Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio
Delegazione di Napoli e Campania
Le cause della caduta
del
Regno delle Due Sicilie
Atti del convegno in occasione
delle celebrazioni dei 300 anni dalla nascita
di Re Carlo di Borbone
(Napoli, 22 ottobre 2016, Palazzo San Teodoro)
a cura di Gianandrea de Antonellis
Club di Autori Indipendenti
© 2017 – Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio –
Delegazione di Napoli e Campania
Le cause della caduta del Regno delle Due Sicilie
a cura di Gianandrea de Antonellis
Atti del Convegno organizzato dalla Delegazione di Napoli e
Campania del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio (Napoli, 22 ottobre 2016, Palazzo San Teodoro) in occasione
delle celebrazioni dei 300 anni dalla nascita del Re Carlo di Borbone (20 gennaio 1716), Re di Napoli e Sicilia (1735-1759), capostipite della dinastia dei Borbone Due Sicilie.
Convegno di studi sul tema: «126 anni della dinastia dei Borbone a Napoli e del Regno delle Due Sicilie: cause ed eventi che ne
determinarono la repentina ed improvvisa annessione al Regno
d’Italia»
Introduzione
Amadeo-Martín Rey y Cabieses, I Re e i Principi reali delle Due
Sicilie nel 1861
Relazioni
Bruno Lima, Considerazioni morali e giuridiche sull’invasione
delle Due Sicilie
Roberto Mauriello, Situazione geo-strategica europea e mediterranea e preparazione militare dell’esercito delle Due Sicilie
Gianandrea de Antonellis, “Nemo propheta in patria”. Il Principe di Canosa e la politica dell’amalgama
Coordinamento scientifico: Roberto Mauriello e Gianandrea de
Antonellis
ISBN 9788887215588
Club di Autori Indipendenti
Via Castello 1
80053 Castellammare di Stabia
081.8723489 339.8491703
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Le cause della caduta
del Regno delle Due Sicilie
Atti del convegno in occasione delle celebrazioni
dei 300 anni dalla nascita del Re Carlo di Borbone
(Napoli, Palazzo San Teodoro, 22 ottobre 2016)
Saluto di S.A.R.
don Pedro di Borbone delle Due Sicilie e Orleans,
Duca di Calabria e Conte di Caserta,
Capo della Real Casa delle Due Sicilie
XII Gran Maestro del SMOCSG
Cari fratelli nell’Ordine Costantiniano di San Giorgio,
cari amici,
Non sempre i desideri di una persona sono commisurati
alle possibilità. In questo caso, avrei voluto accettare il
gentile invito di Don Carlo de Gregorio Cattaneo, principe
di Sant’Elia, marchese di Squillace, Delegato a Napoli e
Campania del nostro amato Ordine Costantiniano, ed essere oggi presente in questa amata città dove regnavano i
miei antenati e che tutta la nostra famiglia ha nel cuore.
Cionondimeno, mi sento unito a voi in questo momento e
sebbene miei doveri professionali mi impediscano di essere
presente oggi a Napoli, voglio che sappiate che potete contare sempre sul mio appoggio morale e la mia preghiera,
in qualità di vostro Gran Maestro.
Allo stesso modo mio figlio, S.A.R. il Duca di Noto, impegnato in questo momento nei suoi studi necessari per ser-
vire meglio la nostra famiglia e il nostro amato Ordine, si
unisce a voi in questa giornata. Voi sapete che ogni volta
che i nostri impegni lo permettono, veniamo a Napoli e in
altre città dell’antico Regno, e continueremo a farlo.
Accolgo con favore e apprezzamento l’idea di tenere questa
conferenza per il 300° anniversario della nascita del re
Carlo VII di Napoli e V di Sicilia, che in seguito divenne re
Carlo III di Spagna, e che sia a Napoli che in Sicilia e a
Madrid ha dato ampia prova del suo buon governo garantendo lo sviluppo e il progresso del suo popolo in tutti i
settori. Il nostro Ordine in Spagna sta organizzando una
mostra e vari conferenze sulla sua figura a Barcellona il
prossimo anno, e a cui tutti siete invitati.
Auguro grande successo a questa giornata dedicata ai “126
anni della dinastia dei Borbone a Napoli e del Regno delle
Due Sicilie: cause ed eventi che ne determinarono la repentina ed improvvisa annessione al Regno d’Italia”.
Voglio ringraziare in particolare don Carlo de Gregorio
Cattaneo di Sant’Elia, così come i relatori R.P. Don Bruno
Lima, Roberto Mauriello, Gianandrea de Antonellis e Amadeo-Martín Rey y Cabieses per la dedizione allo studio della
mia famiglia e alla storia del Regno delle Due Sicilie.
Mi affido alla protezione della Madonna del Rosario di
Pompei e di San Gennaro, la cui festa abbiamo celebrato
poco più di un mese fa, affinché non perdiamo mai di vista
la finalità dell’Ordine Costantiniano di servire Dio, diffondere la fede e difendere la nostra Santa Madre Chiesa.
Grazie mille a tutti.
Pedro di Borbone delle Due Sicilie
Duca di Calabria, Conte di Caserta
Madrid, 22 ottobre 2016
6
Gianandrea de Antonellis
Le cause politiche
Il Principe di Canosa e la politica dell’amalgama
«L
A NUOVA GIUNTA DI STATO ha rappresentato di
doversi brugiare [sic] tutte le carte che esistono
in Monteoliveto attinenti ai rei di Stato perché
si perdano tali memorie» 1. Così si legge alla data di lunedì
2 marzo 1801 nel Diario di Carlo De Nicola. Evidentemente, già a meno di due anni dalla prima riconquista del trono da parte di Ferdinando IV, la politica del perdono nei
confronti dei “rei di Stato”, cioè degli aderenti alla Repubblica napoletana, veniva già attuata dal Re di Napoli,
prima ancora che gli venisse imposta da Napoleone Bonaparte 2. Un “buonismo” che, peraltro, non sarebbe servito a
conquistargli il favore della popolazione: basti pensare che
al ritorno dei Francesi, nel 1806, Napoli non verrà strenuamente difesa dai nobili dei Sedili (sciolti con il decreto
del 25 aprile 1800) né degli strati più semplici della popolazione, quei “lazzari” che sette anni prima si erano immolati contro le baionette dell’esercito più temuto del mondo.
Eppure nel 1815, tornando per la seconda volta sul
proprio legittimo Trono, Ferdinando, divenuto ora I delle
Due Sicilie avrebbe riproposto quella politica di pacifica1
CARLO DE NICOLA, Diario, Società napoletana di storia patria, Napoli
1906, vol. II, p. 21.
2 Con decreto del 20 giugno 1801.
zione, accettando – pur se dietro forti pressioni internazionali – di mantenere al proprio posto militari e funzionari che avevano servito sotto i Napoleonidi.
Tale politica – definita “dell’amalgama” dal suo più feroce avversario, Antonio Capece Minutolo, Principe di Canosa 3 – di fatto caratterizzò il Regno delle Due Sicilie anche per i decenni a seguire.
La visione politica
Nel clima di confusione politica che caratterizza la vita
del Regno napoletano successivamente alla Rivoluzione, la
figura del Principe di Canosa si staglia – anche a detta dei
suoi avversari – per la propria coerenza. La sua visione
politica – basata su solide letture, tra cui una buona analisi dello Spirito delle leggi di Montesquieu (che aveva letto nell’edizione napoletana del 1777) – è stata sintetizzata
in due punti e altrettanti corollari 4:
1.
Non si può concepire una monarchia sana senza potestà intermedie, tra cui fondamentale è quella della
nobiltà: «dove non v’è monarca, non v’è nobiltà; dove
3
Antonio Luigi Raffaele Capece Minutolo, Principe di Canosa (Napoli,
5 marzo 1768 - Pesaro, 4 marzo 1838) fu due volte Ministro di Polizia,
sia pure per brevissimo tempo all’indomani di eventi cruciali per il Regno (nel 1816 dopo la cattura di Murat e nel 1821 dopo la sconfitta della rivoluzione liberale). Per un suo profilo biografico, cfr. WALTER MATURI, Il Principe di Canosa, Le Monnier, Firenze 1944; SILVIO VITALE, Il
Principe di Canosa e l’Epistola contro Pietro Colletta, Berisio, Napoli
1969, p. 7-72; BENEDETTO CROCE, Il principe di Canosa, in Uomini e cose della vecchia Italia, vol. II, Laterza, Bari 1956, p. 225-253; FRANCESCO LEONI, Quattro inediti del principe di Canosa, in «Archivio Storico
per le Province Napoletane», terza serie, anno XCI vol. 12 (1973), p.
291-323. Per un profilo bibliografico, cfr. RENATA OREFICE, Le carte Canosa nell’Archivio Borbone, in «Archivio storico per le province napoletane», terza serie, vol. XLI, Napoli 1961, p. 327-366.
4 Cfr. MATURI, op. cit., p. 7-8.
30
2.
non v’è nobiltà, non v’è monarca, ma si ha un despota» 5.
a. Se le potestà intermedie sono le basi d’una monarchia sana, chi con le sue riforme intacca le potestà intermedie viene a minare la stessa monarchia, come dimostrano i due esempi storici
dell’Inghilterra e della Francia.
Il principio su cui si fonda una tale monarchia è
l’onore, che deve essere la stella polare della nobiltà.
a. L’onore è il sentimento fondamentale che regge le
monarchie; la virtù, cioè il disinteresse assoluto e
la devozione cieca alla patria, è il sentimento fondamentale che regge le repubbliche.
Il Principe di Canosa non pubblicò mai un vero e proprio sintetico trattato di politica generale: scrisse alcune
opere che rimasero manoscritte 6 e affidò il proprio pensiero a una serie di lavori apparentemente estemporanei,
cioè scritti per rispondere ad articoli polemici apparsi su
altri giornali. Tali furono le sue opere più note: l’Epistola
5
La frase di Montesquieu è citata dal Canosa nel Discorso sulla decadenza della nobiltà (Krinon, Caltanissetta 1992, p. 14) con l’indicazione
della edizione da lui letta: tomo I, p. 112-113.
6 Principalmente si devono ricordare il breve saggio Discorso sulla decadenza della nobiltà (pubblicato per la prima volta a cura di Silvio Vitale, Krinon, Caltanissetta 1992) ed il ponderoso studio Perché il sacerdozio dei nostri tempi e la moderna nobiltà dimostrati non siansi
egualmente generosi ed interessati come gli antichi per la causa della
monarchia e dei Re, manoscritto inedito in tre tomi per complessive
2920 pagine conservato presso la Biblioteca Estense. Ad esso si deve
affiancare almeno lo scritto autobiografico intitolato Apocalisse politica
ossia Rivelazioni sull’intrigo politico della rivoluzione di Napoli del
1820 e sulla cabala che mise nel nulla le risoluzioni dei congressi di
Troppau e di Lubiana (conservato presso il Reichs Archiv di Vienna).
31
sul servizio militare dei nobili 7, I piffari di montagna 8, la
Confutazione all’Angeloni 9, I piccoli piffari 10, l’Epistola
contro Colletta 11.
Peraltro, una caratteristica del Canosa fu la sua formidabile capacità di analisi della situazione politica, che
quasi rasentava la preveggenza: si pensi che I piffari di
montagna furono pubblicati anonimi nella primavera del
1820, quindi vari mesi prima che scoppiasse la rivoluzione
di Morelli e Silvati 12. Del resto, già nel 1799 aveva capito,
ad esempio, quanto potesse essere inaffidabile il Principe
di Moliterno 13, che pure era un eroe di guerra, perché i
7
Epistola, ovvero Riflessioni critiche sull’opera dell’avvocato fiscale signor d. Nicola Vivenzio intorno al servizio militare dei Baroni in tempo
di guerra, Napoli 1796.
8 ANTONIO CAPECE MINUTOLO, I piffari di montagna. Cenno estemporaneo di un cittadino imparziale sulla congiura del Principe di Canosa e
sopra i Carbonari diretta all’estensore del foglio letterario di Londra,
Dublino (ma: Lucca) 1820.
9 In confutazione degli errori storici e politici da Luigi Angeloni esposti
contro sua Maestà la defunta regina Maria Carolina di Napoli. Epistola
di un Amico della Verità ad un amico storico italiano rispettabilissimo,
Marsiglia 1830.
10 I piccoli piffari, ossia Risposta che alla sovrana liberalesca itala canaglia da l’antico autore de’ Piffari di montagna in difesa del suo calunniato cliente principe di Canosa, Parigi 1832, scritto in risposta a un
articolo della rivista «L’amico del popolo italiano» (sulla quale cfr. ultra).
11 Epistola, ovvero, Riflessioni critiche sulla moderna Storia del reame
di Napoli del generale Pietro Colletta, Capolago 1834.
12 I moti furono fatti scoppiare nella notte tra il 1° e il 2 luglio 1820: era
la notte di San Teobaldo di Provins, patrono dei carbonari.
13 Girolamo Pignatelli, principe di Moliterno (1774-1848), si era eroicamente battuto contro i Francesi fin dal 1792, perdendo un occhio nella
battaglia di Fombio (1796). Quando le truppe guidate da Championnet
invasero il Regno di Napoli (1798), Girolamo Pignatelli cercò di opporvisi arruolando a sue spese a Gaeta due reggimenti di cavalleria. Conosciute le clausole del gravoso armistizio di Sparanise, sottoscritto l’11
gennaio 1799 con lo Championnet dal Vicario generale Francesco Pignatelli, il popolo napoletano decise di difendersi da solo e nominò suoi
32
suoi proclami non citavano mai il Re. Ed ebbe ragione: con
le truppe francesi alle porte di Napoli, infatti, il Moliterno
tradì e passò dalla parte dei giacobini, mettendosi a bombardare da Castel Sant’Elmo i popolani che difendevano la
città.
Strenuo difensore delle prerogative del ceto nobiliare,
le uniche capaci di porre un freno alla degenerazione assolutistica della monarchia, nel gennaio 1799 Canosa ritenne che dopo la ritirata del Re in Sicilia il potere regio dovesse essere surrogato dai rappresentanti dei Sedili di
Napoli e non dal solo Vicario generale, l’imbelle Francesco
Pignatelli 14. Paradossalmente – ed ingiustamente – accusato di aver voluto creare una “repubblica aristocratica”,
al ritorno di Ferdinando a Napoli fu arrestato e processato
(dopo aver già conosciuto le carceri giacobine ed essere
stato condannato a morte perché facente parte della con-
comandanti appunto Girolamo Pignatelli e il duca di Roccaromana, Lucio Caracciolo. Tuttavia, quando la città cadde in preda all’anarchia,
Pignatelli si rifugiò nel forte di Sant’Elmo, che i patrioti avevano conquistato nella notte tra il 19 e il 20 gennaio. Da qui trattò con lo Championnet e minacciò di bombardare le difese popolari, distinguendo “popolo” (i lazzari) da “nazione” (i giacobini); il 15 febbraio 1799, divenuto
“ex nobile”, entrò nel governo repubblicano e pochi giorni dopo fu inviato dal Governo provvisorio della Repubblica Napoletana a Parigi per
ottenere il riconoscimento della stessa Repubblica. Ma il Direttorio si
rifiutò ripetutamente di ricevere la deputazione napoletana e non ratificò il trattato. Anzi, il Principe di Moliterno fu sottoposto a confino e a
stretta sorveglianza. Dopo varie vicissitudini, nel 1808 organizzò alcune bande armate antifrancesi in Calabria e nel 1813 promosse tentativi
di reazione armata contro Gioacchino Murat nelle Marche e negli
Abruzzi. Reintegrato con la Restaurazione, nell’Almanacco della Real
Casa e Corte: per l’anno 1823 risulta Gentiluomo di Camera del Re con
esercizio.
14 Francesco Pignatelli, marchese di Laino e conte di Acerra (17341812).
33
giura dei fratelli Baccher 15): rischiò anche in questo caso
la pena capitale, ma assieme a tutti gli altri Cavalieri dei
Sedili napoletani venne assolto dall’accusa più grave
(quella di aver voluto introdurre una “repubblica aristocratica”) e condannato esclusivamente per insubordinazione al Vicario Generale 16. Sarebbe stato scarcerato con il
citato decreto del 20 giugno 1801, imposto al re di Napoli
da Napoleone Bonaparte 17.
Cinque anni dopo, nonostante l’oltraggio della condanna subita (e la beffa della liberazione dovuta al generale
còrso), preferì abbandonare tutto (famiglia, beni, libri) e
seguire il suo Re in Sicilia.
Coerenza e lucidità sono dunque due attributi che non
è possibile non riconoscergli: in una lettera del 28 settembre 1799 si definisce «novello eroe della Mancia» 18, dispo15
Nella notte dal 5 al 6 aprile 1799 furono perquisite le case di molti
realisti e fra esse quella dei Baccher, nella quale vennero trovate bandiere e coccarde realiste. Nei giorni seguenti vennero eseguiti molti altri arresti, tra cui quello del Canosa. Il 12 giugno, il giorno prima
dell’arrivo delle truppe di Ruffo – quando ormai era palesemente inutile, anzi controproducente – furono condannati a morte i responsabili
della congiura. Furono quindi fucilati Gerardo Baccher (30 anni, tenente di cavalleria), Gennaro Baccher (32 anni, ufficiale della Real Contatoria di Marina), Ferdinando La Rossa (30 anni, Ufficiale del Banco di
Sant’Eligio), Giovanni La Rossa (26 anni, impiegato in Sant’Eligio) e
Natale D’Angelo (46 anni), con un «supplizio crudele perché nelle ultime ore del governo, senza utilità di sicurezza ed esempio», come ammise lo stesso Colletta (PIETRO COLLETTA, Storia del Reame di Napoli, Capolago 1834, vol. I, p. 255). Nelle ore successive furono fucilate anche
altre «undici persone della minuta plebe» e ci sarebbe stata una carneficina se ci fosse stato più tempo (cfr. DOMENICO AMBRASI, Don Placido
Baccher, Napoli, 1979, p. 37).
16 Sentenza del 28 marzo 1800 (cfr. MATURI, op. cit., p. 34).
17 Cfr. MATURI, op. cit., p. 35.
18 Cfr. MATURI, op. cit., p. 40. E Benedetto Croce lo definirà «un Don
Chisciotte della reazione» (Uomini e cose della vecchia Italia, Laterza,
Bari 1956, II, p. 245), peraltro aggiungendo «ma non punto sanguinario, né malvagio, e nemmeno ingeneroso». Di ingeneroso rimane quel
34
sto a qualsiasi sacrificio. E dieci anni dopo conferma questa sua posizione:
Meglio mangiare una sola minestra in Sicilia sotto la difesa di
un pio e legittimo Sovrano che bevere sangue costà nei bacili
d’oro. Ritornerei mille volte in Sicilia, da Sicilia passerei in Africa, ed ancora a fare il facchino in America, anziché essere costretto a rinunziare alle mie massime, a pensare a modo d’altri,
a piegare la fronte al Barone Murat. 19
La sua lucidità consiste anche nella consapevolezza dei
propri limiti: in una serie di lettere ammette di non avere
il carisma né del porporato – elemento che fu fondamentale per la Riconquista del Cardinal Ruffo –, né del Principe
di Casa Reale, né dell’uomo politico o dell’uomo d’armi, per
cui invoca l’aiuto di coloro che, meglio di lui, potrebbero
non solo suscitare una rivolta antinapoleonica a Napoli,
ma anche evitare che essa degeneri nel caos 20 ed è pure
disposto a mettersi sotto il comando del reintegrato Principe di Moliterno, mettendo da parte gli antichi rancori 21.
Ed è una lucidità che spesso sfocia nel pessimismo, ma che
gli permette di non illudersi sulla bontà dei collaboratori
del Re:
Se V. M. infatti rifletterà che la nostra Nobiltà (per la massima
parte) è infame e vile, che il ceto di mezzo è corrottissimo, dovrà
concludere che non abbiamo per la nostra parte che tutto il popolo, e popolo napoletano, intendo a dire ladro quanto Buonaparte, insubordinato come gli anarchisti lo sono, non troppo coraggioso come tutte le masse. 22
«ma» inutilmente – ed erroneamente – aggiunto da don Benedetto, visto il carattere cavalleresco dell’hidalgo mancego.
19 Lettera al Duca di Acquara, 27 gennaio 1809; cfr. MATURI, op. cit., p.
56.
20 Cfr. MATURI, op. cit., p. 64-65.
21 Cfr. MATURI, op. cit., p. 94.
22 Lettera a Maria Carolina, 6 settembre 1808; cit. in MATURI, op. cit., p.
92-93.
35
Nutre una certa ammirazione per l’Inghilterra non certo
in quanto nazione liberale, bensì in quanto antirivoluzionaria, irriducibilmente antinapoleonica e, soprattutto, rispettosa del ruolo politico dell’aristocrazia. Ecco cosa scrive a
proposito del modo di agire del Parlamento inglese:
L’op[p]osizione fa ostacolo al Ministero, ma per il bene, non per
produrre il male del proprio Paese; combatte gli errori, ma né
odia le persone, né cerca invadere i diritti degli altri; il partito di
opposizione in Inghilterra rispetta il Re ed il Governo quanto il
partito ministeriale 23.
Degli stessi Napoleonidi, pur disconoscendone la legittimità, sa riconoscere le capacità militari e politiche: «erano indegni di regnare, quei democratici diventati Re, ma
capaci assai» 24. Ciononostante, aveva compreso che non ci
sarebbe potuto essere vera Restaurazione senza il completo cambiamento degli organici dell’esercito e dei quadri
burocratici, come riassume un suo biografo:
La politica che il Medici seguiva a Napoli rappresentava
l’antitesi più stridente al sistema di governo caldeggiato dal Canosa. Era generosa politica non impiccare o non far scannare dai
sanfedisti i patrioti, i murattiani, ma mantenerli nei posti di
comando era agli occhi del Canosa una grande sciocchezza. 25
C’è un detto attribuito all’ultimo Re di Francia 26, Carlo
X, che sintetizza perfettamente il pensiero del Canosa:
«Un Re cavaliere deve essere sempre circondato dai propri
amici, mentre tende la mano ai suoi nemici»; è necessario
cioè assicurarsi bene il Trono, prima di concedere la grazia
23
ANTONIO CAPECE MINUTOLO, Perché il sacerdozio dei nostri tempi e la
moderna nobiltà dimostrati non siansi egualmente generosi ed interessati come gli antichi per la causa della monarchia, manoscritto inedito
in tre tomi conservato presso la Biblioteca Estense, I, fasc. 47. Cit. in
MATURI, op. cit., p. 14.
24 ANTONIO CAPECE MINUTOLO, I piffari di montagna, cit., p. 34.
25 MATURI, op. cit., p. 143.
26 Luigi Filippo fu Re dei Francesi, non di Francia.
36
ai traditori. Negli anni in cui negli Stati Uniti d’America
si legalizzava la pratica politica denominata spoils system,
peraltro anche in Europa ampiamente applicata nella
prassi corrente da parte dei governi liberali, i principali
attori della Restaurazione (il ministro Metternich innanzi
tutti 27) preferivano invece una politica conservativa, volta
alla pacificazione ed a mantenimento nei loro posti di coloro che erano stati fedelissimi del regime antimonarchico
(giacobino prima e napoleonico poi), una politica che Canosa definì appunto “dell’amalgama”.
Un profeta inascoltato
Come accennato, Canosa non aveva certo il dono divino
della preveggenza: semplicemente era stato fornito da Dio
di una mente molto acuta, in grado di analizzare la realtà
politica senza farsi ingannare dall’ottimismo tipico della
mentalità illuminista (e di quelle da essa derivate: la liberale e la democratica) 28: di conseguenza si comportò come
una novella Cassandra, annunziando eventi luttuosi che si
sarebbero inevitabilmente prodotti, ma incontrando nel
contempo l’incredulità (e il fastidio) di coloro che cercava
di mettere in guardia.
Sventato (apparentemente) il pericolo giacobino, la rivoluzione subisce una metamorfosi, come avviene dopo
ogni sua momentanea sconfitta: il processo rivoluzionario,
cioè, prosegue, ma cerca di apparire come più moderato.
Per usare un termine non precisissimo, ma che rende il
senso di questo mutamento, potremmo dire che si “borghesizza”, si fa “più borghese” e quindi più accettabile. Per
27
Metternich non era certo un liberale, ma «si illude[va] di poter tenere
a bada le forze eversive con la mera osservanza dell’ordine e della legalità» (SILVIO VITALE, op. cit., p. 57) e riteneva – a torto – inadatto il Canosa al bene della causa che entrambi difendevano..
28 Sulla questione, cfr. PRIMO SIENA, Donoso Cortes, Volpe, Roma 1966.
37
usare adesso i termini proposti inizialmente da un noto
saggio storico-politico del conte Alessandro Manzoni 29, potremmo dire che se la rivoluzione francese, giacobina e radicale, è ferocemente anticlericale e antimonarchica (attacca cioè direttamente il Trono e l’Altare), la rivoluzione
italiana, vale a dire il Risorgimento, invece diviene sempre più moderata per farsi accettare dalle popolazioni italiane, passando dal Terrore al bonapartismo, dal giacobinismo del 1799 al liberalismo costituzionalista del 1820 e,
più tardi, dall’estremismo mazziniano alla più rassicurante realpolitik cavourriana, di cui l’ambiguo motto “libera
Chiesa in libero Stato” è forse il più chiaro esempio di
“moderazione” 30. Cambia la maschera con cui la rivoluzione si presenta, ma lo spirito rimane inalterato.
D’altro canto, la cosiddetta Restaurazione, anziché opporre una reazione al processo rivoluzionario, preferisce
proporre una conservazione di gran parte delle innovazioni, anziché tornare effettivamente allo status quo ante
1789 (ad esempio, nel caso napoletano, il mantenimento
dei codici di stampo napoleonico promulgati da Murat). In
sintesi: «I moderati moderano gli impeti della rivoluzione,
i conservatori ne conservano gli effetti» 31.
La democratizzazione – intesa come distruzione dello
spirito aristocratico e del ruolo politico della nobiltà nella
società – è dunque un passaggio che ha le sue radici ideologiche nel giacobinismo, ma pone le proprie basi, per
29
ALESSANDRO MANZONI, La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859: saggio comparativo (1889, postumo)
30 Cfr. a tal proposito MASSIMO VIGLIONE, Libera Chiesa in libero Stato?
Il Risorgimento e i cattolici: uno scontro epocale, Città Nuova, Roma
2005, e ID., 1861. Le due Italie. Identità nazionale, unificazione, guerra
civile, Ares, Milano 2011.
31 Cfr. MIGUEL AYUSO TORRES, Las murallas de la Ciudad, Nueva
Hispanidad, Buenos Aires 2001, p. 124, che cita un pensiero di JAIME
BALMES.
38
quanto riguarda il Regno delle Due Sicilie, nella politica
dell’amalgama realizzata all’inizio di quella che si dovrebbe definire non semplicemente Restaurazione, bensì mancata Restaurazione.
Democratizzazione che avviene da un lato premiando i
borghesi “novatori” con il mantenimento nel ruoli ricoperti
(con il trattato di Casa Lanza 32), dall’altro togliendo
all’aristocrazia il ruolo storico di appoggio e controllo nei
confronti della Corona (con l’abolizione dei Sedili).
Tale visione è confermata dallo storico – non accusabile
di simpatie reazionarie – Walter Maturi: «Poggiata da un
lato su una classe dirigente infida e dall’altro su istituzioni democratiche, la monarchia napoletana si trovava in
uno stato di estrema debolezza» 33.
Va notato a questo punto che il principale nemico del
Canosa, il ministro Medici 34 fu un fautore non tanto del
liberalismo democratico, quanto del dispotismo liberale e
che Canosa, invece, volle contrapporre al potere assoluto
del Re le tradizionali istituzioni aristocratiche, a partire
dai disciolti Sedili.
La politica del Medici, volta a combattere i reazionari (i
calderari) anziché utilizzarli in funzione anticarbonara,
32 Il Trattato di Casa Lanza (20 maggio 1815), con cui il Regno tornava
a Ferdinando IV, concedeva un’amnistia generale e riconosceva la nobiltà “napoleonica”, insieme ai gradi, agli onori e alle pensioni dei militari “murattiani” che avessero giurato fedeltà al Borbone.
33 MATURI, op. cit., p. 143.
34 Luigi de’ Medici (1759-1830), Principe di Ottajano, di formazione illuminista, fu nominato dai Borbone nel 1815 ministro delle finanze e
presidente del consiglio dei ministri. Rimase in carica fino al 1820,
quindi fu costretto alle dimissioni dopo i moti liberali, ma Metternich (e
i banchieri che avevano finanziato Ferdinando I) ne imposero il reintegro a spese del Canosa, preferendo (demonia dell’economia!) una supposta sicurezze economica (il Medici passava per un abile economista)
alla saldezza politica (fu uno strenuo partigiano della “politica
dell’amalgama”).
39
«riconduceva fatalmente sull’orlo della rivoluzione la monarchia napoletana, come l’avevano condotta i ministri del
secolo XVIII» 35.
Gli scritti politici
A giudizio di Maturi, la mastodontica opera inedita
Perché il sacerdozio dei nostri tempi, e la moderna nobiltà
dimostrati non siansi egualmente generosi, e interessati
come gli antichi per la causa della monarchia e dei Re «è
la Summa del pensiero politico del Canosa, i Piffari di
montagna ne sono il ristretto; se la grande opera con le
sue lunghe glosse ha un fine esoterico, il vivace pamphlet
ha un fine essoterico» 36. Lo stesso critico sostiene che
l’autore «non fa che diluire ciò che aveva detto in breve
nella dissertazione del 1803» 37, vale a dire il Discorso sulla
decadenza della Nobiltà 38.
In esso si ribadisce l’importanza del ceto aristocratico
per il buon andamento dello Stato e si individuano – tra
l’altro – nella sua decadenza le cause dell’indebolimento
dell’istituto monarchico.
Decadenza accentuata dall’allontanamento, prima che
dei posti di governo, dalla cultura:
Da prima si fece loro credere non essere per Nobili onorevole
carriera quella delle lettere sì bene competere al di loro grado
solo quella delle armi; furono così per necessità allontanati da
tutti quei pubblici impieghi che occupare si vedono per lo più dai
loro avversari. Riuscito ciò perfettamente, si procurò in talune
Regioni di allontanarli eziandio dalla Milizia. 39
35 MATURI,
op. cit., 144-145.
op. cit., p. 141.
37 MATURI, op. cit., p. 137-138.
38 ANTONIO CAPECE MINUTOLO, Discorso sulla decadenza della nobiltà,
ristampa a cura di Silvio Vitale, Krinon, Caltanisetta 1992.
39 Ivi, p. 37.
36 MATURI,
40
E mette in guardia dall’assolutismo centralista:
il chiamare tutto alla Capitale, indi alla Corte ed in seguito nella propria persona divora la Monarchia non altrimenti che
l’uomo distrutto dall’idrocefalo […]. 40
confermando l’importanza della funzione di un ceto intermedio tra Popolo e Sovrano:
Il distruggere i privilegi della nobiltà, dei sistemi morali delle
Città tutto corrompe in governo monarchico: ugualmente il
chiamare privatamente a sé il Sovrano tutto il potere snerva
l’energia dei sudditi, togliendo quella politica reazione in cui
consiste l’energia degli Stati; […] quando i Grandi non sono nella massima venerazione presso il Popolo, quando gli onori vengono prodigati ai vili, ed alla canaglia, quando è nell’animo dei
sudditi estinto ogni amore nazionale, onde le generose azioni per
secondari fini si eseguiscono, tutto accresce i potere del Principe,
ma ne sfianca il fondamento, non altrimenti, che taluno cavando
i sassi angolari di un vasto edificio adattasse questi sul vertice
di esso per renderlo più elevato e imponente. 41
Pienamente formato teoricamente, quando nel 1821
tornò alla guida del Ministero di Polizia del Regno di Napoli, «aveva idee grandiose: avrebbe voluto inquadrare la
sua azione in un’azione più vasta, concertata, uniforme di
tutte le polizie italiane, e possibilmente anzi di tute la polizie europee, per distruggere le sette liberali e non permettere loro che, annientate in uno Stato, si rifacessero le
ossa in un altro» 42.
Così scriveva all’amico Giuseppe Torelli:
È sempre stato mio sentimento che un ministro o magistrato di
alta polizia, eletto a comuni voti dalle potenze italiane, risedesse
in una città centrale dell’Italia. Questo dovrebbe immaginare il
sistema di attacco, e quello penale per 43 i settari. Questo poi do40
Ivi, p. 35.
Ibid.
42 MATURI, op. cit., p. 152-153.
43 Contro.
41
41
vrebbe esser eseguito da tutti i diversi ministri di polizia dei vari Stati, i quali (sotto un tale aspetto) dovrebbero essere considerati come prefetti del ministro principale, col quale dovrebbero
corrispondersi seguendone le disposizioni. In caso diverso se io
userò a Napoli un sistema vigoroso, e di rigore, e in Firenze o
Roma mi sarà adottato uno paralitico, le mie fatighe rimarranno
inutili, giacché i carbonari che non si riuniranno in Napoli verranno in Roma o Toscana a congregarsi. Se la malattia contagiosa fosse endemica, se fosse di un solo paese, allora il rigore parziale gioverebbe, siccome però è universale, così non solo unica
polizia italica io desidero, ma, se fosse possibile, europea. 44
Nella sua lotta a tutto campo alla politica dell’amalgama, Canosa voleva rigenerare la vita politica napoletana,
italiana ed europea; gli Austriaci invece desideravano che
si occupasse solo di Napoli e si limitasse a punire coloro
che avevano contribuito al movimento rivoluzionario dal 2
all’8 luglio 1820, senza rinvangare la vita precedente della
classe dirigente napoletana, esautorando murattiani e
giacobini.
La sua nobiltà, però, gli impediva di colpire i familiari
dei colpevoli: ad esempio rifiutò di installarsi nel palazzo
di famiglia dei de Medici, per non dover di fatto mandare
via la sorella dell’ex ministro, donna Maria Luisa 45. Fu
«cavalleresco con le dame ed indulgente con i Don Abbondio» 46, ma inflessibile nei confronti dei carbonari recidivi,
per i quali estese la pena corporale della frusta, fino ad allora riservata a ladri e marioli comuni.
I delitti di opinione secondo il ragionare dei più profondi politici,
non devono attaccarsi direttamente colle pene di lunga durata e
molto meno con quella pena di morte, che diventa la madre dei
martiri nel tempo del riscaldamento e del fanatismo. Delitti di
simil genere debbono quindi esser puniti con quelle pene passeggere che recano al colpevole l’ignominia, avvegnaché il disprezzo ed il ridicolo è il vero farmaco che indirettamente cura
44
CANOSA a Torelli, 26 giugno 1821, cit. in MATURI, op. cit., p. 153.
MATURI, op. cit., 155.
46 MATURI, op. cit., 156.
45
42
questa morale infermità. La pena della frusta era perciò indicata, siccome la massima parte si aggrega alle sette per un fanatismo di vanità, così in una pena umiliante trova il male il suo
preciso rimedio. 47
Tale punizione, inedita per i “galantuomini”, fu peraltro applicata due sole volte 48. Avrebbe anche voluto – in
accordo con il Re – utilizzare il diritto militare per superare le difficoltà frapposte dal codice napoletano, derivato da
quello napoleonico e mantenuto dopo la Restaurazione –
che anche dal punto legislativo fu ben poco restaurativa –
ma venne impedito dal ministro plenipotenziario austriaco
Ficquelmont 49, che non accettava la politica degli arresti
preventivi. Una serie di equivoci e, soprattutto, di sottolineature di equivoci, portò all’accoglimento delle dimissioni
(28 luglio), che Canosa si augurava venissero respinte. Ristrutturata radicalmente la polizia, con l’abolizione della
figura del ministro e la sua sostituzione con un organo collegiale (Metternich criticò tale decisione, che indeboliva
chiaramente l’istituto, dando inoltre un giudizio negativo
di uno dei membri di tale organo, il mestatore ferrarese
Flaminio Baratelli (1776-1847), «anima dannata del generale Frimont» 50 e tra i principali accusatori del Canosa).
Il Principe fu nominato Consigliere di Stato, mentre
delle sue dimissioni si gloriavano
[i] plenipotenziari, che volevano ingerirsi nelle faccende interne
del regno; [il] generale Frimont, che voleva comandare in tutto;
47
Risposte e animadversioni…, nota 5, cit. in MATURI, op. cit., 156.
op. cit., 156-157.
49 Karl Ludwig von Ficquelmont (1777-1857) fu sempre uno degli strumenti più influenti della politica di Metternich.
50 MATURI, op. cit., p. 168. Il generale lorenese Johann Maria Philipp
Frimont (1759-1831) nel 1821 guidò l’esercito austriaco impiegato contro la rivoluzione napoletana. Ridonando la capitale nelle mani dei borbonici (24 maggio 1821), fu ricompensato dal re Ferdinando I con il titolo di principe di Antrodoco e con il rango di generale di cavalleria, oltre
che con una rilevante somma di denaro (220.000 ducati).
48 MATURI,
43
Flaminio Baratelli, che voleva sottargli il posto; [il] principe
ereditario, che gli sottraeva quanti più compromessi poteva; [il]
duca d’Ascoli, che era geloso del suo favore presso il Re; [il] collega di Grazia e Giustizia, che non trovava modo di condannargli coloro che egli arrestava; [i] carbonari e murattiani, che temevano il suo odio politico. 51
La carica di Consigliere, che gli permetteva di sentirsi
come protetto da una trincea 52, lo inorgoglì contro i diplomatici esteri, che si rese nemici, disprezzandoli apertamente. Nei suoi confronti vennero sferrati colpi bassi: furono diffusi contro di lui libelli infami 53 e fu persino attaccato sul versante della vita privata; in particolare venne
accusato di aver avuto alcuni figli – peraltro riconosciuti –
prima del secondo matrimonio: si difese non negando, anzi
considerandosi un peccatore, ma dicendo di non aver sforzato la donna di altri, né di aver aborti o abbandoni sulla
coscienza.
Per il ritorno del Medici si coalizzarono le “Corti del
Nord” (Austria, Prussia e Russia) contro l’appoggio del solo Duca di Blacas, ambasciatore francese presso il Regno
delle Due Sicilie, e di Ferdinando stesso, «sempre intimamente persuaso che se il Canosa non aveva reso come ministro tutto quello che si aspettava da lui, la colpa era dei
51
MATURI, op. cit., p. 169. Lo studioso aggiunge all’elenco dei nemici del
Principe anche i «sanfedisti, che fremevano dalla voglia di ritornare ai
bei tempi del 1799», forse facendo riferimento a una risposta ai rivoluzionari che non passasse attraverso i tribunali, ma si esprimesse con lo
strumento del linciaggio. Ciò vuol dire che lo stesso Canosa era considerato un “moderato” o almeno, un “garantista”?
52 Cfr. lettera a Torelli, 8 ottobre 1821, cit. in MATURI, op. cit., p. 170.
53 Con la sua consueta ironia, ad una Memoria tradotta dal tedesco che
lo accusava di abusi di potere e di arresti arbitrari, replicò con una
pungente versione dall’illirico di una Risposta fatta alla “Memoria tradotta dal tedesco” diretta al Rabbino signor Arbatille in Ancona. Arbatille è, naturalmente, l’anagramma di Baratelli.
44
diplomatici esteri» 54. Passato anche Blacas dalla parte di
Metternich, il Re fu quindi costretto a sconfessare i Piffari
e a richiamare Medici. Il 19 maggio Canosa, sollevato dall’incarico il 13 precedente, lasciò Napoli per passare i restanti quasi diciassette anni della sua esistenza in esilio
volontario.
Sperò di poter tornare in patria, ma né la morte del
Medici, né l’avvento di Ferdinando II (ambedue nel 1830)
sortirono l’effetto sperato: anzi, Ferdinando, pur essendo
stato educato da monsignor Agostino Olivieri (1758-1834),
grande amico del Canosa, preferì evitare di essere circondato da influenti ministri (come erano stati con suo nonno
Acton prima e Medici poi), nominò ministri “tecnici” che
non potessero fargli ombra e «la grande opera della prima
fase del suo Regno consistette appunto nell’assorbimento
del murattismo. […] Era il ritorno alla politica
dell’”amalgama”» 55.
Il periodo dell’esilio non fu passato nell’ozio: la collaborazione con «La voce della verità», la corrispondenza con
altri pensatori (primo fra tutti il conte Monaldo Leopardi 56), la vicinanza a Francesco IV d’Este con il tentativo di
far nascere una polizia sovrastatale, numerosi scritti (non
tutti pubblicati), le polemiche a suon di lettere e “lettere
aperte” (assai famosa quella contro l’ex generale Pietro
Colletta 57, autore 58 di una Storia del reame di Napoli 59 fa54
Lettera di Ferdinando I a Ruffo, ambasciatore a Vienna, del 3 dicembre 1821, cit. in MATURI, op. cit., p. 175.
55 MATURI, op. cit., p. 271.
56 Monaldo Leopardi fu forse il primo a sottolineare l’importanza del
nuovo concetto di “nazione” ai fini della propaganda post-giacobina (cfr.
il suo Catechismo filosofico, in particolare il cap. XIV, La Patria). Si
tratta di una delle metamorfosi “moderate” della rivoluzione, necessaria per trionfare.
57 La corposa risposta del principe di Canosa si intitolò Epistola ovvero
Riflessioni critiche sulla moderna storia del Reame di Napoli del Generale Pietro Colletta (Capolago, 1834).
45
ziosa e più che discutibile 60, ma anche contro Niccolò Tommaseo e il famigerato ministro Girolamo Riccini, che per
invidia personale lo aveva fatto allontanare da Modena).
Se, come accennato, i Piffari di montagna sono l’opera
più conosciuta (almeno di nome) del Canosa, assolutamente da non sottovalutare è un’altra opera, molto meno frequentata, scritta dodici anni dopo: I piccoli piffari 61, sorta
di ideale continuazione del lavoro più noto, ma che a differenza di quello contiene alcune interessanti riflessioni di
natura politologica.
Tra queste c’è una personale visione del corso delle istituzioni, che l’autore (anche in questo caso Canosa si cela
dietro il nome di un amico 62, presumibilmente per dare
una sensazione di maggiore obiettività allo scritto) individua come passaggi necessari sottoposti ad un andamento
ciclico:
58 In realtà essa fu una «autentica produzione di équipe del liberalismo
italiano». SILVIO VITALE, op. cit., p. 8.
59 PIETRO COLLETTA, Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825,
Tipografia Elvetica, Capolago 1834.
60 Pieno di livore personale verso alcuni esponenti della politica napoletana, la Storia del reame di Napoli scontentò non solo reazionari come
Canosa, ma anche liberali come PASQUALE BORRELLI (1782-1849), autore di uno scritto dall’ironico titolo: Saggio su’l romanzo istorico di Pietro
Colletta (Grünbach figlio, Coblenza 1840); e radicali come GIUSEPPE
MAZZINI, al quale il saggio “collettaneo” apparve un lavoro carico più di
egoismo regionale che di vero patriottismo italiano: «La sua Storia è un
frammento più ch’altro. Per dipingere i tempi che formano il soggetto
della di lui opera si richiedeva l’energica maschia coscienza di Foscolo.
L’ultime pagine della Storia di Napoli bastano a rivelarne i difetti e
uno spirito d’egoismo locale più potente pur troppo in Colletta che non
il sentimento nazionale Italiano». GIUSEPPE MAZZINI, Scritti editi e inediti, Milano, G. Daelli Editore, 1862, vol. IV, p 323.
61 ANTONIO CAPECE MINUTOLO, I piccoli piffari, ossia Risposta che alla
sovrana liberalesca itala canaglia da l’antico autore de’ Piffari di montagna in difesa del suo calunniato cliente Principe di Canosa, Parigi
1832.
62 Giuseppe Torelli.
46
Ecco difatti il corso regolare de’ cangiamenti di governo secondo
insegnano tutti i politici, ed apprendiamo dai fatti che leggiamo
fino dalle storie le più antiche. La monarchia in seguito di rivoluzione passa ad anarchia, dall’anarchia siegue l’oclocrazia, indi
succede la democrazia: questa fa all’aristocrazia passaggio, alla
quale succede l’oligarchia, dalla quale si passa al dispotismo.
Dopo rincomincia il corso di sopra enunciato. 63
In sintesi il “ciclo delle istituzioni” è il seguente: monarchia → rivoluzione → anarchia → oclocrazia → democrazia → aristocrazia → tirannia → monarchia. Naturalmente, il motore del movimento, ciò che rompe l’equilibrio
assicurato da una monarchia, è la rivoluzione. Notiamo
che il Canosa inverte il classico andamento peggiorativo
“democrazia → oclocrazia”, inserendo il passaggio delle
varie forme di governo in un ciclo che prevede anche movimenti ascendenti e non solo degenerativi.
Un’altra interessante considerazione è quella secondo
cui, nella scelta della forma di governo, il numero dei governatori dovrebbe essere inversamente proporzionale al
numero dei governati 64.
Ciò significa che parlare di “democrazia possibile” ed
additare come esempio la Svizzera è un errore grave, perché non tiene conto dell’esiguo numero degli amministrati
rispetto a nazioni più popolate.
63
I piccoli piffari, cit., p. 21.
«Difatti quando i Satrapi Persiani uccisero lo Pseudo-Smerdi usurpatore del trono, in congresso fra loro uniti (come ci narra Erodoto), discettando fra loro quale forma di governo in Persia sostituir si dovesse,
fuvvi chi propose la democrazia, ed altri ancora l’aristocrazia. Siccome
però tra que’ Primati non vi erano né i pazzi, né gli asini dell’età nostra,
così riflettendo che la forma del sociale reggimento dev’essere sempre
in ragione inversa dello stato numerico della popolazione, così i sentimenti per la democrazia tanto che per l’aristocrazia vennero rigettati, e
tutti convennero i Satrapi onde la stessa forma di monarchico reggimento confermata venisse come la più adattata per una numerosissima
popolazione». Ivi, p. 22.
64
47
Naturalmente, a fianco di questioni puramente teoretiche, l’autore dibatte anche di questioni storiche, ma rimanendo su livelli teorici:
Nel 1799 all’ingresso de’ stranieri sanculotti due erano le forze
nel paese. Quella della massa popolare e di tutta l’onesta gente,
e quella de’ liberali chiamati allora più adeguatamente giacobini. I primi volevano Ferdinando IV di loro Re, e lo amavano (in
quel tempo) con tanto entusiasmo che si batterono le tante volte
cogl’ingiusti invasori. La massa dunque della nazione volea la
monarchia. I giacobini poi (per quanto da loro medesimi, come
sempre non valessero un zero) appoggiandosi agli stranieri volevano la cacocrazia, ovvero quel governo de’ malvaggi che sogliono nominare democrazia. 65
Dopo aver protestato la stima che di lui avevano sia
Ferdinando I che il successore, Francesco I, testimoniata
da numerose lettere che «tutte dimostrano la stima in cui
tenevano il Canosa, e la perfetta conoscenza che avevano
della congiura diplomatico-liberale» 66, l’Autore narra un
aneddoto:
Il Re Francesco trovavasi un dì in un certo imbarazzo. Egli non
senza ragione suppose che gli venisse preparato un giochetto
non dissimile da quello del 1820. Volle sentire taluni soggetti
che nulla aveano che fare col Consiglio di Stato, ma della onestà,
talenti ed attaccamento de’ quali non potea dubitare. Tra questi
ascoltò il sentimento di un Magistrato superiore, e di un abile
onoratissimo colonnello. Ambedue gli parlarono del Principe di
Canosa, e della nullità in cui avea saputo gettare la carboneria
nelle diverse epoche in cui fu Ministro di Polizia. “Lo so, rispose
il Re, Canosa fu sempre un galantuomo; non allarmò giammai
mio Padre mentre procurava che i suoi occhi restassero vigilanti”. Il bravo colonnello poi, al quale il Re Francesco domandò in
qual modo comportato si sarebbe per prevenire le insidie degli
ostinati incontentabili carbonari [disse]: “Niente altro che mandare al Principe di Canosa l’ordine di recarsi subito in Napoli.
Arrivato a Capodichino, lo farei calare dalla carrozza facendolo
65
66
Ivi, p. 23.
Ivi, p. 69, nota 1 (da p. 68).
48
venire a piedi sino a palazzo tenendo una frusta sotto il braccio”.
Al che il Re replicò “Sarebbe il vero rimedio. Non sai però che
tengo le braccia legate?” 67
Tornando alla teoria della politica, Canosa svolge alcune illuminati considerazioni politologiche iniziando dalla
critica alla democratizzazione della società:
Per una di quelle solite malizie (non comprese o non volute capire da’ politici che servono le monarchie) or non si fa più quasi
mai parola negli ordini, come in tante altre faccende, de’ nomi
Augusti d’Imperatore, Re, Gran Duca etc. etc. che tanto ne imponevano, ed incutevano rispetto nella moltitudine. Ora invece
non si parla che di Governo, della legge (res mutae) che non impongon punto, e muovono, che anzi (e talvolta ragionevolmente),
eccitano rabbia e disprezzo. Come pretendere di fatti che ne impongano uomini senza costumi, senza principii, spesso ignorantissimi, e che sorti dal più vile fango, senza un nome, passano di
frequente dalle cariche più elevate alla dimenticanza, e talvolta
al remo dalla bigoncia 68! Sia per altro ciò che si voglia di questo,
come di tanti altri disordini di taluni monarchici reggimenti dopo la restaurazione, questo giova pel momento moltissimo al
presente mio caso. 69
Indi elogia la monarchia ereditaria, necessaria per assicurare, attraverso il passaggio (traditio) dello scettro di
padre in figlio, il buon governo ed evitare lo spoglio del
bene pubblico, considerato quale bene personale da tutelare, a differenza di quanto invece accade usualmente in un
regime repubblicano, dove bisogna “approfittare” del momento favorevole – e transitorio – di una carica pubblica
per arricchirsi:
Comprenderà benissimo ciascuno che io non posso far parola per
[mettere in] ombra di quel Principe che essendo legittimo ed
ereditario non può essere ingiusto. Conciossiaché un Sovrano legittimo ed ereditario, per quanto fosse di non buona indole,
67
Ivi, p. 69, nota 1.
Letteralmente la bigoncia è un recipiente di grandi dimensioni.
L’espressione “dalla bigoncia al remo” vale per “dalle stelle alle stalle”.
69 I piccoli piffari, cit., p. 71-72, nota 1.
68
49
dev’essere giusto verso i suoi sudditi; dapoiché il bene pubblico è
utilissimo ancora a’ particolari interessi di lui. Così il proprietario di un fondo, per quanto sia scioperato e prodigo, non farà tagliare giammai gli olivi e le viti per vendere la legna per pochi
soldi, o pure per ripararsi dal freddo. Rapaci, ladri, crudeli, ingiusti, servi di tutte le più vili passioni non sono che i Dittatori,
i Presidenti, i Consoli, gli Usurpatori tutti coloro cioè, che governando illegittimamente, non possono riguardare lo stato comune di loro proprietà che temporanea, per cui cercano profittare del momento per farsi una fortuna, né si curano che tutto vada alla malora purché ne ricavino piccolo profitto. Il colono di un
fondo in questa guisa che sa doverlo lasciare tra pochi mesi tira
giù a scorticare il terreno per guadagnare poche misure di frumento di più e tutto (se gli venisse permesso) distruggerebbe pel
più lieve profitto. Non altrimenti que’ soldati in tempo di guerra,
che si trovan di passaggio per un fiorito orto bottanico, e le piante preziose del caffè e le più peregrine schiantano ed atterrano
per cucinarsi una minestra, per evitare il freddo di una notte, ed
anche per soddisfare il barbarico gusto della distruzione. Ecco la
differenza de’ monarchici governi legittimi ereditarii, e le repubbliche, o governi degli usurpatori. Che se, oltre un certo
buon senso e le istorie di tanto non ci accertassero, di ciò saremmo convinti dalla nostra stessa esperienza. Quanti utilissimi stabilimenti in Inghilterra, in Francia, in Italia, da per tutto
non ha distrutti la rivoluzione? quante istoriche famiglie condotte fino alla miseria! In qual modo le gravezze sono state aumentate, le vessazioni moltiplicate per nudrire la plebe della canaglia ispiratrice! Scevro insomma l’uomo da prevenzioni, o fanatismo osserverà che se ne’ Governi Monarchici legittimi si trovano
errori (che sono indispensabili nelle cose umane qualunque)
massimo è il disordine, massime sono le oppressioni, rapine, ingiustizie ne’ reggimenti poliformi e popolari massimamente. Cicerone per quanto fosse repubblicano ne conviene spesso nelle
diverse sue opere, come ne convengono tutti gli antichi scrittori,
principiando da Omero. 70
Il saggio si avvia alla conclusione con una serie di inviti, già altrove indirizzati ai governanti, relativi all’evitare
ogni compromesso con i liberali, ricordando che alle spalle
dei Troni si trova la ghigliottina e ad ogni passo compiuto
70
Ivi, p. 72-73, nota 1.
50
indietro ci si avvicina a quel terribile strumento e che,
quando si ritenevano vittoriosi, il loro triste motto era stato «impiccheremo l’ultimo papa con le budella dell’ultimo
re» 71. Dunque nessuna clemenza per costoro.
La morte in esilio
“Il medico pietoso fa la piaga cancerosa”, dice un proverbio. Qualcosa di simile era avvenuto già ai tempi di
Carlo IX e degli Ugonotti, ma allora il Sovrano francese
non cercò la politica del colloquio, dell’amalgama o del giusto mezzo, come non l’avrebbe cercata lo zar Alessandro I
nel 1812:
A Carlo IX Re di Francia era stata dagli Ugonotti preparata la
stessa festa, che poi fu data a Luigi XVI. Tutto era tanto ben disposto da’ liberali di que’ tempi, ed il colpo si credea da per tutto
[…] inevitabile […]. Carlo IX però non era predestinato, né avea
punto voglia di diventare Re martire. Rifletté da senno a’ casi
suoi. Egli si avvide, che la minaccia era di un’apoplessia sanguigna, che tentava colpire sé, e tutti i cattolici della Francia, cosa
fare? Per tali malattie conobbe essere necessario il cavar subito
sangue usque ad animi deliquium, ed ordinò quella famosa operazione nella nottata di San Bartolomeo 72, contro la quale declamaron tanto, né si sono stancati ancora di tarroccare i liberali. Il rimedio fu sicuramente terribile. Esso però salvò se medesimo e la Francia dal male orrendo immaginato da’ Calvinisti.
Così si è gridato tanto contro quell’incendio di Mosca (qualche
71
«Essi hanno confessata la propria fellonia, quando inebriati dalla fortuna, supponeano nella di loro stoltezza tutto essere terminato per il
Re. Ora cosa dissero in quell’epoca; cosa risuonò da un punto all’altro
dell’Europa. Non essere essi soddisfatti che quando colle budella
dell’ultimo Prete avrebbero strangolato l’ultimo Re. Or contro canaglia
cotale irriconciliabile vostra nemica cosa serve usare riguardi? dare
ascolto a’ moti di clemenza? È questa una qualità propria di Dio, ed i
Sovrani devono praticarla, ma quando il raziocinio persuade che possa
produrre buoni risultamenti. In caso diverso la clemenza trasmutandosi in debolezza diventa invece un vero e grave peccato». I piccoli piffari,
cit., p. 98-99.
72 La notte tra il 23 ed il 24 agosto 1572.
51
cosa assai di più serio che la nottata di S. Bartolomeo). Chi non
si unirà col liberalismo fremente sotto un certo punto di vista!
Al riflettere però che quella terribile operazione, non che salvare
l’Impero Russo, distrusse in una notte l’Impero Francese, e stritolò le ossa dell’erede universale della rivoluzione, si converrà,
che quello era necessario, e quello venne eseguito con gigantesca
intrepidezza. 73
Quindi si lamenta: «Or cosa di simile è stato fatto dai
Borboni de’ tempi nostri, per quanto le circostanze il richiedessero? Nulla» 74. Tra l’altro, va notato come nonostante (o a causa de) l’apertura ai liberali del governo di
Leopoldo II di Toscana – comportamento che venne stigmatizzato anche da Monaldo Leopardi in un suo dialoghetto 75 – la censura granducale, che era abbastanza morbida nei confronti dei giornali 76, dei libri 77 e degli spettacoli teatrali 78 di impostazione liberale, fu invece inflessibile
73
I piccoli piffari, cit., p. 109, nota.
Ivi, p. 109-110, nota.
75 «Io so di certo che vicino vicino a Napoli ci è un Paese dove si trova la
vera cuccagna dei liberali. In quel paese appena uno si è mostrato ribelle, subito un impieguccio, ovvero una pensioncella, e tutte le carezze del
governo. Possono aver fatto qualunque danno, possono venire segnati a
dito da tutti, non fa niente; si lasciano strillare la giustizia e la prudenza, e si pelano i sudditi fedeli per provvedere i sudditi ribelli. Signor
Dottore, andiamo in quel caro paese e viviamo ancor noi a spalle dei
gonzi». MONALDO LEOPARDI, Dialoghetti sulle materie correnti dell’anno
1831, Il viaggio di Pulcinella, scena ultima.
76 Come «La Giovine Italia» di Giuseppe Mazzini e la «Antologia» di
Giovan Pietro Vieusseux, fatta chiudere solo nel 1833.
77 Francesco Domenico Guerrazzi, dopo il successo de La battaglia di
Benevento del 1827-1828, collaborò all’«Antologia» e aveva esplicitamente attaccato il Granduca di Toscana ed il Duca di Modena in una
conferenza tenuta all’Accademia Labronica il 19 marzo 1830. Cfr. MATURI, op. cit., p. 284.
78 La tragedia Giovanni da Procida di Giovanni Battista Niccolini venne rappresentata nel 1830 alla Pergola e vietata solo dopo varie repliche per «le proteste dei rappresentanti di Francia e Austria e provocò
un irrigidimento della censura toscana, che proibì lo smercio
74
52
con «La Voce della Verità», in questo sollecitata addirittura dall’ambasciatore austriaco a Firenze, conte Ludwig
Senfft von Pilsach (1774-1853), che accusò il Canosa di
fomentare disordini, di essere il malo consigliere di Francesco IV di Modena e di conseguenza di essere la prima
causa dei cattivi rapporti con il Ducato estense 79. Perseguitato dai liberali in nome della libertà e non difeso dai
“conservatori”, Antonio Capece Minutolo invia i suoi ultimi avvisi ai regnanti, additando come causa prima di una
possibile – anzi, probabile – nuova rivoluzione la politica
dell’amalgama:
Lungi dalle cariche del vostro stato coloro, che creature della rivoluzione ottennero posto col ministerio dei misfatti. Lungi gli
uomini equivoci che sanno stare a cavallo del fosso, e che non
possono nudrire per voi un personale interesse. Accostatevi alle
truppe; non disgustate con ingiustizie i soldati, fatevi amare da
essi, e disprezzate il rimanente come il giusto mezzo. 80
Nemo propheta in patria: la Cassandra – più che il Don
Chisciotte – della reazione non fu abbastanza stimato dai
Re che voleva porre sull’avviso e che servì finché poté.
Trattato con sufficienza, alle volte con fastidio, circondato
dall’invidia degli altri cortigiani che ben si rendevano conto delle sue capacità e della possibilità – anzi certezza – di
essere oscurati da lui, alla sua morte l’unico elogio funebre
giunse dal conte Monaldo Leopardi:
È una vergogna dell’Italia ed uno scandalo nel partito della legittimità che non si alzi una voce d’encomio per questo grande
uomo. Aveva i suoi difetti, ma nessun uomo ne va esente, e le
accuse che potevano promuoversi contro di lui, per la troppa
veemenza con cui si scagliava contro gli individui, vengono in
gran parte giustificate dal considerare che egli, e forse non a
dell’edizione a stampa del 1831»78, ma nello stesso anno fu stampato a
Palermo, Napoli, Torino e Bologna.
79 Cfr. MATURI, op. cit., p. 286-287.
80 I piccoli piffari, cit., p. 182, nota.
53
torto, vedeva sempre il partito nelle persone. Del resto Canosa
era un gran dotto, un gran politico, un vero galantuomo e un vero cristiano. 81
Meritava di più l’uomo che, quando Ferdinando I, esautorandolo nel 1816, gli offrì un seggio nel Consiglio di Stato e una pensione di 8.000 scudi, rifiutò con parole di
grandissima dignità:
Signore, siccome questa non è carta da rendere pubblica, così
con altra mia supplica ho chiesto umilmente a V. M.
l’esonerazione del mio incarico, adducendo causa di salute. In
questa con la stessa umiltà le dico che sebbene sia questa
mal’andata pure la causa è più morale, e politica di [quanto] sia
fisica, io credo di tradire V. M. e la mia coscienza servendola col
sistema in vigore. Io sono stato reso un pezzente dai Francesi. V.
M. con eccesso di clemenza mi ha tratto dalla miseria dandomi
tutto ciò che poteva. Ottomila ducati l’anno, e casa mi facevano
vivere com’era nato, e mi avrebbero fatto provvedere di dote le
povere figlie, che hanno tutto perduto nella distruzione del Monte Capece. Io dunque o sono un pazzo per abbandonare, in virile
81
Monaldo Leopardi a Luigi Palmieri, 21 marzo 1838, cit. in MATURI,
op. cit., p. 343-344. Lo stesso Conte Leopardi, qualche anno prima, aveva scritto: «il Principe di Canosa è l’Argante del partito dei re, e bisognerebbe avere l’anima di Giuda per negargli il diritto all’omaggio e
alla riconoscenza di quanti combattono in difesa della legittimità. Egli
primo di ogni altro inalberò la bandiera della verità, e mise un argine
alla piena inondatrice del tempo; egli insegnò che il bugiardo filosofismo non vuol’essere accarezzato, ma bisogna rompergli il muso; ed egli
affrontò tutte le rabbie di questa belva, buttandosi nella voragine per la
salvezza comune. Inoltre i suoi dotti e gagliardissimi scritti squarciarono molti veli, illuminarono molte menti, suggerirono molli pensieri; e se
Canosa non avesse dato il tuono con la sua voce al legittimismo italiano, oggi non si ascolterebbero quelle altre voci che incoraggite
dall’esempio di lui, si sono sciolte in sostegno della giustizia. In sostanza Voltaire fu il patriarca della empietà, la Fajette è stato il patriarca
della bugiarda libertà, e Canosa è incontrastabilmente il patriarca del
realismo e della legittimità». Commento alla poesia Date obolum Belisario, in «La Voce della Ragione», vol. XII, fasc. 71 (15 marzo 1835), p.
319.
54
età, la mia fortuna, o sono un Uomo di onore, che tradire non
voglio la mia coscienza, il sentimento mio. 82
Ma il non averlo ascoltato andò a discapito delle Corone, prima di tutto quella napoletana:
Ma se pure, nel ‘48, Ferdinando II dovrà brillantemente superare l’urto rivoluzionario, valendosi delle sole sue forze, la scadenza del ‘60, allorché il regno si trova pullulante di antichi e nuovi
settari e di traditori, incapace di resistere alla propaganda e
all’azione garibaldina, segnerà ancora una volta la verifica della
giustezza della politica per la quale, inascoltato, il Canosa ha
combattuto per tutta la vita e a nulla servirà il valore sfortunato
dell’ultimo re napoletano, Francesco II. 83
82
Lettera privata del Principe di Canosa a Ferdinando I, Archivio di
Stato di Napoli, Archivio Borbone, f. 723, c. 117.
83 SILVIO VITALE, op. cit,, p. 60.
55
Conclusioni
La politica dell’amalgama:
l’effetto della mancata Restaurazione
All’indomani della “cosiddetta” Restaurazione 1, la politica dell’amalgama fu indubbiamente la scelta più semplice da compiere, poiché mantenere nel loro posto sia i funzionari dell’apparato burocratico statale che gli ufficiali
dell’esercito, come imposto dal trattato Casa Lanza 2, rispondeva a una duplice serie di considerazioni: in primo
luogo, evitare un complesso e presumibilmente lungo lavoro per la sostituzione dei quadri burocratici e militari, che
per la sua durata avrebbe potuto creare difficoltà ai due
apparati statali; in secondo luogo, non suscitare il malumore che necessariamente sarebbe derivato dal licenziamento di tale personale, che in alcuni casi occupava il proprio posto da quasi dieci anni.
A queste considerazioni di carattere pratico si affiancarono due considerazioni di carattere teorico: l’illusione che
coloro che avevano servito sotto Giuseppe Bonaparte e
Gioacchino Murat potessero accettare senza problemi il
1
Il motivo del virgolettato è spiegato oltre.
Il Trattato di Casa Lanza (firmato il 20 maggio 1815 a Pastorano, nei
pressi di Capua) prevedeva un’apposita clausola in base alla quale
«ogni militare al servizio di Napoli, nato nel Regno delle Due Sicilie,
che presterà giuramento di fedeltà a S.M. il Re Ferdinando IV sarà
conservato nei suoi gradi, onori e pensioni».
2
“nuovo” re Ferdinando e fondersi – amalgamarsi, appunto
– con i quadri burocratici e militari di fedeltà borbonica; e
la prevalenza che veniva data al servizio all’assetto istituzionale 3 rispetto alla fedeltà alla Dinastia.
Questi vari elementi, tra loro combinati, risultarono
fondamentali per imporre al Regno delle Due Sicilie – ma
anche ad altri Regni – il mantenimento dello status quo
pre-restaurativo (o, se si preferisce, post-rivoluzionario)
che lasciò covare pressoché indisturbate le ceneri della
mentalità liberale e portò necessariamente ai reiterati
tentativi rivoluzionari del 1820-1821 a Napoli e del triennio liberale in Spagna, del 1830 in Francia e qualche Regno italiano, del 1848 in tutta Europa, per finire con
l’aggressione garibaldina e sabauda del 1860-1861, in cui
un ruolo fondamentale ebbe la mentalità liberale dei quadri burocratici e militari duosiciliani.
Inoltre Ferdinando IV – e ciò è evidente nell’accettare
la codificazione murattiana, che in altro non consisteva
che nella traduzione del Code civil des Français o Code
Napoléon, cancellando così la legislazione napoletana
preesistente, di grandissima tradizione e rilevanza giuridica – dimostrò di non rendersi conto di (o di non dare importanza a) un elemento fondamentale: nei dieci anni del
suo esilio siciliano, Napoli non era semplicemente stata
sotto un’altra Dinastia, ma era stato attraversato dalla rivoluzione.
L’unico uomo politico napolitano che si batté costantemente contro la politica dell’amalgama – conscio che non
di una lotta contro uomini si trattava, ma di una fondamentale battaglia contro le idee rivoluzionarie – fu il Principe di Canosa, Antonio Capece Minutolo, il quale per ben
3
Nel caso napolitano è più corretto parlare di Regno che di Stato, in
quanto quest’ultimo nascerà solo con l’unificazione dei vari reami della
penisola.
78
due volte venne nominato Ministro di Polizia (nel 1816 e
nel 1821) e per altrettante volte fu destituito dopo pochi
mesi di lavoro. In entrambi i casi a “dirimere” il contrasto
tra i reazionari e i liberali napolitani furono le pressioni
congiunte di due potenti alleati: da un alto la mentalità
massonica inglese, dall’altro la mentalità conservatrice
austriaca (incarnata nella segreteria del Cancelliere austriaco Metternich), quest’ultima evidentemente vittima
della pia illusione di poter giungere a una pacificazione
tra opposte fazioni e ancor più tra opposte (ma in realtà
inconciliabili) visioni del mondo.
Ciò portò alla decisione di percorrere la via tecnicamente più semplice per sistemare i quadri burocratici e militari del Regno. Tale posizione, però, non è scevra
dall’influenza di un fondamentale passaggio politico: ancorare l’essenza del Regno non alla Dinastia che lo rappresenta e che ne difende i principi religiosi, bensì alla mera
struttura burocratica, composta di uffici, di codici, di regolamenti (ed eventualmente di Costituzioni, naturalmente
con la maiuscola) che viene ad essere più importante della
figura del Re e di ciò che egli rappresenta.
Una Dinastia legata ai principi religiosi del cattolicesimo e della legge naturale diventa in questa prospettiva
“moderna” del tutto equiparabile a un Capo di Stato che
sostenga i principi del laicismo, della separazione tra morale e politica, della superiorità del diritto positivo rispetto
alla legge naturale.
La fedeltà alla Dinastia dei Borbone, in quanto non solo
legittimi Re di Napoli, ma soprattutto come coloro che ritenevano inscindibile il binomio Trono e Altare, una fedeltà pagata nel 1799 con la persecuzione ed il carcere e nel
1806 con dieci anni di esilio in Sicilia, veniva equiparata
all’accettazione supina, se non entusiasta, del regime imposto prima dai giacobini e poi dai Napoleonidi. “Fedeloni”
venivano chiamati con disprezzo gli ufficiali dell’esercito
“siciliano” da parte dei loro colleghi “napoletani” che, sen79
za troppi scrupoli, erano passati dalla parte di Gioacchino
Murat, coprendosi sì di gloria nelle campagne militari in
tutta Europa, ma con la macchia primigenia di aver tradito il giuramento prestato ai Borbone.
Come era stato possibile, in una società che aveva
dell’onore un altissimo concetto, in particolar modo di
quello militare, concetto che rimase inalterato anche
nell’esercito napoleonico 4, accettare senza colpo ferire il
tradimento consistente nel passaggio all’esercito degli invasori? Non è possibile ritenere che si sia trattato esclusivamente di questioni “pratiche” cioè di evitare un complesso ricambio nella farraginosa burocrazia statale e tra
gli ufficiali dell’esercito; la risposta va dunque trovata
nell’introduzione del concetto di nazione (che prescinde dal
tipo di governo) e nel fatto che durante gli anni della temperie napoleonica, nonostante l’apparente moderazione
dell’impeto rivoluzionario (dalla ferocia giacobina alla moderazione del Termidoro, dal Consolato repubblicano alla
scolta neo-monarchica dell’Impero), si è andata diffondendo ed imponendo l’idea della supremazia dello Stato su
tutte le forme di governo che esso poteva incarnare.
Il moderno Leviatano viene considerato come intangibile in quanto perfetto in se stesso 5: servire lo Stato è un
onore a prescindere dal fatto che esso sia una Monarchia
tradizionale o una Repubblica democratica e liberale, che
sia retto da un Sovrano legittimo oppure da un usurpatore, che rispetti la vera Religione o che sia fondato su prin-
4
Cfr. MARCO CAVINA, Il sangue dell’onore. Storia del duello, Laterza,
Bari 2005. Per un esempio non saggistico si può rimandare alla lettura
del romanzo breve di JOSEPH CONRAD, I duellanti (The Duel. A Military
Tale, 1908).
5 Di lì a poco, Hegel avrebbe definito lo Stato come «la realtà dell’idea
etica» (Lineamenti di filosofia del diritto [1820], § 257) voluta dal
«cammino di Dio nel mondo» (ivi, § 258, addenda).
80
cipi materialistici ed atei, che si basi sui capisaldi della
legge naturale o invece sulla volatilità del diritto positivo.
Sia i principi di Hobbes che la prefigurazione di Hegel
sono alla base di una Statolatria che la Rivoluzione francese aveva contribuito a diffondere in tutto il mondo: una
Statolatria che aveva eliminato ogni forma di sussidiarietà ed annullato la vitale funzione dei corpi intermedi
La preminenza della forma-Stato sulla forma di governo del Regno fu di fatto sanzionata dal Congresso di Vienna nel momento in cui esso riconobbe come legittimo JeanBaptiste Bernadotte quale re di Svezia e l’Austria propose
di lasciare Gioacchino Murat sul trono di Napoli, indennizzando (magramente) il legittimo Ferdinando IV con la
concessione delle isole del Dodecaneso in sostituzione dei
territori citra pharum 6. Questi soli due esempi servono a
dimostrare come il Congresso di Vienna non operò una vera Restaurazione, ma soltanto una parziale reintegra nel
trono alle dinastie (e non tutte) che erano state spodestate
durante le guerre napoleoniche: tra le altri principali differenze rispetto allo status quo ante guerre napoleoniche
vanno annoverati innanzitutto la mancata restaurazione
del Sacro Romano Impero, quindi quella di un Regno indipendente di Polonia, nonché l’unione della Norvegia alla
Svezia, la definitiva cancellazione di alcune Repubbliche
aristocratiche (Venezia, Genova e Lucca), il Ducato di
Parma tolto ai Borbone e concesso a Maria Luigia, moglie
di Napoleone, nonché la mancata restituzione di Malta
all’Ordine omonimo.
Tutto considerato, si può affermare che la sconfitta di
Waterloo fu abbastanza indifferente per gli assetti politici
europei: i quadri militari e politici – e talvolta anche le
6
La decisione di confermare Murat sul trono di Napoli non si realizzò,
come è noto, per il tentativo del generale francese di farsi Re d’Italia:
ad ogni modo, se non fosse stato per la sua ambizione, Murat sarebbe
stato riconosciuto dal Congresso di Vienna quale legittimo monarca.
81
stesse Corone – rimasero pressoché inalterati; il “vento di
novità” continuò a soffiare e le pretese del ceto “borghese”
non conobbero soste. Il perdono – anzi, i reiterati perdoni
– nei confronti dei nemici del Re di Napoli furono imposti
dalle potenze estere: all’indulto nei confronti dei giacobini
napoletani ordinato da Napoleone nel 1801 7 e a quello
verso i murattiani prescritto dall’Austria nel 1816 8 si aggiunse quello – altrettanto imposto dagli stessi collaboratori di Metternich – ai carbonari del 1821 9. Con il passare
del tempo, all’illusione di una pacificazione si affiancò la
minaccia di una ritorsione internazionale: possiamo leggere
in tal senso l’appoggio dei governi di Francia, d’Inghilterra 10 e di Sardegna ai fuoriusciti del 1848 (l’opera di propaganda di questi ultimi fu uno degli elementi di maggior peso nella preparazione dell’attacco al Regno delle Due Sicilie).
Il destino del secolare Regno napoletano era segnato: la
sua caduta repentina, probabilmente, stupì gli stessi autori
dell’attacco, che si sarebbero aspettati una difesa militare
7
Decreto del 20 giugno 1801.
Con il citato trattato di Casa Lanza del 20 maggio 1815.
9 Ottenuto con la forzata rimozione del Principe di Canosa dalla carica
di Ministro di Polizia.
10 In particolare attraverso la famosa – anzi, famigerata – lettera di
Lord Gladstone in cui il Regno di Napoli era definito come «la negazione di Dio eretta a sistema governativo» («The effect of all this is, total
inversion of all the moral and social ideas. Law, instead of being respected, is odious. Force, and not affection, is the foundation of Government. There is no association, but a violent antagonism, between the
idea of freedom and that of order. The governing power, which teaches
of itself that it is the image of God upon earth, is clothed, in the view of
the overwhelming majority of the thinking public, with all the vices for
its attributes. I have seen and heard the strong and too true expression
used, “This is the negation of God erected into a system of Government.”». WILLIAM EWART GLADSTONE, Two letters to the Earl of Aberdeen, on the state prosecutions of the Neopolitan government, John
Murray, London 1851, p. 6).
8
82
più accanita. La risposta lealista fu tardiva e dura ad essere sconfitta: venne definita “brigantaggio” per screditarla
fin dalla propria denominazione. Dopo il mancato appoggio
delle truppe di Crocco agli uomini – pochi, ma molto capaci
– del generale carlista José Borjes, la lotta antiunitaria non
ebbe reali possibilità di vittoria: pure, essa continuò per
anni, anche dopo la cattura e l’uccisione sommaria (o
l’arresto e la condanna detentiva, nel caso del citato Crocco)
dei principali capi, a testimonianza dell’insofferenza verso il
nuovo ordine imposto dai Piemontesi.
Un evento epocale come il crollo del più antico, glorioso
e nobile Regno della penisola italiana non può essere ricondotto ad un’unica causa, come in generale non è possibile chiarire eventi complessi con spiegazioni semplici. Del
resto, la punta dirompente della lancia rivoluzionaria (nel
caso napoletano sia quella del 1799 che quella del 1860 –
ma il concetto è valido per tutte le rivoluzioni) non avrebbe la sua forza se non fosse innestata su un’asta composta
dalle varie stratificazioni del pensiero pre-rivoluzionario
Le radici del male che colpì Napoli alla morte di Ferdinando II sono molteplici e profonde 11: una di esse, forse la
principale, va sicuramente ricercata nell’errore di aver accettato, vagheggiando una di fatto impossibile pacificazione nazionale, la politica dell’amalgama e nella illusione di
essere riusciti a restaurare, grazie al Congresso di Vienna,
l’Ancien Régime.
Gianandrea de Antonellis
11 Non bisogna dimenticare anche le cause di indebolimento della Corona già presenti prima dello scoppio della Rivoluzione ed in particolare
quelle dovute all’indirizzamento del governo verso l’assolutismo monarchico, nonché alla diffusione nel regno dei principi illuministici ed alla
loro accettazione nella stessa corte partenopea.
83