La gioia verace
Per farsi palese
D'un labbro loquace
Bisogno non ha
(P. Metastasio, Giuseppe riconosciuto)
FEDERICO GON
Sulla via della Gioia: Haydn e le sinfonie di Beethoven
1. Prolegomena
Poche opere hanno saputo esercitare una così estrema dose di fascino su intere generazioni di esseri
umani come le nove sinfonie beethoveniane: la titanica metastoricità dell’ Eroica, la sofferta
interiorità della Quinta, l’immediatezza bucolica della Pastorale, l’implicita coreutica della Settima
e l’apoteosi umanitaristica della Nona fanno parte del patrimonio collettivo dell’umanità al pari del
Partenone, della Divina Commedia o di Quarto potere. Esse si possono considerare le colonne sulle
quali Beethoven ha via via costruito il mito dell’ Ottocento musicale partendo dalle fondamenta del
classicismo tardo settecentesco ed emancipandosi da esso; i maggiori pensatori e compositori delle
generazioni immediatamente successive (tra gli altri Hoffmann, Schubert, Berlioz, Schumann,
Wagner) 1 seppero trarre da questi lavori la linfa vitale per condurre in porto un mutamento
espressivo che fu epocale, traghettando il mondo della musica dall’oggettività illuminista alla
soggettività romantica.
A fronte di un’incommensurabile importanza storica, l’iter compositivo delle nove sinfonie ha
assunto agli occhi di certa critica – e, di conseguenza, dell’immagine che al pubblico ne deriva –
una certa dose di discontinuità, quasi il genio del maestro di Bonn si possa considerare a corrente
alternata. È il caso anche dell’exordium del presente articolo, nel quale si sono enumerate come
capolavori assoluti solo cinque sinfonie su nove: le n. 1, 2, 4 ed 8 godono di molta minor fama
rispetto alle sorelle, con le prime due relegate a semplici esperimenti sulla via della definizione
stilistica personale (l’epifania dell’Eroica), mentre le due più tarde sono spesso trattate – alquanto
irrispettosamente – alla stregua di due incidenti di percorso nella parabola inesorabile che dal
trittico Quinta-Sesta-Settima avrebbe dovuto per forza raggiungere l’acme della Nona senza frenate
intermedie.
Si capisce subito che una tale ragionamento fatichi a reggersi in piedi, non fosse altro per la natura
stessa della composizione: una sinfonia non è un lavoro d’occasione povero di ispirazione – quali
1
Per una bibliografia minima in italiano su Beethoven, si vedano GIORGIO PESTELLI: Beethoven.
Bologna, Il Mulino, 1988; MAYNARD SOLOMON, Beetho e : la ita, l’opera, il ro a zo fa iliare.
Venezia, Marsilio, 1986; GIOVANNI CARLI BALLOLA: Beethoven, la vita e la musica, Milano, Bompiani, 2001.
potremmo considerare senza timore di lesa maestà La vittoria di Wellington o l’ouverture per Re
Stefano – verso cui si può essere indulgenti in virtù dell’adempimento di una committenza pagante;
sappiamo quanto Beethoven fosse consapevole del suo valore come sinfonista, ed in quanta
considerazione tenesse questa nobile forma espressiva a piena orchestra. L’attenzione che
rivolgiamo alla sua produzione sinfonica deve per forza essere democratica e contemplare tutte e
nove le perle della collana, senza esclusioni. Ne consegue che, presa per buona la nota teoria dei tre
“stili” nei quali si è soliti dividere la vicenda artistica beethoveniana 2, i cinque lustri che
intercorrono tra la Prima (1799) e la Nona (1824) siano compresi in un unico arco evolutivo
omogeneo, senza picchi o abissi nel rapporto tra creatività ed espressività; pochi autori sono stati
consapevoli al pari di Beethoven dei profondi legami che intercorrono tra creatività e pensiero
filosofico: presupporre che vi sia stata una certa dose di superficialità nell’una è inconciliabile con
le istanze dell’altro 3.
2. Breve panoramica
numero
1
2
3
4
5
6
7
8
9
anno
1799-1800
1800-1802
1802-1804
1806
1807-1808
1811-1812
1812-1813
18244
tonalità
Do maggiore
Re maggiore
Mib maggiore
Sib maggiore
Do minore
Fa maggiore
La maggiore
Fa maggiore
Re minore
n. movimenti
4
5
4
Come si può notare anche ad un semplice sguardo, la parabola delle nove sinfonie presenta dei
dettagli significativi che, per quanto arcinoti, meritano una breve riflessione: anzitutto si nota
un’assidua concentrazione delle prime otto in un arco temporale di soli quattordici anni (solo nel
1805, 1809 e 1810 Beethoven si dedicò totalmente ad altri lavori, quali ad es.Fidelio o il concerto
“Imperatore”); nei successivi nove anni tra l’Ottava e la Nona videro la luce ad es. la Missa
solemnis e le Variazioni Diabelli. Poi, la scelta delle tonalità: Fa maggiore a parte (nn. 6 e 8) non ci
sono ripetizioni, con talune al relativo minore (Do minore-Mib maggiore, Re minore-Fa maggiore).
Scrivere una sinfonia in una tonalità piuttosto che in un’altra non è scelta estetica a priori ma è in
stretta correlazione con l’organico strumentale che vi si intente impiegare: pur non essendo più ai
tempi del primo Haydn – il quale per utilizzare ad es. le trombe doveva scrivere per forza in Do o
2
Ossia Primo periodo (fino al 1802), “eco do o Eroico (1803-1813) e Terzo (1814-1827), seguendo la tripartizione
proposta da Wilhelm von Lenz nel 1855.
3
È noto che Beethoven fu un assiduo lettore di Kant, e non vi è massima del pensatore di Königsberg più calzande di
questa per esprimere il rapporto che il musicista ebbe con la filosofia: L'uomo vuol vivere comodamente e
piacevolmente; ma la natura vuole ch'egli esca dallo stato di pigrizia e di inattiva soddisfazione ed affronti lavoro e
fatiche per inventare i mezzi onde ingegnosamente liberarsi anche da queste ultime da Idea di una storia universale
dal punto di vista cosmopolitico, 1784).
4
I primi embrionali abbozzi ed idee risalgono però al 1799.
Re maggiore, tonalità più agevoli per questi strumenti 5 - la scelta dei timbri ha indubbiamente un
grosso peso specifico al momento di eleggere l’una o l’altra armatura in chiave. È il caso
dell’Eroica, il cui Mib maggiore si sposa perfettamente con le armonie e la facilità di emissione del
corno (o meglio, dei tre corni, come nella Quinta, al relativo minore), idem per la Prima, Seconda e
Nona, tutte caratterizzate nei trionfanti finali dall’uso dei citati Do e Re maggiore, di comoda
intonazione per la sezione degli ottoni (corni compresi). Formalmente poi, Beethoven non è un
distruttore ex abrupto, tutt’altro: la sinfonia “classica” in quattro movimenti (Veloce – Lento Minuetto 6 - Veloce, passibile di cappello introduttivo lento) codificata da Haydn ed utilizzata da
Mozart viene quasi sempre rispettata, eccezion fatta per la continuità tra Scherzo e Finale nella
Quinta, i cinque movimenti della Pastorale 7 e l’inversione di Adagio e Scherzo nella Nona; egli
preferisce scardinare i dogmi della forma all’interno del singolo movimento, come appunto nel
Finale della Quinta, o negli Scherzi della Settima e della Nona.
È evidente inoltre un certo scarto nell’ethos che caratterizza la successione dei singoli lavori: la
drammatica potenza della Terza e della Quinta 8 sono incastonate nella misura (tanto apollinea
quanto dionisiaca) della Seconda e nella tranquilla espressività della Quarta e della Sesta, mentre al
gigantesco affresco della Nona fanno da preludio, pur nella loro assoluta grandezza, sia la ferrea ma
diretta ritmica della Settima che il profumo Biedermeier emanato per lunghi tratti dall’Ottava.
Prescindendo dai citati “periodi” beethoveniani, le sinfonie si potrebbero dividere in quattro gruppi:
-
nn.1 e 2: l’ apprendistato all’ombra di Haydn e Mozart
nn.3,4 e 5: il consolidamento stilistico
nn. 6, 7 e 8: il superamento dello stile “eroico”
n.9: il tentativo di superare il vincolo della musica stessa tramite l’uso della parola
A supporto di questa divisione c’è la citata scelta delle tonalità, Do, Re e Mib maggiore sono in
ordine crescente, il Sib della n.4 è ad un intervallo di quinta dal Mib e forma una settima di
dominante col Do maggiore iniziale; si può dire che con esse Beethoven oscilli attorno ai due poli
di Do e Mib, arrivando poi con a chiudere il cerchio: Do, Re, Mib sono i primi tre gradi della scala
di Do minore in cui è scritta la Quinta, sinfonia nella quale si passa “dalle tenebre alla luce” grazie
alla modulazione Do minore → Do maggiore che ne caratterizza l’intera direzionalità tonale.
Con la Pastorale si cambia registro: dalle appena citate tonalità confacenti all’uso degli ottoni o
legate ad un pathos drammatico immediato, al comodo Fa maggiore delle nn. 6 ed 8, col limpido La
maggiore della Settima. Altre sembrano le mete cui Beethoven aspira e noi, col senno di poi, vi
intravvediamo i passi intrapresi verso l’apoteosi gioiosa della Nona, nella quale – grazie anche ad
una macromodulazione in linea con quanto accade nella Quinta, Re minore → Re maggiore – la
5
Co e a ade ad es. elle si fo ie Ma ia The esia . , L’I pe iale .
o La Ro ela e .
Sostituito da Beethoven sin dalla Seconda sinfonia con un movimento più libero cui non a caso da il nome di Scherzo,
a h’essa p assi di o igi e ha d ia a Quartetti op. 33, 1781)
7
“e e e Beethove la defi isse o e Mehr Ausdruck der Empfindung als Malerei Più espressione di sentimento
che pittura , la suddivisione in cinque movimenti, le indicazioni agogiche in tedesco e le numerose istanze di puro
descrittivismo nel fanno il maggior antecedente storico del poema sinfonico romantico.
8
Diversità che si nota nell’orchestrazione: le sinfonie nn. 1,2,4,6,7, 8 sono scritte per orchestra da camera (archi più
coppie di flauti, oboi, clarinetti, fagotti, corni, trombe e timpani) , mentre nell’Eroica i corni sono tre, la Pastorale
presenta ottavino e due tromboni, la Quinta ottavino e tre tromboni. Si nota come le nn. 5 e 6 raggiungano il culmine
dello spettro orchestrale prima della Nona.
6
gioia prorompe e la barriera della musica strumentale viene rotta grazie all’impiego della voce
umana (solisti, coro) che intona e porta i significati dell’ode di Schiller. Non si può sapere se questo
superamento fosse l’obbiettivo ultimo di Beethoven, e nemmeno se egli lo considerasse appieno
riuscito: non si deve dimenticare che lasciò incompiuta una Decima sinfonia 9 nella quale non è
previsto l’utilizzo di cantanti, segno di una ricerca semantica lungi dall’essere conclusa.
Approfondendo maggiormente forma e contenuto delle sinfonie c’è infine da segnalare una
presenza forte, una sorta di nemesi che il maestro di Bonn sembra voler talvolta assecondare e
talaltra contrastare, finendone in ogni caso soggiogato. Il “Commendatore” in questione risponde al
nome di Franz Joseph Haydn.
3. Da Haydn ad…Haydn
I rapporti di Beethoven con Haydn furono altalenanti e non certo idilliaci come quelli che Haydn
ebbe con Mozart: è noto che egli lo incontrò a Bonn sia nel 1790 che nel 1792, soste che l’autore
della Creazione fece nel viaggio di andata e ritorno dall’ Inghilterra. Haydn vi espresse giudizi assai
favorevoli, tanto da convincerlo a trasferirsi a Vienna – idea non nuova 10 – per intraprendere gli
studi con lui. È arcinoto l’auspicio che gli rivolse via lettera l’amico conte Waldstein al momento
della partenza: “che tu possa ricevere dalle mani di Haydn lo spirito di Mozart”. Il vecchio maestro
ed il giovane collega intrapresero così un cursus studiorum nella città imperiale; erano tuttavia
destinati a non capirsi, non solo artisticamente: Haydn gli rimproverava certe stravaganze, pur
riconoscendogli un genio multiforme 11 e Beethoven stesso ebbe a confessare spudoratamente in
tarda età che “[Haydn] mi ha dato delle lezioni ma da lui non ho imparato niente” 12.
Se gli fece difetto l’incapacità di comprendere i metodi e le maniere di un compositore di trentotto
anni più anziano, non si può dire che non ne conoscesse minuziosamente l’arte musicale. Haydn –
cui l’etichetta di “padre della sinfonia” è mal posta solo per questioni anagrafiche, non certo
tecniche – compose ben 106 lavori sinfonici in un arco temporale che va dal 1759 al 1795, trentasei
anni caratterizzati da un’evoluzione stilistica e formale tra le più straordinarie dell’intera storia della
musica. La maniera compositiva di Haydn è un mare magnum che non si può codificare in questa
sede 13, semplicemente perché fu la componente principale dello stile classico ed ebbe ripercussioni
sulla formazione stilistica del primo romanticismo: l’influenza che ne trasse Beethoven fu in ogni
9
Della quale restano solo degli abbozzi, riassemblati ed orchestrati dal musicologo inglese Barry Cooper, ed incisi nel
1988 dalla Royal Liverpool Philarmonic Orchestra.
10
È noto come Beethoven volesse originariamente recarsi a Vienna per studiare con Mozart: solo la prematura
s o pa sa di uest’ulti o gli fe e opta e pe Ha d .
11
Così si espresse Haydn secondo un tardo ricordo beethoveniano: Avete molto talento e ne acquisirete ancora di
più, enormemente di più. Avete un'abbondanza inesauribile d'ispirazione, avete pensieri che nessuno ha ancora avuto,
non sacrificherete mai il vostro pensiero a una norma tirannica, ma sacrificherete le norme alle vostre immaginazioni:
voi mi avete dato l'impressione di essere un uomo con molte teste, molti cuori, molte anime .
12
Eppure gli dedicò le Tre sonate op.2 (1796).
13
Tra i maggiori contributi della musicologia recente vanno ricordati CHARLES ROSEN, Lo stile classico: Haydn, Mozart,
Beethoven, Milano, Feltrinelli 1979, DANIEL HEARTZ, Haydn, Mozart and the Viennese School, New York, Norton, 1995,
H.C.ROBBINS LANDON, Haydn, vita ed opere, Milano, Rusconi, 1988, Haydn, a cura di Andrea Lanza, Torino, EDT, 1999
nonché varie collettanee quali Cambridge Companion to Haydn (2005), Haydn and His World (1997), Haydn Studies
(1998)
caso decisiva. Tacendo dell’unità tematica insita in ogni lavoro beethoveniano 14, altrettanto tipici
tratti del modus operandi haydniano nella Prima sinfonia sono ad esempio l’inusuale apertura
sull’accordo di settima di dominante 15, il secondo movimento in forma di “canzonetta” 16, il
comico inizio stentato del finale ed il suo rifarsi tematicamente ala finale della sinfonia n. 88. Nella
Seconda i contatti sono meno diretti, limitandosi all’umoristico botta e risposta tra fiati ed archi
nello Scherzo ed alla “tropatura” nel finale del coro “Die Himmel erzählen die Ehre Gottes” (n.13)
dalla Creazione 17. L’Eroica, per quanto segni uno dei punti massimi di allontanamento tra i due
stili, presenta nel finale (peraltro dall’inizio esitante come nel miglior Haydn) una tecnica – quella
della variazione che investe non solo la melodica ma armonica 18 - che il buon Franz Joseph aveva
sapientemente utilizzato già nei quartetti op. 50 n. 3 ed op. 55 n. 2. La Quarta invece riecheggia
nell’introduzione lenta il simile topos presente nella sinfonia n. 103 – una sorta di citazione del Dies
irae – mentre nel secondo movimento l’esitante conclusione richiama lavori quali il quartetto op. 33
n. 2 o la sinfonia n. 60; la Quinta è caratterizzata da una fortissima unità ritmico tematica - il cui
baricentro è rappresentato dal noto inciso acefalo che apre la sinfonia e dalle sue declinazioni
sull’arpeggio ascendente – , dall’utilizzo della doppia variazione nell’Andante con moto, dalla
comparsa di poche battute dello Scherzo all’interno dell’ultimo movimento e dalla citata
modulazione conclusiva 19. La Pastorale è invece carica di innumerevoli effetti orchestrali ed
espedienti retorici atti a descriverne il milieu bucolico (bastino la mimesi di usignolo, quaglia e cucù
nell’Andante molto mosso, o il temporale nell’Allegro), in linea con quanto Haydn aveva prodotto
nella Creazione nelle Stagioni 20 ed in altri lavori, senza dimenticare la forte componente della
melodia di origine popolare 21 (a simboleggiare la componente intrinsecamente umana all’interno
dell’universo naturale); la Settima riprende ancora il concetto di doppia variazione nel celeberrimo
Allegretto ed è un tripudio di sorprese armoniche e ritmiche, compreso l’evidente humour dello
Scherzo e della sua esitante conclusione. Con l’Ottava Beethoven raggiunge il punto massimo di
complicità con lo stile del suo vecchio maestro, tanto affine da sembrarne un omaggio diretto; la
similitudine tra l’incedere da metronomo dell’Allegretto scherzando con il ticchettio dell’orologio
nella sinfonia n. 101, l’impossibilità di capire dove cada l’accento ritmico nello Scherzo 22 (mai così
simile ad un minuetto vero e proprio), il continuo giocare con le aspettative dell’ascoltatore: tutto
concorre ad evocare – con estrema benevolenza– lo spirito musicale di Haydn.
14
Ese pla e il aso della si fo ia .
Degli addii : sull’a go e to JAMES WEBSTER, Hayd ’s Fare ell sy pho y a d
the Idea of Classical stylle: through-composition and Cyclic integration in His Instrumental music. Cambridge,
Cambridge University Pres,1991
15
Ese pi ha d ia i di uesto tipo si it ova o el ua tetto op.
. o ella si fo ia . 9 O fo d
16
Ci rifacciamo alla terminologia proposta in LUIGI DELLA CROCE, Le 107 sinfonie di Haydn, Torino, Eda, 1987. Esempi si
ritrovano ad es. nei movimenti lenti delle sinfonie nn. 53, 55, 60, 73, 82, 85, 95, 96, 97, 100 e 101.
17
MARY HUNTER, The Quartets in Cambridge Companion to Haydn, edited by Carlyle Clark. Cambridge, Cambridge
University Press, 2005, pp. 112-123, 155.
18
Ossia il concetto di variazione così come lo intesero poi Schumann, Brahms, Schoenberg, Elgar, etc..
19
Come nella sinfonia n. 46 in Si maggiore di Haydn (1772).
20
Nella Creazione Haydn descrive tra le altre cose il Caos, il vento, la pioggia, il sole nascente, la luna le stelle, il leone,
le tig i, il avallo, l’allodola, la olo a, l’usig olo, le g eggi , gli i setti ed i ve i; elle Stagioni le za za e, l’o
a
estiva, la a ia la e vo, il te po ale, l’i ve o.
21
È nota la tesi secondo la quale il tema principale del primo movimento sarebbe un canto popolare di origine croata;
Haydn da par suo utilizzò sovente in sinfonie e quartetti melodie di estrazione magiara e tzigana (cfr. DAVID SCHROEDER,
Melodic Source Material a d Hayd ’s Creati e Process in Musical Quarterly 68 n. 4, 1982, pp. 496-515.)
22
Come a ade ella si fo ia . 9 O fo d o ei ua tetti op.
. ed op.
.
Questo per quanto riguarda la tecnica compositiva, le cui influenze sono evidenti. Ma lo spirito di
ogni sinfonia? Riprendendo la divisione in quattro periodi poco sopra espressa, si può tentare di
dare una direzionalità a quanto Beethoven intendesse esprimere; se con la Prima egli non poté che
essere un ottimo e geniale imitatore, con la Seconda eccolo giungere addirittura ad una sorta di
rifiuto della vecchia scuola rappresentata da Haydn; è vero che il finale richiama vistosamente uno
dei brani più noti della Creazione, ma non come omaggio, bensì per scherno. Il vigoroso inizio
all’unisono degli archi - la roulade nel registro acuto seguita dal mordente in quello grave – sarebbe
infatti mimesi dei poco eleganti problemi intestinali e di flatulenza di cui Beethoven soffriva
all’epoca (peraltro noti ai più) 23 ed un tale accostamento non si può che considerare dissacratorio
ed iconoclasta. Una distanza accentuata ancora di più dall’Eroica, espressivamente lontana anni
luce dal mondo di Haydn e calata nella viva contemporaneità 24; ma eccolo ricadere nella nemesi
con la Quarta, che inizia e finisce con espedienti tipicamente haydniani, mentre l’ultimo tentativo di
liberarsi dall’ombra del maestro di Rohrau – la Quinta – chiude il cerchio delle prime due fasi nella
sua produzione sinfonica.
L’enigma è rappresentato dalla contemporanea scrittura della Quinta e della Pastorale, sinfonia tra
le più haydniane: perché intraprendere una dura lotta per conseguire uno stile proprio (Seconda,
Terza), seppur con qualche ricaduta (Quarta), per poi cedere alla longa manus di Haydn proprio
mentre si sta così faticosamente raggiungendo l’affermazione individuale? E perché rivolgersi
all’esatto opposto, inoltrandosi sulla via dell’umanitarismo collettivo? Ovviamente non ci sono
spiegazioni certe ed univoche; forse il maestro di Bonn si rese conto di quello che fino ad allora era
stato il suo destino: tendere ad un titanismo eroico di impronta personale ben sapendo che l’ombra
di Haydn non se ne sarebbe mai andata. Alle soglie della quarantina, la musica di colui dal quale
“non aveva imparato niente” seppe finalmente indicargli la via: la Natura, complesso e irrefrenabile
divenire e non come semplice mimesi, gli consentì di superare la dicotomia col vecchio maestro, e
da essa partì per una sorta di rinascita, un’ascesa che condusse sino alla manifestazione completa
della Gioia nella Nona. Dalla consapevolezza del Destino nella Quinta all’allegoria della Natura –
madre e non matrigna, secondo una visione tipicamente kantiana 25 - e del rapporto dell’uomo con
essa nella Sesta, all’ ”apoteosi della danza” 26 nella Settima, secondo un tragitto che dall’esterno va
via via interiorizzandosi: dal Destino – entità astratta cui tutto soggiace – alla Natura del creato che
tutto contiene, e via via all’uomo che esprime la propria corporalità attraverso il movimento e
quindi la danza. Il momento era giunto, compiere il salto dalla fisicità all’interiorità umana. E qual è
la qualità che più caratterizza l’essenza stessa dell’essere umano? La capacità di sorridere e di
scherzare, e con essa di sorprendersi, giocando: per dirla con Schiller “l’uomo è veramente uomo
23
Si veda ROBERT GREENBERG, The Symphonies of Beethoven, "Symphony No. 2: Beethoven at the Edge II", The Teaching
Company (1996).
24
Non mi riferisco solo alla nota dedica, poi stracciata, a Napoleone; non si dimentichi che poco prima di scrivere
l’E oi a, Beethove edasse uel te i ile ed al o te po a
i evole a ifesto della lotta t a impulso nichilista e
sforzo creativo vitalistico che è il osiddetto Testamento di Heiligenstadt .
25
“u li e è il se so di sgo e to he l'uo o p ova di f o te alla g a dezza della atu a sia ell'aspetto pa ifi o, sia
ancor più, nel momento della sua terribile rappresentazione, quando ognuno di noi sente la sua piccolezza, la sua
estrema fragilità, la sua finitezza, ma, al tempo stesso, proprio perché cosciente di questo, intuisce l'infinito e si rende
conto che l'anima possiede una facoltà superiore alla isu a dei se si IMMANUEL KANT, Critica del giudizio, 1790).
26
Questa si fo ia è l'apoteosi della danza: è la danza nella sua suprema essenza, la più beata attuazione del
movimento del corpo quasi idealmente concentrato nei suoni. Beethoven nelle sue opere ha portato nella musica il
corpo, attuando la fusione tra corpo e mente RICHARD WAGNER, L’opera d’arte dell’a e ire, 1849)
solo quando gioca” 27. Ecco dunque che con l’Ottava si realizza il miracolo, Beethoven parla lo
stesso linguaggio di Haydn, fatto di jokes, witz e humour che fecero guadagnare a quest’ultimo
l’appellativo di “maggior umorista d’Europa” al pari di Jean Paul o Lawrence Stern 28. In questa
sinfonia gli espedienti dal sapore haydniano più utilizzati sono proprio quelli inerenti alla sfera
umoristica, secondo quell’idea che dell’umorismo seppe dare Kant nella Critica del giudizio: un
affetto che nasce dalla conversione improvvisa in nulla di una tesa aspettativa, il repentino mutare
delle aspettative in un nulla di fatto. Non è un caso che l’Ottava sia l’unica delle sinfonie che non
sia stata dedicata ad alcuno, potente di turno od amico che sia: forse Beethoven, dopo tali e tanti
sforzi ed avendo afferrato il culmine della sua pluridecennale ricerca, ha optato per una meritata –
ed è proprio il caso di dirlo, autoironica - dedica a sé stesso.
4. O Freunde, nicht diese Töne!
Tuttavia si rese necessario un ulteriore sforzo creativo, il superamento delle Colonne d’Ercole
dell’Ottava (scherzo, parodia, motto di spirito, etc…) per inoltrarsi nell’mare ignoto verso
l’obbiettivo ultimo, del quale le sinfonie nn. 6,7,8 possono essere viste quali tappe intermedie,
rappresentando varie forme di gioia proprie alla conoscenza umana (la gioia insita nel creato, nella
fisicità e nella risata. La Gioia è entità assai diversa dall’ironia, in quanto non legata ad alcunché di
razionale; le armi a disposizione di Beethoven dovettero perciò prescindere dall’arsenale haydniano
(ed illuminista) cui aveva abbondantemente attinto: Haydn era spirito più scientifico che filosofico,
ed il limite dello humour è appunto la stretta appartenenza alla sfera della ragion pratica senza la
possibilità di potersi elevare spiritualmente, pena il malfunzionamento stesso del meccanismo.
Bisognava perciò – metaforicamente – saltare dalla rupe.
Lasciato il porto sicuro del caro vecchio “papà” Haydn, Beethoven ebbe - se non proprio paura - un
certo timore o una certa titubanza, come dimostra il lungo periodo di gestazione del lavoro. Può la
musica descrivere univocamente la Gioia? L’allegria forse, o l’ironia come visto; ma un concetto
così profondo e particolare può non essere veicolato dall’asemanticità intrinseca nell’arte dei suoni.
Ed ecco che avvenne la rottura, grazie all’utilizzo di un linguaggio di per sé portatore di significati
precisi e comprensibili: la parola. Era un espediente già testato dal maestro di Bonn nella Fantasia
Corale (1808), lavoro contemporaneo alla Quinta ed alla Pastorale, dove forse la schizofrenia tra
titanismo e umanitarismo ebbe un prima vera risoluzione in favore di quest’ultimo.
La Nona segna l’apoteosi e la summa dello stile beethoveniano, è non a caso rappresenta la pietra
angolare sulla quale l’Ottocento seppe via via costruire l’epopea romantica. Tuttavia l’eredità di
Haydn ebbe anche in questo lavoro un ruolo determinante. Nelle sinfonie precedenti lo stile, l’ironia
il senso della forma ed altri mille espedienti del vecchio maestro vennero usati da Beethoven –
volente o nolente, consapevolmente o meno – per raggiungere i suoi scopi espressivi; qui, dove
avviene il superamento forzato di tutto ciò nel tentativo di descrivere un’entità altrimenti
indescrivibile, la penna haydniana seppe fornire ancora dei validi esempi sui quali l’autore
dell’Eroica poté tentare la sintesi tra linguaggio musicale e linguaggio poetico, conditio sine qua
27
FRIEDERICH SCHILLER, Sull'educazione estetica dell'uomo, 1795
AMALIA COLLISANI, Iro ia ro a tica, stile classico , rappresentazione in Rivista Italiana di Musicologia XXXVII/1, 2002,
pp. 79: 9 ; sull’a go e to si veda a he SCOTT BURNHAM, Haydn and Humour in Cambridge Companion to Haydn
cit. pp. 61-76.
28
non per dare veste dionisiaca ad un concetto apollineo qual è la Gioia. Talvolta Beethoven concede
comunque all’antico maestro di ricomparire con i suoi jokes – l’indeterminatezza dell’inizio,
l’esitante ed imprevedibile conclusione dello Scherzo, i ff improvvisi che squarciano l’Andante ma chi ha ascoltato almeno una volta i magnifici affreschi sonori La Creazione (1798) e delle
Stagioni (1801) non può non pensare subito a quanto accade nel Finale della Nona; in essa si
ritrovano il celestiale spirito magniloquente della Genesi raccontata dagli Arcangeli Gabriele, Uriele
e Raffaele, e la fratellanza dell’uomo con l’altro uomo che pervade la più terrena vicenda umana di
Simon, Hanne e Lucas. Ed i mezzi sono i medesimi, dall’utilizzo della forma responsoriale solista
vs tutti al potente – a tratti sconcertante – utilizzo del coro in chiave drammatica. In aggiunta a
questi due oratori, anche la Sinfonia concertante (n. 105) scritta da Haydn nel 1792 ha fornito a
Beethoven un espediente tra i più caratteristici e riusciti, il recitativo affidato non al canto bensì alla
parte strumentale, secondo un geniale rovesciamento di significati (il recitativo è per sua ontologia
strettamente correlato alla parola).
5. Finis, Laus Deo
Con questo breve excursus – concluso da un capitolo che reca il motto latino col quale Haydn usava
siglare il termine di ogni suo lavoro - si è tentato di sottolineare come nelle nove sinfonie le
analogie tra gli stili dei due maestri siano profonde e trasversali, e come i tentativi operati da
Beethoven sulla via di un’emancipazione assoluta abbiano ad un certo punto fatto collassare la
struttura su sé stessa, talmente radicata sembra essere stata la presenza del maestro austriaco nel suo
modus scribendi. Dalla Prima alla Nona ci si rende conto che la vera lotta titanica fu per il loro
autore quella intrapresa nel tentativo di liberarsi dall’ombra del “Commendatore” Haydn, prima
ricorrendo allo sberleffo (n.2) e poi rifugiandosi nello stile eroico e tragico (nn.3 e 5). Solo con la
Pastorale egli comprese quanto il portato del vecchio maestro potesse essergli utile senza snaturane
la personalità artistica, ma al contrario indicandogli la via e consentendogli di superarlo all’ultimo
affondo. Con ciò non si intende sminuire affatto l’importanza delle autonome conquiste
beethoveniane: Haydn – seppure abilissimo e geniale tanto nell’oratorio quanto nel genere sinfonico
– non avrebbe mai potuto concepire un lavoro come la Nona; avrebbe è vero potuto scrivere
l’Ottava, e senza grossi sforzi, ma per compiere il balzo decisivo non gli sarebbero bastate le armi
pur affilate dell’ironia e dello humour che Beethoven stesso utilizzò: la Nona è affare da filosofi, ed
infatti la Gioia è per lui la stessa istanza definita da Kant sotto forma di felicità:
“Virtù e felicità costituiscono insieme in una persona il possesso del sommo bene, per questo anche
la felicità, distribuita esattamente in proporzione della moralità (come valore della persona e suo
merito di essere felice), costituisce il sommo bene di un mondo possibile” 29.
Se Haydn fu all’inizio un ingombrante “Commendatore” per l’individualista Don Giovanni di
Bonn, col tempo il rapporto mutò in qualcosa di molto simile a ciò che strinse Dante alla sua guidamaestro Virgilio. Nel “Testamento di Heiligenstadt” egli si si rammaricava: “Da tanto tempo ormai
non conosco più l’intima eco della vera gioia. – Oh, quando – quando, Dio Onnipotente – potrò
sentire di nuovo questa eco nel tempio della Natura e nel contatto con l’umanità?”. La risposta
sarebbe venuta qualche anno dopo.
29
I. Kant, Critica della ragion pratica (1788).