Differenze che discendono dai
distinti e per certi versi opposti punti di partenza dei due autori: in quanto Avenarius parte da una prospettiva fenomenistica, sentendo quindi la necessità di andare
di là da essa per riconciliarla con il realismo ingenuo delle scienze naturali e della
psicologia, mentre Mach parte dal realismo metafisico della fisica, che intende
superare approdando a una concezione fenomenistica.
5. Dopo aver affrontato i primi due dei tre punti in comune con Avenarius evidenziati da Mach24, e dopo aver mostrato come sia quanto meno problematico
identificare le loro posizioni sui temi dell’economia di pensiero e del rapporto
tra fisico e psichico, possiamo passare all’ultimo punto: la concezione biologica
della conoscenza.
Non v’è dubbio che entrambi i pensatori fanno proprio il principio secondo
cui l’uomo è un organismo biologico, il cui intero comportamento è interpretabile in base a meccanismi fisiologici e alla relativa spinta all’autoconservazione,
che lo porta ad adattarsi all’ambiente in cui vive. Tuttavia nell’applicare questo
principio Avenarius si concentra di più sull’adattamento del cervello agli stimoli
ambientali, mentre Mach rivolge la sua attenzione più in generale all’adattamento dell’individuo. Per Avenarius l’adattamento biologico è alla base dell’evoluzione
della conoscenza perché quest’ultima si fonda sull’evoluzione del cervello, il quale
modifica le proprie funzioni, e finanche la propria costituzione fisiologica, sviluppando e consolidando le risposte neurologiche agli stimoli esterni. Per Mach,
invece, l’adattamento è fondamentale per comprendere come funzionano i nostri
meccanismi conoscitivi in quanto proprio la conoscenza è uno dei principali – se
non il principale – strumento in possesso dell’uomo per sopravvivere all’interno di
un ambiente ostile.
In altre parole, potremmo affermare che in Avenarius la concezione biologica
della conoscenza prende le forme di una fisiologia del cervello, mentre in Mach essa
tende più in direzione di una epistemologia di stampo pragmatista.
Ad ogni modo per entrambi il legame tra conoscenza e adattamento biologico
è intimamente connesso con l’importanza detenuta dalla costanza dell’esperienza, dove con ciò si intende il fatto che noi vediamo ritornare continuamente gli
stessi oggetti e le stesse connessioni (seppur con delle differenze). In Avenarius la
costanza è fondamentale perché sono proprio gli stimoli costanti ad imprimersi
nel cervello, il quale può così sviluppare alcune risposte neurologiche standard da
riutilizzare in futuro. Per Mach, invece, la costanza è fondamentale per ragioni di
utilità, in quanto rivolgendo l’attenzione a ciò che è costante possiamo “restringere
24
Cfr. supra, p. 311.
Per un riesame dell’empiriocriticismo 321
la nostra aspettativa”25 in conformità con ciò che accade regolarmente, riuscendo
così ad anticipare gli eventi futuri senza dispendio di energie mentali.
Anche sul tema della costanza dell’esperienza bisogna però evidenziare una
differenza tra le concezioni di Avenarius e Mach. Quest’ultimo, infatti, si serve
della costanza dell’esperienza non soltanto per spiegare secondo quali direttrici si
sviluppano le nostre conoscenze, ma anche per rispondere al problema della realtà
oggettiva di queste conoscenze o, meglio, per dimostrare che esso è in effetti un
falso problema.
Come si legge in un passo molto citato delle Populär-wissenschaftliche Vorlesungen,
a detta di Mach «i corpi o le cose sono simboli intellettuali abbreviati di un gruppo
di sensazioni, simboli che non hanno esistenza fuori del nostro pensiero»26. Secondo
Mach non ha senso chiedere se un oggetto o una legge naturale è “reale”, se con
questo termine si intende sapere se essi sono effettivamente esistenti al di là della
nostra esperienza. Quel che ha senso è solo chiedere se quell’oggetto o quella legge
naturale sono dei modi legittimi per organizzare le esperienze. In particolare noi
ordiniamo i dati empirici in base alla costanza che essi presentano, e siamo giustificati a procedere così perché questo modo di organizzare le esperienze funziona.
Dunque, invece di interrogarci sull’esistenza “reale”, “esterna” dei contenuti della
nostra conoscenza – questione insolubile perché metafisica – dobbiamo accontentarci di cercare modi sempre più “economici” di organizzare i dati empirici, perché
così facendo assolviamo l’unico compito legittimo che è posto al sapere umano.
In questo senso possiamo dire che Mach affronta quello che potremmo chiamare “il problema epistemologico dell’oggettività”, ovvero la questione di quali
siano i requisiti affinché si possa dichiarare valida una conoscenza, ma rifiuta
quello che potremmo chiamare invece “il problema filosofico della realtà”, ossia
la questione se le nostre esperienze si riferiscono effettivamente a qualcosa di là
da esse. Difatti, dal momento che quello della costanza è un criterio interno all’esperienza, essa non può in alcun modo rispondere al secondo problema, quello
della relazione tra l’esperienza e la realtà esterna.
Avenarius, invece, pur concordando con Mach sul tema della costanza delle
esperienze come risposta alla questione dell’organizzazione delle nostre conoscenze, non rinuncia ad affrontare anche il problema di come sia possibile l’idea di
una connessione tra le esperienze e la realtà che è fuori di esse. Tale questione è
infatti risolta grazie al rapporto tra il punto di vista in prima e in terza persona,
ovvero grazie al passaggio dalla prospettiva assoluta a quella relativa. Tramite a
quest’ultima posso infatti affermare che gli oggetti esistono effettivamente al di fuori
dell’esperienza (dell’altro), perché quando osservo il mio prossimo io esperisco la
differenza tra un oggetto e la sua esperienza di esso.
25
Cfr. E. Mach, Erkenntnis und Irrtum. Skizzen zur Psychologie der Forschung, Leipzig, 1905, pp.
442 sgg.
26
E. Mach, Populär-wissenschaftliche Vorlesungen, Leipzig, 1896, p. 217.
322 Archivio di Storia della Cultura – Anno XXX-2017
Ancora una volta si evince quindi come Mach si muova all’interno di un
orizzonte fenomenista, con i problemi e le soluzioni che sono tipici di questa
corrente di pensiero, laddove invece Avenarius parte dal fenomenismo per andare
di là da esso.
6. Terminata questa breve panoramica sulle affinità e divergenze tra Mach e Avenarius possiamo trarre le nostre conclusioni in merito all’uso del termine “empiriocriticismo”.
In primo luogo bisogna riconoscere che l’associazione tra Mach e Avenarius,
per quanto problematica, ha avuto tanto successo nel corso del tempo, dagli anni
in cui essi stessi erano ancora viventi fino ai giorni nostri, ed è stata recepita da
così tanti autori, da essere ormai diventata un fatto della storia della filosofia contro
cui avrebbe poco senso lottare. Ad ogni modo ciò non toglie che accostare i loro
nomi non deve significare sovrapporre le loro idee. Per questo motivo, quando si
usa la comune etichetta di “empiriocriticisti”, bisognerebbe sempre tenere presenti
le seguenti considerazioni: 1) che la teoria economica della conoscenza non fa
parte del pensiero maturo di Avenarius; 2) che lo scopo di Mach era riavvicinare
fisica e psicologia, mostrando che entrambe hanno lo stesso oggetto di studio e
la stessa dignità, laddove l’obiettivo di Avenarius era invece conciliare filosofia e
psicologia; 3) che per tale ragione Avenarius considera il fenomenismo filosofico
un punto di partenza da superare, reintegrando in esso il realismo ingenuo delle
scienze e della psicologia, mentre per Mach il fenomenismo – lungi dall’essere un
problema – è invece la soluzione da adottare contro il realismo metafisico della
fisica, che pretende di conoscere la vera realtà oltre l’apparenza empirica.
Tenendo ferme in particolare queste ultime due considerazioni, che rivelano
i diversi punti di partenza da cui muovono Avenarius e Mach, possiamo quindi
individuare i temi su cui le loro differenti traiettorie intellettuali finiscono per
convergere, quei temi che costituiscono pertanto il contenuto positivo del termine
“empiriocriticismo”: 1) l’assunto che l’esperienza è il nostro unico orizzonte di
riferimento, dal momento che ogni conoscenza non può che fondarsi su ciò che
esperito; 2) l’idea che l’esperienza in sé è unitaria e omogenea, non essendovi
differenze tra “esperienze interne” ed “esterne”, tra la sfera del soggetto e quella
dell’oggetto, del fisico e dello psichico; 3) come conseguenza del punto precedente, la concezione secondo cui “fisico” e “psichico” non indicano due ambiti
della realtà contrapposti o due tipi diversi di esperienza, bensì due modi diversi
di trattare le esperienze; 4) il principio secondo cui l’uomo è un organismo biologico impegnato a conservarsi nell’ambiente, così che la conoscenza deve essere
compresa in quanto fondamentale funzione biologico-adattiva.
In questo modo si può continuare a parlare di “empiriocriticismo” non più
sulla base dell’acritico perpetuarsi di un’abitudine, che finisce per di più con il
cancellare le specificità di Avenarius identificandolo de facto con Mach, bensì sulla
base di uno studio del pensiero di questi due autori nella loro specificità, che ne
mostri le affinità senza tacerne le differenze.
Per un riesame dell’empiriocriticismo 323
A REAPPRAISAL OF EMPIRIOCRITICISM. The paper questions the assumptions that underlie
the habit of considering Richard Avenarius and Ernst Mach as representatives of the same
philosophical current: Empiriocriticism. The essay firstly retraces the different backgrounds,
aims and intellectual trajectories of the two authors, and then indicates the various points of
convergence of their thoughts. In so doing, it is possible to outline the defining topics of Empiriocriticism without the risk of overlapping the famous Mach and the lesser-known Avenarius.