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Le fallacie argomentative tra logica e dialettica

This paper is about the so-called fallacies of reasoning, that is, those arguments that seem to be compelling but don’t. It is argued that, strictly speaking, the traditional distinction between formal and pragmatic fallacies is impossible. However, another distinction, here proposed, between origin and import of fallacies turns out to be useful for classificatory purposes. The origin of a fallacy is that property on which the fallacious character of an argument ultimately depends. That property is the same in all contexts in which the fallacy can take place. By contrast, the import of a fallacy is the set of consequences that it typically has in each context. Identifying the origin of fallacies not always is a simple undertaking. In that regard, petitio principii presents special difficulties. It will be offered a detailed critique of the traditional analysis of petitio principii. This critique is aimed at showing that there are two distinct fallacies, both called petitio principii in the literature, erroneously considered as identical. It will be shown that one of these fallacies, which occurs only in the context of axiomatic proof, is a special case of non sequitur fallacy. By contrast, the other fallacy, which occurs typically in the dialectical context, derives from the fact that the credibility of a proposition cannot grow through a circular argument. A Bayesian analysis of this fact is proposed.

Le fallacie argomentative tra logica e dialettica di Alberto Mura 1. INTRODUZIONE La teoria delle fallacie risale ad Aristotele 1, specialmente alle Confutazioni sofistiche, sebbene il pensiero di Aristotele su questo tema sia ripreso in altre opere come la Retorica. Aristotele, nelle Confutazioni, elenca tredici fallacie in cui è possibile incorrere nel contesto della discussione critica. Questo elenco è rimasto più o meno invariato lungo i secoli, e ancor oggi, la maggior parte delle trattazioni sulle fallacie sono principalmente dedicate alla discussione delle fallacie aristoteliche. Il riconoscimento del carattere dialettico di tali fallacie ha messo in luce come la loro analisi richieda di tenere conto del contesto in cui esse si presentano e rientri pertanto a pieno titolo nell’ambito della pragmatica del linguaggio. Aristotele, nelle Confutazioni, oscilla tra due punti di vista. Da un lato egli vedeva nella deduzione sillogistica l’unica forma di 1 Tutte le citazioni delle opere di Aristotele fanno riferimento all’edizione Bekker (Aristotele, 1831), secondo la convenzione adottata generalmente nella letteratura specialistica. Tuttavia il testo di riferimento è, per le opere citate, quello del Ross (Topica et Sophistici Elenchi, 1958; Analytica Priora et Posteriora, 1981; Ars Rhetorica, 1959), La traduzione italiana è sempre dovuta all’autore del presente lavoro. La citazione di Platone che compare nella nota 13 fa riferimento, come è consuetudine, all’edizione Stephanus (Platone, 1578), sebbene il testo consultato sia quello dell’edizione oxoniense del 1976 (Platonis Opera, [1976] 1995), mentre la traduzione italiana riportata è quella di Francesco Adorno per l’edizione Laterza (Platone, Opere complete, 1971). Le citazioni di Sesto Empirico recano anche il riferimento, come è consuetudine, all’edizione di Frabicius (Sextus Empiricus, 1718). Saggi/Ensayos/Essais/Essays Errori / Errors – 04/2017 275 argomentazione corretta e nelle fallacie argomenti che “sembrano essere sillogismi senza essere tali” (Soph. El. 1, 164a 23), dall’altro considerava le argomentazioni come relative al contesto della discussione, sì che anche le fallacie, ne dipendono essenzialmente: Una confutazione non è una confutazione in senso assoluto (ἀπλῶς), bensì essa è relativa a qualcuno; e lo stesso vale per un sillogismo sofistico. Infatti se, [ad esempio,] una confutazione che dipende dall’equivocazione non assume che la parola ambigua abbia un solo significato, […] non ci sarà né confutazione né sillogismo, né in senso assoluto né relativamente a colui che risponde. Se invece coloro che disputano fanno tale assunzione, sia la confutazione sia il sillogismo sono presenti relativamente a colui che risponde, ma non in senso assoluto. (Soph. El. 8, 170a 12–18) Nel significato assoluto le fallacie sono intese come l’analogo raziocinativo delle illusioni percettive: l’intuizione suggerisce che il ragionamento sia corretto, ma a una più attenta analisi si scopre che esso è in realtà erroneo. Si pone allora il problema: esistono fallacie “assolute” nel senso inteso da Aristotele, cioè errori di ragionamento in cui si può tende a incorrere e che sono indipendenti dal contesto? La tesi che sostengo è che tali fallacie a rigore non esistono. Per l’analisi che condurrò riesce utile distinguere il problema dell’origine delle fallacie dal problema della loro portata. Il problema dell’origine è il problema di individuare ciò che rende una fallacia un errore. Il problema della portata riguarda le conseguenze che l’incorrere in una fallacia ha in un determinato contesto. Per risolvere il problema dell’origine occorre prendere in considerazione solo quegli elementi del contesto che sono necessari per caratterizzarne il carattere fallace. Viceversa, per studiare la portata di una fallacia va considerato l’intero contesto in cui essa ha luogo. E può ben essere che la medesima fallacia abbia portata diversa in contesti diversi. Ha quindi senso studiare anche nel contesto dialettico una fallacia che, rispetto all’origine, non è dialettica. Infatti tutte le argomentazioni che non sono essenzialmente dialettiche possono essere usate anche nei dibattiti, e lo stesso vale per le relative fallacie. Lo studio della portata delle fallacie nel contesto della discussione critica ha quindi senso per tutte le fallacie, sebbene non sia così per la ricerca dell’origine. Vi sono tuttavia fallacie che sono dialettiche rispetto all’origine, nel senso che non possono aver luogo se non in un contesto dialettico. Tali fallacie dipendono essenzialmente da una violazione delle regole condivise che regolano la discussione critica ed esse debbono essere distinte da quelle che in cui potrebbe incorrere una persona che ragionasse per conto suo. Ritengo quindi che la classificazione delle fallacie dovrebbe cominciare col distinguere le fallacie dialettiche rispetto all’origine, da quelle che non sono tali. Va quindi respinta la tesi, sostenuta da diversi autori contemporanei, in particolare da Walton (1987), secondo la quale le fallacie sarebbero tutte dipendenti dallo specifico contesto della discussione critica, coinvolgente più di una persona. Se ciò appare argomentabile per alcune fallacie aristoteliche e altre fallacie consegnateci dalla tradizione, non lo è per altre. Sono tipicamente dialettiche tutte quelle fallacie che riguardano argomentazioni essenzialmente rivolte a un interlocutore, senza la presenza del quale esse non potrebbero nemmeno sussistere. In molti casi queste Saggi/Ensayos/Essais/Essays Errori / Errors – 04/2017 276 fallacie sono correlate ad argomenti dialettici accettabili, dei quali costituiscono un abuso. Sono tali, per esempio, le fallacie che occorrono nell’uso degli argomenti ad hominem. In altri casi la fallacia consiste nella violazione di regole condivise della discussione razionale, per esempio le regole che governano l’onus probandi nelle discussioni. Vi sono fallacie, tuttavia, che possono essere commesse anche da una persona che ragioni per conto suo e che sarebbe una forzatura considerare dialettiche. Ciò non significa che non vi sia in esse una componente pragmatica. Gli aspetti pragmatici sono costituiti da tutto ciò che riguarda il contesto, ivi incluse le intenzioni e le credenze di chi produce l’argomento. Se le cose stanno così, allora molte fallacie, pur non essendo necessariamente dialettiche, sono nondimeno in qualche misura dipendenti dal contesto e pertanto non sono fallacie del tutto indipendenti dal contesto. Si consideri, ad esempio, l’argomento seguente: se piove il suolo è bagnato il suolo è bagnato Quindi piove Stando ai testi di logica questo sarebbe un esempio della classica fallacia dell’affermazione del conseguente. L’argomento infatti non è deduttivamente corretto. Può sembrare un esempio di modus ponens, ma scambia l’antecedente del condizionale che occorre nella prima premessa con il conseguente del medesimo. Tuttavia esso è fallace solo se chi lo propone intende proporre un argomento deduttivo e non un argomento più debole, di carattere induttivo, per sostenere che è probabile che piova. Come argomento induttivo esso è in molti casi accettabile. Oltre alle fallacie che sono riconducibili a forme argomentative che sono corrette in certi contesti ma non in altri, vi sono fallacie che riescono fallaci in quasi tutti i contesti in cui esse hanno luogo. Una di esse è, ad esempio, la fallacia del giocatore. Per spiegarla è utile far riferimento al noto gioco del lotto. Secondo molti giocatori, se un numero del lotto è “in ritardo”, non essendo stato mai estratto per molte settimane precedenti una data estrazione s, è molto probabile che esso sia estratto nella estrazione s, mentre ciò sarebbe molto improbabile se quel numero fosse stato estratto nelle settimane immediatamente precedenti s, magari per più volte di fila. Questa aspettativa è di solito argomentata con un appello alla legge dei grandi numeri (teorema di Bernoulli). Tale argomentazione è tuttavia errata, dal momento che la legge dei grandi numeri presuppone l’indipendenza stocastica degli eventi cui si applica, nel caso di specie costituiti da estrazioni avvenute in settimane distinte sì che l’esito delle estrazioni precedenti è presupposto essere irrilevante. Tuttavia nemmeno in questo caso può parlarsi di una fallacia assoluta. Se infatti il giocatore che giudicasse i numeri “in ritardo” più probabili, sostenesse anche una bizzarra (ma non assurda) teoria, secondo la quale le estrazioni seguono un’opportuna legge stocastica, in base alla quale il risultato delle singole estrazioni dipende da quello delle estrazioni precedenti, l’argomento potrebbe essere in pieno accordo con la logica della probabilità. Naturalmente il giocatore sarebbe chiamato a giustificare le sue premesse, Saggi/Ensayos/Essais/Essays Errori / Errors – 04/2017 277 ma ciò vale in tutti i casi, giacché anche il più corretto degli argomenti cessa di essere concludente se le premesse su cui si fonda non sono argomentate a dovere. La struttura del lavoro è la seguente. In primo luogo elencherò, a scopo introduttivo, alcune fallacie ricevute dalla tradizione che ha origine con Aristotele e in epoca moderna con Locke. Molte di queste fallacie hanno subito un mutamento di significato nel tempo. Tuttavia è utile partire, a scopo introduttivo, dal pensiero di chi le ha originate e l’esposizione che segue sarà riferita solamente ad Aristotele e a Locke. In secondo luogo mi soffermerò su due fallacie: l’equivocazione e la petitio principii, le quali sono entrambe aristoteliche e sono tra le poche che non hanno subito sostanziali alterazioni nel corso dei secoli. L’analisi che svilupperò, oltre a illustrare la rilevanza della distinzione tra origine e portata delle fallacie, contiene altri contributi volti alla chiarificazione di queste due fallacie. Mostrerò che l’equivocazione è importante dal punto di vista della filosofia della logica, perché mette in luce un presupposto semantico della correttezza degli argomenti logici, il quale reca con sé importanti conseguenze filosofiche. Riguardo alla petitio principii, mostrerò che l’analisi tradizionale, che nella sostanza risale ad Aristotele, secondo la quale l’errore consiste nel dedurre una proposizione da sé stessa, è insostenibile alla luce della non ampliatività delle inferenze deduttive. Sarà infatti mostrato che tutti gli argomenti deduttivi corretti sono equivalenti ad argomenti che contengono la conclusione come premessa. Tale analisi prova che la sola presenza della conclusione tra le premesse non è una condizione sufficiente perché la fallacia abbia luogo. E si mostrerà come le ulteriori condizioni che sono necessarie nel contesto della dimostrazione sono diverse da quelle necessarie nel contesto dell’argomentazione dialettica. 2. LE FALLACIE DI ARISTOTELE E LOCKE Come si è detto, nelle Confutazioni sofistiche, Aristotele considera tredici fallacie. Esse si riferiscono al contesto delle confutazioni secondo la tecnica adoperata dai sofisti nei dibattiti. Aristotele le suddivide in due classi: le fallacie linguistiche (παρὰ τὴν λέξιν) e le fallacie non linguistiche (ἔξω τῆς λέξεως) (Soph. El. 4, 165b 24). Le fallacie linguistiche sono tutte dovute a un’ambiguità nel modo di esprimersi e sono sei: l’equivocazione (ὁμωνιμία), l’anfibolia (ἀμφιβολία), la fallacia di composizione (παρὰ τὴν σύνθεσιν), la fallacia di divisione (παρὰ τὴν διαίρεσιν), la fallacia dell’accento (προσῳδία), la fallacia dipendente dalla forma dell’espressione (σχῆμα τῆς λέξεως). L’equivocazione ha luogo quando una stessa parola è usata con significati diversi nel corso di un argomento, il quale invece presuppone che si tratti di una occorrenza ripetuta del medesimo termine con il medesimo significato. L’anfibolia è simile all’equivocazione, ma riguarda non singole parole, bensì sintagmi formati da più parole. La diversa disposizione delle parole nel corso di un medesimo argomento ne cambia il significato. Saggi/Ensayos/Essais/Essays Errori / Errors – 04/2017 278 La fallacia di composizione così come quella di divisione hanno a che vedere, nella versione aristotelica, con l’uso degli operatori modali. Aristotele porta l’esempio dell’espressione “un uomo può camminare quando è seduto e [può] scrivere quando non sta scrivendo” (Soph. El. 4, 166a 24-25). Se ‘può’ è riferito alla possibilità che l’uomo in questione scriva mentre non scrive o cammini mentre sta seduto è un conto (si tratta di proposizioni false), ma se ‘può’ si riferisce alla modalità controfattuale “un uomo quando di fatto non scrive avrebbe potuto [in alternativa] scrivere e quando di fatto sta seduto avrebbe potuto [in alternativa] camminare” è un altro conto. L’espressione si presta anche qui a una duplice interpretazione. La fallacia di divisione consiste nel considerare come sottoenunciati distinti parti di un medesimo enunciato. Ad esempio, “5 è 2 e 3” può essere inteso come “5 è 2 e allo stesso tempo 5 è 3” (che è un enunciato falso) ma anche come “5 è la somma di 2 e 3” che è invece un enunciato vero (Soph. El. 4, 166a 33-34). In questo caso l’ambiguità sta nella congiunzione ‘e’: può essere vista come un connettivo che congiunge parti di un singolo enunciato e come un connettivo tra enunciati. La fallacia consiste nell’intendere nel secondo significato un connettivo che andrebbe inteso nel primo. La fallacia aristotelica dell’accento, cioè l’ambiguità che deriva dal fatto che la medesima parola non accentata ammette due dizioni con diverso significato, è strettamente legata al fatto che nell’antica Grecia spiriti e accenti di norma non comparivano nella lingua scritta. Il sistema di spiriti e accenti fu infatti introdotto nel greco antico in epoca bizantina per facilitare l’esatta pronuncia dei testi classici. Ciò spiega perché Aristotele dichiari che la fallacia dell’accento occorre più facilmente nella lingua scritta. Aristotele (Soph. El. 4, 166b 4-5) fa l’esempio di una frase contenuta nel verso 328 del canto XXIII dell’Iliade, il quale parla di un tronco d’albero e dice: “τὸ μὲν οὐ καταπύθεται ὄμβρῳ” (“ed esso non marcisce alla pioggia”). Se la parola ‘ου’ fosse pronunciata con un accento più marcato (trascritto cioè come ‘οὗ’) la frase acquisterebbe un significato del tutto diverso: “parte del quale marcisce alla pioggia”. La fallacia dipendente dalla forma dell’espressione è un errore categoriale. Ad esempio il verbo ‘ὑγιαίνειν’ (essere in salute) ha la stessa forma verbale attiva dei verbi ‘τέμνειν’ (tagliare) e ‘οἰκοδομεῖν’ (costruire una casa); tuttavia quello designa in realtà una certa qualità e disposizione passiva, questi due azioni (Soph. El. 166b 16-17). Si può essere ingannati dalla forma verbale attiva e ritenere che anche ‘ὑγιαίνειν’ ricada nella categoria dell’azione. Le fallacie non linguistiche presentate da Aristotele nelle Confutazioni sofistiche sono sette (alcune espresse dalla tradizione con denominazione latina): fallacia dell’accidente (συμβεβηκὸς), la fallacia secundum quid (πῇ λέγεσθαι), ignoratio elenchi (ἄγνοια τοῦ ἔλεγχου), petitio principii (παρὰ τὸ ἐν ἀρχῇ λαμβάνειν), fallacia del conseguente (ἑπόμενον), fallacia della non causa (μὴ αἴτιον), fallacia del fondere due domande in una (τὰ δύο ἐρωτήματα ἕν ποιεῖν). Saggi/Ensayos/Essais/Essays Errori / Errors – 04/2017 279 La fallacia dell’accidente ha luogo “quando si afferma che qualche attributo appartiene in maniera simile sia alla cosa concreta sia a un suo accidente” (Soph. El. 5, 166b 29-30). La fallacia è connessa alla distinzione aristotelica tra due modi di predicazione (Top. 1, 5): la predicazione propria (καθʹ αὑτό) e la predicazione accidentale (κατὰ συμβεβηκός). Aristotele porta, tra gli altri, il seguente esempio: “se il triangolo ha i suoi angoli uguali a due angoli retti e si dà il caso che esso sia una figura o un elemento primitivo o un principio, non ha quel carattere perché è una figura o un elemento primitivo o un principio. La dimostrazione, infatti, riguarda il triangolo non in quanto figura o elemento primitivo o principio” (Soph. El. 168 a40-b4). Se infatti la ragione per cui la somma degli angoli di un triangolo è pari a due angoli retti consistesse nel fatto che il triangolo è una figura, tutte le figure dovrebbero avere gli angoli la cui somma è pari a due angoli retti, il che è chiaramente falso. In questo caso la fallacia è anche sillogistica. In effetti il sillogismo “tutti i triangoli hanno gli angoli la cui somma è pari a due angoli retti; tutti i triangoli sono figure; quindi tutte le figure hanno angoli la cui somma è pari a due angoli retti” non è un sillogismo valido. Presumibilmente, Aristotele considerava questo un esempio della fallacia dell’accidente e non di una fallacia formale perché se essere una figura fosse una proprietà propria di tutti e soli i triangoli allora la premessa minore potrebbe essere convertita (in essa potrebbero cioè essere scambiati il soggetto e il predicato), la qual cosa darebbe luogo a un sillogismo valido in Barbara. Così, se al posto di “essere una figura” considerassimo la proprietà “essere figura di tre lati” (che è una proprietà che appartiene a tutti e soli i triangoli), si otterrebbe il seguente sillogismo valido: “tutti i triangoli hanno gli angoli la cui somma è pari a due angoli retti; tutte le figure di tre lati sono triangoli; quindi tutte le figure di tre lati hanno angoli la cui somma è pari a due angoli retti”. Anche la fallacia secundum quid come quella dell’accidente è connessa con la dottrina aristotelica della predicazione. Questa volta è in gioco la differenza tra la predicazione in senso assoluto o tout court (ἁπλῶς) e la predicazione sotto un certo rispetto. Tale rispetto può essere costituito da un luogo, da un grado o da una relazione (ἢ πῇ ἢ ποὺ ἢ πρός τι) (Soph. El. 180a 23-24). Se non si fa questa distinzione, viene a cadere il principio di non contraddizione. E poiché quest’ultimo principio ha, per Aristotele, una portata ontologica oltre che logica, lo stesso vale anche per la distinzione tra i due tipi di predicazione. Così non è corretto dire di una persona etiope che è tout court bianca perché ha i denti bianchi, ma si può dire che tale persona è tout court scura. Ma ciò non significa che il principio di non contraddizione venga meno, che cioè ci sia una terza condizione per tale persona oltre a quella di essere bianca oppure non bianca. Né che tale persona sia al tempo stesso scura e bianca. La fallacia deriva dal passare da una predicazione tout court a una predicazione sotto un certo rispetto come se non si trattasse di due maniere completamente diverse di predicare: 2 Sulla portata ontologica dell’avverbio ἁπλῶς in Aristotele in contrasto con l’uso corrente del termine prima di lui, si veda Schreiber (2003), specialmente l’appendice IV. 2 Saggi/Ensayos/Essais/Essays Errori / Errors – 04/2017 280 ad esempio, “se un indiano essendo tutto scuro, è bianco rispetto ai denti allora è bianco e non bianco”. O se entrambi gli attributi appartengono sotto un certo rispetto, essi [(cioè i sofisti)] dicono che attributi contrari gli appartengono simultaneamente. In alcuni casi questo tipo di fallacia può essere facilmente rilevata da chiunque: se, per esempio, dopo aver ottenuto l’ammissione che un etiope è scuro, si domandasse se lo è anche rispetto ai denti e, ove la riposta fosse che è bianco sotto questo rispetto, si pensasse che l’interrogazione fosse terminata e si fosse argomentato dialetticamente che egli è scuro e non scuro. (Soph. El. 5, 167a 8-14) Va osservato che oggi è difficile, senza far propria l’ontologia aristotelica della predicazione, considerare questa fallacia come una fallacia non linguistica. Sembra ragionevole, invece considerare la fallacia secundum quid, come una delle fallacie dovute all’ambiguità del linguaggio 3. La ignoratio elenchi è presentata nel capitolo 5 delle Confutazioni Sofistiche come una singola fallacia. Tuttavia all’inizio della sezione seguente (Soph. El. 6, 168a 17-20), Aristotele la caratterizza come comprendente tutte le altre dodici fallacie in quanto dovute a una mancata comprensione della nozione di confutazione. Quest’ultima è caratterizzata, nel contesto dialettico, come un sillogismo valido il quale (a) ha le premesse diverse dalla conclusione, (b) nel quale la conclusione è la contraddittoria della proposizione asserita dall’interlocutore al quale la confutazione è rivolta e (c) in cui ogni termine e ogni frase hanno uno e un solo significato. Secondo Aristotele ognuna delle fallacie viola almeno una delle condizioni (a)-(c). La petitio principii viola la richiesta che ogni sillogismo valido non contenga tra le premesse la conclusione. Ritorneremo più avanti in dettaglio su questa fallacia. Della fallacia del conseguente si è già detto a pagina 277. Essa ha luogo, secondo Aristotele, quando si ritiene che in un enunciato condizionale l’antecedente e il conseguente possano essere permutati salva veritate. Ciò non vale sempre. Quando non vale ma si assume che valga, si può costruire correttamente un argomento secondo la forma del modus ponens, dove tuttavia la premessa in forma condizionale (ottenuta scambiando l’antecedente con il conseguente) è falsa. La versione aristotelica differisce da quella presentata a pagina 277, in cui non si è fatta la conversione dei sottoenunciati del condizionale ma si è presentato un argomento non valido (un falso modus ponens). La fallacia della non-causa è una fallacia dell’irrilevanza. Per causa (τὸ αἴτιον) Aristotele intende la ragione che spiega il perché di un certo fatto. La nozione aristotelica di causa è assai più ampia di quella moderna. Nel contesto delle confutazioni dialettiche un esempio di fallacia della non causa si ha quando si conclude che una certa proposizione è falsa, inferendo dalla premessa che essa sia vera una proposizione falsa nonostante non sia necessario ricorrere a tale inferenza, in quanto la falsità della proposizione contestata è argomentata indipendentemente. Aristotele chiama l’inferenza fallace della proposizione falsa un sillogismo ad impossibile (πρὸς τὸ ἀδύνατον) (Soph. El. 5, 25-26): è tuttavia chiaro che egli non si 3 Per una discussione della fallacia secundum quid vista come una variante della fallacia di equivocazione, si veda Kirwan (1979). Saggi/Ensayos/Essais/Essays Errori / Errors – 04/2017 281 riferisce a una impossibilità logica dovuta a una contraddizione, ma di una impossibilità fisica o metafisica. L’esempio che Aristotele presenta riguarda la confutazione della tesi che l’anima (ψυχὴ) e la vita animale (ζωὴ) siano la medesima cosa. L’argomento fallace procede così, una volta assunta come premessa l’identità di anima e vita animale: Se l’inizio dell’esistenza (γένεσις) è contrario alla cessazione dell’esistenza (φθορὰ) allora un particolare tipo di inizio dell’esistenza sarà contrario a un particolare tipo di cessazione dell’esistenza. Ora la morte è un tipo particolare di cessazione dell’esistenza ed è contraria alla vita animale. La vita animale quindi è un inizio dell’esistenza e il vivere animale è un inizio dell’esistenza. Tuttavia ciò è impossibile e pertanto l’anima e la vita animale non sono identiche. (Soph. El. 5, 167b 27-31) La falsa conclusione secondo cui la vita animale sarebbe un inizio di esistenza sarebbe spiegata con il fatto che la vita animale e l’anima sono la stessa cosa. In realtà, sostiene Aristotele, la premessa che l’anima e la vita animale coincidono non gioca alcun ruolo nel ragionamento che porta alla conclusione che il vivere animale è un inizio di esistenza. Tale conclusione è infatti ottenuta senza far uso della premessa che l’anima e la vita sono la stessa cosa. È quindi una fallacia dire che la ragione per cui il vivere animale non è un inizio di esistenza sta nel fatto che la vita animale e l’anima sono cose diverse. Questo passo aristotelico è importante anche per la comprensione della logica aristotelica, in quanto ne mette in luce un importante aspetto che in passato è stato trascurato, ma che risulta evidente alla luce degli sviluppi contemporanei delle logiche non standard: la logica aristotelica è una logica della rilevanza. Non solo le premesse, complessivamente, descrivono uno stato di cose che è condizione sufficiente per la verità della conclusione, ma ciascuna di esse deve essere una condizione necessaria. 4 E ciò reca con sé il fatto che la logica sillogistica aristotelica, a differenza della logica contemporanea considerata classica, non è monotòna, in quanto l’aggiunta di una ulteriore premessa a un argomento valido può privare l’argomento della sua validità 5. La fallacia del fondere due domande in una ha un carattere schiettamente dialettico. La fallacia è costituita da una violazione delle regole che governano il dialogo. Nel modello aristotelico del dialogo, le domande che i dialoganti si rivolgono sono binarie: la risposta è sì oppure no. Inoltre solo domande elementari sono ammesse. Queste ultime sono sempre della forma soggetto predicato e dicono “una cosa di una cosa” (ἒν καθʹ ἑνός) (Soph. El. 6, 169a 8) 6. Se, infatti, la domanda chiede la 4 Questa richiesta è tuttavia troppo forte alla luce della logica moderna. Ad esempio la disgiunzione inclusiva ‘p o q’ è conseguenza logica dell’insieme di premesse costituito da p e q. Tuttavia nessuna delle due premesse è rilevante in presenza dell’altra, dal momento che ‘p o q’ è conseguenza logica sia di p sia di q prese da sole. 5 Come si vedrà più avanti, la logica sillogistica oltre ad essere non monotòna è anche irriflessiva. Essa inoltre è lineare (nel senso che ogni premessa può essere usata una sola volta in un argomento). Sugli aspetti non standard della logica aristotelica si veda Woods & Irvine (2004). 6 Questa posizione è ribadita in altri luoghi, ad es. nel De Interpretazione (8, 18a 13). Anche nella sillogistica è richiesto che ogni proposizione sia della forma soggetto-predicato. Saggi/Ensayos/Essais/Essays Errori / Errors – 04/2017 282 risposta alla congiunzione o alla disgiunzione di due enunciati, la risposta sì o la risposta no da sola può non bastare per decidere il valore di verità di tutte le proposizioni elementari coinvolte. Così, ad esempio, se la domanda è in forma disgiuntiva (esclusiva) come “la terra è mare oppure il cielo è mare?” (Soph. El. 5, 168a 2-3), la risposta binaria no non chiarisce se sia la terra sia il cielo siano mare oppure né l’una né l’altro siano mare. Viceversa la risposta sì non chiarisce se sia la terra oppure il cielo a essere mare. Per Aristotele la domanda è mal posta e, in ogni caso, viola le regole presupposte della dialettica. A queste fallacie vanno aggiunte due fallacie che Aristotele elenca nella Retorica (Rhet. B, 24): la fallacia del segno (ἐκ σημείου) e la fallacia dello sdegno (δείνωσις) 7. Nella Retorica il contesto è diverso dal contesto dialettico considerato nelle Confutazioni sofistiche: si tratta del contesto di un parlante che cerchi di convincere o persuadere un uditorio. È questo un ambito scivoloso, in cui sono mescolati elementi di argomentazione schiettamente razionali con artifici che fanno appello all’emotività. Le fallacie hanno luogo al confine tra questi due ambiti. Sono argomenti che hanno la pretesa di essere genuine argomentazioni, mentre in realtà sono pseudoargomenti più o meno consapevolmente volti a ingannare l’uditorio più che colui che li propone. Questo aspetto del contesto è particolarmente messo in evidenza dalle due fallacie che non compaiono nelle Confutazioni Sofistiche. La fallacia del segno è una fallacia in cui gli aspetti del contesto sono evidenti. Di per sé, infatti, l’inferenza dai segni naturali non è considerata da Aristotele come una forma d’inferenza intrinsecamente fallace, anche se, non rientrando nell’ambito delle inferenze dimostrative, essa non garantisce mai la verità della conclusione. Si tratta di un’inferenza da particolari a particolari, nel senso che sia la conclusione sia il segno sono particolari. L’inferenza, tuttavia, può essere mediata da una premessa universale (assunta implicitamente o esplicitamente), così da prestarsi a essere inquadrata nell’ambito delle forme sillogistiche. Negli Analitici Primi, dove l’aspetto puramente argomentativo è analizzato indipendentemente dal contesto della sua applicazione, Aristotele distingue due tipi di segni: i segni non necessari e i segni sicuri o necessari (τεκμήρια). Questi ultimi sono termini medi di un virtuale o effettivo sillogismo di prima figura e quindi, come tali, nomi di condizioni causalmente esplicative del fatto asserito nella conclusione. Così il fatto che una donna abbia latte è segno sicuro che sia gravida, in quanto tutte le donne che hanno latte sono gravide. Quindi aver latte è il termine medio del sillogismo di prima figura “tutte le donne che hanno latte sono gravide; questa donna ha latte; questa donna è gravida” (An. Pr. B 27, 70a 12-15). La fallacia del segno non riguarda i segni sicuri, bensì solamente i segni non sicuri. È tuttavia difficile capire dove stia, per Aristotele, la linea di demarcazione tra i segni non sicuri che sono accettabili come genuine inferenze entimematiche e quelli fallaci. La 7 Nella Retorica v’è un elenco che comprende, oltre alle due fallacie menzionate nel testo, le fallacie dell’accidente, la fallacia secundum quid, la fallacia della non causa e la fallacia del conseguente, trattate anche negli Elenchi Sofistici. Va precisato che il contesto che Aristotele ha presente nella Retorica è diverso da quello degli Elenchi Sofistici: si tratta del contesto di chi parla ad un uditorio che ascolta senza interloquire, laddove negli Elenchi Sofistici il contesto è quello dialettico dei dibattiti. Saggi/Ensayos/Essais/Essays Errori / Errors – 04/2017 283 linea di demarcazione non è certamente formale; essa non è però nemmeno materiale, potendo le premesse essere vere. Nelle Confutazioni Sofistiche Aristotele sostiene che nel contesto retorico la fallacia del segno diviene la fallacia del conseguente (Soph. El. 167b 8). Non sembra quindi irragionevole attribuire ad Aristotele il pensiero che il carattere fallace provenga da elementi propri del contesto e in particolare dall’intenzione del parlante di ottenere l’assenso dell’uditorio attraverso un artificio retorico capzioso. Un esempio che egli porta nella Retorica è il seguente: “Dionigi è un ladro: egli è infatti vizioso; non v’è qui alcun sillogismo [corretto]: non ogni vizioso è ladro, sebbene ogni ladro sia vizioso”. Sul piano formale la fallacia è la stessa del conseguente; il contesto è invece quello proprio dei discorsi oratori. La fallacia dello sdegno consiste nell’uso di un tono indignato nel parlare di un fatto che non è stato provato, trasmettendo all’uditorio l’impressione che il fatto sia realmente avvenuto oppure, al contrario, che non sia avvenuto. Il tono indignato può essere usato sia da chi accusa sia da chi si difende in un contesto forense. L’accusatore dipingerà a forti tinte il presunto misfatto, suscitando lo sdegno dei giudici, spingendoli così verso la condanna; viceversa l’imputato cercherà di difendersi mostrando indignazione per l’accusa che gli è stata rivolta, spingendo così i giudici verso l’assoluzione. La fallacia in questo caso è del tutto contestuale: non c’è alcun ragionamento alla base e il tono indignato può influenzare le credenze dell’uditorio senza fornire alcuna ragione genuina a loro sostegno. È questo il caso tipico di un artificio retorico puro, che come tale Aristotele condanna come fallace in quanto ha come scopo quello di ottenere l’assenso a una determinata tesi senza passare dalla produzione di genuine ragioni a sostegno di essa. I paralogismi aristotelici costituiscono il punto di partenza di quasi tutte le trattazioni esistenti. Ad esse ne vengono classicamente aggiunte altre quattro, che sono relative ad altrettante specie di argomentazione introdotte da John Locke (1632– 1704) nel Saggio sull’intelligenza umana (Locke [1690] 1972: 228-230): ad verecundiam, ad ignorantiam, ad hominem, ad judicium. Anche Locke, come Aristotele, ha in mente un contesto dialettico o retorico, sì che le quattro forme di argomentazioni sono, per Locke, quelle “che gli uomini, ragionando tra loro, ordinariamente usano per ottenere l’assenso di altri, o, quantomeno, per intimidirli e tacitare la loro opposizione” (228). Per Locke le prime tre forme di argomentazione, non avendo di mira il raggiungimento della verità, ma solo l’assenso più o meno consenziente degli interlocutori, sono intrinsecamente fallaci. Diverso è il caso della quarta forma, la quale “consiste nell’usare prove tratte da uno qualunque dei fondamenti della conoscenza o della probabilità” (229). Le argomentazioni ad judicium sono anche le uniche, tra quelle elencate, che non siano essenzialmente legate a un contesto dialettico. Secondo Locke la luce della conoscenza “deve sorgere dalla luce delle cose stesse, e non dalla mia timidezza, ignoranza od errore” (230). Saggi/Ensayos/Essais/Essays Errori / Errors – 04/2017 284 La fallacia ad verecundiam consiste nell’appello all’autorità. Se per Aristotele l’appello alle opinioni che godono di elevata reputazione (ἔνδοξα) perché accettate da tutti o dalla più parte o dai sapienti (Top. 1, 100 b21), forniva le premesse del genuino ragionamento entimematico, in epoca moderna le opinioni non sono più considerate come una fonte affidabile di conoscenza. Di qui la svalutazione dell’appello all’opinione autorevole e la sua classificazione come fallacia. La fallacia ad ignorantiam è strettamente legata all’onere della prova. Se la persona sulla quale ricade l’onere della prova argomenta che la sua tesi è vera perché non vi sono prove contro di essa, incorre in questa fallacia. Locke la caratterizza in maniera molto peggiorativa: “consiste nello esigere che l’avversario accolga quella che essi pretendono essere una prova, oppure ne porti una migliore” ([1690] 1972: 229). L’origine della fallacia sta nella confusione della verità con la prova della verità e nella conseguente applicazione indebita del principio di bivalenza (per il quale una proposizione o è vera o è falsa, e se è falsa allora non è vera) dal quale si deduce che, non essendoci prova che una certa proposizione è falsa, essa non è falsa e dunque è vera. La fallacia ad hominem è la più importante delle fallacie dialettiche. Essa consiste nell’abuso di una argomentazione ad hominem. Quest’ultima, nel significato che gli attribuisce Locke, consiste “nello stringer dappresso un uomo con certe conseguenze tratte dai suoi propri principî o concessioni”. L’argomentazione ad hominem non è in sé una fallacia. Essa mira a mostrare che l’insieme delle tesi sostenute da un interlocutore è incoerente. Ciò prova ovviamente che non tutte le affermazioni dell’interlocutore sono vere. Essa non prova tuttavia che sia falsa la tesi sostenuta dall’interlocutore e quindi sia vera la sua negazione. Quindi, se in un dibattito tra due persone X e Y, X sostiene che la proposizione p è vera e Y che la proposizione p è falsa e Y dimostra che l’insieme delle assunzioni di X (inclusa p) è incoerente, ciò non prova che p sia falsa e che quindi Y abbia ragione. Tuttavia l’effetto nel gioco del dibattito è disastroso per X, se X non riesce a sua volta a difendersi dall’accusa di incoerenza. Se X è colto in palese contraddizione, il dibattito potrebbe aver termine e Y risultare (agli occhi di terzi) vincitore. Sebbene inferire che p sia falsa sia una fallacia (in ciò consiste per l’appunto la fallacia dell’argomentazione ad hominem) difficilmente X avrebbe buon gioco nel farlo valere contro Y. In questo senso la fallacia connessa all’argomentazione ad hominem è anche la più insidiosa delle fallacie. Va tenuto presente che le argomentazioni ad hominem sono diffuse in tutti i contesti in cui ci sia dibattito o controversia, ivi incluso il contesto delle discussioni scientifiche 8. Un esame più dettagliato delle fallacie che si sono presentate concisamente richiederebbe uno spazio ben più ampio di quello del presente lavoro. Limiteremo perciò trattazione che seguirà a due sole fallacie, le quali si prestano particolarmente per individuare e distinguere gli aspetti logici e pragmatici delle fallacie e illustrare l’importanza della distinzione tra origine e portata: l’equivocazione e la petitio principii. 8 Si vedano Pera (1991) e Finocchiaro (1980). Saggi/Ensayos/Essais/Essays Errori / Errors – 04/2017 285 3. FALLACIA DI EQUIVOCAZIONE Questa fallacia consiste nell’usare nel corso di un’argomentazione un termine che ha più di un significato. Essa mette in luce un requisito semantico della logica classica: ogni parola deve essere usata nel corso di un argomento con uno e un solo significato. Limitandoci, per semplicità, a individui e proprietà di individui, (a) ogni nome di un individuo deve sempre riferirsi a uno e un solo individuo, che deve essere il medesimo in tutte le occorrenze della parola; (b) se si tratta di un termine generale il termine deve riferirsi a una medesima classe di oggetti (nell’ambito di quelli considerati dall’argomento) lungo tutta l’argomentazione. La semantica formale dei linguaggi logici soddisfa sempre questi presupposti e anche nell’applicazione del calcolo delle probabilità il suo soddisfacimento ne è presupposto. Un caso classico di fallacia dell’equivocazione è costituito da un sillogismo valido in cui il termine medio (cioè quel termine che occorre in entrambe le premesse) ha in una delle premesse un significato diverso da quello che ha nell’altra premessa. Nella letteratura filosofica questa forma di equivocazione è nota come quaternio terminorum. Facciamo un esempio concreto: (A) Tutte le azioni razionali hanno come fine ultimo la felicità Tutte le azioni moralmente buone sono azioni razionali ∴Tutte le azioni moralmente buone hanno come fine ultimo la felicità 9 Sotto il profilo formale l’argomento è valido (si tratta di un sillogismo in Barbara). Tuttavia la parola ‘razionale’ non ha un solo significato. Per rimanere al contesto di questa argomentazione, cioè la filosofia pratica, è noto che Kant aveva distinto la razionalità strumentale da quella delle leggi morali. Un kantiano accetterebbe quindi senz’altro la prima premessa, a patto che il termine ‘azione razionale’ sia inteso nel senso della razionalità strumentale. Egli accetterebbe anche la seconda premessa, purché il medesimo termine questa volta sia inteso nel senso della razionalità delle leggi morali. Tuttavia, il kantiano respingerebbe la conclusione. Egli non avrebbe nulla da obiettare alla forma sintattica dell’argomento, ma considererebbe l’argomento fallace perché il temine ‘azione razionale’ ha un significato diverso nelle due premesse. Secondo tale analisi la fallacia deriva dall’attribuire a una stessa parola significati differenti nelle sue due occorrenze. In tal caso è come se nel sillogismo fossero in gioco quattro termini anziché tre, da cui la denominazione medievale di quaternio terminorum. Il problema sollevato dalla fallacia dell’equivocazione non può essere liquidato a buon mercato, limitandosi a dire che una stessa parola ha due significati e ciò basta a dichiarare non valido il sillogismo. Un eudemonista come Aristotele, per esempio, negherebbe che il termine ‘azione razionale’ abbia due significati distinti 10. 9 Per un esempio analogo si veda Hamblin (1970: 292-293). La presente analisi è in qualche misura debitrice nei confronti della nozione di equivocazione sottile di Hamblin (ibid.) e dei commenti ad essa di Walton (1987: 249-254). 10 Quando i due significati sono disparati l’equivocazione è immediatamente riconosciuta. Ad esempio il sillogismo: “tutte le ditte producono fatture; Tutte le fatture sono atti di stregoneria; Quindi: Saggi/Ensayos/Essais/Essays Errori / Errors – 04/2017 286 Anch’egli, come il kantiano, riterrebbe vere entrambe le premesse, e poiché riterrebbe anche formalmente valido il sillogismo ne inferirebbe la conclusione. Questo esempio è istruttivo perché suggerisce diverse considerazioni interessanti. In primo luogo l’esempio è istruttivo per i filosofi della logica. L’esempio mostra come la validità degli argomenti della logica classica dipende non solo dalla forma sintattica e dalle regole che governano l’uso (incluso quello inferenziale) delle parole logiche (‘tutti’, ‘sono’), ma anche da una condizione genuinamente referenziale che riguarda i termini non logici (‘avere come fine ultimo la felicità’, ‘azione razionale’, ‘azione moralmente buona’): essi debbono essere interpretati in modo univoco. Tale condizione può sembrare ovvia, ma forse proprio per questo, sembra essere sfuggita a quei logici che ritengono che la forma sintattica, da sola, possa rendere conto del significato delle parole logiche sulla base degli schemi d’inferenza corretta che li coinvolgono, prescindendo così completamente dalla nozione di riferimento. Detto altrimenti: la nozione di forma logica è, in qualche misura, referenziale e non può essere caratterizzata solamente in termini sintattici. È pur vero che il significato delle costanti logiche non dipende dalla particolare scelta dei termini descrittivi, ma ciò vale sotto una condizione che riguarda in generale il modo di significare dei termini descrittivi. In linea di principio è possibile lasciar cadere questa condizione, sì da costruire una semantica che non la soddisfi. È questa l’idea sviluppata dal filosofo americano David Lewis (1982). Adottandola, viene meno una condizione che regge le regole sintattiche della logica classica: non è un caso che Lewis proponga di adottare un sistema di Relevant Logic, che ha regole deduttive differenti da quelle della logica classica (oltre che una semantica differente, con tre valori di verità). Non è questa la sede per analizzare in dettaglio la pur interessante proposta di Lewis. In secondo luogo l’esempio mostra come l’ambiguità dei termini del linguaggio naturale possa riuscire problematica, specialmente quando siano in gioco termini assiologici, come ‘razionale’. La tesi che ‘azione razionale’ sia un termine ambiguo non è meramente stipulativa e quindi, come tale, analitica, bensì ha un contenuto (sebbene non si tratti di un contenuto fattuale). Essa può essere argomentata, accettata, respinta, e così via. In terzo luogo la problematicità dell’ambiguità lessicale mette in evidenza la distinzione, che si è illustrata più sopra, tra origine e portata delle fallacie e come la prima nozione possa essere problematica. Nell’esempio (A) l’origine della fallacia è, per un kantiano, perfettamente chiara. Altrettanto chiara può essere l’assenza di fallacia per un eudemonista, in quanto quest’ultimo non ravvisa alcuna ambiguità nell’uso dei termini. Il fatto che uno stesso termine sia inteso in maniera differente da due persone che discutono, non implica che il dialogo sia impossibile. Domandiamoci: se il kantiano e l’eudemonista iniziassero una discussione, in che maniera potrebbero dialogare? tutte le ditte producono atti di stregoneria” è un esempio perfettamente chiaro di fallacia di equivocazione. Tuttavia, proprio per questo, assai difficilmente può essere effettivamente commessa e presa sul serio. La fallacia è interessante quando la duplicità di significato, se c’è, non è così evidente che ci sia, anche se, una volta messa a fuoco, è riconosciuta come tale. Saggi/Ensayos/Essais/Essays Errori / Errors – 04/2017 287 Supponiamo che l’eudemonista avanzi il sillogismo (A) a sostegno della tesi che tutte le azioni moralmente buone hanno come fine ultimo la felicità. Come potrebbe replicare il kantiano? Egli osserverebbe in primis che il sillogismo è un esempio di quaternio terminorum perché il termine ‘azione razionale‘ ha due significati: come azione strumentalmente razionale e come azione che la ragione impone come un dovere da compiere. L’eudemonista replicherebbe che esiste solo una razionalità strumentale e che pertanto non v’è equivocazione. Il kantiano allora, piuttosto che insistere sulla fallacia di equivocazione, potrebbe compiere la mossa dialettica di far propria la tesi dell’eudemonista e rimpiazzare il termine ‘azione razionale’ con quello di ‘azione strumentalmente razionale’, dando luogo al seguente sillogismo: (B) Tutte le azioni strumentalmente razionali hanno come fine ultimo la felicità Tutte le azioni moralmente buone sono azioni strumentalmente razionali ∴Tutte le azioni moralmente buone hanno come fine ultimo la felicità In tal modo l’ambiguità sarebbe risolta. (B) non sarebbe considerato un sillogismo fallace né dal kantiano né dall’eudemonista. Il primo, tuttavia, sosterrebbe che la seconda premessa di (B) è falsa. L’eudemonista insisterebbe invece nel dire che essa è vera. Qui si vede qual è la funzione dialettica della fallacia dell’equivocazione. Essa è utile, perché la disambiguazione aiuta a mettere a fuoco il punto di dissenso. A quel punto la discussione continuerebbe concentrandosi sulla seconda premessa di (B). E ciò costituirebbe un passo in avanti verso una chiarificazione delle rispettive posizioni, se non verso la risoluzione della controversia. Vi sono altre maniere di risolvere l’ambiguità. Per esempio si potrebbe sostituire ‘azione razionale’ con ‘azione razionalmente doverosa’. L’argomento allora diverrebbe: (C) Tutte le azioni doverose hanno come fine ultimo la felicità Tutte le azioni moralmente buone sono azioni doverose ∴Tutte le azioni moralmente buone hanno come fine ultimo la felicità Anche in questo caso l’equivocazione sarebbe risolta, senza che sia risolta la controversia tra i due dialoganti. In questo caso il kantiano respingerebbe infatti la prima premessa, mettendo in rilievo un altro punto di dissenso con la posizione del suo interlocutore. La discussione, in tutti i casi, continuerebbe. 4. PETITIO PRINCIPII La petitio principii (traduzione latina dell’espressione aristotelica αἰτεῖσθαι τὸ ἐν ἀρχῇ (Top. VIII 13, 162b 34) consiste, secondo Aristotele, nell’argomentare una proposizione p utilizzando p stessa come premessa. Questa fallacia non è, prima facie, dovuta a un argomento non valido. Infatti, secondo la logica oggi considerata classica, ogni proposizione p è conseguenza deduttiva di ogni insieme di proposizioni di cui sia elemento, per cui l’inferenza di p da un insieme di premesse che contiene p è Saggi/Ensayos/Essais/Essays Errori / Errors – 04/2017 288 senz’altro valida pur essendo, in base alla caratterizzazione aristotelica, una petitio principii. Alla luce di ciò c’è, al giorno d’oggi, accordo sul fatto che la petitio principii non è propriamente una fallacia relativa alla validità, bensì una fallacia relativa all’efficacia argomentativa. Un argomento che inferisca la conclusione da un insieme di premesse che includa la stessa conclusione è deduttivamente valido, ma incapace di convincere chi non accetti la conclusione del ragionamento. Tuttavia, v’è in Aristotele una concezione del sillogismo che lo rende immune dalla petitio principii. In tal modo la petitio principii è per Aristotele allo stesso tempo una fallacia della validità e della fondatezza. Che i sillogismi aristotelici per definizione non possano contenere la conclusione tra le premesse, così che – per dirla con il linguaggio della logica contemporanea – la sillogistica aristotelica non è riflessiva, è ribadito in tutte le quattro definizioni di sillogismo che troviamo nell’Organon aristotelico. Negli Analitici Primi la definizione è la seguente: “Un sillogismo è un discorso nel quale, essendo state supposte certe cose, ne risulta di necessità qualcosa di differente dalle cose supposte in virtù dell’essere quelle cose così”. Nei Topici si legge che il sillogismo è “un discorso nel quale essendo assunte certe cose, ne risulta di necessità, mediante tali supposizioni, qualcosa di differente da esse” (Top. A 1, 100a 25-27). Nelle Confutazioni Sofistiche Aristotele dice che “il sillogismo si fonda su certe proposizioni tali che esse recano con sé di necessità l’asserzione di cose diverse da quelle proposizioni, mediante esse” (Soph. El. 1, 1-2). Infine nella Retorica il sillogismo è definito come un’inferenza nella quale “si mostra che, dandosi alcune cose, ne risulta, attraverso di esse e per il fatto che esse sono così, qualcosa di differente da esse e che va oltre esse” (Rhet. A, 1356b 16–18). Le quattro definizioni sono compatibili e ciò che più rileva ai nostri fini, nel contesto di una discussione della petitio principii, è l’insistenza di Aristotele sull’essere la conclusione qualcosa di diverso (ἕτερόν τι) dalle premesse e nell’affermazione che quella va oltre queste (παρὰ ταῦτα). Sosterrò la tesi che questa concezione della petitio principii mette in luce un aspetto importante della concezione aristotelica delle inferenze sillogistiche, il quale consiste nel fatto che per Aristotele le inferenze sillogistiche sono ampliative. Cerchiamo in primo luogo di comprendere perché per Aristotele la petitio principii sia una fallacia della fondatezza. Consideriamo dapprima il sillogismo scientifico, che è il sillogismo fondante per eccellenza. Esso è volto non solo a stabilire, ma anche a giustificare la verità della conclusione. Secondo Aristotele v’è un’asimmetria logica ed epistemologica tra le premesse e la conclusione di un sillogismo scientifico (le cui premesse forniscono le cause o ragioni oggettive che stanno alla base della verità della conclusione). Le premesse di un tale sillogismo debbono essere “meglio conosciute” (γνωριμώτερα) e “anteriori per natura” (πρότερα τῇ φύσει) (An. Po., B 2, 71b 34) rispetto alle loro conseguenze, la qual cosa sarebbe impossibile se tra le premesse fosse ammessa la medesima conclusione. Sulla base di tale asimmetria la dimostrazione circolare è chiaramente impossibile, se si richiede che non solo nei singoli sillogismi, ma anche in una successione di sillogismi, la conclusione dell’ultimo sillogismo sia diversa da tutte le proposizioni che occorrono Saggi/Ensayos/Essais/Essays Errori / Errors – 04/2017 289 nella dimostrazione, le quali sono premesse da cui discende la conclusione finale 11. Quel che vale per il sillogismo scientifico può essere esteso a ogni sillogismo fondante, anche se dialettico o entimematico, sebbene in tal caso esso si baserebbe su opinioni autorevoli (ἔνδοξα) e non su principi primi. Viene meno la portata modale, caratteristica del sillogismo scientifico, ma non viene meno l’asimmetria tra premesse e conclusione. Secondo Aristotele, in generale, le premesse di un sillogismo fondante, le cui premesse sono le ragioni (ἄιτια) a sostegno della conclusione, essendo più fondate delle conclusioni che si possono trarre da esse, hanno anche un grado di credibilità superiore. L’inferenza sillogistica, quindi, mentre trasmette la verità delle premesse alla conclusione, trasmette a quest’ultima solo in parte la propria fondatezza. Questa visione si accorda con lo statuto speciale, attribuito da Aristotele ai principi primi (αἱ πρῶται ἀρχαί), i quali hanno il non plus ultra della fondatezza e della credibilità, la quale proviene, per così dire, da sé stessi, ed è riconosciuta da una specifica disposizione intellettuale (νοῦς) immediatamente, senza aver bisogno della mediazione del ragionamento. L’analisi aristotelica della petitio principii si basa su questa concezione del sillogismo dimostrativo (e più in generale del sillogismo fondante). Essa è però in aperto contrasto con la logica moderna. La tesi secondo la quale attraverso le inferenze deduttive la credibilità delle premesse si degrada via via che ci si allontana dai principi primi è contraria alla visione della logica e dell’assiomatica condivisa al giorno d’oggi. In primo luogo, secondo la logica contemporanea, non v’è alcuna differenza di fondo tra i principi primi (o assiomi) e i teoremi che si deducono a partire da essi. La scelta degli assiomi è materia di opportunità e convenzione. In secondo luogo, il grado di credibilità (che oggi identifichiamo con la probabilità epistemica nel senso del calcolo delle probabilità) delle conseguenze logiche di una proposizione p è sempre non minore del grado di credibilità di p, e di norma più grande: esattamente il contrario di quanto sostenuto da Aristotele. 11 Negli Analytica Posteriora (72b 25–73a 20), Aristotele, in polemica con quanti sostengono che ogni proposizione sia dimostrabile, propone tre argomentazioni contro le dimostrazioni che hanno una struttura circolare (κύκλῳ). La prima argomentazione si basa sulla tesi che una dimostrazione circolare, nella quale si provi P1 partendo da P2 … Pn-1 partendo da Pn e Pn partendo da P1, viola il principio secondo il quale le premesse debbono essere epistemicamente anteriori alla conclusione e meglio conosciute di essa. Il secondo argomento mostra che una dimostrazione circolare di una proposizione P non prova P, ma solamente che, se si assume P allora vale P, e che ciò può essere ripetuto per qualsiasi proposizione. La terza argomentazione si ricollega a quanto Aristotele afferma negli Analytica Priora (B 5-7) e presenta notevoli difficoltà interpretative. Essa sembra essere un tentativo di riformulare la versione proposizionale dell’argomentazione circolare tenendo conto dei vincoli propri della struttura dei sillogismi (in particolare dalla richiesta che ciascun passaggio sia costituito da un sillogismo con almeno tre termini in gioco). La tesi sostenuta da Aristotele è che un’argomentazione sillogistica circolare richiede la conversione di alcuni termini. Questa analisi, come ha argomentato convincentemente Malink (2013), fa appello a sillogismi con più di una conclusione (essendo ciascuna di esse conseguenza delle medesime premesse) ed è compatibile con quella fornita dai primi due argomenti. Saggi/Ensayos/Essais/Essays Errori / Errors – 04/2017 290 5. ARISTOTELE E L’AMPLIATIVITÀ DEI SILLOGISMI VALIDI La posizione di Aristotele sulla petitio principii, come ripetizione nella conclusione di una premessa, è coerente, come si è accennato, con la stessa definizione di sillogismo valido. Le inferenze circolari, come Aristotele argomenta negli Analitica Posteriora (An Po, A 3, 72b 34) sono riducibili all’inferenza di una proposizione da sé stessa. Esse non possono essere quindi catene valide di sillogismi, perché la richiesta che la conclusione non appartenga all’insieme delle premesse non è soddisfatta. La presenza di questa richiesta ha lasciato perplessi i commentatori di Aristotele. La perplessità scompare se lasciamo cadere l’errata presupposizione che ‘sillogismo’ corrisponda più o meno perfettamente al termine moderno ‘deduzione’ 12. In realtà così non può essere, dal momento che le cosiddette inferenze immediate, come ad esempio le conversioni, da Aristotele utilizzate per la riduzione della seconda e terza figura sillogistica alla prima, hanno una sola premessa e non sono considerate da Aristotele come sillogismi. È, ad esempio, un’inferenza immediata l’inferenza di una proposizione universale negativa dal suo converso (come l’inferenza di ‘nessun dio è mortale’ da ‘nessun mortale è dio’). Tali inferenze non sono sillogismi nemmeno etimologicamente dal momento che ‘συλλογισμός’ deriva da ‘σύν’ e ‘λογισμός’ che contiene l’idea della combinazione o concatenazione di più cose in una sorta di calcolo e richiedono quindi più di una premessa. Del resto sono numerosi i passi degli Analytica Priora in cui Aristotele insiste sulla tesi che le inferenze sillogistiche (e quindi tutti gli argomenti fondanti) richiedono più di una premessa: An. Pr. A 15, 34a16-19; An. Pr. A 23, 40b35-7; An. Pr. B 2, 53b16-20. E allora si può pensare che per Aristotele anche l’inferenza di una proposizione da sé stessa sia (banalmente) valida nel senso delle inferenze immediate, ma non in quello in cui sono validi i sillogismi. Le definizioni aristoteliche di sillogismo non includono solo i sillogismi canonici (con due premesse e una conclusione), bensì anche sequenze di sillogismi (chiamate anche polisilogismi) in cui la conclusione di ogni sillogismo può essere presa come premessa di un sillogismo che lo segue. Aristotele ha saputo sviluppare una teoria sistematica compiuta delle inferenze sillogistiche, utilizzando le inferenze immediate per la riduzione della seconda e terza figura sillogistica alla prima, ma senza ammettere inferenze immediate all’interno di una medesima figura sillogistica. V’è quindi una differenza importante tra i sillogismi e le inferenze immediate. La tesi più ragionevole è che la teoria puramente logica dei sillogismi non fosse considerata da Aristotele fine a se stessa, bensì in rapporto alle sue applicazioni. E Aristotele ne distingue diverse: l’applicazione alla spiegazione e didattica scientifica, l’applicazione dialettica, l’applicazione retorica, l’applicazione eristica. L’applicazione più diretta è l’applicazione alla spiegazione scientifica 12 Questo errore interpretativo sembra abbia tratto in inganno anche i migliori commentatori. Ad esempio Barnes (2002: 83), dopo aver riportato la definizione aristotelica di sillogismo scrive che “essa mostra che sullogismoi include molto più dei sillogismi aristotelici […]. Così come sono definiti i sullogismoi aristotelici non includono tutti gli argomenti deduttivi validi; tuttavia sembra ragionevole supporre che la definizione di Aristotele fosse un tentativo di caratterizzare l’inferenza deduttiva come tale“. Saggi/Ensayos/Essais/Essays Errori / Errors – 04/2017 291 (απόδειξις), esposta negli Analytica Posteriora. Qui è detto che quando si mostra che qualcosa è necessario che si dia perché sono date certe condizioni, “non si assume una singola proposizione bensì almeno due: ciò accade quando le proposizioni assunte hanno un unico termine medio [comune]” (An. Po. B 11, 94a 24-26). In questo passo Aristotele ha in mente una necessità fisica, non una necessità logica. Tuttavia nell’ambito della sua teoria della spiegazione le due necessità coincidono quando il termine medio è il referente di una condizione esplicativa causale che esiste nelle cose e non solo nel linguaggio. La posizione di Aristotele sembra dunque essere che vi sono due tipi di inferenze: le inferenze immediate e le inferenze sillogistiche. Queste ultime prevedono sempre la presenza di uno o più termini medi che possono essere concatenate in modo tale che le premesse siano a loro volta le conclusioni di altri sillogismi o principi primi. La differenza che Aristotele manifestamente poneva tra inferenze immediate e sillogismi crea un grosso problema interpretativo, che non mi risulta sia stato adeguatamente chiarito. La tendenza prevalente è, sulla base del lavoro di Corcoran (1974), ad assimilare i due tipi d’inferenze in un unico sistema. Sul piano formale i risultati di Corcoran sono interessanti e costituiscono un raffinamento importante della pionieristica indagine di Łukasiewicz ([1957] 1972), ma sul piano interpretativo lasciano senza risposta quel che emerge chiaramente dai testi aristotelici: la presenza del termine medio dà luogo a un genere completamente differente d’inferenza. Si deve ammettere che Aristotele non abbia spiegato adeguatamente in che cosa consista la differenza. Tuttavia l’insistenza sul fatto che la conclusione delle inferenze sillogistiche (e polisillogistiche) deve essere diversa dalle premesse e persino andare oltre esse, suggerisce che Aristotele considerasse le inferenze sillogistiche come ampliative. Attraverso di esse, nelle scienze dimostrative, si possono apprendere cose nuove (non già dette dalle premesse). Allo stesso modo è verosimile che Aristotele considerasse le inferenze immediate come non ampliative, cioè tali che la loro conclusione non è che un modo di riformulare in tutto o in parte quanto detto nella premessa. Il contenuto nuovo che compare nella conclusione di un sillogismo è dovuto alla presenza del termine medio nelle due premesse. Sebbene non vi sia evidenza testuale chiara sul carattere non ampliativo delle inferenze immediate, la loro non ampliatività è pressoché ovvia. È ovvio cioè che, laddove queste inferenze si applicano, si tratta di riformulazioni del medesimo contenuto informativo con altre parole. Non sorprende quindi che J. S. Mill, che pure sosteneva la non ampliatività di tutte le inferenze deduttive, tratti la non ampliatività delle inferenze immediate separatamente dalla non ampliatività dei sillogismi, considerando quest’ultima come una tesi originale e degna di essere argomentata accuratamente, dal momento che si riferisce alle “inferenze propriamente dette” ([1843] 1988: 250), al contrario della prima, che considerava invece persino banale: Saggi/Ensayos/Essais/Essays Errori / Errors – 04/2017 292 Nell’accingerci a prendere in considerazione i casi in cui si possono legittimamente trarre inferenze, ne menzioneremo dapprima alcuni in cui l’inferenza è apparente, non reale; questi casi debbono essere richiamati all’attenzione soprattutto per non confonderli con i casi d’inferenza propriamente detta. […] Il caso più complesso di questa specie d’inferenza apparente è quella che si chiama conversione delle proposizioni […]. In tutti questi casi non c’è, in realtà, nessuna inferenza; nella conclusione non c’è nessuna verità nuova, nulla che non sia già asserito nelle premesse e non sia ovvio a chiunque le apprende. Il fatto asserito nella conclusione è lo stesso fatto, o parte dello stesso fatto asserito nella proposizione da cui si è partiti. Sembra ragionevole che anche Aristotele considerasse le inferenze immediate non come vere e proprie inferenze, bensì come regole per dire con altre parole quel che si era premesso o parte di quel che si era premesso. Ciò chiarisce anche il significato della riduzione aristotelica della seconda e terza figura sillogistica alla prima: si tratta di riformulare le premesse dell’argomento in maniera che non sia introdotto alcun nuovo contenuto informativo e la riformulazione dia luogo a un sillogismo di prima figura. È quindi possibile che Aristotele non considerasse l’inferenza di una proposizione da sé stessa come realmente non valida. La logica si applica, per Aristotele, all’argomentazione delle conclusioni, fornendone la giustificazione. Se l’inferenza di p da sé stessa o, più in generale l’inferenza circolare, fosse ammessa come giustificazione della conclusione, allora tutte le proposizioni potrebbero essere dimostrate (An. Po. A 3, 72b 34-35), il che ovviamente è assurdo perché allora anche la contraddittoria di ogni proposizione sarebbe dimostrabile, contro il principio di non contraddizione. V’è tuttavia un passo degli Analytica Priora che ha fatto ritenere che Aristotele considerasse non ampliativi anche i sillogismi. Esso suona così: Se A appartiene a tutto ciò cui appartiene B e B a ogni C, A apparterrà a ogni C. Così, se qualcuno sa che A appartiene a tutto ciò cui appartiene B, saprà anche che esso appartiene a C. (An. Pr. B 21, 67a 9-12). Aristotele, naturalmente, era ben consapevole del fatto che senza conoscere la verità della premessa minore non è possibile inferire la conclusione e quindi chi conoscesse la premessa maggiore (“tutti i B sono A”) non è in grado d’inferire “tutti i C sono A”. Secondo Aristotele c’è tuttavia un senso della parola ‘conoscere’ per il quale chi conosce la premessa maggiore di un sillogismo in Barbara conosce anche la conclusione 13. Secondo Ross (1949: 506) si tratterebbe di una conoscenza “in potenza”. 13 Aristotele ritorna su questo tema negli Analytica Posteriora. In entrambi i passi Aristotele cita l’aporema sollevato da Platone nel Menone, secondo il quale “l’uomo non può cercare né ciò che sa né ciò che non sa: ciò che sa perché, conoscendolo, non ha bisogno di cercarlo; ciò che non sa perché non sa nemmeno ciò che cerca” (Men. 80 e) e che è risolto con la celebre dottrina della reminiscenza. Può essere che, in entrambi i casi, Aristotele voglia soprattutto criticare tale dottrina: la contemplazione Saggi/Ensayos/Essais/Essays Errori / Errors – 04/2017 293 Sapere che la premessa maggiore è vera comporta, in un qualche senso, anche sapere “in potenza” che è vera la conclusione. Tale conoscenza diventa, secondo questa interpretazione, conoscenza attuale solo in presenza della premessa minore. In tal senso sembra potersi dire che la premessa maggiore “contiene in potenza” la conclusione. E ciò, a sua volta, sembra implicare che le inferenze sillogistiche (almeno quelle di prima figura, alla quale tutte le altre sono riducibili) sono non ampliative. Ma in che modo la premessa maggiore “contiene in potenza” la conclusione, senza essere sufficiente per inferirla? Consideriamo un esempio concreto: Tutti gli animali sono mortali Tutti i colibrì sono animali Tutti i colibrì sono mortali La classe degli animali contiene quella dei colibrì. E poiché la proposizione “tutti gli animali sono mortali” dice di ogni singolo animale che esso è mortale dice anche – questo è l’argomento – di ogni singolo colibrì che è mortale. Ma chi conosce il contenuto di una proposizione dovrebbe anche sapere ciò che essa dice. Dunque dovrebbe sapere di ogni singolo animale che esso è mortale. E tuttavia chi non sapesse nemmeno che esistono i colibrì, non saprebbe certo che tutti i colibrì sono mortali. Aristotele risolve la difficoltà distinguendo due specie dell’aver conoscenza scientifica di qualcosa: l’avere conoscenza scientifica in maniera universale (τὴν καθόλου ἔχειν ἐπιστήμην) e l’aver conoscenza scientifica in maniera particolare (τὴν καθʹἕκαστον ἔχειν ἐπιστήμην) (An Pr. B 21, 67a 17–18). Sebbene ciò sia lungi dall’avere una base testuale chiara, Ross interpreta l’avere conoscenza in maniera universale come una conoscenza potenziale. La questione dell’ampliatività o meno dei sillogismi è di fondamentale importanza per l’analisi della petitio principii così come caratterizzata da Aristotele, giacché ove le inferenze sillogistiche risultassero non ampliative, la petitio principii sarebbe presente, come mostrerò in dettaglio più avanti, in ogni argomentazione sillogistica e, in particolare, in ogni dimostrazione. In ogni argomentazione sillogistica la conclusione non farebbe che ripetere parte di quanto già assunto nelle premesse, sì che l’argomentazione riuscirebbe inevitabilmente circolare. Ma se le cose stessero così, allora l’analisi aristotelica della fallacia della petitio principii nella dimostrazione sarebbe chiaramente erronea, dal momento che Aristotele non sosteneva la tesi che ogni dimostrazione è circolare. Ora, poiché oggi sappiamo che le cose stanno realmente così e che pertanto l’analisi aristotelica è erronea, si tratta da un lato di suffragare la tesi che Aristotele considerasse realmente ampliative le inferenze sillogistiche e dall’altro di offrire una caratterizzazione differente da quella aristotelica della petitio principii nel contesto della dimostrazione. Per corroborare la tesi che Aristotele considerava ampliative le inferenze sillogistiche è utile una, sia pur sommaria, ricostruzione storica di come l’idea di dell’universale e il suo ricordo non sono sufficienti per trarre conclusioni particolari, che richiedono sempre la mediazione di premesse di natura empirica. Saggi/Ensayos/Essais/Essays Errori / Errors – 04/2017 294 ampliatività sia emersa in epoca moderna. La prossima sezione sarà perciò una digressione storiografica, tuttavia indispensabile per il proseguo dell’analisi della petitio principii. Vedremo che benché l’idea della non ampliatività della deduzione si sia stata enunciata (forse per la prima volta) da Leibniz nel XVII secolo, essa è divenuta popolare solo nel secolo XIX, sebbene le ragioni profonde della non ampliatività dei sillogismi non possano essere chiarite se non alla luce della logica contemporanea. 6. L’EMERGENZA DELLA NON AMPLIATIVITÀ DELLA DEDUZIONE Come si è accennato, la tesi secondo la quale per Aristotele i sillogismi sono ampliativi è confermata in primo luogo dalla considerazione che l’idea della non ampliatività delle inferenze deduttive è un’idea moderna, che troviamo espressa chiaramente in Leibniz, il quale aveva tutta l’aria di dire una cosa nuova e non di ripetere un luogo comune: Le verità primitive di ragione son quelle che io chiamo col nome generale di identiche, poiché sembra non facciano che ripetere la medesima cosa, senza insegnarci nulla. […]. Il rettangolo equilatero è un rettangolo, l’animale razionale è sempre un animale. […] Qualcuno, dopo aver seguito con pazienza quanto abbiamo affermato fin qui, si irriterà infine e dirà che ci divertiamo con enunciazioni frivole e che tutte le verità identiche non servono a nulla. Ma darà un tale giudizio per non aver abbastanza meditato su questo argomento. Le conseguenze logiche, per esempio, si dimostrano mediante i princìpi identici […]. [L]e proposizioni identiche più pure e che sembrano le più inutili, sono di un’utilità considerevole nelle considerazioni astratte e generali: e questo ci può insegnare che non si deve disprezzare alcuna verità. (Leibniz 2000: 343-348; 18751890 V, 343-347) Tuttavia queste idee di Leibniz ebbero scarsa influenza sui suoi contemporanei, essendo rimaste inedite per molto tempo. La tesi, invece, secondo cui la premessa maggiore “contiene” la conclusione (in un senso che assomiglia a quello asserito da Aristotele nel passo che abbiamo citato più sopra) è ripetuta spesso nei libri della logica tradizionale. Ad esempio, nella Logique de Port Royale si legge: [S]i può giudicare della bontà o della difettosità di ogni sillogismo, […] senza riguardo alle figure o ai modi, attraverso questo solo principio generale: che una delle due premesse debba contenere la conclusione e l’altra faccia vedere che essa la contiene. (Arnauld & Nicole [1664] 1992: 199) Ora, la premessa che contiene la conclusione dovrebbe consentire da sola di inferire la conclusione. Sebbene tale condizione non sia sufficiente per la non ampliatività, essa è tuttavia necessaria. Come può infatti una proposizione contenere Saggi/Ensayos/Essais/Essays Errori / Errors – 04/2017 295 tutto quanto ciò che dice un’altra senza poterlo estrarre da essa? 14 Se si insiste nella tesi che il contenuto informativo della premessa maggiore include quello della conclusione, allora il senso di tale inclusione deve essere chiarito. È verosimile che qui ‘contenere’ debba essere inteso nel senso che la classe degli oggetti che ricadono sotto il soggetto della premessa maggiore includa la classe degli oggetti che ricadono sotto il soggetto della conclusione. Il ruolo della premessa minore sarebbe allora quello di consentire la sussunzione del soggetto della conclusione sotto il soggetto della premessa maggiore. Del resto è proprio così che, oltre un secolo e mezzo dopo la Logique, Hamilton continuava a spiegare il senso in cui la premessa maggiore contiene la conclusione: Le due proposizioni [del sillogismo] che costituiscono gli antecedenti sono chiamate, tra le altre denominazioni, le Premesse. Di queste, la proposizione che esprime la relazione di inclusione (of whole) che intercorre tra una delle nozioni date originariamente e la nozione assunta o media come sua parte è chiamata, oltre che in altro modo, la Proposizione Maggiore, la Premessa Maggiore o la proposizione, κατʹ εξόχην (sic). L’altra proposizione dell’antecedente, che enuncia la relazione d’inclusione che intercorre tra la nozione assunta o media e l’altra delle nozioni date come sua parte, è chiamata, oltre che in altro modo, la Proposizione Minore, la Premessa Minore, o la Sussunzione. (Hamilton 1860: 282) Se nella Logique de Port Royale la tesi che una delle premesse dei sillogismi “contiene” la conclusione non aveva ancora la pretesa di affermare che la conclusione ripete ciò che è già detto nelle premesse, questa affermazione la si trova invece esplicitamente affermata, nel secolo XVIII, in Du Marsais, che pure riprende la tesi della Logique secondo la quale una delle premesse sillogistiche contiene la conclusione e l’altra fa vedere che le cose stanno così: 14 È chiaro che se la condizione fosse, per la stessa definizione della non ampliatività, sia necessaria sia sufficiente, allora la non ampliatività di ogni inferenza concludente sarebbe vera per definizione e sarebbe vuotamente analitica. Non va quindi presa come espressione della tesi della non ampliatività delle inferenze sillogistiche l’affermazione, ad esempio, di Sesto Empirico: “si dovrebbe ricordare la seguente regola dialettica, consegnataci dalla tradizione, per le analisi dei sillogismi: ‘quando accettiamo delle premesse dalle quali è deducibile una qualche conclusione, accettiamo anche in potenza quella conclusione, anche se essa non è stata formulata’” (Sextus Empiricus, Adv. Dog. II, 231; [1933] 1976: 358). Qui la “potenza” è relativa alla capacità di dedurre la conclusione. La massima non sostiene che la conclusione è una riformulazione con altre parole di parte di ciò che è detto nelle premesse. Lungi dall’asserire la non ampliatività (in un senso schiettamente semantico) dei sillogismi, la massima citata da Sesto è un’affermazione della chiusura deduttiva di un insieme di proposizioni assunte come premesse. Poiché l’insieme di ciò che è creduto o conosciuto è un insieme potenzialmente chiuso deduttivamente, chi conosce o crede le premesse conosce o crede in potenza anche la conclusione. Lo stesso vale per quanto dice Boole (che pure disponeva degli strumenti per comprendere meglio di altri la non ampliatività delle inferenze deduttive): “Per sillogismo s’intende la deduzione, da due di queste proposizioni aventi un terzo termine comune – soggetto o predicato – di una terza proposizione che è contenuta inferenzialmente nelle altre due e che forma la ‘conclusione’” (Boole [1854] 1976: 317). L’avverbio ‘inferenzialmente’ non lascia dubbi sul senso in cui le premesse contengono la conclusione: nel senso che questa è inferibile da quelle. Non è questa la tesi della non ampliatività semantica della deduzione. Saggi/Ensayos/Essais/Essays Errori / Errors – 04/2017 296 come si dice comunemente, la premessa maggiore o proposizione generale contiene la conclusione laddove la premessa minore fa vedere che tale conclusione è contenuta nella premessa maggiore. Così è l’identità a essere il solo e vero fondamento del sillogismo. Detto in altri termini, la conclusione è il medesimo giudizio che si è asserito nella premessa maggiore, con la sola differenza che la premessa maggiore è più generale della conclusione. (Du Marsais 1769: 42) Da queste considerazioni Du Marsais ricavava una generale concezione del ragionamento, che potenzialmente va oltre la sillogistica e sposta il tratto caratterizzante del sillogismo dal passaggio dal generale al particolare (considerato concomitante ma non più essenziale) alla non ampliatività: Il ragionamento consiste nel dedurre, nell’inferire, nel derivare un giudizio da altri già conosciuti; o più esattamente nel far vedere che il giudizio di cui si tratta è già stato asserito in maniera implicita, sì che non si tratta che di sviluppare e di far vedere l’identità con qualche giudizio anteriore. (28) La tesi di Du Marsais fu raccolta da Campbell, che dopo aver citato Du Marsais, afferma a sua volta: [L]’ambito proprio della scienza sillogistica è l’adeguamento del nostro linguaggio nell’esprimere noi stessi su argomenti che già conosciamo piuttosto che l’acquisizione di conoscenza sulle cose stesse. (Campbell [1776] 1868: 88) La nuova concezione della logica come scienza delle inferenze non ampliative (piuttosto che delle inferenze che discendono dal generale al particolare) è infine resa popolare da Whately, che rifacendosi espressamente a Campbell, scrive: [I]l fine di ogni ragionamento non è altro che quello di espandere e svolgere le asserzioni, per così dire, avvolte e implicite nelle premesse, e di condurre una persona ad […] ammettere in una forma ciò che era stato ammesso in un’altra e ad abbandonare e non ammettere tutto ciò che è incompatibile con esso. (Whately [1826] 1849: 89) Quando Mill scrisse il suo Sistema di Logica, verso la metà del secolo XIX, la tesi della non ampliatività delle inferenze sillogistiche era divenuto ormai un luogo comune 15: 15 Fa eccezione la posizione di Hamilton, che pur riconoscendo che i sillogismi aristotelici sono non ampliativi, aveva l’ambizione di aver sviluppato una logica (basata sulla quantificazione del predicato) immune dalla petitio principii e quindi genuinamente ampliativa: “In secondo luogo, questa veduta fondamentale, rende immune il sillogismo dall'obiezione di incorrere in una Petitio Principii, la quale pretendendo di annullare logicamente la logica, o almeno di ridurla a vuota tautologia, definisce sillogistica l'arte di affermare nella conclusione quel che è stato già ammesso nelle premesse. Saggi/Ensayos/Essais/Essays Errori / Errors – 04/2017 297 Dobbiamo ora indagare se il processo sillogistico, cioè il ragionamento dal generale al particolare, sia o non sia un processo d’inferenza, un progresso dal noto all’ignoto, un mezzo per pervenire alla conoscenza di qualche cosa che prima non conoscevamo. Tra i vari modi in cui i logici hanno risposto a questa domanda regna una notevole unanimità. Si ammette universalmente che un sillogismo è difettoso se nella conclusione c’è qualcosa di più di quanto non sia stato assunto nelle premesse. Ma in realtà ciò equivale a dire che un sillogismo non è mai stato e non sarà mai in grado di provare nulla che non fosse già noto, o non si fosse assunto come noto, in precedenza. (Mill [1843] 1988: 277) Tuttavia nonostante l’idea della non ampliatività della sillogistica e, più in generale della logica deduttiva, 16 fosse considerata un fatto acquisito, l’analisi di tale ampliatività è carente e non aggiunge nulla di essenziale a quanto aveva già detto Aristotele. Essa continua a basarsi sulla tesi che la premessa universale contiene, in virtù del principio dictum de omni et de nullo, la conclusione. Questa accusa di circolarità del sillogismo, basata sulla tesi della sua non ampliatività, va tenuta ben distinta da quella, di cui si trova traccia già in Sesto Empirico, secondo la quale un’argomentazione deduttiva volta a provare la verità di una conclusione particolare partendo da premesse generali è circolare in quanto quelle premesse, a loro volta, poggiano sulle medesime proposizioni particolari che si vorrebbero provare sillogisticamente. Qui l’argomento non riguarda il rapporto Quest’obiezione (che risale almeno a tre secoli e mezzo fa) è applicabile solamente al ragionamento sintetico o aristotelico, che del resto coloro che avanzano tale obiezione considerano come l’unico possibile” (Hamilton [1852] 1861: 604 n. 1). Sarebbe interessante scoprire a quale precursore del XV o XVI secolo Hamilton si riferisce quando afferma che la tesi della non ampliatività dei sillogismi aristotelici risale a tre secoli e mezzo prima di lui. 16 Andrebbe sottolineato che la parola ‘deduzione’ ha acquisito un significato tecnico solo allorché apparve chiaro che la logica sillogistica non comprende tutte le inferenze valide. Il termine fu introdotto da Cartesio (Descartes 2000: 159-160). Viceversa la parola ‘induzione’ deriva dal latino ‘inductio’, che fu usata da Cicerone (e forse introdotta nel lessico filosofico latino da lui stesso) come traduzione del termine greco ‘ἐπαγωγή’ nel paragrafo 51 del I libro del De Inventione (2009: 28). Così la coppia di termini deduzione–induzione sostituì quella tradizionale sillogismo-induzione, con l’importante differenza che mentre la linea di demarcazione pre-moderna tra sillogismo e induzione era costituita dal passaggio dall’universale al particolare (o dal più generale al meno generale) e viceversa, la linea di demarcazione moderna tra deduzione e induzione diviene la non ampliatività, proprietà saliente delle inferenze deduttive, contrapposta all’ampliatività delle inferenze induttive (ampliatività estranea alla veduta aristotelica dell’ἐπαγωγή: per Aristotele e per la tradizione successiva l’induzione completa, che non è ampliativa ed è deduttiva secondo il punto di vista di un logico moderno, costituisce l’esempio più perfetto). Va detto, tuttavia, che, specialmente per ciò che riguarda l’induzione, l’aspetto della generalizzazione è sovente presentato come coestensivo a quello dell’ampliatività. Ma già Mill aveva insistito sulla fondamentale importanza delle induzioni da particolari a particolari (Mill [1843] 1988: 283). Tale sottolineatura ha portato a considerare la critica di Hume alle inferenze predittive come una critica alla validità dell’induzione. Tali inferenze hanno la proprietà di essere ampliative, ma non necessariamente quella di essere generalizzanti. Non deve sorprendere che Hume non usi mai la parola ‘induzione’ in quella che è considerata una critica all’induzione, perché all’epoca in cui scriveva il termine aveva ancora il significato di inferenza generalizzante come suo tratto caratterizzante. Saggi/Ensayos/Essais/Essays Errori / Errors – 04/2017 298 formale tra premesse e conclusione dell’inferenza sillogistica, bensì l’aspetto materiale, cioè il fondamento delle premesse in quanto è basato sulle conclusioni che da esse si intendono trarre: Quindi la proposizione ‘ogni uomo è animale’ si fonda induttivamente sui particolari: sul fatto che Socrate, essendo un uomo, è anche un animale e lo stesso vale per Platone, per Dione e per ciascuno dei particolari [uomini], si ritiene che sia possibile asserire fondatamente (διαβεβαιοῦσθαι) che tutti gli uomini sono animali. Infatti, se anche uno solo dei particolari risultasse essere contrario rispetto agli altri, la premessa perderebbe ogni fondamento. […] Quindi allorché essi dicono “tutti gli uomini sono animali, Socrate è un uomo, pertanto Socrate è un animale”, e intendono inferire dalla proposizione universale ‘tutti gli uomini sono animali’ la proposizione particolare ‘Socrate è animale’, la quale, come abbiamo ricordato, concorre a fondare la proposizione universale per via induttiva, essi incorrono in un argomento circolare (διάλληλον ἐμπίπτουσι λόγον). (Sextus Empiricus, Pyrr. Hyp. II, 195-196; [1933] 1976: vol. II, 276-279) Questo argomento è stato ripetuto più volte. Esso presuppone che le premesse siano il risultato di un’inferenza induttiva. Mill lo riprende, ma lo usa come una prova che sia la proposizione universale sia la successiva deduzione da essa della conclusione sono un detour dispensabile, dal momento che le due inferenze, prese insieme, equivalgono a una inferenza analogica da particolari a particolari: Dunque nell’argomentazione che prova che Socrate è mortale, una parte indispensabile delle premesse sarà la seguente: “Mio padre e il padre di mio padre; A, B, C e un numero indefinito di altre persone erano mortali”, e questo non è altro che un modo di esprimere in parole differenti il fatto, osservato, che tutte queste persone sono morte. Questa è la premessa maggiore, spogliata dalla petitio principii 17, e ridotta a quanto realmente si conosce per testimonianza diretta. L’anello in più, necessario a connettere questa proposizione con la conclusione “Socrate è mortale”, è il seguente: “Socrate somiglia a mio padre, e al padre di mio padre, e agli altri individui specificati”. Quando asseriamo che Socrate è un uomo asseriamo proprio questa proposizione. Dicendo così, asseriamo analogamente per quale aspetto Socrate somigli a tutti costoro: cioè per gli attributi connotati dalla parola “uomo”. E concludiamo che, inoltre, Socrate somiglia a tutti questi uomini per l’attributo della mortalità. (Mill [1843] 1988: 301302) Anche Aristotele in An. Po. B, 19, volendo evitare l’innatismo platonico, sostiene l’origine induttiva degli universali e dei principi primi – questi ultimi, come suggerisce Barnes (Barnes 2002: 271), visti come definitori degli universali primitivi. Tuttavia Aristotele si guarda bene dal dire che i principi primi non sono nient’altro che mere 17 Qui la petitio principii cui allude Mill è la circolarità per la quale la premessa maggiore contiene la conclusione. Eliminarla, significa ridurla alla congiunzione dei particolari su cui essa si basa. Saggi/Ensayos/Essais/Essays Errori / Errors – 04/2017 299 generalizzazioni di proposizioni particolari da essi inferite per induzione, sì che la successiva dimostrazione che partisse da quei principi si risolverebbe in un’inferenza da particolari a particolari. Il precedente argomento va infine tenuto distinto da una terza posizione filosofica, di natura schiettamente metodologica. Secondo tale posizione la dimostrazione non è un mezzo di scoperta. Essa non è un’ars inveniendi, mediante la quale si attua la crescita della conoscenza. Anche questa posizione non ha nulla a che vedere con la tesi della non ampliatività e la petitio principii. Questa posizione risale in realtà anch’essa all’antica geometria greca. I geometri non fanno ricorso alle dimostrazioni per scoprire nuovi teoremi muovendo dai principi primi. La ricerca geometrica, procede semmai all’inverso, per abduzione (ἀπαγωγή): si parte da proposizioni la cui verità è nota induttivamente (dall’osservazione delle figure geometriche) e si cerca di trovarne la dimostrazione, che metta capo ai principi primi passando per la scoperta di lemmi intermedi dai quali consegua deduttivamente la conclusione. Aristotele stesso porta un esempio tratto dalla ricerca geometrica, riguardante il problema della quadratura del cerchio, cioè il problema di costruire con riga e compasso un quadrato che abbia la medesima superficie di un cerchio dato. Per aggredire questo problema, suggerisce Aristotele, possiamo supporre, in via provvisoria, che partendo da una qualsiasi figura rettilinea, sia possibile costruire un quadrato con la medesima area. Basandoci su questa supposizione come premessa, possiamo cercare di dimostrare che, partendo da un qualsiasi cerchio, sia possibile costruire un quadrato avente la medesima area. Naturalmente ciò non basta per risolvere il problema della quadratura del cerchio: per risolverlo si deve prima dimostrare la proposizione intermedia, secondo la quale, partendo da una qualsiasi figura rettilinea, è possibile costruire un quadrato con la medesima area. Per far ciò si deve iterare il procedimento abduttivo, avanzando altre ipotesi, dalle quali la proposizione intermedia possa a sua volta essere dedotta. Iterando ancora il procedimento ci si avvicina via via alla soluzione del problema. La procedura abduttiva ha termine quando si mette capo a teoremi già dimostrati o ad assiomi o a postulati senza lasciare indimostrata alcuna proposizione intermedia. In tal caso avremo trovato la dimostrazione del teorema della quadratura del cerchio. A quel punto saremo nella condizione di esibire la dimostrazione per via puramente deduttiva, partendo da postulati e teoremi noti (Cfr. A. Pr. B, 25). In tal modo si fornisce, secondo Aristotele, anche la spiegazione di ciò che prima si sapeva solo essere vero. Ma ciò non reca con sé in alcun modo la tesi secondo la quale ciò che viene dimostrato ripete quanto già asserito nelle premesse. Né comporta l’accettazione della tesi che i principi sono derivati dalle osservazioni. V’è una lunga tradizione nella storia della matematica, che contrappone le inferenze dimostrative che fanno uso della deduzione alle inferenze abduttive volte alla scoperta delle premesse delle dimostrazioni. Le prime inferenze erano chiamate sintetiche, le seconde analitiche. Tale tradizione (e terminologia) si è consolidata nel IV secolo d.C., soprattutto a opera di Pappo di Alessandra (c. 290 – c. 350 d.C.) ed era considerata un dato acquisito ai tempi di Descartes. Saggi/Ensayos/Essais/Essays Errori / Errors – 04/2017 300 Non sorprende, quindi, che quest’ultimo, sia nelle Regulae sia nel Discours, affermi che la scoperta non avviene per via dimostrativa: questa era infatti una tesi da lungo tempo condivisa tra i matematici. Come Aristotele, anche Descartes, considerava la dimostrazione utile per l’insegnamento e l’esposizione di verità già acquisite — sebbene Aristotele attribuisse alla dimostrazione un’importanza ben diversa, avendo per lui non solo il compito di mostrare che certe proposizioni sono vere, ma anche di mostrare perché esse sono vere. Così nelle Regulae si legge: Ma affinché appaia ancora più evidente che quell’arte di ragionamento non contribuisce affatto alla conoscenza della verità, si deve osservare che i dialettici non possono formare a regola d’arte nessun sillogismo che concluda il vero, se prima non ne avranno posseduto la materia, se cioè non avranno già in precedenza conosciuto quella verità, che in esso viene dedotta. Donde appare chiaro che quegli stessi non colgono nulla di nuovo grazie a tale forma, e che dunque la dialettica consueta è del tutto inutile a coloro che desiderano cercare la verità delle cose, e che può invece giovare soltanto, ad esporre ad altri più facilmente delle ragioni già note (Descartes 2000: 233, Adam C. e Tannery T. 19571976: vol. X, 406) Questo passo e un altro simile del Discorso sul metodo (Descartes 1978: 13; Adam C. e Tannery T. 1957-1976: vol. VI, 17) hanno indotto alcuni commentatori di Descartes a scorgervi la tesi secondo cui la conclusione è già contenuta nelle premesse 18. Tuttavia Descartes non afferma affatto che le dimostrazioni non servono per scoprire nuove verità in quanto esse sono contenute nelle premesse. Egli dice piuttosto che la conclusione deve essere già nota prima della costruzione della dimostrazione. E il fatto che il sillogismo dimostrativo (e più in generale il sillogismo argomentativo) non fornisca una guida per la scoperta scientifica, non implica di per sé la tesi della non ampliatività delle inferenze sillogistiche o che esse contengano una petitio principii. Basti pensare che nel secolo XX molti filosofi della scienza hanno sostenuto che nemmeno l’induzione sia un metodo di scoperta, pur mantenendo la tesi che la conferma ex post delle ipotesi scientifiche sia allo stesso tempo induttiva e ampliativa. 7. PERCHÉ TUTTI GLI ARGOMENTI DEDUTTIVI SONO NON AMPLIATIVI Alla luce della logica moderna post-fregeana, l’argomento tradizionale adoperato in epoca moderna per affermare che le inferenze sillogistiche contengono una petitio principii, benché la sua conclusione sia in fondo corretta, si basa su un errore. Secondo la visione aristotelica, ereditata dalla tradizione sino a Frege, una proposizione universale come “tutti gli uomini sono mortali” parla degli uomini (il “soggetto” della 18 Ad esempio, la curatrice dell’edizione italiana delle Regulae da cui abbiamo tratto il passo citato, così commenta: “il sillogismo è inutile, in quanto la conclusione è vera solo se la sua materia è vera, ma la verità della materia non è una conquista della conclusione, bensì deve essere posta nella premessa” (Descartes 2000: 369 n. 53). Saggi/Ensayos/Essais/Essays Errori / Errors – 04/2017 301 proposizione) e dice di ciascuno di essi che è mortale. Questa concezione generava una duplice difficoltà: da un lato si trattava di spiegare perché una proposizione come “Socrate è mortale” non sia deducibile dalla proposizione universale senza l’ulteriore premessa “Socrate è un uomo”; dall’altro si doveva spiegare come sia possibile che chi sapesse che tutti gli uomini sono mortali potrebbe ignorare che Socrate è mortale. Aristotele aveva in mente solo la seconda parte, quella epistemica, del problema. Quest’ultimo, come abbiamo visto, era risolto con un escamotage nella Logique de Port Royale: la premessa maggiore conterrebbe sì la conclusione, ma essa non sarebbe visibile senza la premessa minore. In epoca moderna, autori come Du Marsais, Campbell, Whately e Mill hanno seguito la tesi zoppicante della Logique per argomentare esplicitamente la non ampliatività delle inferenze sillogistiche. Tuttavia, secondo la logica fregeana e post-fregeana della quantificazione, dire che la proposizione universale “tutti gli uomini sono mortali” parla solo degli uomini è semplicemente un errore. Essa, in realtà, parla di tutti gli individui dell’universo di discorso e dice di ciascuno di essi che se è un uomo allora è mortale. Quindi una proposizione universale parla dei singoli individui in maniera condizionale e non dice di nessuno di essi che è mortale. Ciò spiega perché la premessa universale da sola non consente di dedurre la conclusione. La ragione semplicemente è che essa non dice di ogni uomo che egli è mortale, bensì di ogni cosa che se essa è un uomo allora è mortale. Quindi la tesi su cui per un lungo arco di tempo si è basata la convinzione della non ampliatività dei sillogismi è basata su un errore. Tuttavia tale convinzione è corretta, ed è oggi facile provarla alla luce della logica contemporanea. Più esattamente sono necessari i seguenti principi: (i) il contenuto complessivo delle premesse di un argomento deduttivo è identico a quello della loro congiunzione logica, (ii) due proposizioni 19 hanno il medesimo contenuto informativo se e solo se hanno le medesime condizioni di verità in base alla semantica delle parole logiche che occorrono in esse (sono cioè logicamente equivalenti), (iii) se in un argomento si sostituisce una o più proposizioni con altrettante proposizioni logicamente equivalenti a quelle originarie si ottiene un argomento equivalente, che differisce da quello originario solo per la sua formulazione linguistica, non per il contenuto delle premesse e della conclusione, (iv) se la conclusione p di un argomento appartiene all’insieme delle premesse allora l’argomento non è ampliativo (costituisce una logicamente una petitio principii nel senso definito da Aristotele) e (v) ogni proposizione logicamente falsa lo è in virtù del significato delle parole logiche che occorrono in essa. Vediamo dunque in dettaglio perché tutte le inferenze deduttive sono non ampliative. In base a (i) se A è un insieme (non vuoto) di proposizioni i cui elementi sono p1,p2,…,pn, allora il contenuto complessivo di A è il medesimo della congiunzione q di p1,p2,…,pn. Se aggiungiamo ad A una sua conseguenza deduttiva p otteniamo un insieme di proposizioni A′ il cui contenuto complessivo è, in virtù di (i), il medesimo 19 Qui, discostandomi dal lessico consueto dei testi di logica, preferisco chiamare ‘proposizione’ ciò che di solito è chiamato ‘enunciato’. La distinzione tra enunciati e proposizioni è importante nel presente contesto solo se si nega la tesi (ii). Saggi/Ensayos/Essais/Essays Errori / Errors – 04/2017 302 della congiunzione q′ di q e p. Ora q e q′ hanno le medesime condizioni di verità sulla base del significato delle parole logiche che occorrono in esse. Infatti, essendo p conseguenza deduttiva di q, la congiunzione di q e la negazione di p è logicamente falsa; inoltre, in virtù di (v), essa è tale in virtù del significato delle parole logiche che occorrono in essa. Si danno due casi: p è vera oppure p è falsa. Nel primo caso, in virtù del significato della congiunzione, è vera anche la congiunzione di q e p (cioè q′); nel secondo caso la negazione di p è vera e pertanto anche la congiunzione di q e la negazione di p è vera, contro quanto stabilito prima (che tale congiunzione è logicamente falsa). Quindi: se q è vera allora lo è anche la congiunzione di q e p. D’altro canto se q è falsa lo è anche la congiunzione di q e p, (una congiunzione è falsa se e solo se almeno uno dei suoi congiunti è falso) e quindi è falsa anche q′. In virtù di (iii) se rimpiazziamo q con q′ otteniamo un argomento equivalente. E poiché, per la condizione (i), il contenuto di q′ è il medesimo del contenuto di A′, l’argomento che ha come premesse gli elementi di A′ e come conclusione p è equivalente all’argomento che ha come premesse gli elementi di A e come conclusione p. Ne consegue che poiché l’argomento che muove da A′ è, in virtù di (iv), basato su una petitio principii, tale è anche l’argomento che muove da A. In breve: tutti gli argomenti deduttivamente validi sono equivalenti ad argomenti che hanno tra le premesse la conclusione e come tali incorrono in una petitio principii in senso aristotelico. La ragione ultima di questa conclusione sta nella non ampliatività semantica delle inferenze deduttive, la quale può riassumersi nell’affermazione che la congiunzione delle premesse e della conclusione di un argomento deduttivamente valido ha le stesse condizioni di verità della congiunzione delle sole premesse e ciò in base al mero significato delle parole logiche che occorrono in tali proposizioni. In una deduzione valida la conclusione fa sempre parte del contenuto delle premesse. Ogni deduzione valida è quindi una petitio principii in senso aristotelico. 8. IN CHE SENSO LA PETITIO PRINCIPII È UNA FALLACIA Questo risultato mostra come la strategia di Aristotele di evitare la petitio principii con la richiesta che la conclusione di un sillogismo non appartenga alle sue premesse risulti da ultimo inefficace: ogni inferenza deduttivamente valida è equivalente a un’inferenza che viola tale requisito. Tuttavia, la posizione di Aristotele è comprensibile se, come abbiamo sostenuto, si suppone che egli considerasse le inferenze sillogistiche come ampliative. Aristotele non aveva gli strumenti per mostrare che ogni inferenza valida è equivalente a un’inferenza che ha la conclusione tra le sue premesse. Egli infatti non aveva nemmeno il sospetto che la validità delle inferenze deduttive valide e delle verità logiche possa dipendere da cima a fondo dal significato delle parole logiche (sincategoremi). Ma alla luce della logica contemporanea è possibile chiarire perfettamente questa idea, che storicamente ha cominciato ad affacciarsi solo Saggi/Ensayos/Essais/Essays Errori / Errors – 04/2017 303 in età moderna 20. Alla luce delle cognizioni di logica che aveva Aristotele, la tesi dell’ampliatività era perfettamente sostenibile 21. Ora, un sistema deduttivo è costituito da un linguaggio e da un insieme di regole di deduzione. Una scienza munita di principi primi e delle regole sillogistiche è un sistema deduttivo in tal senso. Compito della dimostrazione è certamente quello di mostrare che una certa proposizione p è vera. Ma ciò viene mostrato provando che p è conseguenza deduttiva di M. Infatti, poiché per loro natura i principi primi sono veri, se p è conseguenza deduttiva di essi è a sua volta vera. Ora la petitio principii riguarda non 20 Ritengo che questa tesi sia difendibile perlomeno rispetto alla logica elementare degli enunciati e dei predicati del primo ordine senza identità, munita della semantica tarskiana. Naturalmente niente vieta di costruire logiche munite di una diversa semantica (logiche non classiche) che attribuiscano un significato diverso a qualche sincategorema. Una discussione della natura della verità logica in generale va oltre gli scopi del presente lavoro. 21 Sotto un profilo epistemico le inferenze deduttive possono riuscire informative anche dal punto di vista moderno. Chi sa che le premesse di un’inferenza valida sono vere può non sapere che è vera la conclusione, senza che ci si possa appellare alla normatività della logica per pretendere che chi sa che le premesse sono vere dovrebbe sapere che anche la conclusione è vera. La chiusura deduttiva della conoscenza non può essere richiesta, per ragioni oggettive che sono ormai chiare ai logici contemporanei. In altri termini: l’onniscienza logica è una condizione inevitabilmente troppo lontana dalla realtà per essere considerata un’innocente idealizzazione. Tuttavia, la chiarificazione dell’ampliatività epistemica (che non va confusa con quella semantica discussa nel testo, che è basata sulle condizioni di verità) non è per nulla semplice. Una caratterizzazione dell’ampliatività epistemica nei termini della complessità algoritmica delle deduzioni sembra prima facie ragionevole. È tuttavia difficile catturare questa idea in maniera tale da non dipendere dalla scelta di un particolare linguaggio oggetto e di un particolare metalinguaggio nei termini dei quali gli schemi d’inferenza sono formulati. Il più ingegnoso e raffinato tentativo di chiarire l’ampliatività epistemica con strumenti logici (sintattici) è forse quello recentemente proposto da Marcello D’Agostino (2013). La soluzione di D’Agostino presuppone che esista un insieme privilegiato di regole deduttive primitive che discendano immediatamente dal significato inferenziale delle parole logiche (e siano perciò non ampliative) e che ci sia inoltre un legame tra la complessità algoritmica delle deduzioni condotte con quelle regole (più altre che riguardano la costruzione delle derivazioni) e l’informatività epistemica delle inferenze deduttive, quest’ultima caratterizzata nei termini della cosiddetta informazione virtuale, necessaria per la deduzione (la quale è costituita da ipotesi sul valore di verità di determinate sottoformule delle premesse). Tuttavia certe inferenze logiche che, secondo questa prospettiva, sarebbero ampliative possono apparire, ove opportunamente riformulate, come per nulla informative in quanto immediatamente riconoscibili come valide. Si consideri, ad esempio, lo schema (all’opera in matematica nelle cosiddette dimostrazioni per parti), secondo il quale, dato un insieme non vuoto A di proposizioni, una proposizione r è inferibile dalle due seguenti premesse: (a) almeno una delle proposizioni di A è vera e (b) per qualsiasi proposizione ϕ di A se ϕ è vera allora anche r è vera. La premessa (a) dice che v’è una certa proposizione ϕ appartenente all’insieme A che è vera. La premessa (b) dice, tra l’altro, che se tale ϕ è vera allora r è vera. Per argomentare r partendo dalle premesse (a) e (b) basta osservare che, presa una qualsiasi proposizione vera ϕ di A (che esiste in virtù della prima premessa), se ϕ è vera anche r è vera (in virtù della seconda premessa) e quindi anche r è vera (per modus ponens). Il passaggio deduttivamente più arduo in questo ragionamento sembra essere costituito da un’applicazione del modus ponens, che invece risulta essere uno schema d’inferenza non ampliativo nella teorizzazione di D’Agostino. Inoltre, l’ampliatività di un’inferenza conforme a questo schema cresce indefinitamente, secondo la teorizzazione di D’Agostino, al crescere del numero degli elementi di A, il che appare irragionevole, dal momento che il riconoscimento intuitivo della correttezza dello schema non dipende dalla cardinalità di A (la quale può persino essere transfinita). Saggi/Ensayos/Essais/Essays Errori / Errors – 04/2017 304 tanto la deduzione che parte dai principi in quanto prova della verità della conclusione, ma in quanto prova che la conclusione è conseguenza deduttiva dei principi. Si ha petitio principii quando la verità della conclusione è derivata dalla verità dei principi e dal fatto che si pretende di aver mostrato che essa è conseguenza deduttiva dei principi, mentre la seconda affermazione è falsa, in quanto surrettiziamente si è aggiunta ai principi o alle premesse dimostrate in precedenza una premessa aggiuntiva non dimostrata che è equivalente alla proposizione che si voleva dimostrare. Quindi la petitio principii non è, in fondo, che una specie particolare di non sequitur. Si noti che la premessa surrettizia può ben essere conseguenza deduttiva dei principi. La fallacia consiste non già nel fatto che essa non consegue dai principi, bensì nel fatto che non si dispone della dimostrazione che essa consegua dai principi, ottenuta con l’esibizione di una sequenza di inferenze che parta dai principi e nella quale ogni premessa sia la conclusione di un’inferenza valida che la precede nella sequenza di inferenze. Se c’è una dimostrazione circolare, non si può dire che la dimostrazione esibita provi che la conclusione è consegua deduttivamente dai principi. E se la pretesa dimostrazione non prova che la conclusione è conseguenza deduttiva dei principi non prova nemmeno, secondariamente, che questa sia vera. Si obietterà che la petitio principii ha luogo non solo nel contesto della teoria della dimostrazione, ma in qualunque contesto argomentativo. Nel caso generale, in luogo dei principi, vi sono delle premesse che colui che argomenta ritiene vere o plausibili. La petitio principii non può consistere nel fatto che tra tali premesse v’è la proposizione che si vuole argomentare (anche se formulata diversamente) perché in tal caso essa non avrebbe bisogno di essere argomentata. Può essere, naturalmente, che in un contesto dialettico le premesse assunte da chi argomenta siano messe in discussione e chi le sosteneva sia costretto ad argomentarle a loro volta. Ora, il contesto dialettico non è così irreggimentato come quello dimostrativo. In particolare, l’insieme delle premesse non è prefissato in maniera esatta, sì che nuove premesse possono essere aggiunte nel corso della discussione. È qui che può verificarsi che nell’argomentare una proposizione p, che sia revocata in dubbio dall’interlocutore e da questi messa in discussione o addirittura negata, venga introdotta una nuova premessa q di fatto equivalente a p. Ma se p è dubbia allora è egualmente dubbia q, dal momento che q è logicamente equivalente a p e ha il medesimo contenuto di p. Naturalmente è necessario che l’interlocutore che obietta a chi argomenta di essere incorso in una petitio principii sia in grado di mostrare che q è logicamente equivalente a p (nel senso di essere una riformulazione di p con altre parole 22). In tal caso l’argomentazione risulterebbe incapace di convincere l’interlocutore, perché, come tosto mostreremo, essa non potrebbe far aumentare la probabilità di p. 23 22 Più esattamente: se A è l’insieme delle premesse ammesse, e r la congiunzione degli elementi di A, la congiunzione di p e r è logicamente equivalente alla congiunzione di q e r. 23 Perelman e Olbrechts-Tytecha negano che la petitio principii si applichi alla teoria della dimostrazione e la considerano una fallacia retorica che non ha nulla a che vedere con la logica. Secondo questi autori “[l]a petizione di principio è un errore di argomentazione. Essa concerne l’argomentazione ad hominem e la presuppone, perché il suo campo non è quello della verità, bensì Saggi/Ensayos/Essais/Essays Errori / Errors – 04/2017 305 9. ANALISI BAYESIANA DELLA PETITIO PRINCIPII DIALETTICA La petitio principii nel senso dialettico si presta a un’analisi bayesiana, se ammettiamo che nel mettere in discussione una proposizione p si stia asserendo che p (che supporrò qui essere fattuale) abbia una certa probabilità r (non sufficientemente grande per concedere l’assenso). Ciò che si può mostrare è che la probabilità di p, con l’aggiunta di una proposizione logicamente equivalente a p alle premesse dell’argomentazione, resta invariata. Qualche spiegazione preliminare si rende necessaria. Secondo l’epistemologia bayesiana, basata sulla probabilità epistemica 24, un’argomentazione presentata a X da un interlocutore Y a sostegno di p, è volta a far aumentare la probabilità epistemica di p da parte di X. Suppongo che Y presenti a X nuove prove fattuali a sostegno di p la cui congiunzione logica sia espressa dalla proposizione e. Nel caso estremo in cui X accetti pienamente la verità di e (cioè nel caso in cui X consideri e certamente vera alla luce dell’argomentazione di Y), la probabilità epistemica passa dal valore iniziale P(p) (antecedente all’acquisizione delle prove e) al valore finale P(p | e) (successivo all’argomentazione delle prove e da parte di Y) secondo la formula di Bayes: (1) P ( p | e) = P ( p ) P (e | p ) P( p )P(e | p ) + (1 − P( p ))P(e | p ) dove p sta per la negazione di p. Il valore di P(e | p) rappresenta un valore condizionale di probabilità epistemica: la probabilità che X avrebbe in e nell’ipotesi che credesse pienamente nella verità di p. Analogamente P(e | p ) rappresenta il valore della probabilità che X attribuirebbe a e ove X credesse pienamente che p è falsa. Va da sé che la formula (1) ha un valore generale, sì che p ed e possono essere proposizioni qualsiasi. L’applicazione della formula di Bayes è limitata al caso in cui e è, una volta acquisita, creduta pienamente. Questo non sempre accade. Tuttavia, esiste una formula più generale, dovuta al filosofo americano Richard Jeffrey (2004: 53-61), che considera anche il caso in cui la probabilità di e, nel momento in cui e è acquisita, ha un qualunque valore di probabilità P+(e). La nuova formula è la seguente: quello dell’adesione” ([1958] 1989: 119). Abbiamo invece argomentato che vi sono due distinte fallacie e che una di esse riguarda esattamente la teoria della dimostrazione. 24 Il grado (soggettivo) della probabilità epistemica di una proposizione p da parte di una persona X può essere caratterizzato come il grado di credenza nella verità di p ritenuto ragionevole da una certa persona X. Per un’introduzione all’epistemologia bayesiana rimando al volume di Howson e Urbach (2005). Saggi/Ensayos/Essais/Essays Errori / Errors – 04/2017 306 (2) = P + ( p ) P + (e)P( p | e) + (1 − P + (e))P( p | e ) dove P(p | e) e P ( p | e ) sono calcolate mediante la formula (1). Supponiamo ora che in una discussione la persona X metta in discussione una proposizione p e Y argomenti p con una proposizione e logicamente equivalente a p. Supponiamo che X rilevi l’equivalenza logica di p e e. Quindi ciò che Y fornisce a sostegno di p è una proposizione che X sa essere logicamente equivalente a p, così incorrendo, agli occhi di X, in una plateale petitio principii. In tal caso P(p | e) = 1 (in quanto p è conseguenza deduttiva di e), P( p | e ) = 0 (in quanto p è logicamente incompatibile con la negazione di e). Facendo le dovute sostituzioni otteniamo: (3) P + (= p ) P + (e) ×1 + (1 − P + (e)) = × 0 P + (e) Ora P + (e) dev’essere uguale a P(p). Infatti, da un lato e è logicamente equivalente a p, dall’altro e ha per X lo stesso valore che aveva inizialmente p, giacché abbiamo supposto che e non sia a sua volta argomentata da Y, ma semplicemente da quest’ultima persona assunta come premessa per argomentare p. Dalla (3) risulta allora subito: (4) P + ( p) = P( p) Quindi la probabilità finale di p, alla luce di un’argomentazione completamente circolare, rimane invariata. E ciò conferma l’intuizione che un argomento in favore di una proposizione p che sia basato su una proposizione logicamente equivalente a p non può convincere chi mettesse in dubbio p. Questa analisi fa vedere come l’origine della petitio principii propria del contesto dialettico sia del tutto differente da quello della omonima fallacia che riguarda il contesto della dimostrazione matematica. Mentre nel contesto dialettico è essenziale che la proposizione argomentata circolarmente sia messa in dubbio e l’argomentazione serva ad aumentarne la credibilità, nel contesto della dimostrazione matematica non è affatto necessario che la proposizione da dimostrare sia revocata in dubbio. I matematici cercano le dimostrazioni anche di proposizioni che sanno perfettamente essere vere e spesso cercano nuove dimostrazioni (possibilmente più semplici ed eleganti) di teoremi già dimostrati. Obiettivo del matematico non è in generale quello di convincere lo scettico a credere nella verità di un teorema, bensì quello di esibire una successione di argomenti validi che muova dagli assiomi e si concluda con la proposizione da dimostrare, così provando che questa è conseguenza deduttiva di quelli. Una dimostrazione circolare non fornisce una corretta prova di tale relazione logica tra gli assiomi e la proposizione oggetto della dimostrazione 25. 25 Naturalmente può accadere che di certe proposizioni matematiche non si sappia se sono vere o false. Ne è un esempio la congettura di Goldbach, secondo la quale ogni numero naturale pari Saggi/Ensayos/Essais/Essays Errori / Errors – 04/2017 307 BIBLIOGRAFIA Aristotele, 1831, Aristoteles graece ex recensione Immanuelis Bekkeri, Academia Regia Borussica. Aristotele, 1958, Topica et Sophistici Elenchi, a cura di D.W. Ross, Clarendon Press, Oxford. Aristotele, 1959, Ars Rhetorica, a cura di D.W. Ross, Clarendon Press, Oxford. Aristotele, 1981, Analytica Priora et Posteriora, a cura di D.W. Ross e L. MinioPaluello, Clarendon Press, Oxford. Arnauld A. e P. Nicole, [1664] 1992, La logique ou l'art de penser, Gallimard, Paris. Barnes J., 2002, Aristotle: Posterior Analytics (ristampa della seconda ed.), Oxford University Press, Oxford. Boole G., [1854] 1976, Indagine sulle leggi del pensiero, a cura di M. Trinchero, Einaudi Editore, Torino. Campbell G., [1776] 1868, The Philosophy of Rhetoric, Harper & Brothers Publishers, New York. Cicerone, 2009, De Inventione, a cura di E. 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I suoi interessi gravitano sui problemi logici e filosofici dell’induzione e sui rapporti tra logica e probabilità. In rapporto a questi temi si è occupato anche di Storia della logica, in particolare di Aristotele, Hume e Peirce e dell’applicazione della probabilità al diritto delle prove. È autore di numerose pubblicazioni, tra le quali i volumi La sfida scettica (Pisa, 1992), Dal noto all’ignoto (Pisa, 1996) e gli articoli When Probabilistic Support Is Inductive («Philosophy of Science», 1990), Hume’s Inductive Logic («Synthese», 1998), Logica dei condizionali e logica della probabilità («Rivista di filosofia», 2016). [email protected] Saggi/Ensayos/Essais/Essays Errori / Errors – 04/2017 310