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LE MESSEDEI GIGLI D’ORO
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FEDERICO GON
UNA SEMIRAMIDE VIRTUOSA:
LA FIGLIA DELL’ARIA DI FERDINANDO PAINI
1. Due versioni opposte del mito
Innanzitutto una doverosa precisazione: di Semiramide in realtà ce ne
sono due, una buona ed una cattiva. La prima, che trae origine dalle
cronache di Diodoro Siculo (I sec. a.C.), ha gli attributi sì del soprannaturale (dall’essere figlia di una ninfa e dall’essere stata nutrita da amorevoli
colombe – nonché protetta da Venere in persona – le viene l’appellativo
di figlia dell’aria, inteso come originata non da mortale) ma anche della
regnante saggia e guerriera, che per amore del suo sposo e del suo popolo
depone il despota Nino e regna con giustizia in sua vece; la seconda, ben
più nota, risente della visione moraleggiante cristiana che autori del IIIIV secolo d.C. (Giustino, Paolo Orosio) sovrapposero all’originale diodoreo, non senza riferimenti storici trasversali ad Agrippina minore: incestuosa, uxoricida, guerrafondaia, «che libido fé licito» per dirla col
Sommo Poeta, la demolitrice di quel presupposto sul quale si basa la
società degli uomini, ossia il rapporto genitore-figlio ed i tabù sessuali ad
esso connessi.1
Convertitosi da mito in letteratura, al primo filone fa capo un certo
gusto del fantastico e del boschereccio: del 1653 è La hija del aire di
Calderòn de la Barca, fonte diretta della successiva ed omonima commedia di Carlo Gozzi del 1786; inutile precisare che invece la Semiramide
cattiva, attraverso una serie di autori (Muzio Manfredi, Berlinghiero
Gessi e Metastasio in Italia, Jolyot de Crèbillon in Francia), porterà nel
1748 alla nota Semiramis di Voltaire (gravata nella fabula da influenze
atridiche, edipiche e shakespeariane) che, tradotta in italiano dal Cesarotti nel 1772, sarà fonte primaria del libretto di Gaetano Rossi per Rossini
nel 1823.
Se le intonazioni di Semiramide sono state un’infinità (la metastasiana
1
Sull’argomento, cfr. l’eruditissimo CESARE QUESTA, Semiramide redenta : archetipi, fonti
classiche, censure antropologiche nel melodramma, Urbino, Quattroventi 1989.
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Semiramide riconosciuta può vantarne da sola più di una ventina), a Ferdinando Paini (Valera, Parma 1773 – ? 1821)2 spetta la palma di primo
compositore che abbia intonato La figlia dell’aria (Venezia, S. Moisè,
primavera 1815), sempre su libretto di Gaetano Rossi. Opera tra le più
riuscite3 del suo autore (ne da conferma Giovanni Pacini nelle sue Memorie, che riferisce anche delle disavventure occorse nella composizione
della farsa a otto mani - con lui e Paini anche Pavesi e Farinelli - Il mazzetto di fiori)4 assieme alla Cameriera astuta ossia il Marcotondo (libretto di
Angelo Anelli, che nel 1816 ebbe l’onore di essere nello stesso cartellone
dell’Argentina in Roma ove debuttava il Barbiere rossinano)5 ed al Portantino (debutto al veneziano S.Benedetto nel medesimo 1813 de L’Italiana
in Algeri),6 questa Figlia dell’aria è a ragione un melodramma eroicomico,
dove ben si mischiano il patetico, il buffo e l’eroico.
2
La traduzione dell’atto di battesimo recita «Pietro Maria Ferdinando Francesco figlio di
Giuseppe Paini (fu Gaudenzio) e di Caterina Furlotti, sua moglie, da Valera, nato il giorno 26,
fu battezzato il 27, presenti i padrini Francesco Ferrari e la Signora Maria Buja Girardi»
(Parma, Archivio del Battistero, Libro dei Battezzati, in data 27 aprile 1773). Per notizie specifiche sulla biografia di Paini si rimanda a FEDERICO GON, All’ombra di Rossini: Ferdinando
Paini, compositore parmigiano, in Parma per l’arte, Parma, Grafiche Step 2009, pp.131-158.
3
Venne allestita anche al Königliches Hoftheater di Monaco per tre sere, il 24, il 25 ed il
29 agosto del 1817 (libretto -non recante il nome di Gaetano Rossi - conservato presso la Bayerische Staatsbibliothek di Monaco di Baviera).
4
«[...] I fischi aumentavano a dismisura al duetto finale, e così il povero Paini, che aveva
meritato qualche applauso con la sua Figlia dell’Aria, non ebbe a gloriarsi di miglior sorte della
nostra»; cfr. GIOVANNI PACINI, Le mie memorie artistiche, a cura di Luciano Nicolosi e Salvatore Pinnavaia, Lucca, Pacini Fazzi 1981, pp. 25-26. A p. 5 così si esprime: «Nel declinare
dell’anno 1812 [...] il grande riformatore Rossini, la di cui fama di già ingigantiva, era stato
preceduto da uomini sommi, quali erano un Paisiello, un Cimarosa, un Guglielmi, etc... e
quindi da un Mayer, un Paer, un Generali, da un Morlacchi, da uno Spontini, da un Cherubini, da Coccia, da Fioravanti, da Pavesi, da Melara, da Farinelli, da Niccolini, Paini, Orlandi,
Marinelli, Mosca, i quali tutti tenevano in quell’epoca lo scettro melodrammatico».
5
Così Luigi Zamboni alla cognata Elisabetta Gafforini: «Ho sentito con piacere da Sua E.
il Duca Cesarini, che voi sarete la nostra prima donna buffa a questo suo teatro d’Argentina nel
prossimo Carnevale. Mi lusingo che non vi sarà discaro che io sia il vostro compagno buffo.
Venite dunque presto, che vogliamo passare tale stagione in allegria. Sento che si farà per
prima opera il Marco Tondo, ossia La cameriera astuta. Vi consiglio però a non fare giammai
quell’operaccia di Mosca, ma bensì quella del maestro Paini, la quale trovo assai più bella di
musica, anzi non v’è confronto, massima la vostra parte è scritta divinamente, e vi deve star
bene per la tessitura [...]»; cfr. BRUNO CAGLI- SERGIO RAGNI, Gioachino Rossini, Lettere e
documenti, Pesaro, Fondazione Rossini 1992, pp. 113-114. Nel “Diario Chigi” del 5 febbraio
si legge inoltre: «Andò ieri sera in scena col solito cattivo esito un’opera di tal maestro Paini,
intitolata Marcotondo», mentre nella Dimostrazione dell’introito e Spese avute nell’Impresa del
Teatro Argentina Nella Stagione di Carnevale del Corrente Anno 1816 si dice che le recite furono 39, di cui appunto una sola relativa alla Cameriera astuta. Entrambe le fonti sono citate da
SAVERIO LAMACCHIA, Il vero Figaro ed il falso factotum. Riesame del “Barbiere” di Rossini, Torino, EDT 2008, pp. 31-32.
6
Ne riferisce anni dopo da Verona nientemeno che Meyerbeer, nella lettera al fratello datata 11-17 settembre 1818: divagando dal tema di loro discussione – l’Otello rossiniano – di essere venuto a conoscenza del cartellone relativo all’imminente stagione lirica (del Morando?), che
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Paini, che si formò alla scuola del napoletano Gaspare Ghiretti
(maestro tra gli altri di Paer e Niccolò Paganini) e che trovò probabilmente la morte nella Bucarest rivoluzionaria del 1821,7 ben conosceva la
macchina teatrale: lui stesso fu direttore dei Cori, cantante8 ed una delle
prime figure direttoriali tout court apparse in Italia (negli stessi anni di
Alessandro Rolla);9 sicurezza ed esperienza che traspaiono anche dall’organizzazione vocale e drammatica della Figlia, attraverso scelte formali al
passo coi tempi e decisivi interventi sul libretto.
2. Dal testo alla scena: il fil rouge Calderòn - Gozzi - Rossi
Giocoforza che, nel passaggio dalla versione del Siglo de Oro a quella di Rossi, vi siano state delle modifiche dettate non solo dal mutato
gusto dei secoli, ma anche dalla necessità di rendere adatto al teatro
musicale un lavoro che in origine constava dei canonici cinque atti; tra
Gozzi e Rossi si riscontrano infatti le variazioni più significative, mentre
tra Calderòn e l’autore di Turandot la drammaturgia (più incline alla
favola, per vocazione di entrambi) rimane sulle stesse corde, seppur non
totalmente identica.10
vedeva assieme alla Clotilde di Coccia, a Barbieredi Siviglia, Italiana in Algeri, Gazza ladra e
Matrimonio segreto, anche Il portantino; cfr. The Diaries of Giacomo Meyerbeer: 1791-1839
translated, edited, and annotated by Robert Ignatius Letellier, Madison, N.J., Fairleigh
Dickinson University Press 1999, p. 358.
7
Così nel manoscritto 18337 conservato presso la Österreichische Nationalbibliotek di
Vienna: Canzonetta / in Dialetto Veneziano / nell’Opera / La Lanterna di Diogene / di Ferdinando Pajni / Composta in Venezia L’Autunno del 1820 / Originale / ridotta dallo stesso per Fortepiano avanti la sua partenza / per Bukarest. Dal 7al 19 agosto 1821 la repressione turca - in
risposta alla rivolta antiottomana del 21 marzo - costò 800 vittime fra i civili. Sull’ argomento
CONSTANTIN GIURESCU, Istoria Bucurefltilor. Din cele mai vechi timpuri pîn? în zilele noastre
(History of Bucharest. From the earliest times until our day, Translated by Sorana Gorjan, The
Publishing House for Sports and Tourism 1976, pp.114-119).
8
Nel 1804 diresse cori sia nel Teatro Ducale di Parma che nel Nuovo Teatro di Piacenza
, e interpretò Agistrato nella Climene si Bonfichi, andata in scena al Ducale per il Carnevale;
cfr. GASPARE NELLO VETRO, Dizionario dei musicisti del Ducato di Parma e Piacenza, sub voce
«Paini», www.lacasadellamusica.it/vetro.
9
GIUSEPPE RADICIOTTI, Teatro musica e musicisti in Sinigaglia, Milano, Ricordi 1893 (rist.
anast. Sala Bolognese, A. Forni 1997, p. 58).
10
Ce lo dice il Gozzi stesso nella Prefazione alla Figlia dell’ aria: «Temerei d’offendere ed
annoiare i miei Lettori ponendo in questo ragionamento un fedele estratto della commedia di
Calderone per far rilevare quella differenza che passa dall’intreccio e dai dialoghi dell’Autore
Spagnolo, all’intreccio ed ai dialoghi miei»; cfr. Opere del Conte Carlo Gozzi, Venezia, Giacomo Zanardi 1813, Tomo XI, pp.111-112. Sull’argomento, il datato ma ancora valido ENRICO
CARRARA, Studio sul Teatro ispano-Veneto di Carlo Gozzi, Cagliari, Valdes 1901 ed i più recenti
CARMELO ALIBERTI, Carlo Gozzi scrittore di teatro, Roma, Bulzoni 1996 e Studi gozziani, a cura
di Mariagabriella Cambiaghi, Milano, CUEM 2006.
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La fabula in Calderòn-Gozzi è presto detta: il buono [Mennone]
trova in una grotta la buona [Semiramide] e se ne innamora ricambiato; il
despota [Nino] però se ne invaghisce anch’esso e minaccia di accecare
Mennone (che peraltro è il suo più fido generale) se esso non acconsentirà. Vari incontri-scontri (con l’aiuto del buffo poeta, Sgorbio) fino allo
scioglimento: Nino, orbato Mennone, viene pugnalato da Semiramide
che così salva patria e – in parte – amore. Ma c’è di più: Venere appare
attivamente in scena (non solo nel Prologo) e l’indovino Tiresia arringa
così la folla al termine dell’azione: «La mia voce / È voce di Minerva. Assiri, avrete / Una Regina splendida, e guerriera / Ma scellerata. Infernal
arte, inganni / Le sue guide saranno. Mille amanti / alle libidinose avide
brame / Di costei, saran pochi [...]. Per la mano medesima di quel germe
/ che nutri in sen di Nino, caderai / In punizion, per non pensate vie /
Vittima di tuo figlio a terra esangue»,11 fornendo un prezioso assist alla
drammaturgia volterriana, che si serve della presente come antefatto.
Rossi espunge dalla vicenda sia Venere (nel 1815 un deux ex machina
presente fisicamente in scena sarebbe stato insostenibile)12 che Tiresia
(per necessità di lieto fine), e ne varia sensibilmente la conclusione: non
solo Semiramide evita che Nino accechi Mennone, ma non lo uccide,
limitandosi a disarmarlo. Da navigato poeta per il teatro,13 Rossi ha ben
presente la peculiarità più importante che un libretto d’opera deve avere
per essere internamente coerente: essere «dramma del presente assoluto,
dove l’antefatto decade al rango di una mera, onerosa delucidazione degli
eventi scenici da liquidare in fretta, e non è invece un fattore propulsivo
dell’azione che lo spettatore debba tenere costantemente presente».14
Il libretto di Rossi mantiene il focus sul triangolo Semiramide-NinoMennone, presentando a latere anche Nèride e Cerinto (coppia di villici),
11
Opere del Conte Carlo Gozzi cit., p.256.
Per dirla col Jacopo Ferretti della Prefazione a Cenerentola, «[il pubblico] non soffre sul
palco scenico ciò che lo diverte in una storiella accanto al fuoco»; cfr. LA | CENERENTOLA |
ossia LA BONTA’ IN TRIONFO | DRAMMA GIOCOSO | POESIA DI GIACOMO FERRETTI ROMANO | DA RAPPRESENTARSI | NEL TEATRO VALLE |degl’Illustrissimi Sig. Caprinica | NEL CARNEVALE DELL’ ANNO 1817 | con musica del Maestro | GIOACCHINO
ROSSINI PESARESE | [...] ROMA | Nella stamperia di Crispino Puccinelli.
13
Sulla prima produzione di questo sedicente ’parolaio’ - in realtà figura capitale della
librettistica primottocentesca – si veda MARIA GIOVANNA MIGGIANI, Gli esordi operistici di
Gaetano Rossi: i numeri introduttivi nella produzione 1798-1822, in L’aere è fosco, il ciel s’imbruna : arti e musica a Venezia dalla fine della Repubblica al Congresso di Vienna, Atti del
Convegno internazionale di studi, Venezia, Palazzo Giustinian Lolin 10-12 aprile 1997, Venezia, Fondazione Levi 2000, pp. 255-298.
14
CARL DAHLHAUS, Le strutture temporali nel teatro d’opera, in Drammaturgia musicale, a
cura di Lorenzo Bianconi, Bologna, il Mulino 1986, p. 186.
12
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Lisia, gran sacerdote ed il poeta, che da Sgorbio diventa Timotèo. L’azione si dipana in due atti: il primo consta di dodici scene, il secondo di
diciannove, mentre i singoli numeri sono così distribuiti:
N°
Definizione
Incipit
Personaggi
Scene
1
Sinfonia
/
/
/
2
Introduzione +
Cavatinetta Timoteo
Già l’aurora rosseggiò
Ner; Cer; Tim;
Coro
I
3
Cavatina di Semiramide
Alma mia, chi mai ti
desta?
Sem; Ner; Cer; Tim;
Coro
III
4
Duetto Nino-Mennone
Dai perigli, dai cimenti
Nino; Men;
IV
5
Terzetto SemiarmideMennone-Timoteo
Non andar da me
lontano
Sem; Menn; Tim;
VI
6
Aria Neride
Basta un’occhiata
Ner;
VII
7
Duetto Nino-Mennone
Là di sì vago oggetto
Nino; Menn;
VIII
8
Finale Primo
Più dolci e placide
Tutti
X-XI-XII
ATTO PRIMO
ATTO SECONDO
9
Coro
Tanto avanti non andiamo
Coro
I
10
Aria Mennone
Voi l’affanno mio vedete
Menn;
II
11
Duetto SemiramideTimoteo
Và: ritrova il caro
amante
Sem; Tim;
IV
12
Aria Cerinto
Torna con me
in campagna
Cer;
V
13
Quartetto
No non temer
che mai
Sem; Menn; Nino;
Tim;
VII-VIII
14
Aria Neride
Sempre ben tu mi
vorrai
Ner;
IX
15
Duetto SemiramideNino
Tu vedi le mie lagrime
Sem; Nino
XI
16
Aria Timoteo
Ah fortuna tu
sei donna
Tim;
XIV
Scena e Rondò di
Eh non lo vedo
Semi; Coro
XVI-XVII
Semiramide-Finaletto
D’Assiria al trono omai
Tutti (meno Nino)
XIX
17
Finale Secondo -
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Tralasciando l’Introduzione ed i due Finali (numeri dove partecipano
sempre Timotèo, Neride Cerinto ed il Coro), eccone un breve riassunto
Tipologia
Semiramide
Arie
/
Duetti
2
Terzetti
1
Quartetti
1
Arie con Coro
2
Nino
/
3
/
1
1
Mennone
/
1
1
1
1
Timotèo
1
2
1
1
/
Neride
2
/
/
/
/
Cerinto
1
/
/
/
/
Se a Semiramide, Nino e Mennone viene negata una vera e propria
aria solistica in favore di sortite più complesse (duetti, assiemi), il Coro,
pur avendo solamente un unico brano che ne rechi la dicitura (N° 9) è
presente in ben 10 scene sulle 22 totali senza recitativo, 7 numeri su 16,
sinfonia esclusa. Queste caratteristiche peculiari del libretto possono
sottendere all’intento di privilegiare l’azione coram populo a scapito
dell’azione del singolo, che si risolve praticamente nell’inserimento delle
pagine solistiche in forme più complesse e strutturate: quando Semiramide e Nino fanno le loro rispettive sortite (N° 3 e N° 4), è il Coro ad accompagnarli ed a interagire più o meno direttamente con loro, destino che
coinvolge anche Timotèo, dato che anche la sua cavatinetta all’interno
dell’Introduzione (N° 2) avviene mentre si sta riunendo un festoso coro
di villici e villanelle. La costante presenza in scena del Poeta è inoltre indice di quella imprescindibile componente buffa atta a blandire i contenuti
seri e drammatici in seno ad un contesto semiserio come questo.
Che storicamente le cose stiano cambiando è indubbio:15 già all’epoca
un’opera come la Clotilde di Carlo Coccia era conosciuta come «l’opera
de’cori»;16 che anche questo libretto sia di Gaetano Rossi e che i due lavori vadano in scena a Venezia (Coccia al S. Benedetto) a pochi mesi di
distanza non è dettaglio da poco. Nella Clotilde il Coro è usato in sette
15
In verità, processo di ben più lunga gestazione, se già Giovanni Agostino Perotti nella
sua Dissertazione sullo stato attuale della musica italiana (Venezia, 1811, pp. 36-37) così riferisce «A merito di lui [Piccinni] e degli altri testè ricordati autori [Sacchini, Sarti, Bretoni,
Borghi, Paisiello, Bianchi, Anfossi, Guglielmi, Prati, Gazzaniga, etc..] si ascriva, se vennero
introdotte le Arie di varj caratteri, i Rondò, le vivaci Polacche, le Preghiere, se venne data
novella forma alle Arie dette di bravura, tolti gli Unisoni dagl’Istrumenti colla parte del cantante, per cui restava soffocato il Cantore, introdotti i Cori legati coll’azione, composti i gran pezzi
concertati, inseriti i Finali nelle Opere serie[...] »; cfr. AGOSTINO ZIINO, La “Dissertazione sullo
stato attuale della musica italiana (Venezia, 1811) di Giovanni Agostino Perotti ed una lettera
inedita di Giovanni Paisiello, «Quadrivium», XXII, 1981, p.207.
16
«Nella Clotilde il Coccia fu il primo dopo Mayr a introdurre i cori come parte drammatica essenziale all’azione, tutt’affatto diversi dai cori delle tragedie greche, estranei alla favola
del dramma. I cori, fuor dall’usato fino ad allora, oltre a cantare agivano, e la loro comparsa
produsse un grandissimo effetto»; GAUDENZIO CAROTTI, Biografia di Carlo Coccia, Asti, Pagleri e Raspi 1922, p. 10.
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scene su 26 (e in più della metà dei numeri, ben 7 su 13): pertanto la
tendenza alla modernità della Figlia (e di Rossi) è da ascriversi alle nuove
istanze estetico-drammaturgiche cui fa capo anche l’opera di Coccia,17
che porteranno poi, attraverso i lavori del Rossini maturo e di Meyerbeer,
ai grandi affreschi corali verdiani; anche la cavatina della protagonista è
simile in entrambe le opere – avviene fra due interventi del Coro – e trova
un fresco precedente in quella di Isabella ne L’Italiana in Algeri (così
come a Semiramide spetta un rondò con coro nel secondo atto, degno di
«Pensa alla patria»).
3. La moral di tutto questo?
Le intenzioni di fondo sono evidenti: l’antica Ninive come la Venezia
del XIX secolo; è pacifico che il legame amoroso tra Semiramide e
Mennone, per quanto nasca sulla scena, è legittimato in quanto trova
fondamento nell’ottica cristiana (la vicenda per quanto ambientata in
Babilonia, contiene un certo germe controriformista correlato al Seicento
iberico di Calderòn), mentre la mera pulsione erotica di Nino è quanto di
più lontano vi sia dal puro sentimento amoroso. I vertici del triangolo:
Ragazza virtuosa – Eroe innamorato – Tiranno libidinoso, non possono
che vedere Nino sconfitto. Se si aggiunge anche la fedeltà che Mennone
ha nei confronti del suo Re (al contrario presto dimentico del fido generale) non si può che convenire con Carl Dahlhaus quando afferma che «il
conflitto tra amore e politica o tra amore e onore, centralissimo nel dramma dell’età moderna, è un tema in apparenza consunto, ma di fatto pressoché inesauribile».18
La situazione ricorda per certi versi quella dell’Italiana in Algeri,19
con qualche sostanziale differenza: Isabella, a parità di situazione (subisce
le mire del capo mentre ne ama a tutti gli effetti un sottoposto), non si
17
Modernità avallata anche da due intonazioni successive dello stesso libretto, entrambe
del 1826: La figlia dell’aria (The daughter of air) di Manuel Garcia (New York, Park Theatre),
ed un presunto tentativo di Rossini: «[R.] è un gran furbo, e sa tenersi. Ora scrive alla campagna -‘La figlia dell’aria’ per la Pasta»; cfr. Lettera di Päer a Benelli, 4 -7 ottobre 1826, in BRUNO
CAGLI, Rossini a Londra e al Théatre Italien di Parigi. Documenti inediti dell’impresario G. B.
Benelli, «Bollettino del Centro Rossiniano di Studi» XXI, 1981. Interessante soprattutto la
seconda, se si pensa che Rossini aveva già dato alle scene Semiramide tre anni prima e si apprestava a rielaborare il Maometto II nel Siége de Corinthe, opere corali per antonomasia.
18
CARL DAHLHAUS, Drammaturgia dell’opera italiana, in Storia dell’opera italiana, a cura
di Lorenzo Bianconi e Giorgio Pestelli, Torino, EDT 1988, VI, p. 93.
19
Per tacere dei plautini Miles gloriosus e Rudens: ancora, illuminante, CESARE QUESTA, Il
ratto dal serraglio. Euripide Mozart Rossini, Urbino, Quattroventi 1997.
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lascia di certo mettere i piedi in testa da Mustafà. Non per sua vis però;
Nino non è Mustafà: il Re di Ninive detiene il potere in qualità di comandante dei suoi eserciti, mentre il Bey di Algeri è in realtà soltanto un satiro pronto a perder la testa dietro alle gonnelle. Nino esercita fisicamente,
Mustafà burocraticamente: mai Nino direbbe (come Mustafà ad Haly ) «io
ti faccio impalar», semmai lo impalerebbe in prima persona (tant’è che
Mustafà dice di Taddeo «Sia subito impalato», delegando a terzi, così
come delega ad Haly il reperimento di una sposa italiana, a Lindoro la
tratta della moglie Elvira, a Taddeo le ambasciate per Isabella, etc...). Che
poi lo stesso Nino si lasci blandire da Semiramide con una falsa promessa
d’amore – nel tentativo di salvare Mennone - (Nino: «Dunque dì, sperar
poss’io?» – Sem: facendosi forza «Spera si, te lo concedo», I,12), lo fa rientrare a pieno titolo nella categoria dei Pappataci: il “melo-dramma eroicomico” è compiuto.
Tutto ciò Rossi lo ordisce con lucida consapevolezza, dando ai caratteri dei personaggi attributi peculiari: Semiramide, inizialmente ingenua e
scostante (ai limiti del grossier, essendo cresciuta raminga in una grotta) e
poi donna energica e pragmatica (non bisogna dimenticare che l’opera è
dedicata a Maria Luigia d’Asburgo,20 seconda moglie del Grande Corso e
amatissima Duchessa di Parma post Restaurazione); Mennone, diviso tra
l’amor di patria (la fedeltà a Nino, nonostante tutto) e l’amore per Semiramide, sostanzialmente però eroe a metà (Semiramide “porta i pantaloni”,
non lui); Nino, tiranno antonomastico, autore del divieto che innesca la
parabola tragica della vicenda;21 Timotèo, ridicolo parente di tutti i Poeti
buffi (Pacuvio e Isidoro, ma in primis dell’omonimo Timotèo del Corradino ossia il trionfo delle belle22 farsa di Pavesi su libretto sempre di Gaeta20
Così nel manoscritto: «Maestà / Alle tante virtù, che rendono degna la M.V. del sublime
grado in cui il Cielo l’ha posta, non poteva andar disgiunto il dolce genio della Musica, e conoscendo quanto la M.V. sia a cognizione di questa scienza, mi sento animato a presentarle questa
mia piccola, e debole composizione. / Si degni V.M. di perdonare l’arditezza, e riguardare il
presente per un sincero attestato della profonda venerazione, con cui le baccio [sic] la mano /
Della M.V. / Umilissimo, Devotissimo ed Obbligatissimo Servitore / Ferdinando Paini».
21
«[...] c’è un impedimento, un divieto, messo in azione prevalentemente in atto da un’autorità (padre, sovrano, tutore, zio...) che, impedendo a due innamorati di realizzare il loro amore,
innesca il meccanismo degli intrighi e della trama, con tutte le variabili possibili»; cfr. FOLCO
PORTINARI, Pari siam! Storia dell’800 musicale attraverso i sui libretti, Torino, EDT 1981, p. 27.
22
Dramma eroico-comico in un atto. Venezia, S. Moisè, carnevale 1809. Detta farsa (anticipatrice della Matilde di Shabran rossiniana per trama e caratteri e derivato dal Corradino di
Morlacchi) è stata recentemente riportata alla luce nell’ambito del “Rossini Opera Festival”
2004. Per la comparazione drammaturgica dei lavori di Rossi-Pavesi, Sografi-Morlacchi e Ferretti-Rossini, si veda di TERESA M. GIALDRONI, Frammenti di un abbozzo curioso. Qualche ipotesi sul
Trionfo delle belle di Stefano Pavesi, in Belliniana et alia musicologica. Festschrift Friedrich Lippmann zum 70. Geburtstag, a cura di D. Brandenburg e T. Lindner., «Primo Ottocento. Studien
zum italienischen Musiktheater des frühen 19. Jahrhunderts», 4., Wien 2003, pp. 131-180.
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no Rossi, ove il ruolo venne creato da quel Luigi Rafanelli primo Tobia
Mill, Tarabotto e Bruschino padre) e strettamente correlato in quanto a
metateatralità al Prosdocimo del Turco di Romani-Rossini, di un anno
antecedente;23 anche il Coro, trattato nelle sue molteplici composizioni di
soldati, villici, cortigiani, ecc., si esprime ora con accenti bucolici, ora con
solenne ieraticità degna dei Gluck e Traetta “riformati”.
4. Prima della prima: cast e contemporaneità
La distribuzione dei ruoli e degli interpreti predisposta da Paini è la
seguente:
Semiramide [contralto], Maria Marcolini;
Mennone [tenore], Givanni Battista Rubini;
Nino [basso nobile],Giuliano Pucci;
Timotèo [basso buffo], Luigi Zamboni;
Neride [soprano o mezzosoprano], Carolina Sivelli;
Cerinto [basso], Giovan Battista Serra;
Lisia [basso], Pietro Fontana;
Il contratto che Paini ebbe con il S. Moisè si deve essenzialmente a
Maria Marcolini, moglie dell’impresario del S. Moisè, Fedele Caniggia,24 altrimenti non si spiega come un lavoro di tale durata (due atti) e
organico (sette voci soliste più coro misto e comparse) possa essere
stato commissionato da un così piccolo teatro, tempio sin dagli esordi
del più economico genere della farsa. Nome di spicco nel panorama
dell’epoca, la Marcolini (interprete prediletta da Rossini, creatrice di
Isabella, Ernestina, Clarice, Sigismondo e Ciro) venne affiancata da due
altri cantanti entrati a loro modo nella storia: Giovanni Battista Rubini
23
Egli si esprime frequentemente da corago:«[...] Che nuova interessante situazione /
Mette il pubblico in somma aspettazione» ( Scena 2), talvolta sembra egli stesso condurre le
fila della narrazione, come in «Ecco un duetto che finisce in terzetto» (Scena 4), «Pian pian nel
semiserio / Va tragico l’affar » (Scena 12I) e «Ecco un finale eroico / Dolor...disperazione /
Quello è il tiranno in bestia / La donna in gran passione / L’amante la che spasima / E chiede
al ciel pietà / Un pochi dei passaggi / Il solito crescendo / Così...sospir...furori / Tableau si
formerà / Benon terminerà» (idem, con tanto di critica hic et nunc alla nuova scuola rossiniana), «Il silenzio, il mistero, la passione / Il contrasto...che bella situazione / Ad uso sotterraneo,
per un pezzo / D’una grand’opera» (II,7), sino alla morale finale «È l’opera finita / Vedrem se
fu gradita / Ognun fè il suo possibile / Si fa quel che si fa» (Scena Ultima). È inoltre stretto
parente di Don Magnifico e Taddeo, chiamandosi per esteso “Timotèo de’Timotèi” ed essendo originario di “Monte Fiascone”.
24
MARIA GIOVANNA MIGGIANI, Il Teatro di San Moisè (1793-1818). Cronologia degli spettacoli, «Bollettino del Centro Rossiniano di Studi», XXX, 1990, nn. 1-3, p.165.
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(che sarebbe divenuto il prototipo del tenore “romantico”, creando i
ruoli tenorili in Bianca e Fernando, Pirata, Sonnambula e Puritani),25 e
quel Luigi Zamboni creatore di lì a poco del Figaro rossiniano. Anche
Carolina Sivelli ebbe una carriera di tutto rispetto (era già stata il primo
Roggero in Tancredi), mentre i tre bassi Pucci, Fontana e Serra si possono considerare dei comprimari (e di ciò risente la loro scrittura vocale –
anche in Nino che è comunque uno dei personaggi principali – notevolmente semplificata).
La medesima compagnia della Figlia dell’aria è riportata come interprete nella ripresa veneziana della Cameriera astuta, andata probabilmente in scena al S.Moisè nella medesima stagione (o in quelle immediatamente precedente o successiva), con l’eccezione del basso Serra, sostituito per ovvie ragioni di libretto dal contralto Beatrice Anti Paroletti;
omogeneità nel cast che conferma il rapporto allora esistente tra Paini e
l’impresa del S. Moisè per la stagione primaverile del 1815.
Ampliando l’orizzonte alle novità musicali ed agli avvenimenti
contemporanei, si dava allora in laguna anche la citata Clotilde di Carlo
Coccia ed in altri teatri della Penisola vi erano state premiéres di grande
valore nelle stagioni precedenti: al S. Carlo di Napoli il 19 gennaio la
‘prima’ partenopea della Ginevra di Scozia, ed il 27 marzo la ‘prima’ assoluta della Cora, entrambe di Mayr (opere che ebbero effetto immediato
sulla concezione drammatica di Rossini, anch’egli all’esordio napoletano
con Elisabetta Regina d’Inghilterra il 4 ottobre di quel 1815),26 mentre alla
Scala di Milano il 27 marzo toccava alla prima lombarda de Le nozze di
Figaro. Un bel parterre de roi dunque, tenendo inoltre presenti le riprese
proprio al S. Moisè de L’Italiana in Algeri e le autunnali riprese romane
de Il Turco in Italia; non si dimentichi che contemporaneamente Napoleone si apprestava, dopo la fuga dall’Elba, a vivere i cosiddetti “Cento
giorni” (20 maggio-20 giugno), bruscamente interrotti il 18 giugno dalla
definitiva débâcle di Waterloo.27 La stessa Serenissima, sballottata tra gli
Imperi dopo Campoformido e Pressburgo, era casus belli al Congresso di
25
Di cui lo stesso Rossini soleva dire «Tre sono i veri genij, il papà Lablache, il prediletto
figlio, il vero Rubino del canto, il caro Don Giovanni Battista, e quell’ enfant gatè della natura,
Maria Felicita Malibran»; cfr. GIOVANNI CANEVAZZI, D’un memoriale di G.B. Rubini, «Rivista
Teatrale Italiana», II, n. 3, Napoli 1902, p. 270.
26
Sull’influenza di Mayr sul Rossini napoletano si veda PAOLO RUSSO, I “cori d’accompagnamento”: per la drammaturgia di un “bell’ornamento”, «Polifonie», III/2, 2003.
27
EMIL LUDWIG, Napoleone, con una nota di Guglielmo Salotti; traduzione di Lavinia
Mazzucchetti, Milano, Rizzoli 2000 (“BUR”).
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Vienna: giorni di grandi cambiamenti per i titani della musica
quelli della politica.
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28
e per
5. La partitura in nuce 29
I quattro punti salienti che già da soli forniscono un’idea globale sia
degli intenti drammaturgici che delle peculiarità della scrittura vocale e
strumentale di questo compositore sono la sinfonia, il Finale Primo, in
quanto «grande affresco drammatico-musicale posto al centro fisico,
estetico ed emotivo della partitura, in conclusione d’atto, nel quale si
saggiava tanta parte della maestria compositiva di un compositore, impegnato a condurre la vicenda verso il punto di massima crisi»,30 la Scena e
Rondò di Semiramide nel secondo atto, vale a dire l’aria eroica del personaggio principale, e l’aria di Timotèo sempre del secondo atto, viceversa
aria buffa.
a. La sinfonia
Concepita per l’organico organico standard del S. Moisè (coppie di
fiati - tranne flauto e fagotto, singoli - più archi e senza timpani),31 si apre
con una breve Introduzione lenta affidata ai legni che subito dà luogo
all’Allegro Vivace, nucleo formale di tutta la pagina; l’intera struttura
richiama apertamente quella sorta di «forma sonata semplificata» tanto
cara a Rossini:32
28
«E venne Rossini. Rossini è un titano. Titano di potenza e d’audacia. Rossini è il Napoleone d’un’epoca musicale. Rossini, a chi ben guarda, ha compito nella musica ciò che il
romanticismo ha compito in letteratura. Ha sancito l’indipendenza musicale: negato il principio d’autorità che i mille inetti a creare volevano imporre a chi crea, e dichiarata l’onnipotenza
del genio», cfr. GIUSEPPE MAZZINI, Filosofia della musica, a cura di Marcello De Angelis.
Guaraldi, Rimini-Firenze 1977, p. 53.
29
Frontespizio del manoscritto custodito presso il Conservatorio “A.Boito” di Parma: A
Sua Maestà l’Infanta Maria Luigia / Borbone / Sinfonia, cavatina con Cori, Gran Scena / Rondò
e Duetto / Composta dal Maestro Ferdinando Paini / Nell’Opera intitolata la Figlia dell’Aria / In
Venezia la Primavera dell’Anno 1815. Per i criteri di trascrizione, le fonti e le partiture dei brani
citati si rimanda a FEDERICO GON, All’ombra di Semiramide: Ferdinando Paini e La figlia
dell’aria, Tesi di Laurea in Musicologia e Beni musicali, Università degli Studi di Padova, a.a.
2008-2009.
30
MARCO BEGHELLI, Morfologia dell’opera italiana da Rossini a Puccini, in Enciclopedia
della Musica, Torino, Einaudi 2006, II, p. 894.
31
Come facile esempio bastino gli organici identici delle farse rossiniane date al S. Moisè
tra il 1810 ed il 1813.
32
Perché prima del cosiddetto “sviluppo”, come analizzato cronologicamente e formalmente da PHILIP GOSSETT, Le sinfonie di Rossini, «Bollettino del Centro Rossiniano di studi»,
XIX, 1979, nn. 1-3.
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Sezione
N° battute
Tempo
Metro
Tonalità
Introduzione
15
Largo
C
RE
(Esposizione)
A
21
Allegro vivace
[ 12 / 8 ]
Tutti in fortissimo
+ breve Ponte 1
30
C
B
15
[ 12 / 8 ]
Crescendo e cadenze
20 + 12
C
Ponte 2
11
(Ripresa)
A
21
[ 12 / 8 ]
Tutti in fortissimo
+ breve Ponte 1
30
C
B
15
[ 12 / 8 ]
Crescendo e cadenze
20 +8
C
Stretta
29
[LA]
RE
Più mosso
A e B però sono più due fratellastri che non gli antagonisti maschile e
femminile che si vogliono personificazione della bitematicità: qui l’uno è
diretta emanazione dell’altro per andamento, caratteristiche armoniche,
accenti metrici e linea melodica. La differenza risiede nella posizione: il
primo, l’exordium, porta con sé anche accenti lirici e patetici (una codetta
in minore prima del “Tutti” [narratio]), mente il secondo, l’argumentatio,
è per forza più scandito, dato che la sua funzione risiede essenzialmente
nel ribadire il concetto prima della peroratio finale (il Crescendo e la
Cadenza).33 La modernità (o l’epigonismo se si vuole) di questa pagina
risiede però nel Crescendo, strutturato in modo “rossiniano”, ossia sfruttando l’inesorabile e frenetica pendolarità tonica-dominante (inciso di
2+2 battute)34 e non fisso sul tipico pedale di tonica come nella scuola
33
Simile rifarsi alla retorica non è solo un mero strumento di comodo, ma ben esprime le
sostanziali differenze tra le sezioni della sinfonia d’opera italiana del periodo, radicalmente
diversa dal sonatismo di area austro-germanica da cui deriva, perché ben più semplificata e
schematica nelle sue componenti (su tutte, la già rimarcata assenza di una frazione espressivamente fondamentale ma formalmente trascurabile come il cosiddetto “sviluppo”). È per
questo che, nonostante la somiglianza, A presenta un incipit lirico quasi pre-verdiano, mentre
B è più legato allo stile rossiniano dominante.
34
«Rossini escogita ed applica su larga scala un principio costruttivo diverso da quello
della frase canora a membri simmetrici: esso consiste nell’iterazione ossessiva e meccanica di
un motivo, in gruppi isocroni di due o quattro battute alternativamente alla tonica e alla
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napoletana, affidandosi a progressioni per 3ª e 6ª ed aumento graduale
degli interventi e dei raddoppi strumentali. È un cosiddetto periodo ‘fisico’,35 struttura causa principale della propulsività dinamica insita nei
crescendo rossiniani. Che Paini colga e faccia propria questa novità peculiare nel Cigno di Pesaro (per non parlare delle modernissime quattro
battute sincopate in chiusura, di eco quasi donizettiana) è merito non da
poco per un operista più che quarantenne e di formazione napoletana;36
inoltre il gusto quasi mannheimer del colore orchestrale che traspare da
certi passaggi in aumentando e diminuendo, lascia intendere che si tratti
quantomeno di un compositore attento ai mutamenti di stile avvenuti da
Mayr in poi sulle scene italiane.37
dominante [...] ne promana una motoricità attonita nei tempi lenti (come nel Largo del finale
I nell’ Italiana in Algeri), necrotizzante nei tempi veloci (come nei marosi che squassano la
Stretta del finale I nel Tancredi), una frenesia che vortica a perdifiato su di sé e che, combinata col crescendo orchestrale, tripudia nelle sezioni finali delle sinfonie e dei numeri canori più
brillanti. Sui contemporanei esercitò una “fisica impressione”, una “dominazione generale
degli orecchi”»; cfr. LORENZO BIANCONI, Il teatro d’opera in Italia, Bologna, il Mulino 1993,
p. 77.
35
Ove «il membro di quattro battute non è autosufficiente ma risolve, da un punto di
vista armonico e metrico, sulla quinta battuta, ch’è al contempo la prima del successivo»; cfr.
SAVERIO LAMACCHIA, “Solita forma” del duetto o del numero? L’aria in quattro tempi nel melodramma del primo Ottocento, «Il Saggiatore Musicale», VI, 1999, pag. 123. Nozione presa a
prestito da LORENZO BIANCONI, «Confusi e stupidi»: di uno stupefacente (e banalissimo) dispositivo metrico, in Gioachino Rossini 1792-1992: il testo e la scena, a cura di Paolo Fabbri, Pesaro, Fondazione Rossini 1994, pp. 129-161.
36
Acume che suoi colleghi di estrazione o studi partenopei non sempre denotano, come la
sinfonia della citata Clotilde del pur dottissimo Coccia (basti il magistero della fuga dell’Amen
conclusivo nella Messa per Rossini curata da Verdi), o lavori coevi di Mosca, Päer, Farinelli,
etc...
37
Per dirla con Mila, egli ebbe meriti non da poco: «[egli] diede agli Italiani il desiderio di
un nuovo stile»; cfr. MASSIMO MILA, Breve storia della musica. Torino, Einaudi 1977, p. 257.
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b. Il Finale Primo
Le scene coinvolte in questo Finale Primo sono tre (10, 11, 12) a fronte però di un ben maggior numero di sezioni formali e musicali differenti:
Personaggi
Scena
Verso
Incipit poetico
Tempo
Neride Cerinto,
Coro
10
Quinari
Più dolci e placide
Largo
Oh, come l’anima
Andantino
Un certo ardor
Più mosso
E perché a me
non torni
Allegro
moderato
O d’Assiria
sol nascente
Adagio
Oh la sbaglia il
signor Nino
Adagio ma
non tanto
È padrone il
Re di tutto
Allegro vivace
Vedi, o donna
d’oriente
Andante
comodo
Sem, Tim, Nino
T’offro il cor...
i miei tesori
Allegro un poco
agitato
Sem, Tim, Men,
Nino
Dunque un altro
più ti piace
Allegro con brio
Menn
Dal suo bene
abbandonato
A tempo
Sem, Tim, Men,
Nino
Qual crudel momento è questo
Largo
Ebben: che fai!
decidi
Allegro
Semiramide, Ner
Sem, Ner,
Cer, Coro
Sem, Timotèo
Nino
Ottonari
11
12
Settenari
Semiramide
Per me lo veggo
a piangere
Sem,Tim, Nino
Vile, ti metti
a piangere
Tutti
Di gioia e di trionfo
Allegro vivace
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Metro
Tonalità
Sezioni musicali
Affetto
9/8
LA
1 – T. di
preparazione
Introduzione
Entrata a Corte
Semiramide
MI
2 – T. d’attacco
Aria con pertichini
A
Gioia di S.
FA
B
Passione di S.
MI
C
(cabaletta)
Speranza di S.
DO
[SOL]
DO
Duetto
D
Tim. esalta S.
SOL
E
Fermezza di S.
2/4
DO
F
(cabaletta)
Contrasto
timore /onore
C
FA
2 – Insieme I
A
Potenza di Nino
B
Passione di N.
Fermezza di S.
SI b
[MI b]
C
Gelosia di N.
Trionfo amoroso
di N.
do
D
(Arietta*)
Mestizia di Men.
MI b
3 - Concertato
di stupore
Crogiolo delle
passioni
SOL
4 – Insieme II
A
re
B
(Arietta*)
Mestizia di Sem.
C
(Ponte)
Reazione di Nino
5 - Stretta
Eccitazione generale
C
RE
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Pur essendo il talvolta abusato concetto di «solita forma» accezione
relativamente moderna di una prassi mai codificata esplicitamente all’epoca dei fatti,38 si intende l’Introduzione come Tempo di preparazione, l’Aria
con pertichini ed il Duetto come dilatatissimo e variopinto Tempo d’attacco propositivo e cinetico, il concertato come Cantabile contemplativo e
statico. Questo è il vero gioiello dell’opera: a voci quasi scoperte, sostenuto
solo dai legni, assomigliante sia nell’attacco che nell’andamento e figurazione a «Ciel! - O terreur, ô peine extrême» nel Finale Primo de Le Comte Ory.
Nella prima frazione le voci procedono serrate fino all’isolato Timotèo che
fa da raccordo con la seconda sezione, ove si dividono: Nino vs MennoneSemiramide, mentre il poeta interviene con entrambi i blocchi (specchio
dei rapporti creatisi), su un tema terzinato raddoppiato dai legni, con corni
e fagotto a fare da sostegno armonico (gli archi tacciono per tutto il brano),
e le ultime sei battute della cadenza in diminuendo, con pedale conclusivo.
Gli Insiemi I e II svolgono le funzioni ascrivibili al Tempo di mezzo
(solo il II lo è realmente, per posizione), 39 mentre la frazione conclusiva è
appunto una Stretta convenzionalmente intesa, pezzo ad alta dinamicità e
ricchezza sia nei volumi che delle linee vocali, ove l’emersione della voce
di Timotèo (sulle parole «Ecco un finale eroico») ricorda il Figaro del
Finale Primo del Barbiere («Guarda Don Bartolo») nella distaccata partecipazione agli eventi, arrivando perfino a pensare di averli in pugno.
Non solo: l’Aria con pertichini ed il duetto sono a loro volta in tre
tempi, avendo entrambi regolari tempi d’attacco (A, D), tempi di mezzo
(B, E) e cabalette (C, F); particolarmente interessante è anche l’uso che
Paini fa di una stessa sezione musicale – nella Tabella etichettata come
Arietta* – affidandola prima a Mennone («Dal suo bene abbandonato») e
poi, un tono più alta ma identica, a Semiramide («Per me lo veggo a piangere»). Iterazione assolutamente non suggerita dal libretto, visto lo scarto
sia metrico (ottonari vs settenari) che agogico (a tempo vs allegro):
dunque piena volontà del compositore operare questa sorta di “reminiscenza”, visto il medesimo rassegnato pathos col quale i due amanti acquistano consapevolezza amara sorte che si prospetta loro.
Per capire il mestiere di Paini giova confrontare a grandi linee questo
Finale con quelli relativi del Barbiere rossiniano e della citata Clotilde:
38
«Si tratta dunque di un massimo comun denominatore, di cui peraltro gli artefici
dell’epoca non parlano mai in forma esplicita completa»; cfr. M. BEGHELLI, Morfologia
dell’opera italiana cit, p. 904.
39
Così come nel Finale Primo del Barbiere rossiniano il vero Tempo di mezzo (stando tra
Largo concertato e Stretta) è «Ma signor / Zitto tu!», ma medesime caratteristiche di cinetica
dialogicità ha anche l’antecedente «Che cosa accadde, signori miei?», dividendo il Tempo
d’attacco («Hey di casa, buona gente») dal Largo concertato (Vedi Tabella).
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Il Barbiere di Siviglia, Finale Primo
Scena
Incipit poetico
Tempo
Metro
Tonalità
Sezioni musicali
13
Ehi di casa, buona gente
Marziale
C
DO
1-Tempo d’attacco
14
Ah venisse il caro
oggetto
15
Che cosa accadde?
Allegro
3/4
MI b
(Insieme I)
2
16
Fermi tutti, niun si mova
Moderato
C
DO
3
12/ 8
MI b
4 -Concertato
di stupore
DO
5- T. di mezzo
(Insieme II)
Questa bestia di soldato
Vivace
Freddo ed immobile
Andante
Ma signor / Zitto tu!
Allegro
SOL
C
Mi par d’esser con
la testa
Presto
6 - Stretta
Clotilde, Finale Primo40
Scena
Incipit poetico
Tempo
Metro
Tonalità
Sezioni musicali
12
Sua eccellenza
dalle scale
Allegro
C
DO
1- Tempo
di preparazione
Introduzione
A
Del nostro vivo ardor
Allegretto
6/8
DO
Coro
B
Balletto
C
Da mille dolci immagini
Andante
Questo un gran dir
si chiama
C
LA b
Arietta
D
Allegro
FA
2 - Tempo d’attacco
Oh che appena...
oimè...respiro
Larghetto
MI b
3 - Concertato
di stupore
Voi qui dunque?
Allegro
SOL
4 - Tempo di mezzo
Qual crudel vicenda
è questa
Mosso
DO
5 - Stretta
40
Per analisi formale, nozioni storiche e libretto della Clotilde vedasi MAURO SIRONI, L’intricata Foresta d’Hermanstadt. Clotilde, edizione critica a cura della Fondazione Teatro Coccia,
Novara, Lampi di stampa, 2003.
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Segno evidente della modernità del Barbiere è la costruzione su un
numero maggiore di scene, ognuna portatrice di nuovi personaggi e
nuovi elementi alla trama: travestimento di Almaviva, penetrazione in
casa di Rosina; battibecchi con Don Bartolo; venuta pseudo-pacificatoria
di Figaro (nel frattempo anche Berta e Don Basilio); intervento della
Forza pubblica; stupore generale; finale di confusione. Progressione
narrativa e drammatica totalmente assente nella Clotilde. Anzitutto
perché esso è articolato – a parità delle solite 4-5 sezioni musicali – non su
più scene ma su di una unica (la 12), ove accade poco o nulla: preparativi
di una festa, l’eroina buona conquista colla sua bontà il “principe azzurro”, l’antagonista cattiva a lui promessa sposa (motivo della festa) minaccia l’eroina buona. Stop. Senza timore di apologia, è chiaro che in questi
particolari narrativo-formali risiedono sia la superiorità del Barbiere che
della globale concezione drammatica rossiniana.41 Entrambi i libretti di
Rossi soffrono di una certa staticità drammatica: in Clotilde, dopo lo
scontato Coro introduttivo e gli altrettanto scontati Aria e Duetto
(momenti di stasi lirica), appena con l’entrata in scena di Nino (sezione 4)
si assiste alla argumentatio, ossia i personaggi mettono le carte in tavola
(Semiramide ama Mennone e non Nino), provocando quella ridda di
affetti che conducono alla massima crisi della narrazione, la Stretta (che
non chiamiamo peroratio per amore di aderenza etimologica alla realtà
scenica: non vi è conclusione, semmai confusione).
Paini però dimostra di conoscere bene la materia sulla quale ha messo
mano, operando ad un livello superiore rispetto alla mera disposizione
delle scene: l’estrema coesione drammatica e formale è traguardo che
Paini vuole raggiungere,42 adoperandosi in mezzi tecnici ed accorgimenti
strutturali. Consapevole della scarsa varietà drammatica di questo Finale
Primo, egli agisce usando il citato mestiere dell’operista, con un semplice
espediente: variare in continuazione le unità agogiche. È l’unica arma a
sua disposizione per rendere vario e accattivante questo picciol dramma
da sé,43 che così statico, avrebbe avuto altrimenti ben poco da dire. A
41
Merito che si può far risalire al Barbièr di Beaumarchais, ma non solo: per esempio, in
un’altra opera dall’esemplare Finale Primo come L’italiana in Algeri, esso si articola comunque
su tre scene, ripartite in cinque sezioni musicali. Per l’edizione critica del libretto con cenni
alla drammaturgia e alla partitura PAOLO FABBRI - MARIA CHIARA BERTIERI, L’ Italiana in Algeri, Pesaro, Fondazione Rossini 1997.
42
A riprova della volontà costruttiva e formale colla quale Paini ha operato, il brevissimo
Adagio ma non tanto «Oh la sbaglia il signor Nino» della Scena 11, variazione agogica dovuta
solo al variare degli ‘affetti’ e non suggerita dal variare del metro nel libretto, e che va a costituire il Tempo di mezzo del duetto.
43
LORENZO DA PONTE, Memorie ed altri scritti, a cura di C. Paganini, Milano, Longanesi
1971, p. 147.
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riprova di ciò basti vedere come alle tre scene (10, 11 e 12) corrispondano
sì cinque macrosezioni musicali, ma ben quattordici indicazioni di tempo,
variabili al variare degli ‘affetti’ in gioco. Lezione drammaturgico-compositiva che Paini ha ben compreso, metabolizzato e applicato: se «la musica vocale può essere facilmente intesa [...] come rappresentazione o
espressione del testo che ne sta alla base»,44 egli articolando formalmente
(ed artigianalmente, senza sovrastrutture simboliche) questo Finale
Primo ha ben espresso l’anima primordiale della musica, «emozione
matematizzata o mathesis emozionalizzata».45
c. Aria di Timotèo «Ah fortuna tu sei donna», Atto II, scena 14.
L’aria in questione funge da chiusa dell’intero quadro e prelude immediatamente al Finale Secondo ed alla Scena e Rondò di Semiramide di cui
parleremo in seguito. Il poeta, giacché ha violato gli ordini del sovrano
favorendo l’incontro tra Mennone e Semiramide (II, 7), ha scatenato le ire
di Nino, il quale lo ha appena condannato a punizione amarissima: una
volta accecato Mennone, sarà proprio Timotèo a condurlo per il mondo.
In questa pagina egli si lamenta tra sé dialogando con la Fortuna – personificata da una fanciulla bella quanto scostante – dalla quale egli non anela
che un istante di felicità. Di che ridere, in apparenza, c’è ben poco:
N.B. in corsivo le ripetizioni dovute all’intonazione di Paini
Testo
Rima
Sezione musicale
Ah! Fortuna, tu sei donna
Io le donne ho sempre amato
Ma tu sempre m’hai burlato
Mi facesti disperar
a
b
b
x
Attacco
Come quelle signorine
Che a scherzar si dan diletto
Mi facesti il bell’occhietto...
M’illudesti...mi mosrtrasti...
c
d
d
e
A
Cose rare...il tuo bel crine...
Io credei...tu m’invogliasti...
Sul più bel poi mi piantasti
Mi facesti sospirar:
c
e
e
x
Ah! Sei donna e tanto basti.
Chi di te si può fidar?
e
x
Tonalità
RE
cadenza
44
CARL DAHLHAUS - HANS H. EGGEBRECHT, Che cos’ è la musica?, Bologna, Il Mulino
1988, p. 113
45
Cfr. ivi, p. 30.
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Rima
Sezione musicale
Tonalità
Io di tutto un poco appresi
Per campar cangiai paesi
Con la cara musa mia
Sempre unito in compagnia
f
f
g
g
A’
[FA]
Ma una fosse andata bene
Oh disdetta singolar
Ma una fosse andata bene
Oh disdetta singolar
h
x
h
x
Tempi barbari e perversi?
Ci vuol altro che far versi!
Altra scuola, altri talenti
Son di moda a dì presenti
I
i
l
l
Ponte
[re]
Oh fortuna tu sei donna
Ma ogni donna ha un buon momento
D’un momento mi contento
D’un tantino di bontà
a
m
m
n
B
RE
Ma ridotto a menar l’orbo
Che crudel fatalità
o
n
Crescendo e cadenza
Oh fortuna tu sei donna
Ma ogni donna ha un buon momento
D’un momento mi contento
D’un tantino di bontà
a
m
m
n
B
Oh fortuna tu sei donna
Ma ogni donna ha un buon momento
D’un momento mi contento
D’un tantino di bontà
a
m
m
n
Testo
cabaletta
cabaletta
[re]
RE
Coda e cadenze
Consta di sei quartine intervallate irregolarmente da distici46 ed il verso è
costantemente ottonario; nell’originale manca l’indicazione di tempo: presumibilmente però si tratta di un Allegro. Seppur fondamentalmente bipartito,
l’impianto formale di quest’aria presenta alcune curiosità interne; l’attacco in
Re maggiore che investe la prima quartina è assai scandito, più vicino al parlato che alla melodia, tipico esergo riferibile all’esposizione di quella che è la
natura dell’aria, l’argomento (la «mossa», per dirla con Basevi);47 la sezione A
46
Con frequente «introduzione di un’ulteriore uscita tronca del terzultimo verso di una
strofetta, come anticipo di quella finale»; PAOLO FABBRI, Metro e canto nell’opera italiana.
Torino, EDT 2007, p. 103: espediente metrico usato da Gaetano Rossi sin dai tempi della
Ginevra di Scozia (1801) per Mayr.
47
ABRAMO BASEVI, Studio sulle opere di Giuseppe Verdi, Firenze, Tofani 1859, p. 195; citato anche in FABRIZIO DELLA SETA, Italia e Francia nell’Ottocento, in Storia della musica, a cura
della Società Italiana di Musicologia. Torino, EDT 1993, IX, p.172.
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è invece costruita in maniera tale che la seconda quartina venga associata ad
un tema ripetuto identico nel primo e nel secondo distico (cd, cd) mentre la
terza quartina si intona con una piccola variazione nel primo distico (ce) e con
la riproposizione del nucleo tematico nel secondo (ex), con ogni distico associato a membri di quattro battute: è quella che si suole definire riduttivamente come lyric form (4a+4a+4b+4a).48 Non basta: dopo la breve cadenza e lo
stupefacente salto a Fa maggiore (atto a caratterizzare la sensibile variazione
nel focus dell’argomento, non più le “signorine”, ma le diatribe lavorative ed
occupazionali) anche la quarta quartina ed il distico che ad essa segue sono
trattati alla stessa maniera, con l’accorgimento adottato da Paini nel ripetere
due volte il distico «Ma una fosse andata bene / oh disdetta singolar!», unico
espediente praticabile per raggiungere il numero di 16 battute necessario allo
schema sopra riportato. La presenza così evidente di due lyric form in successione, all’altezza del 1815 è caso interessante: se essa diviene con Donizetti,
Bellini e Verdi «il principale congegno melodico-formale e viene utilizzata in
modo pervasivo»,49 in epoca precedente se ne trovano tracce sporadiche in
Mozart (l’aria di Sarastro «In diesen heil’gen Hallen») e nel Rossini comunque post 1815 (il cantabile di «Cessa di più resistere» dal Barbiere, la preghiere di Desdemona «Deh! Calma , o ciel, nel sonno», la cabaletta del duetto
Elena-Uberto «Cielo in qual’estasi» dalla Donna del lago).
Il Ponte è caratterizzato dal contrasto dinamico e timbrico dell’orchestra - quasi a un punto esclamativo - e contiene in sé la morale satireggiante dell’aria, mentre la sezione B che segue rimarca la tonalità d’impianto
ed è di carattere più propositivo rispetto ad A ed A’, essendo associata
non più ad una narrazione (vera o presunta tale) ma ad un’aspettativa
futura, la fiducia nel Destino/Fortuna. Essa è organizzata su di un inciso
iniziale seguito da una Cabaletta vera e propria, la cui pendolarità (14
battute di tonica-dominante in Re) è atta a sottolineare il mutato atteggiamento di Timotèo; il riproporsi come da norma della Cabaletta è preceduto da una sezione intermedia costruita a mo’ di crescendo (usato poi
per la chiusa strumentale finale) con varie cadenze, dove ben si compren-
48
Termine introdotto da JOSEPH KERMAN, Lyric Form and Flexibility in Simon Boccanegra, «Studi. Verdiani», I, 1982, pp 47-62. Sull’argomento si vedano anche SCOTT BALTHAZAR,
Rossini and the Development of the Mid-Century Lyric Form, «Journal of the American Musicological Society», 41, 1988, pp. 102-125.; STEVE HUEBNER, Lyric Form in Ottocento Opera,
«Journal of the Royal Musical Association», 117,1992, pp. 123–47; GIORGIO PAGANNONE,
Mobilità strutturale della lyric form. Sintassi verbale e sintassi musicale nel melodramma italiano
del primo Ottocento, «Analisi», VII/20, 1996, pp. 2-17.
49
G. PAGANNONE, Tra “cadenze felicità felicità felicità” e “melodie lunghe lunghe lunghe”.
Di una tecnica cadenzale nel melodramma del primo Ottocento, «Il Saggiatore Musicale», IV,
1997, pp. 53-86: p. 59, in nota.
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de la valenza drammaturgica di un’aria buffa in un contesto tendente al
tragico: pur sottolineando la tremenda punizione a lui destinata, tutti (sia
noi che lui) percepiamo che essa non verrà in alcun modo comminata,
potenza del genere semiserio e buffo.50
Entrando poi nella dimensione puramente vocale, la tessitura e
l’estensione (da Fa? a Do?) risultano essere di normale amministrazione
per un buffo - soprattutto pensando a «Largo al Factotum» che Zamboni
sarà in grado di interpretare l’anno seguente - mentre la linea melodica
tende sempre alla dominante della tonalità in uso: il La? nelle sezioni A, B
e nella Coda (tonalità d’impianto Re maggiore) mentre in A’(Fa maggiore) è il Do centrale ad essere toccato con più frequenza. Escluso qualsiasi
accenno di virtuosismo,51 manca all’appello anche il vero marchio di
fabbrica delle arie buffe belcantistiche, il classico sillabato a raffica. Tipica aria d’elenco (forte l’analogia con «Scorsi già molti paesi» dal Barbiere
paisielliano), svolge appieno la sua funzione drammatica: esclusa ovviamente dal piano narrativo (se non ci fosse, l’azione procederebbe ugualmente, persino più spedita), sul piano espressivo è nel buffo puro, didascalico e simbolico, atto a far divertire e ragionare al contempo usando
abilmente metafore e paragoni, che risiede l’essenza di quest’aria. Un
commento sì di Timotèo alle proprie sinistre vicende personali, ma che
reca con se l’archetipo del Fato come oggetto inafferrabile, della Fortuna
come cieca e scostante entità, contro la quale nulla vale; qualche intervento “politico” come «Altra scuola altri talenti / Son di moda ai di presenti»
è facilmente traslabile dall’antica Ninive all’Italia dell’allora contemporaneità, mentre la generale misoginia del testo è affine a quella di Don
Alfonso nel Così fan tutte. Timotèo dunque «castigat ridendo mores»,
con in più una sana dose di buffo puro insita nel suo personaggio. Aria
semplice e al contempo strutturalmente complessa, innocua drammaturgicamente ma di pungente satira, dalla struttura monolitica ma segnata al
suo interno da vari ‘affetti’ e sottili mutamenti, con un’unica certezza:
Timotèo si lamenta, ma la musica ci dice che non gli verrà torto un capello; anch’egli lo sa, e ne approfitta per attaccare direttamente sia il genere
femminile che i costumi dell’epoca.
50
Tra le centinaia di casi, l’impalamento promesso a Taddeo e poi – ovviamente – mai
avvenuto, o le vendette e ritorsioni giurate e mai applicate da Almaviva (sia nel Barbiere rossiniano che nelle Nozze di Figaro), Don Ramiro, Don Magnifico, Ormondo (Inganno felice).
51
Il che non è indizio probante: la notazione risulta più scarna dell’effettiva prassi esecutiva, dovuta alla volontà degli interpreti del momento; a tal proposito (e sul ruolo del Rossini
riformatore degli abbellimenti) si veda RODOLFO CELLETTI, Storia del belcanto, Edizione
nuova ed ampliata, Scandicci, La Nuova Italia 1996.
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d. Scena e Rondò di Semiramide «Voglio perire anch’io», Atto secondo, scene 16 e 17
Il presente numero apre il Finale Secondo e si colloca subito dopo l’aria
buffa di Timotèo; l’indicazione scenografica del libretto (Reggia di Nino,
Tutta in ricchezza e mollezza Orientale negli arredi, e ne’ disegni, e sedili ecc.)
porta l’azione all’interno, ove Semiramide attende disillusa il suo destino:
scoperta la sua tresca con Mennone (II, 8), è ora destinata in sposa al rude
Nino, mentre all’amato spetta – come visto – sorte ben più grave.
All’Introduzione marziale a piena orchestra con tanto di strumenti dal
richiamo esotico (la catuba),52 fa seguito l’intervento del Coro (nascosto, «di
dentro» recita il libretto), ancora una volta di sapore gluckiano. Il recitativo
che segue – sul topos del tremolo agitato degli archi –53 si interrompe con
l’esclamazione di Semiramide «E soccombo all’orror» che funge da ponte
per «Voglio perire anch’io». Essa è articolata in due momenti: un primo
segmento dalla fiorita linea vocale (cromatismi e salti di sesta e settima)
accompagnato dagli archi su arpeggio cromatico dei legni (dall’insolito
sapore quasi balcanico); un secondo segmento in tonalità maggiore (Fa) ove
una progressione discendente dei legni di tutt’altro colore introduce l’inciso
vocale («Ah senza il caro bene»), concluso con una coda in minore dal tono
misterioso su unisono degli archi. Nuovo intervento del Coro, preannunciato dalla «marcia flebile» fuori scena – ove si vede Mennone sfilare tra i ceppi
– che, con profonda rassegnazione, compiange il destino del loro generale su
accordi spezzati degli archi, bruscamente interrotto dall’invettiva di Semiramide «Voi guerrieri, voi piangete!», che sortirà i suoi effetti in un secondo
tempo. A precedere l’inizio della Stretta c’e infatti il momento di fragilità
esposto con «Priva mio ben di te»; il dialogo Semiramide-Coro apre l’ultima
sezione («No si salvi, si difenda») e prelude alla Stretta54 conclusiva in due
52
Termine che equivale al più corrivo Banda turca (insieme di triangolo, piatti, tamburi
vari e grancassa). Lo si trova, oltre che nell’Italiana in Algeri, anche citato nel Ghiribiss del poeta
vernacolare piemontese Anacleto Como: «Noi mèscioma la catuba / Con i piat e con ‘l roulant».
53
«Il tremolo di natura emotiva [...] segnala l’aumento della tensione drammatica a
prescindere dal contesto situazionale in cui si trova»: cfr. MARCO BEGHELLI, La retorica del
rituale nel melodramma ottocentesco, Parma, Istituto nazionale di studi verdiani 2003, p.192.
54
Qui intesa come parte finale del Rondò: la palese vaghezza terminologica che ha da
sempre investito le strutture del rondò, della cabaletta e della stretta, portarono addirittura nel
corso dell’Ottocento alla confusione tra i termini rondò e cabaletta, per non parlare dell’ovvia
sineddoche che intercorre tra cabaletta intesa erroneamente quale sinonimo di “stretta” e non
come parte di essa. Sull’argomento si vedano MARCO BEGHELLI, Alle origini della cabaletta, in
L’ aere e fosco cit., pp. 593-630, e ANDREA CHEGAI, La cabaletta dei castrati. Attraverso le ‘solite forme’ dell’opera italiana tardosettecentesca, «Il Saggiatore musicale», X, 2003, n. 2, pp. 22.
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Personaggi
Scena
Verso
Incipit poetico
Tempo
Semiramide
16
Endecasillabi
E non lo vedo!
Allegro molto,
spinoso
Sem, Coro
Doppi quinari
(Coro),
Endecasillabo
Oh giorno
infausto!
Andante
<comodo
Sem, Timotèo
Versi sciolti
Oh come
scossa
Recitativo
E soccombo
all’orror
Allegro molto
Voglio perire
Agitato
Qual suono!
A tempo
Sem.
Settenari
Sem, Tm,
Mennone
17
Coro
Semiramide
Sem, Coro
Ah vane son
le lagrime
Ottonari
Voi guerrieri,
voi piangete?
Andante
col canto
Settenari
[Priva mio
ben di te]
Andante
sostenuto
Ottonari
No si salvi,
si difenda
Allegro
Semiramide
Dunque all’armi,
nel cimento
Sem, Coro
[Vieni poi nel
sen d’amore]
Allegro
maestoso
Dunque all’ armi,
nel cimento
Allegro
[Vieni poi nel
sen d’amore]
Allegro
maestoso
Semiramide
Sem, Coro
sezioni, A e B: la prima («Dunque all’armi, nel cimento») su ritmico scandire degli archi e coi fiati impegnati in brevi interpunzioni; la seconda, separata da A da un “Tutti” in fortissimo a piena orchestra e da una formula cadenzale, più cantabile ma altrettanto brillante su un distico assente in Rossi,
«Vieni poi nel sen d’amore / Caro sposo a respirar» (con cadenza conclusiva
ove interviene anche il Coro, «Vieni, andiam già n’arde il core») con Semiramide è impegnata in progressioni e salti di sesta (l’estensione vocale è di due
ottave piene, da Si2 a Si4); segue una sezione di raccordo affidata al Coro su
un fortissimo a piena orchestra, «Tu regina a noi sarai», ripresa dei versi
precedenti. Alla ripetizione in toto di A e B segue la conclusiva formula
cadenzale brillante di Semiramide (Coda), impegnata in un giro cromatico
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Metro
Tonalità
Sezioni musicali
Affetto
C
DO
0 - Scena
Introduzione
orchestrale +
A
Ansia di
Semiramide
Recitativo
3/4
la
Scena corale
B
Cordoglio dei
soldati
C
[FA]
Recitativo
C
Ansia di S.
[re]
Breve ponte
D
1 - T. d’attacco
A
Rassegnazione
di S.
[mi]
Marcia
B
Trepidazione
[si]
Coro
C
Cordoglio dei
soldati
3/4
MI
D
Ponte
Orgoglio
6/8
SOL
2 - Cantabile
(?)
Fragilità di S.
C
MI
3 - T.
di mezzo
Reazione dei
soldati
4 - Stretta
A
Eroismo
B
A’
B’
Coda
C
attorno ai gradi I-IV-V sottolineato dal Coro, che confluisce nel forte conclusivo a piena orchestra sulla formula cadenzale I-IV-I-V,55 iterata più volte. Le
pretese scenico-vocali della Marcolini56 dovettero sicuramente rimanere
soddisfatte dal trattamento loro riservato.
55
Cadenza che suole chiamarsi “felicità felicità felicità”, vedasi G. PAGANNONE, Tra
“cadenze felicità felicità felicità” e “melodie lunghe lunghe lunghe” cit.
56
Ben note già all’ epoca: «Se la Marcolini l’avesse richiesto, Rossini l’avrebbe fatta cantare a cavallo»; cfr. STENDHAL, Vita di Rossini; a cura di Mariolina Bongiovanni Bestini, introduzione di Bruno Cagli. Torino, EDT 1992, p. 34. Come in effetti avvenuto in un’aria aggiunta
per la ripresa bolognese del Quinto Fabio di Nicolini nel 1811. Vedasi anche nota 62.
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Si noti come la varietà della narrazione risulti ben più accentuata rispetto al Finale Primo, varietà non intesa solo come presenza dei personaggi in
scena, ma soprattutto come variazione degli ‘affetti’ in gioco, sottilmente in
bilico tra aspetto pubblico e privato dei tormenti di Semiramide. L’economia drammatica del brano rispetto al libretto originale di Rossi è stata stravolta dal compositore in tre punti: la cancellazione della quartina farsesca e
metateatrale di Timotèo «Sfogatevi, va bene / le pene sono pene / ma questa
morte in tragico / è affar d’antichità» per ovvie esigenze di pathos (nella
sezione 1-A), l’aggiunta di un intero episodio musicale su versi nuovi (2) e il
distico relativo alla Stretta «Vieni poi nel sen d’Amore / Lieto sposo a respirar » (3-B). Volendo difendere la concezione drammaturgica di Paini, il
primo e l’ultimo degli interventi hanno un perché giustificato: inserire un
commento sarcastico di Timotèo dopo lo struggente «Voglio perire anch’io»
avrebbe annullato l’effetto patetico della scena (rafforzato poi dalla supplichevole entrata del Coro con Mennone), mentre aggiungere un distico al
Rondò è operazione dettata sia dalla volontà di variare il testo sia dalle ovvie
motivazioni formali (la costruzione responsoriale solo-tutti del rondò).
Più problematica è l’inserzione di sana pianta della sezione 2, serrata
com’è tra la reazione d’orgoglio della protagonista ed il successivo (da lei
risvegliato) moto parallelo dei soldati, sua naturale e catartica conseguenza, che darà adito all’eroica Stretta. Questa quartina di settenari tronchi
(peraltro convenzionalissima, a metà tra lo stornello e la canzonetta metastasiana: «Priva, mio ben, di te / il duol m’ucciderà / A tanti affanni il cor
/ Soccomberà») è messa in musica in 26 semplici battute, su pendolare
ritmo ternario degli archi (simile a quello della nota «Ombretta sdegnosa
del Missipippì») trattata come arietta col «Da capo», ma che mostra
anch’essa i primi sintomi della lyric form:
4 battute
4 »
5 »
4 »
4+5 »
di introduzione orchestrale (archi)
primo e secondo verso (“Priva mio ben di te / Il duol m’ucciderà”) [A]
terzo e quarto verso B (“A tanti affanni il cor / Soccomberà”) [A’]
terzo e quarto verso
»
[B’]
di ripetizione integrale di A ed A’
Sorvolando sulle caratteristiche del tema e sulla leggera asimmetria
del numero di battute (riconducibile forse alla volontà di conferirle un
tono popolare),57 il nodo cruciale resta il suo significato drammatico; pur
57
JOHN PLATOFF, Myths and realities about tonal planning in Mozart’s operas, «Cambridge
Opera Journal», 1996, 1, pp. 3-15. Nel criticare l’high-level tonal planning da sempre ascritto al
teatro mozartiano, asseconda la tesi che vi siano delle convenienze musicali ricorrenti nella
rappresentazione di alcuni topoi caratteristici, come appunto l’uso del Sol maggiore per rifarsi
ad un’accezione contadina (ad es. il coro «Ricevete o padroncina» delle Nozze di Figaro, III, 11).
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non avendone le sembianze ritmico-melodiche antonomastiche, se la si
considera stasi riflessiva interiore di un’azione eminentemente pubblica
(e repentina dimostrazione della fragilità di Semiramide in una situazione
ove però ha appena dimostrato - e dimostrerà a breve - orgoglio da vendere),58 essa assume a tutti gli effetti le caratteristiche di un Cantabile
(soprattutto quanto a rarefazione del “tempo rappresentato” rispetto al
“tempo della rappresentazione”).59 Rossi aveva pensato ad un’aria in
quattro tempi priva di Cantabile;60 Paini ha invece sentito l’esigenza di
introdurre uno stacco tra le due sezioni che, oltre a fungere da breve stasi
lirica, rende ipso facto completa di tempo lento la «solita forma», pur
rallentando l’azione in scena in un punto cruciale: l’intento costruttivo
dunque prevale su quello narrativo.
Ad avvalorare questo intento nel presente numero dell’opera è il
confronto con un brano simile proveniente da un lavoro coevo come il
Rondò di Isabella ne L’Italiana in Algeri, creato dalla (e per la) Marcolini:61
58
«La peripezia che innesca l’adagio dopo il tempo d’attacco è tutta interiore, di certo
meno vistosa che nei numeri a più voci, nei quali suole scaturire dall’interazione fra i personaggi. Essa segna talvolta il passaggio da un atteggiamento pubblico (allocuzione rivolta ai presenti in scena) ad un ripiegamento su di sé (introspezione con frequente “fuga di notizie” verso lo
spettatore)»; cfr. S. LAMACCHIA, “Solita forma” del duetto o del numero cit., p.128.
59
CARL DAHLHAUS, Strutture temporali in Drammaturgia dell’opera italiana. Torino, EDT
2005, pp.61-72.
60
Forma prediletta da Rossi per le grandi arie a ridosso della conclusione tanto nel serio
(Gioachino Rossini, Tancredi, Gran scena «Or che dici », II,18; Semiramide, «In sì barbara
sciagura», II, 4; Giacomo Meyerbeer, Il crociato in Egitto, « Il dì rinascerà», II, 20-21) quanto
nel semiserio (Carlo Coccia, Clotilde, «Cara pace del mio core» II, 8; Gaetano Donizetti, Linda
di Chamounix, «A consolarmi affrettati», II, 7) e nella farsa (Gioachino Rossini, La cambiale di
matrimonio,«Vorrei spiegarvi il giubilo», scena 13; Pietro Generali, Adelina, «Quel suo tenero
sorriso», scena 13).
61
Per lei Rossini scrisse ben quattro rondò con coro in altrettante opere (Italiana, Sigismondo, Pietra ed Equivoco); ma già nel 1808 La dama soldato (Orlandi) e L’amante prigioniero (Bigatti) - entrambe da lei create alla Scala - prevedevano dei rondò con coro ad hoc che ne
facessero le qualità del carattere.
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mentre B è un misto di ira - per Taddeo - e affetto - per Lindoro); Rossini
Personaggi
Scena
Verso
Incipit poetico
Tempo
Metro
Tonalità
Sezioni
musicali
Coro
11
Ottonario
Pronti abbiamo
e ferri e mani
Allegro
maestoso
C
LA
1- Scena
Coro
A
Versi sciolti
Amici, in
ogni evento
A tempo
Recitativo
B
Settenario
Pensa alla patria
e intrepido
Moderato
2- T. d’attacco
A
Sciocco! Tu ridi
ancora?
Allegro
Ponte
B
Isabella
Isa, Coro
Andiam, di
noi ti fida
3 - T. di mezzo
Scena corale
Qual piacer tra
pochi istanti
4- Stretta
A
Isa, Coro
Nel periglio del
mio bene
B
Coro
Quanto vaglian
gli Italiani
C
[Crescendo]
Isa.
Qual piacer tra
pochi istanti
A’
Isa, Coro
Nel periglio
del mio bene
[Quanto vaglian
gli Italiani]
B’
Isa
Ottonario
C’
Coda
In Rossini la Stretta - come da prassi consolidata, ed esempio dalla
Gran scena di Clarice «Se per voi le care io torno» ne La pietra del paragone (1812), scritta sempre per la Marcolini 62 - si salda al Tempo di mezzo
dell’aria (B e B’): egli non ragiona sulla forma a priori, piegando invece il
libretto alle esigenze narrative del testo e della scena. Il Tempo d’attacco
è condotto di pari passo alla natura del testo: i settenari che lo costituiscono sono divisi in sezioni distinte dagli ‘affetti’ in gioco (A più eroico,
62
Autoimprestito da quello de L’equivoco stravagante, destinato ancora alla Marcolini,
causa primaria della fortunata scrittura di Rossini per la Scala nel 1812: «Dunque non è difficile ipotizzare che il germe iniziale ed il bozzolo da cui si sarebbe dipanata tutta la lunga trama
della Pietra del paragone sia stato proprio quello: il desiderio, da parte di una prima donna, di
recuperare la grande aria eroica del travestimento, inserendola [...] in altro contesto librettistico e musicale»;cfr. BRUNO CAGLI, La pietra e l’idolo, in La pietra del paragone, programma di
sala del “Rossini Opera Festival”, Pesaro 2002, p.17.
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appunto unifica Tempo di mezzo (intervento del coro) e Stretta, rendendo solida tutta l’aria vera e propria grazie ad un’unica variazione di
tempo.63 L’esatto opposto di Paini che, pur tendendo all’accorpamento di
più scene – con conseguente più ampia organizzazione del numero, come
prassi dell’epoca – 64 usa qui lo stesso espediente che prima aveva “salvato” il Finale Primo, la frammentazione agogico-tematica.
Non si vuole certo affermare che il maestro di Valera abbia assunto la
«solita forma» come modello e ad essa abbia sacrificato un poca di
coerenza drammatica e di ritmo scenico dell’aria; che egli però abbia ritenuto giusto inserire un Cantabile sui generis dove né il librettista l’aveva
previsto né il pubblico se lo sarebbe forse aspettato65 potrebbe essere
indice di un primitivo (e invero non pienamente riuscito) tentativo di
adeguamento di un numero ‘a solo’ a quella forma quadripartita, propria
più dei duetti, che proprio nei medesimi anni iniziava ad essere applicata
anche a brani solistici di particolare rilevanza drammatica, come il
presente.66
6. Paini...Renaissance?
Dopo i compiuti sforzi di ricomposizione biografica, trascrizione,
analisi musicale e drammaturgica, lo si può affermare in assoluta tranquillità ed onestà intellettuale: Paini era e rimane un autore di secondo piano.
Le sue innumerevoli e multiformi abilità (cantante, direttore d’orchestra,
compositore, forse versificatore occasionale), seppur avallate dalle testimonianze di autorevoli contemporanei e dalla presa in esame dei suoi
63
Ed anche grazie all’uso modulare del ponte C (tale escamotage si ritrova identico nel
citato «Se per voi le care io torno») , ove al secondo verso del distico («Al cimento si vedrà»),
a conclusione del crescendo, si ode lo stesso breve inciso che aveva già accompagnato il verso
«L’ardir trionferà!» conclusivo del Tempo di mezzo. Unità che nella prima intonazione del
soggetto (1808) nemmeno ha sfiorato Mosca: oltre a farne una semplice aria con coro (senza
cabaletta), egli appone ad ogni distico un motivo differente, l’antitesi della coesione. Per un
confronto tra le due intonazioni si rimanda a P. FABBRI - M.C. BERTIERI, L’Italiana in Algeri cit.
64
«Nel primo Ottocento il libretto operistico era dunque suddiviso in segmenti drammatici (scene), spesso accorpati dal compositore in più ampi blocchi musicali»; cfr. P. FABBRI,
Metro e canto nell’opera italiana cit., p. 119.
65
I quattro grandi rondò rossiniani prima citati sono tutti privi di Cantabile, segno che contrariamente ai duetti - non era prassi inserirlo in un numero a solo.
66
Sull’esempio del prototipico «Ah! Che sento ...o figli miei» dalla Medea in Corinto di
Romani-Mayr (1813), anche Rossini presto si adeguò: oltre alla citata «Or che dici » da Tancredi (1813), anche il Rondò di Almaviva «Cessa di più resistere» dal Barbiere di Siviglia (1816),
per tacere della quasi totalità dei lavori scritti per Napoli, che si concludono immancabilmente (salvo Otello ed Ermione per cause di morte prematura della protagonista) con un pirotecnico Rondò della primadonna (la Colbran).
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DANIELE TORELLI
lavori, non valgono a farlo assurgere al rango di musicista degno di una
personale rinascita presso i moderni (come accaduto in anni più o meno
recenti per Morlacchi, Paer o Generali, tanto per citarne alcuni),67 per il
semplice fatto che di rinomanza non ne godette già all’epoca. Sintomatico
di una condizione di sostanziale subalternità è il fatto che non uno dei
suoi lavori sia stato creato per le platee maggiori (Fenice, Scala, S. Carlo),
teatri che al contrario i Maestri a lui contemporanei hanno toccato almeno in un’occasione (per tacere di Parigi, meta destinata solo agli Astri
Maggiori).
Non è stato né un innovatore né un codificatore: nulla di questa Figlia
dell’aria sembra prova di qualsivoglia intenzione di «miracol» mostrare;
tuttavia è emersa la figura di un compositore attento al flusso musicale
contemporaneo e abile nel coniugare gli antichi stilemi di scuola napoletana con le nuove concezioni “oltramontane” portate da Rossini, e
soprattutto accorto a non farsi scavalcare da queste: un operista ancient
regime in grado di rivaleggiare (seppur solo sul cartellone) nella medesima stagione col Rossini buffo tuttora insuperato del Barbiere e dell’Italiana. La sua presunta fine romena in mezzo ai tumulti della rivoluzione
potrebbe farne addirittura un eroe romantico, che apprezzerebbe di
certo il semplice poter comparire come anonimo carneade accanto agli
altri illustri desaparecidos della dittatura rossiniana.
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Tra gli esempi, Francesco Morlacchi e la musica del suo tempo, (1784-1841), Atti del
Convegno internazionale di studi, Perugia 26-28 ottobre, a cura di Biancamaria Brumana,
Firenze, L. S. Olschki 1986, oppure Päer tra Parma e l’Europa, a cura di Paolo Russo, Venezia,
Marsilio 2008, o ancora ALBERTO GALAZZO, Pietro Mercandetti Generali: tra i barbassorri e gli
azzimati, Magnano, Musica Antica a Magnano 2009.