n° 37
Agosto 2016
Anno XIII
Direttore: Orazio Cancila
Responsabile: Antonino Giuffrida
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Il presente numero è a cura di Nicola Cusumano
Mediterranea - ricerche storiche
ISSN: 1824-3010 (stampa) ISSN: 1828-230X (online)
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Nel 2015 hanno fatto da referee per "Mediterranea - ricerche storiche" Marcella Aglietti (Pisa),
Joaquim Albareda Salvado (Barcelona), Stefano Andretta (Roma), Giovanni Assereto (Genova),
Nicoletta Bazzano (Cagliari), Carlo Bitossi (Ferrara), Giuseppe Bonaffini (Palermo), Mauro
Bondioli (Venezia), Salvatore Bono (Perugia), Lodovica Braida (Milano), Marina Caffiero (Roma),
Sandro Carocci (Roma), Piero Corrao (Palermo), Giovanna Lucia D'Amico (Messina), Michela
Del Borgo (Venezia), Piero Del Negro (Padova), Marina Formica (Roma), Francesco Gaudioso
(Lecce), José Antonio Guillén Berrendero (Madrid), Feza Günergun (Istanbul), Francois-Xavier
Leduc, Antonio Lerra (Potenza), Luca Lo Basso (Genova), Santiago Martínez Hernández
(Madrid), Marco Morin (Venezia), Aurelio Musi (Salerno), Walter Panciera (Padova), Bruno
Pellegrino (Lecce), Gianfranco Purpura (Palermo), Anna Maria Rao (Napoli), Ilaria Romeo
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Schwarz (Pisa), Angelantonio Spagnoletti (Bari), Maria Antonietta Visceglia (Roma).
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1. SAGGI E RICERCHE
Elena Sapienza
I processi matrimoniali della Curia Arcivescovile
di Palermo (1399-1410)
203
Rossella Cancila
Salute pubblica e governo dell’emergenza:
la peste del 1575 a Palermo
231
Marcos Rafael Cañas Pelayo
El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos
municipales andaluces. Un primer acercamiento
273
María López Díaz
La reforma del Consejo de Cruzada de 1745:
preámbulo de su desaparición
319
Nicoletta Bazzano
La leyenda negra continua...: la Sardegna viceregia
nella narrativa sarda fra secondo Novecento e nuovo millennio
353
2. FONTI
Maria Pia Pedani, Paola Issa
Il viaggio dell’arabo Ra‘d di Aleppo a Venezia (1654-1656)
375
3. RECENSIONI E SCHEDE
Elisa Bianco
La Bisanzio dei lumi. L’impero bizantino nella cultura francese
e italiana da Luigi XIV alla Rivoluzione (Andrea Ferruggia)
401
Cesarina Casanova
Per forza o per amore. Storia della violenza familiare
nell’età moderna (Valeria Cocozza)
407
Guido Candiani
Dalla galea alla nave di linea. Le trasformazioni della marina veneziana
(1572-1699) (Emiliano Beri )
n. 37
Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIII - Agosto 2016
ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online)
411
199
Indice
Fabrizio D’Avenia
La Chiesa del re. Monarchia e Papato nella Sicilia spagnola
(secc. XVI-XVII) (Diego Pizzorno)
414
E. Novi Chavarria (a cura di)
Ecclesiastici al servizio del Re tra Italia e Spagna (Daniele Palermo)
417
G. Foscari
La gran machina della sollevatione. Due città e un capopopolo
nella rivolta di Masaniello (1647-1648) (Daniele Palermo)
420
L. Braida
S. Tatti (a cura di), Il Libro. Editoria e pratiche di lettura
nel Settecento (Antonino Giuffrida)
422
Marcella Aglietti
L’istituto consolare tra Sette e Ottocento. Funzioni istituzionali,
profilo giuridico e percorsi professionali
nella Toscana granducale (Paolo Calcagno)
426
Emiliano Beri
Genova e La Spezia da Napoleone ai Savoia. Militarizzazione
e territorio nella Liguria dell’Ottocento (Matteo Barbano)
431
G. Ferraro
Il prefetto e i briganti. La Calabria e l’unificazione italiana
(1861-1865) (Francesco Corigliano)
4. GLI AUTORI
200
433
435
201
Elena Sapienza
I PROCESSI MATRIMONIALI DELLA CURIA ARCIVESCOVILE
DI PALERMO (1399-1410)*
DOI: 10.19229/1828-230X /37112016
SOMMARIO: I processi matrimoniali dei tribunali ecclesiastici costituiscono una fonte storica particolarmente interessante per chi desidera indagare determinati aspetti della storia sociale. Il
presente saggio intende puntare l’attenzione su questa tipologia di fonte che, rispetto a studi
condotti sugli archivi diocesani europei e dell’Italia settentrionale, in area mediterranea è ancora
poco indagata. Vengono quindi proposti, seguendo le diverse tipologie e privilegiando la dottrina
giuridica, alcuni casi di conflittualità coniugale portati innanzi alla Curia Arcivescovile di Palermo
nel primo decennio del XV secolo, senza trascurare il contesto storico istituzionale dell’Arcidiocesi
palermitana che, in quegli anni, viveva di riflesso la lacerazione della Chiesa a seguito dello
Scisma d’Occidente.
PAROLE CHIAVE: Medioevo, cause matrimoniali, tribunali ecclesiastici, Palermo, XV secolo.
PALERMO ARCHBISHOP’S COURT MATRIMONIAL CASES (1399-1410)
ABSTRACT: Marital trials of ecclesiastical courts account for a highly interesting historical source for
scholars aimed to investigate certain aspects of social history. This essay aims at focusing on such
kind of archival source that is still poorly analysed in the Mediterranean area, compared to the studies
carried out on European and North Italian diocesan archives. Thus, hereunder we highlight some
cases of conjugal conflict taken before Palermo Archbishop’s Curia in the first decade of the XV
century, following the various typologies and preferring jurisprudence, without neglecting the historical
institutional context of the Palermitan Archdiocese, which at that time lived the repercussions of Church
laceration after the Western Schism.
KEYWORDS: Middle Ages, matrimonial cases, ecclesiastical courts, Palermo, XV century.
Premessa
L’uso dei processi matrimoniali come fonte per la storia è stato rivalutato, sotto il segno della storia sociale, a partire dagli anni Ottanta del Novecento. Grande merito nella valorizzazione dei processi
matrimoniali in ambito storico va attribuito alla storiografia di lingua
inglese e in particolare alla monografia di Richard Helmholz sulla
conflittualità matrimoniale fra la seconda metà del XIII e la fine del
XV secolo1.
Gli studi mitteleuropei, di lingua tedesca e confessione protestante,
hanno rivolto l’attenzione alla ricostruzione storica dell’azione dei tri-
* Abbreviazioni utilizzate: Asp = Archivio di Stato di Palermo; Cp = Corte Pretoriana;
Ma = Miscellanea Archivistica.
1
R. Helmholz, Marriage Litigation in Medieval England, Cambridge University Press,
1974.
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Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIII - Agosto 2016
ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online)
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Elena Sapienza
bunali e al tema del divorzio, inteso come scioglimento del vincolo matrimoniale, mostrando poco interesse per la dimensione patrimoniale
dei rapporti coniugali e, di contro, una tendenza a leggere i registri dei
tribunali matrimoniali come fonti per la storia delle donne e della trasgressività sessuale.
L’Italia ha avviato i primi progetti di ricerca sul tema solo a metà
degli anni Novanta del Novecento2. Senza trascurare la connessione
con la storia delle donne e l’attenzione alla sessualità trasgressiva e
alla coniugalità deviante, gli studi italiani hanno riportato l’analisi anche sul piano istituzionale, focalizzando la dimensione normativa, processuale e patrimoniale, tanto quanto la sfera dei sentimenti e della
storia religiosa.
Il mio lavoro intende porsi sul solco degli studi italiani sul tema,
utilizzando gli atti processuali della Curia Arcivescovile di Palermo.
L’obiettivo, oltre alla conoscenza dei singoli casi processuali, è fare
luce sulla realtà della Curia Arcivescovile cittadina, sulla struttura e
sul funzionamento del suo tribunale, sulla cultura giuridica dei suoi
componenti; indagare le consuetudini nuziali a livello locale, osservare
l’uso che uomini e donne facevano del tribunale e delle risorse giuridiche loro offerte per risolvere i propri conflitti.
La realtà dei processi dei tribunali ecclesiastici è ancora poco indagata in area mediterranea; per quanto riguarda la Sicilia, è probabile
che ciò sia dovuto alla carenza di materiale archivistico di età medievale
negli archivi diocesani dell’Isola. Palermo non fa eccezione: le carte
medievali nell’Archivio Storico Diocesano sono infatti quasi del tutto
assenti, a parte il Tabulario della Cattedrale e le raccolte dei privilegi3.
2
Riveste particolare interesse quel filone di studi sui processi matrimoniali dei tribunali ecclesiastici avviato nel 1996 da un gruppo di studiosi di diverse nazionalità,
promosso dall’Istituto storico italo-germanico di Trento (oggi Centro per gli studi storici
italo-germanici) e dall’Università di Trento, che ha condotto una schedatura sistematica
dei processi matrimoniali di alcuni archivi vescovili italiani, estendendo poi la scelta documentaria ad altre tipologie di fonti e diversificando l’indagine fino a comprendere, in
chiave comparativa, i processi matrimoniali di tribunali non italiani. Il prodotto di tali
ricerche multidisciplinari e dei seminari sono i preziosi quattro volumi della serie I processi matrimoniali degli archivi ecclesiastici italiani, a cura di Silvana Seidel Menchi e
Diego Quaglioni. Questi i titoli delle pubblicazioni della serie: I. Coniugi nemici. La separazione in Italia (secoli XII-XVIII), Il Mulino, Bologna, 2000; II. Matrimoni in dubbio. Unioni
controverse e nozze clandestine in Italia dal XIV al XVIII secolo, Il Mulino, Bologna, 2001;
III. Trasgressioni. Concubinato, adulterio, bigamia (secoli XIV- XVIII), Il Mulino, Bologna,
2004; IV. I tribunali del matrimonio (secoli XV-XVIII), Il Mulino, Bologna, 2007.
3
Sull’archivio diocesano, cfr. F.M. Stabile, La storia della Chiesa di Palermo dai suoi
documenti, in G. Travagliato (a cura di), Storia & Arte nella scrittura. L’archivio Storico
Diocesano di Palermo a 10 anni dalla riapertura al pubblico (1997-2007). Atti del Convegno
internazionale di Studi, Palermo 9 novembre 2007, Edizioni Associazione Centro Studi
Aurora Onlus, 2008, pp. 39-49.
204
I processi matrimoniali della Curia Arcivescovile di Palermo (1399-1410)
Tale carenza rende difficile non solo la ricostruzione dei processi matrimoniali, ma dell’intera storia della Chiesa locale.
Le fonti da me utilizzate sono state il registro n. 3995 della Corte
Pretoriana di Palermo, serie Esecuzioni e Missioni, e il n. 269 ter del
fondo Miscellanea Archivistica, serie I4, conservate presso l’Archivio di
Stato di Palermo. La mia analisi, per quanto limitata alla sola Curia
palermitana, vuole essere un punto di partenza e magari uno spunto
per ulteriori ricerche sul tema.
Il Tribunale ecclesiastico
L’analisi dei processi matrimoniali della Curia Arcivescovile palermitana non può prescindere dal contesto storico-istituzionale e
dalle strette relazioni fra potere politico e potere ecclesiastico, che
giocavano un ruolo determinante nel definire le politiche ecclesiastiche e le relative nomine5. Le vicende dell’arcivescovato erano strettamente intrecciate a quelle del papato che dal 1378 viveva l’esperienza del grande scisma. La presenza di due papi non determinava
solo l’esistenza di due collegi cardinalizi, ma soprattutto una lotta di
politica ecclesiastica che si giocava all’interno delle singole diocesi.
La Chiesa siciliana6 era lacerata e la situazione ecclesiastica confusa,
visto che si obbediva contemporaneamente al papa romano Bonifacio
IX e ai Martini, si sovrapponevano provvedimenti pontifici, regi e
diocesani, spesso contrastanti7. Come nella classe dirigente siciliana,
nella gerarchia ecclesiastica avvenivano sostituzioni e nomine di vescovi catalani obbedienti ad Avignone. Il governo aragonese esercitava
il suo controllo sull’episcopato e sulla Chiesa locale anche attraverso
4
Solo il Quaternus registri litterarum presenta carte numerate con numerazione moderna da 1 a 11; le altre carte non presentano numerazione e sono state da me numerate
e indicate, per motivi praticità, in base all’ordine successivo in cui sono rilegate.
5
Geneviève Bresc Bautier divide idealmente la storia ecclesiastica siciliana in tre
periodi: il tempo delle incoronazioni, che aveva conosciuto una forte partecipazione della
Cattedrale palermitana alla resistenza e all’affermazione nazionale; il tempo dei pastori,
cioè di vescovi in parte scelti da Avignone e quindi espressione della politica beneficiale
pontificia; infine il tempo dei viceré che avrebbe visto la Sicilia integrata dalla monarchia
castigliana nella Sacra Corona di Aragona (G. Bresc Bautier, La Cattedrale nella società
palermitana dal 1300 al 1460, in L. Urbani (a cura di), La cattedrale di Palermo. Studi
per l’ottavo centenario della fondazione, Sellerio, Palermo, 1993, pp. 123-132).
6
Sulla Chiesa in Sicilia durante lo scisma, cfr. S. Fodale, Alunni della perdizione.
Chiesa e potere in Sicilia durante il grande scisma (1372- 1416), Istituto Storico Italiano
per il Medio Evo, Nuovi Studi Storici n. 80, Roma, 2008.
7
Sul pontificato di Bonifacio IX e i suoi rapporti con la Sicilia, cfr. S. Fodale,
Documenti del pontificato di Bonifacio IX (1389-1404). Documenti sulle relazioni tra la
Sicilia e il Papato tra Tre e Quattrocento, Ila Palma, Palermo, 1983; Id., Alunni della perdizione cit., pp. 445-463.
205
Elena Sapienza
il controllo del Capitolo della Cattedrale palermitana, modificandone
la composizione8.
Il Tribunale Arcivescovile di Palermo era dunque solo formalmente
autonomo dal potere regio, visto che i suoi componenti erano nominati
dall’autorità ecclesiastica; a presiederlo era l’arcivescovo o il suo vicario
assistito da un giudice assessore e da un notaio. I processi venivano
celebrati nel palazzo arcivescovile e terminavano con la pubblica lettura
della sentenza nel palazzo stesso o nell’atrio della Cattedrale. I casi
processuali più comuni erano per lo più scioglimento di matrimoni,
controversie ereditarie e restituzione di oggetti, esecuzioni, possesso
di benefici e scioglimento di censi.
L’arcivescovo di Palermo, scelto dal re d’Aragona nel maggio del
1400, in contrasto con il figlio Martino, re di Sicilia, era il nobile ecclesiastico catalano Giovanni da Procida9. Questi risulta impegnato, il 30
luglio 1408, nella causa sul presunto matrimonio fra Giovanna de
8
Le carte processuali qui analizzate presentano alcuni personaggi del Capitolo della
cattedrale palermitana. Tra i canonici fedeli ai Martini segnalo Simone Rosso, presente,
il 16 novembre 1407, in Maiori Ecclesia panormitana, alla lettura della sentenza, emessa
da Rainaldo de Buxia, canonico e vicario della Cattedrale di Palermo, che dichiara nullo
il matrimonio tra Floria, figlia del notaio Simone de Lanselloctis di Trapani, e Onofrio de
Fasana della stessa terra (Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, c. 42v). La stessa
sentenza veniva letta dinnanzi a Giovanni de Pontecorona, ciantro Maioris Ecclesie Panormi, che sappiamo citato, sette anni prima, presso la Curia Arcivescovile di Palermo
da Aloisio de Virdina, fratello ed erede del defunto canonico e cantore della Cattedrale
Paolo, a causa del prestito di denaro pro certis bullis fatto da quest’ultimo in favore del
Pontecorona (P. Sardina, Palermo e i Chiaromonte: splendore e tramonto di una signoria.
Potere nobiliare, ceti dirigenti e società tra XIV e XV secolo, Sciascia Editore, Caltanissetta
- Roma, 2003, p. 75). Il documento del 10 luglio 1409 (Asp, Cp, Esecuzioni e missioni,
reg. 3995, c.78v) riguardante la curatela dei beni di Nicolò Caruso, prigioniero dei Saraceni, ci presenta invece Guglielmo de Graciano, prepositus della maramma della Cattedrale di Palermo. Su Guglielmo de Graciano, cfr. P. Sardina, Il ruolo della Cattedrale di
Palermo e la gestione della maramma dal Vespro alla morte di Alfonso V (1282-1458), in
G. Travagliato (a cura di), Storia & Arte nella scrittura cit., pp. 160-161.
9
Giovanni da Procida si recava in città solo l’anno successivo, senza però avere ottenuto la consacrazione canonica che, secondo gli accordi conclusi dal re di Sicilia con
i Palermitani, avrebbe dovuto ricevere da Bonifacio IX, non dal papa avignonese Benedetto
XIII, del quale era sostenitore. Pronto ad abbandonare la Sicilia, nel 1407 chiedeva al
papa avignonese l’assoluzione per l’elezione, de facto e non de iure, ad arcivescovo di Palermo, in modo da regolarizzare la sua posizione. Ottenuto il perdono del papa e la donazione dei redditi episcopali già percepiti, venne da questi riconfermato arcidiacono di
Elne, a condizione di rinunciare all’amministrazione di Palermo. Adirati dal fatto che
Giovanni da Procida fosse tornato all’obbedienza avignonese, i canonici palermitani e il
Capitano di Palermo nel 1408 consideravano vacante l’arcivescovato, poiché non aveva
ricevuto la consacrazione dal papa romano. Nel 1410 Giovanni da Procida abbandonava
Palermo per entrare nella Curia di Benedetto XIII come notaio apostolico (S. Fodale, Palermo e il capitolo della sua cattedrale dal Vespro al Viceregno (1282-1412), «Archivio
storico del Sannio», I (1996), pp. 351-354). Su Giovanni da Procida, cfr. R. Pirri, Sicilia
sacra, disquisitionibus et notitiis illustrata, r. a. Forni, Sala Bolognese, 1987, vol. I, pp.
167-168.
206
I processi matrimoniali della Curia Arcivescovile di Palermo (1399-1410)
Montecuttulo e Benedetto de Bonamico10. La donna sosteneva di essere
moglie del Bonamico, il quale però negava. La Curia Arcivescovile le
concedeva sei mesi per presentare le prove del presunto matrimonio.
La presenza dell’arcivescovo è confermata nella narratio di un’altra
sentenza del 14 novembre 1409, relativa al medesimo caso, in cui si
ricordava che la donna era convenuta dinnanzi al «domino Iohanne de
Procida, archiepiscopo panormitano, in suo palacio et in eius episcopali
curia coram eius vicario et iudice pro tribunali sedentibus et dictam
curiam more solito regentibus»11. Il 10 ottobre 1409 Giovanni da Procida, «electus in archiepiscopatu maioris ecclesie Panormi», assolveva,
nel palazzo arcivescovile, Agata de Pagano dall’accusa di adulterio e
duplice matrimonio mossa dal marito Antonio de Sirina di Bivona, per
mancanza di prove, dicendosi però disposto a rendere giustizia all’accusatore12.
I casi di adulterio erano molto frequenti; in particolare quelli commessi per insultum vel violenciam dovevano essere puniti sia dal tribunale ecclesiastico sia dalle istituzioni laiche, mentre le controversie relative ai chierici erano sottoposte alla competenza del foro ordinario
per le cause secolari. Il foro giudicava secondo il diritto canonico, riveduto e corretto dai decreti papali, e il suo iter processuale seguiva la
tradizione del diritto romano. La denuncia veniva registrata e si dava
inizio al processo con l’avviso di convocazione delle parti in curia, chiarendone le motivazioni; il giudice poteva ordinare la carcerazione preventiva, era tenuto al rispetto delle regole della pubblicità del giudizio,
del dibattimento pubblico fra accusa e difesa, dell’ascolto pubblico dei
testimoni. Ricevuta la notifica della convocazione dinnanzi al giudice,
attore e convenuto dovevano presentare le prove di accusa o di difesa
e nominare i testimoni che spesso, alla fine del giudizio, erano poi
anche i fideiussori della pena13.
La Corte Arcivescovile palermitana godeva del doppio grado di giudizio: di prima istanza per le cause della propria diocesi e di seconda
istanza per gli appelli contro sentenze emesse dai tribunali delle diocesi
suffraganee di Agrigento, Mazara e Malta. Il sistema giurisdizionale ec-
Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, c. 26 r.
Ivi, cc. 118 r-119 r.
12
Ivi, c. 146 r.
13
B. Pasciuta, In regia curia civiliter convenire. Giustizia e città nella Sicilia Tardomedievale, Giappichelli, Torino, 2003, p. 221. Sull’iter processuale, cfr. M.S. Messana, Rito
ordinario e rito sommario nei tribunali ecclesiastici in Sicilia, in G. Travagliato (a cura di)
Storia & Arte nella scrittura cit., pp. 111-140. Sulle pratiche di negoziazione come strumento di soluzione dei conflitti matrimoniali e sulle funzioni dei giudici, cfr. D. Lombardi,
Giustizia ecclesiastica e composizione dei conflitti matrimoniali (Firenze, secoli XVI-XVIII),
in S. Seidel Menchi, D. Quaglioni (a cura di), I Tribunali del matrimonio (secoli XV-XVIII),
Il Mulino, Bologna, 2007, pp. 578-591.
10
11
207
Elena Sapienza
clesiastico era dunque gerarchico: le sentenze emanate dai tribunali
delle varie diocesi del Val di Mazara potevano essere appellate presso
la Curia Arcivescovile di Palermo e, a sua volta, l’ultima fase di appello
faceva capo al sommo Pontefice. Proprio quest’ultima possibilità, che
si riscontra in Sicilia già a fine XIV secolo, contrastava con le prerogative
concesse al re di Sicilia quale legato apostolico e per questo si cercava
di evitarla; era interesse della monarchia aragonese ripristinare l’effettiva funzione dell’Apostolica Legazia14 al fine di subordinare la giurisdizione spirituale al proprio potere15.
La Curia Arcivescovile faceva spesso ricorso a giuristi esterni, anche
appartenenti alle sfere del sistema giudiziario laico. Stupisce la trascrizione di atti del Tribunale Arcivescovile su un registro16 della Corte
Pretoriana, tribunale civile palermitano; tale anomalia trova probabile
spiegazione nei rapporti che intercorrevano fra i due tribunali e nella
circolazione degli operatori di giustizia fra le due giurisdizioni17.
La sentenza di nullità del matrimonio tra Floria, figlia del notaio Simone de Lanselloctis di Trapani, e Onofrio de Fasana, ci offre un buon
esempio di quanto appena detto; la sentenza è lata lecta et pronunciata
alla presenza anche di alcuni personaggi non direttamente legati al
clero, ma attivi nell’amministrazione giudiziaria cittadina: il dominus
Ruggero de Birliono, legum doctor, il dominus Giovanni de Solibona
dictus Camberlingus, i notarii Migliore e Giovanni de Lippo18.
14
Cfr. S. Fodale, L’apostolica legazia e altri studi tra Stato e Chiesa, Sicania, Messina,
1991; Id., Stato e Chiesa dal privilegio di Urbano II a Giovan Luca Barberi, in R. Romeo
(a cura di), Storia della Sicilia, III, Napoli 1980, pp. 575-600; Id., Legazia Apostolica, in
Enciclopedia Federiciana (2005), sul web: http://www.treccani.it/enciclopedia/legaziaapostolica_(Federiciana)/.
15
A. Giuffrida, La giustizia nel medioevo siciliano, U. Manfredi editore, Palermo,
1975, pp. 98-103; sulla riforma istituzionale del tribunale ecclesiastico in età moderna
e il suo archivio, cfr. M. Messina, Gli archivi dei due uffici della Magna Curia Archiepiscopalis di Palermo: l’Offizio della Gran Corte Arcivescovile e il Tribunale della Visita, in G.
Travagliato (a cura di) Storia & Arte nella scrittura cit., pp. 201-245.
16
Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995.
17
Il fatto che, in assenza del vicario, il foro ecclesiastico trovasse appoggio in quello
ordinario civile – o quantomeno nella sua cancelleria – testimonia un saldo legame fra i
due fori, del quale non vi è traccia in alcuna normativa, ma che evidentemente era legittimato dalla prassi e non richiedeva alcuna particolare spiegazione lì dove tale commistione avveniva (B. Pasciuta, Scritture giudiziarie e scritture amministrative: la cancelleria
cittadina a Palermo nel XIV secolo, «Reti Medievali Rivista», IX (2008), pp. 16-17). Sull’argomento, cfr. anche B. Pasciuta, In regia curia cit., pp. 221-222.
18
Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, c. 42v. Su Ruggero de Berliono, cfr. P.
Corrao, Governare un regno. Potere, società e istituzioni in Sicilia fra Trecento e Quattrocento, Napoli, 1991, p. 534; M. Moscone, Notai e giudici cittadini dai documenti originali
palermitani di età aragonese (1282-1391), «Quaderni della Scuola di Archivistica Paleografia e Diplomatica dell’Archivio di Stato di Palermo – Studi e strumenti», VI, Palermo,
2008, p. 232; A. Romano, Legum doctores e cultura giuridica nella Sicilia aragonese. Tendenze, opere, ruoli, Milano 1984, pp. 77 e 102, n.189.
208
I processi matrimoniali della Curia Arcivescovile di Palermo (1399-1410)
In tre processi esaminati figura, quale giudice assessore del vicario
della Cattedrale Rainaldo de Buxia, il giudice Federico de Vaccarella,
iuris civilis professor19. Ad assistere alla lettura della sentenza di nullità
del matrimonio di Allegranza de Silente de Salem e Antonio de Messana
troviamo invece i notai Giovanni de Iudice Facio e Vittorino Blundo20.
Nei documenti studiati compaiono anche alcuni servientes della Corte
Pretoriana (il personale a disposizione dell’ufficio giudiziario addetto
alla materiale esecuzione delle decisioni del tribunale): Guglielmo,
Chicco e Tommaso Ferrarius, Bernardo de Ramundecta21 e Filippo de
Naso22. I servientes, oltre alla mansione esecutiva, spesso venivano
nominati d’ufficio come tutori, curatori dei beni o rappresentanti legali
di convenuti assenti e dunque intervenivano direttamente in giudizio.
Le cause matrimoniali della Curia Arcivescovile di Palermo (1399-1410)
I processi matrimoniali analizzati coprono un arco cronologico compreso fra il 1399 e il 1410; i due registri oggetto di studio non riportano
i fascicoli processuali, per cui spesso s’ignorano i motivi di certe decisioni. Le cause matrimoniali riguardano diverse materie, per lo più
nullità, accertamenti su matrimoni incerti, richieste di annullamento
di sponsalia, accuse di adulterio e bigamia. L’analisi procede seguendo
le diverse tipologie e privilegiando la dottrina giuridica.
Il registro n. 3995 della Corte Pretoriana contiene cinquantaquattro
documenti relativi all’ambito delle dispute matrimoniali; da un punto
di vista formale si individuano le seguenti tipologie: ventotto fideiussioni,
diciotto cedole, quattro sentenze, tre esecuzioni23, una contumacia24.
I documenti relativi a processi matrimoniali nel registro n. 269 ter
della Miscellanea Archivistica sono invece undici, tutti contenuti nel
19
Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, cc. 42v-43v. Il ricorso del foro ecclesiastico a giudici del foro laico trova qui conferma: il giudice Federico de Vaccarella, iuris
peritus, nell’anno 1389-90 era infatti sostituto del Giudice in carica della Corte Pretoriana,
incarico quell’anno ricoperto da Ruggero de Birliono, nella controversia fra Nicola Blundi
e Francesco de Nicolao (B. Pasciuta, In regia curia cit., pp. 139 e 305; M. Moscone, Notai
e giudici cittadini cit., p. 189).
20
Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, c. 43r. Giovanni de Iudice Facio era
«imperiali auctoritate ubique iudex ordinarius ac archiepiscopali in urbe Panormi et
tota eius dyocesi publicus notarius». Fra i notai più attivi come procuratori per i giudizi
della Corte Pretoriana, con ogni probabilità apparteneva alla famiglia di origini lentinesi
che annoverava fra gli altri i notai Simone de Iudice Facio e Catone de Iudice Facio de
Panormo, oltre ai giudici Fazio de Lentino e Fazio de Iudice Facio, rispettivamente padre
e figlio di Simone (M. Moscone, Notai e giudici cittadini cit., pp. 100-101).
21
Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, cc. 9v; 118r-119r; 119v; 120v.
22
Ivi, cc. 26v e 88r.
23
Ivi, cc. 4r e 9v.
24
Ivi, c. 88r.
209
Elena Sapienza
registro delle cedole. Dal punto di vista del contenuto si tratta di
quattro cause riguardanti l’annullamento di matrimonio (per crudeltà
del marito o contratti per vim e metum), due annullamenti di sponsalia,
due accertamenti di avvenuto matrimonio, un accertamento della legittimità del matrimonio contratto fra affini, una causa per ritorno al
tetto coniugale della moglie ed una per il rispetto degli obblighi contrattuali del matrimonio (consegna della sposa e della dote).
La dottrina del consenso e gli usi nuziali in Sicilia
Il matrimonio del tardo medioevo era un matrimonio per tappe, un
percorso, non un evento istantaneo e puntuale; era pertanto difficile
situare in un momento preciso l’inizio del vincolo coniugale. Gli usi e i
riti del matrimonio medievale erano variabili nel tempo e nello spazio,
quindi presentavano diversi caratteri regionali. La Chiesa dei primi secoli aveva legiferato poco sul matrimonio, accettando la nozione giuridica del consensualismo romano.
Nel XII secolo i tribunali ecclesiastici e lo stesso tribunale papale
dovettero affrontare il problema della definizione del matrimonio e della
sua validità. La disputa verteva tra la dottrina del consenso e quella
fondata sulla consumazione quale elemento essenziale per la pienezza
del matrimonio. Era opinione diffusa che il matrimonio non consumato
fosse incompleto, tanto che la Chiesa provvide ad accettare l’annullamento in caso di impotenza coeundi. Essa però non poteva affermare
che il matrimonio non consumato fosse imperfetto, perché avrebbe
sminuito quello di Giuseppe e Maria, cioè il matrimonio perfetto25.
I teologi francesi, partendo dalle Sentenze di Pietro Lombardo, dimostravano interesse per il matrimonio come sacramento, cioè come
unione di Cristo con la sua Chiesa, presentando un’esposizione completa della teologia del matrimonio e apportando un contributo essenziale alla dottrina della conclusione del contratto matrimoniale26.
Il punto di vista espresso da Pietro Lombardo e dai teologi francesi ripristinava il concetto di fidanzamento (sponsalia) dimenticato da tempo
e ignorato dai canonisti, che continuavano a parlare di desponsatio,
termine ambiguo che, indicando sia la promessa che il contratto di
matrimonio, dava luogo a inevitabili problemi. La soluzione dei teologi
fu quella di distinguere tra le parole del consenso presente (verba de
presenti), dopo le quali non era più possibile contrarre matrimonio
con altri, e le parole del consenso futuro (verba de futuro) che sanci-
25
26
210
C. Brooke, Il matrimonio nel Medioevo, Il Mulino, Bologna, 1991, pp. 135-145.
J. Gaudemet, Il matrimonio in occidente, Sei, Torino, 1989, pp. 33-35 e 132-134.
I processi matrimoniali della Curia Arcivescovile di Palermo (1399-1410)
vano solo la promessa di matrimonio. Il consenso, da solo, non il
coito, rendeva valido un matrimonio, nei termini della sua forma presente. La rottura del fidanzamento comportava sanzioni religiose, ma
era possibile, come possibile rimaneva contrarre un altro matrimonio.
Papa Alessandro III non considerava invece i verba de futuro come
promessa ma come matrimonium initiatum, che diventava ratum dopo
la consumazione27.
Le due diverse posizioni sulla validità e sull’inizio del matrimonio
avevano una certa importanza anche rispetto al tema della separazione
(il matrimonium initiatum era solvibile, quello ratum no), pur mancando
ancora una coerente disciplina dell’istituto. Alla fine del XII s’imponeva
la distinzione proposta dai teologi francesi: fu così che la legge sulla
validità del matrimonio venne fissata, ponendo il consenso alla base
del vincolo. Il trionfo del consensualismo creava non pochi problemi ai
tribunali ecclesiastici che erano chiamati a decidere se il consenso
fosse stato dato, se le parole avessero stabilito un contratto indissolubile o meno28.
La difficoltà era accentuata dal fatto che non c’era bisogno di alcuna
cerimonia pubblica per rendere valido il matrimonio; oltretutto l’importanza data al consenso poneva problemi circa la reale libertà degli
sposi e il loro libero consenso, visto che grande ruolo avevano le
famiglie nell’accordo matrimoniale. Le donne spesso reagivano o cercando di annullare il matrimonio davanti al tribunale ecclesiastico o
rifugiandosi in convento o facendo voto di castità per sfuggire alla politica matrimoniale della famiglia29.
Il matrimonio si configurava quindi, grazie all’apporto di teologi e
canonisti, come sacramento e contratto al contempo. Gli sposi fungevano ora da ministri del sacramento che stavano celebrando. La Chiesa
coniugava così la tradizione consensualista romana, che faceva dei
coniugi gli unici attori del contratto matrimoniale, con la propria teologia: lo scambio delle parole di consenso diventava il settimo sacramento della Chiesa e la benedizione delle nozze si riduceva invece a
rito secondario. Se infatti la scelta consensualista dava la possibilità
di presentare come perfetta l’unione non consumata di Maria e Giuseppe, aveva come conseguenza il fatto che non fosse il prete, con la
27
J. Goody, Famiglia e matrimonio in Europa. Origini e sviluppi dei modelli familiari
dell’Occidente, Mondadori, Milano, 1984, pp. 173-175.
28
G. Marchetto, Il divorzio imperfetto. I giuristi medievali e la separazione dei coniugi,
Il Mulino, Bologna, 2008, pp. 43-50. Sull’apporto di decretisti e teologi e sulle diverse
prospettive della Scuola bolognese e di quella parigina, cfr. E. Vitali, S. Berlingò, Il matrimonio canonico, Giuffrè, Milano, 2012, pp. 4-12.
29
C. Opitz, La vita quotidiana delle donne nel tardo medioevo (1250-1500), in G.
Duby, M. Perrot, Storia delle donne in Occidente. Il Medioevo, a cura di C. KlapischZuber, Laterza, Roma-Bari, 1990, pp. 337-340.
211
Elena Sapienza
celebrazione, a formare il vincolo matrimoniale: l’unione era valida anche senza la sua benedizione30.
In Sicilia la celebrazione del matrimonio prevedeva un rituale religioso
in facie ecclesie. La legge XXII (De maritandis ordinis) delle Constitutiones
Regni Sicilie31 distingueva i due atti solenni e costitutivi del matrimonio,
sponsalia e matrimonium, e prescriveva che dopo il fidanzamento (ossia
la promessa per verba de futuro) il matrimonio venisse celebrato solennemente e pubblicamente, secondo le forme richieste e con la benedizione del sacerdote. Coloro che non seguivano le disposizioni non contraevano iuxtae nuptiae. Le cerimonie seguivano dunque tali leggi,
mentre gli interessi dei coniugi erano retti dalla consuetudine32. A volte,
dopo il fidanzamento, potevano essere adottate misure precauzionali
per preservare la verginità della fanciulla ed evitare che si impegnasse
con un altro uomo; è il caso di Domenica de Sancto Philadello: il padre
della ragazza, Giovanni, era morto e Domenica era stata trasferita al
monastero di Santa Maria di Valverde di Palermo. Guccione Favata e
Luca Cacthano il 26 febbraio 1410 prestavano fideiussione dinnanzi
alla Curia Arcivescovile di Palermo, perché la ragazza non contraesse
matrimonio con alcun altro, sotto pena di cinquanta onze33.
Con il tempo l’andare in chiesa cadde in disuso, tanto che si cercò
di rimediare proibendo ai preti di recarsi nelle case per i matrimoni.
Nel XV secolo a Palermo, dove prevalse il rito latino, fu accolta una
terza cerimonia (oltre gli sponsalia e il matrimonium), tipica del rito
greco e che rimase a lungo: quella di portarsi, dopo il matrimonio, in
chiesa solennemente per un’ulteriore benedizione. Dunque gli atti costitutivi del matrimonio palermitano erano tre: jurari, ossia il giuramento, la promessa; ingagiari, cioè mettere l’anello al dito, quindi il
matrimonio vero e proprio (dalla wadia germanica); spusari, ovvero recarsi in chiesa34.
I rituali non erano condizione per la validità del matrimonio e non
sempre consentivano di distinguere tra promessa e matrimonio, tra il
consenso espresso per verba de presenti e quello espresso per verba
de futuro. I riti nuziali sarebbero cambiati nel 1563 quando il Concilio
30
J. Gaudemet, Il matrimonio in occidente cit., pp. 103-112. Sul corpus iuris e sul diritto canonico, cfr. J. Gaudemet, Il diritto canonico, Giappichelli, Torino, 1991, pp.1318; U. Baumann, Come il matrimonio diventò sacramento. Breve sommario di una storia
difficile, in S. Seidel Menchi, D. Quaglioni (a cura di), I Tribunali del matrimonio cit., pp.
239-251.
31
Cfr. F. Brandileone, Il diritto romano nelle leggi Normanne e Sveve del Regno di
Sicilia, Torino, 1884.
32
C.A. Garufi, Ricerche sugli usi nuziali nel Medio Evo in Sicilia, Reber, Palermo,
1897, pp.30-39.
33
Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, c. 128r.
34
C.A. Garufi, Ricerche sugli usi nuziali cit., pp. 52-62.
212
I processi matrimoniali della Curia Arcivescovile di Palermo (1399-1410)
di Trento, che produsse il De reformatione matrimonii col capitolo I Tametsi e i 12 canoni, avrebbe introdotto l’obbligo di una pubblica e solenne cerimonia in chiesa, dinnanzi al proprio parroco, con una forma
specifica e sempre uguale in ogni luogo. La nuova disciplina matrimoniale non sarebbe stata recepita ovunque con la stessa rapidità, a
causa delle molte resistenze e delle consuetudini comunitarie35.
I matrimoni clandestini e presunti
Non essendo obbligatoriamente celebrato in pubblico, il matrimonio
era pluriforme e precario. I matrimoni clandestini erano celebrati in
segreto, privi di qualsiasi forma di pubblicità o senza il consenso dei
genitori. Erano unioni valide, ma difettavano di notorietà. Naturalmente
erano questi tipi di matrimonio a costituire una delle principali cause
di conflittualità giudiziaria. La maggior parte erano richieste di riconoscimento dell’avvenuta stipula del contratto matrimoniale che davano
quindi vita ai relativi accertamenti, allo scopo di fare chiarezza sulla
sussistenza o insussistenza del vincolo. I conflitti riguardanti unioni
controverse e incerte erano frutto della norma del consenso, che poteva
essere momentaneo, ritirato dopo anni di convivenza, espresso con riserva mentale, ambiguo, oppure finto, usato come espediente di seduzione. Un uomo poteva disconoscere un matrimonio anche dopo diversi
anni e dopo la nascita di figli legittimi. Spesso sfruttava la clandestinità
per abbandonare la moglie e tornare libero.
L’uso, che ritroviamo in molti documenti dei processi matrimoniali,
di chiamare sponsus/sponsa non solo i fidanzati, come avrebbe dovuto
essere, ma anche i coniugi, creava ulteriore confusione; esso trovava
origine nella dottrina di Graziano, per il quale la desponsatio non era
il fidanzamento, ma il primo momento (matrimonium initiatum) dell’iter
che avrebbe portato, con la carnalis copula, alla conclusione di un matrimonio perfettamente indissolubile. Questo uso spesso indifferente e
interscambiabile dei termini, nonostante corrispondessero a due momenti giuridicamente distinti, induce in confusione quando analizziamo
certe cause matrimoniali36.
Sono molte le cause in cui si cerca di stabilire l’esistenza di un
vincolo matrimoniale negato da una delle due parti. Provare l’esistenza
35
D. Lombardi, Storia del matrimonio dal Medioevo a oggi, Il Mulino, Bologna, 2008,
pp. 21-30. Cfr. anche I. Fazio, Percorsi conugali nell’Italia moderna, in M. De Giorgio,
Ch. Klapisch-Zuber (a cura di), Storia del matrimonio, Laterza, Roma-Bari, 1996, pp.
151-214.
36
J. Goody, Famiglia e matrimonio in Europa cit., p.175-206; S. Seidel Menchi,
Percorsi variegati, percorsi obbligati. Elogio del matrimonio pre-tridentino, in S. Seidel
Menchi, D. Quaglioni (a cura di), Matrimoni in dubbio cit., pp.17-60.
213
Elena Sapienza
e quindi l’avvenuto scambio di consensi era difficile, specie in assenza
di testimoni. La Chiesa tendeva ad assimilare la convivenza ai matrimoni
presunti, poiché era incline a pensare che essa, soprattutto fra persone
appartenenti allo stesso ceto sociale, fosse manifestazione esteriore del
consenso dei conviventi, che creava un vincolo indissolubile37.
La teoria del matrimonio presunto faceva rientrare coloro che vivevano fuori del matrimonio nelle categorie del diritto. Il matrimonio
presunto era difficile da provare tanto quanto quello clandestino: la
consumazione, al pari della promessa, era spesso segreta, per cui se
uno voleva sottrarsi al matrimonio non doveva fare altro che negare
l’una o l’altra. Quand’anche si fosse dimostrato l’avvenuto scambio
del consenso, si doveva poi capire se si fosse trattato di promessa o di
matrimonio, appellandosi all’uso dei tempi verbali utilizzati dalle parti.
Se il giudice riusciva a stabilire che le due condizioni (promessa e consumazione) si erano avverate, esigeva allora la solennizzazione in facie
ecclesie del matrimonio entro un certo termine di tempo, così da rimediare al vizio di notorietà. La sentenza giudiziaria non creava il vincolo
ma si limitava a constatarne l’esistenza o l’inesistenza. La celebrazione
era solo un atto di pubblicità di un’unione già avvenuta ma che era rimasta clandestina. La maggior parte di processi, se non si riconosceva
il vincolo, si risolvevano in una dichiarazione di nullità38.
Le cause di accertamento di matrimoni incerti o presunti sono la
seconda tipologia di processo più frequente all’interno dei due registri
studiati (undici casi) e per la maggior parte si concludono con il non
riconoscimento del vincolo, dunque con una nullità. Sono considerati
matrimoni mai contratti quelli fra Fanella e Antonio Surrintino39 e fra
Munduchio de Renda e Simona de Buctono di Marsala40, ai quali
veniva dunque concessa licenza di risposarsi, e il matrimonio fra Nardo
de Brancacio e Milina, vedova di Nicolò de Chaso41. Particolare interesse
riveste la causa fra Giovanna de Monticuculu, figlia della bolognese
Goffreda, e il legum doctor Benedetto de Bonamico42. La donna pretendeva di essere la moglie del Bonamico e il 30 luglio 1408 chiedeva alla
37
Cristellon, La percezione del matrimonio prima del Concilio di Trento (Venezia,
1420-1545), SIDeS «Popolazione e Storia» 2 (2004), pp.33-34; J. Gaudemet, Il matrimonio
in occidente cit., pp. 173-177. Sui matrimoni clandestini, cfr. D. Lombardi, Storia del
matrimonio cit., pp. 38-42; D. D’Avrai, Marriage ceremonies and the church in Italy after
1215, in T. Dean, K.J.P Lowe (a cura di) Marriage in Italy. 1300-1650, Cambridge University Press 1998, pp. 107-115.
38
Per casi riguardanti matrimoni incerti e controversi di età pre-tridentina, cfr. S.
Seidel Menchi, D. Quaglioni (a cura di), Matrimoni in dubbio cit.
39
Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, c. 120v.
40
Ivi, c. 17r.
41
Ivi, c. 20r.
42
Ivi, cc. 26r e 118r-119r.
214
I processi matrimoniali della Curia Arcivescovile di Palermo (1399-1410)
Curia Arcivescovile, dinnanzi all’arcivescovo Giovanni da Procida, che
le venisse riconosciuto. Il Bonamico invece negava l’avvenuto matrimonio e anzi si trovava, a causa delle dichiarazioni della donna, «in
grave dispendium et diffamacionem maximam». La Curia concedeva a
Giovanna sei mesi per presentare le prove del presunto matrimonio; il
14 novembre 1409 la Curia sentenziava che le prove addotte dalla
donna erano insufficienti e pertanto imponeva a Giovanna silenzio
perpetuo. Il matrimonio non era valido e Benedetto de Bonamico aveva
licenza di risposarsi.
Erano quasi sempre le donne a richiedere il riconoscimento della
validità di un matrimonio. Non fa eccezione la richiesta di Agata di Polizzi43 che non solo desiderava veder riconosciuto il matrimonio con
Tommeo de Lu Lianti, ma il 10 giugno 1409 chiedeva che esso, «contractum per verba de presenti anuli subarra intervenienti», venisse solennizzato «in facie ecclesie». Il presunto marito negava e la Curia gli
dava ragione, dichiarava nullo il matrimonio e gli concedeva licenza di
risposarsi, visto che la donna risultava già sposata con un tale Robertello. Stessa richiesta di solennizzazione veniva avanzata, il 19 novembre 1408, da Tura, promessa a Nicolò Malato, che veniva invitato a
presentarsi in Curia: non sappiamo però come si sia conclusa la sua
vicenda44. Sicuramente aveva invece avuto esito positivo la richiesta di
solennizzazione avanzata da Antonella de Adetrinu di Naso se, il 17
febbraio 1410, Nicolò de Manso prestava fideiussione a favore di Giovanni Pullisitu, garantendo che questi avrebbe solennizzato il matrimonio con la donna entro Pasqua, pena un’ammenda di dieci onze45.
L’accertamento del presunto matrimonio fra Ricca de La Finestra e
Giordano de Romano arrivava, il 19 agosto 1399, all’annullamento
degli sponsalia fra loro contratti, una volta accertato che appunto di
sponsalia, non di matrimonio, si fosse trattato46.
Ci restano, in due documenti, le relazioni degli interrogatori condotti
per l’accertamento dell’avvenuto matrimonio. L’interrogatorio dei presunti coniugi Scarlata Machali di Polizzi e Antonio de Angelo vedeva la
donna affermare, il 13 giugno 1408, di aver sposato Antonio e consumato il matrimonio, da cui erano nati figli; Antonio confermava la versione della moglie, sottolineandone l’onestà47. Tuttavia, l’accertamento
della validità del loro matrimonio non avrà avuto esito positivo se, il 9
marzo 1409, Mazeo de Castiglono, Giovanni de Sabella e Rosa de Gravina prestavano fideiussione a favore di Antonio, a garanzia che non
43
44
45
46
47
Ivi, c. 78r-v.
Ivi, c. 95r.
Ivi, c. 128r.
Asp, Ma I, n. 269 ter, c. 1r.
Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, c. 23r.
215
Elena Sapienza
avesse più rapporti con Scarlata, sotto pena di dieci onze48. Benedetto
de Stefano de Palmerio, interrogato il 18 giugno 1401, in merito alla
causa di nullità del matrimonio con Iacoba, dichiarava, sotto sacro
giuramento, di non averla sposata49. La faccenda però non si sarebbe
conclusa lì: Iacoba avrebbe accusato il marito di sevizie e crudeltà e la
Curia Arcivescovile, il 26 settembre dello stesso anno, le avrebbe dato
ragione approvando la sua richiesta di separazione «quoad thorum et
mensam» (non di nullità) per maltrattamenti e concedendole la metà
dei beni coniugali50.
Impedimenti dirimenti e impedienti
Il diritto canonico distingue gli impedimenti dirimenti, che provocano
la nullità del matrimonio ab initio, dagli impedimenti impedienti, che
rendono illecita la conclusione dell’unione, senza mettere in causa il
vincolo matrimoniale. L’impedimento assoluto interdice qualsiasi matrimonio, mentre quello relativo solo il matrimonio tra due persone determinate, senza ostacolare il matrimonio di una delle parti con una
terza persona.
Costituiva impedimento assoluto l’ordine sacerdotale; ho incontrato
un solo caso di relazione illecita fra una donna e un sacerdote portato
dinnanzi al giudizio della Curia: quello tra Disiata de Mazarino con il
frate Enrico de Regina51. Il provvedimento adottato fu quello di allontanare i due amanti: la Curia ingiungeva a Disiata di non avere più
rapporti con Enrico, sotto pena di dieci onze, mentre Giovanni de Regina prestava fideiussione a favore di Enrico, garantendo che questi
non intrattenesse più rapporti con la donna, pena dieci onze52.
Impedimenti che meritano attenzione sono l’impotenza del marito
ed un precedente matrimonio non sciolto. Riguardo quest’ultimo, il diritto canonico non ammetteva la bigamia53, anche se la possibilità di
Ivi, c. 96r.
Asp, Ma I, n. 269 ter, c. 20r. Benedetto de Stephano detto de Palmerio aveva ottenuto la cittadinanza di Palermo per inductionem uxoris (P. Sardina, Palermo e i Chiaromonte cit., p. 225).
50
Asp, Ma I, n. 269 ter, c. 24r.
51
Si tratta del frate carmelitano che occupò indebitamente la grangia di Santa Maria
de Balnearea presso Castronovo, appartenente al monastero de Gloria nella diocesi di
Anagni (S. Fodale, Documenti del pontificato di Bonifacio IX cit., p. 129).
52
Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, c. 96r.
53
La bigamia come irregolarità va distinta dalla bigamia-impedimento matrimoniale,
cioè dal reato di bigamia (avere contemporaneamente più di una moglie). Il rapporto del
coniugato con un’altra persona poteva essere visto di volta in volta come adulterio,
come concubinato, oppure come un secondo matrimonio che, evidentemente, ritenuto
unione de facto e non de iure, veniva considerato nullo (G. Marchetto, Primus fuit
48
49
216
I processi matrimoniali della Curia Arcivescovile di Palermo (1399-1410)
matrimoni clandestini e l’assenza di qualsiasi esigenza di notorietà,
rendevano spesso inefficace questa proibizione. La bigamia volontaria
era un crimine punito dall’autorità civile; i tribunali ecclesiastici non
solo pronunciavano sentenza di nullità della seconda unione, ma punivano anche i colpevoli.
Una lunga assenza del coniuge faceva a volte presumere la sua
morte. L’altro coniuge poteva in buona fede risposarsi ma, per evitare
il rischio di bigamia, prima di procedere al nuovo matrimonio, era necessario ottenere dal tribunale ecclesiastico la licentia nubendi, dietro
produzione di prove. Un matrimonio concluso senza licentia era considerato inesistente e la relazione solo di concubinato. Le cause spesso
attestano ammende imposte al coniuge risposato senza licenza o a
quello assente per abbandono del tetto coniugale. Se il primo coniuge
tornava si ripristinava la precedente unione. La causa di separazione
fra Margherita Virrina e Antonio Pictinerio è un buon esempio di
quanto detto. La donna aveva intentato un processo di separazione
per la lunga assenza del marito ma, per poter procedere con la sua
azione legale in assenza del marito, la Curia Arcivescovile nominava,
l’11 febbraio 1410, Tommaso Ferrario, serviens curie, curatore di Antonio. A mio avviso il termine separazione qui non è inteso nel senso
di separazione quoad thorum, anche perché la lunga assenza non era
un motivo per intentare tale causa; ipotizzo che la lunga assenza
avesse fatto presumere a Margherita la morte del marito e che pertanto
la donna volesse essere liberata dal vincolo coniugale54.
La prigionia e la schiavitù per la Chiesa non rompevano il vincolo.
Tuttavia già dall’età costantiniana si permetteva alla donna di risposarsi
dopo un certo numero di anni d’incertezza ed assenza di notizie sulla
sorte del marito. Non si trattava più di una rottura per cattività, ma di
una lunga assenza che faceva presumere il decesso; ovviamente si avviavano le ricerche e si facevano sforzi per mantenere l’unione, prima
di autorizzare le nuove nozze. Francesca, moglie di Nicolò Caruso, prigioniero «in partibus Barbarie», si era risposata con Perrono de Catanzaro, evidentemente però senza aver prima chiesto la dovuta licenza. Il
5 luglio 1409 entrambi i coniugi venivano accusati dal magister Michele
di Giovanni di adulterio e duplice matrimonio, accusa probabilmente
mossa da interessi economici, visto il regime di comunione di beni che
intercorreva fra i coniugi Caruso55. Il 10 luglio la Curia Arcivescovile
predisponeva la nomina di un curatore dei beni di Nicolò, ormai pri-
Lamech. La bigamia tra irregolarità e delitto nella dottrina del diritto comune, in S. Seidel
Menchi, D. Quaglioni (a cura di), Trasgressioni. Seduzione, concubinato, adulterio, bigamia
cit., pp. 43-105).
54
Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, c. 119v.
55
Ivi, c. 97v.
217
Elena Sapienza
gioniero da nove anni, perché ne potesse disporre, attraverso la vendita,
per ricavare il denaro necessario alla sua eventuale liberazione: veniva
quindi nominato curatore Guglielmo de Graciano, prepositus della maramma della Cattedrale di Palermo56.
La sorte di Nicolò non era infrequente. La cattura, a seguito di
azioni piratesche, e la deportazione di siciliani in Africa costringeva ad
aprire trattative con Tunisi. L’uso dei beni da utilizzare per il riscatto
era essenziale ma non sufficiente: il problema degli schiavi «in partibus
Barbarie» era infatti sia economico, tanto che non solo la famiglia ma
anche la collettività partecipava al pagamento del riscatto, sia religioso,
perché i prigionieri erano cristiani che correvano il rischio di convertirsi
all’Islam. I cristiani si dovevano quindi impegnare, almeno economicamente, alla liberazione dei captivi. La raccolta pubblica del denaro
«pro redemptione captivorum» era gestita dalla Corona, che aveva istituito un apposito fondo pubblico57.
Lo stesso 10 luglio Francesca era costretta ad ammettere di essere
moglie di Nicolò e che Perrono non era altro che il suo amante58. La
sentenza della Curia Arcivescovile arrivava il 15 dicembre 1409: dato
che non si erano avute notizie del povero Nicolò se ne presumeva la
morte; Francesca poteva continuare a convivere con Perrono, tenere e
amministrare la vigna, sita in contrada Ciaculli, posseduta a metà con
Nicolò, finché il marito non fosse ritornato a richiedere la sua parte;
qualora si fosse avuta notizia certa della morte di Nicolò, Francesca
avrebbe potuto vendere, donare e permutare la vigna. Il curatore Guglielmo de Graciano le restituiva due onze, che erano il ricavato della
precedente vendemmia della vigna a lei spettante59.
Costituivano invece impedimento relativo la parentela di sangue, di
solito fino al terzo grado, che produceva nullità ab initio; la parentela
adottiva e quella spirituale (vincoli creati dal battesimo e dalla cresima);
l’impedimento per affinità (legame originato dal rapporto carnale di un
uomo con consanguinee della donna con cui intendeva contrarre matrimonio); l’impedimento di pubblica onestà, fondato sull’impegno del
fidanzamento (la promessa per verba de futuro era considerata creatrice
di un impedimento tra uno dei fidanzati e un consanguineo dell’altro
in nome della pubblica onestà e della decenza)60.
Ho riscontrato un solo caso di accusa di matrimonio illecito propter
puplice honestatis iusticiam (termine generico che poteva comprendere
Ivi, c. 78v.
S. Fodale, Solidarietà pubblica e riscatto della cattività in Barberia, in S. Fodale,
Casanova e i mulini a vento e altre storie siciliane, Sellerio, Palermo, 1986, pp. 24-36.
58
Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, c. 78v.
59
Ivi, cc. 119v-120r e c. sciolta.
60
J. Gaudemet, Il matrimonio in occidente cit., 1989, pp. 146-156.
56
57
218
I processi matrimoniali della Curia Arcivescovile di Palermo (1399-1410)
tutti i comportamenti che offendessero il concetto corrente di morale).
Il magister Aloysio di Napoli aveva infatti sposato Tura; contro di essi
veniva sollevato l’impedimento per affinità in quanto la donna era la
madre di Caterina che per gli accusatori era la moglie defunta di Aloysio. Il 18 luglio 1401 la Curia Arcivescovile però riconosceva che il matrimonio con Caterina era stato contratto solo per verba de futuro e
mai consumato; assolveva quindi i due sposi dall’accusa e imponeva
agli accusatori silenzio perpetuo61.
«Divortium quoad thorum e divortium quoad vinculum»
La dottrina dell’indissolubilità del sacramento era stata elaborata
da Sant’Agostino, secondo il quale poteva sussistere una separazione
fra coniugi, da lui detta divortium, ma il vincolo comunque sussisteva.
Le opere di raccolta del diritto canonico dell’XI secolo erano contraddittorie in tema di divorzio: non era consentito il divorzio come scioglimento del vincolo, anche se restavano dubbi nel caso dell’impotenza;
era ammessa la separazione causa fornicationis (carnalis o spiritualis)
e l’indissolubilità appariva dipendere dalla consumazione del matrimonio, ma all’epoca mancava una teorizzazione compiuta sul significato
della copula in relazione al sacramento. L’effettivo scioglimento del
matrimonio e la mera soluzione della convivenza coniugale furono per
secoli indicati indifferentemente con i termini divortium e separatio,
cosa che creava ambiguità e confusione.
La scienza giuridica, posta di fronte all’esigenza di prevedere un rimedio alle situazioni matrimoniali compromesse, dovette assumere il
compito di creare un divortium, pur mantenendo il principio dell’indissolubilità matrimoniale. Con le raccolte delle decretali pontificie del
XIII secolo vennero delineati due tipi di divorzio: il «divortium quoad
thorum et mensam», ossia la separazione, e il «divortium quoad vinculum», lo scioglimento che permetteva nuove nozze. Dunque solo a partire dal XIII secolo il «divortium quoad thorum et mensam» acquistò
una propria autonomia concettuale, distinguendosi dal termine generico di separatio. L’istituto della separazione si può spiegare solo come
il risultato dell’incontro tra il principio dell’indissolubilità e la constatazione che esistevano situazioni che non consentivano la prosecuzione
della vita coniugale.
L’indissolubilità prevedeva soltanto il divorzio come nullità ab initio
del vincolo, mentre con la separazione personale dei coniugi si ammetteva l’idea di un divorzio che scioglieva l’obbligo della mutua servi-
61
Asp, Ma I, n. 269 ter, c. 21v.
219
Elena Sapienza
tus, ma non gli effetti del vincolo coniugale e quindi escludeva la possibilità di nuove nozze62.
Non sappiamo che tipo di separazione chiedesse la fanciulla Pina: è
certo però che il 24 ottobre 1408 la Curia Arcivescovile ingiungeva al
marito Enrico de Noto di presentarsi in Curia su richiesta della moglie63.
Le cause di separazione
Erano cause di separazione: la fornicatio carnale (adulterio) e
spirituale64 (eresia o apostasia di un coniuge), le sevizie65 e la malattia contagiosa. Sevizie e maltrattamenti non erano rari e spesso
continuavano anche dopo la causa in tribunale. A giustificare la separazione era l’odio capitale ossia il sentimento di odio, del quale le
sevizie erano manifestazione, che poteva condurre alla morte del
coniuge. Ai mariti violenti spesso i giudici chiedevano di versare
una cauzione de non offendendo, cioè di impegnarsi a trattare bene
le proprie mogli. Spesso le donne fuggivano di casa e venivano denunciate dai mariti per abbandono del tetto coniugale. Solitamente
i giudici ecclesiastici tendevano alla salvaguardia del vincolo e tentavano la conciliazione dei coniugi: ingiungevano ai mariti di non
maltrattare la moglie, andando oltre l’esercizio normale del diritto
di correzione, ma ricordavano che la donna doveva comunque obbedienza al marito66.
Un caso esemplare di causa di separazione quoad thorum per maltrattamenti è l’intricata vicenda di Contessa e Giovanni de Chola. La
moglie lamentava maltrattamenti e percosse; dopo un periodo di assenza di Giovanni da Palermo i due si erano riconciliati ma poi il
marito aveva tentato di avvelenare la moglie. Contessa cercava giustizia
chiedendo la separazione, Giovanni la faceva arrestare. Il 16 gennaio
1400 la Curia Arcivescovile la liberava dal carcere e assolveva da ogni
accusa, perché il marito non si era presentato in giudizio67.
62
G. Marchetto, Il divorzio imperfetto cit., pp. 14-34 e 153-158; A. Giuffrè, Separazione
personale dei Coniugi, in Enciclopedia del Diritto, XLI, Giuffré, Roma, 1989, p.1403.
63
Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, c. 88r.
64
Per un caso di fornicazione spirituale, cfr. C. Meek, Simone ha aderito alla fede di
Maometto. La fornicazione spirituale coma causa di separazione, in S. Seidel Menchi, D.
Quaglioni (a cura di), Coniugi nemici cit., pp.121-131.
65
Per tre casi veneziani di separazione per maltrattamenti, cfr. S. Chojnacki, Il
divorzio di Cateruzza: rappresentazione femminile ed esito processuale (Venezia 1465), in
S. Seidel Menchi, D. Quaglioni (a cura di), Coniugi nemici cit., pp. 371-416.
66
G. Marchetto, Il divorzio imperfetto cit., pp. 327-441; D. Lombardi, Storia del matrimonio cit., pp. 92-93.
67
Asp, Ma I, n. 269 ter, c. 10v.
220
I processi matrimoniali della Curia Arcivescovile di Palermo (1399-1410)
Tre i casi di maltrattamenti per i quali vengono prestate garanzie fideiussorie: Roberto de Vita si impegnava a garantire che il fratello Vita
non solo non maltrattasse la moglie Palma Cunigli ma nemmeno vendesse la dote68; Pino de Sancto Philippo s’impegnava a garantire che
Amico de Maurella non maltrattasse la moglie Garita, pena venti onze69;
il notaio Corrado Fisaula faceva lo stesso, sotto pena capitale e dei
suoi beni, nei confronti del notaio Antonio de Orto70 che maltrattava la
moglie Pina. Pina de Orto era figlia del notaio Antonio Cito e di Violante;
inoltre era la vedova ed erede universale del notaio Francesco de
Scriba, il quale aveva lasciato una grande quantità di denaro. Antonio
de Orto, definito «fidelis et familiaris regio» in un documento dell’11
agosto 1392, in cui i Martini ordinarono agli ufficiali di Palermo di non
molestare «eum nec uxorem, res bona et fideiussores eorum», aveva
appoggiato la rivolta di Enrico Chiaromonte nel 1393. Il primo febbraio
1395 Pina e Antonio erano già sposati e Enrico Chiaromonte aveva costretto Antonio Cito a versare a sua figlia le tre onze che la defunta
moglie Violante aveva invece destinato al proprio funerale. Antonio de
Orto era stato perdonato dai Martini nel 1399, quasi sicuramente
grazie alla raccomandazione del giudice Giacomo de Orto. Dopo il perdono ottenne piena riabilitazione, assieme al figlio Nicolò, pure lui notaio, tanto che i due furono nominati familiari e domestici regi. La
casa di Antonio de Orto si trovava nel quartiere della Conceria. Il
notaio risulta morto già nel 141171.
Le cause relative ad adulterio portate dinnanzi alla Curia Arcivescovile di Palermo sono quelle numericamente più rappresentate nei due
registri. Sono per la maggior parte accuse di adulterio e duplice matrimonio: Bartolomea, moglie di Antonio de Pagano, era stata denunciata
da sua figlia Agata per la relazione adultera con Nicolò Rizzo; era pertanto tenuta a presentarsi in Curia, sotto garanzia fideiussoria di Filippo
Lu Ysdintatu del 21 settembre 140972. La stessa accusatrice Agata de
Pagano, figlia di Antonio, era stata però a sua volta denunciata, dal
marito Antonio de Sirina di Bivona, per adulterio e duplice matrimonio.
L’arcivescovo di Palermo Giovanni da Procida la assolveva però il 10 ottobre 1409 per mancanza di prove, non addotte dall’accusatore, nonostante si dicesse disposto a rendere giustizia a quest’ultimo73.
Amata, moglie di Tommeo Trabugla, doveva aver scoperto la relazione
extra-coniugale del marito con Filippa di Polizzi, se la denunciava per
68
69
70
71
72
73
Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, c. 130r.
Ivi, c. 127r.
Ivi, c. 129r.
P. Sardina, Palermo e i Chiaromonte cit., pp. 173 e 429.
Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, c. 126r.
Ivi, c. 146r.
221
Elena Sapienza
adulterio; il 28 maggio 1410 Letizia de Turri garantiva che Filippa si sarebbe presentata in Curia74. Il 16 giugno 1410 la Curia Arcivescovile ingiungeva a Filippa di non intrattenere più alcuna relazione con Tommeo
Trabugla, sotto pena di dieci onze o, in mancanza, sotto la pena della
frusta; Filippa, detenuta in carcere, si impegnava inoltre sotto giuramento a rispettare tale ingiunzione. Stesso ordine di allontanamento
dalla sua amante veniva imposto a Tommeo, sotto pena di dieci onze75.
Le cause di nullità
Le cause di nullità più frequenti erano quelle per impotenza, per
vizio del consenso e quelle che mettevano fine a una bigamia, constatando l’esistenza di un precedente matrimonio non sciolto; in tal caso
la relazione veniva considerata non solo adultera ma duplice e per
questo resa nulla. Le cause di nullità per difetto d’età erano invece
meno frequenti, dunque gli impedimenti al matrimonio (reali o fittizi)
venivano spesso invocati nelle cause di nullità. Si riteneva vi fosse
vizio del consenso nel caso in cui questo fosse stato estorto con la
forza e sotto minacce76. Molte sono le sentenze di nullità causate da
vizio del consenso, estorto per vim e metum; la difficoltà in tali processi
stava nel dimostrare uno stato d’animo, il timore condizionante appunto. Un caso particolare di metum era il timore reverenziale, cioè
quello nei confronti dei padri, che poteva condizionare la volontà dei
figli al momento delle nozze77.
Nei documenti esaminati, sono soltanto due le cause di nullità per
matrimonio contratto per vim e metum: il 28 agosto 1399 la Curia Arcivescovile di Palermo annullava per questo motivo il matrimonio contratto
da Letizia de Iaquinto e Deodato, concedendo alla donna licenza di risposarsi78; stesso esito il 15 gennaio 1400 per la causa riguardante il matri-
Ivi, c. 129r.
Ivi, c. 129v. Il registro della Corte Pretoriana preso in esame riporta altri casi
relativi ad accuse di adulterio. Si tratta per lo più di convocazioni in giudizio e relative
garanzie fideiussorie (cc. 95v, 96r, 97r, 97v, 129r,130r). Si distingue la convocazione in
curia di Ianna de Morso, motivata dall’accusa non di duplice, bensì di triplice matrimonio,
avanzata contro di lei dal notaio Antonio de Parisio (c. 97v).
76
J. Gaudemet, Il matrimonio in occidente cit., pp. 137-187.
77
Cfr. G. Marchetto, Il volto terribile del padre. Metus reverentialis e matrimonio nell’opera di Tomas Sanchez (1550-1610), in S. Seidel Menchi, D. Quaglioni (a cura di), I
Tribunali del matrimonio cit., pp. 269-288. Sulla legge civile, le corti secolari e il controllo
dei padri sull’istituzione del matrimonio, cfr. T. Dean, Fathers and daughters: marriage
laws and marriage disputes in Bologna and Italy 1200-1500, in T. Dean, K.J.P. Lowe (a
cura di), Marriage in Italy cit., pp. 85-106.
78
Asp, Ma I, n. 269 ter, c. 1r-v. Letizia de Iaquinto era la figlia di Angelo, notaio filo
aragonese di origine napoletana che, esiliato durante i 5 anni del regime di Enrico Chia74
75
222
I processi matrimoniali della Curia Arcivescovile di Palermo (1399-1410)
monio di Marcullo Aurifex e Caterina La Maccarrunara, questa volta su
istanza del marito che otteneva così licenza a contrarre nuove nozze79.
In realtà, anche l’abbandono della dimora coniugale, senza che
fosse ordinato o ratificato da una sentenza del tribunale ecclesiastico,
era considerata un’illegittima privazione di un diritto, contro cui la
Chiesa aveva elaborato un’azione possessoria per il ripristino della
status quo ante80. Un caso di abbandono del tetto coniugale è quello di
Giovanni Carioso, serviens curie, che aveva lasciato la moglie Chulucia
de Agrigento. La Curia Arcivescovile, su istanza della donna, il 20 giugno 1401 ingiungeva a Giovanni di ricongiungersi con lei, di tornare a
vivere «in una eademque domo mensa et thoro», di trattarla con «affectione uxorali» e fornirle gli alimenti, entro otto giorni, pena una multa
di quattro onze81. Non conosciamo invece cosa fosse accaduto a Schifano Vitali di Tropea e a sua moglie Caterina de Enrico; di fatto la
Curia Arcivescovile il 15 novembre 1408 ingiungeva a Schifano di presentarsi a Tropea dalla moglie entro dieci mesi o, scaduto il termine,
dinnanzi alla suddetta curia, sotto pena di venti fiornini d’oro82. Rainaldo de Buxia, canonico e vicario della Cattedrale di Palermo, il 16
novembre 1407 dichiarava nullo il matrimonio fra Floria, figlia del notaio Simone de Lanselloctis di Trapani, e Onofrio de Fasana, obbligato
a restituire la dote, e dava alla donna licenza di risposarsi. Si trattava
di una sentenza di appello, visto che la causa era già stata discussa in
primo grado presso il vicario di Mazara. Un’altra sentenza, del 18 novembre 1407, dichiarava nullo il matrimonio fra Allegranza de Silente
de Salem e Antonio de Messana, concedendo all’uomo licenza di risposarsi; la donna appellava la sentenza. Il 17 dicembre dello stesso anno
veniva considerato nullo il matrimonio fra Lucrezia de Bilotto, che otteneva licenza di risposarsi, e Giacomo de Nuce83.
Riguardo la bigamia, inizialmente era difficile configurarla come
reato, visto che secondo le norme di diritto romano il secondo matrimonio era considerato nullo e, venendo a mancare con la nullità
i suoi effetti giuridici, veniva meno anche la sua punibilità. Un caso
ben documentato di nullità di una relazione bigama è quello di Belluna de Arminia. La donna, moglie di Martino de Arminia, era stata
accusata da Giovanni de Gintili di duplice matrimonio e la Curia
romonte, era tornato a vivere a Palermo, grazie all’intercessione di Martino d’Aragona.
Nel 1395 Angelo divenne archivista degli atti della Corte Pretoriana al posto del notaio
Giovanni Fasana, troppo legato ad Andrea Chiaromonte (P. Sardina, Palermo e i Chiaromonte cit., pp. 236-238).
79
Asp, Ma I, n. 269 ter, c. 8r.
80
Cfr. M.S.Messana, Rito ordinario e rito sommario cit., p. 279.
81
Asp, Ma I, n. 269 ter, c. 20v.
82
Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, c. 95r.
83
Ivi, cc. 42v-43v.
223
Elena Sapienza
infatti il 10 luglio 1409 dichiarava nullo il matrimonio con Marchisio
de Messana che veniva ritenuto suo amante. Lo stesso giorno Belluna confessava la relazione extra-coniugale con Marchisio e riconosceva Martino quale suo legittimo marito. Il 28 giugno 1409 Manfredi de Cusencia e Giovanni Suldaneri prestavano fideiussione a
favore della donna, presentata come compagna di Marchisio de Messana e accusata di duplice matrimonio, garantendo che si presentasse in Curia84.
Possiamo infine inserire fra i casi di nullità lo scioglimento degli
sponsalia. Il rifiuto a mantenere la promessa di matrimonio fatta per
verba de futuro, e ancora da legalizzare con il rito matrimoniale per
verba de presenti, era abbastanza frequente. Si rivolgeva al tribunale
sia la parte che voleva sottrarsi all’impegno, sia la parte lesa, interessata
possibilmente a dimostrare che invece di vero matrimonio si fosse trattato. La vergine Norata, figlia di Giovanni Tristaynu, che aveva contratto
«sponsalia seu asserto matrimonio» con Giovannuccio de La Russa,
era stata da questi abbandonata in pupillari etate: Giovannuccio era
fuggito da Palermo con una sua ganea, e Norata, prima di giungere ad
nubilem etatem, si era rifiutata di sposarlo. Per la fuga e la lunga assenza del promesso sposo, il padre di lei chiedeva l’annullamento degli
sponsalia e la licenza a risposarsi85.
Le altre tre cause di scioglimento di sponsalia riguardano sempre
un impegno contratto quando la fanciulla era minore. Il 20 novembre
1399 la Curia Arcivescovile dichiarava nulli gli sponsalia contratti fra
Antonio di Ragusa e Machalda de Mauro, figlia di Giovanni, quando la
fanciulla era minore, e le concedeva licenza di risposarsi86. Il 3 ottobre
1407 Caterinella, figlia del defunto magister Tommeo Bruscalupo, citava in giudizio Simone Barbotta, con cui aveva contratto sponsalia de
futuro, chiedendo l’annullamento, perché la promessa era avvenuta
senza suo consenso, e la licenza a risposarsi87. Anche la minore Antonella de Milioto aveva avanzato richiesta di annullamento della promessa matrimoniale contratta con Antonio de Sguarza, a causa della
sua lunga assenza. Il procuratore della fanciulla, il notaio Giovanni de
Iudice Facio, il 20 giugno 1401 conferiva a Donato Ysguarza, padre di
Antonio, la qualifica di curatore dei beni del figlio88.
Fino a che la promessa di matrimonio, seguita dal rapporto sessuale,
fu considerata dal diritto canonico equivalente al matrimonio presunto,
non era raro giungessero in curia accuse di stupro (reato di misto
84
85
86
87
88
224
Ivi, cc. 78v-79r e 97v.
Ivi, c. 26v.
Asp, Ma I, n. 269 ter, c. 4v.
Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, c. 19r.
Asp, Ma I, n. 269 ter, c. 20v.
I processi matrimoniali della Curia Arcivescovile di Palermo (1399-1410)
foro), in cui il seduttore avesse promesso alla donna di sposarla89. Nel
registro della Corte Pretoriana ho incontrato una sola denuncia per
stupro: donna Tura, moglie di ser Bertolino di Trapani, accusava il domenicano Bartolomeo de Serris non solo di stupro, ma anche di avere
ucciso suo figlio Giacomo, e pertanto chiedeva alla corte di punirlo90.
Le cause patrimoniali
Molte controversie coniugali riguardavano il patrimonio e in particolar modo la dote91. Solitamente era la giustizia civile, non quella ecclesiastica, a occuparsi di comporre i contrasti originati dal possesso
del patrimonio e della dote; spettava alla Corte Pretoriana di Palermo
anche la tutela di certi usi92. Nella Sicilia tardo medievale trovavano
applicazione due regimi matrimoniali, attestati dalle diverse Consuetudini delle città siciliane e corrispondenti a due diverse modalità di
gestione del patrimonio coniugale: uno alla latina, e uno alla greca.
Contrariamente al matrimonio latino, in cui i beni degli sposi erano
messi in comune con un’ideale tripartizione del patrimonio alla nascita
della prole, nel matrimonio greco i beni della sposa, cioè la dote ed il
dotario, erano esclusi dal patrimonio familiare. A Palermo, secondo le
consuetudini, era possibile scegliere fra i due regimi greco e latino; in
quest’ultimo caso, per la confusio bonorum e la ripartizione del patrimonio era richiesto un anno dalla consumazione del matrimonio o
dopo la nascita dei figli. La morte della sposa, senza che dal matrimonio
fosse nata prole, comportava l’obbligo da parte del marito di restituire
la dote ricevuta, cosa che dava luogo a lunghe controversie. In caso di
scioglimento del matrimonio prima del termine previsto per la confusio
89
Con il termine stupro s’intendeva qualsiasi rapporto sessuale extraconiugale,
anche se consensuale; se la donna era sposata si configurava il reato di adulterio. La
qualità della vittima era dunque elemento costitutivo del reato. Lo stupro, in quanto
reato di misto foro, era giudicato dai due tribunali; capitava quindi che per il diritto
civile un rapporto sessuale tra un uomo sposato e una donna nubile fosse considerato
stupro, mentre per quello canonico adulterio. Il tribunale civile solitamente prescriveva
pene pecuniarie; il diritto ecclesiastico, se lo stupro era avvenuto con violenza, prescriveva
allo stupratore, se non già sposato, l’obbligo di sposare e dotare la donna (D. Lombardi,
Reato di stupro tra foro ecclesiastico e foro secolare, in S. Seidel Menchi, D. Quaglioni (a
cura di), Trasgressioni. Seduzione, concubinato, adulterio, bigamia cit., pp. 351-381).
Sull’argomento, cfr. G. Alessi, Stupro non violento e matrimonio riparatore. Le inquiete peregrinazioni dogmatiche della seduzione, in S. Seidel Menchi, D. Quaglioni (a cura di), I
Tribunali del matrimonio cit., pp 609-640.
90
Asp, Ma I, n. 269 ter, c. 97r.
91
Cfr. D. Hughes, From Brideprice to dowry in Mediterranean Europe, «Journal of Family History», 3 (1978), pp. 262-296; A. Romano, Famiglia, successioni e patrimonio, familiare nell’Italia medievale e moderna, Giappichelli, Torino, 1994.
92
Cfr. A. Giuffrida, La giustizia cit., pp. 86-87.
225
Elena Sapienza
bonorum era operante la disciplina di diritto comune, come nel caso
del matrimonio alla greca (la dote rimaneva della sposa che la recuperava in caso di vedovanza o di divorzio).
Secondo la consuetudine di Palermo n. 80 («Ne bona uxoris capiantur ob culpam viri, nec fili ob delictum parentum debita portione priventur»):
licet maritus et uxor […] ambo sint domini rei dotalis et bonorum […] et bona
ipsa de communi consensu possint […] obligari; tamen ne ob virorum culpam,
aut propter fragilitatem sexus ad repentinam inopiam deducantur […] inductum
est quod, ex delictis et obligationibus maritorum, mulieres in personis et rebus
nullam sustineant lesionem. Cum iniustum et iniquum sit quod, ob culpam
viri, uxoris bona capi debeant, vel uxores que non peccaverunt, dotes earum
amittant et remaneant indotate; cum iura dictent quod mulier, etiam costante
matrimonio, si vir vergat ad inopiam, possit petere dotes suas. Si aliqui Cives
Panormi crimine aliquo […] dampnati, uxores eorum dote set dodarium vel donationem propter nuptias […] propterea non amittant93.
In caso di divortium quoad thorum, se a causare la separazione era
la moglie, perdeva la dote; se era colpa del marito, questi era tenuto a
restituirla. Le cause patrimoniali, specie quelle di restituzioni di doti,
connesse a un processo matrimoniale di competenza ecclesiastica,
erano decise dallo stesso giudice ecclesiastico in virtù dell’attrazione
prodotta dalla causa principale su quella accessoria94.
Un caso di conflittualità viene portato dinnanzi alla Curia Arcivescovile di Palermo per il mancato rispetto del contratto matrimoniale:
Marco de Aranzano aveva sposato Phimia de Pacerubeo, figlia di Giovanni e Allegranza. Il matrimonio presumibilmente non era stato ancora
consumato perché, dopo il contratto matrimoniale, Giovanni si era
impegnato a consegnare la sposa con la dote a Marco entro un certo
periodo di tempo. La consegna della fanciulla e della sua dote non era
però avvenuta e lo sposo si rivolgeva alla Curia che, il 4 giugno 1401,
disponeva che entro il 15 luglio il contratto matrimoniale fosse rispettato, pena trenta onze95. Altra controversia in materia di dote vedeva
coinvolti Filippo de Galati ed i coniugi Antonio e Flordelisia de Odo. Il
12 giugno 1408 il notaio Giovanni de Iampisce prestava fideiussione a
favore di Filippo, il quale chiedeva ai coniugi de Odo dieci onze ex
causa dotis; il giorno successivo la Corte Pretoriana disponeva che ve-
93
I matrimoni alla greca e alla latina sono descritti nelle consuetudini di Palermo in
V. La Mantia, Antiche consuetudini delle città di Sicilia, Palermo, A. Reber, 1900, nn. 4147 e 80, pp. 107, 189-193 e p. 217. Cfr. anche C.A. Garufi, Ricerche sugli usi nuziali cit.,
pp.27-30.
94
G. Marchetto, Il divorzio imperfetto cit., pp. 287-324.
95
Asp, Ma I, n. 269 ter, c. 19r-v.
226
I processi matrimoniali della Curia Arcivescovile di Palermo (1399-1410)
nissero messi in possesso del creditore Filippo una vigna ed un somaro;
il 9 luglio 1408 però la Curia Arcivescovile sospendeva la causa96.
Anche il magister Rainaldo de Simone era debitore di due onze ex
causa dotis nei confronti di Salvatico, marito di Ventura97. Infine la
Corte si adoperava affinché il magister Giovanni de Culosa non alienasse o vendesse i beni dotali della moglie Disiata de Chagio e ne
mantenesse integra la proprietà; il primo documento è una fideiussione
a garanzia del rispetto del divieto di alienazione, il secondo è la promessa fatta da Giovanni ai suoi fideiussori di rispettare l’ingiunzione98.
Conclusioni
Questo studio ha mostrato gli unici scorci di conflittualità matrimoniale della Curia Arcivescovile di Palermo ad oggi rimasti per il XV
secolo, inserendoli nel contesto storico-istituzionale dell’Arcidiocesi e
del suo tribunale ed esaminandoli all’interno del quadro normativo,
consuetudinario e processuale di riferimento.
Non si è trascurato l’aspetto tributario di tali processi; possiamo notare che l’ammenda pecuniaria, in caso di mancato rispetto di una garanzia fideiussoria, è quasi sempre fissata al valore costante di dieci
onze; solo due fideiussioni prevedono una pena dal valore doppio, mentre un solo caso ammette un’ammenda di cinquanta onze. L’ingiunzione
di non intrattenere più rapporti con il partner, relativa dunque all’allontanamento fra amanti, prevede sempre una pena di quattro onze.
Per quanto riguarda la tipologia, si può osservare che i casi numericamente più rappresentati sono le cause relative ad adulterio e duplice
matrimonio (ventitré casi), seguite dai processi di accertamento di matrimoni incerti o presunti, la seconda tipologia più frequente all’interno
dei due registri esaminati (undici casi), che per la maggior parte si concludono con il non riconoscimento del vincolo, dunque con una nullità.
Tutti e cinque i casi di nullità sono dovuti all’insussistenza del vincolo
o a vizi del consenso, nessun pronunciamento è motivato dall’impotenza.
Il tribunale ecclesiastico palermitano solleva quattro coppie dall’obbligo
di sposarsi, sciogliendo le loro promesse matrimoniali; sempre quattro
i processi intentati da donne contro i propri mariti per sevizie e maltrattamenti, mentre tre sono i casi di separazione. Non mancano altre
tipologie di cause quali processi per stupro, abbandono del tetto coniugale o impedimento per affinità. Le cause riguardanti le doti sono sette
e hanno consentito un confronto (e un sostanziale accordo) con le con-
96
97
98
Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, cc. 9v e 25r.
Ivi, c. 4r.
Ivi, c. 126r.
227
Elena Sapienza
suetudini cittadine in merito ai rapporti patrimoniali fra coniugi. Le
decisioni del tribunale ecclesiastico palermitano, soprattutto in materia
patrimoniale, sono infatti connesse alle norme consuetudinarie della
città. I poteri comunitari e familiari avevano voce in capitolo sui riti e
sulla scelta del partner, mentre le autorità locali, sulla base delle consuetudini, intervenivano sugli aspetti patrimoniali.
Pertanto gli studi condotti mi portano ad affermare che, per quanto
il diritto canonico fosse la cornice normativa di riferimento per tutti i
tribunali ecclesiastici, a livello locale sussistevano una varietà di tradizioni e di interpretazioni personali del rapporto fra vescovo e fedeli,
con conseguente influenza sulla prassi giudiziaria.
Nel caso palermitano, nonostante la lacuna delle fonti archivistiche
della Curia Arcivescovile, si rileva una peculiarità del sistema giudiziario
locale: lo stretto legame fra il foro ecclesiastico e quello civile cittadino,
la Corte Pretoriana. La connessione fra giurisdizioni risulta evidente
dalla presenza, negli atti analizzati, degli operatori di giustizia e legum
doctores appartenenti alle sfere del sistema giudiziario laico. Il ricorso
a giuristi esterni da parte della Curia Arcivescovile era solo una parte
del rapporto; il legame di fatto, pur non trovando alcun riscontro nel
diritto, non riguardava solo la circolazione delle persone, ma passava
anche dalla cancelleria. L’appoggio alla cancelleria del tribunale civile
da parte della Curia Arcivescovile ha reso evidente la connessione fra
i fori, poiché essa si è riflessa sulla produzione documentaria del tribunale ecclesiastico, i cui atti potevano essere registrati, come nel nostro caso, su registri della Corte Pretoriana.
Le caratteristiche proprie di ogni tribunale ecclesiastico e il confronto
con la realtà locale è ciò che a mio avviso rende interessante l’analisi a
livello delle singole diocesi. A dispetto della carenza di documentazione
archivistica diocesana di età medievale, sono certa che siano ancora
possibili per l’area mediterranea ulteriori studi sull’argomento. Al di là
della peculiare commistione fra i due fori della realtà palermitana, infatti,
bisogna ammettere che gli archivi diocesani non rappresentano una
fonte esaustiva per gli studi sul tema: in materia matrimoniale la Chiesa
non esercitò mai un monopolio incontrastato e per determinati aspetti
la conflittualità di coppia poteva cadere sotto la competenza di magistrature secolari. Taluni aspetti della conflittualità matrimoniale, chiaramente quelli non legati ad aspetti normati dal diritto canonico, venivano alle volte regolati e risolti tramite accordo privato dinnanzi al
notaio, i cui registri possono rappresentare ulteriore campo di indagine.
In terzo luogo non va dimenticato che l’ultima fase di appello dei
processi a livello diocesano faceva capo al sommo Pontefice. Questo ci
spinge a considerare, per lo studio dei processi matrimoniali, anche
fonti relative all’organizzazione a livello centrale della Chiesa, conservate
presso l’Archivio Segreto Vaticano. In particolare rivestono grande interesse i registri delle suppliche dell’archivio della Sacra Penitenzieria
228
I processi matrimoniali della Curia Arcivescovile di Palermo (1399-1410)
Apostolica, cui spettava il compito di trattare le irregolarità (specie
quelle coniugali) e riconciliare i supplicanti con la legge della Chiesa,
attraverso la concessione di assoluzioni, dispense e licenze99. Tali registri contengono migliaia di casi di dispensa, provenienti da ogni parte
del mondo conosciuto, a partire dai primi anni del XV secolo, e riportano la diocesi di provenienza del supplicante. Le dispense per gli impedimenti matrimoniali sono in generale le più numerose e per la maggior parte sono dispense dagli impedimenti di consanguineità ed affinità
di terzo e quarto grado.
Il materiale riguardante le dispense matrimoniali appartenente all’ufficio della Penitenzieria è abbondantissimo e, oltre a fornirci informazioni sui singoli casi, costituisce un ottimo strumento per fare diversi
tipi di studi statistici. Esso infatti consente di sapere quante petizioni
provenivano dalle singole diocesi, da quale diocesi venivano più suppliche, quale tipo di suppliche erano tipiche per diverse diocesi e dunque
di studiare le possibili tendenze locali. Per di più si potrebbe paragonare
il numero complessivo delle suppliche provenienti dalle diocesi siciliane
con la ricchezza di ciascuna (calcolata in base alla tassa pagata alla
Santa Sede) e vedere se esso corrisponde alla grandezza della diocesi;
una tassa troppo alta rispetto al numero degli abitanti, o alla ricchezza
della diocesi, potrebbe riflettersi in una grande differenza fra il numero
delle suppliche e la tassa; oppure un numero basso di suppliche provenienti da una grande diocesi (che paga una tassa elevata) potrebbe,
ad esempio, essere sintomatico dell’ampia autorità del vescovo di concedere diverse dispense e assoluzioni e, quindi, del fatto che i suoi diocesani non dovevano rivolgersi alla Curia Romana.
Al di là del dato statistico, i registri delle suppliche non contengono
informazioni sul perché una supplica venisse fatta100; e in tal senso la
99
Sull’ufficio della Penitenzieria Apostolica, cfr. F. Tamburini, La Penitenzieria apostolica durante il papato avignonese, in Aux origines de l’État moderne. Le fonctionnement
administratif de la papauté d’Avignon Actes de la table ronde d’Avignon 23-24 janvier
1988, École Française de Rome, Roma, 1990, pp. 251-268; K. Salonen, The Penitentiary
as a Well of Grace in the Late Middle Ages. The Exemple of the Province of Uppsala 14481527, «Annales Academiae Scientiarum Fennicae», 313, Helsinki, 2001, pp. 20-28; F.
Tamburini, Per la storia dei cardinali penitenzieri maggiori e dell’archivio della Penitenzieria
apostolica. Il trattato De antiquitate cardinalis poenitentiarii maioris di G. B. Coccino, «Rivista di storia della Chiesa in Italia», 26, 1982, p. 332-380; K. Salonen, C. Krötzl, The
Roman Curia, the Apostolic Penitentiary and the Partes in the Later Middle Ages, «Acta
Instituti Romani Finlandiae», 28, Roma, 2003 pp.23-31.
100
Sui registri delle suppliche e sull’archivio della Penitenzieria Apostolica, cfr. P.
Ostinelli, Le suppliche alla Sacra Penitenzieria Apostolica provenienti dalla diocesi di
Como (1438-1484), Edizioni Unicopli, Milano, 2003; L. Schmugge, Suppliche e diritto canonico. Il caso della Penitenzieria, in H. Millet (a cura di), Suppliques et requetes. Le gouvernement par la grace en Occident (XIIe-XVe siecle), Collection de l’Ecole francaise de
Rome, 310, Roma, 2003, pp. 207-231; F. Tamburini, Il primo registro di suppliche dell’archivio della Sacra Penitenzieria Apostolica (1410-1411), «Rivista di storia della Chiesa
229
Elena Sapienza
perdita delle fonti diocesane locali (che conservavano le suppliche originali e le lettere provenienti dalla Penitenzieria come testimonianza
della concessione della dispensa o dell’assoluzione) rappresenta un
danno irreparabile. Inoltre è palese che, a livello istituzionale, queste
fonti possono fornirci utili informazioni per lo studio dell’ufficio della
Penitenzieria che li ha prodotti e del suo funzionamento, non certo
degli uffici diocesani o dei tribunali ecclesiastici locali. Nonostante ciò
tali registri sono preziosi per conoscere le modalità del contatto fra le
diocesi e la Curia Pontificia, ma anche per completare le serie documentarie prodotte parallelamente dai dicasteri curiali, e rappresentano
una fonte promettente per future prospettive di studio in ambito matrimoniale per le diocesi di area mediterranea.
in Italia», 23 (1969), pp. 384-427; L. Schmugge, Le suppliche nell’archivio della Penitenzieria Apostolica e le fonti in partibus, in A. Saraco (a cura di), La Penitenzieria Apostolica
e il suo Archivio - Atti della Giornata di Studio, Roma, Palazzo della Cancelleria, 18 novembre 2011-, Città del Vaticano, 2012, pp. 33-61; G. Caberletti, Il fondo dei matrimoniali
e la sua rilevanza per la ricerca storica, in A. Saraco (a cura di), La Penitenzieria Apostolica
cit., pp.112-113; F. Tamburini, Le dispense matrimoniali come fonte storica nei documenti
della Penitenzieria apostolica (sec. XIII-XVI), in Le modèle familial européen. Normes, déviances, contrôle du pouvoir-Actes des séminaires organisés par l’École française de Rome
et l’Università di Roma (1984), École Française de Rome, Rome,1986, pp. 9-30; A. Saraco,
La Penitenzieria Apostolica e il suo archivio storico, «Anuario de Historia de la Iglesia», 21
(2012), pp.423-434; K. Salonen, L. Schmugge, A Sip from the “Well of Grace”. Medieval
Texts from the Apostolic Penitentiary, Studies in Medieval and Early Modern Canon Law,
7, Washington, 2009.
230
Rossella Cancila
SALUTE PUBBLICA E GOVERNO DELL’EMERGENZA:
LA PESTE DEL 1575 A PALERMO*
DOI: 10.19229/1828-230X /37122016
SOMMARIO: Il saggio esamina il contributo della Sicilia all'elaborazione di procedure e strategie di
controllo della peste nel contesto del XVI secolo, in particolare in occasione dell’ondata che colpì
Palermo nel 1575, quando le autorità municipali assunsero importanti provvedimenti e
organizzarono un efficace apparato di salute pubblica per governare l’emergenza, sotto la guida
del celebre medico Giovanni Filippo Ingrassia. La ricerca consente di ripensare l’opinione
generalmente diffusa di un ritardo del Regno di Sicilia rispetto alle aree la cui organizzazione
sanitaria è considerata tra le più avanzate, come quelle dell'Italia centro-settentrionale.
PAROLE
CHIAVE:
peste, salute pubblica, emergenza, prima età moderna, Sicilia.
PUBLIC HEALTH EMERGENCY: PALERMO AND THE PLAGUE OF 1575
ABSTRACT: The essay focuses on Sicily’s contribution to the processing of practices and policy of
plague control in the context of the 16th century. When the plague struck Palermo in 1575, the
municipal health authority took important provisions to control the disease and organized an
effective public health emergency management, under the direction of the famous physician
Giovanni Filippo Ingrassia. The study aims to review the general opinion of Sicily’s delay
compared to more advanced health systems in the northern and central Italian cities.
KEYWORDS: plague, public health, emergency, early modern history, Sicily.
Premessa
È noto come a partire dalla peste nera del 1347-1348, soprattutto
nel Nord dell’Italia, le istituzioni governative si fossero impegnate in
uno sforzo considerevole sul piano normativo nel tentativo di arginarne la pericolosità, adottando misure concernenti il ruolo degli
ospedali, il controllo della professione medica, le condizioni igieniche
nei centri abitati1. Sulla base di esperienze già maturate nel corso del
* Il saggio si colloca nell’ambito del progetto FIRB 2012 «Frontiere marittime nel Mediterraneo: quale permeabilità? Scambi, controllo, respingimenti = XVI-XXI secolo» (coord.
dott. V. Favarò). Abbreviazioni utilizzate: Ags = Archivo General de Simancas; Asp =
Archivio di Stato di Palermo; Ascp = Archivio storico comunale di Palermo.
1
Per una visione d’insieme, cfr. A.G. Carmichael, Plague legislation in the Italian Renaissance, «Bulletin of the History of Medicine». 57 (1983), pp. 508-525. Per una prospettiva di lungo periodo cfr. G. Alfani, A. Melegaro, Pandemie d’Italia. Dalla Peste Nera
all’Influenza Suina: l’impatto sulla società, Egea, Milano, 2010, in particolare il primo
capitolo. Ben documentata sulla Francia è l’opera monumentale in due volumi di J.N.
Biraben, Les hommes et la peste en France et dans les pays méditerranéens, Paris-La
Haye, 1976, e in particolare il secondo tomo: Les hommes face la peste. Sull’arretratezza
n. 37
Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIII - Agosto 2016
ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online)
231
Rossella Cancila
Trecento2, si erano inoltre consolidati ormai a metà del XV secolo – in
particolare nei territori sottoposti al dominio nel ducato di Milano, sia
sotto i Visconti sia sotto gli Sforza – la pratica di controllare i punti di
transito e l’uso di patenti e bollette di sanità, che intestate al portatore
davano conto della sua provenienza, costituendo così una sorta di
lasciapassare3. Un’attenzione particolare fu rivolta anche al controllo
di flussi migratori provenienti dall’est dell’Europa (Balcani, Dalmazia,
Albania), soprattutto da parte di Venezia, che si trovò a fronteggiare la
massiccia pressione determinatasi a seguito della caduta di Costantinopoli nel 14534. Se Venezia, Firenze, Milano, Bologna furono senza
dubbio all’avanguardia in Europa, una menzione particolare merita
però anche Dubrovnik, l’antica Ragusa, particolarmente attiva nell’adozione di politiche di protezione e di controllo dei beni di consumo
(grano in primo luogo) e di merci provenienti da porti contaminati: essa
fu tra l’altro la prima città in Europa ad adottare la pratica della quarantena nel 1377 e – come studi recenti testimoniano – fu capace di
elaborare percorsi efficaci nel controllo della diffusione del contagio,
riuscendo a conquistare parecchi primati nell’organizzazione di un
apparato sanitario avanzato per l’epoca anche sul piano legislativo5.
Tali provvedimenti erano spesso gestiti da uffici di sanità istituiti
per l’occasione e presenti ormai nelle maggiori città dell’Italia setten-
dell’Inghilterra, cfr. P. Slack, The impact of Plague in Tudor and Stuart England, Routledge
and Kegan Paul, London-Boston, 1985. Per l’adozione di misure pubbliche in ambito
ottomano, cfr. N. Varlik, Plague and Empire in the Early Modern Mediterranean World:
The Ottoman Experience, 1347-1600, Cambridge University Press, 2015, che inserisce il
caso ottomano nel contesto più ampio del mondo mediterraneo tra il tardo medioevo e
la prima età moderna.
2
A Milano e in tutti i domini dei Visconti fu proibito l’ingresso di persone provenienti
da aree contaminate (1398), e vietato il passaggio persino ai pellegrini che in occasione
del Giubileo del 1400 si recavano a Roma dalla Francia e dalla Germania. A Pistoia per
esempio già in occasione della Peste Nera sin dal 1348 si era stabilito che per rientrare
in città da Pisa e Lucca occorreva l’autorizzazione del Consiglio del Popolo (A. Chiappelli,
Gli ordinamenti sanitari del comune di Pistoia contro la pestilenza del 1348, «Archivio
Storico Italiano», s. IV, t. XX (1887), pp. 3-24).
3
Le patenti erano documenti che accompagnavano le imbarcazioni, le bollette erano
invece rilasciate ai viandanti (cfr. G. Cosmacini, A.W. D’Agostino, La peste passato e
presente, Editrice San Raffaele, Milano, 2008, p. 133).
4
R.J. Palmer, The Control of Plague in Venice and Northern Italy: 1348 - 1600, Ph.D.
thesis, University of Kent at Canterbury, 1978, p. 54 del dattiloscritto. E anche Id.,
L’azione della Repubblica di Venezia nel controllo della peste, in Venezia e la peste 13481797, Marsilio editori, Venezia, 1980, pp. 103-110.
5
Cfr. Z. Blazina Tomic, V. Blazina, Expelling the Plague. The Health Office and the
Implementation of Quarantine in Dubrovnik, 1377-1533, McGill-Queen’s University Press,
London 2015; S.F. Fabijanec, Hygiene And Commerce: The Example of Dalmatian Lazarettos, «Ekonomska i ekohistorija», vol. 4 (2008), pp. 115-133. Secondo altre ricostruzioni
la quarantena sarebbe stata introdotta a Reggio Emilia nel 1374 da Bernabò Visconti,
seguita poi da analoghe misure assunte a Genova e Venezia.
232
Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo
trionale, che tra Quattrocento e Cinquecento in molte realtà urbane si
trasformarono in organismi stabili, come a Milano, Venezia, Genova,
Firenze6: la necessità di frenare il contagio indusse sempre più le autorità ad adottare misure nel tentativo di tutelare la salute della popolazione, regolamentando i comportamenti nell’emergenza della peste,
anche se generalmente il quadro legislativo mancava ancora di organicità. Queste magistrature concentravano su di sé poteri legislativi, giudiziari, esecutivi: elaboravano e varavano misure in materia sanitaria,
predisponevano i controlli necessari, giudicavano in merito a violazioni
di tali provvedimenti. La peste stava insomma trasformando la sanità
in una faccenda “pubblica”, la cui tutela doveva spettare alla sfera del
politico7. In questo senso la diffusione dell’epidemia, e l’emergenza cui
si accompagnava, funzionarono da fattore di accelerazione della
«modernità» in termini di crescita della politica di controllo della
società: «la sanità divenne un alibi dell’ordine»8. Certo non si trattò di
processi rapidi o lineari, ma lo sforzo in questo senso fu messo in atto.
Di sicuro nel corso del Cinquecento si determinò a livello europeo
un progressivo laicizzarsi del controllo e della gestione della salute
“pubblica”, e indubbiamente il governo della peste offrì un contributo
non secondario proprio perché si connaturò immediatamente per la
sua dimensione politico-medica. L’organizzazione e l’amministrazione
delle istituzioni ospedaliere in Europa subirono infatti delle trasformazioni – che si definiranno poi nel Settecento – sulla spinta sia del processo di urbanizzazione sia del dilagare delle malattie epidemiche. Le
autorità urbane si appropriarono progressivamente della funzione di
controllo degli enti ospedalieri soprattutto sul piano contabile, e cer-
6
Difficile stabilire chi detenesse il primato: a Venezia già nel 1348 erano stati designati
tre Savi alla sanità, ma solo nel 1486 fu creato in pianta stabile l’ufficio dei Provveditori
alla sanità, con poteri ampi e articolati che andavano dalla pulizia della città al controllo
della salubrità delle acque, alla vigilanza sui generi alimentari, alberghi, cimiteri, lazzaretti,
prostitute, ospedali, e sull’ingresso di navi e merci, sulle fedi di sanità. A Genova, sebbene
già nel 1480 fossero state raccolte e codificate delle norme in materia sanitaria, l’Ufficio di
Sanità ebbe carattere di temporalità e solo nel 1528 si configurò come magistratura
ordinaria, alla quale nel 1530 fu conferito il merum et mixtum imperium, con la facoltà di
comminare anche la pena di morte (cfr. G. Assereto, «Per la comune salvezza dal morbo
contagioso». I controlli di sanità nella Repubblica di Genova, Città del silenzio, Novi Ligure,
2011, p. 19). Il primato spetterebbe però a Dubrovnik, dove il primo Ufficio di sanità fu
stabilito nel 1390 e reso permanente nel 1397, prima dunque che a Venezia.
7
Cfr. G. Panseri, La nascita della polizia medica: l’organizzazione sanitaria nei vari
Stati italiani, in Storia d’Italia, Annali 3, Scienza e tecnica, a cura di G. Micheli, Einaudi,
Torino, 1980, p. 165; e il recentissimo L. Antonielli (a cura di), La polizia sanitaria: dall’emergenza alla gestione della quotidianità, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2015. Una
bibliografia periodicamente aggiornata sulla storia della sanità pubblica pre-moderna è
stata compilata da G. Geltner and J. Coomans, University of Amsterdam, disponibile
online Bibliography of Pre-Modern Public Health.
8
W. Naphy, A. Spicer, La peste in Europa, il Mulino, Bologna, 2006, p. 66.
233
Rossella Cancila
carono di regolarne finalità e funzionamento, anche se il ruolo assistenziale di gilde, confraternite, corporazioni, privati, enti ecclesiastici
continuava a essere rilevante in un contesto in cui la concezione caritativo-assistenziale rimaneva comunque ancora dominante: istituzioni
ecclesiastiche, forze laicali e autorità di governo insistevano spesso
sulle stesse realtà, ora in accordo, ora in regime di concorrenzialità
quando non di aperto contrasto9.
D’altra parte, nell’attività sanitaria assumeva un ruolo più incisivo
la competenza del personale medico. Rimane però incontrovertibile che,
malgrado gli sforzi compiuti a livello organizzativo dalla metà del XV
secolo, la scienza medica era rimasta assai arretrata e i trattati offrivano
ben pochi riferimenti sull’adozione di misure di pubblica sanità per
combattere il contagio. Pertanto gli stessi magistrati di sanità, legati
prevalentemente alla sfera dell’amministrazione urbana, spesso operavano nell’incertezza, non supportati dalla conoscenza medica, che non
aveva ancora maturato idee scientificamente sostenibili sull’eziologia
del morbo e sui meccanismi della sua diffusione10. In realtà cosa fosse
la peste non si sapeva neppure, e la confusione e intercambiabilità dei
termini utilizzati dai contemporanei (peste, febbre pestilenziale, morbo
contagioso, ecc.) ne sono una prova. L’opinione dei medici – anche accademici accreditati, come a Padova Girolamo Mercuriale e Gerolamo
Capodivacca – non di rado strizzava l’occhio alle autorità politiche per
compiacerle, avallando l’allentamento di misure restrittive dannose a
traffici e commerci interurbani: protezione delle persone e protezione
9
A. Pastore, Strutture assistenziali fra Chiesa e Stati nell’Italia della Controriforma,
in Storia d’Italia, Annali IX, La chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, a cura di G. Chittolini e G. Miccoli, Einaudi, Torino, 1986, pp. 431-465, che evidenzia come l’ambito ecclesiastico e l’ambito laico nelle loro diverse articolazioni siano
strettamente connessi, sia se si muovono in sintonia sia se invece sviluppano una logica
di concorrenza o di contrasto. Sull’argomento, cfr. J. Henderson, Healing the Body and
saving the soul: hospitals in Renaissance Florence ,«Renaissance Studies», vol. 15, n. 2
(2001), pp. 188-216, che a partire dal caso di Firenze tra tardo medievo e prima età
moderna e attraverso connessioni tematiche tra iconografia pittorica e funzioni dell’ospedale ne sottolinea il ruolo insieme religioso e civico. Si veda anche J.L. Stevens Crawshaw, Plague Hospitals: Public Health for the City in Early Modern Venice, Ashgate,
London, 2012. A Ragusa, pur essendoci enti religiosi che provvedevano a erogare servizi
inerenti alla tutela della salute pubblica, l’assistenza sanitaria era invece finanziata e
organizzata dal governo, che si fece promotore della costruzione di ospedali: l’hospedal
del comun fu uno primi a sorgere in Europa nel 1347 (Z. Blazina Tomic, V. Blazina, Expelling the Plague cit., pp. 69-71). Per un inquadramento complessivo, cfr. G. Cosmacini,
Storia della medicina e della sanità in Italia. Dalla peste nera ai nostri giorni, Laterza,
Roma-Bari, 2005, pp. 54-62. Cfr. anche il caso siciliano, studiato da R. Rossi, Organizzazione, amministrazione e gestione delle strutture sanitarie nella Sicilia di età moderna:
l’Ospedale di Santa Caterina pro infirmis di Monreale tra XVI e XVII secolo, «Mediterranea-ricerche storiche», n. 31, 2014, pp. 285-308.
10
C.M. Cipolla, Public health and the medical profession in the Renaissance, Cambridge University Press, Cambridge, 1976.
234
Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo
dei traffici rappresentano insomma i due poli di oscillazione del pendolo
con cui le autorità dovevano continuamente misurarsi11.
L’opinione corrente è che, all’interno della penisola italiana, a sud di
Firenze le organizzazioni sanitarie e la lotta contro l’epidemia rimasero
a un livello più rudimentale e occasionale per tutto il Cinquecento e il
Seicento12. A Napoli, ad esempio, i provvedimenti assunti già in occasione della peste del 1497, seppure in linea con i parametri di prevenzione, controllo e sorveglianza in vigore in altre realtà della penisola, non
discendevano da un’autorità permanente, e il Protomedico, che però non
si occupava nello specifico di peste, fu istituito solamente nel 153813.
Come si inserisce la Sicilia nel contesto del XVI secolo? Quale fu il
suo contributo all’elaborazione di teorie, procedure, strategie di controllo della peste, e più in generale di misure preventive adottate a
livello urbano a difesa della salute pubblica? È possibile superare l’idea
di un ritardo del Regno rispetto alle aree la cui organizzazione sanitaria
è considerata tra le più avanzate, come quelle dell’Italia centro-settentrionale? Manca uno studio organico recente sulla peste del 1575 a
Palermo, anche se la rinnovata attenzione nei confronti del protomedico Giovanni Filippo Ingrassia, che ne fu uno dei maggiori protagonisti, ha ampliato le nostre conoscenze soprattutto sul versante del suo
contributo alla cultura medica dell’epoca. I dettagli del sistema che in
quell’occasione si allestì, l’impianto istituzionale, le modalità del suo
funzionamento ci sono invece ancora poco noti14. Eppure, essi collocarono la Sicilia ai livelli più alti della capacità organizzativa e scientifica
dell’Europa tardo-cinquecentesca.
11
Cfr. P. Preto, Peste e società a Venezia, 1576, Neri Pozza editore, Vicenza, 1978,
pp. 47-49. Quello della relazione tra salvaguardia della salute comune attraverso l’adozione di misure restrittive, e salvaguardia degli interessi dei ceti mercantili, che chiedevano alle autorità attenzione a traffici e attività produttive al fine di evitare il collasso
economico, è uno dei temi su cui è recentemente ritornata la storiografia sulla peste e
sulla sanità pubblica: si veda, ad esempio, K. Wilson Bowers, Plague and Public. Health
in Early Modern Seville, University of Rochester Press, Rochester-New York, 2013. Il tema
è affrontato anche da R. Salvemini, Politiche e interventi su sanità e territori marittimi nel
Regno di Napoli, «Storia Urbana», 147 (2015), pp. 75-97.
12
Cfr. l’opinione di C.M. Cipolla, Il pestifero e contagioso morbo. Combattere la peste
nell’Italia del Seicento, il Mulino, 2012 (1a ediz. 1981), pp. 14-15.
13
Cfr. P. Lopez, Napoli e la peste 1464-1530. Politica istituzioni problemi sanitari,
Jovene, Napoli, 1989, pp. 28-33. Su Napoli si veda anche I. Fusco, Peste, demografia e
fiscalità nel Regno di Napoli nel XVII secolo, FrancoAngeli, Milano, 2007. Una recente
analisi sull’impatto della peste a Roma e nello Stato Pontificio negli anni compresi tra il
1576 e il 1579 è stata condotta da R. Sansa, Un territorio, la peste, un’istituzione. La Congregazione sanitaria a Roma e nello Stato pontificio. XVI-XVII secolo, «Storia Urbana», 147
(2015), pp. 18-24, che attesta l’esistenza di una congregazione sanitaria a carattere prevalentemente municipale e temporaneo istituita per l’occasione a Roma.
14
Si veda la ricostruzione di F. Maggiore Perni, Palermo e le sue grandi epidemie dal
secolo XVI al XIX, Palermo 1894, pp. 130-156.
235
Rossella Cancila
Giovanni Filippo Ingrassia
Un vero e proprio spartiacque nel modo in cui le autorità gestirono
l’emergenza della peste fu indubbiamente rappresentato nel panorama
europeo dall’Informatione del pestifero et contagioso morbo del protomedico siciliano Giovanni Filippo Ingrassia (1512-1580), trattato scritto
in occasione della peste che colpì Palermo nel 1575 e pubblicato nel
157615. È certo significativo che a Genova, dove la peste si manifestò
nel 1579, il governo abbia deliberato di far stampare il volume, poi diffusosi in tutta Europa grazie alla traduzione in latino di Joachim
Camerarius16. E ancora va rilevato che, durante la peste che colpì la
Sardegna negli anni 1582-1583, era protomedico di Alghero il napoletano Quinto Tiberio Angelerio, che introdusse misure profilattiche
nuove per il sistema sanitario dell’isola, assai simili a quelle già adottate da Ingrassia: Angelerio in effetti aveva praticato a Messina nel
1575-1576 e certamente aveva molto appreso da quell’esperienza, sebbene le fonti non rivelino alcun contatto diretto tra i due medici17.
Ingrassia, come gli studi di storia della medicina e della scienza
anche recentemente hanno ben evidenziato, impresse un forte impulso
al riordinamento delle arti mediche con diverse trattazioni che comprendevano anche una serie di ordinamenti a sfondo pragmatico, che contribuirono in modo determinante al rinnovamento dell’esercizio della
pratica medica in Sicilia, e non solo18. Formatosi a Padova – considerata
nel Cinquecento il più importante centro d’insegnamento medico non
15
G.F. Ingrassia, Informatione del pestifero, et contagioso morbo, 1576 (online digitalizzato da Google). Si veda la recente ristampa a cura e con prefazione di Luigi Ingaliso:
G.F. Ingrassia, Informatione del pestifero et contagioso morbo, a cura di Luigi Ingaliso,
FrancoAngeli, Milano, 2005, cui faccio riferimento nelle citazioni per i rimandi alle
pagine; ma anche l’edizione a cura di Alfredo Salerno [et al.], Accademia delle scienze
mediche, Palermo, 2012.
16
Cfr. G. Assereto, «Per la comune salvezza dal morbo contagioso» cit., p. 35. L’edizione
genovese (Avvertimenti contra la peste, 1579) fu tradotta in latino di Joachim Camerarius
col titolo Synopsis… commentariorum de peste… auctoribus Hieronymo Donzellino,
Iohanne Philippo Ingrassia, Caesare Rincio, Ioachimo Camerario, Norimberga, 1583): cfr.
C. Preti, Dizionario Biografico degli italiani, vol. 62 (2004), ad vocem.
17
Cfr. R. Bianucci, O.J. Benedictow, G. Fornaciari, V. Giuffra, Quinto Tiberio Angelerio and New Measures for Controlling Plague in 16th-Century Alghero, Sardinia, «Emerging
Infectious Disease journal», vol. 19, 9 (2013), (on line http://dx.doi.org/10.3201/eid
1909.120311http://www.cdc.gov/Other/disclaimer.html). Sull’argomento, cfr. anche F.
Manconi, Castigo de Dios. La grande peste barocca nella Sardegna di Filippo IV, Donzelli
Editore, Roma, 1994, pp. 115-119.
18
Un elogio dell’attività di Ingrassia come scienziato e come medico fu fatto da Arcangelo Spedalieri, Elogio storico di Giovanni Filippo Ingrassia letto nella grand’aula della I.
R. Università di Pavia, Milano 1817. Sull’attività di Ingrassia come Protomedico e come
scienziato, oltre ai volumi già citati a cura di Luigi Ingaliso (L. Ingaliso, Introduzione a
G.F. Ingrassia, Informatione cit., pp. 9-64) e Alfredo Salerno, mi limito a indicare C. Dollo,
Modelli scientifici e filosofici della Sicilia spagnola, Guida, Napoli, 1984, pp. 39-65; G.
Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia cit., p. 111; R. Malta, A. Salerno,
236
Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo
solo in Italia, ma anche in Europa – (dove si trasferì nel 1532)19, e a
Bologna (dove si laureò nel 1537), ricoprì la cattedra di anatomia e di
medicina teorica e pratica a Napoli nel 1544, chiamato dal viceré Pedro
Álvarez de Toledo e dal Senato di quella città20. Ritornato a Palermo nel
1553, ottenne l’incarico di lettore ordinario di medicina dal Senato, e
nel 1563 la nomina a protomedico del Regno21. Successivamente insegnò medicina a Messina dal 1564 al 1568. Egli – che risulta affiliato
all’Inquisizione spagnola in Sicilia22 – si giovò indubbiamente del favore
A. Gerbino, L’Informatione del pestifero et contagioso morbo di G.F. Ingrassia: percorso
diagnostico, in «Atti del Convegno primaverile della Società Italiana di Storia della Medicina: La diagnosi», giugno 2010, Dogliani Castello, 2010, pp. 48-52; R. Alibrandi, Giovan
Filippo Ingrassia e le Costituzioni Protomedicali per il Regno di Sicilia, Rubbettino, Soveria
Mannelli, 2011; Ead., Ut sepulta surgat veritas. Giovan Filippo Ingrassia e Fortunato
Fedeli sulla novella strada della medicina legale, «Historia et ius», www.historiaetius.eu
- 2/2012 - paper 7; A.G. Marchese, Giovanni Filippo Ingrassia, Flaccovio Editore,
Palermo, 2010; C. Valenti, Gianfilippo Ingrassia, pioniere in Sicilia della scienza medica
rinascimentale, «Archivio Storico Siciliano», serie IV, XXI-XXII, I (1995-1996), pp. 135158. Si veda anche il recente saggio di N. Cusumano, Ricerche sulla teratologia in Sicilia
(secoli XVI-XVIII), in «Studi Storici», 4/2012, pp. 855-881, pubblicato negli Stati Uniti col
titolo «Fetal monstrosities». A comparision of evidenze in Sicily in the Modern Age, «Preternature. Critical and Historical Studies on the Preternatural», Penn State University Press,
vol. 2 n. 2 (2013). Su piano internazionale l’interesse su Filippo Ingrassia è negli ultimi
anni notevolmente cresciuto nel contesto degli studi sulla letteratura in tema di peste:
in particolare, cfr. S.K. Cohn, Cultures of Plague, Oxford University Press, Oxford, 2010,
che a Ingrassia dedica un intero capitolo del suo libro.
19
A Padova in particolare Ingrassia entrò in contatto diretto con Andrea Vesalio,
Gabriele Falloppio, Giovanni Manardo, grandi accademici dell’epoca con le cui teorie fu
in grado di confrontarsi.
20
L’arrivo di Ingrassia a Napoli è «un evento che segna nella medicina napoletana la
fioritura di una nuova epoca. La sua attività rappresentò infatti il passaggio da una
medicina filologica a una medicina osservativa, da una medicina del testo a una medicina
del corpo» (F. Trevisani, Giovanni Filippo Ingrassia a Napoli, in C. Dollo (a cura di),
Filosofia e Scienze nella Sicilia dei secoli XVI e XVII. Le idee, vol. I, Università degli Studi,
Catania, 1996, p. 39). Sull’argomento, cfr. anche A. Musi, Medici e istituzioni a Napoli
nell’età moderna, in P. Frascani (a cura di), Sanità e Società: Abruzzi, Campania, Basilicata, Puglia, Calabria, secoli XVII-XX, Casamassima, Udine, 1990.
21
La nomina del primo protomedico del Regno di Sicilia si deve a re Martino
d’Aragona nel 1397, mentre le prime ordinazioni sul protomedicato risalgono al 1429 a
cura di Antonio D’Alessandro, che occupò la carica dal 1421 al 1440. Le stesse furono
poi riprese da Ingrassia con aggiunte e commenti. Sull’argomento cfr. P. Li Voti, Le
costituzioni protomedicali del Regno di Sicilia da Antonio D’Alessandro a Giovanni Filippo
Ingrassia ed a Paolo Rizzuto, Accademia di Scienze Mediche di Palermo, Palermo, 1989;
e ancora più recentemente D. Santoro, Lo speziale siciliano tra continuità e innovazione:
capitoli e costituzioni dal XIV al XVI secolo, «Mediterranea-ricerche storiche», n. 8 (2006),
pp. 645-484. Il testo delle Costituzioni e capitoli e giurisdizioni del Regio Ufficio di
Protomedicato con le pandette dello stesso, riformate e in molte parti rinnovate e delucidate
da Giovanni Filippo Ingrassia …, Palermo 1564 è stato pubblicato in traduzione italiana
da R. Alibrandi, Giovan Filippo Ingrassia e le Costituzioni Protomedicali cit.
22
Il suo nome – come Felipello Ingarsia, medico – risulta nella Matricula de los
oficiales, familiares de la Sancta Inquisición del Reyno de Sicilia del 1561 (cfr. F. Giunta,
Dossier Inquisizione in Sicilia. L’organigramma del Sant’Uffizio a metà del Cinquecento,
Sellerio, Palermo, 1991, p. 45).
237
Rossella Cancila
di cui godeva presso la corte vicereale già all’epoca di De Vega, che ne
favorì il rientro a Palermo; ma anche dello stretto rapporto con il duca
di Terranova Carlo d’Aragona, luogotenente del Regno al tempo in cui
scoppiò la peste del 1575; e della frequentazione con le più importanti
famiglie del panorama sociale e politico palermitano23.
Particolarmente rilevante risultò la sua attività medico-legale, con
suggerimenti e indicazioni metodologiche utili in sede giudiziaria nell’ottica di un rinnovato dialogo tra medico e giudice. Ma anche sul tema
della peste il suo contributo fu – come si è detto – assai originale rispetto
alla letteratura sull’argomento prodotta da altri medici del suo tempo,
come Girolamo Fracastoro, Nicolò Massa, Gabriele Falloppio, Giacomo
Argentieri, Girolamo Mercuriale, Ludovico Settala24. La concezione
dominante “classica” attribuiva all’aria la causa della peste e ai miasmi,
cioè le impurità dell’aria ispirata, la sua trasmissione (teoria miasmatica). L’idea della diffusione della peste per contagio (teoria dei germi) si
era in realtà ormai affermata nel XVI secolo grazie anche al successo
dell’opera del medico veronese Girolamo Fracastoro25 – che influenzò
indubbiamente l’opinione di Ingrassia –, anche se permanevano opinioni diverse sulla sua origine, che generalmente si ricollegava ancora
alle condizioni climatiche calde e umide favorevoli alla putrefazione
dell’aria26. Ingrassia dimostra di conoscere assai bene la letteratura
23
Carlo d’Aragona fu luogotenente del Regno di Sicilia dal 18 ottobre 1566 al 11 aprile
1568 e dal 27 settembre 1571 al 24 aprile 1577. Ingrassia stesso afferma di essere stato
medico di famiglia al servizio del Duca per 39 anni (G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte
I, cap. IX, p. 148 [74]). Ebbe rapporti professionali con importanti famiglie dell’epoca, come
i Ventimiglia. Suo primo mecenate fu però Alfonso II Cardona, conte di Chiusa e marchese
di Giuliana, che ricoprì la carica di presidente del Regno nel 1542-1543 in assenza del
viceré Ferrante Gonzaga: grazie a lui entrò nella cerchia cortigiana del Gonzaga, divenendo
medico personale della viceregina Isabella di Capua. Per notizie biografiche dettagliate su
Ingrassia, cfr. A.G. Marchese, Giovanni Filippo Ingrassia cit., passim.
24
Cfr. A.G. Marchese, Giovanni Filippo Ingrassia cit., p. 105.
25
L’opera di Girolamo Fracastoro, De contagione et contagiosis morbis et curatione,
pubblicata nel 1546 è stata considerata alla base della teoria dei germi. In verità la sua
importanza consiste nell’avere riformulato in una visione di sintesi teorie classiche ed
esperienza, affermando l’idea che la peste potesse originarsi per condizioni climatiche e
diffondersi poi per contagio diretto o per fomite oppure nell’aria: «appare meno come un
rivoluzionario e più come un riconciliatore della teoria classica con la moderna
osservazione» (A. Zitelli, R.J. Palmer, Le teorie mediche sulla peste e il contesto veneziano,
in Venezia e la peste cit., p. 25). Su Girolamo Fracastoro, cfr. anche il più recente A.
Pastore, E. Peruzzi (a cura di), Girolamo Fracastoro fra medicina, filosofia e scienze della
natura, «Atti del Convegno internazionale di studi in occasione del 450o anniversario della
morte: Verona-Padova 9-11 ottobre 2003», Olschki, Firenze, 2006. Sull’influenza che
Fracastoro ebbe sull’elaborazione di Ingrassia, cfr. L. Ingaliso, Introduzione cit., p. 45.
26
A. Kinzelbach, Infection, Contagion, and Public Health in Late Medieval and Early
Modern German Imperial Towns, «Journal of the History of Medicine and Allied Sciences»,
61/3, (2006) pp. 369-389, che puntualizza come i due concetti di miasma e contagio
coesistessero nella percezione comune e non venissero distinti rigorosamente.
238
Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo
sull’argomento e cita frequentemente suoi colleghi accademici, con cui
peraltro dovette avere in diversi casi una frequentazione diretta.
Quando si manifestarono nel giugno del 1575 i primi casi a Palermo,
egli ritenne, sulla base anche delle descrizioni dei medici che operavano
in città, di non essere innanzi a vera peste: non si era manifestata
infatti alcuna corruzione dell’aria, né di terra né di acqua, né alcun
segno di putredine, né poteva attribuirsi la presenza del morbo a
influssi celesti27. Nessuna dunque delle cause che la trattatistica sull’argomento attribuiva alla peste si era palesata chiaramente, anche se
il livello di incertezza rimaneva molto elevato sulla vera natura del
morbo. Né prese mai seriamente in considerazione le ipotesi che facevano riferimento a particolari congiunzioni astrali, al suo tempo ancora
in voga28; o quelle sull’origine manufatta nella sua forma demoniaca o
umana29. Solo quando, ai primi di luglio, il furore del contagio cominciò
a mietere vittime fu chiara la natura del morbo e si capì che esso era
giunto dalla Barberia su una galeotta infetta. Di origine «forestiera»,
esso si diffondeva per contatto diretto o mediato per fomite attraverso
vestiti o altri materiali30. Di conseguenza con determinazione si procedette da parte delle autorità all’adozione di misure più drastiche.
G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte I, cap. II, pp. 92-94 [18-20].
Le tesi di Ingrassia determinarono uno spostamento dell’attenzione dalle cause
celesti (influssi dal cielo) a quelle terrestri, e di conseguenza un ridimensionamento del
rapporto tra medicina e astrologia (cfr. L. Ingaliso, Introduzione cit., p. 40).
29
Ingrassia non indugia troppo su queste credenze, ma nella sua Parte quinta del
pestifero, et contagioso morbo, Palermo 1577, lancia un «avvertimento contra i seminatori
del contagio», identificandoli con i rinnegati, cristiani solo di nome, i quali, «desiderosi
per qualche lor disegno o per grandissima ribalderia, che la peste si aumenti, et disparga
per tutto, vanno seminando robe infette, dentro e fuor della città»: non sembra che
Ingrassia presti molta fede a queste dicerie, ma a livello cautelativo invita ogni città e
terra a «stare accorta», affinché nessuno raccolga da terra o tocchi «in questi tempi
sospetti di contagio» alcunché di cui non si conosca l’origine (ivi, pp. 36-37). In realtà,
gli interessa di più mettere in guardia per evitare la trasmissione per fomite della malattia, e la credenza in questo gli fa buon gioco. Vale la pena di sottolineare che in Sicilia la
credenza della peste manufatta demoniaca non godeva di molto credito tra i medici e
che mancava d’altra parte nell’isola una letteratura esorcista di consistente spessore
(cfr. cfr. C. Dollo, Peste e untori nella Sicilia spagnola, Morano editore, Napoli, 1991, pp.
14, 20). Sulla teoria della peste manufatta, cfr. P. Preto, Epidemia, paura e politica nell’Italia moderna, Laterza, Roma-Bari, 1987, pp. 5-23, e in particolare ivi, pp. 24-34 sulla
caccia agli untori nel Cinquecento.
30
La prima a morire a Palermo fu una meretrice maltese, che aveva «praticato» con
il capitano della galeotta sospetta: attorno a lei si verificarono poi una serie di casi soprattutto nel quartiere di Seralcadio (oggi meglio noto col nome di Capo). La galeotta, armata
a Messina, dopo avere corseggiato in Barberia, giunse = secondo quanto riferisce Ingrassia («dicono essere stata») = prima a Sciacca, dove sbarcarono alcuni degli infermi, diffondendo in pochi giorni il morbo in città, poi a Trapani, da lì a Palermo e infine a
Messina (G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte I, cap. VII, p. 133). Tra i centri più colpiti
in Sicilia furono anche Palazzo Adriano e Giuliana. Cfr. anche F. Paruta, N. Palmerino,
Diario della città di Palermo, in Biblioteca storica e letteraria di Sicilia, a cura di G. Di
Marzo, Palermo, 1869, I, pp. 62-63.
27
28
239
Rossella Cancila
La conoscenza del male, le ipotesi sulla sua origine e diffusione
erano strettamente connesse con le pratiche per combatterlo: Ingrassia affrontò il tema non solo sul piano teorico, in relazione all’eziologia
del morbo, ma anche in merito all’organizzazione di un apparato efficiente ed efficace di sorveglianza e di prevenzione, individuando in
modo chiaro quelle misure di igiene e profilassi, che dovevano essere
predisposte dalle autorità per combattere il contagio non tanto sul
piano della cura del singolo paziente, ma sul fronte dell’intera comunità. Inaugurò insomma un nuovo stile nel modo di scrivere sulla
peste e di occuparsi del tema, e il suo trattato fu una delle opere più
influenti e citate del suo tempo31. La sua Informatione del pestifero, et
contagioso morbo è stata considerata un vero e proprio codice sanitario32: essa rappresenta un protocollo cui attenersi nell’emergenza sanitaria, in cui la pratica del barreggiamento, il ricorso al fuoco per
bruciare le robe infette ed espurgare gli indumenti33 e l’applicazione
spietata della forca per i contravventori svolgono una funzione preventiva di assoluto rilievo. Ma anche l’oro necessario a finanziare l’azione
politica, col sostegno ai poveri più esposti al male e al contagio non
solo con elemosine, ma imponendo gabelle e collette ai più ricchi, e
tassando anche i medici34.
Le sue istruzioni costituiscono insomma un vademecum per le autorità sul comportamento da tenere nell’emergenza della peste non solo
al livello della pubblica sanità, ma anche della pratica politico-sociale,
configurando una distinzione di ruoli tra autorità politiche e personale
medico-sanitario, e al tempo stesso la necessaria collaborazione tra
loro. La diffusione del contagio si combatteva infatti per Ingrassia in
due modi: l’universale, che spettava alla pubblica autorità; e il particolare di pertinenza dei medici con l’arte della medicina35. Appare significativo che un medico abbia assunto un ruolo istituzionale
assolutamente di rilievo, e non marginale, all’interno della Deputazione, condizionandone e dirigendone l’operato. Sul piano del controllo,
della sorveglianza, dell’adozione di pratiche di registrazione e di identificazione personale le sue istruzioni rappresentano senza dubbio una
messa a punto fondamentale, che consentiva alle autorità di liberarsi
dall’approssimazione e improvvisazione che aveva caratterizzato sino
31
Ingrassia risulta citato da diversi autori, che si occuparono di peste, come Girolamo
Cardano, Andrea Gallo, Gioseffo Daciano e molti altri ancora (S.K. Cohn, Cultures of
Plague cit.).
32
Alfredo Salerno [et al.] cit., p. XI.
33
La lana in particolare veniva ritenuta un veicolo di trasmissione del morbo.
34
Ingrassia auspica – come si vedrà – un potenziamento del Monte di Pietà: «et hora
è tempo di ampliarsi, et darsi soccorso al Monte di Pietà». G.F. Ingrassia, Informatione
cit., parte I, cap. VI, p. 120 [46].
35
Ibidem.
240
Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo
ad allora la lotta contro l’epidemia. Ma esse segnano anche la consapevolezza della necessità di individuare, al fine di rimediarvi, i rischi
che potevano derivare alla salute pubblica da un ambiente malsano,
che occorreva risanare. Insomma, non si trattava di occuparsi del problema sanitario solamente quando un’emergenza era in corso, dunque
in presenza di una necessità, ma anche come sbocco di una scelta ben
precisa in vista della promozione di un habitat più sano, che concorresse alla riduzione dei rischi per la salute, «per preservare dal futuro».
La Deputazione di Sanità
La peste aveva colpito Palermo sin dall’anno 1347, e poi ancora nel
1400, nel 1482 e nel 1493. Nel corso del Cinquecento la Sicilia conobbe
altre ondate: nel 1526 essa era stata accertata a Licata, Terranova
(Gela), Caltagirone, Mazzarino e Agrigento, Messina, Siracusa, Enna36,
ma non era entrata a Palermo grazie alle misure adottate del Senato,
che era riuscito a controllare il suo territorio. Nel 1558 la città fu
ancora interessata da una violenta epidemia (probabilmente di tifo
petecchiale), in seguito a una impetuosa alluvione, che causò più di
ottomila morti37. La peste arrivò invece a Palermo il 9 giugno 1575, ma
– come si è detto – non se ne capì immediatamente la natura, anche
perché gli stessi medici non ne avevano mai avuta esperienza38. Alcune
porte della città furono chiuse, perché non vi è meglior amico, che la
vita, non pur la propria, ma la commune39; e già il 13 del mese su consiglio dei medici fu emanato un bando che imponeva di pulire le strade
e bruciare «ogni cosa fetida». Soltanto ai primi di luglio però, e non
Ascp, Atti, bandi e proviste, vol. 133/49 (1525-26), c. 39r.
Cfr. G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte I, cap. VII, p. 137 [62]. Ingrassia si era
occupato di questa epidemia già nel suo trattato sui mostri pubblicato a Palermo nel
1560 (Id., Trattato assai bello et utile dei doi mostri nati in Palermo in diversi tempi, 1560).
Si veda anche A. Corradi, Annali delle epidemie occorse in Italia dalle prime memorie fino
al 1850, Bologna, 1865-94, I, pp. 544-546. Relativamente al contesto dell’alluvione del
settembre 1557, cfr. il recente M. Vesco, L’alluvione di Palermo del 1557 tra rischio
idrogeologico, speculazione edilizia e piani di ricostruzione in M. Galtarossa, L. Genovese
(a cura di), La città liquida, la città assetata: storia di un rapporto di lunga durata, Palombi
Editori, Roma, 2014, pp. 161-188.
38
Vincenzo di Giovanni sottolinea l’esperienza del medico Antonino Sanzano, che era
stato a Costantinopoli (V. Di Giovanni, Palermo Restaurato, a cura di M. Giorgianni e A.
Santamaura, Sellerio, Palermo, 1989, p. 322). La peste aveva già colpito Trento sin dal
settembre del 1574 e da lì il contagio si sarebbe poi esteso in gran parte dell’Italia centrosettentrionale: cfr. G. Alfani, Il gran tour dei cavalieri dell’Apocalisse. L’Italia del «lungo
Cinquecento» (1494-1629), Marsilio, Venezia, 2010, pp. 145-146 (ora anche in edizione
inglese, Id., Calamities and the Economy in Renaissance Italy: The Grand Tour of the
Horsemen of the Apocalypse, Palgrave Macmillan, Basingstoke and New York, 2013).
39
G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte I, cap. VI, p. 119 [17].
36
37
241
Rossella Cancila
subito («come sarebbe stato meglio», riconosce lo stesso Ingrassia), «si
diede più risoluto principio al barreggiare, sequestrando i sospetti da i
sani, ordinandosi un hospedale per li ammorbati, fuor della città, et
molti altri ordini si diedero dal Luogotenente di sua Maestà, e dalla
Deputatione»40.
Il vertice decisionale era dunque costituito dalla Deputazione di
Sanità, una magistratura ancora temporanea istituita proprio per l’occasione, col compito di vigilare sulla cura della pubblica sanità a livello
cittadino, anche se tutte le operazioni più importanti appaiono dirette
da Carlo d’Aragona, che, pur non facendone parte formalmente, rappresentava il governo spagnolo41. Ne facevano parte il pretore (Giovanni
Villaraut, barone di Prizzi), a capo del governo della città, cui competeva
anche la giustizia civile; il capitano giustiziere (Ludovico Spatafora), che
sovrintendeva alla giustizia criminale; il protomedico del Regno Filippo
Ingrassia, come consulente per ciò che era di pertinenza alla medicina
(cooptato in verità solo in un secondo tempo, il 28 luglio 1575). A questi
si aggiungevano altri diciannove cavalieri, che ne costituivano il vero
braccio operativo: erano gli undici deputati preposti alla cura di ogni
quartiere della città (che prendevano ordini dalla Deputazione); i tre
Rettori della Cuba e i tre Rettori del borgo di Santa Lucia (nominati dal
duca di Terranova); il consultore (eletto dalla Deputazione) per la giustizia civile e criminale (Antonino Bologna), e il sindaco della città
(Perotto Valsecca), entrambi dottori in legge42. Tutti personaggi di primissimo piano sulla scena politica della Palermo dell’epoca. «Tanta era
la dignità di quest’ufficio della Deputazione della Sanità, che ogn’uno,
di qualunque dignità e grado che fusse, pregiavasi tra quelli esser connumerato, ed il procurava»43. Forse troppi, a parere dell’Ingrassia, che
riteneva «molto più perfetto dover essere, quando si riducesse al terzo,
che fossero in tutto al più del numero settenario», anche in considerazione del fatto che a Venezia non erano più di cinque44.
Veramente può dirsi che l’élite cittadina si fece carico delle maggiori
responsabilità. In questo senso la situazione di Palermo appare assai
diversa rispetto a quella di Milano, dove giocò un ruolo fondamentale
Ivi, parte I, cap. IV, p. 111 [37]. Ingrassia riporta spesso per esteso molti di questi bandi.
L’istituzione di una magistratura sanitaria stabile e centralizzata si ebbe in Sicilia
solo negli anni quaranta del XVIII secolo (cfr. D. Palermo, La Suprema Deputazione Generale di salute pubblica del Regno di Sicilia dall’emergenza alla stabilitá, «Storia Urbana»,
147 (2015), pp. 115-138).
42
G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte II, cap. IV, p. 236 [158]. Nel tempo il numero
dei deputati fu portato a 29, finché il viceré Colonna non li ridusse a 12, per ovviare alla
lentezza con cui venivano prese le decisioni. Successivamente, in occasione della peste
del 1624, il numero dei componenti salì ancora per la partecipazione dell’intero Senato,
che però esprimeva un solo voto.
43
V. Di Giovanni, Palermo Restaurato cit., p. 322.
44
G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte II, cap. III, p. 236 [159].
40
41
242
Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo
la personalità dell’arcivescovo Borromeo, tanto che la peste di quegli
anni è ricordata come «la peste di san Carlo»45. E se a Milano, dove pure
l’attività legislativa del Tribunale di Sanità presieduto da Gerolamo
Monti fu intensa, il governo rivelò incertezze decisionali al punto che al
più esperto Monti successe il senatore Brugora, «nuovo nelle cose sanitarie», tanto da destare le preoccupazioni del governatore, per lo più
assente e preoccupato piuttosto della sua incolumità; a Palermo invece
la Deputazione si radunava almeno una volta al giorno, anche due, e
discuteva continuamente alla ricerca delle misure più idonee da adottare. Il duca di Terranova, pur trascorrendo lunghi periodi nella vicina
Termini (risparmiata dal contagio), si assunse importanti responsabilità
e non lasciò la città alla gestione delle sole autorità cittadine, pur
demandando loro fondamentali funzioni46. E se Milano – da dove chi
poteva, fuggì – fu abbandonata persino dai medici, che si nascondevano
o simulavano di non essere tali, tanto che la città si trovò in balia di
alcuni imbroglioni47, a Palermo invece il deus ex machina fu il protomedico Filippo Ingrassia, e l’opinione dei medici fu tenuta in grande considerazione non solo in seno alla Deputazione, ma dallo stesso Carlo
d’Aragona48. Molti di loro morirono esercitando l’attività.
45
A Milano i primi casi di peste si verificarono a luglio e la peste fu conclamata l’11
agosto 1576: cfr. Ascanio Centorio de’ Hortensii, Commendator di S. Giacomo in Compostella, I Cinque Libri degl’Avvertimenti, ordini, gride, et editti. Fatti et osservati in Milano,
ne’ tempi sospettosi della peste, Venezia 1579. Per Milano, cfr. anche A.F. La Cava, La
peste di S. Carlo: note storico-mediche sulla peste 1576, Hoepli, Milano, 1945; L. Besozzi,
Le magistrature cittadine milanesi e la peste del 1576-1577, Cappelli, Bologna, 1988. Più
recentemente e in una prospettiva più ampia, cfr. G. Alfani, Il gran tour dei cavalieri dell’Apocalisse cit., pp. 145 sgg.
46
Ingrassia stesso riferisce che negli ultimi giorni di giugno, in una fase acuta del
contagio, «deliberò il detto Duca venirsene da Termine in Palermo a posta, per dare
ordine, et soccorso a tutto il bisogno» (G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte II, cap. I,
p. 213 [138]). Al verificarsi dei primi casi il duca si trovava a Messina, ma d’intesa con
Giovanni d’Austria, programmò il suo rientro a Palermo, passando da Termini, proprio
per avere il pieno controllo della situazione (Ags, Estado, 1144/72, Palermo 4 luglio
1575). Carlo d’Aragona d’altra parte si occupava non solo di Palermo, ma anche delle
altre città del regno, con disposizioni atte a fronteggiare l’emergenza e a contenere la
diffusione del morbo nelle diverse località in cui esso si andava via via manifestando.
Numerose disposizioni emanate dall’Aragona si trovano in Ascp, Proviste, 620/5 (a. 15751576). Traccia una mappatura del contagio S.A. Galizia, Territorio e popolazione nella
Sicilia d’età moderna (1571-1577), Tesi di Dottorato Ricerca in Territorio, paesaggio e
comunità locali: sviluppo integrato e sostenibilità, Tutor prof. S. Burgio, Università di
Catania, XXV° ciclo 2009-2012.
47
Cfr. G. Ripamonti, La peste di Milano del 1630, libri cinque, volgarizzati da F.
Cusani, Milano, 1841, p. 304.
48
I medici citati furono: Giovan Battista delle Ciambre, Santoro Vitale, Giulio di
Melazzo, Vincentio Tantillo, Luca Sinatra, Iacopo Garigliano, Francesco Crescenza, Vincentio d’Auria, Giacomo Capputo, Girolamo Gascone, Pietro Maccarone, Luciano La
Gola, Benedetto Vitale, Francesco Bisso, Lorenzo di Natale, Antonino Sanzano, (G.F.
Ingrassia, Informatione cit., parte I, cap. V, p. 112 [38]).
243
Rossella Cancila
Sul fronte esterno una delle prime azioni messe in atto dagli ufficiali
della città fu «l’intelligenza o aviso delle terre sospette o infette», affidata
a persone degne di fede col compito di effettuare una ricognizione
diretta. Questa pratica informativa allo scopo di raccogliere notizie
sicure in loco era adottata da Venezia, che inviava nelle città sospette
degli «esploratori di peste» con l’incarico di assumere informazioni dettagliate e di prima mano49. Furono pertanto designati un cavaliere
(Antonino Caravello) e un medico (Benedetto Vitale, «un de i nostri
Medici principali») e inviati a Palazzo Adriano, dove il morbo si era manifestato più intensamente, «per informarsi della natura e qualità del
male»50. Qui verificarono che in un «picciolo luogo, il quale non si può
ugualare alla ventesima parte di questa città», ne morivano pure dieci,
dodici al giorno e anche più: «donde riportarono chiara congettura di
peste». Si decise dunque «a maggior cautela» di rafforzare i controlli alle
porte della città, verificando che persone e merci provenienti dall’esterno
fossero accompagnate da patenti o bollettini emessi dai luoghi di provenienza (non sospetti né dichiarati infetti); e impedendo l’ingresso a
chiunque ne fosse sprovvisto51. Fu imposto che nessun «fondacaro, o
tavernaro, o tenitor barracca» entro il territorio della città per un raggio
di tre miglia potesse tenere aperto «il suo fondaco o la taverna o la barracca»52; e al di fuori di questo raggio non avrebbe potuto «accostarsi,
né lasciar accostare o conversare o praticare con persona alcuna forestiera viandante»53. Ingrassia è però ben consapevole che molti dal-
49
I Provveditori alla sanità vi ricorsero oltre che nel 1575 anche nel 1553 con la città
di Salisburgo, e nel 1557 con Vicenza e Padova, come documenta P. Preto, I servizi segreti
di Venezia, il Saggiatore, Milano, 1994, pp. 447-448; cfr. anche Id., Peste e società a
Venezia cit., pp. 17, 19.
50
G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte I, cap. VI, p. 126 [51]. La peste si era diffusa
intanto a Sciacca, Palazzo Adriano e Giuliana con una certa virulenza. Sul fronte siciliano
il duca di Terranova dispose che ognuno dei tre valli in cui era divisa l’isola fosse affidato
a due capitani d’arme con poteri speciali (Asp, Tribunale del Real Patrimonio, Lettere e
dispacci viceregi, vol. 619, c. 327; e ivi, vol. 633, c. 37).
51
Ivi, parte II, cap. XII, p. 332 [250]. Ingrassia riporta per intero il bando emanato
dal duca di Terranova il 28 novembre 1575, che costituiva la sintesi di trentasette bandi
diversi: ivi, pp. 331-345. Relativamente ai provvedimenti nei confronti delle navi sospette,
e in particolare della nave catalana scoperta per infetta innanzi al porto di Palermo, cfr.
ivi, parte II, cap. XVIII, pp. 376-384 [294-302].
52
Ivi, p. 333 [251]. A Milano nel 1576 fu stabilito in un primo momento che le osterie
restassero aperte a patto che gli hosti «promettessero con sigurtà de non albergar veruno
senza la debita bolletta; et che gli hosti della città et quelli delle camere locande dassero
ogni giorno nota di quelli che alloggiavano nelle hosterie et case loro» (G.F. Besta, Vera
narratione del successo della peste, che afflisse l’inclita città di Milano, l’anno 1576: & di
tutte le provisioni fatte a salute di essa citta, 1578, p. 6). Successivamente, coll’appressarsi
del contagio alla fine del mese di luglio, la diffidenza nei confronti dei forestieri crebbe e
l’ufficio di sanità raccomandò agli albergatori di non alloggiare «persone strane senza la
detta buona fede, né meno scrochi, ciurmatori et simili persone vagabonde» (ivi, p. 7).
53
G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte II, cap. XII, p. 333 [252].
244
Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo
l’esterno entravano in città con la frode, esibendo bollettini falsi54. A
imitazione di quanto si faceva già a Venezia su indicazione di Nicolò
Massa, anche a Palermo Ingrassia suggeriva che tutti coloro che fossero
giunti in città da località sospette portassero dei segni di riconoscimento, come ad esempio una tovaglia bianca cinta di traverso55.
Sin dai primi mesi di diffusione del morbo forte fu la preoccupazione di preservare le attività economiche, «stendensosi questa fama
[di infettione] ancho fuori del regno», contenendo i danni che potevano derivare alle rendite del patrimonio regio da una contrazione
dei traffici commerciali, «come già ha cominciato»56. Con gravi ripercussioni anche sul versante della produzione interna, se «si considera che parte delle biade per questi bisbigli et impedimenti di
commercio si ritrova anchora in campagna»: questa circostanza
aggiunta alla cattiva annata «riduce le cose di questo regno a strettezza molto straordinaria»57.
Ma è sul fronte interno che si concentrò soprattutto l’attenzione del
protomedico. Ingrassia raccomandò già a metà giugno alle autorità preposte al governo della città di ripulire le strade, «facendo nettare tutte
le puzzolentie et cagioni di generar fetore», liberandole dagli animali
morti («che se ne veggono molti per varie strade»)58, risanando le paludi
e gli stagni59, richiamando al loro dovere i mastri di mondezza, «che
non attendono ad altro, che a riscuotersi il suo salario», e usando rigore
contro di loro60. Ma ogni individuo, ricco o povero che fosse, doveva
dare il suo contributo, curando che la propria abitazione rimanesse
«limpida di qualsivoglia bruttezza, e di tener monde le sue latrine», pro-
54
Ivi, parte II, cap. XI, pp. 326-327 [244-245]. Particolarmente gustoso l’episodio di
un «astuto» villano che, respinto dal deputato della porta, aspettò che le guardie «si
posero a giocar a picchetto» e, mentre quelle «facevano lor conti del giuoco», se ne entrò:
ecco «già vedete, come sta la vita nostra in giuoco di picchetto?», l’amaro commento di
Ingrassia (ivi, p. 326 [244]). Il picchetto è un gioco di carte tra due giocatori, uno dei più
antichi, probabilmente di origine spagnola, ma particolarmente radicato in Francia a
partire dal XV secolo.
55
Ivi, parte I, cap. IV, p. 103 [29]; si veda anche Parte quinta cit., p. 16.
56
Così Carlo d’Aragona a Filippo II (Ags, Estado, 1144/72, Palermo 4 luglio 1575).
57
Ibidem.
58
Ai primi di agosto fu emanato un bando che ordinava che si uccidessero tutti i
cani, ma non quelli da caccia né «di feuda», che avrebbero dovuto però tenersi legati (G.
Di Marzo (a cura di), Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, Palermo, 18691886, I (1869), p. 65).
59
Il clima caldo umido di Palermo viene considerato da Ingrassia una delle ragioni
della putredine (G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte I, cap. VII, p. 134 [60]). Si dispose
ad esempio di risanare, prosciugandole e pavimentandole, la Ruga Nova (strada fangosa
e umida) nella parte che insisteva verso il Ballarò: Ascp, Atti, vol. 201/33 (a. 1575-1576),
cc. 353v-354r, 23 luglio 1576: e la strada di San Francesco, ivi, vol. 202/24 (a. 15761577), c. 68r, 6 ottobre 1576.
60
Ivi, parte I, cap. VI, p. 119 [45].
245
Rossella Cancila
fumandola anche con aromi «di poco prezzo per li poveri»61. Era questa
la fase della «purification dello aere»62. La contaminazione dell’aria era
infatti – come si è detto – ritenuta all’origine della “vera peste”. Questo
impegno appare assolutamente rilevante nel processo di individuazione
di misure preventive adottate a livello urbano per risolvere i rischi per
la salute pubblica63, ma appare altresì significativa l’attenzione riposta
al benessere psico-fisico con la cura della dieta personale, una corretta
regolazione del ritmo del sonno e della veglia, la propensione a una
«allegrezza modesta et virtuosa»64. Ciò che insomma, al di là dell’emergenza, viene a configurarsi come un vero e proprio stile di vita anche
sul piano personale.
Il diffondersi improvviso della peste in città con la crescita del
numero dei morti (circa 150 ormai al 18 di luglio) e il timore di non
poterla controllare indussero le autorità a provvedimenti più drastici,
mentre intanto maturava sempre più in Ingrassia la convinzione che il
morbo con cui lottare promanava da una pestilenza di origine contagiosa: che «si prohibisse ogni conversatione, donde ne potesse nascere
ampliation di contagio. Per lo che si levarono le schole publice, et i larghi, et lunghi visiti, che si solevano fare per li morti, et per gli infermi.
61
Ivi, parte III, cap. II, p. 421 [4]. Ingrassia ci informa che a Palermo ogni casa era
dotata di una «billacchia», una sorta di cisterna di scarico dove confluivano «le lavature
di tutte le bruttezze della medesima casa»; inoltre in ogni casa c’erano più latrine, che
benché coperte, non di meno lasciavano comunque molte aperture libere. Il pericolo era
la contaminazione dei pozzi. Ingrassia auspicava la realizzazione di una rete fognaria
coperta collegata con le singole abitazioni per convogliare le acque reflue al mare, come
aveva visto a Napoli (ivi, parte I, cap. VII, p. 136 [61]). Sulla questione del controllo
igienico della crescita urbana tra medioevo ed età moderna, cfr. E. Sori, La città e i rifiuti.
Ecologia urbana dal Medioevo al primo Novecento, Il Mulino, Bologna, 2001.
62
Una delle maggiori ragioni di corruzione dell’aria era la presenza delle tonnare: i
tonni infatti col loro sangue infettavano non solo il mare dove venivano catturati, ma
anche la terra, dove venivano fatti a pezzi per essere lavorati, sicché a giugno e a luglio
«in mare, et molto più in terra, si suol sentire gran puzzolenza, et grave odore dall’una
parte et l’altra della Città, ove sono le dette tonnare» (ivi, p. 135 [60]). A ciò si aggiunga
che in città «che sonno molte fontane, et fiumicelli dentro, et fuora (et questa si è la
quinta cagione) ne i quali si lavano le bruttezze delle beccherie, et concerie, et oltra tutte
le sporchezze de i panni della Città. tanto che la lor acqua, dico di questi, che sono dentro
la Città (se non è di notte, o di giorno di festa) mai non corre pura, ma turbidissima, et
piena delle dette bruttezze» (ivi, p. 136 [61]).
63
Cfr. G. Geltner, Public Health and the Pre-Modern City: A Research Agenda, «History
Compass», vol. 10/3, 2012, pp. 231-245.
64
G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte III, capp. III-VI, pp. 421-435. Si veda in
proposito anche l’interesse mostrato da Pietro Parisi (1593) e da Fortunato Fedeli (1602)
per le concrete condizioni di vita della civitas e per le condizioni psicologiche del malato
di fronte al morbo. Sul rapporto tra cibo e salute in un’ottica che connette la storia della
medicina alla storia dell’alimentazione, cfr. il recente volume di D. Gentilcore, Food and
Health in Early Modern Europe: Diet, Medicine and Society, 1450-1800, Bloomsbury Academic, London-New York, 2015, e in particolare il primo capitolo dedicato alla salute alimentare e alla dietistica nell’età rinascimentale.
246
Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo
Si prohibirono anco i venditori ad incanti, et i vaganti per la Città»,
come anche le meretrici65.
Si procedette al barreggiamento a tappeto: chiunque avesse in casa
un infermo di «mal contagioso» doveva immediatamente sotto pena
della vita rivelarlo al deputato del suo quartiere, che avrebbe provveduto a barreggiare e sequestrare quella casa, inviando l’infermo
all’ospedale della Cuba e i familiari al borgo di Santa Lucia66: una pratica di isolamento antica e terribile, che colpiva soprattutto i più poveri,
che vivevano in tuguri dove non c’era ventilazione né possibilità di praticare la purificazione degli indumenti. Le case barreggiate venivano
sequestrate, sorvegliate da guardie, nessuno poteva avvicinarsi; in presenza di un morto di peste gli indumenti infetti e il letto del malato
venivano bruciati67. Molti aggiravano l’obbligo di consegnare la propria
“roba”, alla quale tenevano più della vita stessa. In un successivo
bando dell’8 novembre 1575 fu disposta una ricompensa di 25 scudi
«di beveraggio» e l’indulto di qualche pena commessa a tutti coloro che
avessero denunziato casi di infermi non rivelati. Per ogni casa infetta
si sarebbe barreggiato tutto il cortile a seconda della gravità della situazione: le persone infatti solevano entrare e uscire da ogni cortile da una
stessa porta, ma soprattutto si servivano di uno stesso pozzo e di una
stessa pila per lavare. Inoltre le donne che abitavano i cortili, dette «cortigliare», ossia «donne molto curiose di saper i fatti d’altri», per lo più al
minimo mal di testa di un vicino di casa correvano a informarsi e a
curiosare, tanto che «non basterebbe il Diavolo a farle quiete»68.
In merito a queste disposizioni Ingrassia ritenne opportuno richiamarsi all’autorità di Nicolò Massa, che aveva affrontato l’argomento in
occasione della peste che aveva colpito Venezia nel 155569: Massa prescriveva di non sequestrare e isolare gli infermi, ma lasciare che familiari e amici se ne prendessero cura e avessero contatti con l’esterno,
facendo però attenzione a portare addosso un segnale di riconoscimento, ad esempio «un facciuolo bianco, che dal collo gli discendesse
65
Ai mendicanti fu concessa per due ore al mattino, sino a ora di pranzo la possibilità
di «andare a buscarsi loro limosine, et non escano più il giorno» (ivi, parte II, cap. XIV,
p. 358 [277]); alle meretrici fu proibito di uscire di casa per almeno due mesi e di ricevere
uomini a casa, specialmente «forestiere non conosciuto» (ibidem).
66
Ai primi di luglio si barreggiarono i conventi di San Domenico e di San Francesco
d’Assisi, dove tra i frati si erano verificati casi di peste.
67
Ivi, parte I, cap. IX, p. 145 [71]. Nella parte quinta Ingrassia ritornando sull’argomento raccomanda di usare «maggior rigore et minor misericordia (poi che questa sarà
la più grande misericordia) … non risparmiando robe di brucciare né havendo rispetto
a persone» (Parte quinta cit., p. 48).
68
Ibidem.
69
Sulle strategie attuate a Venezia durante la peste del 1555, cfr. R.J. Palmer, The
Control of Plague in Venice cit., pp. 142 sgg: certamente queste misure erano note a
Ingrassia.
247
Rossella Cancila
davanti sopra ogni altra sorte di vestimento, o qualche cosa simile.
Alché se non volessero poi ubbidire, fussero puniti atrocemente per
dar essempio a gli altri»70. Le norme dettate da Ingrassia furono però
più restrittive: egli precisò infatti che, quando «in una medesima casa
morissero molti, o si infettassero molti appresso il morto», allora
sarebbe stato necessario barreggiare71. Sino a quando non ci fosse
stato il morto, il barreggiamento sarebbe stato dunque evitato. Soltanto
ai ricchi, che vivevano in case più confortevoli poteva concedersi di
rimanere nelle proprie case e non andare al borgo, a condizione che la
casa fosse «commoda, con più corpi con astraco scoperto, o almen
ampio cortile, pozzo et pila per potervi sciorinar le loro robe, et profumare senza pregiudizio de i vicini»; e che gli interessati fossero in grado
di pagarsi le due guardie preposte alla sorveglianza72.
Ma soprattutto si mise in atto la sistemazione dei lazzaretti, «geometria che delimita rigorosamente lo spazio abitato dalla peste»73, relegandovi gli infetti e separando i sospetti dai sani74.
I nove lazzaretti di Palermo
All’assetto di questi ospedali speciali, destinati ad accogliere in luoghi separati uomini e donne, infetti, sospetti e convalescenti, si diede
dunque seguito a Palermo proprio in occasione della peste del 1575,
con un certo ritardo rispetto ad altre città italiane ed europee. In verità
nel passato erano stati adibiti a lazzaretto degli infetti alcuni monasteri,
come quello di Santo Spirito (poi Santa Maria dello Spasimo) e da
ultimo San Giovanni dei Lebbrosi – già sede dal medioevo di un lebbrosario gestito dai cavalieri teutonici –, che però non rispondevano
pienamente alle esigenze di un numero crescente di infermi. Si trattava
70
G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte I, cap. VI, p. 123 [48]. Maggiore sarebbe
stato per loro il rischio di ammalarsi rimanendo a vivere in «quelle casupole serrati piene
d’ogni immonditie, & fetore, & de’ fiati, o respiratione cattiva d’infermi, & di quelli, che
insieme sono serrati» (ibidem).
71
Ivi p. 123 [48-49].
72
Ivi, parte II, cap. XIV, p. 360 [278].
73
G. Panseri, La nascita della polizia medica cit., p. 162, che insiste molto sugli
aspetti sociali della relegazione come strumento di controllo di poveri, vagabondi e
mendicanti.
74
Così chiarisce Ingrassia: «intendiamo per infetti quei che hanno havuti nelle loro
case molti morti, o mandati alla Cubba, et quei, che con tali havessino praticato
strettamente»; «per contra diciamo semplicemente sospetti quei, che sieno della medesima
casa, ma non habbiano praticato con gli ammorbati; o ver della loro casa sia uscito un
solo, subito scoprendosi col bubone, o con qualche segno di contagio. Giusto è dunque
che non si mescolino, et che ognuno si guardi da maggior infortunio, per quanto sarà
possibile» (G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte II, cap. II, pp. 229-230 [152]).
248
Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo
comunque di istituzioni a sfondo prevalentemente caritativo, in cui
come nelle strutture ospedaliere presenti in città l’organizzazione era
nelle mani delle confraternite, secondo un modello largamente affermatosi in Europa. Anche nella più avanzata esperienza veneziana
l’aspetto religioso e caritatevole continuò a rivestire un ruolo di primaria importanza nella gestione dei lazzaretti, che erano ubicati in luoghi
religiosi: il Lazzaretto Vecchio, ospitato presso l’ex convento degli eremitani di Santa Maria di Nazareth, era una delle opere pie più importanti della città, destinato alla cura dei poveri, anche se a Venezia nello
specifico furono fatti importanti tentativi di sviluppare una struttura
civica che, benché ancora legata all’aspetto religioso, non ne fosse però
dominata75. Se il Lazzaretto Vecchio di Venezia era soprattutto un luogo
di pietà, il Lazzaretto Nuovo (1468) segnava già la transizione da ospizio
a ospedale, struttura affidata prevalentemente a funzionari civili,
«ormai luogo di controllo, sede di una prassi per certi versi simile a
quella ospedaliera dell’accettazione e dello smistamento: accettazione
in quarantena dei sospetti, smistamento nel lazzaretto vecchio dei
sospetti rivelatisi infetti»76.
A Palermo nel 1575 fu individuato «un Real Palagio antico fatto a
tempo dei re Mori, et perciò chiamato dai medesimi la Cubba», che
apparteneva a «una certa vedova»77, fuori dalla città, ricco di acqua,
75
Cfr. J.L. Stevens Crawshaw, Plague Hospitals: Public Health for the City in Early
Modern Venice cit. Sull’argomento cfr. anche A.G. Carmichael, Plague and the Poor in
Renaissance Florence, Cambridge University Press, Cambridge, 1986, pp. 119-120, che
evidenzia come in diverse realtà italiane (Venezia, Ferrara, Milano, Firenze) l’aspetto
caritativo fosse alla base della decisione di creare un lazzaretto. Venezia edificò in laguna
il suo primo lazzaretto nel 1423, anche se la Repubblica aveva stabilito il primo lazzaretto
al mondo nell’isola di Mljet (regione di Dubrovnik) già nel 1377. Il Lazzaretto Nuovo fu
edificato a Venezia successivamente nel 1468 e fu destinato ad accogliere per il periodo
di quarantena sia coloro che avevano superato il morbo prima di ritornare alla vita
quotidiana sia le persone sospette. L’idea prevalente era che il morbo arrivasse dalla
terraferma piuttosto che dal mare e perciò inizialmente furono edificati dei lazzaretti nel
1437 a Padova, nel 1438 a Brescia, nel 1473 a Verona, nel 1484 a Salò. Progetti analoghi
furono realizzati a Mantova (1450), Ferrara (1464), Firenze (1463), Napoli (1464), Siena
(1478) e Milano (1488). Sino alla fine del XV secolo Firenze non ebbe però un lazzaretto
permanente e soltanto con la crisi degli anni venti del Cinquecento maturò la necessità
di una separazione tra i malati endemici e quelli epidemici (cfr. J. Henderson, The
Renaissance Hospital: Healing the Body and Healing the Soul, Yale University Press, New
Haven and London, 2006, pp. 93-102). Sull’argomento ma con una proiezione sull’età
moderna, cfr. anche D. Panzac, Quarantaines et lazarets. L’Europe et la peste d’Orient
(XVIIe-XXe siècles), Edisud, Aix-en-Provence, 1986.
76
G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia cit., p. 65.
77
G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte II, cap. I, p. 215 [139]. Il castello della Cuba,
oggi in corso Calatafimi, era ubicato all’interno di un immenso giardino che si estendeva
a sud ovest del Palazzo Reale e che solo in parte nel 1571 la Regia Corte aveva
riacquistato dai coniugi Bettina Battaglia e Michele Ariaca («Archivio Storico Siciliano»,
vol. 22, a. XII, n.s., 1897, pp. 547-550).
249
Rossella Cancila
arioso, considerato dai medici e dai componenti della Deputazione
come il più adatto a essere adibito a nuovo ospedale «o vogliam dire, a
guisa di Lombardia, Lazareto»78. Qui furono trasferiti a partire dal 26
di luglio da San Giovanni dei Lebbrosi tutti i malati già accertati, e
ospitati i nuovi arrivi. La sua funzione era dunque quella di separare
gli infetti dai sani79.
La laicità del luogo rispetto alle precedenti locazioni costituisce
senza dubbio un segnale di come l’apparato governativo intendesse
ormai gestire in autonomia la peste, divenuta un affare di pertinenza
della politica, lasciando ai religiosi la cura spirituale delle anime e la
somministrazione dei sacramenti. Non era stato così a Milano nel 1576,
dove nel momento in cui la pestilenza aveva raggiunto il suo acme la
cura del lazzaretto era passata – per volontà dell’arcivescovo Carlo Borromeo – dall’Ufficio di Sanità nelle mani dei cappuccini, di fra Paolo
Bellintani in particolare, investito di amplissimi poteri con l’«auttorità
di far detenere, essaminare e ancora interrogare con tormenti li malfattori, overo gli imputati e indiciati di alcuno delitto»80. Addirittura il
lazzaretto era stato «messo in ordine» a spese del cardinale Borromeo,
che lo mantenne per alcuni mesi elargendo elemosine81. E, quando
78
G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte I, cap. VII, p. 132 [57]. Il modello di Ingrassia
è dunque Milano, dove nel 1488 venne completato il lazzaretto che ospitò gli ammalati
anche durante le ondate del 1524, del 1576 e del 1629. Sulla esemplarità del lazzaretto
di Milano, cfr. le considerazioni di G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in
Italia cit., pp. 66-69.
79
Ingrassia ci informa che in un primo momento i malati erano stati ospitati presso
l’ospedale dello Spasimo, ma a seguito delle proteste degli abitanti della Kalsa, che
temevano di infettarsi, dopo solo otto giorni furono trasferiti a San Giovanni dei Lebbrosi,
finché non si individuò di lì a poco il nuovo sito della Cuba (G.F. Ingrassia, Informatione
cit., parte II, cap. I, p. 214 [138]).
80
«Ma intendendo il signor cardinale che le cose temporali non andavano bene, né
erano sostenuti li poveri ne loro bisogni corporali, mi fece dare dall’eccellentissimo
Senato il carico ancora temporale, il quale essercitai un anno …»: cosi fra Paolo
Bellintani, autore dell’opera Dialogo della peste, che costituisce la più importante
testimonianza della peste di San Carlo, ora ristampato nell’edizione critica a cura di
Ermanno Paccagnini, Scheiwiller, Milano, 2001, pp. 118-119. Il Bellintani – che a
giudizio del Ripamonti si comportò come un dittatore e un giudice – agì con molta
durezza, avvalendosi dell’aiuto di alcuni «birri» per il mantenimento dell’ordine all’interno
del lazzaretto: «quasi ogni giorno facevo dar corda, scopare, incarcerare, flagellare alla
colonna legati e altri simili castighi» (ivi, p. 142).
81
Così si legge nella Relatione verissima del progresso della peste di Milano: qual principiò nel mese d’Agosto 1576 e seguì fino al mese di Maggio 1577 scritta dal gesuita Paolo
Bisciola nel 1577. Ma anche Giacomo Filippo Besta attesta che Carlo Borromeo «fece
eregere» l’ospedale di Santa Maria della Vittoria «sotto la cura di due religiosi», provvedendo al suo mantenimento con elemosine (G.F. Besta, Vera narratione del successo della
peste cit., p. 8). In un dispaccio del 12 agosto 1576 l’ambasciatore veneto Ottaviano di
Mazi riferiva che il cardinale Borromeo aveva offerto mille scudi al mese a vantaggio dei
ricoverati nel lazzaretto, «avendovi posti due padri de’ Giesuiti al governo» (cit. in E. Paccagnini, Introduzione a Paolo Bellintani, Dialogo della peste cit., p. 19).
250
Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo
queste non bastarono, provvidero «le parrochie della città, supplendo
in ciò le comunità»82. Molto, nell’assenza dei maggiorenti della città,
era stato affidato alla cura caritatevole e alla generosità dei religiosi e
dei volontari, anche sul piano finanziario, mentre i magistrati cittadini
cercavano di scaricarne invano il peso sul Fisco Regio. Di fatto a Milano
era stata messa in scena l’impotenza dell’autorità civica e statale a
gestire l’emergenza nella sua fase più acuta. Le relazioni del tempo,
tese certo a celebrare l’attività esemplare del cardinale Borromeo e dei
religiosi in un clima fortemente ispirato dai canoni del Concilio di
Trento e dalla spiritualità post-tridentina, rappresentano una città in
cui si muore, ma soprattutto si prega e si canta. Diversamente a Brescia, città sottoposta al dominio di Venezia sul piano politico e a quello
di Milano sul piano spirituale, si era determinata una vera e propria
contrapposizione di poteri: di fronte alla drammaticità della situazione
il cardinale Borromeo aveva incaricato il Bellintani – forte dell’esperienza già maturata a Milano – di fornire assistenza spirituale ai fedeli
di quella città, ma il Podestà e l’apparato di governo si opposero fermamente, dubitando che egli volesse ottenere piuttosto una qualche
autorità temporale sul lazzaretto, che essi non erano affatto disposti a
concedergli83.
Del lazzaretto della Cuba – struttura capace di ospitare più di mille
persone84 – Ingrassia nella seconda parte della sua opera descrive con
attenzione gli spazi e i successivi ampliamenti disposti dal duca di Terranova, presidente del Regno di Sicilia, per rendere più capiente e funzionale l’edificio85. E allega al suo volume una pianta in cui mostra nel
dettaglio l’organizzazione dello spazio circostante, dove ogni cosa trova
il suo posto (fig. 1)86. Come il carro che, procedendo da Porta Nuova,
porta gli infetti e la loro roba (il letto, le lenzuola, gli indumenti)87; o la
«seggia» per trasportare gli infermi; e quel tale «che va innanzi alla seggia, sonando la campanella», per avvisare i passanti di fare attenzione;
il medico che procede accompagnato da due guardie; il protomedico
con i rettori dell’ospedale; il luogo «dove si dà la corda a i disubbidienti»
e quello dove si bruciavano le robe infette, considerate responsabili del
contagio. Sono inoltre indicati i saloni separati per le donne e per gli
uomini con febbre e senza febbre, e descritte le misure delle stanze, il
G.F. Besta, Vera narratione del successo della peste cit., p. 8.
Cfr. la ricostruzione di E. Paccagnini, Introduzione a Paolo Bellintani, Dialogo della
peste cit., pp. 34-39.
84
G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte II, cap. XI, p. 321 [239].
85
Ivi, parte II, cap. I, pp. 215-223 [139-147].
86
Ivi, p. 216 [140].
87
Ingrassia prescrive che i beccamorti e i portantini «tutti habbiano di andare vestiti
di azurro, fin alla berretta, per conoscersi», cfr. il cap. 32 del bando del 28 novembre
1575, ivi, parte II, cap. XII, p. 343 [262].
82
83
251
Rossella Cancila
Fig. 1 - Il lazzaretto della Cuba (G.F. Ingrassia, Informatione
del pestifero, et contagioso morbo, 1576, online digitalizzato da Google).
252
Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo
numero dei letti e le persone che vi possono essere ospitate (due per
letto; tre o quattro in caso di fanciulli). Sono indicate l’ubicazione e
l’ampiezza della spezieria, della cucina, della dispensa, del guardaroba;
le stanze per il personale sanitario (chirurghi, barbieri, fisici); la cappella dove praticare i sacramenti; il cimitero nelle immediate vicinanze
dove seppellire i morti, nudi e ricoperti di calce per limitare le esalazioni. E quando i locali della Cuba non furono sufficienti a ospitare
tutti gli infermi, la Deputazione con l’assenso del duca fece fabbricare
altri due mezzi edifici in legname.
Ma la novità più rilevante del sistema ideato da Ingrassia fu la separazione in edifici diversi dei malati dai convalescenti in via di guarigione
(«netti di febbre» da almeno 14 giorni, ma non ancora completamente
guariti perché con qualche residuo di piaghe), i quali a contatto con gli
infetti vecchi e nuovi erano seriamente a rischio di recidiva. All’esterno
del complesso della Cuba furono così allestiti due differenti edifici, uno
per gli uomini tra la Chiesa di S. Leonardo e il convento dei Cappuccini
(per 250 persone e più) e l’altro poco distante per le donne (da 150 a
200 posti), ognuno dei quali era affidato a uno spedaliere, e rifornito
di vettovaglie a spese della città, dove questi convalescenti erano ospitati per ventidue giorni88. Qui ogni ospite dimorava almeno 22 giorni,
e in pile grandi e comode poteva lavarsi continuamente con acqua corrente abbondante, cenere e sapone, forniti dall’amministrazione.
Altrove in Italia tale distinzione non sempre era praticata e i lazzaretti ospitavano e curavano al loro interno spesso indifferentemente
malati e convalescenti seppure collocandoli in reparti diversi89. A
Milano l’ospedale di San Gregorio, considerato un modello cui si ispireranno molti dei successivi lazzaretti, era dotato di 388 camere perimetrali e suddiviso in tre «stechati», uno per gli infetti (l’infermaria),
uno per i sospetti, e il terzo (detto Paradiso) per i risanati che vi facevano la quarantena90. Quando la situazione si aggravò, durante la
peste del 1576-77, per supplire alla carenza di posti, fu stabilito che
all’esterno della città si facessero delle «capanne», dove mettere infetti
e sospetti (due o tre al più per capanna, con riguardo «de lo stato e
qualità loro»), duecento per ogni Porta della città, una sorta di «lazzaretti succursali fuori delle mura». A Genova il Lazzaretto della Foce,
costruito a partire dal 1522, doveva raccogliere gli appestati nei
momenti di emergenza, ma fondamentalmente fungeva da ricovero dei
88
Ivi, parte II, cap. I, pp. 221-222 [145-147]. I due saloni potevano ospitare da 130
a 150 persone (in caso di presenza di fanciulli, che evidentemente venivano ricoverati
con gli adulti), ma in caso di necessità potevano essere aggiunti almeno altri 50 letti. I
due edifici sono visibili nella fig. 1 contrassegnati coi numeri 21 (luogo delle donne
convalescenti) e 25 (luogo dei convalescenti maschi).
89
Si veda per Milano, G.F. Besta, Vera narratione del successo della peste cit., p. 9.
90
Ivi, p. 18.
253
Rossella Cancila
miserabili, e da luogo dove si svolgevano le quarantene e le purghe.
Esso venne descritto come un grande edificio quadrato, diviso in due
parti, «con chiostri e molte officine condecenti alla cura de gli ammalati
di morbo pestifero»91. A Venezia invece – come si è detto – il Lazzaretto
Vecchio era destinato agli ammalati e quello Nuovo ai sospetti, che vi
facevano la contumacia di 22 giorni; e solo successivamente con l’aumentare degli ammalati durante la peste del 1575-77 fu costruito un
lazzaretto galleggiante provvisorio costituito da case di legno fabbricate
su vecchie galee e grandi vascelli92.
Da ultimo a settembre (quando il numero dei morti era già salito a
circa 2.100 unità), «a sodisfattion del volgo» si impiantarono a Palermo
altri due ospedali, uno per le donne e uno per gli uomini, nel quartiere
Sant’Anna93, ormai entro le mura della città, dotati di numerose stanze,
pozzi, acqua corrente, dove coloro che erano già completamente guariti
dopo la convalescenza trascorrevano ancora 14 giorni circa per l’«ultima
purificazione» prima di ritornare in libertà94. Ora la gestione finanziaria
era diversa: mentre negli altri ospedali tutto era spesato, «con buon
mangiare e bere», qui a ogni ospite era pagato un tarì al giorno (uno
scudo d’oro in totale). Questa somma doveva aiutarlo a sostentarsi
autonomamente, consentendogli di acquistare in una taverna in loco le
cose necessarie; e doveva consentirgli di risparmiare qualcosa per mantenersi successivamente ancora per qualche giorno nell’attesa di trovare
una sistemazione: lo scopo era infatti quello di rendere meno difficile il
rientro alla normalità, che per i più era drammatico perché i risanati
venivano guardati con molta diffidenza e, spesso poverissimi, al rientro
non avevano da mangiare o si nutrivano di cattivi cibi95. Ma ormai dopo
la sosta presso l’ospedale di Sant’Anna «uscendo costoro, sono senza
più sospetto abbracciati da tutti loro amici, et parenti»96.
Una «gran machina», come la definisce lo stesso Ingrassia, veramente l’istituzione portante di tutto il sistema sanitario, il cui governo
fu affidato dal duca di Terranova a tre Rettori, Emilio Imperatore, Pietro
Antonio del Campo, Francesco Lanza, «ai quali si danno anco dalla
G. Assereto, «Per la comune salvezza dal morbo contagioso» cit., p. 69.
Cfr. P. Preto, Peste e società a Venezia cit., p. 37. Si veda la descrizione dei due
lazzaretti di Venezia di Rocco Benedetti, che li paragona all’inferno e al purgatorio (R.
Benedetti, Successo della peste l’anno 1576, cit. da P. Preto, Peste e società a Venezia
cit., pp. 157-158). Diversi documenti relativi a deliberazioni assunte dai Provveditori alla
sanità di Venezia in occasione della peste del 1575-77 si trovano nel volume Venezia e
la peste cit., pp. 130-140.
93
G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte II, cap. X, pp. 150-151 [76-77]. Si tratta
della zona che gravita attorno a piazza Sant’Anna al Capo (quartiere di Seralcadio).
94
Ingrassia calcola che a novembre 140 malati erano già guariti, e circa altri 200
stavano uscendo dal comprensorio della Cuba (ivi, p. 151 [77]).
95
Per Ingrassia la fame è «sorella della peste» (ivi, parte I, cap. II, p. 86 [13]).
96
Ivi, parte I, cap. X, p. 151 [77].
91
92
254
Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo
Città et Deputatione tanti denari, quanti ne vogliono, per la grandissima spesa» sostenuta97. A essi spettava occuparsi di tutto il necessario: medici, medicine, personale, confessori, cappellani, letti,
vettovaglie, guardie, per una spesa che intanto Ingrassia calcolava pari
a 30.000 scudi98.
Oltre a questi otto lazzaretti (Ingrassia conta gli edifici), dedicati agli
infermi, poi convalescenti e finalmente sani, fuori dalla Porta di San
Giorgio, dall’altra parte della città, fu predisposto in tempi strettissimi
un nono lazzaretto, il borgo di Santa Lucia, che aveva sino ad allora
ospitato i militari spagnoli di stanza in città99. Qui dovevano purificarsi
– come si è detto – coloro che erano sospetti, perché in casa avevano
avuto qualche infermo o qualche morto, e pertanto le loro case erano
state barreggiate100. È probabilmente questa la condizione più drammatica, anche perché coloro che vi erano ospitati erano stati costretti
ad abbandonare le proprie case, separandosi dai propri congiunti già
infermi dirottati alla Cuba. Una sorte che generalmente toccava ai più
poveri, in quanto i ricchi le cui abitazioni erano più ampie, spaziose e
arieggiate, potevano = come si è detto = procedere a casa propria alla
purificazione. Si tratta di una sorta di ghetto, dotato di singole abitazioni, che i vecchi proprietari furono costretti ad abbandonare e mettere a disposizione della municipalità: circa 200 case in legno e
muratura, ma altre ne furono poi edificate per ordine del duca di Terranova che stanziò cento onze101. Qui venivano trasportati su appositi
Ivi, parte II, cap. III, p. 236 [158].
Ivi, parte II, cap. I, pp. 223-224 [147] .
99
Ivi, parte II, cap. II, pp. 227-228 [150-151] (lettera di Ingrassia al Terranova del 24
luglio 1575). Il duca di Terranova era stato renitente a concedere questo sito, costruito
a partire dal 1567 da Guglielmo Fornaya, che sarebbe dovuto essere il primo nucleo di
un nuovo quartiere di espansione, ma poi aveva ceduto alle pressioni di Ingrassia. Il
borgo si trovava lungo la strada litoranea di porta San Giorgio nella piana settentrionale
intorno alla città. La Porta San Giorgio (poi demolita nel 1724 e ricostruita nello stesso
luogo, ma dedicata a Santa Rosalia) sorgeva nei pressi del Molo, vicino la chiesa di San
Giorgio, un tempo chiesa di San Luca (da non confondere quindi con San Giorgio dei
Genovesi, edificata più tardi): cfr. G.F. Ingrassia, Informatione del pestifero et contagioso
morbo, a cura di Alfredo Salerno [et al.], cit., p. 118n. Sulla costruzione del borgo di Fornaya (poi di Santa Lucia), cfr. M. Vesco, Un piano di espansione per Palermo nel secondo
Cinquecento: Guglielmo Fornaya e la fondazione del borgo di Santa Lucia, in G. Villa (a
cura di), Scritti in onore di Enrico Guidoni, Edizioni Kappa, Roma, 2014, pp. 151-164.
100
Prima che vi venissero trasferiti i barreggiati Ingrassia consigliò di far disseccare
la palude situata tra la Chiesa della Consolazione e il giardino del Duca di Bivona,
operazione che poteva essere compiuta in non più di tre giorni.
101
Si veda il bando del duca di Terranova del 1575 perché «si faccino case al burgo»,
dal momento che «le case di esso borgo che vi sonno al presente essere tutte piene et,
succedendo di haversi ad andare altre persone, non haveranno loco atto alla loro cura»,
Ascp, Proviste, vol. 620/5, c. 45r. cit. in M. Vesco, Un piano di espansione per Palermo
cit., p. 162. A distanza di sole due settimane per l’aggravarsi della situazione il duca
manifestava la propria disponibilità ad autorizzare una spesa maggiore (ivi, c. 45v).
97
98
255
Rossella Cancila
carri anche gli indumenti di ognuno perché fossero purificati: Ingrassia
raccomandava che i «portatori» dei sospetti non fossero gli stessi degli
infetti. Anche questa struttura fu affidata a tre Rettori, il conte di
Vicari, sostituito per la sua assenza da Gerardo Alliata, Vincenzo Opezinchi e Perrotto Pasquale, nominati personalmente dal duca di Terranova102. A essi la Deputazione assegnava dei fondi, che servivano al
vitto e al pagamento di un sussidio di un carlino (10 grani) a testa a
tutti coloro che dimoravano nel borgo per purificarsi, per lo più poverissimi103; ma anche per pagare medici, medicine, ospedalieri, sacerdoti, e per sostentare buoi, muli, cavalli, carri, cocchi, beccamorti,
guardie, e provvedere a tutte le fabbriche che si rendessero necessarie:
una gran somma di denaro certamente, se si considera che con essa
dovevano essere sostentate circa 900 persone, e anche di più, quante
ne poteva ospitare il borgo104. Ingrassia calcola che la peste costò alla
città circa 100.000 scudi105, di cui più di 60.000 spesi in poco più di
cinque mesi106.
La città fuori dai lazzaretti
E poi fuori dai lazzaretti rimaneva la città, dove si gestiva la vera
emergenza. Già il 24 luglio Carlo d’Aragona concedeva ampia potestà
di intervento agli ufficiali della città (pretore, giurati e capitano) e ai
deputati: «procederete (si opus fuerit) a tortura, a fustigazione, a condennatione, ad ultimo supplicio, a galere, al bruciamento delle loro
robe, et alla esattione delle pene per voi imposte, o imponende»107.
A dicembre, quando l’epidemia imperversava, fu deciso – col benestare del Vicario di Palermo, don Nicolò Severino, e dell’Inquisitore
generale del Regno di Sicilia, il vescovo di Patti Monsignor Antonio Mauriño de Pazos y Figueroa –, di «inserrare» per venti giorni donne e fanciulli
sino ai dieci anni, impedendo loro di uscire di casa, di frequentare i
luoghi sacri e praticare i sacramenti di giorno e di notte («con soddisfattione di tutti gli huomini, massimamente dei gelosi, benché a malgrado delle dette donne»), con solo qualche limitata eccezione, come
G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte II, cap. III, p. 234 [156].
Ivi, pp. 232 [154]; 236 [158].
104
Ivi, p. 236 [158].
105
Ivi, parte II, cap. XIX, p. 391 [308]. A queste somme va aggiunto il contributo dei
privati. Il cardinale Giannettino Doria nel 1624 spese 800.000 scudi, ma i morti furono
dieci volte più numerosi del 1575 (cfr. C. Dollo, Peste e untori nella Sicilia spagnola cit.,
pp. 72-73).
106
G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte II, cap. XI, p. 317 [235].
107
Ivi, parte II, cap. IV, p. 237 [160]. Ingrassia riporta la lettera di potestà firmata da
Carlo d’Aragona
102
103
256
Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo
per esempio per le più povere che vivevano di elemosine108. E ciò «senza
peccato, anzi più tosto col servigio di Dio». Il provvedimento sortì degli
effetti e fu poi prolungato ancora sino a marzo. Anche a Milano nel
1576 si indisse la quarantena per donne e bambini, ma già nei primi
giorni di peste, a ottobre, Carlo Borromeo promosse delle processioni
che peggiorarono la situazione, avendo la meglio sulle magistrature cittadine, che invece non volevano permetterle. E soltanto in un secondo
tempo le autorità ordinarono una quarantena generale, che poi si prolungò sino a gennaio dell’anno successivo. Sulle processioni spesso le
autorità civili si lasciavano trascinare dalla volontà del clero, anche
perché era in tutti radicata l’idea della peste flagello di Dio e della punizione divina. Appare significativo che a Palermo ci sia stato pieno
accordo tra le autorità laiche ed ecclesiastiche: ancora una volta
emerge l’autorevolezza di cui godeva Ingrassia e la sua capacità di recepire il consenso persino dell’Inquisitore generale del Regno.
La città fu affidata ai deputati di ogni quartiere in cui era divisa
allora Palermo, undici in tutto109, i quali non avevano giurisdizione
solamente sulla zona loro assegnata, «ma sopra tutta la habitation
della Città et suo territorio»110: «ebbero potestà a guisa de’ dittatori
di Roma, e potevano punire i trasgressori de’ loro bandi e statuti,
etiam alla pena della vita naturale, ex abrupto, a modo di guerra,
senza processo»111; potevano procedere contro costoro «si opus fuerit
a tortura, a fustigatione, a condennatione, ad ultimo supplicio, a
galere, al bruciamento delle loro robe et alla essattione delle pene»
da loro disposte112.
Una categoria da tenere particolarmente sotto osservazione, e che
destava molta preoccupazione, era quella dei beccamorti, che avevano accesso alle case dei barreggiati, trasportavano gli infermi alla
Cuba e sotterravano i morti: le occasioni per rubare erano molte
108
Ivi, parte II, cap. XV, pp. 363-367 [282-285]. Furono anche proibite le «maschere»
e tutte le altre feste di carnevale (ivi, p. 368). L’arcivescovo di Palermo, Giacomo
Lomellino, era morto di febbre maligna il 9 agosto 1575: un bando prescrisse che
nessuno partecipasse ai funerali per evitare il contagio tra la folla (G. Di Marzo (a cura
di), Diari della città di Palermo cit., p. 65). Si veda anche G.F. Ingrassia, Informatione cit.,
parte III, cap. II, p. 420 [4].
109
Furono nominati deputati dei quartieri (in diversi casi più d’uno per la grandezza
del territorio da controllare): Pietro Bologna (Cassaro); Girolamo del Carretto, barone di
Racalmuto (poi sostituito da Nicolò Bologna), Giovan Luigi Reggio e Mariano Torongi
(Albergheria); Francesco Termini, Antonino Caravello e Francesco Di Giovanni
(Celvacari); Luigi Del Campo e Baldassar Mezzavilla (poi sostituito da Giuseppe
Mastrantonio) (Loggia); Blasco Barresi e Giovanni Del Campo (Kalsa). Ivi, parte II, cap.
III, p. 234 [156-157].
110
Ivi, p. 235 [157].
111
V. Di Giovanni, Palermo Restaurato cit., p. 322.
112
G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte II, cap. IV, p. 237 [160].
257
Rossella Cancila
(nelle case, ma anche agli stessi cadaveri), tanto che essi – come
nota lo stesso Ingrassia – si erano tutti notevolmente arricchiti con
la peste113. Il problema non era solamente quello di punire il reato
di furto, ma anche di tenere sotto controllo il contagio, che attraverso indumenti e oggetti infetti non purificati o destinati a essere
bruciati poteva trasmettersi in modo incontrollabile. La punizione
doveva essere pertanto esemplare 114. I beccamorti infatti spesso
rivendevano ciò che avevano rubato: si ordinò perciò a tutti coloro
che avessero comprato «roba o suppellettile di casa di lana, lino, e
di seta o di qual si voglia altra specie che fossero» di rivelarle, con
l’eccezione di quelle comprate «a gli incanti publichi della Loggia di
questa città, o ver nelle botteghe publiche», che evidentemente erano
già state controllate115.
Per facilitare il complesso lavoro dei deputati, Ingrassia compilò 27
capitoli in cui fissò puntualmente il protocollo da seguire per il barreggiamento e la purificazione di persone e cose, con procedure minuziosamente e rigidamente descritte116. A loro spettava infatti il compito di
far barreggiare e sbarreggiare le case, ma anche le chiese e i conventi;
contare gli infermi e mandarli alla Cuba; dirottare i sospetti e le loro
robe al borgo per purificarli; seppellire i morti; bruciare le robe infette
non destinate alla purificazione (per lo più «robacce», come «1i materassi fatti per gente vile di peli di cavalli, o di lana succida sporca»);
prendersi cura dei poveri, delle vedove, degli orfani. Essi disponevano
di sottodeputati, di confessori per l’amministrazione di sacramenti, di
medici salariati, di levatrici, di barbieri. Una struttura che, dentro e
fuori i lazzaretti, appare fortemente gerarchizzata, specchio del potere
che la magistratura emanava, quasi a rappresentare l’ordine perfetto
che regolava le diverse mansioni.
113
Ivi, parte II, cap. XI, p. 324 [242]. Per un’indagine dei conflitti e delle forme che
essi assumono in presenza di congiunture epidemiche, cfr. il volume di A. Pastore,
Crimine e giustizia in tempo di peste nell’Europa moderna, Laterza, Roma-Bari, 1991.
114
Effettivamente si verificarono punizioni esemplari e spietate di ladri di roba infetta:
cfr. G. Di Marzo (a cura di), Diari della città di Palermo cit., pp. 70-72. Già ai primi di agosto
fu impiccato alla Vucciria un beccamorto che aveva rubato roba infetta e la vendeva. I suoi
complici furono condannati alla galera e a servire in diversi ospedali (ivi, p. 65).
115
G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte II, cap. XVI, p. 370 [288]. Ingrassia riporta
per intero il bando della Deputazione, ivi, pp. 369-371 [287-288].
116
Ivi, parte II, cap. V, pp. 238-245 [161-167]. Agli inizi di ottobre Ingrassia propose
all’attenzione dei Deputati un testo, oggetto di discussioni e di rettifiche, che trovò poi
(dopo una prima versione) la sua formulazione definitiva nel bando di 38 capitoli
pubblicato su ordine di Carlo d’Aragona il 28 novembre del 1575 (ivi, parte II, cap. XII,
pp. 331-345 [249-265]). Si vedano sul tema ad esempio, Ascp, Atti, vol. 201/23 (a. 15751576), cc. 191v-192r; cc. 206r-207v; Ascp, Lettere e consulte del Senato, vol. 1246/2 (aa.
1573-1576), c. 82r.
258
Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo
Un’importanza particolare rivestivano le operazioni di purificazione delle «robe senza padroni dentro alle case», prelevate cioè nelle
numerose case della città rimaste vuote, senza persone ormai all’interno o perché decedute o perché dirottate alla Cuba. Queste,
«restando dentro delle dette case rinchiuse aumentano la forza della
peste» e necessitavano pertanto di un particolare trattamento:
Ingrassia fornì alla Deputazione 28 avvertimenti e indicò come luogo
atto alle procedure il giardino del duca di Bivona, poco distante dal
borgo di Santa Lucia, dotato di un parco ampio e arioso chiamato la
«conigliera» (fig. 2)117. Qui dodici addetti portavano in quattro carrozze trainate da dodici buoi tutto ciò che rimaneva in casa, mentre
un maggiordomo annotava in un registro l’inventario della merce
assegnata a ogni responsabile. Ogni partita sarebbe stata contrassegnata da un numero con l’indicazione del luogo della casa, il nome
e cognome del padrone, al quale sarebbe dovuta essere poi restituita,
o ai suoi eredi, in mancanza dei quali si sarebbe data in beneficienza.
Ingrassia descrive con minuzia la struttura degli stenditori («quadri»,
di diversa dimensione), tutti distinti, sui quali poggiare la biancheria
da purificare (di cento e anche duecento case); e precisa che ogni
partita doveva essere accompagnata da una tavoletta identificativa
del padrone e della casa al fine di evitare ogni confusione118. I purificatori, come già Nicolò Massa aveva indicato, dovevano essere
uomini virtuosi, buoni, misericordiosi, e più di tutti timorosi di Dio,
così come il maggiordomo dal quale dipendevano e al quale dovevano
ubbidire119: a loro era affidata la “roba”, bene prezioso, di cui nessuno voleva disfarsi e che ognuno sperava di recuperare una volta
cessata l’emergenza. Per tale ragione la fiducia risposta nei loro confronti era massima, e per dissuadere i disonesti fu allestita «una trocchiola per dar la corda quando fosse il bisogno, et di più una bella
forca per appiccare il primo che presumesse ascondere qualche
minimo pezzo di roba»120.
117
Ivi, parte I, cap. IX, p. 147 [73]; parte II, cap. IX, pp. 281-294 [200-213]. Il giardino
del duca di Bivona corrisponde alla zona gravitante attorno a Piazza Croci tra il borgo di
Santa Lucia e il convento agostiniano di Santa Maria della Consolazione (oggi via dei
Cantieri); e comprendeva anche la grande «casena» del duca Pietro de Luna. La villa
passò poi a Luca Cifuentes, presidente della Gran Corte, che l’abbellì e vi ospitò anche
il conte di Albadelista, prima del suo ingresso ufficiale in città come viceré nel 1583 (cfr.
R. La Duca, La città perduta. Cronache palermitane di ieri e di oggi, Parte II, ESI, Napoli,
1976, pp. 43-44).
118
G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte II, cap. IX, p. 286 [205].
119
Ivi, parte II, cap. IX, pp. 282-283 [202].
120
Ivi, p. 283 [202].
259
Rossella Cancila
Fig. 2 - Il giardino del duca di Bivona e il borgo di Santa Lucia
(G.F. Ingrassia, Informatione del pestifero, et contagioso morbo, 1576,
online digitalizzato da Google).
260
Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo
Il protomedico si occupò anche delle procedure da seguire presso
l’ospedale della città per evitare che vi fossero ricoverati degli appestati121, ma il problema più urgente fu quello delle carceri: a tal proposito fu disposta una prigione per gli infetti dentro il bastione della
Porta di Termini, e un’altra per i sospetti, in modo da non infettare
le pubbliche carceri122. Nel marzo 1576, quando ormai si pensava
che il pericolo stesse allontanandosi, nelle carceri nel giro di ventiquattrore si manifestarono otto casi di infezione e altri cinque di febbre. Fu un problema che preoccupò molto le autorità perché la
popolazione carceraria ammontava a 300 unità. Si accertò che le
persone infette erano circoscritte in tre stanze e si isolarono circa
ottanta (!) persone che avevano avuto con loro relazioni. A costoro,
«veggendosi quel luogo molto brutto, sozzo, et puzzolente, si come è
solito farsi ogni luogo di prigioni», furono destinate, d’accordo col
duca, le stanze a pianterreno di Palazzo Aiutamicristo, dotate di
«ogni comodità, e di pozzo, e di gran pila per lavarsi, et anco di
latrina per nettarsi tutti i loro escrementi»123. Gli infetti, che erano
stati invece dirottati alla Cuba, «sentirono tal ricreazione (venendo
da luogo, ove dormendo in terra, corrosi da infiniti pedocchi, non
veggendo pane molte volte per uno e per due giorni), che si doleano
di non havere havuto più tosto tal contagio» 124. Tra i carcerati si
ebbe un solo morto, a riprova della efficacia delle misure tempestivamente adottate.
Fu affrontato anche il tema delle chiese, dove venivano seppelliti
i cadaveri: Ingrassia aveva disposto che i morti fossero seppelliti nudi
e fuori dalle chiese, lontano dai centri abitati, per evitare che la
putredine dei corpi ammorbasse l’aria125. Consigliò pertanto di
121
Ivi, parte II, cap. VII, pp. 255-259 [176-179]. Ingrassia era pienamente consapevole
che l’ospedale fosse un «luogo publico», e come tale va preservato in tutti i modi dal
contagio. In particolare raccomandava che non vi fossero ricoverati servitori e schiavi
colpiti dal contagio, ma che costoro fossero mantenuti a casa dei padroni almeno per i
primi cinque giorni (Parte quinta cit., pp. 55-56).
122
G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte II, cap. VII, p. 266 [186]. Sulle carceri, cfr.
anche ivi, parte II, cap. XIX, pp. 388-389 [305-306].
123
Ivi, p. 388 [306].
124
Ivi, p. 389 [306].
125
Ivi, parte II, cap. VIII, pp. 267-270 [187-190]. Le fosse dovevano essere «fonde
sei palmi, lunghe sette, et larghe quattro, mettendovi i corpi ignudi, con poca calcina
di sopra, et poi ben coverti di terra ben calcata, et che non si discoprano poi, che non
sieno passati più anni. Talmente che non vi sia restato altro, che le ossa» (ivi, p. 269
[189]). Qualche eccezione la prevedeva solo «per qualche personaggio», al quale si
concedeva, ma dopo aver preso una serie di precauzioni, di essere portato in chiesa
dentro il suo sepolcro, «il quale ben otturato non si apra più almen per ispatio di tre
anni» (ivi, p. 270 [190]).
261
Rossella Cancila
costruire dei cimiteri pubblici, così come si era fatto per le fosse della
Cuba: «et perché si tratta della vita di molti, ogni mal si dee fuggire,
quantunque minimo che fusse»126. Parole che testimoniano in modo
chiaro quale fosse la consapevolezza pubblica di Ingrassia. Come
anche quando ritiene che non fosse giusto costringere le nutrici ad
allattare bambini nati da donne infette e poi decedute, anche se ciò
avrebbe significato la morte delle creature: «de’ due mali sempre li
debba eleggere il meno. Molto più dunque ragionevol cosa è, che si
muoia questo o quel bambino o dieci o venti et se ne vadano in paradiso, poi che sono già battezati, che infestando le balie sian cagione
di morirne infiniti»127.
Egli infatti non credeva che da essi e dal loro allattamento non
potesse venire alcun pericolo di contagio, come alcuni al suo tempo
obiettavano. Tali creature infatti si erano nutrite del sangue infetto
della madre dentro il suo corpo, e dunque era assai probabile che fossero infette «dentro, incominciando dall’ombelico, per lo qual ricev[ono]
non solamente il nutrimento del sangue della madre, che va al fegato,
ma anco lo spirito, che va al cuore»; a meno che i loro corpicini non
fossero «di sì gagliarda natura, et robusta complessione» da essere
sfuggiti al contagio, ma questo si sarebbe potuto sapere con certezza
solo dopo quaranta giorni128. La maggior parte di esse d’altra parte
moriva entro le ventiquattr’ore. Molti dei neonati sopravvissuti erano
lasciati davanti le porte delle chiese, soprattutto dopo che fu chiusa la
ruota dell’Ospedale Grande per timore del contagio. Ingrassia dispose
che i sacerdoti li raccogliessero e li battezzassero, e che poi fossero affidati a delle nutrici a pagamento che potessero prendersene cura per
tre settimane in isolamento, le loro fasce fossero bruciate e sostituite
con nuove e i loro corpi lavati non con aceto, ma con vino caldo nel
quale fossero disciolte erbe aromatiche129.
Palermo liberata dalla peste
A maggio del 1576 la situazione era ormai sotto controllo, nessun
nuovo contagio fu registrato, come documenta anche la relazione dei
deputati dei quartieri130. Tra giugno 1575 e il 15 aprile 1576 si con-
Ivi, p. 270 [189].
Ivi, p. 274 [193].
128
Ivi, p. 274 [194].
129
Ingrassia se ne occupò anche nella quinta parte del suo trattato: Parte quinta cit.,
pp. 56-57.
130
G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte II, cap. XIX, p. 389 [307]. Si veda anche la
relazione dei deputati del 3 maggio 1576 (Ags, Estado, 1145/86).
126
127
262
Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo
tarono circa 3100 morti, su una popolazione stimata di circa
75/80.000 anime (approssimativamente il 4%)131: con soddisfazione,
Ingrassia considerò che altrove nel Regno il numero dei decessi era
stato superiore, «le cinque et seimila, et più», «per non haver quelli
tanto ordine, né tanta forza, quanta fin qui si è osservata in questa
Città»132. Se a Palermo i morti si contavano a decine, nelle piccole
terre che non avevano avuto la forza di separare gli infetti dai sani
se ne contavano a centinaia133. Evidentemente le rigorose misure
adottate da Ingrassia sortirono ottimi risultati134. In effetti in Sicilia
le città più grandi dimostrarono una maggiore capacità di resistenza
al morbo. Va segnalato che a Venezia per la peste del 1575-77 morirono 46.721 persone con un acme nel luglio-agosto 1576 (soprattutto
tra il 27 luglio e l’8 agosto) su una popolazione stimata in circa
180.000 abitanti (l’incidenza della peste sarebbe stata attorno al
25%)135. La mortalità a Milano fu invece più bassa, di 17.329 persone
su una popolazione di circa 95.000 anime, con una mortalità approssimativa del 18%136.
131
La stima è desunta da M. Aymard, Epidémies et médecins en Sicile à l’époque
moderne, «Annales Cisalpines d’historie sociale», n. 4, 1973, p. 30 (ora on line
http://www.storiamediterranea.it/portfolio/una-sicilia-vista-da-parigi-omaggio-amaurice-aymard/). In verità Ingrassia parla di una popolazione superiore a centomila anime, probabilmente perché include nella stima anche il suo territorio (G.F.
Ingrassia, Informatione cit., parte I, cap. VII, p. 132 [57]). Il dato concorda sostanzialmente con quanto attestato da Francesco Maggiore Perni per il 1574, ossia un
totale di 117.302 abitanti, inclusa la popolazione della campagna circostante e il
clero (96.927 anime entro la città, 16.322 nel territorio, 4053 il clero): F. Maggiore
Perni, La popolazione di Sicilia e di Palermo dal X al XVIII secolo, Palermo 1892, pp.
170, 174.
132
G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte I, cap. X, p. 152 [78].
133
Ivi, parte II, cap. X, p. 318 [235]. Un tabella relativa alla mortalità della peste nel
1575-76 in Sicilia è stata elaborata da M. Aymard, Epidémies et médecins en Sicile à
l’époque moderne cit., pp. 14-17.
134
Marco Antonio Alaymo attesta una mortalità di 14.000 anime in due mesi (giugno
e luglio) durante la peste che colpì Palermo nel 1623 (M.A. Alaymo, Consigli politicomedici cit., p. 103).
135
Cfr. P. Preto, Peste e demografia. L’età moderna: le due pesti del 1575-77 e 163031, in Venezia e la peste 1348-1797 cit., p. 97.
136
Il dato sulla mortalità a Milano è riportato da A. Corradi, Annali delle epidemie
occorse in Italia cit., p. 593. Non si hanno invece dati precisi sulla popolazione di
Milano all’epoca del contagio. Negli anni ‘40 del Cinquecento è stimata una
popolazione di 50/60.000 abitanti. È possibile che alla fine del Cinquecento la
popolazione sia tornata a crescere, riportandosi ai livelli di inizio secolo, stimati
attorno ai 100.000 abitanti, (cfr. E. Roveda, Uomini, terre e acque. Studi sull’agricoltura
della “Bassa lombarda” tra XV e XVII secolo, FrancoAngeli, Milano, 2012, p. 22). Una
tabella di sintesi relativa alla popolazione di importanti città italiane è stata
recentemente elaborata da G. Alfani, Il gran tour dei cavalieri dell’Apocalisse cit., p.
295, che indica per Milano una popolazione di 95.000 anime e calcola una mortalità
approssimativa del 182‰ (cfr. anche ivi, p. 146).
263
Rossella Cancila
Fu proprio in questa fase che si ritenne opportuno rafforzare il controllo esterno per evitare che si riversassero in città gli abitanti di località ancora «in grandissimo furor di calamità», come Trapani, Agrigento
e Messina: furono predisposte delle guardie a cavallo (cavalli per la
campagna), che «andassero per gli estremi del territorio di questa città,
riconoscendo tutti quei, che a cavallo o ver a piedi venissero da qualche
luogo sospetto», impedendo l’ingresso e vigilando che nessuno di notte
«scalasse le mura, o buttasse fuora o ricevesse robe per quelle»137. Probabilmente queste diposizioni furono tardive rispetto alla sollecitudine
mostrata da Ingrassia sul fronte interno, ma – come si vedrà – egli successivamente presterà maggiore attenzione alla vigilanza dei confini
cittadini in relazione al territorio circostante.
A metà giugno si procedette alla purificazione dei lazzaretti (dove si
bruciarono i letti e ogni cosa) e alla loro generale evacuazione: la Cuba,
poi il borgo di Santa Lucia e fu una gran festa, infine quello di Sant’Anna, dove erano ospitati gli ultimi convalescenti138. Al borgo fu cantato finalmente il Te Deum Laudamus, con tanta devozione «che niun
di noi fu, che per allegrezza del tempo presente, et pietosa memoria del
passato, non piangesse». Poi, il 28 luglio, la Santa Messa solenne con
l’Inquisitore, il duca di Terranova, il Vicario, il Regio Consiglio, il
Senato, la Deputazione, la grande processione, un suonar di campane,
la musica di diversi strumenti musicali, le salve di artiglieria per mare
e per terra, l’esplosione di gioia.
Di Palermo liberata dalla peste ci rimane una tavola attribuita al
pittore fiammingo Simone de Wobreck (fig. 3), che la dipinse nel 1576
perché fosse collocata sull’altare principale della nuova chiesa di S.
Rocco alla Guilla di Palermo (poi reintitolata ai SS. Cosma e
Damiano), edificata al Capo (il quartiere più colpito) in adempimento
di un voto fatto dalla Deputazione139. Il quadro rappresenta l’Onni-
G.F. Ingrassia, Informatione cit., II parte, cap. XIX, p. 390 [307]. Alla fine di luglio
1576 si registrava un miglioramento anche in altre città come Augusta, Siracusa e
Catania, Trapani e Agrigento, mentre ancora difficile permaneva la situazione di
Messina (Ags, Estado, 1146/24, Palermo 28 luglio 1576). A Trapani, nella fase acuta
della peste (aprile 1576), quando si contavano anche trenta morti al giorno, furono
registrati una serie di miracoli: un’immagine della Madonna (Nostra Signora) che si
trovava dentro la badia delle Carmelitane Scalze cominciò a lacrimare, mentre quella
dell’Annunziata nella chiesa di S. Nicola si ricopriva di acqua; contemporaneamente il
San Sebastiano presso la chiesa di S. Antonio Abate cominciò a sudare, come attestò
persino il maestro di campo don Diego Enriquez, testimone dei fatti, in un suo rapporto
al duca di Terranova (Ags, Estado, 1145/63, Trapani 14 aprile 1576). La situazione di
Trapani preoccupava molto Carlo d’Aragona per essere quella città un’importante piazza
«frontera de Barberia» (Ags, Estado, 1145/62, Termini 30 aprile 1576; Ags, Estado,
1145/76, Messina 16 maggio 1576).
138
G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte II, cap. XIX, pp. 391-394 [309-312].
139
Del voto parla Ingrassia (ivi, parte II, cap. XIV, p. 359 [278]. Si veda anche G. Palermo,
Guida istruttiva per Palermo e i suoi dintorni, a cura di G. Di Marzo, Palermo 1858, p. 550.
137
264
Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo
Fig. 3 - Simone de Wobreck (attr.), Palermo liberata dalla peste,
1576, Museo diocesano di Palermo.
265
Rossella Cancila
potente con le frecce del flagello (origine divina della peste e punizione per i peccati commessi) e sul livello appena inferiore Cristo e
la Vergine; ancora più in basso i santi Rocco, Cristina, Ninfa e Sebastiano, che intercedono per il popolo raffigurato nel piano sottostante
in processione penitenziale, alla presenza del duca di Terranova, con
il SS. Crocifisso ligneo trecentesco dono dei Chiaramonte e custodito
tuttora in Cattedrale140.
Emergenza e prevenzione
Ingrassia si occupò ancora di peste l’anno successivo 1577, quando
su sollecitazione del viceré Colonna («io mi trovava allora fuori nel mio
giardino, dove molto volentieri soglio filosofare»), intanto subentrato
al duca di Terranova, compilò la quinta parte del suo trattato, che
voleva essere una sintesi di quanto già scritto precedentemente, ma
con una finalità pratica, «accioché possa ciascheduno averlo senza
140
Una scheda del dipinto (conservato presso il Museo diocesano di Palermo) si
trova in P. Palazzotto, La compagnia dei Bianchi e gli oratori come segno e memoria
della realtà sociale e culturale della Kalsa, in Il quartiere della Kalsa a Palermo. Dalle
architetture civili e religiose delle origini alle attuali articolate realtà museali, Assessorato Regionale dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana, Palermo, 2013, pp. 106107. Il dipinto presenta delle analogie con un altro realizzato nel 1578 per la
confraternita di San Rocco da Giovan Paolo Fonduli, artista vicino al Wobreck. Cfr.
F. Campagna Cicala, Fondulo, Giovan Paolo, Dizionario Biografico degli Italiani - vol.
48 (1997). Sul Wobreck, cfr. anche L. Sarullo, Dizionario degli artisti siciliani, vol. II,
Pittura, a cura di M.A. Spadaro, Palermo 1993, ad vocem, con relativa bibliografia.
Teresa Pugliatti, che ipotizza un’attribuzione del dipinto a Fonduli, ritiene che esso
sia stato realizzato non alla cessazione della peste nel 1576, ma nel 1575 quando il
morbo era ancora in atto, anzi al culmine della gravità, e assume come riferimento
la testimonianza dei diaristi Paruta e Palmerino, che riferiscono di una imponente
processione del S. Crocifisso tenutasi il 7 ottobre 1575 (T. Pugliatti, Pittura della tarda
Maniera nella Sicilia occidentale (1557-1647), Kalós, Palermo, 2011, pp. 133-139).
Anche Ingrassia conferma la circostanza e la data della processione guidata dal Vicario Nicolò Severino, ma riferisce che non vi partecipò il duca di Terranova (raffigurato
invece nel quadro), che allora si trovava a Termini per assistere il figlio Ferrante gravemente malato: Ingrassia ricorda di essere partito per Termini lo stesso giorno e di
esservi giunto appena in tempo per l’estrema unzione. Secondo la tradizione dopo la
processione, che percorse di notte le vie consuete della città, e alla quale parteciparono tutte le confraternite e i religiosi, con gran concorso di folla, miracolosamente
la pestilenza cessò e la città sembrò essersi liberata dal morbo. La presenza del duca
nel dipinto potrebbe certo essere legata a un atto di cortesia per il committente, ma
l’ipotesi che i due eventi (ossia la processione finale del 1576 e quella del 1575 con
Crocifisso) si siano sovrapposti nella rappresentazione finale mi sembra più plausibile, senza che questo comporti una anticipazione nella datazione del dipinto. La
Chiesa di San Rocco, cui il dipinto era destinato, fu d’altra parte edificata proprio
nel 1576 ed è ragionevole ritenere d’accordo con Palazzotto che la chiesa e la tavola
celebrativa dell’evento fossero state concepite contestualmente (cfr. P. Palazzotto, La
compagnia dei Bianchi e gli oratori cit., p. 115).
266
Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo
troppo studio né fatica e facilissimamente ancor possa affatto provedere a tutti il bisogno»141.
La peste si manifestò di nuovo a Palermo l’11 maggio del 1577 e in
quattro mesi morirono circa quattrocento persone. Il morbo colpì non
solo vecchie abitazioni già precedentemente infettate, ma anche famiglie
che non erano state interessate dalla prima ondata142: Ingrassia era
sicuro che la purificazione dell’anno precedente fosse stata eseguita «con
tanta diligenza …, gran parte col fuoco, altra con lavationi, soffumigi et
ventilazioni». In città si sviluppò però un intenso dibattito circa la necessità di predisporre uno sciorinatorio per la purificazione in un luogo elevato. Ingrassia vi si oppose duramente e, seppure in minoranza, riuscì
a convincere il viceré a non farne nulla: «Horsù bastommi che Sua Eccellenza in un semplice cenno intendesse tutta la ragione. Laonde comandò
subito che non se ne parlasse più»143. Ciò non di meno si ritenne opportuno procedere quartiere per quartiere, senza distinzione di case né di
persone, a sciorinare e purificare tutta la città, così da essere sicuri che
essa fosse assolutamente sana e priva di ogni sorta di contagio.
Particolare attenzione fu rivolta a conventi e monasteri, segnatamente quello della Martorana, focolaio del morbo, «che ci diede molta
difficultà et fastidio. Tanto che se Sua Eccellenza del signor Marc’Antonio Colonna non vi mettea le mani, non so come sarebbono andate
le cose»144: ancora una volta il potere politico assumeva l’iniziativa,
mostrando capacità di sintesi sulle opinioni correnti e prontezza decisionale. Il viceré nominò infatti quattro deputati (tra cui il conte di
Vicari, per indurre le monache all’ubbidienza) col compito preciso di
occuparsi del monastero insieme col Vicario Nicolò Severino, nel tentativo di arginare il contagio, che si era ormai diffuso tra le suore. In
sostituzione della badessa, ormai «di età decrepita», una donna fu
nominata Deputata di sanità del monastero, dove le monache dovettero
assumere atteggiamenti piuttosto riottosi, se il vescovo dovette addirittura minacciare di scomunicarle e la Deputazione di inviarle alla
Cuba e di bruciare le loro robe infette. Quasi «impossibil pareva di poter
ridurre ad ubbidienza trecento e tante femine. Laonde come cosa di
gran maraviglia l’habbiamo qui scritta»145.
Il protomedico era ancor più convinto che la peste non si fosse originata in città, ma che provenisse dall’esterno: occorreva pertanto pro-
Parte quinta cit., Prefatione.
Ivi, p. 21.
143
Ivi, p. 31. Per gli ordinamenti promulgati dal viceré Colonna in quel frangente, cfr.
Ordini che l’illustrissimo, & eccellentissimo sig. Marc’Antonio Colonna ... comandao che
s’osseruassero nelle città, & terre nelle quali si sospettasse, ò succedesse mal contagioso,
Palermo 1624.
144
Ivi, p. 58.
145
Ivi, pp. 59-60.
141
142
267
Rossella Cancila
teggere in modo più accurato i confini del suo territorio – specialmente
quando si svolgevano le fiere – con cavalli alla campagna, medici alle
porte, obbligo di quarantena a quanti provenissero da luoghi sospetti.
Persino la principessa di Pietraperzia vi fu sottoposta, malgrado molti
cavalieri della Deputazione fossero suoi parenti e amici146. Fu proprio
in occasione di questa seconda ondata, dunque, che Ingrassia fu sollecitato dagli eventi a ripensare con più attenzione le procedure di prevenzione verso il fronte esterno. Ad esempio, ritenne opportuno
osservare una maggiore cautela nei confronti dei contadini, che abitavano dentro le mura cittadine, ma si recavano all’esterno a lavorare:
all’ingresso della città a «ciascheduno, che non è ben conosciuto si facci
un bollettino brevissimo in un dito di carta, ove sia scritto solamente il
nome, il cognome e il luogo al qual va per lavorare e il giorno della sua
partenza»147. Esso sarebbe poi stato esibito ai deputati della porta al
rientro. Se poi il contadino, più raramente, doveva recarsi a lavorare in
un luogo distante più di dodici miglia avrebbe dovuto esibire un bollettino del padrone o del curatolo di quel luogo, che ne attestasse la sanità.
La parte quinta del Pestifero et contagioso morbo non è allora solamente una sintesi di quanto già predisposto in occasione della prima
ondata di peste, ma contiene ulteriori suggerimenti e approfondimenti
alla luce della più recente esperienza. Particolarmente interessante
appare la riflessione sulla necessità di potenziare l’attività del Monte
di Pietà di Palermo per soccorrere coloro che «inciampano nella miseria
del contagio, dalla quale poi caduti non possono rilevarsi», spesso
poveri, ma non solo, perché «molti facultosi muoiono di fame»148. La
peste, certamente, ne era una causa diretta; ma anche il fallimento di
molti banchi privati aveva contribuito dalla fine degli anni sessanta del
secolo ad accrescere notevolmente il numero dei poveri in una fase di
ascesa dei prezzi. Due le cose – a parere di Ingrassia – di cui la «Republica» avrebbe dovuto farsi carico: le elemosine ai più poveri per evitare
che andassero a rubare; la costituzione di un Monte di Pietà o della
misericordia in diverse località del Regno.
A Palermo in particolare il Monte era stato fondato nel 1541 per iniziativa dei francescani, – ma con la partecipazione anche di capitali
pubblici messi a disposizione dell’amministrazione civica, seppure di
modesta entità –, allo scopo di praticare il prestito al consumo e l’aiuto
alle orfane che il bisogno avrebbe potuto spingere alla prostituzione.
In verità, l’avvio fu piuttosto difficile e soltanto nell’agosto del 1575 in
concomitanza con la peste si diede inizio all’attività creditizia in due
stanze ammezzate del palazzo municipale, a un tasso però assai elevato
146
147
148
268
Ivi, p. 7.
Ivi, p. 17.
Ivi, p. 68.
Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo
del 6,66 per cento. Ingrassia suggeriva al viceré Colonna di destinare
al Monte diecimila scudi della Tavola di Palermo. C’era tra l’altro il problema che non poteva darsi in pegno o vendere alcun tipo di oggetto,
tranne quelli per i quali si poteva procedere facilmente alla purificazione per mezzo dell’aceto e, dunque, senza pericolo di contagio, come
oro, argento, metalli, gioielli.
Ingrassia ritornò ancora sul tema dell’organizzazione delle carceri,
ammonendo di costruirne due in ogni città e terra del Regno, uno per
i sospetti e uno per gli infermi, ciascuno con alloggi separati per le
donne e per gli uomini, ma «subito nel tempo della sanità», perché non
averlo fatto sin dal principio, fu causa di molti problemi149. Infatti se
si infettano le pubbliche carceri, tutta la città è in pericolo, perché in
essa vi dimora ogni sorta di gente, «persone cittadine et forestieri,
nobili et ignobili, ricche, et la maggior parte povere, et la massima
parte huomini di mala vita et di poca coscienza»150. Inoltre, ovunque
abitino carcerati «vi è grandissima puzza et abbondanza di bruttezze».
Avverte anche della necessità di provvedere per tempo ai lazzaretti –
rigorosamente fuori dalla città ma non troppo lontano –, non quando
la peste si fosse manifestata, ma prima: «si come si proveggono i
castelli et le fortezze nel tempo della pace, per ritrovarsi in ordine al
tempo della guerra»151. Il modo migliore per gestire l’emergenza della
guerra era insomma la prevenzione in tempo di pace. In fondo, è questa la lezione di Ingrassia.
Conclusioni
Le prescrizioni di Ingrassia costituirono il modello comportamentale
nella successiva epidemia del 1624152, ma in quest’occasione furono
largamente disattese: nel 1575 a dirigere le operazioni era stato – come
si è visto – lo stesso Ingrassia, sempre in prima linea, e pronto ad assumersi enormi responsabilità con l’appoggio incondizionato del duca di
Terranova, che aveva la guida del Regno. Nel 1624 il viceré Emanuele
Filiberto di Savoia fu colpito dalla peste e ne morì. Il comando politico
del Regno fu assunto dall’arcivescovo di Palermo Giannettino Doria,
che gestì la peste avendo a modello Delle cause e rimedij della peste di
San Carlo Borromeo, esempio di vir pietatis, più attento agli aspetti
devozionali che non alle misure sanitarie.
Parte quinta cit., p. 16.
Ivi, p. 57.
151
Ivi, p. 17.
152
Sono del 15 ottobre ordini del viceré Marc’Antonio Colonna su cosa fare per la
peste, poi ristampati in occasione della peste del 1624.
149
150
269
Rossella Cancila
Tra i medici deputati della Sanità della città di Palermo era anche
Marco Antonio Alaymo, allora «il più minimo in età», che – benché
subentrato in un secondo momento – fu però uno dei protagonisti di
quel tragico evento. Alaymo ebbe un ruolo di rilievo anche nel fronteggiare l’ondata del 1652, da cui la Sicilia restò indenne probabilmente proprio grazie all’applicazione delle misure da lui suggerite, poi
pubblicate lo stesso anno nei suoi Consigli Politico-Medici. Con questa
sua opera, che può essere considerata «la summa ricapitolativa del
Seicento isolano»153, l’autore intendeva proporre una nuova metodica
per combattere la peste, che costituisse un’alternativa alle soluzioni
prospettate da Ingrassia nel 1576. A differenza di Ingrassia, che focalizzava la sua attenzione soprattutto sul fronte interno, le istruzioni
di Alaymo si concentrarono invece sul fronte esterno, ossia sul controllo delle frontiere tanto quelle marittime, quanto quelle terrestri.
Esse su questo versante rappresentano un punto di vista procedurale
particolarmente avanzato.
A Ingrassia Alaymo attribuì di fatto la responsabilità della diffusione del contagio e dell’alta mortalità nel 1624: le sue ordinazioni
sembravano buone alla prima apparenza, ma «perniciose, e molto
atte a far crescere il contaggio et la mortalità» nell’esecuzione154. In
particolare egli riteneva dannoso bruciare la roba infetta perché la
combustione avrebbe ammorbato l’aria, accrescendo il contagio. Per
la stessa ragione era pericoloso purificare le robe sospette, tanto più
che gli addetti a queste operazioni non eseguivano a dovere le istruzioni, e anzi spesso rubavano e vendevano ciò che avrebbero dovuto
purificare155. Inoltre, per evitare il danno economico, in molti casi gli
interessati preferivano nasconderle, distribuendole tra amici e
parenti, ma contribuendo in questo modo a dilatare il morbo. Sappiamo che questo fu oggetto di particolare attenzione al tempo di
Ingrassia, che consigliò il massimo rigore sull’argomento, e molte
furono le condanne eseguite. Anche il barreggiamento era considerato controproducente, perché lo stato di abbandono in cui erano
lasciate le famiglie barreggiate, per lo più povere, faceva crescere il
contagio e la mortalità156. Alaymo criticava altresì le prescrizioni di
Ingrassia in materia di sepoltura degli infetti, considerando irrispet-
153
C. Dollo, Introduzione a M.A. Alaymo, Consigli politico-medici, in Filosofia e Scienze
nella Sicilia dei secoli XVI e XVII, vol. II, Centro Studi per la Storia della Filosofia in Sicilia,
Catania, 1996, p. 8.
154
M.A. Alaymo, Consigli politico-medici cit., p. 108.
155
Ivi, pp. 116-119: in questa sua posizione Alaymo era confortato dal parere di
illustri medici, come Pietro Parisi Alessandro Massaria, Girolamo Mercuriale, Valerio di
Martini, Cellino Pinto.
156
Ivi, pp. 185-186.
270
Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo
toso e indecoroso che i cadaveri fossero seppelliti «nudi come cani
sotto la calce vergine», con particolare riguardo ai corpi delle donne,
mogli, sorelle, «spogliate nude da becchini poltroni, maneggiando
quei corpi ignudi delle donne con mille dishoneste attioni, et indegne
di riferirsi»157. Ecco, anche questo accadeva in tempo di peste, ed
effettivamente accadde nel 1624, quando dei becchini furono inequivocabilmente sorpresi dentro le fosse, mentre non risultano casi analoghi attestati nel 1575.
In sostanza, Alaymo attribuiva il fallimento delle procedure adottate
nel 1624 alle istruzioni di Ingrassia, formalmente ancora in vigore; e,
assimilando le due diverse congiunture, dava agli avvenimenti del 1575
una interpretazione mediata dall’esperienza del 1624. Le istruzioni cui
le autorità si attennero erano le stesse, ma i contesti completamente
differenti. La disorganizzazione, l’approssimazione e la confusione registrata da Alaymo non può però essere attribuita a Ingrassia, che non
avrebbe mai consentito che si impiantassero dei lazzaretti entro le
mura o che si organizzassero pratiche devozionali con gran concorso
di folla158. Basti ricordare che la salma dell’arcivescovo di Palermo
Lomellino morto nel 1575 non fu esposta alla folla dei devoti, mentre
il viceré e il suo segretario morti di peste nel 1624 furono seppelliti in
chiesa con tutti gli onori.
L’organizzazione politica durante la peste del 1624 appare profondamente diversa rispetto al 1575: con la reggenza del cardinale Giannettino Doria si intensificarono le processioni, si sollevò sugli altari
della santificazione Santa Rosalia (prima quasi ignota), si imprigionò,
processò e infine giustiziò un medico di grande prestigio, Demetrio
Sabatiano, il greco, uno straniero159. Assai eloquente dal punto di vista
della cognizione dei fatti risulta la Relazione di Francesco Guerreri, del
14 gennaio 1625, una vera e propria requisitoria contro il modo in cui
157
Ivi, p. 155. Alaymo asserisce che in pochi ritennero opportuno seppellire i cadaveri
nudi, e cita solamente Pietro Parisi (che aveva operato a Palermo nel 1575, «onde ci restò
questo ordine nella mente»), e Giacinto Alferio («che rescrisse piuttosto quel che dice
Ingrassia») (ivi, p. 160).
158
Alaymo racconta che nel 1624 i malati furono ricoverati prima allo Spasimo dentro
la città, poi a San Giovanni dei Lebbrosi, e successivamente, a causa della crescita del
loro numero, si radunarono «al luogo di Cavallaro, poi al luogo di don Martino Cinami,
poi al luogo di Citofontes, all’ultimo al borgo di Santa Lucia, trasportando li poveri
infermi di qua e di là, con gravi spese della Città, e con calca d’infermi» (ivi, pp. 137138). L’autore erroneamente attribuisce la stessa disorganizzazione ai fatti del 1572 (sic!):
ma in realtà Ingrassia non aveva posto gli appestati in lazzaretti dentro la città, né tanto
meno nel borgo di Santa Lucia, destinato ai sospetti, non ancora ammalatisi. Il
complesso di Sant’Anna, effettivamente entro le mura, era stato destinato come si è visto
ai convalescenti ormai guariti per una ulteriore purificazione prima del loro definitivo
rientro in città.
159
Cfr. C. Dollo, Peste e untori nella Sicilia spagnola cit., pp. 68-72.
271
Rossella Cancila
era stata condotta la lotta al morbo nel 1624160. Di sicuro giocarono
un ruolo di tutto rilievo l’elemento soprannaturale, i santi e i miracoli
in un contesto in cui l’impianto messianico e la componente emozionale ebbero il sopravvento di fronte all’impotenza umana161. Un’impotenza che invece Ingrassia e la sua squadra avevano ben saputo
governare con determinazione cinquant’anni prima. Ingrassia non ci
ha lasciato solamente un corpo dottrinario senza vita, ma ha misurato
la teoria con la realtà, indicandoci un modello organizzativo, che si
distende per la vita della città e dei suoi abitanti, penetrandone ogni
comportamento: la prevenzione per limitare la diffusione dell’epidemia,
ma anche lo sforzo a promuovere un ambiente urbano più funzionale
al fine di ridurre i rischi per la salute, «pour le bien public», come pure
gli riconobbe Louis de Jaucourt due secoli più tardi nella voce Palerme
dell’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert162.
160
Cfr. Relazione di Francesco Guerreri (14 gennaio 1625), in C. Dollo, Peste e untori
nella Sicilia spagnola cit., pp. 113-126.
161
Cfr. G. Fiume, Il Santo moro. I processi di canonizzazione di Benedetto da Palermo
(1594-1807), FrancoAngeli, Milano, 2002, che dedica un capitolo alla peste del 1624 e al
trionfo di Santa Rosalia (ivi, pp. 134-154).
162
La memoria di Ingrassia ritornerà in auge nel Settecento: non solo il siciliano
Antonino Mongitore (in particolare la Sicilia ricercata, 1742), nella cui produzione si può
comunque rinvenire una certa involuzione gnoseologica rispetto al tentativo di Ingrassia
di ricondursi alla medicina sperimentale; ma in particolare si veda la voce Palerme
dell’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, curata dal cavalier Louis de Jaucourt nel 1765,
che riconosceva il ruolo di Ingrassia – il cui nome peraltro ricorre in più lemmi della
monumentale opera – nella storia dell’anatomia e dell’epidemiologia e l’alto livello di
reputazione da lui raggiunto (N. Cusumano, Ricerche sulla teratologia in Sicilia cit., pp.
879-881). Appare certo significativo che Jaucourt faccia esplicitamente riferimento alla
grande prova di abilità e zelo «pour le bien public» offerta dal medico siciliano proprio in
occasione della peste del 1575 (Encyclopédie de Diderot et D’Alembert, ed. online ad
vocem: http://encyclopédie.eu/index.php/histoire/1849563327-geographie-moderne/
725538612-PALERME).
272
Marcos Rafael Cañas Pelayo
EL ACCESO DE LOS JUDEOCONVERSOS PORTUGUESES
A LOS CABILDOS MUNICIPALES ANDALUCES.
UN PRIMER ACERCAMIENTO*
DOI: 10.19229/1828-230X /37132016
RESUMEN: Tradicionalmente, el ascenso social de los cristianos nuevos portugueses en Castilla
durante la Edad Moderna no ha sido atendido en profundidad por la historiografía. Dividido en dos
bloques, el presente artículo centra su atención sobre esta cuestión para un área geográfica
específica, Andalucía, debido a la continuada presencia que allí encontramos de judeoconversos
lusos. En orden a analizar su importancia, dividimos la primera sección en cuatro partes, atendiendo
a los reinos andaluces: Sevilla, Córdoba, Granada y Jaén. Adentrándonos en materia, la segunda
parte profundiza en los más notorios linajes que alcanzaron este objetivo, a través de un repaso
bibliográfico y datos archivísticos, no solamente las procedentes de la Inquisición, sino también a
una variedad de fuentes locales. Como presentemos mostrar en nuestro acercamiento, a pesar de
las trabas que está minoría encontró por parte del resto de la sociedad de cristianos viejos, los
judeoconversos portugueses fueron capaces de acceder a los cabildos municipales andaluces, a
través de su poder económico, la protección nobiliaria y otras vías. Aunque la permanente amenaza
del Santo Oficio hizo que algunas de estas tentativas fracasen, otros lograron incluso recuperarse
tras el trance inquisitorial, borrando la mácula de su pasado.
PALABRAS CLAVE: Ascenso social, Cabildos municipales, Cristianos nuevos portugueses, Inquisición y
Protección nobiliaria.
THE ACCESS OF PORTUGUESE JUDEOCONVERSOS TO THE ANDALUSIAN CABILDOS
MUNICIPALES. A FIRST APPROACH
ABSTRACT: The upward mobility of Portuguese New Christians in Castile during the Modern Age has
traditionally been glossed over by historiography. Divided in two sections, this paper focuses on this
subject for a specific geographical area, Andalusia, due to the continued presence of lusitanian
judeoconversos there. In order to analyze its importance, we divided the first in four parts according to
each of its four kingdoms: Sevilla, Córdoba, Granada y Jaén. Further into the analysis the second part
delves into the most notorious families who achieved that goal, through bibliographical research and
archive references, not only the ones from the inquisitorial registers but also a range of local sources.
As we try to prove in our approach, despite the hindrance suffered by this minority because of the rest
of the Old Christian Society, portuguese conversos were able to access andalusian cabildos municipales
[old spanish for town councils] through economic power, nobiliary protection and other means. Although
the permanent menace of the Holy Office made some of them fail their attemp, others could even recover
from the inquisitorial prosecution erasing the stains of their past.
KEYWORDS: Cabildos municipales, Inquisition, Nobiliary protection, Portuguese New Christians,
Upward mobility.
* Este trabajo se inscribe en el marco del Proyecto de Investigación Nobles judeoconversos (II). La proyección patrimonial de las élites judeoconversas andaluzas (ss.
XV-XVII) (HAR2015-68577), financiado por el Ministerio de Economía y Competitividad.
Abreviaturas utilizadas: AgoCo (Archivo General del Obispado de Córdoba), Ahn
(Archivo Histórico Nacional), AhpCo (Archivo Histórico Provincial de Córdoba), Antt
(Arquivo Histórico Nacional da Torre do Tombo), ArchGr (Archivo Real Chancillería de
Granada).
n. 37
Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIII - Agosto 2016
ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online)
273
Marcos Rafael Cañas Pelayo
Tradicionalmente considerada como una cuestión anecdótica, la
penetración de los cristianos nuevos portugueses en los poderes locales
castellanos durante la Edad Moderna ha suscitado una escasa
atención para la investigación histórica. Si bien contamos con varios
trabajos clásicos que ya intuyeron su real importancia y peso en
diferentes facetas de la sociedad hispano-portuguesa de la época,
todavía carecemos de estudios globales que expliquen la llegada de este
grupo a los cargos concejiles1.
Tal es el propósito del presente artículo. Para ello, nos
centraremos en un marco geográfico concreto: Andalucía. Se trata
de una elección que presenta una serie de ventajas para iniciar esta
temática. Sobre todo por las obras previas de los diferentes autores
que han abordado, de una forma u otra, a varios de los linajes lusos
que protagonizaron un destacado ascenso social, el cual dejó su
reflejo en los cabildos andaluces. Sin duda, un repaso ineludible y
necesario, aunque no nos limitaremos únicamente a hacer un
recorrido historiográfico.
Además de lo anterior, disponemos del amplio abanico de datos que
nos facilita el cruce de fuentes, entre archivos locales y nacionales,
además de los recursos en red; a pesar de las dificultades y lagunas
inherentes a este proceso (cambio de apellidos, ocultación y fraude
genealógico, documentación perdida…), nos hallamos ante la
oportunidad de poder ir reconstruyendo las diferentes etapas de esta
llegada, las magnitudes alcanzadas, los personajes más destacados y,
en definitiva, una primera interpretación de lo encontrado.
Confiamos en que, utilizando este punto de partida, podamos
realizar próximamente un ejercicio de similares características para
desarrollar la presencia de los mal llamados marranos portugueses en
las principales oligarquías urbanas y rurales de toda Castilla. De igual
forma, a raíz de los resultados que se vayan obteniendo, también
pretendemos reflejar su influjo en los cabildos catedralicios; si bien
algo mencionaremos ya de esa realidad en este presente trabajo,
puesto que los poderes municipales y eclesiásticos mantuvieron no
pocos vasos comunicantes entre sí.
1
Debemos citar aquí a los primeros grandes especialistas en la temática, tales como
Julio Caro Baroja, Antonio Domínguez Ortiz o Francisco Márquez Villanueva, entre otros
pioneros investigadores que comenzaron a subrayar el peso de los cristianos nuevos del
reino luso en la Monarquía Hispánica. Por motivos de espacio, no nos detendremos a
plantear un detallado recorrido de la atención historiográfica prestada en nuestro país
a los judeoconversos de origen portugués, solamente a la parcela que nos atañe del
cabildo municipal. Remito para consideraciones de carácter más general a mi estado de
la cuestión planteado en M.R. Cañas Pelayo, Los judeoconversos portugueses en la Edad
Moderna en la historiografía española: Un estado de la cuestión, «Revista de
Historiografía», vol. 23 (2015), pp. 217-243.
274
El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces
Cercanos geográficamente, con oportunidades de enriquecimiento
mercantil y un fuerte sustrato previo de relaciones de todo tipo con los
judeoconversos castellanos, como veremos a continuación, los enclaves
andaluces fueron un foco de atracción constante.
1. Breve marco historiográfico y fuentes utilizadas
El análisis social de los poderes locales de la España Moderna es
uno de los objetos de estudio que más atención está suscitando entre
los modernistas españoles. Previamente vistos como los representantes
un cuerpo inmóvil y estático, estos axiomas acerca de los miembros de
los concejos empiezan a ser cuestionados desde sus bases por una
nueva generación de especialistas.
Desde hace bastantes años2 disponemos de una acertada revisión
del aspecto institucional de los municipios, también de sus criterios y
mecanismos de selección de candidatos. Se incidía especialmente en
lo referente a los estatutos de limpieza de sangre3, los cuales debían
garantizar la pureza cristiano-vieja de los integrantes que accedían a
estos puestos, dando una imagen de exclusión y eficacia del aparato
ideológico de la época; las apariencias confirmaban la pervivencia de
una criba por criterios de ascendencia.
Fueron unos conceptos que no se cuestionaron en el plano teórico,
pero sí en su puesta en práctica. Existían vías para acceder al cabildo
municipal, rutas que permitían sortear los obstáculos, evitando, eso
sí, contradecir lo que se pregonaba. Sin embargo, las primeras
investigaciones no fueron más allá de aquella fachada, aunque,
afortunadamente, sería una tónica revertida en el futuro, destacando
las líneas abiertas por autores como Juan Luis Castellano4 o J.P.
2
Véase el clásico estudio de A.A. Sicroff, Los estatutos de limpieza de sangre:
controversias entre los siglos XV y XVII, Taurus, Madrid, 1985.
3
Interesan en este sentido los trabajos de J. Hernández Franco, Cultura y limpieza de
sangre en la España Moderna. Puritate sanguinis, Universidad de Murcia, Murcia, 1996 y
Sangre limpia, sangre española. El debate sobre los estudios de limpieza (siglos XV-XVII),
Cátedra, Madrid, 2011; J. Hernández Franco, A. Irigoyen López, Construcción y
deconstrucción del converso a través de los memoriales de limpieza de sangre durante el
reinado de Felipe III, «Sefarad: Revista de Estudios Hebraicos y Sefardíes», n. 72, vol. 2
(2012), pp. 325-350; M.S. Hering Torres, Limpieza de sangre, ¿racismo en la Edad
Moderna, «Tiempos Moderno», n. 9 (2003-2004), pp. 1-16; J.I. Gutiérrez Nieto, Los
conversos y limpieza de sangre en la España del siglo XVI, «Torre de los Lujanes. Boletín
de la Real Sociedad Económica Matritense de Amigos del País», n. 26 (1994), pp. 153-165.
4
Citando solamente algunos de los más relevantes, mencionar J.L. Castellano, Redes
sociales y administración en el Antiguo Régimen, «Estudis: Revista de historia moderna»,
n. 31 (2005), pp. 85-102 o Gobierno y poder en la España del Siglo XVII, Editorial
Universidad de Granada, Granada, 2006. Asimismo, J.L. Castellano (ed.), Sociedad,
administración y poder en la España del Antiguo Régimen. Hacia una nueva historia
institucional, Universidad de Granada, Granada, 1996.
275
Marcos Rafael Cañas Pelayo
Dedieu5, así como los avances que se produjeron para la compresión
de las redes clientelares y otros vínculos en el poder local del País Vasco
y Navarra6.
En definitiva, unos avances metodológicos que iban admitiendo
cada vez más la posibilidad de presencias de minorías tan importantes
como la formada por los conversos, supuestamente vetados a cualquier
aspiración a estos juegos de poder7.
Varios factores explican esa aparente paradoja. En primer lugar, los
estatutos tuvieron una implantación tardía en muchas localidades, lo
cual habría permitido a la filtración producirse antes8. De igual forma,
las pruebas no estaban exentas de fraudes, soborno y coacción de
testigos, confección de falsos abolengos y compra de silencios.
Recientemente, Enrique Soria Mesa ha ejemplificado con claridad la
falsedad de muchas de estas probanzas, en un artículo que ilustra los
nuevos enfoques que se están empleando para abordar esta temática,
mostrando un panorama diferente al que se había planteado de forma
clásica, a la par que mucho más interesante que la mera recolección
de ordenanzas y datos positivistas9. Dentro de esta renovación
historiográfica, admitida ya la constante venta de dignidades públicas
5
J.L. Castellano, J.P. Dedieu (dirs.), Réseaux, familles et pouvoirs dans le monde
ibérique à la fin de l Ancien Régimen, CNRS, París, 1998; J.L. Castellano, J.P. Dedieu,
M.V. López Cordón Cortezo (eds.), La pluma, la mitra y la espada. Estudios de historia
institucional en la Edad Moderna, Marcial Pons, Madrid, 2000.
6
Entre otros, J.M. Imízcoz Beunza (coord.), Élites, poder y red social. Las élites del
País Vasco y Navarra en la Edad Moderna, Universidad del País Vasco, Bilbao, 1996 y
Redes familiares y patronazgo. Aproximación al entramado social del País Vasco y Navarro
en el Antiguo Régimen (siglos XV-XIX), Universidad del País Vasco, Bilbao, 2001.
7
Así lo demostraba el profesor Jaime Contreras, recogiendo muchas de las premisas
planteadas por Julio Caro Baroja para abordar con garantías las diferentes realidades
de esta compleja minoría. Citamos por J. Contreras, Sotos contra Riquelmes. Regidores,
inquisidores y criptojudíos, Anaya, Madrid, 1992. En la tónica de lo anterior, resaltar J.
Contreras (ed.), Familias, poderes, instituciones y conflictos, Ediciones de la Universidad
de Murcia, Murcia, 2011.
8
Una buena panorámica de ello en F. Márquez Villanueva, De la España
judeoconversa. Doce estudios, Edicions Bellaterra, Barcelona, 2006, pp. 137-174.
Ejemplos prácticos de esa pronta presencia, entre otros, en P. Lorenzo Cadarso,
Esplendor y decadencia de las oligarquías conversas de Cuenca y Guadalajara (siglos XV
y XVI), «Hispania», n. 168 (1994), pp. 37-52; F.J. Aranda Pérez, Judeo-conversos y poder
municipal en Toledo en la Edad Moderna: una discriminación poco efectiva, en A. Mestres,
E. Giménez (eds.), Disidencias y exilios en la España Moderna, Asociación Española de
Historia Moderna, Alicante, 1997, pp. 155-168.
9
E. Soria Mesa, Los estatutos municipales de limpieza de sangre en la Castilla Moderna.
Una revisión crítica, «Mediterranea-ricerche storiche», n. 27 (2013), pp. 9-36 y Genealogía
y poder. Invención del pasado y ascenso social en la España Moderna, «Estudis», n. 30
(2004), pp. 21-55. De igual forma, M. P. Rábade Obradó, La invención como necesidad:
genealogía y judeoconversos, en M.Á. Ladero Quesada (coord.), Estudios de Genealogía,
Heráldica y Nobiliaria, Editorial Complutense de Madrid, 2006, pp. 183-201.
276
El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces
durante este período10, comienza a urgir plantear si los cristianos
nuevos portugueses pudieron emular ese asalto de sus colegas
castellanos. Cuestión nada baladí, ya que tuvieron una continuada
presencia en el reino vecino.
Hubo un continuado movimiento migratorio, cuyos protagonistas
aprovecharon la permeabilidad de la frontera peninsular, especialmente tras la Unificación de las Coronas Ibéricas (1580). Un trasiego
constante donde los cristianos nuevos lusos alcanzaron un peso
notable, acentuado especialmente bajo protección que el conde-duque
de Olivares11, valido de Felipe IV, brindó a muchos de ellos ante el
Santo Oficio, a cambio de prestar sus servicios a las necesitadas arcas
de regias.
Una presencia que dejó su reflejo en diferentes parcelas: la inserción
lusa en los circuitos económicos castellanos12, sus problemas con el
Santo Oficio, las estrategias matrimoniales que emplearon13 y, entre
otras, en la llegada de algunos de ellos a las esferas de poder de las
oligarquías locales de zonas como Andalucía.
Y es acerca de esta última cuestión donde aún carecemos de las
suficientes monografías. Cierto es que ya disponemos de algunos trabajos
precedentes de sumo interés. Por ejemplo, la profesora Lorena Roldán se
ha adentrado en el ámbito del cabildo malacitano, con gran atención a
los conversos portugueses que lograron acceder a juraderías14.
10
Véase J.E. Gelabert, Tráfico de oficios y gobierno de los pueblos en Castilla (15431643), en L. Ribot y L. de Rosa (dirs.), Ciudad y mundo urbano en la Época Moderna,
Actas, Madrid, 1997, pp. 157-186; A. Marcos Martín, Las ventas de oficios en Castilla
en tiempos de la suspensión de las ventas (1600-1621), «Chronica Nova», n. 33 (2007),
pp. 13-35; F. Andújar Castillo, M.M. Felices De La Fuente (coords.), El poder del dinero.
Ventas de cargos y honores en el Antiguo Régimen, Biblioteca Nueva, Madrid, 2011.
11
Muy recomendable para conocer la política de Olivares sigue siendo la ya clásica
biografía de J. H. Elliott, El conde-duque de Olivares: El político en una época de
decadencia, Crítica, Barcelona, 2009.
12
Destacan en esta parcela compañías comerciales como la de Fernando Montesinos,
converso de Vila Flor, destacado inversor en la Castilla de la primera mitad del
Seiscientos, cuya figura y círculo familiar han sido detalladamente analizados en B.J.
López Belinchón, Honra, libertad y hacienda: (hombres de negocios y judíos sefardíes),
Universidad de Alcalá, 2001.
13
Materia en la que tenemos aún un gran desconocimiento, más allá de los tópicos
pre-existentes. Con carácter local, resulta muy interesante el capítulo que le dedica J.I.
Pulido Serrano, Prácticas matrimoniales de los portugueses en Madrid durante el siglo XVII,
en S. Molina Puche, A. Irigoyen López (coords.), Territorios distantes, comportamientos
similares: familias, redes y reproducción social en la Monarquía Hispánica (siglos XIV-XIX),
Servicio de Publicaciones Universidad de Murcia, Murcia, 2009.
14
L. Roldán Paz, Jurados conversos en el cabildo malacitano, en F.J. Aranda Pérez
(coord.), La declinación de la monarquía hispánica, Universidad de Castilla La Mancha,
Cuenca, 2004, pp. 765-780. En él, su autora muestra una excelente combinación entre
los protocolos notariales y las actas capitulares del cabildo con los legajos inquisitoriales.
Volveremos a incidir en la producción de esta investigadora en los siguientes epígrafes,
centrándonos en su reciente tesis doctoral.
277
Marcos Rafael Cañas Pelayo
Asimismo, nos encontramos a la espera de la publicación de un
estudio genealógico de las familias conversas más destacadas del
ámbito granadino, a cargo del profesor Enrique Soria Mesa, a cuyos
primeros resultados hemos podido tener acceso para la confección del
presente artículo15.
A nivel de fuentes, es mucha la documentación inédita que existe
sobre el tema. Pocos archivos tienen la importancia para esta clase de
reconstrucción que los protocolos notariales, afortunadamente
conservados en buena parte de los lugares de estudio que vamos a
abordar. Información vasta pero muy dispersa, nos vemos obligados a
realizar catas por escribanías y centrándonos en los años clave
(fundamentalmente, entre 1580 y 1640, aunque el asentamiento de
portugueses en Andalucía se da desde décadas atrás y tendrá una
prolongación continuada durante toda la Edad Moderna).
El rico fondo inquisitorial custodiado en el Archivo Histórico
Nacional de Madrid es otra referencia indispensable. Los legajos
conservados de los distritos inquisitoriales andaluces encierran
informaciones genealógicas y de otra índole que nos permiten avanzar
en nuestro conocimiento. Poco trabajada hasta los últimos tiempos,
debemos destacar aquí la correspondencia epistolar mantenida entre
los Tribunales y la Suprema, una serie miscelánea, pero que va
mostrando los entresijos de los procesos, más allá de las, en ocasiones,
escuetas relaciones de causas.
A pesar de que son uno de los fundamentos de nuestra
investigación, los datos obtenidos de los registros del Santo Oficio son
insuficientes por sí solos. En primer lugar, por el carácter parcial y
controvertido de esta fuente (esta parcela se desarrollará más en el
epígrafe correspondiente) y, en segundo, porque solamente refleja una
parte del fenómeno, a aquellos que chocaron con la autoridad
inquisitorial.
Este artículo no pretende centrarse únicamente en aquellos cargos
públicos portugueses que fueron ensambenitados, reconciliados o, en
los peores casos, relajados por la temida institución. Porque también
hubo otros tantos ejemplos de integración y éxito que no se vio frenado
por la ascendencia hebraica. De ello tenemos muestras en las
probanzas y pleitos atesorados en la Real Chancillería de Granada,
también en las relaciones de pasajeros que probaron fortuna en Indias,
etc.
15
Ello se ha debido a la amabilidad del profesor Enrique Soria, quien no ha dudado
en compartir generosamente los datos que ha ido obteniendo en la elaboración de su
futuro trabajo, el cual, sin duda, será una obra de referencia para nuestros conocimiento
sobre los linajes del reino granadino. Citaremos cuando hagamos mención por: E. Soria
Mesa, Genealogías del reino de Granada, en prensa.
278
El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces
Referencias ineludibles para arrancar nuestro análisis. Habremos
de hacer más, tanto bibliográficas como documentales, a medida que
vayamos dibujando el grado de conocimiento del que disponemos
actualmente de esta presencia portuguesa. A ello dedicaremos el
siguiente apartado.
2. Magnitudes y familias para los cuatro reinos
En orden a dar coherencia el discurso, hemos dividido este epígrafe
en cuatro bloques, atendiendo a los reinos de Sevilla, Córdoba,
Granada y Jaén. Para cada uno, mostraremos los estudios precedentes
que se han efectuado, los linajes más destacados que hemos hallado y
la importancia numérica que alcanzaron.
2.1 Sevilla, una oportunidad constante
Comenzamos el repaso por el ámbito hispalense, el cual es,
indudablemente, el que mayores atractivos comerciales presentaba en
Andalucía. Junto con el de Lisboa, el puerto sevillano es el gran centro
receptor e importador de las mercancías que llegan de las Indias
orientales. La creación de la Casa de la Contratación (1503) confirmó
ese papel preponderante y la necesidad de los inversores de estar
presentes allí.
Un reino de Sevilla con un heterogéneo y amplio conglomerado
social, donde los conversos fueron una realidad innegable16 en los
juegos de poder que se sucedieron por parte de los nobles hispalenses;
luchas por influencia y predominio sobre sus pares. Disponemos de
varios estudios que han mostrado esta realidad.
Décadas atrás, Ruth Pike indagó en el origen de muchas de estas
disputas, haciendo especial hincapié en el peso del colectivo cristiano
nuevo en esa coyuntura. Sobre ellos se apoyaba un linaje de la importancia
de los Guzmán (Medina Sidonia) en su rivalidad con otra de las ramas de
la aristocracia más importantes de la ciudad, los Ponce de León.
Como esta historiadora ejemplifica, muchos de estos judeoconversos
lograron prosperar gracias a su capacidad económica y la protección
16
Obra de consulta básica para este aspecto son los trabajos de J. Gil, Los conversos
y la Inquisición sevillana, Universidad de Sevilla, Sevilla, 2000, 8 vols. Recientemente,
destacar la línea abierta en B. Pérez, Conversos sevillanos a principios de la época
moderna: ¿élites financieras o familias relacionadas?, en el Congreso Internacional Los
Judeoconversos en la Monarquía Española. Historia. Literatura. Patrimonio, Universidad
de Córdoba, en prensa.
279
Marcos Rafael Cañas Pelayo
que les ofertaron ciertos sectores nobiliarios, si bien estaban expuestos
a granjearse enemistades y hostilidad por parte del resto de la sociedad.
Concretamente, R. Pike acentúa el supuesto origen portugués de uno
de estos clanes, los Caballero, quienes se jactaban de remontarse a
Alonso González de Meneses, portugués perteneciente a la Orden de
Santiago. Sin embargo, todo parece indicar que dicho ilustre antepasado
no era más que un bulo; en realidad, eran un grupo familiar converso,
oriundo de Sanlúcar de Barrameda17.
Si bien el origen luso de los Caballero era ficticio, sí que fueron
provenientes de Portugal una gran cantidad de familias que se
asentaron en la metrópoli hispalense. La Edad Moderna dejará
constancia de ello en Sevilla, abundando firmas de comerciantes como
los Ximénez de Lisboa, los Caldeira, Báez, etc. No pocos de ellos eran
de origen judío.
Resultando difícil precisar cifras exactas, contamos con los estudios
del profesor Jesús Aguado de los Reyes para este enclave, los cuales
aportan varias indicaciones. Dentro de la colonia portuguesa que llegó
a establecerse en la capital, este investigador registra hasta 258 casos
de mercaderes lusos que obtuvieron la naturalización en la ciudad (su
análisis abarcó los años comprendidos entre 1600 y 1650)18.
Dicho autor nos ha transmitido la paradoja que acompañaría
constantemente a estos agentes económicos en su periplo sevillano;
por un lado, unos intermediarios necesarios, aunque incómodos19; por
el otro, sospechosos bajo los criterios de limpieza de sangre de la época,
basándose en las pioneras investigaciones de Antonio Domínguez
Ortiz, Aguado de los Reyes llegó a señalar:
Domínguez Ortiz colocaba el apogeo de la inmigración portuguesa entre los
años de 1627 a 1640. Su presencia en Sevilla debió de constituir todo un clan.
Y si bien supuso una inyección económica importante para la ciudad, también
suscitaría los celos de otras comunidades. Entre ellas, las de los cristianos
viejos, ya que un porcentaje importante de ellos era converso y, por tanto,
sospechoso de judaizante. Si bien el autor sostiene que la mayoría no fue
inquietada y permaneció en Sevilla tras la separación de 164020.
17
R. Pike, Aristócratas y Comerciantes, Ariel, Barcelona, 1978, pp. 52-56. De la
misma autora, Linajudos and Conversos in Seville. Greed and prejudice in Sixteenth and
Seventeenth-Century Spain, Peter Lang, Nueva York, 2000.
18
J. Aguado de los Reyes, El apogeo de los Judíos Portugueses en la Sevilla
Americanista, «Cadernos de Estudos Sefarditas», n. 5 (2005), pp. 135-157.
19
Un ejemplo de ello lo encontramos en B.J. López Belinchón. Sacar la sustancia al
reino. Comercio, contrabando y conversos portugueses, 1621-1640, «Hispania», nº 209
(2001), pp. 1017-1050.
20
J. Aguado de los Reyes, Lisboa, Sevilla, Amberes, eje financiero y comercial en el
sistema atlántico (primera mitad del siglo XVII), en C. Martínez Shaw, J.Mª Oliva Melgar
(eds.), El sistema atlántico español (siglos XVII-XIX), Marcial Pons, Madrid, 2005, pp. 101-
280
El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces
Hasta tal punto llegó su peso que incluso las autoridades sevillanas
temieron que pudieran ser una especie de quinta columna durante la
conjura del duque de Medina Sidonia21. No obstante, como el propio
Domínguez Ortiz apuntaba en la cita que hemos visto previamente, en
la gran mayoría de los casos, estos portugueses afincados en Sevilla
se integraron plenamente en la ciudad, permaneciendo tras la
separación de Portugal de la Monarquía Hispánica, siendo siempre una
parte activa del entramado económico urbano.
Un refuerzo financiero donde hay que subrayar el sistema de los
asientos, una de las bases de la hacienda regia. El asentista era el
encargado de adelantar y situar una cantidad estipulada sobre
determinada renta o monopolio, la cual obtenía en una puja, pudiendo
quedarse con cualquier beneficio extra que obtuviese durante el
disfrute de la misma.
Con frecuencia, la Corona ofertaba juros como resguardo, si bien el
riesgo de la operación era tan alto como atractivas sus posibilidades
para los inversores. Sevilla, activa y pujante, canalizaba una gran
cantidad de arrendamientos para recaudar indirectamente, lo cual
exigía buscar estos agentes. Y dentro de esas coordenadas, pocos
grupos de negociantes disponían de un radio de acción mejor al de
estos activos comerciantes lusos; es decir, más allá de que algunos
pudieran desembocar en Andalucía huyendo de la, por aquel entonces,
activa Inquisición lusa, existió un factor financiero de mucho peso para
explicar esta decisión.
Varios trabajos subrayan las relaciones constantes del mercado
sevillano con el eje comercial lisboeta22 y los vínculos de destacados
hombres de negocios del Nuevo Mundo con los judeoconversos lusos
sevillanos23. De ahí surgen figuras como Manuel Cea Brito, arrendador
de millones en Sevilla24, además de muy presente en la aduana
hispalense y almojarifazgo de dicha ciudad, quien logró, finalmente,
trasladarse como inversor a la propia Madrid en la década de los 20
del Seiscientos.
126. La cita a Domínguez Ortiz procede de Los extranjeros en la vida española durante
el siglo XVII y otros artículos, Universidad de Sevilla, Sevilla, 1966, pp. 15-181.
21
S. Luxán Meléndez. A Colonia portuguesa de Sevilha. Una ameaça entre a
Restauraçâo portuguesa e a conjura de Medina Sidonia, Penélope-Fazer e Desfazer a
Historia, Lisboa, 1993, pp. 127-134.
22
P. Collado Villalta. El embargo de bienes de los portugueses en la flota de Tierra
Firme de 1641 (análisis de las irregularidades normalizadas y del poder lusitano en el
comercio indiano de la época, «Anuario de Estudios Americanos», t. XXXVI (1979), pp.
169-207.
23
Entre otros, en E.A. Uchmany, Simón Váez Sevilla, «Estudios de Historia
Novohispana», n. 9 (1987), pp. 67-93.
24
A. Domínguez Ortiz, Los extranjeros en la vida española durante el siglo XVII y otros
artículos, Diputación de Sevilla Sevilla, 1996, p. 30.
281
Marcos Rafael Cañas Pelayo
Los prestamistas de Portugal fueron reemplazando de forma natural
a sus predecesores genoveses, los anteriores controladores de muchos
de estos circuitos25. Los comienzos del siglo XVI hicieron coincidir el
auge de la Casa de la Contratación de Sevilla con el control ejercido
por los mercaderes de esclavos lusitanos.
Todo ello se tradujo en la impronta portuguesa que va a tener la
trata negrera en suelo hispalense (y, desde ese centro de difusión, al
resto de Andalucía)26. Sabemos relativamente bastante de los grupos
inversores más destacados del negocio esclavista, la cúspide de la
pirámide de un sistema complejo, cuyos circuitos iban desde Cabo
Verde a Cartagena de Indias. Justamente aquellos que podían aspirar
a prosperar en su nueva ciudad y, en los casos más afortunados,
incluso alcanzar el codiciado estatus nobiliario.
Esta clase de emporios comerciales articulados alrededor de
vínculos familiares y étnicos, son un aspecto a desarrollar con mayor
profundidad en el futuro. Actualmente, contamos con los trabajos de
los profesores Manuel F. Fernández Chaves y Rafael M. Pérez García,
quienes han mostrado las vías de penetración de estos agentes
portugueses en Sevilla, desde etapa temprana, alcanzando un nivel
que les podía garantizar un futuro prestigio27, perpetuándose en dicha
actividad a lo largo del tiempo28.
25
Algunos autores llegan a hablar, incluso, de imperio hispano-genovés, hipérbole
que muestra el destacado peso que llegaron a tener estos italianos en la metrópoli. Citar
aquí a M. Herrero Sánchez. La quiebra del sistema hispano-genovés, «Hispania: Revista
Española de Historia», vol. 65, n. 219 (2005), pp. 115-151. Por ser un caso particular de
un banquero muy destacado del prolífico linaje genovés de los Centurión, mencionar
asimismo la reciente biografía de Carmen Sanz Ayán sobre Octavio Centurión. C. Sanz
Ayán. Un banquero en el Siglo de Oro, La Esfera de los Libros, Madrid, 2015.
26
Dentro de su amplio banco de datos sobre cristianos nuevos portugueses y
castellanos condenados por los Tribunales del Santo Oficio americanos, el profesor
Ricardo Escobar Quevedo ha confirmado que en los territorios coloniales se verifica
asimismo la vinculación de judeoconversos portugueses en la compra de asientos
negreros, llegando a establecerse auténticas dinastías (destacando a las gentes
procedentes del distrito de Castelo Branco). Citamos por R. Escobar Quevedo,
Inquisición y judaizantes en la América española (siglos XVI-XVII), Ediciones
Universidad del Rosario, Ciudad del Rosario, 2008. Para el papel de los esclavistas en
Sevilla, entre otros, son de obligatoria mención de los trabajos de E. Otte, C. RuizBurruecos, Los portugueses en la trata de esclavos negros de las postrimerías del siglo
XVI, «Moneda y Crédito», n. 85 (1963), p. 331. También el estudio de L. García Fuentes,
Licencias para la introducción de esclavos en Indias y envíos desde Sevilla en el siglo
XVI, «Jahrbuch für Geschichte von Staat, Wirtschaft und Gesellschaft Lateinamerikas»,
n. 19 (1982), pp. 1-46.
27
M. Fernández Chaves y R.M. Pérez García, La penetración económica portuguesa
en la Sevilla del siglo XVI, «Espacio, Tiempo y Forma, Serie IV, Historia Moderna», t. 25
(2012), pp. 199-222.
28
Tomemos por ejemplo a Manuel de León, nacido en Sevilla, con raíces en Lisboa y
vínculos comerciales con Oporto. Algunas de sus primas habían llegado a ingresar como
monjas en conventos hispalenses. Sin embargo, este navegante de galeones negreros
282
El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces
Estos estudios han incidido en la capacidad de dichos protagonistas
cara a hacerse imprescindibles para la élite hispalense, la cual
precisaba de ellos como intermediarios, a la par que, en no pocos
casos, administradores de sus bienes y negocios. Se trataba de una
posición clave para lograr contactos con la oligarquía, como Gaspar de
Torres, cuyo linaje era uno de los principales responsables de la trata
en el río de Guinea, quien acabó logrando el puesto de jurado. Citando
textualmente el artículo referido, destacamos la descripción que se
brinda sobre Manuel Caldeira, enriquecido negrero luso:
Para ello, utilizó la técnica que los portugueses ensayaron durante todo el
siglo, introducirse en el seno de la propia oligarquía esclavista sevillana,
trabajar con ellos y para ellos, la única manera real de participar a gran escala
en ese negocio29.
No solamente hubo mercaderes de esclavos en esta fila más
acomodada del grupo converso. Cargadores de Indias, comerciantes de
varas de tafetán, inversiones arrendatarias y una amplia variedad de
actividades podían permitir obtener jugosos dividendos que fortalecían
la consideración pública de sus protagonistas.
Algunos de ellos llegaron a tener una gran reputación, a pesar de
su abolengo, debido a su habilidad para la internacionalización que
ofrecía el mercado Atlántico30. Tal fue el modelo que siguió el célebre
Marcos Fernández Monsanto, portugués, descendiente de conversos,
quien, además de administrar la renta del almojarifazgo entre los años
de 1631 y 1643, empleó una parte de su fortuna en obras benéficas
que ayudasen a los sectores de población sevillanos más empobrecidos.
Debido a la suerte cambiante y al azar de la inversiones, este popular
personaje terminó por encontrase al borde de la quiebra al final de sus
días31. En definitiva, esa búsqueda de respetabilidad y ascenso
conllevaba un riesgo, pero era factible.
En pos de ese objetivo, pleitearon los hermanos Lorenzo, Francisco
y Jerónimo de Castro, avecindados en Sevilla, quienes solicitaron
acreditación por su condición hidalga ante la Chancillería de Granada.
tuvo problemas con el Santo Oficio de Coimbra a su regreso a Portugal (1659). Antt,
Inquisiçâo de Coimbra, proc. 1368.
29
M. Fernández Chaves y R.M. Pérez García, La penetración económica portuguesa
cit, p. 218. De estos mismos autores, destacamos también La esclavitud en la Sevilla del
quinientos: reflexión histórica (1540-1570), en F.J. Mateos Ascacibar, F. Lorenzana de la
Puente (coords.), Marginados y minorías sociales en la España moderna y otros estudios
sobre Extremadura, Sociedad Extremeña de Historia, Llerena, 2006.
30
Por ejemplo, sobre la amplitud de este mercado hay varias obras colectivas que
subrayan su importancia. Tal es el caso en J. Manuel de Bernardo Ares (dir.), Mercaderes
atlánticos. Redes de comercio flamenco y holandés entre Europa y el Caribe, Servicio de
Publicaciones Universidad de Córdoba, Córdoba, 2009.
31
J. Aguado de los Reyes, El apogeo de los cit, p. 142.
283
Marcos Rafael Cañas Pelayo
Tanto Lorenzo como Francisco eran caballeros veinticuatros
(equivalente a regidor en muchos cabildos andaluces, denominados así
por el número original de personas que podían desempeñar el puesto,
aunque, con el paso de las décadas, la cantidad de caballeros creció
exponencialmente), pero ello no les salvaguardó de tener una probanza
sumamente accidentada32.
Su genealogía comenzó a ser investigada en 1634; desafortunadamente para sus intereses, junto con el testimonio de su clientela
y círculo de amistades de la ciudad, también surgieron enemigos
dispuestos a probar su origen hebreo, el cual situaron en el reino de
Portugal.
Bartolomé Gutiérrez Pacheco, jurado hispalense, fue el encargado
de romper las laudatorias declaraciones anteriores. Hombre de más de
50 años de edad, recordaba con claridad la llegada del grupo a Sevilla,
afirmando que tenía a los anteriores testigos por hombres pobres y
pecheros, sobornados por unos pocos maravedís o bien vinculados por
afecto y necesidad a aquellos tres hermanos.
Lejos del abolengo nobiliario que los litigantes habían situado en
Castro Urdiales, una sombra de sospecha empezó a recorrer el árbol
genealógico del clan33. Margarita de Sosa, abuela portuguesa por línea
paterna de los candidatos, era uno de los mayores motivos de fricción
de las averiguaciones. Es entonces cuando la familia desplegaba
todos los recursos que tenía disponibles para mantener la ficción,
desde la supuesta casa solariega34 a la colocación de una nueva
hornada de testigos que estuvieran dispuestos a desmentir los
maliciosos ataques.
Es un proceso que se repetirá mucho, no exclusivo de estos
hermanos Castro. Se borraban los parientes condenados ante el Santo
Oficio, mientras que empezaban a surgir intachables (y ficticios)
parientes que hubieran portado hábitos de órdenes militares, así como
frailes y monjas entre sus antepasados.
En definitiva, no solamente estaba en liza una demostración
genealógica, también se ponía a prueba la capacidad de los aspirantes
de poder contar con los suficientes recursos y contactos que pudieran
avalarles en su tentativa. Por supuesto, el grado de integración obtenido
en su nueva área geográfica desempeñaba un papel fundamental.
Una de las vías más directas para naturalizarse era prestar sumas
de dinero a la Corona, disponemos de varios estudios relativos a estas
32
Archivo Real Chancillería de Granada (en adelante, ArchGr), Pleitos, caja 10049,
pieza 9.
33
La petición había sido realizada en 1634. Citamos por ArchGr, Pleitos, leg. 2602,
pieza 51.
34
ArchGr, Pleitos, leg. 5267, pieza 110.
284
El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces
cuestiones. Por ejemplo, Juana Gil-Bermejo35 ha rescatado algunos
listados de mercaderes lusos en Sevilla, relativos a recaudaciones que
iban encaminadas a ayudar a las arcas públicas, debido a las
constantes guerras mantenidas por la Monarquía con Europa
(especialmente, el frente de Flandes). Muchos de estos negociantes
foráneos aceptaban desventajosos cambios de plata por vellón, a
cambio de poder establecerse en la ciudad hispalense.
Un estatus que podía permitirles aspirar a establecerse con honores
en otros lugares de Andalucía. Así, Jorge Fernández de Oliveira,
tesorero de los almojarifazgos hispalenses, logró una fortuna que le
llevó a comprar por la cifra de 100.000 ducados el puesto de mojonero
mayor de Málaga. No se quedaron atrás, siguiendo este modelo,
personajes como don Duarte de Acosta, contador mayor, factor de la
Armada y personaje muy importante en los presidios peninsulares en
África36, Francisco Báez Eminente, Diego Núñez Pérez, quien alcanzó
el rango de caballero veinticuatro37 y un amplio etc.
Desde antes de la Unión de Coronas Ibéricas y hasta la llegada de la
Casa de Braganza al trono portugués, la presencia lusa fue en
constante auge. Resultarán de sumo interés en el futuro los trabajos
que están comenzando a ser realizados por jóvenes investigadores como
Ignacio González Espinosa, quien se encuentra analizando el grado de
integración de este grupo extranjero a través de fuentes locales38.
Lutgardo García Fuentes39 ha subrayado el paulatino declive de
este agente tan constante, a partir del arranque de la segunda mitad
del Seiscientos. Progresivamente, fueron desapareciendo de las listas
nombres como los hermanos Rodríguez Pasariños, representantes en
Sevilla del poderoso linaje converso de los Silveira, quienes fueron los
organizadores de la colocación de 80.000 ducados en Flandes, a
cambio de varias consignaciones que les garantizó Felipe IV en 163240.
35
J. Gil Bermejo. Mercaderes sevillanos. Una nómina de 1637, «Archivo Hispalense»,
n. 181 (1976), pp. 183-197. Este artículo tuvo su prolongación en Mercaderes sevillanos.
Una nómina de 1640, «Archivo Hispalense», n. 182 (1977), pp. 27-52.
36
A. Domínguez Ortiz, Los extranjeros en la vida cit., pp. 31 y 35. Francisco Báez
Eminente mostró una inteligente diversificación económica. De los arrendamientos
sevillanos a las minas de Almadén, terminó controlando los almojarifazgos hispalenses
y una fuerte presencia en el puerto de Cádiz.
37
J. Aguado de los Reyes. Lisboa, Sevilla, Amberes cit., p. 121. La familia Núñez Pérez
tuvo una gran cantidad de negocios en Amberes.
38
I. González Espinosa. Portugueses en Sevilla: sus oficios y profesiones durante el
reinado de Felipe III, en XIII Reunión Científica de la Fundación Española de Historia
Moderna, Universidad de Sevilla, pp. 1041-1054.
39
L. García Fuentes. Exportación y exportadores de Indias, «Archivo Hispalense», n.
203 (1984), pp.1-39
40
J. Aguado de los Reyes. Lisboa, Sevilla, Amberes, cit., p. 108. Los Silveira fueron
distinguidos por Felipe IV con dignidades como el hábito de la Orden de Cristo.
285
Marcos Rafael Cañas Pelayo
Saliéndolos del núcleo urbano, sobresale la prosperidad alcanzada
por varias familias de mercaderes portugueses en lugares como Osuna
o Écija. Nos centraremos especialmente en la segunda localidad, dentro
del apartado de problemas con el Santo Oficio, debido a la acción
inquisitorial realizada contra comunidad conversa portuguesa desde
finales del Quinientos, donde hallamos una notable cantidad de cargos
públicos41 (escribanos públicos, jurados y, ya alcanzado el Seiscientos,
incluso regidores).
Para Cádiz, sobresale el caso de la familia Báez. Fernán Báez,
mercader luso, oriundo de Tánger, esposo de doña Beatriz de Vargas,
fue el padre de Enrique Báez de Vargas, quien llegó a ostentar el puesto
de regidor en el cabildo municipal, coincidiendo con el saqueo de este
enclave andaluz por parte del conde de Essex42. La hermana de
Enrique, doña Juana de Vargas, logró enlazar con don Pedro de
Angulo, regidor malagueño, teniendo como hijo a don Martín de
Angulo, quien tuvo unas accidentadas pruebas genealógicas para
obtener el hábito de Santiago en 164443.
Dos fueron los aspectos más controvertidos de dichas probanzas.
En primer lugar, varios testigos expresaron sus dudas de los
antepasados lusos de don Martín de Angulo, mientras que la familia
de su padre mostraba provenir de una conversa antigua de Écija,
concretamente, del prolífico linaje de los Nájera, lo cual podría ser un
indicio de una hipotética conexión, a través de esa rama, con los Báez
Coronel de Murcia44.
41
Los Rodríguez de Andrada, Acosta, Fernández de León y Silva Lobo fueron los
linajes más destacados en este proceso de ascenso al cabildo, truncado por el choque
con el Santo Oficio. Desarrollaremos más este aspecto en el apartado correspondiente y
en un artículo centrado exclusivamente sobre la presencia judeoconversa lusa en el
distrito astigitano, que esperamos salga publicado en breve.
42
Resulta abundante la producción bibliográfica relativa a este asalto. Destacamos
la crónica efectuada por fray Pedro de Abreu. Citamos la edición de M. Bustos Rodríguez
(ed.), Historia del saqueo de Cádiz por los ingleses en 1596, Servicio de Publicaciones de
la Universidad de Cádiz, Cádiz, 1996. Allí observamos a este regidor de ascendencia lusa
como uno de los ilustres rehenes gaditanos que se hallaban en Inglaterra.
43
Ahn, Órdenes Militares, Expedientes Caballeros de Santiago, exp. 437.
44
Protegido por el marqués de Mondéjar, este grupo luso logró alcanzar posiciones
muy destacadas (jurados y regidores) en Murcia. Actualmente, destaca el estudio de P.
Miralles Martínez, Mercaderes portugueses en la Murcia del siglo XVII, en M.B. Villar
García y P. Pezzi Cristóbal (eds.), Los extranjeros en la España Moderna, Universidad de
Málaga, Málaga, 2003. En él, su autor muestra como la prosperidad mercantil
(especialmente, el negocio de la seda) permite a algunos de estos cristianos nuevos lusos
acceder a concejos como el de Cartagena o la propia capital del reino. El posible vínculo
común de estos Báez en Murcia y los de Cádiz con los Nájera se debería a los lazos de los
segundos con los Peñalosa (los cuales dan relatores y otros funcionarios a la Chancillería
de Granada), quienes parecen conectar con esos mismos Nájeras astigitanos que enlazan
con los Coronel. De ser así, ello nos hablaría de un posible parentesco entre ambos Báez.
Remito para esa línea futura a E. Soria Mesa, Genealogías del reino cit, en prensa.
286
El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces
No en vano, la salida portuaria de Cádiz, igual que en el caso
sevillano, la convirtió en una zona con gran proliferación de
mercaderes de esclavos lusos45, lo cual les permitió manejar unos
niveles de fortuna lo suficientemente elevados para aspirar a la compra
de oficios públicos. Para este enclave portuario, volvemos a encontrar
a los Báez Eminente, beneficiados de su inversión en estas activas
aduanas del litoral46.
Es mucho todavía lo que nos queda por analizar para este territorio,
pues hubo una pervivencia de dichos asentistas lusos47; así ha dado
muestra de ello Manuel Ravina Martín en un excelente recorrido
genealógico por familias judeoconversas originarias de lugares como
Braganza, Jerez de la Frontera48, Puerto de Santa María49, entre
muchos otros, para terminar dando como descendientes a figuras tan
ilustres como el ministro Mendizábal50.
Comienza a ser una necesidad urgente indagar más en esta
presencia, por ejemplo, tenemos constancia de personajes con el
apellido Báez51 que ostentan diferentes cargos públicos en el Puerto de
Santa María, llegando a perdurar hasta el Seiscientos52.
45
Recientemente, A. Morgado García, Una metrópoli esclavista: El Cádiz de la
Modernidad, Universidad de Granada, Granada, 2013.
46
Ver I. Pulido Bueno, Enajenaciones de rentas comerciales en el litoral onubense y
gaditano a mediados del siglo XVII, «Huelva en su historia», n. 2 (1988), pp. 401-436.
47
Tal fue el caso de Simón Ruiz Díaz Pessoa y su primo, Gaspar Ruiz, inversores en
la aduana de Cádiz durante la década de los 80 del siglo XVII. Contamos con estudios
clásicos que muestran como estos hombres de negocios, judeoconversos en su origen,
terminaron en quiebra. Ambos aparecen en J. Caro Baroja, Los judíos en la España
Moderna y Contemporánea, Istmo, Madrid, 2005, vol. II, p. 166.
48
Urge un estudio del cabildo jerezano para el Seiscientos como sí se ha realizado ya
con los regidores del siglo XVIII. Citamos por J. M. González Beltrán Honor, riqueza y
poder: Los Veinticuatros de Jerez de la Frontera en el siglo XVIII, Ayuntamiento de Jerez,
Jerez de la Frontera, 1997.
49
Encontramos los trabajos más clásicos realizados sobre la comunidad portuguesa
establecida en dicho enclave. Resaltar H. S. de Sopranis, La colonia portuguesa del Puerto
de Santa María. Siglo XVI, Centro de Estudios Históricos Jerezanos, Larache, 1940.
50
M. Ravina Martín, Un laberinto genealógico: La familia Mendizábal, Servicio de
Publicaciones Diputación de Cádiz, Cádiz, 2003.
51
Tal fue el caso de Rodrigo Báez, de más que posible ascendencia portuguesa,
regidor perpetuo en dicho enclave. ArchGr, leg. 5387, pieza 2.
52
Por ejemplo, en el artículo de J. M. González Beltrán, De señorío a realengo.
Reflexiones sobre la incorporación del Puerto de Santa María a la Corona (1729), «Revista
de Historia de El Puerto», n. 32 (primer semestre 2004), pp. 11-25. Ahí encontramos
referencia de don Rodrigo Luis Báez, quien compra el cargo del regidor don Lorenzo
Rodríguez Cortés Osorio en el año de 1731. El autor no habla de su ascendencia, pero
sí deja constancia de que provenía de una familia de cosecheros.
287
Marcos Rafael Cañas Pelayo
2.2 El reino de Córdoba, modelos de asimilación, ocultación y éxito
Sin el brillo de los grandes banqueros y asentistas portugueses de
la metrópoli sevillana, el reino de Córdoba fue receptor asimismo de
una constante llegada de negociantes lusos a sus territorios, no pocos
de ellos de origen confeso. Zonas como Priego, Montilla o Lucena
captaban la atención del circuito textil local, convirtiéndose en centros
de intercambio y abastecimiento para estos hombres de frontera53.
A diferencia del caso hispalense para la etapa de Unión de Coronas,
todavía carecemos de una distribución cronológica y magnitudes
concretas del peso que llegó a tener la inmigración portuguesa en el
reino de Córdoba, si bien hay algunos planteamientos previos54. El
vaciado de relaciones de causas del Tribunal Inquisitorial de Córdoba,
a cargo de Rafael Gracia Boix55, ya arrojaba el dato de que hubo más
de 200 procesados de origen portugués en esta jurisdicción, si bien,
nuestros estudios nos ya nos permiten afirmar que se sobrepasó la
cifra de los 30056.
Esa disparidad en el recuento se explica porque, además de los
condenados en Autos, el intercambio epistolar del Consejo de Córdoba
con la Suprema de Madrid da más noticias sobre otros portugueses
investigados (causas pendientes, inconclusas, detalles de víctimas que
en las relaciones no son reconocidos como lusos, pero eran de dicha
ascendencia, descendientes de portugueses, etc.). En definitiva, un
peso muy destacado, sobre todo en el siglo XVII, más si tenemos en
cuenta que solamente estamos hablando de aquellos que chocaron con
la autoridad inquisitorial, es decir, una parte del grupo.
El perfil socioeconómico se corresponde a una mesocracia más baja,
alejada de los casos más notorios de los grandes asentistas y
53
Los intereses comerciales de Córdoba con el reino de Portugal son bien visibles
desde comienzos del siglo XVI. De ello se deja constancia en diferentes epígrafes que
dedica a la cuestión el profesor José Ignacio Fortea Pérez, prestándose una especial
atención al intercambio de productos textiles, especialmente la venta de paños. Citamos
por J.I. Fortea Pérez, Córdoba en el siglo XVI: Las bases demográficas y económicas de
una expansión urbana, Publicaciones del Monte de Piedad y Caja de Ahorros de Córdoba,
Córdoba, 1983.
54
Por ejemplo, un primera distribución de coyunturas en la comunicación de la
profesora D. Colla Lhamby, Los judíos portugueses en el tribunal inquisitorial de Córdoba,
en Mª H. Carvalho y A. Nowinsky (coords.), I Congresso Luso-Brasileiro sobre Inquisiçâo,
Sociedade Portuguesa de estudos so século XVIII ,Lisboa, 1987, pp. 169-173.
55
R. Gracia Boix, Autos de Fe y Causas de la Inquisición de Córdoba, Diputación
Provincial de Córdoba, Córdoba, 1983.
56
Remito aquí a mis consideraciones sobre las fases de asentamiento de los
judeoconversos portugueses en M.R. Cañas Pelayo, Los judeoconversos portugueses en
la Edad Moderna: Estrategia económico-familiares, en R. Molina Recio (dir.), Familia y
Economía en los territorios de la Monarquía Hispánica, Mandalay Ediciones, Badajoz,
2014, pp. 173-198.
288
El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces
arrendadores marranos. Ello reviste al distrito cordobés de un interés
especial, pues nos aproxima al denominador común del grupo.
A pesar de su fama como una de las ciudades más aristocratizadas
durante la Edad Moderna peninsular, Enrique Soria Mesa ha mostrado
con detalle la mezcla de sangre conversa con la del patriciado urbano
cordobés, hasta el punto de afectar a algunos de los linajes más
renombrados del reino57.
Un rastreo genealógico que nos sirve de clara guía para ver este
acceso de grupos con raigambre hebrea, pero que logran mantenerse
en el poder de la oligarquía urbana, después haber quedado sus filas
muy diezmadas por la labor del Santo Oficio. Durante los primeros
años de funcionamiento de la institución, la Inquisición cordobesa se
destacó por una fuerte virulencia.
Tras la fase de represión y política de terror impuesta por Diego
Rodríguez Lucero, el inquisidor más agresivo en su ofensiva contra los
conversos, se produjo un relajamiento de la cuestión; fueron años de
asimilación silenciosa de los más destacados linajes supervivientes de
la anterior criba58.
Ya en la centuria siguiente, durante las investigaciones de la Suprema
sobre los prestamistas lusos en la Corte de Felipe IV, el Consejo de
Córdoba recibe instrucciones para hacer una relación sobre los
portugueses procesados en su distrito. En la respuesta debía de
prestarse especial atención a aquellos reclusos que atesorasen muchos
arrendamientos y hubieran tenido acceso a posiciones de poder e
influencia en dicha jurisdicción. Los informes ilustran mucho acerca de
las características de los conversos que fueron procesados en este marco.
Se trata de un intercambio epistolar revelador. Córdoba deja
constancia de que los prisioneros portugueses que han sido juzgados
en su Tribunal distan de tener la relevancia de sus compatriotas en
otras zonas de Andalucía. Recientemente, hemos atendido a esas
averiguaciones (década de los 30 del siglo XVII) en un artículo59, donde
los inquisidores cordobeses afirman que, salvo alguna notoria
excepción, la mayoría de sus reos son mercaderes a pequeña escala,
confiteros, tratantes, etc.
Sin embargo, podemos hacer varias matizaciones a esta afirmación.
Estamos aún en la época de Olivares, existe un mayor blindaje cara a
los judeoconversos lusos que brindaban servicios al reino; años
57
E. Soria Mesa, El cambio inmóvil: Transformaciones y permanencias en una élite
de poder (Córdoba, ss. XVI-XIX), Ediciones de la Posada, Córdoba, 2000.
58
Los desmanes cometidos por Lucero fueron denunciados en su propia época,
incluyendo los vertidos por sus superiores en la Suprema de Madrid. La coyuntura y lo
fraudulento de sus métodos es visible en la correspondencia inquisitorial que
encontramos en el Ahn, Inquisición, leg.2392, cajas 1 y 2.
289
Marcos Rafael Cañas Pelayo
posteriores, empezarán a arrojarnos ejemplos de un nivel económico
más alto que los casos precedentes. Por ejemplo, Juan Arias del Valle,
alguacil de millones en la villa de Cabra, reconciliado en 1663, cuya
familia había venido de Portugal60 o, portugués de segunda generación,
Diego Matos de Soto, alguacil condenado en Córdoba, durante el Auto
de 166561.
Incluso hemos hallado ejemplos como el de Domingo Rodríguez de
Capadocia62, responsable de la administración del impuesto del tres
por ciento en Lucena, persona adinerada y que, además, tenía los
derechos a cobrar los derechos de las alcabalas en el reino de Córdoba,
virtud de los poderes que le había dado su cuñado, Luis Fernández
Pato63, notable prestamista luso en la Corte madrileña, figura que copó
asimismo varios oficios públicos de importancia.
Similar fue el caso de Miguel Méndez, administrador de la carga
impositiva del tres por ciento en Moltalbán, quien terminó casando con
su compatriota Blanca de Matos, reconciliada ante el Santo Oficio
granadino64; o la compañía formada comerciantes lusos para cobrar
los diezmos que debía recibir el duque de Cardona en Lucena a la
altura de 162765. Ejemplos notables pero a los que no nos debemos
limitar, puesto que, y este es el matiz más importante, si nos
contentásemos con seguir esta fuente, solamente incluimos a aquellos
juzgados por este Tribunal.
Y esta es una cuestión metodológica en la que debemos incidir,
pues puede aportarnos novedosas vías para entender el proceso de
asimilación. La otra cara de la moneda, es decir, los portugueses de
ascendencia hebrea que lograron el ascenso social en Córdoba tienen
varios ejemplos de familias lusas, muy notorias, de hecho, de las
59
M.R. Cañas Pelayo, Judaizantes y Malsines: Redes criptojudías portuguesas durante
el Seiscientos ante el Tribunal de Córdoba, «Historia y Genealogía», n. 3 (2013), pp. 23-40.
60
Ahn, Inquisición, leg. 2426.
61
Nacido en Murcia, este personaje había logrado acceder al puesto de alguacil en
Málaga, cayendo en desgracia al ser acusado de judaizante. Fue reconciliado con hábito
y cárcel por seis meses, quedando desterrado de manera indefinida de toda Castilla. Se
recoge su condena en R. Gracia Boix, Autos de Fe y causas op. cit., p. 491.
62
Así lo encontramos mencionado en J. Caro Baroja, Los judíos en cit., p. 103. Hemos
podido complementar dicha referencia bibliográfica con la información sobre su proceso
en el mazo de correspondencia del Ahn, Inquisición, leg. 2425.
63
A quien encontramos vinculado a Gaspar de Olivera, reo luso de la Inquisición
gallega, quien llegó a ostentar el puesto de tesorero de millones en la ciudad de Santiago.
Denunciado por su propia esposa, doña Juana López Capadocia, tras caer ella en
cárceles inquisitoriales cordobesas, sabemos que logró recuperarse de esos avatares y a
ostentar el puesto de tesorero en las salinas de Sevilla (1655).
64
Mª. de los Ángeles Fernández García, Inquisición, comportamiento y mentalidad en
el reino de Granada en el siglo XVII, Universidad de Granada, Granada, 1987, p. 327.
65
Los dos principales, Rodrigo Núñez y Juan de España, terminaron siendo acusados
ante el Santo Oficio cordobés. Ahn, Inquisición, leg. 2406.
290
El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces
cuales es difícil indagar en sus orígenes, precisamente porque sus
integrantes se encargaron de borrarlo del recuerdo. Lo hicieron y, en
algunos casos, dejando establecidas las bases a finales del
Quinientos para poder sortear futuribles sospechas en la siguiente
centuria.
Incluso los encontramos en una esfera que parecía tan restrictiva
como el cabildo catedralicio. A raíz de los resultados obtenidos por el
profesor Antonio J. Díaz Rodríguez, autor de un completo repaso de la
evolución histórica de la institución cordobesa en la Modernidad
(aunque el autor supera tales límites cronológicos para situar
claramente antecedentes y consecuencias de su época de trabajo). Fruto
de ese estudio, hemos descubierto núcleos familiares portugueses
insospechados, siendo los Cortés de Mesa el exponente más claro de
asimilación a la élite66.
Casi siempre asociados a los Fernández de Mesa, familia de muy
antigua raigambre en el patriciado eclesiástico de la ciudad, los Cortés
de Mesa lograron su objetivo de que se pensase que eran una rama de
dicho clan, aunque, como demuestra el profesor Rodríguez, la realidad
era bien diferente y bastante más compleja. Bajo la protección de los
marqueses de Comares, integrantes de este linaje habían logrado
regidurías en la próspera Lucena, si bien sus raíces no se hundían en
el reino cordobés, sino que hemos de situarlas en tierras portuguesas.
Nunca se hizo mención de ello hasta las pruebas que se efectuaron al
capitán Andrés de Mesa, quien logró su hábito de Santiago en 1587.
Teniendo en cuenta que en su árbol genealógico se encontraban
numerosos prebendados, racioneros e inquisidores, era más que
presumible que las investigaciones serían un mero trámite antes de
otorgarle la distinción. Por el contrario, apenas se levantó su genealogía
hasta los abuelos, diferentes testigos comenzaron a mostrar sus dudas;
concretamente, en lo relativo al abuelo materno, Alonso de Mesa, de
origen portugués.
Sin embargo, en realidad, poco importaban aquellos inciertos
ascendentes, debido a que los Cortés de Mesa ya estaban fuertemente
instalados en Lucena y la propia capital del reino, emparentados con
familias tan renombradas como los Argote o los propios Fernández de Mesa
(de hecho, siempre buscaron emularse a ellos en elementos iconográficos
como los blasones67). No tardaría el grupo en encontrar solución a las
A ellos dedica varios epígrafes en el detallado recorrido que hace sobre la cuestión
en el libro que fue fruto de su tesis doctoral. A.J. Díaz Rodríguez, El Clero Catedralicio
en la España Moderna: Los miembros del cabildo de la catedral de Córdoba (1475-1808),
Servicio de Publicaciones de la Universidad de Murcia, Murcia, 2012. El trabajo
postdoctoral de este autor en el CIDEHUS (Universidad de Évora) nos hace augurar que
será el germen de futuros artículos de gran interés sobre las semejanzas y diferencias
de los cabildos portugueses y castellanos.
66
291
Marcos Rafael Cañas Pelayo
incertidumbres. La rama paterna se conectó con unos hidalgos aragoneses,
mientras que los maternos fueron igualmente enaltecidos.
En su trabajo ya citado, el profesor Díaz Rodríguez expone con
claridad cómo Alonso de Mesa se tornó en Alonso de Mesa Barros,
convertido en un caballero entre el Douro y el río Miño, cuyos sobrinos
combatieron contra los musulmanes desde época antigua para tomar
Lucena. Se resume de forma clara en el siguiente párrafo:
La de los Cortés de Mesa es una historia fascinante de ascenso en cuanto
al cálculo con que todo fue medido: colocación de los hijos, matrimonios,
transmisión de los nombres, lugar de residencia en la ciudad, erección de
vínculos, elección de armas nobiliarias… todo destinado a confundirse, a
equiparse lo más posible a una de las familias nobles del antiguo patriciado
cordobés […]68.
Paralelamente, albergamos la misma intuición con respecto al linaje
de los Fernández de Carreras, de difícil reconstrucción, pero con una
capacidad muy notable para colocar a sus integrantes en posiciones
de privilegio, tanto cargos eclesiásticos como municipales. Si bien
albergaron en sus filas a adinerados mercaderes, familiares del Santo
Oficio, jurados y fundadores de mayorazgos, como acontece con los
Cortés de Mesa, cualquier indagación en sus raíces empezaba a
mostrar silencios y lagunas sobre su llegada.
Nada de eso, obviamente, aparece indicado en el detallado desglose
que recogió Vicente Porras Benito sobre las ramas de su señorío en
Villaralto69. Este trabajo, amplia revisión genealógica de algunas de las
familias cordobesas más relevantes, ha sido una orientación básica en
nuestro rastreo, especialmente por su clarificadora guía a la hora de
ver los enlaces de este grupo, una vez se hacen con la posesión de la
citada villa, la cual terminó incorporada al mayorazgo familiar, a través
de la figura de don Melchor Fernández de las Carreras y Acuña,
canónigo de Córdoba y arcediano de los Pedroches. El profesor Enrique
Soria ya dejó constancia hace años, acerca de lo interesante que
resultaría poder indagar más en este personaje y su familia70.
67
Las cuestiones relativas a la heráldica y demás elementos iconográfícos de los
Fernández de Mesa han sido trabajadas en el siguiente artículo: G.J. Herreros Moya,
Nobleza, genealogía y heráldica en Córdoba: la Casa Solariega de los Mesa y el Palacio
de las Quemadas, «Historia y Genealogía», n. 3 (2013), pp. 99-194.
68
Cito aquí por la tesis original, del mismo título, disponible en red. A.J. Díaz
Rodríguez, El clero catedralicio en la España Moderna: Los miembros del Cabildo en la
Catedral de Córdoba (1475-1808), Universidad de Córdoba, Córdoba, 2012, pp. 163-166.
69
V. Porras Benito, Bocetos genealógicos cordobeses, Fabiola de Publicaciones
Hispalenses, Sevilla, 2004, vol. 1, pp. 496-517.
70
E. Soria Mesa, El cambio inmóvil cit., p. 94.
292
El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces
¿Fueron los Fernández Carreras de origen confeso? Como
esperamos mostrar con claridad en un futuro estudio monográfico,
resulta difícil determinar si lo eran, pero de lo que no cabe ninguna
duda es que no tuvieron ningún problema en enlazar matrimonialmente con algunas de las familias conversas más destacadas en el
reino de Córdoba. Su éxito innegable fue saber exactamente con
quiénes aliarse. Una carrera accidentada que les catapultó de ser unos
pujantes torcedores de seda71 en Braga y Lisboa hasta adscribirse a la
élite local de su nuevo hogar.
De esa incertidumbre sobre este pasado familiar dejó constancia la
candidatura de don Gómez de Solís, descendiente por línea materna
de la rama Carreras, al puesto de oficial inquisitorial en Córdoba, en
el año de 163272, la cual se fue complicando de forma paulatina. Con
todo, más que la documentación inquisitorial, nuestras dos fuentes
más destacadas para ir situando a los integrantes de esta familia las
hemos hallado en los protocolos notariales cordobeses73 y en la
Chancillería de Granada.
El largo pleito mantenido por los aspirantes y sucesores del
mayorazgo fundado por Pedro Fernández de Carreras y Acuña74, jurado
de Córdoba, ha sido una pieza básica para poder comprender mejor la
política de alianzas establecidas por este grupo originario de Friastelas,
arzobispado de Braga.
Recientemente abierto al acceso de los investigadores, los expedientes matrimoniales conservados en el Archivo General del
Obispado de Córdoba nos han ido clarificando algunos de los
parentescos y redes clientelares desarrollados por algunos de los
grupos portugueses más importantes que se establecieron en las
villas de este reino. Uno de los ejemplos más significativos lo hallamos
con los Barrios de Montilla. Las primeras catas sobre este fondo se
71
Esta clase de negocios fueron una constante para los Carreras, incluso ya
instalados en Córdoba. Así, no sorprende encontrar a Pedro Fernández Carreras, futuro
fundador del mayorazgo familiar, jurado y familiar del Santo Oficio, recibiendo 11.391
reales en concepto de 715 varas y un cuartillo de tafetanes negros. Citamos por la
referencia documental en el AhpCo, leg.12422-P, fol. 124v. Sus dos deudores eran
mercaderes portugueses, Pedro Méndez y su hijo, Diego, ambos naturales de
Fondón/Fundâo. Estos vínculos con comerciantes de su antiguo reino de origen serán
continuados por sus sucesores.
72
Expediente regestado en uno de los dos completos volúmenes de J.A. Martínez
Bara, Catálogo de Informaciones Genealógicas de la Inquisición de Córdoba conservadas
en el Archivo Histórico Nacional, Dirección General de Archivos y Bibliotecas, Madrid,
1970, vol. II, pp. 814-815. El expediente original se encuentra en el Ahn, Inquisición,
leg. 1459, exp. 1. A pesar de las controversias, la candidatura de don Gómez Solís fue
finalmente aceptada, tras tres años de investigaciones.
73
Por ejemplo, en cuanto a los repartos de los herederos del citado arcediano, Melchor
Fernández de las Carreras y Acuña. Encontramos a sus hermanos haciendo dichas
diligencias en varias escrituras conservadas en el AhpCo, leg. 16272-P, fols. 70r.-83v.
74
ArchGr, Pleitos, caja 9068, pieza n. 4.
293
Marcos Rafael Cañas Pelayo
están revelando prometedoras en este sentido75, especialmente en
zonas tan activas como Lucena76.
Confiamos en que esta documentación vaya arrojando luz sobre un
tema tan poco trabajado hasta este momento en Córdoba como las
estrategias conyugales del grupo, además de un marco como el mundo
de los testigos, donde queda reflejo de sus círculos de acción (o
ausencia de los mismos) con la élite local; excepción hecha de los
documentados trabajos realizados a este respecto por parte de Juan
Aranda Doncel, los cuales se han arrojado las primeras estadísticas de
prácticas matrimoniales portuguesas, tras el vaciado de dicho autor
de los libros de desposorios77.
Lo que parece indudable es el paulatino crecimiento desde la
segunda mitad del XVI de este movimiento migratorio, el cual dio paso
a un auge a comienzos del XVII y, como el propio Aranda Doncel
expresó de forma clara, un progresivo descenso:
Los flujos migratorios alcanzan su mayor intensidad en las décadas de los
años treinta y cuarenta, mientras que desde mediados de la centuria se
produce un brusco descenso originado por las tensiones que se derivan del
enfrentamiento bélico entre los dos países. Los núcleos de población
pertenecientes a las circunscripciones eclesiásticas del arzobispado de Braga
y obispado de Miranda do Douro son los ámbitos de procedencia geográfica de
la mayoría de los integrantes de esta corriente migratoria que sale de sus
lugares de nacimiento en busca de mejores condiciones de vida78.
2.3 Granada, municipios con un fuerte sustrato previo de conversos
El reino de Granada es, de entre los demás enclaves andaluces, el
caso más singular en cuanto a sus particulares características
propias. Se trató de la última zona musulmana en ser incorporada al
dominio peninsular de los Reyes Católicos. Alejada de los poderes
centrales, con un constante trasiego de personas por su política de
repoblación, carente de una nobleza de sangre previa, la zona
75
Las dispensas en Montilla, especialmente los concentrados en AgoCo, Expedientes
matrimoniales, cajas 2434-2444, clarifican los diferentes parentescos, clientelismos y
redes comerciales, donde los Barrios jugaron un papel muy destacado, concentrado
muchas de las rentas en la localidad.
76
Por ejemplo, en el caso del portugués Antonio Enríquez, casado con la lucentina
doña María de Burgos, quien ostentaba el oficio de alguacil menor. Si bien no tenemos
la certeza de que fuera converso, varios de sus compatriotas que actuaron como testigos
sí que lo fueron. AgoCo, Expedientes matrimoniales, caja 2392, exp. 43 (1617).
77
J. Aranda Doncel, Movimientos migratorios en las ciudades andaluzas: los portu gueses en la Córdoba del siglo XVII, en A. Ferreira, J. Abreu, I. Pinho y J. Costa (eds.),
Atas do I Congresso Internacional as cidades na História: populaçâo (24 a 26 de outubro
de 2012), Càmara Municipal de Guimarâes, Universidade do Minho, 2012, pp.59-78.
78
J. Aranda Doncel, Movimientos migratorios en cit., p. 59.
294
El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces
granadina constituyó de los territorios más atractivos para que
germinase el ascenso social.
María de los Ángeles Fernández García, a través de su estudio sobre
diferentes aspectos de la Inquisición granadina en el siglo XVII79, nos
arroja la cifra de que hubo hasta 235 procesos relativos a portugueses,
lo cual significa que fueron más de un 12% del total de las causas que
mantuvo dicho Tribunal en ese siglo. Un dato más que relevante, sobre
todo si lo comparamos con el resto del colectivo extranjero (ni alemanes
ni franceses ni flamencos sobrepasan en ningún caso más de un 4%).
El asalto a los puestos de la oligarquía en este reino ofrece un
heterogéneo entramado social: los escasos aristócratas locales, élites
urbanas, conversos de adinerada condición, inversores genoveses,
etc.); de ello ha dejado constancia el profesor Enrique Soria, analizando
las diferentes tácticas que estos grupos efectuaron para alcanzar el
codiciado estatus nobiliario y del acceso al poder local80.
En definitiva, una serie de oportunidades que no podían dejar
escapar a los grupos emigrados que buscaban fortuna a la hora de
asentarse en este marco geográfico. Tras los genoveses, analizados
recientemente81, los portugueses fueron remplazando a los anteriores
en circuitos como los sistemas de arrendamientos de monopolios como
el tabaco82.
La capital granadina constituyó, indudablemente, uno de los casos
más complicados. A diferencia de otros lugares, este sujeto social se
encontró aquí con una fuerte presencia de conversos castellanos que
ya copaban la realidad del cabildo municipal, con filas más cerradas.
Ello hizo que existieran menos vacantes y espacios para esta llegada,
lo cual no es óbice para que encontramos casos que ejemplifican que
los judeoconversos lusos dejaron asimismo su impronta en este
ámbito, quizás menos que en otros lugares de Andalucía, por esta
característica que hemos mencionado. Citando el estudio de la
profesora Fernández García:
Mª de los Ángeles Fernández García, Inquisición, Comportamiento y cit., pp. 32-33.
E. Soria Mesa, Linajes granadinos, Diputación de Granada, Granada, 2008.
81
R.Mª Girón Pascual, Las Indias de Génova: Mercaderes genoveses en el reino de
Granada durante la Edad Moderna, Universidad de Granada, Granada, 2012. Esta tesis
doctoral está disponible en red.
82
En la actualidad, uno de los grandes especialistas en esta temática, el profesor
Joâo Figuerôa-Rêgo, ha mostrado con claridad la fuerte presencia de cristianos nuevos
que existió entre las filas de los estanqueros portugueses, así como sus opciones de
enriquecimiento con esta actividad. Por reciente, hacer mención a J. Figuerôa-Rêgo,
Entre honra e suspeita. A desconcertante ambiguedade social dos agente dos tabaco nos
séculos XVII e XVIII, en A.I. López Salazar, F. Olival y J. Figuerôa-Rêgo (coords.), Honra
e sociedade no mundo ibérico e ultramarino: Inquisiçâo e Ordens Militares (séculos XVIXIX), pp. 273-294.
79
80
295
Marcos Rafael Cañas Pelayo
La unidad Ibérica realizada en 1580 marca el comienzo de la llegada de
judeoconversos portugueses a Granada, aunque su presencia no es muy
numerosa ante el tribunal, sólo 35 personas se constatan de este origen
durante el siglo XVI83.
Es decir, en los años fundamentales para que se produjese esa
filtración, los cristianos nuevos portugueses encontraron esa dificultad
añadida para acceder a esta fuente de privilegio. Esto no es óbice para
que podamos dar ejemplos, pues hubo casos. Así, El linaje de los López
Tenorio84 (nos pueden aparecer, de igual forma, como Ramírez Tenorio)
es uno de los más notables, debido a su prosperidad mercantil.
Sus alianzas matrimoniales nos revelan conexiones con cristianos
nuevos castellanos, en este caso, con mucha vinculación a la localidad
giennense de Campillo de Arenas85. Así, Esteban López Tenorio, jurado
granadino, como había sido su padre, Jorge López Tenorio, logró
acumular un nutrido patrimonio. Descendía de portugueses por línea
paterna, mientras que su madre era originaria del grupo confeso
castellano de la citada Campillo de Arenas, con varios condenados en
el Auto de Fe de 159386, volviendo a demostrarse que hubo fusiones
entre sendos grupos conversos, no solamente en zonas fronterizas87.
83
M. de los Ángeles Fernández García, Inquisición, Comportamiento y cit., p. 143.
Obligado hacer aquí mención a los estudios del profesor J. Blázquez Miguel, Algunas
precisiones sobre las estadística inquisitorial: el ejemplo del Tribunal de Granada en el
siglo XVII, «Hispania Sacra», n. 81 (1988), pp. 133-164.
84
Debo el conocimiento de dicha familia, de complicada reconstrucción, a la amabilidad
del profesor Enrique Soria Mesa, quien me cedió los datos que había obtenido durante su
investigación acerca de este núcleo familiar, incluyendo sus estrategias matrimoniales
dentro de Granada. Su gentileza ha permitido incluir para este artículo a un grupo familiar
al que, de otra forma, me hubiera resultado imposible poder aproximarme más. De igual
forma, cualquier confusión o error en la reconstrucción del grupo en este artículo, debe
ser solamente achacable al autor del mismo.
85
La gran mayoría de los datos que vamos a aportar sobre los Ramírez Tenorio
proceden de E. Soria Mesa, Genealogías del reino cit. Su análisis es resultado de una
continuada reconstrucción, usando protocolos notariales, fuentes inquisitoriales y otros
fondos documentales. Junto con su estudio, debemos aquí citar trabajos como el de J.Mª.
García Fuentes, Visitas de la Inquisición al reino de Granada, Universidad de Granada,
Granada, 2012. Destacarse asimismo su estudio en La Inquisición de Granada en el siglo
XVI. Fuentes para su estudio, Universidad de Granada, Granada, 1981. De igual forma,
Mª.A. Bel Bravo, El Auto de Fe de 1593 a la luz del judaísmo, en «Chronica Nova», n. 13,
(1982), pp. 103-131. De la misma autora, El auto de fe de 1593. Los conversos granadinos
de origen judío, Universidad de Granada, Granada, 1988. La figura de Diego López de
Granada aparece en Mª del Pilar Martínez López-Cano, La génesis del crédito colonial.
Ciudad de México, siglo XVI, «Serie Historia Novohispana», n. 62 (2001), pp. 1-388.
86
Junto con los estudios ya recogidos de Bel Bravo, Soria Mesa y García Fuentes,
hallamos más información del Auto de 1593 en F. García Ivars, La represión en el
Tribunal Inquisitorial de Granada (1550-1819), Akal, Madrid, 1991, pp. 202-213.
87
Como las recogidas por la profesora Pilar Huerga Criado para la zona extremeña.
P. Huerga Criado, En la raya de Portugal. Solidaridad y tensiones en una comunidad
judeoconversa, Universidad de Salamanca, Salamanca, 1994.
296
El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces
Lograr la cobranza de los bienes de su difunto tío materno, Diego
Ramírez, fue una de las claves de este personaje para cimentar una
sólida posición económica88. Interesante resulta también su matrimonio
con doña Beatriz Pinelo, mujer de más que probable origen genovés,
asimismo con un pasado accidentado con el Santo Oficio. Entre los
hermanos de Esteban, sobresale por el interés que tiene para nuestro
objeto de estudio, Diego López Tenorio, quien también desempeñó el
mismo oficio público que el anterior. No obstante, el hecho de que en
ocasiones aparezca como Diego López de Granada (el constante cambio
de apellidos es uno de los principales problemas que encontramos a la
hora de trazar los árboles familiares de este colectivo), nos lleva albergar
la duda de si no será el mismo personaje con distinto nombre que tanto
prosperó en el comercio indiano de Sevilla89.
Otro perfil típico es el que hallamos en Francisco López Tenorio,
hermano de los anteriores, vinculado al comercio de la seda, uno de
los circuitos que mayor atención generó de los mercaderes
portugueses. En definitiva, un reflejo de presencia judeoconversa lusa
en la Granada desde mediados del XVI, aunque, en cualquier caso, el
Seiscientos nos brinda asimismo otras muestras de personajes de
dicha ascendencia que prosperaron sobremanera en Granada y sus
términos, como Diego de Saravia, caballero veinticuatro en Granada,
a quien Caro Baroja vinculaba con el linaje del célebre marrano Juan
Núñez Saravia90.
Tal fue el caso de los López Pereira, grandes inversores en el
arrendamiento del estanco de tabaco, donde llegaron a aglutinar entre
sus parientes y clientes los reinos de Córdoba, Murcia, Jaén y la propia
Granada91. Se trataba de una renta y un mercado que poseía muchos
atractivos92.
La Corona autorizaba a sus poseedores a realizar subarrendamientos, además, provocaba que se establecieran redes de intereses
88
E. Soria Mesa, Genealogías del reino cit. Destaca el testamento (1587), conservado
en el APGr, protocolo 266, f. 46. Referencia facilitada por dicho autor.
89
Ahn, Inquisición, leg. 2619, caja 1.
90
J. Caro Baroja, Los judíos en cit., vol. II, pp. 77-78. Entre lo confiscado por el Santo
Oficio a dicho regidor, sobresalían 150.000 ducados en oro y plata.
91
Además de otras referencias, sirvan todas las escrituras contenidas en APGr,
protocolo 755.
92
En la actualidad, uno de los grandes especialistas en esta temática es el profesor
Joâo Figuerôa-Rêgo. Este autor ha mostrado con claridad la fuerte presencia de cristianos
nuevos que existió entre las filas de los estanqueros portugueses, así como sus opciones
de enriquecimiento con esta actividad. Entre otros, volver a mencionar al profesor J.
Figuerôa-Rêgo,, en este caso, citando su trabajo Negócios entre “afins”? Penitenciados do
Santo Ofício e agentes do tabaco (séculos XVII e XVIII), en R. Chambouleyron y K.H. Arenz
(orgs.), O sistema atlântico do tabaco ibérico: complementaridades e diferenças (séculos
XVII-XIX), Editora Açaí, Belém, vol. 17, pp. 15-39.
297
Marcos Rafael Cañas Pelayo
con miembros de la élite de los lugares donde se asentaban. Así, don
Diego de Ozores, inquisidor granadino, era el juez conservador de la
renta de Francisco López Pereira, notorio cristiano nuevo de origen
luso. Colomera, Motril y otras villas del reino fueron monopolizadas en
el transporte del tabaco de monte o rollo, así también como el de olor,
siendo Francisco y sus agentes los grandes controladores del producto.
Posteriormente emigrados a Inglaterra, les encontraremos logrando
comprar títulos nobiliarios en su nuevo hogar93.
Nos detendremos ahora en Motril para hablar, aunque sea de forma
somera, de dos linajes que alcanzaron las codiciadas regidurías. En
primer lugar, los Victoria y Ahumada94; en segundo los Pacheco. Los
primeros son un grupo originario de Portugal y Galicia, los cuales
alcanzarán poder municipal en Motril y la propia Granada, logrando
ventajosos matrimonios que les llevarían a continuado ascenso. Así,
don Juan de Victoria y Castro (regidor granadino entre 1660-1670)
sería el fundador del mayorazgo familiar, donde incluyó como ganancia
su propio oficio, el cual sería traspasado a uno de sus hermanos,
Simón de Victoria y Castro, quien contrajo nupcias con doña Francia
de Ahumada y Salazar, descendiente por todos sus costados de
caballeros veinticuatro en Granada.
Una exitosa política que nos explica cómo el nieto de este Simón
alcanzaría las posiciones de regidor perpetuo en Motril y alguacil mayor
de Salobreña, siendo también maestrante en Granada (1722).
En el caso de los Pacheco, nos hallamos ante un grupo que hace
fortuna gracias a su inversión en el azúcar, hasta el punto de poseer
un ingenio de dicho producto en Salobreña. Por fortuna, contamos con
varios trabajos previos de interés que hacen mención a esta complicada
familia95, sobresaliendo en todos ellos la figura de Pedro Rodríguez
Pacheco, jurado granadino y familiar del Santo Oficio en dicha ciudad96.
93
Ya advertido por Caro Baroja en J. Caro Baroja, Los Judíos en la cit., Madrid, Istmo,
2004, vol. III, pp.29-33. El circuito que llegó a tener bajo su control este grupo es uno
de los más notables del Seiscientos.
94
Podemos encontrarlos también en las fuentes como Vitoria y Ahumada. Agradezco
la generosidad del profesor Soria por permitirme incluir esta referencia, pues no
teníamos constancia de su condición cristiano-nueva hasta su estudio. Nuevamente, en
E. Soria Mesa, Genealogías en el cit.
95
De particular interés resultan las consideraciones del profesor R. López Vela, La
sexualidad del inquisidor Ozores y su amistad con los portugueses, en J.I. Fortea Pérez;
J.E. Gelabert González; T. A. Mantecón Movellán (coords.), Futor et rabies: violencia,
conflicto y marginación en la Edad Moderna, Universidad de Cantabria, Santander, 2002,
pp. 459-501.
96
E. Soria Mesa, Genealogías en el reino cit. No ha sido hasta este estudio que se
nos ha mostrado el origen judeoconverso de esta familia. Igual que en el caso de los
Fernández de Carreras, el acceso a familiaturas debió de ser una medida de protección
y obtención de estatus cara al resto de convecinos.
298
El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces
Apenas pasada una generación, Antonio Franco Pacheco, hijo del
anterior Pedro y doña Ana de Almena y Maines, lograba alcanzar las
mismas dignidades que su progenitor, obteniendo al final de su carrera
una posición como caballero veinticuatro, a lo que añadió su condición
de alguacil mayor en Macarena. A esa buena fortuna debió ayudar su
cuñado, Juan Ferrer Gonzaga, socio en empresas comerciales y él
mismo integrante de un linaje de regidores97. Un apoyo económico que
resultaba imprescindible en tales operaciones, el cual cimentaba las
pretensiones de los aspirantes a cargos, tal fue el caso del mercader
luso Pedro Méndez, quien obtuvo la dignidad de tesorero de millones
en Antequera98.
Otra salida portuaria fundamental para obtener riqueza en este
ámbito fue el caso malagueño99. Como mencionamos con anterioridad,
la profesora Lorena Roldán es la gran especialista para el fenómeno
marrano en este campo de estudio, habiendo dedicado ya muchas
páginas al análisis de este sujeto social. Recientemente, dicha autora
ha presentado su tesis doctoral100 donde, entre otros aspectos de la
presencia conversa en este enclave, destacan las conexiones que iban
estableciéndose entre los cristianos nuevos que navegaban las líneas
costeras de Málaga y Cádiz, gentes que, en no pocos casos, venían de
la comunidad hebrea de Liorna (nuestra actual Livorno)101. Durante el
desarrollo de estos análisis, ha mostrado no pocos conflictos con la
Inquisición entre esos miembros portugueses del concejo malagueño,
como veremos con más detalle en el siguiente epígrafe, asentados en
posiciones como la tesorería de millones malacitana102.
Como ilustra el caso antes citado de los Pacheco, la posesión de
ingenios azucareros era una gran posibilidad para cimentar su
posición. En la villa de Torrox tenemos el caso de Duarte Fernández
de Acosta103, hijo de un destacado asentista de Felipe III, de origen
97
Interesa aquí el estudio preliminar del profesor Enrique Soria Mesa en Ma.J. Vega
García-Ferrer (ed.), Historia de la Casa de Herrasti, señores de Domingo Pérez,
Universidad de Granada, Granada, 2007.
98
J. Caro Baroja, Los judíos en cit., vol. II, p. 96.
99
Una primeras consideraciones sobre la emigración lusa a este enclave en I.
Rodríguez Alemán, Inmigrantes de origen extranjero en Málaga (1564-1700), Universidad
de Málaga, Málaga, 2007, pp. 79-80.
100
L. Roldán Paz, El problema judeoconverso durante el siglo XVII: el caso malagueño,
Universidad de Málaga, Málaga, 2015.
101
L. Roldán Paz, Hostigados por el peso de los orígenes: detención de viajeros
judeoportugueses en la Málaga del seiscientos, «Baética: Estudios de arte, geografía e
historia», n. 31 (2009), pp. 439-455.
102
El caso de Francisco Coello. Ver J. Caro Baroja, Los judíos en cit., vol. II, p. 89.
103
F. de Ochoa (imp.), Breves apuntamientos por don Duarte Fernández de Acosta,
vecino de las villa de Torrox. En el pleito y concurso de acreedores a los bienes de don
Rodrigo, y don Lope de Tapia y Vargas, vecinos que fueron de la ciudad de Sevilla, y con
don Francisco Monteser, deudor común, y con don Antonio Bernardo Rodríguez de
299
Marcos Rafael Cañas Pelayo
converso, su mácula genealógica no le impidió alcanzar dignidades
como la de caballero de Santiago, alférez mayor de Torrox, o la compra
del señorío de Sonseca104.
Una subida en estatus que se coronó con su enlace matrimonial,
casando nada menos que con la hija del marqués de Villamaina, lo cual
abrió definitivamente a su linaje las puertas de la nobleza. No es extraño
que la hija que tuvieron de dicha unión casase con don Antonio de
Igualada, regidor perpetuo de la ciudad de la ciudad de Vélez Málaga;
miso lugar donde doña Isabel de Acosta, natural de Braganza, fue
administradora del monopolio de la sal que allí llegaba105.
Dentro del apartado de problemas con el Santo Oficio resaltaremos
a algunos de los jurados lusos que se vieron involucrados en la redada
inquisitorial en lo que se daría a conocer como La Complicidad de la
viña de Alonso Gamarra, fenómeno analizado con detalle por Lorena
Roldán106. Asimismo, en el Auto de Fe de 1672107 y otros anteriores, la
Inquisición granadina procesó a varios cristianos nuevos portugueses
involucrados en la administración y cobro de impuestos en Málaga108.
Para finalizar este epígrafe, debemos mencionar a los Pacheco de
Acosta, afincados primero en el Puerto de Santa María, posteriormente
destacados en Málaga y la propia Granada. Así, don Juan Pacheco de
Acosta llegó a ser receptor de penas de la Cámara granadina109,
mientras que Diego, su hijo, pleiteó para obtener la condición de
hijodalgo. Su madre, doña Juana Machuca, era de origen malacitano,
pero toda su línea paterna era de ascendencia lusa, comenzando por
sus bisabuelos, Antonio Pacheco de Acosta y Catalina González.
Balcaçar, Imprenta de Francisco de Ochoa, Granada, 1677. Este documento está
digitalizado, prácticamente en su totalidad, en: http://fondosdigitales.us.es/fondos/
libros/4000/1/breues-apuntamientos-por-d-duarte-fernandez-de-acosta-vezino-de-lavilla-de-torrox-en-el-pleyto-y-concurso-de-acreedores-los-bienes-de-don-rodrigo-y-don-lo
pe-de-tapia-y-vargas-vezinos-que-fueron-de-la-ciudad-de-seuillay-con-don-franciscomonteser-deudor-comun-y-con-don-antonio-bernardo-rodriguez-de-balcacar/
104
Una villa que se encontraba muy endeudada. Adquirida en 1640, fue apreciada
en 225.000 reales.
105
J. Caro Baroja, Los judíos en cit., vol. II, p. 105.
106
L. Roldán Paz, Los cómplices en la viña de Alonso Gamarra. Aproximación a un
grupo criptojudaizante, «Baetica», n. 32 (2010), pp. 449-469.
107
Mª. I. Pérez de Colosia Rodríguez, Auto Inquisitorial de 1672: El criptojudaísmo en
Málaga, Servicio de Publicaciones Diputación Provincial de Málaga, Málaga, 1984.
108
Por ejemplo, Gaspar Antonio de las Varillas y Zamena, luso que administró los
millones de Málaga en 1659; Isabel de Costa, administradora de la sal en Vélez-Málaga;
Juan López Pinto, fiel de la Aduana malagueña a finales de la década de los 70 del siglo
XVII, sucesora de Manuel Díaz de Acosta en dicha función; Manuel Correa Pacheco,
contador de los almojarifazgos en dicho enclave. Ver Mª. de los Ángeles Fernández
García, Inquisición, Comportamiento y cit., pp. 331-337.
109
E. Soria Mesa, Genealogías en el reino cit. Los vínculos de don Juan Pacheco de
Acosta con Málaga se mantuvieron, incluyéndose litigios por sus propiedades en dicho
término. Por ejemplo, en ArchGr, Pleitos, caja 1378, pieza 9.
300
El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces
La probanza de Diego fue controvertida110, debido a varios testimonios
que afirmaban un origen pechero y oscuro de sus antepasados (la
fiscalía cargó sus acusaciones sobre este aspecto para justificar sus
dudas sobre dicho linaje), tenidos por gentes de poco crédito. Con todo,
le encontramos en 1623 obteniendo la codiciada hidalguía111.
2.3 El reino giennense: una raigambre desde época temprana
Jaén, por su lado, refleja una huella lusa desde los conflictos y crisis
políticas acontecidas en Portugal, cuyo punto de arranque es la Baja
Edad Media, dando como resultado el movimiento de varias familias
nobles lusas al sur castellano, favorecidas y protegidas por una Corona
castellana que los insertó dentro de su aristocracia (mencionar aquí
apellidos como Pimentel, Pacheco, Portocarrero o Acuña, entre otros).
El poder regio castellano les avaló otorgándoles mercedes e
importantes territorios que administrar como señores; todo ello se
tradujo en una integración total en sus nuevos dominios.
El ámbito giennense muestra de forma ejemplificadora dicha
situación con el linaje Torres y Portugal, el cual afirmaba entroncar con
la Corona portuguesa. Sus integrantes debían su nombre a los clanes
Torres (señores de Villadompardo) y Portugal (a través de don Fernando
de Portugal, quien enlazó con doña María de Torres, miembro del
anterior núcleo familiar), según narraron los genealogistas de la época112.
Si bien dieron importantes figuras para su nuevo hogar desde los
inicios de la Edad Moderna (regidores, asistentes, incluso virreyes113,
etc.), es mucho lo que aún desconocemos del funcionamiento de este
grupo tan activo. Parecen descender del infante Dionís, hijo de Pedro
de Portugal e Inés de Castro, pero son muchos aún los detalles que
nos gustaría conocer de la formación de esta élite. Afortunadamente,
parece que el tema ha suscitado el interés de jóvenes investigadores114.
Entre otros, citamos por ArchGr, Colección de Hidalguías, caja 5149, pieza 96.
La real provisión será otorgada en ArchGr, Colección de Hidalguías, caja 4607,
pieza 37.
112
G. Argote de Molina, Nobleza de Andalucía, Edición de Fernando Díaz, Sevilla,
1588. Esta fuente original se haya completamente digitalizada por la universidad de
Sevilla, disponible para el público en: http://fondosdigitales.us.es/fondos/libros/548
/12/nobleza-del-andaluzia/.
113
Tal dignidad fue el broche de oro para la carrera de don Fernando de Portugal.
114
Ese fue el caso de Javier García Benítez, quien han presentado sus primeras
aportaciones al respecto en la comunicación Portugueses en Jaén en el libro de la Nobleza
de Andalucía de Argote y Molina. El linaje Torres y Portugal, en el marco del congreso
internacional El Greco… y los otros: La contribución de los extranjeros a la Monarquía
Hispánica, 1500-1700, celebrado en Yecla entre los días 17 y 19 de noviembre de 2014.
Actualmente, estamos a la espera de la edición impresa de dicha reunión científica.
110
111
301
Marcos Rafael Cañas Pelayo
Un acceso de aristócratas portugueses a esta zona que no ha pasado
inadvertido. Por ejemplo, debemos hablar aquí del concepto partido
portugués, acuñado por la profesora Paz Romero Portilla, quien define
así el fenómeno, al cual ha decido una especial atención en sus
estudios115.
Este mejor conocimiento que estamos teniendo de las relaciones
castellano-lusas en el período bajomedieval son unas excelentes bases
para continuar y explicar mejor los futuros asentamientos que se irán
produciendo ya en la Modernidad.
El acercamiento a núcleos como los Coello o los Torres y Portugal,
quizá, podrán arrojar datos muy interesantes acerca de los círculos
clientelares y de colaboradores de su reino natal que trajeron en su
nuevo destino; a juzgar por los resultados que se han ido obteniendo,
hubo un fuerte componente de portugueses descendientes de hebreos.
De hecho, no pocos de ellos lograron altas posiciones en la realidad de
Jaén y sus villas, zonas que ya tenían un fuerte sustrato de sus
correligionarios castellanos116.
La mayoría de los análisis sobre la impronta judía en la zona
giennense ha corrido a cargo del profesor Luis Coronas Tejada, quien
ha consagrado su ya dilatada trayectoria a investigar acerca de esta
huella, desde la primera etapa de su llegada hasta el final de la Edad
Moderna. Las antiguas juderías de Baeza, Úbeda117, Andújar y Arjona,
entre otras, eran el testimonio visible de una constante presencia.
Todo ello explica el destacado peso de cristianos nuevos que
encontramos en las centurias siguientes118. Encontramos varios
115
Ineludible aquí citar el resultado de su tesis doctoral en P. Romero Portilla, Dos
monarquías medievales ante la modernidad: relaciones entre Portugal y Castilla (14311479), Universidade da Coruña, La Coruña, 2000. Por su interés para el objeto de estudio
de este artículo, resaltar de esta misma autora Protagonismo del partido portugués en la
política castellana del siglo XV, «Revista da Faculdade de Letras. Historian», n. 4 (2003),
pp. 187-212.
116
Por ejemplo, en P.A. Porras Arboledas, Comercio, banca y judeoconversos en Jaén,
1475-1540, Caja de Jaén, Jaén, 1993, o su estudio Las comunidades conversas de Úbeda
y Baeza en el siglo XVI, Instituto de Estudios Giennenses, Jaén, 2008.
117
Allí fue prendido Diego López de Orta, mercader de piedras preciosas, lisboeta,
persona sumamente adinerada. Fallecido en cárceles inquisitoriales cordobesas, este
prestamista tenía a miembros de la alta nobleza andaluza (los duques de Sesa, el
marquesado de Guadix…) en su nómina de deudores; también a inquisidores en lugares
como Granada. Su inmensa fortuna se refleja en el interés del que dejan constancia sus
captores en Ahn, Inquisición, leg. 2392, caja 2. La sentencia ya fue recogida en R. Gracia
Boix, Autos de Fe cit., p. 63. Breve referencia asimismo en L. Coronas Tejada, Los judíos
en Jaén, Universidad de Jaén, 2008, p. 98. Con más detalle, en M.R. Cañas Pelayo, El
comienzo de la oleada: Mercaderes portugueses en la raya a finales del siglo XVI, en Mª.
Martínez Alcalde y J.J. Ruiz Ibáñez (eds.), Felipe II y Almazarrón: La construcción local
de un Imperio global. Vivir, defender y sentir la frontera, Ediciones de la Universidad de
Murcia, Murcia, 2014, pp. 94-96.
118
L. Coronas Tejada, Los judíos en Jaén, Universidad de Jaén, Jaén, 2008, pp. 23-26.
302
El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces
cristianos nuevos portugueses en la visita inquisitorial efectuada en
1607119. Las visitas al distrito e inspecciones demuestran el constante
interés que hubo por las autoridades religiosas para dicha zona. Sin
duda, un peligro constante para nuestros protagonistas.
Indudablemente, la protección de la aristocracia era básica en este
proceso. Los condes de Alcaudete fueron un ejemplo de integración y
protección de los miembros más valiosos de esta comunidad. Bajo ellos se
amparó un clan portugués muy destacado, los Díaz Fernández/Méndez,
cuyos orígenes han sido investigados por el profesor Coronas Tejada120.
Emparentado con otro grupo converso de castellanos bajo la
protección de dicha casa (uno de los abuelos de su esposa había
llegado a ser confesor del conde), Manuel Díaz Fernández destacó como
administrador de las posesiones de su señor, terminando su carrera,
hasta su arresto bajo cargos de judaizante, como regidor en Écija. No
fue Manuel un caso excepcional, pues parece haber una predilección
en dicha Casa por escoger como mayordomos a miembros de este
grupo, encontrando a un tal Francisco Báez de Castro ejerciendo
idénticas funciones para su señor en 1641121.
Ello nos vuelve a advertir de otra de las complicaciones para
continuar los pasos de estos grupos, su constante trasiego. Así
acontece con los Correa/Correia, judaizantes lusos que habían dado
muchas noticias en Alcalá la Real y Andújar, para desaparecer tras los
Autos de Fe de comienzos de la segunda mitad del siglo XVII. No
obstante, el rastreo en Torre do Tombo nos los ha mostrado retornados
a Portugal, intentando restablecer su fortuna y contactos a través de
rentas como el tabaco122.
De igual manera, siguiendo los modelos que hemos observado para
los anteriores reinos, encontramos figuras como la de don Fernando
119
Ahn, Inquisición, leg. 2405. Asimismo, en L. Coronas Tejada, Una visita de la
Inquisición a Jaén, Baeza y Andújar en 1607, «Chronica Nova: Revista de historia moderna
de la universidad de Granada», n. 18 (1990), pp. 77-100. Entre los fugitivos, sobresale la
figura del futuro Fernando Montesinos, quien llegaría a ser una de las grandes fortunas
del círculo de financieros portugueses de la época del conde-duque de Olivares. Sobre
este linaje, la ya citada monografía B.J. López Belinchón, Honra, libertad y cit.
120
L. Coronas Tejada, Criptojudaísmo en Jaén en la segunda mitad del siglo XVI,
«Miscelánea de Estudios Árabes y Hebraicos. Sección Hebreo», vol. 31 (1982), pp. 101117. Del mismo autor, Un trienio en la Inquisición de Córdoba y los judaizantes del
desconocido Auto de Fe de 1647, «Chronica nova: Revista de historia moderna de la
universidad de Granada», nº 15 (1986-1987), pp. 75-100. El proceso de la Inquisición
de Córdoba contra la memoria de este personaje fallecido en sus cárceles inquisitoriales
está enteramente digitalizado en el portal PARES. La ubicación física del documento en
Ahn, Inquisición, leg. 1851, exp. 2.
121
ArchGr, Probanzas criminales, leg. 9831, pieza 7.
122
Antt, Tribunal do Santo Ofício, Inquisiçâo de Lisboa, proc.1300. Sus actitudes e
inversiones son las mismas que en área giennense. Arrendamientos de tabaco, comercio
de productos textiles, mucha movilidad geográfica por el reino luso, etc.
303
Marcos Rafael Cañas Pelayo
de Fonseca, administrador de millones en Jaén, personaje sobre el que
la Suprema de Madrid pidió informes a la Inquisición de Córdoba,
poniéndose especial interés a sus contactos en la Corte123.
Adscritos a la jurisdicción del Tribunal del Santo Oficio de Córdoba,
las causas de reos portugueses procesados en el área giennense
guardan muchos paralelismos con los de la zona cordobesa124.
Especialmente, por su fuerte control del sector textil, destacando la
Abadía de Alcalá la Real125. Desde esos puestos proveían a los grupos
mercantiles locales más pujantes, incluyendo jurados y regidores entre
sus compradores. Asimismo, los encontramos como activos inversores
en las rentas que ofrece la Corona126.
Un establecimiento y raíces que serán muy visibles hasta en época
Borbónica, en los últimos grandes de Autos de Fe que se celebraron
contra el judaísmo clandestino en España. Coronas Tejada lo refleja de
manera elocuente al dar la cifra de que el 45% de los judaizantes
procesados por la Inquisición de Córdoba entre 1718 y 1731 (un total
de 136 procesados por esta causa) provenían del territorio giennense127.
3. Problemas con el Santo Oficio
A pesar de la posición alcanzada y el estatus económico logrado,
ninguna de estas familias portuguesas pudo considerar, aún en las
coyunturas más favorables como la del conde-duque de Olivares o los
perdones papales que obtuvieron a comienzos del Seiscientos128, que
se encontraban libres de la constante amenaza de la Inquisición, una
espada de Damocles que siempre pendía sobre estos cristianos nuevos,
incluso para aquellos que habían conseguido posiciones pudientes.
Con todo, hasta en las circunstancias más aciagas para el grupo
converso, como fue el caso de las redadas en la década de los 90 del
Quinientos en Écija, una posición en el concejo podía garantizar una
mayor capacidad de protección. La mera prosperidad mercantil podía
Ahn, Inquisición, leg. 2426.
De ello dejé constancia en M.R. Cañas Pelayo, Judaizantes y malsines cit.
125
L. Coronas Tejada, Mercaderes judeoconversos en la Abadía de Alcalá La Real a
mediados del siglo XVII, en F. Toro Ceballos (coord.), Homenaje a don Antonio Domínguez
Ortiz: Abadía. Primeras jornadas de Historia en la Abadía de Alcalá La Real, Jaén, 1997,
pp. 63-70.
126
L. Coronas Tejada, Mercaderes y arrendadores de rentas reales judeoconversos en
el Reino de Jaén en el siglo XVII, en L.M. Enciso Recio (coord.), La burguesía española en
la Edad Moderna: actas del Congreso Internacional celebrado en Madrid y Soria los días
16 a 18 de diciembre 1991, Universidad de Valladolid, 1996, vol. 2, pp. 649-658.
127
L. Coronas Tejada, Los judíos en Jaén cit., p.184.
128
Destaca el estudio de A.I. López-Salazar Codes, Inquisición Portuguesa y Monarquía
Hispánica en tiempos del perdón general de 1605, Ediçôes Colibri, Lisboa, 2010.
123
124
304
El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces
tambalearse de caer en las manos del Santo Oficio, tanto por la
confiscación de bienes como por la infamia que arrastraba para el linaje.
Basándonos en la documentación consultada129, podemos afirmar
que la presencia de núcleos familiares portugueses en Écija fue anterior
a la Unificación de Coronas Ibéricas. Desde la segunda mitad del siglo
XVI se producen las continuadas llegadas de mercaderes del reino
vecino, la gran mayoría de ellos de ascendencia confesa, los cuales irán
estableciéndose, aspirando a obtener escribanías públicas y, en algunos
casos, puestos de jurados. Antonio Rodríguez de Andrada, esposo de
Violante de Acosta ambos pertenecientes a familias de comerciantes,
fueron el eje rector de un linaje que consagró sus alianzas conyugales a
una endogamia que ayudó a fortalecer dichas posiciones.
Ello no implicaba que el linaje no recurriese a la exogamia cuando
le resultaba ventajosa para sus propósitos. Sin duda, uno de los
grandes éxitos de la política de alianzas de este clan luso se consolidó
con la unión de una de las hijas de Diego Fernández de León y Beatriz
de Andrada, doña Isabel de Andrada, con Alonso González de Silva,
jurado castellano en el cabildo astigitano. O lo que es lo mismo, una
unión que les reforzaba dentro de la oligarquía local130. Igualmente
reseñable es el caso de las hermanas de Isabel, Guiomar Rodríguez de
Andrada y Cecilia Fernández de Andrada.
129
Nuestro punto de arranque es la visita inquisitorial del año de 1593 al distrito
(ver Ahn, Inquisición, leg.1856, exp. 36). Sin embargo, desde este testimonio fue preciso
derivar a otros documentos, no solamente los provenientes del Santo Oficio, así como
de un vaciado bibliográfico sobre el trabajo de varios especialistas. Me encuentro en
preparación de un artículo monográfico sobre este grupo.
130
Son varios las fuentes que nos indican esta unión. Debe destacarse el pleito por
los bienes confiscados a Isabel, reconciliada en 1597, por su marido, en Ahn, Inquisición,
leg. 1839, exp. 7.
305
Marcos Rafael Cañas Pelayo
La primera tendrá por esposo a Diego Franco, otro jurado, también
pariente131. Sin embargo, el pretendiente de Cecilia es encontrado fuera
del círculo familiar y de la élite de Écija. Fue Gabriel Gutiérrez, cirujano
en Osuna, poseedor de olivares, también de bodegas y mercancías
textiles. Fruto de sus pleitos para recuperar la dote de su esposa,
tenemos constancia de que Gabriel obtuvo el puesto de escribano
público en Écija y que era asimismo portugués132.
En definitiva, una serie de estrategias que lograron crear una red
que se mantuvo hasta la ofensiva inquisitorial. Nos encontramos en
preparación de un artículo que hablará de estos Andrada (junto con
las ramas de los Gómez133 y Fernández de León, muy conectadas con
ellos, todos de procedencia lusa) y su papel en la ciudad. De cualquier
modo, incluso tras la caída en desgracia del Auto de 1597, volvemos a
tener noticia de nuevos intentos de estos protagonistas de mantener
su estatus en Andalucía.
Indudablemente, la continuada venta de oficios134 era la estrategia
más directa para lograr ese resurgir. Así ocurrió cuando doña Luisa
Valer, viuda de Jerónimo de Castro Ramírez, puso a la venta el puesto
de su difunto marido en la escribanía del crimen de la Real Chancillería
de Granada. Jorge Fernández de León, superviviente de la criba que
se había producido contra el grupo de Écija, viajó hasta la ciudad
granadina para participar en dicha subasta135.
Ante Rodrigo Dávila, escribano público granadino, Jorge se
comprometió, avalado por su esposa, doña Cecilia de Andrada, y su
hermano, Diego Fernández de León, a poder pagar los 14000 ducados
en los que se estimó el oficio. Se estableció la cláusula de que si uno
de los hijos de doña Luisa llegaba a la edad adulta y quería recuperar
la escribanía, podría hacerlo, a cambio de devolver el pago efectuado
por el portugués136.
Seguimos teniendo noticias de cristianos nuevos portugueses en el
cabildo astigitano. Allí alcanzó la regiduría Manuel Díaz Fernández,
Ahn, Inquisición, leg. 4699, exp. 1. Este documento debe ser consultado en microfilm.
El apoyo de su familia política resultaría clave para obtener dicha posición. La
carta dotal se encuentra conservada en el Ahn, Inquisición, leg. 4704, exp. 14.
133
Los Gómez/Gomes, llegados por las mismas fechas que los Andrada, establecieron
muchos lazos con los Dávila, familia astigitana de condición conversa y que dio muchos
jurados.
134
Muy recomendable a este respecto es el artículo de A. Marcos Martín, Las ventas
de oficios en Castilla en tiempos de la suspensión de las ventas (1600-1621), «Chronica
Nova», n 33 (2007), pp. 13-35.
135
Al margen de la subasta, existían otras formas de comprar oficios. Destaca en esa
parcela el modelo de resignatio in favorem, no pocas veces una venta encubierta, sobre todo
cuando no existe ningún vínculo de parentesco entre la persona que ostentaba el cargo y
su sucesor. Sobre ello se incide en E. Soria Mesa, Los Estatutos municipales cit., p. 12.
136
APGr, protocolo 354, fols. 245r.-277r.
131
132
306
El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces
protegido del conde de Alcaudete, así como Juan de Silva Lobo, lisboeta
que terminó saliendo reconciliado con hábito y cárcel de por vida en el
Auto de Fe celebrado en Córdoba el 3 de mayo de 1655137.
Una cuestión que debemos plantearnos, llegados a este punto, es
si, generalmente, los judeoconversos lusos que ostentaron cargos
sufrieron la presión del Santo Oficio antes o después de desempeñar
sus funciones. Si bien hay casuística, suele marcarse la tónica de que
la sentencia llega cuando ya están instalados en su nueva posición.
Así lo ilustran los estudios de Lorena Roldán en Málaga. Sirva como
exponente de ello el caso de los hermanos Cardos. Hablaremos primero
de Pedro Ruiz Cardos, natural de Antequera, hijo de portugueses,
cristiano nuevo, trasladado a la ciudad malacitana para ejercer su
oficio de zapatero.
Su matrimonio con doña Catalina Solís138 le catapultó a unos niveles
de riqueza que le hubieran sido inimaginables antes, hasta el punto de
aspirar a acceder al municipio139. El éxito de su integración entre los
oligarcas judeoconversos se ejemplificó en su toma de posesión como
jurado en el año de 1659. Lo hizo acompañado de, entre otros, Alonso
Gamarra y Luis de Robles, élite conversa local. Sus pasos fueron
seguidos por el hermano de Pedro, José Ruiz Cardos, quien desempeñó
la misma dignidad. Se trató de un linaje que aumentó su patrimonio
merced a una inteligente estrategia de arrendamiento de casas140.
Desafortunadamente para ambos, también compartieron el destino
de fallecer durante sus procesos inquisitoriales, el primero por
relajación; el segundo, en las celdas mientras aguardaba a escuchar
su sentencia. Sus juraderías fueron puestas en subasta pública, algo
que volvió a convencer a la mesocracia más pujante de intentar invertir
en este ascenso social. Es decir, incluso después de aquellos
precedentes, la compra-venta de oficios se mantuvo de manera
continuada. Ello llegó a inquietar al propio cabildo malagueño:
[…] con informe de la ciudad y porque no conviene al servicio del rey nuestro
señor que ninguno de la nación portuguesa tenga oficio en ninguna república141.
137
R. Gracia Boix, Autos de Fe cit., p. 440. Los pleitos por sus bienes incautados
están referenciados en Ahn, Inquisición, leg. 2423.
138
Como bien apunta Lorena Roldán, el “doña” que preside todos los documentos de
la adinerada Solís es un perfecto reflejo de la posición alcanzada. Esta malacitana fue
una activa compradora de fincas urbanas.
139
L. Roldán Paz, Jurados conversos cit., pp. 765-780. Su autora mostró los
resultados de este trabajo en el marco de la VII Reunión Científica de la Fundación
Española de Historia Moderna.
140
L. Roldán Paz, El problema judeoconverso cit., pp. 779-780. Similares actividades
de administración de patrimonio llevó a cabo Melchor Núñez Vaca, natural de la Rambla,
descendiente de portugueses, encargado de los censos perpetuos de población.
141
L. Roldán Paz, El problema judeoconverso cit., p. 589.
307
Marcos Rafael Cañas Pelayo
Pese a lo antedicho, seguiremos encontrando procesados lusos que
habían ejercido alguna de las dignidades municipales. Así aconteció
con Luis de Robles Carvalho, clérigo menor de órdenes, vecino de
Málaga, enriquecido por sus actividades como mercader, jurado entre
los años 1658 y 1669142. Como su segundo apellido indica, Luis era
descendiente de portugueses, sospechosos antes Inquisición; de hecho,
poco después de renunciar a su cargo fue apresado por el Santo Oficio,
dentro de coyuntura de redadas y represiones contra el grupo de
conversos malacitanos143. ¿Por qué volvía a surgir esa virulencia por
causa de fe?
La explicación es sencilla, la caída en desgracia del conde-duque de
Olivares, gran protector de los cristianos nuevos portugueses durante
su etapa como valido de Felipe IV, va dando lugar al surgimiento de
una fuerte represión que se incrementaría; una sospecha religiosa que,
en el caso de los conversos portugueses, viene acentuada por la
sublevación de la casa de Braganza, en un clima bélico entre ambas
Coronas. La correspondencia del Consejo de Córdoba con la Suprema
de Madrid deja constancia de ese rebrote de la persecución de los
cristianos nuevos lusos144.
Ante aquella situación de crisis, algunos de los involucrados
trataron de recurrir a la vía del soborno145 para lograr un trato benigno
de los Tribunales. Así queda constancia en el caso de Manuel Díaz
Fernández, ya mencionado, regidor de Écija, cuya mujer e hija (doña
Leonor de Faro y Beatriz Manuel), a la par que él mismo, lograron un
régimen de favor en el presidio inquisitorial cordobés.
Gracia a esas dádivas, pudieron estar en contacto con el exterior para
mantenerse informados sobre su causa. Desafortunadamente para sus
intereses, las inspecciones del Tribunal escandalizaron a la Suprema, la
cual exigió reabrir las causas, con trágicos resultados para esta familia146.
Llegados a este punto, resulta ineludible referirnos a uno de los
grandes objetos de polémica historiográfica que surgen cuando nos
L. Roldán Paz, Jurados conversos cit., pp. 765-780
Ilustrativo de todo ello es el trabajo de la profesora Mª I. Pérez de Colosia
Rodríguez, Auto Inquisitorial de cit., p. 166.
144
Ahn, Inquisición, leg. 2420 y 2426. De forma progresiva y continuada, los
procesos contra portugueses van en aumento desde comienzos de la década de los 50
del siglo XVII.
145
L. Coronas Tejada, Soborno en la Inquisición de Córdoba por portugueses a
mediados del siglo XVII, en M. Goshen-Gottstein (ed.), Proceedings of the Ninth World
Congress of Jewish Studies. Division B., Jerusalén, 1986, pp. 151-158.
146
Destaca en este punto L. Coronas Tejada, Un trienio en cit., pp. 75-100. Manuel Díaz
Fernández falleció durante el presidio. Aunque su memoria quedó infamada, una posterior
revisión del proceso le dejaría absuelto. Su viuda e hija pleitearon activamente por
recuperar parte de los bienes confiscados, no zanjándose la cuestión hasta que se vieron
obligadas a depositar 60.000 reales a la Hacienda del Santo Oficio de Córdoba (1652).
142
143
308
El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces
adentramos en este sujeto social. ¿Cuál era el grado de sinceridad
religiosa de estos cristianos nuevos portugueses? Dos son los grandes
problemas que experimentamos al tratar de buscar una respuesta a
tal pregunta. En primer lugar, la parcela de la esfera de la vida privada
que atañe, la cual es muy difícil de discernir. En segundo, al carácter
parcial y sesgado de una de nuestras principales fuentes de
indagación, los fondos del Santo Oficio.
Enemiga acérrima de este colectivo, la temida institución ha dejado
un reflejo de acusaciones donde, en muchos casos, no dejan de
considerarse como delitos religiosos, lo que no dejan de ser prácticas
culturales y culinarias que no son motivo per se para no pensar en una
correcta asimilación de estas víctimas a su nueva religión147.
Varios autores han mostrado una tendencia a presentar una fuerte
ligazón entre los conversos que permanecieron en la Península Ibérica
y el resto del mundo sefardí148, mientras que otras corrientes han
abanderado postulados diametralmente opuestos. Si bien, afortunadamente, cada vez más se van abandonando las posiciones más
apologéticas a la hora de plantear este complicado fenómeno (es decir,
desde quienes niegan cualquier asomo de criptojudaísmo a aquellos
corrientes que consideran, sistemáticamente, como activos judaizantes
a todos aquellos reos que pasaron ante el Santo Oficio149), todavía
queda camino por recorrer en tal cuestión.
Investigadoras como Pilar Huerga Criado han incidido en la
evolución metodológica que ha acontecido en la historiografía a la hora
de enfrentarnos a la documentación inquisitorial y su actividad contra
147
En una posición diametralmente contraria, el profesor Benzion Netanyahu ha
cuestionado los verdaderos motivos de implantación de la Inquisición, afirmando que la
inmensa mayoría de los cristianos nuevos se hallaban casi en su totalidad cristianizados.
B. Netanyahu, Los orígenes de la Inquisición, Crítica, Barcelona, 1999. Del mismo autor,
Los marranos españoles según las fuentes hebreas de la época (siglos XIV-XVI), Junta de
Castilla y León, Valladolid, 2002.
148
Uno de los primeros estudios en este sentido, el cual ha alcanzado la categoría de
clásico, sería la obra de Cecil Roth. C. Roth, Los judíos secretos: Historia de los marranos,
Altalena, Madrid, 1979.
149
Sería imposible, por motivos de espacio, hacer un repaso detallado de las obras
que han ido surgiendo mostrando nuevas caminos para entender este conflicto, no
solamente religioso, sino con muchos aspectos culturales y étnicos. Sin ánimo de ser
exhaustivo, citar a Davi L. Graizborg, Philosemitism in Late-Sixteenth-and SeventennthCentury Iberia. Refracted Judeophobia?, «Sixteenth century journal: the journal of Early
Modern Studies», n. 3 (2007), pp. 657-682. Natalia Muchnik ha realizado trabajos en
ese mismo sentido, como hallamos en N. Muchnik, Du catholicisme de judéoconvers,
«XVIIe siècle», n. 231 (2006), pp. 277-300. Años atrás, destaca una obra colectiva donde
destacan algunos de los mejores especialistas nacionales y extranjeros en la materia: J.
Contreras Contreras; B.J. García García; J. I. Pulido Serrano (eds.), Familia, religión y
negocio: el sefardismo en las relaciones entre el mundo ibérico y los Países Bajos en la
Edad Moderna, Fundación Carlos Amberes, Madrid, 2003.
309
Marcos Rafael Cañas Pelayo
los conversos150. En el aspecto que más nos atañe para este artículo,
parece indudable que la andadura de los cristianos nuevos castellanos
y portugueses presenta unos esquemas cronológicos diferentes, que
se explican, precisamente, por el factor de las diferentes formas en las
que se instaló la Inquisición en uno y otro reino ibérico.
La razón es obvia. El Santo Oficio portugués151 se establece en una
etapa muy tardía, en 1536, tras muchos años de tensas negociaciones
entre la Corona Lusa y los agentes de los cristianos nuevos
portugueses con el papado de Roma; ello se tradujo en una sucesión
de prórrogas y, tras los bautismos forzosos de 1497152, unos períodos
de notable tolerancia que permitieron a los antiguos judíos portugueses (grupo que recibe un fuerte apoyo demográfico por parte de
los judíos españoles que emigran en 1492).
Ello explica que, cuando se instalaron en el territorio andaluz,
muchos de estos linajes de cristianos nuevos portugueses tuvieran un
mayor grado de formación en su antigua herencia religiosa; lo cual no
equivale, en lo absoluto, a afirmar que todos ellos, o una gran mayoría,
fueran judaizantes activos. Hago más referencia a rasgos étnicos
acentuados, a prácticas culturales por las que no se les habían
perseguido con anterioridad. Al buscar asimilarse a la élite, ello pudo
provocar motivos de fricción. Las genealogías que podemos levantar
gracias a estos procesos, así como otro tipo de aspectos de gran interés, no
deben llevarnos a prestar una monotemática visión de la cuestión de los
marranos portugueses como una demostración de fe mosaica encubierta o
sincera conversión al cristianismo; de hecho, un error igual de grave sería
considerar que incluso esos amargos trances inquisitoriales eran el final de
esta andadura, de este intento de ascenso. Por supuesto, en no pocos casos
lo fueron, pero hemos señalado ejemplos que hablan de una gran capacidad
de recomposición, de traslado a otros lugares de Andalucía para iniciar,
otra vez, ese intento, amparados por los lazos de solidaridad de grupo.
4. Interpretación y conclusiones
Mostrados los casos anteriores, y teniendo en mente decenas de otros
ejemplos repartidos por todo el territorio andaluz, es posible extraer como
conclusión la existencia de varias características de penetración de
familias judeoconversas portuguesas en dichos cabildos municipales.
150
P. Huerga Criado, El problema de la comunidad judeoconversa, en B. Escandell
Bonet; J. Pérez Villanueva (dirs.), Historia de la Inquisición en España y América,
Biblioteca de Autores Cristianos, Madrid, vol. III, pp. 441-498.
151
Una panorámica completa en G. Marcocci; J.P. Paiva, Hisória da Inquisiçâo
Portuguesa: 1536-1821, A esfera dos livros, Lisboa, 2013.
152
F. Soyer, A perseguiçâo aos judeus e muçulmanos de Portugal: d. Manuel I e o fim
da tolerância religiosa (1496-1497), Ediçôes 70, Lisboa, 2013.
310
El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces
1. La llegada fue anterior a lo que tradicionalmente se había pensado
por parte de los investigadores. Es cierto que el gran punto de inflexión
fue el siglo XVII, sin embargo, casos como el de Écija atestiguan un
establecimiento anterior a la propia Unificación de Coronas Ibéricas.
2. El acceso al poder local suele producirse desde la plataforma de
una mesocracia pujante y que ha prosperado comercialmente hasta
poder hacer frente a la inversión de la compra de oficios.
Manuel Díaz Fernández, los Rodríguez de Andrada, Fernández de
León o los Carreras son solo los ejemplos más representativos de un
modelo que se dio durante más de una centuria. La necesidad de la
Corona de vender todos los oficios que fueran posibles para enriquecer
sus arcas fue la coyuntura idónea para cobijar a este ascenso social.
3. Tipología de oficios: En la gran mayoría de los casos, el tipo de
oficios que encontramos desempeñados por judeoconversos portugueses en Andalucía suele estar vinculado a las escribanías, tanto
en el cabildo como en la Chancillería. De igual manera, la compra de
juraderías también fue constante (ver el apéndice correspondiente con
la tabla de oficios).
El regimiento fue de más difícil acceso, ya que era un cuerpo de
rango mayor que tradicionalmente vamos a encontrar enfrentado
precisamente a ese grupo de origen mercantil que eran los jurados. Sin
embargo, la recompensa a quienes lograban alanzar la regiduría era
una antesala donde resultaba muy factible preparar el terreno para
alcanzar una posición nobiliaria y obtener el prestigio del linaje con
fundación de mayorazgos, capellanías, etc.
4. Las familiaturas del Santo Oficio como plataforma. Sin duda,
supusieron una herramienta básica para alcanzar una respetabilidad
que sería de gran utilidad para los recién llegados, especialmente en
las áreas rurales.
Familiaturas tuvieron los Pacheco y los Fernández de Carreras, algo
que, sin duda, hubo de influir para la futura buena fortuna de estos
dos grupos.
5. Suertes divergentes. La espectacularidad de los Autos de Fe y los
procesos inquisitoriales fueron acompañados de ocultación y éxito.
Algunos de los clanes acusados de judaizar sufrieron constantes trabas
y vieron diezmadas sus filas. Otros lograron prosperar y conseguir que
sus descendientes no fueran inquietados por la sombra de la sospecha.
El conocimiento de los engranajes del sistema y la capacidad de comprar
testigos y silencios (esto es muy visible en las candidaturas a familiaturas
o reconocimientos como caballeros veinticuatro) era la gran defensa para
salvaguardar al núcleo familiar de testimonios desfavorables.
Con todo, incluso después del dramático trance, ejemplos como el
de los Fernández de León atestigua que, quienes pudieron permitírselo,
intentar nuevos asaltos en otros territorios de Andalucía. Eso nos habla
claramente de una gran capacidad de recuperación y conocimiento de
311
Marcos Rafael Cañas Pelayo
los mecanismos del sistema, pero también de una red de solidaridad
interna que auxilió a sus miembros tras la caída en desgracia.
6. La caída de Olivares. El rebrote de la persecución contra los
cristianos nuevos lusos se produce tras la caída del valido, figura que
los había protegido. Los comienzos de la segunda mitad del siglo XVII
marcan el auge y punto de inflexión de esta presencia; a partir de ese
momento, su número irá disminuyendo, acentuada por la guerra
contra Portugal.
Sin embargo, ello no es óbice para afirmar que siguieron produciéndose casos, precisamente los más difíciles de rastrear. Los linajes
cristianos nuevos lusos que logran afianzarse en la segunda mitad del
XVII (Victoria y Ahumada, Cortés de Mesa, incluso los antepasados del
futuro ministro Mendizábal153…) muestran el triunfo de la estrategia
familiar, se borra todo asomo de lo que aconteció en el pasado, hasta
el punto de solamente una minuciosa reconstrucción genealógica
puede acercarnos a la realidad.
Por ello, una de las grandes cuestiones que debemos formularnos a
este respecto, a la luz de la proximidad entre los edictos de sendos
reinos contra los judíos (1492 y 1497), es la siguiente: ¿cuántos de
aquellos portugueses eran descendientes de los expulsados de Castilla.
Es decir, ¿se produjo un retorno de aquella primera oleada de judíos
que huyeron al reino luso? Ello podría explicar el buen conocimiento
previo que exhibieron a la hora de asentar sus nuevas comunidades
en suelo castellano.Pregunta a la que solamente se podrá dar
respuesta con la colaboración de grupos investigadores españoles y
portugueses, buscando desentrañar los complejos lazos familiares de
aquella primera oleada de emigrados. Nuestra otra opción también
presenta retos para las futuras investigaciones.
En caso de no existir un parentesco previo, la habilidad mostrada
por estas familias cristiano-nuevo lusas nos hablan, aparte de una
notable capacidad comercial y de saberse hacer útiles para las
oligarquías, así como de una rápida colaboración con sus correligionarios castellanos.
Por ende, deberíamos ir empezando a cuestionarnos algunas viejas
premisas como el adormecido “criptojudaísmo” castellano tras las
primeras represiones virulentas de las Inquisiciones andaluces; no hablo
aquí de la cuestión religiosa, sino de vínculos de etnicidad, de señas de
identidad compartidas, un pasado común y prácticas que no tenían que
implicar necesariamente que no se hubieran integrado en su nueva fe.
De hecho, sus ambiciones cara a asimilarse a la élite local andaluza,
hablan de esa aspiración como una constante para aquellos miembros
de la comunidad que se encontraban en posición de pujar por ello.
153
312
M. Ravina Martín, Un laberinto genealógico cit.
El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces
Apéndice
CRISTIANOS NUEVOS PORTUGUESES CON OFICIOS PÚBLICOS EN ANDALUCÍA
Apellidos y
nombre
Cargo
Fecha
(aprox.)
Notas
Acosta,
Duarte de
Contador mayor y
factor de la
Armada en Sevilla
Década de
los 50 del
siglo XVII
Importante presencia en
los presidios
norteafricanos
Acosta,
Isabel de
(doña)
Administradora de
la sal en Vélez
Málaga
1672
Natural de Braganza,
viuda de Manuel Acosta
Álvarez
Pereira,
Nuño
Administrador de
la renta de tabaco
en Málaga
1691
Reconciliado por la
Inquisición de Granada
Arias del
Valle, Juan
Alguacil mayor de
millones en Cabra
1663
Reconciliado por el
Santo Oficio de Córdoba
Barrios,
Diego de
Arrendador del
tributo de millones
en la villa de
Montilla
Década de
los 40 del
siglo XVII
Su familia tuvo
problemas con el Santo
Oficio en la década de
los 60 del Seiscientos
Báez,
Rodrigo
Regidor perpetuo
en el Puerto de
Santa María
1600
No tenemos clara si su
ascendencia era
conversa
Báez,
Rodrigo Luis
Regidor en el
Puerto de Santa
María
1731
Posible descendiente del
anterior. Compra su
oficio a don Lorenzo
Rodríguez Cortés Osorio
Báez
Eminente,
Francisco
Arrendado del
almojarifazgo de
Sevilla
Década de
los 60 del
siglo XVII
Inversor en las minas
de Almadén y gran
valedor de comerciantes
extranjeros en el puerto
de Cádiz
Báez de
Vargas,
Enrique
Regidor en Cádiz
1596
Presente durante el
saqueo inglés a Cádiz
313
Marcos Rafael Cañas Pelayo
Castro,
Francisco de
Caballero
veinticuatro en
Sevilla
Década de
los 30 del
siglo XVII
Probanzas
accidentadas. Pleiteó su
condición hidalga en
Granada
Castro,
Lorenzo de
Caballero
veinticuatro en
Sevilla
Década de
los 30 del
siglo XVII
Hermano del anterior
Cea Brito,
Manuel
Arrendador de
millones en
Sevilla, también de
aduanas y
almojarifazgo
1607-1627
Terminó trasladándose
a Madrid
Coello,
Francisco
Tesorero de
millones en
Málaga
1654
Asentista, procesado
ante la Inquisición
Correa
Pacheco,
Manuel
Contador del
Almojarifazgo y
Aduanas de
Málaga
1691
Reconciliado ante la
Inquisición de Granada
Díaz de
Acosta,
Manuel
Administrador de
la sal en Vélez
Málaga
1645
Causa suspendida con
la Inquisición de
Granada
Díaz
Fernández,
Manuel
Regidor en Écija
1645c.-1647
Protegido del conde de
Alcaudete. Falleció en
cárceles inquisitoriales
cordobesas
Fernández
de Acosta,
Duarte
Alférez mayor en
Torrox
1677
Miembro de un linaje de
asentistas portugueses
Enríquez
Antonio
Alguacil menor en
Lucena
1617
Casó en Lucena con
doña María de Burgos
Ferro,
Manuel
(don)
Visitador general
de las aduanas de
la costa granadina
1671
Natural de Oporto,
vecino de Málaga, causa
suspendida ante la
Inquisición
Finales del
siglo XVIComienzos
del XVII
Fundó un mayorazgo
familiar
1663
Nieto por línea paterna
del anterior
Fernández
Jurado y familiar
de Carreras, del Santo Oficio en
Pedro
la ciudad de
Córdoba
Fernández
de Carreras,
Pedro
314
Caballero
veinticuatro en
Córdoba
El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces
Fernández
de León,
Diego
Escribano público
en Écija
Década de
los 80 y 90
del siglo XVI
Su rama familiar tiene
presencia asimismo en
la Chancillería de
Granada
Fernández
de León,
Jorge
Escribano del
crimen de la
Chancillería de
Granada
1601
Muchos miembros de
su linaje son denunciados en la visita
inquisitorial de 1593
Fernández
Monsanto,
Marcos
Administrador del
almojarifazgo de la
ciudad
Primera
mitad del
siglo XVII
Realizó muchas obras
de caridad pública. Sin
embargo, acabó sus
días arruinado
Fernández
Pato, Luis
Administrador de
las alcabalas en
Córdoba, tesorero
de salinas en
Sevilla
Década de
los 40 y 50
del siglo XVII
Esposo de Juana López
Capadocia, cuñado de
Domingo Rodríguez de
Capadocia, problemas
con las Inquisiciones
castellanas
Ferro,
Manuel de
Visitador general
de las aduanas
malagueñas
1672
Natural de Oporto.
Causa suspendida ante
la Inquisición de
Granada
Fonseca,
Fernando de
Administrador de
millones en el
reino de Jaén
1661
La Suprema Inquisición
de Madrid escribió al
Tribunal de Córdoba
para hacer
averiguaciones sobre
Fonseca
Franco,
Diego
Jurado en Écija
1597-1601
Invierte en casas y
posadas en la localidad
astigitana
Franco
Pacheco,
Antonio
Jurado en
Granada, familiar
del Santo Oficio,
futuro caballero
veinticuatro,
alguacil mayor
Década de
los 50 del
siglo XVII
Casa con doña María de
Torres, miembro de una
familia de la mesocracia
granadina
Gutiérrez,
Gabriel
Escribano público
en Écija
Década de
los 80 y 90
del siglo XVI
Previamente, había sido
cirujano en la villa de
Osuna
López,
Alonso
Escribiente en
Córdoba
1584-1585
Natural del Algarve. Se
auto-denunció ante el
Santo Oficio cordobés
315
Marcos Rafael Cañas Pelayo
López
Pereira,
Diego
López
Pereira,
Francisco
Administrador del
estanco de tabaco
de Granada y de
los millones de los
lugares de la Vega
Década de
los 50-60 del
siglo XVII
Hermano de Francisco
López Pereira. Causa
suspendida ante la
Inquisición granadina
en 1664
Administrador
Década de
general de los
los 50-60 del
estancos de tabaco
siglo XVII
en los reinos
Córdoba, Jaén,
Granada y Murcia
Su linaje, de
ascendencia cristianonuevo, acabará
comprando título
nobiliario en Inglaterra
López Pinto,
Juan
Fiel de la Aduana
de Málaga
1678
Problemas con las
Inquisiciones de Cuenca
y Granada
López
Tenorio,
Diego
Jurado de
Granada
Segunda
mitad del
siglo XVI
Puede haber sido
también un destacado
mercader en Sevilla
López
Tenorio,
Esteban
Jurado de
Granada
Segunda
mitad del
siglo XVI
Sucede en el cargo a su
padre, Jorge López
Tenorio
López
Tenorio,
Jorge
Jurado en
Granada
Finales del
siglo XVI
Enlaza matrimonial con
una familia conversa
giennense
Matos de
Soto, Diego
de
Alguacil en Málaga
1665
Reconciliado por el
Santo Oficio de Córdoba
Méndez,
Miguel
Administrador del
3% en Montalbán
1660
Su esposa, Blanca de
Matos, reconciliada por
la Inquisición de
Granada
Méndez,
Pedro
Tesorero de
millones en
Antequera
1642
Penitenciado en
Valencia. Forzado a la
quiebra
Núñez
Rodrigo
Cobrador de los
derechos de
diezmos en
Lucena
1627
Cobra los intereses del
duque de Cardona.
Cabeza de una
compañía de
mercaderes lusos
Núñez de
Olivera,
Gaspar
Arrendador del
estanco de la
pimienta en
Córdoba
1647-1649
Vínculos con la renta
del tabaco en dicho
reino
316
El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces
Núñez
Pérez, Diego
Caballero
veinticuatro en
Sevilla
1601
Su familia tenía
negocios y conexiones
con Amberes
Núñez Vaca,
Melchor
Administrador de
los censos
perpetuos de
población de
Málaga
1668
Sus bienes le fueron
confiscados por el Santo
Oficio de Granada
Olea y Piña,
Juan José
Caballero
veinticuatro de
Granada
1719
Descendiente de
portugueses por línea
materna
Pacheco de
Acosta,
Diego
Hidalgo en Málaga
1623
Probanza muy
accidentada. Orígenes
pecheros poco claros
Pacheco de
Acosta Juan
Receptor de la
Cámara en la
ciudad de
Granada
1620
Padre del anterior.
Vínculos con Málaga y
el Puerto de Santa
María
Paz de
Silveira,
Manuel
Portugués,
asentista en
Sevilla, hábito de
la Orden de Cristo
Década de
los 20 del
siglo XVII
Hermano de Jorge de
Paz Silveira,
importantes inversores
Robles
Carvalho,
Luis de
Jurado en Málaga
1658-1669
Enriquecido mercader,
clérigo menor de
órdenes
Rodríguez
de Andrada,
Antonio
Jurado en Écija
Década de
los 80 y 90
del siglo XVI
Cabeza del linaje
denunciado tras la
visita inquisitorial de
1593
Rodríguez
de
Capadocia,
Domingo
Administrador del
tres por ciento de
Lucena
1655
Cuñado de Luis
Fernández Pato,
reconciliado
Rodríguez
Cáceres,
Simón
Fiel de las
alcabalas en
Málaga
1660
Causa suspendida por
la Inquisición de
Granada
Rodríguez
Díaz, Simón
Guarda de
millones de
Málaga
1660
Reconciliado por la
Inquisición de Granada
Rodríguez
Pacheco,
Pedro
Jurado Granada,
familiar del Santo
Oficio
Década de
los 40 del
siglo XVII
Adinerado comerciante,
especializado en la
venta de azúcar
Ruiz,
Gaspar
Asentista en la
aduanas de Cádiz
1683
Hermano de Simón Ruiz
Díaz Pessoa
317
Marcos Rafael Cañas Pelayo
Ruiz Cardos, Jurado en Málaga
Pedro
1659
Emparenta con el linaje
converso castellano de
los Solís
Ruiz Díaz
Pessoa,
Simón
Asentista en las
aduanas de Cádiz
1683
Primo de Gaspar Ruiz
Torres,
Gaspar
Francisco de
Jurado en Écija
1600-1602
Cuñado de Antonio
Rodríguez de Andrada
Silva Lobo,
Juan de
Regidor en Écija
1655
Pleito de sus herederos
por los bienes
confiscados en Córdoba
Sosa
Coitiño,
Salvador de
Fiel de las rentas
en Málaga
1669-1672
Reconciliado con hábito
y cárcel de por vida.
Negocios en Brasil
Torres,
Gaspar de
Jurado en Sevilla
1530
Consolida su posición
gracias a la venta de
esclavos
Varillas y
Zamena,
Gaspar
Antonio de
las
Portugués,
administrador de
los millones de
Málaga
1659
Causa suspendida ante
la Inquisición de
Granada
Vitoria
Ahumada y
Salazar,
Juan
Bartolomé
Regidor perpetuo
de Motril
1688-1737
Descendiente de linaje
portugués por línea
paterna
Vitoria
Ahumada y
Salazar,
Simón
Francisco
Alguacil mayor de
Salobreña, regidor
perpetuo de
Motril, maestrante
de Granada
1737-1757
(Regiduría)
Descendiente de
portugueses por línea
paterna
Vitoria y
Castro,
Juan de
(don)
Caballero
veinticuatro en
Granada
1660-1670
Funda mayorazgo.
Linaje de cristianos
nuevos portugueses y
gallegos
Victoria y
Castro,
Simón
Caballero
veinticuatro en
Granada, regidor
perpetuo de Motril
1670-1688
Casa con doña
Francisca de Ahumada
y Salazar, miembro de
un linaje de regidores
granadinos
318
Maestrante
(1722)
María López Díaz
LA REFORMA DEL CONSEJO DE CRUZADA DE 1745:
PREÁMBULO DE SU DESAPARICIÓN*
DOI: 10.19229/1828-230X /37142016
RESUMEN: Este artículo analiza la reforma del Consejo de Cruzada que aprobó el rey Felipe V en
1745, la cual precede a su desaparición. Se divide en tres partes. En la primera se indaga sobre
las causas de la medida y el papel del marqués de Ensenada. En la segunda el funcionamiento
de la nueva Contaduría Mayor de Cruzada y el nuevo sistema de control de sus fondos. Y en la
tercera se examina la composición de la nueva planta del Consejo y el escalafón de sus cargos.
El trabajo concluye con unas reflexiones finales.
PALABRAS CLAVE: Consejo de Cruzada, Felipe V, marqués de Ensenada, Monarquía española,
reformismo borbónico.
THE REFORM OF THE COUNCIL'S CRUSADE FROM THE YEAR 1745:
PREAMBLE OF HIS DISAPPEARANCE
ABSTRACT: This article analyzes the Crusade Council reform adopted by King Philip V in 1745,
which precedes his disappearance. It is divided into three sections. The first examines the causes
of the measure and the role of the Marquis of Ensenada. The second one analyzes the operation
of the new General Accountant’s Office of Crusade and the new method of control of its funds.
And the third is about the composition of the new staff of the Council and the list of officials. The
essay concludes with some final thoughts.
KEYWORDS: Council of Crusade, Philip V, Marquis of Ensenada, Spanish monarchy, Bourbon reforms.
Introducción
El Consejo de Cruzada es a día de hoy un gran desconocido, sin
duda el más ignorado de los Consejos de la Monarquía hispana tanto
por parte de los historiadores juristas como no juristas (modernistas),
que son entrambos quienes fundamentalmente se han ocupado de su
estudio1. Es por ello que a la hora de presentar el tema se pueda hacer,
cuanto menos, desde dos perspectivas que no son antitéticas: una que,
mirando a la institución como instrumento de autoridad, llama la
* Trabajo realizado dentro del Proyecto de Investigación HAR2012-37007, financiado
por el Ministerio de Economía y Competitividad (MINECO), en el marco del VI Plan Nacional de Investigación Científica, Desarrollo e Innovación Tecnológica.
1
Grosso modo, los historiadores del derecho, en especial los de la “corriente historicista” o “neo historicista”, son quienes primero y con más persistencia se han venido
ocupando del estudio de los consejos ya desde principios de los años 80, sobre todo en
su vertiente institucional; por su parte, los historiadores generales y modernistas en un
primer momento se interesaron más por el perfil social de dichos organismos y a posteriori por su gobierno y actuación. En cuanto a referencias bibliográficas, son muchas
las que cabría citar e imposible hacerlo con exhaustividad en un trabajo de estas
n. 37
Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIII - Agosto 2016
ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online)
319
María López Díaz
atención sobre ese gran vacío historiográfico que hay acerca del estudio
de dicho consejo, pues, a diferencia de lo que ocurre con otros
órganos de la polisionodia2 y a pesar de su acreditada relevancia –no
en vano gestionaba importantes ingresos de primigenia condición
extraordinaria que acabaron convirtiéndose en ordinarios y sufragando
capítulos no contemplados en su origen3–, apenas disponemos de
dimensiones. Es por ello que me limitaré a reseñar solo alguna de las principales monografías sobre cada uno, empezando por el Consejo Real de Castilla (J. Fayard, Los miembros del Consejo de Castilla (1621-1746), Siglo XXI, Madrid, 1982 (trad. 1ª ed. francesa,
1979); S. de Dios, El Consejo Real de Castilla (1385-1522), Madrid, Centro de Estudios
Constitucionales, 1982; P. Gan Giménez, El Consejo Real de Carlos V, Universidad de
Granada, Granada, 1988; C. de Castro, El Consejo de Castilla en la historia de España,
Centro de Estudios Políticos y Constitucionales, Madrid, 2015); Consejo de Aragón (J.
Alberdi Arrieta, El Consejo Supremo de la Corona de Aragón, Institución Fernando el
Católico, Zaragoza,1994), Consejo de Italia (M. Rivero Rodríguez, El Consejo de Italia y
el gobierno de los dominios italianos de la monarquía hispana durante el reinado de Felipe
II (1556-1598), Tesis de doctorado leída en la Universidad Autónoma de Madrid, 1991
[Consulta en red: https://repositorio.uam.es /xmlui/handle/10486/2589], Consejo de
Flandes (J.M. Manuel Rabasco Valdés, El Real y Supremo Consejo de Flandes y de Borgoña (1419-1702), 2 vols., tesis doctoral leída en la Universidad de Granada, 1982), Consejo de Indias (E. Schäfer, El Consejo Real y Supremo de Indias, Kraus Reprint,
Liechtenstein,1975 [Sevilla, 1935], 2 tms.), Consejo de Hacienda (E. Hernández Esteve,
Creación del Consejo de Hacienda de Castilla: 1523-1525, Banco de España, Madrid,
1983; J.M. de Francisco Olmos, Los miembros del Consejo de Hacienda en el siglo XVII,
Castellum, Madrid, 1999; C.J. de Carlos Morales, El Consejo de Hacienda de Castilla,
1523-1602: patronazgo y clientelismo en el gobierno de las finanzas reales durante el siglo
XVI, Consejería de Educación y Cultura, Valladolid,1996), Consejo de Guerra (F. Andújar
Castillo, Consejo y Consejeros de Guerra en el siglo XVIII, Universidad de Granada, Granada, 1996; J.C. Domínguez Nafría, El Real y Supremo Consejo de Guerra (siglos XVIXVIII), Centro de Estudios Políticos y Constitucionales, Madrid, 2001), Consejo de
Órdenes (E. Postigo Castellanos, El Consejo de las Ordenes y los Caballeros de Hábito en
el siglo XVII, Junta de Castilla y León, Valladolid, 1983) y Consejo de Inquisición (T. Sánchez Rivilla, El Consejo de Inquisición (1483-1700): introducción al estudio social de sus
miembros [Microficha], Universidad Autónoma de Madrid, Madrid, 1995; J. Rodríguez
Besné, El Consejo de la Suprema Inquisición, Complutense, Madrid, 2000).
2
De hecho, la única monografía de la que tengo conocimiento es la de D. Cruz Arroyo,
El Consejo de Cruzada (siglos XVI-XVII), Memoria de licenciatura inédita, leída en la Universidad Autónoma de Madrid, 1988; y para América, en lo que atañe a la bula, J.A.
Benito Rodríguez, La bula de Cruzada en Indias, Fundación Universitaria Española,
Madrid, 2002. El resto son trabajos menores o parciales, como el de M. Alcocer Martínez,
El Consejo de Cruzada, «Revista Histórica», Valladolid, 2.ª época, 2 (1925), pp. 114-123,
o bien heurísticos: J. Goñi Gaztambide, El archivo de la Santa Cruzada, «Hispania Sacra»,
II (1949), pp. 1954-208. Con todo, lo más habitual, son los estudios que se ocupan del
fundamento e historia de la bula de Cruzada. Sin exhaustividad ver, entre otros: J. Fernández Llamazares, Historia de la Santa Bula de Cruzada, Imprenta de D. Eusebio
Aguado, Madrid, 1859; o J. Goñi Gaztambide, Historia de la bula de la Cruzada en
España, Vitoria Seminario (Montepío Diocesano), 1938.
3
Algo que a menudo suscita disputas o conflictos con Roma. Para ejemplos, véase
J. Fernández Llamazares, Historia de la Santa Bula cit., pp. 250-254; J. Goñi Gaztambide, Historia op. cit., 630-631; y específicamente para los inicios del Consejo, J. Martínez Millán y C.J. De Carlos Morales, Los orígenes del Consejo de Cruzada (siglo XVI),
Hispania LI/3, núm 179 (1991), pp. 901-932 (907, 922).
320
La reforma del Consejo de Cruzada de 1745: preámbulo de su desaparición
investigaciones al respecto, salvo unos pocos trabajos referidos a
cuestiones puntuales y para cronologías más bien tempranas4. Una
circunstancia debida quizás más a la complejidad estructural de este
organismo y al volumen y dispersión de las fuentes para su estudio
que a la sugerida dificultad de encontrarlas5. Ciertamente, su
estructura y dinámica eran sumamente complicadas, ya que su
jurisdicción abarcaba una buena parte de los territorios de la
monarquía católica, incluidas las posesiones americanas y el resto de
las extra-peninsulares, con la excepción de las continentales italianas
(Milán y el reino de Nápoles) y de los Países Bajos españoles6. Pero no
lo es menos que existe un ingente depósito de documentos susceptibles
de consultarse, cuantitativa y cualitativamente de gran transcendencia
para reconstruir no solo la historia de la institución y su engranaje
dentro de la monarquía hispana, sino también la de las rentas
eclesiásticas y demás productos aplicados a Cruzada (abintestatos,
bienes mostrencos, penas pecuniarias de tribunales eclesiásticos o
colectación de los espolios) así como su aportación a las arcas de la
monarquía, la gestión y destino de estos fondos, las indulgencias o la
caridad, por citar solo algunos de los diversos asuntos relacionados
con el tema objeto de estudio7.
El otro enfoque, que complementa al anterior, mete de lleno la
política en el estudio de la institución como un elemento clave para
comprender la medida aplicada en 1746. Es decir, toma en cuenta y
usa reglamentos e instrucciones, según corresponde. Pero no como un
fin en sí mismo, sino como un medio para llegar a entender el porqué
4
Cf. J. Martínez Millán y C.J. De Carlos Morales, Los orígenes del Consejo cit., pp.
901-932; H. Pizarro Llorente, La pugna cortesana por el control del Consejo de Cruzada
(1575-1585), «Miscellánea Comillas», 56 (1998), pp. 159-177; del mismo autor y con las
mismas premisas y parte de sus contenidos, La pugna cortesana por el control del Consejo
de Cruzada (1575-1585), in J. Martínez Millán (dir.), Felipe II (1527-1598). Europa y la
Monarquía Católica, Parteluz, Madrid, 1998, pp. 635-675. Y, más recientemente, J. E.
Hortal Muñoz, El Consejo de Cruzada durante el reinado de Felipe III: los comisarios Juan
de Zúñiga, Felipe de Tassis, Martín de Córdoba y Diego de Guzmán y Benavides, «Hispania Sacra», LXVI, Extra I, enero-junio 2014, pp. 97-130. En el capítulo económico siguen
siendo cita obligada las páginas que a las contribuciones eclesiásticas dedican M. Artola,
La Hacienda del Antiguo Régimen, Alianza Editorial, Madrid, 1982, pp. 57-62, 294-301,
y M. Ulloa, La Hacienda Real de Castilla en tiempos de Felipe II, Fundación Universitaria
Española, Seminario “Cisneros”, Madrid, 1986, pp. 61-66, 571-645 passim.
5
Cf. J.E. Hortal Muñoz, El Consejo de Cruzada cit., p. 1.
6
Según González Dávila, “La jurisdicción que comprende, es la mayor que se sabe,
los Reynos de Castilla, León, Aragón, Valencia, Navarra, Principado de Cataluña, Condados de Rosellón, y Cerdania, Reynos de Serdaña, Sicilia, Mallorca, los del Perú, Nueva
España, Islas Canarias, y Filipinas” (Teatro de las Grandezas de la Villa de Madrid Corte
de los Reyes Católicos de España, que compuso el maestro Gil González Dávila, Madrid,
1623, pp. 519-520).
7
Cf. J. Goñi Gaztambide, El archivo de la Santa Cruzada, en «Hispania Sacra», 1949,
II (ene-jun), pp. 195-208. M. Ulloa, La Hacienda Real de Castilla cit., pp. 571-578.
321
María López Díaz
de la reforma de dicho consejo y su posterior reemplazamiento en junio
de 1750 por la «Dirección y Contaduría general de las Tres Gracias de
Cruzada, Subsidio y Excusado», que solo duraría cuatro años. Sensu
lato remite al reformismo político de los primeros Borbones y, en
particular, a la reorganización y/o remodelaciones efectuadas por los
gobiernos emanados del ministerio de poderosos personajes de la
época8. Partiendo de esta perspectiva cabría suponer que el nuevo
reglamento fue un elemento más del proyecto que aquellos
emprendieron, orientado al engrandecimiento y a la “modernización”
de la monarquía9. Tal es la hipótesis de partida. Pero procede ver cómo
se encaja (sus motivos o razón de ser), quiénes fueron sus
protagonistas (impulsores del proyecto), cuál fue su contenido (pautas)
y también sus efectos colaterales.
Desde el punto de vista bibliográfico –me refiero a trabajos que
trataron el asunto aquí analizado, aunque fuera de una manera
somera o colateral en el marco de investigaciones más amplias 10–,
este segundo planteamiento se asienta a día de hoy sobre tres
premisas; a grandes rasgos: i) la crisis del régimen de Consejos, o sea,
que los Consejos, salvo el Real de Castilla, quedaron relegados o cuasi
relegados a un plano secundario especialmente en el último tramo
del reinado de Felipe V, aunque no llegaran a perder todo su
protagonismo11; ii) la escasa importancia que se reconoce al Consejo
8
Caso, por ejemplo, de José de Carvajal y Lancaster y del marqués de la Ensenada,
por citar dos de los más conocidos. Véase J.M. Delgado Barrado, El proyecto político de
Carvajal. Pensamiento y reforma en tiempos de Fernando VI, CSIC, Madrid, 2001 o la obra
colectiva de J.M. Delgado Barrado y J.L. Gómez Urdánez (coords.), Ministros de Fernando
VI, Servicio de Publicaciones, Universidad Córdoba, Córdoba, 2002. Y para la etapa anterior, Patiño (ateniéndonos a obras recientes, cf. I. Pulido Bueno, José Patiño: el inicio del
gobierno político-económico ilustrado en España, Idelfonso Pulido Bueno, Huelva,1998; C.
Pérez Fernández-Turégano, Patiño y las reformas de la administración en el reinado de
Felipe V, Ministerio de Defensa, Madrid, 2006; A. Dubet, José Patiño y el control de la
Hacienda ¿Una cultura administrativa nueva?, in M. López Díaz, Élites y poder en las
monarquías ibéricas. Del siglo XVII al primer liberalismo, Biblioteca Nueva, Madrid, 2013,
pp. 39-56) o Campillo (véase D. Mateos Dorado, Estudio preliminar a José del Campillo y
Cossío, Dos escritos políticos. Lo que hay de más y de menos en España. España despierta,
Junta General del Principado de Asturias, Oviedo, 1993, y obras que cita).
9
Sobre el marco del debate general en torno al paradigma absolutista y reformas
emprendidas por el régimen borbónico en la España del siglo XVIII vid., por todos, J.
Albareda Salvadó, El debate sobre la <modernidad> del reformismo borbónico, Dossier
«Revista HMiC. Història moderna i contemporània», X (2012), con la bibliografía que cita.
Y para cuadro global de dichas reformas sigue siendo útil, e interesa a lo que aquí se va
a analizar, el planteamiento de P. Fernández Albaladejo, Cambio dinástico, monarquía y
crisis de la constitución tradicional, in Fragmentos de monarquía. Trabajos de historia
política, Alianza Editorial, Madrid, 1992, pp. 353-487.
10
Ver, por ejemplo, J.L. Castellano, Gobierno y poder en la España del siglo XVIII,
Editorial Universidad de Granada, Granada, 200, pássim.
11
Cumple precisar que algunos de esos, consejos no son relegados sino simplemente
suprimidos a principios de siglo. Así ocurre con la mayoría de los denominados “territo-
322
La reforma del Consejo de Cruzada de 1745: preámbulo de su desaparición
de Cruzada superado el primer cuarto del XVIII y su carácter
perjudicial en el conjunto de la administración, por su autonomía al
administrar los fondos de las Tres Gracias y porque además
aumentaba el número de exentos12; y, en lo que atañe a su posterior
extinción, (iii) la progresiva pérdida de atribuciones y capacidad de
acción, máxime tras la reforma de la planta efectuada en 1745 que
suprimía ciertos oficios13. Sin duda, esta interpretación, en la línea
de la revisión del orden político de la monarquía hispana del
setecientos efectuada por la historiografía más o menos reciente14,
enriquece sustancialmente el punto de vista anterior al contextualizar
el tema en el marco de las transformaciones derivadas del cambio
dinástico de principios de siglo, pero se asienta sobre unos
presupuestos aún poco documentados, máxime no habiendo como
no hay investigaciones específicas sobre dicha institución y los
pormenores de su evolución secular más allá del quinientos y
comienzos del XVII. Obviamente, no es mi propósito analizar aquí tan
vasto y complejo asunto, ni siquiera los años postreros hasta su
desaparición formal. Tan solo echar un poco de luz sobre la
mencionada reforma, respondiendo, en la medida de lo posible, a los
interrogantes antes planteados.
En materia de fuentes este trabajo se realiza con documentación
inédita del propio Consejo y de otras secciones del Archivo Histórico
riales”, salvo el mencionado de Castilla. En concreto, el Consejo de Flandes y Borgoña
se reorganiza en 1700 y desaparece dos años más tarde; el de Aragón también por un
decreto de 1707, mientras que el de Italia duró poco tras la pérdida de Sicilia, último
bastión de la protección europea de la Corona aragonesa. Por su parte, el de Indias fue
reestructurado en 1713 y en 1715 será objeto de una nueva reorganización a la que le
sigue la reforma de 1717. Aparte de los trabajos citados supra, nota 2, desde perspectiva
general, entre otros muchos, cf. J.A. Escudero, La reconstrucción de la Administración
Central en el siglo XVIII, in J.A. Escudero, Administración y Estado en la España Moderna,
Junta de Castilla y León, Valladolid, 2002, pp. 135-204 (135-171) [reed. cap. in La Época
de los primeros Borbones [= vol. XXIX/1 de Historia de España fundada por Menéndez
Pidal, dirigida por J.M. Jover Zamora], Espasa-Calpe, Madrid, 1985, pp. 81-175]; y R.
Vera Torrecillas, Felipe V y el reformismo centralista: El origen del sistema ministerial
español, «Derecho y opinión», 2 (1994), pp. 125-144 (136-142).
12
Algo a lo que se trata de poner remedio en 1728. J.L. Castellano, Gobierno y poder
en la España cit., p. 108, nota 21.
13
Ivi, pp. 104-112, 132-135. La cita remite solo a trabajos donde encontramos alusión expresa al asunto.
14
Cf. A. Domínguez Ortiz, Sociedad y Estado en el siglo XVIII español, Editorial Ariel,
Barcelona, 1976, pp. 84-103. J.A. Escudero, La reconstrucción de la Administración cit.,
pp. 81-175. F. Barrios, Los Reales Consejos. El gobierno central de la Monarquía en los
escritores sobre Madrid del siglo XVII, Universidad Complutense, Facultad de Derecho,
Servicio de Publicaciones, Madrid, 1988. Línea revisionista de planteamientos más narrativos, como por ejemplo los de W. Coxe, España bajo el reinado de la Casa de Borbón:
desde 1700 en que subió al trono Felipe V hasta la muerte de Carlos III, acaecida en 1788,
Biblioteca Popular (Mellado), Madrid, 1846-1847, que no obstante contiene datos de
suma utilidad.
323
María López Díaz
Nacional de Madrid (Ahn). En un primer momento pensaba
completarla y/o profundizar en ciertos aspectos derivados de la
aplicación de la reforma, utilizando para ello algunos de los expedientes
localizados en los fondos del Archivo General de Simancas, pero
desechamos la idea por razones de espacio o extensión. En lo tocante
a la (re)incorporación a la Corona de los oficios suprimidos empleamos,
aunque tampoco ahonde aquí en el asunto, algunas de las alegaciones
jurídicas, papeles e informes en derecho –también denominados
porcones15– presentados por los afectados en el proceso de recobro de
las dos contadurías mayores de Cruzada.
1. Antecedentes cercanos. Ensenada y los principios de la remodelación
Seis meses antes de concluir su largo reinado, Felipe V mudó la
planta del Consejo de Cruzada por un reglamento promulgado el 8
noviembre de 1745. No se trataba de una simple reestructuración sino
de una profunda remodelación que afectaría tanto al plenario y al
personal de las distintas oficinas como a su funcionamiento orgánico.
A diferencia de lo ocurrido con otros consejos, que sepamos, en este
caso no se había hecho ninguna otra reforma de calado desde 1691,
año en el que por decreto de 17 de julio Carlos II fijó la nueva planta
de dicho Tribunal, que en adelante estaría compuesta por un comisario
general (presidente), tres asesores o consejeros de otros tantos consejos
(uno del Real de Castilla, otro del de Aragón y el tercero del de Indias),
el Gran Canciller registrador mayor, un fiscal, dos contadores mayores,
un alguacil mayor, un tesorero general y un secretario. A estos habría
que añadir los oficiales de las dos contadurías y del resto de los
departamentos u oficinas –también denominados «estrados»16– amén
del personal técnico y subalterno17.
15
Sobre este género de la literatura forense ver, por todos, S.M. González Coronas,
Alegaciones e Informaciones en Derecho (porcones) en la Castilla del Antiguo Régimen,
«Anuario de Historia del Derecho Español», LXXIII (2003), pp. 165-192.
16
Ahn, Estado, lib. 2626, ff. 48v-63r (56v). A veces también llamadas “covachuelas”
(D. Ozanam, La diplomacia de los primeros Borbones, «Cuadernos de investigación histórica», 6 (1982), pp. 172.
17
Ahn, Consejos, leg. 7465, exp. 4: Copia incluida en el expediente de una de las
porterías supernumerarias. En ese mismo año, Carlos II también reforma la planta de
otros consejos, como el de Órdenes, por decreto de 10 de abril (J.A. Escudero, La reconstrucción de la Administración cit., p. 145) o el de Hacienda (T. García-Cuenca Ariati, El
Consejo de Hacienda (1476-1803), in M. Artola (ed. e introducción), La economía española
al final del Antiguo Régimen. IV, Instituciones, Alianza Editorial, Madrid, 1982, pp. 403500 (esp. 432). Para reformas en el reinado de Carlos II en otras parcelas de la Real
Hacienda, J.A. Sánchez Belén, La política fiscal en Castilla durante el reinado de Carlos
II, Madrid, Siglo XXI, 1996, pp. 49-54 y 287-319.
324
La reforma del Consejo de Cruzada de 1745: preámbulo de su desaparición
Con todo, entre ambas fechas sí pudieron efectuarse retoques en la
plantilla. Así se desprende al menos de algunos de los documentos
consultados. El primero lo llevaría a cabo Felipe V recién iniciado su
reinado, mediante otro decreto de 14 de marzo de 1701: en realidad
apenas cambia lo dispuesto en 1691, si bien obliga a que se cumpla18.
Por referencias indirectas nos consta que hubo otro intento de
reorganizar la planta del consejo a principios de los años 30,
coincidiendo con el encumbramiento de Patiño, posiblemente después
del éxito que cosechó con la conquista y recuperación del doble presidio
de Mazalquivir-Orán en 173219. La decisión venía además precedida de
un episodio protagonizado por el entonces comisario general a principios
del año 1733, que parece lo suficientemente importante como para
desafiar a la autoridad del rey, al negarse aquel a subdelegar el cargo,
por su enfermedad, en la persona designada por el monarca, que no era
otra que fray Gaspar de Molina20. En puridad no debería influir pero no
es improbable que lo hiciera, pues Patiño remitió un oficio al Consejo
pidiéndole que informase sobre quienes lo integraban y sus
competencias, los sueldos y los gastos ocasionados al fisco por el
personal, así como lo que se podría ahorrar en costes de funcionamiento.
Me consta que el informe le fue remitido el 26 de febrero de 1734. Pero
el proyecto de reforma, si es que se llegó a redactar, no debió contar con
el plácet regio para su aprobación.
Sea como fuere, el reglamento de 1745 se gestó de una manera
diferente y tuvo también un resultado diverso. De entrada, se concreta
en un reglamento aprobado el 8 de noviembre. A juzgar por los trámites
de ejecución, esta vez quien estuvo detrás y fue su directo responsable
(seguramente también el que lo ideó y escribió) fue Zenón de
Somodevilla, marqués de la Ensenada. De hecho es quien lo refrenda
en su condición de ministro del Consejo de Estado y secretario del
Despacho, a pesar de que el Consejo de Cruzada no caía directamente
bajo su campo de acción sino de la del marqués de Villarías, Sebastián
de la Cuadra, entonces secretario de Gracia y Justicia. Sin embargo,
podía intervenir –y solía hacerlo aunque fuera de forma indirecta– en
los asuntos de este consejo por estar bajo su mano las áreas del Ejército,
la Marina y la Hacienda, desde cuyas secretarías se permitía influir e
introducirse también en los negocios de Estado. De ahí que fuera quien
Ahn, Estado, leg. 3233-1, s.f.: Madrid, 30 de julio de 1711.
Sobre la política norteafricana española de los primeros Borbones, cf. M.A. de
Bunes Ibarra, El cambio dinástico y la política española en el norte de África, in J. Fernández García, M.A. Be Bravo, J.M. Delgado Barrado (eds.), El cambio dinástico y sus
repercusiones en la España del siglo XVIII, Universidad de Jaén, Diputación Provincial
de Jaén, Jaén, 2001, pp. 53-66. Y sobre los honores que Patiño recibió por el trabajo y
acierto de esta expedición, J.L. Castellano, Gobierno y poder en la España cit., p. 106.
20
Ivid, p. 108. Ahn, Estado, leg. 3233-2, s.f.
18
19
325
María López Díaz
remitiese al comisario general y presidente del Consejo, Domingo
Bustamante, el nuevo reglamento y también otros decretos sobre la
«consistencia de las tres gracias de Cruzada, subsidio y excusado y
demás ramos agregados» y sobre el modo en que debía distribuirse su
producto, incluyendo entre sus destinos la plaza de Orán que antes no
lo estaba. De igual forma fue quien mandó imprimir varias copias de las
nuevas disposiciones para distribuir entre los ministros y oficinas de
Cruzada y quien luego informará sobre los nombramientos que hace el
monarca para los nuevos cargos21. Ya como secretario del Despacho de
Guerra, Marina y Hacienda también hace llegar al tribunal otras
instrucciones de su departamento relativas al gobierno de Cruzada, los
presidios de África y la Escuadra de Galeras de España22.
Por otra parte, a diferencia de lo ocurrido en los años 1730 y con las
reformas efectuadas en otros consejos por el gobierno filipino23, esta
vez, previamente a su aprobación, el rey no consultó ni solicitó
información alguna al Consejo afectado. Sí me consta por un
documento posterior que en mayo de 1745 Ensenada ordenó que don
Francisco Triget –comisario ordenador o contador principal de Marina,
que ese mismo año obtuvo el título de marqués de Malespina24– tratara
con el comisario general sobre el «método y reglas» que luego fijaría el
decreto de 8 de noviembre. Lo cual no debió de hacer, pues un mes
después el Consejo molesto, en consulta elevada al rey (sesión del 11
de noviembre), protestaba quejándose de su forma de proceder; a lo que
el monarca respondió con firmeza y sin dar opción a réplica, que
cumpliera con lo dispuesto25. Más allá de lo señalado, el incidente revela
la existencia de un cierto descontento en el principal responsable de la
institución por el modo de tramitar el nuevo reglamento –quizás la vía
reservada–, pero sobre todo por su contenido, que no es ajeno a la vieja
pugna existente entre los Consejos de Cruzada y Hacienda26. Lo mismo
cabe decir de los otros reglamentos aprobados durante ese mismo mes
de noviembre para «el gobierno y subsistencia de los presidios de África
y de la Real Escuadra de Galeras». Son hechura de Ensenada y de la
Secretaría del Despacho de Hacienda, Guerra y Marina que, como se
verá, es pieza central y el mayor beneficiado de la reforma27.
Ahn, Consejos, lib. 2620, ff. 158-160.
Ivid, f. 176v.
23
J.A. Escudero, La reconstrucción de la Administracion cit., p. 151 pássim.
24
M. del C. Irlés Vicente, Los extranjeros en la administración corregimental española
del siglo XVIII, in M.B. Villar García, M. Pezzi Cristóbal (eds.), Los extranjeros en la
España Moderna, Gráficas Digarza, Málaga, 2003, 2 tms., II, pp. 439-450 (447).
25
Ahn, Consejos, lib. 2631, ff. 247v-248r.
26
Cf. J. Martínez Millán y C.J. De Carlos Morales, Los orígenes del Consejo cit., p.
922; J.E. Hortal Muñoz, El Consejo de Cruzada cit., pp. 101, 105, 106 y 119.
27
Ahn, Consejos, lib. 2631, ff. 172v-174v.
21
22
326
La reforma del Consejo de Cruzada de 1745: preámbulo de su desaparición
En cuanto a los motivos de la misma, según el texto del decreto con
la nueva planta se pretendía aumentar los ingresos y la disponibilidad
de los fondos de Cruzada y recortar ciertos gastos ordinarios, para así
poder financiar con los caudales de las tres Gracias y ramos agregados
no solo los presidios de África (Ceuta, Peñón, Melilla y Alhucemas) y
las galeras de la Escuadra de Galeras de España, como se había venido
haciendo hasta entonces, sino también la plaza de Orán y sus castillos
«que han sido asistidos por mi Real Hacienda». Para tal fin se estimaba
que era imprescindible «moderar en todo lo posible [sic] en la Corte» y
establecer un nuevo método «para que esos caudales se manejen con
la economía que importa, y llenen [sic] los destinos de su concesión,
sin invertirse en otros fines». Como medidas concretas para lograrlo,
por un una parte, se establecía un nuevo método contable regulado
con exhaustividad que centralizaba toda la información relativa al
«manejo y administración de estos caudales» (distribución del dinero)
en un único departamento u oficina (la Contaduría Principal de
Cruzada al frente de la cual está el contador principal), orgánicamente
integrada en el Consejo pero también vinculación a la Secretaría de
Hacienda. Y, por otra, se modificaba la planta de dicho tribunal
quedando a partir de entonces compuesta por un presidente (el
comisario general) y nueve ministros (consejeros), además de un
número fijo de oficiales y personal. Correlativamente, se suprimían las
dos contadurías mayores con sus respectivas mesas y se regula la
categoría y las retribuciones de todos los empleados del Consejo tanto
de la corte como de fuera28.
Con esa misma perspectiva de ahorro el decreto especificaba
también las dotaciones fijas consignadas sobre los fondos de Cruzada
según «la concesión de las bulas de vivos, difuntos y composición», a
saber: un cuento de reales de vellón cada sexenio para la fábrica de
San Pedro (a pagar en los cinco últimos años del mismo), y otros
90.000 rvs en los mismos seis años a la fábrica de San Juan Laterano.
Como gastos ordinarios señalaba asimismo las «mercedes vitalicias»,
que incluyen el abono de 3.750 rvs mensuales a la marquesa de Santa
Cruz del Marcenado según lo establecido en el decreto de 16 de
diciembre de 1733 por haber fallecido su marido, comandante del
presidio de Orán, a manos de los infieles; otros 1.500 rvs anuales a
doña Juana de la Quadra y Ulloa por los emolumentos de media
portería del Consejo; y a Francisco Pérez de Zárate, que había ejercido
como teniente de portero, 1.100 rvs al año que le asignó el Consejo por
su mérito y avanzada edad29.
28
29
Ivid, lib. 2620, ff. 160r-172v (es. 160v).
Ivid.
327
María López Díaz
Lógicamente, una remodelación de tal envergadura no podía dejar
de suscitar resistencias entre los afectados. Los primeros en oponerse
son los más directamente perjudicados: el comisario general como
presidente de la institución y los dos contadores mayores con asiento
de consejeros cuyos oficios quedaban suprimidos. En su caso de nada
sirvió que, abordando el asunto en términos patrimonialistas, Felipe V
indicara en el propio reglamento que era su voluntad que a los titulares
de los empleos suprimidos que los «beneficiaban» merced a un servicio
pecuniario o «contrato oneroso» se les restituyesen «las cantidades de
capitales que hubiesen aportado a la Real Hacienda» (se sobreentiende,
ellos o sus antecesores), ni tampoco que por resoluciones a los recursos
que presentaron Fernando VI, en una disposición aclaratoria, les
reconociera de manera expresa el derecho a ser oídos en audiencia de
partes o con figura de juicio30 Las medidas tomadas evidencian la firme
voluntad del nuevo monarca y su ministro de seguir adelante con la
reforma; y también la de hacer valer el superior interés de la causa
(utilidad) pública, en que funda dicho precepto, frente a cualquier
derecho particular, como son los de los afectados31.
Con ese mismo propósito en los días y semanas posteriores se
aprobaron otros reglamentos que precisaban o suplementaban lo
regulado en el de reforma del Consejo, como el de 9 de noviembre (la
fecha no parece fortuita; anótese, solo un día después de aquel) por el
que se suprimía el astillero de Atarazanas de Barcelona estableciendo
la construcción de galeras en Cartagena32. En concreto, en lo
concerniente al manejo y destino de los caudales de Cruzada, la
Secretaría de Estado y del Despacho de Guerra expidió cuatro decretos
sobre el modo de gobernar y financiar los presidios de África y la
veeduría de Málaga «correspondientes a guerra». De nuevo es
Ensenada quien previene al comisario general para que trate el asunto
en el Consejo33. Pero, como este todavía no había deliberado sobre la
nueva planta, Domingo Bustamante en su respuesta aprovecha para
Ahn, Estado, leg. 1480, ff. 56r-57r.
Ahn, Consejos, lib. 2620, ff. 269-271. BXUSC, Fondo Antiguo, 23105, 6; Foll. Cap.
51-11. Para ejemplo de otras medidas en la misma línea, cf. P. Fernández Albaladejo,
Cambio dinástico, monarquía y crisis cit., pp. 400-406.
32
P. Fondevila-Silva, Las galeras de España en el siglo XVIII, «Revista General de la
Marina», 247, Agosto-Septiembre, 2004, pp. 223-237. Para más información sobre la
Escuadra de Galeras de España, véanse J.J. Sánchez-Baena, P. Fondevila-Siva, C.
Chain-Navarro, Los Libros Generales de la Escuadra de Galeras de España: una fuente
de gran interés para la Historia Moderna, «Mediterranea. Ricerche Storiche», 26 (2012),
pp. 577-602. Y para la gente de galeras de la etapa de los Austrias, J.M. Marchena Giménez, La vida y los hombres de las galeras en España (S. XVI-XVII), Tesis de doctorado,
leída en la Universidad Complutense de Madrid, 2010 (en red: http://eprints.ucm.
es/12040/1/T32670.pdf).
33
Ahn, Consejos, lib. 2620, ff. 176v.
30
31
328
La reforma del Consejo de Cruzada de 1745: preámbulo de su desaparición
justificar el retraso, achacándolo a la enfermedad de un consejero, a
la par que advierte, con manifiesta intencionalidad, que «se necesitaba
algún tiempo por lo dilatado y graves [sic] de los asumptos que
comprehende». Sobre las nuevas instrucciones, en las que se
especificaba cómo se debía asistir económicamente a la plaza de Orán
y los demás presidios de África con fondos de las tres Gracias de
Cruzada, Subsidio y Excusado, consignando créditos para la primera
contra Cruzada de Cataluña, pone reparos para hacerlo con la
urgencia que se requería, llamando la atención sobre los
inconvenientes que se derivaban del nuevo sistema, incluido el riesgo
de que los caudales indicados salieran inciertos por no ser fiables las
cifras que el secretario de Guerra y Hacienda manejaba en sus
disposiciones. Y remata con una aguda apreciación que encierra una
clara crítica al cambio establecido, señalando que si lo que se perseguía
era ahorrar y agilizar la asistencia a los presidios, con el nuevo
procedimiento lo que en realidad se lograba era todo lo contrario:
incrementar el gasto por los costes añadidos de conducción del dinero
al tener que enviar los dineros desde la pagaduría catalana a un lejano
destino34.
Cabía discutir algunos supuestos de las medidas adoptadas pero
no el proyecto en sí. En este punto concreto el rey y su ministro de
hecho rectifican con una nueva orden «para atender con más
puntualidad a estas obligaciones [presidios]», en la que, reconociendo
lo certero de algunos de los reparos señalados por la Comisaría de
Cruzada, dispuso que siempre que en las providencias dadas para la
asistencia de los presidios hubiese gastos de conducción de caudales
de unos lugares a otros de España «me lo avise [Ensenada], para que
poniéndole yo donde se necesite le aplique donde V.I. tenga». Pero,
aparte de ello y tanto o más importante, prueba también la firme
voluntad del monarca de colocar al frente del manejo y distribución de
estos caudales al secretario de Guerra y Hacienda; que este pudiera
introducirse, junto al comisario general, en el manejo, gobierno y dar
providencias concernientes a los presidios y galeras, tal y como
sucediera antes del año 1725, en que por una real orden del mes de
diciembre el propio Felipe V vetó la intervención en estos fondos de
cualquier ministro de Hacienda35. En cierto sentido explica la
seguridad con la que Ensenada responde cuando informa sobre el
particular a Bustamante, declarando, no sin ironía, que las objeciones
planteadas «solo pueden ser falibles [sic] si las noticias sacadas de las
contadurías de Cruzada no fuesen ciertas, pero como no se duda de
34
35
Ahn, Consejos, lib. 2620, ff. 172v-173r, 175v.
Cf. J. Fernández Llamazares, Historia de la Santa Bula de Cruzada cit., p. 205.
329
María López Díaz
su evidencia, tampoco V.I debe dudar de los reglamentos»36. Una
afirmación acorde con la defensa y alta estimación en que siempre tuvo
las «certificaciones de las contadurías generales» como documentos de
«fe y crédito» en materia de cuentas37.
Con todo, no era menor la inquietud ni los reparos que suscitó la
nueva planta entre el resto de miembros del Consejo. Pronto pudieron
comprobarlo Felipe V y su ministro. Con el mismo propósito de
demostrar que la reforma no se justificaba a partir del ahorro ni de
una pura racionalidad económica o mejora del rendimiento perseguido
por la Real Hacienda, en fechas posteriores, el pleno de aquel también
se opuso e hizo alegaciones en contra en contra del reglamento
reglamento, aunque no con la contundencia y rapidez que cabría
esperar teniendo en cuenta la trascendencia de los cambios que
implicaba. Fuera por esa tibieza, por la propia dilación en desplegar sus
actuaciones o sencillamente por la firmeza con la que procedió la
monarquía en el asunto, lo cierto es que, conforme a lo establecido, el
1 de enero de 1746 empezó a regir y funcionar la «nueva planta» al
tiempo que cesaron en su actividad las dos contadurías mayores
suprimidas. De hecho, los titulares de los oficios afectados dejaron de
ejercer su empleo, liquidándoseles a posteriori sus emolumentos hasta
la fecha; y, viceversa, los nuevamente creados, como el contador
principal designado por el rey, empiezan a desarrollar su tarea38. De
nada sirvieron las representaciones y los recursos presentados por los
principales afectados, insistiendo en lo perjudicial e improcedente de
las medidas adoptadas. Ni tampoco cambió nada el fallecimiento de
Felipe V en julio de 1746, pues Fernando VI no solo asumió el proyecto
como propio prosiguiendo con su ejecución –Ensenada es el eslabón de
esta cadena y representa el continuismo, que en estos momentos y para
este caso era una razón nada desdeñable–, sino que el nuevo monarca
y su también ministro incluso irán más lejos en la línea de acción
emprendida, llevando a cabo la supresión del Consejo, subrogando en
su lugar un Juzgado competente –la «Dirección y Contaduría general
de las Tres Gracias de Cruzada, Subsidio y Excusado»– que inicia su
andadura el 1 de julio de 175039. Pero para ello aún deberán pasar unos
Ivid, ff. 173r-174r.
Vid. su “Representación a Fernando VI de 1751” (A. Rodríguez Villa, Don Cenón de
Somodevilla Marqués de la Ensenada: ensayo biográfico, Librería M. Murillo, Madrid,
1878, p. 113). Cf. D. Ozanam, Notas para el estudio de los presupuestos de la monarquía
española a mediados del siglo XVIII, in A. Otazu (ed.), Dinero y crédito: Siglos XVI al XIX.
Actas de Primer Coloquio Internacional de Historia Económica (1º 1977), Librería Pérez
Galdós, Madrid, 1978, pp. 60-61.
38
Ahn, Consejos, lib. 2620, f. 158v.
39
Ahn, Consejos, leg. 7126, exp. n.º 5. Real decreto de 10 de junio de 1750 recopilado
in Novísima Recopilación, lib. II, tit. 9, ley 12.
36
37
330
La reforma del Consejo de Cruzada de 1745: preámbulo de su desaparición
años y generarse un contexto propicio a la liquidación40. De momento
solo puedo decir que no es un asunto desligado de la reforma que aquí
se analiza. Y que esta, como otras providencias tomadas durante estos
años (1743-1746/1747), son el punto de arranque o impulso de una
línea de cierta gradación que quizás trate de evitar brusquedades en
un movimiento reformista que se irá implementando paulatinamente
con nuevas medidas41. Detrás está desde luego el marqués de la
Ensenada, y seguramente también los grupos de presión o el clima de
partidos que entonces existía en la corte42.
2. El motor del cambio. Gestión y control de los fondos de las Tres Gracias
A tenor de lo dicho la reforma tenía como uno de los principales
objetivos mejorar el control sobre el manejo de las rentas eclesiásticas
y acabar con algunos de sus problemas endémicos, como la excesiva
autonomía y posibles corruptelas existentes en los distintos niveles de
la administración de las tres Gracias y el financiamiento de los presidios
militares y de las galeras a que iban destinadas. Una mejora que se
procura, entre otras medidas, con la intervención de la Secretaría de
Hacienda en el manejo e inspección de estos fondos, convirtiéndolos de
esta forma casi en un ramo más de la Real Hacienda. Algo que la
monarquía española ya había hecho en etapas pretéritas, destinando a
veces estos recursos para fines distintos a los consignados en los
documentos pontificios43. En esta ocasión Felipe V lo hace involucrando
a la Secretaría de Hacienda, de modo que el manejo de ese dinero
estuviera mutuamente y en todo momento controlado por quien lo
ordenaba, quién lo hacía efectivo y quién lo fiscalizaba; es decir, por
negociados o instancias tanto de Cruzada como del ramo Hacienda. La
intervención de los órganos hacendísticos no era estrictamente nueva,
40
Es este, el de la supresión formal del Consejo de Cruzada y asunción de parte de
sus competencias por un departamento dependiente de la Superintendencia General de
la Real Hacienda, un asunto en el que ahora no puedo detenerme, que requiere un análisis específico. Espero poder hacerlo en un próximo trabajo que dé continuidad al presente.
41
Cf. P. Fernández Albaladejo, Cambio dinástico, monarquía y crisis cit., pp. 407-408.
42
Cf. D. Gómez Molleda, Viejo y nuevo estilo político en la corte de Fernando VI,
«Eidos», 1957 (6), pp. 43-76; R. Olaechea, Política eclesiástica del gobierno de Fernando
VI, in La época de Fernando VI, Oviedo, 1981, pp. 139-225 (esp. 140-154, 199-203); J.L.
Gómez Urdáñez, El proyecto reformista de Ensenada cit., pp. 220-236; Carvajal y Ensenada, un binomio político, in J.M. Delgado Barrado, J.L. Gómez Urdánez (coords.), Minis tros de Fernando VI cit., pp. 79-80; y en la misma monografía, C. González Caizán, El
primer grupo de hechuras zenonicias, pp. 175-202.
43
Para ejemplos, vid. J. Fernández Llamazares, Historia de la Santa Bula cit., pp.
203-205; y esp. para siglos XVI-XVII, J. Martínez Millán y C.J. De Carlos Morales, Los
orígenes del Consejo cit., p. 922.
331
María López Díaz
y no me refiero solo a la fiscalización última de la gestión económica de
los mismos que habría de hacer la Contaduría Mayor de Cuentas, pues
sabemos que en los siglos XVI y sobre todo XVII el Consejo de Hacienda
tuvo un activo papel, junto con otros, a la hora de organizar y garantizar
todo lo aprobado por el de Guerra y Estado, que en última instancia
era quien decidía44. Como tampoco son extrañas sus disputas con el de
Cruzada por el control operativo y la distribución de estos recursos45.
Lo novedoso esta vez es que la medida se toma con el consentimiento
de la Santa Sede, después de cuatro décadas de complicadas relaciones
con la monarquía española, y que pone en marcha un camino sin
retorno que acabará secularizando la administración y exacción del
producto de las rentas eclesiásticas –incluida la bula de la Santa
Cruzada–, dejándolas finalmente solo en manos de la Corona46. Desde
el punto de vista institucional, sienta las bases para una reforma más
profunda que culminará pocos años después con la supresión del
Consejo, que no es ajena a los planteamientos regalistas del reinado de
Felipe V y del debate también regalista de mediados de siglo en el
mundo católico que procuran recuperar espacios jurisdiccionales
fundamentales para la monarquía47.
Respecto al primer aspecto, un factor clave en el planteamiento de
la reforma fue la recuperación de la armonía y buena gestión de la
diplomacia española en la Curia Romana, coincidiendo con el pontificado de Benedicto XIV48. Precisamente en este contexto se inscriben
algunos de los logros de los legados reales, como el breve de 25 de
marzo de 1745, que autorizaba al monarca a utilizar los caudales de
Cruzada para atender al mantenimiento y financiación de la ciudad de
Orán y sus castillos del mismo modo que al resto de presidios
norteafricanos del Peñón y Melilla49; o el expedido dos días antes (23
J.M. Marchena, La vida y los hombres de las galeras cit., pp. 37-38.
J. Martínez Millán y C.J. De Carlos Morales, Los orígenes del Consejo cit., p. 911;
J.E. Hortal Muñoz, El Consejo de Cruzada cit., pp. 101ss, 117-122.
46
Para Cruzada en Indias, J.A. Benito, La Bula de Cruzada cit., pp. 52-53, 58-59.
47
Cf. P. Fernández Albaladejo, Cambio dinástico, monarquía y crisis cit. Y para contexto más amplio y debate regalita en el ámbito católico vid. C. Continisio y C. Mozzarelli
(a cura di), Repubblica y virtù: pensiero político e monarchia cattolica fra XVI e XVII secolo,
Bulzoni, Roma, 1995, en especial el replanteamiento de algunos puntos esenciales del
mismo de J.M. Portillo Valdés, Algunas reflexiones sobre el debate regalista del setecientos como precipitado histórico del área católica, pp. 93-108.
48
Sobre su pontificado y relaciones con la Monarquía hispana, cf. J.M. Yanguas y
Messía, La embajada de España en Roma durante el siglo XVIII (Conferencia), Ministerio
de Asuntos Exteriores, Madrid, Curso 1945-1946; Pastor, Ludovico, Barone von, Historia
de los Papas, Gustavi Gili, Barcelona, 1910-1961, 39 vols. Algunos datos también, J.
Macías Delgado, La agencia de preces en las relaciones Iglesia-Estado español (17501758), Ministerio de Asuntos Exteriores, Madrid, 1994, esp. pp. 69-86, 194-200.
49
Ahn, Consejos, lib. 2620, f. 175v; J. Fernández Llamazares, Historia de la Santa
Bula cit., pp. 205-206.
44
45
332
La reforma del Consejo de Cruzada de 1745: preámbulo de su desaparición
de marzo), que consentía que la vacante del comisario general de
Cruzada, por el fallecimiento en 1744 del cardenal Molina sin haber
nombrado subdelegado, fuera ocupada por «el Inquisidor general o
Patriarca de las Indias, u otra persona constituida en dignidad
eclesiástica» nombrada por la Corona, en contra de lo ocurrido en 1703
cuando se planteó el mismo problema, en que su homónimo ignoró la
petición del embajador español50. No fueron los únicos logros de la
diplomacia española en Roma durante estos años. En 1745 se empieza
a negociar también la prórroga de las tres Gracias que el nuevo
comisario solicitó formalmente el 26 de marzo en un escenario no
especialmente hostil. Y es que un año y medio antes el mismo Pontífice
ya había accedido a otra petición de la corte filipina, autorizando, por
un breve 4 de diciembre de 1742, las ventas de empleos de Cruzada
efectuadas por la Corona a seculares, con la única prevención de que
el dinero se emplease solo en «usos y causas según las concesiones
apostólicas junto con los otros caudales y emolumentos de Cruzada o
subsidio»51. Aunque el documento tenía trascendencia jurídica –de
hecho lo alegan como fundamento de derecho los contadores mayores
cuyos oficios fueron suprimidos con la reforma52–, a donde parece ir
dirigido es al lucrativo mercado de Indias. No en vano allí el monarca
aún seguía «beneficiando» y enajenando oficios de Cruzada en la
primera mitad del siglo XVIII53.
Sea como fuere, para lo que ahora nos ocupa el primer breve será
el determinante, pues está detrás de la reglamento de 1745. Un
reglamento que, aparte de fijar la estructura y competencias de la
nueva y todopoderosa Contaduría Principal (por la información que
acumula), regulaba minuciosamente las funciones y obligaciones de
los distintos oficiales de rey e instancias con responsabilidad en la
gestión y control de estos fondos, empezando por el comisario general.
Según la nueva instrucción, este debía tener conocimiento de todos los
decretos y reales órdenes que fueran expedidos para el «gobierno de la
quenta, y razón de los caudales y distribución» tanto en las oficinas de
la corte como en los presidios de África y mantenimiento de las galeras.
Para ello debería ser puntualmente informado de cualquier novedad,
a fin de poder tomar las providencias convenientes, y de forma regular
cada mes. También debería tener conocimiento sobre la manera en que
los asentistas atendían a los presidios y a las galeras de la Real
Ivid, pp. 127-128.
Ahn, Consejos, lib. 2625, ff. 75r-76r, 194r-195v; lib. 2631, ff. 246v-247r.
52
Ivid, 194-195. Para los últimos, BXUSC, Fondo Antiguo, 23105, 6, f. 19 v.
53
Cf. J.A. Benito, Organización y funcionamiento de los tribunales de Cruzada en
Indias, «Scielo. Revista de estudios histórico-jurídicos», 22 (2000), pp. 1-16 (6). Y para
época de Patiño, Ahn, Consejos, lib. 2619, ff. 287v-288.
50
51
333
María López Díaz
Escuadra española y del dinero que había en las arcas del pagador,
para poder así disponer y acudir a los socorros de dinero de la manera
más conveniente. Igualmente, debía velar porque se cumplieran las
instrucciones reales, y dar órdenes a los administradores de bulas o
cabildos de las provincias para hacer las entregas de dinero a los
pagadores (de los mencionados presidios y embarcaciones) con las
formalidades establecidas en la Contaduría Principal de Cruzada,
previniendo a esta de las mismas para que las registre y tenga
presentes en sus libros. Además, como presidente del Consejo también
tendría que estar enterado de los gastos derivados del funcionamiento
ordinario de este organismo y sus oficinas; a saber, del coste de los
«estrados», el escritorio y alquiler de la casa para la Contaduría
Principal54, despachos e impresiones para la publicación de la bula,
etc. Resumiendo, el comisario general de Cruzada, por facultad
pontificia, seguía siendo el centro del aparato administrativo que
gobernaba y gestionaba todo lo relacionado con las llamadas tres
Gracias, el elemento primordial del Consejo de Cruzada55, pero su
capacidad de actuación estaría controlada e intervenida por oficiales e
instancias del poder real.
Es el primero el contador principal (otras veces y en otros
documentos denominado contador general), que asume las competencias de los antiguos contadores mayores y sus respectivos
estrados pero incorpora también otras nuevas. Como aquellos, tenía
«asiento y voto de consejero de Cruzada… en todas las materias de
Hacienda, Gobierno y Gracia», pero no será un cargo patrimonializado
sino un ministro designado por el rey y con mandato temporal. Además
de nombrar a los oficiales de su negociado, su cometido era llevar la
contabilidad detallada de todo lo relativo a la gestión de los medios y
recursos financieros de Cruzada. Esto incluía centralizar las decisiones
y el control de toda la información concerniente, pudiendo dar cuenta
total o parcial de las disponibilidades precisas (efectivo) de caudales
«con cierta fiabilidad» siempre y cuando fuera requerido. Para ello debía
tener libros detallados e individualizados de los asientos de todos los
ministros (comisario general y de los denominados «ministros de tabla»)
y empleados del Tribunal y Contaduría, así como de cualesquier otros
54
Oficinas sitas en una casa junto a la parroquia San Juan de Madrid (J. Goñi Gaztambide, Historia de la Santa Bula cit., p. 202).
55
También disponía de amplísimas facultades tanto en materia de nombramiento
de oficios de Cruzada de los distintos territorios de la monarquía como en el de los permisos pertinentes para la publicación y difusión de impresos piadosos. González Dávila,
Teatro de las Grandezas de Madrid cit., p. 520; y para los comisarios de Cruzada en la
América española, I. Sánchez Bella, La organización financiera de las Indias. Siglo XVI,
Escuela de Estudios Hispano-Americanos, Sevilla, 1968, pp. 109, 120 y 228; J.A. Benito,
La Bula de Cruzada cit., pp. 117-118.
334
La reforma del Consejo de Cruzada de 1745: preámbulo de su desaparición
individuos que gozasen de sueldo de Cruzada en los distintos presidios
o parajes donde estuvieran destinados; y también sobre los
nombramientos y las órdenes originales dirigidos a su departamento.
Para un eficaz y preciso control de los dineros, estaba asimismo
obligado a tener libros cuentas separados: uno de los cargos formados
al tesorero (por las “cartas de pago” despachadas a los administradores
de las bulas) y otro (2.º) con las copia de dichas cartas; un 3.º de los
cargos de los tesoreros particulares, tanto de los presidios como de
galeras (desglosados por lugares), según las cartas de pago dadas a
favor del tesorero general o administradores de bulas o cabildos,
conforme a lo dispuesto por las órdenes o decretos que expidiera o
avalara el comisario general, para saber así de qué cantidades se
responsabilizaba cada pagador al liquidar sus cuentas en la
contaduría. Igualmente, otro cuarto libro de los cargos particulares,
ordenado alfabéticamente, donde se debía consignar lo librado por
orden del comisario general en los asentistas o proveedores de víveres,
vestuarios u otros géneros; y dos más (5.º y 6.º) sobre los mismos
pliegos de cargos particulares y sobre los títulos de pliegos satisfechos,
ambos siguiendo también el orden alfabético. Es decir, que debía ser
y/o estar informado de todas las providencias que diera el comisario
general, individualmente o asesorado por el Consejo, relativas a la
«distribución, manejo o aplicación de [estos] caudales», ya fuera en
virtud de sus facultades o bien por mandato u «órdenes particulares
del monarca».
Para garantizar la «legalidad» de las cuentas, y seguramente también
para corregir algunos de los males del sistema en materia de tesorería
y control dinerario, a mayores se adoptan ciertas precauciones. Así,
según la nueva disposición, era obligado hacer la «confrontación» de
las diferentes partidas que componían las cuentas de los libros de la
Contaduría Principal con los instrumentos del tesorero general. Y este
cotejo debería realizarlo dicha contaduría «indispensablemente» cada
tres meses, sacando una relación de los cargos y datas firmada por el
contador general que habría de remitir al comisario general. El
contador cada seis meses debería asimismo formar otra «relación de
cargos y datas del tesorero general» y remitírsela también al comisario
general, quien a su vez la habría de «pasar a la Secretaría del Despacho
de la negociación de Hacienda, con expresión de lo que faltare por
cobrar de los Administradores de Bulas y Cavildos de los plazos
cahidos, y de las diligencias que se siguieren para su cobranza». Aquí
aparece la segunda institución clave de ese sistema de contrapuntos e
intervención que se introduce en el manejo y contabilidad de los
caudales de Cruzada: una Secretaría del Despacho –bajo la dirección
de Ensenada, que recordemos también era secretario de Guerra,
Marina e Indias (los fondos de Cruzada de Indias disponen de
contadurías separadas)– al que no solo afluiría toda la información
335
María López Díaz
contable, teniendo por tanto conocimiento de dónde había recursos
disponibles y cuáles eran las necesidades reales, sino que, como ya
señalé, también poseería capacidad de acción pudiendo tomar
providencias al respecto.
Habida cuenta de que correspondía al contador principal reconocer
los instrumentos de justificación en virtud de los cuales se efectuaban
los pagos o satisfacían los créditos de las cantidades solicitadas por
las partes a cargo del producto de Cruzada y su Tesorería General, en
la instrucción también se especificaban con sumo detalle las
formalidades que debían observarse en el despacho de dichas libranzas
así como en esos instrumentos que los interesados deberían presentar
ante la Contaduría para que fueran reconocidos por el contador y «dar
paradero de las resultas en caso de tenerlas». De igual forma deberá
llevarse un «libro de registro de la data del Tesorero», foliado y dividido
en clases, con distinción de lo pagado por sueldos, asientos de
vestuarios y víveres, gastos extraordinarios, pensiones, gastos de
justicias y demás, donde quedarían anotadas las libranzas que
despacharen y lo ejecutado en la clase correspondiente, rubricando el
contador la copia que habría de hacerse acompañada de ciertos
requisitos, archivándose luego por clases y meses.
En la referida Contaduría Principal también deberían presentar
sus cuentas anualmente, y era competencia del contador
tomárselas, a los pagadores de los presidios y el de galeras o
cualquier otro individuo implicado en la distribución de estos
caudales. Se regulan asimismo con toda minuciosidad la manera
en que debían hacerlo, así como los recaudos, relaciones,
ajustamientos, revistas y demás justificantes necesarios para que
en dicha oficina «se reconozcan y comprueben». También se
especifica cómo tenía que justificar cada pagador las entradas y
salidas de dinero y el modo de presentar los libros y las cartas de
pago correspondientes ante el tesorero general, obligando a
fenecerlas en el tiempo que estaba predefinido. En un cierto efecto
complementario, de este modo la Contaduría quedaría informada
«del giro y paradero» de dichos caudales y también de su
disponibilidad, pudiendo «dar la razón y noticias que fueren
convenientes a mi Real Servicio». Yendo incluso más allá, para no
trabajar a ciegas y poder informar cuando lo requiriese el comisario
general de los recursos existentes (dineros reales), y efectuar
cualquier previsión de fondos, incluso antes de que dichos
pagadores hubieran presentado y cerrado sus cuentas anuales,
estos deberían presentar ante aquel relaciones mensuales precisas
de los caudales recibidos y distribuidos, con distinción de las
partidas intervenidas por los veedores de las plazas o el ministro
respectivo inmediato de cada paraje. Y aquel, a su vez, debía remitir
dicha información a la Contaduría Principal, «para que en ella se
336
La reforma del Consejo de Cruzada de 1745: preámbulo de su desaparición
reconozcan y archiven a los fines que convenga», incluso para poder
informar al comisario general cuando lo solicitase.
En cuanto a la recaudación de los caudales de bulas, en manos de
particulares que por asiento se obligaban a administrar durante un
tiempo el producto de una o más provincias bajo ciertas condiciones y
ventajas, la Contaduría Principal también debía llevar cuenta en un
libro de la relación de esos administradores, en el cual cada uno
tuviera formados sus pliegos de forma separada junto con la
información relativa al asiento o contrato (fechas y principales
circunstancias del mismo, cantidades que debía entregar y plazos) y a
las partidas (o pagos) que fuese entregando (según el método
establecido), para que al concluir el asiento o anualmente el contador
principal pudiese informar al comisario general, y este u otra instancia
competente providenciar lo que correspondiera. Igualmente, debía
tener otro libro con lo que tenían que abonar los cabildos por el
subsidio y excusado, así como las pensiones que cobraban de los
obispados. Y un tercero con los despachos expedidos por el comisario
general para la predicación de bulas y nombramiento de dependientes
u otro personal de su incumbencia, con distinción por tipologías y
fechas, para que de este modo la Contaduría estuviese puntualmente
informada de «cuanto se causase y resolviese sobre todas las clases de
despachos [o asuntos] de esta dependencia».
Este esfuerzo por reunir toda la información contable del manejo de
los caudales de Cruzada en la Contaduría Principal, para que quien
estaba al frente la pudiese presentar regularmente o cuando fuere
requerido al presidente del Consejo y a la cada vez más poderosa
secretaria del Despacho de Hacienda56, se completaba con la obligación
de aquel de tomar las cuentas anualmente a tesoreros y pagadores.
Por eso los libros de cargo y data (descargo) debían ser anuales y el
alcance de cada año debería ser anotado como primera partida en el
del siguiente. Igualmente, estaba obligado a velar porque se
cumpliesen todos los reglamentos y reales órdenes; distribuir las
tareas, según su criterio, en «mesas» a cargo de los diversos oficiales
de su estrado y supervisar sus papeles antes de entregarlos al
secretario; así como fijar un horario de trabajo para el puntual
despacho de las tareas encomendadas a cada uno, siendo ellos
responsables de aquello que les encomendara, aunque no podían
decidir nada sin la aprobación del contador. De otra parte, al contador
también correspondía formar los cargos derivados de «los instrumentos
56
Cf. R. Torres Sánchez, La llave de todos los Tesoros. La Tesorería General de Carlos
III, Sílex ediciones, Madrid, 2012, pp. 28-36.
337
María López Díaz
y papeles que se le presentaren para la formación y despacho de
libranzas, y de las quentas que liquidare», respondiendo con sus bienes
de cualquier omisión que pudiera darse. Además, como en el
reglamento se fijaba una «decorosa dotación de los sueldos» para los
ministros y dependientes del Consejo acorde con su categoría, no
pudiendo percibir ningún otro gaje o emolumento complementario, se
le conminó a velar porque estas gratificaciones fijas que algunos venían
percibiendo de los tesoreros de Cruzada y asentistas de presidios y de
galeras en adelante las entregasen al tesorero general de Cruzada,
despachándoles por ello las oportunas cartas de pago necesarias para
la rendición de sus cuentas.
Precisamente, la otra pieza clave de todo este engranaje contable
era la Tesorería General de Cruzada. Al mismo tiempo que se fortalecía
la figura del contador principal, centralizando en sus manos toda la
información relativa al manejo y gestión de los fondos de las tres
Gracias, que oportunamente debía poner a disposición de los órganos
de decisión e instancias superiores de los Consejos del Cruzada y
Hacienda, quebrando así la mayor relevancia y total responsabilidad
que al respecto le atribuyeran al primero las Ordenanzas de 1694 y la
posterior real orden de 172557, el nuevo decreto también precisaba o
actualizaba el cometido del tesorero general ligado a los aspectos
interventores y contables encomendados al contador general y su
oficina. No en vano debía proporcionarle una parte importante de la
información requerida para ello. En concreto, estaba obligado a
percibir todos los ingresos relativos al fisco de Cruzada, despachando
las cartas de pago correspondientes a quienes hicieran las entregas
según las órdenes que diera el comisario general, y llevar un libro de
registro al efecto con toda la información detallada. En esas cartas de
pago debía constar la obligación de presentarlas al comisario general
para que las «vise» y en la Contaduría Principal para que esta tomara
razón de ellas y formara el cargo correspondiente. De igual forma
debería tener su data en libranzas o partidas de descargo de lo
recaudos percibidos, con las formalidades señaladas en los artículos y
puntos referidos a la Contaduría Principal. Todo ello asentado en otro
libro, el de pagamentos, donde habrían de constar los instrumentos u
órdenes en virtud de los cuales se hacían. A los dos anteriores, aún
añadiría un tercero: el «prontuario de caxa» con la anotación diaria del
dinero que recibía y distribuía.
Además de encargarse de la dirección de la Tesorería General, para
las tareas de comprobación y control de los recursos de Cruzada, el
tesorero general debería presentar a la Contaduría Principal el / los
57
Cf. J. Fernández Llamazares, Historia de la Santa Bula de Cruzada cit., p. 205;
J.M. Marchena Giménez, La vida y los hombres de las galeras cit., p. 38.
338
La reforma del Consejo de Cruzada de 1745: preámbulo de su desaparición
libro/s requerido/s siempre que el comisario general mandara «formar
tanteos o confrontar partidas» con los de cuenta y razón, que por su
parte se confeccionaban en dicha contaduría; y de manera regular cada
mes para hacer la verificación (entradas y salidas) y elaborar las
«relaciones» correspondientes. También debía examinar las libranzas
para ver si cumplían todos los requisitos formales establecidos, y si
encontraba algún defecto o alteración tenía que notificárselo al
contador principal para su corrección, pues por su única autoridad no
podía hacerlo. Como tampoco podía anticipar ni prestar dinero, sino
mediante instrumento o documento formado por el contador principal
y que autorizase el comisario general. En lo concerniente a
contabilidad, estaba obligado a presentar las cuentas de cada año en
el siguiente ante el Tribunal de la Contaduría Mayor de Cuentas para
su supervisión, junto con los documentos justificativos de las distintas
partidas que las componían, debiendo recoger para su resguardo las
certificaciones del finiquito de las que se registrarían copias en la
Contaduría Principal de Cruzada.
En cuanto a la provisión del cargo de tesorero general, igual que el
contador principal, era designado por el rey, tenía mandato temporal
y asiento en el Consejo. Para ello, contando con la conformidad del
comisario general, se le «formaba asiento» en la Contaduría Principal,
un documento donde constaban las condiciones a que estaba sujeto
durante su ejercicio, los honores y demás prerrogativas que le eran
concedidas; todo ello previa presentación y aprobación de las fianzas
oportunas. Aunque no se explicita, de la nueva disposición se
desprende que para el desempeño de sus tareas podía contar con
oficiales que nombraba y cesaba a conveniencia, pues era él mismo
quien pagaba sus sueldos con cargo a los 6.000 escudos que tenía de
dotación anual. Fue el primer tesorero general designado por el
monarca en aplicación del nuevo reglamento don Juan Sesma,
caballero de la Orden se Santiago, el cual no aceptó el oficio58, siendo
nombrado luego Nicolás de Francia. Este procedía del tribunal de la
Contaduría Mayor de Cuentas (Consejo de Hacienda) y afianza el cargo
en bienes y dinero por valor de 200.000 ducados59.
Un paso más en este proceso de control e intervención sobre los
recursos de Cruzada y demás rentas agregadas a que va dirigido el
decreto de 8 de noviembre de 1745 se da unos meses después,
coincidiendo con la puesta en marcha de la nuevamente creada
Contaduría Principal de Cruzada, cuando su máximo responsable, el
contador general, se arroga, amparándose en la propia disposición, el
58
59
Ahn, Consejos, lib. 2620, ff. 158r, 175r.
Ivid, ff. 189-190v.
339
María López Díaz
derecho a conocer privativamente en materia de revisión de cuentas
(de los tesoreros y pagadores de presidios y galeras), del manejo y
distribución de los caudales de Cruzada, así como la consiguiente
«asesoría» al Consejo en la toma de decisiones al respecto; y, a la
inversa, excluye de ese conocimiento al fiscal del Consejo de Cruzada,
a quien antes correspondiera esta tarea, limitando su intervención a
aquellas causas en que hubiese agravio a terceros, o sea, a los asuntos
puramente judiciales. Cabía discutir la presunción del derecho
privativo a favor del contador sobre la fiscalización de esas cuentas,
porque en el texto del mencionado documento no se especificaba nada
e iba «en contra de la práctica observada», como observaba el fiscal
del Consejo en sus representaciones y reclamaciones ante el Tribunal
y el mismo rey, insistiendo en que se vulneraban sus derechos y se le
recortaban atribuciones; apuntando incluso que, con este modo de
proceder, pretendía la nueva Contaduría «ser absoluta» y tener «la
independencia que parece se quiere atribuir a las de Marina»60. Pero
la monarquía no parece dispuesta a dar marcha atrás en la línea
emprendida. Antes bien al contrario: con el nuevo esquema se procura
separar lo que tocaba a «regir y gobernar la Hacienda de la Republica»,
que incluía la rendición, liquidación y comprobación de sus cuentas
(gobierno), competencia exclusiva de tesoreros y el contador general,
de lo estrictamente judicial (agravios y litigios entre partes), que atañe
al Tribunal (Consejo de Cruzada) y su procurador fiscal (que
representa los intereses del fisco). El resultado fue una nueva
disposición real de 25 de mayo de 1746 por la que se apartó, ya
formalmente, al fiscal del Consejo de la mencionada revisión e
inspección de cuentas61.
En suma, con la sustitución de las dos Contadurías Mayores de
Cruzada por una única Contaduría, cuyo recién creado contador
principal o general habría de trabajar en estrecha colaboración tanto
con el comisario general como con el resto de oficios implicados en el
manejo y distribución de los dineros de Cruzada dentro y fuera de la
corte (tesorero general, pagadores y depositarios), tuvo lugar una
profunda remodelación en el control de estos fondos. Y no solo porque
cambiara el método contable, que también, sino porque se establece
un nuevo esquema merced al cual debería registrarse, averiguar y
centralizar toda la información concerniente a estos caudales
60
Ahn, Consejos, lib. 2626, ff. 48v-63r (56r-56v). Que yo sepa no hay investigaciones
que aborden de forma específica la vertiente económica de la Marina, pues la bibliografía
conocida suele centrase en otras cuestiones; por ejemplo, la clásica obra de C. Fernández
Duro, Armada española desde la unión de los Reinos de Castilla y Aragón, Tip. Suc. Rivadeneyra, 1895-1903, es. t. VI (1900). Cito por copia que puede consultarse en red:
http://bibliotecadigital.jcyl.es/
61
Ahn, Consejos, lib. 2620, ff. 187v-188.
340
La reforma del Consejo de Cruzada de 1745: preámbulo de su desaparición
(excluidos los de Indias con contadurías propias62) en un único punto
o negociado, la Contaduría Principal de Cruzada. Con ello se
potenciaba la figura del contador general que, según la nueva
instrucción, debería ser informado de forma regular, pudiendo
reclamar esa información si no se la aportaba, y velar porque esta
fluyese con rapidez y eficacia, en estrecha conexión y correspondencia
con el comisario general y también con el secretario del Despacho de
Hacienda, quien igualmente podía intervenir y dar órdenes
concernientes al asunto por su condición añadida de secretario de
Guerra-Marina. Sin duda, era un paso esencial en la unificación de los
caudales del Real Erario, incluyendo entre ellos los de las tres Gracias.
El camino de unificación de las contabilidades se completaba con la
fiscalización y aprobación de las cuentas del tesorero general de
Cruzada por el tribunal o sala de la Contaduría Mayor de Cuentas.
3. La “nueva planta” del Consejo de Cruzada: la plantilla y el escalafón
Simultáneamente a la reforma anterior, el decreto de 8 de noviembre
de 1745 llevaba aparejado un estricto plan de ajuste de salarios y
plantilla del Consejo de Cruzada, con el que se pretendía «moderar» en
lo posible los gastos ordinarios derivados de su funcionamiento. Había
precedentes en otros organismos, como la reforma administrativa
llevada a cabo en el Consejo de Guerra en 174463. Y no es el único caso.
Cinco años después, en 1749, Ensenada reformó también la planta de
la corte con el fin de reducir gastos, repitiendo así una acción que ya
había ensayado en Nápoles diez años antes su amigo Montealegre64.
En el caso del Consejo de Cruzada, con similar criterio, se redujo el
número de puestos y empleos disponibles, aboliendo todos aquellos
que no figuraban en la «nueva planta». Además, se fijaron unos nuevos
salarios, más elevados para los ministros de mayor rango. Pero en
contrapartida fueron anulados los derechos y gajes que algunos venían
percibiendo como «goce fijo» complementario, unas gratificaciones
adicionales que en ocasiones sumaban cantidades muy substanciosas.
BXUSC, Fondo antiguo, Foll. 49-28; Foll. Carp. 51-11.
Cf. J.A. Escudero, La reconstrucción de la Administración cit., pp. 169-170; más
específicamente, F. Andújar Castillo, Consejo y consejeros de Guerra cit., pp. 57-58; o
J.C. Domínguez Nafría, El Real y Supremo Consejo de Guerra cit., pp. 215-222.
64
C. Gómez-Centurión Jiménez, La reforma de las casas reales del Marqués de la
Ensenada, «Cuadernos de Historia Moderna», 20 (1998), pp. 59-83; J.L. Gómez Urdáñez,
El proyecto reformista de Ensenada, Lleida, Milenio, 1996, pp. 223-226. Y sobre la corte
de don Carlos de Nápoles, véase P. Vázquez Gestal, `The System of This Court : Elisabeth
Farnese, the Count of Santisteban and the Monarchy of the Two Sicilies, 1734-1738, «The
Court Historian», XIV/1 (2009), pp. 23-47; E. Papagna, La corte di Carlo di Borbone il re
“propio e nazionale”, Guida, Napoli, 2011.
62
63
341
María López Díaz
Asimismo, se distinguen las categorías del personal desde oficial mayor
o jefe de oficina hasta los de nivel inferior, jerarquizándolas y buscando
la especialización para las tareas que así lo requerían. Y, por último,
se centraliza toda resolución sobre el personal en manos del rey: a él
correspondía la creación de plazas y también la provisión y/o
nombramiento del personal.
Desde el punto de vista orgánico dos fueron los principales cambios.
El primero, substancial, la mencionada supresión de las dos
Contadurías Mayores con sus respectivas mesas o puestos y su
sustitución por una única Contaduría Principal, al frente de la cual se
sitúa el contador general. Los dos oficios de contador mayor
suprimidos, igual que el resto de los extinguidos que estaban
enajenados o concedidos por servicio pecuniario, serían incorporados
a la Corona con la correspondiente indemnización o devolución a sus
titulares de las cantidades abonadas (por ellos o sus «causantes») y los
intereses devengados hasta la fecha del cese65. Y el segundo atañe a
los «futurarios» y «supernumerarios»; es decir, aquellos que no tenía la
plaza «en propiedad» (titulares) sino que estaban a la espera de una
vacante para poder ocuparla: prácticamente desaparecen. En realidad
este tipo de puestos ya habían sido eliminados por la reforma de
169166, pero la medida no llegó a aplicarse en la práctica. Prima la
necesidad de dinero y, lo más importante, no podía hacerse sin coste
para la Real Hacienda. Aparentemente, esto cambia con la llegada al
trono de Felipe V, quien aprueba nuevas leyes de incorporación y crea
órganos o juzgados específicos para llevar a cabo el proceso. Y, en
efecto, algo se avanzó pero cuantitativamente poco67. Además, el propio
monarca en determinadas coyunturas concede puestos de este tipo68.
Con lo cual sigue habiéndolos, aunque en el reglamento de 1745 no se
haga mención expresa al asunto. No obstante, de manera significativa,
65
El proceso de reversión de dichos oficios, particularmente el de los dos contadores
mayores, fue largo en el tiempo y complejo en su desarrollo. No obstante, tiene sumo
interés tanto desde el punto de vista jurídico como político. Es otro asunto en el que
ahora no puedo detenerme, pero que espero poder desarrollar en un próximo trabajo.
Sobre el marco legal y alguna noticia al respecto, M. López Díaz, Legislación y doctrina
de los oficios en España: el proceso de (re)incorporación a la Corona, in R. Stumpf y N.
Chaturvedula (eds.), Cargos y ofícios nas monarquías ibéricas (séculos XVII e XVIII): provimento, controlo e venalidade, Centro de História de Além-mar, Lisboa, 2012, pp. 211234; y para mayores detalles, ídem, Política de incorporaciones regia y derechos
adquiridos: doctrina y práctica jurídica en la España de los primeros Borbones, in M.
Rivero Rodríguez, C. Camarero Bullón y M. Luzzi Traficante (coords.), El nacimiento de
la conciencia europea (1650-1750), Madrid, 2015 (en prensa).
66
Ahn, Consejos, lib. 2613, ff. 198v-199r.
67
Para un caso, Ahn, Consejos, leg. 7465, exp. 4. Y desde perspectiva general y formal, cf. M. López Díaz, Legislación y doctrina cit.
68
E.g., en 1740 otra portería supernumeraria del Consejo de Cruzada. Ahn, Consejos, leg. 7465, exp. 4.
342
La reforma del Consejo de Cruzada de 1745: preámbulo de su desaparición
en la nueva planta solo aparecen dos puestos supernumerarios (dos
alguaciles).
Fernando VI intenta ir más allá con el asunto de los derechos
comprometidos para el porvenir: a poco de ser investido, por una
resolución de agosto de 1746, anuló las «futuras» de todos los empleos
del Consejo de Cruzada. Lo cual no impedía que a la larga sus titulares
no acabaran obteniendo el oficio sobre el que tenían adquirido ese
derecho, pues simultáneamente en la misma ley ordenaba que en la
terna de propuestos para los cargos se incluyeran los nombres de
quienes las poseían junto con sus merecimientos69. De lo cual se
deduce que solo perseguía paliar, hasta donde fuera posible, los efectos
del problema, y sobre todo adoptar precauciones ante las nada
improbables reclamaciones de los afectados conceptuadas en términos
patrimoniales («derecho de propiedad») frente al dominio o «derecho de
soberanía» reconocido al monarca. Aun así, para lo que aquí nos
interesa ello no modifica, pues no afecta, la plantilla estable. Y esta,
igual que los gastos de personal, sigue siendo relativamente reducida
si la comparamos con la de otros consejos70: poco más de cuarenta y
cinco personas71 (cuarenta y siete con los dos supernumerarios que se
mantienen), incluyendo en dicho cómputo los cuatro empleados de
fuera de la corte, tal y como se refleja en la tabla I.
Al frente del Consejo de Cruzada estaba el comisario general,
nombrado por el rey y confirmado por la Santa Sede, que no solía
titularse presidente aunque lo era, queriendo anteponer así la
superioridad de la jurisdicción eclesiástica a la real72. Como ya señalé,
tenía un papel preponderante y amplísimas atribuciones73. Dado que
Ahn, Consejos, lib. 2620, ff. 203r-204r.
Cf. para Consejo de Castilla (J. Fayard, Los miembros del Real Consejo de Castilla
(1746-1788), «Cuadernos de Investigación Histórica», 6 (1982), pp. 109-137; Los miembros del Consejo cit., pp. 388-406), Consejo de Hacienda (T. García-Cuenca, El Consejo
de Hacienda cit., pp. 405-500; esp. para 1760, p. 478; o Juan de la Ripia, Práctica de la
administración y cobranza de las rentas reales, y visita de los ministros que se ocupan de
ellas, [editado] por el Licenciado Diego María Gallárd, Madrid: en la Oficina de don Antonio Ulloa, 1795-1805, 6 vols., vol. 3, pp. 168 y 169) o para el suprimido Consejo de Aragón (J. Arrieta Alberdi, El Consejo Supremo cit., pp. 335-408). Y en lo tocante a las
Secretarías de los Consejos, véase G.A. Franco Rubio, Reformismo institucional y élites
administrativas, in J.L. Castellano, J.-P. Dedieu, M.V. López Cordón (eds.), La pluma, la
mitra y la espada. Estudios de Historia Institucional en la Edad Moderna, Marcial Pons,
Madrid, 2002, pp. 95-129, y bibliografía cit. supra, nota 9.
71
En el reinado de Felipe III eran 17 personas. Cf. J.E. Hortal Muñoz, El Consejo de
Cruzada cit., pp. 105 sgg.
72
J. Fernández Llamazares, Historia de la Santa Bula cit., pp. 126-127.
73
A este respecto véase, por ejemplo, la aproximación al tema de G. González Dávila,
Teatro de las Grandezas de Madrid cit., p. 250; y F.J. Fernández Llamazares, Historia
de la Santa Bula cit., pp. 124 sgg. Sobre la creación del cargo, H. Pizarro Llorente, La
pugna cortesana por el control cit., pp. 160-161.Y para Cruzada en Indias, J.A. Benito
Rodríguez, La bula de Cruzada en Indias cit., pp. 117-118.
69
70
343
María López Díaz
Tab. I - Planta del Consejo de Cruzada, 1745. Ministros, oficinas e retribuciones
Plazas u oficios
«Mesa» del Consejo
Número de
empleados
Retribución anual de la
plantilla, en ducados
(sueldo por oficio)
Comisario general
1
8.000
Asesores
3
2.700 (900)
Gran chanciller
1
4.000
Contador general
1
3.000
Alguacil mayor
1
3.000
Fiscal
1
3.600
Tesorero general
1
6.000!
Secretario del Consejo
1
4.000
Contaduría Principal
7
5.580
Secretaría del Consejo
3
2.100
Secretaría de la comisaría general
3
1.950
Relatores
3
1.750
Oficinas y oficiales
Personal técnico y/o
especializado
Personal subalterno
Escribanías de cámara
2.030 (1.090+940)#
Secretario de traducción de breves
1
400
Capellán del Consejo
1
110
Agente de Cruzada de Indias
1
250
Abogado de pobres
1
20
Porteros
3
900 (300)
Alguaciles (supernumerarios)
Personal fuera de la
corte
2+4"
2 (+2)
150 (30+30)4
Jueces de comisión (Toledo y
Valladolid)
2
440 (220)
Notario en Sevilla
1
147
Fiscal en Barcelona
1
56
Fuente: Ahn, Consejos, lib. 2620, ff.160r-163r.
Notas: !Remuneración «para sí y sus oficiales». "Dos son los escribanos de cámara y cuatro sus oficiales,
dos por cada escribanía. #Entre paréntesis la primera cantidad corresponde al sueldo de las dos
escribanías, la segunda a los cuatro oficiales. 4En el cómputo global van incluidos los salarios de los dos
supernumerarios, entre paréntesis solo los de estos últimos.
344
La reforma del Consejo de Cruzada de 1745: preámbulo de su desaparición
las remuneraciones de los diferentes ministros tendían a reflejar su
grado de dedicación, por esas altas responsabilidades se le consignaba
el salario más elevado entre los ministros del Consejo: 8.000 escudos
(88.000 reales) anuales, pero sin derecho a percibir gajes ni ninguna
otra retribución adicional. Una cantidad que, sin embargo, estaba muy
por debajo de los 18.400 ducados que en 1715 percibía el entonces
presidente único del Consejo de Castilla o de las remuneraciones de
los embajadores y ministros plenipotenciarios o enviados durante la
primera mitad de este siglo, propinas, colaciones y otras gratificaciones
aparte74, pero por encima de lo cobrado por algunos de sus homónimos
de los otros consejos y tribunales75.
El cuadro superior del Consejo se completaban con tres asesores
(dos consejeros del Consejo de Castilla «por lo que toca a estos Reyno»
y uno del de Indias «por las Occidentales»76), el gran chanciller, el
contador general (con asiento de consejero), un fiscal (que formaba
parte del tribunal pero también intervenía en otros asuntos), el alguacil
mayor y el tesorero general (igualmente con honores de ministro), a
todos los cuales el decreto regulador les fijaba unos sueldos nada
desdeñables, entre los 3.000 y 4.000 escudos anuales. Solo en dos
casos difieren: el de los consejeros asesores, con un complemento de
900 (9.900 reales) cada uno que sumarían a su remuneración del
Consejo de procedencia, y el tesorero general al que se señalaban unas
retribuciones casi tan elevadas como las del comisario general, nada
menos que 6.000 ducados anuales, aunque debía abonar los salarios
de los oficiales empleados. Como en el caso anterior, les quedaba
prohibido percibir otros emolumentos en concepto de «propinas,
aposentos y luminarias».
Además de los miembros de las salas de plenario, el Consejo para
el desarrollo de su actividad contaba con tres oficinas o «estrados». La
primera, la Contaduría Principal, al frente de la cual estaba el contador
principal. Según el nuevo decreto, se componía de un oficial mayor
74
J. Fayard, Los miembros del Consejo cit., pp. 139-140. D. Ozanam, La diplomacia
cit., pp. 177-182.
75
Así, por ejemplo, al consejero decano del Consejo de Guerra el decreto regulador
de 1714 le reconoció un salario anual de 6.000 escudos y a los consejeros 4.500, cantidad esta última que otra disposición de 1715 jerarquizó desde los 6.000 a los 4.000
según cual fuera su titulación (capitanes generales del Ejército o la Armada, militares o
togados). Véase J.C. Domínguez Nafría, El Real y Supremo de Guerra cit., pp. 357-358.
76
Con anterioridad a la supresión del Consejo de Aragón en el de Cruzada había un
cuarto consejero representándolo «por su Corona, por el [Reino] de Sicilia y las Islas
adyacentes», y las remuneraciones de los consejeros de Castilla eran el doble que las de
los otros dos (100.000 maravedíes los primeros y 50.000 los segundos). Cf. «Gran Memorial» en J.H. Elliot, J.F. De la Peña (eds.), Memoriales y cartas del Conde Duque de Olivares, Madrid, Centro de Estudios Europa Hispánica- Marcial Pons, 2013 [nueva edición
ampliada y revisada; 1.ª ed.: 1978 (I) y 1982 (II)], vol. I, p. 86.
345
María López Díaz
(que percibiría un sueldo de 1.500 ducados anuales), otro segundo
(1.200 por plaza), dos terceros (900) y tres «entretenidos» (360); en total
siete empleados en vez de los doce que había en las contadurías
extinguidas. Por su parte, en la secretaría del Consejo solo tenían
cabida tres personas (un oficial mayor, otro segundo y un
«entretenido»), que además estaban peor pagados que los empleados
anteriores aún siendo del mismo rango, salvo en el caso del aspirante
(1.100, 600 y 400 ducados, respectivamente). Con similar criterio la
secretaría del comisario general solo tenía al frente un secretario, que
era asistido por dos mesas o plazas (un oficial mayor y otro segundo),
todos ellos con unas retribuciones sensiblemente inferiores a las de
sus colegas de los otros departamentos de la administración central77
(1.200, 450 y 300, respectivamente).
La plantilla de personal se completaba con tres relatores (uno 1.º,
otro 2.º y un agente fiscal) con sueldos que oscilaban entre los 1.000
y 300 ducados anuales; dos escribanos de Cámara (1.º y 2.º) con sus
respectivos oficiales (mayor o 1.º y 2.º) y algunos técnicos o
especialistas como el (secretario) traductor de breves, el capellán del
Consejo, el agente de Cruzada en Indias y el abogado de pobres78,
además del personal subalterno inferior (tres porteros, dos alguaciles
menores numerarios y otros dos supernumerarios). En conjunto
dependientes y empleados subalternos sumaban poco más de 30 (31)
personas (32 con los dos alguaciles supernumerarios con haberes a
cuenta de Cruzada), 34 con el personal de fuera de la corte; unas cifras
muy alejadas de las 144 de que por ejemplo disponía el Consejo de
Castilla en el siglo XVIII, sin contar el personal inferior de las
escribanías79. Conviene subrayar que en ningún caso se contabilizan
otros personajes u oficios, que se movían en la órbita de estos
organismos actuando como intermediarios entre estos y los litigantes,
como los procuradores de número, los notarios, los agentes de negocios
en la corte o, en fin, los abogados, pues no eran oficios ministeriales
que formaran parte de la plantilla del Consejo (de hecho no percibían
remuneración a su cargo) por más que tuvieran formación y
acreditaran competencias regladas por la Corona80 o que algunos
77
Para las mesas y oficiales de la Primera Secretaría del Estado, vid. D. Ozanam, La
diplomacia cit., pp. 171-172; y para la del Estado y Despacho de Marina, creada en 1721,
G.A. Franco Rubio, Reformismo institucional cit., pp. 105-111.
78
Sobre las retribuciones de estos dependientes véase cuadro 1. Y para comparación
de plantilla y salarios percibidos por los ministros de la mesa de otros Consejos, como
por ejemplo el de Aragón en los años 1690, cf. J. Alberdi Arrieta, El Consejo Supremo
cit., pp. 255-259.
79
J. Fayard, Los miembros del Consejo cit., p. 25.
80
Para los empleos curiales, por ejemplo, véase, entre otros, J. Martínez Gijón,
Estudios sobre el oficio de escribano en Castilla durante la Edad Moderna, in AA.VV.,
346
La reforma del Consejo de Cruzada de 1745: preámbulo de su desaparición
estuvieran presentes durante la lectura de la demanda de sus clientes
y de la memoria del relator.
Volviendo sobre las razones de la remodelación orgánica, según el
propio decreto el efecto más importante de la misma sería el ahorro
logrado para la Real Hacienda tanto de la supresión de las dos
Contadurías Mayores y reajustar la planta del Consejo como de regular
las retribuciones de sus empleados. En la práctica no era el único
objetivo; según el pleno del mismo y los principales afectados, nunca
la causa para introducir cambio alguno, sino una consecuencia y
además de poca entidad. Así lo manifiestan en las representaciones,
protestas y consultas que elevan al monarca en los meses posteriores
a su aprobación. Tan es así que por orden de 9 de enero de 1746 el
propio Felipe V pidió al Consejo la copia de los títulos de los empleos
de contadores y tesorero de Cruzada suprimidos, los autos de lesión
de venta seguidos contra sus titulares y el breve papal de confirmación
de las enajenaciones de estos oficios, junto con un informe del «coste»
que tenía para el fisco de Cruzada la planta antigua con las dos
Contadurías Mayores y una Tesorería, y lo que suponía la planta
moderna con una sola Contaduría y una Tesorería81. Un cotejo que el
Consejo remite anexo a una consulta elevada al rey el 22 de febrero y
que volverá a enviar el 6 de marzo82, mostrando en un gráfico cuadro
que el supuesto «ahorro» y «utilidad» apenas superaba los 3.000
ducados (33.571 reales y 13 maravedíes); una cuantía de la que aún
deberían detraerse determinadas partidas que hasta entonces estaban
obligados a pagar los contadores y tesorero suprimidos83, así como los
réditos del capital que, según el decreto regulador, la Real Hacienda
debía abonar por la incorporación de sus oficios a los dos antiguos
contadores mayores84; siendo así –concluía el informe– que «no sale
más beneficio» de la nueva planta que 16.802 reales y 33 maravedíes.
Y aun esto, decían, «no se puede considerar por ahorro», pues en la
planta antigua había gastos (como la publicación de bulas de los reinos
Centenario de la Ley del Notariado. Sección primera, Estudios Históricos, 2 vols., Junta
de Decanos de los Colegios Notariales de España, Madrid, 1964, vol. I, pp. 263-340; J.
Bono y Huerta, Historia del Derecho notarial español, 2 vols., Junta de Decanos de los
Colegios Notariales de Español, Madrid, 1979 y 1982.
81
Ahn, Consejos, lib. 2626, ff. 29v-30r (Consejo de 22 de febrero de 1746). Sobre la
información que le aportan algunos de los afectados, lib. 2613, ff. 185r-188r, 192r, 244v.
82
Ahn, Consejos, lib. 2626, ff. 30v-33r (Consejo de 5 de marzo de 1746).
83
Alude en concreto a los derechos que Cruzada debía recibir de los tesoreros de
bulas, que unas con otras partidas daban un beneficio anual de 107.192 reales y 33
maravedíes.
84
Sobre un capital de 3 millones 130.000 reales, en que se estimaba que estaban
enajenados según los afectados, al respecto de un 3%, suponían los intereses 90.390
reales. Para más información sobre el marco legal y el proceso de incorporación de estos
oficios al Real Patrimonio, vid. supra, nota 65.
347
María López Díaz
de Perú y Nueva España) que el mismo fisco se hacía pagar después
en dichas provincias y en la nueva cargos antes inexistentes, como los
4.500 reales que percibirían los contadores de resultas por la
concurrencia que tenían con los de Cruzada en la toma de sus
cuentas85. Todo lo cual denotaba, según el pleno del Consejo, el pobre
«beneficio pecuniario» obtenido con la reforma y la «ninguna utilidad
que se sigue de que una Contaduría no tenga comprobación alguna
[por otra Contaduría, tal y como ocurría en la planta antigua, en que
la verificación era reciproca entre ambas las dos]»86, dejando entrever
con ello que la medida no buscaba solo –o no tanto– moderar el gasto
e incluso mejorar la gestión contable de las rentas eclesiásticas sino
que las razones podía ser, como en efecto ocurría, otras.
4. A modo de conclusión
De lo expuesto hasta aquí se deduce que la reforma del Consejo de
Cruzada efectuada por el decreto de 8 de noviembre de 1745 no fue una
simple remodelación de su planta. Se justifica, igual que las acometidas
en algunos otros organismos y consejos por estos años, en base al
ahorro y a que con el nuevo esquema se pudiera atender adecuadamente
su ocupación, corrigiendo simultáneamente algunos de los abusos y
corruptelas del pasado. Pero detrás había una clara intencionalidad
política. En su caso un proyecto de más largo alcance que cuaja y se va
poniendo al descubierto conforme se ejecuta, y sobre todo con las
nuevas medidas tomadas durante el reinado de Fernando VI.
Más allá de esto, hacer una valoración global que responda a los
interrogantes planteados en la introducción es tarea difícil, pues se
trata de un tema con muchas aristas no solo por los diversos actores
y agentes implicados, sino también por la singularidad de la institución
estudiada (Cruzada y las rentas agregadas aúnan dos jurisdicciones e
implica a dos poderes, el eclesiástico y el real) y por el primigenio
destino finalista (por lo menos sobre el papel) de estos fondos. Añádase
que la cronología del tema analizado concatena dos reinados (los
últimos meses del de Felipe V y primeros de su sucesor), ubicándose
en unos años especialmente complejos desde el punto de vista político,
pues en ellos se va a dar un carácter irreversible al proceso de cambio
que venía gestándose desde las décadas anteriores. Aun así, de lo
85
Una cantidad muy alejada de los 100.000 reales en que el nuevo contador principal, Feliciano de la Vega, cifraba el ahorro logrado en Cruzada con la nueva planta (Ahn,
Consejos, lib. 2613, f. 244v). En todo caso, según otros documentos, faltaban 935 reales
y 11 maravedíes (Ivid, lib. 2626, ff. 29v-30).
86
Ahn, Consejos, lib. 2626, ff. 30v-33r (Consejo de 5 de marzo de 1746).
348
La reforma del Consejo de Cruzada de 1745: preámbulo de su desaparición
expuesto pueden extraerse algunas conclusiones que más bien son
unas reflexiones o valoraciones finales.
La primera es de carácter general, y está en el fondo de la providencia
analizada: el Consejo de Cruzada controlaba la cobranza de los fondos
de Cruzada y ramos agregados, y estos ingresos, si bien no son los más
importantes, tampoco eran cuestión menor para la Real Hacienda.
Basten los siguientes datos: Según la relación de valores líquidos que
produjeron todas las rentas del rey en el año 1742 cotejados con lo que
rindieron en 1750 de Miguel Múzquiz y Goyeneche, que se adjunta a la
Representación que el marqués de la Ensenada presentó a Fernando VI
en 1751, «Cruzada, subsidio y excusado» aportó en la primera fecha
577.773.455 maravedíes y en la segunda, 692.781.197; cifras que
suponen un 7,87% y 7,62%, respectivamente, del total del presupuesto,
ocupando en ambos años la quinta posición por detrás de las rentas
provinciales, la renta del tabaco, el equivalente y rentas patrimoniales
de la Corona y las rentas generales y sus agregados87. Quiero decir con
ello que detrás del reglamento hay una gama de intereses políticos pero
también económicos, pues hablamos de unos recursos nada
despreciables. Pero es que además con las medidas adoptadas se
busca, por un lado, incrementar la recaudación (nueva planta) y, por
otro, avanzar en el control y la secularización de la administración de
estos fondos, centralizando toda la información contable del ramo
(ingresos y gastos) en una única Contaduría Principal; una información
que se pone bajo la lupa del comisario general pero también del
secretario del Despacho de Hacienda y unas cuentas que fiscaliza la
Contaduría Mayor de Cuentas. Todo ello, conviene recordar, en
detrimento del Consejo de Cruzada y de su presidente el comisario
general88, en última instancia de la jurisdicción eclesiástica. Siendo así
que la reforma tampoco se puede desligar de los planteamientos
regalistas del 700 y, más en particular, de las relaciones entre la iglesia
hispana y la Corona durante las décadas centrales del siglo y a más
87
D. Ozanam, Representación del marqués de la Ensenada a Fernando VI (1751),
«Cuadernos de Investigación Histórica», 1980 (4), pp. 67-124 (108). Los cálculos porcentuales son nuestros.
88
Para marco y contexto de gruesos trazos en lo que atañe a la política fiscal de la
Monarquía, amén de las obras citadas en nota 4, siguen siendo útiles los trabajos de R.
Pieper, La Real Hacienda bajo Fernando VI y Carlos III (1753-1788). Repercusiones económicas y sociales, Ministerio de Economía y Hacienda – Instituto de Estudios Fiscales,
Madrid, 1992; y J.-P. Dedieu y J.I. Ruiz, Tres momentos en la historia de la Real
Hacienda, «Cuadernos de Historia Moderna», 15 (1994), pp.77-98 (es. p. 85 sgg). Y entre
la bibliografía más reciente, M.C. Angulo Teja, La Hacienda española en el siglo XVIII.
Las rentas provinciales, Centro de Estudios Políticos y Constitucionales, Madrid, 2002,
es. cap. I con la bibliografía que allí se cita; y en cuanto a resultados prácticos, J. Jurado,
El gasto de la Hacienda española durante el siglo XVIII. Cuantía y estructura de los pagos
del Estado (1703-1800), Instituto de Estudios Fiscales, Madrid, 2006.
349
María López Díaz
alto nivel entre Madrid y la Curia. No en vano en 1753 se firma el
Concordato de 1753 con lo que ello supuso89.
La segunda, ligada a la anterior, atañe a la nueva Contaduría
Principal que refunde el cometido de las dos suprimidas, con un
director (el contador general) designado por el rey con un mandato
limitado e importantísimas competencias. De hecho, controla y
centraliza toda la información en materia de cuentas, manejo y
distribución de los fondos de Cruzada, operando con total
independencia del Consejo en la línea de las de Marina. Solo estaba
obligada a informar con regularidad o cuando lo requiriera al comisario
general pero sobre todo al secretario del Despacho de Hacienda, que
lo es Ensenada. Este, como Campillo, también ejercía juntamente –y
no es casual– las de Guerra, Marina e Indias, asegurándose de este
modo el control del sistema. Tampoco lo es que todos los decretos y
reglamentos relativos al asunto lleguen al Consejo de la mano del
mencionado secretario del Estado y del Despacho; que como tal tenga
capacidad de intervención y ciertas prerrogativas en la gestión de estos
caudales, o que fuera un gran conocedor del funcionamiento del
Cuerpo del Ministerio y órganos de gobierno de la Marina, no en vano
había desarrollado en ella buena parte de su carrera90. Y ya en clave
89
La historiografía sobre el escurridizo concepto de regalismo borbónico, el reformismo de la Iglesia a finales del XVIII así como sus referentes filosóficos y religiosos es
profusa y ha avanzado de manera considerable desde los ya lejanos y subjetivos trabajos
de Menéndez Pelayo que dedicara el libro VI de su Historia de los heterodoxos españoles
(Madrid, 1966) al tema. Obvio referencias, que exceden al asunto que nos ocupa. Tan
solo diré que los estudios de Rafael Olaechea, Antonio Mestre, Teófanes Egido o Emilio
La Parra y más recientemente los de Antonio Luis Cortés Peña siguen siendo un punto
de partida imprescindible para el análisis de los reinados de Felipe V y Fernando VI en
general y, particularmente, de los decenios centrales en este sentido. En concreto para
el asunto aquí estudiado cabe mencionar asimismo a otros autores que se han ocupado
de cómo los Borbones trataron el tema de la Iglesia, tanto desde el punto de vista teórico
(cultura católica) como práctico, así como de las dicotomías y/o debates a que dieron
lugar o su proyección en los primeros estadios del constitucionalismo y experiencia política decimonónica hispana. En el primer aspecto, el del discurso, ver por ejemplo el trabajo de José María Portillo ya citado en nota 47; y para alcance en el contexto de la
revolución constitucional en la misma línea, del mismo autor, Revolución de nación. Orígenes de la cultura constitucional en España, 1780-1812, Centro de Estudios Políticos y
Constitucionales, Madrid, 2001; y en el plano práctico, merece destacarse la síntesis de
P. Ruiz Torres, Reformismo e Ilustración, en J. Fontana, R. Villares (dirs.), Historia de
España, vol. 5, Crítica – Marcial Pons, Barcelona, 2008; Ídem, Los límites del reformismo
del siglo XVIII en España, in J. Albareda Salvadó, M. Janué i Miret (eds.), El nacimiento
y la construcción del Estado moderno. Homenaje a Jaume Vicens Vives, PUV, Universitat
de València, Valencia, 2011, pp. 11-150 con la bibliografía referida.
90
Para datos véase J.L. Gómez Urdáñez, El proyecto reformista de Ensenada cit., pp.
59-81. Sobre su nombramiento y ejercicio como secretario del Almirantazgo, C. Pérez
Fernández-Turégano, El Almirantazgo del Infante don Felipe (1737-1748). Conflictos y
competencias con la Secretaría del Estado y del Despacho de Marina, «Anuario de Historia
del Derecho Español», LXXIV (2004), pp. 409-476.
350
La reforma del Consejo de Cruzada de 1745: preámbulo de su desaparición
personal, también es significativa su alta estimación de las contadurías
generales y fiabilidad respecto a sus certificaciones. Quiero decir con
ello que probablemente no solo fue el directo responsable de la reforma
sino también su ideólogo. Una reforma que ahonda en una línea de
relegamiento del Consejo de Cruzada que parece venir de antes –
cuanto menos de la etapa de Patiño, que lo coloca bajo el control de la
secretaría de Justicia y Gobierno Político que dirige91– y que se
consumará pocos años después con su desaparición.
La tercera observación incide en la vinculación existente entre los
ramos de Marina y Cruzada, a que aludía el fiscal del tribunal en su
réplica a las providencias que le impedían hacer la «semanería» o
revisión de los despachos relativos al manejo y cuentas de estos
caudales. Y no solo porque con ellos se financiasen los presidios de
África y la Real Escuadra de Galeras o porque, como señalamos, la
nueva contaduría pudiera seguir las pautas de las de Marina, sino que
esa sinergia también se daba desde el punto de vista humano en los
cuadros de personal. Algunos ejemplos que lo corroboran: Felipe V
designa como contador de la nueva Contaduría Principal del Consejo,
desde el 1 de enero de 1746 en que empieza a funcionar, a don
Feliciano de la Vega, teniente de cazador mayor del rey y oficial mayor
de una de las dos contadurías mayores suprimidas; para el puesto de
oficial mayor a don Pedro Gilabert, oficial 1.º de los ministros
principales de Marina, embarcado entonces en la Escuadra de bajeles
del Mediterráneo; y a don Miguel Serrador, jurista, como oficial 2.º92.
En mayo de 1748 su sucesor nombra a este último auditor de guerra
de la plaza de Orán, vacante por el ascenso de don Francisco Buitrago
a la Audiencia de Canarias93. Por su parte, el nuevo contador general,
a quien el reglamento concedía el derecho a proponer al rey a través
del comisario general para las vacantes de su oficina a los empleados
de las contadurías extinguidas que considerase “los más dignos y a
propósito” y no encontrándolos para poder recomendar otros ajenos
“que juzgare convenientes para estos empleos”, presenta la siguiente
propuesta para la aprobación real: para oficial 3.º a don Juan de
Villanueva, que sirviera hasta la de mayor en una de las contadurías
suprimidas; para la otra plaza del mismo rango a don Juan de Ruesga,
contador de título en la contaduría de cuentas, empleo que le fuera
concedido por el rey por su servicio y méritos en las oficinas de Marina,
hasta que estando ejerciendo el empleo de contador de bajeles fue
herido en la batalla de Tolón o Cabo Sicié (febrero de 1744, encuadrada
dentro de la Guerra del Asiento). Y en el caso de las tres plazas de
91
92
93
J.L. Castellano, Gobierno y poder en la España cit., pp. 106-107.
Ahn, Consejos, lib. 2620, f. 158v.
Ivid, f. 257v; leg. 7466, 6.
351
María López Díaz
oficiales entretenidos: para la 1.ª sugiere a don Pedro García, que lo
fuera doce años en una de las contadurías eliminadas; para la 2.ª a
don Miguel Marco y Espejo, entonces destinado en la Contaduría de
Rentas Generales, que antes había estado en las oficinas de Marina
con su padre don José Marco y Espejo, comisario real de Guerra de
Marina; y para la 3.ª a don Baltasar Cavezudo, que también trabajó en
asuntos “del mayor cuidado e importancia” durante los últimos cinco
años en una de las contadurías extinguidas, así como en las relaciones
de documentos que sirvieron para la elaboración de los nuevos
reglamentos94.
Y, finalmente, en lo que atañe a la supresión de oficios derivada de
la reforma del Consejo, algunos como los contadores mayores con
asiento de consejeros, a diferencia de lo ocurrido en otros organismos
cuya planta también se remodeló o bien fueron extinguidos, como el
Consejo de Aragón en 1707, donde los ministros y empleados
subalternos que perdieron sus puestos fueron recolocados en otros
consejos, secretarías y plazas burocráticas del resto de tribunales95,
en el caso del de Cruzada el monarca dispuso ya en el propio decreto
que los «oficios públicos» que no figuraban en la nueva planta fueran
extinguidos, y los que estaban «enajenados a perpetuidad» para
«reducir[los] a electivos y temporales» –y poder así proveerlos
libremente– que fueran incorporados a la Corona previo pago de la
indemnización (capital e intereses) correspondiente96. Una medida que
tampoco parece fortuita. Se justifica porque cronológicamente la
monarquía estaba entonces inmersa en el proceso de recuperación de
las rentas y oficios enajenados que se había reactivado a partir del año
1743 con la creación de un Juzgado específico de incorporaciones
dependiente del Consejo de Hacienda; un proyecto que, significativamente, también prosiguió durante el reinado fernandino, siendo el
titular de ese juzgado quien tramitó el expediente de recobro de las dos
contadurías mayores suprimidas que los afectados litigaron sin lograr
su objetivo97.
94
Según propuesta elevada el 4 de marzo de 1746. Ahn, Consejos, lib. 2620, ff.
179v-184r.
95
Cf. J. Arrieta Alberdi, El Consejo Supremo cit., pp. 226-227.
96
Ahn, Estado, leg.1480, ff. 56r-56v.
97
Ver a este respecto los trabajos citados supra, nota 65.
352
Nicoletta Bazzano
LA LEYENDA NEGRA CONTINUA...: LA SARDEGNA VICEREGIA
NELLA NARRATIVA SARDA FRA SECONDO NOVECENTO E
NUOVO MILLENNIO*
DOI: 10.19229/1828-230X /37152016
SOMMARIO: Il saggio approfondisce l’uso pubblico della leyenda negra da parte dei romanzieri
sardi, che narrano avvenimenti, realmente accaduti o totalmente inventati, ambientati in
Sardegna nell’età dei viceré spagnoli. Questi romanzi contribuiscono a perpetuare il mito della
leyenda negra spagnola – un mito ormai totalmente distrutto dalla storiografia – e lo riutilizzano
politicamente in chiave “sardista”.
PAROLE
CHIAVE:
Sardegna, leyenda negra, uso pubblico della storia, romanzo storico.
THE LEYENDA NEGRA CONTINUES…: THE SARDINIA OF VICEROYS IN THE SARDINIAN
FICTION BETWEEN THE LATE TWENTIETH CENTURY AND THE NEW MILLENNIUM
ABSTRACT: The article aims to focus the public use of the leyenda negra by Sardinian novelists
who write about historical facts, real or invented, happened in Sardinia at the age of Spanish
viceroys. The main contribution of these novels is perpetuating the story of the Spanish leyenda
negra – a myth totally destroyed by recent historiography – by reusing it in political language in
a “sardista” point of view.
KEYWORDS: Sardinia, leyenda negra, public use of the history, historical novel.
1. Il fascino della leyenda negra
Ormai da tempo lo sguardo storiografico europeo sulla Monarchia
spagnola è quasi totalmente cambiato: all’immagine di “impero del
male”, forza onnipotente e oppressiva sotto la quale le energie più vive
dei domini venivano sfruttate sino all’esaurimento, si è sostituita di
converso la visione di una potenza dalle dimensioni geografiche globali,
che conduce al proprio interno un’affannosa ricerca del consenso.
Innumerevoli sono gli studi che hanno messo in luce le diverse dinamiche che percorrono i domini su cui regna la dinastia degli Asburgo
di Madrid e che hanno contribuito ad abbattere la leyenda negra, ormai
* Il presente saggio nasce da una mia comunicazione al congresso internazionale
Centri di potere nel Mediterraneo occidentale: dal Medioevo alla fine dell’Antico Regime,
tenutosi a Cagliari nell’ottobre del 2015. In quell’occasione mi furono utili i consigli di
Franco Atzeni, Antioco Floris, Piergiorgio Floris, Eva Garau e Giampaolo Salice. Nel corso
di questi ultimi mesi la mia riflessione sul romanzo storico sardo è continuata conversando con Maria Lepori, Luciano Marrocu, Gianni Murgia, Lorenzo Tanzini e Gianfranco
Tore. A tutti loro va il mio più sentito ringraziamento.
n. 37
Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIII - Agosto 2016
ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online)
353
Nicoletta Bazzano
non più certezza storiografica ma oggetto d’indagine1. Il solido discorso
dispregiativo, che rimarca i tratti oppressivi e rapaci della presenza
spagnola in Europa e che ha come fondamenta l’Apologia di Guglielmo
il Taciturno così come le Relaciones di Antonio Pérez, i testi di John
Fox piuttosto che di Tommaso Campanella e che è stato più volte ribadito in Italia nel corso dell’Ottocento risorgimentale, tuttavia continua
a essere pronunciato, seppure non in sede accademica, permanendo
così persistentemente nell’immaginario collettivo contemporaneo e servendo ragioni politiche attuali, profondamente estranee alle motivazioni
che nel corso del tempo ne hanno giustificato l’utilizzo.
Un esempio di veicolazione dell’immagine negativa della presenza
spagnola è costituito dalla narrativa sarda di ambientazione storica
dell’ultimo quarantennio, che in questa sede verrà presa in esame,
nella (amara) convinzione che, oggi, la domanda espressa dalla società
venga quasi totalmente esaurita dai romanzieri. Essi privano gli studiosi di storia del ruolo ricoperto nel XIX e nel XX secolo nelle società
occidentali e lavorano alla formazione del senso comune, storico e no,
del pubblico, non preoccupandosi, però, della verità storica del messaggio di cui sono latori.
Attualmente, infatti, lo statuto sociale dello storico si dimostra particolarmente fragile e aggravato da un clima culturale che appare caratterizzato dal «presentismo» e da un forte bisogno di immediatezza
nell’esperienza del passato: come uno spettacolo barocco esso deve colpire senso e sentimento e non attivare discernimento e desiderio di
comprensione. Di fronte a tale necessità, è ovvio che la presenza all’interno del testo dell’autore, con le sue perplessità e i suoi dubbi oltre
che con le sue certezze nonché con tutta la strumentazione fornita dal
paratesto (note bibliografiche o archivistiche, in primis, ma anche tutti
gli altri apparati che generalmente corredano un’opera storiografica,
come trascrizioni documentarie, elaborazioni di dati numerici, resoconto del dibattito sulla questione o rassegna delle posizioni sul tale
argomento e così via), e di conseguenza, la costruzione – problematica,
singolare e irripetibile – del passato e del presente che ne deriva possa
risultare gravosa e poco affascinante per il lettore: al di là della questione del bello stile e delle capacità affabulatorie, che molti storici possiedono, non è all’emozione del lettore che lo studioso mira ma alla sua
capacità di riflessione. Lo scrittore invita, invece, a un processo emotivo
1
Oltre al classico J. Juderías, La leyenda negra de España, Tip. De la Revista de
Archivos, Madrid, 1914, si veda R. García Cárcel, La leyenda negra. Historia y opinión,
Alianza, Madrid, 1998. Un quadro sintetico della questione è offerto da A. Alvarez Ezquerra, La leyenda negra, Akal, Madrid, 1997. Recentissimo è Y. Rodríguez Pérez, A. Sánchez
Jiménez, H. den Boer, España antes sus críticos: las claves de la leyenda negra, Iberoamericana Editorial Vervuert, Madrid-Frankfurt-Norwalk, 2015.
354
La leyenda negra continua...: la Sardegna viceregia nella narrativa sarda
di immedesimazione: irrimediabilmente egli conquista un successo
maggiore di coloro che invitano a soffermarsi su «una casualità sofisticata, talora di lungo periodo, articolata»2. Non si tratta solo del postulato secondo cui la penna degli scrittori è migliore di quella degli
storici, quanto della diversa natura delle rappresentazioni che essi forniscono. Il racconto del romanziere è nitido, compatto: una catena ininterrotta di nessi causali, che giacciono sullo stesso piano sia quando
essi sono effettivamente rilevati, sia quando sono mero frutto di fantasia. Il passato descritto dal mondo narrativo romanzato è consequenziale e ordinato: poiché l’autore sparisce dietro la narrazione, sembra
venir meno anche la natura di rappresentazione parziale del passato
che il romanzo fornisce. Il discorso narrativo plasticamente compiuto
istituisce un’inevitabile successione fra passato, presente e futuro che
si presenta oggettiva, irreversibile e legittimante: agli occhi del lettore,
il fatto narrato non può essere stato che così…3.
Sicuramente, la leyenda negra, con i suoi chiaroscuri decisi, offre
materiali allettanti agli scrittori, poiché fornisce loro immagini e caratteri in grado di disegnare campiture nette e di attrarre i lettori, perpetuando in sovrappiù, in Italia, la tradizione nobile del romanzo storico,
da Manzoni a Sciascia a Vassalli, che molto spesso ha individuato
nell’età spagnola il teatro più adeguato per le sue narrazioni4. I romanzieri sardi attuali utilizzano l’arsenale drammatico fornito dalla leyenda
negra e si inseriscono, così, in questa parabola letteraria squisitamente
italiana, da un lato ripudiando la tradizione del romanzo storico così
come si è articolata in Sardegna nel corso dell’Ottocento, dall’altro –
malgrado il paradosso – declinandola e intrecciandola con specifici elementi identitari che hanno come matrice principale il “sardismo”, la
visione anzitutto politica che rivendica la specificità culturale isolana,
mantenuta attraverso i secoli senza soluzione di continuità, e il diritto
della Sardegna a un’amministrazione politica straordinaria che di ciò
tenga conto5.
2
F. Benigno, Introduzione: fare storia al tempo della memoria, in Id. Parole nel tempo.
Un lessico per pensare la storia, Viella, Roma, 2013, pp. 7-30.
3
M. Martinat, Tra storia e fiction. Il racconto della realtà nel mondo contemporaneo,
Et al., Milano, 2013, su cui si vedano le interessanti notazioni di F. Benigno, Realtà e
finzione. Benigno legge Martinat, «Storica», 56-57, 2013, pp. 299-306. Rilevanti spunti
di riflessione su questa tematica sono contenuti in F. Cassinari, Tempo e identità. La
dinamica di legittimazione nella storia e nel mito, Franco Angeli, Milano, 2005 e nei saggi
contenuti in S. Borutti (a cura di), Tempo e identità. Per ricordare Flavio Cassinari, Ibis,
Como-Pavia, 2011.
4
G. Cinelli, Il XVII secolo nel romanzo storico italiano come paradigma del male: Manzoni,
Sciascia, Vassalli, in G. Cinelli, P. Piredda (a cura di), La letteratura e il male, http://digilab2.let.uniroma1.it/ojs/index.php/Philologica/article/view/235/224, pp. 79-104.
5
Moltissimi i materiali sulla questione. Per un quadro d’insieme si veda F. Francioni,
Storia dell’idea di «nazione sarda», in M Brigaglia (a cura di), La Sardegna, II, La cultura
popolare, l’economia, l’autonomia, VI, L’autonomia regionale, pp. 165-183.
355
Nicoletta Bazzano
2. Il romanzo storico in Sardegna nell’Ottocento
Il romanzo storico in Sardegna si sviluppa, infatti, con grande
vigore, nel secondo Ottocento. Nella prima metà del secolo, infatti, solo
un autore estraneo all’isola, il tortonese Carlo Varese, ambienta in Sardegna, conosciuta solo attraverso il Voyage en Sardaigne di Alberto
Ferrero della Marmora e la Storia di Sardegna di Giuseppe Manno6,
due suoi romanzi, ispirati all’opera di Walter Scott e ambientati nell’ultima época aragonese, nella quale gli abitanti dell’isola manifestano la
loro fierezza contro l’invasore straniero: Il proscritto. Storia sarda e Preziosa di Sanluri7. Poco apprezzate in Sardegna al momento della loro
uscita, tali opere cominciano a riscuotere successo a partire dagli anni
Cinquanta del secolo, quando la grande stagione europea del romanzo
storico si conclude8. Proprio in questo momento la narrativa sarda di
ambientazione storica produce una messe rigogliosa9.
Antesignano della fioritura postunitaria è Vittorio Angius, autore di
Leonora d’Arborea o scene sarde degli ultimi lustri del secolo XIV, scritto
dapprima in sardo, poi tradotto in italiano dal medesimo autore e pubblicato nel 184710. Sacerdote scolopio, Angius è un autore versatile, in
grado di cimentarsi su diversi registri in italiano, latino e sardo. Proprio
in questo idioma, egli scrive il romanzo storico dedicato a una grande
personalità isolana dell’età medievale, la giudicessa Eleonora d’Arborea, contribuendo così alla formazione del suo mito11. Sulla sua scia
6
A. Della Marmora, Voyage en Sardaigne, de 1819 a 1825, ou description statistique,
physique et politique de cette île, avec des recherches sur ses productions naturelles et ses
antiquités, Paris 1926; G. Manno, Storia di Sardegna, 4 voll., Torino, 1925-1927.
7
C. Varese, Il proscritto. Storia sarda dell’autore di Sibilla Odaleta, Torino, 1830; Id.,
Preziosa di Sanluri ossia I montanari sardi. Romanzo storico, Macerata, 1835.
8
A.M. Morace, Il romanzo storico in Sardegna. Da Carlo Varese a Pompeo Calvia, in
F. Azteni, A. Mattone (diretta da), La Sardegna nel Risorgimento, Carocci, Roma, 2014,
pp, 959-1004.
9
E. Pilia, Il romanzo e la novella, Il Nuraghe, Cagliari, 1926, in part. p. 96.
10
V. Angius, Leonora d’Arborea o scene sarde del secolo XIV, Torino, 1847.
11
G. Siotto Pintor, Storia letteraria di Sardegna, Tipografia Timon, Cagliari, 18431844, 4 voll., passim; F. Loddo Canepa, Vittorio Angius. Profilo, Il Nuraghe, Cagliari, 1926;
R. Bonu, Scrittori sardi nati nel secolo XIX con notizie storiche e letterarie dell’epoca, vol.
II, Gallizzi, Sassari, 1961, pp. 261-276; B. Josto Anedda, Vittorio Angius politico, Giuffrè,
Milano, 1969; A. Accardo, Il mito della “nazione”: Vittorio Angius e la storia della Sardegna,
in Le autonomie etniche e speciali in Italia e nell’Europa mediterranea. Processi storici e
istituzioni, Consiglio regionale della Sardegna, Cagliari, 1988, pp. 511-527; L. Carta, Vittorio Angius. Opere poetiche e orazioni latine, «Archivio sardo del movimento operaio e
autonomistico», 35/37 (1991), pp. 109-175; Id., Il mito storiografico di Eleonora d’Arborea
in Vittorio Angius, in G. Sotgiu, A. Accardo, L. Carta (a cura di), Intellettuali e società in
Sardegna tra Restaurazione e Unità d’Italia, S’Alvure, Oristano, 1991, pp. 174-202; G.
Sotgiu, Vittorio Angius e i suoi tempi, Fndazione Siotto, Cagliari, s.d.; L. Carta, Il contributo
di Vittorio Angius al Dizionario geografico.storico-statistico-commerciale degli Stati di S.M.
il Re di Sardegna di Goffredo Casalis, in V. Angius, Città e villaggi della Sardegna dell’Ottocento, Vol. I, Abbasanta - Guspini, a cura di L. Carta, Ilisso, Nuoro, 2006, pp. 7-47.
356
La leyenda negra continua...: la Sardegna viceregia nella narrativa sarda
operano Pietro Carboni12, Enrico Costa e Pompeo Calvia , che si dedicano al romanzo storico con intenzioni manzoniane nel tentativo di costruire un pantheon sardo da congiungere a quello della nascente
nazione italiana13. L’avvocato cagliaritano Carlo Brundo, autore di
numerosi romanzi che vedono la luce nel corso degli anni, fino alla sua
morte avvenuta nel 1904, spazia invece nel passato raccontando, con
una penna non preoccupata dell’aderenza storica e giudicata anche
dai contemporanei eccessivamente fantasiosa, episodi dell’antichità
romana come dell’età di mezzo, dell’epoca aragonese come del periodo
spagnolo, anche se il passato giudicale sembra rientrare nettamente
nelle sue preferenze. Nella prosa di Brundo prevale, anche quando si
cimenta con la narrazione storiografica, il gusto della rappresentazione
bozzettistica: la Sardegna paesana e pastorale è l’autentica protagonista dei suoi racconti, dove il tratto folcloristico è assai più forte della
necessità di rappresentazione verosimile. Egli apre così le porte al
romanzo novecentesco14.
In effetti, il luogo altrove occupato dal romanzo storico, in Sardegna, nell’Ottocento, è dominato dalle pergamene e dai codici cartacei che per vent’anni, a partire dal gennaio 1845, vengono
fortunosamente ritrovati e venduti alla Biblioteca Universitaria di
Cagliari, diretta fino al 1866 da Pietro Martini, e che compongono le
cosiddette Carte d’Arborea: un vero e proprio feuilleton, non solo per
la periodicità con la quale avvengono le scoperte di nuovi documenti
del corpus ma anche per il numero dei personaggi e i colpi di scena:
incendi e ritrovamenti, perdite e agnizioni, segreti e bugie15. Mentre
si forgia il mito di Eleonora, sovrana saggia e coraggiosa, si costruisce
anche lo scenario smagliante all’interno del quale la giudicessa si
muove16 e si dà nuova luce anche al periodo più buio e misconosciuto
della storia sarda, quello che va dal VII al XI secolo, in una maniera
12
P. Carboni, Leonardo Alagon. Romanzo storico del secolo XV, 2 voll., Cagliari, 1872;
E. Costa, Rosa Gambella. Racconto storico sassarese del secolo XV con note e documenti,
Sassari, 1897; P. Calvia, Quiterìa, a cura di D. Manca, Cuec, Cagliari, 2010 (ma pubblicato in 15 puntate sulla rivista «La Sardegna letteraria» nel 1902).
13
E. Irace, Itale glorie, Il Mulino, Bologna, 2003.
14
A. Menesini, Forma e immaginazione, «Almanacco di Cagliari» (2012), pp. 212-213.
La vastissima produzione narrativa di Carlo Brundo non è ancora stata oggetto di un’analisi particolareggiata, probabilmente per i limitati meriti letterari; meriterebbe attenzione la sua opera di “costruzione del passato sardo”.
15
M. Brigaglia, Le Carte d’Arborea come romanzo storico, in L Marrocu (a cura di), Le
Carte d’Arborea. Falsi e falsari nella Sardegna del XIX secolo, AM&D, Cagliari, 1997, 303315, e N. Rudas, Le Carte d’Arborea come romanzo delle origini, ivi, pp. 505-527.
16
Sulla costruzione dell’immagine mitica della giudicessa Eleonora, si veda A. Mattone, Un mito nazionale per la Sardegna. Eleonora d’Arborea nella tradizione storiografica
(XVI-XIX secolo), in G. Mele (a cura di), Società e cultura nel Giudicato d’Arborea e nella
Carta de Logu, La poligráfica Solinas, Nuoro, 1995, pp. 17-50.
357
Nicoletta Bazzano
coerente e articolata, disegnando un medioevo colto e raffinato, indipendente e originale nella sua formulazione politica con l’erezione dei
giudicati: un mondo magnifico, custodito dalla dinastia dei giudici di
Arborea e cancellato dalla battaglia di Macomer e dalla disfatta di Leonardo Alagòn, ultimo marchese di Oristano, sconfitto dall’arrogante
e bruta forza militare catalana.
L’epopea storica sarda si risolve così in un tentativo di costruzione
identitaria, che renda i sardi degni di occupare un posto non marginale
all’interno della vita culturale italiana ed europea. Poco importa che le
Carte d’Arborea vengano giudicate (e siano) un grossolano falso, smascherato all’Accademia di Berlino da un gruppo di studiosi, fra i quali
spicca il nome di Theodor Mommsen: esse assolvono al compito preciso
di fornire un’identità storica definita e non marginale alla Sardegna,
nel momento in cui in tutta Europa si valorizzano le radici medievali
dei nascenti Stati nazionali17.
Con l’avvento del Novecento, in linea con quanto avviene altrove, in
Sardegna il romanzo storico cessa di essere un genere letterario frequentato: i romanzi di Enrico Costa (che pure con il romanzo storico si
è cimentato), di Grazia Deledda, di Salvatore Satta e di Emilio Lussu –
le personalità più significative di un panorama comunque ricco – ritraggono in un’ottica primitivistica la contemporanea realtà isolana, quasi
fosse connotata da un’evidente astoricità, e proprio per questo si rivelasse in grado di colpire l’immaginario collettivo europeo18. In ogni caso,
al centro dell’interesse degli autori sardi, vi è la Sardegna, che sempre
17
T. Mommsen e M. Haupt, Relazione sui manoscritti d’Arborea, «Archivio storico italiano», s. III, XII, 1870, pp. 243-280; B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo
decimonono, Laterza, Bari, 1947, vol. II, p. 50; G. Olla Repetto, La falsificazione d’Arborea: cui proderat?, in Le Carte d’Arborea cit., pp. 153-179; P. Gaviano, L’autore delle
Carte d’Arborea e le sue finalità, ivi, pp. 181-179; M.G. Cossu Pinna, Le Carte d’Arborea
alla Biblioteca Universitaria di Cagliari, ivi, pp. 195- 218; L. Marrocu, Inventando tradizioni, costruendo nazioni: racconto del passato e formazione dell’identità sarda, ivi, pp.
317-329; A. Accardo, L’invenzione della storia sarda nelle Carte d’Arborea, ivi, pp. 331343. Sull’appassionante vicenda che mette in luce la diversità metodologica esistente fra
gli studiosi italiani e quelli tedeschi, si veda A. Mattone, Theodor Mommsen e le Carte
d’Arborea. Falsi, passioni, filología vecchia e nuova fra l’Accademia delle Scienze di Torino
e quella di Berlino, in Theodor Mommsen e l’Italia, Accademia nazionale dei Lincei, Roma,
2004, pp. 345-411; il clima culturale della Sardegna del tempo è descritto in L. Marrocu,
Theodor Mommsen nell’isola dei falsari. Storici e critica storica in Sardegna tra Ottocento
e Novecento, Cuec, Cagliari, 2009.
18
P. Pittalis, Scrittori e pittori: la scoperta della sardità, in M. Brigaglia, A. Mastino,
G.G. Ortu (a cura di), Storia della Sardegna, vol. V, Laterza, Roma-Bari, 2002, pp. 102127; S. Paulis, La costruzione dell’identità. Per un’analisi antropologica della narrativa in
Sardegna fra ‘800 e ‘900, Edes, Sassari, 2006; Ead., Identità sarde nell’opera di Enrico
Costa, in G. Marci, S. Pilia (a cura di), Minori e minoranze tra Otto e Novecento. Convegno
di studi nel centenario della morte di Enrico Costa (1841-1909), Cuec, Cagliari, 2009, pp.
269-279.
358
La leyenda negra continua...: la Sardegna viceregia nella narrativa sarda
più nel corso del Novecento viene rappresentata come un mondo in
bilico fra millenaria tradizione e incipiente modernità, non sempre
salutata con entusiasmo19.
La riproposizione del romanzo storico sull’isola è fatto relativamente recente e solo in parte riconducibile a quel gusto ludico che
informa il genere a partire dagli anni Ottanta del Novecento20. Sin
dal loro primo apparire, infatti, i romanzi di ambientazione storica
presentano caratteristiche molto diverse da quelle della produzione
nazionale e internazionale. In un panorama contraddistinto dalla
“leggerezza”, essi si assumono una responsabilità pubblica, altrove
introvabile. Non a caso l’unico scenario è la Sardegna, nel cui passato si trovano i materiali necessari per la costruzione di un originale
mondo narrativo21. Diversamente, però, dagli autori ottocenteschi
che si sono cimentati con il racconto del passato, il periodo storico
cui vanno le loro preferenze non è l’idealizzato medioevo arborense –
che le Carte, ancorché false, avevano contribuito a imprimere nella
memoria collettiva sarda come ineguagliata età d’oro, complice anche
la costruzione di un’immagine gloriosa di Eleonora d’Arborea – ma
l’età moderna, con una preferenza spiccata per il periodo spagnolo,
visto come un’epoca di contrapposizione fra un dominatore aggressivo che giunge dal mare e i sardi, che in omaggio alla visione “sardista” sono ritratti come un popolo che sembra destinato a essere
dominato ma mai soggiogato o sconfitto.
19
G. Contini, La letteratura italiana del Novecento, in M. Brigaglia (a cura di), La Sardegna, I, Geografia, storia, letteratura, arte, III, Letteratura e arte, Edizioni Della Torre,
Cagliari, 1982, pp. 43-54.
20
Non va dimenticato che la ripresa del romanzo storico come genere da riproporre
sul mercato editoriale è avvenuta sotto il segno del disimpegno. Come scriveva Umberto
Eco, nell’introduzione a Il nome della rosa, quando racconta delle vicissitudini che lo
hanno indotto a trascrivere a memoria un ipotetico manoscritto di cui è venuto temporaneamente in possesso e che ha poi perduto «Trascrivo senza preoccupazioni di attualità. Negli anni in cui scoprivo il testo dell’abate Vallet circolava la persuasione che si
dovesse scrivere solo impegnandosi sul presente, e per cambiare il mondo. A dieci e più
anni di distanza è ora consolazione dell’uomo di lettere (restituito alla sua altissima dignità) che si possa scrivere per puro amor di scrittura. E così ora mi sento libero di raccontare, per semplice gusto fabulatorio, la storia di Adso da Melk, e provo conforto e
consolazione nel ritrovarla così incommensurabilmente lontana nel tempo (ora che la
veglia della ragione ha fugato tutti i mostri che il suo sonno aveva generato), così gloriosamente priva di rapporto coi tempi nostri, intemporalmente estranea alle nostre speranze e alle nostre sicurezze»: U. Eco, Il nome della rosa, Bompiani, Milano, 1980, p. 7.
21
G. Marci, Introduzione, in Id. (a cura di), Scrivere al confine. Radici, moralità e cultura nei romanzieri sardi contemporanei, Cuec, Cagliari, 1994, pp. 7-23; G. Sulis, «Anche
noi possiamo raccontare le nostre storie». Narrativa in Sardegna, 1984-2015, in L.
Marrocu, V. Deplano, F. Bachis (a cura di), La Sardegna contemporanea. Idee, luoghi,
processi culturali, Donzelli, Roma, 2016, pp. 531-555.
359
Nicoletta Bazzano
3. Il sardismo e la tarda invenzione della leyenda negra sarda
Alimentato nel corso del secondo dopoguerra da una nutrita serie
di dibattiti e da una crescente valorizzazione (della reinvenzione) del
passato, anche se oggi si manifesta sempre più blandamente all’interno
del dibattito pubblico isolano, il “sardismo” continua ancor oggi a fornire il lessico ai discorsi sull’isola e, non arrivando a tradursi in matura
proposta politica, si trasforma in mugugno rivendicativo. In tale prospettiva, la presenza romana, bizantina, pisana, aragonese, spagnola,
sabauda e, infine, italiana si sono rivelate, nel corso dei secoli, in un
crescendo dovuto al parallelo miglioramento dei metodi della pubblica
amministrazione e del governo, letalmente soffocanti per la vita della
Sardegna e dei sardi. Unica parentesi è quella rappresentata dal
Medioevo giudicale, conclusosi in maniera rovinosa con la sconfitta di
Sanluri (30 giugno 1409) da parte delle truppe catalano-aragonesi.
L’idea di una continua aggressione da parte di un invasore straniero, piemontesi (e italiani) compresi, è quella che trova la sua più
ampia e colta espressione ne La civiltà dei sardi di Giovanni Lilliu,
autore di fondamentali studi sulla preistoria, ma fonte di perplessità
in sede scientifica per l’estensione di alcune categorie interpretative
all’età medievale e moderna. Le considerazioni di Lilliu prendono le
mosse dalla scoperta della civiltà nuragica di Barumini e dall’analisi
compiuta su di essa22. Nella visione dell’archeologo sardo, nel corso dei
millenni, agli invasori, da qualsiasi luogo giungessero, si è contrapposta la «resistenzialità» sarda, la capacità degli isolani di riuscire a
«conservarsi sempre se stessi»23: messaggio che percola nell’attuale
narrativa di ambiente storico, fino a diventarne una costante insieme
con la propensione a rappresentare le persecuzioni patite24.
22
T. Cossu, Dall’identità al passato: il caso della preistoria sarda, in G. Angioni, F.
Bachis, B. Caltagirone, T. Cossu (a cura di), Sardegna. Seminario sull’identità, Cuec-Isre,
Cagliari, 2007, pp. 19-125; F. Frongia, Le torri di Atlantide. Identità e suggestioni preistoriche in Sardegna, Il Maestrale, Nuoro, 2012.
23
La rivendicazione di una specificità della cultura sarda, da riconoscere, tutelare e
valorizzare, percorre l’intera sterminata opera, scientifica e pubblicistica, di G. Lilliu.
Sul suo straordinario apporto scientifico e político si vedano A. Contu, Giovanni Lilliu.
Archeologia militante e questione nazionale sarda, Zonza, Cagliari, 2006 e G. Lilliu, Opere,
a cura di A. Contu, Zonza, Cagliari, 2006. Per una bibliografía degli scritti si vedano inoltre G. Lilliu, Le ragioni dell’autonomia, a cura di G. Marci, presentazione di L. Ortu, Cuec,
Cagliari, 2002, pp. 419-440 e A. Moravetti (a cura di), Sardegna e Mediterraneo negli
scritti di Giovanni Lilliu, Carlo Delfino editore, Sassari, 2008, pp. 17-34.
24
L. Berlinguer, A. Mattone, L’identità storica della Sardegna contemporanea, in L.
Berlinguer, A. Mattone, La Sardegna, Einaudi, Torino, 1998, pp. XIX-XLVIII. Che i sardi
odierni non possano essere assolutamente apparentati ai sardi nuragici è suggerito dalle
analisi del Dna compiute da E. Sanna, Il popolamento della Sardegna e le origini dei Sardi,
Cuec, Cagliari, 2006.
360
La leyenda negra continua...: la Sardegna viceregia nella narrativa sarda
Con queste premesse, all’interno della narrativa sarda, viene
modellata una leyenda negra, che identifica nella Spagna un nemico
soffocante, forse il peggiore, della civiltà isolana. Si tratta però di un
discorso recente, che manca di radici nel passato. Esso, infatti, non
era stato pronunciato nella Sardegna spagnola, dove non appare fra
Quattro e Seicento un filone letterario antispagnolo, laddove in altre
province della Monarchia altrettanto “fedeli” non mancano, soprattutto nei momenti problematici, opere fortemente critiche nei confronti della Spagna25.
Esso viene enunciato solo successivamente alla definitiva scomparsa dall’orizzonte politico isolano della Spagna, quando la Sardegna
è ormai in mano dei Savoia che si apprestano a proiettarsi sull’intero
territorio della Penisola italiana. Peraltro, gli scrittori di età sabauda si
dividono fra i tanti che vedono in un supposto centralismo spagnolo –
spesso simboleggiato dall’attività di governo di Filippo II – il necessario
e autorevole precedente dell’azione piemontese e i pochi che, prima
dell’avvento ritenuto quasi salvifico dei Savoia, accomunano in un
insieme connotato dalla negatività tutte le presenze susseguitesi nell’isola26. Fra costoro è possibile ricordare a solo titolo di esempio Pasquale Tola che, nel Discorso preliminare al suo Dizionario degli uomini
illustri di Sardegna, edito nel 1837-38, parla de «la crudeltà dei cartaginesi, il disprezzo di Roma, la desolazione vandalica, la trascuranza
dei greci imperatori, la barbarie dei saraceni, l’ignoranza dei regoli, l’avidità pisana, la genovese avarizia, la povertà degli aragonesi, la superbia spagnola», un autentico elenco di piaghe d’Egitto subite dalla
Sardegna nel corso dei secoli27.
Gli odierni romanzieri sardi, tuttavia, propongono l’idea dell’oppressione spagnola, come se essa abbia sempre fatto parte del discorso
pubblico isolano e, pur, nella diversità di voci che propongono ne fanno
una costante narrativa.
25
Di tale produzione, fatta qualche anno fa oggetto di studio nel volume A. Musi (a
cura di), Alle origini di una nazione. Antispagnolismo e identità italiana, Guerini e Associati, Milano, 2003, valga solo come esempio il famoso Pianto d’Italia di Fulvio Testi, sul
quale mi permetto di rimandare a N. Bazzano, Donna Italia. Storia di un’allegoria dall’antichità ai giorni nostri, Angelo Colla editore, Costabissara (Vi), 2001, pp. 80-82.
26
A. Mattone, Antispagnolismo e antipiemontesismo nella tradizione storiografica
sarda (XVI-XIX secolo), in A. Musi (a cura di), Alle origini di una nazione. Antispagnolismo
e identità italiana cit., pp. 267-309.
27
P. Tola, Dizionario degli uomini illustri di Sardegna, Torino, 1837-38.
361
Nicoletta Bazzano
4. Alcuni esempi narrativi : Azteni, Angioni, Maurandi, Strinna, Migheli
La Sardegna dei viceré spagnoli è, quindi, il teatro all’interno del
quale vengono inseriti intrecci che, alla lettura, si mostrano assai
diversi nei contenuti, nel tenore delle vicende raccontate, nel ritmo
della narrazione e nella qualità della scrittura.
Affresco visionario, di notevole pregio, è L’apologo del giudice bandito
di Sergio Azteni (1986): un libro per molti versi pionieristico, ambientato
nel 1492 fra palazzi fortificati, conventi cagliaritani e scogliere battute
dal vento28. Mille sono le vicende che l’autore segue nel dispiegarsi del
romanzo: il dissidio fra le autorità religiose e civili cagliaritane per
istruire un processo contro le cavallette che hanno invaso l’isola e provocato la carestia29; la sfacciataggine del poeta di strada Michele Misericordia che irride i potenti; il desiderio frustrato del nobile rampollo
Rodrigo Curraz verso la schiava Juanica; la prigionia da parte del viceré
del bandito Itzoccor Gunale, appartenente a una stirpe di “giudici”, di
uomini giusti; la malattia e la follia dello stesso viceré, costretto a presenziare alla processione che dovrebbe scacciare le cavallette dall’isola...
La scelta di collocare le mille vicende che si intrecciano nel romanzo
nell’anno della scoperta dell’America, data che tradizionalmente chiude
una presunta oscura età medievale e apre significativamente le porte
all’età moderna dove maturano i valori egualitari della contemporaneità, non è casuale. Tale scelta serve a caratterizzare come particolarmente arretrata la realtà rappresentata: un presente asfittico,
seppure agitato da un eterno movimento, e uguale a se stesso, incapace di evolvere ma solo di procedere sulla via della corruzione e del
disfacimento. Il clima di decomposizione in cui versa gran parte della
società rappresentata – quella costituita da dignitari e prelati – è scientemente amplificato dalla scelta dell’autore di storpiare i nomi, storicamente attestati di quanti affollano la scena: Zitrelles prende il posto
del corretto Zatrillas, Cruz di Santa Cruz, Curraz di Carroz, Urogall di
Aragall, Cordano di Cardona, Zopoto di Zapata)30.
28
S. Azteni, L’apologo del giudice bandito, Sellerio, Palermo, 1986. Una breve sintesi
del romanzo è offerta da G. Murru, Sergio Azteni. Apologo del giudice bandito (1986), in
G. Marci (a cura di), Scrivere al confine. Radici, modalità e cultura nei romanzieri sardi
contemporanei, Cuec, Cagliari, 1994, pp. 115-123.
29
L’invasione del 1492 non è però documentata, come si evince dalle pagine dedicate
alla Sardegna nel volume E. Gugliuzzo. G. Restifo, La piaga delle locuste. Ambiente e
società nel Mediterraneo di età moderna, Giapeto, Napoli, 2014.
30
S. Contarini, R. Onnis, Reinterpretazioni del codice barbaricino: i banditi di Sergio
Atzeni, in P. Serra (a cura di), Questioni di letteratura sarda. Un paradigma da definire,
Franco Angeli, Milano, 2012, pp. 215-225; B. Anatra, L’invenzione della storia, in G.
Marci, G. Sulis (a cura di), Trovare racconti mai narrati, dirli con gioia, Cuec, Cagliari,
2001, pp. 81-86: Un ritratto dello scrittore è costituito da G. Marci, Sergio Azteni: a lonely
man, Cuec, Cagliari, 1999, mentre un’aggiornata bibliografía è reperibile su
http://www.sergioatzeni.com/sergioatzeni.com%20.%20bio%20bibliografia.pdf.
362
La leyenda negra continua...: la Sardegna viceregia nella narrativa sarda
D’altronde, come si evince dal romanzo-testamento Passavamo
sulla terra leggeri, edito postumo nel 1996, la fantasmagorica vicenda
millenaria della Sardegna ha il suo triste epilogo, secondo Atzeni,
nella cessione dell’isola alla Corona d’Aragona da parte di papa Bonifacio VIII31.
A vent’anni di distanza dalla proposta di Atzeni, in un clima culturale mutato e forse maggiormente ricettivo verso la narrativa di
impronta storica, vede la luce la raffinata rilettura della drammatica
vicenda umana dell’umanista e funzionario regio Sigismondo Arquer
(1530-1571) da parte dell’antropologo Giulio Angioni: Le fiamme di
Toledo (2006)32. Egli non prende posizione rispetto alla tradizione storiografica sul personaggio, divisa nel rintracciare le responsabilità della
prigionia da parte dell’Inquisizione e del rogo. La tradizione storiografica sarda, infatti, ha sempre visto in Arquer la vittima di un gioco politico tutto isolano: egli e il padre, Giovanni Andrea, nell’esercizio delle
loro funzioni di ministri del sovrano, avrebbero offeso famiglie feudali
importanti dell’isola, gli Aragall, i Torrellas, gli Zapata e, soprattutto,
gli Aymerich, nella persona del capofamiglia, don Salvador. Il dissidio
fra arroganti feudatari e rispettosi servitori della Corona si sarebbe
trascinato nel corso del Cinquecento, conducendo spesso in prigione
con false accuse gli Arquer, padre e figlio, per poi concludersi con la
cattura, ancora una volta sulla base di imputazioni pretestuose, del
secondo e della sua morte sul rogo.
Le ricerche più recenti hanno, invece, ridimensionato l’incidenza
nella vicenda di contrasti locali, per mettere in rilievo, invece, le posizioni dissidenti di Arquer e la sua appartenenza alla corrente di pensiero valdesiano che si sviluppa su matrice luterana e calvinista e che
si diffonde in gran parte del mondo iberico33. Le due interpretazioni
S. Azteni, Passavamo sulla terra leggeri, Ilisso, Nuoro, 1996: un testo impegnativo
che sarà oggetto di trattazione in altra sede.
32
G. Angioni, Le fiamme di Toledo, Sellerio, Palermo, 2006.
33
Inclini a rintracciare le cause della prigionia di Arquer nelle vicende sarde sono D.
Scano, Memorie e documenti. Sigismondo Arquer, «Archivio Storico Sardo», XIX, I-II, 1935,
pp. 3-137 e B. Anatra, Dall’unificazione aragonese ai Savoia, in J. Hay, B. Anatra, L.
Scaraffia (a cura di), La Sardegna medievale e moderna, Utet, Torino, 1984, pp. 450461. Una rilettura delle vicende biografiche di Arquer in chiave filoprotestante è data da
M.M. Cocco, Sigismondo Arquer dagli studi giovanili all’autodafè, Deputazione di Storia
Patria per la Sardegna – Università degli Studi di Cagliari, Cagliari, 1987, e da M. Firpo,
Alcune considerazioni sull’esperienza religiosa di Sigismondo Arquer, in Id., Dal sacco di
Roma all’Inquisizione. Studi su Juan de Valdés e la Riforma italiana, Edizioni dell’Orso,
Alessandria, 1998, pp. 161-220. Le diverse posizioni sono discusse da M. Loi, Sigismondo
Arquer. Un innocente sul rogo dell’Inquisizione. Cattolicesimo e protestantesimo in Sardegna e Spagna nel ‘500, Amed edizioni, Cagliari, 2003 e R. Turtas, Sigismondo Arquer.
Introduzione biografica, in S. Arquer, Sardiniae brevis historia et descriptio, a cura di M.T.
Laneri, Cuec, Cagliari, 2007.
31
363
Nicoletta Bazzano
s’intrecciano nella narrazione di Angioni34, che peraltro sembra non
aspirare a realizzare un vero e proprio romanzo storico, ma quasi il
memoriale di una vittima predestinata che nelle ultime ore della sua
esistenza ripercorre le tappe che lo hanno condotto alla prigionia e che
lo porteranno alla morte.
Totalmente frutto della fantasia dell’autore sono, ad esempio, le
pagine dedicate a un ipotetico soggiorno di Arquer nei Grigioni, isola
della tolleranza nella descrizione idillica che ne porge il romanzo. Inoltre, nelle pagine di Angioni i dettagli fattuali giungono come l’eco di
rumori lontani, distanti dalla cella dove trascorre gli ultimi giorni
Sigismondo Arquer. Angioni non si preoccupa dell’aderenza storica di
quanto racconta, ma piuttosto del valore ideologico della sua rappresentazione letteraria: Arquer è un martire del libero pensiero, dalle
«idee comuniste anabattiste»35 che per quanto azzardate mai e poi mai
devono condurre alla morte, e soprattutto per mano di un potere
ottuso, sordo e cieco alle istanze degli uomini in carne e ossa e pronto
solo a seguire le regole che consentono di perpetuarsi. Così, nelle carceri di Toledo, trova posto una serie di vittime tipologicamente esemplari (la strega, la prostituta, il bestemmiatore, il sodomita, il
corruttore di monache…), campioni di una sofferenza ingiusta.
Hombres y dinero (2010) di Pietro Maurandi è la riproposizione
romanzesca di fatti effettivamente avvenuti in Sardegna nel 1668: l’assassinio del marchese di Laconi e quello del viceré Camarasa36. La
narrazione prende le mosse dall’arrivo in Sardegna del giudice napoletano Juan de Herrera, personaggio effettivamente esistito, chiamato a
34
G. Angioni, Le fiamme di Toledo cit., p 49: «Ho fatto male, oggi lo so, a insistere
su queste e altre cose simili qui in tribunale per spiegare la malevolenza di certi testimoni sardi contro di me, di una terra dov’è più facile comprare cento spergiuri a
favore di una falsità che trovare due testi spontanei in favore della verità»; ivi, p. 140141: «L’odio degli Aymerich, origine a causa dei miei guai, ha annoiato i miei giudici.
Storie della mia terra, lo so, miserie antiche e nuove, chiacchere come quelle che già
Dante irrideva nei sardi giù all’inferno, che “a dir di Sardigna le lingue lor non si sentono stanche”. Siamo fatti così. Ma siamo fatti male. Come una specie di condanna,
ci sbraniamo nella nostra aiola di terra in mezzo a troppo mare. Così ho fatto io, partendo dall’odio sardo degli Aymerich contro noi Arquer. Io non l’ho acceso né cercato,
ci sono nato dentro»; ivi, p, 143: «Ho ereditato da avvocato fiscale della città di Cagliari
tutte queste lotte tra la feudalità isolana, Aymerich in testa, contro la corte viceregia.
Il diavolo ci ha messo la coda, ma tutto può ridursi al grano, al pane nostro quotidiano: le rivalità e le lotte aperte e chiuse tra l’amministrazione viceregia e la feudalità
vecchia e recente erano e sono lotte per il grano, comprato e requisito, di scorta e da
esportare. Gli Aymerich si sono fatti ricchi e nobili coi traffici anche illeciti del grano
dentro e fuori l’isola. E queste dispute mortali sulla vera fede, da noi laggiù nell’isola
si sono usate per fare i propri affari».
35
Ivi, p. 47. Inutile sottolineare l’anacronismo dell’espressione.
36
P. Maurandi, Hombres y dinero. Storia di passioni, congiure e delitti nella Sardegna
spagnola, Cuec, Cagliari, 2010.
364
La leyenda negra continua...: la Sardegna viceregia nella narrativa sarda
coadiuvare il viceré Francesco Tuttavilla, duca di San Germano, nell’inchiesta per i due omicidi. Il giudice rilegge la documentazione relativa
all’omicidio di Agustin de Castelvì, marchese di Laconi, alla luce del
racconto degli avvenimenti che gli viene fatto da alcuni abitanti di
Cagliari di bassa estrazione sociale, e delinea le tensioni politiche che
percorrono la Sardegna del secondo Seicento, caratterizzata da una
contrapposizione fra sardi e spagnoli. I primi, nobili e popolani, hanno
il proprio campione nel marchese di Laconi, prima voce dello stamento
militare di un Parlamento che ha negato il rituale donativo al sovrano
nella consapevolezza del diniego alle proprie proposte da parte della
Corona, e che richiede con forza che la Sardegna venga governata da
sardi e non da spagnoli. Il suo assassinio viene compiuto, nella ricostruzione di Maurandi, su commissione della viceregina e della marchesa di Villasor, sua sodale, tradizionale esponente di una famiglia
nemica a quella del marchese. La morte di Agustin de Castelvì accende
la rabbia sarda contro lo strapotere spagnolo. L’indignazione culmina
nell’assassinio del viceré: una vendetta del «partito sardo» contro l’arroganza e l’alterigia viceregia.
Il processo contro gli assassini del viceré – esponenti della nobiltà
dell’isola – conduce anche a una revisione del processo contro gli
assassini del marchese di Laconi: in virtù del desiderio del nuovo viceré
di cancellare le insinuazioni che vogliono che la viceregina, ormai
vedova del marchese di Camarasa, sia la principale mandante del
delitto contro la prima voce dello stamento militare, il giudice Herrera
istruisce una nuova indagine. Questa volta, la giovanissima vedova del
marchese di Laconi e il cavaliere Silvestre Aymerich, che nel frattempo
sono convolati a nozze, sono visti come i colpevoli dell’assassinio, compiuto per motivi passionali: il giudice è amareggiato dalla ragion di
Stato che lo ha indotto a manipolare quanto egli è venuto scoprendo
sull’assassinio del marchese di Laconi, vittima della crudeltà spagnola,
così come colpiti sono coloro che hanno pensato di liberarsi dell’asfissiante presenza spagnola.
Poco interessato a una ricostruzione veritiera non solo degli avvenimenti ma anche della vita quotidiana che rappresenta, non a caso costellata di anacronismi e forzature37, e lontano dal disegnare le effettive
(e storicamente comprovate) dinamiche fazionali regnicole e i caratteri
37
Sui vari tipi di anacronismo si veda C. Barbanente, Appunti sugli effetti di anacronismo nel romanzo storico contemporaneo, in M. Columni Camerino (a cura di), La storia
nel romanzo (1800-2000), Bulzoni, Roma, 2008, pp. 199-236. Fra le tante imprecisioni
che il romanzo contiene, evidente è quella riguardante il fil’ ‘e ferru, la tipica acquavite
del Logudorese, più volte richiamato nel testo. Com’è noto, fil’ ‘e ferru è il nome che
prende l’abbardente circa un secolo fa, quando essa veniva prodotta clandestinamente
e nascosta sotto terra per non essere trovata durante eventuali ispezioni: un filo di ferro
che fuoriusciva dal terreno ne indicava la posizione.
365
Nicoletta Bazzano
della società del tempo, Maurandi insiste sul (presupposto) conflitto
fra sardi e spagnoli, ignorando peraltro che la nobiltà sarda, com’era
uso, tesseva i propri legami matrimoniali al di fuori dell’isola portandovi
spose dagli altri regni della Monarchia, e che la sensibilità del tempo
conduceva a distinguere all’interno del mondo spagnolo i castigliani
dagli aragonesi, i catalani dai valenzani e così via38.
Maurandi, nel suo desiderio di tracciare una linea netta fra sardi e
spagnoli non teme di esasperare il contrasto fra i due schieramenti (o
partiti, come più volte li chiama), ammantando i primi di ogni virtù e i
secondi di ogni nequizia. Agustìn de Castelvì, le cui uniche debolezze
sono i piaceri della carne, è un uomo maturo e vigoroso, spavaldo con
i forti e premuroso con i deboli, latore di un progetto politico maturo e
consapevole. Francisca Zatrilla è una giovane moglie trepidante, il cui
sentimento per il coetaneo Silvestre Aymerich è causato dalle continue
infedeltà del marito e, comunque, è negato e frustrato, per manifestarsi
poi con grande pudore dopo settimane di tormentata vedovanza. Maria,
la giovane guardarobiera di Francisca, originaria di Stampace, è bella,
sincera e ardimentosa, in grado di resistere alle sconvenienti avances
del cavaliere spagnolo Miguel, uno di quei «giovani dignitari che passavano il loro tempo ad angariare la gente del popolo»39, che di lei si è
invaghito; inoltre si dimostra una fanciulla determinata e decisa a salvaguardare il buon nome della sua signora, infangato dai sospetti.
Antonio, il suo corteggiatore e futuro marito, è forte, instancabile nel
lavoro, coraggioso, attento e, soprattutto, valoroso nel difendere l’onore
dei sardi. L’avvocato Deonetto, mente del partito sardo, è saggio e
sapiente, fragile come ogni uomo di pensiero di fronte alla bruta violenza dei soldati spagnoli che lo aggrediscono. Perfino gli abitanti dello
stagno di Santa Gilla, presso Cagliari, sono silenziosi «piccoli uomini,
cotti dal sole e corrosi dall’umido»40 ma consapevoli dell’incolmabile
distanza con gli spagnoli e pronti a dare loro filo da torcere.
Di contro, il viceré Camarasa è un debole vanitoso, la viceregina
sua moglie un’instancabile virago, capricciosa e spietata41, la loro
38
La vicenda era già stata al centro dello sforzo ricostruttivo di D. Scano, Donna Francesca Zatrillas, marchesa di Laconi e di Sietefuentes, «Archivio storico sardo», XXIII (1941),
pp. 3-349, che tuttavia mantiene un tono assai più distaccato.
39
P. Maurandi, Hombres y dinero cit., p. 233.
40
Ivi, p. 259.
41
Ivi, p. 187: «Donna Isabel, così indifesa e impaurita nei giorni dell’assassinio del
marito, non era affatto una donna debole e remissiva. Aveva organizzato lei una vera
corte viceregia, quella corte così spensierata e barocca, si era circondata di personaggi
frivoli, poco interessati alle cose di Caller e della Sardegna, Era in gran parte ispirato da
lei quel profondo disprezzo per la nobiltà sarda, che in tante occasioni si manifestava
sottilmente e qualche volta esplodeva incontrollato. Apparteneva a una nobile famiglia
castigliana, il suo carattere autoritario e volitivo la metteva al centro di tutte le attenzioni,
366
La leyenda negra continua...: la Sardegna viceregia nella narrativa sarda
complice marchesa di Villasor una malvagia intrigante, i cortigiani
madrileni politici incapaci di comprendere la fedeltà dei sardi alla
Corona e il loro desiderio di governare il regno di Sardegna autonomamente, seppur in concordia con il sovrano. Maurandi si discosta,
quindi, dalla storiografia più accreditata che si è soffermata a più
riprese sui delitti consumatisi nel tardo Seicento cagliaritano e che
riconosce la matrice passionale nell’assassinio del marchese di
Laconi, un tracotante aristocratico, e reperisce cause complesse per
la trattativa che egli come prima voce dello stamento militare porta
avanti. Lo scrittore, invece, imbastisce – sulla base di fatti realmente
accaduti – un racconto totalmente di fantasia e non privo di imprecisioni nell’ambientazione42.
Ugualmente basato su vicende effettivamente avvenute, anche se
meno conosciute e avvolte da un velo leggendario, è L’eroe maledetto
(2013) di Antonio Strinna, che ripercorre la vicenda del bandito Giovanni Galluresu già raccontata dal cronista secentesco Giorgio Aleo
e poi ripresa in un romanzo storico di fine Ottocento, L’alcaide di Longone di Carlo Brundo43. Il protagonista del romanzo è un orfano, allevato da un frate, che ventenne diviene torriere a Longonsardo,
l’odierna Santa Teresa di Gallura, e che, una notte in cui i suoi commilitoni si sono allontanati dalla torre per festeggiare la Pasqua, da
solo, sconfigge un centinaio di mori, giunti sulla costa con tre sciabecchi e pronti e portare morte e distruzione sulle coste sarde. L’impresa gli fa meritare il titolo di alcalde; ma gli onori che riceve non gli
fanno dimenticare la sua posizione di orfano, che non conosce i genitori, assassinati mentre egli stava ancora nella culla. Per questo, si
mette in cammino per la Gallura prima e per il Logudoro poi per cercare l’assassino. Egli stesso, però, si macchia le mani di sangue innocente, diventando un bandito, seppure sempre e solo ai danni di
quanti sono ricchi e spietati. L’incontro con la comprensiva vedova
Agnese riesce a fargli trovare tregua temporanea al suo affannoso
quelle buone e quelle cattive, voce di popolo voleva che fosse lei, assai più del marito, la
lucida conduttrice degli affari di governo e di famiglia. Lei, ancor più del viceré era ritenuta dal partito sardo la mandante del primo delitto».
42
F. Manconi, Don Agustìn de Castelvì, “padre della patria” sarda o nobile-bandolero?,
«Diritto @ storia», 2, 2003, online; J. Revilla Canora, El asesinato del virrey Marqués de
Camarasa y el pregón general de Duque de San Germán (1668-1669), in E. Serrrano (a
cura di), De la tierra al cielo. Líneas recientes de investigación en historia moderna, Institución Fernando el Católico, Madrid, 2013, pp. 575-584.
43
A. Strinna, L’eroe maledetto, Arkadia, Cagliari, 2013. La vicenda è narrata nel
manoscritto di G. Aleo, pubblicato solo nel corso della prima metà del Novecento (G.
Aleo, Storia cronologica di Sardegna (1637-1672), tradotta da p. Attanasio da Quartu, Editrice cattolica sarda, Cagliari, 1926, pp. 116-117), e viene ripresa da C. Brundo, L’Alcaide
di Longone. Racconto storico del XVII secolo, Cagliari, 1870.
367
Nicoletta Bazzano
girovagare; ma proprio mentre lascia la casa della donna, Galluresu
viene preso dai soldati del viceré che lo uccidono. Di lui rimarrà un
figlio e l’imperituro ricordo, fissato per sempre in strofe popolari, cantate in ogni dove nella Sardegna del tempo e destinate a essere ripetute nei secoli, a suggello della vita di un uomo valoroso e
intemperante a ogni forma di ingiustizia.
Totalmente frutto di fantasia è invece La storia vera di Diego Henares de Astorga (2013) di Nicolò Migheli44, un romanzo che, a differenza
di molta della produzione narrativa isolana, nel ritrarre la Sardegna
del secondo Cinquecento tiene conto della vicenda complessiva della
Monarchia asburgica. Il protagonista, che dà il titolo al volume, è un
pastorello castigliano che prima di approdare a Cagliari si arruola
nelle truppe di Filippo II: il Mediterraneo levantino, le Fiandre e la
catalana Barcellona sono gli scenari nei quali si svolgono le sue gesta
prima che diventi ayudante mayor del sovrintendente alle fortificazioni
cagliaritane, grazie alla sua capacità di barcamenarsi fra le due fazioni
in lotta sull’isola che fanno capo alle famiglie degli Aymerich e degli
Zatrillas. Il suo successo è coronato dalle nozze con una ricca fanciulla
sarda, Julia. Ben presto, però, in base agli ordini ricevuti da Madrid,
Diego deve ledere gli interessi degli Aymerich, che a loro volta, per vendicarsi dell’oltraggio subito dall’ayudante mayor, brigano affinché
Julia sia incarcerata dal Tribunale dell’Inquisizione con l’accusa di
essere una strega. Allontanatosi da Cagliari in preda a una rabbiosa
disperazione, Diego entra a far parte di una quadrilla, una banda nobiliare, nelle lande del Montiferru. Prima impresa della quadrilla è la
liberazione di Julia, in viaggio verso le carceri inquisitoriali di Sassari:
un atto che fa diventare Diego un fuorilegge che però riceve protezione
dalle genti sarde di Urassala, di cui diviene compaesano, in attesa di
nuove avventure.
5. L’uso pubblico odierno dell’antispagnolismo
Assai diversi per tono e ritmo narrativo, oltre che per fuoco, questi
romanzi rivelano un’unità di fondo, come specchi che – con prospettive
diverse – riflettono sostanzialmente la stessa immagine, e la comune
volontà di dare, attraverso un affresco del passato, un’interpretazione
forte del presente. L’antispagnolismo, più o meno evidente, non è semplicemente un elemento di colore, ma un sentimento che nasce dal sentirsi oggetto di persecuzione costante, la cui pericolosità non
diminuisce con la lontananza: «”Re Filippo credo non c’entri nulla. È
44
368
N. Migheli, La storia vera di Diego Henares de Astorga, Arkadia, Cagliari, 2013.
La leyenda negra continua...: la Sardegna viceregia nella narrativa sarda
la sua corte che ce l’ha con noi. Che vuole asservirci e dominarci, succhiandoci tutte le ricchezze […]”. In quelle poche parole Perique aveva
riassunto decenni di contrasti tra la nobiltà locale e la monarchia
accentratrice. Non era vero che Filippo non leggesse tutte le carte. Anzi,
accadeva proprio il contrario»45.
A fronte del fosco ritratto del perfido e crudele spagnolo – spesso
un viceré malvagio e che grazie all’astuzia distoglie «l’attenzione dei
sardi da certe sue decisioni, non condivise»46 – si staglia quello dell’eroe sardo. Va innanzitutto detto, a scanso di ogni equivoco – come già
del resto precisato da Sergio Azteni in un’intervista – che la «sardità»
non è elemento che si trasmette con il sangue: l’appartenenza al
popolo sardo non è dunque frutto della discendenza, ma piuttosto
della capacità di dimostrare balentìa, eroico coraggio misto a reverenziale rispetto per l’ambiente naturale e per i più deboli, nonché una
tenace fedeltà alle proprie idee, alla propria terra, ai propri affetti: «un
sardo dalla testa dura» viene definito da un sacerdote castigliano il
prigioniero Sigismondo Arquer47, nato e cresciuto in Sardegna. Ma non
è l’ascendenza o il luogo di nascita a determinare l’appartenenza al
popolo isolano. «Non importa dove si è nati, di chi si è figli, è importante come ti senti e chi vuoi essere»48.
Fondamentali sono l’attaccamento all’isola, l’adesione a una
comunità che ha radici nella notte dei tempi, che ha lasciato tracce
della sua presenza «nel villaggio degli antichi, in una grotta dove c’erano colonne mostruose e bizzarre, nella casa dei morti»49, che ha
venerato deità importanti e mai dimenticate prima del dio cristiano,
affidando loro il compito di proteggere «tutte le leggi che di anno in
anno venivano scritte e promulgate»50, e che è custode gelosa di
saperi millenari – «l’antica biblioteca dei sardi»51 o «il frutto di una
tradizione che si perde nella notte dei tempi»52 –: una comunità che
alimenta il desiderio di proteggere il carattere isolano contro gli stranieri conquistatori che non conoscono l’antichità, e quindi il pregio,
della popolazione che sottomettono. Il suocero di Diego Henares de
Astorga rimarca le risalienti radici dei sardi, sfogliando un antichissimo libro: «Questa è la vera storia del nostro popolo. Qui si racconta
ciò che gli altri non dicono o non sanno. Da dove veniamo, chi siamo
stati. Chi abbiamo adorato. L’ha scritto tanto tempo fa un uomo col-
45
46
47
48
49
50
51
52
N. Migheli, La storia vera di Diego Henares de Astorga cit., p. 233.
A. Strinna, L’eroe maledetto cit., p. 52.
G. Angioni, Le fiamme di Toledo cit., p. 51.
N. Migheli, La storia vera di Diego Henares de Astorga cit., p. 118.
S. Atzeni, Apologo del giudice bandito, Sellerio, Palermo, 1986, p. 127.
A. Strinna, L’eroe maledetto cit., p. 33.
S. Atzeni, Apologo del giudice bandito cit., p. 30.
N. Migheli, La storia vera di Diego Henares de Astorga cit., p. 236.
369
Nicoletta Bazzano
tissimo, morto da secoli. Ancora prima che il papa desse la nostra
isola in feudo agli aragonesi»53.
E tuttavia, più che l’antichità della stirpe, è l’amore per la Sardegna
che conta per considerarsi veri abitanti dell’isola. Di origine spagnola
sono quanti, nobili e popolani, attorniano don Agustín de Castelví,
marchese di Laconi, e lo stesso don Agustín, ma la provenienza non
conta a fronte della venerazione che hanno appreso ad avere nei confronti della terra sarda, dalla quale emana un’irrefrenabile energia
identitaria54. Giunge dalla Castiglia ma viene immediatamente integrato Diego Henares de Astorga, che si sposa a Cagliari e trova rifugio
in un momento di difficoltà nelle impenetrabili lande dell’interno. “Fratello”, per volere del destino, del protagonista dell’Apologo del giudice
bandito, Itzoccor Gunale, è il suo assassino, Alì, un musulmano che
alla fine di un duello «avrà il cuor e il fegato del vinto» e raccoglierà
dalla sua vittima il testimone della balentìa55.
La comunità composta dai balentes, i “veri” sardi odiati e disprezzati
da tutti gli altri che non ne comprendono il valore – «Maledetti sardi,
sono tutti uguali …»56, «lupi son sui varchi»57, «non hanno anima, non
brilla alcun barlume, si esprimono con grugniti cinghialeschi, vivono
in tane affumicate senza finestra né camino, tremano come pecore
quando sentono gli stivali dei soldados»58, «senza una patria, costretti
Ivi, pp. 275-276.
P. Maurandi, Hombres y dinero cit, pp. 184-185: «”A parte i veleni… in fondo c’è
una sola cosa che vi rimprovero – replicò l’arcivescovo – non avere fatto alcuno sforzo
per capire i sardi e le loro ragioni.” “Sardi? Ma voi siete spagnoli. Quasi tutte le famiglie
nobili sono spagnole!” disse con decisione la marchesa. “Ah è vero, certo – replicò don
Pedro – ma vedete, la mia famiglia, come tante altre, è in Sardegna da quasi due secoli,
abbiamo da tempo imparato ad amare questa terra, abbiamo appreso i difetti e le virtù
dei suoi abitanti, abbiamo capito i loro problemi, che sono diventati anche i nostri. Siamo
sardi e siamo spagnoli; è questo che voi non avere capito, non vi siete sforzati di capire,
né di intendere la nostra lealtà.” “ Di questa è lecito dubitare!” disse con durezza la marchesa. “È un modo ben singolare di ragionare il vostro – rispose l’arcivescovo – voi ci
volete sardi, signori di questa terra, pronti a tenerla in ordine, a difenderla da attacchi
esterni e interni, solleciti a raccogliere il donativo. Ma non vi piace che siamo rozzi e duri
e fieri come gli antichi abitanti di questa terra».
55
S. Contarini, S. Onnis, Reinterpretazioni del codice barbaricino: i banditi di Sergio
Azteni, in P. Serra (a cura di), Questioni di letteratura sarda cit., pp. 215-225. La scena
è un elogio della mescidanza, intesa in senso filologico come assimilazione in un contesto
linguistico superiore di un elemento proveniente da un contesto linguistico inferiore.
Tale tipo di ricezione, che prevede l’adeguamento del nuovo arrivato alle caratteristiche
della società che lo accoglie, sembra qualificare ancora oggi la natura della proverbiale
accoglienza sarda, soprattutto nei confronti degli immigrati: un’accoglienza che si mantiene benevola fino a quando il nuovo arrivato rispetta i codici comportamentali locali,
ma che in caso contrario è pronta a trasformarsi in rifiuto. Ringrazio Eva Garau per le
stimolanti conversazioni sull’argomento.
56
S. Atzeni, Apologo del giudice bandito cit., p. 43.
57
Ivi, p. 64.
58
Ivi, p. 107.
53
54
370
La leyenda negra continua...: la Sardegna viceregia nella narrativa sarda
a subire la spada e la croce, rinchiusi nel recinto della memoria e della
rassegnazione»59 – freme dinanzi a ogni sopruso degli invasori, ma si
scopre in grado di resistere alle loro provocazioni, anche per un privilegiato contatto con la natura circostante. Infatti, in questi romanzi,
chi al popolo sardo appartiene – sia per discendenza sia per assimilazione – sembra in grado di instaurare con le forze naturali un dialogo
magico, impossibile e incomprensibile per gli altri, intessuto di un
vocabolario i cui termini emergono da un passato ancestrale, mitico e
selvaggio, fatto di lotte con un fato ostile, «con una natura selvaggia,
con i suoi spaventosi estremi»60 e con una «terra dura a cui tornavo,
con amore e scontento», ma composto anche di istanti preziosi di
comunione totale con gli elementi primigeni61.
Coloro che non tollerano i catalani, nell’Apologo del giudice bandito,
sperano nell’intervento salvifico delle locuste: «Occhi e orecchie del Rey
riferiscono che la fazione sarda, i cui resti sono annidati dappertutto,
pare ben disposta a subire l’inevitabile carestia se da essa rinascesse
la furia delle genti contro la stirpe catalana. Sperano nell’indole indocile
e bestiale dei sardi, che si perpetua nei bandidos scellerati che infestano i monti. La fazione sarda crede in loro e nella locusta, che si spera
capace di inferocire gli isolani coi morsi della fame e di armarli agli
ordini di quei capi. La cenere non ha coperto i carboni della conquista,
el Rey sa»62. Nella prigione in cui è rinchiuso, «il bandito più temuto
del viceregno […] giudice e volpe […] Satana in persona»63, Itzoccor
Gunale viene riverito e mantenuto in vita dai topi, che invece nelle
intenzioni del viceré dovrebbero divorarlo64; la schiava Janica, in fuga
da Cagliari dopo aver accoltellato il nobile rampollo Rodrigo Curraz che
ha attentato alla sua virtù, viene spronata e incoraggiata dalle canne,
dai rospi e dallo scirocco, che sembrano proteggerla dai cani che la
inseguono, fino a condurla a quella che diverrà la sua casa di donna
libera65; Julia, la moglie di Diego Henares de Astorga, durante un temporale che rischia di affondare la nave dove si trova il marito, al largo
del golfo cagliaritano, invoca i santi Barbara e Giacomo «come se avesse
il potere di controllare quella spaventosa carica di energie»66.
A. Strinna, L’eroe maledetto cit., p. 71.
Ivi, p. 28.
61
Una rappresentazione parallela avviene in campo cinematografico, almeno fino agli
anni Ottanta, come fa notare A. Floris, L’isola che non c’era. Cinema sardo vecchio e
nuovo dal folklore alla modernità, «Bianco e nero», 1 (2014), pp. 47-54.
62
S. Azteni, Apologo del giudice bandito cit., p. 35.
63
Ivi, p. 86.
64
Ivi, p. 103.
65
Ivi, pp. 77-85.
66
N. Migheli, La storia vera di Diego Henares de Astorga cit., p. 255.
59
60
371
Nicoletta Bazzano
Così come viene rappresentata da questi autori, bistrattata e
magica, la Sardegna appare agli occhi dei lettori odierni un’eterna
vittima sacrificale, immolata nel corso dei secoli sull’altare dei
potenti che di volta in volta l’hanno dominata, a loro maggior gloria,
e destinata dalla natura stessa delle cose a un continuo, interminabile, martirio: immagine coinvolgente e ammantata di un fascino cui
è arduo resistere67. Difficile per molti lettori, sardi e non, rimanere
indifferenti di fronte alle sofferenze di chi è colpito da malaria, vaiolo,
peste, cavallette, carestie e che vaga nell’isola alla ricerca di una tregua68, di chi non ha visto «che terra rapinata, […] che invasori più
forti, […] che uomini piegati e umili di fronte allo straniero»69, in un
«clima di morte e miseria […] in una terra che da secoli non apparteneva più ai suoi figli»70, di chi è sopravvissuto ai villaggi svuotati
dalle epidemie che in futuro sarebbero diventati che «poche pietre
senza nome, brutalmente spogliate della loro esistenza»71, di chi è
stato testimone e vittima di una «Sardegna spagnola [con] passioni
personali e passioni civili, delitti gratuiti e catene di vendette [e con]
le aspirazioni dei sardi […] dimenticate, fino a quando non verranno
altri a farle rinascere»72.
Tale immagine, tuttavia, non risponde né parzialmente né nel suo
insieme al ritratto della Sardegna spagnola tratteggiato dagli storici
nell’ultimo cinquantennio. Autori come B. Anatra, F. Manconi, R. Turtas, A. Mattone, G.G. Ortu, G. Tore e G. Murgia, fra gli altri, ravvisano
nell’isola uno spazio complesso all’interno dell’articolato insieme della
Monarchia asburgica, retto da logiche che prevedono la ricerca del consenso e l’appoggio delle élites locali, in un gioco politico di enormi
dimensioni, sottoposto a continue spinte e controspinte, sicuramente
terreno in cui si scontrano gli interessi individuali, ma irriducibile a
nette monocasualità: tema specifico, lontano dalle facili immedesimazioni cui indulge la narrativa, ma non per questo poco interessante agli
67
M. Marras, Dall’Ottocento ai nostri giorni: la parabola del romanzo a tema storico in
Sardegna tra coloniale e post-coloniale, in P. Serra (a cura di), Questioni di letteratura
sarda cit., pp. 195-214.
68
A. Strinna, L’eroe maledetto cit., p. 17: «le poche popolazioni sopravvissute si erano
trasferite da una regione all’altra come bestie transumanti, portandosi appresso le ultime
miserie insieme a una memoria sempre più ferita, priva degli affetti più cari. Il più delle
volte cercando un rifugio, soltanto momentaneo, sulle montagne. Privati della loro terra,
della propria storia, portavano altrove e ad altri la loro tragedia, che così si moltiplicava
a ogni passo, ovunque andassero».
69
S. Azteni, Apologo del giudice bandito cit., p. 92.
70
A. Strinna, L’eroe maledetto cit., p. 76. Significativamente fra le vittime dello strapotere degli stranieri in terra sarda vengono richiamati Agustìn de Castelvì e Sigismondo
Arquer, ivi pp, 75-77.
71
Ivi, p. 91.
72
P. Maurandi, Hombres y dinero cit., p. 351.
372
La leyenda negra continua...: la Sardegna viceregia nella narrativa sarda
occhi di chi vuole guardare alla realtà trascorsa e comprenderne le
dinamiche73.
Sicuramente il quadro problematico di carattere storicistico non è
in grado di soddisfare l’attuale sete di conoscenza storica, non solo perché – giustamente – non utilizza l’arma dell’emozione per colpire i lettori, ma anche perché non concede facili apparentamenti fra il tempo
passato e il tempo presente. Rischia, anzi, come spesso accade di sembrare “falso”, da un lato perché privo di verità emotiva e dall’altro perché fornito da storici di professione, interessati – nella percezione
comune – non a rappresentare la verità, così come si viene ricostruendo, ma a fornirne, per propri inconfessabili fini, una visione distorta74. All’interno della ricostruzione storica, in primo luogo, c’è poco
spazio, e marginale, per definizioni protonazionalistiche, che appaiono,
irrazionalmente, ai lettori costante ineliminabile della connotazione isolana: la Monarchia asburgica – e con essa la Sardegna –, infatti, è un
insieme percorso incessantemente, per ragioni militari e commerciali,
ma anche culturali e matrimoniali, da persone e cose. Tuttavia, proprio
l’appartenenza regionale, uno dei punti di forza della narrativa sarda
di carattere storico, è uno dei tratti amati dai lettori sardi ma difficili
da reperire nel discorso storico aulico75.
In una regione, in cui l’identità regionale viene indicata dai suoi
stessi abitanti come quella più forte, il romanzo storico si fa così interprete di una necessità sentita e diffusa. Facile, inoltre, per gli scrittori
sardi attivare nessi attraverso i quali i mali della Sardegna contemporanea sono frutto di una meccanica consequenziale che ha origine nel
passato e che si ripete incessantemente senza che i sardi possano avere
un’occasione di riscatto. A suggello della fine dell’età spagnola, Strinna
non a caso commenta: «La Sardegna cambiava padrone. In pratica, soltanto il nome del padrone. Tutto il resto rimaneva tale e quale. Immutato, come lo era da secoli»76. Le sciagure della Sardegna, anzi,
73
Impossibile qui citare la ricchissima la bibliografia di questi e di molti altri autori.
Per una panoramica esaustiva sulla produzione storiografica sull’argomento fino al 1999
si veda V. Nonnoi (a cura di), Il Regno di Sardegna in epoca spagnola. Un secolo di studi
e ricerche, Edizioni ETS, Pisa, 2003. Significativamente un romanzo storico che non
indulge a una rappresentazione stereotipa della Sardegna spagnola è stato scritto da
uno storico, Raffaele Puddu (Pueblo, AM&D, Cagliari, 2000). La vicenda del giovane pastore Diego Flores, che si arruola nell’esercito spagnolo e dal centro dell’isola giunge prima
a Cagliari, poi nelle Fiandre e infine al di là dell’Atlantico, fa comprendere la vastità di
orizzonti di cui i sardi godevano con l’inserimento del loro Regno all’interno della Monarchia asburgica e le possibilità che si aprivano alla popolazione.
74
Su tale aspetto insiste, per esempio, Martinat, Tra storia e fiction cit.
75
I. Ruggio, L’identità sarda. Caratteristiche e ipotesi di giuridificazione, in G. Demuro,
F. Mola, I. Ruggiu (a cura di), Identità e Autonomia in Sardegna e Scozia, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2013, pp. 53-62.
76
A. Strinna, L’eroe maledetto cit., p. 137.
373
Nicoletta Bazzano
sembrano acquistare maggiore rilievo e legittimità proprio perché si
ripropongono uguali, e irresolubili, da secoli. Inutile dire che tale
visione deterministica fa evaporare la possibilità del presente di essere
diverso dal passato e, quindi, ogni reale possibilità di cambiamento.
D’altro canto, proprio in questa maniera, il lettore viene rassicurato
sull’impossibilità di incidenza sul divenire pubblico e sulla necessità
di un (passivo ma superficialmente eroico e quindi appagante) atteggiamento «resistenziale», consolatorio, che ne salvaguarda la sua autoassolutoria idea di dignità personale pur non impegnandolo in maniera
diretta e compromissoria nell’attualità scottante dell’agone politico77.
77
P. Ciarlo, Rappresentati e rappresentanti ovvero di una cattiva pedagogia politica, ivi,
pp. 151-155. Molto interessanti le considerazioni avanzate sul tema da F.L. Marrocu, V.
Deplano, F. Bachis, Diversi da chi. Note sull'appartenenza e politiche dell'identità, in L.
Marrocu, V. Deplano, F. Bachis (a cura di), La Sardegna contemporanea cit., pp. 691-715.
374
Maria Pia Pedani, Paola Issa
IL VIAGGIO DELL’ARABO RA‘D DI ALEPPO
A VENEZIA (1654-1656)
DOI: 10.19229/1828-230X /37162016
SOMMARIO: Negli anni 1654-1656 l’arabo cristiano Ra‘d, un mercante di Aleppo, raggiunse
Venezia con il suo compagno Abd al-Mas īḥ. Quando tornò a casa scrisse una relazione basata
sulla sua esperienza nella città dei dogi e nel viaggio che fece per mare. Si tratta di uno delle
rare opere in arabo che trattano di un’esperienza di viaggio in una città europea. Il manoscritto
si trova nella Biblioteca Apostolica Vaticana ed è stato già edito in arabo nel 2005 e ri-pubblicato
e tradotto in inglese in un libro del 2015. Queste due opere sottolineano le peculiarità linguistiche
del medio-arabo con influenze ottomane in cui è stato scritto ma non si occupano della parte
storica. Al contrario qui si presenta la traduzione italiana basata direttamente sull’originale arabo
accompagnata da un ampio saggio introduttivo basato su un confronto tra quanto Ra‘d vide e
quanto si conosce della città e della vita veneziana nella seconda metà del Seicento.
PAROLE CHIAVE: Aleppo, Arabi cristiani, Venezia, racconti di viaggio, Manoscritti arabi, Storia del
XVII secolo, relazioni tra Oriente e Occidente.
THE TRAVEL OF THE ARAB RA‘D FROM ALEPPO TO VENICE (1654-1656)
ABSTRACT: In the years 1654-1656 the Christian Arab Ra‘d, a merchant from Aleppo, reached
Venice with his friend Abd al-Masīḥ. When he came back he wrote a report about what he had
seen and lived during his stay in Venice and his travel by sea. It is one of the few reports written
in Arabic about a European city. The manuscript is kept in the Vatican Library and it has been
already edited in Arabic in an essay in 2005 and re-edited and translated into English in a book
in 2015. The two works stress the linguistic peculiarities of the text written in middle Arabic with
Ottoman influences, but do not take into consideration its historical setting. On the contrary, this
essay presents its Italian translation, made directly on the Arabic original, with a historical
introduction based on a confrontation between what Ra‘d saw and what is known about the
city of Venice and its society in the second half of the seventeenth century.
KEYWORDS: Aleppo, Arab Christians, Venice, travelogues, Arabic manuscripts, 17th century
history, East-West relations.
n. 37
Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIII - Agosto 2016
ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online)
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Maria Pia Pedani, Paola Issa
1. Il manoscritto
Sin dall’Ottocento la storiografia sull’impero ottomano ha utilizzato
e sfruttato a piene mani i resoconti dei viaggiatori europei. Invece
pochissimi sono gli scritti, sia in ottomano sia in arabo, di sudditi del
sultano volti a raccontare la loro esperienza di viaggiatori nelle contrade europee1. Tra i pochi racconti di viaggiatori arabi in Europa ve
n’è uno, conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, che
descrive Venezia alla metà del XVII secolo2. Fu scritto dal cristiano
Ra‘d, un mercante di Aleppo ed egli stesso afferma che, una volta tornato in patria, venne ordinato diacono verso il 1660, dopo tre anni
sacerdote e quindi, intorno al 1671, parroco dal patriarca Makarios
ibn-al-Za’īm (1647-1672). Questo presule cita il nostro viaggiatore nel
racconto in arabo del viaggio che fece in Moldavia, Valacchia, Ucraina
e Mosca tra il 1062 dell’Egira (14 dic. 1651-1 dic. 1652) e il 1069 (29
set. 1658-17 set. 1659), in cerca di sovvenzioni con cui pagare i debiti
del suo patriarcato3.
Secondo Carsten-Michael Walbiner è probabile che si tratti di quel
Giovanni Ra‘d, figlio di Michele, figlio di ḥāǧǧ Farǧallāh, che intorno al
1
B. Lewis, Europa barbara e infedele. I musulmani alla scoperta dell’Europa, Arnoldo
Mondadori, Milano, 1983, pp. 264-280; S. Yerasimos, Les voyageurs dans l’Empire ottoman (XIVe-XVIe siècles). Bibliographie, itinéraires et inventaire des lieux habités, Imprimerie
de la Societe turque d’histoire, Ankara, 1991, pp. 169-170, 248-249, 290-291; C.-M.
Walbiner, “Images painted with such exalted skill as to ravish the senses ...”: Pictures in
the Eyes of Christian Arab Travellers of the 17th and 18th Centuries, in B. Heyberger and
S. Naef (eds), La multiplication des images en pays d’Islam: de l’estampe à la télévision
(17e-21e siècle), Ergon Verlag, Istanbul and Würzburg, 2003, pp. 15-30; H. Kilpatrick,
Between Ibn Baṭṭūṭa and al-Ṭahṭāwī: Arabic Travel Accounts of the Early Ottoman Period,
«Middle Eastern Literatures», 11/2 (August 2008), pp. 233-248 ; cfr. anche la tesi di laurea di Paola Issa (Ca’ Foscari, a.a. 2007-08) in parte pubblicata in: P. Issa, Il viaggio in
Egitto di Muḥibb Al-Dīn Al-Ḥamawi, «Annali. Dipartimento di Studi Storici, Ca’ Foscari,
Venezia», (2008-2009), pp. 38-54.
2
Cfr. P. Sbath, Les manuscrits orientaux de la bibliothèque du R. P. Paul Sbath, «Échos
d’Orient», 22/132 (1923), pp. 455-477, in particolare p. 168; J. Nasrallah, Histoire du
mouvement littéraire dans l’église malchite du Ve au XXe siécle: contribution à l’étude de
la littérature arabe chrétienne, vol. 4/1, Période ottomane 1516–1900, Peteers, Louvain,
1989, p. 231; K.-M. Wālbīnar [C.-M. Walbiner], Riḥlat Ra‘d min Ḥalab ilā l-Bunduqiyya,
in N. Edelby and P. Masri (eds), Mélanges en mémoire de Mgr. Néophytos Edelby (19201995), CEDRAC, Université St. Joseph, Beirut, 2005, pp. 368-383; E. Kallas, The Travel
Account of Ra‘d to Venice (1656) and its Aleppo Dialect according to the Ms. Sbath 89,
Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano, 2015 (il fac-simile sta alle pp. 1*-38*).
Cfr. anche E. Kallas, The Aleppo Dialect according to the Travel Accounts of ibn Ra‘d (1656)
Ms Sbath 89 and Ḥana Dyāb (1764) Ms Sbath 254, in M. Menouak, P. Sánchez, Á. Vincente
(eds), De los manuscritos medievales a internet: la presencia del árabe vernáculo en las
fuentes escritas, Universidad de Zaragoza, Zaragoza, 2012, pp. 221-252.
3
H. Kilpatrick, Between Ibn Baṭṭūṭa and al-Ṭahṭāwī: Arabic Travel Accounts of the
Early Ottoman Period cit., pp. 240-241, 247 nota 40.
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Il viaggio dell’arabo Ra‘d di Aleppo a Venezia (1654-1656)
1662-1663 copiò un altro manoscritto arabo, di argomento teologico,
sempre conservato alla Vaticana, e che si descrive come parroco in una
nota del 1669-16704.
Il manoscritto del viaggio di Ra‘d è una copia del resoconto dell’autore ed è conservato nella raccolta Sbath al n. 89. Edito una prima
volta in arabo nel 2005 da Walbiner, è stato recentemente ri-pubblicato
da Elie Kallas assieme a una traduzione inglese e a un fac-simile del
manoscritto. Alla fine del nostro saggio, volto a inquadrare invece il
racconto da un punto di vista prettamente storico, si fornisce anche
una nuova traduzione in italiano, basata direttamente sul testo arabo.
Infatti, proprio lo studio della storia veneta della seconda metà del Seicento ha permesso di sciogliere qualche dubbio su alcune parole utilizzate nel testo. Non si conosce la data in cui il racconto venne scritto
ma sicuramente fu dopo il 1672, dunque sedici anni dopo il viaggio, in
quanto, alla fine, esso cita la morte del patriarca Makarios avvenuta
proprio in quell’anno. Elementi come il tipo di scrittura e la carta fanno
pensare che anche la copia risalga allo stesso periodo. Accompagnano
il racconto del viaggio altri tre testi relativi a Venezia, pure editi da Kallas: nel primo si parla della fondazione della città avvenuta nel 421,
del primo doge (797), della costruzione della chiesa di San Marco (832)
e dell’erezione del campanile (1141); nel secondo si descrive la chiesa
di San Marco e nel terzo la torre dell’Orologio. Si può tuttavia discutere
se l’autore di tutti i testi conservati in Sbath n. 89 sia lo stesso, in
quanto nessun elemento avalla una simile attribuzione, in nessuno dei
tre si cita il viaggio a Venezia e inoltre, poiché sono pervenute solo delle
copie, si può pensare anche a una raccolta tematica.
2. Le date
Ra‘d comincia il suo racconto affermando: «Correva l’anno 7164 di
Adamo». Parla cioè dell’era bizantina o della Creazione del mondo, un
computo che comincia dal 1° settembre, anticipando di quattro mesi il
calendario gregoriano. Quindi il 7164 corrisponde al periodo 1° settembre 1654 - 31 agosto 1655. Dalla lettura del manoscritto, però, si
capisce che Ra‘d e il suo compagno Abd al-Masīḥ partirono da Aleppo
all’inizio di agosto del 1654, e, salparono da Tripoli di Siria dopo quaranta giorni, nella ricorrenza della festa della Croce che si celebrava
allora il 14 settembre. Dopo aver sorpassato l’isola di Cipro la loro nave
4
P. Sbath, Les manuscrits orientaux de la bibliothèque du R. P. Paul Sbath, «Échos
d’Orient», 22/131 (1923), p. 299-339, in particolare p. 333 sul ms n. 45 intitolato Les
cent questions...; Sbath sottolinea qui la bella calligrafia del manoscritto.
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Maria Pia Pedani, Paola Issa
fece vela verso occidente ma la rotta non fu lineare: arrivò ad avvistare
la costa africana e quindi dovette tornare indietro fermandosi due
giorni presso Creta. Proseguì poi per la Morea dove trovò rifugio per
una notte in un porto utilizzato normalmente da pirati del Maghreb.
Dopo una sosta di tre giorni a Zante proseguì poi verso nord toccando
prima un porto tra le montagne della costa dalmata e quindi Parenzo.
Dopo due mesi i viaggiatori giunsero finalmente a Venezia, cioè verso
la metà di novembre, e qui furono trattenuti nel Lazzeretto Nuovo per
altri quaranta giorni. Ra‘d afferma poi che trascorse a Venezia un anno
intero e che, in quel periodo, morirono ben tre dogi. Infatti tra il 1655
e il 1656 vi furono le esequie di Francesco Molin (20 gennaio 1646-27
febbraio 1655), Carlo Contarini (27 marzo 1655-1 maggio 1656) e Francesco Corner (17 maggio 1656-5 giugno 1656) e l’elezione al dogado di
Bertuccio Valier (15 giugno 1656-29 marzo 1658): quindi soggiornò in
città tra l’inizio del 1655 e l’estate del 1656 quando finalmente trovò
una nave che faceva rotta per Tripoli di Siria. Ripartì infatti per Aleppo
solo il 1° di agosto del 1656 e rimase, quindi, a Venezia per circa un
anno e mezzo, un tempo più lungo degli usuali viaggi di commercio dei
mercanti ottomani che prevedevano di solito una permanenza di sei o
otto mesi e seguivano l’andamento delle stagioni con l’arrivo a primavera o autunno e la partenza nell’autunno o nella primavera seguenti.
Alcune volte Ra‘d non cita esattamente il giorno del mese, ma solo
la festività cui partecipò o in cui avvenne qualche fatto importante per
lui. Nei tempi antichi era questo un altro modo per comunicare una
data in quanto, in una società impregnata di religione, tutti sapevano
quando cadeva una determinata ricorrenza. Per esempio dice che arrivarono a Venezia nel periodo dell’Avvento che, nel 1654, cominciò il 29
novembre. Poco dopo, «al primo giorno di digiuno del Natale», al Lazzaretto venne loro consegnato un quarto di lenticchie. Si trattava del
primo mercoledì dopo la festa di Santa Lucia (13 dicembre) che nel
1654 cadde il 16 dicembre. Mentre era a Venezia partecipò, nella
quinta settimana di Quaresima, all’ostensione della reliquia del Sangue
Divino che si mostrava, infatti, nella chiesa di Santa Maria Gloriosa
dei Frari nella domenica di Passione (quinta di quaresima)5. Ra‘d quindi
la poté vedere o il 14 marzo 1655 oppure il 2 aprile 1656. Egli vide
anche la festa dell’Ascensione (Sensa in veneziano) celebrata giovedì 6
maggio nel 1655 e il 25 aprile nel 1656, l’incoronazione di tre dogi e
quindi anche la festa dell’Annunciazione che si celebra sempre il 25
marzo, nove mesi esatti prima di Natale. Ricorda poi il ritorno del
5
F. Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare con le aggiunte di G. Martinioni,
Steffano Curti, Venezia, 1663, pp. 187-188.
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Il viaggio dell’arabo Ra‘d di Aleppo a Venezia (1654-1656)
patriarca Makarios ibn-al-Za’īm dal suo viaggio in Russia, nell’aprile
1659, e la sua morte, avvenuta il 12 giugno 16726.
Ra‘d era un suddito ottomano: eppure compì il suo viaggio in piena
guerra di Candia (1644-1669). Il suo racconto è una testimonianza tangibile di come un tempo, anche durante i periodi di ostilità, si continuavano i commerci e i mercanti viaggiavano anche nei paesi nemici
pur con qualche difficoltà data la presenza di navi da guerra che potevano ostacolare le normali rotte commerciali o ritardare carichi e convogli, come infatti sperimentò anche il nostro viaggiatore che dovette
evitare di toccare la costa anatolica e far vela direttamente verso il mare
aperto. Anche durante la guerra di Cipro (1570-1573), i contatti commerciali veneto-ottomani non si erano interrotti tanto che, quando la
notizia della vittoria cristiana a Lepanto (1571) si diffuse a Venezia, i
75 ottomani musulmani e i 97 ebrei ottomani presenti si rifugiarono
nella casa del bailo Marc’Antonio Barbaro, per evitare di essere attaccati dalla folla esultante7.
Un fatto che colpisce può essere l’assenza nel racconto di Ra‘d di un
qualsiasi riferimento agli scontri ai Dardanelli, né a quello del 21 giugno
1655 né, tantomeno, a quello famosissimo avvenuto il 26 giugno 1656
dove la flotta del sultano fu pesantemente sconfitta: i turchi persero
infatti 84 unità, 10.000 militari furono uccisi e 5000 fatti prigionieri
contro una perdita di tre navi e 300 uomini da parte della Serenissima.
In questo caso, però, bisogna tener presente il tempo che le notizie
impiegavano per giungere dal Levante: da Costantinopoli a Venezia si
impiegavano come minimo trenta giorni, se la navigazione era favorevole, ma anche di più nel caso di accidenti o tempi inclementi. L’annuncio del «disfacimento dell’armata turchesca» fu portato dal comandante Lazzaro Mocenigo, che aveva perso un occhio durante i combattimenti e che, al comando della capitana di Kenan pascià, stracarica di
trofei e di schiavi liberati, giunse, il 1° agosto, a Venezia accolto dal
saluto dei cannoni che sparavano gioiosamente a salve. Nelle stesse ore
Ra‘d partiva e non poté quindi assistere, né raccontare, i tre giorni di
festa in cui si cantò il Te Deum e si illuminò a giorno la città8.
L’unico riferimento di Ra‘d alla politica internazionale, riportato proprio in una delle ultime righe del suo manoscritto, è il ricordo del
secondo blocco veneto dei Dardanelli, dopo il quale il suo compagno
Abd al-Masīḥ fece un altro viaggio a Venezia. Tale evento terminò il 19
6
K.-M. Wālbīnar [C.-M. Walbiner], Riḥlat Ra‘d min Ḥalab ilā l-Bunduqiyya cit.,
pp. 368, 382, note 38-39; E. Kallas, The Travel Account of Ra‘d to Venice (1656) and its
Aleppo Dialect according to the Ms. Sbath 89 cit., p. 81 nota 53.
7
M.P. Pedani, Venezia Porta d’Oriente, il Mulino, Bologna, 2010, p. 219.
8
G. Benzoni, Mocenigo, Lazzaro, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 75, Istituto
dell’Enciclopedia Italiana Treccani, Roma, 2011, pp. 140-143.
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Maria Pia Pedani, Paola Issa
luglio 1657, quando il temutissimo Kör kaptan (capitano cieco), cioè
Lazzaro Mocenigo, venne ucciso: l’antenna della sua nave, colpita da
un (s)fortunato colpo di cannone, gli cadde in testa mentre un’altra
palla centrava la santabarbara. Due giorni prima anche il kaptan-i
derya ottomano, Topal Mehmed pascià, aveva trovato la morte, condannato dallo stesso gran visir Köprülü Mehmed pascià, per aver allora
fallito nel forzare il blocco. Pur senza volerlo le gloriose gesta di Mocenigo contribuirono a mutare drasticamente la storia ottomana e a far
risorgere quell’impero dalle sue stesse ceneri: la paura che si diffuse a
Costantinopoli tra il 1655 e il 1656, quando ci si aspettava di vedere i
veneziani entrare trionfanti in città, spinse la sultana valide Turhan,
che reggeva allora lo stato, a cercare un uomo forte cui affidarne la salvezza: lo trovò proprio in Köprülü Mehmed che, il 15 settembre 1656,
accettò di essere nominato gran visir in cambio del potere stesso del
sultano. Negli anni seguenti questo grande uomo di stato, usando il
pugno di ferro, risanò la forza militare, politica ed economica ottomana
riuscendo anche a far quadrare i conti del bilancio statale.
3. Il viaggio
Ra‘d comincia il suo racconto descrivendo il viaggio da Tunisi di
Siria fino all’Adriatico, il «mare di Venezia» (baḥr al-banādiqa) o «dei
veneziani» (al-banādiqyyin), come esso era chiamato dagli scrittori
arabi sin dai tempi di Ibn Ḥawqal (m. 976- 977). Venezia è l’unica città
europea ad aver anche un nome arabo, al-bunduqiyya, parola che sembra derivare non tanto da bunduqa (nocciòla e, dopo l’invenzione delle
armi da fuoco, anche pallottola) bensì dal suo nome in greco, pur forse
con un qualche riferimento anche alla sua forma e all’antico toponimo
Olivolo (dalla forma di una delle sue isolette dove era costruito un
castello), con cui era un tempo conosciuta9.
Il racconto continua con la descrizione di un incontro con dei pirati
maghrebini anche se si può supporre che si sia trattato di albanesi di
Dulcigno travestiti da maghrebini, come allora spesso capitava10. Segue
poi l’attracco a varie cale per raccogliere acqua e a Parenzo, per imbarcare un pilota esperto di quei luoghi, come ogni nave che si recava a
9
M. Nallino, Venezia in antichi scrittori arabi, «Annali della Facoltà di Lingue e
Letterature Straniere di Ca’ Foscari», 2 (1963), pp. 111-120; Pedani, Venezia, porta
d’Oriente, pp. 243-244.
10
M.P. Pedani, Ottoman Merchants in the Adriatic. Trade and smuggling, «Acta
Histriae», 16/1-2 (2008), pp. 155-172.
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Il viaggio dell’arabo Ra‘d di Aleppo a Venezia (1654-1656)
Venezia era obbligata a fare per legge11. Infine, già in vista dei campanili
di Venezia, la nave venne legata con quattro ancore in mezzo al mare
per passare la notte, secondo le indicazioni del pilota, così come fecero
altre sei imbarcazioni. Un racconto così preciso non lascia nulla all’immaginazione. Infatti è noto che, a circa due miglia e mezzo da Malamocco, vi era un tempo una zona sicura e di bassi fondali, chiamata
«Pelo rosso», segnata anche da boe, dove le navi che dovevano entrare
in Bacino usavano trascorrere la notte, oppure aspettare l’alta marea
senza la quale non si poteva attraversare quella bocca di porto12.
La mattina seguente il galeone su cui si trovava Ra‘d venne trascinato
assieme alle altre imbarcazioni, come si era soliti fare, fino alle torri di
difesa dove fu detto loro di attraccare. Si tratta di quelle isolette utilizzate
per la difesa delle bocche di porto, su cui nel 1571 vennero costruiti dei
veri e propri forti su progetto o di Jacopo Sansovino o, più probabilmente, del Sanmicheli. Per quanto riguarda la conoscenza che ne ebbero
gli ottomani si può ricordare che questi castelletti sono chiaramente visibili sia nell’immagine di Venezia del portolano del primo cinquecento di
Piri Reis sia nell’opera seicentesca di Sayyid Nuh. Stranamente però Ra‘d
parla solo di tre bocche di porto, come sono oggi, mentre nella sua epoca
ve erano quattro, come dice infatti anche Piri Reis13.
Ra‘d racconta anche le varie procedure applicate al Lazzaretto dai
veneziani nei confronti di coloro che giungevano da paesi dove la peste
era endemica, come l’impero ottomano. Venezia fu la prima città al
mondo a dotarsi di una struttura del genere: nel 1423 venne costruito
un primo lazzaretto in un’isola della laguna di fronte al Lido; nel 1468 ne
venne costruito un altro, detto Nuovo, posto all’inizio del canale di Sant’Erasmo, che dal 1576 fu destinato ad essere primo luogo di accoglienza
per i viaggiatori, mentre l’altro, detto da allora Vecchio, venne trasformato
in ospedale per i malati contagiosi. Al Lazzaretto Nuovo i viaggiatori vennero confinati per i giorni di quarantena14. Tutto ciò che portavano venne
esposto al sole per disinfettarlo, compreso il turbante, il vestito e la camicia. Anche le lettere che avevano subirono un trattamento particolare e
vennero spruzzate d’aceto, in quanto si riteneva che così si sarebbero
distrutti i germi della peste. In qualche occasione si ricorreva anche all’af-
11
Su questa usanza cfr. anche Pîrî Reis, Kitab-ı Bahriye, The Historical Research
Foundation, Ankara, 1988, vol. 2, pp. 854-855, fig. 202/a, che trascrive il nome Parenzo
come Pīrānse.
12
G.B.V.M. Grubas, Nuovo costiere del mare Adriatico, Orlandini-Antonelli, TriesteVenezia, 1833, pp. 35-39.
13
Piri Reis, Kitab-i bahriyye cit., pp. 898-903, 904-905, fig. 215/a; Eredità dell’Islam.
Arte islamica in Italia, a cura di G. Curatola, Silvana editoriale, Milano, 1993, pp. 408-409.
14
G. Caniato, Il Lazzaretto Nuovo, in Venezia e la peste, 1348-1797, Marsilio, Venezia,
1979, pp. 343-346.
381
Maria Pia Pedani, Paola Issa
fumicatura, per cacciare con il fuoco i miasmi mortali: alle volte, cercando
tra le carte d’archivio, capita ancora di imbattersi in buste bruciacchiate
che recano traccia di un simile trattamento15.
A Venezia il nostro viaggiatore, che era cristiano, non fu ospitato nel
fondaco dei Turchi, inaugurato nel 1621 e destinato unicamente ai
musulmani, bensì presso un veneziano, probabilmente un interprete o
un sensale, che poteva trovare in questa attività un’ulteriore fonte di
guadagno, come dimostra anche la notazione di Ra‘d sul costo dei pasti
offerti loro da chi li alloggiava. Erano soprattutto le abitazioni poste
nella zona di San Marco e nelle parrocchie di Santa Maria Formosa e
San Giovanni Crisostomo, vicino a Rialto, a essere destinate a quest’uso. Nel Seicento vi andavano a soggiornare i mercanti di passaggio,
sia i cristiani sia i persiani sciiti che non volevano condividere gli stessi
locali con i loro tradizionali nemici, ottomani e sunniti, tanto è vero che
nel 1662, quando il senato veneziano varò una legge per far risiedere in
fondaco tutti i musulmani, a qualsiasi corrente appartenessero, alcuni
sudditi dello scià scelsero di abbandonare definitivamente la città16.
Ra‘d riuscì a vendere la merce che aveva portato in soli due giorni,
ma poi dovette aspettare a lungo un passaggio per Tripoli. Anche il
viaggio di ritorno fu abbastanza tranquillo. La sua nave raggiunse
Zante ma, vicino alla Morea, trovò ancora delle imbarcazioni maghrebine per cui dovette attendere prima di rischiare la traversata. Infine,
al seguito di quattro galeoni da guerra che passavano, fece vela per
Creta. Passata poi l’isola di Cipro fu bloccata da un galeone di maltesi
che vollero controllare se a bordo vi fossero ebrei o turchi, intendendo
così, come allora si soleva, non il gruppo etnico bensì la religione cui
si apparteneva. Ra‘d raggiunse infine Tripoli e quindi Aleppo, la città
da cui era partito.
4. Misure e monete
Nel passato durante un viaggio ci si doveva confrontare con pesi,
misure e monete differenti. Le unità di lunghezza o capacità variavano
da località a località e alle volte anche secondo il tipo di materiale. Lo
stesso nome poteva essere applicato a monete diverse a seconda del
luogo dove ci si trovava. Non stupisce quindi come Ra‘d si esprime in
tale campo. Per esempio, raccontando di una sosta sulla costa dalmata,
J. Brossolet, A. Zitelli, La disinfezione delle lettere, in Venezia e la peste, pp. 155-156.
M.P. Pedani, Between Diplomacy and Trade: Ottoman Merchants in Venice, in
Merchants in the Ottoman Empire, ed. by S. Faroqhi and G. Veinstein, Peeters, ParisLouvain-Dudley, MA, 2008, pp. 3-21.
15
16
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Il viaggio dell’arabo Ra‘d di Aleppo a Venezia (1654-1656)
dice che raccolsero 3 o 4 qinṭār (pl. qanāṭīr) di legna. Non si può sapere
a quale misura effettiva faccia riferimento: il cantaro di Aleppo
corrispondeva a 229,52 kg, quello grande di Tripoli a 401,66 kg., quello
di Costantinopoli a 56,36 kg e quello di Costantinopoli per il cotone a
57,64. Si può supporre che intenda quest’ultimo e parli cioè di circa
169/225 kg, in quanto, calcolando in base alle misure di Aleppo si
arriverebbe a circa 688/918 kg, forse un po’ troppi da raccogliere in
una breve sosta17. Quando invece descrive una sacra icona della
Vergine, dipinta secondo la tradizione da Luca Evangelista, dice che era
adornata con quasi 20 roṭl, un’altra misura di peso usata anche per i
metalli preziosi che variò tra i 2 e i 3 kg, a seconda delle località: 20 roṭl
potrebbero quindi corrispondere a 40/60 kg d’oro e pietre, oppure, se
si considerano quelli di Costantinopoli, pari a 0,56 kg ciascuno, otteniamo un peso complessivo di 10 kg circa, certamente più realistico18.
In un altro passo afferma che nel primo giorno di Avvento venne
loro consegnato un quarto (rub‘iyye) di lenticchie. Non si capisce però
se l’autore faccia riferimento a una frazione di moneta o a un’unità di
capacità. Nel caso Ra‘d citi monete veneziane si potrebbe pensare al
«quarto di ducato», detto anche «quarto di zecchino», coniato in oro sino
dal tempo di Pietro Loredan (1567-1570). Nel Seicento gli aridi, come
le lenticchie, erano calcolati in base al loro volume e quindi alle misure
di capacità. A Costantinopoli si utilizzavano il kile (=37 litri), şinik (= ¼
di kile) e il kutu (=1/2 şinik). Non era invece in uso allora il sistema
decimale che fu adottato per la prima volta in Francia nel 1795, nell’impero ottomano nel 1875 e in Egitto nel 1891: proprio nel decreto di
riorganizzazione di pesi e misure in base a questo sistema emesso
allora dal kedive si cita una misura detta rub‘iyye di cui però non vi è
traccia due secoli prima19.
17
A. Martini, Manuale di metrologia, ossia misure, pesi e monete in uso attualmente e
anticamente presso tutti i popoli, Loescher, Torino, 1883, pp. 19, 179.
18
H. Inalcik, Weights and Mesures, in An Economic and Social History of the Ottoman
Empire, 1300-1914, ed. by H. nalcık, D. Quataert, Cambridge U.P., Cambridge, 1994,
p. 992; A. Martini, Manuale di metrologia, ossia misure, pesi e monete in uso attualmente
e anticamente presso tutti i popoli cit., p. 179.
19
Secondo J. Redhouse, A Turkish and English Lexicon, Librairie du Liban, Beirut,
1890, p. 963, rub‘iyye significa «1. Pertaining to a fourth part; 2. A gold coin, quarter of
sequin, and of the same value of the Spanish dollar; the name was afterwards given to
the gold piece of 100 paras, the eight of a sequin, and worth about sixpence sterling; the
term is now sometimes applied to a gold 25 piastre piece, of the value of four shillings
and six pence sterling.»; E. Martinori, La moneta. Vocabolario generale, Istituto Italiano
di Numismatica, Roma, 1915, p. 409. Sul variabile rapporto tra ducati e zecchini, cfr. F.
Rossi, “Melior ut est florenus”. Note di storia monetaria veneziana, Viella, Venezia, 2012,
pp. 81-103. Système des mesures, poids et monnaies de l’Empire Ottoman et des
principaux états, Galata, Constantinople, 1910, p. 16-19; H. Inalcik, Weights and
Mesures cit., pp. 987-994.
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Maria Pia Pedani, Paola Issa
Per quanto riguarda le monete, Ra‘d cita in tre occasione i qirīš. Una
prima volta afferma che al Lazzaretto ne pagarono uno al giorno a chi
li sorvegliava per tutti i quaranta giorni in cui vi furono trattenuti. Più
avanti dice che mangiare presso chi li ospitava a Venezia sarebbe loro
costato quotidianamente un terzo di qirīš. Infine ricorda che i trovatelli
affidati alla pubblica assistenza erano abbandonati dai loro genitori
con una metà di una moneta d’argento di questo tipo, che poteva poi
essere utilizzata per un successivo loro riconoscimento. Di solito questa parola viene tradotta con il termine piastra (kuruş); però, se si controlla più attentamente, si scopre che tale moneta venne introdotta per
la prima volta nell’impero ottomano nel 1688, quindi circa trent’anni
dopo la fine del viaggio. Nel 1690 un kuruş pesava gr. 26 e aveva un
contenuto di argento puro di gr. 15,6; allora 1 ducato corrispondeva a
2 kuruş e 60 akçe e 1 kuruş a 120 akçe. O si tratta di un voluto anacronismo dovuto o all’autore o al copista, oppure bisogna pensare che si
faccia qui riferimento a un’altra moneta. Qirš deriva dalla parola groschen/grosso, termine usato anche per una moneta veneziana d’argento (tra i 1,40 e i 2 gr.), corrispondente alla 24 parte di un ducato,
che però a metà Seicento non era più coniata da secoli. A questo punto
si possono fare solo supposizioni: nel caso non si faccia riferimento a
una moneta ottomana bensì veneziana si possono proporre o gli scudi
(31,83 gr. d’argento per quello coniato nel 1656) o, molto più probabilmente visto il valore, i soldi (2,04 gr. di mistura d’argento, 1656) che
erano valute allora correntemente usate. Quando infine Ra‘d racconta
della morte e dell’incoronazione ducale parla dei famosissimi ducati
d’oro, chiamati in arabo bunduq dal nome della città, e di dirham,
parola allora usata per indicare genericamente le monete o il denaro,
oltre a essere un’unità di misura per metalli preziosi e spezie20.
5. Le chiese e le celebrazioni
Ra‘d approfittò del soggiorno veneziano per visitare svariate chiese e
venerare reliquie di santi legati al mondo orientale. Fu dunque nell’isola
della Giudecca, posta di fronte a San Marco, per venerare Sant’Atanasio
il Grande, patriarca di Alessandria, alla cui intercessione si era affidato
durante una tempesta. Il santo corpo era stato portato da Costantinopoli a Venezia nel 1455 e posto nella chiesa di Santa Croce della Giu-
20
S. Pamuk, A Monetary History of the Ottoman Empire, Cambridge University Press,
Cambridge, 2000, pp. 159-164; C. Gamberini di Scarfèa, Prontuario prezzario delle
monete, oselle e bolle di Venezia, Forni, Bologna, 1969, p. 109; Système des mesures,
poids et monnaies de l’Empire Ottoman et des principaux états cit., p. 18.
384
Il viaggio dell’arabo Ra‘d di Aleppo a Venezia (1654-1656)
decca; a causa della soppressione dei conventi in epoca napoleonica fu
traslato a San Zaccaria dove rimase dal 1810 al maggio 1973, quando
passò nella chiesa di San Marco ad Alessandria d’Egitto. Alcuni però
avanzano riserve sull’autenticità della reliquia sostenendo che il corpo
sarebbe quello di Sant’Atanasio patriarca di Costantinopoli (12891309). Ra‘d visitò anche il tempio di San Giovanni Battista in Bragora,
dove ancora si conserva il corpo di San Giovanni Elemosinario,
patriarca greco di Alessandria d’Egitto, qui traslato da Costantinopoli
nel 1249. A Sant’Antonino poté invece vedere le reliquie del monaco San
Saba (Mar Saba). Dal monastero omonimo posto a est di Betlemme
furono portate a Venezia nel 1249, ma nel 1965 vennero restituite agli
antichi possessori. Si tratta però di una reliquia poco sicura tanto che,
già nel 1830, era stata proposta l’abolizione di questo culto21.
Come molti moderni turisti anche Ra‘d, nella sua affannosa ricerca
di tracce del passato e della sua cultura, fu forse ingannato o ricevette
comunque informazioni errate. Non si spiega altrimenti la sua affermazione di aver visitato la chiesa dedicata a San Gregorio di Nissa. A Venezia non esistette mai un edificio per questo santo mentre vi erano invece
una chiesa e un’abbazia dedicate a San Gregorio I Magno, papa e dottore, oltre alle reliquie di San Gregorio Nazianzeno, vescovo di Costantinopoli, il cui cranio era suddiviso tra la chiesa di San Luca e quella di
Santa Maria dei Crociferi. Il corpo di questo santo si trovava allora a
Roma, ma poi, nel 2004, venne donato al patriarca di Costantinopoli.
Secondo Ra‘d si trattava del patriarca di Costantinopoli, mentre in
realtà il santo titolare era o un vescovo di Verona o un confessore di
Bologna. Non esiste più oggi invece la chiesa dedicata a San Proclo
(vulgo San Provolo). A pochissima distanza da campo San Provolo, si
trova la chiesa di San Zaccaria, pure visitata dal nostro viaggiatore: non
è chiaro se le reliquie del santo titolare qui conservate appartengano a
un profeta minore o al padre del Battista, ma, secondo la tradizione,
furono inviate al doge dal basileus Leone V l’Armeno (813-820), lo stesso
che regnava quando arrivò a Venezia la reliquia di San Marco22.
Nella domenica di Passione del 1655 (14 marzo) o del 1656 (2 aprile),
Ra‘d assistette nella basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari all’osten-
21
F. Corner, Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia e di Torcello, Stamperia del Seminario, Padova, 1758, pp. 29-30, 32, 538; G. Musolino, A. Niero, S. Tramontin,
Santi e beati veneziani. Quaranta profili, Studium cattolico veneziano, Venezia, 1963, pp.
195, 198, 199-200, 202-204, 289-290, 297, 322.
22
In tempi antichissimi da Samo fu portato a Venezia anche il corpo di un altro San
Gregorio, eremita e soldato, compagno di Teodoro e Leone. F. Corner, Notizie storiche
delle chiese e monasteri di Venezia e di Torcello cit., pp. 41-42, 126, 128, 220, 304, 432436; G. Musolino, A. Niero, S. Tramontin, Santi e beati veneziani. Quaranta profili cit.,
pp. 121, 171-172, 189, 194-195, 293, 323.
385
Maria Pia Pedani, Paola Issa
sione dell’ampolla con il sangue di Cristo arrivato anch’esso da Costantinopoli. Egli vide anche altre cose: per esempio il dito di San Basilio,
venerato un tempo nella chiesa omonima chiusa nel 1810 e distrutta
nel 1824, che si trova oggi a San Giorgio dei Greci, e il corpo di Anastasio
il persiano, monaco e martire di Cesarea, portato sempre da Costantinopoli nel 1204 e venerato allora a Santa Tèrnita e poi traslato, in epoca
napoleonica, a San Francesco della Vigna. Tra i quadri invece Ra‘d
ricorda un’icona attribuita all’evangelista Luca e incorniciata d’oro. Si
tratta sicuramente della Nicopeia, che gli imperatori bizantini usavano
portare in battaglia. Giunta prima del 1234 fu collocata a San Marco e,
nel 1618, fu adornata con una preziosissima cornice. Altre icone attribuite a San Luca giunsero in città, come la Mesopanditissa, portata da
Candia da Francesco Morosini nel 1670 e posta nella chiesa di Santa
Maria della Salute, mentre un’altra, piccola e poco appariscente, era
venerata un tempo nella chiesa della Carità. Sempre a San Marco, dalla
parte del Molo, vide anche il mosaico della Vergine con il bimbo, opera
del XIII secolo, detta anche Madonna di Broglio, dalla parola brolo, giardino, davanti alla quale brilla ancora un lume, così come volle un dalmatino che si salvò da un naufragio proprio perché riconobbe una lampada che ardeva allora davanti a quella sacra immagine.
Ra‘d si recò anche ai SS. Giovanni e Paolo, il pantheon veneziano
dove venivano sepolti gli eroi della patria. Egli non si occupò però di
notare i monumenti di quanti combatterono gli ottomani, come Marc’Antonio Bragadin, e neppure si diede premura di citare la cappella
del Rosario, costruita a fianco della sacrestia per celebrare la vittoria
veneziana a Lepanto (1571), come se la politica internazionale che pure
coinvolgeva la sua patria non lo sfiorasse. Era invece, come cristiano,
molto più interessato alle immagini sacre come l’icona greca detta
Madonna della Pace, davanti alla quale, secondo la tradizione, San Giovanni Damasceno aveva recuperato miracolosamente l’uso di una
mano. Portata a Venezia da Costantinopoli nel 1349 dal nobile Paolo
Morosini, venne da questi donata ai padri domenicani e, dopo essere
stata conservata sull’altare della sala capitolare, venne poi nel 1505
situata nella nuova cappella allora eretta nella basilica, dalla parte
della Scuola di San Marco23.
23
F. Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare cit., pp. 102, 187-188; F. Corner,
Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia e di Torcello cit., pp. 34, 86, 363, 419,
450; Forestiero illuminato. Intorno alle cose più rare, e curiose antiche e moderne della
città di Venezia, Giambattista Albrizzi, Venezia, 1772, pp. 16-17, 306; G. Musolino, A.
Niero, S. Tramontin, Santi e beati veneziani. Quaranta profili cit., pp. 116, 246, 253-254,
289, 297, 302; Venezia favorita da Maria. Relazione delle imagini miracolose di Maria conservate in Venezia, Stamperia del Seminario-Manfrè, Padova, 1758, pp. 117-118. Ora
l’icona è collocata in una cappella dall’altra parte della navata centrale.
386
Il viaggio dell’arabo Ra‘d di Aleppo a Venezia (1654-1656)
Ra‘d si sofferma a descrivere anche alcune, per lui strane, usanze
veneziane. Parla, per esempio, di dodicimila ponti e dodicimila barche
mentre oggi, dopo secoli di costruzioni, sono poco più di 400 quelli che
uniscono le 118 isolette del tessuto urbano. Un’altra curiosità che
annota riguarda la mancanza di acqua sorgiva: un tempo si doveva
infatti ricorrere all’acqua piovana, raccolta nei pozzi, o a quella dei
fiumi dell’entroterra trasportata con barche sino in città. Ra‘d afferma,
a questo proposito, che i veneziani non si dissetano con l’acqua, bensì
con solo vino che tracannano come fosse succo di lampone di Damasco. Non parla invece dei luoghi di mescita, delle malvasie, dedicate al
dolce vino greco, o dei bastioni da vin, dove si serviva solo il vino e non
il cibo, che era riservato alle furatole, dove invece si poteva solo mangiare e non bere. Non cita neppure il fatto curioso che, nel lessico marinaresco ottomano, il termine di chiara origine veneta lōstārya voleva
dire bettola o taverna24.
Un’altra strana usanza era quella che permetteva alle famiglie
povere di abbandonare i neonati lasciandoli con la metà spezzata di
una moneta in un catino di pietra, vicino a piazza San Marco. Essi
venivano allevati a spese dello stato ed eventualmente restituiti a chi
fosse presentato con l’altra metà della moneta. In questo caso Ra‘d non
cita giustamente la chiesa della Pietà, presso cui stava la ruota per gli
esposti, che venne infatti costruita solo all’inizio del XVIII secolo. Sempre a San Marco vide invece sia la processione per la Nicopeia, sia le
botteghe in legno costruite per l’Ascensione, sia gli svaghi e le feste
celebrate tra il Natale e il martedì grasso. Descrive poi la torre dell’Orologio, dove sono ancor oggi due statue di ferro che battono le ore e un
meccanismo che mostra le fasi lunari. In particolare lo colpì la processione delle statue dei re Magi che nel giorno dell’Annunciazione camminano e si inchinano di fronte alla Vergine e al Bambino. Vide probabilmente con i suoi occhi i bambini veneziani sostare ammirati davanti
a un simile spettacolo gridando ‘Annunciazione, annunciazione’, come
si faceva ancora cinquant’anni fa. Ricorda infine le zattere che portavano a Venezia il legname che era poi usato come combustibile. A
Codissago esiste dal 1982 un museo etnografico che racconta la storia
degli zatereri che fornivano alla Dominante un materiale così prezioso
per la vita quotidiana.
Tre furono gli eventi che meritarono però una più lunga attenzione:
la festa dell’Ascensione (la Sensa in veneziano) e le esequie e l’intronizzazione del doge. Ra‘d descrive lo sposalizio con il mare che si celebrava
ogni anno, quando il doge si recava alla bocca del porto di Lido che egli
24
J. Redhouse, A Turkish and English Lexicon cit., p. 1643. L’uso del termine ‘osteria’
è attestato per la prima volta proprio a Venezia nel XIII secolo.
387
Maria Pia Pedani, Paola Issa
definisce infatti boğaz. Era celebrata quaranta giorni dopo la Pasqua.
Ra‘d poté quindi assistervi sia il 6 maggio 1655 sia il 25 aprile 1656.
In occasione di tale solennità si imbarcavano sul bucintoro il doge e la
Signoria, organo costituito dal doge e i sei consiglieri ducali, cui si
aggiunsero, dall’inizio del ‘400, i tre capi della Quarantia Criminal, il
massimo tribunale dello stato veneziano. In tutto quindi dieci persone
cui si aggiungevano vari notabili cittadini. Ra‘d però cita quaranta
ministri (wazīr) che accompagnavano il doge e i nobili della città. Se
bisogna dar fede alle sue parole, e non ritenere quel numero solo una
cifra generica indicante gran quantità, potrebbero essere un riferimento impreciso ai 41 elettori ducali che poco prima della festa dell’Ascensione del 1655 misero sul trono Carlo Contarini25. Poco dopo
nel manoscritto, descrivendo la complicata prassi veneziana in materia
di elezione ducale, i numeri degli elettori risultano infatti imprecisi:
Ra‘d parla di successive estrazioni di quaranta, dodici e quattro persone, cui era demandata infine la nomina della massima carica dello
stato. Un’antica poesia invece così descrive questa usanza: Nove di
trenta e poi quaranta sono / Poi dodici, poi venti e cinque appresso, /
nove, quarantacinque, undici, e messo / dai quarantuno è il sommo duce
in trono26.
Più lunga è la descrizione delle cerimonie in occasione di esequie e
intronizzazioni. Ra‘d stesso racconta, come detto, che fu presente alla
morte e salita al potere di ben re dogi. Quindi parla dell’usanza di riprodurre in cera il volto del defunto, di pagare i suoi debiti prima del funerale e quindi della complicata elezione dogale e delle svariate estrazioni
a sorte di nomi di elettori fatte con bossoli (contenitori cilindrici in legno
detti anche cappelli se ricoperti di velluto) e balote (biglie) che avvenivano
per cercare di limitare al massimo i brogli, parola che deriva proprio dal
brolo situato presso il palazzo ducale dove i nobili veneziani si ritrovavano a discutere di politica. Se l’eletto non era presente, la nomina gli
veniva annunciata dal cancellier grande che gli consegnava un cappello
nero, una baréta a tozzo, in velluto, non dissimile da quelli di lana nera,
un tempo usati effettivamente, ma che dalla seconda metà del Seicento
erano solo portati in mano dai nobili veneti in segno di distinzione.
F. Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare cit., p. 500.
A. Da Mosto, L’Archivio di Stato di Venezia, vol. 1, Biblioteca d’Arte, Roma, 1937,
p. 16 (volume scaricabile in pdf in: http://www.archiviodistatovenezia.it/web
/index.php?id=67, consultato il 22.02.2016). Cfr. quanto dice, a proposito dell’elezione
dogale, anche un altro ottomano, il cronachista Na’îmâ, Târih-i Na’îmâ, haz. M. İpşirli,
Türk Tarih Kurumu, Ankara, 2007, vol. 2, p. 909; M.P. Pedani, La Serenissima vista dal
Turco, in Città della Strada. Città della Spada. Cividale e Palmanova, a cura di M.A.
D’Aronco, Società Filologica Friulana, Udine, 2013, pp. 101-111.
25
26
388
Il viaggio dell’arabo Ra‘d di Aleppo a Venezia (1654-1656)
Di solito tale cerimonia era fatta nella sala dei Pregadi a Palazzo
Ducale ma, tra i dogi eletti mentre Ra‘d era a Venezia, ricevettero a
casa tale distintivo sia Carlo Contarini sia Bertuccio Valier, che addirittura si trovava da quattro giorni a letto a causa della podagra che lo
tormentava. Il cappello non veniva quindi consegnato in basilica, come
racconta Ra‘d. A San Marco il nuovo eletto riceveva dal primicerio lo
stendardo rosso con il leone, usato dalla flotta di Venezia, e il bastone
del comando. Veniva quindi fatto sedere su una specie di trono, detto
pozzetto, coperto da un parasole, e portato a spalla dai lavoratori dell’arsenale (gli arsenalotti) attorno alla piazza, mentre il doge gettava
monete alla folla festante. Si trasferivano quindi tutti in corteo a
Palazzo dove, alla sommità della Scala dei Giganti, dopo aver promesso
fedeltà alla Repubblica e alle sue leggi, il doge riceveva il camaùro, cioè
la berretta bianca, dal più giovane tra i consiglieri ducali e quindi, dal
più anziano, era incoronato con il corno ducale, detto anche acidario
o zoia27. Seguivano poi le feste con distribuzione di pane al popolo. Le
cronache veneziane ricordano a questo proposito soprattutto la munificenza mostrata da Carlo Contarini, che gettò monete in gran parte
d’oro durante il giro che fece in piazza e quindi diede pane e vino in
gran quantità28.
6. Conclusione
I documenti forniscono il nome di altri orientali che, a metà Seicento, nello stesso periodo del viaggio di Ra‘d e del suo compagno Abd
al-Masīḥ, soggiornarono a Venezia. Si trattava di ambasciatori, mercanti e, alle volte, anche spie. Per esempio, nel maggio 1656 era sicuramente in città un suddito dello shah di nome Yusuf il quale, dopo
essere stato a Creta, tornava nel suo paese passando per la Tana, in
modo da evitare le terre ottomane. Nello stesso mese si trova notizia
anche di un certo Seyfi, forse un persiano o forse una spia del sultano,
che poi proseguì il suo viaggio verso la Francia e da Parigi scrisse una
lettera di ringraziamento per il doge29. Contemporaneamente morì un
Hacı Mehmed, lasciando delle stoffe di pelo di cammello (zambelotti)
che furono poi vendute e il cui ricavato venne depositato in Zecca dallo
27
A. Vitali, La moda a Venezia attraverso i secoli, Lessico ragionato, Filippi, Venezia,
1992, pp. 46-48. A. Da Mosto, I dogi di Venezia nella vita pubblica e privata, Giunti,
Firenze, 1977, pp. 384, 393.
28
A. Da Mosto, I dogi di Venezia nella vita pubblica e privata cit., p. 384.
29
M.P. Pedani, A Seventeenth Century Muslim Traveller in Paris, «Quaderni di Studi
Arabi», 13 (1995), pp. 227-236.
389
Maria Pia Pedani, Paola Issa
stato veneziano, in attesa dell’arrivo degli eredi30. In ottobre arrivò un
çavuş da Costantinopoli, di nome Mustafa, per parlare di pace31. Nel
gennaio 1656 morì invece nella parrocchia di Santa Maria Formosa un
musulmano di circa 70 anni, Hacı Ahmed Nazinali32, mentre nel 1660
ne morirono altri due33. Nel 1662 venne espulso Hacı Osman, sospettato di spionaggio, il quale da anni risiedeva a Venezia senza esercitare
alcuna mercatura34. Nel 1665 il persiano Mustafa arrivò per reclamare
l’eredità del padre Hoca Hüseyin, detto Mullah, morto a Venezia nel
1631 mentre ad aprile 1665 morì Abdulqi Spira che abitava nel fondaco
dei Turchi; nel 1668, alla fine della guerra, ci fu una lite tra i fratelli
della Bernarda e un certo Ömer per una questione legata al commercio
di stoffe35.
Nello stesso tempo si potevano incontrare anche musulmani convertiti, spesso sudditi del sultano fatti schiavi o trattenuti, come quella
Zanetta turca cui il doge Giovanni Pesaro lasciò per testamento un
legato nel 165936, o come quel gruppo di trecento «volontari» che combattevano allora per i veneziani a tre dei quali, nell’ottobre del 1654,
venne aumentato il salario37. I cristiani ottomani hanno invece lasciato
tracce minori. Appartenne probabilmente a questa categoria un Caram
d’Affif quondam Seftallah che nel 1661 presentò all’ufficio dei Savi alle
decime la dichiarazione di beni immobili che allora possedeva nella
zona di Treviso38. Molti dunque erano i sudditi del sultano ottomano e
dello shah safavide che Ra‘d avrebbe potuto incontrare. Eppure nessuno di loro ha lasciato un racconto del suo soggiorno veneziano e
quello del nostro viaggiatore appare dunque come un unicum, raro e
eccezionale, silenziosa testimonianza di una persona curiosa e aperta
a conoscere l’altro e il diverso.
30
Archivio di Stato di Venezia (in seguito Asve), V Savi alla Mercanzia, 2ª serie, b.
186.
31
M.P. Pedani, In nome del Gran Signore. Inviati ottomani a Venezia dalla caduta di
Costantinopoli alla guerra di Candia, Venezia, Deputazione editrice, 1994, p. 209.
32
G. Lucchetta, Note intorno a un elenco di turchi morti a Venezia, in Veneziani in
Levante. Musulmani a Venezia, «Quaderni di Studi Arabi», suppl. 15 (1997), pp. 133-146.
33
Asve, Avogaria di Comun, Misc. Civil, b. 39, fasc. 14.
34
M.P. Pedani, Venezia. Porta d’Oriente cit., p. 214,
35
Aave, V Savi alla Mercanzia, 2ª serie, b. 186.
36
Asve, Inquisitorato alle acque, reg. 509, c. 38v.
37
M.P. Pedani, Oltre la retorica. Il pragmatismo veneziano di fronte all’Islam, in L’Islam
visto da Occidente. Cultura e religione del Seicento europeo di fronte all’Islam, a cura di
B. Heyberger, M. Garcia-Arenal, E. Colombo, Paola Vismara, Genova-Milano, Marietti,
2009, pp. 171-186.
38
Asve, Dieci Savi alle Decime in Rialto, b. 222/1131; G. Gullino, Quando il mercante
costruì la villa: la proprietà dei Veneziani nella Terraferma, in Storia di Venezia, vol. 6,
Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1994, pp. 875-924, in particolare p. 918.
390
Il viaggio dell’arabo Ra‘d di Aleppo a Venezia (1654-1656)
TRADUZIONE
(c. 10r) Descrizione del nostro viaggio a Venezia, terra franca. Era
l’anno settemilacento sessantaquattro di Adamo. Viaggiammo io,
misero Ra‘d, e Abd al-Masīh,̣ nei paesi franchi fino alla città di Venezia.
Partimmo da Aleppo alla volta di Tripoli e soggiornammo a Tripoli quaranta giorni. Salpammo da Tripoli con il galeone del capitano Martin e
era la notte della festa della Croce. Gli amici ci salutarono e salpammo
e il capitano sparò col cannone [a salve] e partimmo. Dopo quattro
giorni vedemmo l’isola di Cipro e, dopo sette giorni oltrepassammo
l’isola di Cipro, e seguimmo la rotta, e non vedemmo più né terra né
isola. Il capitano ordinò al nostromo di virare oltre la punta di Creta
perché c’era l’accampamento dei militari turchi. Dopo sette giorni,
verso sera, vedemmo degli uccelli sopra la nave. Sparò con il fucile e
ne fece cadere due che assomigliavano a dei polli gialli, ma erano delle
quaglie. Guardando gli uccelli, vedemmo la terra vicino a noi. Era a un
quarto d’ora. Se avessimo accostato verso terra, ci avrebbero presi prigionieri; era il paese dei berberi, vicini al Maghreb. (c. 10v) Virammo e
la nave tornò indietro. Il vento era molto forte, cosicché l’albero di prua
si ruppe e la nave sbandò. Arrivò la notte e ci preparammo ad annegare. Ci salutammo gli uni con gli altri e disperavamo della vita. Dopo
questo tirammo via dalla vela l’albero, che continuava ad inclinarsi e
lo mettemmo sulla nave, che si stabilizzò e tornammo indietro. Dopo
qualche giorno scoprimmo l’isola di Creta (Krīt), che si chiama anche
Iqrīṭiš 39; ci avvicinammo all’isola, a distanza di un lancio di pietra. Il
vento si fermò e rimanemmo fermi per due giorni. Dopo l’arrivo del
vento mandatoci da Dio, uscimmo vicino all’isola e ripartimmo dopo
aver rialzato le vele. Dopo sette giorni oltrepassammo l’isola di Iqrīṭiš
e navigammo in mezzo al mare; poi ci avvicinammo all’isola40 di Morea
chiamata anche Peloponneso. Seguimmo le coste dell’isola per sette
giorni poi il vento divenne più forte e giungemmo presso una piccola
isola, dove ci fermammo. Era un porto per i pirati maghrebini. La nave
fu coperta con una rete metallica annodata (c. 11r) poi furono portate
delle lance con delle teste come un grosso ago. Dettero a ognuno di noi
una lancia e dissero: «Rimanete svegli, che nessuno dorma, e se vedete
qualcuno sopra la rete, colpitelo con la lancia» e poi, quando giunse
l’alba, salpammo [e navigammo] per cinque giorni, lasciando questo
posto, e arrivammo all’isola di Zante che era in mano ai franchi veneziani, all’inizio della loro dominazione. Rimanemmo lì per tre giorni.
39
Creta in turco detta Girit, ottomano Kirīd, in veneziano Candia, in greco Κρήτη
(pronuncia Kríti).
40
Sic, recte penisola.
391
Maria Pia Pedani, Paola Issa
Poi la lasciammo per navigare nel mare Adriatico che è il mare veneziano. Navigammo in questo mare per sette giorni. Il vento si fermò e
noi ci fermammo in un porto lontano un miglio marino dalla terra.
Dopodiché navigammo altri sette giorni, ma terminammo la riserva
d’acqua per bere e per fare da mangiare e, dopo molti sforzi, trovammo
un porto sperduto tra le montagne e ci fermammo; cinque uomini sbarcarono dal galeone e scesi anch’io con loro, a me diedero il timone e a
essi i remi e girammo per una trentina di isolotti. Guardavamo, cercando acqua, ma non c’era nessuna acqua; non sapevamo cosa fare
per bere e cucinare! Dopo questo, vicino al mare c’erano delle grandi
botti e dentro c’era dell’acqua piovana. Il mare arrivava, quando le onde
si abbattevano (c. 11v) e spruzzavano acqua, e l’acqua piovana diventava salata. Riempimmo i barili di quest’acqua piovana e ritornammo
la sera al galeone. L’indomani salimmo sulla montagna e spaccammo
circa tre o quattro cantara di legna. Poi navigammo per altri cinque
giorni. Il vento si era alzato e la nave era rimasta in mezzo al mare, e
le onde si abbattevano su di noi come montagne. E stavamo annegando; allora gridammo al capitano «Trova un porto vicino, per evitare
il naufragio!» allora egli, guardando con il cannocchiale, vide un porticciolo e disse: «Questo è un porto dove, se il galeone sosta, ho paura
che non ne esca più.» Allora noi rispondemmo: «Dobbiamo annegare
tutti per la tua nave?» Allora virò verso terra e arrivammo e ci fermammo, e trovammo altre dieci piccole imbarcazioni attraccate in quest’isola. Prima dell’alba da tutte le piccole imbarcazioni ci gridarono
«Andatevene prima che il vento rinforzi: impedirete di uscire anche a
noi». Allora uscimmo da questo porticciolo e la nostra barca navigò in
sicurezza lungo la costa e dopo sette giorni arrivammo in una città
chiamata Parenzo41. (c. 12r) Gettammo l’ancora e a un miglio di
distanza c’era un’isola. Il capitano sbarcò in questo paese e portò con
sé un nuovo pilota, in quanto il pilota che si trovava sulla nostra nave
non era del posto e non poteva governare il galeone, in quanto il mare
diventava poco profondo in certi luoghi, e le rotte da seguire le conoscevano solo loro. Dopo due giorni lasciammo questa città e il nuovo
pilota aveva in mano una cima legata a un piombo, e ogni ora misurava
e diceva al nostromo: «Vira a destra» o «Vira a sinistra» e dopo tre giorni
scoprimmo di lontano le montagne del paese germanico.
41
Būlṭ, recte Parenzo. K.-M. Wālbīnar [C.-M. Walbiner], Riḥlat Ra‘d min Ḥalab ilā
l-Bunduqiyya cit., p. 375 nota 18: Būlṭ, la città di (Pula) si trova oggi in Croazia. E. Kallas,
The Travel Account of Ra‘d to Venice (1656) and its Aleppo Dialect according to the Ms.
Sbath 89 cit., p. 63: Būlṭ / Bulat (Pola). Probabilmente errata lettura da parte del copista
di un originale Bīrānse come si scriveva questo nome in ottomano.
392
Il viaggio dell’arabo Ra‘d di Aleppo a Venezia (1654-1656)
E dopo un giorno vedemmo le sommità dei campanili che sono a
Venezia. E la sera vedemmo Venezia. Il pilota ordinò di fermarci e buttammo quattro ancore, a est e ovest, a nord e sud, perché non c’era
un porto e neanche una protezione. Guardando intorno c’erano altre
sei imbarcazioni ferme vicino a noi. Passammo la notte senza dormire
per la paura, perché spesso si rompono gli attracchi e la nave torna
indietro e si squarcia.
Quando arrivò il giorno, c’era una nebbia così fitta che non potevamo vederci l’un l’altro. Ecco che venticinque imbarcazioni, di quelle
grandi (c. 12v) che uscivano da Venezia, si diressero verso quelle che
erano ferme. Allora il nostro galeone cominciò a sparare cannonata
dopo cannonata, così sarebbero venuti da noi, e ci avrebbero fatto
attraccare per primi. Si diressero verso di noi e il capitano li pregò di
trascinare la nostra imbarcazione. Legarono una cima molto grossa
alla prua del nostro veliero e legarono a questa cima altre venticinque
corde e ogni cima era legata a un’imbarcazione. Cominciarono a
remare, e così trainarono il nostro veliero, e il loro pilota era davanti a
tutti e teneva in mano una lancia, e ogni quarto d’ora misurava con la
lancia [il fondale] e diceva loro: «Virate a sinistra» e un quarto d’ora
dopo misurava con la lancia e diceva: «Virate a destra» e rimase così
dalla mattina fino a sera; poi arrivammo e vedemmo terra e frutteti da
questa parte e dall’altra, e uno sbocco in mare che permetteva all’imbarcazione di passare, e delle torri da entrambi i lati. Ci dissero: «Legate
la vostra imbarcazione a una delle torri» e lo facemmo. Poi partirono
lasciandoci soli.
Dormimmo una notte senza chiudere occhio (c. 13r) perché il mare
con la marea saliva, poi tornava indietro, e andava a Venezia che era
circondata da tutti i lati da tre bocche di porto. E questo posto dove ci
fermammo si chiama Malamocco. Quando l’onda passava sotto il
nostro galeone, questo saliva in alto, poi scendeva in basso. Quando
giunse la mattina, quelli che ci avevano tirati ci raggiunsero, legarono
la nostra barca e attraversammo questo passaggio in un tiro di freccia.
Guardammo ed ecco un mare che si estendeva fino all’orizzonte e
c’erano tante imbarcazioni ferme, l’una lontana dall’altra a un lancio
di pietra, e tanti soldati della laguna. Sparammo con il cannone una
volta, vuol dire un saluto, e anche loro risposero con una cannonata.
Facemmo così a ogni imbarcazione che incontravamo, e passarono una
ventina di navi.
Dopo questo vedemmo Venezia. Prima di arrivarci, a un miglio
marino [di distanza] gettammo l’ancora. Il capitano prese le lettere e si
diresse verso l’ufficio pubblico attraverso un ponte di barche lungo
mezzo miglio; allora lanciò le lettere da lontano per farle arrivare fino a
quelli (c. 13v), che le presero con una pinza e le buttarono nell’aceto per
paura di essere contagiati dalla peste e dal colera, perché pensavano
393
Maria Pia Pedani, Paola Issa
che il suo odore disinfettasse. Il foglio esterno si inzuppò. Lessero le lettere del console di Tripoli. Contarono il numero degli uomini che erano
nella nostra imbarcazione e quanta merce avevamo. Scrissero tutto; poi
mandarono un addetto sul nostro galeone, per controllare i passeggeri
durante i quaranta giorni, in quanto nessuno poteva sbarcare in città.
E i commercianti che vennero con la nostra nave furono poi mandati in
un posto lontano dalla città di quasi un miglio, che si chiamava Lazzaretto, e inviarono un addetto per controllarli per quaranta giorni, mangiando e bevendo con loro; e era pagato quaranta qirīš, uno per ogni
giorno. Ci portarono in questa imbarcazione e arrivammo in questo
posto ed eravamo tredici commercianti, perché a Zante ci avevano raggiunto sulla nave delle persone franche. Presero la nostra merce e la
portarono al Lazzaretto, e l’esposero al sole per sessanta giorni. E dal
giorno che abbiamo lasciato Tripoli fino al nostro arrivo a Venezia, passarono 60 giorni, e era il periodo dell’Avvento. (c. 14r)
Al primo giorno di digiuno del Natale ci diedero un quarto di lenticchie, e allora scesi per lavarle con l’acqua di mare, ma venne colui che
ci controllava, me le prese e disse: «Vieni che ti faccio avere acqua dalla
botte di acqua piovana, e lavale perché se le lavi con l’acqua di mare,
[il contagio] arriverà a Venezia e sarà peggio». Poi ci fece aprire i nostri
oggetti e li espose al sole, anche la stoffa del turbante, il vestito e la
camicia42. Lo stesso per una cassa che avevamo a bordo e ci disse:
«Apritela, perché c’è dell’odore dentro». L’aprimmo e l’esponemmo al
sole. Dopo questo, la domenica ci portò alla preghiera. Rimanemmo in
piedi nell’angolo, nella parte in fondo alla chiesa, ed ecco che un’altra
persona portò la sua gente, e la fece stare in piedi all’altro angolo della
chiesa. E il sacerdote iniziò a celebrare la messa, e poi portò un piatto
che mise sul pavimento, sulla porta della chiesa43 e lo spinse verso di
noi. Lo prese il signore che ci aspettava e girò in mezzo a tutti noi e
ognuno mise un’offerta, poi lo ripose a terra e lo spinse verso l’altro
gruppo; l’altro guardiano lo prese facendo il giro tra di loro, raccogliendo le offerte, poi lo ripose di nuovo sul pavimento e lo spinse verso
l’entrata della chiesa. Il sacerdote lo prese, (c. 14v) quando la messa fu
finita ritornammo al nostro posto e il capo del Lazzaretto arrivò e si
sedette su una sedia e ci presentammo uno a uno e ci esaminò; poi
c’era con noi un signore magro, lo spogliò anche della camicia e i
vestiti, lo controllò per vedere se era malato, ma non trovò nulla. Dopo
42
Šāš, ǧūḫa, ṣāya, cioè la stoffa che forma il turbante, un abito con ampie maniche
o senza maniche, di solito di lana, chiuso da un bottone sul collo indossato dagli uomini
e la camicia. Y.K. Stillman, Libās, in Enciclopaedya of Islam, vol. 5, Leiden, Brill, 1986,
pp. 732-147.
43
Hīkal, heykel, tempio o grande edificio, J. Redhouse, A Turkish and English Lexicon
cit., p. 2176.
394
Il viaggio dell’arabo Ra‘d di Aleppo a Venezia (1654-1656)
quaranta giorni arrivò la persona che stava con noi al Lazzaretto; ci
portò a Venezia, dove abbiamo abitato, e ci accolse quella notte dicendoci «Volete mangiare con me o da soli?» rispondemmo: «Mangiamo da
soli» perché chi mangiava con lui gli calcolava un terzo di qirīš al
giorno. Dopo venti giorni ci consegnarono la nostra merce, che vendemmo in due giorni.
Rimanemmo un anno a Venezia aspettando una nave che rientrasse
a Tripoli. Quando avevamo rischiato di annegare in mare, avevamo pregato Sant’Atanasio il Grande, e avevamo detto: «Oh santo di Dio salvaci,
e nella settimana che entreremo a Venezia, andremo nella tua chiesa
e saremo benedetti dal tuo corpo e pagheremo il nostro voto». Allora
prendemmo un’imbarcazione e andammo nel quartiere dove si trova la
chiesa e fummo benedetti. Il suo corpo era completamente tempestato,
(c. 15r) di perle e pietre preziose e [portava] una corona, che aveva un
gran valore. Mentre scendevamo per ritornare al nostro luogo [di soggiorno], il vento rinforzò e non potevamo riprendere il mare. Ci mettemmo di nuovo a piangere e a declamare: «O santo, noi siamo stranieri
dove possiamo dormire in questo quartiere?» e ecco che il mare si
calmò e il marinaio dell’imbarcazione ci chiamò: «Venite» e attraversammo il mare44 verso San Marco e quando uscimmo dal mare, altre
imbarcazioni ci seguirono ed erano in mezzo al mare. Il vento rinforzò
e cinque barche si rovesciarono in mare. Ringraziammo il santo che ci
aveva salvato.
Dopo questo ci facemmo benedire dal corpo di Giovanni Elemosinario, e era come se dormisse. Poi visitammo la chiesa di San Saba e il
suo corpo sembrava dormiente, e ancora altre chiese: San Gregorio di
Nissa, e Proclo, patriarca di Costantinopoli, e il profeta Zaccaria con le
sue ossa e molti altri santi dei quali non conosco il nome.
Nella quinta settimana del Quaresima visitammo la chiesa che porta
il nome del Sangue Divino, che è colato dalle mani e dai piedi di nostro
signore il Cristo quando è stato crocefisso. Questo sangue si trova in
una piccola ampolla, piena a metà, ed è appesa sotto una cupola d’oro
e vi sono dei sacerdoti che pregano. Ciascuno porta un fascio di candele rosse e sottili, le danno al sacerdote che le avvicina all’ampolla
con il sangue (c. 15v) e poi riprendono queste candele. Se faceva molto
freddo in tutto il paese, allora accendevano queste candele e il freddo
e i lampi cessavano.
Nei giorni di festa ci sono fuochi d’artificio e la felicità non è descrivibile. Fummo benedetti dal dito di Basilio il Grande e dal corpo del
martire Anastasio il Persiano, che si faceva girare in città. Ogni sabato
andavano in giro con l’icona della Madonna dipinta da Luca Evangeli-
44
Cioè il canale della Giudecca.
395
Maria Pia Pedani, Paola Issa
sta, e essa aveva quasi venti rotoli (roṭl ) di oro intorno. Quattro sacerdoti la portavano sulle loro spalle. E giravano con il sangue che è colato
dall’icona di Cristo che l’ebreo aveva trafitto e che si trova in un’ampolla. E ricevemmo la benedizione dall’icona della Madonna che aveva
guarito la mano di Giovanni, il prete di Damasco.
Le bellezze di questa città non sono descrivibili e non possono essere
apprezzate perché ci sono dodicimila ponti e dodicimila barche. E le
viuzze sono tra l’acqua e la terra. Colui che cammina sulla terra passa
sopra il ponte per passare da un quartiere all’altro, mentre colui che è
in barca passa sotto i ponti per arrivare in un altro luogo; e le viuzze
non contengono né fango né argilla, tutto è pulito. Gli abitanti della
città non si dissetano con l’acqua, ma con il vino, come se fosse succo
di lampone di Damasco, quattro bicchieri, e non bevono altro, e non
hanno sete fino alla sera; poi cenano, bevono e infine dormono. (c. 16r)
Hanno un’altra consuetudine: il doge con i quaranta ministri e i
notabili della città vanno alla bocca [del Lido] che si trova a Venezia
dove pregano e gettano al loro passaggio un prezioso anello d’oro. Il
doge ha fatto preparare, alla vigilia, un banchetto ricco di tutti i tipi di
cibo: dolci, carne rossa, pesce, diversi tipi di molluschi e patelle
(baṭlīnos) grandi quanto il piatto, pere rosse, uva rossa e bianca, prugne, pesche, albicocche, mele e tutte quello che si mangia fatto con lo
zucchero, e questo banchetto viene esposto ovunque, in mezzo al
palazzo. E in città non vi era nessuno, uomini e donne, che non si
recasse ad ammirare questo banchetto regale che era costato un
minimo di diecimila qirīš. Vedevi tutte le donne incinte che avevano
voglia di mangiare, ma nessuno poteva toccare nulla. A mezzogiorno il
doge e i ministri uscivano dalla bocca di porto e venivano al banchetto
e mangiavano. Ogni ministro poi prendeva per casa sua e per i suoi figli.
Questa consuetudine era a carico del doge, e veniva fatta ogni anno.
Hanno anche un’altra consuetudine per le feste di Pasqua. Il doge e
i suoi ministri (c. 16v) giravano in piazza San Marco, cioè l’apostolo
Marco Evangelista; il doge veniva affiancato da un povero vestito con
un caffettano lacero e ogni due passi parlava con il povero. Anche i
ministri, ognuno con un povero accanto, facevano come il doge; poi li
facevano pranzare e davano un’offerta come segno d’umiltà.
Hanno anche un’altra consuetudine, se un povero non ha la possibilità di educare il proprio figlio, allora il figlio quando viene battezzato
gli viene data un qirīš d’argento; questo viene diviso in due [parti] e su
una si scrive il nome del figlio e la data di battesimo e la si appende al
collo del figlio; poi il padre lo porta prima dell’alba in piazza San Marco
e lo mette in un catino di pietra e aspetta lontano. Giunge uno dei ministri o dei notabili che lo prende con sé, gli trova una donna per allattarlo e lo cresce fino all’età di sette anni. Il padre prende l’altra metà
della moneta e va a casa del signore che ha preso suo figlio, gli bacia
396
Il viaggio dell’arabo Ra‘d di Aleppo a Venezia (1654-1656)
le mani e gli dice: «Signore restituisci mio figlio» e l’altro risponde,
«Dammi l’altra metà della moneta» e poi prende quella che era al collo
del bambino, e unisce le due metà, allora, se la moneta combacia, il
padre riprende il proprio figlio e se ne va dopo avergli dato un dono.
Avevano anche un’altra consuetudine, quando il doge moriva lo seppellivano di notte dopo che una persona aveva riprodotto con la cera il
suo volto con barba e baffi, (c. 17r) poi lo stendevano su un letto alto,
e quattro ministri stavano seduti intorno a lui. Se doveva dei soldi a
qualcuno, questi portava un foglio, sul quale era scritto l’ammontare
dei soldi, e veniva fissato con un ago. Non si poteva togliere, se non
dopo che i ministri avessero pagato il suo debito. Tutti accorrevano a
vedere. E rimaneva tre giorni così. Dopo questi tre giorni, venivano tutti
i parrocchiani con i preti delle chiese e seguivano i funerali e lo portavano dal palazzo e giravano con il feretro intorno alla piazza fino alla
porta della chiesa di San Marco Evangelista. Poi si fermavano sulla
porta e alzavano la bara e contavano uno, due, fino a dieci e lo portavano a lato della chiesa. Tutti i ministri e i notabili andavano al palazzo
e lo portavano nella grande sala, poi mettevano in un sacchetto delle
biglie nere e quaranta biglie argentate, e uno alla volta si avvicinavano
a questo contenitore e [ognuno] metteva la mano all’interno e estraeva
una biglia. Se era nera la buttava via e se ne andava ma se era argentata, allora lo rinchiudevano in una stanza fino a che fossero uscite le
quaranta biglie argentate, pari a quaranta uomini. Poi mettevano
dodici biglie argentate e ventotto nere nel sacchetto e di nuovo ogni
uomo si alzava e estraeva una biglia. Coloro che (c. 17v) avevano avuto
le dodici biglie argentate erano chiusi in una stanza. Di nuovo riponevano le quattro biglie argentate e le otto nere, e c’era una nuova estrazione. Coloro che prendevano le nere erano mandati via e i quattro,
con le biglie argentate, li rinchiudevano in una stanza dentro alla quale
vi era un’altra stanza, e all’interno un’altra stanza ancora. E chiudevano tutte le entrate e le uscite per paura che qualcuno dei ministri
potesse lanciare un foglio di carta per farsi eleggere. Chiudevano la
porta del palazzo e cinquanta soldati con tutte le loro armi aspettavano
davanti alla porta. Disegnavano l’immagine di Cristo e della Vergine in
alto e San Marco Evangelista in basso. I quattro uomini rinchiusi erano
in ginocchio e pregavano per eleggere un doge. Intanto i quattro uomini
rinchiusi all’interno facevano un sorteggio che nominava uno dei ministri; allora rendevano noto a coloro che erano davanti alla porta del
palazzo e dicevano: «Il sorteggio ha nominato quel tale ministro», e correvano a avvertirlo a casa. Dopo un’ora gli altri ministri venivano e lo
portavano nella chiesa di San Marco Evangelista e gli mettevano sulla
testa un copricapo di velluto. Egli poi si alzava in piedi sulla porta edificio e diceva: «O cristiani sono diventato il vostro doge, nominato da
voi, non uscite dall’eredità di nostro signore Gesù Cristo e di sua madre
397
Maria Pia Pedani, Paola Issa
la Vergine.» Poi avevano preparato due travi di legno con una poltrona
in mezzo per il doge, e altre due, una a destra e una a sinistra per i
due ministri, e queste erano portate da venti uomini. Poi uscivano dalla
chiesa e colui che si trovava alla sinistra lanciava delle monete, (c. 18r)
quarti, terzi e mezzi dirāhm, e la gente si buttava l’uno sull’altro, altri
le prendevano con il cappello e, davanti al corteo, vi erano alcuni
uomini, con dei bastoni, per farsi largo. Facevano il giro completo della
piazza e si fermavano davanti alla porta del palazzo, dove si trovavano
in piedi i notabili. Allora l’altro ministro cominciava a buttare dei ducati
d’oro. Poi oltrepassavano la porta del palazzo che si trovava vicino alla
chiesa di Marco Evangelista. Allora gli toglievano il copricapo di velluto
e gli posavano un cappello d’oro con pietre preziose, poi lo mettevano
sul trono; dopodiché, egli si trasferiva da casa sua al palazzo e venivano
i ministri e i notabili con le loro mogli, per salutarlo e omaggiarlo. Per
sette giorni si lanciava dal cortile del palazzo del pane (kmaǧ)45 che
veniva raccolto dai poveri e dai ricchi. Questa era un’usanza. Tutti i
sabato usciva con i ministri e faceva il giro della piazza fino a raggiungere la chiesa e gli ecclesiastici (i religiosi), portando l’icona della Vergine fatta da Luca. Quell’anno morirono tre dogi e noi abbiamo visto
cosa facevano.
La città di Venezia sta in mezzo al mare e la grande costa (il Lido) è
a due miglia. Gli abitanti legano un centinaio di tavole di legno per
farne come un letto poi l’acqua di mare arriva e spinge questa zattera
fino a toccare terra, (c. 18v) e ci mettono sopra il combustibile46, quasi
300 quintali. L’acqua di mare comincia allora a salire lo vedi galleggiare
sulla superficie del mare fino a d arrivare alle mura della città, poi
prendono il combustibile da sopra la zattera. Poi il mare rientra e lo
riporta verso terra. E ogni giorno ciò avviene due volte. Poi, se sali sui
campanili, si scorge il mondo intorno a Venezia: si vede mare e terra:
da due miglia a ovest a due miglia a est a due miglia a nord tutto mare
che dopo sei ore si asciuga e vedi tutta argilla, e questo tutti i giorni.
Poi hanno l’abitudine, il giovedì dell’Ascensione, di costruire nella
piazza della chiesa di Marco Evangelista una cinquantina di botteghe
fatte di legno dove espongono tutti gli oggetti d’arte che si offrono al
45
J. Redhouse, A Turkish and English Lexicon cit., p. 1569: ‘A flat round cake of
unleavened bread’.
46
Cioè il legname portato dai monti del bellunese su zattere sfruttando i fiumi fino a
Venezia. Cfr. La via del Fiume dalle Dolomiti a Venezia, a cura di G. Caniato, Cierre,
Caselle di Sommacampagna (Verona), 1993; G. Caniato, Commerci e navigazione nel
bacino plavense, in Il Piave, Cierre, Caselle di Sommacampagna (Verona), 2000, pp. 307322, in particolare pp. 309-315; G. Caniato, La “strada dei burchieri”. Navigazione, porti
e commercio lungo il Sile, in Il Sile, Cierre, Caselle di Sommacampagna (Verona), 2000
pp. 206-223.
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Il viaggio dell’arabo Ra‘d di Aleppo a Venezia (1654-1656)
doge, e vengono da tutte le città franche principi e notabili con le loro
consorti per ammirarli. L’esposizione dura dieci giorni e chi vuole può
comprare. E hanno un’altra usanza che dura dal Natale fino a martedì
grasso, dove vi sono svaghi e divertimenti di tutti i tipi in piazza.
Le chiese non si contano. E vicino alla piazza se tu stai in piedi e
guardi di fronte, trovi l’immagine della Vergine con il figlio in grembo,
e all’inizio c’è un orologio rotondo con una pietra in mezzo. Quando
appare la luna, vedi una pietra bianca grande quanto la luna finché
(c. 19r) in plenilunio vedi la luna bianca, poi la pietra comincia a
annerirsi in proporzione alla diminuzione della luna. A ogni ora [una
statua di] ferro batte un colpo e l’altra il colpo seguente, poi si apre
una porta di legno vicino all’icona della Vergine, e l’arcangelo Gabriele
passa davanti [al quadrante dell’orologio], seguito dai tre Re Magi,
portando i regali fino a arrivare davanti alla Vergine, e indica loro il
Messia nel grembo di sua madre; allora viene avanti uno dei Re Magi,
si ferma di fronte a Gesù, si inginocchia fino a terra e dopo si alza,
seguito dagli altri due che fanno lo stesso. Si apre poi una seconda
porta vicino alla Vergine, che essi attraversano e che si chiude dopo
di loro. Quando i bambini sentono il tocco dell’orologio si riuniscono
e si mettono a gridare «Bašāra (?)»47, che vuol dire «Sii felice, sii felice»
ed è cosi ad ogni ora.
Dopo questo rimanemmo a Venezia fino il primo di agosto, comprammo della merce che avremmo venduto a Aleppo, e poi prendemmo
un galeone, e lasciammo la città di Venezia. Dopo dieci giorni arrivammo a Zante, poi a Corfù. A Corfù c’è il corpo di Santo Spiridione, e
ogni qualvolta i turchi si avvicinavano con le loro imbarcazioni all’isola,
lui usciva e diceva loro «Andatevene da qui, altrimenti tutte le vostre
imbarcazioni saranno distrutte». Partimmo da Zante fino a raggiungere
le vicinanze della Morea. Vedemmo sette imbarcazioni (c. 19v) maghrebine che pattugliavano e che ci tesero un’imboscata; ci seguirono e
allora fummo costretti a tornare indietro verso Zante dove ci dovemmo
fermare. Eravamo spaventati e impauriti in quanto non sapevamo
come fare per continuare il nostro viaggio. Ecco che sopraggiunsero
improvvisamente quattro galeoni da guerra che partivano per Creta.
Ci unimmo a loro e superammo i maghrebini che non poterono attaccarci. Oltrepassammo la Morea, Creta, Atene fino a raggiungere l’isola
di Cipro. Un galeone franco di Malta si diresse verso di noi. Ci chiesero
47
Bašāra (?), in ottomano ‘buone notizie’ ‘piacere causato dalle nuone notizie’ o
anche a festa dell’Annunciazione, cfr. J. Redhouse, A Turkish and English Lexicon cit.,
p. 366. K.-M. Wālbīnar [C.-M. Walbiner], Riḥlat Ra‘d min Ḥalab ilā l-Bunduqiyya cit.,
p. 382: bašāra; E. Kallas, The Travel Account of Ra‘d to Venice (1656) and its Aleppo
Dialect according to the Ms. Sbath 89 cit., p. 80 nota 50: šbāro.
399
Maria Pia Pedani, Paola Issa
se avevamo con noi dei turchi o degli ebrei. Nascondemmo un ebreo
che era con noi, che pianse e ci baciò i piedi. Poi se ne andarono e
allora proseguimmo fino a raggiungere Tripoli, in pace. Giunti in città
salutammo gli amici e continuammo il nostro viaggio fino a raggiungere
Aleppo dove vendemmo la nostra merce.
Dopo un anno Abd al-Masīḥ tornò a Venezia ma io rimasi ad Aleppo.
In seguito ci fu un secondo assedio48, e appena usciti dall’assedio, Abd
al-Masīḥ fece rientro a Aleppo. Il Patriarca Makarios quando tornò dalla
Russia, nominò diaconi e preti e mi nominò, meschino Ra‘d, diacono e
dopo tre anni sacerdote, e in seguito parroco; ma dopo un anno morì
nella misericordia di nostro signore Gesù e poi morì anche Abd alMasīḥ.
48
Si parla qui dei blocchi dei Dardanelli, posti dai veneziani tra la primavera 1654 e
il 24 luglio 1657.
400
Elisa Bianco, La Bisanzio dei lumi.
L’impero bizantino nella cultura francese e italiana da Luigi XIV alla Rivoluzione, Peter Lang, Berna, 2015,
pp. 396
Il 1453 è una data spartiacque
fondamentale nella storia euro-mediterranea, poiché coincide con la caduta del millenario Impero bizantino
e la fine della sua influenza sull’Occidente. Il volume di Elisa Bianco raccoglie, con estrema cura e precisione,
le diverse prospettive storiografiche
che dal Rinascimento al Romanticismo si sono adoperate nella riscoperta e nell’interpretazione della cultura di Costantinopoli, città dal
fascino seducente, denominata dalla
stessa autrice “Proteo d’Oriente”.
Come già preannuncia il titolo stesso
del libro, si tratta non soltanto di un
confronto diretto con una tradizione
di studi bizantini d’ambito francese,
italiano e anglosassone, bensì di uno
dei primi tentativi, il più organico e
complesso apparso sinora, di ricostruzione del vasto panorama delle
fonti intorno alla storia dei romani
d’Oriente.
Per delineare tale percorso, lo studio prende avvio dall’Europa di età
moderna lacerata da continue lotte
confessionali, scossa dal conflitto
franco-asburgico e minacciata dagli
Ottomani, eventi questi che fanno da
n. 37
scenario perfetto agli eruditi del
tempo per il ritorno in auge di Bisanzio e della sua antica civiltà. Se,
infatti, a partire dal XVII secolo la riscoperta dei testi greci divenne motivo di esaltazione, specie alla corte
del “Re Sole” che ne promosse lo studio e la pubblicazione, di contro, per
tutto il secolo dei Lumi, l’Impero romano orientale venne criticamente
associato al dispotismo sfrenato, all’eresia, allo scisma e all’iconoclastia,
gettando pertanto le basi del “mito
della decadenza”. Soltanto l’Ottocento, è da considerarsi il periodo
culturale che inaugura un approccio
prettamente scientifico alla storia bizantina pur tuttavia producendo un
filone di letteratura romanzata e teatrale che ha cristallizzato l’immagine
di Bisanzio in un modello di metropoli corrotta e depravata da cui prendere le distanze.
La ricerca di Elisa Bianco che appare ben informata sul dibattito storiografico transnazionale e ben documentata sul piano delle fonti, come
dimostra la vasta bibliografia finale,
offre un valido apporto scientifico alle
ricerche di bizantinistica, passando
in rassegna oltre tre secoli di considerazioni sulle cause e le conseguenze del tramonto della Megali Idea
greca, attraverso le parole di autorevoli intellettuali quali Wolf, Du
Cange, Montesquieu e Gibbon. Le tre
Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIII - Agosto 2016
ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online)
401
Recensioni e schede
principali scuole di pensiero (francese, inglese, italiana) su cui si focalizza l’attenzione di un dibattito pro
o anti Bisanzio, ritrovano comuni radici nell’amore umanistico per la cultura orientale vista come emblema di
sapienza e maestria nelle arti e non
come exemplum vitandum di malgoverno e fanatismo religioso.
L’interesse per il mondo bizantino
prende avvio in Italia già dai primi
del Quattrocento, grazie alla poliedrica figura del cardinale Bessarione,
attivo nella trasmissione della cultura
greco-ortodossa durante e dopo il
Concilio di Ferrara e che nel 1468,
anno della morte, fece dono alla città
di Venezia della sua ricca biblioteca.
Iniziò un lungo periodo di splendore
per la cultura bizantina che vide un
serrato reclutamento di greci eruditi
da parte di facoltosi signori al fine di
copiare e miniare codici classici
scritti in antico demotico e riguardanti le vicende e le imprese degli
imperatori di Costantinopoli. Dopo
un lungo letargo, grazie alla filologia
italiana, videro di nuovo la luce Procopio di Cesarea, Agapeto e il suo Ekthesis, le Storie di Niceta Coniate, la
Cronaca di Zonara e infine il de origine et rebus gestis Turcorum di Laonico Calcondila.
È interessante osservare, attraverso il presente studio, come la repubblica della Serenissima per tutto
il XV e XVI secolo si faccia promotrice
della conservazione e della divulgazione della letteratura greca, tanto
che dai torchi delle proprie stamperie
furono pubblicate svariate opere anche a soggetto turchesco. Il primo
vero corpus di fonti storiche sui bizantini fu, tuttavia, ideato in territorio tedesco da Hieronymus Wolf, bibliotecario della ricca e influente
famiglia dei Fugger, il quale volle riunire in una monumentale opera tutti
402
i testi greci riguardanti le vicende di
Costantinopoli, nell’interesse di rivendicare per la Corona asburgica il
diritto legittimo di proclamarsi Nea
Rhome secondo la teoria della translatio imperii, ideata da Ottone Frisinga nel XII secolo.
Nella prima parte del libro, suddivisa in tre capitoli, l’autrice ricostruisce con estrema chiarezza un
discorso di ampio respiro sulle interpretazioni storiografiche date dagli
eruditi francesi al tema della presa
di Bisanzio e al tramonto della cultura greco-orientale, che ebbe inizio
sin dal 1530, prima con la fondazione
del Collège de France per volere di
Francesco I, quindi con la nascita del
collegio gesuita di Clermont (1560) e
di quello maurino di Saint-Germaindes-Prés (1618). L’opera di entrambi
gli ordini religiosi, si configura come
“apripista” ai successivi studi di patristica bizantina, mirando alla creazione di un’intensa attività editoriale
post tridentina che estirpi l’eresia
protestante e dimostri un’effettiva
continuità fra tradizione apostolica e
cattolicesimo.
Non meno importante, fu in tal
senso la comunità giansenista di Port
Royale che nella figura di Sébastien
Le Nain de Tillemont diede alle
stampe, a fine XVII secolo, una fondamentale opera: Histoire des empereurs. Da storico e teologo, egli vede
nella fondazione di Bisanzio un peccato, un male letale per la compattezza e l’unità dell’Impero romano
che, se fino a quel momento per più
di seicento anni era riuscito a reggere
il peso della sua vastità, adesso, con
la creazione di una nuova capitale e
la diarchia regia, si avviava inesorabilmente alla disgregazione tanto politica quanto culturale.
Nel secondo capitolo, il discorso
prosegue con un interessante appro-
Recensioni e schede
fondimento sugli studi bizantini alla
corte assolutista di Luigi XIV, nella
quale gli interessi per la cultura greca
si intrecciarono mirabilmente con i
progetti propagandistici di grandeur
borbonica. Infatti, stando ad un filone storiografico che affondava le
sue origini nel testo Gerarchia celeste
dello pseudo Dionigi, nella cui traduzione si cimentò lo stesso Luigi
XIII, i sovrani francesi erano da ritenersi diretti discendenti degli ultimi
imperatori romani d’Oriente, considerato che con la quarta crociata, Bisanzio, seppur brevemente, venne inglobata entro i possedimenti del
regno di Francia. Il cerimoniale di
corte bizantino era ben conosciuto e
apprezzato specialmente dal “Re
Sole” che si adoperò nella diffusione
del codice de officiis di Codino, già in
circolazione dal 1588 e presente nella
biblioteca del castello di Fontainebleau, tanto da essere stato fonte di
ispirazione per la festa di incoronazione di Enrico II, durante la quale
fu introdotta l’usanza di elargire (largesse) ingenti somme di denaro al
popolino, pratica risalente alla dinastia dei Paleologi. Nella stessa reggia
di Versailles e nella biblioteca nazionale di Parigi, sempre per volere del
re, vennero raccolti numerosi manufatti di preziosa fattura bizantina legati al culto e alla devozione che andarono ad arricchire il Cabinet des
médailles.
L’influenza dei costumi orientali
alla corte francese è evidente finanche dagli epiteti che al sovrano venivano un tempo attributi dai propri
sudditi e dignitari; gli stessi titoli
onorifici di Roi Soleil o “porfirogenito”, infatti, deriverebbero dagli appellativi dati agli imperatori bizantini
e ricordati da Agapeto nei Capitoli
parenetici. Si deduce, dunque, che
per tutto il XVII secolo, la promo-
zione della cultura bizantina divenne
per il sovrano di Francia un valido
modo per rafforzare la propria posizione sullo scacchiere europeo, giustificando in senso genealogico,
guerre ed espansioni territoriali a
scapito degli imperatori tedeschi, ritenuti detentori illegittimi e usurpatori di un titolo antico. Nelle pretese
francesi di successione al trono
orientale, Luigi XIV divenne l’incarnazione del Carolus redivivus o
“l’unto del Signore” che avrebbe riportato alla restaurazione della res
publica cristiana secondo la volontà
provvidenziale di Dio.
Grazie al mecenatismo della casata borbonica, dal 1645 al 1688,
prese avvio la composizione del corpus monumentum del Louvre sotto la
supervisione dello storico Du Cange,
autore dell’Histoire de l’Empire de Costantinople sous les empereurs françois. In quest’opera, tagliente nei
toni, i Bizantini sono ritenuti colpevoli di eccessi, crudeltà e perfidia
tanto che a causa del fanatismo alimentato dalla propria ortodossia religiosa, compromisero l’unità geopolitica dell’Impero decretandone il
collasso. La fedeltà alla monarchia,
conduce lo storico a confrontare parallelamente Francia e Bisanzio, dimostrando come ognuno dei sovrani
parigini possedesse le stesse qualità
(vires, potentia, ratio) dei grandi regnanti d’Oriente, ma allo stesso
tempo superiori capacità di governo
e grande acume militare.
Nel terzo capitolo, l’interesse accademico di Elisa Bianco si sofferma
nell’analisi dei giudizi negativi che il
predicatore Louis Maimbourg diede
alla storia bizantina nella sua più celebre opera Histoire des croisades,
bistrattata dai contemporanei per la
sua discutibile natura scientifica e le
inesattezze cronologiche tanto che
403
Recensioni e schede
Quesnel la definì livres pour les femmes. L’opera appare sfaccettata per
il suo carattere sia storico-encomiastico che di intrattenimento, il cui
stile narrativo dai toni mitici punta
al dilettare il lettore evocando ardimentose imprese di cavalieri ed esotici scenari. In tale contesto fiabesco,
l’Impero bizantino è descritto come
corrotto, ambiguo nel suo essere cristiano i cui sovrani, come ad esempio
Manuele III Comneno denominato
nouveau Neron, sembrano essere predisposti per natura alla malignità,
alla perfidia e alla dissimulazione nell’intento di punire i nemici e ingannare l’esercito crociato. Da buon gesuita, Maimbourg scorge nella
conquista ottomana di Bisanzio la
mano castigatrice di Dio, pronta a
punire severamente gli scismatici per
salvaguardare la Chiesa romana; in
tal senso la condanna dell’iconoclastia acquista un significato del tutto
attuale, divenendo un monito rivolto
ai protestanti affinché essi si riconcilino con il papato.
Nella seconda parte del volume,
composta da cinque capitoli, l’autrice
tenta di ricostruire con lavoro certosino, le considerazioni espresse dalla
storiografia illuminista e romantica
intorno alle vicende bizantine, mostrando il carattere pregiudizievole
dei Lumi nei confronti del Medioevo,
visto per antonomasia periodo buio
della cultura occidentale. Tra i primi
eruditi che nel XVIII secolo misero a
confronto gallicanesimo e mondo bizantino, furono Claude Fleury (Histoire ecclésiastique) e Louis Du Pin
(Nouvelle bibliothèque des auteurs ecclésiastiques), i quali fermi su posizioni francocentriche evidenziano
come il proprio regno abbia ricoperto
un peso rilevante nella risoluzione
dei dissidi religiosi sorti fra Oriente e
Occidente. Aspetti autenticamente
404
bizantini, individuati dai due storici,
sono l’empietà, l’assenza di pietas e
il disprezzo per la religione di cui il
patriarca Fozio diviene simbolo indiscusso perché responsabile di tollerare atti contro la fede cristiana. Eppure, se da un lato nell’opera di
Fleury appare accesa la critica ai costumi tirannici degli imperatori
d’Oriente, dall’altro non vi è alcun festeggiamento o giubilo per l’assedio
e il sacco di Costantinopoli durante
la quarta crociata, né alcuna speranza di riconquistare la Terrasanta
poiché tale atto segnò l’inizio di tempi
difficili per l’Europa in favore dell’espansionismo turco.
Nucleo centrale del libro, è certamente la parte dedicata agli studi
bizantini di Montesquieu poiché attraverso la sua penna furono consegnate ai posteri infuocati giudizi
sull’Impero greco-orientale creando
nell’immaginario collettivo l’idea di
una cultura dedita a «révoltes, de séditions et de perfidies». Egli, padre
dell’Illuminismo francese e del libero
pensiero, scrisse nel 1734 Considérations sur les causes de la grandeur
des Romains et de leur décadence,
opera che forse trae spunto dai discorsi del veneziano Paolo Paruta e
nella quale si asserisce che tra le
principali cause della caduta di Roma
vi furono: l’enorme espansione territoriale, la meschinità degli imperatori, la degenerazione della disciplina
militare ma soprattutto la diffusione
forzata del cristianesimo a scapito
della secolare eterogeneità religiosa.
L’anticlericalismo e il giurisdizionalismo, conducono Montesquieu a essere intransigente nei confronti della
fede cristiana, responsabile di aver
ammollato gli animi dei cittadini romani, fuso e confuso la sfera laica
con quella spirituale ed infine di aver
fratturato in due nette parti la com-
Recensioni e schede
pagine politica dell’Impero con il trasferimento della capitale dall’Italia al
Bosforo, ad opera di Costantino il
Grande.
Interessanti appaiono le considerazioni del filosofo sul mal governo
bizantino, poiché offrono l’occasione
per affrontare due temi di riflessione,
già discussi nell’Esprit des Lois, a lui
particolarmente cari: la tolleranza e
la libertà confessionale. L’Impero, infatti, nella sua natura pagana, prima
ancora di essere contaminato dal cristianesimo, è oggetto di lode per la
tolleranza culturale che seppe dimostrare nei riguardi dei popoli accolti
entro i confini del suo territorio. Su
questa scia, imperatori come Giuliano l’Apostata vengono rivalutati
agli occhi della storia dopo essere
stati cancellati dalla damnatio memoria cristiana, mentre, di contro, vengono sminuite le figure di Giustiniano
o Basilio I, ritenuti scellerati e superstiziosi despoti pronti a mutilare,
accecare e incarcerare ingiustamente
i sudditi.
A questo punto, sorge spontanea
al lettore la domanda: l’età dei Lumi
è da considerarsi un unico compatto
attacco sferrato alla cultura di Bisanzio e alle sue multiformi manifestazioni? La risposta dell’autrice è ovviamente negativa. Ciò lo si può
facilmente dedurre leggendo il capitolo dedicato agli studi voltairiani sul
tema dell’iconoclastia e del fenomeno
delle crociate francesi a Gerusalemme nell’Alto Medioevo. Voltaire,
pur essendo uno dei maggiori rappresentanti dell’anti-bizantinismo del
Settecento, nel suo volume Le pyrrhonisme de l’histoire, se da un lato
vede in Bisanzio un chiaro esempio
di regime assolutistico, dall’altro condanna gli abusi dell’iconodulia cattolica appoggiando di buon grado la
politica iconoclasta degli imperatori
orientali, intenti ad arginare il monopolio economico raggiunto dai monaci nel fiorente mercato delle reliquie e delle immagini sacre. Le
crociate, inoltre, danno modo a Voltaire di lanciare una dura invettiva
contro il potere temporale e teocratico
dei papi, specialmente quello di Urbano II e Gregorio VII, poiché dietro
l’apparente pellegrinaggio armato in
Terrasanta si celò il desiderio di sottomettere Bisanzio alla Chiesa latina.
Questo contraddittorio atteggiamento filo bizantino di Voltaire si
evince anche dal fatto che nel 1778
a Parigi compose e mise in scena
l’Irène, una tragedia ambientata alla
corte orientale, in cui il protagonista,
l’imperatore Alessio I Comneno, è ritratto come un saggio eroe che ha
liberato il trono dal giogo del tiranno
Niceforo. La storia trae spunto da
un’opera greca al tempo conosciuta,
l’Alessiade, scritta dalla principessa
Anna Comnena in ricordo del padre,
dove vengono denunciati i misfatti e
i crimini commessi dall’orda latina
dei crociati che come barbari osarono violare le nobili terre d’Oriente,
offendendo la millenaria civiltà bizantina. Eppure il 1261 diviene il
turning point nelle relazioni bizantino-voltairiane poiché a partire da
questo momento la prospettiva del
filosofo cambia, tornando ad essere
di nuovo anti-bizantina a seguito
della salita al trono della dinastia di
Michele VIII, ritenuta artefice di un
inarrestabile processo di decadenza.
La critica illuminista ai costumi bizantini, inoltre, prosegue in campo
giuridico nelle opere del francese
Charles Le Beau (Histoire du Bas
Empire) e in quelle italiane di Alessandro Verri (Caffè o sia brevi e vari
discorsi) e Cesare Beccaria (Dei delitti e delle pene), dove sembra delinearsi un forte spirito “antitribo-
405
Recensioni e schede
niano” ovvero di ostilità e diffidenza
nei riguardi del Corpus Iuris Civilis
giustinianeo, considerato soltanto
opera di manipolazione e frammentazione del diritto classico romano,
la cui responsabilità venne attribuita
a Triboniano.
Nel penultimo capitolo del libro,
l’autrice si sofferma a ricostruire le
considerazioni fatte oltralpe da eminenti studiosi italiani come Ludovico
Antonio Muratori e Francesco Becattini, spese tra erudizione e propaganda patriottica. L’immagine
muratoriana dell’Impero bizantino
emerge soprattutto dagli Annali
d’Italia, dalle Dissertazioni sopra le
antichità italiane e in Rerum italicarum scriptores, opere complesse per
la cui realizzazione furono utilizzate
fonti inusitate e rare. Nel pensiero
di Muratori, influenzato dallo storico
modenese Carlo Sigonio, il principio
della translatio imperii di Carlo Magno non ha alcuna solida validità
giuridica poiché, pur considerando
che nel IX secolo a Bisanzio regnava
illegittimamente una donna, Irene
l’Ateniana, il titolo di Imperator Sacri
Romani Imperii appare del tutto onorifico e anacronistico. C’è di più, il
gusto patriottico dello storico fa sì
che i regni longobardi e gotici dell’Italia centrosettentrionale siano visti come esempi di buona autonomia
governativa e di età dell’oro della penisola, fortemente minacciati dalle
ambizioni dispotiche di Giustiniano
e del suo fedele generale Belisario.
Il capitolo conclusivo che suggella la ricerca scientifica di Elisa
Bianco, è tutto incentrato sul dibattito storiografico bizantino in ambito
anglosassone e sull’eredità illuministica riscontrabile nell’opera Decline and fall of the Roman Empire
(1776-1788) di lord Edward Gibbon.
Questi, partecipe della cultura
406
franco-britannica, condivide con i
philosophes l’idea dell’unità della decadenza che coinvolge tutto l’Impero
la cui origine sarebbe da ricercarsi
nella vastità dei suoi possedimenti
e nella tetrarchia diocleziana che
condusse alla quadripartizione della
compagine romana. Gibbon, tuttavia, prende le distanze da Voltaire e
Montesquieu sul tema delle crociate
poiché sono ritenute dallo storico
motivo di acceso fanatismo religioso
oltre che ponderato progetto degli
Stati europei di esportare il feudalesimo in Oriente. In diversi capitoli,
Gibbon, si sofferma sull’analisi
dell’organizzazione dell’esercito e
della marina bizantina, sull’equipaggiamento e le fortificazioni, sulle tecniche di combattimento e sull’impiego di mercenari, concludendo che
le forze militari orientali non erano
per nulla inferiori a quelle arabopersiane né a quelle franche. Unico
punto debole delle armate greche,
secondo lo storico, era l’assenza di
valore, di coraggio e amor patrio,
fondamentali caratteristiche represse da un senso di remissività e
rassegnazione contaminati dal fervore ecclesiastico.
Gibbon, inoltre, continua gli
studi sui costumi bizantini, prestando il proprio supporto alla
causa iconoclasta cercandone i motivi che nell’VIII secolo ne determinarono la sconfitta e otto secoli
dopo, con la Riforma luterana, il
successo. Lo storico inglese riscontra una reale degenerazione nel
culto delle icone sacre a partire da
Costantino e, spingendo la sua riflessione attraverso i secoli, giunge
ad esprimere un sintetico giudizio
sulla condanna dell’idolatria delle
reliquie nel tardo Medioevo e sulle
critiche mosse da Lutero attorno a
tale pratica oscurantista.
Recensioni e schede
Concludendo, possiamo dire che
il volume di Elisa Bianco, nella cui
parte finale troviamo la lista delle
fonti e una ricchissima bibliografia,
rappresenta il punto di arrivo di decenni di ricerche, ma contestualmente un importante punto di inizio
per approfondire i futuri studi su Bisanzio e il suo multiforme mondo.
Andrea Ferruggia
Cesarina Casanova, Per forza o per
amore. Storia della violenza familiare
nell’età moderna, Salerno editrice,
Roma, 2016, pp. 157
Sono oltre cinquanta i casi di femminicidio nei primi sei mesi del 2016.
Una pagina web del Corriere della
sera, in costante aggiornamento e interamente dedicata a La strage delle
donne, mostra i volti, l’età e il
dramma subito dalle vittime di violenza. Senza entrare troppo nel merito di dati statistici va detto che, secondo l’ultimo rapporto Eures
(Secondo Rapporto sul femminicidio in
Italia Caratteristiche e tendenze del
2013, Roma 2014), a fronte di una
diminuzione dei casi di omicidio non
diminuiscono i femminicidi. Appare
forse inutile rimarcarlo troppo, ma il
tema non solo e non tanto dei femminicidi quanto, più in generale,
della violenza di genere nelle sue molteplici sfumature e accezioni è un argomento di scottante attualità.
Per forza o per amore, il breve, per
estensione, ma intenso per contenuti,
libro di Cesarina Casanova, ripercorre alla luce di quella che ormai
appare essere un’emergenza sociale,
la Storia della violenza familiare nell’età moderna, come recita il sottotitolo dello stesso. Sin dalle ricche pagine introduttive l’Autrice è condotta
in un serrato, ma necessario, confronto tra passato e presente. Il racconto dei fatti accaduti nella Bologna
di età moderna sono lo stimolo per
recuperare le fila e le radici di un retaggio culturale tutt’oggi ancora
troppo difficile da sradicare. È notorio
che «chi ha pagato di più la presunta
stabilità sociale del passato – scrive
la Casanova – sono stati le donne e i
minori, soggetti all’autorità dei padri
e dei mariti ampiamente riconosciuta
dalle leggi civili e canoniche» (p. 18).
In tal senso, è inevitabile il richiamo,
nelle pagine del libro, alla storia degli
istituti giuridici le cui origini si collocano in epoche lontane ma la cui
abrogazione si è avuta solo in tempi
molto recenti. L’abolizione della dote
o del delitto d’onore, avvenuti in Italia
nel 1975 il primo e nel 1981 il secondo, sono solo due dei diversi istituti giuridici su cui per secoli si sono
rette le trame socio-culturali e che
vengono prese in considerazione
dalla Casanova.
Numerosi e vari sono gli spunti
trattati e da tener necessariamente
in considerazione per discutere le
forme assunte dalla violenza di genere nell’età moderna: la trattatistica, le relazioni familiari e con esse
le questioni matrimoniali. Attorno
alla possibilità o meno di avere una
dote e soprattutto circa la sua composizione e il suo valore ruotava gran
parte potremmo dire – senza esagerare troppo – del sistema familiare e
socio-economico dell’Antico Regime
e anche oltre.
La Casanova tratta attentamente
ognuno di questi aspetti nei cinque
capitoli che compongono il libro,
componendo un quadro dettagliato e
complesso dal quale dedurre i profili
delle vittime (donne e bambini di ogni
sesso) e dei carnefici (mariti, parenti
e frequentatori degli ambienti dome-
407
Recensioni e schede
stici), ma anche e soprattutto per delineare «le strutture mentali e i riferimenti culturali condivisi» tra i diversi
protagonisti delle storie (p. 33). Il rigido schema sociale che contraddistingueva le società di epoca moderna e di cui possono notarsi
propaggini anche in tempi non troppo
lontani da noi, prevedeva, senza alcuna eccezione, la subalternità femminile alla quale faceva da contraltare o comunque era sostenuta da
una ferma e altrettanto longeva tradizione misogina, tramandata da una
vasta letteratura. In tal senso, il
primo capitolo del volume è dedicato
a ripercorrere la lunga “stagione di
produzione pedagogico-moraleggiante” (p. 24), inaugurata nel corso del
Quattrocento dai numerosi trattati
intenti a fornire modelli edificanti per
dettare i diversi stili comportamentali
che ciascuno doveva assumere a seconda del proprio ruolo nella società
(padre, madre, figlio, figlia, balia, moglie, etc.). In diversi casi si trattava,
come fa notare l’Autrice, di testi che
ebbero un ampio successo, contando
numerose ristampe a distanza di
molti secoli.
Il vero cuore del libro è, poi, rappresentato dallo spoglio delle carte
processuali conservate nel fondo del
maggiore tribunale criminale, il Torrione, della Bologna di età moderna.
Il complesso documentario analizzato
rappresenta, come sottolinea la Casanova, un unicum nel panorama italiano. Degli oltre tremila processi,
consultati a campione, è stato condotto uno spoglio sistematico sui fascicoli processuali per il quinquennio
dal 1671 al 1676, all’epoca in cui fu
uditore Gian Domenico Rainaldi, uno
dei più rilevanti giuristi della Bologna
del tempo. Nel raccontare e descrivere l’organizzazione del foro bolognese e le sue interazioni con il con-
408
testo sociale, la Casanova sottolinea
anche le dinamiche operative del tribunale: «il processo veniva avviato
quando una denuncia era sostenuta
da indizi sufficienti e da testimoni disposti a confermare l’accusa del querelante» (p. 35), fatta eccezione per i
casi in cui l’uditore riteneva di dover
procedere d’ufficio. Rientrava tra
questi ultimi casi lo “stupro violento”.
Quasi a voler seguire un fil rouge,
nei restanti quattro capitoli del libro,
l’Autrice traccia via via i diversi casi
di violenza, dai meno gravi a quelli
più gravi, subiti nelle diverse fasi
della vita di una donna in età moderna. Il secondo capitolo è, in tal
senso, dedicato ai “minori”, tenendo
conto di due distinti aspetti, vale a
dire la prematura età delle donne al
momento in cui contraevano matrimonio di fatto combinato dalla famiglia di origine e, dall’altro lato, al
tema assai più delicato degli abusi
sui minori. «La precoce nuzialità femminile è un elemento fondante il sistema dei lignaggi e l’asimmetria, in
essi dei ruoli di genere» (p. 49). Le vicende matrimoniali dei più alti ranghi
della società di Antico Regime e, nella
fattispecie, le trattative matrimoniali
tra le case regnanti attestano come
non si tenesse affatto conto dell’età
dei contraenti. Anzi, le condizioni
ideali per favorire la politica del lignaggio erano un’alta dote e una
bassa età della sposa. La fanciullezza
di queste piccole donne portate all’altare è per altro documentato dalla
presenza, in diversi casi, di bambole
negli inventari dotali (p. 49).
La questione dell’infanzia e degli
abusi sui minori, invece, è un argomento di fatto già indagato per Bologna e anche per altre realtà italiane,
come dimostrano i confronti che la
Casanova propone nel testo e nell’apparato delle note critiche al volume
Recensioni e schede
(si veda a riguardo e prima di tutto
O. Niccoli, Il seme della violenza.
Putti, fanciulli e mammoli nell’Italia
tra Cinque e Seicento, Roma-Bari
1995). La Casanova ritorna, dunque,
sull’argomento ricostruendo i sei casi
riscontrati nelle fonti processuali oggetto della sua indagine. Un numero
che solo in parte può sembrare esiguo se si tiene conto delle informazioni che, invece, possono dedursi da
essi. Tra le vittime di abuso vi erano
indistintamente maschi e femmine,
di età compresa tra i dieci e i dodici
anni, originari della città così come
della campagna, di ceti sociali più
agiati così come di ceti meno agiati.
A questo riguardo, ciò che appare interessante porre in evidenza è, intanto, il processo in sé, che in alcuni
casi non andò oltre la denuncia e che
solo in un caso portò all’impiccagione
per il violentatore della piccola Francesca Zappoli. Scrive l’Autrice, infatti,
che: «molti di questi processi – riferendosi per altro a gran parte dei casi
trattati nel volume – non si concludevano con l’applicazione della pena
ordinaria (l’impiccagione) e spesso
neppure con altre sanzioni perché
l’accusa non era sostenuta da prove
inoppugnabili ma solo dalla testimonianza delle vittime» (p. 54). La complessità e l’eterogeneità dell’operato
istituzionale è, tra gli altri, uno dei
campi di indagine privilegiati dall’Autrice, sempre attenta a tener conto
del decorso dell’iter burocratico. Tra
le altre cose, però, appare a mio dire
molto singolare notare il ruolo “attivo” delle donne – maritate e non vedove – che sceglievano di denunciare
gli abusi perpetrati ai danni dei propri figli e su cui forse sarebbe stato
interessante sviluppare qualche maggiore considerazione.
Entrando, poi, negli interni domestici e provando a scorgere e riper-
correre le storie di violenza familiare
ci si trova davanti a una “realtà inconfessabile”: i rapporti incestuosi.
Questi ultimi erano tra i frequenti e
impenetrabili segreti della mentalità
e del costume dell’epoca di cui non
resta traccia nelle fonti processuali,
ma di cui è tramandata nella letteratura un’immagine a tratti anche “nobilitata”, come mostra l’Autrice proponendo alcuni tra i casi più noti, da
Edipo a Lucrezia Borgia.
Con il quarto capitolo si analizza
la casistica, a quanto pare, più numerosa di molestie o violenze sessuali ai danni di fanciulle in età da
matrimonio e prossime alle nozze.
In Antico Regime per stupro si intendeva ogni tipo di rapporto sessuale – anche consensuale – con
l’amata illibata o presumibilmente
tale. Ed è proprio nella fase o, per
meglio dire, in età di corteggiamento
che venivano denunciati i casi di
“stupro” perpetrati “per forza o per
amore”, riprendendo le parole del titolo del volume e del quarto capitolo.
Attraverso la discussione di questi
ultimi si apre la strada a considerazioni di varia natura circa i diversi
escamotage messi in atto dalle giovani coppie per convolare a nozze
non sempre approvate dalle rispettive famiglie. In tal senso, la Casanova offre tutti gli elementi necessari a contestualizzare correttamente
questi casi di violenza a volte qualificati come forzati e altre volte organizzati “per amore”. Ancora una
volta, l’attenzione all’operato del foro
criminale fa emergere che la necessità di preservare l’onore dell’individuo o della famiglia e, molto più
spesso, l’impossibilità di avere delle
prove certe, difficilmente comportava l’adozione di pene dure e severe
nei confronti dei numerosi «reati,
nascosti, circoscritti alla sfera in-
409
Recensioni e schede
tima, quindi quasi sempre sfuggenti
per un giudice che non si accontentasse di vaghe dicerie divulgate da
fonti malevole o da un amante deluso» (p. 90).
Chiude il libro il capitolo dedicato
a quelli che noi oggi chiameremmo
femminicidi. Due in particolare sono
i casi presi in esame, quello di Maria
Gentile Nanni e quello di Giacoma
Avanzi, i cui cadaveri furono trovati
lungo i canali dei mulini rispettivamente di Granaglione e di Pontecchio, comunità dell’entroterra bolognese. Entrambe le donne erano,
stando alle numerose testimonianze
raccolte durante i lunghi processi del
Torrione, mogli di uomini particolarmente lascivi. In nessuno dei due
casi fu appurata la causa della loro
morte, in quanto l’esame dei corpi
lasciava troppi dubbi per poter ipotizzare sia un omicidio che un suicidio. Le diverse testimonianze, dall’altro
lato,
denunciavano
i
comportamenti dei rispettivi mariti
e le frequenti intenzioni degli stessi
ad avvelenare le mogli o a commissionarne l’uccisione.
Insomma, i singoli casi proposti
nel volume sono stati appositamente
selezionati per il loro forte valore emblematico. Attraverso la loro lettura
possono trovarsi spesso elementi di
continuità, nei moventi e nelle dinamiche, con i fatti cui ormai quotidianamente veniamo informati dai media. Lo sfondo comune a tutte le
storie raccontate si compone di «interni domestici, stili di corteggiamento, rapporti brutali [classificati]
come abituali e comuni ad ampi
strati della società, non necessariamente quelli inferiori» (p. 131).
Per forza o per amore concorre a
offrire interessanti spunti e considerazioni necessari per inquadrare
sempre più chiaramente il fenomeno
410
della violenza di genere in una prospettiva di lungo periodo. Esso si
pone peraltro all’interno di un recente filone di studi della gender history proiettato a interrogare con
un’ottica multidisciplinare la violenza di genere in un confronto dialettico tra passato e presente e i cui
esiti di ricerca stanno via via venendo alla luce (si veda per questo
il numero monografico dedicato al
tema in questione della rivista «Genesis», o ancora gli atti del convegno,
in corso di pubblicazione, La violenza contro le donne in una prospettiva storica. Contesti, linguaggi, politiche del diritto (secoli XV-XXI), Roma,
27-28 novembre 2015).
Nel moltiplicarsi di interventi
normativi a livello mondiale, europeo e nazionale, da oltre un ventennio è stato stabilito ormai in via definitiva che la violenza di genere è,
a tutti gli effetti, una violazione dei
diritti umani. Eppure appare evidente che ancora molti passi debbano farsi per riconoscere e contrastare qualsiasi forma di violenza.
Anche l’emergenza contemporanea
su questo fronte e la necessità di
favorire e garantire la prevenzione
di abusi di ogni tipo ai danni del genere femminile e non solo, è alla
base di studi come quello di Cesarina Casanova volti a favorire la conoscenza complessiva di un fenomeno che, pur apparendo di
estrema attualità, in realtà affonda
le proprie radici molto lontano nel
tempo. Non ci sono confini geografici
o culturali per la violenza di genere.
Uno sguardo nel lungo periodo alla
storia della violenza pur mostrando
– a dir vero pochi – elementi di cambiamento denuncia l’immutata pervasività e pericolosità che essa ha
per la società.
Valeria Cocozza
Recensioni e schede
Guido Candiani, Dalla galea alla nave
di linea. Le trasformazioni della marina veneziana (1572-1699), Città del
Silenzio, Novi Ligure, 2012, pp. 344
Quello di Guido Candiani è un lavoro con alle spalle un’accurata e
puntuale indagine archivistica e bibliografica, che va ad affrontare uno
dei periodi cruciali della storia marittima veneziana, il XVII secolo, trattandolo attraverso un approccio non
esclusivamente navalista ma a tuttotondo. Il Seicento è il secolo della
grande trasformazione della Marina
di San Marco, della nascita della componente velica (Armata grossa) e del
progressivo declino, come forza di
battaglia, della flotta remica, con galee e galeazze sempre più relegate ai
margini dei grandi eventi bellici dal
protagonismo dei vascelli da guerra
(dapprima mercantili armati, olandesi
e inglesi principalmente, poi navi di
linea statali costruite in Arsenale).
La composizione, l’organizzazione
e il funzionamento della marina veneziana sono oggetto di una storiografia ricchissima, ma sostanzialmente limitata al Medioevo e al XVI
secolo. Ciò non deve sorprendere: il
cliché del protagonismo delle città
marittime italiane nell’età medievale
con un’appendice che tocca l’età moderna arrivando a Lepanto, per poi
lasciar spazio, fino all’età contemporanea, alla decadenza, ha condizionato pesantemente la storiografia navale fino a tempi recentissimi. Solo
negli ultimi anni, grazie anche al lavoro del gruppo di ricerca che fa capo
al Laboratorio di Storia marittima e
navale dell’Università di Genova (di
cui Candiani è socio fondatore), si
sta riscoprendo – attraverso un’indagine archivistica a tutto campo, un
approccio metodologico multitematico e una riflessione che va oltre la
dicotomia splendore/decadenza –
una realtà le cui caratteristiche sono
ben lontane da quelle che le attribuiva il cliché.
Invece di un mondo sclerotizzato,
incapace di evolvere e tecnicamente
arretrato gli studi ci presentano una
realtà vivace, dinamica e tecnicamente in grado di stare al passo con
le novità di matrice nordica. Una realtà mediterranea in cui la gente della
Penisola è ancora presente sul mare;
non protagonista assoluta come nel
Medioevo ma non certo scomparsa.
Le marinerie italiane non perdono le
proprie attitudini, conoscenze e competenze e non vengono emarginate
dallo strapotere dei nordici. Anzi, in
uno spazio, quello mediterraneo, in
cui va via via aumentando la presenza e il peso di inglesi, olandesi e
francesi, gli armatori e i marinai degli
Stati italiani sanno ritagliarsi i propri
spazi: commerciano, combattono, pescano, interagendo con i nuovi protagonisti e con gli altri attori in scena
nel Mare Nostrum (gli ottomani, i barbareschi, gli spagnoli, ecc.).
Ciò è vero soprattutto per Venezia,
la cui Marina da guerra, nel XVII secolo, lungi dall’essere in una fase di
irreversibile decadenza, combatte
conflitti per il controllo dell’Adriatico
e per la supremazia navale nel Levante mediterraneo, ha potenzialità
umane e materiali notevoli ed evolve
sotto il profilo tecnico accogliendo le
novità nordiche – la nave da guerra
a vela e la tattica della linea di fila,
in primo luogo – e adattandole al teatro mediterraneo (per il quale, è bene
sottolinearlo, non sempre erano di
per sé idonee).
L’attenzione di Candiani si concentra non a caso sulla fine del XVI e
sul XVII secolo, una fase cruciale,
come ho già accennato, nella storia
marittima veneziana, scandita da una
411
Recensioni e schede
serie ininterrotta di conflitti navali:
due particolarmente intensi e lunghi
– la guerra di Candia (1645-1669) e
la prima guerra di Morea (1684-1699)
–, altri parimenti lunghi ma meno intesi – come la guerra di corsa con gli
Asburgo in Adriatico e il conflitto con
gli uscocchi (1574-1615) –, altri ancora più brevi – come la campagna
del 1572 contro gli ottomani, la
guerra di Gradisca (1615-1617) e il
conflitto col viceré di Napoli, duca di
Osuna (1616-1620). Più in generale,
gli anni che vanno dal 1572 al 1699
sono caratterizzati, dopo lo strascico
della guerra di Cipro (campagna navale del 1572), dapprima da un lungo
periodo di tensione “a bassa intensità” con gli Asburgo (1574-1635), e
poi da un altrettanto lungo e ben più
intenso periodo di rinnovata conflittualità con l’Impero ottomano.
È questo il quadro di riferimento
in cui Candiani colloca la grande trasformazione della Marina veneziana:
se alla fine del Cinquecento la flotta
della Serenissima era ancora composta esclusivamente da galee e galeazze, cento anni dopo essa sarà composta in primo luogo da vascelli da
battaglia, con le unità a remi relegate
a compiti operativi complementari:
pattugliamento, controllo del mare,
polizia marittima, controcorsa e supporto delle unità a vela. Compiti complementari, ma non subordinati: è
bene sottolineare, infatti – come puntualmente fa Candiani – le unità a
remi continuarono a essere presenti
nella flotta «non come un semplice
retaggio del passato, ma come una
risposta concreta a determinate esigenze di politica navale che, considerata nella sua totalità, non si è mai
esaurita, oggi come allora, nella sola
lotta tra flotte da battaglia».
Questa grande trasformazione è
scandita da due fasi. La prima, che
412
Candiani individua negli anni 16101670, caratterizzata da una politica
di noleggio di vascelli mercantili, ossia di utilizzo di mercantili armati,
preferibilmente stranieri (olandesi e
inglesi) ma anche veneziani. La seconda, che prende avvio negli anni
Settanta, durante la quale venne varato un programma di costruzione di
vascelli da guerra statali, con la
squadra pubblica di navi di linea (formata a partire da un nucleo di unità
ottomane, catturate ed inglobate
nella flotta nel 1651) che andò progressivamente a prendere il posto dei
mercantili armati come nerbo dell’Armata grossa.
Un passo decisivo che non mancò
di incidere in modo determinante
sulla fisionomia della Marina da
guerra e della cantieristica militare
veneziana, portando alla riorganizzazione della flotta (rivoluzionata sotto
il profilo dell’organica, della tattica e
della dottrina operativa) e alla ristrutturazione dell’Arsenale; senza però
sconvolgere le linee guida della politica navale veneziana, incardinata su
due saldi pilastri: la flotta permanente
e la riserva navale da armare in caso
di necessità (siano esse remiche o veliche). Alla fine di questa seconda fase,
il passaggio epocale dalla preminenza
del remo a quella della vela si può
dire compiuto, con la consegna alla
Venezia del Settecento di uno strumento marittimo-militare nuovo, modernizzato sotto il profilo materiale,
duttile e flessibile, che coniugava in
sé le novità nordiche, l’esperienza mediterranea e la tradizione gestionale
semiprivata veneziana.
Candiani affronta questi temi attraverso un’esposizione ricca e densa,
che principia dalla storia delle operazioni navali per approdare al delicato tema del rapporto tra Stato, patriziato e flotta. Il lavoro si sviluppa
Recensioni e schede
in due parti. Nella prima si ripercorrono gli avvenimenti che interessano
la marina della Serenissima dal 1572
al 1669: una storia politica e navaleoperativa – poco quotata negli ultimi
decenni e di cui si sentiva la mancanza, soprattutto nella misura in
cui essa costituisce il quadro di riferimento nel quale va collocata l’analisi tematica – trattata con un approccio agile, snello, arricchito da un
puntuale ricorso alle fonti d’archivio.
La seconda parte è dedicata alla descrizione e all’analisi delle strutture
della Marina veneziana in una prospettiva dinamica, articolata non solo
attraverso la distinzione tra Armata
sottile e Armata grossa, ma anche,
trasversalmente, attraverso l’analisi
della componente permanente e di
quella straordinaria (ossia delle risorse navali sempre in servizio e di
quelle mobilitate solo in risposta a
circostanze di emergenza).
L’analisi dell’organizzazione della
Marina diventa poi occasione – come
detto – per trattare del rapporto fra
Stato, patriziato e flotta. Ma non solo,
anche di politica navale e commerciale (nella misura in cui, ad esempio,
la decisione di noleggiare mercantili
armati olandesi e inglesi piuttosto
che veneziani era determinata dalla
volontà di non distogliere risorse navali dal commercio e al contempo sottrarne ai concorrenti) e di leva marittima nelle sue declinazioni
territoriali – Venezia, Dogado, Terraferma veneto-lombarda, Levante
(Dalmazia, Isole Ionie, Creta) – come
istituto sul quale agiscono al contempo i rapporti fra il governo, la
città, i suoi domini, gli interessi del
patriziato veneziano e della nobiltà
locale. E ancora: del rapporto tra comandanti patrizi (ufficiali militari) e
capitani non nobili (capitani di coperta), un tema centrale nella genesi
della professione navale; di lavoro
marittimo (sulle navi e sulle galee);
di relazioni internazionali e, infine,
di rappresentazioni, comportamenti
e mentalità (nella misura in cui, ad
esempio, il comando delle galee era
preferito a quello delle ben più potenti navi da guerra a vela perché più
prestigioso. La galea: elegante, magnifica a vedersi, con una ciurma disciplinata che si muoveva all’unisono; immagine del potere del
patriziato della Serenissima).
Il tema centrale resta tuttavia
quello del rapporto tra Stato, patriziato e flotta, su cui si concentrano,
non a caso, le conclusioni. Candiani
mette l’accento su un’iniziale condizione di maggior presenza dello Stato
nella gestione della flotta attraverso
l’incremento delle galee ciurmate con
forzati, introdotte a metà Cinquecento
e arrivate, negli anni Novanta del secolo, a costituire la quasi totalità della
flotta permanente. Un processo di
statalizzazione della Marina quindi,
precedentemente formata da galee
ciurmate con rematori liberi reclutati
dai patrizi al comando delle unità e
ora da unità equipaggiate direttamente dallo Stato con forzati (galee
statali con ciurme statali). Un processo caratterizzato da una brusca
inversione a partire dalla metà degli
anni Novanta con l’introduzione della
galea a ciurma mista (rematori forzati
e liberi): una soluzione che coinvolgeva nuovamente il patrizio comandante nella gestione economica dell’unità, attraverso l’investimento di
denaro proprio nel reclutamento della
ciurma, e che dava quindi nuovamente una connotazione privatistica
– o meglio semiprivatistica – alla flotta
(galee statali con ciurme in parte statali e in parte private).
Ma non bisogna vedere nella
mancata statalizzazione della flotta
413
Recensioni e schede
remica necessariamente un fattore
di arretratezza. Se è vero che «statalizzati e burocratizzati già nei secoli
precedenti i mezzi, il governo veneziano si mostrò molto più restio a
seguire questa strada per gli uomini», è anche vero che il rinnovato
coinvolgimento del patriziato nella
gestione economica delle galee
spinse i nobili veneziani a mantenere
una stretta interconnessione tra
l’amministrazione dello Stato e i loro
patrimoni privati (investiti nelle galee), legando quindi strettamente al
servizio pubblico buona parte del
ceto dirigente, attraverso l’interesse
economico, fino alla definitiva statalizzazione della flotta remica nel
1774. Tutto ciò relativamente all’Armata sottile.
Per l’Armata grossa – che dalla
fine del Seicento diviene la componente principale della flotta, costituendone la forza da battaglia – la
completa statalizzazione non arriverà
mai. Candiani sottolinea come la
squadra di navi di linea, sebbene
componente primaria della flotta, resti un «mondo estraneo alla mentalità
navale del patriziato della Repubblica». Il comando di una nave di linea rimane un incarico meno prestigioso rispetto al comando delle galee,
nonostante siano le navi la componente militarmente più importante
della flotta. E anche le maggiori difficoltà nella gestione di equipaggi
meno militarizzati contribuiscono allo
scarso appeal che il comando di un
vascello esercita sui patrizi veneziani.
La Marina veneziana che ha la
propria genesi nel Seicento è quindi
un organismo articolato in due componenti, remica e velica, entrambe
statalizzate solo parzialmente. Una
Marina moderna sotto il profilo tecnologico, operativo e tattico ma che
resta, per così dire, «in mezzo al
414
guado, tra tradizione e modernizzazione», perché la statalizzazione dei
mezzi non è accompagnata da quella
degli equipaggi. Dall’analisi di questa peculiare trasformazione bivalente, all’insegna di una parziale e
incompleta modernizzazione, emerge
una Marina che è «molto meno nazionale di quanto la storiografia sia
stata indotta a ritenere»: una Marina
legata a doppio filo a quel patriziato
cittadino che era chiamato a gestirla
e a investire in essa. Lo Stato era
presente, sotto il profilo materiale e
logistico, ed era partecipe dei costi
di gestione che tuttavia ricadevano,
come del resto le responsabilità, in
gran parte sui privati, cioè sui patrizi. Quel che ne derivò fu un rapporto patriziato-Marina che impedì
la formazione, la definizione e il consolidamento di quel naval service
che, su modello inglese, divenne
tratto caratteristico di tutte le moderne Marine da guerra europee: «la
flotta rimase fino all’ultimo patrizia,
ma non divenne mai realmente
“veneziana”».
Emiliano Beri
Fabrizio D’Avenia, La Chiesa del re.
Monarchia e Papato nella Sicilia spagnola (secc. XVI-XVII), Carocci, Roma,
2015, pp. 183
Fornire un quadro della situazione
giurisdizionale della Sicilia spagnola
è un compito arduo. La pletorica organizzazione istituzionale dell’isola, le
numerose figure e i molti interessi
che vi agivano, con suddivisioni e sovrapposizioni di competenze inevitabilmente incerte e conflittuali, rendono più ricco di asperità un terreno
già di per sé generalmente accidentato. Per giunta, quasi a complicare
ulteriormente le cose, l’autore parte
Recensioni e schede
da una interpretazione di giurisdizione non limitata alla mera azione
giuridica, ma estesa anche e soprattutto alla facoltà di esprimere un potere decisionale politico. Lettura imprescindibile della questione, perché
giustizia e potere politico non sono
certamente distinguibili in maniera
netta: non in Antico regime, e forse
neppure nelle epoche successive, sino
ai giorni nostri. Ma questa visione
ampliata getta la Chiesa del Re nel
bel mezzo del ginepraio siciliano, e
dei suoi innumerevoli piani di potere
continuamente intersecati tra loro. La
sfera ecclesiastica e quella secolare, i
poteri locali e il governo centrale di
Madrid, gli ambivalenti e ambigui
rapporti tra Corona spagnola e Santa
Sede: un mare magnum dai molti
abissi oscuri, nel quale D’Avenia s’immerge – altro elemento di complessità
dell’intero lavoro – senza limitarsi alle
acque siciliane. Anzi, con una programmatica enunciazione introduttiva, l’autore spiega di non voler cedere a quella «tentazione “siculocentrica”», che è stata a lungo un vizio
pernicioso di una storiografia locale
«assillata dall’ansia della sua unicità,
dallo spettro delle famigerate “dominazioni straniere” (quella spagnola innanzi tutto), nonché dall’ambivalente
giudizio sulla sua classe dirigente e
le sue istituzioni, ora baluardo delle
libertates del Regnum Siciliae […], ora
ostacolo di gattopardesca memoria a
tutti i tentativi di modernizzazione»
(pp. 13-14).
Con tutti questi elementi da raccogliere, indagare, riunire e confutare, questa Chiesa del re richiama
l’annosa “questione divulgativa” degli
studi storici. Maneggiare la complessa strutturazione giurisdizionale
siciliana, conciliando lo sforzo di approfondimento con la trasmissione
dei risultati che ne fuoriescono, è
l’ennesima difficoltà che ha dovuto
affrontare l’autore, consapevole che
istituzioni come il Regio patronato e
la Regia monarchia non sono un assunto storiografico diffuso. Con mirabile sistematicità, D’Avenia opera
uno sforzo chiarificatore che dà risultati di grande interesse, rendendo
però inevitabilmente densa e faticosa
la stesura; il che fa sospettare che la
Chiesa del re colga l’importante risultato di accostare alla materia gli
studiosi, scoraggiando però l’indolente lettore non specializzato. Di riflesso, queste stesse difficoltà si presentano anche in sede di recensione,
dove – per ragioni di stringatezza
riassuntiva – ci si potrà affidare soltanto ad alcune coordinate generali.
Vediamole. Si parte da Filippo II, deciso sostenitore delle prerogative
della Legazia Apostolica: organo istituzionale ereditato dai normanni,
che garantiva il privilegio dell’esclusiva competenza di governo sulla
chiesa siciliana. Fortemente sostenuta da Madrid per puntellare il proprio potere sull’isola, la Legazia è
fonte di inevitabili frizioni con le autorità romane, preoccupate dall’instaurarsi di un fenomeno protoscismatico simile a quello del gallicanesimo. Ne seguono trattative, dispute e accesi scontri destinati a un
nulla di fatto. Due cardinali particolarmente battaglieri, Bellarmino e
Baronio, patirono il loro impegno in
questa battaglia: il primo rischiando
di finire sotto processo davanti al
Sant’Uffizio spagnolo, ch’era slegato
da quello romano; il secondo mancando l’elezione papale «a causa del
veto opposto attraverso lo ius exclusivae dal re di Spagna (e quindi di
Sicilia)» (p. 19). L’ingresso in scena
del Sant’Uffizio spagnolo in Sicilia
evidenzia uno scontro interno alle
autorità spagnole, perché i Viceré si-
415
Recensioni e schede
ciliani cercarono di contrastarne il
potere: chi aveva precedenza giurisdizionale – e dunque politica – sull’isola? Alla base del problema vi era
una «contraddizione sostanzialmente
insanabile: la maggior parte dei magistrati […] da un lato appoggiavano
la politica viceregia a favore della Regia Monarchia, dall’altro erano allo
stesso tempo foristi del Sant’Uffizio,
che a loro si rivolgeva in qualità di
consultori» (p. 32). In questa competizione, concorreva, poi, lo jus presentationis: la facoltà cioè dei sovrani
spagnoli di nominare i presuli siciliani. Un diritto a lungo concesso e
rinnovato pro tempore dai pontefici a
ogni singolo monarca sul trono di
Madrid sino al 1621, quando Gregorio XV gli diede un carattere perpetuo destinato però presto ad affievolirsi e a rimanere aleatorio. Con i
successivi avvicendamenti al soglio
pontificio, quel provvedimento perse
ogni carattere definitivo, e continuò
il confronto/scontro tra Madrid e la
Santa Sede.
Questo garbuglio di autorità e di
poteri in lotta tra loro, non può dunque spiegarsi soltanto ricorrendo
alle trattative e alle dispute tra poteri e organi di governo formali; ma
occorre penetrare quelle logiche parentali e clientelari che miravano ad
assicurare fedeltà al potere centrale
di Madrid. Una “alternativa” all’impossibilità di giungere a una normativa chiara e impersonale, che
però sollevava altri conflitti, adesso
di natura privatistica. La gratificazione di parenti del sovrano non era
solo frutto dell’uso familistico del
patronage ecclesiastico: «nella cornice della Union de las armas, rientrava in una più ampia consuetudine di utilizzare le rendite di
importanti benefici di una provincia
“periferica” della monarchia per […]
416
le necessità finanziarie di altri domini più direttamente coinvolti nelle
operazioni della Guerra dei Trent’anni» (p. 42). Una realpolitik dalla
quale era difficile derogare, ma che
incontrò un’altra contrapposizione
– in questo caso interna al Consiglio
d’Italia – tra due partiti: «da una
parte siciliani e napoletani, una
volta tanto uniti, e dall’altra spagnoli» (p. 49). E, con la puntualità
che caratterizza l’intero lavoro,
D’Avenia rintraccia due “alternative”: una “ristretta” ai più vicini
clienti della Corona spagnola, l’altra
“allargata” ai patriziati dei suoi domini. «All’interno del Consiglio d’Italia si stava dunque dibattendo una
questione squisitamente politica,
ovvero il delicato equilibrio tra le
esigenze della monarchia spagnola
e le prerogative proprie delle sue
province» (p. 51). Ne segue un’ampia
casistica che, sviscerata nelle sue
peculiarità, dà conto di un altro terreno di scontro a lungo incerto, ma
tendenzialmente pendente in favore
del potere centrale di Madrid. E così,
ancora in pieno Seicento, «effettivamente nulla era cambiato»: «Filippo
IV, anche quando non erano in ballo
suoi consanguinei, disponeva del regio patronato soprattutto a favore
di spagnoli e altri italiani, lasciando
ai siciliani solo qualche briciola» (pp.
69 e 72). Non s’arrivò, dunque, a
quell’alternanza delle diverse “alternative”, che, già evocando un beffardo gioco di parole, denunciava
tutta la sua natura contorta. Ai patriziati locali, non restava dunque
che la carriera ecclesiastica di alto
rango, secondo dinamiche di ascesa
non diverse da quelle operanti in altri contesti; e che D’Avenia definisce
efficacemente con la «metafora del
“gioco di squadra”» (p. 83). Un attivismo congiunto di membri di fami-
Recensioni e schede
glie aristocratiche decise ad affermare e ad ampliare il proprio prestigio e il proprio potere, ritenendo
«strategica [la] “vocazione” ecclesiastica dei propri cadetti» (p. 97). Ma
non diversamente andarono le cose
tra quelle «famiglie di giuristi, appartenenti al “ceto ministeriale”, che
costruirono la loro ascesa sociale attraverso l’esercizio di alte cariche
nelle magistrature o tribunali del
Regno di Sicilia […] e/o della monarchia spagnola […] per approdare
finalmente anche loro ai ranghi
della feudalità parlamentare» (p. 97).
D’Avenia non rimane tuttavia invischiato in questa dimensione tutta
politica e di potere. Indagando l’attività pastorale dei presuli, rileva come
quelle «logiche molto poco “spirituali”»
non comportassero «automaticamente un danno per la cura pastorale delle diocesi» (p. 119). Non mancano ancora gli intrecci: tra politiche
locali e centrali, e tra le incerte e
complicate istanze riformistiche della
Chiesa post-tridentina. Emergono altre infuocate contese su singoli casi;
e la Chiesa del re rimane insomma
un rovo pieno di spine anche in pieno
Settecento, quando la perdurante «difesa a tutti i costi della Legazia Apostolica rappresentò uno dei limiti del
rinnovamento culturale avviatosi con
la dominazione piemontese». «La Sicilia fu più di altre volte […] quasi
“violentemente” sollecitata a confrontarsi con la sua storia e con altre
esperienze culturali, religiose e istituzionali». Un complicato cammino
nel rinnovamento settecentesco della
religione e delle strutture ecclesiastiche che coinvolse appieno anche la
Sicilia, che, dal cesaro-papismo della
prima età moderna, «si avviava a diventare anche una Chiesa “senza
papa”» (p. 158).
Diego Pizzorno
E. Novi Chavarria (a cura di), Ecclesiastici al servizio del Re tra Italia e
Spagna, «Dimensioni e problemi della
ricerca storica. Rivista del Dipartimento di Storia, Culture, Religioni
della Sapienza Università di Roma»,
2/2015, Carocci, Roma, 2016, pp. 237
Il tema del rapporto tra religione
e politica, particolarmente in riferimento all’età moderna, può essere
declinato attraverso le categorie – non
onnicomprensive ma sicuramente
rappresentative – di collusione e collisione; in una prospettiva – più ampia
rispetto alla precedente tradizione di
studi – tipica della più recente storiografia: «“Elementi di sistema”, se
si vuole usare il concetto di “sistema
imperiale spagnolo”, o “elementi di
connessione”, nella terminologia utilizzata a proposito della Monarchia
ispanica dai sostenitori del “modello
policentrico”, gli ecclesiastici al servizio del Re tra Italia, Spagna e gli altri domini della Corona funsero molte
volte da trait d’union nelle maglie
delle reti dell’Impero e del suo inesorabile potenziale di risorse, in virtù
della mobilità e circolazione delle loro
carriere. Anelli di congiunzione di alleanze e reti trasversali, essi contribuirono a legittimare scelte e linea
politica dei gruppi cortigiani sul
piano sia delle pratiche e delle istanze
operative sia per loro apporto teorico
di riflessione» (Novi, p. 15).
Proprio in questa prospettiva e alla
luce delle più recenti tendenze storiografiche si pone il numero monografico (2/2015) di «Dimensioni e problemi della ricerca storica», curato da
Elisa Novi Chavarria e contenente
scritti di Ida Mauro, Fabrizio D’Avenia,
Sara Caredda, Silvia Canalda i Llobet,
Giulio Sodano e Valeria Cocozza.
Ida Mauro analizza come «corpo
“specializzato”» il gruppo di ecclesia-
417
Recensioni e schede
stici chiamato a esercitare il ministero episcopale nelle 25 sedi di regio
patronato del Regno di Napoli: «Per
evitare lunghi viaggi, ricoprire al più
presto le sedi vacanti e affidarsi a
candidati preparati nella guida delle
diocesi locali, si preferiva ricorrere a
soggetti che erano già presenti sul
territorio, fossero o no abitanti del
Regno. Si promuoveva, dunque, una
continua circolazione di questi
esperti nella guida degli episcopati
regi sullo scacchiere delle diocesi del
Regno, in base alle ambizioni e alle
qualità dei candidati disponibili»
(Mauro, p. 26).
Importante indicatore delle dinamiche politiche interne al “sistema
imperiale spagnolo” e della posizione
degli attori nel complesso rapporto
tra sfera laica ed ecclesiastica risultano le consulte del Consiglio d’Italia
dedicate alle presentazioni, da parte
del viceré, dei candidati all’elezione o
alla traslazione nelle sedi episcopali
vacanti: «emerge di volta in volta
come fattore decisivo il curriculum
del presule, l’influenza dei suoi protettori, il contesto della diocesi, le
congiunture politiche o la possibilità
di scegliere tra la classe dei regnicoli
e quella degli stranieri» (Mauro, p.
28); grande incidenza avevano poi la
“prassi” dell’alternativa e le pressioni
delle élite cittadine.
In una prospettiva analoga, quella
di considerare tanto la «composite
monarchy» quanto il «sistema imperiale» come «spazio aperto per le carriere e la circolazione delle élite»
(D’Avenia, p. 45) – funzionari, militari
ed ecclesiastici –, si pone il saggio di
Fabrizio D’Avenia Lealtà alla prova:
“Casa”, Monarchia, Chiesa. La carriera politica del cardinale Giannettino
Doria (1537-1642). Infatti, particolarmente indicativo della dialettica collisione-collusione è «il caso delle car-
418
riere dei cardinali fedeli alla Monarchia spagnola, per nascita o per appartenenza di fazione». Si tratta di figure caratterizzate da oscillazione o
equilibrio tra «lealtà alla Chiesa e alla
Corona di Spagna»: elettori del pontefice e vescovi di diocesi importanti
ma allo stesso tempo «titolari di cariche istituzionali, diplomatiche e militari nel “sistema imperiale spagnolo”» (D’Avenia, p. 45).
Importante lente di osservazione
di questo tipo di dinamiche è il Regno
di Sicilia – dove per ben dieci volte
durante la presenza spagnola si registra l’attività di un cardinale-viceré –
, per la «particolare configurazione ecclesiastico-giurisdizionale dell’isola»,
motivata dallo «statuto di regio patronato di tutte le diocesi» e dalla «compresenza di tribunali come quelli della
Regia Monarchia… dell’Inquisizione
spagnola e della crociata», che «sovrapponevano… le competenze su
persone e reati e moltiplicavano i conflitti, che spesso coinvolgevano la sede
apostolica». In questo interessante
teatro politico, sociale e culturale si
sviluppò importante parte della carriera del cardinale Giannettino Doria
(1537-1642), «membro di una delle
più autorevoli famiglie del patriziato
genovese con ampi interessi nei domini iberici», arcivescovo di Palermo
e più volte presidente del Regno di
Sicilia (D’Avenia, pp. 46-47).
D’Avenia ne legge la figura alla
luce di alcune caratteristiche comuni
ad altri «cardinali viceré», che «da
sempre hanno definito il profilo “professionale” dell’ecclesiastico “prestato” all’alta politica nell’ambito
della Monarchia spagnola» (D’Avenia,
p. 47): una coerente condotta filoasburgica che in qualche momento
lasciava spazio alle rivendicazioni romane; un concreto e attivo appoggio
alle strategie della propria famiglia,
Recensioni e schede
tanto in ambito matrimoniale quanto
ecclesiastico-beneficiario.
Sara Caredda nel saggio vescovi
regi e linguaggio del potere nella Sardegna spagnola. La committenza artistica di Diego Fernandez de Angulo
(1632-1700), mette in evidenza come
per la Corona fosse fondamentale
non solo un «rigido controllo» sulla
geografia ecclesiastica dell’isola, ma
soprattutto sulla scelta degli uomini
posti a capo delle diocesi, resa possibile dal diritto di regio patronato
ottenuto nel 1531. Particolare attenzione e controllo “ferreo” furono esercitati sull’arcidiocesi di Cagliari e sul
suo presule: «la prassi era che il re
concedesse tale prestigiosa carica a
un ecclesiastico spagnolo, normalmente ben inserito nell’entourage
della Corte, che fungesse allo stesso
tempo da guida spirituale e da
agente politico della Corona» (Caredda p. 75).
La Caredda punta la sua attenzione in particolare su Diego Fernandez de Angulo, arcivescovo di Cagliari dal 1676 al 1683: «la sua piena
padronanza del linguaggio del potere
e le sue strette relazioni con la corte
di Madrid emergono chiaramente
dalle imprese artistiche che promosse in Sardegna» (Caredda, p. 78).
Conclude sottolineando come la biografia di Angulo «ha molti punti in
comune con quella di tanti altri arcivescovi cagliaritani … questi personaggi, ognuno con la propria storia, costituiscono nel loro insieme
un’élite dai caratteri molto omogenei
per estrazione sociale, cursus honorum e soprattutto fedeltà incondizionata al sovrano, arbitro dei loro destini. Per l’importanza del suo ruolo
politico e la rilevanza della sua committenza artistica, che lo colloca a
pieno diritto tra i principali mecenati
della cattedrale cagliaritana, Diego
de Angulo è quindi uno dei più eminenti rappresentanti di questa categoria di vescovi regi, i cui profili sono
fondamentali per comprendere la
complessa rete di relazioni politiche,
ecclesiastiche e artistiche tra Madrid
e la Sardegna nel corso dell’età moderna» (Caredda, p. 88).
Su una linea parallela a quest’ultimo si colloca il saggio di Silvia
Canalda i Llobet, Estrategias visuales de promocion del cardenal Portocarrero por tierras de Italia (16691679). L’autrice sottolinea con
efficacia come Luis Fernandez de
Portocarrero, durante il decennio
della sua presenza in Italia, abbia
utilizzato la committenza artistica
come strumento per costruire e proporre alla società la sua immagine
non solo di cardinale ma anche di
uomo di stato.
Alla capacità dei “vescovi regi” di
intervenire in modo autorevole nella
discussione pubblica su temi politici
e culturali è dedicato il saggio di Giulio Sodano Tra politica e religione: le
riflessioni di un vescovo regio sul
duello. Il teatino Gregorio Carafa, al
secolo Carlo Marcello, apparteneva a
un ramo cadetto del prestigioso lignaggio aristocratico ma godette lo
stesso di «grande fortuna»: provinciale di Napoli e generale del suo ordine, dal 1644 al 1647, vescovo di
Cassano nel 1648 e di Salerno dal
1664; «nobile per nascita, sebbene
cadetto e non di famiglia di alto rango
feudale, sacerdote di un ordine particolarmente sensibile alle esigenze
del mondo aristocratico; legato a rapporti di collaborazione e servizio ai
viceré; vescovo di diocesi regie di primario valore» (Sodano, p. 126).
Nel corso del suo governo generale dei Teatini diede alle stampe
l’opera De Monomachia seu Duello
opus theologico-morale, da cui emer-
419
Recensioni e schede
gono tanto il suo legame col potere
viceregio, quanto lo stretto nesso tra
l’ordine a cui apparteneva e l’aristocrazia. Secondo Sodano, la risposta
di Carafa al quesito sulla liceità del
duello fu efficace ma allo stesso
tempo densa e diplomatica: «Quale
migliore servizio un aristocratico ecclesiastico poteva prestare a sé
stesso e al proprio sovrano se non
militando per le guerre giuste del
proprio principe nelle quali riversare
tutta la carica aggressiva dell’etica
dell’onore? Quale migliore monito
dare, però, al potere regio che l’ardimento nobiliare restava la componente che maggiormente poteva risolvere le guerre» (Sodano, pp.
137-138).
Nell’ultimo saggio, dal titolo “Hombres de pecho y inteligencia en negocio de estado”: il cappellano maggiore
di Napoli tra Cinque e Seicento, Valeria Cocozza illustra le dinamiche politiche sottese alla nomina del cappellano da parte del sovrano.
Si trattava di una figura che assommava innumerevoli competenze
al confine tra la sfera del potere laico
e quella del potere ecclesiastico e addirittura pertinenti alla sfera culturale, era infatti prefetto dell’Università degli studi di Napoli ed esercitava
il controllo sulla produzione libraria.
Secondo l’autrice «i casi proposti …
offrono un altro angolo visuale da cui
osservare la circolazione delle elite
che caratterizzò il sistema politico
dell’Italia spagnola»: gli ecclesiastici
nominati a quella prestigiosa carica
«dovevano vantare un cursus honorum tessuto nel tempo grazie a politiche clientelari promosse dalle famiglie di origine che, da più generazioni,
avevano maturato esperienze e prove
di lealtà al servizio della Corona» (Cocozza, p. 158).
Daniele Palermo
420
G. Foscari, La gran machina della sollevatione. Due città e un capopopolo
nella rivolta di Masaniello (16471648), Ipermedium libri, Salerno,
2015, pp. 239
Giuseppe Foscari, autore di importanti lavori sulle rivolte nel Regno
di Napoli nel 1647, presenta nel volume La gran machina della sollevatione ancora un’interessante trattazione del problema della diffusione
nel territorio delle grandi rivolte urbane. In particolare, attraverso i casi
di Cava e Salerno, prova a fornire
un’interpretazione d’insieme delle
complesse vicende del Regno di Napoli nel biennio 1647-1648.
Indice della complessità della trattazione di Foscari è già la confutazione dell’espressione «un po’ iperbolica» “gran machina della sollevatione”
utilizzata da Giuseppe Donzelli nell’autunno 1647, nella sua opera Partenope liberata, caratterizzata da «un
punto di vista dichiaratamente antispagnolo». La frase «non ci allontana
troppo dall’idea di una rappresentazione complessa e architettata della
ribellione, un modello meccanico di
cartesiana memoria, e dunque, per
sua natura, strategico, un teorema
progettuale di liberazione dell’intero
popolo napoletano dai nobili e dagli
Spagnoli, che evidentemente era nelle
corde e negli auspici di Donzelli e dei
capi napoletani della sommossa.
Nella sua percezione, la gran machina
della sollevatione richiamava alla
mente in qualche modo la dimensione
spazio-temporale del conflitto che si
era scatenato, che da urbano e metropolitano si era amplificato in tutte
le aree del Regno e che sarebbe durato ancora per molti mesi del 1648,
o ne lasciava presagire l’ampiezza e
la consapevolezza» (pp. 11-12).
Il complesso dibattito storiografico
Recensioni e schede
dei secoli successivi ha progressivamente ridimensionato «l’ipotesi di
un’organizzazione su base nazionale
della rivolta … e, con essa, forse, anche l’idea di un congegno ad orologeria
immaginato su larga scala per esautorare il dominatore spagnolo per affidarsi ai francesi», tuttavia, nota
l’autore con efficacia, «il fascino del l’espressione di Donzelli resta … intatto e, addentrandoci nella narrazione
e nell’analisi della rivolta del 1647-48
con lo sguardo puntato su un osservatorio periferico, la complessità della
sollevatione, le città protagoniste, il capopopolo implicato, le strategie adottate, i ripetuti e non sempre prevedibili
colpi di scena, le profonde relazioni
con la più generale dinamica della
sommossa, lasciano ben intendere
quello scenario di macchinazioni a cui
alludeva il medico-storico. Se non c’è
stata una vera e propria condivisione
del progetto … c’è stata sicuramente
una condivisione dell’azione ribelle e
l’idea stessa di insorgere, protestare
con violenza, dissentire, è corsa in
lungo e in largo per il Regno» (p. 13).
Per rappresentare dalla periferia
questo inestricabile intreccio di progetti e pulsioni, scelte pianificate e
casualità, obiettivi di gruppi e fazioni
e azioni individuali, Foscari sceglie
due punti di osservazione privilegiati
e tutt’altro che marginali come Cava
e Salerno, «città tipo della fedeltà monarchica»: demaniali «in un quadro
di dilagante feudalità» e luogo di osservazione delle due tipiche modalità
della rivolta, il conflitto fazionale per
la conquista del potere cittadino e
l’azione sobillatoria di un capopopolo.
Entrambi i centri poi, anche se con
modalità molto diverse, videro
l’azione di Polito Pastena, leader della
rivolta di stampo “masanielliano”, la
cui capacità di mobilitazione travalicava i confini di città e distretti.
Cava, città nettamente filomonarchica e «tradizionalista», fu teatro del
conflitto tra due «fronti patrizi» che,
approfittando della congiuntura attraversata dal Regno di Napoli, entrarono in dura competizione per
conquistare il controllo del teatro politico ed economico cittadino. Salerno
fu invece scenario dell’azione del capopopolo Pastena: la città «non ebbe,
nell’immediato, alcun motivo legato
a vicende interne al patriziato per ribellarsi, sicché, quasi da subito,
toccò a Polito Pastena sobillare la
plebe dei suoi casali, caricando la
sommossa di altri contenuti e rivendicazioni» (p. 15).
Particolarmente indicativa degli
equilibri politici e territoriali nel Regno di Napoli a metà secolo è proprio
la vicenda di Cava; infatti la sua identità civica aveva la «demanialità»
come caposaldo pressoché indiscutibile e «cardine politico e culturale».
Tutto questo è frutto di un «pragmatismo che, in verità ha permeato
tutta la vicenda… di Cava e che consisteva nell’essere sempre fedele alla
Monarchia al potere» (p. 53). Inoltre,
la riforma dello «statuto cittadino» del
1556 aveva costituito uno strumento
di equilibrio nel teatro politico municipale: le cariche venivano assegnate
in base a un criterio di eguaglianza e
alternanza tra distretti «e quindi tra
i casali che li componevano», al fine
«di evitare dispute accanite fra le famiglie cittadine più in vista» (pp.5657). Da notare anche i legami tra
l’élite cittadina e un «partito cavese»
a Napoli, originato, tra ‘400 e ‘500,
dall’emigrazione di centinaia di famiglie, che, ormai «napoletanizzate», secondo «non pochi scrittori contemporanei», svolsero un «ruolo attivo …
nel supportare Giulio Genoino nelle
sue istanze filopopolari ed antiaristocratiche» (p. 60).
421
Recensioni e schede
I caratteri particolari della rivolta
di Cava sono anche importanti indicatori di dinamiche più generali. In
un costante obiettivo di perseguimento di un’inviolabile e perpetua demanialità, si articolò in due fasi: «La
prima, durata praticamente dall’11
luglio 1647 alla fine del mese, è stata
caratterizzata dall’iniziativa politica
del patriziato escluso dal potere; un
ceto variegato, professionale, mercantile, commerciale, capace di dialogare
e accordarsi con la plebe più esasperata dalle condizioni del Regno e della
città … e di avvalersi della sua preziosa collaborazione per esercitare un
forte pressing su quanti gestivano il
potere locale … la seconda fase,
quella della lotta plebea, ispirata e
spesso fomentata da Polito Pastena,
che si è registrata nel momento in cui
il legame tra il gruppo ribelle e la
plebe si è dissolto per le troppe differenze sociali, culturali e per la diversità delle istanze che rispettivamente
misero in campo» (p.62).
L’autore sottolinea con efficacia la
diversità del caso salernitano rispetto
a quello di Cava: «Salerno fu uno dei
luoghi chiave e più rappresentativi
della conquista del potere dei popolani. Per nove mesi … seppure in un
quadro politico che andò mutando,
la città fu tenuta in scacco da Polito
Pastena e dai suoi uomini» (p. 220).
Il lavoro di Foscari è caratterizzato
non solo da una visione d’insieme
delle rivolte nel Regno di Napoli attraverso la lente della periferia, ma
anche da un respiro globale dato all’argomento, soprattutto allorché, in
riferimento alle rivolte in Europa e
nelle colonie tra il 1647 e il 1660,
cita gli scritti di Rediker e Linebaugh,
che, «in buona sostanza … hanno riproposto i temi del conflitto di classe,
suggerendo l’idea di una circolarità
dell’esperienza rivoluzionaria … una
422
matrice comune sembra mettere
tutto assieme, a loro giudizio, in una
gigantesca protesta sociale determinata dalle evidenti disuguaglianze
della società». Pur non volendo riproporre il conflitto di classe come
chiave di lettura, l’autore ritiene che
non si possa smettere «di pensare
all’esistenza di un conflitto sociale
che ha caratterizzato l’Europa (e non
solo) nel corso del XVII secolo; che
non esclude un certo grado di consapevolezza delle proprie condizioni
sociali da parte della plebe e neppure
un antagonismo plebeo e “popolare”
verso i poteri forti, un’insofferenza
sfociata in una ribellione con l’eloquenza primitiva dei plebei, per usare
il lessico di Linebaugh e Rediker,
dunque astiosa, rancorosa, ribelle,
istintiva, non programmabile, non
coerente e violenta» (pp. 219-220).
Daniele Palermo
L. Braida, S. Tatti (a cura di), Il Libro.
Editoria e pratiche di lettura nel Settecento, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2016, pp. XVIII, 446
Il volume raccoglie gli atti di un
convegno dedicato al libro e all’editoria nel Settecento. I saggi sono organizzati in una struttura tematica la
cui lettura ci fornisce il quadro complessivo del progetto disegnato dagli
organizzatori del convegno. Un percorso apparentemente frammentato,
ma con una forte coerenza progettuale, giacché la stampa e la sua
capillare diffusione in ogni strato
sociale diventano uno degli strumenti
che contribuiranno a costruire la
nuova realtà sociale e politica europea che segnò la fine della società di
antico regime. Gli interventi pubblicati affrontano cinque temi: «il rap-
Recensioni e schede
porto tra l’autore e i suoi editori; le
trasformazioni del mestiere del libro
e del mercato editoriale; i generi editoriali di larga circolazione; la mobilità dei testi pensati per i nuovi
contesti cultural; (traduzioni, materialità delle edizioni); l’attenzione ai
lettori, alla storia delle biblioteche e
alle nuove forme di lettura» (p. X).
Il Settecento è un momento di
svolta per la realtà editoriale europea: la cartina di tornasole è data dai
cataloghi degli editori che aumentano a dismisura l’offerta dei titoli.
Gli scaffali della bottega del libraio si
riempiono di volumi in modo esponenziale. Il mercato librario si
espande in maniera a macchia d’olio,
creando canali commerciali che permettono una circolazione dell’oggetto
libro massiccia e tempestiva. Utilizzando un osservatorio formalmente
periferico come la Sicilia vediamo che
i dati di crescita che si riferiscono al
mercato siciliano e palermitano in
particolare sono in piena sintonia
con quelli europei. Bartolomeo
Inbert, “gallicus”, nel 1523 nella sua
bottega di mercerius, che rispecchia i
canoni organizzativi delle analoghe
strutture francesi, ha la disponibilità
di 166 titoli e 414 volumi; il libraio
Achille Piffari nel 1597 ha sugli scaffali 1217 titoli e 2816 volumi;
Luciano Meli nella sua bottega nel
1623 offre 2039 titoli con 7612
volumi. Nel Settecento il volume delle
offerte dei titoli e dei volumi disponibili raddoppia ulteriormente.
Un mercato in crescita imponente
che evidentemente è alimentato da
una sinergia che si sviluppa su
alcuni snodi importanti: l’autore, il
lettore, l’editore e il circuito di commercializzazione. Tutte queste realtà
interagiscono tra di loro e contribuiscono alla creazione di una nuova
realtà del rapporto del lettore con il
libro. Cambia radicalmente l’approccio alla lettura della pagina stampata: si legge silenziosamente e non
si rendono partecipi gli altri alle emozioni legate alla trasposizione della
scrittura in parole. Un segno tangibile della trasformazione del nuovo
approccio è segnato tipograficamente
dall’abbandono dei segnali tipografici
che segnalavano a chi leggeva ad alta
voce dei necessari cambiamenti di
tono per partecipare agli ascoltatori
l’opportuna emozionalità.
Il nuovo modo di leggere è ricostruito da Tiziana Plebani nel saggio
La rivoluzione della lettura e la rivoluzione dell’immagine della lettura
anche per il tramite di un’analisi
delle rappresentazioni iconografiche
dei lettori del Settecento. La presenza
delle donne nelle immagini legate al
mondo della lettura è un altro indicatore per comprendere come sia
cambiato l’approccio alla pagina
scritta, che non è più uno strumento
di lavoro per il giurista, per il filosofo,
per l’ecclesiastico o per il medico,
bensì un oggetto che stimola un
approccio emozionale. Si legge un
romanzo d’amore, si legge in villeggiatura, ma ci si preoccupa di avvicinare al mondo della lettura anche i
bambini come ci mostra l’immagine
di una bambina che si appresta a
leggere un libro mentre le donne
della famiglia lavorano al tombolo.
Altro momento importante per il
processo di ampliamento della platea
dei lettori, che s’indirizzano a un tipo
di lettura non professionale e che si
approcciano alla carta stampata per
diletto, è individuato nell’irrompere
sSl palcoscenico della lettura di un
prodotto editoriale specifico: il giornale, il periodico che stravolge completamente l’approccio alla carta
stampata. Roberto de Romanis nel
suo saggio sui riti della sociabilità
423
Recensioni e schede
inglese invita a riflettere che i giornali, che s’inseriscono nel sistema
della comunicazione del Settecento,
hanno una costruzione della notizia
che non invecchia e non si consuma
in un giorno. In particolare afferma
che «i contenuti di quel genere di
stampa, proprio per prestarsi come
oggetti del vivace dibattito cui si
accennava poc’anzi, sono più che
altro echi di notizie, o meditazioni o
spunti cui quelle notizie o altri materiali apparsi in qualche volume
recente potevano dare origine, o
l’avevano già data su altre testate o
contesti; …imponendo ai lettori dei
ritorni, degli approfondimenti, dei
ripensamenti con passaggi da un
periodico all’altro o da un giornale a
un volume e viceversa».
La lettura dei giornali e il loro
commento in Inghilterra avevano
luogo non già nel silenzio degli studi,
bensì nel rumoroso scenario dei club
e delle coffee-houses – nella sola Londra si contavano almeno duemila
caffè – innescando la costruzione di
reti relazionali che coinvolgevano
spesso anche gli autori. Il romanzo e
il saggio costituivano il carburante
principale con il quale alimentare il
dibattito all’interno delle predette
realtà con i vantaggi e gli svantaggi
che ne derivavano. Inoltre, il caffè e
il club erano strutture che avevano
bisogno della città per nascere e svilupparsi, mentre nei villaggi di campagna o nei piccoli centri la realtà dei
giornali e della loro lettura condivisa
non riusciva a consolidarsi.
I temi affrontati nel volume sono
numerosi e complessi e meriterebbero una lettura specifica e attenta.
Un esempio valga per tutti: Serenella
Rolfi Ožvald dedica il suo saggio proprio al tema dell’uso delle immagini
in una rinnovata editoria di qualità,
dedicata a uno specifico circuito
424
dell’editoria di “alta divulgazione”
legato alla stampa di volumi corredate da incisioni spesso a colori. Un
mercato difficile che si alimentava
con le sottoscrizioni delle associazioni di lettori specializzati che alimentavano un’editoria di lusso
criticata da chi vede nel libro uno
strumento culturale e non già un
oggetto di collezione. Francesco Milizia nel 1797 criticava «quegli amatori
curiosi, i quali tengono fin i libri
come chincaglierie di lusso e temono
di toccarli affinché non perdano
niente del loro valore pecuniario. A
questo valore la ciarlataneria sacrifica il merito intrinseco delle opere, e
così avvelena le arti e i costumi» (pp.
237-238).
In realtà, ci si trova davanti a un
mondo tipograficamente nuovo, dove
si sperimentavano le diverse tecniche
in uso per la riproduzione su carta
delle immagini colorate. Un’esperienza che necessitava dell’attivazione di una stretta collaborazione
dell’arte della tipografia con quella
della calcografia. I costi di produzione di questo specifico prodotto
librario erano molto elevati ma esso
costituiva uno strumento essenziale
per gli autori e gli editori «specializzati nello specifico campo della storia
e della critica delle belle arti» (p.245).
L’ultima sezione di questo volume
è dedicata a “Editoria e biblioteche
nella Sicilia del Settecento”, con cinque saggi che aprono degli squarci
sulla realtà siciliana del Settecento
poco conosciuta da sviluppare e da
approfondire in un contesto temporale che necessita in molti casi di
una rilettura. Michela D’Angelo apre
la sezione con un saggio dedicato
all’editoria e libri nel ‘lungo’ Settecento messinese (1678-1783); Diletta
D’Andrea continua con la sua riflessione su “Stampatori e librai a Mes-
Recensioni e schede
sina nel tardo Settecento” ; Rosario
Lentini illustra il funzionamento
della Reale Stamperia di Palermo nel
primo ventennio di attività ( 17791799); Danilo Siracusa presenta l’iniziativa voluta dal viceré Caracciolo
della pubblicazione dei calendari del
Regno di Sicilia (1759-1805); Caterina Sindoni si sofferma su i libri per
le scuole e la Biblioteca dei maestri
nella rivoluzione scolastica di Giovanni Agostino De Cosmi.
Le analisi di Michela D’Angelo e di
Diletta d’Andrea mostrano una Messina profondamente segnata da
alcuni eventi traumatici come la
rivolta contro la Spagna (1674-78), la
peste del 1743 e il terremoto del
1783. Avvenimenti che hanno delle
ricadute negative sia sul numero
delle tipografie, che operavano all’interno delle mura cittadine, sia sull’attività dei librai e degli editori.
Un’attività editoriale che supportava
il “consumo” locale sfornando libretti
di devozione, spartiti musicali, bandi
ma, nello stesso tempo, garantiva le
pubblicazioni di maggiore peso scientifico stimolate dalla presenza operante di accademie e di biblioteche le
quali dedicavano numerose letture ai
temi scientifici e culturali di rilievo.
Diverse pubblicazioni, ad esempio,
sono dedicate all’analisi dei terremoti
che squassarono in quel periodo sia
la Calabria sia la Sicilia. Le officine
tipografiche messinesi garantivano,
inoltre, settimanalmente la stampa
di “gazzette”, con le quali la realtà
politica e culturale europea fece irruzione in Sicilia grazie alle notizie
tratte dai fogli di Venezia, Trieste,
Napoli e di altre capitali europee, che
si mescolavano a quelle della guerra
contro la Francia rivoluzionaria e ai
riferimenti alla cronaca locale.
Altra riflessione è dedicata all’esperienza legata alla creazione a Palermo
della Reale Stamperia, uno stabilimento tipografico funzionale al piano
governativo di realizzare una struttura
di supporto all’Accademia palermitana, primo nucleo del futuro Ateneo,
e all’ambizioso progetto della riforma
del sistema scolastico siciliano. Il saggio di Rosario Lentini disegna i percorsi di questa ambiziosa intrapresa
affidata alla Deputazione dei Regi
Studi che ne avrebbe fatto uno dei
suoi più importanti riferimenti per la
sua politica culturale. Il progetto era
di far sì che la stamperia si autofinanziasse obbligando il Tribunale del Real
Patrimonio e gli altri uffici della Regia
Corte a servirsi della Real Stamperia
di Palermo per produrre tutta la
modulistica necessaria per la loro attività istituzionale. Una privativa che
suscitò le ire degli altri stampatori
palermitani che si ritennero danneggiati dalla scelta della Deputazione. La
documentazione, conservata presso
l’archivio storico dell’Ateneo palermitano, ci permette di avere il quadro
complessivo della produzione che
usciva annualmente dai torchi giacché si conservano i dati relativi alle
tirature e alle giacenze di magazzino.
I torchi della stamperia reale produrranno, su specifico mandato di mons.
Airoldi, i volumi del Il Consiglio
d’Egitto frutto della arabica impostura
dell’abbate Vella ma, anche, grammatiche, libri di diritto, opere devozionali
e altro materiale didattico.
L’ampliamento della platea dei lettori è legato anche agli sforzi che sono
riservati alla formazione culturale e
didattica del maestro di scuola. Caterina Sindoni con un saggio sui libri
per le scuole e la biblioteca dei maestri
apre un ampio squarcio sul ruolo
avuto dal De Cosmi nella modernizzazione e laicizzazione della formazione dei maestri delle scuole
elementari. Dalle prime indagini
425
Recensioni e schede
emerge che l’impostazione delle strutture didattiche della scuola elementare siciliana, sotto l’impulso decisivo
del De Cosmi, sia stata «orientata
verso quel modello scolastico offerto
dal sistema in vigore nel LombardoVeneto tutto basato, come sottolinea
Piseri, sul principio della necessità
della formazione dei maestri» (p. 403).
Una formazione che passa sempre
per il tramite dell’oggetto libro.
Le stamperie palermitane si occupavano anche della pubblicazione dei
cosiddetti Calendari di corte, il cui
primo esemplare fu stampato a
Palermo nel 1759 da Epiro, ma questa linea editoriale non ebbe un
grande successo. La svolta si ebbe
con il viceré Caracciolo, il quale nel
1785 dette vita al Notiziario del Regno
di Sicilia con l’obiettivo di creare un
supporto in funzione della formazione
di una opinione pubblica favorevole
alle iniziative del governo. La scelta di
utilizzare il Gregorio come redattore e
coordinatore della redazione dei Calendari non è casuale, ma funzionale
alle scelte politiche anti baronali del
viceré. Il libro e la scolarizzazione
diventano le armi con le quali supportare la politica riformistica.
Il volume, come Silvana Braida e
Silvia Tatti sottolineano nella loro
introduzione, riapre il dibattito sul
ruolo che la produzione, la diffusione
e, soprattutto, la fruizione dell’oggetto
libro ha avuto nei processi di destrutturazione dell’antico regime. Ognuno
dei saggi pubblicati offre lo spunto
per nuove riflessioni e riletture, ma
soprattutto mette in luce che la rete,
con la quale si supportano i processi
riformistici che demoliranno gli stati
di antico regime, sarà costruita grazie
agli editori, agli stampatori e ai librai
che assicureranno la capillare diffusione delle nuove idee.
Antonino Giuffrida
426
Marcella Aglietti, L’istituto consolare
tra Sette e Ottocento. Funzioni istituzionali, profilo giuridico e percorsi professionali nella Toscana granducale,
Edizioni ETS, Pisa, 2012, pp. 438
L’obiettivo e la metodologia di questo lavoro sono ben chiariti fin dall’inizio: capire l’evoluzione della figura
del console, nel suo passaggio da organo rappresentativo di una comunità
mercantile a ufficiale di un’amministrazione statale, «con gli strumenti e
le inquietudini della storia delle istituzioni». Un libro d’altro canto interdisciplinare, che vuole «ricorrere a una
molteplicità di prospettive […] proprie
della storia economica, della storia del
diritto internazionale e delle relazioni
internazionali», e che si distingue per
una cronologia non proprio usuale,
ponendosi sul crinale tra due secoli,
il XVIII e il XIX, caratterizzati da fratture che spesso creano barriere anche
nella comunità degli studiosi. La
chiave di lettura, per contro, è tradizionale ma storiograficamente valida:
la storia dello Stato come percorso di
modernizzazione, che pure fra rallentamenti e difficoltà si vede bene anche
dalla prospettiva del console, il quale
ne interpreta con l’ampliamento e la
definizione delle sue funzioni il rafforzamento nelle relazioni interstatuali e
nell’ambito degli equilibri interni di
potere. Rispetto alla letteratura esistente sul tema (relativa alla Spagna,
alla Francia, all’Inghilterra, agli Stati
Uniti, ai paesi scandinavi, ai vari Stati
italiani ecc.), l’originalità della ricerca
sta nella capacità di ripercorrere e seguire lucidamente la transizione dell’istituto consolare nel passaggio dal
tramonto dell’antico regime alla genesi
delle «moderne nazioni di età contemporanea».
Figura sfuggente, quella del console, che a differenza dell’ambascia-
Recensioni e schede
tore non sempre gode di una rappresentanza pubblica ufficiale e che
nel suo agire quotidiano dipende dai
margini che gli vengono concessi dagli usi e dalle consuetudini locali,
ma che da un certo momento in
avanti (il caso francese è emblematico) comincia a essere nominata regolarmente dal Principe (non più
dalla comunità dei mercanti), ha
l’obbligo di risiedere nel luogo di destinazione e riceve precise consegne
in merito alla sua condotta (ad
esempio, non può più svolgere attività commerciali).
Per spiegare questa lenta ma decisiva trasformazione, Aglietti fa intelligentemente ricorso ad una trattatistica ampia e in certi casi anche
molto prestigiosa (anche se talora su
posizioni contrastanti). Una trattatistica alla quale sul finire del XVIII
secolo fa seguito una legislazione
sempre più precisa in materia (a partire dal Real decreto di Carlo III di
Borbone, per poi passare alle leggi
francesi e veneziane e alle disposizioni toscane di Cosimo III ben conosciute dall’A.). Viene realizzato in
questo modo il perfezionamento dell’istituzione consolare, «formalizzata
e sottoposta a una massiccia operazione di riforma» con la quale «se ne
definiscono competenze e qualità,
modalità di investitura e di legittimazione, gerarchie e prerogative». In altre parole, si tratta della compiuta
definizione normativa – in un certo
senso una vera e propria metamorfosi – di una figura che era stata l’emblema di quella «commistione inscindibile fra interesse pubblico e
interesse privato precipuo delle società pre-contemporanee».
Sullo sfondo di questo solido e nitido contesto, nella prima parte del libro Marcella Aglietti si sofferma sul
caso del Granducato di Toscana, che
per la presenza del cosmopolita scalo
livornese («città portuale multietnica»)
ben si adatta allo studio delle tensioni,
di cui i consoli si fanno catalizzatori,
fra la giurisdizione sovrana e «quella
miriade di privilegi e giurisdizioni particolari» che le comunità straniere provano a esercitare. Naturalmente, trattandosi di Settecento toscano, ben
forti sono le differenze fra «l’equilibrismo strategico» dei Medici e la tendenza all’affermazione del principio di
sovranità dello Stato di cui si fanno
portatori gli Asburgo-Lorena: una cesura che gli specialisti del Granducato
conoscono bene, e che si avverte continuamente nel libro.
Al frastagliato Settecento, nella
trattazione dell’autrice segue un Ottocento più “granitico”, in cui anche
la Toscana partecipa a quel processo
di omologazione e di mutuazione reciproca che mettono in atto gli Stati al
fine di ottenere la «burocratizzazione
e [la] uniformizzazione della carica
consolare e delle sue competenze».
Nella Livorno del XVIII secolo i
consoli sono l’espressione più lampante del favore con il quale i mercanti forestieri sono considerati e
trattati. Il granduca sa che bisogna
trattarli bene (gli uni e gli altri). Ma
non sempre fila tutto liscio. Anzi, «la
natura delle relazioni fra le istituzioni
toscane e le agenzie consolari estere
si delinea come un continuo braccio
di ferro condizionato da una molteplicità di fattori non riducibili al mero
dialogo di carattere istituzionale».
Detta altrimenti, è talmente intenso
il movimento commerciale del porto
labronico che spesso insorgono disguidi e controversie tali da mettere
a repentaglio la cortesia formale dei
rapporti consoli esteri-Firenze. E poi
non tutti i consoli sono uguali: diversi
possono essere i legami fiduciari fra
consoli e “nazioni”, così come diversi
427
Recensioni e schede
si rivelano i rapporti fra consoli e ministri toscani di Livorno e Firenze
(rapporti che si costruiscono «su base
concordataria e permanentemente rinegoziabile», e che tanto sono influenzati dallo scenario internazionale del momento).
Ancora, il caso dei consoli francesi, sotto questo ultimo aspetto, la
dice lunga: un po’ per l’influenza politico-militare esercitata dalla grande
potenza borbonica, un po’ perché riflesso della razionalità normativa
della Corona francese in materia
consolare, essi si considerano «ministres publics» investiti di «piena
autorità giuridica nei confronti dei
sudditi francesi per delega sovrana»,
e in pratica giudicano nelle cause in
cui sono implicati dei connazionali.
I granduchi considerano la pratica
una mal tollerata «eccezione alla regola», mai formalmente ratificata,
tanto è vero che, quando il console
a Livorno di Giorgio II incarica un
notaio locale di redigere gli atti di
prede corsare alle quali sono interessati i mercanti britannici (è il
1741), viene aspramente redarguito
dal governo fiorentino.
Specie quando arrivano gli Asburgo-Lorena, Firenze vorrebbe ridurre i consoli esteri nello scalo livornese a mere figure di mercanti privati,
laddove questi personaggi chiamano
i loro scrittoi «cancellerie», «ove affettano di parlare e scrivere in stile cancelleresco e diplomatico, a similitudine delli tribunali legittimi». Certo, lo
ripetiamo, le situazioni non sono tutte
uguali: nella Livorno ancora medicea,
ai consoli di Francia, Inghilterra e
Olanda, le cui pretese si fanno via via
sempre più insistenti, fa da contrappeso il ridicolo consolato sardo, con
un incaricato (Gregorio Mendes) che
non si sa neppure se si possa definire
console, vede cadere più volte nel
428
vuoto le proprie richieste di istruzioni
al governo di Torino e finisce in miseria perché resta privo di compenso
per ben quattro anni di fila.
Ma al di là delle vicende personali e delle parabole professionali,
nell’analisi dell’Aglietti emerge con
evidenza l’eccezionalità del caso
studiato – quello di Livorno – in cui
la figura del console raggiunge il
climax della sua ambivalenza: soggetto istituzionale in potenziale collisione con il governo dello Stato in
cui risiede; prezioso garante del
buon ordine e della permanenza
pacifica (e possibilmente proficua)
di una comunità mercantile. Le
due cose devono essere in qualche
modo conciliate. Ma come cercare
di limitare le ingerenze giurisdizionali dei consoli proprio in un porto
dove ai forestieri «giova fare maggiori agevolezze» che ai «paesani»?
Le ovvie ripercussioni sul piano
delle relazioni internazionali che
può avere il comportamento nei
confronti di un console estero richiedono dunque un astuto dosaggio dell’«arte del compromesso e
della dissimulazione». Illuminante,
a questo proposito, che Firenze abbia disposto più volte, nel corso del
XVIII secolo, che «il governatore
non [debba trattare] alcuno affare
con i consoli in scritto». Tutto viene
lasciato all’improvvisazione degli
approcci informali: in un certo qual
modo, li si favorisce nel loro concreto operato, si chiude un occhio
sulle loro prerogative, ma si sta
ben attenti a non pronunciarsi mai
ufficialmente in materia. All’esatto
opposto, la lunga trattativa fra il
Granducato e lo Stato Pontificio
per lo stabilimento di un console
romano nei «porti di Toscana» –
che, più di una trattativa, si rivela
una «operazione di ostruzionismo»
Recensioni e schede
– mostra bene l’importanza della
forma, delle procedure e delle for mule retoriche nella produzione
delle patenti consolari, che è solo
il punto di partenza dell’ampia attività di un console.
Nel secondo capitolo si passa a
esaminare il sistema consolare toscano, ramificato sulle due sponde
del Mediterraneo e in quasi tutta Europa, che si contraddistingue per
una certa eterogeneità (vedi i casi
delle sedi romana e napoletana, dove
il ruolo del centro nella scelta del
console è ben diverso). Con l’eccezione proprio di Roma, il tentativo
dei Medici è quello di svincolare l’ufficio dall’influenza delle comunità
mercantili locali e di esercitare un
controllo maggiore al fine di fare
della figura consolare un «organo di
governo coerentemente inserito all’interno del sistema statuale toscano». E la tendenza all’interventismo di governo si fa ancora più forte
con gli Asburgo-Lorena, i quali esordiscono con un censimento di tutti i
«ministri ed agenti» nominati o confermati presso le corti estere; e che
arrivano in breve tempo a perfezionare un sistema consolare che sarà
preso a modello dall’Impero, il quale
«riconosce ai toscani una maggiore
esperienza nelle attività mercantili»
(e che materialmente comincia ad affidarsi per le proprie sedi a sudditi
granducali). Quando la macchina
asburgica sarà ben oleata, i rapporti
si invertiranno, e sarà Firenze ad affidarsi ai consoli nominati da Vienna
(o ad accettare rappresentanze comuni); ma non è la sede per entrare
in questi dettagli.
Ulteriore conferma del carattere
bicefalo dello Stato toscano (a Firenze la capitale politica, a Livorno
il cuore pulsante dei traffici commerciali), tutti i consoli del granduca
in servizio all’estero devono corrispondere con il Governatore labronico (la cui figura è stata al centro
di una precedente monografia dell’autrice), che in generale ha ampie
prerogative in materia consolare.
Quanto al loro operato, malgrado
l’esistenza di precise patenti di nomina, i margini d’azione sono dettati
più dalla prassi che dal diritto: si
guarda in sostanza a quanto è in
uso negli altri consolati e a quanto
viene concesso nelle situazioni di reciprocità. Pesa poi la congiuntura
politico-militare, nella vita di un
console: il secondo paragrafo di questo secondo capitolo è dedicato proprio a spiegare come nel Mediterraneo altamente militarizzato del
Settecento le fortune delle comunità
mercantili toscane all’estero possano
variare anche di molto a distanza di
pochi anni (in particolare, molto dipende se si è, o meno, in pace con le
reggenze barbaresche). Ed è proprio
in queste occasioni che il console fa
sfoggio della sua importanza: «l’esistenza di un console di Toscana […]
è ugualmente utile e necessaria in
ogni tempo, ma soprattutto il tempo
di guerra», scrive nel 1780 il ministro plenipotenziario per gli As burgo-Lorena a Londra.
Al lettore, giunto a questo punto
del libro, al termine di questa operazione speculare (l’analisi dei consolati esteri a Livorno, quella dei
consolati toscani all’estero), non può
sfuggire una cosa. La peculiarità di
Livorno rende più stimolante e ricco
di prospettive il primo campo di indagine, mentre il secondo presenta
molti aspetti generalizzabili ad altre
realtà statuali. Non è un caso se uno
dei capitoli più originali di tutto il
lavoro è quello sul consolato spagnolo a Livorno, che tra l’altro, per
il fatto di essere rimasto appannag-
429
Recensioni e schede
gio di una sola famiglia (i de Silva)
fra 1677 e 1802, permette di verificare da un’angolatura particolare i
processi di costruzione delle élite internazionali della diplomazia, e di
apprezzare la vastità della rete di
corrispondenti di un console settecentesco (si veda l’elaborazione di p.
191). L’eccezionalità di Livorno si
vede anche dal fatto che «le sedi consolari [lì] di stanza attraversano
pressoché indenni i turbolenti anni
francesi», quelli della tempesta napoleonica, «proprio per l’importanza
strategica della sede livornese». E
non è un caso se la restaurata monarchia sabauda confida nel proprio
console a Livorno (Luigi Spagnolini)
per potenziare la navigazione dei natanti “nazionali” nel Mediterraneo: è
nello scalo labronico che risiedono
le ricche case di negozio ebraiche in
grado di rabbonire le potenze barbaresche.
Nell’Ottocento, è significativo che
il testo delle istruzioni per i consoli
toscani all’estero del 1820 (integrato
nel 1826) ricalchi in maniera pressoché identica quelle redatte per il
console genovese a Livorno del 1767:
retaggi di antico regime. Cambia invece tutto a partire dal 27 aprile
1859: se ancora nei mesi precedenti
il Governatore di Livorno aveva ricevuto ragguagli da buona parte del
Mediterraneo e dal resto d’Europa,
all’inizio dell’estate si sondano gli
orientamenti politici dei consoli toscani presso le sedi straniere, e poi
questi stessi personaggi vengono
esautorati e sostituiti dai sardi.
Mentre la “vecchia” prestigiosa
piazza livornese diventa una «sede
consolare di rango inferiore rispetto
al passato».
La sezione sui «percorsi professionali», dopo un primo capitolo in
cui si esaminano il sistema delle pa-
430
tenti e delle istruzioni, l’usanza (sovente contrastata) di tenere le insegne presso le residenze consolari e
le modalità (molto diversificate) di
elargire compensi ed emolumenti – e
che segna l’apice della pratica della
comparazione all’interno del libro –
si concentra sul curriculum del console toscano e sull’identikit del console estero a Livorno. L’obiettivo è
delineare come i consoli arrivino a
costituire una sorta di «oligarchia»,
altamente professionalizzata e dotata
di un patrimonio di competenze trasmissibile. «Il profilo del suddito toscano adatto a rivestire un incarico
consolare non differiva […] molto da
quello richiesto negli altri Paesi». Il
segreto, per farsi scegliere, è coniugare l’animo del commerciante con
l’esperienza del funzionario, fidato
servitore mosso da «amorevole affetto» verso il proprio governo. Di solito si tratta di un cittadino fiorentino, che può usare il consolato
anche come rampa di lancio per una
carriera nelle magistrature della Dominante, e per eventualmente acquisire la nobiltà. Con la Restaurazione
non cambia granché: nella scelta si
tiene sempre conto della «moralità,
condotta e buona reputazione», oltre
che della «posizione sociale» e della
capacità di «disimpegnare le consolari ingerenze»; e la proposta delle
candidature rimane costantemente
a carico del Governatore di Livorno,
vero perno del sistema consolare toscano all’estero tra Sette e Ottocento.
Curioso il fatto che la dinastia asburgica non permettesse la copertura
delle carica ai religiosi, neppure in
via interinale.
Il console estero nella piazza labronica è invece tradizionalmente un
«negoziante», inteso quale soggetto
dotato di notevole disponibilità economica e di un’ampia rete di contatti
Recensioni e schede
personali, al fine di espletare al meglio le due funzioni che gli vengono
generalmente richieste: tutelare i
traffici dei connazionali «come fossero
i propri», informare il proprio governo
su tutto quello che accade nella sua
sede di residenza. Ciò non toglie che
i vari Stati abbiano orientamenti anche dissimili: i sovrani di Francia preferiscono uomini altolocati, con precedenti esperienze negli uffici
pubblici, che in loco non commercino
in prima persona (su quest’ultimo
punto non transigono neppure i Savoia e gli Hannover); agli spagnoli interessa che il console sia di cristallina
fede cattolica (ne vogliono controllare
anche le scelte matrimoniali!); gli
olandesi (ma anche gli svedesi) puntano sui mercanti e su persone “pratiche”; i veneziani badano molto alla
dote della «fedeltà»; i genovesi considerano molti elementi ma in linea di
massima preferiscono optare per chi
ha già fatto esperienza, magari al
fianco del padre (non sono mancate
difatti alcune dinastie consolari, la
più importante delle quali è proprio
quella dei Gavi a Livorno, di cui l’autrice parla nel libro, e che risulta
molto studiata dalla più recente storiografia genovese).
In definitiva, il libro di Marcella
Aglietti è frutto di una ricerca ampia
e originale, ed è uno strumento utile
per ben comprendere nelle sue sfaccettature e nelle sue vicende non
sempre ben lineari il passaggio della
figura del console da rappresentante
di una comunità mercantile, immerso in un orizzonte giuridico incerto e di carattere pattizio, a burocrate del nuovo Stato ottocentesco.
Riprendendo il titolo dell’ultimo capitolo, da console della “nazione” a
console dello Stato.
Paolo Calcagno
Emiliano Beri, Genova e La Spezia
da Napoleone ai Savoia. Militarizzazione e territorio nella Liguria dell’Ottocento, Città del Silenzio, Novi Ligure, 2014, pp. 240
Nel corso dell’Ottocento la Liguria
– così come molte altre parti della penisola toccate dall’epopea napoleonica
e dall’ascesa di casa Savoia – vide mutare drasticamente alcune aree del
proprio territorio sotto la spinta invasiva di una massiccia militarizzazione,
diretta risposta alle rapide innovazioni
in campo bellico che interessarono il
XIX secolo. Le città di Genova e La
Spezia, per effetto del loro rilievo strategico, furono protagoniste primarie
di quest’evoluzione militare, pur con
tempi e modi completamente diversi:
se per la prima si trattò del prosieguo
di un fenomeno già avviato da qualche
secolo, per la seconda determinò –
nelle parole di Emiliano Beri – una
vera e propria «genesi della città e
[del]le sue vie di sviluppo» (p. 8).
Proprio per questo motivo, l’autore
ha deciso di studiare due casi tanto
differenti in un approccio comparativo,
volto a indagare l’impatto che la militarizzazione ebbe sui centri liguri non
solo dal punto di vista strettamente
tecnico-militare, ma anche in relazione
al territorio, all’economia, alla demografia e all’urbanistica dei poli spezzino e genovese. La via seguita è stata
quella di un’analisi trasversale, tesa
per un verso a donare organicità a filoni di ricerca che fino a ora – almeno
in campo ligure – s’erano mossi prevalentemente su binari paralleli senza
dialogare in maniera proficua, e per
l’altro, grazie allo scavo di una vasta
documentazione archivistica in gran
parte inedita, ad ampliare significativamente con nuovi dati lo studio di
una fase tanto cruciale per lo sviluppo
delle due piazze liguri.
431
Recensioni e schede
La prima parte del lavoro si focalizza sui mutamenti subiti dall’area
del Golfo della Spezia. Se l’insediamento dell’Arsenale della Marina militare – a partire dalla metà dell’Ottocento – fu sicuramente il momento
di gran lunga più significativo per la
trasformazione del «grosso borgo sonnacchioso» (p. 17) levantino in una
delle maggiori basi navali della penisola italiana, Beri sceglie di principiare la sua trattazione con un salto
indietro, delineando il ruolo della
piazza e del territorio immediatamente circostante all’interno del sistema difensivo del Dominio di Terraferma genovese. I secoli XVII e XVIII
videro un graduale incremento delle
opere di fortificazione intorno al
Golfo, che assurse a caposaldo strategico della Riviera di Levante in virtù
della sua caratteristica di straordinario porto naturale, capace di attirare le pericolose mire dei concorrenti
della Repubblica nel controllo del Tirreno settentrionale. Caratteristica
questa che non mancò di suscitare
anche la viva attenzione di Napoleone, quand’egli designò idealmente
Spezia come «grande arsenale marittimo in funzione anti-inglese» (p. 24)
da sfruttare in concerto con Tolone
nel teatro mediterraneo, teorizzando
un fondamentale ribaltamento di
prospettiva che sarebbe poi stato
mantenuto in età sabauda: da sito
vulnerabile, possibile punto di pressione per un potenziale invasore e
dunque necessitante protezione,
l’area spezzina divenne un fulcro
ideale per operazioni offensive, da
sfruttare come polo navale per costruire, ospitare e rifornire una flotta.
Anche se la breve durata della cometa napoleonica non permise agli ingegneri imperiali di realizzare i loro
grandiosi piani, il portato dell’intensa
stagione progettuale francese si deli-
432
nea nell’analisi di Beri come un elemento fondamentale per lo straordinario salto compiuto dalla città sotto i
Savoia. È grazie agli scrupolosi sopralluoghi sul territorio effettuati in questo
periodo che per la prima volta si raggiunse una conoscenza dello Spezzino
«non solo descrittiva ma anche scientifica, sviluppata in funzione della progettazione dell’arsenale, della nuova
città, del sistema difensivo e, più in
generale, della necessità di governare
e amministrare» (p. 57). Gli anni Quaranta e Cinquanta dell’Ottocento videro la gestazione dei primi grandi lavori per la costruzione di infrastrutture
marittime nella zona del Varignano,
ma fu con la nascita della Marina militare italiana – nel novembre del 1860
– che Spezia subì un radicale mutamento della propria identità.
Per descriverne la complessa metamorfosi sotto la spinta cavurrina, lo
sguardo dell’autore attraversa diversi
quadri prospettici: le relazioni tra sviluppo militare e vocazione turistica
del borgo fino alla metà del XIX secolo,
la sua trasformazione in città, gli effetti demografici ed economici del veloce – e drasticissimo – cambiamento
del Golfo. Il risultato che emerge da
questo grande affresco è quello di «un
caso macroscopico e assolutamente
singolare di rapida, intensa e pervasiva militarizzazione, con rilevanti
conseguenze tanto sul tessuto urbano
quanto sul territorio circostante» (p.
213), tratteggiato da Beri con l’ausilio
di fonti di natura molto differente, e
proprio per questo esaustivo nella sua
profondità d’analisi.
L’unicità dell’esperienza spezzina
è ancor più evidente se comparata a
quella genovese, protagonista della
seconda parte del volume. Per questa
piazza la militarizzazione avvenuta
sotto la bandiera sabauda non rappresentò un fenomeno nuovo, ma
Recensioni e schede
piuttosto una prosecuzione – pur in
scala maggiore – degli interventi che
dal secondo Settecento al periodo napoleonico avevano interessato la città
e le sue difese. In questo caso la metodologia utilizzata nel lavoro permette di portare alla luce linee di sviluppo assai differenti da quelle
tratteggiate per Spezia: se il volto di
quest’ultima fu radicalmente modificato dalla presenza dell’Arsenale,
delle sue difese e del suo personale,
la documentazione archivistica studiata per Genova mostra come la
maggior parte degli interventi interessarono aree marginali rispetto al
tessuto cittadino – sia dal punto di
vista meramente geografico, sia per
il trascurabile valore economico delle
aree coinvolte – non comportando
dunque alcuna sensibile modifica
alla morfologia, alla demografia e all’economia del centro.
«Lungi dal generare una nuova
città e dal rappresentare un motore
industriale», si legge riguardo al capoluogo nelle conclusioni del volume,
«la militarizzazione – sebbene foriera
di ricadute positive sull’attività edilizia, e non solo – non influì nemmeno
sull’espansione dell’abitato, sebbene
andasse a incidere in modi diversi
(realizzazione di caserme, magazzini,
strade, piazze, acquedotti, ecc.) sul
tessuto urbano, secondo forme peraltro comuni ad altre città militari
coeve» (p. 213). Contestualmente, c’è
da rilevare come gli intenti con i quali
gli ingegneri dei Savoia posero mano
alla città murata, sancendone la definitiva trasformazione in piazzaforte,
partissero da presupposti differenti.
Oltre a contemplare un rafforzamento delle difese genovesi da possibili aggressioni esterne – e, in particolare, dalla minaccia francese – il
potenziamento dell’impianto fortificatorio e l’organizzazione dell’acca-
sermamento furono pensate per fornire in egual maniera ai nuovi padroni piemontesi una prudente capacità di sorveglianza sull’urbe,
nell’eventualità – non così remota –
di sollevazioni interne.
Beri individua in ultima analisi
nell’elemento del controllo stretto sul
territorio della città ottocentesca uno
dei tratti salienti che accomuna le
due esperienze liguri prese in esame,
evidenziandone le diverse declinazioni che le necessità particolari di
punti strategici tanto sensibili imposero ai dominatori nella progettazione
e nella costruzione dei loro nuovi centri militari.
Matteo Barbano
G. Ferraro, Il prefetto e i briganti. La
Calabria e l’unificazione italiana (18611865), Quaderni storici fondati da
Giovanni Spadolini, Le Monnier/Mondadori, Firenze, 2016, pp. 228
Il volume affronta la vicenda politica di Enrico Guicciardi, originario
della Valtellina, prefetto di Cosenza
tra il 1861 e il 1865, anno in cui
venne rimosso e trasferito a Lucca.
Partendo da fonti archivistihce pubbliche e private inedite e in particolare dai carteggi di Guicciardi con
esponenti di primo piano della
classe dirigente italiana (come Spaventa, Torelli, Visconti Venosta,
etc.), l’autore ricostruisce uno spaccato della storia della Calabria negli
anni immediatamente successivi
all’unificazione italiana. Emerge il
ritratto di un territorio influenzato
dai “signori della terra”, spesso manutengoli dei briganti e nella maggior parte intenzionati a mantenere
il controllo politico-economico sul
territorio, anche a costo di rallentarne i processi di rifoma e cambia-
433
Recensioni e schede
mento portati avanti dalle prime
classi dirigenti italiane.
L’autore nel suo lavora evidenzia
anche le dinamiche che portarono
all’esclusione di Guicciardi dal governo della provincia cosentina, nonostante si fosse addossato tutte le
responsabilità nella gestione del brigantaggio, preferendo all’uso esclusivo della forza repressiva anche soluzioni politiche e sociali. Infatti il
duro regime repressivo inaugurato in
molte province meridionali dopo
l’unità inflazionò non poco alcuni
problemi già radicati, non ultimo proprio quello del brigantaggio.
Il primo capitolo descrive la situazione in Calabria dal sistema borbonico a quello italiano, e l’arrivo di
Guicciardi alla prefettura di Cosenza.
Nel secondo capitolo particolarmente
interessante è la ricostruzione dei
rapporti tra Guicciardi e Pietro Fumel, originario di Ivrea, colonnello
della Guardia Nazionale e principale
artefice della repressione. Il terzo capitolo tratta invece le divergenze tra
potere militare e politico per quanto
riguardava il governo del territorio,
soprattutto con l’invio del generale
Emilio Pallavicini di Priola in Calabria. Il quarto delinea i diversi metodi
del “salutare terrore” messi in campo
dalle autorità per sconfiggere il brigantaggio. In questa parte si evidenzia l’inefficacia della legge Pica del
1863, il ruolo della Chiesa e di altre
parti sociali nella lotta al brigantaggio. Il quinto capitolo affronta invece
la questione dell’occupazione delle
terre demaniali da parte dei proprietari terrieri e i suoi riflessi sul brigantaggio. Conclude il libro il sesto
capitolo, con delle considerazioni generali sulla vita politica e le riforme
434
portata avanti in Calabria in quel
quinquennio; seguono due appendici:
una documentaria, con delle lettere
di Guicciardi, e una fotografica.
La pubblicazione si rivela in definitiva originale e utile per la comprensione non soltanto della storia
della Calabria nei primi anni unitari, ma anche dei diversi approcci
da parte del governo centrale alle
questioni territoriali. Giuseppe Ferraro riesce a descrivere con precisione i vari intrecci della vicenda,
evidenziando chiaramente le singole
responsabilità e i mezzi, più o meno
rigidi, per garantire stabilità a un
contesto particolarmente instabile
e delicato come la Calabria nella
fase postunitaria. Il prefetto Guicciardi emerge come personalità
complessa, combattiva, ma anche
sensibile ai problemi socio-economici del territorio.
Uno dei pregi del volume è, anche,
quello di porre l’attenzione sulla rilevanza dei carteggi nella ricerca storica. Infatti, grazie proprio a quest’approccio, il lavoro permette di far
capire con profondità e accuratezza
certe dinamiche politiche, sociali,
culturali nella fase postunitaria nel
Mezzogiorno. Infatti solo nei carteggi
privati gli esponenti della classe dirigente italiana potevano esprimere
con totale schiettezza e chiarezza alcune valutazioni sul processo unitario e le sue conseguenze. In conclusione, il volume si rivela un prezioso
quanto utile contributo, che getta
luce – direttamente e per riflesso –
su una delle pagine più controverse
della storia dell’unificazione italiana
nel Mezzogiorno.
Francesco Corigliano
Elena Sapienza
[email protected]
Dottore in Studi Storici, Antropologici e Geografici presso la Scuola di Scienze
Umane e del Patrimonio Culturale dell’Università di Palermo, ha conseguito nel
2013 il Diploma di Archivistica, Paleografia e Diplomatica presso l’Archivio di Stato
di Palermo e nel 2016 il diploma di master in Economia e Management dell’Arte e
dei Beni Culturali presso la Business School del Sole 24ore.
Rossella Cancila
[email protected]
Ordinario di Storia Moderna presso il Dipartimento Culture e Società dell’Università di Palermo, ha condotto ampie ricerche sulla Sicilia del Cinquecento, nel
contesto geopolitico del Mediterraneo e del sistema imperiale spagnolo (finanza di
guerra, fiscalità, rivolte). Successivamente ha orientato il suo interesse storiografico
sulle tematiche connesse all’esercizio della giurisdizione feudale in Sicilia in età
moderna, argomenti su cui ha pubblicato diversi saggi e più recentemente la monografia Autorità sovrana e potere feudale nella Sicilia moderna (2013). Nel 2015 ha
curato con Aurelio Musi il volume Feudalesimi nel Mediterraneo moderno. Si è inoltre interessata al tema della guerra e della frontiera nel mondo mediterraneo in età
moderna, coordinando tra l’altro la pubblicazione dell’opera Mediterraneo in armi
(secc. XV-XVIII) (2007). Ha pubblicato recentemente ricerche su temi connessi alla
cittadinanza, ai processi di integrazione (2014) e alle pratiche di identificazione tra
età medievale e prima età moderna (2015).
Marco Rafael Cañas Pelayo
[email protected]
Laureato in Storia presso l’Università di Córdoba (2010), dove è attualmente dottorando, e collaboratore onorario del Dipartimento di Storia Moderna, Contemporanea e dell’America. Discuterà entro l’anno la sua tesi dottorale Los judeoconversos
portugueses en el Tribunal Inquisitorial de Córdoba: Un análisis social (siglos XVIXVII, sotto la direzione del Prof. Enrique Soria Mesa. Ha pubblicato di recente vari
saggi sui giudeo-conversi portoghesi, tra cui: Los judeoconversos portugueses de la
Edad Moderna en la historiografía española: un estado de la cuestión («Revista de
Historiografía», n. 23, 2015), Tácticas y medidas de protección social: El establecimiento de comerciantes portugueses en el reino de Córdoba (siglos XVI-XVII) («Yakka»,
n. 20, 2015), e Judaizantes y malsines: redes criptojudías portuguesas durante el
seiscientos ante el Tribunal de Córdoba («Historia y Genealogía», n. 3, 2013).
n. 37
Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIII - Agosto 2016
ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online)
435
Gli Autori
María López Díaz
[email protected]
Professore associato e in posseso dal 2012 dell'abilitazione a cattedratica di Storia Moderna, è autrice di diversi studi monografici e di quasi un centinaio di articoli,
capitoli di libro, relazioni e comunicazioni a congressi scientifici. Ha dedicato gran
parte della sua attività di ricerca allo studio dei poteri e delle istituzioni locali e territoriali e dei conflitti giurisdizionali nel regno di Galizia. Recentemente ha studiato
il processo di (re)incorporazione di regalie al patrimonio regio. Tra le sue monografie
si ricordano Señorío y municipalidad. Concurrencia y conflicto de poderes en la ciudad de Santiago (ss. XVI-XVII) (Santiago de Compostela, 1997); o Jurisdicción e instituciones locales en la Galicia meridional (siglos XVI-XVIII) (Vigo, 2011). È anche
curatrice di volumi collettivi: Homenaje al profesor José Manuel Pérez García, 2 vols.
(I. Historia y cultura, II. Historia y modernidad) (Vigo, 2009); Élites y poder en las
monarquías ibéricas: del siglo XVII al primer liberalismo (Madrid, 2013) o il pù
recente Galicia y la instauración de los Borbones (en stampa). Nell’ultimo ventennio,
ha partecipato a diversi progetti di ricerca, gli ultimi dei quali da lei diretti. Ha
diretto anche il Departamento de Historia, Arte y Geografía de la Universidad de
Vigo (2008-2014) e dal 2009 la rivista Minius. Historia, Arte y Geografía.
Nicoletta Bazzano
[email protected]
Associato di Storia Moderna presso l’Università degli Studi di Cagliari. Si è occupata della storia politico-istituzionale e culturale del Cinque-Seicento nell’Italia spagnola e della storia del costume del Novecento. Ha poi lavorato sulla simbologia in
ambito politico, sviluppando una ricerca sull’allegoria femminile d’Italia dall’antichità ai giorni nostri. Attualmente sta approfondendo temi relativi alla storia e alla
storiografia della Sardegna in età moderna. Fra le sue pubblicazioni: Marco Antonio
Colonna (Roma 2003); La donna perfetta. Storia di Barbie (Roma-Bari 2008); Donna
Italia. L’allegoria della Penisola dall’antichità ai giorni nostri (Costabissara -Vi 2011).
Maria Pia Pedani
[email protected]
Associato di Storia dei Paesi Islamici presso l’università Ca’ Foscari di Venezia, in
precedenza ha prestato servizio per un ventennio presso l’Archivio di Stato di Venezia.
I suoi interessi scientifici vertono in particolare sulla storia dell’impero ottomano. Ha
pubblicato regesti di documenti ottomani (Documenti turchi e Lettere e scritture turchesche, 1994 e 2012) e le ultime relazioni ancora inedite degli ambasciatori veneti
a Costantinopoli (1996), oltre a volumi sugli ambasciatori ottomani a Venezia (1994;
traduzione in turco, 2011), gli accordi di pace tra cristiani e musulmani (1996), i confini veneto-ottomani (2001), Venezia e i paesi islamici (2010). È anche autrice di una
storia della gastronomia ottomana (2012). Nel 2013 è stata nominata socia onoraria
del Türk Tarih Kurumu (la Società nazionale di storia turca con sede ad Ankara).
Paola Issa
[email protected]
Dopo aver conseguito nel 2009 la laurea specialisica in Culture, Istituzioni e
Lingue dell’Eurasia e del Mediterraneo presso l’Università Ca’ Foscari con una tesi
sul viaggio in Egitto di Muḥibb al-Dīn al-Ḥamawī (978-981 AH/1571-1574 AD), continua a occuparsi di viaggiatori arabi e in particolare di quanti tra loro ebbero contatti con l’Europa in età moderna.
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Fotocomposizione e Stampa
FO TO G R APH S . r. l . - PAL E R MO
per conto dell’Associazione no profit “Mediterranea”
Agosto 2016