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Mediterranea-ricerche storiche, n. 37, agosto 2016.pdf

n° 37 Agosto 2016 Anno XIII Direttore: Orazio Cancila Responsabile: Antonino Giuffrida Comitato scientifico: Bülent Arı, Maurice Aymard, Franco Benigno, Henri Bresc, Rossella Cancila, Federico Cresti, Antonino De Francesco, Gérard Delille, Salvatore Fodale, Enrico Iachello, Olga Katsiardi-Hering, Salvatore Lupo, María Ángeles Pérez Samper, Guido Pescosolido, Paolo Preto, Luis Ribot Garcia, Mustafa Soykut, Marcello Verga, Bartolomé Yun Casalilla Segreteria di Redazione: Amelia Crisantino, Nicola Cusumano, Fabrizio D'Avenia, Matteo Di Figlia, Valentina Favarò, Daniele Palermo, Lavinia Pinzarrone Direzione, Redazione e Amministrazione: Cattedra di Storia Moderna Dipartimento Culture e Società Viale delle Scienze, ed. 15 - 90128 Palermo Tel. 091 23899308/329 [email protected] online sul sito www.mediterranearicerchestoriche.it Il presente numero è a cura di Nicola Cusumano Mediterranea - ricerche storiche ISSN: 1824-3010 (stampa) ISSN: 1828-230X (online) Registrazione n. 37, 2/12/2003, della Cancelleria del Tribunale di Palermo Iscrizione n. 15707 del Registro degli Operatori di Comunicazione Copyright © Associazione no profit “Mediterranea” - Palermo I fascicoli a stampa di "Mediterranea - ricerche storiche" sono disponibili presso la NDF (www.newdigitalfrontiers.com), che ne cura la distribuzione: selezionare la voce "Mediterranea" nella sezione "Collaborazioni Editoriali". In formato digitale sono reperibili sul sito www.mediterranearicerchestoriche.it. Nel 2015 hanno fatto da referee per "Mediterranea - ricerche storiche" Marcella Aglietti (Pisa), Joaquim Albareda Salvado (Barcelona), Stefano Andretta (Roma), Giovanni Assereto (Genova), Nicoletta Bazzano (Cagliari), Carlo Bitossi (Ferrara), Giuseppe Bonaffini (Palermo), Mauro Bondioli (Venezia), Salvatore Bono (Perugia), Lodovica Braida (Milano), Marina Caffiero (Roma), Sandro Carocci (Roma), Piero Corrao (Palermo), Giovanna Lucia D'Amico (Messina), Michela Del Borgo (Venezia), Piero Del Negro (Padova), Marina Formica (Roma), Francesco Gaudioso (Lecce), José Antonio Guillén Berrendero (Madrid), Feza Günergun (Istanbul), Francois-Xavier Leduc, Antonio Lerra (Potenza), Luca Lo Basso (Genova), Santiago Martínez Hernández (Madrid), Marco Morin (Venezia), Aurelio Musi (Salerno), Walter Panciera (Padova), Bruno Pellegrino (Lecce), Gianfranco Purpura (Palermo), Anna Maria Rao (Napoli), Ilaria Romeo (Firenze), Lisa Roscioni (Parma), José Javier Ruiz Ibáñez (Murcia), Lina Scalisi (Catania), Guri Schwarz (Pisa), Angelantonio Spagnoletti (Bari), Maria Antonietta Visceglia (Roma). 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Un primer acercamiento 273 María López Díaz La reforma del Consejo de Cruzada de 1745: preámbulo de su desaparición 319 Nicoletta Bazzano La leyenda negra continua...: la Sardegna viceregia nella narrativa sarda fra secondo Novecento e nuovo millennio 353 2. FONTI Maria Pia Pedani, Paola Issa Il viaggio dell’arabo Ra‘d di Aleppo a Venezia (1654-1656) 375 3. RECENSIONI E SCHEDE Elisa Bianco La Bisanzio dei lumi. L’impero bizantino nella cultura francese e italiana da Luigi XIV alla Rivoluzione (Andrea Ferruggia) 401 Cesarina Casanova Per forza o per amore. Storia della violenza familiare nell’età moderna (Valeria Cocozza) 407 Guido Candiani Dalla galea alla nave di linea. Le trasformazioni della marina veneziana (1572-1699) (Emiliano Beri ) n. 37 Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIII - Agosto 2016 ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online) 411 199 Indice Fabrizio D’Avenia La Chiesa del re. Monarchia e Papato nella Sicilia spagnola (secc. XVI-XVII) (Diego Pizzorno) 414 E. Novi Chavarria (a cura di) Ecclesiastici al servizio del Re tra Italia e Spagna (Daniele Palermo) 417 G. Foscari La gran machina della sollevatione. Due città e un capopopolo nella rivolta di Masaniello (1647-1648) (Daniele Palermo) 420 L. Braida S. Tatti (a cura di), Il Libro. Editoria e pratiche di lettura nel Settecento (Antonino Giuffrida) 422 Marcella Aglietti L’istituto consolare tra Sette e Ottocento. Funzioni istituzionali, profilo giuridico e percorsi professionali nella Toscana granducale (Paolo Calcagno) 426 Emiliano Beri Genova e La Spezia da Napoleone ai Savoia. Militarizzazione e territorio nella Liguria dell’Ottocento (Matteo Barbano) 431 G. Ferraro Il prefetto e i briganti. La Calabria e l’unificazione italiana (1861-1865) (Francesco Corigliano) 4. GLI AUTORI 200 433 435 201 Elena Sapienza I PROCESSI MATRIMONIALI DELLA CURIA ARCIVESCOVILE DI PALERMO (1399-1410)* DOI: 10.19229/1828-230X /37112016 SOMMARIO: I processi matrimoniali dei tribunali ecclesiastici costituiscono una fonte storica particolarmente interessante per chi desidera indagare determinati aspetti della storia sociale. Il presente saggio intende puntare l’attenzione su questa tipologia di fonte che, rispetto a studi condotti sugli archivi diocesani europei e dell’Italia settentrionale, in area mediterranea è ancora poco indagata. Vengono quindi proposti, seguendo le diverse tipologie e privilegiando la dottrina giuridica, alcuni casi di conflittualità coniugale portati innanzi alla Curia Arcivescovile di Palermo nel primo decennio del XV secolo, senza trascurare il contesto storico istituzionale dell’Arcidiocesi palermitana che, in quegli anni, viveva di riflesso la lacerazione della Chiesa a seguito dello Scisma d’Occidente. PAROLE CHIAVE: Medioevo, cause matrimoniali, tribunali ecclesiastici, Palermo, XV secolo. PALERMO ARCHBISHOP’S COURT MATRIMONIAL CASES (1399-1410) ABSTRACT: Marital trials of ecclesiastical courts account for a highly interesting historical source for scholars aimed to investigate certain aspects of social history. This essay aims at focusing on such kind of archival source that is still poorly analysed in the Mediterranean area, compared to the studies carried out on European and North Italian diocesan archives. Thus, hereunder we highlight some cases of conjugal conflict taken before Palermo Archbishop’s Curia in the first decade of the XV century, following the various typologies and preferring jurisprudence, without neglecting the historical institutional context of the Palermitan Archdiocese, which at that time lived the repercussions of Church laceration after the Western Schism. KEYWORDS: Middle Ages, matrimonial cases, ecclesiastical courts, Palermo, XV century. Premessa L’uso dei processi matrimoniali come fonte per la storia è stato rivalutato, sotto il segno della storia sociale, a partire dagli anni Ottanta del Novecento. Grande merito nella valorizzazione dei processi matrimoniali in ambito storico va attribuito alla storiografia di lingua inglese e in particolare alla monografia di Richard Helmholz sulla conflittualità matrimoniale fra la seconda metà del XIII e la fine del XV secolo1. Gli studi mitteleuropei, di lingua tedesca e confessione protestante, hanno rivolto l’attenzione alla ricostruzione storica dell’azione dei tri- * Abbreviazioni utilizzate: Asp = Archivio di Stato di Palermo; Cp = Corte Pretoriana; Ma = Miscellanea Archivistica. 1 R. Helmholz, Marriage Litigation in Medieval England, Cambridge University Press, 1974. n. 37 Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIII - Agosto 2016 ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online) 203 Elena Sapienza bunali e al tema del divorzio, inteso come scioglimento del vincolo matrimoniale, mostrando poco interesse per la dimensione patrimoniale dei rapporti coniugali e, di contro, una tendenza a leggere i registri dei tribunali matrimoniali come fonti per la storia delle donne e della trasgressività sessuale. L’Italia ha avviato i primi progetti di ricerca sul tema solo a metà degli anni Novanta del Novecento2. Senza trascurare la connessione con la storia delle donne e l’attenzione alla sessualità trasgressiva e alla coniugalità deviante, gli studi italiani hanno riportato l’analisi anche sul piano istituzionale, focalizzando la dimensione normativa, processuale e patrimoniale, tanto quanto la sfera dei sentimenti e della storia religiosa. Il mio lavoro intende porsi sul solco degli studi italiani sul tema, utilizzando gli atti processuali della Curia Arcivescovile di Palermo. L’obiettivo, oltre alla conoscenza dei singoli casi processuali, è fare luce sulla realtà della Curia Arcivescovile cittadina, sulla struttura e sul funzionamento del suo tribunale, sulla cultura giuridica dei suoi componenti; indagare le consuetudini nuziali a livello locale, osservare l’uso che uomini e donne facevano del tribunale e delle risorse giuridiche loro offerte per risolvere i propri conflitti. La realtà dei processi dei tribunali ecclesiastici è ancora poco indagata in area mediterranea; per quanto riguarda la Sicilia, è probabile che ciò sia dovuto alla carenza di materiale archivistico di età medievale negli archivi diocesani dell’Isola. Palermo non fa eccezione: le carte medievali nell’Archivio Storico Diocesano sono infatti quasi del tutto assenti, a parte il Tabulario della Cattedrale e le raccolte dei privilegi3. 2 Riveste particolare interesse quel filone di studi sui processi matrimoniali dei tribunali ecclesiastici avviato nel 1996 da un gruppo di studiosi di diverse nazionalità, promosso dall’Istituto storico italo-germanico di Trento (oggi Centro per gli studi storici italo-germanici) e dall’Università di Trento, che ha condotto una schedatura sistematica dei processi matrimoniali di alcuni archivi vescovili italiani, estendendo poi la scelta documentaria ad altre tipologie di fonti e diversificando l’indagine fino a comprendere, in chiave comparativa, i processi matrimoniali di tribunali non italiani. Il prodotto di tali ricerche multidisciplinari e dei seminari sono i preziosi quattro volumi della serie I processi matrimoniali degli archivi ecclesiastici italiani, a cura di Silvana Seidel Menchi e Diego Quaglioni. Questi i titoli delle pubblicazioni della serie: I. Coniugi nemici. La separazione in Italia (secoli XII-XVIII), Il Mulino, Bologna, 2000; II. Matrimoni in dubbio. Unioni controverse e nozze clandestine in Italia dal XIV al XVIII secolo, Il Mulino, Bologna, 2001; III. Trasgressioni. Concubinato, adulterio, bigamia (secoli XIV- XVIII), Il Mulino, Bologna, 2004; IV. I tribunali del matrimonio (secoli XV-XVIII), Il Mulino, Bologna, 2007. 3 Sull’archivio diocesano, cfr. F.M. Stabile, La storia della Chiesa di Palermo dai suoi documenti, in G. Travagliato (a cura di), Storia & Arte nella scrittura. L’archivio Storico Diocesano di Palermo a 10 anni dalla riapertura al pubblico (1997-2007). Atti del Convegno internazionale di Studi, Palermo 9 novembre 2007, Edizioni Associazione Centro Studi Aurora Onlus, 2008, pp. 39-49. 204 I processi matrimoniali della Curia Arcivescovile di Palermo (1399-1410) Tale carenza rende difficile non solo la ricostruzione dei processi matrimoniali, ma dell’intera storia della Chiesa locale. Le fonti da me utilizzate sono state il registro n. 3995 della Corte Pretoriana di Palermo, serie Esecuzioni e Missioni, e il n. 269 ter del fondo Miscellanea Archivistica, serie I4, conservate presso l’Archivio di Stato di Palermo. La mia analisi, per quanto limitata alla sola Curia palermitana, vuole essere un punto di partenza e magari uno spunto per ulteriori ricerche sul tema. Il Tribunale ecclesiastico L’analisi dei processi matrimoniali della Curia Arcivescovile palermitana non può prescindere dal contesto storico-istituzionale e dalle strette relazioni fra potere politico e potere ecclesiastico, che giocavano un ruolo determinante nel definire le politiche ecclesiastiche e le relative nomine5. Le vicende dell’arcivescovato erano strettamente intrecciate a quelle del papato che dal 1378 viveva l’esperienza del grande scisma. La presenza di due papi non determinava solo l’esistenza di due collegi cardinalizi, ma soprattutto una lotta di politica ecclesiastica che si giocava all’interno delle singole diocesi. La Chiesa siciliana6 era lacerata e la situazione ecclesiastica confusa, visto che si obbediva contemporaneamente al papa romano Bonifacio IX e ai Martini, si sovrapponevano provvedimenti pontifici, regi e diocesani, spesso contrastanti7. Come nella classe dirigente siciliana, nella gerarchia ecclesiastica avvenivano sostituzioni e nomine di vescovi catalani obbedienti ad Avignone. Il governo aragonese esercitava il suo controllo sull’episcopato e sulla Chiesa locale anche attraverso 4 Solo il Quaternus registri litterarum presenta carte numerate con numerazione moderna da 1 a 11; le altre carte non presentano numerazione e sono state da me numerate e indicate, per motivi praticità, in base all’ordine successivo in cui sono rilegate. 5 Geneviève Bresc Bautier divide idealmente la storia ecclesiastica siciliana in tre periodi: il tempo delle incoronazioni, che aveva conosciuto una forte partecipazione della Cattedrale palermitana alla resistenza e all’affermazione nazionale; il tempo dei pastori, cioè di vescovi in parte scelti da Avignone e quindi espressione della politica beneficiale pontificia; infine il tempo dei viceré che avrebbe visto la Sicilia integrata dalla monarchia castigliana nella Sacra Corona di Aragona (G. Bresc Bautier, La Cattedrale nella società palermitana dal 1300 al 1460, in L. Urbani (a cura di), La cattedrale di Palermo. Studi per l’ottavo centenario della fondazione, Sellerio, Palermo, 1993, pp. 123-132). 6 Sulla Chiesa in Sicilia durante lo scisma, cfr. S. Fodale, Alunni della perdizione. Chiesa e potere in Sicilia durante il grande scisma (1372- 1416), Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Nuovi Studi Storici n. 80, Roma, 2008. 7 Sul pontificato di Bonifacio IX e i suoi rapporti con la Sicilia, cfr. S. Fodale, Documenti del pontificato di Bonifacio IX (1389-1404). Documenti sulle relazioni tra la Sicilia e il Papato tra Tre e Quattrocento, Ila Palma, Palermo, 1983; Id., Alunni della perdizione cit., pp. 445-463. 205 Elena Sapienza il controllo del Capitolo della Cattedrale palermitana, modificandone la composizione8. Il Tribunale Arcivescovile di Palermo era dunque solo formalmente autonomo dal potere regio, visto che i suoi componenti erano nominati dall’autorità ecclesiastica; a presiederlo era l’arcivescovo o il suo vicario assistito da un giudice assessore e da un notaio. I processi venivano celebrati nel palazzo arcivescovile e terminavano con la pubblica lettura della sentenza nel palazzo stesso o nell’atrio della Cattedrale. I casi processuali più comuni erano per lo più scioglimento di matrimoni, controversie ereditarie e restituzione di oggetti, esecuzioni, possesso di benefici e scioglimento di censi. L’arcivescovo di Palermo, scelto dal re d’Aragona nel maggio del 1400, in contrasto con il figlio Martino, re di Sicilia, era il nobile ecclesiastico catalano Giovanni da Procida9. Questi risulta impegnato, il 30 luglio 1408, nella causa sul presunto matrimonio fra Giovanna de 8 Le carte processuali qui analizzate presentano alcuni personaggi del Capitolo della cattedrale palermitana. Tra i canonici fedeli ai Martini segnalo Simone Rosso, presente, il 16 novembre 1407, in Maiori Ecclesia panormitana, alla lettura della sentenza, emessa da Rainaldo de Buxia, canonico e vicario della Cattedrale di Palermo, che dichiara nullo il matrimonio tra Floria, figlia del notaio Simone de Lanselloctis di Trapani, e Onofrio de Fasana della stessa terra (Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, c. 42v). La stessa sentenza veniva letta dinnanzi a Giovanni de Pontecorona, ciantro Maioris Ecclesie Panormi, che sappiamo citato, sette anni prima, presso la Curia Arcivescovile di Palermo da Aloisio de Virdina, fratello ed erede del defunto canonico e cantore della Cattedrale Paolo, a causa del prestito di denaro pro certis bullis fatto da quest’ultimo in favore del Pontecorona (P. Sardina, Palermo e i Chiaromonte: splendore e tramonto di una signoria. Potere nobiliare, ceti dirigenti e società tra XIV e XV secolo, Sciascia Editore, Caltanissetta - Roma, 2003, p. 75). Il documento del 10 luglio 1409 (Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, c.78v) riguardante la curatela dei beni di Nicolò Caruso, prigioniero dei Saraceni, ci presenta invece Guglielmo de Graciano, prepositus della maramma della Cattedrale di Palermo. Su Guglielmo de Graciano, cfr. P. Sardina, Il ruolo della Cattedrale di Palermo e la gestione della maramma dal Vespro alla morte di Alfonso V (1282-1458), in G. Travagliato (a cura di), Storia & Arte nella scrittura cit., pp. 160-161. 9 Giovanni da Procida si recava in città solo l’anno successivo, senza però avere ottenuto la consacrazione canonica che, secondo gli accordi conclusi dal re di Sicilia con i Palermitani, avrebbe dovuto ricevere da Bonifacio IX, non dal papa avignonese Benedetto XIII, del quale era sostenitore. Pronto ad abbandonare la Sicilia, nel 1407 chiedeva al papa avignonese l’assoluzione per l’elezione, de facto e non de iure, ad arcivescovo di Palermo, in modo da regolarizzare la sua posizione. Ottenuto il perdono del papa e la donazione dei redditi episcopali già percepiti, venne da questi riconfermato arcidiacono di Elne, a condizione di rinunciare all’amministrazione di Palermo. Adirati dal fatto che Giovanni da Procida fosse tornato all’obbedienza avignonese, i canonici palermitani e il Capitano di Palermo nel 1408 consideravano vacante l’arcivescovato, poiché non aveva ricevuto la consacrazione dal papa romano. Nel 1410 Giovanni da Procida abbandonava Palermo per entrare nella Curia di Benedetto XIII come notaio apostolico (S. Fodale, Palermo e il capitolo della sua cattedrale dal Vespro al Viceregno (1282-1412), «Archivio storico del Sannio», I (1996), pp. 351-354). Su Giovanni da Procida, cfr. R. Pirri, Sicilia sacra, disquisitionibus et notitiis illustrata, r. a. Forni, Sala Bolognese, 1987, vol. I, pp. 167-168. 206 I processi matrimoniali della Curia Arcivescovile di Palermo (1399-1410) Montecuttulo e Benedetto de Bonamico10. La donna sosteneva di essere moglie del Bonamico, il quale però negava. La Curia Arcivescovile le concedeva sei mesi per presentare le prove del presunto matrimonio. La presenza dell’arcivescovo è confermata nella narratio di un’altra sentenza del 14 novembre 1409, relativa al medesimo caso, in cui si ricordava che la donna era convenuta dinnanzi al «domino Iohanne de Procida, archiepiscopo panormitano, in suo palacio et in eius episcopali curia coram eius vicario et iudice pro tribunali sedentibus et dictam curiam more solito regentibus»11. Il 10 ottobre 1409 Giovanni da Procida, «electus in archiepiscopatu maioris ecclesie Panormi», assolveva, nel palazzo arcivescovile, Agata de Pagano dall’accusa di adulterio e duplice matrimonio mossa dal marito Antonio de Sirina di Bivona, per mancanza di prove, dicendosi però disposto a rendere giustizia all’accusatore12. I casi di adulterio erano molto frequenti; in particolare quelli commessi per insultum vel violenciam dovevano essere puniti sia dal tribunale ecclesiastico sia dalle istituzioni laiche, mentre le controversie relative ai chierici erano sottoposte alla competenza del foro ordinario per le cause secolari. Il foro giudicava secondo il diritto canonico, riveduto e corretto dai decreti papali, e il suo iter processuale seguiva la tradizione del diritto romano. La denuncia veniva registrata e si dava inizio al processo con l’avviso di convocazione delle parti in curia, chiarendone le motivazioni; il giudice poteva ordinare la carcerazione preventiva, era tenuto al rispetto delle regole della pubblicità del giudizio, del dibattimento pubblico fra accusa e difesa, dell’ascolto pubblico dei testimoni. Ricevuta la notifica della convocazione dinnanzi al giudice, attore e convenuto dovevano presentare le prove di accusa o di difesa e nominare i testimoni che spesso, alla fine del giudizio, erano poi anche i fideiussori della pena13. La Corte Arcivescovile palermitana godeva del doppio grado di giudizio: di prima istanza per le cause della propria diocesi e di seconda istanza per gli appelli contro sentenze emesse dai tribunali delle diocesi suffraganee di Agrigento, Mazara e Malta. Il sistema giurisdizionale ec- Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, c. 26 r. Ivi, cc. 118 r-119 r. 12 Ivi, c. 146 r. 13 B. Pasciuta, In regia curia civiliter convenire. Giustizia e città nella Sicilia Tardomedievale, Giappichelli, Torino, 2003, p. 221. Sull’iter processuale, cfr. M.S. Messana, Rito ordinario e rito sommario nei tribunali ecclesiastici in Sicilia, in G. Travagliato (a cura di) Storia & Arte nella scrittura cit., pp. 111-140. Sulle pratiche di negoziazione come strumento di soluzione dei conflitti matrimoniali e sulle funzioni dei giudici, cfr. D. Lombardi, Giustizia ecclesiastica e composizione dei conflitti matrimoniali (Firenze, secoli XVI-XVIII), in S. Seidel Menchi, D. Quaglioni (a cura di), I Tribunali del matrimonio (secoli XV-XVIII), Il Mulino, Bologna, 2007, pp. 578-591. 10 11 207 Elena Sapienza clesiastico era dunque gerarchico: le sentenze emanate dai tribunali delle varie diocesi del Val di Mazara potevano essere appellate presso la Curia Arcivescovile di Palermo e, a sua volta, l’ultima fase di appello faceva capo al sommo Pontefice. Proprio quest’ultima possibilità, che si riscontra in Sicilia già a fine XIV secolo, contrastava con le prerogative concesse al re di Sicilia quale legato apostolico e per questo si cercava di evitarla; era interesse della monarchia aragonese ripristinare l’effettiva funzione dell’Apostolica Legazia14 al fine di subordinare la giurisdizione spirituale al proprio potere15. La Curia Arcivescovile faceva spesso ricorso a giuristi esterni, anche appartenenti alle sfere del sistema giudiziario laico. Stupisce la trascrizione di atti del Tribunale Arcivescovile su un registro16 della Corte Pretoriana, tribunale civile palermitano; tale anomalia trova probabile spiegazione nei rapporti che intercorrevano fra i due tribunali e nella circolazione degli operatori di giustizia fra le due giurisdizioni17. La sentenza di nullità del matrimonio tra Floria, figlia del notaio Simone de Lanselloctis di Trapani, e Onofrio de Fasana, ci offre un buon esempio di quanto appena detto; la sentenza è lata lecta et pronunciata alla presenza anche di alcuni personaggi non direttamente legati al clero, ma attivi nell’amministrazione giudiziaria cittadina: il dominus Ruggero de Birliono, legum doctor, il dominus Giovanni de Solibona dictus Camberlingus, i notarii Migliore e Giovanni de Lippo18. 14 Cfr. S. Fodale, L’apostolica legazia e altri studi tra Stato e Chiesa, Sicania, Messina, 1991; Id., Stato e Chiesa dal privilegio di Urbano II a Giovan Luca Barberi, in R. Romeo (a cura di), Storia della Sicilia, III, Napoli 1980, pp. 575-600; Id., Legazia Apostolica, in Enciclopedia Federiciana (2005), sul web: http://www.treccani.it/enciclopedia/legaziaapostolica_(Federiciana)/. 15 A. Giuffrida, La giustizia nel medioevo siciliano, U. Manfredi editore, Palermo, 1975, pp. 98-103; sulla riforma istituzionale del tribunale ecclesiastico in età moderna e il suo archivio, cfr. M. Messina, Gli archivi dei due uffici della Magna Curia Archiepiscopalis di Palermo: l’Offizio della Gran Corte Arcivescovile e il Tribunale della Visita, in G. Travagliato (a cura di) Storia & Arte nella scrittura cit., pp. 201-245. 16 Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995. 17 Il fatto che, in assenza del vicario, il foro ecclesiastico trovasse appoggio in quello ordinario civile – o quantomeno nella sua cancelleria – testimonia un saldo legame fra i due fori, del quale non vi è traccia in alcuna normativa, ma che evidentemente era legittimato dalla prassi e non richiedeva alcuna particolare spiegazione lì dove tale commistione avveniva (B. Pasciuta, Scritture giudiziarie e scritture amministrative: la cancelleria cittadina a Palermo nel XIV secolo, «Reti Medievali Rivista», IX (2008), pp. 16-17). Sull’argomento, cfr. anche B. Pasciuta, In regia curia cit., pp. 221-222. 18 Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, c. 42v. Su Ruggero de Berliono, cfr. P. Corrao, Governare un regno. Potere, società e istituzioni in Sicilia fra Trecento e Quattrocento, Napoli, 1991, p. 534; M. Moscone, Notai e giudici cittadini dai documenti originali palermitani di età aragonese (1282-1391), «Quaderni della Scuola di Archivistica Paleografia e Diplomatica dell’Archivio di Stato di Palermo – Studi e strumenti», VI, Palermo, 2008, p. 232; A. Romano, Legum doctores e cultura giuridica nella Sicilia aragonese. Tendenze, opere, ruoli, Milano 1984, pp. 77 e 102, n.189. 208 I processi matrimoniali della Curia Arcivescovile di Palermo (1399-1410) In tre processi esaminati figura, quale giudice assessore del vicario della Cattedrale Rainaldo de Buxia, il giudice Federico de Vaccarella, iuris civilis professor19. Ad assistere alla lettura della sentenza di nullità del matrimonio di Allegranza de Silente de Salem e Antonio de Messana troviamo invece i notai Giovanni de Iudice Facio e Vittorino Blundo20. Nei documenti studiati compaiono anche alcuni servientes della Corte Pretoriana (il personale a disposizione dell’ufficio giudiziario addetto alla materiale esecuzione delle decisioni del tribunale): Guglielmo, Chicco e Tommaso Ferrarius, Bernardo de Ramundecta21 e Filippo de Naso22. I servientes, oltre alla mansione esecutiva, spesso venivano nominati d’ufficio come tutori, curatori dei beni o rappresentanti legali di convenuti assenti e dunque intervenivano direttamente in giudizio. Le cause matrimoniali della Curia Arcivescovile di Palermo (1399-1410) I processi matrimoniali analizzati coprono un arco cronologico compreso fra il 1399 e il 1410; i due registri oggetto di studio non riportano i fascicoli processuali, per cui spesso s’ignorano i motivi di certe decisioni. Le cause matrimoniali riguardano diverse materie, per lo più nullità, accertamenti su matrimoni incerti, richieste di annullamento di sponsalia, accuse di adulterio e bigamia. L’analisi procede seguendo le diverse tipologie e privilegiando la dottrina giuridica. Il registro n. 3995 della Corte Pretoriana contiene cinquantaquattro documenti relativi all’ambito delle dispute matrimoniali; da un punto di vista formale si individuano le seguenti tipologie: ventotto fideiussioni, diciotto cedole, quattro sentenze, tre esecuzioni23, una contumacia24. I documenti relativi a processi matrimoniali nel registro n. 269 ter della Miscellanea Archivistica sono invece undici, tutti contenuti nel 19 Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, cc. 42v-43v. Il ricorso del foro ecclesiastico a giudici del foro laico trova qui conferma: il giudice Federico de Vaccarella, iuris peritus, nell’anno 1389-90 era infatti sostituto del Giudice in carica della Corte Pretoriana, incarico quell’anno ricoperto da Ruggero de Birliono, nella controversia fra Nicola Blundi e Francesco de Nicolao (B. Pasciuta, In regia curia cit., pp. 139 e 305; M. Moscone, Notai e giudici cittadini cit., p. 189). 20 Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, c. 43r. Giovanni de Iudice Facio era «imperiali auctoritate ubique iudex ordinarius ac archiepiscopali in urbe Panormi et tota eius dyocesi publicus notarius». Fra i notai più attivi come procuratori per i giudizi della Corte Pretoriana, con ogni probabilità apparteneva alla famiglia di origini lentinesi che annoverava fra gli altri i notai Simone de Iudice Facio e Catone de Iudice Facio de Panormo, oltre ai giudici Fazio de Lentino e Fazio de Iudice Facio, rispettivamente padre e figlio di Simone (M. Moscone, Notai e giudici cittadini cit., pp. 100-101). 21 Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, cc. 9v; 118r-119r; 119v; 120v. 22 Ivi, cc. 26v e 88r. 23 Ivi, cc. 4r e 9v. 24 Ivi, c. 88r. 209 Elena Sapienza registro delle cedole. Dal punto di vista del contenuto si tratta di quattro cause riguardanti l’annullamento di matrimonio (per crudeltà del marito o contratti per vim e metum), due annullamenti di sponsalia, due accertamenti di avvenuto matrimonio, un accertamento della legittimità del matrimonio contratto fra affini, una causa per ritorno al tetto coniugale della moglie ed una per il rispetto degli obblighi contrattuali del matrimonio (consegna della sposa e della dote). La dottrina del consenso e gli usi nuziali in Sicilia Il matrimonio del tardo medioevo era un matrimonio per tappe, un percorso, non un evento istantaneo e puntuale; era pertanto difficile situare in un momento preciso l’inizio del vincolo coniugale. Gli usi e i riti del matrimonio medievale erano variabili nel tempo e nello spazio, quindi presentavano diversi caratteri regionali. La Chiesa dei primi secoli aveva legiferato poco sul matrimonio, accettando la nozione giuridica del consensualismo romano. Nel XII secolo i tribunali ecclesiastici e lo stesso tribunale papale dovettero affrontare il problema della definizione del matrimonio e della sua validità. La disputa verteva tra la dottrina del consenso e quella fondata sulla consumazione quale elemento essenziale per la pienezza del matrimonio. Era opinione diffusa che il matrimonio non consumato fosse incompleto, tanto che la Chiesa provvide ad accettare l’annullamento in caso di impotenza coeundi. Essa però non poteva affermare che il matrimonio non consumato fosse imperfetto, perché avrebbe sminuito quello di Giuseppe e Maria, cioè il matrimonio perfetto25. I teologi francesi, partendo dalle Sentenze di Pietro Lombardo, dimostravano interesse per il matrimonio come sacramento, cioè come unione di Cristo con la sua Chiesa, presentando un’esposizione completa della teologia del matrimonio e apportando un contributo essenziale alla dottrina della conclusione del contratto matrimoniale26. Il punto di vista espresso da Pietro Lombardo e dai teologi francesi ripristinava il concetto di fidanzamento (sponsalia) dimenticato da tempo e ignorato dai canonisti, che continuavano a parlare di desponsatio, termine ambiguo che, indicando sia la promessa che il contratto di matrimonio, dava luogo a inevitabili problemi. La soluzione dei teologi fu quella di distinguere tra le parole del consenso presente (verba de presenti), dopo le quali non era più possibile contrarre matrimonio con altri, e le parole del consenso futuro (verba de futuro) che sanci- 25 26 210 C. Brooke, Il matrimonio nel Medioevo, Il Mulino, Bologna, 1991, pp. 135-145. J. Gaudemet, Il matrimonio in occidente, Sei, Torino, 1989, pp. 33-35 e 132-134. I processi matrimoniali della Curia Arcivescovile di Palermo (1399-1410) vano solo la promessa di matrimonio. Il consenso, da solo, non il coito, rendeva valido un matrimonio, nei termini della sua forma presente. La rottura del fidanzamento comportava sanzioni religiose, ma era possibile, come possibile rimaneva contrarre un altro matrimonio. Papa Alessandro III non considerava invece i verba de futuro come promessa ma come matrimonium initiatum, che diventava ratum dopo la consumazione27. Le due diverse posizioni sulla validità e sull’inizio del matrimonio avevano una certa importanza anche rispetto al tema della separazione (il matrimonium initiatum era solvibile, quello ratum no), pur mancando ancora una coerente disciplina dell’istituto. Alla fine del XII s’imponeva la distinzione proposta dai teologi francesi: fu così che la legge sulla validità del matrimonio venne fissata, ponendo il consenso alla base del vincolo. Il trionfo del consensualismo creava non pochi problemi ai tribunali ecclesiastici che erano chiamati a decidere se il consenso fosse stato dato, se le parole avessero stabilito un contratto indissolubile o meno28. La difficoltà era accentuata dal fatto che non c’era bisogno di alcuna cerimonia pubblica per rendere valido il matrimonio; oltretutto l’importanza data al consenso poneva problemi circa la reale libertà degli sposi e il loro libero consenso, visto che grande ruolo avevano le famiglie nell’accordo matrimoniale. Le donne spesso reagivano o cercando di annullare il matrimonio davanti al tribunale ecclesiastico o rifugiandosi in convento o facendo voto di castità per sfuggire alla politica matrimoniale della famiglia29. Il matrimonio si configurava quindi, grazie all’apporto di teologi e canonisti, come sacramento e contratto al contempo. Gli sposi fungevano ora da ministri del sacramento che stavano celebrando. La Chiesa coniugava così la tradizione consensualista romana, che faceva dei coniugi gli unici attori del contratto matrimoniale, con la propria teologia: lo scambio delle parole di consenso diventava il settimo sacramento della Chiesa e la benedizione delle nozze si riduceva invece a rito secondario. Se infatti la scelta consensualista dava la possibilità di presentare come perfetta l’unione non consumata di Maria e Giuseppe, aveva come conseguenza il fatto che non fosse il prete, con la 27 J. Goody, Famiglia e matrimonio in Europa. Origini e sviluppi dei modelli familiari dell’Occidente, Mondadori, Milano, 1984, pp. 173-175. 28 G. Marchetto, Il divorzio imperfetto. I giuristi medievali e la separazione dei coniugi, Il Mulino, Bologna, 2008, pp. 43-50. Sull’apporto di decretisti e teologi e sulle diverse prospettive della Scuola bolognese e di quella parigina, cfr. E. Vitali, S. Berlingò, Il matrimonio canonico, Giuffrè, Milano, 2012, pp. 4-12. 29 C. Opitz, La vita quotidiana delle donne nel tardo medioevo (1250-1500), in G. Duby, M. Perrot, Storia delle donne in Occidente. Il Medioevo, a cura di C. KlapischZuber, Laterza, Roma-Bari, 1990, pp. 337-340. 211 Elena Sapienza celebrazione, a formare il vincolo matrimoniale: l’unione era valida anche senza la sua benedizione30. In Sicilia la celebrazione del matrimonio prevedeva un rituale religioso in facie ecclesie. La legge XXII (De maritandis ordinis) delle Constitutiones Regni Sicilie31 distingueva i due atti solenni e costitutivi del matrimonio, sponsalia e matrimonium, e prescriveva che dopo il fidanzamento (ossia la promessa per verba de futuro) il matrimonio venisse celebrato solennemente e pubblicamente, secondo le forme richieste e con la benedizione del sacerdote. Coloro che non seguivano le disposizioni non contraevano iuxtae nuptiae. Le cerimonie seguivano dunque tali leggi, mentre gli interessi dei coniugi erano retti dalla consuetudine32. A volte, dopo il fidanzamento, potevano essere adottate misure precauzionali per preservare la verginità della fanciulla ed evitare che si impegnasse con un altro uomo; è il caso di Domenica de Sancto Philadello: il padre della ragazza, Giovanni, era morto e Domenica era stata trasferita al monastero di Santa Maria di Valverde di Palermo. Guccione Favata e Luca Cacthano il 26 febbraio 1410 prestavano fideiussione dinnanzi alla Curia Arcivescovile di Palermo, perché la ragazza non contraesse matrimonio con alcun altro, sotto pena di cinquanta onze33. Con il tempo l’andare in chiesa cadde in disuso, tanto che si cercò di rimediare proibendo ai preti di recarsi nelle case per i matrimoni. Nel XV secolo a Palermo, dove prevalse il rito latino, fu accolta una terza cerimonia (oltre gli sponsalia e il matrimonium), tipica del rito greco e che rimase a lungo: quella di portarsi, dopo il matrimonio, in chiesa solennemente per un’ulteriore benedizione. Dunque gli atti costitutivi del matrimonio palermitano erano tre: jurari, ossia il giuramento, la promessa; ingagiari, cioè mettere l’anello al dito, quindi il matrimonio vero e proprio (dalla wadia germanica); spusari, ovvero recarsi in chiesa34. I rituali non erano condizione per la validità del matrimonio e non sempre consentivano di distinguere tra promessa e matrimonio, tra il consenso espresso per verba de presenti e quello espresso per verba de futuro. I riti nuziali sarebbero cambiati nel 1563 quando il Concilio 30 J. Gaudemet, Il matrimonio in occidente cit., pp. 103-112. Sul corpus iuris e sul diritto canonico, cfr. J. Gaudemet, Il diritto canonico, Giappichelli, Torino, 1991, pp.1318; U. Baumann, Come il matrimonio diventò sacramento. Breve sommario di una storia difficile, in S. Seidel Menchi, D. Quaglioni (a cura di), I Tribunali del matrimonio cit., pp. 239-251. 31 Cfr. F. Brandileone, Il diritto romano nelle leggi Normanne e Sveve del Regno di Sicilia, Torino, 1884. 32 C.A. Garufi, Ricerche sugli usi nuziali nel Medio Evo in Sicilia, Reber, Palermo, 1897, pp.30-39. 33 Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, c. 128r. 34 C.A. Garufi, Ricerche sugli usi nuziali cit., pp. 52-62. 212 I processi matrimoniali della Curia Arcivescovile di Palermo (1399-1410) di Trento, che produsse il De reformatione matrimonii col capitolo I Tametsi e i 12 canoni, avrebbe introdotto l’obbligo di una pubblica e solenne cerimonia in chiesa, dinnanzi al proprio parroco, con una forma specifica e sempre uguale in ogni luogo. La nuova disciplina matrimoniale non sarebbe stata recepita ovunque con la stessa rapidità, a causa delle molte resistenze e delle consuetudini comunitarie35. I matrimoni clandestini e presunti Non essendo obbligatoriamente celebrato in pubblico, il matrimonio era pluriforme e precario. I matrimoni clandestini erano celebrati in segreto, privi di qualsiasi forma di pubblicità o senza il consenso dei genitori. Erano unioni valide, ma difettavano di notorietà. Naturalmente erano questi tipi di matrimonio a costituire una delle principali cause di conflittualità giudiziaria. La maggior parte erano richieste di riconoscimento dell’avvenuta stipula del contratto matrimoniale che davano quindi vita ai relativi accertamenti, allo scopo di fare chiarezza sulla sussistenza o insussistenza del vincolo. I conflitti riguardanti unioni controverse e incerte erano frutto della norma del consenso, che poteva essere momentaneo, ritirato dopo anni di convivenza, espresso con riserva mentale, ambiguo, oppure finto, usato come espediente di seduzione. Un uomo poteva disconoscere un matrimonio anche dopo diversi anni e dopo la nascita di figli legittimi. Spesso sfruttava la clandestinità per abbandonare la moglie e tornare libero. L’uso, che ritroviamo in molti documenti dei processi matrimoniali, di chiamare sponsus/sponsa non solo i fidanzati, come avrebbe dovuto essere, ma anche i coniugi, creava ulteriore confusione; esso trovava origine nella dottrina di Graziano, per il quale la desponsatio non era il fidanzamento, ma il primo momento (matrimonium initiatum) dell’iter che avrebbe portato, con la carnalis copula, alla conclusione di un matrimonio perfettamente indissolubile. Questo uso spesso indifferente e interscambiabile dei termini, nonostante corrispondessero a due momenti giuridicamente distinti, induce in confusione quando analizziamo certe cause matrimoniali36. Sono molte le cause in cui si cerca di stabilire l’esistenza di un vincolo matrimoniale negato da una delle due parti. Provare l’esistenza 35 D. Lombardi, Storia del matrimonio dal Medioevo a oggi, Il Mulino, Bologna, 2008, pp. 21-30. Cfr. anche I. Fazio, Percorsi conugali nell’Italia moderna, in M. De Giorgio, Ch. Klapisch-Zuber (a cura di), Storia del matrimonio, Laterza, Roma-Bari, 1996, pp. 151-214. 36 J. Goody, Famiglia e matrimonio in Europa cit., p.175-206; S. Seidel Menchi, Percorsi variegati, percorsi obbligati. Elogio del matrimonio pre-tridentino, in S. Seidel Menchi, D. Quaglioni (a cura di), Matrimoni in dubbio cit., pp.17-60. 213 Elena Sapienza e quindi l’avvenuto scambio di consensi era difficile, specie in assenza di testimoni. La Chiesa tendeva ad assimilare la convivenza ai matrimoni presunti, poiché era incline a pensare che essa, soprattutto fra persone appartenenti allo stesso ceto sociale, fosse manifestazione esteriore del consenso dei conviventi, che creava un vincolo indissolubile37. La teoria del matrimonio presunto faceva rientrare coloro che vivevano fuori del matrimonio nelle categorie del diritto. Il matrimonio presunto era difficile da provare tanto quanto quello clandestino: la consumazione, al pari della promessa, era spesso segreta, per cui se uno voleva sottrarsi al matrimonio non doveva fare altro che negare l’una o l’altra. Quand’anche si fosse dimostrato l’avvenuto scambio del consenso, si doveva poi capire se si fosse trattato di promessa o di matrimonio, appellandosi all’uso dei tempi verbali utilizzati dalle parti. Se il giudice riusciva a stabilire che le due condizioni (promessa e consumazione) si erano avverate, esigeva allora la solennizzazione in facie ecclesie del matrimonio entro un certo termine di tempo, così da rimediare al vizio di notorietà. La sentenza giudiziaria non creava il vincolo ma si limitava a constatarne l’esistenza o l’inesistenza. La celebrazione era solo un atto di pubblicità di un’unione già avvenuta ma che era rimasta clandestina. La maggior parte di processi, se non si riconosceva il vincolo, si risolvevano in una dichiarazione di nullità38. Le cause di accertamento di matrimoni incerti o presunti sono la seconda tipologia di processo più frequente all’interno dei due registri studiati (undici casi) e per la maggior parte si concludono con il non riconoscimento del vincolo, dunque con una nullità. Sono considerati matrimoni mai contratti quelli fra Fanella e Antonio Surrintino39 e fra Munduchio de Renda e Simona de Buctono di Marsala40, ai quali veniva dunque concessa licenza di risposarsi, e il matrimonio fra Nardo de Brancacio e Milina, vedova di Nicolò de Chaso41. Particolare interesse riveste la causa fra Giovanna de Monticuculu, figlia della bolognese Goffreda, e il legum doctor Benedetto de Bonamico42. La donna pretendeva di essere la moglie del Bonamico e il 30 luglio 1408 chiedeva alla 37 Cristellon, La percezione del matrimonio prima del Concilio di Trento (Venezia, 1420-1545), SIDeS «Popolazione e Storia» 2 (2004), pp.33-34; J. Gaudemet, Il matrimonio in occidente cit., pp. 173-177. Sui matrimoni clandestini, cfr. D. Lombardi, Storia del matrimonio cit., pp. 38-42; D. D’Avrai, Marriage ceremonies and the church in Italy after 1215, in T. Dean, K.J.P Lowe (a cura di) Marriage in Italy. 1300-1650, Cambridge University Press 1998, pp. 107-115. 38 Per casi riguardanti matrimoni incerti e controversi di età pre-tridentina, cfr. S. Seidel Menchi, D. Quaglioni (a cura di), Matrimoni in dubbio cit. 39 Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, c. 120v. 40 Ivi, c. 17r. 41 Ivi, c. 20r. 42 Ivi, cc. 26r e 118r-119r. 214 I processi matrimoniali della Curia Arcivescovile di Palermo (1399-1410) Curia Arcivescovile, dinnanzi all’arcivescovo Giovanni da Procida, che le venisse riconosciuto. Il Bonamico invece negava l’avvenuto matrimonio e anzi si trovava, a causa delle dichiarazioni della donna, «in grave dispendium et diffamacionem maximam». La Curia concedeva a Giovanna sei mesi per presentare le prove del presunto matrimonio; il 14 novembre 1409 la Curia sentenziava che le prove addotte dalla donna erano insufficienti e pertanto imponeva a Giovanna silenzio perpetuo. Il matrimonio non era valido e Benedetto de Bonamico aveva licenza di risposarsi. Erano quasi sempre le donne a richiedere il riconoscimento della validità di un matrimonio. Non fa eccezione la richiesta di Agata di Polizzi43 che non solo desiderava veder riconosciuto il matrimonio con Tommeo de Lu Lianti, ma il 10 giugno 1409 chiedeva che esso, «contractum per verba de presenti anuli subarra intervenienti», venisse solennizzato «in facie ecclesie». Il presunto marito negava e la Curia gli dava ragione, dichiarava nullo il matrimonio e gli concedeva licenza di risposarsi, visto che la donna risultava già sposata con un tale Robertello. Stessa richiesta di solennizzazione veniva avanzata, il 19 novembre 1408, da Tura, promessa a Nicolò Malato, che veniva invitato a presentarsi in Curia: non sappiamo però come si sia conclusa la sua vicenda44. Sicuramente aveva invece avuto esito positivo la richiesta di solennizzazione avanzata da Antonella de Adetrinu di Naso se, il 17 febbraio 1410, Nicolò de Manso prestava fideiussione a favore di Giovanni Pullisitu, garantendo che questi avrebbe solennizzato il matrimonio con la donna entro Pasqua, pena un’ammenda di dieci onze45. L’accertamento del presunto matrimonio fra Ricca de La Finestra e Giordano de Romano arrivava, il 19 agosto 1399, all’annullamento degli sponsalia fra loro contratti, una volta accertato che appunto di sponsalia, non di matrimonio, si fosse trattato46. Ci restano, in due documenti, le relazioni degli interrogatori condotti per l’accertamento dell’avvenuto matrimonio. L’interrogatorio dei presunti coniugi Scarlata Machali di Polizzi e Antonio de Angelo vedeva la donna affermare, il 13 giugno 1408, di aver sposato Antonio e consumato il matrimonio, da cui erano nati figli; Antonio confermava la versione della moglie, sottolineandone l’onestà47. Tuttavia, l’accertamento della validità del loro matrimonio non avrà avuto esito positivo se, il 9 marzo 1409, Mazeo de Castiglono, Giovanni de Sabella e Rosa de Gravina prestavano fideiussione a favore di Antonio, a garanzia che non 43 44 45 46 47 Ivi, c. 78r-v. Ivi, c. 95r. Ivi, c. 128r. Asp, Ma I, n. 269 ter, c. 1r. Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, c. 23r. 215 Elena Sapienza avesse più rapporti con Scarlata, sotto pena di dieci onze48. Benedetto de Stefano de Palmerio, interrogato il 18 giugno 1401, in merito alla causa di nullità del matrimonio con Iacoba, dichiarava, sotto sacro giuramento, di non averla sposata49. La faccenda però non si sarebbe conclusa lì: Iacoba avrebbe accusato il marito di sevizie e crudeltà e la Curia Arcivescovile, il 26 settembre dello stesso anno, le avrebbe dato ragione approvando la sua richiesta di separazione «quoad thorum et mensam» (non di nullità) per maltrattamenti e concedendole la metà dei beni coniugali50. Impedimenti dirimenti e impedienti Il diritto canonico distingue gli impedimenti dirimenti, che provocano la nullità del matrimonio ab initio, dagli impedimenti impedienti, che rendono illecita la conclusione dell’unione, senza mettere in causa il vincolo matrimoniale. L’impedimento assoluto interdice qualsiasi matrimonio, mentre quello relativo solo il matrimonio tra due persone determinate, senza ostacolare il matrimonio di una delle parti con una terza persona. Costituiva impedimento assoluto l’ordine sacerdotale; ho incontrato un solo caso di relazione illecita fra una donna e un sacerdote portato dinnanzi al giudizio della Curia: quello tra Disiata de Mazarino con il frate Enrico de Regina51. Il provvedimento adottato fu quello di allontanare i due amanti: la Curia ingiungeva a Disiata di non avere più rapporti con Enrico, sotto pena di dieci onze, mentre Giovanni de Regina prestava fideiussione a favore di Enrico, garantendo che questi non intrattenesse più rapporti con la donna, pena dieci onze52. Impedimenti che meritano attenzione sono l’impotenza del marito ed un precedente matrimonio non sciolto. Riguardo quest’ultimo, il diritto canonico non ammetteva la bigamia53, anche se la possibilità di Ivi, c. 96r. Asp, Ma I, n. 269 ter, c. 20r. Benedetto de Stephano detto de Palmerio aveva ottenuto la cittadinanza di Palermo per inductionem uxoris (P. Sardina, Palermo e i Chiaromonte cit., p. 225). 50 Asp, Ma I, n. 269 ter, c. 24r. 51 Si tratta del frate carmelitano che occupò indebitamente la grangia di Santa Maria de Balnearea presso Castronovo, appartenente al monastero de Gloria nella diocesi di Anagni (S. Fodale, Documenti del pontificato di Bonifacio IX cit., p. 129). 52 Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, c. 96r. 53 La bigamia come irregolarità va distinta dalla bigamia-impedimento matrimoniale, cioè dal reato di bigamia (avere contemporaneamente più di una moglie). Il rapporto del coniugato con un’altra persona poteva essere visto di volta in volta come adulterio, come concubinato, oppure come un secondo matrimonio che, evidentemente, ritenuto unione de facto e non de iure, veniva considerato nullo (G. Marchetto, Primus fuit 48 49 216 I processi matrimoniali della Curia Arcivescovile di Palermo (1399-1410) matrimoni clandestini e l’assenza di qualsiasi esigenza di notorietà, rendevano spesso inefficace questa proibizione. La bigamia volontaria era un crimine punito dall’autorità civile; i tribunali ecclesiastici non solo pronunciavano sentenza di nullità della seconda unione, ma punivano anche i colpevoli. Una lunga assenza del coniuge faceva a volte presumere la sua morte. L’altro coniuge poteva in buona fede risposarsi ma, per evitare il rischio di bigamia, prima di procedere al nuovo matrimonio, era necessario ottenere dal tribunale ecclesiastico la licentia nubendi, dietro produzione di prove. Un matrimonio concluso senza licentia era considerato inesistente e la relazione solo di concubinato. Le cause spesso attestano ammende imposte al coniuge risposato senza licenza o a quello assente per abbandono del tetto coniugale. Se il primo coniuge tornava si ripristinava la precedente unione. La causa di separazione fra Margherita Virrina e Antonio Pictinerio è un buon esempio di quanto detto. La donna aveva intentato un processo di separazione per la lunga assenza del marito ma, per poter procedere con la sua azione legale in assenza del marito, la Curia Arcivescovile nominava, l’11 febbraio 1410, Tommaso Ferrario, serviens curie, curatore di Antonio. A mio avviso il termine separazione qui non è inteso nel senso di separazione quoad thorum, anche perché la lunga assenza non era un motivo per intentare tale causa; ipotizzo che la lunga assenza avesse fatto presumere a Margherita la morte del marito e che pertanto la donna volesse essere liberata dal vincolo coniugale54. La prigionia e la schiavitù per la Chiesa non rompevano il vincolo. Tuttavia già dall’età costantiniana si permetteva alla donna di risposarsi dopo un certo numero di anni d’incertezza ed assenza di notizie sulla sorte del marito. Non si trattava più di una rottura per cattività, ma di una lunga assenza che faceva presumere il decesso; ovviamente si avviavano le ricerche e si facevano sforzi per mantenere l’unione, prima di autorizzare le nuove nozze. Francesca, moglie di Nicolò Caruso, prigioniero «in partibus Barbarie», si era risposata con Perrono de Catanzaro, evidentemente però senza aver prima chiesto la dovuta licenza. Il 5 luglio 1409 entrambi i coniugi venivano accusati dal magister Michele di Giovanni di adulterio e duplice matrimonio, accusa probabilmente mossa da interessi economici, visto il regime di comunione di beni che intercorreva fra i coniugi Caruso55. Il 10 luglio la Curia Arcivescovile predisponeva la nomina di un curatore dei beni di Nicolò, ormai pri- Lamech. La bigamia tra irregolarità e delitto nella dottrina del diritto comune, in S. Seidel Menchi, D. Quaglioni (a cura di), Trasgressioni. Seduzione, concubinato, adulterio, bigamia cit., pp. 43-105). 54 Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, c. 119v. 55 Ivi, c. 97v. 217 Elena Sapienza gioniero da nove anni, perché ne potesse disporre, attraverso la vendita, per ricavare il denaro necessario alla sua eventuale liberazione: veniva quindi nominato curatore Guglielmo de Graciano, prepositus della maramma della Cattedrale di Palermo56. La sorte di Nicolò non era infrequente. La cattura, a seguito di azioni piratesche, e la deportazione di siciliani in Africa costringeva ad aprire trattative con Tunisi. L’uso dei beni da utilizzare per il riscatto era essenziale ma non sufficiente: il problema degli schiavi «in partibus Barbarie» era infatti sia economico, tanto che non solo la famiglia ma anche la collettività partecipava al pagamento del riscatto, sia religioso, perché i prigionieri erano cristiani che correvano il rischio di convertirsi all’Islam. I cristiani si dovevano quindi impegnare, almeno economicamente, alla liberazione dei captivi. La raccolta pubblica del denaro «pro redemptione captivorum» era gestita dalla Corona, che aveva istituito un apposito fondo pubblico57. Lo stesso 10 luglio Francesca era costretta ad ammettere di essere moglie di Nicolò e che Perrono non era altro che il suo amante58. La sentenza della Curia Arcivescovile arrivava il 15 dicembre 1409: dato che non si erano avute notizie del povero Nicolò se ne presumeva la morte; Francesca poteva continuare a convivere con Perrono, tenere e amministrare la vigna, sita in contrada Ciaculli, posseduta a metà con Nicolò, finché il marito non fosse ritornato a richiedere la sua parte; qualora si fosse avuta notizia certa della morte di Nicolò, Francesca avrebbe potuto vendere, donare e permutare la vigna. Il curatore Guglielmo de Graciano le restituiva due onze, che erano il ricavato della precedente vendemmia della vigna a lei spettante59. Costituivano invece impedimento relativo la parentela di sangue, di solito fino al terzo grado, che produceva nullità ab initio; la parentela adottiva e quella spirituale (vincoli creati dal battesimo e dalla cresima); l’impedimento per affinità (legame originato dal rapporto carnale di un uomo con consanguinee della donna con cui intendeva contrarre matrimonio); l’impedimento di pubblica onestà, fondato sull’impegno del fidanzamento (la promessa per verba de futuro era considerata creatrice di un impedimento tra uno dei fidanzati e un consanguineo dell’altro in nome della pubblica onestà e della decenza)60. Ho riscontrato un solo caso di accusa di matrimonio illecito propter puplice honestatis iusticiam (termine generico che poteva comprendere Ivi, c. 78v. S. Fodale, Solidarietà pubblica e riscatto della cattività in Barberia, in S. Fodale, Casanova e i mulini a vento e altre storie siciliane, Sellerio, Palermo, 1986, pp. 24-36. 58 Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, c. 78v. 59 Ivi, cc. 119v-120r e c. sciolta. 60 J. Gaudemet, Il matrimonio in occidente cit., 1989, pp. 146-156. 56 57 218 I processi matrimoniali della Curia Arcivescovile di Palermo (1399-1410) tutti i comportamenti che offendessero il concetto corrente di morale). Il magister Aloysio di Napoli aveva infatti sposato Tura; contro di essi veniva sollevato l’impedimento per affinità in quanto la donna era la madre di Caterina che per gli accusatori era la moglie defunta di Aloysio. Il 18 luglio 1401 la Curia Arcivescovile però riconosceva che il matrimonio con Caterina era stato contratto solo per verba de futuro e mai consumato; assolveva quindi i due sposi dall’accusa e imponeva agli accusatori silenzio perpetuo61. «Divortium quoad thorum e divortium quoad vinculum» La dottrina dell’indissolubilità del sacramento era stata elaborata da Sant’Agostino, secondo il quale poteva sussistere una separazione fra coniugi, da lui detta divortium, ma il vincolo comunque sussisteva. Le opere di raccolta del diritto canonico dell’XI secolo erano contraddittorie in tema di divorzio: non era consentito il divorzio come scioglimento del vincolo, anche se restavano dubbi nel caso dell’impotenza; era ammessa la separazione causa fornicationis (carnalis o spiritualis) e l’indissolubilità appariva dipendere dalla consumazione del matrimonio, ma all’epoca mancava una teorizzazione compiuta sul significato della copula in relazione al sacramento. L’effettivo scioglimento del matrimonio e la mera soluzione della convivenza coniugale furono per secoli indicati indifferentemente con i termini divortium e separatio, cosa che creava ambiguità e confusione. La scienza giuridica, posta di fronte all’esigenza di prevedere un rimedio alle situazioni matrimoniali compromesse, dovette assumere il compito di creare un divortium, pur mantenendo il principio dell’indissolubilità matrimoniale. Con le raccolte delle decretali pontificie del XIII secolo vennero delineati due tipi di divorzio: il «divortium quoad thorum et mensam», ossia la separazione, e il «divortium quoad vinculum», lo scioglimento che permetteva nuove nozze. Dunque solo a partire dal XIII secolo il «divortium quoad thorum et mensam» acquistò una propria autonomia concettuale, distinguendosi dal termine generico di separatio. L’istituto della separazione si può spiegare solo come il risultato dell’incontro tra il principio dell’indissolubilità e la constatazione che esistevano situazioni che non consentivano la prosecuzione della vita coniugale. L’indissolubilità prevedeva soltanto il divorzio come nullità ab initio del vincolo, mentre con la separazione personale dei coniugi si ammetteva l’idea di un divorzio che scioglieva l’obbligo della mutua servi- 61 Asp, Ma I, n. 269 ter, c. 21v. 219 Elena Sapienza tus, ma non gli effetti del vincolo coniugale e quindi escludeva la possibilità di nuove nozze62. Non sappiamo che tipo di separazione chiedesse la fanciulla Pina: è certo però che il 24 ottobre 1408 la Curia Arcivescovile ingiungeva al marito Enrico de Noto di presentarsi in Curia su richiesta della moglie63. Le cause di separazione Erano cause di separazione: la fornicatio carnale (adulterio) e spirituale64 (eresia o apostasia di un coniuge), le sevizie65 e la malattia contagiosa. Sevizie e maltrattamenti non erano rari e spesso continuavano anche dopo la causa in tribunale. A giustificare la separazione era l’odio capitale ossia il sentimento di odio, del quale le sevizie erano manifestazione, che poteva condurre alla morte del coniuge. Ai mariti violenti spesso i giudici chiedevano di versare una cauzione de non offendendo, cioè di impegnarsi a trattare bene le proprie mogli. Spesso le donne fuggivano di casa e venivano denunciate dai mariti per abbandono del tetto coniugale. Solitamente i giudici ecclesiastici tendevano alla salvaguardia del vincolo e tentavano la conciliazione dei coniugi: ingiungevano ai mariti di non maltrattare la moglie, andando oltre l’esercizio normale del diritto di correzione, ma ricordavano che la donna doveva comunque obbedienza al marito66. Un caso esemplare di causa di separazione quoad thorum per maltrattamenti è l’intricata vicenda di Contessa e Giovanni de Chola. La moglie lamentava maltrattamenti e percosse; dopo un periodo di assenza di Giovanni da Palermo i due si erano riconciliati ma poi il marito aveva tentato di avvelenare la moglie. Contessa cercava giustizia chiedendo la separazione, Giovanni la faceva arrestare. Il 16 gennaio 1400 la Curia Arcivescovile la liberava dal carcere e assolveva da ogni accusa, perché il marito non si era presentato in giudizio67. 62 G. Marchetto, Il divorzio imperfetto cit., pp. 14-34 e 153-158; A. Giuffrè, Separazione personale dei Coniugi, in Enciclopedia del Diritto, XLI, Giuffré, Roma, 1989, p.1403. 63 Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, c. 88r. 64 Per un caso di fornicazione spirituale, cfr. C. Meek, Simone ha aderito alla fede di Maometto. La fornicazione spirituale coma causa di separazione, in S. Seidel Menchi, D. Quaglioni (a cura di), Coniugi nemici cit., pp.121-131. 65 Per tre casi veneziani di separazione per maltrattamenti, cfr. S. Chojnacki, Il divorzio di Cateruzza: rappresentazione femminile ed esito processuale (Venezia 1465), in S. Seidel Menchi, D. Quaglioni (a cura di), Coniugi nemici cit., pp. 371-416. 66 G. Marchetto, Il divorzio imperfetto cit., pp. 327-441; D. Lombardi, Storia del matrimonio cit., pp. 92-93. 67 Asp, Ma I, n. 269 ter, c. 10v. 220 I processi matrimoniali della Curia Arcivescovile di Palermo (1399-1410) Tre i casi di maltrattamenti per i quali vengono prestate garanzie fideiussorie: Roberto de Vita si impegnava a garantire che il fratello Vita non solo non maltrattasse la moglie Palma Cunigli ma nemmeno vendesse la dote68; Pino de Sancto Philippo s’impegnava a garantire che Amico de Maurella non maltrattasse la moglie Garita, pena venti onze69; il notaio Corrado Fisaula faceva lo stesso, sotto pena capitale e dei suoi beni, nei confronti del notaio Antonio de Orto70 che maltrattava la moglie Pina. Pina de Orto era figlia del notaio Antonio Cito e di Violante; inoltre era la vedova ed erede universale del notaio Francesco de Scriba, il quale aveva lasciato una grande quantità di denaro. Antonio de Orto, definito «fidelis et familiaris regio» in un documento dell’11 agosto 1392, in cui i Martini ordinarono agli ufficiali di Palermo di non molestare «eum nec uxorem, res bona et fideiussores eorum», aveva appoggiato la rivolta di Enrico Chiaromonte nel 1393. Il primo febbraio 1395 Pina e Antonio erano già sposati e Enrico Chiaromonte aveva costretto Antonio Cito a versare a sua figlia le tre onze che la defunta moglie Violante aveva invece destinato al proprio funerale. Antonio de Orto era stato perdonato dai Martini nel 1399, quasi sicuramente grazie alla raccomandazione del giudice Giacomo de Orto. Dopo il perdono ottenne piena riabilitazione, assieme al figlio Nicolò, pure lui notaio, tanto che i due furono nominati familiari e domestici regi. La casa di Antonio de Orto si trovava nel quartiere della Conceria. Il notaio risulta morto già nel 141171. Le cause relative ad adulterio portate dinnanzi alla Curia Arcivescovile di Palermo sono quelle numericamente più rappresentate nei due registri. Sono per la maggior parte accuse di adulterio e duplice matrimonio: Bartolomea, moglie di Antonio de Pagano, era stata denunciata da sua figlia Agata per la relazione adultera con Nicolò Rizzo; era pertanto tenuta a presentarsi in Curia, sotto garanzia fideiussoria di Filippo Lu Ysdintatu del 21 settembre 140972. La stessa accusatrice Agata de Pagano, figlia di Antonio, era stata però a sua volta denunciata, dal marito Antonio de Sirina di Bivona, per adulterio e duplice matrimonio. L’arcivescovo di Palermo Giovanni da Procida la assolveva però il 10 ottobre 1409 per mancanza di prove, non addotte dall’accusatore, nonostante si dicesse disposto a rendere giustizia a quest’ultimo73. Amata, moglie di Tommeo Trabugla, doveva aver scoperto la relazione extra-coniugale del marito con Filippa di Polizzi, se la denunciava per 68 69 70 71 72 73 Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, c. 130r. Ivi, c. 127r. Ivi, c. 129r. P. Sardina, Palermo e i Chiaromonte cit., pp. 173 e 429. Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, c. 126r. Ivi, c. 146r. 221 Elena Sapienza adulterio; il 28 maggio 1410 Letizia de Turri garantiva che Filippa si sarebbe presentata in Curia74. Il 16 giugno 1410 la Curia Arcivescovile ingiungeva a Filippa di non intrattenere più alcuna relazione con Tommeo Trabugla, sotto pena di dieci onze o, in mancanza, sotto la pena della frusta; Filippa, detenuta in carcere, si impegnava inoltre sotto giuramento a rispettare tale ingiunzione. Stesso ordine di allontanamento dalla sua amante veniva imposto a Tommeo, sotto pena di dieci onze75. Le cause di nullità Le cause di nullità più frequenti erano quelle per impotenza, per vizio del consenso e quelle che mettevano fine a una bigamia, constatando l’esistenza di un precedente matrimonio non sciolto; in tal caso la relazione veniva considerata non solo adultera ma duplice e per questo resa nulla. Le cause di nullità per difetto d’età erano invece meno frequenti, dunque gli impedimenti al matrimonio (reali o fittizi) venivano spesso invocati nelle cause di nullità. Si riteneva vi fosse vizio del consenso nel caso in cui questo fosse stato estorto con la forza e sotto minacce76. Molte sono le sentenze di nullità causate da vizio del consenso, estorto per vim e metum; la difficoltà in tali processi stava nel dimostrare uno stato d’animo, il timore condizionante appunto. Un caso particolare di metum era il timore reverenziale, cioè quello nei confronti dei padri, che poteva condizionare la volontà dei figli al momento delle nozze77. Nei documenti esaminati, sono soltanto due le cause di nullità per matrimonio contratto per vim e metum: il 28 agosto 1399 la Curia Arcivescovile di Palermo annullava per questo motivo il matrimonio contratto da Letizia de Iaquinto e Deodato, concedendo alla donna licenza di risposarsi78; stesso esito il 15 gennaio 1400 per la causa riguardante il matri- Ivi, c. 129r. Ivi, c. 129v. Il registro della Corte Pretoriana preso in esame riporta altri casi relativi ad accuse di adulterio. Si tratta per lo più di convocazioni in giudizio e relative garanzie fideiussorie (cc. 95v, 96r, 97r, 97v, 129r,130r). Si distingue la convocazione in curia di Ianna de Morso, motivata dall’accusa non di duplice, bensì di triplice matrimonio, avanzata contro di lei dal notaio Antonio de Parisio (c. 97v). 76 J. Gaudemet, Il matrimonio in occidente cit., pp. 137-187. 77 Cfr. G. Marchetto, Il volto terribile del padre. Metus reverentialis e matrimonio nell’opera di Tomas Sanchez (1550-1610), in S. Seidel Menchi, D. Quaglioni (a cura di), I Tribunali del matrimonio cit., pp. 269-288. Sulla legge civile, le corti secolari e il controllo dei padri sull’istituzione del matrimonio, cfr. T. Dean, Fathers and daughters: marriage laws and marriage disputes in Bologna and Italy 1200-1500, in T. Dean, K.J.P. Lowe (a cura di), Marriage in Italy cit., pp. 85-106. 78 Asp, Ma I, n. 269 ter, c. 1r-v. Letizia de Iaquinto era la figlia di Angelo, notaio filo aragonese di origine napoletana che, esiliato durante i 5 anni del regime di Enrico Chia74 75 222 I processi matrimoniali della Curia Arcivescovile di Palermo (1399-1410) monio di Marcullo Aurifex e Caterina La Maccarrunara, questa volta su istanza del marito che otteneva così licenza a contrarre nuove nozze79. In realtà, anche l’abbandono della dimora coniugale, senza che fosse ordinato o ratificato da una sentenza del tribunale ecclesiastico, era considerata un’illegittima privazione di un diritto, contro cui la Chiesa aveva elaborato un’azione possessoria per il ripristino della status quo ante80. Un caso di abbandono del tetto coniugale è quello di Giovanni Carioso, serviens curie, che aveva lasciato la moglie Chulucia de Agrigento. La Curia Arcivescovile, su istanza della donna, il 20 giugno 1401 ingiungeva a Giovanni di ricongiungersi con lei, di tornare a vivere «in una eademque domo mensa et thoro», di trattarla con «affectione uxorali» e fornirle gli alimenti, entro otto giorni, pena una multa di quattro onze81. Non conosciamo invece cosa fosse accaduto a Schifano Vitali di Tropea e a sua moglie Caterina de Enrico; di fatto la Curia Arcivescovile il 15 novembre 1408 ingiungeva a Schifano di presentarsi a Tropea dalla moglie entro dieci mesi o, scaduto il termine, dinnanzi alla suddetta curia, sotto pena di venti fiornini d’oro82. Rainaldo de Buxia, canonico e vicario della Cattedrale di Palermo, il 16 novembre 1407 dichiarava nullo il matrimonio fra Floria, figlia del notaio Simone de Lanselloctis di Trapani, e Onofrio de Fasana, obbligato a restituire la dote, e dava alla donna licenza di risposarsi. Si trattava di una sentenza di appello, visto che la causa era già stata discussa in primo grado presso il vicario di Mazara. Un’altra sentenza, del 18 novembre 1407, dichiarava nullo il matrimonio fra Allegranza de Silente de Salem e Antonio de Messana, concedendo all’uomo licenza di risposarsi; la donna appellava la sentenza. Il 17 dicembre dello stesso anno veniva considerato nullo il matrimonio fra Lucrezia de Bilotto, che otteneva licenza di risposarsi, e Giacomo de Nuce83. Riguardo la bigamia, inizialmente era difficile configurarla come reato, visto che secondo le norme di diritto romano il secondo matrimonio era considerato nullo e, venendo a mancare con la nullità i suoi effetti giuridici, veniva meno anche la sua punibilità. Un caso ben documentato di nullità di una relazione bigama è quello di Belluna de Arminia. La donna, moglie di Martino de Arminia, era stata accusata da Giovanni de Gintili di duplice matrimonio e la Curia romonte, era tornato a vivere a Palermo, grazie all’intercessione di Martino d’Aragona. Nel 1395 Angelo divenne archivista degli atti della Corte Pretoriana al posto del notaio Giovanni Fasana, troppo legato ad Andrea Chiaromonte (P. Sardina, Palermo e i Chiaromonte cit., pp. 236-238). 79 Asp, Ma I, n. 269 ter, c. 8r. 80 Cfr. M.S.Messana, Rito ordinario e rito sommario cit., p. 279. 81 Asp, Ma I, n. 269 ter, c. 20v. 82 Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, c. 95r. 83 Ivi, cc. 42v-43v. 223 Elena Sapienza infatti il 10 luglio 1409 dichiarava nullo il matrimonio con Marchisio de Messana che veniva ritenuto suo amante. Lo stesso giorno Belluna confessava la relazione extra-coniugale con Marchisio e riconosceva Martino quale suo legittimo marito. Il 28 giugno 1409 Manfredi de Cusencia e Giovanni Suldaneri prestavano fideiussione a favore della donna, presentata come compagna di Marchisio de Messana e accusata di duplice matrimonio, garantendo che si presentasse in Curia84. Possiamo infine inserire fra i casi di nullità lo scioglimento degli sponsalia. Il rifiuto a mantenere la promessa di matrimonio fatta per verba de futuro, e ancora da legalizzare con il rito matrimoniale per verba de presenti, era abbastanza frequente. Si rivolgeva al tribunale sia la parte che voleva sottrarsi all’impegno, sia la parte lesa, interessata possibilmente a dimostrare che invece di vero matrimonio si fosse trattato. La vergine Norata, figlia di Giovanni Tristaynu, che aveva contratto «sponsalia seu asserto matrimonio» con Giovannuccio de La Russa, era stata da questi abbandonata in pupillari etate: Giovannuccio era fuggito da Palermo con una sua ganea, e Norata, prima di giungere ad nubilem etatem, si era rifiutata di sposarlo. Per la fuga e la lunga assenza del promesso sposo, il padre di lei chiedeva l’annullamento degli sponsalia e la licenza a risposarsi85. Le altre tre cause di scioglimento di sponsalia riguardano sempre un impegno contratto quando la fanciulla era minore. Il 20 novembre 1399 la Curia Arcivescovile dichiarava nulli gli sponsalia contratti fra Antonio di Ragusa e Machalda de Mauro, figlia di Giovanni, quando la fanciulla era minore, e le concedeva licenza di risposarsi86. Il 3 ottobre 1407 Caterinella, figlia del defunto magister Tommeo Bruscalupo, citava in giudizio Simone Barbotta, con cui aveva contratto sponsalia de futuro, chiedendo l’annullamento, perché la promessa era avvenuta senza suo consenso, e la licenza a risposarsi87. Anche la minore Antonella de Milioto aveva avanzato richiesta di annullamento della promessa matrimoniale contratta con Antonio de Sguarza, a causa della sua lunga assenza. Il procuratore della fanciulla, il notaio Giovanni de Iudice Facio, il 20 giugno 1401 conferiva a Donato Ysguarza, padre di Antonio, la qualifica di curatore dei beni del figlio88. Fino a che la promessa di matrimonio, seguita dal rapporto sessuale, fu considerata dal diritto canonico equivalente al matrimonio presunto, non era raro giungessero in curia accuse di stupro (reato di misto 84 85 86 87 88 224 Ivi, cc. 78v-79r e 97v. Ivi, c. 26v. Asp, Ma I, n. 269 ter, c. 4v. Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, c. 19r. Asp, Ma I, n. 269 ter, c. 20v. I processi matrimoniali della Curia Arcivescovile di Palermo (1399-1410) foro), in cui il seduttore avesse promesso alla donna di sposarla89. Nel registro della Corte Pretoriana ho incontrato una sola denuncia per stupro: donna Tura, moglie di ser Bertolino di Trapani, accusava il domenicano Bartolomeo de Serris non solo di stupro, ma anche di avere ucciso suo figlio Giacomo, e pertanto chiedeva alla corte di punirlo90. Le cause patrimoniali Molte controversie coniugali riguardavano il patrimonio e in particolar modo la dote91. Solitamente era la giustizia civile, non quella ecclesiastica, a occuparsi di comporre i contrasti originati dal possesso del patrimonio e della dote; spettava alla Corte Pretoriana di Palermo anche la tutela di certi usi92. Nella Sicilia tardo medievale trovavano applicazione due regimi matrimoniali, attestati dalle diverse Consuetudini delle città siciliane e corrispondenti a due diverse modalità di gestione del patrimonio coniugale: uno alla latina, e uno alla greca. Contrariamente al matrimonio latino, in cui i beni degli sposi erano messi in comune con un’ideale tripartizione del patrimonio alla nascita della prole, nel matrimonio greco i beni della sposa, cioè la dote ed il dotario, erano esclusi dal patrimonio familiare. A Palermo, secondo le consuetudini, era possibile scegliere fra i due regimi greco e latino; in quest’ultimo caso, per la confusio bonorum e la ripartizione del patrimonio era richiesto un anno dalla consumazione del matrimonio o dopo la nascita dei figli. La morte della sposa, senza che dal matrimonio fosse nata prole, comportava l’obbligo da parte del marito di restituire la dote ricevuta, cosa che dava luogo a lunghe controversie. In caso di scioglimento del matrimonio prima del termine previsto per la confusio 89 Con il termine stupro s’intendeva qualsiasi rapporto sessuale extraconiugale, anche se consensuale; se la donna era sposata si configurava il reato di adulterio. La qualità della vittima era dunque elemento costitutivo del reato. Lo stupro, in quanto reato di misto foro, era giudicato dai due tribunali; capitava quindi che per il diritto civile un rapporto sessuale tra un uomo sposato e una donna nubile fosse considerato stupro, mentre per quello canonico adulterio. Il tribunale civile solitamente prescriveva pene pecuniarie; il diritto ecclesiastico, se lo stupro era avvenuto con violenza, prescriveva allo stupratore, se non già sposato, l’obbligo di sposare e dotare la donna (D. Lombardi, Reato di stupro tra foro ecclesiastico e foro secolare, in S. Seidel Menchi, D. Quaglioni (a cura di), Trasgressioni. Seduzione, concubinato, adulterio, bigamia cit., pp. 351-381). Sull’argomento, cfr. G. Alessi, Stupro non violento e matrimonio riparatore. Le inquiete peregrinazioni dogmatiche della seduzione, in S. Seidel Menchi, D. Quaglioni (a cura di), I Tribunali del matrimonio cit., pp 609-640. 90 Asp, Ma I, n. 269 ter, c. 97r. 91 Cfr. D. Hughes, From Brideprice to dowry in Mediterranean Europe, «Journal of Family History», 3 (1978), pp. 262-296; A. Romano, Famiglia, successioni e patrimonio, familiare nell’Italia medievale e moderna, Giappichelli, Torino, 1994. 92 Cfr. A. Giuffrida, La giustizia cit., pp. 86-87. 225 Elena Sapienza bonorum era operante la disciplina di diritto comune, come nel caso del matrimonio alla greca (la dote rimaneva della sposa che la recuperava in caso di vedovanza o di divorzio). Secondo la consuetudine di Palermo n. 80 («Ne bona uxoris capiantur ob culpam viri, nec fili ob delictum parentum debita portione priventur»): licet maritus et uxor […] ambo sint domini rei dotalis et bonorum […] et bona ipsa de communi consensu possint […] obligari; tamen ne ob virorum culpam, aut propter fragilitatem sexus ad repentinam inopiam deducantur […] inductum est quod, ex delictis et obligationibus maritorum, mulieres in personis et rebus nullam sustineant lesionem. Cum iniustum et iniquum sit quod, ob culpam viri, uxoris bona capi debeant, vel uxores que non peccaverunt, dotes earum amittant et remaneant indotate; cum iura dictent quod mulier, etiam costante matrimonio, si vir vergat ad inopiam, possit petere dotes suas. Si aliqui Cives Panormi crimine aliquo […] dampnati, uxores eorum dote set dodarium vel donationem propter nuptias […] propterea non amittant93. In caso di divortium quoad thorum, se a causare la separazione era la moglie, perdeva la dote; se era colpa del marito, questi era tenuto a restituirla. Le cause patrimoniali, specie quelle di restituzioni di doti, connesse a un processo matrimoniale di competenza ecclesiastica, erano decise dallo stesso giudice ecclesiastico in virtù dell’attrazione prodotta dalla causa principale su quella accessoria94. Un caso di conflittualità viene portato dinnanzi alla Curia Arcivescovile di Palermo per il mancato rispetto del contratto matrimoniale: Marco de Aranzano aveva sposato Phimia de Pacerubeo, figlia di Giovanni e Allegranza. Il matrimonio presumibilmente non era stato ancora consumato perché, dopo il contratto matrimoniale, Giovanni si era impegnato a consegnare la sposa con la dote a Marco entro un certo periodo di tempo. La consegna della fanciulla e della sua dote non era però avvenuta e lo sposo si rivolgeva alla Curia che, il 4 giugno 1401, disponeva che entro il 15 luglio il contratto matrimoniale fosse rispettato, pena trenta onze95. Altra controversia in materia di dote vedeva coinvolti Filippo de Galati ed i coniugi Antonio e Flordelisia de Odo. Il 12 giugno 1408 il notaio Giovanni de Iampisce prestava fideiussione a favore di Filippo, il quale chiedeva ai coniugi de Odo dieci onze ex causa dotis; il giorno successivo la Corte Pretoriana disponeva che ve- 93 I matrimoni alla greca e alla latina sono descritti nelle consuetudini di Palermo in V. La Mantia, Antiche consuetudini delle città di Sicilia, Palermo, A. Reber, 1900, nn. 4147 e 80, pp. 107, 189-193 e p. 217. Cfr. anche C.A. Garufi, Ricerche sugli usi nuziali cit., pp.27-30. 94 G. Marchetto, Il divorzio imperfetto cit., pp. 287-324. 95 Asp, Ma I, n. 269 ter, c. 19r-v. 226 I processi matrimoniali della Curia Arcivescovile di Palermo (1399-1410) nissero messi in possesso del creditore Filippo una vigna ed un somaro; il 9 luglio 1408 però la Curia Arcivescovile sospendeva la causa96. Anche il magister Rainaldo de Simone era debitore di due onze ex causa dotis nei confronti di Salvatico, marito di Ventura97. Infine la Corte si adoperava affinché il magister Giovanni de Culosa non alienasse o vendesse i beni dotali della moglie Disiata de Chagio e ne mantenesse integra la proprietà; il primo documento è una fideiussione a garanzia del rispetto del divieto di alienazione, il secondo è la promessa fatta da Giovanni ai suoi fideiussori di rispettare l’ingiunzione98. Conclusioni Questo studio ha mostrato gli unici scorci di conflittualità matrimoniale della Curia Arcivescovile di Palermo ad oggi rimasti per il XV secolo, inserendoli nel contesto storico-istituzionale dell’Arcidiocesi e del suo tribunale ed esaminandoli all’interno del quadro normativo, consuetudinario e processuale di riferimento. Non si è trascurato l’aspetto tributario di tali processi; possiamo notare che l’ammenda pecuniaria, in caso di mancato rispetto di una garanzia fideiussoria, è quasi sempre fissata al valore costante di dieci onze; solo due fideiussioni prevedono una pena dal valore doppio, mentre un solo caso ammette un’ammenda di cinquanta onze. L’ingiunzione di non intrattenere più rapporti con il partner, relativa dunque all’allontanamento fra amanti, prevede sempre una pena di quattro onze. Per quanto riguarda la tipologia, si può osservare che i casi numericamente più rappresentati sono le cause relative ad adulterio e duplice matrimonio (ventitré casi), seguite dai processi di accertamento di matrimoni incerti o presunti, la seconda tipologia più frequente all’interno dei due registri esaminati (undici casi), che per la maggior parte si concludono con il non riconoscimento del vincolo, dunque con una nullità. Tutti e cinque i casi di nullità sono dovuti all’insussistenza del vincolo o a vizi del consenso, nessun pronunciamento è motivato dall’impotenza. Il tribunale ecclesiastico palermitano solleva quattro coppie dall’obbligo di sposarsi, sciogliendo le loro promesse matrimoniali; sempre quattro i processi intentati da donne contro i propri mariti per sevizie e maltrattamenti, mentre tre sono i casi di separazione. Non mancano altre tipologie di cause quali processi per stupro, abbandono del tetto coniugale o impedimento per affinità. Le cause riguardanti le doti sono sette e hanno consentito un confronto (e un sostanziale accordo) con le con- 96 97 98 Asp, Cp, Esecuzioni e missioni, reg. 3995, cc. 9v e 25r. Ivi, c. 4r. Ivi, c. 126r. 227 Elena Sapienza suetudini cittadine in merito ai rapporti patrimoniali fra coniugi. Le decisioni del tribunale ecclesiastico palermitano, soprattutto in materia patrimoniale, sono infatti connesse alle norme consuetudinarie della città. I poteri comunitari e familiari avevano voce in capitolo sui riti e sulla scelta del partner, mentre le autorità locali, sulla base delle consuetudini, intervenivano sugli aspetti patrimoniali. Pertanto gli studi condotti mi portano ad affermare che, per quanto il diritto canonico fosse la cornice normativa di riferimento per tutti i tribunali ecclesiastici, a livello locale sussistevano una varietà di tradizioni e di interpretazioni personali del rapporto fra vescovo e fedeli, con conseguente influenza sulla prassi giudiziaria. Nel caso palermitano, nonostante la lacuna delle fonti archivistiche della Curia Arcivescovile, si rileva una peculiarità del sistema giudiziario locale: lo stretto legame fra il foro ecclesiastico e quello civile cittadino, la Corte Pretoriana. La connessione fra giurisdizioni risulta evidente dalla presenza, negli atti analizzati, degli operatori di giustizia e legum doctores appartenenti alle sfere del sistema giudiziario laico. Il ricorso a giuristi esterni da parte della Curia Arcivescovile era solo una parte del rapporto; il legame di fatto, pur non trovando alcun riscontro nel diritto, non riguardava solo la circolazione delle persone, ma passava anche dalla cancelleria. L’appoggio alla cancelleria del tribunale civile da parte della Curia Arcivescovile ha reso evidente la connessione fra i fori, poiché essa si è riflessa sulla produzione documentaria del tribunale ecclesiastico, i cui atti potevano essere registrati, come nel nostro caso, su registri della Corte Pretoriana. Le caratteristiche proprie di ogni tribunale ecclesiastico e il confronto con la realtà locale è ciò che a mio avviso rende interessante l’analisi a livello delle singole diocesi. A dispetto della carenza di documentazione archivistica diocesana di età medievale, sono certa che siano ancora possibili per l’area mediterranea ulteriori studi sull’argomento. Al di là della peculiare commistione fra i due fori della realtà palermitana, infatti, bisogna ammettere che gli archivi diocesani non rappresentano una fonte esaustiva per gli studi sul tema: in materia matrimoniale la Chiesa non esercitò mai un monopolio incontrastato e per determinati aspetti la conflittualità di coppia poteva cadere sotto la competenza di magistrature secolari. Taluni aspetti della conflittualità matrimoniale, chiaramente quelli non legati ad aspetti normati dal diritto canonico, venivano alle volte regolati e risolti tramite accordo privato dinnanzi al notaio, i cui registri possono rappresentare ulteriore campo di indagine. In terzo luogo non va dimenticato che l’ultima fase di appello dei processi a livello diocesano faceva capo al sommo Pontefice. Questo ci spinge a considerare, per lo studio dei processi matrimoniali, anche fonti relative all’organizzazione a livello centrale della Chiesa, conservate presso l’Archivio Segreto Vaticano. In particolare rivestono grande interesse i registri delle suppliche dell’archivio della Sacra Penitenzieria 228 I processi matrimoniali della Curia Arcivescovile di Palermo (1399-1410) Apostolica, cui spettava il compito di trattare le irregolarità (specie quelle coniugali) e riconciliare i supplicanti con la legge della Chiesa, attraverso la concessione di assoluzioni, dispense e licenze99. Tali registri contengono migliaia di casi di dispensa, provenienti da ogni parte del mondo conosciuto, a partire dai primi anni del XV secolo, e riportano la diocesi di provenienza del supplicante. Le dispense per gli impedimenti matrimoniali sono in generale le più numerose e per la maggior parte sono dispense dagli impedimenti di consanguineità ed affinità di terzo e quarto grado. Il materiale riguardante le dispense matrimoniali appartenente all’ufficio della Penitenzieria è abbondantissimo e, oltre a fornirci informazioni sui singoli casi, costituisce un ottimo strumento per fare diversi tipi di studi statistici. Esso infatti consente di sapere quante petizioni provenivano dalle singole diocesi, da quale diocesi venivano più suppliche, quale tipo di suppliche erano tipiche per diverse diocesi e dunque di studiare le possibili tendenze locali. Per di più si potrebbe paragonare il numero complessivo delle suppliche provenienti dalle diocesi siciliane con la ricchezza di ciascuna (calcolata in base alla tassa pagata alla Santa Sede) e vedere se esso corrisponde alla grandezza della diocesi; una tassa troppo alta rispetto al numero degli abitanti, o alla ricchezza della diocesi, potrebbe riflettersi in una grande differenza fra il numero delle suppliche e la tassa; oppure un numero basso di suppliche provenienti da una grande diocesi (che paga una tassa elevata) potrebbe, ad esempio, essere sintomatico dell’ampia autorità del vescovo di concedere diverse dispense e assoluzioni e, quindi, del fatto che i suoi diocesani non dovevano rivolgersi alla Curia Romana. Al di là del dato statistico, i registri delle suppliche non contengono informazioni sul perché una supplica venisse fatta100; e in tal senso la 99 Sull’ufficio della Penitenzieria Apostolica, cfr. F. Tamburini, La Penitenzieria apostolica durante il papato avignonese, in Aux origines de l’État moderne. Le fonctionnement administratif de la papauté d’Avignon Actes de la table ronde d’Avignon 23-24 janvier 1988, École Française de Rome, Roma, 1990, pp. 251-268; K. Salonen, The Penitentiary as a Well of Grace in the Late Middle Ages. The Exemple of the Province of Uppsala 14481527, «Annales Academiae Scientiarum Fennicae», 313, Helsinki, 2001, pp. 20-28; F. Tamburini, Per la storia dei cardinali penitenzieri maggiori e dell’archivio della Penitenzieria apostolica. Il trattato De antiquitate cardinalis poenitentiarii maioris di G. B. Coccino, «Rivista di storia della Chiesa in Italia», 26, 1982, p. 332-380; K. Salonen, C. Krötzl, The Roman Curia, the Apostolic Penitentiary and the Partes in the Later Middle Ages, «Acta Instituti Romani Finlandiae», 28, Roma, 2003 pp.23-31. 100 Sui registri delle suppliche e sull’archivio della Penitenzieria Apostolica, cfr. P. Ostinelli, Le suppliche alla Sacra Penitenzieria Apostolica provenienti dalla diocesi di Como (1438-1484), Edizioni Unicopli, Milano, 2003; L. Schmugge, Suppliche e diritto canonico. Il caso della Penitenzieria, in H. Millet (a cura di), Suppliques et requetes. Le gouvernement par la grace en Occident (XIIe-XVe siecle), Collection de l’Ecole francaise de Rome, 310, Roma, 2003, pp. 207-231; F. Tamburini, Il primo registro di suppliche dell’archivio della Sacra Penitenzieria Apostolica (1410-1411), «Rivista di storia della Chiesa 229 Elena Sapienza perdita delle fonti diocesane locali (che conservavano le suppliche originali e le lettere provenienti dalla Penitenzieria come testimonianza della concessione della dispensa o dell’assoluzione) rappresenta un danno irreparabile. Inoltre è palese che, a livello istituzionale, queste fonti possono fornirci utili informazioni per lo studio dell’ufficio della Penitenzieria che li ha prodotti e del suo funzionamento, non certo degli uffici diocesani o dei tribunali ecclesiastici locali. Nonostante ciò tali registri sono preziosi per conoscere le modalità del contatto fra le diocesi e la Curia Pontificia, ma anche per completare le serie documentarie prodotte parallelamente dai dicasteri curiali, e rappresentano una fonte promettente per future prospettive di studio in ambito matrimoniale per le diocesi di area mediterranea. in Italia», 23 (1969), pp. 384-427; L. Schmugge, Le suppliche nell’archivio della Penitenzieria Apostolica e le fonti in partibus, in A. Saraco (a cura di), La Penitenzieria Apostolica e il suo Archivio - Atti della Giornata di Studio, Roma, Palazzo della Cancelleria, 18 novembre 2011-, Città del Vaticano, 2012, pp. 33-61; G. Caberletti, Il fondo dei matrimoniali e la sua rilevanza per la ricerca storica, in A. Saraco (a cura di), La Penitenzieria Apostolica cit., pp.112-113; F. Tamburini, Le dispense matrimoniali come fonte storica nei documenti della Penitenzieria apostolica (sec. XIII-XVI), in Le modèle familial européen. Normes, déviances, contrôle du pouvoir-Actes des séminaires organisés par l’École française de Rome et l’Università di Roma (1984), École Française de Rome, Rome,1986, pp. 9-30; A. Saraco, La Penitenzieria Apostolica e il suo archivio storico, «Anuario de Historia de la Iglesia», 21 (2012), pp.423-434; K. Salonen, L. Schmugge, A Sip from the “Well of Grace”. Medieval Texts from the Apostolic Penitentiary, Studies in Medieval and Early Modern Canon Law, 7, Washington, 2009. 230 Rossella Cancila SALUTE PUBBLICA E GOVERNO DELL’EMERGENZA: LA PESTE DEL 1575 A PALERMO* DOI: 10.19229/1828-230X /37122016 SOMMARIO: Il saggio esamina il contributo della Sicilia all'elaborazione di procedure e strategie di controllo della peste nel contesto del XVI secolo, in particolare in occasione dell’ondata che colpì Palermo nel 1575, quando le autorità municipali assunsero importanti provvedimenti e organizzarono un efficace apparato di salute pubblica per governare l’emergenza, sotto la guida del celebre medico Giovanni Filippo Ingrassia. La ricerca consente di ripensare l’opinione generalmente diffusa di un ritardo del Regno di Sicilia rispetto alle aree la cui organizzazione sanitaria è considerata tra le più avanzate, come quelle dell'Italia centro-settentrionale. PAROLE CHIAVE: peste, salute pubblica, emergenza, prima età moderna, Sicilia. PUBLIC HEALTH EMERGENCY: PALERMO AND THE PLAGUE OF 1575 ABSTRACT: The essay focuses on Sicily’s contribution to the processing of practices and policy of plague control in the context of the 16th century. When the plague struck Palermo in 1575, the municipal health authority took important provisions to control the disease and organized an effective public health emergency management, under the direction of the famous physician Giovanni Filippo Ingrassia. The study aims to review the general opinion of Sicily’s delay compared to more advanced health systems in the northern and central Italian cities. KEYWORDS: plague, public health, emergency, early modern history, Sicily. Premessa È noto come a partire dalla peste nera del 1347-1348, soprattutto nel Nord dell’Italia, le istituzioni governative si fossero impegnate in uno sforzo considerevole sul piano normativo nel tentativo di arginarne la pericolosità, adottando misure concernenti il ruolo degli ospedali, il controllo della professione medica, le condizioni igieniche nei centri abitati1. Sulla base di esperienze già maturate nel corso del * Il saggio si colloca nell’ambito del progetto FIRB 2012 «Frontiere marittime nel Mediterraneo: quale permeabilità? Scambi, controllo, respingimenti = XVI-XXI secolo» (coord. dott. V. Favarò). Abbreviazioni utilizzate: Ags = Archivo General de Simancas; Asp = Archivio di Stato di Palermo; Ascp = Archivio storico comunale di Palermo. 1 Per una visione d’insieme, cfr. A.G. Carmichael, Plague legislation in the Italian Renaissance, «Bulletin of the History of Medicine». 57 (1983), pp. 508-525. Per una prospettiva di lungo periodo cfr. G. Alfani, A. Melegaro, Pandemie d’Italia. Dalla Peste Nera all’Influenza Suina: l’impatto sulla società, Egea, Milano, 2010, in particolare il primo capitolo. Ben documentata sulla Francia è l’opera monumentale in due volumi di J.N. Biraben, Les hommes et la peste en France et dans les pays méditerranéens, Paris-La Haye, 1976, e in particolare il secondo tomo: Les hommes face la peste. Sull’arretratezza n. 37 Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIII - Agosto 2016 ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online) 231 Rossella Cancila Trecento2, si erano inoltre consolidati ormai a metà del XV secolo – in particolare nei territori sottoposti al dominio nel ducato di Milano, sia sotto i Visconti sia sotto gli Sforza – la pratica di controllare i punti di transito e l’uso di patenti e bollette di sanità, che intestate al portatore davano conto della sua provenienza, costituendo così una sorta di lasciapassare3. Un’attenzione particolare fu rivolta anche al controllo di flussi migratori provenienti dall’est dell’Europa (Balcani, Dalmazia, Albania), soprattutto da parte di Venezia, che si trovò a fronteggiare la massiccia pressione determinatasi a seguito della caduta di Costantinopoli nel 14534. Se Venezia, Firenze, Milano, Bologna furono senza dubbio all’avanguardia in Europa, una menzione particolare merita però anche Dubrovnik, l’antica Ragusa, particolarmente attiva nell’adozione di politiche di protezione e di controllo dei beni di consumo (grano in primo luogo) e di merci provenienti da porti contaminati: essa fu tra l’altro la prima città in Europa ad adottare la pratica della quarantena nel 1377 e – come studi recenti testimoniano – fu capace di elaborare percorsi efficaci nel controllo della diffusione del contagio, riuscendo a conquistare parecchi primati nell’organizzazione di un apparato sanitario avanzato per l’epoca anche sul piano legislativo5. Tali provvedimenti erano spesso gestiti da uffici di sanità istituiti per l’occasione e presenti ormai nelle maggiori città dell’Italia setten- dell’Inghilterra, cfr. P. Slack, The impact of Plague in Tudor and Stuart England, Routledge and Kegan Paul, London-Boston, 1985. Per l’adozione di misure pubbliche in ambito ottomano, cfr. N. Varlik, Plague and Empire in the Early Modern Mediterranean World: The Ottoman Experience, 1347-1600, Cambridge University Press, 2015, che inserisce il caso ottomano nel contesto più ampio del mondo mediterraneo tra il tardo medioevo e la prima età moderna. 2 A Milano e in tutti i domini dei Visconti fu proibito l’ingresso di persone provenienti da aree contaminate (1398), e vietato il passaggio persino ai pellegrini che in occasione del Giubileo del 1400 si recavano a Roma dalla Francia e dalla Germania. A Pistoia per esempio già in occasione della Peste Nera sin dal 1348 si era stabilito che per rientrare in città da Pisa e Lucca occorreva l’autorizzazione del Consiglio del Popolo (A. Chiappelli, Gli ordinamenti sanitari del comune di Pistoia contro la pestilenza del 1348, «Archivio Storico Italiano», s. IV, t. XX (1887), pp. 3-24). 3 Le patenti erano documenti che accompagnavano le imbarcazioni, le bollette erano invece rilasciate ai viandanti (cfr. G. Cosmacini, A.W. D’Agostino, La peste passato e presente, Editrice San Raffaele, Milano, 2008, p. 133). 4 R.J. Palmer, The Control of Plague in Venice and Northern Italy: 1348 - 1600, Ph.D. thesis, University of Kent at Canterbury, 1978, p. 54 del dattiloscritto. E anche Id., L’azione della Repubblica di Venezia nel controllo della peste, in Venezia e la peste 13481797, Marsilio editori, Venezia, 1980, pp. 103-110. 5 Cfr. Z. Blazina Tomic, V. Blazina, Expelling the Plague. The Health Office and the Implementation of Quarantine in Dubrovnik, 1377-1533, McGill-Queen’s University Press, London 2015; S.F. Fabijanec, Hygiene And Commerce: The Example of Dalmatian Lazarettos, «Ekonomska i ekohistorija», vol. 4 (2008), pp. 115-133. Secondo altre ricostruzioni la quarantena sarebbe stata introdotta a Reggio Emilia nel 1374 da Bernabò Visconti, seguita poi da analoghe misure assunte a Genova e Venezia. 232 Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo trionale, che tra Quattrocento e Cinquecento in molte realtà urbane si trasformarono in organismi stabili, come a Milano, Venezia, Genova, Firenze6: la necessità di frenare il contagio indusse sempre più le autorità ad adottare misure nel tentativo di tutelare la salute della popolazione, regolamentando i comportamenti nell’emergenza della peste, anche se generalmente il quadro legislativo mancava ancora di organicità. Queste magistrature concentravano su di sé poteri legislativi, giudiziari, esecutivi: elaboravano e varavano misure in materia sanitaria, predisponevano i controlli necessari, giudicavano in merito a violazioni di tali provvedimenti. La peste stava insomma trasformando la sanità in una faccenda “pubblica”, la cui tutela doveva spettare alla sfera del politico7. In questo senso la diffusione dell’epidemia, e l’emergenza cui si accompagnava, funzionarono da fattore di accelerazione della «modernità» in termini di crescita della politica di controllo della società: «la sanità divenne un alibi dell’ordine»8. Certo non si trattò di processi rapidi o lineari, ma lo sforzo in questo senso fu messo in atto. Di sicuro nel corso del Cinquecento si determinò a livello europeo un progressivo laicizzarsi del controllo e della gestione della salute “pubblica”, e indubbiamente il governo della peste offrì un contributo non secondario proprio perché si connaturò immediatamente per la sua dimensione politico-medica. L’organizzazione e l’amministrazione delle istituzioni ospedaliere in Europa subirono infatti delle trasformazioni – che si definiranno poi nel Settecento – sulla spinta sia del processo di urbanizzazione sia del dilagare delle malattie epidemiche. Le autorità urbane si appropriarono progressivamente della funzione di controllo degli enti ospedalieri soprattutto sul piano contabile, e cer- 6 Difficile stabilire chi detenesse il primato: a Venezia già nel 1348 erano stati designati tre Savi alla sanità, ma solo nel 1486 fu creato in pianta stabile l’ufficio dei Provveditori alla sanità, con poteri ampi e articolati che andavano dalla pulizia della città al controllo della salubrità delle acque, alla vigilanza sui generi alimentari, alberghi, cimiteri, lazzaretti, prostitute, ospedali, e sull’ingresso di navi e merci, sulle fedi di sanità. A Genova, sebbene già nel 1480 fossero state raccolte e codificate delle norme in materia sanitaria, l’Ufficio di Sanità ebbe carattere di temporalità e solo nel 1528 si configurò come magistratura ordinaria, alla quale nel 1530 fu conferito il merum et mixtum imperium, con la facoltà di comminare anche la pena di morte (cfr. G. Assereto, «Per la comune salvezza dal morbo contagioso». I controlli di sanità nella Repubblica di Genova, Città del silenzio, Novi Ligure, 2011, p. 19). Il primato spetterebbe però a Dubrovnik, dove il primo Ufficio di sanità fu stabilito nel 1390 e reso permanente nel 1397, prima dunque che a Venezia. 7 Cfr. G. Panseri, La nascita della polizia medica: l’organizzazione sanitaria nei vari Stati italiani, in Storia d’Italia, Annali 3, Scienza e tecnica, a cura di G. Micheli, Einaudi, Torino, 1980, p. 165; e il recentissimo L. Antonielli (a cura di), La polizia sanitaria: dall’emergenza alla gestione della quotidianità, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2015. Una bibliografia periodicamente aggiornata sulla storia della sanità pubblica pre-moderna è stata compilata da G. Geltner and J. Coomans, University of Amsterdam, disponibile online Bibliography of Pre-Modern Public Health. 8 W. Naphy, A. Spicer, La peste in Europa, il Mulino, Bologna, 2006, p. 66. 233 Rossella Cancila carono di regolarne finalità e funzionamento, anche se il ruolo assistenziale di gilde, confraternite, corporazioni, privati, enti ecclesiastici continuava a essere rilevante in un contesto in cui la concezione caritativo-assistenziale rimaneva comunque ancora dominante: istituzioni ecclesiastiche, forze laicali e autorità di governo insistevano spesso sulle stesse realtà, ora in accordo, ora in regime di concorrenzialità quando non di aperto contrasto9. D’altra parte, nell’attività sanitaria assumeva un ruolo più incisivo la competenza del personale medico. Rimane però incontrovertibile che, malgrado gli sforzi compiuti a livello organizzativo dalla metà del XV secolo, la scienza medica era rimasta assai arretrata e i trattati offrivano ben pochi riferimenti sull’adozione di misure di pubblica sanità per combattere il contagio. Pertanto gli stessi magistrati di sanità, legati prevalentemente alla sfera dell’amministrazione urbana, spesso operavano nell’incertezza, non supportati dalla conoscenza medica, che non aveva ancora maturato idee scientificamente sostenibili sull’eziologia del morbo e sui meccanismi della sua diffusione10. In realtà cosa fosse la peste non si sapeva neppure, e la confusione e intercambiabilità dei termini utilizzati dai contemporanei (peste, febbre pestilenziale, morbo contagioso, ecc.) ne sono una prova. L’opinione dei medici – anche accademici accreditati, come a Padova Girolamo Mercuriale e Gerolamo Capodivacca – non di rado strizzava l’occhio alle autorità politiche per compiacerle, avallando l’allentamento di misure restrittive dannose a traffici e commerci interurbani: protezione delle persone e protezione 9 A. Pastore, Strutture assistenziali fra Chiesa e Stati nell’Italia della Controriforma, in Storia d’Italia, Annali IX, La chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, a cura di G. Chittolini e G. Miccoli, Einaudi, Torino, 1986, pp. 431-465, che evidenzia come l’ambito ecclesiastico e l’ambito laico nelle loro diverse articolazioni siano strettamente connessi, sia se si muovono in sintonia sia se invece sviluppano una logica di concorrenza o di contrasto. Sull’argomento, cfr. J. Henderson, Healing the Body and saving the soul: hospitals in Renaissance Florence ,«Renaissance Studies», vol. 15, n. 2 (2001), pp. 188-216, che a partire dal caso di Firenze tra tardo medievo e prima età moderna e attraverso connessioni tematiche tra iconografia pittorica e funzioni dell’ospedale ne sottolinea il ruolo insieme religioso e civico. Si veda anche J.L. Stevens Crawshaw, Plague Hospitals: Public Health for the City in Early Modern Venice, Ashgate, London, 2012. A Ragusa, pur essendoci enti religiosi che provvedevano a erogare servizi inerenti alla tutela della salute pubblica, l’assistenza sanitaria era invece finanziata e organizzata dal governo, che si fece promotore della costruzione di ospedali: l’hospedal del comun fu uno primi a sorgere in Europa nel 1347 (Z. Blazina Tomic, V. Blazina, Expelling the Plague cit., pp. 69-71). Per un inquadramento complessivo, cfr. G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia. Dalla peste nera ai nostri giorni, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 54-62. Cfr. anche il caso siciliano, studiato da R. Rossi, Organizzazione, amministrazione e gestione delle strutture sanitarie nella Sicilia di età moderna: l’Ospedale di Santa Caterina pro infirmis di Monreale tra XVI e XVII secolo, «Mediterranea-ricerche storiche», n. 31, 2014, pp. 285-308. 10 C.M. Cipolla, Public health and the medical profession in the Renaissance, Cambridge University Press, Cambridge, 1976. 234 Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo dei traffici rappresentano insomma i due poli di oscillazione del pendolo con cui le autorità dovevano continuamente misurarsi11. L’opinione corrente è che, all’interno della penisola italiana, a sud di Firenze le organizzazioni sanitarie e la lotta contro l’epidemia rimasero a un livello più rudimentale e occasionale per tutto il Cinquecento e il Seicento12. A Napoli, ad esempio, i provvedimenti assunti già in occasione della peste del 1497, seppure in linea con i parametri di prevenzione, controllo e sorveglianza in vigore in altre realtà della penisola, non discendevano da un’autorità permanente, e il Protomedico, che però non si occupava nello specifico di peste, fu istituito solamente nel 153813. Come si inserisce la Sicilia nel contesto del XVI secolo? Quale fu il suo contributo all’elaborazione di teorie, procedure, strategie di controllo della peste, e più in generale di misure preventive adottate a livello urbano a difesa della salute pubblica? È possibile superare l’idea di un ritardo del Regno rispetto alle aree la cui organizzazione sanitaria è considerata tra le più avanzate, come quelle dell’Italia centro-settentrionale? Manca uno studio organico recente sulla peste del 1575 a Palermo, anche se la rinnovata attenzione nei confronti del protomedico Giovanni Filippo Ingrassia, che ne fu uno dei maggiori protagonisti, ha ampliato le nostre conoscenze soprattutto sul versante del suo contributo alla cultura medica dell’epoca. I dettagli del sistema che in quell’occasione si allestì, l’impianto istituzionale, le modalità del suo funzionamento ci sono invece ancora poco noti14. Eppure, essi collocarono la Sicilia ai livelli più alti della capacità organizzativa e scientifica dell’Europa tardo-cinquecentesca. 11 Cfr. P. Preto, Peste e società a Venezia, 1576, Neri Pozza editore, Vicenza, 1978, pp. 47-49. Quello della relazione tra salvaguardia della salute comune attraverso l’adozione di misure restrittive, e salvaguardia degli interessi dei ceti mercantili, che chiedevano alle autorità attenzione a traffici e attività produttive al fine di evitare il collasso economico, è uno dei temi su cui è recentemente ritornata la storiografia sulla peste e sulla sanità pubblica: si veda, ad esempio, K. Wilson Bowers, Plague and Public. Health in Early Modern Seville, University of Rochester Press, Rochester-New York, 2013. Il tema è affrontato anche da R. Salvemini, Politiche e interventi su sanità e territori marittimi nel Regno di Napoli, «Storia Urbana», 147 (2015), pp. 75-97. 12 Cfr. l’opinione di C.M. Cipolla, Il pestifero e contagioso morbo. Combattere la peste nell’Italia del Seicento, il Mulino, 2012 (1a ediz. 1981), pp. 14-15. 13 Cfr. P. Lopez, Napoli e la peste 1464-1530. Politica istituzioni problemi sanitari, Jovene, Napoli, 1989, pp. 28-33. Su Napoli si veda anche I. Fusco, Peste, demografia e fiscalità nel Regno di Napoli nel XVII secolo, FrancoAngeli, Milano, 2007. Una recente analisi sull’impatto della peste a Roma e nello Stato Pontificio negli anni compresi tra il 1576 e il 1579 è stata condotta da R. Sansa, Un territorio, la peste, un’istituzione. La Congregazione sanitaria a Roma e nello Stato pontificio. XVI-XVII secolo, «Storia Urbana», 147 (2015), pp. 18-24, che attesta l’esistenza di una congregazione sanitaria a carattere prevalentemente municipale e temporaneo istituita per l’occasione a Roma. 14 Si veda la ricostruzione di F. Maggiore Perni, Palermo e le sue grandi epidemie dal secolo XVI al XIX, Palermo 1894, pp. 130-156. 235 Rossella Cancila Giovanni Filippo Ingrassia Un vero e proprio spartiacque nel modo in cui le autorità gestirono l’emergenza della peste fu indubbiamente rappresentato nel panorama europeo dall’Informatione del pestifero et contagioso morbo del protomedico siciliano Giovanni Filippo Ingrassia (1512-1580), trattato scritto in occasione della peste che colpì Palermo nel 1575 e pubblicato nel 157615. È certo significativo che a Genova, dove la peste si manifestò nel 1579, il governo abbia deliberato di far stampare il volume, poi diffusosi in tutta Europa grazie alla traduzione in latino di Joachim Camerarius16. E ancora va rilevato che, durante la peste che colpì la Sardegna negli anni 1582-1583, era protomedico di Alghero il napoletano Quinto Tiberio Angelerio, che introdusse misure profilattiche nuove per il sistema sanitario dell’isola, assai simili a quelle già adottate da Ingrassia: Angelerio in effetti aveva praticato a Messina nel 1575-1576 e certamente aveva molto appreso da quell’esperienza, sebbene le fonti non rivelino alcun contatto diretto tra i due medici17. Ingrassia, come gli studi di storia della medicina e della scienza anche recentemente hanno ben evidenziato, impresse un forte impulso al riordinamento delle arti mediche con diverse trattazioni che comprendevano anche una serie di ordinamenti a sfondo pragmatico, che contribuirono in modo determinante al rinnovamento dell’esercizio della pratica medica in Sicilia, e non solo18. Formatosi a Padova – considerata nel Cinquecento il più importante centro d’insegnamento medico non 15 G.F. Ingrassia, Informatione del pestifero, et contagioso morbo, 1576 (online digitalizzato da Google). Si veda la recente ristampa a cura e con prefazione di Luigi Ingaliso: G.F. Ingrassia, Informatione del pestifero et contagioso morbo, a cura di Luigi Ingaliso, FrancoAngeli, Milano, 2005, cui faccio riferimento nelle citazioni per i rimandi alle pagine; ma anche l’edizione a cura di Alfredo Salerno [et al.], Accademia delle scienze mediche, Palermo, 2012. 16 Cfr. G. Assereto, «Per la comune salvezza dal morbo contagioso» cit., p. 35. L’edizione genovese (Avvertimenti contra la peste, 1579) fu tradotta in latino di Joachim Camerarius col titolo Synopsis… commentariorum de peste… auctoribus Hieronymo Donzellino, Iohanne Philippo Ingrassia, Caesare Rincio, Ioachimo Camerario, Norimberga, 1583): cfr. C. Preti, Dizionario Biografico degli italiani, vol. 62 (2004), ad vocem. 17 Cfr. R. Bianucci, O.J. Benedictow, G. Fornaciari, V. Giuffra, Quinto Tiberio Angelerio and New Measures for Controlling Plague in 16th-Century Alghero, Sardinia, «Emerging Infectious Disease journal», vol. 19, 9 (2013), (on line http://dx.doi.org/10.3201/eid 1909.120311http://www.cdc.gov/Other/disclaimer.html). Sull’argomento, cfr. anche F. Manconi, Castigo de Dios. La grande peste barocca nella Sardegna di Filippo IV, Donzelli Editore, Roma, 1994, pp. 115-119. 18 Un elogio dell’attività di Ingrassia come scienziato e come medico fu fatto da Arcangelo Spedalieri, Elogio storico di Giovanni Filippo Ingrassia letto nella grand’aula della I. R. Università di Pavia, Milano 1817. Sull’attività di Ingrassia come Protomedico e come scienziato, oltre ai volumi già citati a cura di Luigi Ingaliso (L. Ingaliso, Introduzione a G.F. Ingrassia, Informatione cit., pp. 9-64) e Alfredo Salerno, mi limito a indicare C. Dollo, Modelli scientifici e filosofici della Sicilia spagnola, Guida, Napoli, 1984, pp. 39-65; G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia cit., p. 111; R. Malta, A. Salerno, 236 Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo solo in Italia, ma anche in Europa – (dove si trasferì nel 1532)19, e a Bologna (dove si laureò nel 1537), ricoprì la cattedra di anatomia e di medicina teorica e pratica a Napoli nel 1544, chiamato dal viceré Pedro Álvarez de Toledo e dal Senato di quella città20. Ritornato a Palermo nel 1553, ottenne l’incarico di lettore ordinario di medicina dal Senato, e nel 1563 la nomina a protomedico del Regno21. Successivamente insegnò medicina a Messina dal 1564 al 1568. Egli – che risulta affiliato all’Inquisizione spagnola in Sicilia22 – si giovò indubbiamente del favore A. Gerbino, L’Informatione del pestifero et contagioso morbo di G.F. Ingrassia: percorso diagnostico, in «Atti del Convegno primaverile della Società Italiana di Storia della Medicina: La diagnosi», giugno 2010, Dogliani Castello, 2010, pp. 48-52; R. Alibrandi, Giovan Filippo Ingrassia e le Costituzioni Protomedicali per il Regno di Sicilia, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2011; Ead., Ut sepulta surgat veritas. Giovan Filippo Ingrassia e Fortunato Fedeli sulla novella strada della medicina legale, «Historia et ius», www.historiaetius.eu - 2/2012 - paper 7; A.G. Marchese, Giovanni Filippo Ingrassia, Flaccovio Editore, Palermo, 2010; C. Valenti, Gianfilippo Ingrassia, pioniere in Sicilia della scienza medica rinascimentale, «Archivio Storico Siciliano», serie IV, XXI-XXII, I (1995-1996), pp. 135158. Si veda anche il recente saggio di N. Cusumano, Ricerche sulla teratologia in Sicilia (secoli XVI-XVIII), in «Studi Storici», 4/2012, pp. 855-881, pubblicato negli Stati Uniti col titolo «Fetal monstrosities». A comparision of evidenze in Sicily in the Modern Age, «Preternature. Critical and Historical Studies on the Preternatural», Penn State University Press, vol. 2 n. 2 (2013). Su piano internazionale l’interesse su Filippo Ingrassia è negli ultimi anni notevolmente cresciuto nel contesto degli studi sulla letteratura in tema di peste: in particolare, cfr. S.K. Cohn, Cultures of Plague, Oxford University Press, Oxford, 2010, che a Ingrassia dedica un intero capitolo del suo libro. 19 A Padova in particolare Ingrassia entrò in contatto diretto con Andrea Vesalio, Gabriele Falloppio, Giovanni Manardo, grandi accademici dell’epoca con le cui teorie fu in grado di confrontarsi. 20 L’arrivo di Ingrassia a Napoli è «un evento che segna nella medicina napoletana la fioritura di una nuova epoca. La sua attività rappresentò infatti il passaggio da una medicina filologica a una medicina osservativa, da una medicina del testo a una medicina del corpo» (F. Trevisani, Giovanni Filippo Ingrassia a Napoli, in C. Dollo (a cura di), Filosofia e Scienze nella Sicilia dei secoli XVI e XVII. Le idee, vol. I, Università degli Studi, Catania, 1996, p. 39). Sull’argomento, cfr. anche A. Musi, Medici e istituzioni a Napoli nell’età moderna, in P. Frascani (a cura di), Sanità e Società: Abruzzi, Campania, Basilicata, Puglia, Calabria, secoli XVII-XX, Casamassima, Udine, 1990. 21 La nomina del primo protomedico del Regno di Sicilia si deve a re Martino d’Aragona nel 1397, mentre le prime ordinazioni sul protomedicato risalgono al 1429 a cura di Antonio D’Alessandro, che occupò la carica dal 1421 al 1440. Le stesse furono poi riprese da Ingrassia con aggiunte e commenti. Sull’argomento cfr. P. Li Voti, Le costituzioni protomedicali del Regno di Sicilia da Antonio D’Alessandro a Giovanni Filippo Ingrassia ed a Paolo Rizzuto, Accademia di Scienze Mediche di Palermo, Palermo, 1989; e ancora più recentemente D. Santoro, Lo speziale siciliano tra continuità e innovazione: capitoli e costituzioni dal XIV al XVI secolo, «Mediterranea-ricerche storiche», n. 8 (2006), pp. 645-484. Il testo delle Costituzioni e capitoli e giurisdizioni del Regio Ufficio di Protomedicato con le pandette dello stesso, riformate e in molte parti rinnovate e delucidate da Giovanni Filippo Ingrassia …, Palermo 1564 è stato pubblicato in traduzione italiana da R. Alibrandi, Giovan Filippo Ingrassia e le Costituzioni Protomedicali cit. 22 Il suo nome – come Felipello Ingarsia, medico – risulta nella Matricula de los oficiales, familiares de la Sancta Inquisición del Reyno de Sicilia del 1561 (cfr. F. Giunta, Dossier Inquisizione in Sicilia. L’organigramma del Sant’Uffizio a metà del Cinquecento, Sellerio, Palermo, 1991, p. 45). 237 Rossella Cancila di cui godeva presso la corte vicereale già all’epoca di De Vega, che ne favorì il rientro a Palermo; ma anche dello stretto rapporto con il duca di Terranova Carlo d’Aragona, luogotenente del Regno al tempo in cui scoppiò la peste del 1575; e della frequentazione con le più importanti famiglie del panorama sociale e politico palermitano23. Particolarmente rilevante risultò la sua attività medico-legale, con suggerimenti e indicazioni metodologiche utili in sede giudiziaria nell’ottica di un rinnovato dialogo tra medico e giudice. Ma anche sul tema della peste il suo contributo fu – come si è detto – assai originale rispetto alla letteratura sull’argomento prodotta da altri medici del suo tempo, come Girolamo Fracastoro, Nicolò Massa, Gabriele Falloppio, Giacomo Argentieri, Girolamo Mercuriale, Ludovico Settala24. La concezione dominante “classica” attribuiva all’aria la causa della peste e ai miasmi, cioè le impurità dell’aria ispirata, la sua trasmissione (teoria miasmatica). L’idea della diffusione della peste per contagio (teoria dei germi) si era in realtà ormai affermata nel XVI secolo grazie anche al successo dell’opera del medico veronese Girolamo Fracastoro25 – che influenzò indubbiamente l’opinione di Ingrassia –, anche se permanevano opinioni diverse sulla sua origine, che generalmente si ricollegava ancora alle condizioni climatiche calde e umide favorevoli alla putrefazione dell’aria26. Ingrassia dimostra di conoscere assai bene la letteratura 23 Carlo d’Aragona fu luogotenente del Regno di Sicilia dal 18 ottobre 1566 al 11 aprile 1568 e dal 27 settembre 1571 al 24 aprile 1577. Ingrassia stesso afferma di essere stato medico di famiglia al servizio del Duca per 39 anni (G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte I, cap. IX, p. 148 [74]). Ebbe rapporti professionali con importanti famiglie dell’epoca, come i Ventimiglia. Suo primo mecenate fu però Alfonso II Cardona, conte di Chiusa e marchese di Giuliana, che ricoprì la carica di presidente del Regno nel 1542-1543 in assenza del viceré Ferrante Gonzaga: grazie a lui entrò nella cerchia cortigiana del Gonzaga, divenendo medico personale della viceregina Isabella di Capua. Per notizie biografiche dettagliate su Ingrassia, cfr. A.G. Marchese, Giovanni Filippo Ingrassia cit., passim. 24 Cfr. A.G. Marchese, Giovanni Filippo Ingrassia cit., p. 105. 25 L’opera di Girolamo Fracastoro, De contagione et contagiosis morbis et curatione, pubblicata nel 1546 è stata considerata alla base della teoria dei germi. In verità la sua importanza consiste nell’avere riformulato in una visione di sintesi teorie classiche ed esperienza, affermando l’idea che la peste potesse originarsi per condizioni climatiche e diffondersi poi per contagio diretto o per fomite oppure nell’aria: «appare meno come un rivoluzionario e più come un riconciliatore della teoria classica con la moderna osservazione» (A. Zitelli, R.J. Palmer, Le teorie mediche sulla peste e il contesto veneziano, in Venezia e la peste cit., p. 25). Su Girolamo Fracastoro, cfr. anche il più recente A. Pastore, E. Peruzzi (a cura di), Girolamo Fracastoro fra medicina, filosofia e scienze della natura, «Atti del Convegno internazionale di studi in occasione del 450o anniversario della morte: Verona-Padova 9-11 ottobre 2003», Olschki, Firenze, 2006. Sull’influenza che Fracastoro ebbe sull’elaborazione di Ingrassia, cfr. L. Ingaliso, Introduzione cit., p. 45. 26 A. Kinzelbach, Infection, Contagion, and Public Health in Late Medieval and Early Modern German Imperial Towns, «Journal of the History of Medicine and Allied Sciences», 61/3, (2006) pp. 369-389, che puntualizza come i due concetti di miasma e contagio coesistessero nella percezione comune e non venissero distinti rigorosamente. 238 Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo sull’argomento e cita frequentemente suoi colleghi accademici, con cui peraltro dovette avere in diversi casi una frequentazione diretta. Quando si manifestarono nel giugno del 1575 i primi casi a Palermo, egli ritenne, sulla base anche delle descrizioni dei medici che operavano in città, di non essere innanzi a vera peste: non si era manifestata infatti alcuna corruzione dell’aria, né di terra né di acqua, né alcun segno di putredine, né poteva attribuirsi la presenza del morbo a influssi celesti27. Nessuna dunque delle cause che la trattatistica sull’argomento attribuiva alla peste si era palesata chiaramente, anche se il livello di incertezza rimaneva molto elevato sulla vera natura del morbo. Né prese mai seriamente in considerazione le ipotesi che facevano riferimento a particolari congiunzioni astrali, al suo tempo ancora in voga28; o quelle sull’origine manufatta nella sua forma demoniaca o umana29. Solo quando, ai primi di luglio, il furore del contagio cominciò a mietere vittime fu chiara la natura del morbo e si capì che esso era giunto dalla Barberia su una galeotta infetta. Di origine «forestiera», esso si diffondeva per contatto diretto o mediato per fomite attraverso vestiti o altri materiali30. Di conseguenza con determinazione si procedette da parte delle autorità all’adozione di misure più drastiche. G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte I, cap. II, pp. 92-94 [18-20]. Le tesi di Ingrassia determinarono uno spostamento dell’attenzione dalle cause celesti (influssi dal cielo) a quelle terrestri, e di conseguenza un ridimensionamento del rapporto tra medicina e astrologia (cfr. L. Ingaliso, Introduzione cit., p. 40). 29 Ingrassia non indugia troppo su queste credenze, ma nella sua Parte quinta del pestifero, et contagioso morbo, Palermo 1577, lancia un «avvertimento contra i seminatori del contagio», identificandoli con i rinnegati, cristiani solo di nome, i quali, «desiderosi per qualche lor disegno o per grandissima ribalderia, che la peste si aumenti, et disparga per tutto, vanno seminando robe infette, dentro e fuor della città»: non sembra che Ingrassia presti molta fede a queste dicerie, ma a livello cautelativo invita ogni città e terra a «stare accorta», affinché nessuno raccolga da terra o tocchi «in questi tempi sospetti di contagio» alcunché di cui non si conosca l’origine (ivi, pp. 36-37). In realtà, gli interessa di più mettere in guardia per evitare la trasmissione per fomite della malattia, e la credenza in questo gli fa buon gioco. Vale la pena di sottolineare che in Sicilia la credenza della peste manufatta demoniaca non godeva di molto credito tra i medici e che mancava d’altra parte nell’isola una letteratura esorcista di consistente spessore (cfr. cfr. C. Dollo, Peste e untori nella Sicilia spagnola, Morano editore, Napoli, 1991, pp. 14, 20). Sulla teoria della peste manufatta, cfr. P. Preto, Epidemia, paura e politica nell’Italia moderna, Laterza, Roma-Bari, 1987, pp. 5-23, e in particolare ivi, pp. 24-34 sulla caccia agli untori nel Cinquecento. 30 La prima a morire a Palermo fu una meretrice maltese, che aveva «praticato» con il capitano della galeotta sospetta: attorno a lei si verificarono poi una serie di casi soprattutto nel quartiere di Seralcadio (oggi meglio noto col nome di Capo). La galeotta, armata a Messina, dopo avere corseggiato in Barberia, giunse = secondo quanto riferisce Ingrassia («dicono essere stata») = prima a Sciacca, dove sbarcarono alcuni degli infermi, diffondendo in pochi giorni il morbo in città, poi a Trapani, da lì a Palermo e infine a Messina (G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte I, cap. VII, p. 133). Tra i centri più colpiti in Sicilia furono anche Palazzo Adriano e Giuliana. Cfr. anche F. Paruta, N. Palmerino, Diario della città di Palermo, in Biblioteca storica e letteraria di Sicilia, a cura di G. Di Marzo, Palermo, 1869, I, pp. 62-63. 27 28 239 Rossella Cancila La conoscenza del male, le ipotesi sulla sua origine e diffusione erano strettamente connesse con le pratiche per combatterlo: Ingrassia affrontò il tema non solo sul piano teorico, in relazione all’eziologia del morbo, ma anche in merito all’organizzazione di un apparato efficiente ed efficace di sorveglianza e di prevenzione, individuando in modo chiaro quelle misure di igiene e profilassi, che dovevano essere predisposte dalle autorità per combattere il contagio non tanto sul piano della cura del singolo paziente, ma sul fronte dell’intera comunità. Inaugurò insomma un nuovo stile nel modo di scrivere sulla peste e di occuparsi del tema, e il suo trattato fu una delle opere più influenti e citate del suo tempo31. La sua Informatione del pestifero, et contagioso morbo è stata considerata un vero e proprio codice sanitario32: essa rappresenta un protocollo cui attenersi nell’emergenza sanitaria, in cui la pratica del barreggiamento, il ricorso al fuoco per bruciare le robe infette ed espurgare gli indumenti33 e l’applicazione spietata della forca per i contravventori svolgono una funzione preventiva di assoluto rilievo. Ma anche l’oro necessario a finanziare l’azione politica, col sostegno ai poveri più esposti al male e al contagio non solo con elemosine, ma imponendo gabelle e collette ai più ricchi, e tassando anche i medici34. Le sue istruzioni costituiscono insomma un vademecum per le autorità sul comportamento da tenere nell’emergenza della peste non solo al livello della pubblica sanità, ma anche della pratica politico-sociale, configurando una distinzione di ruoli tra autorità politiche e personale medico-sanitario, e al tempo stesso la necessaria collaborazione tra loro. La diffusione del contagio si combatteva infatti per Ingrassia in due modi: l’universale, che spettava alla pubblica autorità; e il particolare di pertinenza dei medici con l’arte della medicina35. Appare significativo che un medico abbia assunto un ruolo istituzionale assolutamente di rilievo, e non marginale, all’interno della Deputazione, condizionandone e dirigendone l’operato. Sul piano del controllo, della sorveglianza, dell’adozione di pratiche di registrazione e di identificazione personale le sue istruzioni rappresentano senza dubbio una messa a punto fondamentale, che consentiva alle autorità di liberarsi dall’approssimazione e improvvisazione che aveva caratterizzato sino 31 Ingrassia risulta citato da diversi autori, che si occuparono di peste, come Girolamo Cardano, Andrea Gallo, Gioseffo Daciano e molti altri ancora (S.K. Cohn, Cultures of Plague cit.). 32 Alfredo Salerno [et al.] cit., p. XI. 33 La lana in particolare veniva ritenuta un veicolo di trasmissione del morbo. 34 Ingrassia auspica – come si vedrà – un potenziamento del Monte di Pietà: «et hora è tempo di ampliarsi, et darsi soccorso al Monte di Pietà». G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte I, cap. VI, p. 120 [46]. 35 Ibidem. 240 Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo ad allora la lotta contro l’epidemia. Ma esse segnano anche la consapevolezza della necessità di individuare, al fine di rimediarvi, i rischi che potevano derivare alla salute pubblica da un ambiente malsano, che occorreva risanare. Insomma, non si trattava di occuparsi del problema sanitario solamente quando un’emergenza era in corso, dunque in presenza di una necessità, ma anche come sbocco di una scelta ben precisa in vista della promozione di un habitat più sano, che concorresse alla riduzione dei rischi per la salute, «per preservare dal futuro». La Deputazione di Sanità La peste aveva colpito Palermo sin dall’anno 1347, e poi ancora nel 1400, nel 1482 e nel 1493. Nel corso del Cinquecento la Sicilia conobbe altre ondate: nel 1526 essa era stata accertata a Licata, Terranova (Gela), Caltagirone, Mazzarino e Agrigento, Messina, Siracusa, Enna36, ma non era entrata a Palermo grazie alle misure adottate del Senato, che era riuscito a controllare il suo territorio. Nel 1558 la città fu ancora interessata da una violenta epidemia (probabilmente di tifo petecchiale), in seguito a una impetuosa alluvione, che causò più di ottomila morti37. La peste arrivò invece a Palermo il 9 giugno 1575, ma – come si è detto – non se ne capì immediatamente la natura, anche perché gli stessi medici non ne avevano mai avuta esperienza38. Alcune porte della città furono chiuse, perché non vi è meglior amico, che la vita, non pur la propria, ma la commune39; e già il 13 del mese su consiglio dei medici fu emanato un bando che imponeva di pulire le strade e bruciare «ogni cosa fetida». Soltanto ai primi di luglio però, e non Ascp, Atti, bandi e proviste, vol. 133/49 (1525-26), c. 39r. Cfr. G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte I, cap. VII, p. 137 [62]. Ingrassia si era occupato di questa epidemia già nel suo trattato sui mostri pubblicato a Palermo nel 1560 (Id., Trattato assai bello et utile dei doi mostri nati in Palermo in diversi tempi, 1560). Si veda anche A. Corradi, Annali delle epidemie occorse in Italia dalle prime memorie fino al 1850, Bologna, 1865-94, I, pp. 544-546. Relativamente al contesto dell’alluvione del settembre 1557, cfr. il recente M. Vesco, L’alluvione di Palermo del 1557 tra rischio idrogeologico, speculazione edilizia e piani di ricostruzione in M. Galtarossa, L. Genovese (a cura di), La città liquida, la città assetata: storia di un rapporto di lunga durata, Palombi Editori, Roma, 2014, pp. 161-188. 38 Vincenzo di Giovanni sottolinea l’esperienza del medico Antonino Sanzano, che era stato a Costantinopoli (V. Di Giovanni, Palermo Restaurato, a cura di M. Giorgianni e A. Santamaura, Sellerio, Palermo, 1989, p. 322). La peste aveva già colpito Trento sin dal settembre del 1574 e da lì il contagio si sarebbe poi esteso in gran parte dell’Italia centrosettentrionale: cfr. G. Alfani, Il gran tour dei cavalieri dell’Apocalisse. L’Italia del «lungo Cinquecento» (1494-1629), Marsilio, Venezia, 2010, pp. 145-146 (ora anche in edizione inglese, Id., Calamities and the Economy in Renaissance Italy: The Grand Tour of the Horsemen of the Apocalypse, Palgrave Macmillan, Basingstoke and New York, 2013). 39 G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte I, cap. VI, p. 119 [17]. 36 37 241 Rossella Cancila subito («come sarebbe stato meglio», riconosce lo stesso Ingrassia), «si diede più risoluto principio al barreggiare, sequestrando i sospetti da i sani, ordinandosi un hospedale per li ammorbati, fuor della città, et molti altri ordini si diedero dal Luogotenente di sua Maestà, e dalla Deputatione»40. Il vertice decisionale era dunque costituito dalla Deputazione di Sanità, una magistratura ancora temporanea istituita proprio per l’occasione, col compito di vigilare sulla cura della pubblica sanità a livello cittadino, anche se tutte le operazioni più importanti appaiono dirette da Carlo d’Aragona, che, pur non facendone parte formalmente, rappresentava il governo spagnolo41. Ne facevano parte il pretore (Giovanni Villaraut, barone di Prizzi), a capo del governo della città, cui competeva anche la giustizia civile; il capitano giustiziere (Ludovico Spatafora), che sovrintendeva alla giustizia criminale; il protomedico del Regno Filippo Ingrassia, come consulente per ciò che era di pertinenza alla medicina (cooptato in verità solo in un secondo tempo, il 28 luglio 1575). A questi si aggiungevano altri diciannove cavalieri, che ne costituivano il vero braccio operativo: erano gli undici deputati preposti alla cura di ogni quartiere della città (che prendevano ordini dalla Deputazione); i tre Rettori della Cuba e i tre Rettori del borgo di Santa Lucia (nominati dal duca di Terranova); il consultore (eletto dalla Deputazione) per la giustizia civile e criminale (Antonino Bologna), e il sindaco della città (Perotto Valsecca), entrambi dottori in legge42. Tutti personaggi di primissimo piano sulla scena politica della Palermo dell’epoca. «Tanta era la dignità di quest’ufficio della Deputazione della Sanità, che ogn’uno, di qualunque dignità e grado che fusse, pregiavasi tra quelli esser connumerato, ed il procurava»43. Forse troppi, a parere dell’Ingrassia, che riteneva «molto più perfetto dover essere, quando si riducesse al terzo, che fossero in tutto al più del numero settenario», anche in considerazione del fatto che a Venezia non erano più di cinque44. Veramente può dirsi che l’élite cittadina si fece carico delle maggiori responsabilità. In questo senso la situazione di Palermo appare assai diversa rispetto a quella di Milano, dove giocò un ruolo fondamentale Ivi, parte I, cap. IV, p. 111 [37]. Ingrassia riporta spesso per esteso molti di questi bandi. L’istituzione di una magistratura sanitaria stabile e centralizzata si ebbe in Sicilia solo negli anni quaranta del XVIII secolo (cfr. D. Palermo, La Suprema Deputazione Generale di salute pubblica del Regno di Sicilia dall’emergenza alla stabilitá, «Storia Urbana», 147 (2015), pp. 115-138). 42 G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte II, cap. IV, p. 236 [158]. Nel tempo il numero dei deputati fu portato a 29, finché il viceré Colonna non li ridusse a 12, per ovviare alla lentezza con cui venivano prese le decisioni. Successivamente, in occasione della peste del 1624, il numero dei componenti salì ancora per la partecipazione dell’intero Senato, che però esprimeva un solo voto. 43 V. Di Giovanni, Palermo Restaurato cit., p. 322. 44 G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte II, cap. III, p. 236 [159]. 40 41 242 Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo la personalità dell’arcivescovo Borromeo, tanto che la peste di quegli anni è ricordata come «la peste di san Carlo»45. E se a Milano, dove pure l’attività legislativa del Tribunale di Sanità presieduto da Gerolamo Monti fu intensa, il governo rivelò incertezze decisionali al punto che al più esperto Monti successe il senatore Brugora, «nuovo nelle cose sanitarie», tanto da destare le preoccupazioni del governatore, per lo più assente e preoccupato piuttosto della sua incolumità; a Palermo invece la Deputazione si radunava almeno una volta al giorno, anche due, e discuteva continuamente alla ricerca delle misure più idonee da adottare. Il duca di Terranova, pur trascorrendo lunghi periodi nella vicina Termini (risparmiata dal contagio), si assunse importanti responsabilità e non lasciò la città alla gestione delle sole autorità cittadine, pur demandando loro fondamentali funzioni46. E se Milano – da dove chi poteva, fuggì – fu abbandonata persino dai medici, che si nascondevano o simulavano di non essere tali, tanto che la città si trovò in balia di alcuni imbroglioni47, a Palermo invece il deus ex machina fu il protomedico Filippo Ingrassia, e l’opinione dei medici fu tenuta in grande considerazione non solo in seno alla Deputazione, ma dallo stesso Carlo d’Aragona48. Molti di loro morirono esercitando l’attività. 45 A Milano i primi casi di peste si verificarono a luglio e la peste fu conclamata l’11 agosto 1576: cfr. Ascanio Centorio de’ Hortensii, Commendator di S. Giacomo in Compostella, I Cinque Libri degl’Avvertimenti, ordini, gride, et editti. Fatti et osservati in Milano, ne’ tempi sospettosi della peste, Venezia 1579. Per Milano, cfr. anche A.F. La Cava, La peste di S. Carlo: note storico-mediche sulla peste 1576, Hoepli, Milano, 1945; L. Besozzi, Le magistrature cittadine milanesi e la peste del 1576-1577, Cappelli, Bologna, 1988. Più recentemente e in una prospettiva più ampia, cfr. G. Alfani, Il gran tour dei cavalieri dell’Apocalisse cit., pp. 145 sgg. 46 Ingrassia stesso riferisce che negli ultimi giorni di giugno, in una fase acuta del contagio, «deliberò il detto Duca venirsene da Termine in Palermo a posta, per dare ordine, et soccorso a tutto il bisogno» (G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte II, cap. I, p. 213 [138]). Al verificarsi dei primi casi il duca si trovava a Messina, ma d’intesa con Giovanni d’Austria, programmò il suo rientro a Palermo, passando da Termini, proprio per avere il pieno controllo della situazione (Ags, Estado, 1144/72, Palermo 4 luglio 1575). Carlo d’Aragona d’altra parte si occupava non solo di Palermo, ma anche delle altre città del regno, con disposizioni atte a fronteggiare l’emergenza e a contenere la diffusione del morbo nelle diverse località in cui esso si andava via via manifestando. Numerose disposizioni emanate dall’Aragona si trovano in Ascp, Proviste, 620/5 (a. 15751576). Traccia una mappatura del contagio S.A. Galizia, Territorio e popolazione nella Sicilia d’età moderna (1571-1577), Tesi di Dottorato Ricerca in Territorio, paesaggio e comunità locali: sviluppo integrato e sostenibilità, Tutor prof. S. Burgio, Università di Catania, XXV° ciclo 2009-2012. 47 Cfr. G. Ripamonti, La peste di Milano del 1630, libri cinque, volgarizzati da F. Cusani, Milano, 1841, p. 304. 48 I medici citati furono: Giovan Battista delle Ciambre, Santoro Vitale, Giulio di Melazzo, Vincentio Tantillo, Luca Sinatra, Iacopo Garigliano, Francesco Crescenza, Vincentio d’Auria, Giacomo Capputo, Girolamo Gascone, Pietro Maccarone, Luciano La Gola, Benedetto Vitale, Francesco Bisso, Lorenzo di Natale, Antonino Sanzano, (G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte I, cap. V, p. 112 [38]). 243 Rossella Cancila Sul fronte esterno una delle prime azioni messe in atto dagli ufficiali della città fu «l’intelligenza o aviso delle terre sospette o infette», affidata a persone degne di fede col compito di effettuare una ricognizione diretta. Questa pratica informativa allo scopo di raccogliere notizie sicure in loco era adottata da Venezia, che inviava nelle città sospette degli «esploratori di peste» con l’incarico di assumere informazioni dettagliate e di prima mano49. Furono pertanto designati un cavaliere (Antonino Caravello) e un medico (Benedetto Vitale, «un de i nostri Medici principali») e inviati a Palazzo Adriano, dove il morbo si era manifestato più intensamente, «per informarsi della natura e qualità del male»50. Qui verificarono che in un «picciolo luogo, il quale non si può ugualare alla ventesima parte di questa città», ne morivano pure dieci, dodici al giorno e anche più: «donde riportarono chiara congettura di peste». Si decise dunque «a maggior cautela» di rafforzare i controlli alle porte della città, verificando che persone e merci provenienti dall’esterno fossero accompagnate da patenti o bollettini emessi dai luoghi di provenienza (non sospetti né dichiarati infetti); e impedendo l’ingresso a chiunque ne fosse sprovvisto51. Fu imposto che nessun «fondacaro, o tavernaro, o tenitor barracca» entro il territorio della città per un raggio di tre miglia potesse tenere aperto «il suo fondaco o la taverna o la barracca»52; e al di fuori di questo raggio non avrebbe potuto «accostarsi, né lasciar accostare o conversare o praticare con persona alcuna forestiera viandante»53. Ingrassia è però ben consapevole che molti dal- 49 I Provveditori alla sanità vi ricorsero oltre che nel 1575 anche nel 1553 con la città di Salisburgo, e nel 1557 con Vicenza e Padova, come documenta P. Preto, I servizi segreti di Venezia, il Saggiatore, Milano, 1994, pp. 447-448; cfr. anche Id., Peste e società a Venezia cit., pp. 17, 19. 50 G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte I, cap. VI, p. 126 [51]. La peste si era diffusa intanto a Sciacca, Palazzo Adriano e Giuliana con una certa virulenza. Sul fronte siciliano il duca di Terranova dispose che ognuno dei tre valli in cui era divisa l’isola fosse affidato a due capitani d’arme con poteri speciali (Asp, Tribunale del Real Patrimonio, Lettere e dispacci viceregi, vol. 619, c. 327; e ivi, vol. 633, c. 37). 51 Ivi, parte II, cap. XII, p. 332 [250]. Ingrassia riporta per intero il bando emanato dal duca di Terranova il 28 novembre 1575, che costituiva la sintesi di trentasette bandi diversi: ivi, pp. 331-345. Relativamente ai provvedimenti nei confronti delle navi sospette, e in particolare della nave catalana scoperta per infetta innanzi al porto di Palermo, cfr. ivi, parte II, cap. XVIII, pp. 376-384 [294-302]. 52 Ivi, p. 333 [251]. A Milano nel 1576 fu stabilito in un primo momento che le osterie restassero aperte a patto che gli hosti «promettessero con sigurtà de non albergar veruno senza la debita bolletta; et che gli hosti della città et quelli delle camere locande dassero ogni giorno nota di quelli che alloggiavano nelle hosterie et case loro» (G.F. Besta, Vera narratione del successo della peste, che afflisse l’inclita città di Milano, l’anno 1576: & di tutte le provisioni fatte a salute di essa citta, 1578, p. 6). Successivamente, coll’appressarsi del contagio alla fine del mese di luglio, la diffidenza nei confronti dei forestieri crebbe e l’ufficio di sanità raccomandò agli albergatori di non alloggiare «persone strane senza la detta buona fede, né meno scrochi, ciurmatori et simili persone vagabonde» (ivi, p. 7). 53 G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte II, cap. XII, p. 333 [252]. 244 Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo l’esterno entravano in città con la frode, esibendo bollettini falsi54. A imitazione di quanto si faceva già a Venezia su indicazione di Nicolò Massa, anche a Palermo Ingrassia suggeriva che tutti coloro che fossero giunti in città da località sospette portassero dei segni di riconoscimento, come ad esempio una tovaglia bianca cinta di traverso55. Sin dai primi mesi di diffusione del morbo forte fu la preoccupazione di preservare le attività economiche, «stendensosi questa fama [di infettione] ancho fuori del regno», contenendo i danni che potevano derivare alle rendite del patrimonio regio da una contrazione dei traffici commerciali, «come già ha cominciato»56. Con gravi ripercussioni anche sul versante della produzione interna, se «si considera che parte delle biade per questi bisbigli et impedimenti di commercio si ritrova anchora in campagna»: questa circostanza aggiunta alla cattiva annata «riduce le cose di questo regno a strettezza molto straordinaria»57. Ma è sul fronte interno che si concentrò soprattutto l’attenzione del protomedico. Ingrassia raccomandò già a metà giugno alle autorità preposte al governo della città di ripulire le strade, «facendo nettare tutte le puzzolentie et cagioni di generar fetore», liberandole dagli animali morti («che se ne veggono molti per varie strade»)58, risanando le paludi e gli stagni59, richiamando al loro dovere i mastri di mondezza, «che non attendono ad altro, che a riscuotersi il suo salario», e usando rigore contro di loro60. Ma ogni individuo, ricco o povero che fosse, doveva dare il suo contributo, curando che la propria abitazione rimanesse «limpida di qualsivoglia bruttezza, e di tener monde le sue latrine», pro- 54 Ivi, parte II, cap. XI, pp. 326-327 [244-245]. Particolarmente gustoso l’episodio di un «astuto» villano che, respinto dal deputato della porta, aspettò che le guardie «si posero a giocar a picchetto» e, mentre quelle «facevano lor conti del giuoco», se ne entrò: ecco «già vedete, come sta la vita nostra in giuoco di picchetto?», l’amaro commento di Ingrassia (ivi, p. 326 [244]). Il picchetto è un gioco di carte tra due giocatori, uno dei più antichi, probabilmente di origine spagnola, ma particolarmente radicato in Francia a partire dal XV secolo. 55 Ivi, parte I, cap. IV, p. 103 [29]; si veda anche Parte quinta cit., p. 16. 56 Così Carlo d’Aragona a Filippo II (Ags, Estado, 1144/72, Palermo 4 luglio 1575). 57 Ibidem. 58 Ai primi di agosto fu emanato un bando che ordinava che si uccidessero tutti i cani, ma non quelli da caccia né «di feuda», che avrebbero dovuto però tenersi legati (G. Di Marzo (a cura di), Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, Palermo, 18691886, I (1869), p. 65). 59 Il clima caldo umido di Palermo viene considerato da Ingrassia una delle ragioni della putredine (G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte I, cap. VII, p. 134 [60]). Si dispose ad esempio di risanare, prosciugandole e pavimentandole, la Ruga Nova (strada fangosa e umida) nella parte che insisteva verso il Ballarò: Ascp, Atti, vol. 201/33 (a. 1575-1576), cc. 353v-354r, 23 luglio 1576: e la strada di San Francesco, ivi, vol. 202/24 (a. 15761577), c. 68r, 6 ottobre 1576. 60 Ivi, parte I, cap. VI, p. 119 [45]. 245 Rossella Cancila fumandola anche con aromi «di poco prezzo per li poveri»61. Era questa la fase della «purification dello aere»62. La contaminazione dell’aria era infatti – come si è detto – ritenuta all’origine della “vera peste”. Questo impegno appare assolutamente rilevante nel processo di individuazione di misure preventive adottate a livello urbano per risolvere i rischi per la salute pubblica63, ma appare altresì significativa l’attenzione riposta al benessere psico-fisico con la cura della dieta personale, una corretta regolazione del ritmo del sonno e della veglia, la propensione a una «allegrezza modesta et virtuosa»64. Ciò che insomma, al di là dell’emergenza, viene a configurarsi come un vero e proprio stile di vita anche sul piano personale. Il diffondersi improvviso della peste in città con la crescita del numero dei morti (circa 150 ormai al 18 di luglio) e il timore di non poterla controllare indussero le autorità a provvedimenti più drastici, mentre intanto maturava sempre più in Ingrassia la convinzione che il morbo con cui lottare promanava da una pestilenza di origine contagiosa: che «si prohibisse ogni conversatione, donde ne potesse nascere ampliation di contagio. Per lo che si levarono le schole publice, et i larghi, et lunghi visiti, che si solevano fare per li morti, et per gli infermi. 61 Ivi, parte III, cap. II, p. 421 [4]. Ingrassia ci informa che a Palermo ogni casa era dotata di una «billacchia», una sorta di cisterna di scarico dove confluivano «le lavature di tutte le bruttezze della medesima casa»; inoltre in ogni casa c’erano più latrine, che benché coperte, non di meno lasciavano comunque molte aperture libere. Il pericolo era la contaminazione dei pozzi. Ingrassia auspicava la realizzazione di una rete fognaria coperta collegata con le singole abitazioni per convogliare le acque reflue al mare, come aveva visto a Napoli (ivi, parte I, cap. VII, p. 136 [61]). Sulla questione del controllo igienico della crescita urbana tra medioevo ed età moderna, cfr. E. Sori, La città e i rifiuti. Ecologia urbana dal Medioevo al primo Novecento, Il Mulino, Bologna, 2001. 62 Una delle maggiori ragioni di corruzione dell’aria era la presenza delle tonnare: i tonni infatti col loro sangue infettavano non solo il mare dove venivano catturati, ma anche la terra, dove venivano fatti a pezzi per essere lavorati, sicché a giugno e a luglio «in mare, et molto più in terra, si suol sentire gran puzzolenza, et grave odore dall’una parte et l’altra della Città, ove sono le dette tonnare» (ivi, p. 135 [60]). A ciò si aggiunga che in città «che sonno molte fontane, et fiumicelli dentro, et fuora (et questa si è la quinta cagione) ne i quali si lavano le bruttezze delle beccherie, et concerie, et oltra tutte le sporchezze de i panni della Città. tanto che la lor acqua, dico di questi, che sono dentro la Città (se non è di notte, o di giorno di festa) mai non corre pura, ma turbidissima, et piena delle dette bruttezze» (ivi, p. 136 [61]). 63 Cfr. G. Geltner, Public Health and the Pre-Modern City: A Research Agenda, «History Compass», vol. 10/3, 2012, pp. 231-245. 64 G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte III, capp. III-VI, pp. 421-435. Si veda in proposito anche l’interesse mostrato da Pietro Parisi (1593) e da Fortunato Fedeli (1602) per le concrete condizioni di vita della civitas e per le condizioni psicologiche del malato di fronte al morbo. Sul rapporto tra cibo e salute in un’ottica che connette la storia della medicina alla storia dell’alimentazione, cfr. il recente volume di D. Gentilcore, Food and Health in Early Modern Europe: Diet, Medicine and Society, 1450-1800, Bloomsbury Academic, London-New York, 2015, e in particolare il primo capitolo dedicato alla salute alimentare e alla dietistica nell’età rinascimentale. 246 Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo Si prohibirono anco i venditori ad incanti, et i vaganti per la Città», come anche le meretrici65. Si procedette al barreggiamento a tappeto: chiunque avesse in casa un infermo di «mal contagioso» doveva immediatamente sotto pena della vita rivelarlo al deputato del suo quartiere, che avrebbe provveduto a barreggiare e sequestrare quella casa, inviando l’infermo all’ospedale della Cuba e i familiari al borgo di Santa Lucia66: una pratica di isolamento antica e terribile, che colpiva soprattutto i più poveri, che vivevano in tuguri dove non c’era ventilazione né possibilità di praticare la purificazione degli indumenti. Le case barreggiate venivano sequestrate, sorvegliate da guardie, nessuno poteva avvicinarsi; in presenza di un morto di peste gli indumenti infetti e il letto del malato venivano bruciati67. Molti aggiravano l’obbligo di consegnare la propria “roba”, alla quale tenevano più della vita stessa. In un successivo bando dell’8 novembre 1575 fu disposta una ricompensa di 25 scudi «di beveraggio» e l’indulto di qualche pena commessa a tutti coloro che avessero denunziato casi di infermi non rivelati. Per ogni casa infetta si sarebbe barreggiato tutto il cortile a seconda della gravità della situazione: le persone infatti solevano entrare e uscire da ogni cortile da una stessa porta, ma soprattutto si servivano di uno stesso pozzo e di una stessa pila per lavare. Inoltre le donne che abitavano i cortili, dette «cortigliare», ossia «donne molto curiose di saper i fatti d’altri», per lo più al minimo mal di testa di un vicino di casa correvano a informarsi e a curiosare, tanto che «non basterebbe il Diavolo a farle quiete»68. In merito a queste disposizioni Ingrassia ritenne opportuno richiamarsi all’autorità di Nicolò Massa, che aveva affrontato l’argomento in occasione della peste che aveva colpito Venezia nel 155569: Massa prescriveva di non sequestrare e isolare gli infermi, ma lasciare che familiari e amici se ne prendessero cura e avessero contatti con l’esterno, facendo però attenzione a portare addosso un segnale di riconoscimento, ad esempio «un facciuolo bianco, che dal collo gli discendesse 65 Ai mendicanti fu concessa per due ore al mattino, sino a ora di pranzo la possibilità di «andare a buscarsi loro limosine, et non escano più il giorno» (ivi, parte II, cap. XIV, p. 358 [277]); alle meretrici fu proibito di uscire di casa per almeno due mesi e di ricevere uomini a casa, specialmente «forestiere non conosciuto» (ibidem). 66 Ai primi di luglio si barreggiarono i conventi di San Domenico e di San Francesco d’Assisi, dove tra i frati si erano verificati casi di peste. 67 Ivi, parte I, cap. IX, p. 145 [71]. Nella parte quinta Ingrassia ritornando sull’argomento raccomanda di usare «maggior rigore et minor misericordia (poi che questa sarà la più grande misericordia) … non risparmiando robe di brucciare né havendo rispetto a persone» (Parte quinta cit., p. 48). 68 Ibidem. 69 Sulle strategie attuate a Venezia durante la peste del 1555, cfr. R.J. Palmer, The Control of Plague in Venice cit., pp. 142 sgg: certamente queste misure erano note a Ingrassia. 247 Rossella Cancila davanti sopra ogni altra sorte di vestimento, o qualche cosa simile. Alché se non volessero poi ubbidire, fussero puniti atrocemente per dar essempio a gli altri»70. Le norme dettate da Ingrassia furono però più restrittive: egli precisò infatti che, quando «in una medesima casa morissero molti, o si infettassero molti appresso il morto», allora sarebbe stato necessario barreggiare71. Sino a quando non ci fosse stato il morto, il barreggiamento sarebbe stato dunque evitato. Soltanto ai ricchi, che vivevano in case più confortevoli poteva concedersi di rimanere nelle proprie case e non andare al borgo, a condizione che la casa fosse «commoda, con più corpi con astraco scoperto, o almen ampio cortile, pozzo et pila per potervi sciorinar le loro robe, et profumare senza pregiudizio de i vicini»; e che gli interessati fossero in grado di pagarsi le due guardie preposte alla sorveglianza72. Ma soprattutto si mise in atto la sistemazione dei lazzaretti, «geometria che delimita rigorosamente lo spazio abitato dalla peste»73, relegandovi gli infetti e separando i sospetti dai sani74. I nove lazzaretti di Palermo All’assetto di questi ospedali speciali, destinati ad accogliere in luoghi separati uomini e donne, infetti, sospetti e convalescenti, si diede dunque seguito a Palermo proprio in occasione della peste del 1575, con un certo ritardo rispetto ad altre città italiane ed europee. In verità nel passato erano stati adibiti a lazzaretto degli infetti alcuni monasteri, come quello di Santo Spirito (poi Santa Maria dello Spasimo) e da ultimo San Giovanni dei Lebbrosi – già sede dal medioevo di un lebbrosario gestito dai cavalieri teutonici –, che però non rispondevano pienamente alle esigenze di un numero crescente di infermi. Si trattava 70 G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte I, cap. VI, p. 123 [48]. Maggiore sarebbe stato per loro il rischio di ammalarsi rimanendo a vivere in «quelle casupole serrati piene d’ogni immonditie, & fetore, & de’ fiati, o respiratione cattiva d’infermi, & di quelli, che insieme sono serrati» (ibidem). 71 Ivi p. 123 [48-49]. 72 Ivi, parte II, cap. XIV, p. 360 [278]. 73 G. Panseri, La nascita della polizia medica cit., p. 162, che insiste molto sugli aspetti sociali della relegazione come strumento di controllo di poveri, vagabondi e mendicanti. 74 Così chiarisce Ingrassia: «intendiamo per infetti quei che hanno havuti nelle loro case molti morti, o mandati alla Cubba, et quei, che con tali havessino praticato strettamente»; «per contra diciamo semplicemente sospetti quei, che sieno della medesima casa, ma non habbiano praticato con gli ammorbati; o ver della loro casa sia uscito un solo, subito scoprendosi col bubone, o con qualche segno di contagio. Giusto è dunque che non si mescolino, et che ognuno si guardi da maggior infortunio, per quanto sarà possibile» (G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte II, cap. II, pp. 229-230 [152]). 248 Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo comunque di istituzioni a sfondo prevalentemente caritativo, in cui come nelle strutture ospedaliere presenti in città l’organizzazione era nelle mani delle confraternite, secondo un modello largamente affermatosi in Europa. Anche nella più avanzata esperienza veneziana l’aspetto religioso e caritatevole continuò a rivestire un ruolo di primaria importanza nella gestione dei lazzaretti, che erano ubicati in luoghi religiosi: il Lazzaretto Vecchio, ospitato presso l’ex convento degli eremitani di Santa Maria di Nazareth, era una delle opere pie più importanti della città, destinato alla cura dei poveri, anche se a Venezia nello specifico furono fatti importanti tentativi di sviluppare una struttura civica che, benché ancora legata all’aspetto religioso, non ne fosse però dominata75. Se il Lazzaretto Vecchio di Venezia era soprattutto un luogo di pietà, il Lazzaretto Nuovo (1468) segnava già la transizione da ospizio a ospedale, struttura affidata prevalentemente a funzionari civili, «ormai luogo di controllo, sede di una prassi per certi versi simile a quella ospedaliera dell’accettazione e dello smistamento: accettazione in quarantena dei sospetti, smistamento nel lazzaretto vecchio dei sospetti rivelatisi infetti»76. A Palermo nel 1575 fu individuato «un Real Palagio antico fatto a tempo dei re Mori, et perciò chiamato dai medesimi la Cubba», che apparteneva a «una certa vedova»77, fuori dalla città, ricco di acqua, 75 Cfr. J.L. Stevens Crawshaw, Plague Hospitals: Public Health for the City in Early Modern Venice cit. Sull’argomento cfr. anche A.G. Carmichael, Plague and the Poor in Renaissance Florence, Cambridge University Press, Cambridge, 1986, pp. 119-120, che evidenzia come in diverse realtà italiane (Venezia, Ferrara, Milano, Firenze) l’aspetto caritativo fosse alla base della decisione di creare un lazzaretto. Venezia edificò in laguna il suo primo lazzaretto nel 1423, anche se la Repubblica aveva stabilito il primo lazzaretto al mondo nell’isola di Mljet (regione di Dubrovnik) già nel 1377. Il Lazzaretto Nuovo fu edificato a Venezia successivamente nel 1468 e fu destinato ad accogliere per il periodo di quarantena sia coloro che avevano superato il morbo prima di ritornare alla vita quotidiana sia le persone sospette. L’idea prevalente era che il morbo arrivasse dalla terraferma piuttosto che dal mare e perciò inizialmente furono edificati dei lazzaretti nel 1437 a Padova, nel 1438 a Brescia, nel 1473 a Verona, nel 1484 a Salò. Progetti analoghi furono realizzati a Mantova (1450), Ferrara (1464), Firenze (1463), Napoli (1464), Siena (1478) e Milano (1488). Sino alla fine del XV secolo Firenze non ebbe però un lazzaretto permanente e soltanto con la crisi degli anni venti del Cinquecento maturò la necessità di una separazione tra i malati endemici e quelli epidemici (cfr. J. Henderson, The Renaissance Hospital: Healing the Body and Healing the Soul, Yale University Press, New Haven and London, 2006, pp. 93-102). Sull’argomento ma con una proiezione sull’età moderna, cfr. anche D. Panzac, Quarantaines et lazarets. L’Europe et la peste d’Orient (XVIIe-XXe siècles), Edisud, Aix-en-Provence, 1986. 76 G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia cit., p. 65. 77 G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte II, cap. I, p. 215 [139]. Il castello della Cuba, oggi in corso Calatafimi, era ubicato all’interno di un immenso giardino che si estendeva a sud ovest del Palazzo Reale e che solo in parte nel 1571 la Regia Corte aveva riacquistato dai coniugi Bettina Battaglia e Michele Ariaca («Archivio Storico Siciliano», vol. 22, a. XII, n.s., 1897, pp. 547-550). 249 Rossella Cancila arioso, considerato dai medici e dai componenti della Deputazione come il più adatto a essere adibito a nuovo ospedale «o vogliam dire, a guisa di Lombardia, Lazareto»78. Qui furono trasferiti a partire dal 26 di luglio da San Giovanni dei Lebbrosi tutti i malati già accertati, e ospitati i nuovi arrivi. La sua funzione era dunque quella di separare gli infetti dai sani79. La laicità del luogo rispetto alle precedenti locazioni costituisce senza dubbio un segnale di come l’apparato governativo intendesse ormai gestire in autonomia la peste, divenuta un affare di pertinenza della politica, lasciando ai religiosi la cura spirituale delle anime e la somministrazione dei sacramenti. Non era stato così a Milano nel 1576, dove nel momento in cui la pestilenza aveva raggiunto il suo acme la cura del lazzaretto era passata – per volontà dell’arcivescovo Carlo Borromeo – dall’Ufficio di Sanità nelle mani dei cappuccini, di fra Paolo Bellintani in particolare, investito di amplissimi poteri con l’«auttorità di far detenere, essaminare e ancora interrogare con tormenti li malfattori, overo gli imputati e indiciati di alcuno delitto»80. Addirittura il lazzaretto era stato «messo in ordine» a spese del cardinale Borromeo, che lo mantenne per alcuni mesi elargendo elemosine81. E, quando 78 G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte I, cap. VII, p. 132 [57]. Il modello di Ingrassia è dunque Milano, dove nel 1488 venne completato il lazzaretto che ospitò gli ammalati anche durante le ondate del 1524, del 1576 e del 1629. Sulla esemplarità del lazzaretto di Milano, cfr. le considerazioni di G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia cit., pp. 66-69. 79 Ingrassia ci informa che in un primo momento i malati erano stati ospitati presso l’ospedale dello Spasimo, ma a seguito delle proteste degli abitanti della Kalsa, che temevano di infettarsi, dopo solo otto giorni furono trasferiti a San Giovanni dei Lebbrosi, finché non si individuò di lì a poco il nuovo sito della Cuba (G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte II, cap. I, p. 214 [138]). 80 «Ma intendendo il signor cardinale che le cose temporali non andavano bene, né erano sostenuti li poveri ne loro bisogni corporali, mi fece dare dall’eccellentissimo Senato il carico ancora temporale, il quale essercitai un anno …»: cosi fra Paolo Bellintani, autore dell’opera Dialogo della peste, che costituisce la più importante testimonianza della peste di San Carlo, ora ristampato nell’edizione critica a cura di Ermanno Paccagnini, Scheiwiller, Milano, 2001, pp. 118-119. Il Bellintani – che a giudizio del Ripamonti si comportò come un dittatore e un giudice – agì con molta durezza, avvalendosi dell’aiuto di alcuni «birri» per il mantenimento dell’ordine all’interno del lazzaretto: «quasi ogni giorno facevo dar corda, scopare, incarcerare, flagellare alla colonna legati e altri simili castighi» (ivi, p. 142). 81 Così si legge nella Relatione verissima del progresso della peste di Milano: qual principiò nel mese d’Agosto 1576 e seguì fino al mese di Maggio 1577 scritta dal gesuita Paolo Bisciola nel 1577. Ma anche Giacomo Filippo Besta attesta che Carlo Borromeo «fece eregere» l’ospedale di Santa Maria della Vittoria «sotto la cura di due religiosi», provvedendo al suo mantenimento con elemosine (G.F. Besta, Vera narratione del successo della peste cit., p. 8). In un dispaccio del 12 agosto 1576 l’ambasciatore veneto Ottaviano di Mazi riferiva che il cardinale Borromeo aveva offerto mille scudi al mese a vantaggio dei ricoverati nel lazzaretto, «avendovi posti due padri de’ Giesuiti al governo» (cit. in E. Paccagnini, Introduzione a Paolo Bellintani, Dialogo della peste cit., p. 19). 250 Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo queste non bastarono, provvidero «le parrochie della città, supplendo in ciò le comunità»82. Molto, nell’assenza dei maggiorenti della città, era stato affidato alla cura caritatevole e alla generosità dei religiosi e dei volontari, anche sul piano finanziario, mentre i magistrati cittadini cercavano di scaricarne invano il peso sul Fisco Regio. Di fatto a Milano era stata messa in scena l’impotenza dell’autorità civica e statale a gestire l’emergenza nella sua fase più acuta. Le relazioni del tempo, tese certo a celebrare l’attività esemplare del cardinale Borromeo e dei religiosi in un clima fortemente ispirato dai canoni del Concilio di Trento e dalla spiritualità post-tridentina, rappresentano una città in cui si muore, ma soprattutto si prega e si canta. Diversamente a Brescia, città sottoposta al dominio di Venezia sul piano politico e a quello di Milano sul piano spirituale, si era determinata una vera e propria contrapposizione di poteri: di fronte alla drammaticità della situazione il cardinale Borromeo aveva incaricato il Bellintani – forte dell’esperienza già maturata a Milano – di fornire assistenza spirituale ai fedeli di quella città, ma il Podestà e l’apparato di governo si opposero fermamente, dubitando che egli volesse ottenere piuttosto una qualche autorità temporale sul lazzaretto, che essi non erano affatto disposti a concedergli83. Del lazzaretto della Cuba – struttura capace di ospitare più di mille persone84 – Ingrassia nella seconda parte della sua opera descrive con attenzione gli spazi e i successivi ampliamenti disposti dal duca di Terranova, presidente del Regno di Sicilia, per rendere più capiente e funzionale l’edificio85. E allega al suo volume una pianta in cui mostra nel dettaglio l’organizzazione dello spazio circostante, dove ogni cosa trova il suo posto (fig. 1)86. Come il carro che, procedendo da Porta Nuova, porta gli infetti e la loro roba (il letto, le lenzuola, gli indumenti)87; o la «seggia» per trasportare gli infermi; e quel tale «che va innanzi alla seggia, sonando la campanella», per avvisare i passanti di fare attenzione; il medico che procede accompagnato da due guardie; il protomedico con i rettori dell’ospedale; il luogo «dove si dà la corda a i disubbidienti» e quello dove si bruciavano le robe infette, considerate responsabili del contagio. Sono inoltre indicati i saloni separati per le donne e per gli uomini con febbre e senza febbre, e descritte le misure delle stanze, il G.F. Besta, Vera narratione del successo della peste cit., p. 8. Cfr. la ricostruzione di E. Paccagnini, Introduzione a Paolo Bellintani, Dialogo della peste cit., pp. 34-39. 84 G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte II, cap. XI, p. 321 [239]. 85 Ivi, parte II, cap. I, pp. 215-223 [139-147]. 86 Ivi, p. 216 [140]. 87 Ingrassia prescrive che i beccamorti e i portantini «tutti habbiano di andare vestiti di azurro, fin alla berretta, per conoscersi», cfr. il cap. 32 del bando del 28 novembre 1575, ivi, parte II, cap. XII, p. 343 [262]. 82 83 251 Rossella Cancila Fig. 1 - Il lazzaretto della Cuba (G.F. Ingrassia, Informatione del pestifero, et contagioso morbo, 1576, online digitalizzato da Google). 252 Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo numero dei letti e le persone che vi possono essere ospitate (due per letto; tre o quattro in caso di fanciulli). Sono indicate l’ubicazione e l’ampiezza della spezieria, della cucina, della dispensa, del guardaroba; le stanze per il personale sanitario (chirurghi, barbieri, fisici); la cappella dove praticare i sacramenti; il cimitero nelle immediate vicinanze dove seppellire i morti, nudi e ricoperti di calce per limitare le esalazioni. E quando i locali della Cuba non furono sufficienti a ospitare tutti gli infermi, la Deputazione con l’assenso del duca fece fabbricare altri due mezzi edifici in legname. Ma la novità più rilevante del sistema ideato da Ingrassia fu la separazione in edifici diversi dei malati dai convalescenti in via di guarigione («netti di febbre» da almeno 14 giorni, ma non ancora completamente guariti perché con qualche residuo di piaghe), i quali a contatto con gli infetti vecchi e nuovi erano seriamente a rischio di recidiva. All’esterno del complesso della Cuba furono così allestiti due differenti edifici, uno per gli uomini tra la Chiesa di S. Leonardo e il convento dei Cappuccini (per 250 persone e più) e l’altro poco distante per le donne (da 150 a 200 posti), ognuno dei quali era affidato a uno spedaliere, e rifornito di vettovaglie a spese della città, dove questi convalescenti erano ospitati per ventidue giorni88. Qui ogni ospite dimorava almeno 22 giorni, e in pile grandi e comode poteva lavarsi continuamente con acqua corrente abbondante, cenere e sapone, forniti dall’amministrazione. Altrove in Italia tale distinzione non sempre era praticata e i lazzaretti ospitavano e curavano al loro interno spesso indifferentemente malati e convalescenti seppure collocandoli in reparti diversi89. A Milano l’ospedale di San Gregorio, considerato un modello cui si ispireranno molti dei successivi lazzaretti, era dotato di 388 camere perimetrali e suddiviso in tre «stechati», uno per gli infetti (l’infermaria), uno per i sospetti, e il terzo (detto Paradiso) per i risanati che vi facevano la quarantena90. Quando la situazione si aggravò, durante la peste del 1576-77, per supplire alla carenza di posti, fu stabilito che all’esterno della città si facessero delle «capanne», dove mettere infetti e sospetti (due o tre al più per capanna, con riguardo «de lo stato e qualità loro»), duecento per ogni Porta della città, una sorta di «lazzaretti succursali fuori delle mura». A Genova il Lazzaretto della Foce, costruito a partire dal 1522, doveva raccogliere gli appestati nei momenti di emergenza, ma fondamentalmente fungeva da ricovero dei 88 Ivi, parte II, cap. I, pp. 221-222 [145-147]. I due saloni potevano ospitare da 130 a 150 persone (in caso di presenza di fanciulli, che evidentemente venivano ricoverati con gli adulti), ma in caso di necessità potevano essere aggiunti almeno altri 50 letti. I due edifici sono visibili nella fig. 1 contrassegnati coi numeri 21 (luogo delle donne convalescenti) e 25 (luogo dei convalescenti maschi). 89 Si veda per Milano, G.F. Besta, Vera narratione del successo della peste cit., p. 9. 90 Ivi, p. 18. 253 Rossella Cancila miserabili, e da luogo dove si svolgevano le quarantene e le purghe. Esso venne descritto come un grande edificio quadrato, diviso in due parti, «con chiostri e molte officine condecenti alla cura de gli ammalati di morbo pestifero»91. A Venezia invece – come si è detto – il Lazzaretto Vecchio era destinato agli ammalati e quello Nuovo ai sospetti, che vi facevano la contumacia di 22 giorni; e solo successivamente con l’aumentare degli ammalati durante la peste del 1575-77 fu costruito un lazzaretto galleggiante provvisorio costituito da case di legno fabbricate su vecchie galee e grandi vascelli92. Da ultimo a settembre (quando il numero dei morti era già salito a circa 2.100 unità), «a sodisfattion del volgo» si impiantarono a Palermo altri due ospedali, uno per le donne e uno per gli uomini, nel quartiere Sant’Anna93, ormai entro le mura della città, dotati di numerose stanze, pozzi, acqua corrente, dove coloro che erano già completamente guariti dopo la convalescenza trascorrevano ancora 14 giorni circa per l’«ultima purificazione» prima di ritornare in libertà94. Ora la gestione finanziaria era diversa: mentre negli altri ospedali tutto era spesato, «con buon mangiare e bere», qui a ogni ospite era pagato un tarì al giorno (uno scudo d’oro in totale). Questa somma doveva aiutarlo a sostentarsi autonomamente, consentendogli di acquistare in una taverna in loco le cose necessarie; e doveva consentirgli di risparmiare qualcosa per mantenersi successivamente ancora per qualche giorno nell’attesa di trovare una sistemazione: lo scopo era infatti quello di rendere meno difficile il rientro alla normalità, che per i più era drammatico perché i risanati venivano guardati con molta diffidenza e, spesso poverissimi, al rientro non avevano da mangiare o si nutrivano di cattivi cibi95. Ma ormai dopo la sosta presso l’ospedale di Sant’Anna «uscendo costoro, sono senza più sospetto abbracciati da tutti loro amici, et parenti»96. Una «gran machina», come la definisce lo stesso Ingrassia, veramente l’istituzione portante di tutto il sistema sanitario, il cui governo fu affidato dal duca di Terranova a tre Rettori, Emilio Imperatore, Pietro Antonio del Campo, Francesco Lanza, «ai quali si danno anco dalla G. Assereto, «Per la comune salvezza dal morbo contagioso» cit., p. 69. Cfr. P. Preto, Peste e società a Venezia cit., p. 37. Si veda la descrizione dei due lazzaretti di Venezia di Rocco Benedetti, che li paragona all’inferno e al purgatorio (R. Benedetti, Successo della peste l’anno 1576, cit. da P. Preto, Peste e società a Venezia cit., pp. 157-158). Diversi documenti relativi a deliberazioni assunte dai Provveditori alla sanità di Venezia in occasione della peste del 1575-77 si trovano nel volume Venezia e la peste cit., pp. 130-140. 93 G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte II, cap. X, pp. 150-151 [76-77]. Si tratta della zona che gravita attorno a piazza Sant’Anna al Capo (quartiere di Seralcadio). 94 Ingrassia calcola che a novembre 140 malati erano già guariti, e circa altri 200 stavano uscendo dal comprensorio della Cuba (ivi, p. 151 [77]). 95 Per Ingrassia la fame è «sorella della peste» (ivi, parte I, cap. II, p. 86 [13]). 96 Ivi, parte I, cap. X, p. 151 [77]. 91 92 254 Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo Città et Deputatione tanti denari, quanti ne vogliono, per la grandissima spesa» sostenuta97. A essi spettava occuparsi di tutto il necessario: medici, medicine, personale, confessori, cappellani, letti, vettovaglie, guardie, per una spesa che intanto Ingrassia calcolava pari a 30.000 scudi98. Oltre a questi otto lazzaretti (Ingrassia conta gli edifici), dedicati agli infermi, poi convalescenti e finalmente sani, fuori dalla Porta di San Giorgio, dall’altra parte della città, fu predisposto in tempi strettissimi un nono lazzaretto, il borgo di Santa Lucia, che aveva sino ad allora ospitato i militari spagnoli di stanza in città99. Qui dovevano purificarsi – come si è detto – coloro che erano sospetti, perché in casa avevano avuto qualche infermo o qualche morto, e pertanto le loro case erano state barreggiate100. È probabilmente questa la condizione più drammatica, anche perché coloro che vi erano ospitati erano stati costretti ad abbandonare le proprie case, separandosi dai propri congiunti già infermi dirottati alla Cuba. Una sorte che generalmente toccava ai più poveri, in quanto i ricchi le cui abitazioni erano più ampie, spaziose e arieggiate, potevano = come si è detto = procedere a casa propria alla purificazione. Si tratta di una sorta di ghetto, dotato di singole abitazioni, che i vecchi proprietari furono costretti ad abbandonare e mettere a disposizione della municipalità: circa 200 case in legno e muratura, ma altre ne furono poi edificate per ordine del duca di Terranova che stanziò cento onze101. Qui venivano trasportati su appositi Ivi, parte II, cap. III, p. 236 [158]. Ivi, parte II, cap. I, pp. 223-224 [147] . 99 Ivi, parte II, cap. II, pp. 227-228 [150-151] (lettera di Ingrassia al Terranova del 24 luglio 1575). Il duca di Terranova era stato renitente a concedere questo sito, costruito a partire dal 1567 da Guglielmo Fornaya, che sarebbe dovuto essere il primo nucleo di un nuovo quartiere di espansione, ma poi aveva ceduto alle pressioni di Ingrassia. Il borgo si trovava lungo la strada litoranea di porta San Giorgio nella piana settentrionale intorno alla città. La Porta San Giorgio (poi demolita nel 1724 e ricostruita nello stesso luogo, ma dedicata a Santa Rosalia) sorgeva nei pressi del Molo, vicino la chiesa di San Giorgio, un tempo chiesa di San Luca (da non confondere quindi con San Giorgio dei Genovesi, edificata più tardi): cfr. G.F. Ingrassia, Informatione del pestifero et contagioso morbo, a cura di Alfredo Salerno [et al.], cit., p. 118n. Sulla costruzione del borgo di Fornaya (poi di Santa Lucia), cfr. M. Vesco, Un piano di espansione per Palermo nel secondo Cinquecento: Guglielmo Fornaya e la fondazione del borgo di Santa Lucia, in G. Villa (a cura di), Scritti in onore di Enrico Guidoni, Edizioni Kappa, Roma, 2014, pp. 151-164. 100 Prima che vi venissero trasferiti i barreggiati Ingrassia consigliò di far disseccare la palude situata tra la Chiesa della Consolazione e il giardino del Duca di Bivona, operazione che poteva essere compiuta in non più di tre giorni. 101 Si veda il bando del duca di Terranova del 1575 perché «si faccino case al burgo», dal momento che «le case di esso borgo che vi sonno al presente essere tutte piene et, succedendo di haversi ad andare altre persone, non haveranno loco atto alla loro cura», Ascp, Proviste, vol. 620/5, c. 45r. cit. in M. Vesco, Un piano di espansione per Palermo cit., p. 162. A distanza di sole due settimane per l’aggravarsi della situazione il duca manifestava la propria disponibilità ad autorizzare una spesa maggiore (ivi, c. 45v). 97 98 255 Rossella Cancila carri anche gli indumenti di ognuno perché fossero purificati: Ingrassia raccomandava che i «portatori» dei sospetti non fossero gli stessi degli infetti. Anche questa struttura fu affidata a tre Rettori, il conte di Vicari, sostituito per la sua assenza da Gerardo Alliata, Vincenzo Opezinchi e Perrotto Pasquale, nominati personalmente dal duca di Terranova102. A essi la Deputazione assegnava dei fondi, che servivano al vitto e al pagamento di un sussidio di un carlino (10 grani) a testa a tutti coloro che dimoravano nel borgo per purificarsi, per lo più poverissimi103; ma anche per pagare medici, medicine, ospedalieri, sacerdoti, e per sostentare buoi, muli, cavalli, carri, cocchi, beccamorti, guardie, e provvedere a tutte le fabbriche che si rendessero necessarie: una gran somma di denaro certamente, se si considera che con essa dovevano essere sostentate circa 900 persone, e anche di più, quante ne poteva ospitare il borgo104. Ingrassia calcola che la peste costò alla città circa 100.000 scudi105, di cui più di 60.000 spesi in poco più di cinque mesi106. La città fuori dai lazzaretti E poi fuori dai lazzaretti rimaneva la città, dove si gestiva la vera emergenza. Già il 24 luglio Carlo d’Aragona concedeva ampia potestà di intervento agli ufficiali della città (pretore, giurati e capitano) e ai deputati: «procederete (si opus fuerit) a tortura, a fustigazione, a condennatione, ad ultimo supplicio, a galere, al bruciamento delle loro robe, et alla esattione delle pene per voi imposte, o imponende»107. A dicembre, quando l’epidemia imperversava, fu deciso – col benestare del Vicario di Palermo, don Nicolò Severino, e dell’Inquisitore generale del Regno di Sicilia, il vescovo di Patti Monsignor Antonio Mauriño de Pazos y Figueroa –, di «inserrare» per venti giorni donne e fanciulli sino ai dieci anni, impedendo loro di uscire di casa, di frequentare i luoghi sacri e praticare i sacramenti di giorno e di notte («con soddisfattione di tutti gli huomini, massimamente dei gelosi, benché a malgrado delle dette donne»), con solo qualche limitata eccezione, come G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte II, cap. III, p. 234 [156]. Ivi, pp. 232 [154]; 236 [158]. 104 Ivi, p. 236 [158]. 105 Ivi, parte II, cap. XIX, p. 391 [308]. A queste somme va aggiunto il contributo dei privati. Il cardinale Giannettino Doria nel 1624 spese 800.000 scudi, ma i morti furono dieci volte più numerosi del 1575 (cfr. C. Dollo, Peste e untori nella Sicilia spagnola cit., pp. 72-73). 106 G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte II, cap. XI, p. 317 [235]. 107 Ivi, parte II, cap. IV, p. 237 [160]. Ingrassia riporta la lettera di potestà firmata da Carlo d’Aragona 102 103 256 Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo per esempio per le più povere che vivevano di elemosine108. E ciò «senza peccato, anzi più tosto col servigio di Dio». Il provvedimento sortì degli effetti e fu poi prolungato ancora sino a marzo. Anche a Milano nel 1576 si indisse la quarantena per donne e bambini, ma già nei primi giorni di peste, a ottobre, Carlo Borromeo promosse delle processioni che peggiorarono la situazione, avendo la meglio sulle magistrature cittadine, che invece non volevano permetterle. E soltanto in un secondo tempo le autorità ordinarono una quarantena generale, che poi si prolungò sino a gennaio dell’anno successivo. Sulle processioni spesso le autorità civili si lasciavano trascinare dalla volontà del clero, anche perché era in tutti radicata l’idea della peste flagello di Dio e della punizione divina. Appare significativo che a Palermo ci sia stato pieno accordo tra le autorità laiche ed ecclesiastiche: ancora una volta emerge l’autorevolezza di cui godeva Ingrassia e la sua capacità di recepire il consenso persino dell’Inquisitore generale del Regno. La città fu affidata ai deputati di ogni quartiere in cui era divisa allora Palermo, undici in tutto109, i quali non avevano giurisdizione solamente sulla zona loro assegnata, «ma sopra tutta la habitation della Città et suo territorio»110: «ebbero potestà a guisa de’ dittatori di Roma, e potevano punire i trasgressori de’ loro bandi e statuti, etiam alla pena della vita naturale, ex abrupto, a modo di guerra, senza processo»111; potevano procedere contro costoro «si opus fuerit a tortura, a fustigatione, a condennatione, ad ultimo supplicio, a galere, al bruciamento delle loro robe et alla essattione delle pene» da loro disposte112. Una categoria da tenere particolarmente sotto osservazione, e che destava molta preoccupazione, era quella dei beccamorti, che avevano accesso alle case dei barreggiati, trasportavano gli infermi alla Cuba e sotterravano i morti: le occasioni per rubare erano molte 108 Ivi, parte II, cap. XV, pp. 363-367 [282-285]. Furono anche proibite le «maschere» e tutte le altre feste di carnevale (ivi, p. 368). L’arcivescovo di Palermo, Giacomo Lomellino, era morto di febbre maligna il 9 agosto 1575: un bando prescrisse che nessuno partecipasse ai funerali per evitare il contagio tra la folla (G. Di Marzo (a cura di), Diari della città di Palermo cit., p. 65). Si veda anche G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte III, cap. II, p. 420 [4]. 109 Furono nominati deputati dei quartieri (in diversi casi più d’uno per la grandezza del territorio da controllare): Pietro Bologna (Cassaro); Girolamo del Carretto, barone di Racalmuto (poi sostituito da Nicolò Bologna), Giovan Luigi Reggio e Mariano Torongi (Albergheria); Francesco Termini, Antonino Caravello e Francesco Di Giovanni (Celvacari); Luigi Del Campo e Baldassar Mezzavilla (poi sostituito da Giuseppe Mastrantonio) (Loggia); Blasco Barresi e Giovanni Del Campo (Kalsa). Ivi, parte II, cap. III, p. 234 [156-157]. 110 Ivi, p. 235 [157]. 111 V. Di Giovanni, Palermo Restaurato cit., p. 322. 112 G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte II, cap. IV, p. 237 [160]. 257 Rossella Cancila (nelle case, ma anche agli stessi cadaveri), tanto che essi – come nota lo stesso Ingrassia – si erano tutti notevolmente arricchiti con la peste113. Il problema non era solamente quello di punire il reato di furto, ma anche di tenere sotto controllo il contagio, che attraverso indumenti e oggetti infetti non purificati o destinati a essere bruciati poteva trasmettersi in modo incontrollabile. La punizione doveva essere pertanto esemplare 114. I beccamorti infatti spesso rivendevano ciò che avevano rubato: si ordinò perciò a tutti coloro che avessero comprato «roba o suppellettile di casa di lana, lino, e di seta o di qual si voglia altra specie che fossero» di rivelarle, con l’eccezione di quelle comprate «a gli incanti publichi della Loggia di questa città, o ver nelle botteghe publiche», che evidentemente erano già state controllate115. Per facilitare il complesso lavoro dei deputati, Ingrassia compilò 27 capitoli in cui fissò puntualmente il protocollo da seguire per il barreggiamento e la purificazione di persone e cose, con procedure minuziosamente e rigidamente descritte116. A loro spettava infatti il compito di far barreggiare e sbarreggiare le case, ma anche le chiese e i conventi; contare gli infermi e mandarli alla Cuba; dirottare i sospetti e le loro robe al borgo per purificarli; seppellire i morti; bruciare le robe infette non destinate alla purificazione (per lo più «robacce», come «1i materassi fatti per gente vile di peli di cavalli, o di lana succida sporca»); prendersi cura dei poveri, delle vedove, degli orfani. Essi disponevano di sottodeputati, di confessori per l’amministrazione di sacramenti, di medici salariati, di levatrici, di barbieri. Una struttura che, dentro e fuori i lazzaretti, appare fortemente gerarchizzata, specchio del potere che la magistratura emanava, quasi a rappresentare l’ordine perfetto che regolava le diverse mansioni. 113 Ivi, parte II, cap. XI, p. 324 [242]. Per un’indagine dei conflitti e delle forme che essi assumono in presenza di congiunture epidemiche, cfr. il volume di A. Pastore, Crimine e giustizia in tempo di peste nell’Europa moderna, Laterza, Roma-Bari, 1991. 114 Effettivamente si verificarono punizioni esemplari e spietate di ladri di roba infetta: cfr. G. Di Marzo (a cura di), Diari della città di Palermo cit., pp. 70-72. Già ai primi di agosto fu impiccato alla Vucciria un beccamorto che aveva rubato roba infetta e la vendeva. I suoi complici furono condannati alla galera e a servire in diversi ospedali (ivi, p. 65). 115 G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte II, cap. XVI, p. 370 [288]. Ingrassia riporta per intero il bando della Deputazione, ivi, pp. 369-371 [287-288]. 116 Ivi, parte II, cap. V, pp. 238-245 [161-167]. Agli inizi di ottobre Ingrassia propose all’attenzione dei Deputati un testo, oggetto di discussioni e di rettifiche, che trovò poi (dopo una prima versione) la sua formulazione definitiva nel bando di 38 capitoli pubblicato su ordine di Carlo d’Aragona il 28 novembre del 1575 (ivi, parte II, cap. XII, pp. 331-345 [249-265]). Si vedano sul tema ad esempio, Ascp, Atti, vol. 201/23 (a. 15751576), cc. 191v-192r; cc. 206r-207v; Ascp, Lettere e consulte del Senato, vol. 1246/2 (aa. 1573-1576), c. 82r. 258 Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo Un’importanza particolare rivestivano le operazioni di purificazione delle «robe senza padroni dentro alle case», prelevate cioè nelle numerose case della città rimaste vuote, senza persone ormai all’interno o perché decedute o perché dirottate alla Cuba. Queste, «restando dentro delle dette case rinchiuse aumentano la forza della peste» e necessitavano pertanto di un particolare trattamento: Ingrassia fornì alla Deputazione 28 avvertimenti e indicò come luogo atto alle procedure il giardino del duca di Bivona, poco distante dal borgo di Santa Lucia, dotato di un parco ampio e arioso chiamato la «conigliera» (fig. 2)117. Qui dodici addetti portavano in quattro carrozze trainate da dodici buoi tutto ciò che rimaneva in casa, mentre un maggiordomo annotava in un registro l’inventario della merce assegnata a ogni responsabile. Ogni partita sarebbe stata contrassegnata da un numero con l’indicazione del luogo della casa, il nome e cognome del padrone, al quale sarebbe dovuta essere poi restituita, o ai suoi eredi, in mancanza dei quali si sarebbe data in beneficienza. Ingrassia descrive con minuzia la struttura degli stenditori («quadri», di diversa dimensione), tutti distinti, sui quali poggiare la biancheria da purificare (di cento e anche duecento case); e precisa che ogni partita doveva essere accompagnata da una tavoletta identificativa del padrone e della casa al fine di evitare ogni confusione118. I purificatori, come già Nicolò Massa aveva indicato, dovevano essere uomini virtuosi, buoni, misericordiosi, e più di tutti timorosi di Dio, così come il maggiordomo dal quale dipendevano e al quale dovevano ubbidire119: a loro era affidata la “roba”, bene prezioso, di cui nessuno voleva disfarsi e che ognuno sperava di recuperare una volta cessata l’emergenza. Per tale ragione la fiducia risposta nei loro confronti era massima, e per dissuadere i disonesti fu allestita «una trocchiola per dar la corda quando fosse il bisogno, et di più una bella forca per appiccare il primo che presumesse ascondere qualche minimo pezzo di roba»120. 117 Ivi, parte I, cap. IX, p. 147 [73]; parte II, cap. IX, pp. 281-294 [200-213]. Il giardino del duca di Bivona corrisponde alla zona gravitante attorno a Piazza Croci tra il borgo di Santa Lucia e il convento agostiniano di Santa Maria della Consolazione (oggi via dei Cantieri); e comprendeva anche la grande «casena» del duca Pietro de Luna. La villa passò poi a Luca Cifuentes, presidente della Gran Corte, che l’abbellì e vi ospitò anche il conte di Albadelista, prima del suo ingresso ufficiale in città come viceré nel 1583 (cfr. R. La Duca, La città perduta. Cronache palermitane di ieri e di oggi, Parte II, ESI, Napoli, 1976, pp. 43-44). 118 G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte II, cap. IX, p. 286 [205]. 119 Ivi, parte II, cap. IX, pp. 282-283 [202]. 120 Ivi, p. 283 [202]. 259 Rossella Cancila Fig. 2 - Il giardino del duca di Bivona e il borgo di Santa Lucia (G.F. Ingrassia, Informatione del pestifero, et contagioso morbo, 1576, online digitalizzato da Google). 260 Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo Il protomedico si occupò anche delle procedure da seguire presso l’ospedale della città per evitare che vi fossero ricoverati degli appestati121, ma il problema più urgente fu quello delle carceri: a tal proposito fu disposta una prigione per gli infetti dentro il bastione della Porta di Termini, e un’altra per i sospetti, in modo da non infettare le pubbliche carceri122. Nel marzo 1576, quando ormai si pensava che il pericolo stesse allontanandosi, nelle carceri nel giro di ventiquattrore si manifestarono otto casi di infezione e altri cinque di febbre. Fu un problema che preoccupò molto le autorità perché la popolazione carceraria ammontava a 300 unità. Si accertò che le persone infette erano circoscritte in tre stanze e si isolarono circa ottanta (!) persone che avevano avuto con loro relazioni. A costoro, «veggendosi quel luogo molto brutto, sozzo, et puzzolente, si come è solito farsi ogni luogo di prigioni», furono destinate, d’accordo col duca, le stanze a pianterreno di Palazzo Aiutamicristo, dotate di «ogni comodità, e di pozzo, e di gran pila per lavarsi, et anco di latrina per nettarsi tutti i loro escrementi»123. Gli infetti, che erano stati invece dirottati alla Cuba, «sentirono tal ricreazione (venendo da luogo, ove dormendo in terra, corrosi da infiniti pedocchi, non veggendo pane molte volte per uno e per due giorni), che si doleano di non havere havuto più tosto tal contagio» 124. Tra i carcerati si ebbe un solo morto, a riprova della efficacia delle misure tempestivamente adottate. Fu affrontato anche il tema delle chiese, dove venivano seppelliti i cadaveri: Ingrassia aveva disposto che i morti fossero seppelliti nudi e fuori dalle chiese, lontano dai centri abitati, per evitare che la putredine dei corpi ammorbasse l’aria125. Consigliò pertanto di 121 Ivi, parte II, cap. VII, pp. 255-259 [176-179]. Ingrassia era pienamente consapevole che l’ospedale fosse un «luogo publico», e come tale va preservato in tutti i modi dal contagio. In particolare raccomandava che non vi fossero ricoverati servitori e schiavi colpiti dal contagio, ma che costoro fossero mantenuti a casa dei padroni almeno per i primi cinque giorni (Parte quinta cit., pp. 55-56). 122 G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte II, cap. VII, p. 266 [186]. Sulle carceri, cfr. anche ivi, parte II, cap. XIX, pp. 388-389 [305-306]. 123 Ivi, p. 388 [306]. 124 Ivi, p. 389 [306]. 125 Ivi, parte II, cap. VIII, pp. 267-270 [187-190]. Le fosse dovevano essere «fonde sei palmi, lunghe sette, et larghe quattro, mettendovi i corpi ignudi, con poca calcina di sopra, et poi ben coverti di terra ben calcata, et che non si discoprano poi, che non sieno passati più anni. Talmente che non vi sia restato altro, che le ossa» (ivi, p. 269 [189]). Qualche eccezione la prevedeva solo «per qualche personaggio», al quale si concedeva, ma dopo aver preso una serie di precauzioni, di essere portato in chiesa dentro il suo sepolcro, «il quale ben otturato non si apra più almen per ispatio di tre anni» (ivi, p. 270 [190]). 261 Rossella Cancila costruire dei cimiteri pubblici, così come si era fatto per le fosse della Cuba: «et perché si tratta della vita di molti, ogni mal si dee fuggire, quantunque minimo che fusse»126. Parole che testimoniano in modo chiaro quale fosse la consapevolezza pubblica di Ingrassia. Come anche quando ritiene che non fosse giusto costringere le nutrici ad allattare bambini nati da donne infette e poi decedute, anche se ciò avrebbe significato la morte delle creature: «de’ due mali sempre li debba eleggere il meno. Molto più dunque ragionevol cosa è, che si muoia questo o quel bambino o dieci o venti et se ne vadano in paradiso, poi che sono già battezati, che infestando le balie sian cagione di morirne infiniti»127. Egli infatti non credeva che da essi e dal loro allattamento non potesse venire alcun pericolo di contagio, come alcuni al suo tempo obiettavano. Tali creature infatti si erano nutrite del sangue infetto della madre dentro il suo corpo, e dunque era assai probabile che fossero infette «dentro, incominciando dall’ombelico, per lo qual ricev[ono] non solamente il nutrimento del sangue della madre, che va al fegato, ma anco lo spirito, che va al cuore»; a meno che i loro corpicini non fossero «di sì gagliarda natura, et robusta complessione» da essere sfuggiti al contagio, ma questo si sarebbe potuto sapere con certezza solo dopo quaranta giorni128. La maggior parte di esse d’altra parte moriva entro le ventiquattr’ore. Molti dei neonati sopravvissuti erano lasciati davanti le porte delle chiese, soprattutto dopo che fu chiusa la ruota dell’Ospedale Grande per timore del contagio. Ingrassia dispose che i sacerdoti li raccogliessero e li battezzassero, e che poi fossero affidati a delle nutrici a pagamento che potessero prendersene cura per tre settimane in isolamento, le loro fasce fossero bruciate e sostituite con nuove e i loro corpi lavati non con aceto, ma con vino caldo nel quale fossero disciolte erbe aromatiche129. Palermo liberata dalla peste A maggio del 1576 la situazione era ormai sotto controllo, nessun nuovo contagio fu registrato, come documenta anche la relazione dei deputati dei quartieri130. Tra giugno 1575 e il 15 aprile 1576 si con- Ivi, p. 270 [189]. Ivi, p. 274 [193]. 128 Ivi, p. 274 [194]. 129 Ingrassia se ne occupò anche nella quinta parte del suo trattato: Parte quinta cit., pp. 56-57. 130 G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte II, cap. XIX, p. 389 [307]. Si veda anche la relazione dei deputati del 3 maggio 1576 (Ags, Estado, 1145/86). 126 127 262 Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo tarono circa 3100 morti, su una popolazione stimata di circa 75/80.000 anime (approssimativamente il 4%)131: con soddisfazione, Ingrassia considerò che altrove nel Regno il numero dei decessi era stato superiore, «le cinque et seimila, et più», «per non haver quelli tanto ordine, né tanta forza, quanta fin qui si è osservata in questa Città»132. Se a Palermo i morti si contavano a decine, nelle piccole terre che non avevano avuto la forza di separare gli infetti dai sani se ne contavano a centinaia133. Evidentemente le rigorose misure adottate da Ingrassia sortirono ottimi risultati134. In effetti in Sicilia le città più grandi dimostrarono una maggiore capacità di resistenza al morbo. Va segnalato che a Venezia per la peste del 1575-77 morirono 46.721 persone con un acme nel luglio-agosto 1576 (soprattutto tra il 27 luglio e l’8 agosto) su una popolazione stimata in circa 180.000 abitanti (l’incidenza della peste sarebbe stata attorno al 25%)135. La mortalità a Milano fu invece più bassa, di 17.329 persone su una popolazione di circa 95.000 anime, con una mortalità approssimativa del 18%136. 131 La stima è desunta da M. Aymard, Epidémies et médecins en Sicile à l’époque moderne, «Annales Cisalpines d’historie sociale», n. 4, 1973, p. 30 (ora on line http://www.storiamediterranea.it/portfolio/una-sicilia-vista-da-parigi-omaggio-amaurice-aymard/). In verità Ingrassia parla di una popolazione superiore a centomila anime, probabilmente perché include nella stima anche il suo territorio (G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte I, cap. VII, p. 132 [57]). Il dato concorda sostanzialmente con quanto attestato da Francesco Maggiore Perni per il 1574, ossia un totale di 117.302 abitanti, inclusa la popolazione della campagna circostante e il clero (96.927 anime entro la città, 16.322 nel territorio, 4053 il clero): F. Maggiore Perni, La popolazione di Sicilia e di Palermo dal X al XVIII secolo, Palermo 1892, pp. 170, 174. 132 G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte I, cap. X, p. 152 [78]. 133 Ivi, parte II, cap. X, p. 318 [235]. Un tabella relativa alla mortalità della peste nel 1575-76 in Sicilia è stata elaborata da M. Aymard, Epidémies et médecins en Sicile à l’époque moderne cit., pp. 14-17. 134 Marco Antonio Alaymo attesta una mortalità di 14.000 anime in due mesi (giugno e luglio) durante la peste che colpì Palermo nel 1623 (M.A. Alaymo, Consigli politicomedici cit., p. 103). 135 Cfr. P. Preto, Peste e demografia. L’età moderna: le due pesti del 1575-77 e 163031, in Venezia e la peste 1348-1797 cit., p. 97. 136 Il dato sulla mortalità a Milano è riportato da A. Corradi, Annali delle epidemie occorse in Italia cit., p. 593. Non si hanno invece dati precisi sulla popolazione di Milano all’epoca del contagio. Negli anni ‘40 del Cinquecento è stimata una popolazione di 50/60.000 abitanti. È possibile che alla fine del Cinquecento la popolazione sia tornata a crescere, riportandosi ai livelli di inizio secolo, stimati attorno ai 100.000 abitanti, (cfr. E. Roveda, Uomini, terre e acque. Studi sull’agricoltura della “Bassa lombarda” tra XV e XVII secolo, FrancoAngeli, Milano, 2012, p. 22). Una tabella di sintesi relativa alla popolazione di importanti città italiane è stata recentemente elaborata da G. Alfani, Il gran tour dei cavalieri dell’Apocalisse cit., p. 295, che indica per Milano una popolazione di 95.000 anime e calcola una mortalità approssimativa del 182‰ (cfr. anche ivi, p. 146). 263 Rossella Cancila Fu proprio in questa fase che si ritenne opportuno rafforzare il controllo esterno per evitare che si riversassero in città gli abitanti di località ancora «in grandissimo furor di calamità», come Trapani, Agrigento e Messina: furono predisposte delle guardie a cavallo (cavalli per la campagna), che «andassero per gli estremi del territorio di questa città, riconoscendo tutti quei, che a cavallo o ver a piedi venissero da qualche luogo sospetto», impedendo l’ingresso e vigilando che nessuno di notte «scalasse le mura, o buttasse fuora o ricevesse robe per quelle»137. Probabilmente queste diposizioni furono tardive rispetto alla sollecitudine mostrata da Ingrassia sul fronte interno, ma – come si vedrà – egli successivamente presterà maggiore attenzione alla vigilanza dei confini cittadini in relazione al territorio circostante. A metà giugno si procedette alla purificazione dei lazzaretti (dove si bruciarono i letti e ogni cosa) e alla loro generale evacuazione: la Cuba, poi il borgo di Santa Lucia e fu una gran festa, infine quello di Sant’Anna, dove erano ospitati gli ultimi convalescenti138. Al borgo fu cantato finalmente il Te Deum Laudamus, con tanta devozione «che niun di noi fu, che per allegrezza del tempo presente, et pietosa memoria del passato, non piangesse». Poi, il 28 luglio, la Santa Messa solenne con l’Inquisitore, il duca di Terranova, il Vicario, il Regio Consiglio, il Senato, la Deputazione, la grande processione, un suonar di campane, la musica di diversi strumenti musicali, le salve di artiglieria per mare e per terra, l’esplosione di gioia. Di Palermo liberata dalla peste ci rimane una tavola attribuita al pittore fiammingo Simone de Wobreck (fig. 3), che la dipinse nel 1576 perché fosse collocata sull’altare principale della nuova chiesa di S. Rocco alla Guilla di Palermo (poi reintitolata ai SS. Cosma e Damiano), edificata al Capo (il quartiere più colpito) in adempimento di un voto fatto dalla Deputazione139. Il quadro rappresenta l’Onni- G.F. Ingrassia, Informatione cit., II parte, cap. XIX, p. 390 [307]. Alla fine di luglio 1576 si registrava un miglioramento anche in altre città come Augusta, Siracusa e Catania, Trapani e Agrigento, mentre ancora difficile permaneva la situazione di Messina (Ags, Estado, 1146/24, Palermo 28 luglio 1576). A Trapani, nella fase acuta della peste (aprile 1576), quando si contavano anche trenta morti al giorno, furono registrati una serie di miracoli: un’immagine della Madonna (Nostra Signora) che si trovava dentro la badia delle Carmelitane Scalze cominciò a lacrimare, mentre quella dell’Annunziata nella chiesa di S. Nicola si ricopriva di acqua; contemporaneamente il San Sebastiano presso la chiesa di S. Antonio Abate cominciò a sudare, come attestò persino il maestro di campo don Diego Enriquez, testimone dei fatti, in un suo rapporto al duca di Terranova (Ags, Estado, 1145/63, Trapani 14 aprile 1576). La situazione di Trapani preoccupava molto Carlo d’Aragona per essere quella città un’importante piazza «frontera de Barberia» (Ags, Estado, 1145/62, Termini 30 aprile 1576; Ags, Estado, 1145/76, Messina 16 maggio 1576). 138 G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte II, cap. XIX, pp. 391-394 [309-312]. 139 Del voto parla Ingrassia (ivi, parte II, cap. XIV, p. 359 [278]. Si veda anche G. Palermo, Guida istruttiva per Palermo e i suoi dintorni, a cura di G. Di Marzo, Palermo 1858, p. 550. 137 264 Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo Fig. 3 - Simone de Wobreck (attr.), Palermo liberata dalla peste, 1576, Museo diocesano di Palermo. 265 Rossella Cancila potente con le frecce del flagello (origine divina della peste e punizione per i peccati commessi) e sul livello appena inferiore Cristo e la Vergine; ancora più in basso i santi Rocco, Cristina, Ninfa e Sebastiano, che intercedono per il popolo raffigurato nel piano sottostante in processione penitenziale, alla presenza del duca di Terranova, con il SS. Crocifisso ligneo trecentesco dono dei Chiaramonte e custodito tuttora in Cattedrale140. Emergenza e prevenzione Ingrassia si occupò ancora di peste l’anno successivo 1577, quando su sollecitazione del viceré Colonna («io mi trovava allora fuori nel mio giardino, dove molto volentieri soglio filosofare»), intanto subentrato al duca di Terranova, compilò la quinta parte del suo trattato, che voleva essere una sintesi di quanto già scritto precedentemente, ma con una finalità pratica, «accioché possa ciascheduno averlo senza 140 Una scheda del dipinto (conservato presso il Museo diocesano di Palermo) si trova in P. Palazzotto, La compagnia dei Bianchi e gli oratori come segno e memoria della realtà sociale e culturale della Kalsa, in Il quartiere della Kalsa a Palermo. Dalle architetture civili e religiose delle origini alle attuali articolate realtà museali, Assessorato Regionale dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana, Palermo, 2013, pp. 106107. Il dipinto presenta delle analogie con un altro realizzato nel 1578 per la confraternita di San Rocco da Giovan Paolo Fonduli, artista vicino al Wobreck. Cfr. F. Campagna Cicala, Fondulo, Giovan Paolo, Dizionario Biografico degli Italiani - vol. 48 (1997). Sul Wobreck, cfr. anche L. Sarullo, Dizionario degli artisti siciliani, vol. II, Pittura, a cura di M.A. Spadaro, Palermo 1993, ad vocem, con relativa bibliografia. Teresa Pugliatti, che ipotizza un’attribuzione del dipinto a Fonduli, ritiene che esso sia stato realizzato non alla cessazione della peste nel 1576, ma nel 1575 quando il morbo era ancora in atto, anzi al culmine della gravità, e assume come riferimento la testimonianza dei diaristi Paruta e Palmerino, che riferiscono di una imponente processione del S. Crocifisso tenutasi il 7 ottobre 1575 (T. Pugliatti, Pittura della tarda Maniera nella Sicilia occidentale (1557-1647), Kalós, Palermo, 2011, pp. 133-139). Anche Ingrassia conferma la circostanza e la data della processione guidata dal Vicario Nicolò Severino, ma riferisce che non vi partecipò il duca di Terranova (raffigurato invece nel quadro), che allora si trovava a Termini per assistere il figlio Ferrante gravemente malato: Ingrassia ricorda di essere partito per Termini lo stesso giorno e di esservi giunto appena in tempo per l’estrema unzione. Secondo la tradizione dopo la processione, che percorse di notte le vie consuete della città, e alla quale parteciparono tutte le confraternite e i religiosi, con gran concorso di folla, miracolosamente la pestilenza cessò e la città sembrò essersi liberata dal morbo. La presenza del duca nel dipinto potrebbe certo essere legata a un atto di cortesia per il committente, ma l’ipotesi che i due eventi (ossia la processione finale del 1576 e quella del 1575 con Crocifisso) si siano sovrapposti nella rappresentazione finale mi sembra più plausibile, senza che questo comporti una anticipazione nella datazione del dipinto. La Chiesa di San Rocco, cui il dipinto era destinato, fu d’altra parte edificata proprio nel 1576 ed è ragionevole ritenere d’accordo con Palazzotto che la chiesa e la tavola celebrativa dell’evento fossero state concepite contestualmente (cfr. P. Palazzotto, La compagnia dei Bianchi e gli oratori cit., p. 115). 266 Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo troppo studio né fatica e facilissimamente ancor possa affatto provedere a tutti il bisogno»141. La peste si manifestò di nuovo a Palermo l’11 maggio del 1577 e in quattro mesi morirono circa quattrocento persone. Il morbo colpì non solo vecchie abitazioni già precedentemente infettate, ma anche famiglie che non erano state interessate dalla prima ondata142: Ingrassia era sicuro che la purificazione dell’anno precedente fosse stata eseguita «con tanta diligenza …, gran parte col fuoco, altra con lavationi, soffumigi et ventilazioni». In città si sviluppò però un intenso dibattito circa la necessità di predisporre uno sciorinatorio per la purificazione in un luogo elevato. Ingrassia vi si oppose duramente e, seppure in minoranza, riuscì a convincere il viceré a non farne nulla: «Horsù bastommi che Sua Eccellenza in un semplice cenno intendesse tutta la ragione. Laonde comandò subito che non se ne parlasse più»143. Ciò non di meno si ritenne opportuno procedere quartiere per quartiere, senza distinzione di case né di persone, a sciorinare e purificare tutta la città, così da essere sicuri che essa fosse assolutamente sana e priva di ogni sorta di contagio. Particolare attenzione fu rivolta a conventi e monasteri, segnatamente quello della Martorana, focolaio del morbo, «che ci diede molta difficultà et fastidio. Tanto che se Sua Eccellenza del signor Marc’Antonio Colonna non vi mettea le mani, non so come sarebbono andate le cose»144: ancora una volta il potere politico assumeva l’iniziativa, mostrando capacità di sintesi sulle opinioni correnti e prontezza decisionale. Il viceré nominò infatti quattro deputati (tra cui il conte di Vicari, per indurre le monache all’ubbidienza) col compito preciso di occuparsi del monastero insieme col Vicario Nicolò Severino, nel tentativo di arginare il contagio, che si era ormai diffuso tra le suore. In sostituzione della badessa, ormai «di età decrepita», una donna fu nominata Deputata di sanità del monastero, dove le monache dovettero assumere atteggiamenti piuttosto riottosi, se il vescovo dovette addirittura minacciare di scomunicarle e la Deputazione di inviarle alla Cuba e di bruciare le loro robe infette. Quasi «impossibil pareva di poter ridurre ad ubbidienza trecento e tante femine. Laonde come cosa di gran maraviglia l’habbiamo qui scritta»145. Il protomedico era ancor più convinto che la peste non si fosse originata in città, ma che provenisse dall’esterno: occorreva pertanto pro- Parte quinta cit., Prefatione. Ivi, p. 21. 143 Ivi, p. 31. Per gli ordinamenti promulgati dal viceré Colonna in quel frangente, cfr. Ordini che l’illustrissimo, & eccellentissimo sig. Marc’Antonio Colonna ... comandao che s’osseruassero nelle città, & terre nelle quali si sospettasse, ò succedesse mal contagioso, Palermo 1624. 144 Ivi, p. 58. 145 Ivi, pp. 59-60. 141 142 267 Rossella Cancila teggere in modo più accurato i confini del suo territorio – specialmente quando si svolgevano le fiere – con cavalli alla campagna, medici alle porte, obbligo di quarantena a quanti provenissero da luoghi sospetti. Persino la principessa di Pietraperzia vi fu sottoposta, malgrado molti cavalieri della Deputazione fossero suoi parenti e amici146. Fu proprio in occasione di questa seconda ondata, dunque, che Ingrassia fu sollecitato dagli eventi a ripensare con più attenzione le procedure di prevenzione verso il fronte esterno. Ad esempio, ritenne opportuno osservare una maggiore cautela nei confronti dei contadini, che abitavano dentro le mura cittadine, ma si recavano all’esterno a lavorare: all’ingresso della città a «ciascheduno, che non è ben conosciuto si facci un bollettino brevissimo in un dito di carta, ove sia scritto solamente il nome, il cognome e il luogo al qual va per lavorare e il giorno della sua partenza»147. Esso sarebbe poi stato esibito ai deputati della porta al rientro. Se poi il contadino, più raramente, doveva recarsi a lavorare in un luogo distante più di dodici miglia avrebbe dovuto esibire un bollettino del padrone o del curatolo di quel luogo, che ne attestasse la sanità. La parte quinta del Pestifero et contagioso morbo non è allora solamente una sintesi di quanto già predisposto in occasione della prima ondata di peste, ma contiene ulteriori suggerimenti e approfondimenti alla luce della più recente esperienza. Particolarmente interessante appare la riflessione sulla necessità di potenziare l’attività del Monte di Pietà di Palermo per soccorrere coloro che «inciampano nella miseria del contagio, dalla quale poi caduti non possono rilevarsi», spesso poveri, ma non solo, perché «molti facultosi muoiono di fame»148. La peste, certamente, ne era una causa diretta; ma anche il fallimento di molti banchi privati aveva contribuito dalla fine degli anni sessanta del secolo ad accrescere notevolmente il numero dei poveri in una fase di ascesa dei prezzi. Due le cose – a parere di Ingrassia – di cui la «Republica» avrebbe dovuto farsi carico: le elemosine ai più poveri per evitare che andassero a rubare; la costituzione di un Monte di Pietà o della misericordia in diverse località del Regno. A Palermo in particolare il Monte era stato fondato nel 1541 per iniziativa dei francescani, – ma con la partecipazione anche di capitali pubblici messi a disposizione dell’amministrazione civica, seppure di modesta entità –, allo scopo di praticare il prestito al consumo e l’aiuto alle orfane che il bisogno avrebbe potuto spingere alla prostituzione. In verità, l’avvio fu piuttosto difficile e soltanto nell’agosto del 1575 in concomitanza con la peste si diede inizio all’attività creditizia in due stanze ammezzate del palazzo municipale, a un tasso però assai elevato 146 147 148 268 Ivi, p. 7. Ivi, p. 17. Ivi, p. 68. Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo del 6,66 per cento. Ingrassia suggeriva al viceré Colonna di destinare al Monte diecimila scudi della Tavola di Palermo. C’era tra l’altro il problema che non poteva darsi in pegno o vendere alcun tipo di oggetto, tranne quelli per i quali si poteva procedere facilmente alla purificazione per mezzo dell’aceto e, dunque, senza pericolo di contagio, come oro, argento, metalli, gioielli. Ingrassia ritornò ancora sul tema dell’organizzazione delle carceri, ammonendo di costruirne due in ogni città e terra del Regno, uno per i sospetti e uno per gli infermi, ciascuno con alloggi separati per le donne e per gli uomini, ma «subito nel tempo della sanità», perché non averlo fatto sin dal principio, fu causa di molti problemi149. Infatti se si infettano le pubbliche carceri, tutta la città è in pericolo, perché in essa vi dimora ogni sorta di gente, «persone cittadine et forestieri, nobili et ignobili, ricche, et la maggior parte povere, et la massima parte huomini di mala vita et di poca coscienza»150. Inoltre, ovunque abitino carcerati «vi è grandissima puzza et abbondanza di bruttezze». Avverte anche della necessità di provvedere per tempo ai lazzaretti – rigorosamente fuori dalla città ma non troppo lontano –, non quando la peste si fosse manifestata, ma prima: «si come si proveggono i castelli et le fortezze nel tempo della pace, per ritrovarsi in ordine al tempo della guerra»151. Il modo migliore per gestire l’emergenza della guerra era insomma la prevenzione in tempo di pace. In fondo, è questa la lezione di Ingrassia. Conclusioni Le prescrizioni di Ingrassia costituirono il modello comportamentale nella successiva epidemia del 1624152, ma in quest’occasione furono largamente disattese: nel 1575 a dirigere le operazioni era stato – come si è visto – lo stesso Ingrassia, sempre in prima linea, e pronto ad assumersi enormi responsabilità con l’appoggio incondizionato del duca di Terranova, che aveva la guida del Regno. Nel 1624 il viceré Emanuele Filiberto di Savoia fu colpito dalla peste e ne morì. Il comando politico del Regno fu assunto dall’arcivescovo di Palermo Giannettino Doria, che gestì la peste avendo a modello Delle cause e rimedij della peste di San Carlo Borromeo, esempio di vir pietatis, più attento agli aspetti devozionali che non alle misure sanitarie. Parte quinta cit., p. 16. Ivi, p. 57. 151 Ivi, p. 17. 152 Sono del 15 ottobre ordini del viceré Marc’Antonio Colonna su cosa fare per la peste, poi ristampati in occasione della peste del 1624. 149 150 269 Rossella Cancila Tra i medici deputati della Sanità della città di Palermo era anche Marco Antonio Alaymo, allora «il più minimo in età», che – benché subentrato in un secondo momento – fu però uno dei protagonisti di quel tragico evento. Alaymo ebbe un ruolo di rilievo anche nel fronteggiare l’ondata del 1652, da cui la Sicilia restò indenne probabilmente proprio grazie all’applicazione delle misure da lui suggerite, poi pubblicate lo stesso anno nei suoi Consigli Politico-Medici. Con questa sua opera, che può essere considerata «la summa ricapitolativa del Seicento isolano»153, l’autore intendeva proporre una nuova metodica per combattere la peste, che costituisse un’alternativa alle soluzioni prospettate da Ingrassia nel 1576. A differenza di Ingrassia, che focalizzava la sua attenzione soprattutto sul fronte interno, le istruzioni di Alaymo si concentrarono invece sul fronte esterno, ossia sul controllo delle frontiere tanto quelle marittime, quanto quelle terrestri. Esse su questo versante rappresentano un punto di vista procedurale particolarmente avanzato. A Ingrassia Alaymo attribuì di fatto la responsabilità della diffusione del contagio e dell’alta mortalità nel 1624: le sue ordinazioni sembravano buone alla prima apparenza, ma «perniciose, e molto atte a far crescere il contaggio et la mortalità» nell’esecuzione154. In particolare egli riteneva dannoso bruciare la roba infetta perché la combustione avrebbe ammorbato l’aria, accrescendo il contagio. Per la stessa ragione era pericoloso purificare le robe sospette, tanto più che gli addetti a queste operazioni non eseguivano a dovere le istruzioni, e anzi spesso rubavano e vendevano ciò che avrebbero dovuto purificare155. Inoltre, per evitare il danno economico, in molti casi gli interessati preferivano nasconderle, distribuendole tra amici e parenti, ma contribuendo in questo modo a dilatare il morbo. Sappiamo che questo fu oggetto di particolare attenzione al tempo di Ingrassia, che consigliò il massimo rigore sull’argomento, e molte furono le condanne eseguite. Anche il barreggiamento era considerato controproducente, perché lo stato di abbandono in cui erano lasciate le famiglie barreggiate, per lo più povere, faceva crescere il contagio e la mortalità156. Alaymo criticava altresì le prescrizioni di Ingrassia in materia di sepoltura degli infetti, considerando irrispet- 153 C. Dollo, Introduzione a M.A. Alaymo, Consigli politico-medici, in Filosofia e Scienze nella Sicilia dei secoli XVI e XVII, vol. II, Centro Studi per la Storia della Filosofia in Sicilia, Catania, 1996, p. 8. 154 M.A. Alaymo, Consigli politico-medici cit., p. 108. 155 Ivi, pp. 116-119: in questa sua posizione Alaymo era confortato dal parere di illustri medici, come Pietro Parisi Alessandro Massaria, Girolamo Mercuriale, Valerio di Martini, Cellino Pinto. 156 Ivi, pp. 185-186. 270 Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo toso e indecoroso che i cadaveri fossero seppelliti «nudi come cani sotto la calce vergine», con particolare riguardo ai corpi delle donne, mogli, sorelle, «spogliate nude da becchini poltroni, maneggiando quei corpi ignudi delle donne con mille dishoneste attioni, et indegne di riferirsi»157. Ecco, anche questo accadeva in tempo di peste, ed effettivamente accadde nel 1624, quando dei becchini furono inequivocabilmente sorpresi dentro le fosse, mentre non risultano casi analoghi attestati nel 1575. In sostanza, Alaymo attribuiva il fallimento delle procedure adottate nel 1624 alle istruzioni di Ingrassia, formalmente ancora in vigore; e, assimilando le due diverse congiunture, dava agli avvenimenti del 1575 una interpretazione mediata dall’esperienza del 1624. Le istruzioni cui le autorità si attennero erano le stesse, ma i contesti completamente differenti. La disorganizzazione, l’approssimazione e la confusione registrata da Alaymo non può però essere attribuita a Ingrassia, che non avrebbe mai consentito che si impiantassero dei lazzaretti entro le mura o che si organizzassero pratiche devozionali con gran concorso di folla158. Basti ricordare che la salma dell’arcivescovo di Palermo Lomellino morto nel 1575 non fu esposta alla folla dei devoti, mentre il viceré e il suo segretario morti di peste nel 1624 furono seppelliti in chiesa con tutti gli onori. L’organizzazione politica durante la peste del 1624 appare profondamente diversa rispetto al 1575: con la reggenza del cardinale Giannettino Doria si intensificarono le processioni, si sollevò sugli altari della santificazione Santa Rosalia (prima quasi ignota), si imprigionò, processò e infine giustiziò un medico di grande prestigio, Demetrio Sabatiano, il greco, uno straniero159. Assai eloquente dal punto di vista della cognizione dei fatti risulta la Relazione di Francesco Guerreri, del 14 gennaio 1625, una vera e propria requisitoria contro il modo in cui 157 Ivi, p. 155. Alaymo asserisce che in pochi ritennero opportuno seppellire i cadaveri nudi, e cita solamente Pietro Parisi (che aveva operato a Palermo nel 1575, «onde ci restò questo ordine nella mente»), e Giacinto Alferio («che rescrisse piuttosto quel che dice Ingrassia») (ivi, p. 160). 158 Alaymo racconta che nel 1624 i malati furono ricoverati prima allo Spasimo dentro la città, poi a San Giovanni dei Lebbrosi, e successivamente, a causa della crescita del loro numero, si radunarono «al luogo di Cavallaro, poi al luogo di don Martino Cinami, poi al luogo di Citofontes, all’ultimo al borgo di Santa Lucia, trasportando li poveri infermi di qua e di là, con gravi spese della Città, e con calca d’infermi» (ivi, pp. 137138). L’autore erroneamente attribuisce la stessa disorganizzazione ai fatti del 1572 (sic!): ma in realtà Ingrassia non aveva posto gli appestati in lazzaretti dentro la città, né tanto meno nel borgo di Santa Lucia, destinato ai sospetti, non ancora ammalatisi. Il complesso di Sant’Anna, effettivamente entro le mura, era stato destinato come si è visto ai convalescenti ormai guariti per una ulteriore purificazione prima del loro definitivo rientro in città. 159 Cfr. C. Dollo, Peste e untori nella Sicilia spagnola cit., pp. 68-72. 271 Rossella Cancila era stata condotta la lotta al morbo nel 1624160. Di sicuro giocarono un ruolo di tutto rilievo l’elemento soprannaturale, i santi e i miracoli in un contesto in cui l’impianto messianico e la componente emozionale ebbero il sopravvento di fronte all’impotenza umana161. Un’impotenza che invece Ingrassia e la sua squadra avevano ben saputo governare con determinazione cinquant’anni prima. Ingrassia non ci ha lasciato solamente un corpo dottrinario senza vita, ma ha misurato la teoria con la realtà, indicandoci un modello organizzativo, che si distende per la vita della città e dei suoi abitanti, penetrandone ogni comportamento: la prevenzione per limitare la diffusione dell’epidemia, ma anche lo sforzo a promuovere un ambiente urbano più funzionale al fine di ridurre i rischi per la salute, «pour le bien public», come pure gli riconobbe Louis de Jaucourt due secoli più tardi nella voce Palerme dell’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert162. 160 Cfr. Relazione di Francesco Guerreri (14 gennaio 1625), in C. Dollo, Peste e untori nella Sicilia spagnola cit., pp. 113-126. 161 Cfr. G. Fiume, Il Santo moro. I processi di canonizzazione di Benedetto da Palermo (1594-1807), FrancoAngeli, Milano, 2002, che dedica un capitolo alla peste del 1624 e al trionfo di Santa Rosalia (ivi, pp. 134-154). 162 La memoria di Ingrassia ritornerà in auge nel Settecento: non solo il siciliano Antonino Mongitore (in particolare la Sicilia ricercata, 1742), nella cui produzione si può comunque rinvenire una certa involuzione gnoseologica rispetto al tentativo di Ingrassia di ricondursi alla medicina sperimentale; ma in particolare si veda la voce Palerme dell’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, curata dal cavalier Louis de Jaucourt nel 1765, che riconosceva il ruolo di Ingrassia – il cui nome peraltro ricorre in più lemmi della monumentale opera – nella storia dell’anatomia e dell’epidemiologia e l’alto livello di reputazione da lui raggiunto (N. Cusumano, Ricerche sulla teratologia in Sicilia cit., pp. 879-881). Appare certo significativo che Jaucourt faccia esplicitamente riferimento alla grande prova di abilità e zelo «pour le bien public» offerta dal medico siciliano proprio in occasione della peste del 1575 (Encyclopédie de Diderot et D’Alembert, ed. online ad vocem: http://encyclopédie.eu/index.php/histoire/1849563327-geographie-moderne/ 725538612-PALERME). 272 Marcos Rafael Cañas Pelayo EL ACCESO DE LOS JUDEOCONVERSOS PORTUGUESES A LOS CABILDOS MUNICIPALES ANDALUCES. UN PRIMER ACERCAMIENTO* DOI: 10.19229/1828-230X /37132016 RESUMEN: Tradicionalmente, el ascenso social de los cristianos nuevos portugueses en Castilla durante la Edad Moderna no ha sido atendido en profundidad por la historiografía. Dividido en dos bloques, el presente artículo centra su atención sobre esta cuestión para un área geográfica específica, Andalucía, debido a la continuada presencia que allí encontramos de judeoconversos lusos. En orden a analizar su importancia, dividimos la primera sección en cuatro partes, atendiendo a los reinos andaluces: Sevilla, Córdoba, Granada y Jaén. Adentrándonos en materia, la segunda parte profundiza en los más notorios linajes que alcanzaron este objetivo, a través de un repaso bibliográfico y datos archivísticos, no solamente las procedentes de la Inquisición, sino también a una variedad de fuentes locales. Como presentemos mostrar en nuestro acercamiento, a pesar de las trabas que está minoría encontró por parte del resto de la sociedad de cristianos viejos, los judeoconversos portugueses fueron capaces de acceder a los cabildos municipales andaluces, a través de su poder económico, la protección nobiliaria y otras vías. Aunque la permanente amenaza del Santo Oficio hizo que algunas de estas tentativas fracasen, otros lograron incluso recuperarse tras el trance inquisitorial, borrando la mácula de su pasado. PALABRAS CLAVE: Ascenso social, Cabildos municipales, Cristianos nuevos portugueses, Inquisición y Protección nobiliaria. THE ACCESS OF PORTUGUESE JUDEOCONVERSOS TO THE ANDALUSIAN CABILDOS MUNICIPALES. A FIRST APPROACH ABSTRACT: The upward mobility of Portuguese New Christians in Castile during the Modern Age has traditionally been glossed over by historiography. Divided in two sections, this paper focuses on this subject for a specific geographical area, Andalusia, due to the continued presence of lusitanian judeoconversos there. In order to analyze its importance, we divided the first in four parts according to each of its four kingdoms: Sevilla, Córdoba, Granada y Jaén. Further into the analysis the second part delves into the most notorious families who achieved that goal, through bibliographical research and archive references, not only the ones from the inquisitorial registers but also a range of local sources. As we try to prove in our approach, despite the hindrance suffered by this minority because of the rest of the Old Christian Society, portuguese conversos were able to access andalusian cabildos municipales [old spanish for town councils] through economic power, nobiliary protection and other means. Although the permanent menace of the Holy Office made some of them fail their attemp, others could even recover from the inquisitorial prosecution erasing the stains of their past. KEYWORDS: Cabildos municipales, Inquisition, Nobiliary protection, Portuguese New Christians, Upward mobility. * Este trabajo se inscribe en el marco del Proyecto de Investigación Nobles judeoconversos (II). La proyección patrimonial de las élites judeoconversas andaluzas (ss. XV-XVII) (HAR2015-68577), financiado por el Ministerio de Economía y Competitividad. Abreviaturas utilizadas: AgoCo (Archivo General del Obispado de Córdoba), Ahn (Archivo Histórico Nacional), AhpCo (Archivo Histórico Provincial de Córdoba), Antt (Arquivo Histórico Nacional da Torre do Tombo), ArchGr (Archivo Real Chancillería de Granada). n. 37 Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIII - Agosto 2016 ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online) 273 Marcos Rafael Cañas Pelayo Tradicionalmente considerada como una cuestión anecdótica, la penetración de los cristianos nuevos portugueses en los poderes locales castellanos durante la Edad Moderna ha suscitado una escasa atención para la investigación histórica. Si bien contamos con varios trabajos clásicos que ya intuyeron su real importancia y peso en diferentes facetas de la sociedad hispano-portuguesa de la época, todavía carecemos de estudios globales que expliquen la llegada de este grupo a los cargos concejiles1. Tal es el propósito del presente artículo. Para ello, nos centraremos en un marco geográfico concreto: Andalucía. Se trata de una elección que presenta una serie de ventajas para iniciar esta temática. Sobre todo por las obras previas de los diferentes autores que han abordado, de una forma u otra, a varios de los linajes lusos que protagonizaron un destacado ascenso social, el cual dejó su reflejo en los cabildos andaluces. Sin duda, un repaso ineludible y necesario, aunque no nos limitaremos únicamente a hacer un recorrido historiográfico. Además de lo anterior, disponemos del amplio abanico de datos que nos facilita el cruce de fuentes, entre archivos locales y nacionales, además de los recursos en red; a pesar de las dificultades y lagunas inherentes a este proceso (cambio de apellidos, ocultación y fraude genealógico, documentación perdida…), nos hallamos ante la oportunidad de poder ir reconstruyendo las diferentes etapas de esta llegada, las magnitudes alcanzadas, los personajes más destacados y, en definitiva, una primera interpretación de lo encontrado. Confiamos en que, utilizando este punto de partida, podamos realizar próximamente un ejercicio de similares características para desarrollar la presencia de los mal llamados marranos portugueses en las principales oligarquías urbanas y rurales de toda Castilla. De igual forma, a raíz de los resultados que se vayan obteniendo, también pretendemos reflejar su influjo en los cabildos catedralicios; si bien algo mencionaremos ya de esa realidad en este presente trabajo, puesto que los poderes municipales y eclesiásticos mantuvieron no pocos vasos comunicantes entre sí. 1 Debemos citar aquí a los primeros grandes especialistas en la temática, tales como Julio Caro Baroja, Antonio Domínguez Ortiz o Francisco Márquez Villanueva, entre otros pioneros investigadores que comenzaron a subrayar el peso de los cristianos nuevos del reino luso en la Monarquía Hispánica. Por motivos de espacio, no nos detendremos a plantear un detallado recorrido de la atención historiográfica prestada en nuestro país a los judeoconversos de origen portugués, solamente a la parcela que nos atañe del cabildo municipal. Remito para consideraciones de carácter más general a mi estado de la cuestión planteado en M.R. Cañas Pelayo, Los judeoconversos portugueses en la Edad Moderna en la historiografía española: Un estado de la cuestión, «Revista de Historiografía», vol. 23 (2015), pp. 217-243. 274 El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces Cercanos geográficamente, con oportunidades de enriquecimiento mercantil y un fuerte sustrato previo de relaciones de todo tipo con los judeoconversos castellanos, como veremos a continuación, los enclaves andaluces fueron un foco de atracción constante. 1. Breve marco historiográfico y fuentes utilizadas El análisis social de los poderes locales de la España Moderna es uno de los objetos de estudio que más atención está suscitando entre los modernistas españoles. Previamente vistos como los representantes un cuerpo inmóvil y estático, estos axiomas acerca de los miembros de los concejos empiezan a ser cuestionados desde sus bases por una nueva generación de especialistas. Desde hace bastantes años2 disponemos de una acertada revisión del aspecto institucional de los municipios, también de sus criterios y mecanismos de selección de candidatos. Se incidía especialmente en lo referente a los estatutos de limpieza de sangre3, los cuales debían garantizar la pureza cristiano-vieja de los integrantes que accedían a estos puestos, dando una imagen de exclusión y eficacia del aparato ideológico de la época; las apariencias confirmaban la pervivencia de una criba por criterios de ascendencia. Fueron unos conceptos que no se cuestionaron en el plano teórico, pero sí en su puesta en práctica. Existían vías para acceder al cabildo municipal, rutas que permitían sortear los obstáculos, evitando, eso sí, contradecir lo que se pregonaba. Sin embargo, las primeras investigaciones no fueron más allá de aquella fachada, aunque, afortunadamente, sería una tónica revertida en el futuro, destacando las líneas abiertas por autores como Juan Luis Castellano4 o J.P. 2 Véase el clásico estudio de A.A. Sicroff, Los estatutos de limpieza de sangre: controversias entre los siglos XV y XVII, Taurus, Madrid, 1985. 3 Interesan en este sentido los trabajos de J. Hernández Franco, Cultura y limpieza de sangre en la España Moderna. Puritate sanguinis, Universidad de Murcia, Murcia, 1996 y Sangre limpia, sangre española. El debate sobre los estudios de limpieza (siglos XV-XVII), Cátedra, Madrid, 2011; J. Hernández Franco, A. Irigoyen López, Construcción y deconstrucción del converso a través de los memoriales de limpieza de sangre durante el reinado de Felipe III, «Sefarad: Revista de Estudios Hebraicos y Sefardíes», n. 72, vol. 2 (2012), pp. 325-350; M.S. Hering Torres, Limpieza de sangre, ¿racismo en la Edad Moderna, «Tiempos Moderno», n. 9 (2003-2004), pp. 1-16; J.I. Gutiérrez Nieto, Los conversos y limpieza de sangre en la España del siglo XVI, «Torre de los Lujanes. Boletín de la Real Sociedad Económica Matritense de Amigos del País», n. 26 (1994), pp. 153-165. 4 Citando solamente algunos de los más relevantes, mencionar J.L. Castellano, Redes sociales y administración en el Antiguo Régimen, «Estudis: Revista de historia moderna», n. 31 (2005), pp. 85-102 o Gobierno y poder en la España del Siglo XVII, Editorial Universidad de Granada, Granada, 2006. Asimismo, J.L. Castellano (ed.), Sociedad, administración y poder en la España del Antiguo Régimen. Hacia una nueva historia institucional, Universidad de Granada, Granada, 1996. 275 Marcos Rafael Cañas Pelayo Dedieu5, así como los avances que se produjeron para la compresión de las redes clientelares y otros vínculos en el poder local del País Vasco y Navarra6. En definitiva, unos avances metodológicos que iban admitiendo cada vez más la posibilidad de presencias de minorías tan importantes como la formada por los conversos, supuestamente vetados a cualquier aspiración a estos juegos de poder7. Varios factores explican esa aparente paradoja. En primer lugar, los estatutos tuvieron una implantación tardía en muchas localidades, lo cual habría permitido a la filtración producirse antes8. De igual forma, las pruebas no estaban exentas de fraudes, soborno y coacción de testigos, confección de falsos abolengos y compra de silencios. Recientemente, Enrique Soria Mesa ha ejemplificado con claridad la falsedad de muchas de estas probanzas, en un artículo que ilustra los nuevos enfoques que se están empleando para abordar esta temática, mostrando un panorama diferente al que se había planteado de forma clásica, a la par que mucho más interesante que la mera recolección de ordenanzas y datos positivistas9. Dentro de esta renovación historiográfica, admitida ya la constante venta de dignidades públicas 5 J.L. Castellano, J.P. Dedieu (dirs.), Réseaux, familles et pouvoirs dans le monde ibérique à la fin de l Ancien Régimen, CNRS, París, 1998; J.L. Castellano, J.P. Dedieu, M.V. López Cordón Cortezo (eds.), La pluma, la mitra y la espada. Estudios de historia institucional en la Edad Moderna, Marcial Pons, Madrid, 2000. 6 Entre otros, J.M. Imízcoz Beunza (coord.), Élites, poder y red social. Las élites del País Vasco y Navarra en la Edad Moderna, Universidad del País Vasco, Bilbao, 1996 y Redes familiares y patronazgo. Aproximación al entramado social del País Vasco y Navarro en el Antiguo Régimen (siglos XV-XIX), Universidad del País Vasco, Bilbao, 2001. 7 Así lo demostraba el profesor Jaime Contreras, recogiendo muchas de las premisas planteadas por Julio Caro Baroja para abordar con garantías las diferentes realidades de esta compleja minoría. Citamos por J. Contreras, Sotos contra Riquelmes. Regidores, inquisidores y criptojudíos, Anaya, Madrid, 1992. En la tónica de lo anterior, resaltar J. Contreras (ed.), Familias, poderes, instituciones y conflictos, Ediciones de la Universidad de Murcia, Murcia, 2011. 8 Una buena panorámica de ello en F. Márquez Villanueva, De la España judeoconversa. Doce estudios, Edicions Bellaterra, Barcelona, 2006, pp. 137-174. Ejemplos prácticos de esa pronta presencia, entre otros, en P. Lorenzo Cadarso, Esplendor y decadencia de las oligarquías conversas de Cuenca y Guadalajara (siglos XV y XVI), «Hispania», n. 168 (1994), pp. 37-52; F.J. Aranda Pérez, Judeo-conversos y poder municipal en Toledo en la Edad Moderna: una discriminación poco efectiva, en A. Mestres, E. Giménez (eds.), Disidencias y exilios en la España Moderna, Asociación Española de Historia Moderna, Alicante, 1997, pp. 155-168. 9 E. Soria Mesa, Los estatutos municipales de limpieza de sangre en la Castilla Moderna. Una revisión crítica, «Mediterranea-ricerche storiche», n. 27 (2013), pp. 9-36 y Genealogía y poder. Invención del pasado y ascenso social en la España Moderna, «Estudis», n. 30 (2004), pp. 21-55. De igual forma, M. P. Rábade Obradó, La invención como necesidad: genealogía y judeoconversos, en M.Á. Ladero Quesada (coord.), Estudios de Genealogía, Heráldica y Nobiliaria, Editorial Complutense de Madrid, 2006, pp. 183-201. 276 El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces durante este período10, comienza a urgir plantear si los cristianos nuevos portugueses pudieron emular ese asalto de sus colegas castellanos. Cuestión nada baladí, ya que tuvieron una continuada presencia en el reino vecino. Hubo un continuado movimiento migratorio, cuyos protagonistas aprovecharon la permeabilidad de la frontera peninsular, especialmente tras la Unificación de las Coronas Ibéricas (1580). Un trasiego constante donde los cristianos nuevos lusos alcanzaron un peso notable, acentuado especialmente bajo protección que el conde-duque de Olivares11, valido de Felipe IV, brindó a muchos de ellos ante el Santo Oficio, a cambio de prestar sus servicios a las necesitadas arcas de regias. Una presencia que dejó su reflejo en diferentes parcelas: la inserción lusa en los circuitos económicos castellanos12, sus problemas con el Santo Oficio, las estrategias matrimoniales que emplearon13 y, entre otras, en la llegada de algunos de ellos a las esferas de poder de las oligarquías locales de zonas como Andalucía. Y es acerca de esta última cuestión donde aún carecemos de las suficientes monografías. Cierto es que ya disponemos de algunos trabajos precedentes de sumo interés. Por ejemplo, la profesora Lorena Roldán se ha adentrado en el ámbito del cabildo malacitano, con gran atención a los conversos portugueses que lograron acceder a juraderías14. 10 Véase J.E. Gelabert, Tráfico de oficios y gobierno de los pueblos en Castilla (15431643), en L. Ribot y L. de Rosa (dirs.), Ciudad y mundo urbano en la Época Moderna, Actas, Madrid, 1997, pp. 157-186; A. Marcos Martín, Las ventas de oficios en Castilla en tiempos de la suspensión de las ventas (1600-1621), «Chronica Nova», n. 33 (2007), pp. 13-35; F. Andújar Castillo, M.M. Felices De La Fuente (coords.), El poder del dinero. Ventas de cargos y honores en el Antiguo Régimen, Biblioteca Nueva, Madrid, 2011. 11 Muy recomendable para conocer la política de Olivares sigue siendo la ya clásica biografía de J. H. Elliott, El conde-duque de Olivares: El político en una época de decadencia, Crítica, Barcelona, 2009. 12 Destacan en esta parcela compañías comerciales como la de Fernando Montesinos, converso de Vila Flor, destacado inversor en la Castilla de la primera mitad del Seiscientos, cuya figura y círculo familiar han sido detalladamente analizados en B.J. López Belinchón, Honra, libertad y hacienda: (hombres de negocios y judíos sefardíes), Universidad de Alcalá, 2001. 13 Materia en la que tenemos aún un gran desconocimiento, más allá de los tópicos pre-existentes. Con carácter local, resulta muy interesante el capítulo que le dedica J.I. Pulido Serrano, Prácticas matrimoniales de los portugueses en Madrid durante el siglo XVII, en S. Molina Puche, A. Irigoyen López (coords.), Territorios distantes, comportamientos similares: familias, redes y reproducción social en la Monarquía Hispánica (siglos XIV-XIX), Servicio de Publicaciones Universidad de Murcia, Murcia, 2009. 14 L. Roldán Paz, Jurados conversos en el cabildo malacitano, en F.J. Aranda Pérez (coord.), La declinación de la monarquía hispánica, Universidad de Castilla La Mancha, Cuenca, 2004, pp. 765-780. En él, su autora muestra una excelente combinación entre los protocolos notariales y las actas capitulares del cabildo con los legajos inquisitoriales. Volveremos a incidir en la producción de esta investigadora en los siguientes epígrafes, centrándonos en su reciente tesis doctoral. 277 Marcos Rafael Cañas Pelayo Asimismo, nos encontramos a la espera de la publicación de un estudio genealógico de las familias conversas más destacadas del ámbito granadino, a cargo del profesor Enrique Soria Mesa, a cuyos primeros resultados hemos podido tener acceso para la confección del presente artículo15. A nivel de fuentes, es mucha la documentación inédita que existe sobre el tema. Pocos archivos tienen la importancia para esta clase de reconstrucción que los protocolos notariales, afortunadamente conservados en buena parte de los lugares de estudio que vamos a abordar. Información vasta pero muy dispersa, nos vemos obligados a realizar catas por escribanías y centrándonos en los años clave (fundamentalmente, entre 1580 y 1640, aunque el asentamiento de portugueses en Andalucía se da desde décadas atrás y tendrá una prolongación continuada durante toda la Edad Moderna). El rico fondo inquisitorial custodiado en el Archivo Histórico Nacional de Madrid es otra referencia indispensable. Los legajos conservados de los distritos inquisitoriales andaluces encierran informaciones genealógicas y de otra índole que nos permiten avanzar en nuestro conocimiento. Poco trabajada hasta los últimos tiempos, debemos destacar aquí la correspondencia epistolar mantenida entre los Tribunales y la Suprema, una serie miscelánea, pero que va mostrando los entresijos de los procesos, más allá de las, en ocasiones, escuetas relaciones de causas. A pesar de que son uno de los fundamentos de nuestra investigación, los datos obtenidos de los registros del Santo Oficio son insuficientes por sí solos. En primer lugar, por el carácter parcial y controvertido de esta fuente (esta parcela se desarrollará más en el epígrafe correspondiente) y, en segundo, porque solamente refleja una parte del fenómeno, a aquellos que chocaron con la autoridad inquisitorial. Este artículo no pretende centrarse únicamente en aquellos cargos públicos portugueses que fueron ensambenitados, reconciliados o, en los peores casos, relajados por la temida institución. Porque también hubo otros tantos ejemplos de integración y éxito que no se vio frenado por la ascendencia hebraica. De ello tenemos muestras en las probanzas y pleitos atesorados en la Real Chancillería de Granada, también en las relaciones de pasajeros que probaron fortuna en Indias, etc. 15 Ello se ha debido a la amabilidad del profesor Enrique Soria, quien no ha dudado en compartir generosamente los datos que ha ido obteniendo en la elaboración de su futuro trabajo, el cual, sin duda, será una obra de referencia para nuestros conocimiento sobre los linajes del reino granadino. Citaremos cuando hagamos mención por: E. Soria Mesa, Genealogías del reino de Granada, en prensa. 278 El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces Referencias ineludibles para arrancar nuestro análisis. Habremos de hacer más, tanto bibliográficas como documentales, a medida que vayamos dibujando el grado de conocimiento del que disponemos actualmente de esta presencia portuguesa. A ello dedicaremos el siguiente apartado. 2. Magnitudes y familias para los cuatro reinos En orden a dar coherencia el discurso, hemos dividido este epígrafe en cuatro bloques, atendiendo a los reinos de Sevilla, Córdoba, Granada y Jaén. Para cada uno, mostraremos los estudios precedentes que se han efectuado, los linajes más destacados que hemos hallado y la importancia numérica que alcanzaron. 2.1 Sevilla, una oportunidad constante Comenzamos el repaso por el ámbito hispalense, el cual es, indudablemente, el que mayores atractivos comerciales presentaba en Andalucía. Junto con el de Lisboa, el puerto sevillano es el gran centro receptor e importador de las mercancías que llegan de las Indias orientales. La creación de la Casa de la Contratación (1503) confirmó ese papel preponderante y la necesidad de los inversores de estar presentes allí. Un reino de Sevilla con un heterogéneo y amplio conglomerado social, donde los conversos fueron una realidad innegable16 en los juegos de poder que se sucedieron por parte de los nobles hispalenses; luchas por influencia y predominio sobre sus pares. Disponemos de varios estudios que han mostrado esta realidad. Décadas atrás, Ruth Pike indagó en el origen de muchas de estas disputas, haciendo especial hincapié en el peso del colectivo cristiano nuevo en esa coyuntura. Sobre ellos se apoyaba un linaje de la importancia de los Guzmán (Medina Sidonia) en su rivalidad con otra de las ramas de la aristocracia más importantes de la ciudad, los Ponce de León. Como esta historiadora ejemplifica, muchos de estos judeoconversos lograron prosperar gracias a su capacidad económica y la protección 16 Obra de consulta básica para este aspecto son los trabajos de J. Gil, Los conversos y la Inquisición sevillana, Universidad de Sevilla, Sevilla, 2000, 8 vols. Recientemente, destacar la línea abierta en B. Pérez, Conversos sevillanos a principios de la época moderna: ¿élites financieras o familias relacionadas?, en el Congreso Internacional Los Judeoconversos en la Monarquía Española. Historia. Literatura. Patrimonio, Universidad de Córdoba, en prensa. 279 Marcos Rafael Cañas Pelayo que les ofertaron ciertos sectores nobiliarios, si bien estaban expuestos a granjearse enemistades y hostilidad por parte del resto de la sociedad. Concretamente, R. Pike acentúa el supuesto origen portugués de uno de estos clanes, los Caballero, quienes se jactaban de remontarse a Alonso González de Meneses, portugués perteneciente a la Orden de Santiago. Sin embargo, todo parece indicar que dicho ilustre antepasado no era más que un bulo; en realidad, eran un grupo familiar converso, oriundo de Sanlúcar de Barrameda17. Si bien el origen luso de los Caballero era ficticio, sí que fueron provenientes de Portugal una gran cantidad de familias que se asentaron en la metrópoli hispalense. La Edad Moderna dejará constancia de ello en Sevilla, abundando firmas de comerciantes como los Ximénez de Lisboa, los Caldeira, Báez, etc. No pocos de ellos eran de origen judío. Resultando difícil precisar cifras exactas, contamos con los estudios del profesor Jesús Aguado de los Reyes para este enclave, los cuales aportan varias indicaciones. Dentro de la colonia portuguesa que llegó a establecerse en la capital, este investigador registra hasta 258 casos de mercaderes lusos que obtuvieron la naturalización en la ciudad (su análisis abarcó los años comprendidos entre 1600 y 1650)18. Dicho autor nos ha transmitido la paradoja que acompañaría constantemente a estos agentes económicos en su periplo sevillano; por un lado, unos intermediarios necesarios, aunque incómodos19; por el otro, sospechosos bajo los criterios de limpieza de sangre de la época, basándose en las pioneras investigaciones de Antonio Domínguez Ortiz, Aguado de los Reyes llegó a señalar: Domínguez Ortiz colocaba el apogeo de la inmigración portuguesa entre los años de 1627 a 1640. Su presencia en Sevilla debió de constituir todo un clan. Y si bien supuso una inyección económica importante para la ciudad, también suscitaría los celos de otras comunidades. Entre ellas, las de los cristianos viejos, ya que un porcentaje importante de ellos era converso y, por tanto, sospechoso de judaizante. Si bien el autor sostiene que la mayoría no fue inquietada y permaneció en Sevilla tras la separación de 164020. 17 R. Pike, Aristócratas y Comerciantes, Ariel, Barcelona, 1978, pp. 52-56. De la misma autora, Linajudos and Conversos in Seville. Greed and prejudice in Sixteenth and Seventeenth-Century Spain, Peter Lang, Nueva York, 2000. 18 J. Aguado de los Reyes, El apogeo de los Judíos Portugueses en la Sevilla Americanista, «Cadernos de Estudos Sefarditas», n. 5 (2005), pp. 135-157. 19 Un ejemplo de ello lo encontramos en B.J. López Belinchón. Sacar la sustancia al reino. Comercio, contrabando y conversos portugueses, 1621-1640, «Hispania», nº 209 (2001), pp. 1017-1050. 20 J. Aguado de los Reyes, Lisboa, Sevilla, Amberes, eje financiero y comercial en el sistema atlántico (primera mitad del siglo XVII), en C. Martínez Shaw, J.Mª Oliva Melgar (eds.), El sistema atlántico español (siglos XVII-XIX), Marcial Pons, Madrid, 2005, pp. 101- 280 El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces Hasta tal punto llegó su peso que incluso las autoridades sevillanas temieron que pudieran ser una especie de quinta columna durante la conjura del duque de Medina Sidonia21. No obstante, como el propio Domínguez Ortiz apuntaba en la cita que hemos visto previamente, en la gran mayoría de los casos, estos portugueses afincados en Sevilla se integraron plenamente en la ciudad, permaneciendo tras la separación de Portugal de la Monarquía Hispánica, siendo siempre una parte activa del entramado económico urbano. Un refuerzo financiero donde hay que subrayar el sistema de los asientos, una de las bases de la hacienda regia. El asentista era el encargado de adelantar y situar una cantidad estipulada sobre determinada renta o monopolio, la cual obtenía en una puja, pudiendo quedarse con cualquier beneficio extra que obtuviese durante el disfrute de la misma. Con frecuencia, la Corona ofertaba juros como resguardo, si bien el riesgo de la operación era tan alto como atractivas sus posibilidades para los inversores. Sevilla, activa y pujante, canalizaba una gran cantidad de arrendamientos para recaudar indirectamente, lo cual exigía buscar estos agentes. Y dentro de esas coordenadas, pocos grupos de negociantes disponían de un radio de acción mejor al de estos activos comerciantes lusos; es decir, más allá de que algunos pudieran desembocar en Andalucía huyendo de la, por aquel entonces, activa Inquisición lusa, existió un factor financiero de mucho peso para explicar esta decisión. Varios trabajos subrayan las relaciones constantes del mercado sevillano con el eje comercial lisboeta22 y los vínculos de destacados hombres de negocios del Nuevo Mundo con los judeoconversos lusos sevillanos23. De ahí surgen figuras como Manuel Cea Brito, arrendador de millones en Sevilla24, además de muy presente en la aduana hispalense y almojarifazgo de dicha ciudad, quien logró, finalmente, trasladarse como inversor a la propia Madrid en la década de los 20 del Seiscientos. 126. La cita a Domínguez Ortiz procede de Los extranjeros en la vida española durante el siglo XVII y otros artículos, Universidad de Sevilla, Sevilla, 1966, pp. 15-181. 21 S. Luxán Meléndez. A Colonia portuguesa de Sevilha. Una ameaça entre a Restauraçâo portuguesa e a conjura de Medina Sidonia, Penélope-Fazer e Desfazer a Historia, Lisboa, 1993, pp. 127-134. 22 P. Collado Villalta. El embargo de bienes de los portugueses en la flota de Tierra Firme de 1641 (análisis de las irregularidades normalizadas y del poder lusitano en el comercio indiano de la época, «Anuario de Estudios Americanos», t. XXXVI (1979), pp. 169-207. 23 Entre otros, en E.A. Uchmany, Simón Váez Sevilla, «Estudios de Historia Novohispana», n. 9 (1987), pp. 67-93. 24 A. Domínguez Ortiz, Los extranjeros en la vida española durante el siglo XVII y otros artículos, Diputación de Sevilla Sevilla, 1996, p. 30. 281 Marcos Rafael Cañas Pelayo Los prestamistas de Portugal fueron reemplazando de forma natural a sus predecesores genoveses, los anteriores controladores de muchos de estos circuitos25. Los comienzos del siglo XVI hicieron coincidir el auge de la Casa de la Contratación de Sevilla con el control ejercido por los mercaderes de esclavos lusitanos. Todo ello se tradujo en la impronta portuguesa que va a tener la trata negrera en suelo hispalense (y, desde ese centro de difusión, al resto de Andalucía)26. Sabemos relativamente bastante de los grupos inversores más destacados del negocio esclavista, la cúspide de la pirámide de un sistema complejo, cuyos circuitos iban desde Cabo Verde a Cartagena de Indias. Justamente aquellos que podían aspirar a prosperar en su nueva ciudad y, en los casos más afortunados, incluso alcanzar el codiciado estatus nobiliario. Esta clase de emporios comerciales articulados alrededor de vínculos familiares y étnicos, son un aspecto a desarrollar con mayor profundidad en el futuro. Actualmente, contamos con los trabajos de los profesores Manuel F. Fernández Chaves y Rafael M. Pérez García, quienes han mostrado las vías de penetración de estos agentes portugueses en Sevilla, desde etapa temprana, alcanzando un nivel que les podía garantizar un futuro prestigio27, perpetuándose en dicha actividad a lo largo del tiempo28. 25 Algunos autores llegan a hablar, incluso, de imperio hispano-genovés, hipérbole que muestra el destacado peso que llegaron a tener estos italianos en la metrópoli. Citar aquí a M. Herrero Sánchez. La quiebra del sistema hispano-genovés, «Hispania: Revista Española de Historia», vol. 65, n. 219 (2005), pp. 115-151. Por ser un caso particular de un banquero muy destacado del prolífico linaje genovés de los Centurión, mencionar asimismo la reciente biografía de Carmen Sanz Ayán sobre Octavio Centurión. C. Sanz Ayán. Un banquero en el Siglo de Oro, La Esfera de los Libros, Madrid, 2015. 26 Dentro de su amplio banco de datos sobre cristianos nuevos portugueses y castellanos condenados por los Tribunales del Santo Oficio americanos, el profesor Ricardo Escobar Quevedo ha confirmado que en los territorios coloniales se verifica asimismo la vinculación de judeoconversos portugueses en la compra de asientos negreros, llegando a establecerse auténticas dinastías (destacando a las gentes procedentes del distrito de Castelo Branco). Citamos por R. Escobar Quevedo, Inquisición y judaizantes en la América española (siglos XVI-XVII), Ediciones Universidad del Rosario, Ciudad del Rosario, 2008. Para el papel de los esclavistas en Sevilla, entre otros, son de obligatoria mención de los trabajos de E. Otte, C. RuizBurruecos, Los portugueses en la trata de esclavos negros de las postrimerías del siglo XVI, «Moneda y Crédito», n. 85 (1963), p. 331. También el estudio de L. García Fuentes, Licencias para la introducción de esclavos en Indias y envíos desde Sevilla en el siglo XVI, «Jahrbuch für Geschichte von Staat, Wirtschaft und Gesellschaft Lateinamerikas», n. 19 (1982), pp. 1-46. 27 M. Fernández Chaves y R.M. Pérez García, La penetración económica portuguesa en la Sevilla del siglo XVI, «Espacio, Tiempo y Forma, Serie IV, Historia Moderna», t. 25 (2012), pp. 199-222. 28 Tomemos por ejemplo a Manuel de León, nacido en Sevilla, con raíces en Lisboa y vínculos comerciales con Oporto. Algunas de sus primas habían llegado a ingresar como monjas en conventos hispalenses. Sin embargo, este navegante de galeones negreros 282 El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces Estos estudios han incidido en la capacidad de dichos protagonistas cara a hacerse imprescindibles para la élite hispalense, la cual precisaba de ellos como intermediarios, a la par que, en no pocos casos, administradores de sus bienes y negocios. Se trataba de una posición clave para lograr contactos con la oligarquía, como Gaspar de Torres, cuyo linaje era uno de los principales responsables de la trata en el río de Guinea, quien acabó logrando el puesto de jurado. Citando textualmente el artículo referido, destacamos la descripción que se brinda sobre Manuel Caldeira, enriquecido negrero luso: Para ello, utilizó la técnica que los portugueses ensayaron durante todo el siglo, introducirse en el seno de la propia oligarquía esclavista sevillana, trabajar con ellos y para ellos, la única manera real de participar a gran escala en ese negocio29. No solamente hubo mercaderes de esclavos en esta fila más acomodada del grupo converso. Cargadores de Indias, comerciantes de varas de tafetán, inversiones arrendatarias y una amplia variedad de actividades podían permitir obtener jugosos dividendos que fortalecían la consideración pública de sus protagonistas. Algunos de ellos llegaron a tener una gran reputación, a pesar de su abolengo, debido a su habilidad para la internacionalización que ofrecía el mercado Atlántico30. Tal fue el modelo que siguió el célebre Marcos Fernández Monsanto, portugués, descendiente de conversos, quien, además de administrar la renta del almojarifazgo entre los años de 1631 y 1643, empleó una parte de su fortuna en obras benéficas que ayudasen a los sectores de población sevillanos más empobrecidos. Debido a la suerte cambiante y al azar de la inversiones, este popular personaje terminó por encontrase al borde de la quiebra al final de sus días31. En definitiva, esa búsqueda de respetabilidad y ascenso conllevaba un riesgo, pero era factible. En pos de ese objetivo, pleitearon los hermanos Lorenzo, Francisco y Jerónimo de Castro, avecindados en Sevilla, quienes solicitaron acreditación por su condición hidalga ante la Chancillería de Granada. tuvo problemas con el Santo Oficio de Coimbra a su regreso a Portugal (1659). Antt, Inquisiçâo de Coimbra, proc. 1368. 29 M. Fernández Chaves y R.M. Pérez García, La penetración económica portuguesa cit, p. 218. De estos mismos autores, destacamos también La esclavitud en la Sevilla del quinientos: reflexión histórica (1540-1570), en F.J. Mateos Ascacibar, F. Lorenzana de la Puente (coords.), Marginados y minorías sociales en la España moderna y otros estudios sobre Extremadura, Sociedad Extremeña de Historia, Llerena, 2006. 30 Por ejemplo, sobre la amplitud de este mercado hay varias obras colectivas que subrayan su importancia. Tal es el caso en J. Manuel de Bernardo Ares (dir.), Mercaderes atlánticos. Redes de comercio flamenco y holandés entre Europa y el Caribe, Servicio de Publicaciones Universidad de Córdoba, Córdoba, 2009. 31 J. Aguado de los Reyes, El apogeo de los cit, p. 142. 283 Marcos Rafael Cañas Pelayo Tanto Lorenzo como Francisco eran caballeros veinticuatros (equivalente a regidor en muchos cabildos andaluces, denominados así por el número original de personas que podían desempeñar el puesto, aunque, con el paso de las décadas, la cantidad de caballeros creció exponencialmente), pero ello no les salvaguardó de tener una probanza sumamente accidentada32. Su genealogía comenzó a ser investigada en 1634; desafortunadamente para sus intereses, junto con el testimonio de su clientela y círculo de amistades de la ciudad, también surgieron enemigos dispuestos a probar su origen hebreo, el cual situaron en el reino de Portugal. Bartolomé Gutiérrez Pacheco, jurado hispalense, fue el encargado de romper las laudatorias declaraciones anteriores. Hombre de más de 50 años de edad, recordaba con claridad la llegada del grupo a Sevilla, afirmando que tenía a los anteriores testigos por hombres pobres y pecheros, sobornados por unos pocos maravedís o bien vinculados por afecto y necesidad a aquellos tres hermanos. Lejos del abolengo nobiliario que los litigantes habían situado en Castro Urdiales, una sombra de sospecha empezó a recorrer el árbol genealógico del clan33. Margarita de Sosa, abuela portuguesa por línea paterna de los candidatos, era uno de los mayores motivos de fricción de las averiguaciones. Es entonces cuando la familia desplegaba todos los recursos que tenía disponibles para mantener la ficción, desde la supuesta casa solariega34 a la colocación de una nueva hornada de testigos que estuvieran dispuestos a desmentir los maliciosos ataques. Es un proceso que se repetirá mucho, no exclusivo de estos hermanos Castro. Se borraban los parientes condenados ante el Santo Oficio, mientras que empezaban a surgir intachables (y ficticios) parientes que hubieran portado hábitos de órdenes militares, así como frailes y monjas entre sus antepasados. En definitiva, no solamente estaba en liza una demostración genealógica, también se ponía a prueba la capacidad de los aspirantes de poder contar con los suficientes recursos y contactos que pudieran avalarles en su tentativa. Por supuesto, el grado de integración obtenido en su nueva área geográfica desempeñaba un papel fundamental. Una de las vías más directas para naturalizarse era prestar sumas de dinero a la Corona, disponemos de varios estudios relativos a estas 32 Archivo Real Chancillería de Granada (en adelante, ArchGr), Pleitos, caja 10049, pieza 9. 33 La petición había sido realizada en 1634. Citamos por ArchGr, Pleitos, leg. 2602, pieza 51. 34 ArchGr, Pleitos, leg. 5267, pieza 110. 284 El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces cuestiones. Por ejemplo, Juana Gil-Bermejo35 ha rescatado algunos listados de mercaderes lusos en Sevilla, relativos a recaudaciones que iban encaminadas a ayudar a las arcas públicas, debido a las constantes guerras mantenidas por la Monarquía con Europa (especialmente, el frente de Flandes). Muchos de estos negociantes foráneos aceptaban desventajosos cambios de plata por vellón, a cambio de poder establecerse en la ciudad hispalense. Un estatus que podía permitirles aspirar a establecerse con honores en otros lugares de Andalucía. Así, Jorge Fernández de Oliveira, tesorero de los almojarifazgos hispalenses, logró una fortuna que le llevó a comprar por la cifra de 100.000 ducados el puesto de mojonero mayor de Málaga. No se quedaron atrás, siguiendo este modelo, personajes como don Duarte de Acosta, contador mayor, factor de la Armada y personaje muy importante en los presidios peninsulares en África36, Francisco Báez Eminente, Diego Núñez Pérez, quien alcanzó el rango de caballero veinticuatro37 y un amplio etc. Desde antes de la Unión de Coronas Ibéricas y hasta la llegada de la Casa de Braganza al trono portugués, la presencia lusa fue en constante auge. Resultarán de sumo interés en el futuro los trabajos que están comenzando a ser realizados por jóvenes investigadores como Ignacio González Espinosa, quien se encuentra analizando el grado de integración de este grupo extranjero a través de fuentes locales38. Lutgardo García Fuentes39 ha subrayado el paulatino declive de este agente tan constante, a partir del arranque de la segunda mitad del Seiscientos. Progresivamente, fueron desapareciendo de las listas nombres como los hermanos Rodríguez Pasariños, representantes en Sevilla del poderoso linaje converso de los Silveira, quienes fueron los organizadores de la colocación de 80.000 ducados en Flandes, a cambio de varias consignaciones que les garantizó Felipe IV en 163240. 35 J. Gil Bermejo. Mercaderes sevillanos. Una nómina de 1637, «Archivo Hispalense», n. 181 (1976), pp. 183-197. Este artículo tuvo su prolongación en Mercaderes sevillanos. Una nómina de 1640, «Archivo Hispalense», n. 182 (1977), pp. 27-52. 36 A. Domínguez Ortiz, Los extranjeros en la vida cit., pp. 31 y 35. Francisco Báez Eminente mostró una inteligente diversificación económica. De los arrendamientos sevillanos a las minas de Almadén, terminó controlando los almojarifazgos hispalenses y una fuerte presencia en el puerto de Cádiz. 37 J. Aguado de los Reyes. Lisboa, Sevilla, Amberes cit., p. 121. La familia Núñez Pérez tuvo una gran cantidad de negocios en Amberes. 38 I. González Espinosa. Portugueses en Sevilla: sus oficios y profesiones durante el reinado de Felipe III, en XIII Reunión Científica de la Fundación Española de Historia Moderna, Universidad de Sevilla, pp. 1041-1054. 39 L. García Fuentes. Exportación y exportadores de Indias, «Archivo Hispalense», n. 203 (1984), pp.1-39 40 J. Aguado de los Reyes. Lisboa, Sevilla, Amberes, cit., p. 108. Los Silveira fueron distinguidos por Felipe IV con dignidades como el hábito de la Orden de Cristo. 285 Marcos Rafael Cañas Pelayo Saliéndolos del núcleo urbano, sobresale la prosperidad alcanzada por varias familias de mercaderes portugueses en lugares como Osuna o Écija. Nos centraremos especialmente en la segunda localidad, dentro del apartado de problemas con el Santo Oficio, debido a la acción inquisitorial realizada contra comunidad conversa portuguesa desde finales del Quinientos, donde hallamos una notable cantidad de cargos públicos41 (escribanos públicos, jurados y, ya alcanzado el Seiscientos, incluso regidores). Para Cádiz, sobresale el caso de la familia Báez. Fernán Báez, mercader luso, oriundo de Tánger, esposo de doña Beatriz de Vargas, fue el padre de Enrique Báez de Vargas, quien llegó a ostentar el puesto de regidor en el cabildo municipal, coincidiendo con el saqueo de este enclave andaluz por parte del conde de Essex42. La hermana de Enrique, doña Juana de Vargas, logró enlazar con don Pedro de Angulo, regidor malagueño, teniendo como hijo a don Martín de Angulo, quien tuvo unas accidentadas pruebas genealógicas para obtener el hábito de Santiago en 164443. Dos fueron los aspectos más controvertidos de dichas probanzas. En primer lugar, varios testigos expresaron sus dudas de los antepasados lusos de don Martín de Angulo, mientras que la familia de su padre mostraba provenir de una conversa antigua de Écija, concretamente, del prolífico linaje de los Nájera, lo cual podría ser un indicio de una hipotética conexión, a través de esa rama, con los Báez Coronel de Murcia44. 41 Los Rodríguez de Andrada, Acosta, Fernández de León y Silva Lobo fueron los linajes más destacados en este proceso de ascenso al cabildo, truncado por el choque con el Santo Oficio. Desarrollaremos más este aspecto en el apartado correspondiente y en un artículo centrado exclusivamente sobre la presencia judeoconversa lusa en el distrito astigitano, que esperamos salga publicado en breve. 42 Resulta abundante la producción bibliográfica relativa a este asalto. Destacamos la crónica efectuada por fray Pedro de Abreu. Citamos la edición de M. Bustos Rodríguez (ed.), Historia del saqueo de Cádiz por los ingleses en 1596, Servicio de Publicaciones de la Universidad de Cádiz, Cádiz, 1996. Allí observamos a este regidor de ascendencia lusa como uno de los ilustres rehenes gaditanos que se hallaban en Inglaterra. 43 Ahn, Órdenes Militares, Expedientes Caballeros de Santiago, exp. 437. 44 Protegido por el marqués de Mondéjar, este grupo luso logró alcanzar posiciones muy destacadas (jurados y regidores) en Murcia. Actualmente, destaca el estudio de P. Miralles Martínez, Mercaderes portugueses en la Murcia del siglo XVII, en M.B. Villar García y P. Pezzi Cristóbal (eds.), Los extranjeros en la España Moderna, Universidad de Málaga, Málaga, 2003. En él, su autor muestra como la prosperidad mercantil (especialmente, el negocio de la seda) permite a algunos de estos cristianos nuevos lusos acceder a concejos como el de Cartagena o la propia capital del reino. El posible vínculo común de estos Báez en Murcia y los de Cádiz con los Nájera se debería a los lazos de los segundos con los Peñalosa (los cuales dan relatores y otros funcionarios a la Chancillería de Granada), quienes parecen conectar con esos mismos Nájeras astigitanos que enlazan con los Coronel. De ser así, ello nos hablaría de un posible parentesco entre ambos Báez. Remito para esa línea futura a E. Soria Mesa, Genealogías del reino cit, en prensa. 286 El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces No en vano, la salida portuaria de Cádiz, igual que en el caso sevillano, la convirtió en una zona con gran proliferación de mercaderes de esclavos lusos45, lo cual les permitió manejar unos niveles de fortuna lo suficientemente elevados para aspirar a la compra de oficios públicos. Para este enclave portuario, volvemos a encontrar a los Báez Eminente, beneficiados de su inversión en estas activas aduanas del litoral46. Es mucho todavía lo que nos queda por analizar para este territorio, pues hubo una pervivencia de dichos asentistas lusos47; así ha dado muestra de ello Manuel Ravina Martín en un excelente recorrido genealógico por familias judeoconversas originarias de lugares como Braganza, Jerez de la Frontera48, Puerto de Santa María49, entre muchos otros, para terminar dando como descendientes a figuras tan ilustres como el ministro Mendizábal50. Comienza a ser una necesidad urgente indagar más en esta presencia, por ejemplo, tenemos constancia de personajes con el apellido Báez51 que ostentan diferentes cargos públicos en el Puerto de Santa María, llegando a perdurar hasta el Seiscientos52. 45 Recientemente, A. Morgado García, Una metrópoli esclavista: El Cádiz de la Modernidad, Universidad de Granada, Granada, 2013. 46 Ver I. Pulido Bueno, Enajenaciones de rentas comerciales en el litoral onubense y gaditano a mediados del siglo XVII, «Huelva en su historia», n. 2 (1988), pp. 401-436. 47 Tal fue el caso de Simón Ruiz Díaz Pessoa y su primo, Gaspar Ruiz, inversores en la aduana de Cádiz durante la década de los 80 del siglo XVII. Contamos con estudios clásicos que muestran como estos hombres de negocios, judeoconversos en su origen, terminaron en quiebra. Ambos aparecen en J. Caro Baroja, Los judíos en la España Moderna y Contemporánea, Istmo, Madrid, 2005, vol. II, p. 166. 48 Urge un estudio del cabildo jerezano para el Seiscientos como sí se ha realizado ya con los regidores del siglo XVIII. Citamos por J. M. González Beltrán Honor, riqueza y poder: Los Veinticuatros de Jerez de la Frontera en el siglo XVIII, Ayuntamiento de Jerez, Jerez de la Frontera, 1997. 49 Encontramos los trabajos más clásicos realizados sobre la comunidad portuguesa establecida en dicho enclave. Resaltar H. S. de Sopranis, La colonia portuguesa del Puerto de Santa María. Siglo XVI, Centro de Estudios Históricos Jerezanos, Larache, 1940. 50 M. Ravina Martín, Un laberinto genealógico: La familia Mendizábal, Servicio de Publicaciones Diputación de Cádiz, Cádiz, 2003. 51 Tal fue el caso de Rodrigo Báez, de más que posible ascendencia portuguesa, regidor perpetuo en dicho enclave. ArchGr, leg. 5387, pieza 2. 52 Por ejemplo, en el artículo de J. M. González Beltrán, De señorío a realengo. Reflexiones sobre la incorporación del Puerto de Santa María a la Corona (1729), «Revista de Historia de El Puerto», n. 32 (primer semestre 2004), pp. 11-25. Ahí encontramos referencia de don Rodrigo Luis Báez, quien compra el cargo del regidor don Lorenzo Rodríguez Cortés Osorio en el año de 1731. El autor no habla de su ascendencia, pero sí deja constancia de que provenía de una familia de cosecheros. 287 Marcos Rafael Cañas Pelayo 2.2 El reino de Córdoba, modelos de asimilación, ocultación y éxito Sin el brillo de los grandes banqueros y asentistas portugueses de la metrópoli sevillana, el reino de Córdoba fue receptor asimismo de una constante llegada de negociantes lusos a sus territorios, no pocos de ellos de origen confeso. Zonas como Priego, Montilla o Lucena captaban la atención del circuito textil local, convirtiéndose en centros de intercambio y abastecimiento para estos hombres de frontera53. A diferencia del caso hispalense para la etapa de Unión de Coronas, todavía carecemos de una distribución cronológica y magnitudes concretas del peso que llegó a tener la inmigración portuguesa en el reino de Córdoba, si bien hay algunos planteamientos previos54. El vaciado de relaciones de causas del Tribunal Inquisitorial de Córdoba, a cargo de Rafael Gracia Boix55, ya arrojaba el dato de que hubo más de 200 procesados de origen portugués en esta jurisdicción, si bien, nuestros estudios nos ya nos permiten afirmar que se sobrepasó la cifra de los 30056. Esa disparidad en el recuento se explica porque, además de los condenados en Autos, el intercambio epistolar del Consejo de Córdoba con la Suprema de Madrid da más noticias sobre otros portugueses investigados (causas pendientes, inconclusas, detalles de víctimas que en las relaciones no son reconocidos como lusos, pero eran de dicha ascendencia, descendientes de portugueses, etc.). En definitiva, un peso muy destacado, sobre todo en el siglo XVII, más si tenemos en cuenta que solamente estamos hablando de aquellos que chocaron con la autoridad inquisitorial, es decir, una parte del grupo. El perfil socioeconómico se corresponde a una mesocracia más baja, alejada de los casos más notorios de los grandes asentistas y 53 Los intereses comerciales de Córdoba con el reino de Portugal son bien visibles desde comienzos del siglo XVI. De ello se deja constancia en diferentes epígrafes que dedica a la cuestión el profesor José Ignacio Fortea Pérez, prestándose una especial atención al intercambio de productos textiles, especialmente la venta de paños. Citamos por J.I. Fortea Pérez, Córdoba en el siglo XVI: Las bases demográficas y económicas de una expansión urbana, Publicaciones del Monte de Piedad y Caja de Ahorros de Córdoba, Córdoba, 1983. 54 Por ejemplo, un primera distribución de coyunturas en la comunicación de la profesora D. Colla Lhamby, Los judíos portugueses en el tribunal inquisitorial de Córdoba, en Mª H. Carvalho y A. Nowinsky (coords.), I Congresso Luso-Brasileiro sobre Inquisiçâo, Sociedade Portuguesa de estudos so século XVIII ,Lisboa, 1987, pp. 169-173. 55 R. Gracia Boix, Autos de Fe y Causas de la Inquisición de Córdoba, Diputación Provincial de Córdoba, Córdoba, 1983. 56 Remito aquí a mis consideraciones sobre las fases de asentamiento de los judeoconversos portugueses en M.R. Cañas Pelayo, Los judeoconversos portugueses en la Edad Moderna: Estrategia económico-familiares, en R. Molina Recio (dir.), Familia y Economía en los territorios de la Monarquía Hispánica, Mandalay Ediciones, Badajoz, 2014, pp. 173-198. 288 El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces arrendadores marranos. Ello reviste al distrito cordobés de un interés especial, pues nos aproxima al denominador común del grupo. A pesar de su fama como una de las ciudades más aristocratizadas durante la Edad Moderna peninsular, Enrique Soria Mesa ha mostrado con detalle la mezcla de sangre conversa con la del patriciado urbano cordobés, hasta el punto de afectar a algunos de los linajes más renombrados del reino57. Un rastreo genealógico que nos sirve de clara guía para ver este acceso de grupos con raigambre hebrea, pero que logran mantenerse en el poder de la oligarquía urbana, después haber quedado sus filas muy diezmadas por la labor del Santo Oficio. Durante los primeros años de funcionamiento de la institución, la Inquisición cordobesa se destacó por una fuerte virulencia. Tras la fase de represión y política de terror impuesta por Diego Rodríguez Lucero, el inquisidor más agresivo en su ofensiva contra los conversos, se produjo un relajamiento de la cuestión; fueron años de asimilación silenciosa de los más destacados linajes supervivientes de la anterior criba58. Ya en la centuria siguiente, durante las investigaciones de la Suprema sobre los prestamistas lusos en la Corte de Felipe IV, el Consejo de Córdoba recibe instrucciones para hacer una relación sobre los portugueses procesados en su distrito. En la respuesta debía de prestarse especial atención a aquellos reclusos que atesorasen muchos arrendamientos y hubieran tenido acceso a posiciones de poder e influencia en dicha jurisdicción. Los informes ilustran mucho acerca de las características de los conversos que fueron procesados en este marco. Se trata de un intercambio epistolar revelador. Córdoba deja constancia de que los prisioneros portugueses que han sido juzgados en su Tribunal distan de tener la relevancia de sus compatriotas en otras zonas de Andalucía. Recientemente, hemos atendido a esas averiguaciones (década de los 30 del siglo XVII) en un artículo59, donde los inquisidores cordobeses afirman que, salvo alguna notoria excepción, la mayoría de sus reos son mercaderes a pequeña escala, confiteros, tratantes, etc. Sin embargo, podemos hacer varias matizaciones a esta afirmación. Estamos aún en la época de Olivares, existe un mayor blindaje cara a los judeoconversos lusos que brindaban servicios al reino; años 57 E. Soria Mesa, El cambio inmóvil: Transformaciones y permanencias en una élite de poder (Córdoba, ss. XVI-XIX), Ediciones de la Posada, Córdoba, 2000. 58 Los desmanes cometidos por Lucero fueron denunciados en su propia época, incluyendo los vertidos por sus superiores en la Suprema de Madrid. La coyuntura y lo fraudulento de sus métodos es visible en la correspondencia inquisitorial que encontramos en el Ahn, Inquisición, leg.2392, cajas 1 y 2. 289 Marcos Rafael Cañas Pelayo posteriores, empezarán a arrojarnos ejemplos de un nivel económico más alto que los casos precedentes. Por ejemplo, Juan Arias del Valle, alguacil de millones en la villa de Cabra, reconciliado en 1663, cuya familia había venido de Portugal60 o, portugués de segunda generación, Diego Matos de Soto, alguacil condenado en Córdoba, durante el Auto de 166561. Incluso hemos hallado ejemplos como el de Domingo Rodríguez de Capadocia62, responsable de la administración del impuesto del tres por ciento en Lucena, persona adinerada y que, además, tenía los derechos a cobrar los derechos de las alcabalas en el reino de Córdoba, virtud de los poderes que le había dado su cuñado, Luis Fernández Pato63, notable prestamista luso en la Corte madrileña, figura que copó asimismo varios oficios públicos de importancia. Similar fue el caso de Miguel Méndez, administrador de la carga impositiva del tres por ciento en Moltalbán, quien terminó casando con su compatriota Blanca de Matos, reconciliada ante el Santo Oficio granadino64; o la compañía formada comerciantes lusos para cobrar los diezmos que debía recibir el duque de Cardona en Lucena a la altura de 162765. Ejemplos notables pero a los que no nos debemos limitar, puesto que, y este es el matiz más importante, si nos contentásemos con seguir esta fuente, solamente incluimos a aquellos juzgados por este Tribunal. Y esta es una cuestión metodológica en la que debemos incidir, pues puede aportarnos novedosas vías para entender el proceso de asimilación. La otra cara de la moneda, es decir, los portugueses de ascendencia hebrea que lograron el ascenso social en Córdoba tienen varios ejemplos de familias lusas, muy notorias, de hecho, de las 59 M.R. Cañas Pelayo, Judaizantes y Malsines: Redes criptojudías portuguesas durante el Seiscientos ante el Tribunal de Córdoba, «Historia y Genealogía», n. 3 (2013), pp. 23-40. 60 Ahn, Inquisición, leg. 2426. 61 Nacido en Murcia, este personaje había logrado acceder al puesto de alguacil en Málaga, cayendo en desgracia al ser acusado de judaizante. Fue reconciliado con hábito y cárcel por seis meses, quedando desterrado de manera indefinida de toda Castilla. Se recoge su condena en R. Gracia Boix, Autos de Fe y causas op. cit., p. 491. 62 Así lo encontramos mencionado en J. Caro Baroja, Los judíos en cit., p. 103. Hemos podido complementar dicha referencia bibliográfica con la información sobre su proceso en el mazo de correspondencia del Ahn, Inquisición, leg. 2425. 63 A quien encontramos vinculado a Gaspar de Olivera, reo luso de la Inquisición gallega, quien llegó a ostentar el puesto de tesorero de millones en la ciudad de Santiago. Denunciado por su propia esposa, doña Juana López Capadocia, tras caer ella en cárceles inquisitoriales cordobesas, sabemos que logró recuperarse de esos avatares y a ostentar el puesto de tesorero en las salinas de Sevilla (1655). 64 Mª. de los Ángeles Fernández García, Inquisición, comportamiento y mentalidad en el reino de Granada en el siglo XVII, Universidad de Granada, Granada, 1987, p. 327. 65 Los dos principales, Rodrigo Núñez y Juan de España, terminaron siendo acusados ante el Santo Oficio cordobés. Ahn, Inquisición, leg. 2406. 290 El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces cuales es difícil indagar en sus orígenes, precisamente porque sus integrantes se encargaron de borrarlo del recuerdo. Lo hicieron y, en algunos casos, dejando establecidas las bases a finales del Quinientos para poder sortear futuribles sospechas en la siguiente centuria. Incluso los encontramos en una esfera que parecía tan restrictiva como el cabildo catedralicio. A raíz de los resultados obtenidos por el profesor Antonio J. Díaz Rodríguez, autor de un completo repaso de la evolución histórica de la institución cordobesa en la Modernidad (aunque el autor supera tales límites cronológicos para situar claramente antecedentes y consecuencias de su época de trabajo). Fruto de ese estudio, hemos descubierto núcleos familiares portugueses insospechados, siendo los Cortés de Mesa el exponente más claro de asimilación a la élite66. Casi siempre asociados a los Fernández de Mesa, familia de muy antigua raigambre en el patriciado eclesiástico de la ciudad, los Cortés de Mesa lograron su objetivo de que se pensase que eran una rama de dicho clan, aunque, como demuestra el profesor Rodríguez, la realidad era bien diferente y bastante más compleja. Bajo la protección de los marqueses de Comares, integrantes de este linaje habían logrado regidurías en la próspera Lucena, si bien sus raíces no se hundían en el reino cordobés, sino que hemos de situarlas en tierras portuguesas. Nunca se hizo mención de ello hasta las pruebas que se efectuaron al capitán Andrés de Mesa, quien logró su hábito de Santiago en 1587. Teniendo en cuenta que en su árbol genealógico se encontraban numerosos prebendados, racioneros e inquisidores, era más que presumible que las investigaciones serían un mero trámite antes de otorgarle la distinción. Por el contrario, apenas se levantó su genealogía hasta los abuelos, diferentes testigos comenzaron a mostrar sus dudas; concretamente, en lo relativo al abuelo materno, Alonso de Mesa, de origen portugués. Sin embargo, en realidad, poco importaban aquellos inciertos ascendentes, debido a que los Cortés de Mesa ya estaban fuertemente instalados en Lucena y la propia capital del reino, emparentados con familias tan renombradas como los Argote o los propios Fernández de Mesa (de hecho, siempre buscaron emularse a ellos en elementos iconográficos como los blasones67). No tardaría el grupo en encontrar solución a las A ellos dedica varios epígrafes en el detallado recorrido que hace sobre la cuestión en el libro que fue fruto de su tesis doctoral. A.J. Díaz Rodríguez, El Clero Catedralicio en la España Moderna: Los miembros del cabildo de la catedral de Córdoba (1475-1808), Servicio de Publicaciones de la Universidad de Murcia, Murcia, 2012. El trabajo postdoctoral de este autor en el CIDEHUS (Universidad de Évora) nos hace augurar que será el germen de futuros artículos de gran interés sobre las semejanzas y diferencias de los cabildos portugueses y castellanos. 66 291 Marcos Rafael Cañas Pelayo incertidumbres. La rama paterna se conectó con unos hidalgos aragoneses, mientras que los maternos fueron igualmente enaltecidos. En su trabajo ya citado, el profesor Díaz Rodríguez expone con claridad cómo Alonso de Mesa se tornó en Alonso de Mesa Barros, convertido en un caballero entre el Douro y el río Miño, cuyos sobrinos combatieron contra los musulmanes desde época antigua para tomar Lucena. Se resume de forma clara en el siguiente párrafo: La de los Cortés de Mesa es una historia fascinante de ascenso en cuanto al cálculo con que todo fue medido: colocación de los hijos, matrimonios, transmisión de los nombres, lugar de residencia en la ciudad, erección de vínculos, elección de armas nobiliarias… todo destinado a confundirse, a equiparse lo más posible a una de las familias nobles del antiguo patriciado cordobés […]68. Paralelamente, albergamos la misma intuición con respecto al linaje de los Fernández de Carreras, de difícil reconstrucción, pero con una capacidad muy notable para colocar a sus integrantes en posiciones de privilegio, tanto cargos eclesiásticos como municipales. Si bien albergaron en sus filas a adinerados mercaderes, familiares del Santo Oficio, jurados y fundadores de mayorazgos, como acontece con los Cortés de Mesa, cualquier indagación en sus raíces empezaba a mostrar silencios y lagunas sobre su llegada. Nada de eso, obviamente, aparece indicado en el detallado desglose que recogió Vicente Porras Benito sobre las ramas de su señorío en Villaralto69. Este trabajo, amplia revisión genealógica de algunas de las familias cordobesas más relevantes, ha sido una orientación básica en nuestro rastreo, especialmente por su clarificadora guía a la hora de ver los enlaces de este grupo, una vez se hacen con la posesión de la citada villa, la cual terminó incorporada al mayorazgo familiar, a través de la figura de don Melchor Fernández de las Carreras y Acuña, canónigo de Córdoba y arcediano de los Pedroches. El profesor Enrique Soria ya dejó constancia hace años, acerca de lo interesante que resultaría poder indagar más en este personaje y su familia70. 67 Las cuestiones relativas a la heráldica y demás elementos iconográfícos de los Fernández de Mesa han sido trabajadas en el siguiente artículo: G.J. Herreros Moya, Nobleza, genealogía y heráldica en Córdoba: la Casa Solariega de los Mesa y el Palacio de las Quemadas, «Historia y Genealogía», n. 3 (2013), pp. 99-194. 68 Cito aquí por la tesis original, del mismo título, disponible en red. A.J. Díaz Rodríguez, El clero catedralicio en la España Moderna: Los miembros del Cabildo en la Catedral de Córdoba (1475-1808), Universidad de Córdoba, Córdoba, 2012, pp. 163-166. 69 V. Porras Benito, Bocetos genealógicos cordobeses, Fabiola de Publicaciones Hispalenses, Sevilla, 2004, vol. 1, pp. 496-517. 70 E. Soria Mesa, El cambio inmóvil cit., p. 94. 292 El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces ¿Fueron los Fernández Carreras de origen confeso? Como esperamos mostrar con claridad en un futuro estudio monográfico, resulta difícil determinar si lo eran, pero de lo que no cabe ninguna duda es que no tuvieron ningún problema en enlazar matrimonialmente con algunas de las familias conversas más destacadas en el reino de Córdoba. Su éxito innegable fue saber exactamente con quiénes aliarse. Una carrera accidentada que les catapultó de ser unos pujantes torcedores de seda71 en Braga y Lisboa hasta adscribirse a la élite local de su nuevo hogar. De esa incertidumbre sobre este pasado familiar dejó constancia la candidatura de don Gómez de Solís, descendiente por línea materna de la rama Carreras, al puesto de oficial inquisitorial en Córdoba, en el año de 163272, la cual se fue complicando de forma paulatina. Con todo, más que la documentación inquisitorial, nuestras dos fuentes más destacadas para ir situando a los integrantes de esta familia las hemos hallado en los protocolos notariales cordobeses73 y en la Chancillería de Granada. El largo pleito mantenido por los aspirantes y sucesores del mayorazgo fundado por Pedro Fernández de Carreras y Acuña74, jurado de Córdoba, ha sido una pieza básica para poder comprender mejor la política de alianzas establecidas por este grupo originario de Friastelas, arzobispado de Braga. Recientemente abierto al acceso de los investigadores, los expedientes matrimoniales conservados en el Archivo General del Obispado de Córdoba nos han ido clarificando algunos de los parentescos y redes clientelares desarrollados por algunos de los grupos portugueses más importantes que se establecieron en las villas de este reino. Uno de los ejemplos más significativos lo hallamos con los Barrios de Montilla. Las primeras catas sobre este fondo se 71 Esta clase de negocios fueron una constante para los Carreras, incluso ya instalados en Córdoba. Así, no sorprende encontrar a Pedro Fernández Carreras, futuro fundador del mayorazgo familiar, jurado y familiar del Santo Oficio, recibiendo 11.391 reales en concepto de 715 varas y un cuartillo de tafetanes negros. Citamos por la referencia documental en el AhpCo, leg.12422-P, fol. 124v. Sus dos deudores eran mercaderes portugueses, Pedro Méndez y su hijo, Diego, ambos naturales de Fondón/Fundâo. Estos vínculos con comerciantes de su antiguo reino de origen serán continuados por sus sucesores. 72 Expediente regestado en uno de los dos completos volúmenes de J.A. Martínez Bara, Catálogo de Informaciones Genealógicas de la Inquisición de Córdoba conservadas en el Archivo Histórico Nacional, Dirección General de Archivos y Bibliotecas, Madrid, 1970, vol. II, pp. 814-815. El expediente original se encuentra en el Ahn, Inquisición, leg. 1459, exp. 1. A pesar de las controversias, la candidatura de don Gómez Solís fue finalmente aceptada, tras tres años de investigaciones. 73 Por ejemplo, en cuanto a los repartos de los herederos del citado arcediano, Melchor Fernández de las Carreras y Acuña. Encontramos a sus hermanos haciendo dichas diligencias en varias escrituras conservadas en el AhpCo, leg. 16272-P, fols. 70r.-83v. 74 ArchGr, Pleitos, caja 9068, pieza n. 4. 293 Marcos Rafael Cañas Pelayo están revelando prometedoras en este sentido75, especialmente en zonas tan activas como Lucena76. Confiamos en que esta documentación vaya arrojando luz sobre un tema tan poco trabajado hasta este momento en Córdoba como las estrategias conyugales del grupo, además de un marco como el mundo de los testigos, donde queda reflejo de sus círculos de acción (o ausencia de los mismos) con la élite local; excepción hecha de los documentados trabajos realizados a este respecto por parte de Juan Aranda Doncel, los cuales se han arrojado las primeras estadísticas de prácticas matrimoniales portuguesas, tras el vaciado de dicho autor de los libros de desposorios77. Lo que parece indudable es el paulatino crecimiento desde la segunda mitad del XVI de este movimiento migratorio, el cual dio paso a un auge a comienzos del XVII y, como el propio Aranda Doncel expresó de forma clara, un progresivo descenso: Los flujos migratorios alcanzan su mayor intensidad en las décadas de los años treinta y cuarenta, mientras que desde mediados de la centuria se produce un brusco descenso originado por las tensiones que se derivan del enfrentamiento bélico entre los dos países. Los núcleos de población pertenecientes a las circunscripciones eclesiásticas del arzobispado de Braga y obispado de Miranda do Douro son los ámbitos de procedencia geográfica de la mayoría de los integrantes de esta corriente migratoria que sale de sus lugares de nacimiento en busca de mejores condiciones de vida78. 2.3 Granada, municipios con un fuerte sustrato previo de conversos El reino de Granada es, de entre los demás enclaves andaluces, el caso más singular en cuanto a sus particulares características propias. Se trató de la última zona musulmana en ser incorporada al dominio peninsular de los Reyes Católicos. Alejada de los poderes centrales, con un constante trasiego de personas por su política de repoblación, carente de una nobleza de sangre previa, la zona 75 Las dispensas en Montilla, especialmente los concentrados en AgoCo, Expedientes matrimoniales, cajas 2434-2444, clarifican los diferentes parentescos, clientelismos y redes comerciales, donde los Barrios jugaron un papel muy destacado, concentrado muchas de las rentas en la localidad. 76 Por ejemplo, en el caso del portugués Antonio Enríquez, casado con la lucentina doña María de Burgos, quien ostentaba el oficio de alguacil menor. Si bien no tenemos la certeza de que fuera converso, varios de sus compatriotas que actuaron como testigos sí que lo fueron. AgoCo, Expedientes matrimoniales, caja 2392, exp. 43 (1617). 77 J. Aranda Doncel, Movimientos migratorios en las ciudades andaluzas: los portu gueses en la Córdoba del siglo XVII, en A. Ferreira, J. Abreu, I. Pinho y J. Costa (eds.), Atas do I Congresso Internacional as cidades na História: populaçâo (24 a 26 de outubro de 2012), Càmara Municipal de Guimarâes, Universidade do Minho, 2012, pp.59-78. 78 J. Aranda Doncel, Movimientos migratorios en cit., p. 59. 294 El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces granadina constituyó de los territorios más atractivos para que germinase el ascenso social. María de los Ángeles Fernández García, a través de su estudio sobre diferentes aspectos de la Inquisición granadina en el siglo XVII79, nos arroja la cifra de que hubo hasta 235 procesos relativos a portugueses, lo cual significa que fueron más de un 12% del total de las causas que mantuvo dicho Tribunal en ese siglo. Un dato más que relevante, sobre todo si lo comparamos con el resto del colectivo extranjero (ni alemanes ni franceses ni flamencos sobrepasan en ningún caso más de un 4%). El asalto a los puestos de la oligarquía en este reino ofrece un heterogéneo entramado social: los escasos aristócratas locales, élites urbanas, conversos de adinerada condición, inversores genoveses, etc.); de ello ha dejado constancia el profesor Enrique Soria, analizando las diferentes tácticas que estos grupos efectuaron para alcanzar el codiciado estatus nobiliario y del acceso al poder local80. En definitiva, una serie de oportunidades que no podían dejar escapar a los grupos emigrados que buscaban fortuna a la hora de asentarse en este marco geográfico. Tras los genoveses, analizados recientemente81, los portugueses fueron remplazando a los anteriores en circuitos como los sistemas de arrendamientos de monopolios como el tabaco82. La capital granadina constituyó, indudablemente, uno de los casos más complicados. A diferencia de otros lugares, este sujeto social se encontró aquí con una fuerte presencia de conversos castellanos que ya copaban la realidad del cabildo municipal, con filas más cerradas. Ello hizo que existieran menos vacantes y espacios para esta llegada, lo cual no es óbice para que encontramos casos que ejemplifican que los judeoconversos lusos dejaron asimismo su impronta en este ámbito, quizás menos que en otros lugares de Andalucía, por esta característica que hemos mencionado. Citando el estudio de la profesora Fernández García: Mª de los Ángeles Fernández García, Inquisición, Comportamiento y cit., pp. 32-33. E. Soria Mesa, Linajes granadinos, Diputación de Granada, Granada, 2008. 81 R.Mª Girón Pascual, Las Indias de Génova: Mercaderes genoveses en el reino de Granada durante la Edad Moderna, Universidad de Granada, Granada, 2012. Esta tesis doctoral está disponible en red. 82 En la actualidad, uno de los grandes especialistas en esta temática, el profesor Joâo Figuerôa-Rêgo, ha mostrado con claridad la fuerte presencia de cristianos nuevos que existió entre las filas de los estanqueros portugueses, así como sus opciones de enriquecimiento con esta actividad. Por reciente, hacer mención a J. Figuerôa-Rêgo, Entre honra e suspeita. A desconcertante ambiguedade social dos agente dos tabaco nos séculos XVII e XVIII, en A.I. López Salazar, F. Olival y J. Figuerôa-Rêgo (coords.), Honra e sociedade no mundo ibérico e ultramarino: Inquisiçâo e Ordens Militares (séculos XVIXIX), pp. 273-294. 79 80 295 Marcos Rafael Cañas Pelayo La unidad Ibérica realizada en 1580 marca el comienzo de la llegada de judeoconversos portugueses a Granada, aunque su presencia no es muy numerosa ante el tribunal, sólo 35 personas se constatan de este origen durante el siglo XVI83. Es decir, en los años fundamentales para que se produjese esa filtración, los cristianos nuevos portugueses encontraron esa dificultad añadida para acceder a esta fuente de privilegio. Esto no es óbice para que podamos dar ejemplos, pues hubo casos. Así, El linaje de los López Tenorio84 (nos pueden aparecer, de igual forma, como Ramírez Tenorio) es uno de los más notables, debido a su prosperidad mercantil. Sus alianzas matrimoniales nos revelan conexiones con cristianos nuevos castellanos, en este caso, con mucha vinculación a la localidad giennense de Campillo de Arenas85. Así, Esteban López Tenorio, jurado granadino, como había sido su padre, Jorge López Tenorio, logró acumular un nutrido patrimonio. Descendía de portugueses por línea paterna, mientras que su madre era originaria del grupo confeso castellano de la citada Campillo de Arenas, con varios condenados en el Auto de Fe de 159386, volviendo a demostrarse que hubo fusiones entre sendos grupos conversos, no solamente en zonas fronterizas87. 83 M. de los Ángeles Fernández García, Inquisición, Comportamiento y cit., p. 143. Obligado hacer aquí mención a los estudios del profesor J. Blázquez Miguel, Algunas precisiones sobre las estadística inquisitorial: el ejemplo del Tribunal de Granada en el siglo XVII, «Hispania Sacra», n. 81 (1988), pp. 133-164. 84 Debo el conocimiento de dicha familia, de complicada reconstrucción, a la amabilidad del profesor Enrique Soria Mesa, quien me cedió los datos que había obtenido durante su investigación acerca de este núcleo familiar, incluyendo sus estrategias matrimoniales dentro de Granada. Su gentileza ha permitido incluir para este artículo a un grupo familiar al que, de otra forma, me hubiera resultado imposible poder aproximarme más. De igual forma, cualquier confusión o error en la reconstrucción del grupo en este artículo, debe ser solamente achacable al autor del mismo. 85 La gran mayoría de los datos que vamos a aportar sobre los Ramírez Tenorio proceden de E. Soria Mesa, Genealogías del reino cit. Su análisis es resultado de una continuada reconstrucción, usando protocolos notariales, fuentes inquisitoriales y otros fondos documentales. Junto con su estudio, debemos aquí citar trabajos como el de J.Mª. García Fuentes, Visitas de la Inquisición al reino de Granada, Universidad de Granada, Granada, 2012. Destacarse asimismo su estudio en La Inquisición de Granada en el siglo XVI. Fuentes para su estudio, Universidad de Granada, Granada, 1981. De igual forma, Mª.A. Bel Bravo, El Auto de Fe de 1593 a la luz del judaísmo, en «Chronica Nova», n. 13, (1982), pp. 103-131. De la misma autora, El auto de fe de 1593. Los conversos granadinos de origen judío, Universidad de Granada, Granada, 1988. La figura de Diego López de Granada aparece en Mª del Pilar Martínez López-Cano, La génesis del crédito colonial. Ciudad de México, siglo XVI, «Serie Historia Novohispana», n. 62 (2001), pp. 1-388. 86 Junto con los estudios ya recogidos de Bel Bravo, Soria Mesa y García Fuentes, hallamos más información del Auto de 1593 en F. García Ivars, La represión en el Tribunal Inquisitorial de Granada (1550-1819), Akal, Madrid, 1991, pp. 202-213. 87 Como las recogidas por la profesora Pilar Huerga Criado para la zona extremeña. P. Huerga Criado, En la raya de Portugal. Solidaridad y tensiones en una comunidad judeoconversa, Universidad de Salamanca, Salamanca, 1994. 296 El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces Lograr la cobranza de los bienes de su difunto tío materno, Diego Ramírez, fue una de las claves de este personaje para cimentar una sólida posición económica88. Interesante resulta también su matrimonio con doña Beatriz Pinelo, mujer de más que probable origen genovés, asimismo con un pasado accidentado con el Santo Oficio. Entre los hermanos de Esteban, sobresale por el interés que tiene para nuestro objeto de estudio, Diego López Tenorio, quien también desempeñó el mismo oficio público que el anterior. No obstante, el hecho de que en ocasiones aparezca como Diego López de Granada (el constante cambio de apellidos es uno de los principales problemas que encontramos a la hora de trazar los árboles familiares de este colectivo), nos lleva albergar la duda de si no será el mismo personaje con distinto nombre que tanto prosperó en el comercio indiano de Sevilla89. Otro perfil típico es el que hallamos en Francisco López Tenorio, hermano de los anteriores, vinculado al comercio de la seda, uno de los circuitos que mayor atención generó de los mercaderes portugueses. En definitiva, un reflejo de presencia judeoconversa lusa en la Granada desde mediados del XVI, aunque, en cualquier caso, el Seiscientos nos brinda asimismo otras muestras de personajes de dicha ascendencia que prosperaron sobremanera en Granada y sus términos, como Diego de Saravia, caballero veinticuatro en Granada, a quien Caro Baroja vinculaba con el linaje del célebre marrano Juan Núñez Saravia90. Tal fue el caso de los López Pereira, grandes inversores en el arrendamiento del estanco de tabaco, donde llegaron a aglutinar entre sus parientes y clientes los reinos de Córdoba, Murcia, Jaén y la propia Granada91. Se trataba de una renta y un mercado que poseía muchos atractivos92. La Corona autorizaba a sus poseedores a realizar subarrendamientos, además, provocaba que se establecieran redes de intereses 88 E. Soria Mesa, Genealogías del reino cit. Destaca el testamento (1587), conservado en el APGr, protocolo 266, f. 46. Referencia facilitada por dicho autor. 89 Ahn, Inquisición, leg. 2619, caja 1. 90 J. Caro Baroja, Los judíos en cit., vol. II, pp. 77-78. Entre lo confiscado por el Santo Oficio a dicho regidor, sobresalían 150.000 ducados en oro y plata. 91 Además de otras referencias, sirvan todas las escrituras contenidas en APGr, protocolo 755. 92 En la actualidad, uno de los grandes especialistas en esta temática es el profesor Joâo Figuerôa-Rêgo. Este autor ha mostrado con claridad la fuerte presencia de cristianos nuevos que existió entre las filas de los estanqueros portugueses, así como sus opciones de enriquecimiento con esta actividad. Entre otros, volver a mencionar al profesor J. Figuerôa-Rêgo,, en este caso, citando su trabajo Negócios entre “afins”? Penitenciados do Santo Ofício e agentes do tabaco (séculos XVII e XVIII), en R. Chambouleyron y K.H. Arenz (orgs.), O sistema atlântico do tabaco ibérico: complementaridades e diferenças (séculos XVII-XIX), Editora Açaí, Belém, vol. 17, pp. 15-39. 297 Marcos Rafael Cañas Pelayo con miembros de la élite de los lugares donde se asentaban. Así, don Diego de Ozores, inquisidor granadino, era el juez conservador de la renta de Francisco López Pereira, notorio cristiano nuevo de origen luso. Colomera, Motril y otras villas del reino fueron monopolizadas en el transporte del tabaco de monte o rollo, así también como el de olor, siendo Francisco y sus agentes los grandes controladores del producto. Posteriormente emigrados a Inglaterra, les encontraremos logrando comprar títulos nobiliarios en su nuevo hogar93. Nos detendremos ahora en Motril para hablar, aunque sea de forma somera, de dos linajes que alcanzaron las codiciadas regidurías. En primer lugar, los Victoria y Ahumada94; en segundo los Pacheco. Los primeros son un grupo originario de Portugal y Galicia, los cuales alcanzarán poder municipal en Motril y la propia Granada, logrando ventajosos matrimonios que les llevarían a continuado ascenso. Así, don Juan de Victoria y Castro (regidor granadino entre 1660-1670) sería el fundador del mayorazgo familiar, donde incluyó como ganancia su propio oficio, el cual sería traspasado a uno de sus hermanos, Simón de Victoria y Castro, quien contrajo nupcias con doña Francia de Ahumada y Salazar, descendiente por todos sus costados de caballeros veinticuatro en Granada. Una exitosa política que nos explica cómo el nieto de este Simón alcanzaría las posiciones de regidor perpetuo en Motril y alguacil mayor de Salobreña, siendo también maestrante en Granada (1722). En el caso de los Pacheco, nos hallamos ante un grupo que hace fortuna gracias a su inversión en el azúcar, hasta el punto de poseer un ingenio de dicho producto en Salobreña. Por fortuna, contamos con varios trabajos previos de interés que hacen mención a esta complicada familia95, sobresaliendo en todos ellos la figura de Pedro Rodríguez Pacheco, jurado granadino y familiar del Santo Oficio en dicha ciudad96. 93 Ya advertido por Caro Baroja en J. Caro Baroja, Los Judíos en la cit., Madrid, Istmo, 2004, vol. III, pp.29-33. El circuito que llegó a tener bajo su control este grupo es uno de los más notables del Seiscientos. 94 Podemos encontrarlos también en las fuentes como Vitoria y Ahumada. Agradezco la generosidad del profesor Soria por permitirme incluir esta referencia, pues no teníamos constancia de su condición cristiano-nueva hasta su estudio. Nuevamente, en E. Soria Mesa, Genealogías en el cit. 95 De particular interés resultan las consideraciones del profesor R. López Vela, La sexualidad del inquisidor Ozores y su amistad con los portugueses, en J.I. Fortea Pérez; J.E. Gelabert González; T. A. Mantecón Movellán (coords.), Futor et rabies: violencia, conflicto y marginación en la Edad Moderna, Universidad de Cantabria, Santander, 2002, pp. 459-501. 96 E. Soria Mesa, Genealogías en el reino cit. No ha sido hasta este estudio que se nos ha mostrado el origen judeoconverso de esta familia. Igual que en el caso de los Fernández de Carreras, el acceso a familiaturas debió de ser una medida de protección y obtención de estatus cara al resto de convecinos. 298 El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces Apenas pasada una generación, Antonio Franco Pacheco, hijo del anterior Pedro y doña Ana de Almena y Maines, lograba alcanzar las mismas dignidades que su progenitor, obteniendo al final de su carrera una posición como caballero veinticuatro, a lo que añadió su condición de alguacil mayor en Macarena. A esa buena fortuna debió ayudar su cuñado, Juan Ferrer Gonzaga, socio en empresas comerciales y él mismo integrante de un linaje de regidores97. Un apoyo económico que resultaba imprescindible en tales operaciones, el cual cimentaba las pretensiones de los aspirantes a cargos, tal fue el caso del mercader luso Pedro Méndez, quien obtuvo la dignidad de tesorero de millones en Antequera98. Otra salida portuaria fundamental para obtener riqueza en este ámbito fue el caso malagueño99. Como mencionamos con anterioridad, la profesora Lorena Roldán es la gran especialista para el fenómeno marrano en este campo de estudio, habiendo dedicado ya muchas páginas al análisis de este sujeto social. Recientemente, dicha autora ha presentado su tesis doctoral100 donde, entre otros aspectos de la presencia conversa en este enclave, destacan las conexiones que iban estableciéndose entre los cristianos nuevos que navegaban las líneas costeras de Málaga y Cádiz, gentes que, en no pocos casos, venían de la comunidad hebrea de Liorna (nuestra actual Livorno)101. Durante el desarrollo de estos análisis, ha mostrado no pocos conflictos con la Inquisición entre esos miembros portugueses del concejo malagueño, como veremos con más detalle en el siguiente epígrafe, asentados en posiciones como la tesorería de millones malacitana102. Como ilustra el caso antes citado de los Pacheco, la posesión de ingenios azucareros era una gran posibilidad para cimentar su posición. En la villa de Torrox tenemos el caso de Duarte Fernández de Acosta103, hijo de un destacado asentista de Felipe III, de origen 97 Interesa aquí el estudio preliminar del profesor Enrique Soria Mesa en Ma.J. Vega García-Ferrer (ed.), Historia de la Casa de Herrasti, señores de Domingo Pérez, Universidad de Granada, Granada, 2007. 98 J. Caro Baroja, Los judíos en cit., vol. II, p. 96. 99 Una primeras consideraciones sobre la emigración lusa a este enclave en I. Rodríguez Alemán, Inmigrantes de origen extranjero en Málaga (1564-1700), Universidad de Málaga, Málaga, 2007, pp. 79-80. 100 L. Roldán Paz, El problema judeoconverso durante el siglo XVII: el caso malagueño, Universidad de Málaga, Málaga, 2015. 101 L. Roldán Paz, Hostigados por el peso de los orígenes: detención de viajeros judeoportugueses en la Málaga del seiscientos, «Baética: Estudios de arte, geografía e historia», n. 31 (2009), pp. 439-455. 102 El caso de Francisco Coello. Ver J. Caro Baroja, Los judíos en cit., vol. II, p. 89. 103 F. de Ochoa (imp.), Breves apuntamientos por don Duarte Fernández de Acosta, vecino de las villa de Torrox. En el pleito y concurso de acreedores a los bienes de don Rodrigo, y don Lope de Tapia y Vargas, vecinos que fueron de la ciudad de Sevilla, y con don Francisco Monteser, deudor común, y con don Antonio Bernardo Rodríguez de 299 Marcos Rafael Cañas Pelayo converso, su mácula genealógica no le impidió alcanzar dignidades como la de caballero de Santiago, alférez mayor de Torrox, o la compra del señorío de Sonseca104. Una subida en estatus que se coronó con su enlace matrimonial, casando nada menos que con la hija del marqués de Villamaina, lo cual abrió definitivamente a su linaje las puertas de la nobleza. No es extraño que la hija que tuvieron de dicha unión casase con don Antonio de Igualada, regidor perpetuo de la ciudad de la ciudad de Vélez Málaga; miso lugar donde doña Isabel de Acosta, natural de Braganza, fue administradora del monopolio de la sal que allí llegaba105. Dentro del apartado de problemas con el Santo Oficio resaltaremos a algunos de los jurados lusos que se vieron involucrados en la redada inquisitorial en lo que se daría a conocer como La Complicidad de la viña de Alonso Gamarra, fenómeno analizado con detalle por Lorena Roldán106. Asimismo, en el Auto de Fe de 1672107 y otros anteriores, la Inquisición granadina procesó a varios cristianos nuevos portugueses involucrados en la administración y cobro de impuestos en Málaga108. Para finalizar este epígrafe, debemos mencionar a los Pacheco de Acosta, afincados primero en el Puerto de Santa María, posteriormente destacados en Málaga y la propia Granada. Así, don Juan Pacheco de Acosta llegó a ser receptor de penas de la Cámara granadina109, mientras que Diego, su hijo, pleiteó para obtener la condición de hijodalgo. Su madre, doña Juana Machuca, era de origen malacitano, pero toda su línea paterna era de ascendencia lusa, comenzando por sus bisabuelos, Antonio Pacheco de Acosta y Catalina González. Balcaçar, Imprenta de Francisco de Ochoa, Granada, 1677. Este documento está digitalizado, prácticamente en su totalidad, en: http://fondosdigitales.us.es/fondos/ libros/4000/1/breues-apuntamientos-por-d-duarte-fernandez-de-acosta-vezino-de-lavilla-de-torrox-en-el-pleyto-y-concurso-de-acreedores-los-bienes-de-don-rodrigo-y-don-lo pe-de-tapia-y-vargas-vezinos-que-fueron-de-la-ciudad-de-seuillay-con-don-franciscomonteser-deudor-comun-y-con-don-antonio-bernardo-rodriguez-de-balcacar/ 104 Una villa que se encontraba muy endeudada. Adquirida en 1640, fue apreciada en 225.000 reales. 105 J. Caro Baroja, Los judíos en cit., vol. II, p. 105. 106 L. Roldán Paz, Los cómplices en la viña de Alonso Gamarra. Aproximación a un grupo criptojudaizante, «Baetica», n. 32 (2010), pp. 449-469. 107 Mª. I. Pérez de Colosia Rodríguez, Auto Inquisitorial de 1672: El criptojudaísmo en Málaga, Servicio de Publicaciones Diputación Provincial de Málaga, Málaga, 1984. 108 Por ejemplo, Gaspar Antonio de las Varillas y Zamena, luso que administró los millones de Málaga en 1659; Isabel de Costa, administradora de la sal en Vélez-Málaga; Juan López Pinto, fiel de la Aduana malagueña a finales de la década de los 70 del siglo XVII, sucesora de Manuel Díaz de Acosta en dicha función; Manuel Correa Pacheco, contador de los almojarifazgos en dicho enclave. Ver Mª. de los Ángeles Fernández García, Inquisición, Comportamiento y cit., pp. 331-337. 109 E. Soria Mesa, Genealogías en el reino cit. Los vínculos de don Juan Pacheco de Acosta con Málaga se mantuvieron, incluyéndose litigios por sus propiedades en dicho término. Por ejemplo, en ArchGr, Pleitos, caja 1378, pieza 9. 300 El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces La probanza de Diego fue controvertida110, debido a varios testimonios que afirmaban un origen pechero y oscuro de sus antepasados (la fiscalía cargó sus acusaciones sobre este aspecto para justificar sus dudas sobre dicho linaje), tenidos por gentes de poco crédito. Con todo, le encontramos en 1623 obteniendo la codiciada hidalguía111. 2.3 El reino giennense: una raigambre desde época temprana Jaén, por su lado, refleja una huella lusa desde los conflictos y crisis políticas acontecidas en Portugal, cuyo punto de arranque es la Baja Edad Media, dando como resultado el movimiento de varias familias nobles lusas al sur castellano, favorecidas y protegidas por una Corona castellana que los insertó dentro de su aristocracia (mencionar aquí apellidos como Pimentel, Pacheco, Portocarrero o Acuña, entre otros). El poder regio castellano les avaló otorgándoles mercedes e importantes territorios que administrar como señores; todo ello se tradujo en una integración total en sus nuevos dominios. El ámbito giennense muestra de forma ejemplificadora dicha situación con el linaje Torres y Portugal, el cual afirmaba entroncar con la Corona portuguesa. Sus integrantes debían su nombre a los clanes Torres (señores de Villadompardo) y Portugal (a través de don Fernando de Portugal, quien enlazó con doña María de Torres, miembro del anterior núcleo familiar), según narraron los genealogistas de la época112. Si bien dieron importantes figuras para su nuevo hogar desde los inicios de la Edad Moderna (regidores, asistentes, incluso virreyes113, etc.), es mucho lo que aún desconocemos del funcionamiento de este grupo tan activo. Parecen descender del infante Dionís, hijo de Pedro de Portugal e Inés de Castro, pero son muchos aún los detalles que nos gustaría conocer de la formación de esta élite. Afortunadamente, parece que el tema ha suscitado el interés de jóvenes investigadores114. Entre otros, citamos por ArchGr, Colección de Hidalguías, caja 5149, pieza 96. La real provisión será otorgada en ArchGr, Colección de Hidalguías, caja 4607, pieza 37. 112 G. Argote de Molina, Nobleza de Andalucía, Edición de Fernando Díaz, Sevilla, 1588. Esta fuente original se haya completamente digitalizada por la universidad de Sevilla, disponible para el público en: http://fondosdigitales.us.es/fondos/libros/548 /12/nobleza-del-andaluzia/. 113 Tal dignidad fue el broche de oro para la carrera de don Fernando de Portugal. 114 Ese fue el caso de Javier García Benítez, quien han presentado sus primeras aportaciones al respecto en la comunicación Portugueses en Jaén en el libro de la Nobleza de Andalucía de Argote y Molina. El linaje Torres y Portugal, en el marco del congreso internacional El Greco… y los otros: La contribución de los extranjeros a la Monarquía Hispánica, 1500-1700, celebrado en Yecla entre los días 17 y 19 de noviembre de 2014. Actualmente, estamos a la espera de la edición impresa de dicha reunión científica. 110 111 301 Marcos Rafael Cañas Pelayo Un acceso de aristócratas portugueses a esta zona que no ha pasado inadvertido. Por ejemplo, debemos hablar aquí del concepto partido portugués, acuñado por la profesora Paz Romero Portilla, quien define así el fenómeno, al cual ha decido una especial atención en sus estudios115. Este mejor conocimiento que estamos teniendo de las relaciones castellano-lusas en el período bajomedieval son unas excelentes bases para continuar y explicar mejor los futuros asentamientos que se irán produciendo ya en la Modernidad. El acercamiento a núcleos como los Coello o los Torres y Portugal, quizá, podrán arrojar datos muy interesantes acerca de los círculos clientelares y de colaboradores de su reino natal que trajeron en su nuevo destino; a juzgar por los resultados que se han ido obteniendo, hubo un fuerte componente de portugueses descendientes de hebreos. De hecho, no pocos de ellos lograron altas posiciones en la realidad de Jaén y sus villas, zonas que ya tenían un fuerte sustrato de sus correligionarios castellanos116. La mayoría de los análisis sobre la impronta judía en la zona giennense ha corrido a cargo del profesor Luis Coronas Tejada, quien ha consagrado su ya dilatada trayectoria a investigar acerca de esta huella, desde la primera etapa de su llegada hasta el final de la Edad Moderna. Las antiguas juderías de Baeza, Úbeda117, Andújar y Arjona, entre otras, eran el testimonio visible de una constante presencia. Todo ello explica el destacado peso de cristianos nuevos que encontramos en las centurias siguientes118. Encontramos varios 115 Ineludible aquí citar el resultado de su tesis doctoral en P. Romero Portilla, Dos monarquías medievales ante la modernidad: relaciones entre Portugal y Castilla (14311479), Universidade da Coruña, La Coruña, 2000. Por su interés para el objeto de estudio de este artículo, resaltar de esta misma autora Protagonismo del partido portugués en la política castellana del siglo XV, «Revista da Faculdade de Letras. Historian», n. 4 (2003), pp. 187-212. 116 Por ejemplo, en P.A. Porras Arboledas, Comercio, banca y judeoconversos en Jaén, 1475-1540, Caja de Jaén, Jaén, 1993, o su estudio Las comunidades conversas de Úbeda y Baeza en el siglo XVI, Instituto de Estudios Giennenses, Jaén, 2008. 117 Allí fue prendido Diego López de Orta, mercader de piedras preciosas, lisboeta, persona sumamente adinerada. Fallecido en cárceles inquisitoriales cordobesas, este prestamista tenía a miembros de la alta nobleza andaluza (los duques de Sesa, el marquesado de Guadix…) en su nómina de deudores; también a inquisidores en lugares como Granada. Su inmensa fortuna se refleja en el interés del que dejan constancia sus captores en Ahn, Inquisición, leg. 2392, caja 2. La sentencia ya fue recogida en R. Gracia Boix, Autos de Fe cit., p. 63. Breve referencia asimismo en L. Coronas Tejada, Los judíos en Jaén, Universidad de Jaén, 2008, p. 98. Con más detalle, en M.R. Cañas Pelayo, El comienzo de la oleada: Mercaderes portugueses en la raya a finales del siglo XVI, en Mª. Martínez Alcalde y J.J. Ruiz Ibáñez (eds.), Felipe II y Almazarrón: La construcción local de un Imperio global. Vivir, defender y sentir la frontera, Ediciones de la Universidad de Murcia, Murcia, 2014, pp. 94-96. 118 L. Coronas Tejada, Los judíos en Jaén, Universidad de Jaén, Jaén, 2008, pp. 23-26. 302 El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces cristianos nuevos portugueses en la visita inquisitorial efectuada en 1607119. Las visitas al distrito e inspecciones demuestran el constante interés que hubo por las autoridades religiosas para dicha zona. Sin duda, un peligro constante para nuestros protagonistas. Indudablemente, la protección de la aristocracia era básica en este proceso. Los condes de Alcaudete fueron un ejemplo de integración y protección de los miembros más valiosos de esta comunidad. Bajo ellos se amparó un clan portugués muy destacado, los Díaz Fernández/Méndez, cuyos orígenes han sido investigados por el profesor Coronas Tejada120. Emparentado con otro grupo converso de castellanos bajo la protección de dicha casa (uno de los abuelos de su esposa había llegado a ser confesor del conde), Manuel Díaz Fernández destacó como administrador de las posesiones de su señor, terminando su carrera, hasta su arresto bajo cargos de judaizante, como regidor en Écija. No fue Manuel un caso excepcional, pues parece haber una predilección en dicha Casa por escoger como mayordomos a miembros de este grupo, encontrando a un tal Francisco Báez de Castro ejerciendo idénticas funciones para su señor en 1641121. Ello nos vuelve a advertir de otra de las complicaciones para continuar los pasos de estos grupos, su constante trasiego. Así acontece con los Correa/Correia, judaizantes lusos que habían dado muchas noticias en Alcalá la Real y Andújar, para desaparecer tras los Autos de Fe de comienzos de la segunda mitad del siglo XVII. No obstante, el rastreo en Torre do Tombo nos los ha mostrado retornados a Portugal, intentando restablecer su fortuna y contactos a través de rentas como el tabaco122. De igual manera, siguiendo los modelos que hemos observado para los anteriores reinos, encontramos figuras como la de don Fernando 119 Ahn, Inquisición, leg. 2405. Asimismo, en L. Coronas Tejada, Una visita de la Inquisición a Jaén, Baeza y Andújar en 1607, «Chronica Nova: Revista de historia moderna de la universidad de Granada», n. 18 (1990), pp. 77-100. Entre los fugitivos, sobresale la figura del futuro Fernando Montesinos, quien llegaría a ser una de las grandes fortunas del círculo de financieros portugueses de la época del conde-duque de Olivares. Sobre este linaje, la ya citada monografía B.J. López Belinchón, Honra, libertad y cit. 120 L. Coronas Tejada, Criptojudaísmo en Jaén en la segunda mitad del siglo XVI, «Miscelánea de Estudios Árabes y Hebraicos. Sección Hebreo», vol. 31 (1982), pp. 101117. Del mismo autor, Un trienio en la Inquisición de Córdoba y los judaizantes del desconocido Auto de Fe de 1647, «Chronica nova: Revista de historia moderna de la universidad de Granada», nº 15 (1986-1987), pp. 75-100. El proceso de la Inquisición de Córdoba contra la memoria de este personaje fallecido en sus cárceles inquisitoriales está enteramente digitalizado en el portal PARES. La ubicación física del documento en Ahn, Inquisición, leg. 1851, exp. 2. 121 ArchGr, Probanzas criminales, leg. 9831, pieza 7. 122 Antt, Tribunal do Santo Ofício, Inquisiçâo de Lisboa, proc.1300. Sus actitudes e inversiones son las mismas que en área giennense. Arrendamientos de tabaco, comercio de productos textiles, mucha movilidad geográfica por el reino luso, etc. 303 Marcos Rafael Cañas Pelayo de Fonseca, administrador de millones en Jaén, personaje sobre el que la Suprema de Madrid pidió informes a la Inquisición de Córdoba, poniéndose especial interés a sus contactos en la Corte123. Adscritos a la jurisdicción del Tribunal del Santo Oficio de Córdoba, las causas de reos portugueses procesados en el área giennense guardan muchos paralelismos con los de la zona cordobesa124. Especialmente, por su fuerte control del sector textil, destacando la Abadía de Alcalá la Real125. Desde esos puestos proveían a los grupos mercantiles locales más pujantes, incluyendo jurados y regidores entre sus compradores. Asimismo, los encontramos como activos inversores en las rentas que ofrece la Corona126. Un establecimiento y raíces que serán muy visibles hasta en época Borbónica, en los últimos grandes de Autos de Fe que se celebraron contra el judaísmo clandestino en España. Coronas Tejada lo refleja de manera elocuente al dar la cifra de que el 45% de los judaizantes procesados por la Inquisición de Córdoba entre 1718 y 1731 (un total de 136 procesados por esta causa) provenían del territorio giennense127. 3. Problemas con el Santo Oficio A pesar de la posición alcanzada y el estatus económico logrado, ninguna de estas familias portuguesas pudo considerar, aún en las coyunturas más favorables como la del conde-duque de Olivares o los perdones papales que obtuvieron a comienzos del Seiscientos128, que se encontraban libres de la constante amenaza de la Inquisición, una espada de Damocles que siempre pendía sobre estos cristianos nuevos, incluso para aquellos que habían conseguido posiciones pudientes. Con todo, hasta en las circunstancias más aciagas para el grupo converso, como fue el caso de las redadas en la década de los 90 del Quinientos en Écija, una posición en el concejo podía garantizar una mayor capacidad de protección. La mera prosperidad mercantil podía Ahn, Inquisición, leg. 2426. De ello dejé constancia en M.R. Cañas Pelayo, Judaizantes y malsines cit. 125 L. Coronas Tejada, Mercaderes judeoconversos en la Abadía de Alcalá La Real a mediados del siglo XVII, en F. Toro Ceballos (coord.), Homenaje a don Antonio Domínguez Ortiz: Abadía. Primeras jornadas de Historia en la Abadía de Alcalá La Real, Jaén, 1997, pp. 63-70. 126 L. Coronas Tejada, Mercaderes y arrendadores de rentas reales judeoconversos en el Reino de Jaén en el siglo XVII, en L.M. Enciso Recio (coord.), La burguesía española en la Edad Moderna: actas del Congreso Internacional celebrado en Madrid y Soria los días 16 a 18 de diciembre 1991, Universidad de Valladolid, 1996, vol. 2, pp. 649-658. 127 L. Coronas Tejada, Los judíos en Jaén cit., p.184. 128 Destaca el estudio de A.I. López-Salazar Codes, Inquisición Portuguesa y Monarquía Hispánica en tiempos del perdón general de 1605, Ediçôes Colibri, Lisboa, 2010. 123 124 304 El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces tambalearse de caer en las manos del Santo Oficio, tanto por la confiscación de bienes como por la infamia que arrastraba para el linaje. Basándonos en la documentación consultada129, podemos afirmar que la presencia de núcleos familiares portugueses en Écija fue anterior a la Unificación de Coronas Ibéricas. Desde la segunda mitad del siglo XVI se producen las continuadas llegadas de mercaderes del reino vecino, la gran mayoría de ellos de ascendencia confesa, los cuales irán estableciéndose, aspirando a obtener escribanías públicas y, en algunos casos, puestos de jurados. Antonio Rodríguez de Andrada, esposo de Violante de Acosta ambos pertenecientes a familias de comerciantes, fueron el eje rector de un linaje que consagró sus alianzas conyugales a una endogamia que ayudó a fortalecer dichas posiciones. Ello no implicaba que el linaje no recurriese a la exogamia cuando le resultaba ventajosa para sus propósitos. Sin duda, uno de los grandes éxitos de la política de alianzas de este clan luso se consolidó con la unión de una de las hijas de Diego Fernández de León y Beatriz de Andrada, doña Isabel de Andrada, con Alonso González de Silva, jurado castellano en el cabildo astigitano. O lo que es lo mismo, una unión que les reforzaba dentro de la oligarquía local130. Igualmente reseñable es el caso de las hermanas de Isabel, Guiomar Rodríguez de Andrada y Cecilia Fernández de Andrada. 129 Nuestro punto de arranque es la visita inquisitorial del año de 1593 al distrito (ver Ahn, Inquisición, leg.1856, exp. 36). Sin embargo, desde este testimonio fue preciso derivar a otros documentos, no solamente los provenientes del Santo Oficio, así como de un vaciado bibliográfico sobre el trabajo de varios especialistas. Me encuentro en preparación de un artículo monográfico sobre este grupo. 130 Son varios las fuentes que nos indican esta unión. Debe destacarse el pleito por los bienes confiscados a Isabel, reconciliada en 1597, por su marido, en Ahn, Inquisición, leg. 1839, exp. 7. 305 Marcos Rafael Cañas Pelayo La primera tendrá por esposo a Diego Franco, otro jurado, también pariente131. Sin embargo, el pretendiente de Cecilia es encontrado fuera del círculo familiar y de la élite de Écija. Fue Gabriel Gutiérrez, cirujano en Osuna, poseedor de olivares, también de bodegas y mercancías textiles. Fruto de sus pleitos para recuperar la dote de su esposa, tenemos constancia de que Gabriel obtuvo el puesto de escribano público en Écija y que era asimismo portugués132. En definitiva, una serie de estrategias que lograron crear una red que se mantuvo hasta la ofensiva inquisitorial. Nos encontramos en preparación de un artículo que hablará de estos Andrada (junto con las ramas de los Gómez133 y Fernández de León, muy conectadas con ellos, todos de procedencia lusa) y su papel en la ciudad. De cualquier modo, incluso tras la caída en desgracia del Auto de 1597, volvemos a tener noticia de nuevos intentos de estos protagonistas de mantener su estatus en Andalucía. Indudablemente, la continuada venta de oficios134 era la estrategia más directa para lograr ese resurgir. Así ocurrió cuando doña Luisa Valer, viuda de Jerónimo de Castro Ramírez, puso a la venta el puesto de su difunto marido en la escribanía del crimen de la Real Chancillería de Granada. Jorge Fernández de León, superviviente de la criba que se había producido contra el grupo de Écija, viajó hasta la ciudad granadina para participar en dicha subasta135. Ante Rodrigo Dávila, escribano público granadino, Jorge se comprometió, avalado por su esposa, doña Cecilia de Andrada, y su hermano, Diego Fernández de León, a poder pagar los 14000 ducados en los que se estimó el oficio. Se estableció la cláusula de que si uno de los hijos de doña Luisa llegaba a la edad adulta y quería recuperar la escribanía, podría hacerlo, a cambio de devolver el pago efectuado por el portugués136. Seguimos teniendo noticias de cristianos nuevos portugueses en el cabildo astigitano. Allí alcanzó la regiduría Manuel Díaz Fernández, Ahn, Inquisición, leg. 4699, exp. 1. Este documento debe ser consultado en microfilm. El apoyo de su familia política resultaría clave para obtener dicha posición. La carta dotal se encuentra conservada en el Ahn, Inquisición, leg. 4704, exp. 14. 133 Los Gómez/Gomes, llegados por las mismas fechas que los Andrada, establecieron muchos lazos con los Dávila, familia astigitana de condición conversa y que dio muchos jurados. 134 Muy recomendable a este respecto es el artículo de A. Marcos Martín, Las ventas de oficios en Castilla en tiempos de la suspensión de las ventas (1600-1621), «Chronica Nova», n 33 (2007), pp. 13-35. 135 Al margen de la subasta, existían otras formas de comprar oficios. Destaca en esa parcela el modelo de resignatio in favorem, no pocas veces una venta encubierta, sobre todo cuando no existe ningún vínculo de parentesco entre la persona que ostentaba el cargo y su sucesor. Sobre ello se incide en E. Soria Mesa, Los Estatutos municipales cit., p. 12. 136 APGr, protocolo 354, fols. 245r.-277r. 131 132 306 El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces protegido del conde de Alcaudete, así como Juan de Silva Lobo, lisboeta que terminó saliendo reconciliado con hábito y cárcel de por vida en el Auto de Fe celebrado en Córdoba el 3 de mayo de 1655137. Una cuestión que debemos plantearnos, llegados a este punto, es si, generalmente, los judeoconversos lusos que ostentaron cargos sufrieron la presión del Santo Oficio antes o después de desempeñar sus funciones. Si bien hay casuística, suele marcarse la tónica de que la sentencia llega cuando ya están instalados en su nueva posición. Así lo ilustran los estudios de Lorena Roldán en Málaga. Sirva como exponente de ello el caso de los hermanos Cardos. Hablaremos primero de Pedro Ruiz Cardos, natural de Antequera, hijo de portugueses, cristiano nuevo, trasladado a la ciudad malacitana para ejercer su oficio de zapatero. Su matrimonio con doña Catalina Solís138 le catapultó a unos niveles de riqueza que le hubieran sido inimaginables antes, hasta el punto de aspirar a acceder al municipio139. El éxito de su integración entre los oligarcas judeoconversos se ejemplificó en su toma de posesión como jurado en el año de 1659. Lo hizo acompañado de, entre otros, Alonso Gamarra y Luis de Robles, élite conversa local. Sus pasos fueron seguidos por el hermano de Pedro, José Ruiz Cardos, quien desempeñó la misma dignidad. Se trató de un linaje que aumentó su patrimonio merced a una inteligente estrategia de arrendamiento de casas140. Desafortunadamente para ambos, también compartieron el destino de fallecer durante sus procesos inquisitoriales, el primero por relajación; el segundo, en las celdas mientras aguardaba a escuchar su sentencia. Sus juraderías fueron puestas en subasta pública, algo que volvió a convencer a la mesocracia más pujante de intentar invertir en este ascenso social. Es decir, incluso después de aquellos precedentes, la compra-venta de oficios se mantuvo de manera continuada. Ello llegó a inquietar al propio cabildo malagueño: […] con informe de la ciudad y porque no conviene al servicio del rey nuestro señor que ninguno de la nación portuguesa tenga oficio en ninguna república141. 137 R. Gracia Boix, Autos de Fe cit., p. 440. Los pleitos por sus bienes incautados están referenciados en Ahn, Inquisición, leg. 2423. 138 Como bien apunta Lorena Roldán, el “doña” que preside todos los documentos de la adinerada Solís es un perfecto reflejo de la posición alcanzada. Esta malacitana fue una activa compradora de fincas urbanas. 139 L. Roldán Paz, Jurados conversos cit., pp. 765-780. Su autora mostró los resultados de este trabajo en el marco de la VII Reunión Científica de la Fundación Española de Historia Moderna. 140 L. Roldán Paz, El problema judeoconverso cit., pp. 779-780. Similares actividades de administración de patrimonio llevó a cabo Melchor Núñez Vaca, natural de la Rambla, descendiente de portugueses, encargado de los censos perpetuos de población. 141 L. Roldán Paz, El problema judeoconverso cit., p. 589. 307 Marcos Rafael Cañas Pelayo Pese a lo antedicho, seguiremos encontrando procesados lusos que habían ejercido alguna de las dignidades municipales. Así aconteció con Luis de Robles Carvalho, clérigo menor de órdenes, vecino de Málaga, enriquecido por sus actividades como mercader, jurado entre los años 1658 y 1669142. Como su segundo apellido indica, Luis era descendiente de portugueses, sospechosos antes Inquisición; de hecho, poco después de renunciar a su cargo fue apresado por el Santo Oficio, dentro de coyuntura de redadas y represiones contra el grupo de conversos malacitanos143. ¿Por qué volvía a surgir esa virulencia por causa de fe? La explicación es sencilla, la caída en desgracia del conde-duque de Olivares, gran protector de los cristianos nuevos portugueses durante su etapa como valido de Felipe IV, va dando lugar al surgimiento de una fuerte represión que se incrementaría; una sospecha religiosa que, en el caso de los conversos portugueses, viene acentuada por la sublevación de la casa de Braganza, en un clima bélico entre ambas Coronas. La correspondencia del Consejo de Córdoba con la Suprema de Madrid deja constancia de ese rebrote de la persecución de los cristianos nuevos lusos144. Ante aquella situación de crisis, algunos de los involucrados trataron de recurrir a la vía del soborno145 para lograr un trato benigno de los Tribunales. Así queda constancia en el caso de Manuel Díaz Fernández, ya mencionado, regidor de Écija, cuya mujer e hija (doña Leonor de Faro y Beatriz Manuel), a la par que él mismo, lograron un régimen de favor en el presidio inquisitorial cordobés. Gracia a esas dádivas, pudieron estar en contacto con el exterior para mantenerse informados sobre su causa. Desafortunadamente para sus intereses, las inspecciones del Tribunal escandalizaron a la Suprema, la cual exigió reabrir las causas, con trágicos resultados para esta familia146. Llegados a este punto, resulta ineludible referirnos a uno de los grandes objetos de polémica historiográfica que surgen cuando nos L. Roldán Paz, Jurados conversos cit., pp. 765-780 Ilustrativo de todo ello es el trabajo de la profesora Mª I. Pérez de Colosia Rodríguez, Auto Inquisitorial de cit., p. 166. 144 Ahn, Inquisición, leg. 2420 y 2426. De forma progresiva y continuada, los procesos contra portugueses van en aumento desde comienzos de la década de los 50 del siglo XVII. 145 L. Coronas Tejada, Soborno en la Inquisición de Córdoba por portugueses a mediados del siglo XVII, en M. Goshen-Gottstein (ed.), Proceedings of the Ninth World Congress of Jewish Studies. Division B., Jerusalén, 1986, pp. 151-158. 146 Destaca en este punto L. Coronas Tejada, Un trienio en cit., pp. 75-100. Manuel Díaz Fernández falleció durante el presidio. Aunque su memoria quedó infamada, una posterior revisión del proceso le dejaría absuelto. Su viuda e hija pleitearon activamente por recuperar parte de los bienes confiscados, no zanjándose la cuestión hasta que se vieron obligadas a depositar 60.000 reales a la Hacienda del Santo Oficio de Córdoba (1652). 142 143 308 El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces adentramos en este sujeto social. ¿Cuál era el grado de sinceridad religiosa de estos cristianos nuevos portugueses? Dos son los grandes problemas que experimentamos al tratar de buscar una respuesta a tal pregunta. En primer lugar, la parcela de la esfera de la vida privada que atañe, la cual es muy difícil de discernir. En segundo, al carácter parcial y sesgado de una de nuestras principales fuentes de indagación, los fondos del Santo Oficio. Enemiga acérrima de este colectivo, la temida institución ha dejado un reflejo de acusaciones donde, en muchos casos, no dejan de considerarse como delitos religiosos, lo que no dejan de ser prácticas culturales y culinarias que no son motivo per se para no pensar en una correcta asimilación de estas víctimas a su nueva religión147. Varios autores han mostrado una tendencia a presentar una fuerte ligazón entre los conversos que permanecieron en la Península Ibérica y el resto del mundo sefardí148, mientras que otras corrientes han abanderado postulados diametralmente opuestos. Si bien, afortunadamente, cada vez más se van abandonando las posiciones más apologéticas a la hora de plantear este complicado fenómeno (es decir, desde quienes niegan cualquier asomo de criptojudaísmo a aquellos corrientes que consideran, sistemáticamente, como activos judaizantes a todos aquellos reos que pasaron ante el Santo Oficio149), todavía queda camino por recorrer en tal cuestión. Investigadoras como Pilar Huerga Criado han incidido en la evolución metodológica que ha acontecido en la historiografía a la hora de enfrentarnos a la documentación inquisitorial y su actividad contra 147 En una posición diametralmente contraria, el profesor Benzion Netanyahu ha cuestionado los verdaderos motivos de implantación de la Inquisición, afirmando que la inmensa mayoría de los cristianos nuevos se hallaban casi en su totalidad cristianizados. B. Netanyahu, Los orígenes de la Inquisición, Crítica, Barcelona, 1999. Del mismo autor, Los marranos españoles según las fuentes hebreas de la época (siglos XIV-XVI), Junta de Castilla y León, Valladolid, 2002. 148 Uno de los primeros estudios en este sentido, el cual ha alcanzado la categoría de clásico, sería la obra de Cecil Roth. C. Roth, Los judíos secretos: Historia de los marranos, Altalena, Madrid, 1979. 149 Sería imposible, por motivos de espacio, hacer un repaso detallado de las obras que han ido surgiendo mostrando nuevas caminos para entender este conflicto, no solamente religioso, sino con muchos aspectos culturales y étnicos. Sin ánimo de ser exhaustivo, citar a Davi L. Graizborg, Philosemitism in Late-Sixteenth-and SeventennthCentury Iberia. Refracted Judeophobia?, «Sixteenth century journal: the journal of Early Modern Studies», n. 3 (2007), pp. 657-682. Natalia Muchnik ha realizado trabajos en ese mismo sentido, como hallamos en N. Muchnik, Du catholicisme de judéoconvers, «XVIIe siècle», n. 231 (2006), pp. 277-300. Años atrás, destaca una obra colectiva donde destacan algunos de los mejores especialistas nacionales y extranjeros en la materia: J. Contreras Contreras; B.J. García García; J. I. Pulido Serrano (eds.), Familia, religión y negocio: el sefardismo en las relaciones entre el mundo ibérico y los Países Bajos en la Edad Moderna, Fundación Carlos Amberes, Madrid, 2003. 309 Marcos Rafael Cañas Pelayo los conversos150. En el aspecto que más nos atañe para este artículo, parece indudable que la andadura de los cristianos nuevos castellanos y portugueses presenta unos esquemas cronológicos diferentes, que se explican, precisamente, por el factor de las diferentes formas en las que se instaló la Inquisición en uno y otro reino ibérico. La razón es obvia. El Santo Oficio portugués151 se establece en una etapa muy tardía, en 1536, tras muchos años de tensas negociaciones entre la Corona Lusa y los agentes de los cristianos nuevos portugueses con el papado de Roma; ello se tradujo en una sucesión de prórrogas y, tras los bautismos forzosos de 1497152, unos períodos de notable tolerancia que permitieron a los antiguos judíos portugueses (grupo que recibe un fuerte apoyo demográfico por parte de los judíos españoles que emigran en 1492). Ello explica que, cuando se instalaron en el territorio andaluz, muchos de estos linajes de cristianos nuevos portugueses tuvieran un mayor grado de formación en su antigua herencia religiosa; lo cual no equivale, en lo absoluto, a afirmar que todos ellos, o una gran mayoría, fueran judaizantes activos. Hago más referencia a rasgos étnicos acentuados, a prácticas culturales por las que no se les habían perseguido con anterioridad. Al buscar asimilarse a la élite, ello pudo provocar motivos de fricción. Las genealogías que podemos levantar gracias a estos procesos, así como otro tipo de aspectos de gran interés, no deben llevarnos a prestar una monotemática visión de la cuestión de los marranos portugueses como una demostración de fe mosaica encubierta o sincera conversión al cristianismo; de hecho, un error igual de grave sería considerar que incluso esos amargos trances inquisitoriales eran el final de esta andadura, de este intento de ascenso. Por supuesto, en no pocos casos lo fueron, pero hemos señalado ejemplos que hablan de una gran capacidad de recomposición, de traslado a otros lugares de Andalucía para iniciar, otra vez, ese intento, amparados por los lazos de solidaridad de grupo. 4. Interpretación y conclusiones Mostrados los casos anteriores, y teniendo en mente decenas de otros ejemplos repartidos por todo el territorio andaluz, es posible extraer como conclusión la existencia de varias características de penetración de familias judeoconversas portuguesas en dichos cabildos municipales. 150 P. Huerga Criado, El problema de la comunidad judeoconversa, en B. Escandell Bonet; J. Pérez Villanueva (dirs.), Historia de la Inquisición en España y América, Biblioteca de Autores Cristianos, Madrid, vol. III, pp. 441-498. 151 Una panorámica completa en G. Marcocci; J.P. Paiva, Hisória da Inquisiçâo Portuguesa: 1536-1821, A esfera dos livros, Lisboa, 2013. 152 F. Soyer, A perseguiçâo aos judeus e muçulmanos de Portugal: d. Manuel I e o fim da tolerância religiosa (1496-1497), Ediçôes 70, Lisboa, 2013. 310 El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces 1. La llegada fue anterior a lo que tradicionalmente se había pensado por parte de los investigadores. Es cierto que el gran punto de inflexión fue el siglo XVII, sin embargo, casos como el de Écija atestiguan un establecimiento anterior a la propia Unificación de Coronas Ibéricas. 2. El acceso al poder local suele producirse desde la plataforma de una mesocracia pujante y que ha prosperado comercialmente hasta poder hacer frente a la inversión de la compra de oficios. Manuel Díaz Fernández, los Rodríguez de Andrada, Fernández de León o los Carreras son solo los ejemplos más representativos de un modelo que se dio durante más de una centuria. La necesidad de la Corona de vender todos los oficios que fueran posibles para enriquecer sus arcas fue la coyuntura idónea para cobijar a este ascenso social. 3. Tipología de oficios: En la gran mayoría de los casos, el tipo de oficios que encontramos desempeñados por judeoconversos portugueses en Andalucía suele estar vinculado a las escribanías, tanto en el cabildo como en la Chancillería. De igual manera, la compra de juraderías también fue constante (ver el apéndice correspondiente con la tabla de oficios). El regimiento fue de más difícil acceso, ya que era un cuerpo de rango mayor que tradicionalmente vamos a encontrar enfrentado precisamente a ese grupo de origen mercantil que eran los jurados. Sin embargo, la recompensa a quienes lograban alanzar la regiduría era una antesala donde resultaba muy factible preparar el terreno para alcanzar una posición nobiliaria y obtener el prestigio del linaje con fundación de mayorazgos, capellanías, etc. 4. Las familiaturas del Santo Oficio como plataforma. Sin duda, supusieron una herramienta básica para alcanzar una respetabilidad que sería de gran utilidad para los recién llegados, especialmente en las áreas rurales. Familiaturas tuvieron los Pacheco y los Fernández de Carreras, algo que, sin duda, hubo de influir para la futura buena fortuna de estos dos grupos. 5. Suertes divergentes. La espectacularidad de los Autos de Fe y los procesos inquisitoriales fueron acompañados de ocultación y éxito. Algunos de los clanes acusados de judaizar sufrieron constantes trabas y vieron diezmadas sus filas. Otros lograron prosperar y conseguir que sus descendientes no fueran inquietados por la sombra de la sospecha. El conocimiento de los engranajes del sistema y la capacidad de comprar testigos y silencios (esto es muy visible en las candidaturas a familiaturas o reconocimientos como caballeros veinticuatro) era la gran defensa para salvaguardar al núcleo familiar de testimonios desfavorables. Con todo, incluso después del dramático trance, ejemplos como el de los Fernández de León atestigua que, quienes pudieron permitírselo, intentar nuevos asaltos en otros territorios de Andalucía. Eso nos habla claramente de una gran capacidad de recuperación y conocimiento de 311 Marcos Rafael Cañas Pelayo los mecanismos del sistema, pero también de una red de solidaridad interna que auxilió a sus miembros tras la caída en desgracia. 6. La caída de Olivares. El rebrote de la persecución contra los cristianos nuevos lusos se produce tras la caída del valido, figura que los había protegido. Los comienzos de la segunda mitad del siglo XVII marcan el auge y punto de inflexión de esta presencia; a partir de ese momento, su número irá disminuyendo, acentuada por la guerra contra Portugal. Sin embargo, ello no es óbice para afirmar que siguieron produciéndose casos, precisamente los más difíciles de rastrear. Los linajes cristianos nuevos lusos que logran afianzarse en la segunda mitad del XVII (Victoria y Ahumada, Cortés de Mesa, incluso los antepasados del futuro ministro Mendizábal153…) muestran el triunfo de la estrategia familiar, se borra todo asomo de lo que aconteció en el pasado, hasta el punto de solamente una minuciosa reconstrucción genealógica puede acercarnos a la realidad. Por ello, una de las grandes cuestiones que debemos formularnos a este respecto, a la luz de la proximidad entre los edictos de sendos reinos contra los judíos (1492 y 1497), es la siguiente: ¿cuántos de aquellos portugueses eran descendientes de los expulsados de Castilla. Es decir, ¿se produjo un retorno de aquella primera oleada de judíos que huyeron al reino luso? Ello podría explicar el buen conocimiento previo que exhibieron a la hora de asentar sus nuevas comunidades en suelo castellano.Pregunta a la que solamente se podrá dar respuesta con la colaboración de grupos investigadores españoles y portugueses, buscando desentrañar los complejos lazos familiares de aquella primera oleada de emigrados. Nuestra otra opción también presenta retos para las futuras investigaciones. En caso de no existir un parentesco previo, la habilidad mostrada por estas familias cristiano-nuevo lusas nos hablan, aparte de una notable capacidad comercial y de saberse hacer útiles para las oligarquías, así como de una rápida colaboración con sus correligionarios castellanos. Por ende, deberíamos ir empezando a cuestionarnos algunas viejas premisas como el adormecido “criptojudaísmo” castellano tras las primeras represiones virulentas de las Inquisiciones andaluces; no hablo aquí de la cuestión religiosa, sino de vínculos de etnicidad, de señas de identidad compartidas, un pasado común y prácticas que no tenían que implicar necesariamente que no se hubieran integrado en su nueva fe. De hecho, sus ambiciones cara a asimilarse a la élite local andaluza, hablan de esa aspiración como una constante para aquellos miembros de la comunidad que se encontraban en posición de pujar por ello. 153 312 M. Ravina Martín, Un laberinto genealógico cit. El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces Apéndice CRISTIANOS NUEVOS PORTUGUESES CON OFICIOS PÚBLICOS EN ANDALUCÍA Apellidos y nombre Cargo Fecha (aprox.) Notas Acosta, Duarte de Contador mayor y factor de la Armada en Sevilla Década de los 50 del siglo XVII Importante presencia en los presidios norteafricanos Acosta, Isabel de (doña) Administradora de la sal en Vélez Málaga 1672 Natural de Braganza, viuda de Manuel Acosta Álvarez Pereira, Nuño Administrador de la renta de tabaco en Málaga 1691 Reconciliado por la Inquisición de Granada Arias del Valle, Juan Alguacil mayor de millones en Cabra 1663 Reconciliado por el Santo Oficio de Córdoba Barrios, Diego de Arrendador del tributo de millones en la villa de Montilla Década de los 40 del siglo XVII Su familia tuvo problemas con el Santo Oficio en la década de los 60 del Seiscientos Báez, Rodrigo Regidor perpetuo en el Puerto de Santa María 1600 No tenemos clara si su ascendencia era conversa Báez, Rodrigo Luis Regidor en el Puerto de Santa María 1731 Posible descendiente del anterior. Compra su oficio a don Lorenzo Rodríguez Cortés Osorio Báez Eminente, Francisco Arrendado del almojarifazgo de Sevilla Década de los 60 del siglo XVII Inversor en las minas de Almadén y gran valedor de comerciantes extranjeros en el puerto de Cádiz Báez de Vargas, Enrique Regidor en Cádiz 1596 Presente durante el saqueo inglés a Cádiz 313 Marcos Rafael Cañas Pelayo Castro, Francisco de Caballero veinticuatro en Sevilla Década de los 30 del siglo XVII Probanzas accidentadas. Pleiteó su condición hidalga en Granada Castro, Lorenzo de Caballero veinticuatro en Sevilla Década de los 30 del siglo XVII Hermano del anterior Cea Brito, Manuel Arrendador de millones en Sevilla, también de aduanas y almojarifazgo 1607-1627 Terminó trasladándose a Madrid Coello, Francisco Tesorero de millones en Málaga 1654 Asentista, procesado ante la Inquisición Correa Pacheco, Manuel Contador del Almojarifazgo y Aduanas de Málaga 1691 Reconciliado ante la Inquisición de Granada Díaz de Acosta, Manuel Administrador de la sal en Vélez Málaga 1645 Causa suspendida con la Inquisición de Granada Díaz Fernández, Manuel Regidor en Écija 1645c.-1647 Protegido del conde de Alcaudete. Falleció en cárceles inquisitoriales cordobesas Fernández de Acosta, Duarte Alférez mayor en Torrox 1677 Miembro de un linaje de asentistas portugueses Enríquez Antonio Alguacil menor en Lucena 1617 Casó en Lucena con doña María de Burgos Ferro, Manuel (don) Visitador general de las aduanas de la costa granadina 1671 Natural de Oporto, vecino de Málaga, causa suspendida ante la Inquisición Finales del siglo XVIComienzos del XVII Fundó un mayorazgo familiar 1663 Nieto por línea paterna del anterior Fernández Jurado y familiar de Carreras, del Santo Oficio en Pedro la ciudad de Córdoba Fernández de Carreras, Pedro 314 Caballero veinticuatro en Córdoba El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces Fernández de León, Diego Escribano público en Écija Década de los 80 y 90 del siglo XVI Su rama familiar tiene presencia asimismo en la Chancillería de Granada Fernández de León, Jorge Escribano del crimen de la Chancillería de Granada 1601 Muchos miembros de su linaje son denunciados en la visita inquisitorial de 1593 Fernández Monsanto, Marcos Administrador del almojarifazgo de la ciudad Primera mitad del siglo XVII Realizó muchas obras de caridad pública. Sin embargo, acabó sus días arruinado Fernández Pato, Luis Administrador de las alcabalas en Córdoba, tesorero de salinas en Sevilla Década de los 40 y 50 del siglo XVII Esposo de Juana López Capadocia, cuñado de Domingo Rodríguez de Capadocia, problemas con las Inquisiciones castellanas Ferro, Manuel de Visitador general de las aduanas malagueñas 1672 Natural de Oporto. Causa suspendida ante la Inquisición de Granada Fonseca, Fernando de Administrador de millones en el reino de Jaén 1661 La Suprema Inquisición de Madrid escribió al Tribunal de Córdoba para hacer averiguaciones sobre Fonseca Franco, Diego Jurado en Écija 1597-1601 Invierte en casas y posadas en la localidad astigitana Franco Pacheco, Antonio Jurado en Granada, familiar del Santo Oficio, futuro caballero veinticuatro, alguacil mayor Década de los 50 del siglo XVII Casa con doña María de Torres, miembro de una familia de la mesocracia granadina Gutiérrez, Gabriel Escribano público en Écija Década de los 80 y 90 del siglo XVI Previamente, había sido cirujano en la villa de Osuna López, Alonso Escribiente en Córdoba 1584-1585 Natural del Algarve. Se auto-denunció ante el Santo Oficio cordobés 315 Marcos Rafael Cañas Pelayo López Pereira, Diego López Pereira, Francisco Administrador del estanco de tabaco de Granada y de los millones de los lugares de la Vega Década de los 50-60 del siglo XVII Hermano de Francisco López Pereira. Causa suspendida ante la Inquisición granadina en 1664 Administrador Década de general de los los 50-60 del estancos de tabaco siglo XVII en los reinos Córdoba, Jaén, Granada y Murcia Su linaje, de ascendencia cristianonuevo, acabará comprando título nobiliario en Inglaterra López Pinto, Juan Fiel de la Aduana de Málaga 1678 Problemas con las Inquisiciones de Cuenca y Granada López Tenorio, Diego Jurado de Granada Segunda mitad del siglo XVI Puede haber sido también un destacado mercader en Sevilla López Tenorio, Esteban Jurado de Granada Segunda mitad del siglo XVI Sucede en el cargo a su padre, Jorge López Tenorio López Tenorio, Jorge Jurado en Granada Finales del siglo XVI Enlaza matrimonial con una familia conversa giennense Matos de Soto, Diego de Alguacil en Málaga 1665 Reconciliado por el Santo Oficio de Córdoba Méndez, Miguel Administrador del 3% en Montalbán 1660 Su esposa, Blanca de Matos, reconciliada por la Inquisición de Granada Méndez, Pedro Tesorero de millones en Antequera 1642 Penitenciado en Valencia. Forzado a la quiebra Núñez Rodrigo Cobrador de los derechos de diezmos en Lucena 1627 Cobra los intereses del duque de Cardona. Cabeza de una compañía de mercaderes lusos Núñez de Olivera, Gaspar Arrendador del estanco de la pimienta en Córdoba 1647-1649 Vínculos con la renta del tabaco en dicho reino 316 El acceso de los judeoconversos portugueses a los cabildos municipales andaluces Núñez Pérez, Diego Caballero veinticuatro en Sevilla 1601 Su familia tenía negocios y conexiones con Amberes Núñez Vaca, Melchor Administrador de los censos perpetuos de población de Málaga 1668 Sus bienes le fueron confiscados por el Santo Oficio de Granada Olea y Piña, Juan José Caballero veinticuatro de Granada 1719 Descendiente de portugueses por línea materna Pacheco de Acosta, Diego Hidalgo en Málaga 1623 Probanza muy accidentada. Orígenes pecheros poco claros Pacheco de Acosta Juan Receptor de la Cámara en la ciudad de Granada 1620 Padre del anterior. Vínculos con Málaga y el Puerto de Santa María Paz de Silveira, Manuel Portugués, asentista en Sevilla, hábito de la Orden de Cristo Década de los 20 del siglo XVII Hermano de Jorge de Paz Silveira, importantes inversores Robles Carvalho, Luis de Jurado en Málaga 1658-1669 Enriquecido mercader, clérigo menor de órdenes Rodríguez de Andrada, Antonio Jurado en Écija Década de los 80 y 90 del siglo XVI Cabeza del linaje denunciado tras la visita inquisitorial de 1593 Rodríguez de Capadocia, Domingo Administrador del tres por ciento de Lucena 1655 Cuñado de Luis Fernández Pato, reconciliado Rodríguez Cáceres, Simón Fiel de las alcabalas en Málaga 1660 Causa suspendida por la Inquisición de Granada Rodríguez Díaz, Simón Guarda de millones de Málaga 1660 Reconciliado por la Inquisición de Granada Rodríguez Pacheco, Pedro Jurado Granada, familiar del Santo Oficio Década de los 40 del siglo XVII Adinerado comerciante, especializado en la venta de azúcar Ruiz, Gaspar Asentista en la aduanas de Cádiz 1683 Hermano de Simón Ruiz Díaz Pessoa 317 Marcos Rafael Cañas Pelayo Ruiz Cardos, Jurado en Málaga Pedro 1659 Emparenta con el linaje converso castellano de los Solís Ruiz Díaz Pessoa, Simón Asentista en las aduanas de Cádiz 1683 Primo de Gaspar Ruiz Torres, Gaspar Francisco de Jurado en Écija 1600-1602 Cuñado de Antonio Rodríguez de Andrada Silva Lobo, Juan de Regidor en Écija 1655 Pleito de sus herederos por los bienes confiscados en Córdoba Sosa Coitiño, Salvador de Fiel de las rentas en Málaga 1669-1672 Reconciliado con hábito y cárcel de por vida. Negocios en Brasil Torres, Gaspar de Jurado en Sevilla 1530 Consolida su posición gracias a la venta de esclavos Varillas y Zamena, Gaspar Antonio de las Portugués, administrador de los millones de Málaga 1659 Causa suspendida ante la Inquisición de Granada Vitoria Ahumada y Salazar, Juan Bartolomé Regidor perpetuo de Motril 1688-1737 Descendiente de linaje portugués por línea paterna Vitoria Ahumada y Salazar, Simón Francisco Alguacil mayor de Salobreña, regidor perpetuo de Motril, maestrante de Granada 1737-1757 (Regiduría) Descendiente de portugueses por línea paterna Vitoria y Castro, Juan de (don) Caballero veinticuatro en Granada 1660-1670 Funda mayorazgo. Linaje de cristianos nuevos portugueses y gallegos Victoria y Castro, Simón Caballero veinticuatro en Granada, regidor perpetuo de Motril 1670-1688 Casa con doña Francisca de Ahumada y Salazar, miembro de un linaje de regidores granadinos 318 Maestrante (1722) María López Díaz LA REFORMA DEL CONSEJO DE CRUZADA DE 1745: PREÁMBULO DE SU DESAPARICIÓN* DOI: 10.19229/1828-230X /37142016 RESUMEN: Este artículo analiza la reforma del Consejo de Cruzada que aprobó el rey Felipe V en 1745, la cual precede a su desaparición. Se divide en tres partes. En la primera se indaga sobre las causas de la medida y el papel del marqués de Ensenada. En la segunda el funcionamiento de la nueva Contaduría Mayor de Cruzada y el nuevo sistema de control de sus fondos. Y en la tercera se examina la composición de la nueva planta del Consejo y el escalafón de sus cargos. El trabajo concluye con unas reflexiones finales. PALABRAS CLAVE: Consejo de Cruzada, Felipe V, marqués de Ensenada, Monarquía española, reformismo borbónico. THE REFORM OF THE COUNCIL'S CRUSADE FROM THE YEAR 1745: PREAMBLE OF HIS DISAPPEARANCE ABSTRACT: This article analyzes the Crusade Council reform adopted by King Philip V in 1745, which precedes his disappearance. It is divided into three sections. The first examines the causes of the measure and the role of the Marquis of Ensenada. The second one analyzes the operation of the new General Accountant’s Office of Crusade and the new method of control of its funds. And the third is about the composition of the new staff of the Council and the list of officials. The essay concludes with some final thoughts. KEYWORDS: Council of Crusade, Philip V, Marquis of Ensenada, Spanish monarchy, Bourbon reforms. Introducción El Consejo de Cruzada es a día de hoy un gran desconocido, sin duda el más ignorado de los Consejos de la Monarquía hispana tanto por parte de los historiadores juristas como no juristas (modernistas), que son entrambos quienes fundamentalmente se han ocupado de su estudio1. Es por ello que a la hora de presentar el tema se pueda hacer, cuanto menos, desde dos perspectivas que no son antitéticas: una que, mirando a la institución como instrumento de autoridad, llama la * Trabajo realizado dentro del Proyecto de Investigación HAR2012-37007, financiado por el Ministerio de Economía y Competitividad (MINECO), en el marco del VI Plan Nacional de Investigación Científica, Desarrollo e Innovación Tecnológica. 1 Grosso modo, los historiadores del derecho, en especial los de la “corriente historicista” o “neo historicista”, son quienes primero y con más persistencia se han venido ocupando del estudio de los consejos ya desde principios de los años 80, sobre todo en su vertiente institucional; por su parte, los historiadores generales y modernistas en un primer momento se interesaron más por el perfil social de dichos organismos y a posteriori por su gobierno y actuación. En cuanto a referencias bibliográficas, son muchas las que cabría citar e imposible hacerlo con exhaustividad en un trabajo de estas n. 37 Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIII - Agosto 2016 ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online) 319 María López Díaz atención sobre ese gran vacío historiográfico que hay acerca del estudio de dicho consejo, pues, a diferencia de lo que ocurre con otros órganos de la polisionodia2 y a pesar de su acreditada relevancia –no en vano gestionaba importantes ingresos de primigenia condición extraordinaria que acabaron convirtiéndose en ordinarios y sufragando capítulos no contemplados en su origen3–, apenas disponemos de dimensiones. Es por ello que me limitaré a reseñar solo alguna de las principales monografías sobre cada uno, empezando por el Consejo Real de Castilla (J. Fayard, Los miembros del Consejo de Castilla (1621-1746), Siglo XXI, Madrid, 1982 (trad. 1ª ed. francesa, 1979); S. de Dios, El Consejo Real de Castilla (1385-1522), Madrid, Centro de Estudios Constitucionales, 1982; P. Gan Giménez, El Consejo Real de Carlos V, Universidad de Granada, Granada, 1988; C. de Castro, El Consejo de Castilla en la historia de España, Centro de Estudios Políticos y Constitucionales, Madrid, 2015); Consejo de Aragón (J. Alberdi Arrieta, El Consejo Supremo de la Corona de Aragón, Institución Fernando el Católico, Zaragoza,1994), Consejo de Italia (M. Rivero Rodríguez, El Consejo de Italia y el gobierno de los dominios italianos de la monarquía hispana durante el reinado de Felipe II (1556-1598), Tesis de doctorado leída en la Universidad Autónoma de Madrid, 1991 [Consulta en red: https://repositorio.uam.es /xmlui/handle/10486/2589], Consejo de Flandes (J.M. Manuel Rabasco Valdés, El Real y Supremo Consejo de Flandes y de Borgoña (1419-1702), 2 vols., tesis doctoral leída en la Universidad de Granada, 1982), Consejo de Indias (E. Schäfer, El Consejo Real y Supremo de Indias, Kraus Reprint, Liechtenstein,1975 [Sevilla, 1935], 2 tms.), Consejo de Hacienda (E. Hernández Esteve, Creación del Consejo de Hacienda de Castilla: 1523-1525, Banco de España, Madrid, 1983; J.M. de Francisco Olmos, Los miembros del Consejo de Hacienda en el siglo XVII, Castellum, Madrid, 1999; C.J. de Carlos Morales, El Consejo de Hacienda de Castilla, 1523-1602: patronazgo y clientelismo en el gobierno de las finanzas reales durante el siglo XVI, Consejería de Educación y Cultura, Valladolid,1996), Consejo de Guerra (F. Andújar Castillo, Consejo y Consejeros de Guerra en el siglo XVIII, Universidad de Granada, Granada, 1996; J.C. Domínguez Nafría, El Real y Supremo Consejo de Guerra (siglos XVIXVIII), Centro de Estudios Políticos y Constitucionales, Madrid, 2001), Consejo de Órdenes (E. Postigo Castellanos, El Consejo de las Ordenes y los Caballeros de Hábito en el siglo XVII, Junta de Castilla y León, Valladolid, 1983) y Consejo de Inquisición (T. Sánchez Rivilla, El Consejo de Inquisición (1483-1700): introducción al estudio social de sus miembros [Microficha], Universidad Autónoma de Madrid, Madrid, 1995; J. Rodríguez Besné, El Consejo de la Suprema Inquisición, Complutense, Madrid, 2000). 2 De hecho, la única monografía de la que tengo conocimiento es la de D. Cruz Arroyo, El Consejo de Cruzada (siglos XVI-XVII), Memoria de licenciatura inédita, leída en la Universidad Autónoma de Madrid, 1988; y para América, en lo que atañe a la bula, J.A. Benito Rodríguez, La bula de Cruzada en Indias, Fundación Universitaria Española, Madrid, 2002. El resto son trabajos menores o parciales, como el de M. Alcocer Martínez, El Consejo de Cruzada, «Revista Histórica», Valladolid, 2.ª época, 2 (1925), pp. 114-123, o bien heurísticos: J. Goñi Gaztambide, El archivo de la Santa Cruzada, «Hispania Sacra», II (1949), pp. 1954-208. Con todo, lo más habitual, son los estudios que se ocupan del fundamento e historia de la bula de Cruzada. Sin exhaustividad ver, entre otros: J. Fernández Llamazares, Historia de la Santa Bula de Cruzada, Imprenta de D. Eusebio Aguado, Madrid, 1859; o J. Goñi Gaztambide, Historia de la bula de la Cruzada en España, Vitoria Seminario (Montepío Diocesano), 1938. 3 Algo que a menudo suscita disputas o conflictos con Roma. Para ejemplos, véase J. Fernández Llamazares, Historia de la Santa Bula cit., pp. 250-254; J. Goñi Gaztambide, Historia op. cit., 630-631; y específicamente para los inicios del Consejo, J. Martínez Millán y C.J. De Carlos Morales, Los orígenes del Consejo de Cruzada (siglo XVI), Hispania LI/3, núm 179 (1991), pp. 901-932 (907, 922). 320 La reforma del Consejo de Cruzada de 1745: preámbulo de su desaparición investigaciones al respecto, salvo unos pocos trabajos referidos a cuestiones puntuales y para cronologías más bien tempranas4. Una circunstancia debida quizás más a la complejidad estructural de este organismo y al volumen y dispersión de las fuentes para su estudio que a la sugerida dificultad de encontrarlas5. Ciertamente, su estructura y dinámica eran sumamente complicadas, ya que su jurisdicción abarcaba una buena parte de los territorios de la monarquía católica, incluidas las posesiones americanas y el resto de las extra-peninsulares, con la excepción de las continentales italianas (Milán y el reino de Nápoles) y de los Países Bajos españoles6. Pero no lo es menos que existe un ingente depósito de documentos susceptibles de consultarse, cuantitativa y cualitativamente de gran transcendencia para reconstruir no solo la historia de la institución y su engranaje dentro de la monarquía hispana, sino también la de las rentas eclesiásticas y demás productos aplicados a Cruzada (abintestatos, bienes mostrencos, penas pecuniarias de tribunales eclesiásticos o colectación de los espolios) así como su aportación a las arcas de la monarquía, la gestión y destino de estos fondos, las indulgencias o la caridad, por citar solo algunos de los diversos asuntos relacionados con el tema objeto de estudio7. El otro enfoque, que complementa al anterior, mete de lleno la política en el estudio de la institución como un elemento clave para comprender la medida aplicada en 1746. Es decir, toma en cuenta y usa reglamentos e instrucciones, según corresponde. Pero no como un fin en sí mismo, sino como un medio para llegar a entender el porqué 4 Cf. J. Martínez Millán y C.J. De Carlos Morales, Los orígenes del Consejo cit., pp. 901-932; H. Pizarro Llorente, La pugna cortesana por el control del Consejo de Cruzada (1575-1585), «Miscellánea Comillas», 56 (1998), pp. 159-177; del mismo autor y con las mismas premisas y parte de sus contenidos, La pugna cortesana por el control del Consejo de Cruzada (1575-1585), in J. Martínez Millán (dir.), Felipe II (1527-1598). Europa y la Monarquía Católica, Parteluz, Madrid, 1998, pp. 635-675. Y, más recientemente, J. E. Hortal Muñoz, El Consejo de Cruzada durante el reinado de Felipe III: los comisarios Juan de Zúñiga, Felipe de Tassis, Martín de Córdoba y Diego de Guzmán y Benavides, «Hispania Sacra», LXVI, Extra I, enero-junio 2014, pp. 97-130. En el capítulo económico siguen siendo cita obligada las páginas que a las contribuciones eclesiásticas dedican M. Artola, La Hacienda del Antiguo Régimen, Alianza Editorial, Madrid, 1982, pp. 57-62, 294-301, y M. Ulloa, La Hacienda Real de Castilla en tiempos de Felipe II, Fundación Universitaria Española, Seminario “Cisneros”, Madrid, 1986, pp. 61-66, 571-645 passim. 5 Cf. J.E. Hortal Muñoz, El Consejo de Cruzada cit., p. 1. 6 Según González Dávila, “La jurisdicción que comprende, es la mayor que se sabe, los Reynos de Castilla, León, Aragón, Valencia, Navarra, Principado de Cataluña, Condados de Rosellón, y Cerdania, Reynos de Serdaña, Sicilia, Mallorca, los del Perú, Nueva España, Islas Canarias, y Filipinas” (Teatro de las Grandezas de la Villa de Madrid Corte de los Reyes Católicos de España, que compuso el maestro Gil González Dávila, Madrid, 1623, pp. 519-520). 7 Cf. J. Goñi Gaztambide, El archivo de la Santa Cruzada, en «Hispania Sacra», 1949, II (ene-jun), pp. 195-208. M. Ulloa, La Hacienda Real de Castilla cit., pp. 571-578. 321 María López Díaz de la reforma de dicho consejo y su posterior reemplazamiento en junio de 1750 por la «Dirección y Contaduría general de las Tres Gracias de Cruzada, Subsidio y Excusado», que solo duraría cuatro años. Sensu lato remite al reformismo político de los primeros Borbones y, en particular, a la reorganización y/o remodelaciones efectuadas por los gobiernos emanados del ministerio de poderosos personajes de la época8. Partiendo de esta perspectiva cabría suponer que el nuevo reglamento fue un elemento más del proyecto que aquellos emprendieron, orientado al engrandecimiento y a la “modernización” de la monarquía9. Tal es la hipótesis de partida. Pero procede ver cómo se encaja (sus motivos o razón de ser), quiénes fueron sus protagonistas (impulsores del proyecto), cuál fue su contenido (pautas) y también sus efectos colaterales. Desde el punto de vista bibliográfico –me refiero a trabajos que trataron el asunto aquí analizado, aunque fuera de una manera somera o colateral en el marco de investigaciones más amplias 10–, este segundo planteamiento se asienta a día de hoy sobre tres premisas; a grandes rasgos: i) la crisis del régimen de Consejos, o sea, que los Consejos, salvo el Real de Castilla, quedaron relegados o cuasi relegados a un plano secundario especialmente en el último tramo del reinado de Felipe V, aunque no llegaran a perder todo su protagonismo11; ii) la escasa importancia que se reconoce al Consejo 8 Caso, por ejemplo, de José de Carvajal y Lancaster y del marqués de la Ensenada, por citar dos de los más conocidos. Véase J.M. Delgado Barrado, El proyecto político de Carvajal. Pensamiento y reforma en tiempos de Fernando VI, CSIC, Madrid, 2001 o la obra colectiva de J.M. Delgado Barrado y J.L. Gómez Urdánez (coords.), Ministros de Fernando VI, Servicio de Publicaciones, Universidad Córdoba, Córdoba, 2002. Y para la etapa anterior, Patiño (ateniéndonos a obras recientes, cf. I. Pulido Bueno, José Patiño: el inicio del gobierno político-económico ilustrado en España, Idelfonso Pulido Bueno, Huelva,1998; C. Pérez Fernández-Turégano, Patiño y las reformas de la administración en el reinado de Felipe V, Ministerio de Defensa, Madrid, 2006; A. Dubet, José Patiño y el control de la Hacienda ¿Una cultura administrativa nueva?, in M. López Díaz, Élites y poder en las monarquías ibéricas. Del siglo XVII al primer liberalismo, Biblioteca Nueva, Madrid, 2013, pp. 39-56) o Campillo (véase D. Mateos Dorado, Estudio preliminar a José del Campillo y Cossío, Dos escritos políticos. Lo que hay de más y de menos en España. España despierta, Junta General del Principado de Asturias, Oviedo, 1993, y obras que cita). 9 Sobre el marco del debate general en torno al paradigma absolutista y reformas emprendidas por el régimen borbónico en la España del siglo XVIII vid., por todos, J. Albareda Salvadó, El debate sobre la <modernidad> del reformismo borbónico, Dossier «Revista HMiC. Història moderna i contemporània», X (2012), con la bibliografía que cita. Y para cuadro global de dichas reformas sigue siendo útil, e interesa a lo que aquí se va a analizar, el planteamiento de P. Fernández Albaladejo, Cambio dinástico, monarquía y crisis de la constitución tradicional, in Fragmentos de monarquía. Trabajos de historia política, Alianza Editorial, Madrid, 1992, pp. 353-487. 10 Ver, por ejemplo, J.L. Castellano, Gobierno y poder en la España del siglo XVIII, Editorial Universidad de Granada, Granada, 200, pássim. 11 Cumple precisar que algunos de esos, consejos no son relegados sino simplemente suprimidos a principios de siglo. Así ocurre con la mayoría de los denominados “territo- 322 La reforma del Consejo de Cruzada de 1745: preámbulo de su desaparición de Cruzada superado el primer cuarto del XVIII y su carácter perjudicial en el conjunto de la administración, por su autonomía al administrar los fondos de las Tres Gracias y porque además aumentaba el número de exentos12; y, en lo que atañe a su posterior extinción, (iii) la progresiva pérdida de atribuciones y capacidad de acción, máxime tras la reforma de la planta efectuada en 1745 que suprimía ciertos oficios13. Sin duda, esta interpretación, en la línea de la revisión del orden político de la monarquía hispana del setecientos efectuada por la historiografía más o menos reciente14, enriquece sustancialmente el punto de vista anterior al contextualizar el tema en el marco de las transformaciones derivadas del cambio dinástico de principios de siglo, pero se asienta sobre unos presupuestos aún poco documentados, máxime no habiendo como no hay investigaciones específicas sobre dicha institución y los pormenores de su evolución secular más allá del quinientos y comienzos del XVII. Obviamente, no es mi propósito analizar aquí tan vasto y complejo asunto, ni siquiera los años postreros hasta su desaparición formal. Tan solo echar un poco de luz sobre la mencionada reforma, respondiendo, en la medida de lo posible, a los interrogantes antes planteados. En materia de fuentes este trabajo se realiza con documentación inédita del propio Consejo y de otras secciones del Archivo Histórico riales”, salvo el mencionado de Castilla. En concreto, el Consejo de Flandes y Borgoña se reorganiza en 1700 y desaparece dos años más tarde; el de Aragón también por un decreto de 1707, mientras que el de Italia duró poco tras la pérdida de Sicilia, último bastión de la protección europea de la Corona aragonesa. Por su parte, el de Indias fue reestructurado en 1713 y en 1715 será objeto de una nueva reorganización a la que le sigue la reforma de 1717. Aparte de los trabajos citados supra, nota 2, desde perspectiva general, entre otros muchos, cf. J.A. Escudero, La reconstrucción de la Administración Central en el siglo XVIII, in J.A. Escudero, Administración y Estado en la España Moderna, Junta de Castilla y León, Valladolid, 2002, pp. 135-204 (135-171) [reed. cap. in La Época de los primeros Borbones [= vol. XXIX/1 de Historia de España fundada por Menéndez Pidal, dirigida por J.M. Jover Zamora], Espasa-Calpe, Madrid, 1985, pp. 81-175]; y R. Vera Torrecillas, Felipe V y el reformismo centralista: El origen del sistema ministerial español, «Derecho y opinión», 2 (1994), pp. 125-144 (136-142). 12 Algo a lo que se trata de poner remedio en 1728. J.L. Castellano, Gobierno y poder en la España cit., p. 108, nota 21. 13 Ivi, pp. 104-112, 132-135. La cita remite solo a trabajos donde encontramos alusión expresa al asunto. 14 Cf. A. Domínguez Ortiz, Sociedad y Estado en el siglo XVIII español, Editorial Ariel, Barcelona, 1976, pp. 84-103. J.A. Escudero, La reconstrucción de la Administración cit., pp. 81-175. F. Barrios, Los Reales Consejos. El gobierno central de la Monarquía en los escritores sobre Madrid del siglo XVII, Universidad Complutense, Facultad de Derecho, Servicio de Publicaciones, Madrid, 1988. Línea revisionista de planteamientos más narrativos, como por ejemplo los de W. Coxe, España bajo el reinado de la Casa de Borbón: desde 1700 en que subió al trono Felipe V hasta la muerte de Carlos III, acaecida en 1788, Biblioteca Popular (Mellado), Madrid, 1846-1847, que no obstante contiene datos de suma utilidad. 323 María López Díaz Nacional de Madrid (Ahn). En un primer momento pensaba completarla y/o profundizar en ciertos aspectos derivados de la aplicación de la reforma, utilizando para ello algunos de los expedientes localizados en los fondos del Archivo General de Simancas, pero desechamos la idea por razones de espacio o extensión. En lo tocante a la (re)incorporación a la Corona de los oficios suprimidos empleamos, aunque tampoco ahonde aquí en el asunto, algunas de las alegaciones jurídicas, papeles e informes en derecho –también denominados porcones15– presentados por los afectados en el proceso de recobro de las dos contadurías mayores de Cruzada. 1. Antecedentes cercanos. Ensenada y los principios de la remodelación Seis meses antes de concluir su largo reinado, Felipe V mudó la planta del Consejo de Cruzada por un reglamento promulgado el 8 noviembre de 1745. No se trataba de una simple reestructuración sino de una profunda remodelación que afectaría tanto al plenario y al personal de las distintas oficinas como a su funcionamiento orgánico. A diferencia de lo ocurrido con otros consejos, que sepamos, en este caso no se había hecho ninguna otra reforma de calado desde 1691, año en el que por decreto de 17 de julio Carlos II fijó la nueva planta de dicho Tribunal, que en adelante estaría compuesta por un comisario general (presidente), tres asesores o consejeros de otros tantos consejos (uno del Real de Castilla, otro del de Aragón y el tercero del de Indias), el Gran Canciller registrador mayor, un fiscal, dos contadores mayores, un alguacil mayor, un tesorero general y un secretario. A estos habría que añadir los oficiales de las dos contadurías y del resto de los departamentos u oficinas –también denominados «estrados»16– amén del personal técnico y subalterno17. 15 Sobre este género de la literatura forense ver, por todos, S.M. González Coronas, Alegaciones e Informaciones en Derecho (porcones) en la Castilla del Antiguo Régimen, «Anuario de Historia del Derecho Español», LXXIII (2003), pp. 165-192. 16 Ahn, Estado, lib. 2626, ff. 48v-63r (56v). A veces también llamadas “covachuelas” (D. Ozanam, La diplomacia de los primeros Borbones, «Cuadernos de investigación histórica», 6 (1982), pp. 172. 17 Ahn, Consejos, leg. 7465, exp. 4: Copia incluida en el expediente de una de las porterías supernumerarias. En ese mismo año, Carlos II también reforma la planta de otros consejos, como el de Órdenes, por decreto de 10 de abril (J.A. Escudero, La reconstrucción de la Administración cit., p. 145) o el de Hacienda (T. García-Cuenca Ariati, El Consejo de Hacienda (1476-1803), in M. Artola (ed. e introducción), La economía española al final del Antiguo Régimen. IV, Instituciones, Alianza Editorial, Madrid, 1982, pp. 403500 (esp. 432). Para reformas en el reinado de Carlos II en otras parcelas de la Real Hacienda, J.A. Sánchez Belén, La política fiscal en Castilla durante el reinado de Carlos II, Madrid, Siglo XXI, 1996, pp. 49-54 y 287-319. 324 La reforma del Consejo de Cruzada de 1745: preámbulo de su desaparición Con todo, entre ambas fechas sí pudieron efectuarse retoques en la plantilla. Así se desprende al menos de algunos de los documentos consultados. El primero lo llevaría a cabo Felipe V recién iniciado su reinado, mediante otro decreto de 14 de marzo de 1701: en realidad apenas cambia lo dispuesto en 1691, si bien obliga a que se cumpla18. Por referencias indirectas nos consta que hubo otro intento de reorganizar la planta del consejo a principios de los años 30, coincidiendo con el encumbramiento de Patiño, posiblemente después del éxito que cosechó con la conquista y recuperación del doble presidio de Mazalquivir-Orán en 173219. La decisión venía además precedida de un episodio protagonizado por el entonces comisario general a principios del año 1733, que parece lo suficientemente importante como para desafiar a la autoridad del rey, al negarse aquel a subdelegar el cargo, por su enfermedad, en la persona designada por el monarca, que no era otra que fray Gaspar de Molina20. En puridad no debería influir pero no es improbable que lo hiciera, pues Patiño remitió un oficio al Consejo pidiéndole que informase sobre quienes lo integraban y sus competencias, los sueldos y los gastos ocasionados al fisco por el personal, así como lo que se podría ahorrar en costes de funcionamiento. Me consta que el informe le fue remitido el 26 de febrero de 1734. Pero el proyecto de reforma, si es que se llegó a redactar, no debió contar con el plácet regio para su aprobación. Sea como fuere, el reglamento de 1745 se gestó de una manera diferente y tuvo también un resultado diverso. De entrada, se concreta en un reglamento aprobado el 8 de noviembre. A juzgar por los trámites de ejecución, esta vez quien estuvo detrás y fue su directo responsable (seguramente también el que lo ideó y escribió) fue Zenón de Somodevilla, marqués de la Ensenada. De hecho es quien lo refrenda en su condición de ministro del Consejo de Estado y secretario del Despacho, a pesar de que el Consejo de Cruzada no caía directamente bajo su campo de acción sino de la del marqués de Villarías, Sebastián de la Cuadra, entonces secretario de Gracia y Justicia. Sin embargo, podía intervenir –y solía hacerlo aunque fuera de forma indirecta– en los asuntos de este consejo por estar bajo su mano las áreas del Ejército, la Marina y la Hacienda, desde cuyas secretarías se permitía influir e introducirse también en los negocios de Estado. De ahí que fuera quien Ahn, Estado, leg. 3233-1, s.f.: Madrid, 30 de julio de 1711. Sobre la política norteafricana española de los primeros Borbones, cf. M.A. de Bunes Ibarra, El cambio dinástico y la política española en el norte de África, in J. Fernández García, M.A. Be Bravo, J.M. Delgado Barrado (eds.), El cambio dinástico y sus repercusiones en la España del siglo XVIII, Universidad de Jaén, Diputación Provincial de Jaén, Jaén, 2001, pp. 53-66. Y sobre los honores que Patiño recibió por el trabajo y acierto de esta expedición, J.L. Castellano, Gobierno y poder en la España cit., p. 106. 20 Ivid, p. 108. Ahn, Estado, leg. 3233-2, s.f. 18 19 325 María López Díaz remitiese al comisario general y presidente del Consejo, Domingo Bustamante, el nuevo reglamento y también otros decretos sobre la «consistencia de las tres gracias de Cruzada, subsidio y excusado y demás ramos agregados» y sobre el modo en que debía distribuirse su producto, incluyendo entre sus destinos la plaza de Orán que antes no lo estaba. De igual forma fue quien mandó imprimir varias copias de las nuevas disposiciones para distribuir entre los ministros y oficinas de Cruzada y quien luego informará sobre los nombramientos que hace el monarca para los nuevos cargos21. Ya como secretario del Despacho de Guerra, Marina y Hacienda también hace llegar al tribunal otras instrucciones de su departamento relativas al gobierno de Cruzada, los presidios de África y la Escuadra de Galeras de España22. Por otra parte, a diferencia de lo ocurrido en los años 1730 y con las reformas efectuadas en otros consejos por el gobierno filipino23, esta vez, previamente a su aprobación, el rey no consultó ni solicitó información alguna al Consejo afectado. Sí me consta por un documento posterior que en mayo de 1745 Ensenada ordenó que don Francisco Triget –comisario ordenador o contador principal de Marina, que ese mismo año obtuvo el título de marqués de Malespina24– tratara con el comisario general sobre el «método y reglas» que luego fijaría el decreto de 8 de noviembre. Lo cual no debió de hacer, pues un mes después el Consejo molesto, en consulta elevada al rey (sesión del 11 de noviembre), protestaba quejándose de su forma de proceder; a lo que el monarca respondió con firmeza y sin dar opción a réplica, que cumpliera con lo dispuesto25. Más allá de lo señalado, el incidente revela la existencia de un cierto descontento en el principal responsable de la institución por el modo de tramitar el nuevo reglamento –quizás la vía reservada–, pero sobre todo por su contenido, que no es ajeno a la vieja pugna existente entre los Consejos de Cruzada y Hacienda26. Lo mismo cabe decir de los otros reglamentos aprobados durante ese mismo mes de noviembre para «el gobierno y subsistencia de los presidios de África y de la Real Escuadra de Galeras». Son hechura de Ensenada y de la Secretaría del Despacho de Hacienda, Guerra y Marina que, como se verá, es pieza central y el mayor beneficiado de la reforma27. Ahn, Consejos, lib. 2620, ff. 158-160. Ivid, f. 176v. 23 J.A. Escudero, La reconstrucción de la Administracion cit., p. 151 pássim. 24 M. del C. Irlés Vicente, Los extranjeros en la administración corregimental española del siglo XVIII, in M.B. Villar García, M. Pezzi Cristóbal (eds.), Los extranjeros en la España Moderna, Gráficas Digarza, Málaga, 2003, 2 tms., II, pp. 439-450 (447). 25 Ahn, Consejos, lib. 2631, ff. 247v-248r. 26 Cf. J. Martínez Millán y C.J. De Carlos Morales, Los orígenes del Consejo cit., p. 922; J.E. Hortal Muñoz, El Consejo de Cruzada cit., pp. 101, 105, 106 y 119. 27 Ahn, Consejos, lib. 2631, ff. 172v-174v. 21 22 326 La reforma del Consejo de Cruzada de 1745: preámbulo de su desaparición En cuanto a los motivos de la misma, según el texto del decreto con la nueva planta se pretendía aumentar los ingresos y la disponibilidad de los fondos de Cruzada y recortar ciertos gastos ordinarios, para así poder financiar con los caudales de las tres Gracias y ramos agregados no solo los presidios de África (Ceuta, Peñón, Melilla y Alhucemas) y las galeras de la Escuadra de Galeras de España, como se había venido haciendo hasta entonces, sino también la plaza de Orán y sus castillos «que han sido asistidos por mi Real Hacienda». Para tal fin se estimaba que era imprescindible «moderar en todo lo posible [sic] en la Corte» y establecer un nuevo método «para que esos caudales se manejen con la economía que importa, y llenen [sic] los destinos de su concesión, sin invertirse en otros fines». Como medidas concretas para lograrlo, por un una parte, se establecía un nuevo método contable regulado con exhaustividad que centralizaba toda la información relativa al «manejo y administración de estos caudales» (distribución del dinero) en un único departamento u oficina (la Contaduría Principal de Cruzada al frente de la cual está el contador principal), orgánicamente integrada en el Consejo pero también vinculación a la Secretaría de Hacienda. Y, por otra, se modificaba la planta de dicho tribunal quedando a partir de entonces compuesta por un presidente (el comisario general) y nueve ministros (consejeros), además de un número fijo de oficiales y personal. Correlativamente, se suprimían las dos contadurías mayores con sus respectivas mesas y se regula la categoría y las retribuciones de todos los empleados del Consejo tanto de la corte como de fuera28. Con esa misma perspectiva de ahorro el decreto especificaba también las dotaciones fijas consignadas sobre los fondos de Cruzada según «la concesión de las bulas de vivos, difuntos y composición», a saber: un cuento de reales de vellón cada sexenio para la fábrica de San Pedro (a pagar en los cinco últimos años del mismo), y otros 90.000 rvs en los mismos seis años a la fábrica de San Juan Laterano. Como gastos ordinarios señalaba asimismo las «mercedes vitalicias», que incluyen el abono de 3.750 rvs mensuales a la marquesa de Santa Cruz del Marcenado según lo establecido en el decreto de 16 de diciembre de 1733 por haber fallecido su marido, comandante del presidio de Orán, a manos de los infieles; otros 1.500 rvs anuales a doña Juana de la Quadra y Ulloa por los emolumentos de media portería del Consejo; y a Francisco Pérez de Zárate, que había ejercido como teniente de portero, 1.100 rvs al año que le asignó el Consejo por su mérito y avanzada edad29. 28 29 Ivid, lib. 2620, ff. 160r-172v (es. 160v). Ivid. 327 María López Díaz Lógicamente, una remodelación de tal envergadura no podía dejar de suscitar resistencias entre los afectados. Los primeros en oponerse son los más directamente perjudicados: el comisario general como presidente de la institución y los dos contadores mayores con asiento de consejeros cuyos oficios quedaban suprimidos. En su caso de nada sirvió que, abordando el asunto en términos patrimonialistas, Felipe V indicara en el propio reglamento que era su voluntad que a los titulares de los empleos suprimidos que los «beneficiaban» merced a un servicio pecuniario o «contrato oneroso» se les restituyesen «las cantidades de capitales que hubiesen aportado a la Real Hacienda» (se sobreentiende, ellos o sus antecesores), ni tampoco que por resoluciones a los recursos que presentaron Fernando VI, en una disposición aclaratoria, les reconociera de manera expresa el derecho a ser oídos en audiencia de partes o con figura de juicio30 Las medidas tomadas evidencian la firme voluntad del nuevo monarca y su ministro de seguir adelante con la reforma; y también la de hacer valer el superior interés de la causa (utilidad) pública, en que funda dicho precepto, frente a cualquier derecho particular, como son los de los afectados31. Con ese mismo propósito en los días y semanas posteriores se aprobaron otros reglamentos que precisaban o suplementaban lo regulado en el de reforma del Consejo, como el de 9 de noviembre (la fecha no parece fortuita; anótese, solo un día después de aquel) por el que se suprimía el astillero de Atarazanas de Barcelona estableciendo la construcción de galeras en Cartagena32. En concreto, en lo concerniente al manejo y destino de los caudales de Cruzada, la Secretaría de Estado y del Despacho de Guerra expidió cuatro decretos sobre el modo de gobernar y financiar los presidios de África y la veeduría de Málaga «correspondientes a guerra». De nuevo es Ensenada quien previene al comisario general para que trate el asunto en el Consejo33. Pero, como este todavía no había deliberado sobre la nueva planta, Domingo Bustamante en su respuesta aprovecha para Ahn, Estado, leg. 1480, ff. 56r-57r. Ahn, Consejos, lib. 2620, ff. 269-271. BXUSC, Fondo Antiguo, 23105, 6; Foll. Cap. 51-11. Para ejemplo de otras medidas en la misma línea, cf. P. Fernández Albaladejo, Cambio dinástico, monarquía y crisis cit., pp. 400-406. 32 P. Fondevila-Silva, Las galeras de España en el siglo XVIII, «Revista General de la Marina», 247, Agosto-Septiembre, 2004, pp. 223-237. Para más información sobre la Escuadra de Galeras de España, véanse J.J. Sánchez-Baena, P. Fondevila-Siva, C. Chain-Navarro, Los Libros Generales de la Escuadra de Galeras de España: una fuente de gran interés para la Historia Moderna, «Mediterranea. Ricerche Storiche», 26 (2012), pp. 577-602. Y para la gente de galeras de la etapa de los Austrias, J.M. Marchena Giménez, La vida y los hombres de las galeras en España (S. XVI-XVII), Tesis de doctorado, leída en la Universidad Complutense de Madrid, 2010 (en red: http://eprints.ucm. es/12040/1/T32670.pdf). 33 Ahn, Consejos, lib. 2620, ff. 176v. 30 31 328 La reforma del Consejo de Cruzada de 1745: preámbulo de su desaparición justificar el retraso, achacándolo a la enfermedad de un consejero, a la par que advierte, con manifiesta intencionalidad, que «se necesitaba algún tiempo por lo dilatado y graves [sic] de los asumptos que comprehende». Sobre las nuevas instrucciones, en las que se especificaba cómo se debía asistir económicamente a la plaza de Orán y los demás presidios de África con fondos de las tres Gracias de Cruzada, Subsidio y Excusado, consignando créditos para la primera contra Cruzada de Cataluña, pone reparos para hacerlo con la urgencia que se requería, llamando la atención sobre los inconvenientes que se derivaban del nuevo sistema, incluido el riesgo de que los caudales indicados salieran inciertos por no ser fiables las cifras que el secretario de Guerra y Hacienda manejaba en sus disposiciones. Y remata con una aguda apreciación que encierra una clara crítica al cambio establecido, señalando que si lo que se perseguía era ahorrar y agilizar la asistencia a los presidios, con el nuevo procedimiento lo que en realidad se lograba era todo lo contrario: incrementar el gasto por los costes añadidos de conducción del dinero al tener que enviar los dineros desde la pagaduría catalana a un lejano destino34. Cabía discutir algunos supuestos de las medidas adoptadas pero no el proyecto en sí. En este punto concreto el rey y su ministro de hecho rectifican con una nueva orden «para atender con más puntualidad a estas obligaciones [presidios]», en la que, reconociendo lo certero de algunos de los reparos señalados por la Comisaría de Cruzada, dispuso que siempre que en las providencias dadas para la asistencia de los presidios hubiese gastos de conducción de caudales de unos lugares a otros de España «me lo avise [Ensenada], para que poniéndole yo donde se necesite le aplique donde V.I. tenga». Pero, aparte de ello y tanto o más importante, prueba también la firme voluntad del monarca de colocar al frente del manejo y distribución de estos caudales al secretario de Guerra y Hacienda; que este pudiera introducirse, junto al comisario general, en el manejo, gobierno y dar providencias concernientes a los presidios y galeras, tal y como sucediera antes del año 1725, en que por una real orden del mes de diciembre el propio Felipe V vetó la intervención en estos fondos de cualquier ministro de Hacienda35. En cierto sentido explica la seguridad con la que Ensenada responde cuando informa sobre el particular a Bustamante, declarando, no sin ironía, que las objeciones planteadas «solo pueden ser falibles [sic] si las noticias sacadas de las contadurías de Cruzada no fuesen ciertas, pero como no se duda de 34 35 Ahn, Consejos, lib. 2620, ff. 172v-173r, 175v. Cf. J. Fernández Llamazares, Historia de la Santa Bula de Cruzada cit., p. 205. 329 María López Díaz su evidencia, tampoco V.I debe dudar de los reglamentos»36. Una afirmación acorde con la defensa y alta estimación en que siempre tuvo las «certificaciones de las contadurías generales» como documentos de «fe y crédito» en materia de cuentas37. Con todo, no era menor la inquietud ni los reparos que suscitó la nueva planta entre el resto de miembros del Consejo. Pronto pudieron comprobarlo Felipe V y su ministro. Con el mismo propósito de demostrar que la reforma no se justificaba a partir del ahorro ni de una pura racionalidad económica o mejora del rendimiento perseguido por la Real Hacienda, en fechas posteriores, el pleno de aquel también se opuso e hizo alegaciones en contra en contra del reglamento reglamento, aunque no con la contundencia y rapidez que cabría esperar teniendo en cuenta la trascendencia de los cambios que implicaba. Fuera por esa tibieza, por la propia dilación en desplegar sus actuaciones o sencillamente por la firmeza con la que procedió la monarquía en el asunto, lo cierto es que, conforme a lo establecido, el 1 de enero de 1746 empezó a regir y funcionar la «nueva planta» al tiempo que cesaron en su actividad las dos contadurías mayores suprimidas. De hecho, los titulares de los oficios afectados dejaron de ejercer su empleo, liquidándoseles a posteriori sus emolumentos hasta la fecha; y, viceversa, los nuevamente creados, como el contador principal designado por el rey, empiezan a desarrollar su tarea38. De nada sirvieron las representaciones y los recursos presentados por los principales afectados, insistiendo en lo perjudicial e improcedente de las medidas adoptadas. Ni tampoco cambió nada el fallecimiento de Felipe V en julio de 1746, pues Fernando VI no solo asumió el proyecto como propio prosiguiendo con su ejecución –Ensenada es el eslabón de esta cadena y representa el continuismo, que en estos momentos y para este caso era una razón nada desdeñable–, sino que el nuevo monarca y su también ministro incluso irán más lejos en la línea de acción emprendida, llevando a cabo la supresión del Consejo, subrogando en su lugar un Juzgado competente –la «Dirección y Contaduría general de las Tres Gracias de Cruzada, Subsidio y Excusado»– que inicia su andadura el 1 de julio de 175039. Pero para ello aún deberán pasar unos Ivid, ff. 173r-174r. Vid. su “Representación a Fernando VI de 1751” (A. Rodríguez Villa, Don Cenón de Somodevilla Marqués de la Ensenada: ensayo biográfico, Librería M. Murillo, Madrid, 1878, p. 113). Cf. D. Ozanam, Notas para el estudio de los presupuestos de la monarquía española a mediados del siglo XVIII, in A. Otazu (ed.), Dinero y crédito: Siglos XVI al XIX. Actas de Primer Coloquio Internacional de Historia Económica (1º 1977), Librería Pérez Galdós, Madrid, 1978, pp. 60-61. 38 Ahn, Consejos, lib. 2620, f. 158v. 39 Ahn, Consejos, leg. 7126, exp. n.º 5. Real decreto de 10 de junio de 1750 recopilado in Novísima Recopilación, lib. II, tit. 9, ley 12. 36 37 330 La reforma del Consejo de Cruzada de 1745: preámbulo de su desaparición años y generarse un contexto propicio a la liquidación40. De momento solo puedo decir que no es un asunto desligado de la reforma que aquí se analiza. Y que esta, como otras providencias tomadas durante estos años (1743-1746/1747), son el punto de arranque o impulso de una línea de cierta gradación que quizás trate de evitar brusquedades en un movimiento reformista que se irá implementando paulatinamente con nuevas medidas41. Detrás está desde luego el marqués de la Ensenada, y seguramente también los grupos de presión o el clima de partidos que entonces existía en la corte42. 2. El motor del cambio. Gestión y control de los fondos de las Tres Gracias A tenor de lo dicho la reforma tenía como uno de los principales objetivos mejorar el control sobre el manejo de las rentas eclesiásticas y acabar con algunos de sus problemas endémicos, como la excesiva autonomía y posibles corruptelas existentes en los distintos niveles de la administración de las tres Gracias y el financiamiento de los presidios militares y de las galeras a que iban destinadas. Una mejora que se procura, entre otras medidas, con la intervención de la Secretaría de Hacienda en el manejo e inspección de estos fondos, convirtiéndolos de esta forma casi en un ramo más de la Real Hacienda. Algo que la monarquía española ya había hecho en etapas pretéritas, destinando a veces estos recursos para fines distintos a los consignados en los documentos pontificios43. En esta ocasión Felipe V lo hace involucrando a la Secretaría de Hacienda, de modo que el manejo de ese dinero estuviera mutuamente y en todo momento controlado por quien lo ordenaba, quién lo hacía efectivo y quién lo fiscalizaba; es decir, por negociados o instancias tanto de Cruzada como del ramo Hacienda. La intervención de los órganos hacendísticos no era estrictamente nueva, 40 Es este, el de la supresión formal del Consejo de Cruzada y asunción de parte de sus competencias por un departamento dependiente de la Superintendencia General de la Real Hacienda, un asunto en el que ahora no puedo detenerme, que requiere un análisis específico. Espero poder hacerlo en un próximo trabajo que dé continuidad al presente. 41 Cf. P. Fernández Albaladejo, Cambio dinástico, monarquía y crisis cit., pp. 407-408. 42 Cf. D. Gómez Molleda, Viejo y nuevo estilo político en la corte de Fernando VI, «Eidos», 1957 (6), pp. 43-76; R. Olaechea, Política eclesiástica del gobierno de Fernando VI, in La época de Fernando VI, Oviedo, 1981, pp. 139-225 (esp. 140-154, 199-203); J.L. Gómez Urdáñez, El proyecto reformista de Ensenada cit., pp. 220-236; Carvajal y Ensenada, un binomio político, in J.M. Delgado Barrado, J.L. Gómez Urdánez (coords.), Minis tros de Fernando VI cit., pp. 79-80; y en la misma monografía, C. González Caizán, El primer grupo de hechuras zenonicias, pp. 175-202. 43 Para ejemplos, vid. J. Fernández Llamazares, Historia de la Santa Bula cit., pp. 203-205; y esp. para siglos XVI-XVII, J. Martínez Millán y C.J. De Carlos Morales, Los orígenes del Consejo cit., p. 922. 331 María López Díaz y no me refiero solo a la fiscalización última de la gestión económica de los mismos que habría de hacer la Contaduría Mayor de Cuentas, pues sabemos que en los siglos XVI y sobre todo XVII el Consejo de Hacienda tuvo un activo papel, junto con otros, a la hora de organizar y garantizar todo lo aprobado por el de Guerra y Estado, que en última instancia era quien decidía44. Como tampoco son extrañas sus disputas con el de Cruzada por el control operativo y la distribución de estos recursos45. Lo novedoso esta vez es que la medida se toma con el consentimiento de la Santa Sede, después de cuatro décadas de complicadas relaciones con la monarquía española, y que pone en marcha un camino sin retorno que acabará secularizando la administración y exacción del producto de las rentas eclesiásticas –incluida la bula de la Santa Cruzada–, dejándolas finalmente solo en manos de la Corona46. Desde el punto de vista institucional, sienta las bases para una reforma más profunda que culminará pocos años después con la supresión del Consejo, que no es ajena a los planteamientos regalistas del reinado de Felipe V y del debate también regalista de mediados de siglo en el mundo católico que procuran recuperar espacios jurisdiccionales fundamentales para la monarquía47. Respecto al primer aspecto, un factor clave en el planteamiento de la reforma fue la recuperación de la armonía y buena gestión de la diplomacia española en la Curia Romana, coincidiendo con el pontificado de Benedicto XIV48. Precisamente en este contexto se inscriben algunos de los logros de los legados reales, como el breve de 25 de marzo de 1745, que autorizaba al monarca a utilizar los caudales de Cruzada para atender al mantenimiento y financiación de la ciudad de Orán y sus castillos del mismo modo que al resto de presidios norteafricanos del Peñón y Melilla49; o el expedido dos días antes (23 J.M. Marchena, La vida y los hombres de las galeras cit., pp. 37-38. J. Martínez Millán y C.J. De Carlos Morales, Los orígenes del Consejo cit., p. 911; J.E. Hortal Muñoz, El Consejo de Cruzada cit., pp. 101ss, 117-122. 46 Para Cruzada en Indias, J.A. Benito, La Bula de Cruzada cit., pp. 52-53, 58-59. 47 Cf. P. Fernández Albaladejo, Cambio dinástico, monarquía y crisis cit. Y para contexto más amplio y debate regalita en el ámbito católico vid. C. Continisio y C. Mozzarelli (a cura di), Repubblica y virtù: pensiero político e monarchia cattolica fra XVI e XVII secolo, Bulzoni, Roma, 1995, en especial el replanteamiento de algunos puntos esenciales del mismo de J.M. Portillo Valdés, Algunas reflexiones sobre el debate regalista del setecientos como precipitado histórico del área católica, pp. 93-108. 48 Sobre su pontificado y relaciones con la Monarquía hispana, cf. J.M. Yanguas y Messía, La embajada de España en Roma durante el siglo XVIII (Conferencia), Ministerio de Asuntos Exteriores, Madrid, Curso 1945-1946; Pastor, Ludovico, Barone von, Historia de los Papas, Gustavi Gili, Barcelona, 1910-1961, 39 vols. Algunos datos también, J. Macías Delgado, La agencia de preces en las relaciones Iglesia-Estado español (17501758), Ministerio de Asuntos Exteriores, Madrid, 1994, esp. pp. 69-86, 194-200. 49 Ahn, Consejos, lib. 2620, f. 175v; J. Fernández Llamazares, Historia de la Santa Bula cit., pp. 205-206. 44 45 332 La reforma del Consejo de Cruzada de 1745: preámbulo de su desaparición de marzo), que consentía que la vacante del comisario general de Cruzada, por el fallecimiento en 1744 del cardenal Molina sin haber nombrado subdelegado, fuera ocupada por «el Inquisidor general o Patriarca de las Indias, u otra persona constituida en dignidad eclesiástica» nombrada por la Corona, en contra de lo ocurrido en 1703 cuando se planteó el mismo problema, en que su homónimo ignoró la petición del embajador español50. No fueron los únicos logros de la diplomacia española en Roma durante estos años. En 1745 se empieza a negociar también la prórroga de las tres Gracias que el nuevo comisario solicitó formalmente el 26 de marzo en un escenario no especialmente hostil. Y es que un año y medio antes el mismo Pontífice ya había accedido a otra petición de la corte filipina, autorizando, por un breve 4 de diciembre de 1742, las ventas de empleos de Cruzada efectuadas por la Corona a seculares, con la única prevención de que el dinero se emplease solo en «usos y causas según las concesiones apostólicas junto con los otros caudales y emolumentos de Cruzada o subsidio»51. Aunque el documento tenía trascendencia jurídica –de hecho lo alegan como fundamento de derecho los contadores mayores cuyos oficios fueron suprimidos con la reforma52–, a donde parece ir dirigido es al lucrativo mercado de Indias. No en vano allí el monarca aún seguía «beneficiando» y enajenando oficios de Cruzada en la primera mitad del siglo XVIII53. Sea como fuere, para lo que ahora nos ocupa el primer breve será el determinante, pues está detrás de la reglamento de 1745. Un reglamento que, aparte de fijar la estructura y competencias de la nueva y todopoderosa Contaduría Principal (por la información que acumula), regulaba minuciosamente las funciones y obligaciones de los distintos oficiales de rey e instancias con responsabilidad en la gestión y control de estos fondos, empezando por el comisario general. Según la nueva instrucción, este debía tener conocimiento de todos los decretos y reales órdenes que fueran expedidos para el «gobierno de la quenta, y razón de los caudales y distribución» tanto en las oficinas de la corte como en los presidios de África y mantenimiento de las galeras. Para ello debería ser puntualmente informado de cualquier novedad, a fin de poder tomar las providencias convenientes, y de forma regular cada mes. También debería tener conocimiento sobre la manera en que los asentistas atendían a los presidios y a las galeras de la Real Ivid, pp. 127-128. Ahn, Consejos, lib. 2625, ff. 75r-76r, 194r-195v; lib. 2631, ff. 246v-247r. 52 Ivid, 194-195. Para los últimos, BXUSC, Fondo Antiguo, 23105, 6, f. 19 v. 53 Cf. J.A. Benito, Organización y funcionamiento de los tribunales de Cruzada en Indias, «Scielo. Revista de estudios histórico-jurídicos», 22 (2000), pp. 1-16 (6). Y para época de Patiño, Ahn, Consejos, lib. 2619, ff. 287v-288. 50 51 333 María López Díaz Escuadra española y del dinero que había en las arcas del pagador, para poder así disponer y acudir a los socorros de dinero de la manera más conveniente. Igualmente, debía velar porque se cumplieran las instrucciones reales, y dar órdenes a los administradores de bulas o cabildos de las provincias para hacer las entregas de dinero a los pagadores (de los mencionados presidios y embarcaciones) con las formalidades establecidas en la Contaduría Principal de Cruzada, previniendo a esta de las mismas para que las registre y tenga presentes en sus libros. Además, como presidente del Consejo también tendría que estar enterado de los gastos derivados del funcionamiento ordinario de este organismo y sus oficinas; a saber, del coste de los «estrados», el escritorio y alquiler de la casa para la Contaduría Principal54, despachos e impresiones para la publicación de la bula, etc. Resumiendo, el comisario general de Cruzada, por facultad pontificia, seguía siendo el centro del aparato administrativo que gobernaba y gestionaba todo lo relacionado con las llamadas tres Gracias, el elemento primordial del Consejo de Cruzada55, pero su capacidad de actuación estaría controlada e intervenida por oficiales e instancias del poder real. Es el primero el contador principal (otras veces y en otros documentos denominado contador general), que asume las competencias de los antiguos contadores mayores y sus respectivos estrados pero incorpora también otras nuevas. Como aquellos, tenía «asiento y voto de consejero de Cruzada… en todas las materias de Hacienda, Gobierno y Gracia», pero no será un cargo patrimonializado sino un ministro designado por el rey y con mandato temporal. Además de nombrar a los oficiales de su negociado, su cometido era llevar la contabilidad detallada de todo lo relativo a la gestión de los medios y recursos financieros de Cruzada. Esto incluía centralizar las decisiones y el control de toda la información concerniente, pudiendo dar cuenta total o parcial de las disponibilidades precisas (efectivo) de caudales «con cierta fiabilidad» siempre y cuando fuera requerido. Para ello debía tener libros detallados e individualizados de los asientos de todos los ministros (comisario general y de los denominados «ministros de tabla») y empleados del Tribunal y Contaduría, así como de cualesquier otros 54 Oficinas sitas en una casa junto a la parroquia San Juan de Madrid (J. Goñi Gaztambide, Historia de la Santa Bula cit., p. 202). 55 También disponía de amplísimas facultades tanto en materia de nombramiento de oficios de Cruzada de los distintos territorios de la monarquía como en el de los permisos pertinentes para la publicación y difusión de impresos piadosos. González Dávila, Teatro de las Grandezas de Madrid cit., p. 520; y para los comisarios de Cruzada en la América española, I. Sánchez Bella, La organización financiera de las Indias. Siglo XVI, Escuela de Estudios Hispano-Americanos, Sevilla, 1968, pp. 109, 120 y 228; J.A. Benito, La Bula de Cruzada cit., pp. 117-118. 334 La reforma del Consejo de Cruzada de 1745: preámbulo de su desaparición individuos que gozasen de sueldo de Cruzada en los distintos presidios o parajes donde estuvieran destinados; y también sobre los nombramientos y las órdenes originales dirigidos a su departamento. Para un eficaz y preciso control de los dineros, estaba asimismo obligado a tener libros cuentas separados: uno de los cargos formados al tesorero (por las “cartas de pago” despachadas a los administradores de las bulas) y otro (2.º) con las copia de dichas cartas; un 3.º de los cargos de los tesoreros particulares, tanto de los presidios como de galeras (desglosados por lugares), según las cartas de pago dadas a favor del tesorero general o administradores de bulas o cabildos, conforme a lo dispuesto por las órdenes o decretos que expidiera o avalara el comisario general, para saber así de qué cantidades se responsabilizaba cada pagador al liquidar sus cuentas en la contaduría. Igualmente, otro cuarto libro de los cargos particulares, ordenado alfabéticamente, donde se debía consignar lo librado por orden del comisario general en los asentistas o proveedores de víveres, vestuarios u otros géneros; y dos más (5.º y 6.º) sobre los mismos pliegos de cargos particulares y sobre los títulos de pliegos satisfechos, ambos siguiendo también el orden alfabético. Es decir, que debía ser y/o estar informado de todas las providencias que diera el comisario general, individualmente o asesorado por el Consejo, relativas a la «distribución, manejo o aplicación de [estos] caudales», ya fuera en virtud de sus facultades o bien por mandato u «órdenes particulares del monarca». Para garantizar la «legalidad» de las cuentas, y seguramente también para corregir algunos de los males del sistema en materia de tesorería y control dinerario, a mayores se adoptan ciertas precauciones. Así, según la nueva disposición, era obligado hacer la «confrontación» de las diferentes partidas que componían las cuentas de los libros de la Contaduría Principal con los instrumentos del tesorero general. Y este cotejo debería realizarlo dicha contaduría «indispensablemente» cada tres meses, sacando una relación de los cargos y datas firmada por el contador general que habría de remitir al comisario general. El contador cada seis meses debería asimismo formar otra «relación de cargos y datas del tesorero general» y remitírsela también al comisario general, quien a su vez la habría de «pasar a la Secretaría del Despacho de la negociación de Hacienda, con expresión de lo que faltare por cobrar de los Administradores de Bulas y Cavildos de los plazos cahidos, y de las diligencias que se siguieren para su cobranza». Aquí aparece la segunda institución clave de ese sistema de contrapuntos e intervención que se introduce en el manejo y contabilidad de los caudales de Cruzada: una Secretaría del Despacho –bajo la dirección de Ensenada, que recordemos también era secretario de Guerra, Marina e Indias (los fondos de Cruzada de Indias disponen de contadurías separadas)– al que no solo afluiría toda la información 335 María López Díaz contable, teniendo por tanto conocimiento de dónde había recursos disponibles y cuáles eran las necesidades reales, sino que, como ya señalé, también poseería capacidad de acción pudiendo tomar providencias al respecto. Habida cuenta de que correspondía al contador principal reconocer los instrumentos de justificación en virtud de los cuales se efectuaban los pagos o satisfacían los créditos de las cantidades solicitadas por las partes a cargo del producto de Cruzada y su Tesorería General, en la instrucción también se especificaban con sumo detalle las formalidades que debían observarse en el despacho de dichas libranzas así como en esos instrumentos que los interesados deberían presentar ante la Contaduría para que fueran reconocidos por el contador y «dar paradero de las resultas en caso de tenerlas». De igual forma deberá llevarse un «libro de registro de la data del Tesorero», foliado y dividido en clases, con distinción de lo pagado por sueldos, asientos de vestuarios y víveres, gastos extraordinarios, pensiones, gastos de justicias y demás, donde quedarían anotadas las libranzas que despacharen y lo ejecutado en la clase correspondiente, rubricando el contador la copia que habría de hacerse acompañada de ciertos requisitos, archivándose luego por clases y meses. En la referida Contaduría Principal también deberían presentar sus cuentas anualmente, y era competencia del contador tomárselas, a los pagadores de los presidios y el de galeras o cualquier otro individuo implicado en la distribución de estos caudales. Se regulan asimismo con toda minuciosidad la manera en que debían hacerlo, así como los recaudos, relaciones, ajustamientos, revistas y demás justificantes necesarios para que en dicha oficina «se reconozcan y comprueben». También se especifica cómo tenía que justificar cada pagador las entradas y salidas de dinero y el modo de presentar los libros y las cartas de pago correspondientes ante el tesorero general, obligando a fenecerlas en el tiempo que estaba predefinido. En un cierto efecto complementario, de este modo la Contaduría quedaría informada «del giro y paradero» de dichos caudales y también de su disponibilidad, pudiendo «dar la razón y noticias que fueren convenientes a mi Real Servicio». Yendo incluso más allá, para no trabajar a ciegas y poder informar cuando lo requiriese el comisario general de los recursos existentes (dineros reales), y efectuar cualquier previsión de fondos, incluso antes de que dichos pagadores hubieran presentado y cerrado sus cuentas anuales, estos deberían presentar ante aquel relaciones mensuales precisas de los caudales recibidos y distribuidos, con distinción de las partidas intervenidas por los veedores de las plazas o el ministro respectivo inmediato de cada paraje. Y aquel, a su vez, debía remitir dicha información a la Contaduría Principal, «para que en ella se 336 La reforma del Consejo de Cruzada de 1745: preámbulo de su desaparición reconozcan y archiven a los fines que convenga», incluso para poder informar al comisario general cuando lo solicitase. En cuanto a la recaudación de los caudales de bulas, en manos de particulares que por asiento se obligaban a administrar durante un tiempo el producto de una o más provincias bajo ciertas condiciones y ventajas, la Contaduría Principal también debía llevar cuenta en un libro de la relación de esos administradores, en el cual cada uno tuviera formados sus pliegos de forma separada junto con la información relativa al asiento o contrato (fechas y principales circunstancias del mismo, cantidades que debía entregar y plazos) y a las partidas (o pagos) que fuese entregando (según el método establecido), para que al concluir el asiento o anualmente el contador principal pudiese informar al comisario general, y este u otra instancia competente providenciar lo que correspondiera. Igualmente, debía tener otro libro con lo que tenían que abonar los cabildos por el subsidio y excusado, así como las pensiones que cobraban de los obispados. Y un tercero con los despachos expedidos por el comisario general para la predicación de bulas y nombramiento de dependientes u otro personal de su incumbencia, con distinción por tipologías y fechas, para que de este modo la Contaduría estuviese puntualmente informada de «cuanto se causase y resolviese sobre todas las clases de despachos [o asuntos] de esta dependencia». Este esfuerzo por reunir toda la información contable del manejo de los caudales de Cruzada en la Contaduría Principal, para que quien estaba al frente la pudiese presentar regularmente o cuando fuere requerido al presidente del Consejo y a la cada vez más poderosa secretaria del Despacho de Hacienda56, se completaba con la obligación de aquel de tomar las cuentas anualmente a tesoreros y pagadores. Por eso los libros de cargo y data (descargo) debían ser anuales y el alcance de cada año debería ser anotado como primera partida en el del siguiente. Igualmente, estaba obligado a velar porque se cumpliesen todos los reglamentos y reales órdenes; distribuir las tareas, según su criterio, en «mesas» a cargo de los diversos oficiales de su estrado y supervisar sus papeles antes de entregarlos al secretario; así como fijar un horario de trabajo para el puntual despacho de las tareas encomendadas a cada uno, siendo ellos responsables de aquello que les encomendara, aunque no podían decidir nada sin la aprobación del contador. De otra parte, al contador también correspondía formar los cargos derivados de «los instrumentos 56 Cf. R. Torres Sánchez, La llave de todos los Tesoros. La Tesorería General de Carlos III, Sílex ediciones, Madrid, 2012, pp. 28-36. 337 María López Díaz y papeles que se le presentaren para la formación y despacho de libranzas, y de las quentas que liquidare», respondiendo con sus bienes de cualquier omisión que pudiera darse. Además, como en el reglamento se fijaba una «decorosa dotación de los sueldos» para los ministros y dependientes del Consejo acorde con su categoría, no pudiendo percibir ningún otro gaje o emolumento complementario, se le conminó a velar porque estas gratificaciones fijas que algunos venían percibiendo de los tesoreros de Cruzada y asentistas de presidios y de galeras en adelante las entregasen al tesorero general de Cruzada, despachándoles por ello las oportunas cartas de pago necesarias para la rendición de sus cuentas. Precisamente, la otra pieza clave de todo este engranaje contable era la Tesorería General de Cruzada. Al mismo tiempo que se fortalecía la figura del contador principal, centralizando en sus manos toda la información relativa al manejo y gestión de los fondos de las tres Gracias, que oportunamente debía poner a disposición de los órganos de decisión e instancias superiores de los Consejos del Cruzada y Hacienda, quebrando así la mayor relevancia y total responsabilidad que al respecto le atribuyeran al primero las Ordenanzas de 1694 y la posterior real orden de 172557, el nuevo decreto también precisaba o actualizaba el cometido del tesorero general ligado a los aspectos interventores y contables encomendados al contador general y su oficina. No en vano debía proporcionarle una parte importante de la información requerida para ello. En concreto, estaba obligado a percibir todos los ingresos relativos al fisco de Cruzada, despachando las cartas de pago correspondientes a quienes hicieran las entregas según las órdenes que diera el comisario general, y llevar un libro de registro al efecto con toda la información detallada. En esas cartas de pago debía constar la obligación de presentarlas al comisario general para que las «vise» y en la Contaduría Principal para que esta tomara razón de ellas y formara el cargo correspondiente. De igual forma debería tener su data en libranzas o partidas de descargo de lo recaudos percibidos, con las formalidades señaladas en los artículos y puntos referidos a la Contaduría Principal. Todo ello asentado en otro libro, el de pagamentos, donde habrían de constar los instrumentos u órdenes en virtud de los cuales se hacían. A los dos anteriores, aún añadiría un tercero: el «prontuario de caxa» con la anotación diaria del dinero que recibía y distribuía. Además de encargarse de la dirección de la Tesorería General, para las tareas de comprobación y control de los recursos de Cruzada, el tesorero general debería presentar a la Contaduría Principal el / los 57 Cf. J. Fernández Llamazares, Historia de la Santa Bula de Cruzada cit., p. 205; J.M. Marchena Giménez, La vida y los hombres de las galeras cit., p. 38. 338 La reforma del Consejo de Cruzada de 1745: preámbulo de su desaparición libro/s requerido/s siempre que el comisario general mandara «formar tanteos o confrontar partidas» con los de cuenta y razón, que por su parte se confeccionaban en dicha contaduría; y de manera regular cada mes para hacer la verificación (entradas y salidas) y elaborar las «relaciones» correspondientes. También debía examinar las libranzas para ver si cumplían todos los requisitos formales establecidos, y si encontraba algún defecto o alteración tenía que notificárselo al contador principal para su corrección, pues por su única autoridad no podía hacerlo. Como tampoco podía anticipar ni prestar dinero, sino mediante instrumento o documento formado por el contador principal y que autorizase el comisario general. En lo concerniente a contabilidad, estaba obligado a presentar las cuentas de cada año en el siguiente ante el Tribunal de la Contaduría Mayor de Cuentas para su supervisión, junto con los documentos justificativos de las distintas partidas que las componían, debiendo recoger para su resguardo las certificaciones del finiquito de las que se registrarían copias en la Contaduría Principal de Cruzada. En cuanto a la provisión del cargo de tesorero general, igual que el contador principal, era designado por el rey, tenía mandato temporal y asiento en el Consejo. Para ello, contando con la conformidad del comisario general, se le «formaba asiento» en la Contaduría Principal, un documento donde constaban las condiciones a que estaba sujeto durante su ejercicio, los honores y demás prerrogativas que le eran concedidas; todo ello previa presentación y aprobación de las fianzas oportunas. Aunque no se explicita, de la nueva disposición se desprende que para el desempeño de sus tareas podía contar con oficiales que nombraba y cesaba a conveniencia, pues era él mismo quien pagaba sus sueldos con cargo a los 6.000 escudos que tenía de dotación anual. Fue el primer tesorero general designado por el monarca en aplicación del nuevo reglamento don Juan Sesma, caballero de la Orden se Santiago, el cual no aceptó el oficio58, siendo nombrado luego Nicolás de Francia. Este procedía del tribunal de la Contaduría Mayor de Cuentas (Consejo de Hacienda) y afianza el cargo en bienes y dinero por valor de 200.000 ducados59. Un paso más en este proceso de control e intervención sobre los recursos de Cruzada y demás rentas agregadas a que va dirigido el decreto de 8 de noviembre de 1745 se da unos meses después, coincidiendo con la puesta en marcha de la nuevamente creada Contaduría Principal de Cruzada, cuando su máximo responsable, el contador general, se arroga, amparándose en la propia disposición, el 58 59 Ahn, Consejos, lib. 2620, ff. 158r, 175r. Ivid, ff. 189-190v. 339 María López Díaz derecho a conocer privativamente en materia de revisión de cuentas (de los tesoreros y pagadores de presidios y galeras), del manejo y distribución de los caudales de Cruzada, así como la consiguiente «asesoría» al Consejo en la toma de decisiones al respecto; y, a la inversa, excluye de ese conocimiento al fiscal del Consejo de Cruzada, a quien antes correspondiera esta tarea, limitando su intervención a aquellas causas en que hubiese agravio a terceros, o sea, a los asuntos puramente judiciales. Cabía discutir la presunción del derecho privativo a favor del contador sobre la fiscalización de esas cuentas, porque en el texto del mencionado documento no se especificaba nada e iba «en contra de la práctica observada», como observaba el fiscal del Consejo en sus representaciones y reclamaciones ante el Tribunal y el mismo rey, insistiendo en que se vulneraban sus derechos y se le recortaban atribuciones; apuntando incluso que, con este modo de proceder, pretendía la nueva Contaduría «ser absoluta» y tener «la independencia que parece se quiere atribuir a las de Marina»60. Pero la monarquía no parece dispuesta a dar marcha atrás en la línea emprendida. Antes bien al contrario: con el nuevo esquema se procura separar lo que tocaba a «regir y gobernar la Hacienda de la Republica», que incluía la rendición, liquidación y comprobación de sus cuentas (gobierno), competencia exclusiva de tesoreros y el contador general, de lo estrictamente judicial (agravios y litigios entre partes), que atañe al Tribunal (Consejo de Cruzada) y su procurador fiscal (que representa los intereses del fisco). El resultado fue una nueva disposición real de 25 de mayo de 1746 por la que se apartó, ya formalmente, al fiscal del Consejo de la mencionada revisión e inspección de cuentas61. En suma, con la sustitución de las dos Contadurías Mayores de Cruzada por una única Contaduría, cuyo recién creado contador principal o general habría de trabajar en estrecha colaboración tanto con el comisario general como con el resto de oficios implicados en el manejo y distribución de los dineros de Cruzada dentro y fuera de la corte (tesorero general, pagadores y depositarios), tuvo lugar una profunda remodelación en el control de estos fondos. Y no solo porque cambiara el método contable, que también, sino porque se establece un nuevo esquema merced al cual debería registrarse, averiguar y centralizar toda la información concerniente a estos caudales 60 Ahn, Consejos, lib. 2626, ff. 48v-63r (56r-56v). Que yo sepa no hay investigaciones que aborden de forma específica la vertiente económica de la Marina, pues la bibliografía conocida suele centrase en otras cuestiones; por ejemplo, la clásica obra de C. Fernández Duro, Armada española desde la unión de los Reinos de Castilla y Aragón, Tip. Suc. Rivadeneyra, 1895-1903, es. t. VI (1900). Cito por copia que puede consultarse en red: http://bibliotecadigital.jcyl.es/ 61 Ahn, Consejos, lib. 2620, ff. 187v-188. 340 La reforma del Consejo de Cruzada de 1745: preámbulo de su desaparición (excluidos los de Indias con contadurías propias62) en un único punto o negociado, la Contaduría Principal de Cruzada. Con ello se potenciaba la figura del contador general que, según la nueva instrucción, debería ser informado de forma regular, pudiendo reclamar esa información si no se la aportaba, y velar porque esta fluyese con rapidez y eficacia, en estrecha conexión y correspondencia con el comisario general y también con el secretario del Despacho de Hacienda, quien igualmente podía intervenir y dar órdenes concernientes al asunto por su condición añadida de secretario de Guerra-Marina. Sin duda, era un paso esencial en la unificación de los caudales del Real Erario, incluyendo entre ellos los de las tres Gracias. El camino de unificación de las contabilidades se completaba con la fiscalización y aprobación de las cuentas del tesorero general de Cruzada por el tribunal o sala de la Contaduría Mayor de Cuentas. 3. La “nueva planta” del Consejo de Cruzada: la plantilla y el escalafón Simultáneamente a la reforma anterior, el decreto de 8 de noviembre de 1745 llevaba aparejado un estricto plan de ajuste de salarios y plantilla del Consejo de Cruzada, con el que se pretendía «moderar» en lo posible los gastos ordinarios derivados de su funcionamiento. Había precedentes en otros organismos, como la reforma administrativa llevada a cabo en el Consejo de Guerra en 174463. Y no es el único caso. Cinco años después, en 1749, Ensenada reformó también la planta de la corte con el fin de reducir gastos, repitiendo así una acción que ya había ensayado en Nápoles diez años antes su amigo Montealegre64. En el caso del Consejo de Cruzada, con similar criterio, se redujo el número de puestos y empleos disponibles, aboliendo todos aquellos que no figuraban en la «nueva planta». Además, se fijaron unos nuevos salarios, más elevados para los ministros de mayor rango. Pero en contrapartida fueron anulados los derechos y gajes que algunos venían percibiendo como «goce fijo» complementario, unas gratificaciones adicionales que en ocasiones sumaban cantidades muy substanciosas. BXUSC, Fondo antiguo, Foll. 49-28; Foll. Carp. 51-11. Cf. J.A. Escudero, La reconstrucción de la Administración cit., pp. 169-170; más específicamente, F. Andújar Castillo, Consejo y consejeros de Guerra cit., pp. 57-58; o J.C. Domínguez Nafría, El Real y Supremo Consejo de Guerra cit., pp. 215-222. 64 C. Gómez-Centurión Jiménez, La reforma de las casas reales del Marqués de la Ensenada, «Cuadernos de Historia Moderna», 20 (1998), pp. 59-83; J.L. Gómez Urdáñez, El proyecto reformista de Ensenada, Lleida, Milenio, 1996, pp. 223-226. Y sobre la corte de don Carlos de Nápoles, véase P. Vázquez Gestal, `The System of This Court : Elisabeth Farnese, the Count of Santisteban and the Monarchy of the Two Sicilies, 1734-1738, «The Court Historian», XIV/1 (2009), pp. 23-47; E. Papagna, La corte di Carlo di Borbone il re “propio e nazionale”, Guida, Napoli, 2011. 62 63 341 María López Díaz Asimismo, se distinguen las categorías del personal desde oficial mayor o jefe de oficina hasta los de nivel inferior, jerarquizándolas y buscando la especialización para las tareas que así lo requerían. Y, por último, se centraliza toda resolución sobre el personal en manos del rey: a él correspondía la creación de plazas y también la provisión y/o nombramiento del personal. Desde el punto de vista orgánico dos fueron los principales cambios. El primero, substancial, la mencionada supresión de las dos Contadurías Mayores con sus respectivas mesas o puestos y su sustitución por una única Contaduría Principal, al frente de la cual se sitúa el contador general. Los dos oficios de contador mayor suprimidos, igual que el resto de los extinguidos que estaban enajenados o concedidos por servicio pecuniario, serían incorporados a la Corona con la correspondiente indemnización o devolución a sus titulares de las cantidades abonadas (por ellos o sus «causantes») y los intereses devengados hasta la fecha del cese65. Y el segundo atañe a los «futurarios» y «supernumerarios»; es decir, aquellos que no tenía la plaza «en propiedad» (titulares) sino que estaban a la espera de una vacante para poder ocuparla: prácticamente desaparecen. En realidad este tipo de puestos ya habían sido eliminados por la reforma de 169166, pero la medida no llegó a aplicarse en la práctica. Prima la necesidad de dinero y, lo más importante, no podía hacerse sin coste para la Real Hacienda. Aparentemente, esto cambia con la llegada al trono de Felipe V, quien aprueba nuevas leyes de incorporación y crea órganos o juzgados específicos para llevar a cabo el proceso. Y, en efecto, algo se avanzó pero cuantitativamente poco67. Además, el propio monarca en determinadas coyunturas concede puestos de este tipo68. Con lo cual sigue habiéndolos, aunque en el reglamento de 1745 no se haga mención expresa al asunto. No obstante, de manera significativa, 65 El proceso de reversión de dichos oficios, particularmente el de los dos contadores mayores, fue largo en el tiempo y complejo en su desarrollo. No obstante, tiene sumo interés tanto desde el punto de vista jurídico como político. Es otro asunto en el que ahora no puedo detenerme, pero que espero poder desarrollar en un próximo trabajo. Sobre el marco legal y alguna noticia al respecto, M. López Díaz, Legislación y doctrina de los oficios en España: el proceso de (re)incorporación a la Corona, in R. Stumpf y N. Chaturvedula (eds.), Cargos y ofícios nas monarquías ibéricas (séculos XVII e XVIII): provimento, controlo e venalidade, Centro de História de Além-mar, Lisboa, 2012, pp. 211234; y para mayores detalles, ídem, Política de incorporaciones regia y derechos adquiridos: doctrina y práctica jurídica en la España de los primeros Borbones, in M. Rivero Rodríguez, C. Camarero Bullón y M. Luzzi Traficante (coords.), El nacimiento de la conciencia europea (1650-1750), Madrid, 2015 (en prensa). 66 Ahn, Consejos, lib. 2613, ff. 198v-199r. 67 Para un caso, Ahn, Consejos, leg. 7465, exp. 4. Y desde perspectiva general y formal, cf. M. López Díaz, Legislación y doctrina cit. 68 E.g., en 1740 otra portería supernumeraria del Consejo de Cruzada. Ahn, Consejos, leg. 7465, exp. 4. 342 La reforma del Consejo de Cruzada de 1745: preámbulo de su desaparición en la nueva planta solo aparecen dos puestos supernumerarios (dos alguaciles). Fernando VI intenta ir más allá con el asunto de los derechos comprometidos para el porvenir: a poco de ser investido, por una resolución de agosto de 1746, anuló las «futuras» de todos los empleos del Consejo de Cruzada. Lo cual no impedía que a la larga sus titulares no acabaran obteniendo el oficio sobre el que tenían adquirido ese derecho, pues simultáneamente en la misma ley ordenaba que en la terna de propuestos para los cargos se incluyeran los nombres de quienes las poseían junto con sus merecimientos69. De lo cual se deduce que solo perseguía paliar, hasta donde fuera posible, los efectos del problema, y sobre todo adoptar precauciones ante las nada improbables reclamaciones de los afectados conceptuadas en términos patrimoniales («derecho de propiedad») frente al dominio o «derecho de soberanía» reconocido al monarca. Aun así, para lo que aquí nos interesa ello no modifica, pues no afecta, la plantilla estable. Y esta, igual que los gastos de personal, sigue siendo relativamente reducida si la comparamos con la de otros consejos70: poco más de cuarenta y cinco personas71 (cuarenta y siete con los dos supernumerarios que se mantienen), incluyendo en dicho cómputo los cuatro empleados de fuera de la corte, tal y como se refleja en la tabla I. Al frente del Consejo de Cruzada estaba el comisario general, nombrado por el rey y confirmado por la Santa Sede, que no solía titularse presidente aunque lo era, queriendo anteponer así la superioridad de la jurisdicción eclesiástica a la real72. Como ya señalé, tenía un papel preponderante y amplísimas atribuciones73. Dado que Ahn, Consejos, lib. 2620, ff. 203r-204r. Cf. para Consejo de Castilla (J. Fayard, Los miembros del Real Consejo de Castilla (1746-1788), «Cuadernos de Investigación Histórica», 6 (1982), pp. 109-137; Los miembros del Consejo cit., pp. 388-406), Consejo de Hacienda (T. García-Cuenca, El Consejo de Hacienda cit., pp. 405-500; esp. para 1760, p. 478; o Juan de la Ripia, Práctica de la administración y cobranza de las rentas reales, y visita de los ministros que se ocupan de ellas, [editado] por el Licenciado Diego María Gallárd, Madrid: en la Oficina de don Antonio Ulloa, 1795-1805, 6 vols., vol. 3, pp. 168 y 169) o para el suprimido Consejo de Aragón (J. Arrieta Alberdi, El Consejo Supremo cit., pp. 335-408). Y en lo tocante a las Secretarías de los Consejos, véase G.A. Franco Rubio, Reformismo institucional y élites administrativas, in J.L. Castellano, J.-P. Dedieu, M.V. López Cordón (eds.), La pluma, la mitra y la espada. Estudios de Historia Institucional en la Edad Moderna, Marcial Pons, Madrid, 2002, pp. 95-129, y bibliografía cit. supra, nota 9. 71 En el reinado de Felipe III eran 17 personas. Cf. J.E. Hortal Muñoz, El Consejo de Cruzada cit., pp. 105 sgg. 72 J. Fernández Llamazares, Historia de la Santa Bula cit., pp. 126-127. 73 A este respecto véase, por ejemplo, la aproximación al tema de G. González Dávila, Teatro de las Grandezas de Madrid cit., p. 250; y F.J. Fernández Llamazares, Historia de la Santa Bula cit., pp. 124 sgg. Sobre la creación del cargo, H. Pizarro Llorente, La pugna cortesana por el control cit., pp. 160-161.Y para Cruzada en Indias, J.A. Benito Rodríguez, La bula de Cruzada en Indias cit., pp. 117-118. 69 70 343 María López Díaz Tab. I - Planta del Consejo de Cruzada, 1745. Ministros, oficinas e retribuciones Plazas u oficios «Mesa» del Consejo Número de empleados Retribución anual de la plantilla, en ducados (sueldo por oficio) Comisario general 1 8.000 Asesores 3 2.700 (900) Gran chanciller 1 4.000 Contador general 1 3.000 Alguacil mayor 1 3.000 Fiscal 1 3.600 Tesorero general 1 6.000! Secretario del Consejo 1 4.000 Contaduría Principal 7 5.580 Secretaría del Consejo 3 2.100 Secretaría de la comisaría general 3 1.950 Relatores 3 1.750 Oficinas y oficiales Personal técnico y/o especializado Personal subalterno Escribanías de cámara 2.030 (1.090+940)# Secretario de traducción de breves 1 400 Capellán del Consejo 1 110 Agente de Cruzada de Indias 1 250 Abogado de pobres 1 20 Porteros 3 900 (300) Alguaciles (supernumerarios) Personal fuera de la corte 2+4" 2 (+2) 150 (30+30)4 Jueces de comisión (Toledo y Valladolid) 2 440 (220) Notario en Sevilla 1 147 Fiscal en Barcelona 1 56 Fuente: Ahn, Consejos, lib. 2620, ff.160r-163r. Notas: !Remuneración «para sí y sus oficiales». "Dos son los escribanos de cámara y cuatro sus oficiales, dos por cada escribanía. #Entre paréntesis la primera cantidad corresponde al sueldo de las dos escribanías, la segunda a los cuatro oficiales. 4En el cómputo global van incluidos los salarios de los dos supernumerarios, entre paréntesis solo los de estos últimos. 344 La reforma del Consejo de Cruzada de 1745: preámbulo de su desaparición las remuneraciones de los diferentes ministros tendían a reflejar su grado de dedicación, por esas altas responsabilidades se le consignaba el salario más elevado entre los ministros del Consejo: 8.000 escudos (88.000 reales) anuales, pero sin derecho a percibir gajes ni ninguna otra retribución adicional. Una cantidad que, sin embargo, estaba muy por debajo de los 18.400 ducados que en 1715 percibía el entonces presidente único del Consejo de Castilla o de las remuneraciones de los embajadores y ministros plenipotenciarios o enviados durante la primera mitad de este siglo, propinas, colaciones y otras gratificaciones aparte74, pero por encima de lo cobrado por algunos de sus homónimos de los otros consejos y tribunales75. El cuadro superior del Consejo se completaban con tres asesores (dos consejeros del Consejo de Castilla «por lo que toca a estos Reyno» y uno del de Indias «por las Occidentales»76), el gran chanciller, el contador general (con asiento de consejero), un fiscal (que formaba parte del tribunal pero también intervenía en otros asuntos), el alguacil mayor y el tesorero general (igualmente con honores de ministro), a todos los cuales el decreto regulador les fijaba unos sueldos nada desdeñables, entre los 3.000 y 4.000 escudos anuales. Solo en dos casos difieren: el de los consejeros asesores, con un complemento de 900 (9.900 reales) cada uno que sumarían a su remuneración del Consejo de procedencia, y el tesorero general al que se señalaban unas retribuciones casi tan elevadas como las del comisario general, nada menos que 6.000 ducados anuales, aunque debía abonar los salarios de los oficiales empleados. Como en el caso anterior, les quedaba prohibido percibir otros emolumentos en concepto de «propinas, aposentos y luminarias». Además de los miembros de las salas de plenario, el Consejo para el desarrollo de su actividad contaba con tres oficinas o «estrados». La primera, la Contaduría Principal, al frente de la cual estaba el contador principal. Según el nuevo decreto, se componía de un oficial mayor 74 J. Fayard, Los miembros del Consejo cit., pp. 139-140. D. Ozanam, La diplomacia cit., pp. 177-182. 75 Así, por ejemplo, al consejero decano del Consejo de Guerra el decreto regulador de 1714 le reconoció un salario anual de 6.000 escudos y a los consejeros 4.500, cantidad esta última que otra disposición de 1715 jerarquizó desde los 6.000 a los 4.000 según cual fuera su titulación (capitanes generales del Ejército o la Armada, militares o togados). Véase J.C. Domínguez Nafría, El Real y Supremo de Guerra cit., pp. 357-358. 76 Con anterioridad a la supresión del Consejo de Aragón en el de Cruzada había un cuarto consejero representándolo «por su Corona, por el [Reino] de Sicilia y las Islas adyacentes», y las remuneraciones de los consejeros de Castilla eran el doble que las de los otros dos (100.000 maravedíes los primeros y 50.000 los segundos). Cf. «Gran Memorial» en J.H. Elliot, J.F. De la Peña (eds.), Memoriales y cartas del Conde Duque de Olivares, Madrid, Centro de Estudios Europa Hispánica- Marcial Pons, 2013 [nueva edición ampliada y revisada; 1.ª ed.: 1978 (I) y 1982 (II)], vol. I, p. 86. 345 María López Díaz (que percibiría un sueldo de 1.500 ducados anuales), otro segundo (1.200 por plaza), dos terceros (900) y tres «entretenidos» (360); en total siete empleados en vez de los doce que había en las contadurías extinguidas. Por su parte, en la secretaría del Consejo solo tenían cabida tres personas (un oficial mayor, otro segundo y un «entretenido»), que además estaban peor pagados que los empleados anteriores aún siendo del mismo rango, salvo en el caso del aspirante (1.100, 600 y 400 ducados, respectivamente). Con similar criterio la secretaría del comisario general solo tenía al frente un secretario, que era asistido por dos mesas o plazas (un oficial mayor y otro segundo), todos ellos con unas retribuciones sensiblemente inferiores a las de sus colegas de los otros departamentos de la administración central77 (1.200, 450 y 300, respectivamente). La plantilla de personal se completaba con tres relatores (uno 1.º, otro 2.º y un agente fiscal) con sueldos que oscilaban entre los 1.000 y 300 ducados anuales; dos escribanos de Cámara (1.º y 2.º) con sus respectivos oficiales (mayor o 1.º y 2.º) y algunos técnicos o especialistas como el (secretario) traductor de breves, el capellán del Consejo, el agente de Cruzada en Indias y el abogado de pobres78, además del personal subalterno inferior (tres porteros, dos alguaciles menores numerarios y otros dos supernumerarios). En conjunto dependientes y empleados subalternos sumaban poco más de 30 (31) personas (32 con los dos alguaciles supernumerarios con haberes a cuenta de Cruzada), 34 con el personal de fuera de la corte; unas cifras muy alejadas de las 144 de que por ejemplo disponía el Consejo de Castilla en el siglo XVIII, sin contar el personal inferior de las escribanías79. Conviene subrayar que en ningún caso se contabilizan otros personajes u oficios, que se movían en la órbita de estos organismos actuando como intermediarios entre estos y los litigantes, como los procuradores de número, los notarios, los agentes de negocios en la corte o, en fin, los abogados, pues no eran oficios ministeriales que formaran parte de la plantilla del Consejo (de hecho no percibían remuneración a su cargo) por más que tuvieran formación y acreditaran competencias regladas por la Corona80 o que algunos 77 Para las mesas y oficiales de la Primera Secretaría del Estado, vid. D. Ozanam, La diplomacia cit., pp. 171-172; y para la del Estado y Despacho de Marina, creada en 1721, G.A. Franco Rubio, Reformismo institucional cit., pp. 105-111. 78 Sobre las retribuciones de estos dependientes véase cuadro 1. Y para comparación de plantilla y salarios percibidos por los ministros de la mesa de otros Consejos, como por ejemplo el de Aragón en los años 1690, cf. J. Alberdi Arrieta, El Consejo Supremo cit., pp. 255-259. 79 J. Fayard, Los miembros del Consejo cit., p. 25. 80 Para los empleos curiales, por ejemplo, véase, entre otros, J. Martínez Gijón, Estudios sobre el oficio de escribano en Castilla durante la Edad Moderna, in AA.VV., 346 La reforma del Consejo de Cruzada de 1745: preámbulo de su desaparición estuvieran presentes durante la lectura de la demanda de sus clientes y de la memoria del relator. Volviendo sobre las razones de la remodelación orgánica, según el propio decreto el efecto más importante de la misma sería el ahorro logrado para la Real Hacienda tanto de la supresión de las dos Contadurías Mayores y reajustar la planta del Consejo como de regular las retribuciones de sus empleados. En la práctica no era el único objetivo; según el pleno del mismo y los principales afectados, nunca la causa para introducir cambio alguno, sino una consecuencia y además de poca entidad. Así lo manifiestan en las representaciones, protestas y consultas que elevan al monarca en los meses posteriores a su aprobación. Tan es así que por orden de 9 de enero de 1746 el propio Felipe V pidió al Consejo la copia de los títulos de los empleos de contadores y tesorero de Cruzada suprimidos, los autos de lesión de venta seguidos contra sus titulares y el breve papal de confirmación de las enajenaciones de estos oficios, junto con un informe del «coste» que tenía para el fisco de Cruzada la planta antigua con las dos Contadurías Mayores y una Tesorería, y lo que suponía la planta moderna con una sola Contaduría y una Tesorería81. Un cotejo que el Consejo remite anexo a una consulta elevada al rey el 22 de febrero y que volverá a enviar el 6 de marzo82, mostrando en un gráfico cuadro que el supuesto «ahorro» y «utilidad» apenas superaba los 3.000 ducados (33.571 reales y 13 maravedíes); una cuantía de la que aún deberían detraerse determinadas partidas que hasta entonces estaban obligados a pagar los contadores y tesorero suprimidos83, así como los réditos del capital que, según el decreto regulador, la Real Hacienda debía abonar por la incorporación de sus oficios a los dos antiguos contadores mayores84; siendo así –concluía el informe– que «no sale más beneficio» de la nueva planta que 16.802 reales y 33 maravedíes. Y aun esto, decían, «no se puede considerar por ahorro», pues en la planta antigua había gastos (como la publicación de bulas de los reinos Centenario de la Ley del Notariado. Sección primera, Estudios Históricos, 2 vols., Junta de Decanos de los Colegios Notariales de España, Madrid, 1964, vol. I, pp. 263-340; J. Bono y Huerta, Historia del Derecho notarial español, 2 vols., Junta de Decanos de los Colegios Notariales de Español, Madrid, 1979 y 1982. 81 Ahn, Consejos, lib. 2626, ff. 29v-30r (Consejo de 22 de febrero de 1746). Sobre la información que le aportan algunos de los afectados, lib. 2613, ff. 185r-188r, 192r, 244v. 82 Ahn, Consejos, lib. 2626, ff. 30v-33r (Consejo de 5 de marzo de 1746). 83 Alude en concreto a los derechos que Cruzada debía recibir de los tesoreros de bulas, que unas con otras partidas daban un beneficio anual de 107.192 reales y 33 maravedíes. 84 Sobre un capital de 3 millones 130.000 reales, en que se estimaba que estaban enajenados según los afectados, al respecto de un 3%, suponían los intereses 90.390 reales. Para más información sobre el marco legal y el proceso de incorporación de estos oficios al Real Patrimonio, vid. supra, nota 65. 347 María López Díaz de Perú y Nueva España) que el mismo fisco se hacía pagar después en dichas provincias y en la nueva cargos antes inexistentes, como los 4.500 reales que percibirían los contadores de resultas por la concurrencia que tenían con los de Cruzada en la toma de sus cuentas85. Todo lo cual denotaba, según el pleno del Consejo, el pobre «beneficio pecuniario» obtenido con la reforma y la «ninguna utilidad que se sigue de que una Contaduría no tenga comprobación alguna [por otra Contaduría, tal y como ocurría en la planta antigua, en que la verificación era reciproca entre ambas las dos]»86, dejando entrever con ello que la medida no buscaba solo –o no tanto– moderar el gasto e incluso mejorar la gestión contable de las rentas eclesiásticas sino que las razones podía ser, como en efecto ocurría, otras. 4. A modo de conclusión De lo expuesto hasta aquí se deduce que la reforma del Consejo de Cruzada efectuada por el decreto de 8 de noviembre de 1745 no fue una simple remodelación de su planta. Se justifica, igual que las acometidas en algunos otros organismos y consejos por estos años, en base al ahorro y a que con el nuevo esquema se pudiera atender adecuadamente su ocupación, corrigiendo simultáneamente algunos de los abusos y corruptelas del pasado. Pero detrás había una clara intencionalidad política. En su caso un proyecto de más largo alcance que cuaja y se va poniendo al descubierto conforme se ejecuta, y sobre todo con las nuevas medidas tomadas durante el reinado de Fernando VI. Más allá de esto, hacer una valoración global que responda a los interrogantes planteados en la introducción es tarea difícil, pues se trata de un tema con muchas aristas no solo por los diversos actores y agentes implicados, sino también por la singularidad de la institución estudiada (Cruzada y las rentas agregadas aúnan dos jurisdicciones e implica a dos poderes, el eclesiástico y el real) y por el primigenio destino finalista (por lo menos sobre el papel) de estos fondos. Añádase que la cronología del tema analizado concatena dos reinados (los últimos meses del de Felipe V y primeros de su sucesor), ubicándose en unos años especialmente complejos desde el punto de vista político, pues en ellos se va a dar un carácter irreversible al proceso de cambio que venía gestándose desde las décadas anteriores. Aun así, de lo 85 Una cantidad muy alejada de los 100.000 reales en que el nuevo contador principal, Feliciano de la Vega, cifraba el ahorro logrado en Cruzada con la nueva planta (Ahn, Consejos, lib. 2613, f. 244v). En todo caso, según otros documentos, faltaban 935 reales y 11 maravedíes (Ivid, lib. 2626, ff. 29v-30). 86 Ahn, Consejos, lib. 2626, ff. 30v-33r (Consejo de 5 de marzo de 1746). 348 La reforma del Consejo de Cruzada de 1745: preámbulo de su desaparición expuesto pueden extraerse algunas conclusiones que más bien son unas reflexiones o valoraciones finales. La primera es de carácter general, y está en el fondo de la providencia analizada: el Consejo de Cruzada controlaba la cobranza de los fondos de Cruzada y ramos agregados, y estos ingresos, si bien no son los más importantes, tampoco eran cuestión menor para la Real Hacienda. Basten los siguientes datos: Según la relación de valores líquidos que produjeron todas las rentas del rey en el año 1742 cotejados con lo que rindieron en 1750 de Miguel Múzquiz y Goyeneche, que se adjunta a la Representación que el marqués de la Ensenada presentó a Fernando VI en 1751, «Cruzada, subsidio y excusado» aportó en la primera fecha 577.773.455 maravedíes y en la segunda, 692.781.197; cifras que suponen un 7,87% y 7,62%, respectivamente, del total del presupuesto, ocupando en ambos años la quinta posición por detrás de las rentas provinciales, la renta del tabaco, el equivalente y rentas patrimoniales de la Corona y las rentas generales y sus agregados87. Quiero decir con ello que detrás del reglamento hay una gama de intereses políticos pero también económicos, pues hablamos de unos recursos nada despreciables. Pero es que además con las medidas adoptadas se busca, por un lado, incrementar la recaudación (nueva planta) y, por otro, avanzar en el control y la secularización de la administración de estos fondos, centralizando toda la información contable del ramo (ingresos y gastos) en una única Contaduría Principal; una información que se pone bajo la lupa del comisario general pero también del secretario del Despacho de Hacienda y unas cuentas que fiscaliza la Contaduría Mayor de Cuentas. Todo ello, conviene recordar, en detrimento del Consejo de Cruzada y de su presidente el comisario general88, en última instancia de la jurisdicción eclesiástica. Siendo así que la reforma tampoco se puede desligar de los planteamientos regalistas del 700 y, más en particular, de las relaciones entre la iglesia hispana y la Corona durante las décadas centrales del siglo y a más 87 D. Ozanam, Representación del marqués de la Ensenada a Fernando VI (1751), «Cuadernos de Investigación Histórica», 1980 (4), pp. 67-124 (108). Los cálculos porcentuales son nuestros. 88 Para marco y contexto de gruesos trazos en lo que atañe a la política fiscal de la Monarquía, amén de las obras citadas en nota 4, siguen siendo útiles los trabajos de R. Pieper, La Real Hacienda bajo Fernando VI y Carlos III (1753-1788). Repercusiones económicas y sociales, Ministerio de Economía y Hacienda – Instituto de Estudios Fiscales, Madrid, 1992; y J.-P. Dedieu y J.I. Ruiz, Tres momentos en la historia de la Real Hacienda, «Cuadernos de Historia Moderna», 15 (1994), pp.77-98 (es. p. 85 sgg). Y entre la bibliografía más reciente, M.C. Angulo Teja, La Hacienda española en el siglo XVIII. Las rentas provinciales, Centro de Estudios Políticos y Constitucionales, Madrid, 2002, es. cap. I con la bibliografía que allí se cita; y en cuanto a resultados prácticos, J. Jurado, El gasto de la Hacienda española durante el siglo XVIII. Cuantía y estructura de los pagos del Estado (1703-1800), Instituto de Estudios Fiscales, Madrid, 2006. 349 María López Díaz alto nivel entre Madrid y la Curia. No en vano en 1753 se firma el Concordato de 1753 con lo que ello supuso89. La segunda, ligada a la anterior, atañe a la nueva Contaduría Principal que refunde el cometido de las dos suprimidas, con un director (el contador general) designado por el rey con un mandato limitado e importantísimas competencias. De hecho, controla y centraliza toda la información en materia de cuentas, manejo y distribución de los fondos de Cruzada, operando con total independencia del Consejo en la línea de las de Marina. Solo estaba obligada a informar con regularidad o cuando lo requiriera al comisario general pero sobre todo al secretario del Despacho de Hacienda, que lo es Ensenada. Este, como Campillo, también ejercía juntamente –y no es casual– las de Guerra, Marina e Indias, asegurándose de este modo el control del sistema. Tampoco lo es que todos los decretos y reglamentos relativos al asunto lleguen al Consejo de la mano del mencionado secretario del Estado y del Despacho; que como tal tenga capacidad de intervención y ciertas prerrogativas en la gestión de estos caudales, o que fuera un gran conocedor del funcionamiento del Cuerpo del Ministerio y órganos de gobierno de la Marina, no en vano había desarrollado en ella buena parte de su carrera90. Y ya en clave 89 La historiografía sobre el escurridizo concepto de regalismo borbónico, el reformismo de la Iglesia a finales del XVIII así como sus referentes filosóficos y religiosos es profusa y ha avanzado de manera considerable desde los ya lejanos y subjetivos trabajos de Menéndez Pelayo que dedicara el libro VI de su Historia de los heterodoxos españoles (Madrid, 1966) al tema. Obvio referencias, que exceden al asunto que nos ocupa. Tan solo diré que los estudios de Rafael Olaechea, Antonio Mestre, Teófanes Egido o Emilio La Parra y más recientemente los de Antonio Luis Cortés Peña siguen siendo un punto de partida imprescindible para el análisis de los reinados de Felipe V y Fernando VI en general y, particularmente, de los decenios centrales en este sentido. En concreto para el asunto aquí estudiado cabe mencionar asimismo a otros autores que se han ocupado de cómo los Borbones trataron el tema de la Iglesia, tanto desde el punto de vista teórico (cultura católica) como práctico, así como de las dicotomías y/o debates a que dieron lugar o su proyección en los primeros estadios del constitucionalismo y experiencia política decimonónica hispana. En el primer aspecto, el del discurso, ver por ejemplo el trabajo de José María Portillo ya citado en nota 47; y para alcance en el contexto de la revolución constitucional en la misma línea, del mismo autor, Revolución de nación. Orígenes de la cultura constitucional en España, 1780-1812, Centro de Estudios Políticos y Constitucionales, Madrid, 2001; y en el plano práctico, merece destacarse la síntesis de P. Ruiz Torres, Reformismo e Ilustración, en J. Fontana, R. Villares (dirs.), Historia de España, vol. 5, Crítica – Marcial Pons, Barcelona, 2008; Ídem, Los límites del reformismo del siglo XVIII en España, in J. Albareda Salvadó, M. Janué i Miret (eds.), El nacimiento y la construcción del Estado moderno. Homenaje a Jaume Vicens Vives, PUV, Universitat de València, Valencia, 2011, pp. 11-150 con la bibliografía referida. 90 Para datos véase J.L. Gómez Urdáñez, El proyecto reformista de Ensenada cit., pp. 59-81. Sobre su nombramiento y ejercicio como secretario del Almirantazgo, C. Pérez Fernández-Turégano, El Almirantazgo del Infante don Felipe (1737-1748). Conflictos y competencias con la Secretaría del Estado y del Despacho de Marina, «Anuario de Historia del Derecho Español», LXXIV (2004), pp. 409-476. 350 La reforma del Consejo de Cruzada de 1745: preámbulo de su desaparición personal, también es significativa su alta estimación de las contadurías generales y fiabilidad respecto a sus certificaciones. Quiero decir con ello que probablemente no solo fue el directo responsable de la reforma sino también su ideólogo. Una reforma que ahonda en una línea de relegamiento del Consejo de Cruzada que parece venir de antes – cuanto menos de la etapa de Patiño, que lo coloca bajo el control de la secretaría de Justicia y Gobierno Político que dirige91– y que se consumará pocos años después con su desaparición. La tercera observación incide en la vinculación existente entre los ramos de Marina y Cruzada, a que aludía el fiscal del tribunal en su réplica a las providencias que le impedían hacer la «semanería» o revisión de los despachos relativos al manejo y cuentas de estos caudales. Y no solo porque con ellos se financiasen los presidios de África y la Real Escuadra de Galeras o porque, como señalamos, la nueva contaduría pudiera seguir las pautas de las de Marina, sino que esa sinergia también se daba desde el punto de vista humano en los cuadros de personal. Algunos ejemplos que lo corroboran: Felipe V designa como contador de la nueva Contaduría Principal del Consejo, desde el 1 de enero de 1746 en que empieza a funcionar, a don Feliciano de la Vega, teniente de cazador mayor del rey y oficial mayor de una de las dos contadurías mayores suprimidas; para el puesto de oficial mayor a don Pedro Gilabert, oficial 1.º de los ministros principales de Marina, embarcado entonces en la Escuadra de bajeles del Mediterráneo; y a don Miguel Serrador, jurista, como oficial 2.º92. En mayo de 1748 su sucesor nombra a este último auditor de guerra de la plaza de Orán, vacante por el ascenso de don Francisco Buitrago a la Audiencia de Canarias93. Por su parte, el nuevo contador general, a quien el reglamento concedía el derecho a proponer al rey a través del comisario general para las vacantes de su oficina a los empleados de las contadurías extinguidas que considerase “los más dignos y a propósito” y no encontrándolos para poder recomendar otros ajenos “que juzgare convenientes para estos empleos”, presenta la siguiente propuesta para la aprobación real: para oficial 3.º a don Juan de Villanueva, que sirviera hasta la de mayor en una de las contadurías suprimidas; para la otra plaza del mismo rango a don Juan de Ruesga, contador de título en la contaduría de cuentas, empleo que le fuera concedido por el rey por su servicio y méritos en las oficinas de Marina, hasta que estando ejerciendo el empleo de contador de bajeles fue herido en la batalla de Tolón o Cabo Sicié (febrero de 1744, encuadrada dentro de la Guerra del Asiento). Y en el caso de las tres plazas de 91 92 93 J.L. Castellano, Gobierno y poder en la España cit., pp. 106-107. Ahn, Consejos, lib. 2620, f. 158v. Ivid, f. 257v; leg. 7466, 6. 351 María López Díaz oficiales entretenidos: para la 1.ª sugiere a don Pedro García, que lo fuera doce años en una de las contadurías eliminadas; para la 2.ª a don Miguel Marco y Espejo, entonces destinado en la Contaduría de Rentas Generales, que antes había estado en las oficinas de Marina con su padre don José Marco y Espejo, comisario real de Guerra de Marina; y para la 3.ª a don Baltasar Cavezudo, que también trabajó en asuntos “del mayor cuidado e importancia” durante los últimos cinco años en una de las contadurías extinguidas, así como en las relaciones de documentos que sirvieron para la elaboración de los nuevos reglamentos94. Y, finalmente, en lo que atañe a la supresión de oficios derivada de la reforma del Consejo, algunos como los contadores mayores con asiento de consejeros, a diferencia de lo ocurrido en otros organismos cuya planta también se remodeló o bien fueron extinguidos, como el Consejo de Aragón en 1707, donde los ministros y empleados subalternos que perdieron sus puestos fueron recolocados en otros consejos, secretarías y plazas burocráticas del resto de tribunales95, en el caso del de Cruzada el monarca dispuso ya en el propio decreto que los «oficios públicos» que no figuraban en la nueva planta fueran extinguidos, y los que estaban «enajenados a perpetuidad» para «reducir[los] a electivos y temporales» –y poder así proveerlos libremente– que fueran incorporados a la Corona previo pago de la indemnización (capital e intereses) correspondiente96. Una medida que tampoco parece fortuita. Se justifica porque cronológicamente la monarquía estaba entonces inmersa en el proceso de recuperación de las rentas y oficios enajenados que se había reactivado a partir del año 1743 con la creación de un Juzgado específico de incorporaciones dependiente del Consejo de Hacienda; un proyecto que, significativamente, también prosiguió durante el reinado fernandino, siendo el titular de ese juzgado quien tramitó el expediente de recobro de las dos contadurías mayores suprimidas que los afectados litigaron sin lograr su objetivo97. 94 Según propuesta elevada el 4 de marzo de 1746. Ahn, Consejos, lib. 2620, ff. 179v-184r. 95 Cf. J. Arrieta Alberdi, El Consejo Supremo cit., pp. 226-227. 96 Ahn, Estado, leg.1480, ff. 56r-56v. 97 Ver a este respecto los trabajos citados supra, nota 65. 352 Nicoletta Bazzano LA LEYENDA NEGRA CONTINUA...: LA SARDEGNA VICEREGIA NELLA NARRATIVA SARDA FRA SECONDO NOVECENTO E NUOVO MILLENNIO* DOI: 10.19229/1828-230X /37152016 SOMMARIO: Il saggio approfondisce l’uso pubblico della leyenda negra da parte dei romanzieri sardi, che narrano avvenimenti, realmente accaduti o totalmente inventati, ambientati in Sardegna nell’età dei viceré spagnoli. Questi romanzi contribuiscono a perpetuare il mito della leyenda negra spagnola – un mito ormai totalmente distrutto dalla storiografia – e lo riutilizzano politicamente in chiave “sardista”. PAROLE CHIAVE: Sardegna, leyenda negra, uso pubblico della storia, romanzo storico. THE LEYENDA NEGRA CONTINUES…: THE SARDINIA OF VICEROYS IN THE SARDINIAN FICTION BETWEEN THE LATE TWENTIETH CENTURY AND THE NEW MILLENNIUM ABSTRACT: The article aims to focus the public use of the leyenda negra by Sardinian novelists who write about historical facts, real or invented, happened in Sardinia at the age of Spanish viceroys. The main contribution of these novels is perpetuating the story of the Spanish leyenda negra – a myth totally destroyed by recent historiography – by reusing it in political language in a “sardista” point of view. KEYWORDS: Sardinia, leyenda negra, public use of the history, historical novel. 1. Il fascino della leyenda negra Ormai da tempo lo sguardo storiografico europeo sulla Monarchia spagnola è quasi totalmente cambiato: all’immagine di “impero del male”, forza onnipotente e oppressiva sotto la quale le energie più vive dei domini venivano sfruttate sino all’esaurimento, si è sostituita di converso la visione di una potenza dalle dimensioni geografiche globali, che conduce al proprio interno un’affannosa ricerca del consenso. Innumerevoli sono gli studi che hanno messo in luce le diverse dinamiche che percorrono i domini su cui regna la dinastia degli Asburgo di Madrid e che hanno contribuito ad abbattere la leyenda negra, ormai * Il presente saggio nasce da una mia comunicazione al congresso internazionale Centri di potere nel Mediterraneo occidentale: dal Medioevo alla fine dell’Antico Regime, tenutosi a Cagliari nell’ottobre del 2015. In quell’occasione mi furono utili i consigli di Franco Atzeni, Antioco Floris, Piergiorgio Floris, Eva Garau e Giampaolo Salice. Nel corso di questi ultimi mesi la mia riflessione sul romanzo storico sardo è continuata conversando con Maria Lepori, Luciano Marrocu, Gianni Murgia, Lorenzo Tanzini e Gianfranco Tore. A tutti loro va il mio più sentito ringraziamento. n. 37 Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIII - Agosto 2016 ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online) 353 Nicoletta Bazzano non più certezza storiografica ma oggetto d’indagine1. Il solido discorso dispregiativo, che rimarca i tratti oppressivi e rapaci della presenza spagnola in Europa e che ha come fondamenta l’Apologia di Guglielmo il Taciturno così come le Relaciones di Antonio Pérez, i testi di John Fox piuttosto che di Tommaso Campanella e che è stato più volte ribadito in Italia nel corso dell’Ottocento risorgimentale, tuttavia continua a essere pronunciato, seppure non in sede accademica, permanendo così persistentemente nell’immaginario collettivo contemporaneo e servendo ragioni politiche attuali, profondamente estranee alle motivazioni che nel corso del tempo ne hanno giustificato l’utilizzo. Un esempio di veicolazione dell’immagine negativa della presenza spagnola è costituito dalla narrativa sarda di ambientazione storica dell’ultimo quarantennio, che in questa sede verrà presa in esame, nella (amara) convinzione che, oggi, la domanda espressa dalla società venga quasi totalmente esaurita dai romanzieri. Essi privano gli studiosi di storia del ruolo ricoperto nel XIX e nel XX secolo nelle società occidentali e lavorano alla formazione del senso comune, storico e no, del pubblico, non preoccupandosi, però, della verità storica del messaggio di cui sono latori. Attualmente, infatti, lo statuto sociale dello storico si dimostra particolarmente fragile e aggravato da un clima culturale che appare caratterizzato dal «presentismo» e da un forte bisogno di immediatezza nell’esperienza del passato: come uno spettacolo barocco esso deve colpire senso e sentimento e non attivare discernimento e desiderio di comprensione. Di fronte a tale necessità, è ovvio che la presenza all’interno del testo dell’autore, con le sue perplessità e i suoi dubbi oltre che con le sue certezze nonché con tutta la strumentazione fornita dal paratesto (note bibliografiche o archivistiche, in primis, ma anche tutti gli altri apparati che generalmente corredano un’opera storiografica, come trascrizioni documentarie, elaborazioni di dati numerici, resoconto del dibattito sulla questione o rassegna delle posizioni sul tale argomento e così via), e di conseguenza, la costruzione – problematica, singolare e irripetibile – del passato e del presente che ne deriva possa risultare gravosa e poco affascinante per il lettore: al di là della questione del bello stile e delle capacità affabulatorie, che molti storici possiedono, non è all’emozione del lettore che lo studioso mira ma alla sua capacità di riflessione. Lo scrittore invita, invece, a un processo emotivo 1 Oltre al classico J. Juderías, La leyenda negra de España, Tip. De la Revista de Archivos, Madrid, 1914, si veda R. García Cárcel, La leyenda negra. Historia y opinión, Alianza, Madrid, 1998. Un quadro sintetico della questione è offerto da A. Alvarez Ezquerra, La leyenda negra, Akal, Madrid, 1997. Recentissimo è Y. Rodríguez Pérez, A. Sánchez Jiménez, H. den Boer, España antes sus críticos: las claves de la leyenda negra, Iberoamericana Editorial Vervuert, Madrid-Frankfurt-Norwalk, 2015. 354 La leyenda negra continua...: la Sardegna viceregia nella narrativa sarda di immedesimazione: irrimediabilmente egli conquista un successo maggiore di coloro che invitano a soffermarsi su «una casualità sofisticata, talora di lungo periodo, articolata»2. Non si tratta solo del postulato secondo cui la penna degli scrittori è migliore di quella degli storici, quanto della diversa natura delle rappresentazioni che essi forniscono. Il racconto del romanziere è nitido, compatto: una catena ininterrotta di nessi causali, che giacciono sullo stesso piano sia quando essi sono effettivamente rilevati, sia quando sono mero frutto di fantasia. Il passato descritto dal mondo narrativo romanzato è consequenziale e ordinato: poiché l’autore sparisce dietro la narrazione, sembra venir meno anche la natura di rappresentazione parziale del passato che il romanzo fornisce. Il discorso narrativo plasticamente compiuto istituisce un’inevitabile successione fra passato, presente e futuro che si presenta oggettiva, irreversibile e legittimante: agli occhi del lettore, il fatto narrato non può essere stato che così…3. Sicuramente, la leyenda negra, con i suoi chiaroscuri decisi, offre materiali allettanti agli scrittori, poiché fornisce loro immagini e caratteri in grado di disegnare campiture nette e di attrarre i lettori, perpetuando in sovrappiù, in Italia, la tradizione nobile del romanzo storico, da Manzoni a Sciascia a Vassalli, che molto spesso ha individuato nell’età spagnola il teatro più adeguato per le sue narrazioni4. I romanzieri sardi attuali utilizzano l’arsenale drammatico fornito dalla leyenda negra e si inseriscono, così, in questa parabola letteraria squisitamente italiana, da un lato ripudiando la tradizione del romanzo storico così come si è articolata in Sardegna nel corso dell’Ottocento, dall’altro – malgrado il paradosso – declinandola e intrecciandola con specifici elementi identitari che hanno come matrice principale il “sardismo”, la visione anzitutto politica che rivendica la specificità culturale isolana, mantenuta attraverso i secoli senza soluzione di continuità, e il diritto della Sardegna a un’amministrazione politica straordinaria che di ciò tenga conto5. 2 F. Benigno, Introduzione: fare storia al tempo della memoria, in Id. Parole nel tempo. Un lessico per pensare la storia, Viella, Roma, 2013, pp. 7-30. 3 M. Martinat, Tra storia e fiction. Il racconto della realtà nel mondo contemporaneo, Et al., Milano, 2013, su cui si vedano le interessanti notazioni di F. Benigno, Realtà e finzione. Benigno legge Martinat, «Storica», 56-57, 2013, pp. 299-306. Rilevanti spunti di riflessione su questa tematica sono contenuti in F. Cassinari, Tempo e identità. La dinamica di legittimazione nella storia e nel mito, Franco Angeli, Milano, 2005 e nei saggi contenuti in S. Borutti (a cura di), Tempo e identità. Per ricordare Flavio Cassinari, Ibis, Como-Pavia, 2011. 4 G. Cinelli, Il XVII secolo nel romanzo storico italiano come paradigma del male: Manzoni, Sciascia, Vassalli, in G. Cinelli, P. Piredda (a cura di), La letteratura e il male, http://digilab2.let.uniroma1.it/ojs/index.php/Philologica/article/view/235/224, pp. 79-104. 5 Moltissimi i materiali sulla questione. Per un quadro d’insieme si veda F. Francioni, Storia dell’idea di «nazione sarda», in M Brigaglia (a cura di), La Sardegna, II, La cultura popolare, l’economia, l’autonomia, VI, L’autonomia regionale, pp. 165-183. 355 Nicoletta Bazzano 2. Il romanzo storico in Sardegna nell’Ottocento Il romanzo storico in Sardegna si sviluppa, infatti, con grande vigore, nel secondo Ottocento. Nella prima metà del secolo, infatti, solo un autore estraneo all’isola, il tortonese Carlo Varese, ambienta in Sardegna, conosciuta solo attraverso il Voyage en Sardaigne di Alberto Ferrero della Marmora e la Storia di Sardegna di Giuseppe Manno6, due suoi romanzi, ispirati all’opera di Walter Scott e ambientati nell’ultima época aragonese, nella quale gli abitanti dell’isola manifestano la loro fierezza contro l’invasore straniero: Il proscritto. Storia sarda e Preziosa di Sanluri7. Poco apprezzate in Sardegna al momento della loro uscita, tali opere cominciano a riscuotere successo a partire dagli anni Cinquanta del secolo, quando la grande stagione europea del romanzo storico si conclude8. Proprio in questo momento la narrativa sarda di ambientazione storica produce una messe rigogliosa9. Antesignano della fioritura postunitaria è Vittorio Angius, autore di Leonora d’Arborea o scene sarde degli ultimi lustri del secolo XIV, scritto dapprima in sardo, poi tradotto in italiano dal medesimo autore e pubblicato nel 184710. Sacerdote scolopio, Angius è un autore versatile, in grado di cimentarsi su diversi registri in italiano, latino e sardo. Proprio in questo idioma, egli scrive il romanzo storico dedicato a una grande personalità isolana dell’età medievale, la giudicessa Eleonora d’Arborea, contribuendo così alla formazione del suo mito11. Sulla sua scia 6 A. Della Marmora, Voyage en Sardaigne, de 1819 a 1825, ou description statistique, physique et politique de cette île, avec des recherches sur ses productions naturelles et ses antiquités, Paris 1926; G. Manno, Storia di Sardegna, 4 voll., Torino, 1925-1927. 7 C. Varese, Il proscritto. Storia sarda dell’autore di Sibilla Odaleta, Torino, 1830; Id., Preziosa di Sanluri ossia I montanari sardi. Romanzo storico, Macerata, 1835. 8 A.M. Morace, Il romanzo storico in Sardegna. Da Carlo Varese a Pompeo Calvia, in F. Azteni, A. Mattone (diretta da), La Sardegna nel Risorgimento, Carocci, Roma, 2014, pp, 959-1004. 9 E. Pilia, Il romanzo e la novella, Il Nuraghe, Cagliari, 1926, in part. p. 96. 10 V. Angius, Leonora d’Arborea o scene sarde del secolo XIV, Torino, 1847. 11 G. Siotto Pintor, Storia letteraria di Sardegna, Tipografia Timon, Cagliari, 18431844, 4 voll., passim; F. Loddo Canepa, Vittorio Angius. Profilo, Il Nuraghe, Cagliari, 1926; R. Bonu, Scrittori sardi nati nel secolo XIX con notizie storiche e letterarie dell’epoca, vol. II, Gallizzi, Sassari, 1961, pp. 261-276; B. Josto Anedda, Vittorio Angius politico, Giuffrè, Milano, 1969; A. Accardo, Il mito della “nazione”: Vittorio Angius e la storia della Sardegna, in Le autonomie etniche e speciali in Italia e nell’Europa mediterranea. Processi storici e istituzioni, Consiglio regionale della Sardegna, Cagliari, 1988, pp. 511-527; L. Carta, Vittorio Angius. Opere poetiche e orazioni latine, «Archivio sardo del movimento operaio e autonomistico», 35/37 (1991), pp. 109-175; Id., Il mito storiografico di Eleonora d’Arborea in Vittorio Angius, in G. Sotgiu, A. Accardo, L. Carta (a cura di), Intellettuali e società in Sardegna tra Restaurazione e Unità d’Italia, S’Alvure, Oristano, 1991, pp. 174-202; G. Sotgiu, Vittorio Angius e i suoi tempi, Fndazione Siotto, Cagliari, s.d.; L. Carta, Il contributo di Vittorio Angius al Dizionario geografico.storico-statistico-commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna di Goffredo Casalis, in V. Angius, Città e villaggi della Sardegna dell’Ottocento, Vol. I, Abbasanta - Guspini, a cura di L. Carta, Ilisso, Nuoro, 2006, pp. 7-47. 356 La leyenda negra continua...: la Sardegna viceregia nella narrativa sarda operano Pietro Carboni12, Enrico Costa e Pompeo Calvia , che si dedicano al romanzo storico con intenzioni manzoniane nel tentativo di costruire un pantheon sardo da congiungere a quello della nascente nazione italiana13. L’avvocato cagliaritano Carlo Brundo, autore di numerosi romanzi che vedono la luce nel corso degli anni, fino alla sua morte avvenuta nel 1904, spazia invece nel passato raccontando, con una penna non preoccupata dell’aderenza storica e giudicata anche dai contemporanei eccessivamente fantasiosa, episodi dell’antichità romana come dell’età di mezzo, dell’epoca aragonese come del periodo spagnolo, anche se il passato giudicale sembra rientrare nettamente nelle sue preferenze. Nella prosa di Brundo prevale, anche quando si cimenta con la narrazione storiografica, il gusto della rappresentazione bozzettistica: la Sardegna paesana e pastorale è l’autentica protagonista dei suoi racconti, dove il tratto folcloristico è assai più forte della necessità di rappresentazione verosimile. Egli apre così le porte al romanzo novecentesco14. In effetti, il luogo altrove occupato dal romanzo storico, in Sardegna, nell’Ottocento, è dominato dalle pergamene e dai codici cartacei che per vent’anni, a partire dal gennaio 1845, vengono fortunosamente ritrovati e venduti alla Biblioteca Universitaria di Cagliari, diretta fino al 1866 da Pietro Martini, e che compongono le cosiddette Carte d’Arborea: un vero e proprio feuilleton, non solo per la periodicità con la quale avvengono le scoperte di nuovi documenti del corpus ma anche per il numero dei personaggi e i colpi di scena: incendi e ritrovamenti, perdite e agnizioni, segreti e bugie15. Mentre si forgia il mito di Eleonora, sovrana saggia e coraggiosa, si costruisce anche lo scenario smagliante all’interno del quale la giudicessa si muove16 e si dà nuova luce anche al periodo più buio e misconosciuto della storia sarda, quello che va dal VII al XI secolo, in una maniera 12 P. Carboni, Leonardo Alagon. Romanzo storico del secolo XV, 2 voll., Cagliari, 1872; E. Costa, Rosa Gambella. Racconto storico sassarese del secolo XV con note e documenti, Sassari, 1897; P. Calvia, Quiterìa, a cura di D. Manca, Cuec, Cagliari, 2010 (ma pubblicato in 15 puntate sulla rivista «La Sardegna letteraria» nel 1902). 13 E. Irace, Itale glorie, Il Mulino, Bologna, 2003. 14 A. Menesini, Forma e immaginazione, «Almanacco di Cagliari» (2012), pp. 212-213. La vastissima produzione narrativa di Carlo Brundo non è ancora stata oggetto di un’analisi particolareggiata, probabilmente per i limitati meriti letterari; meriterebbe attenzione la sua opera di “costruzione del passato sardo”. 15 M. Brigaglia, Le Carte d’Arborea come romanzo storico, in L Marrocu (a cura di), Le Carte d’Arborea. Falsi e falsari nella Sardegna del XIX secolo, AM&D, Cagliari, 1997, 303315, e N. Rudas, Le Carte d’Arborea come romanzo delle origini, ivi, pp. 505-527. 16 Sulla costruzione dell’immagine mitica della giudicessa Eleonora, si veda A. Mattone, Un mito nazionale per la Sardegna. Eleonora d’Arborea nella tradizione storiografica (XVI-XIX secolo), in G. Mele (a cura di), Società e cultura nel Giudicato d’Arborea e nella Carta de Logu, La poligráfica Solinas, Nuoro, 1995, pp. 17-50. 357 Nicoletta Bazzano coerente e articolata, disegnando un medioevo colto e raffinato, indipendente e originale nella sua formulazione politica con l’erezione dei giudicati: un mondo magnifico, custodito dalla dinastia dei giudici di Arborea e cancellato dalla battaglia di Macomer e dalla disfatta di Leonardo Alagòn, ultimo marchese di Oristano, sconfitto dall’arrogante e bruta forza militare catalana. L’epopea storica sarda si risolve così in un tentativo di costruzione identitaria, che renda i sardi degni di occupare un posto non marginale all’interno della vita culturale italiana ed europea. Poco importa che le Carte d’Arborea vengano giudicate (e siano) un grossolano falso, smascherato all’Accademia di Berlino da un gruppo di studiosi, fra i quali spicca il nome di Theodor Mommsen: esse assolvono al compito preciso di fornire un’identità storica definita e non marginale alla Sardegna, nel momento in cui in tutta Europa si valorizzano le radici medievali dei nascenti Stati nazionali17. Con l’avvento del Novecento, in linea con quanto avviene altrove, in Sardegna il romanzo storico cessa di essere un genere letterario frequentato: i romanzi di Enrico Costa (che pure con il romanzo storico si è cimentato), di Grazia Deledda, di Salvatore Satta e di Emilio Lussu – le personalità più significative di un panorama comunque ricco – ritraggono in un’ottica primitivistica la contemporanea realtà isolana, quasi fosse connotata da un’evidente astoricità, e proprio per questo si rivelasse in grado di colpire l’immaginario collettivo europeo18. In ogni caso, al centro dell’interesse degli autori sardi, vi è la Sardegna, che sempre 17 T. Mommsen e M. Haupt, Relazione sui manoscritti d’Arborea, «Archivio storico italiano», s. III, XII, 1870, pp. 243-280; B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, Laterza, Bari, 1947, vol. II, p. 50; G. Olla Repetto, La falsificazione d’Arborea: cui proderat?, in Le Carte d’Arborea cit., pp. 153-179; P. Gaviano, L’autore delle Carte d’Arborea e le sue finalità, ivi, pp. 181-179; M.G. Cossu Pinna, Le Carte d’Arborea alla Biblioteca Universitaria di Cagliari, ivi, pp. 195- 218; L. Marrocu, Inventando tradizioni, costruendo nazioni: racconto del passato e formazione dell’identità sarda, ivi, pp. 317-329; A. Accardo, L’invenzione della storia sarda nelle Carte d’Arborea, ivi, pp. 331343. Sull’appassionante vicenda che mette in luce la diversità metodologica esistente fra gli studiosi italiani e quelli tedeschi, si veda A. Mattone, Theodor Mommsen e le Carte d’Arborea. Falsi, passioni, filología vecchia e nuova fra l’Accademia delle Scienze di Torino e quella di Berlino, in Theodor Mommsen e l’Italia, Accademia nazionale dei Lincei, Roma, 2004, pp. 345-411; il clima culturale della Sardegna del tempo è descritto in L. Marrocu, Theodor Mommsen nell’isola dei falsari. Storici e critica storica in Sardegna tra Ottocento e Novecento, Cuec, Cagliari, 2009. 18 P. Pittalis, Scrittori e pittori: la scoperta della sardità, in M. Brigaglia, A. Mastino, G.G. Ortu (a cura di), Storia della Sardegna, vol. V, Laterza, Roma-Bari, 2002, pp. 102127; S. Paulis, La costruzione dell’identità. Per un’analisi antropologica della narrativa in Sardegna fra ‘800 e ‘900, Edes, Sassari, 2006; Ead., Identità sarde nell’opera di Enrico Costa, in G. Marci, S. Pilia (a cura di), Minori e minoranze tra Otto e Novecento. Convegno di studi nel centenario della morte di Enrico Costa (1841-1909), Cuec, Cagliari, 2009, pp. 269-279. 358 La leyenda negra continua...: la Sardegna viceregia nella narrativa sarda più nel corso del Novecento viene rappresentata come un mondo in bilico fra millenaria tradizione e incipiente modernità, non sempre salutata con entusiasmo19. La riproposizione del romanzo storico sull’isola è fatto relativamente recente e solo in parte riconducibile a quel gusto ludico che informa il genere a partire dagli anni Ottanta del Novecento20. Sin dal loro primo apparire, infatti, i romanzi di ambientazione storica presentano caratteristiche molto diverse da quelle della produzione nazionale e internazionale. In un panorama contraddistinto dalla “leggerezza”, essi si assumono una responsabilità pubblica, altrove introvabile. Non a caso l’unico scenario è la Sardegna, nel cui passato si trovano i materiali necessari per la costruzione di un originale mondo narrativo21. Diversamente, però, dagli autori ottocenteschi che si sono cimentati con il racconto del passato, il periodo storico cui vanno le loro preferenze non è l’idealizzato medioevo arborense – che le Carte, ancorché false, avevano contribuito a imprimere nella memoria collettiva sarda come ineguagliata età d’oro, complice anche la costruzione di un’immagine gloriosa di Eleonora d’Arborea – ma l’età moderna, con una preferenza spiccata per il periodo spagnolo, visto come un’epoca di contrapposizione fra un dominatore aggressivo che giunge dal mare e i sardi, che in omaggio alla visione “sardista” sono ritratti come un popolo che sembra destinato a essere dominato ma mai soggiogato o sconfitto. 19 G. Contini, La letteratura italiana del Novecento, in M. Brigaglia (a cura di), La Sardegna, I, Geografia, storia, letteratura, arte, III, Letteratura e arte, Edizioni Della Torre, Cagliari, 1982, pp. 43-54. 20 Non va dimenticato che la ripresa del romanzo storico come genere da riproporre sul mercato editoriale è avvenuta sotto il segno del disimpegno. Come scriveva Umberto Eco, nell’introduzione a Il nome della rosa, quando racconta delle vicissitudini che lo hanno indotto a trascrivere a memoria un ipotetico manoscritto di cui è venuto temporaneamente in possesso e che ha poi perduto «Trascrivo senza preoccupazioni di attualità. Negli anni in cui scoprivo il testo dell’abate Vallet circolava la persuasione che si dovesse scrivere solo impegnandosi sul presente, e per cambiare il mondo. A dieci e più anni di distanza è ora consolazione dell’uomo di lettere (restituito alla sua altissima dignità) che si possa scrivere per puro amor di scrittura. E così ora mi sento libero di raccontare, per semplice gusto fabulatorio, la storia di Adso da Melk, e provo conforto e consolazione nel ritrovarla così incommensurabilmente lontana nel tempo (ora che la veglia della ragione ha fugato tutti i mostri che il suo sonno aveva generato), così gloriosamente priva di rapporto coi tempi nostri, intemporalmente estranea alle nostre speranze e alle nostre sicurezze»: U. Eco, Il nome della rosa, Bompiani, Milano, 1980, p. 7. 21 G. Marci, Introduzione, in Id. (a cura di), Scrivere al confine. Radici, moralità e cultura nei romanzieri sardi contemporanei, Cuec, Cagliari, 1994, pp. 7-23; G. Sulis, «Anche noi possiamo raccontare le nostre storie». Narrativa in Sardegna, 1984-2015, in L. Marrocu, V. Deplano, F. Bachis (a cura di), La Sardegna contemporanea. Idee, luoghi, processi culturali, Donzelli, Roma, 2016, pp. 531-555. 359 Nicoletta Bazzano 3. Il sardismo e la tarda invenzione della leyenda negra sarda Alimentato nel corso del secondo dopoguerra da una nutrita serie di dibattiti e da una crescente valorizzazione (della reinvenzione) del passato, anche se oggi si manifesta sempre più blandamente all’interno del dibattito pubblico isolano, il “sardismo” continua ancor oggi a fornire il lessico ai discorsi sull’isola e, non arrivando a tradursi in matura proposta politica, si trasforma in mugugno rivendicativo. In tale prospettiva, la presenza romana, bizantina, pisana, aragonese, spagnola, sabauda e, infine, italiana si sono rivelate, nel corso dei secoli, in un crescendo dovuto al parallelo miglioramento dei metodi della pubblica amministrazione e del governo, letalmente soffocanti per la vita della Sardegna e dei sardi. Unica parentesi è quella rappresentata dal Medioevo giudicale, conclusosi in maniera rovinosa con la sconfitta di Sanluri (30 giugno 1409) da parte delle truppe catalano-aragonesi. L’idea di una continua aggressione da parte di un invasore straniero, piemontesi (e italiani) compresi, è quella che trova la sua più ampia e colta espressione ne La civiltà dei sardi di Giovanni Lilliu, autore di fondamentali studi sulla preistoria, ma fonte di perplessità in sede scientifica per l’estensione di alcune categorie interpretative all’età medievale e moderna. Le considerazioni di Lilliu prendono le mosse dalla scoperta della civiltà nuragica di Barumini e dall’analisi compiuta su di essa22. Nella visione dell’archeologo sardo, nel corso dei millenni, agli invasori, da qualsiasi luogo giungessero, si è contrapposta la «resistenzialità» sarda, la capacità degli isolani di riuscire a «conservarsi sempre se stessi»23: messaggio che percola nell’attuale narrativa di ambiente storico, fino a diventarne una costante insieme con la propensione a rappresentare le persecuzioni patite24. 22 T. Cossu, Dall’identità al passato: il caso della preistoria sarda, in G. Angioni, F. Bachis, B. Caltagirone, T. Cossu (a cura di), Sardegna. Seminario sull’identità, Cuec-Isre, Cagliari, 2007, pp. 19-125; F. Frongia, Le torri di Atlantide. Identità e suggestioni preistoriche in Sardegna, Il Maestrale, Nuoro, 2012. 23 La rivendicazione di una specificità della cultura sarda, da riconoscere, tutelare e valorizzare, percorre l’intera sterminata opera, scientifica e pubblicistica, di G. Lilliu. Sul suo straordinario apporto scientifico e político si vedano A. Contu, Giovanni Lilliu. Archeologia militante e questione nazionale sarda, Zonza, Cagliari, 2006 e G. Lilliu, Opere, a cura di A. Contu, Zonza, Cagliari, 2006. Per una bibliografía degli scritti si vedano inoltre G. Lilliu, Le ragioni dell’autonomia, a cura di G. Marci, presentazione di L. Ortu, Cuec, Cagliari, 2002, pp. 419-440 e A. Moravetti (a cura di), Sardegna e Mediterraneo negli scritti di Giovanni Lilliu, Carlo Delfino editore, Sassari, 2008, pp. 17-34. 24 L. Berlinguer, A. Mattone, L’identità storica della Sardegna contemporanea, in L. Berlinguer, A. Mattone, La Sardegna, Einaudi, Torino, 1998, pp. XIX-XLVIII. Che i sardi odierni non possano essere assolutamente apparentati ai sardi nuragici è suggerito dalle analisi del Dna compiute da E. Sanna, Il popolamento della Sardegna e le origini dei Sardi, Cuec, Cagliari, 2006. 360 La leyenda negra continua...: la Sardegna viceregia nella narrativa sarda Con queste premesse, all’interno della narrativa sarda, viene modellata una leyenda negra, che identifica nella Spagna un nemico soffocante, forse il peggiore, della civiltà isolana. Si tratta però di un discorso recente, che manca di radici nel passato. Esso, infatti, non era stato pronunciato nella Sardegna spagnola, dove non appare fra Quattro e Seicento un filone letterario antispagnolo, laddove in altre province della Monarchia altrettanto “fedeli” non mancano, soprattutto nei momenti problematici, opere fortemente critiche nei confronti della Spagna25. Esso viene enunciato solo successivamente alla definitiva scomparsa dall’orizzonte politico isolano della Spagna, quando la Sardegna è ormai in mano dei Savoia che si apprestano a proiettarsi sull’intero territorio della Penisola italiana. Peraltro, gli scrittori di età sabauda si dividono fra i tanti che vedono in un supposto centralismo spagnolo – spesso simboleggiato dall’attività di governo di Filippo II – il necessario e autorevole precedente dell’azione piemontese e i pochi che, prima dell’avvento ritenuto quasi salvifico dei Savoia, accomunano in un insieme connotato dalla negatività tutte le presenze susseguitesi nell’isola26. Fra costoro è possibile ricordare a solo titolo di esempio Pasquale Tola che, nel Discorso preliminare al suo Dizionario degli uomini illustri di Sardegna, edito nel 1837-38, parla de «la crudeltà dei cartaginesi, il disprezzo di Roma, la desolazione vandalica, la trascuranza dei greci imperatori, la barbarie dei saraceni, l’ignoranza dei regoli, l’avidità pisana, la genovese avarizia, la povertà degli aragonesi, la superbia spagnola», un autentico elenco di piaghe d’Egitto subite dalla Sardegna nel corso dei secoli27. Gli odierni romanzieri sardi, tuttavia, propongono l’idea dell’oppressione spagnola, come se essa abbia sempre fatto parte del discorso pubblico isolano e, pur, nella diversità di voci che propongono ne fanno una costante narrativa. 25 Di tale produzione, fatta qualche anno fa oggetto di studio nel volume A. Musi (a cura di), Alle origini di una nazione. Antispagnolismo e identità italiana, Guerini e Associati, Milano, 2003, valga solo come esempio il famoso Pianto d’Italia di Fulvio Testi, sul quale mi permetto di rimandare a N. Bazzano, Donna Italia. Storia di un’allegoria dall’antichità ai giorni nostri, Angelo Colla editore, Costabissara (Vi), 2001, pp. 80-82. 26 A. Mattone, Antispagnolismo e antipiemontesismo nella tradizione storiografica sarda (XVI-XIX secolo), in A. Musi (a cura di), Alle origini di una nazione. Antispagnolismo e identità italiana cit., pp. 267-309. 27 P. Tola, Dizionario degli uomini illustri di Sardegna, Torino, 1837-38. 361 Nicoletta Bazzano 4. Alcuni esempi narrativi : Azteni, Angioni, Maurandi, Strinna, Migheli La Sardegna dei viceré spagnoli è, quindi, il teatro all’interno del quale vengono inseriti intrecci che, alla lettura, si mostrano assai diversi nei contenuti, nel tenore delle vicende raccontate, nel ritmo della narrazione e nella qualità della scrittura. Affresco visionario, di notevole pregio, è L’apologo del giudice bandito di Sergio Azteni (1986): un libro per molti versi pionieristico, ambientato nel 1492 fra palazzi fortificati, conventi cagliaritani e scogliere battute dal vento28. Mille sono le vicende che l’autore segue nel dispiegarsi del romanzo: il dissidio fra le autorità religiose e civili cagliaritane per istruire un processo contro le cavallette che hanno invaso l’isola e provocato la carestia29; la sfacciataggine del poeta di strada Michele Misericordia che irride i potenti; il desiderio frustrato del nobile rampollo Rodrigo Curraz verso la schiava Juanica; la prigionia da parte del viceré del bandito Itzoccor Gunale, appartenente a una stirpe di “giudici”, di uomini giusti; la malattia e la follia dello stesso viceré, costretto a presenziare alla processione che dovrebbe scacciare le cavallette dall’isola... La scelta di collocare le mille vicende che si intrecciano nel romanzo nell’anno della scoperta dell’America, data che tradizionalmente chiude una presunta oscura età medievale e apre significativamente le porte all’età moderna dove maturano i valori egualitari della contemporaneità, non è casuale. Tale scelta serve a caratterizzare come particolarmente arretrata la realtà rappresentata: un presente asfittico, seppure agitato da un eterno movimento, e uguale a se stesso, incapace di evolvere ma solo di procedere sulla via della corruzione e del disfacimento. Il clima di decomposizione in cui versa gran parte della società rappresentata – quella costituita da dignitari e prelati – è scientemente amplificato dalla scelta dell’autore di storpiare i nomi, storicamente attestati di quanti affollano la scena: Zitrelles prende il posto del corretto Zatrillas, Cruz di Santa Cruz, Curraz di Carroz, Urogall di Aragall, Cordano di Cardona, Zopoto di Zapata)30. 28 S. Azteni, L’apologo del giudice bandito, Sellerio, Palermo, 1986. Una breve sintesi del romanzo è offerta da G. Murru, Sergio Azteni. Apologo del giudice bandito (1986), in G. Marci (a cura di), Scrivere al confine. Radici, modalità e cultura nei romanzieri sardi contemporanei, Cuec, Cagliari, 1994, pp. 115-123. 29 L’invasione del 1492 non è però documentata, come si evince dalle pagine dedicate alla Sardegna nel volume E. Gugliuzzo. G. Restifo, La piaga delle locuste. Ambiente e società nel Mediterraneo di età moderna, Giapeto, Napoli, 2014. 30 S. Contarini, R. Onnis, Reinterpretazioni del codice barbaricino: i banditi di Sergio Atzeni, in P. Serra (a cura di), Questioni di letteratura sarda. Un paradigma da definire, Franco Angeli, Milano, 2012, pp. 215-225; B. Anatra, L’invenzione della storia, in G. Marci, G. Sulis (a cura di), Trovare racconti mai narrati, dirli con gioia, Cuec, Cagliari, 2001, pp. 81-86: Un ritratto dello scrittore è costituito da G. Marci, Sergio Azteni: a lonely man, Cuec, Cagliari, 1999, mentre un’aggiornata bibliografía è reperibile su http://www.sergioatzeni.com/sergioatzeni.com%20.%20bio%20bibliografia.pdf. 362 La leyenda negra continua...: la Sardegna viceregia nella narrativa sarda D’altronde, come si evince dal romanzo-testamento Passavamo sulla terra leggeri, edito postumo nel 1996, la fantasmagorica vicenda millenaria della Sardegna ha il suo triste epilogo, secondo Atzeni, nella cessione dell’isola alla Corona d’Aragona da parte di papa Bonifacio VIII31. A vent’anni di distanza dalla proposta di Atzeni, in un clima culturale mutato e forse maggiormente ricettivo verso la narrativa di impronta storica, vede la luce la raffinata rilettura della drammatica vicenda umana dell’umanista e funzionario regio Sigismondo Arquer (1530-1571) da parte dell’antropologo Giulio Angioni: Le fiamme di Toledo (2006)32. Egli non prende posizione rispetto alla tradizione storiografica sul personaggio, divisa nel rintracciare le responsabilità della prigionia da parte dell’Inquisizione e del rogo. La tradizione storiografica sarda, infatti, ha sempre visto in Arquer la vittima di un gioco politico tutto isolano: egli e il padre, Giovanni Andrea, nell’esercizio delle loro funzioni di ministri del sovrano, avrebbero offeso famiglie feudali importanti dell’isola, gli Aragall, i Torrellas, gli Zapata e, soprattutto, gli Aymerich, nella persona del capofamiglia, don Salvador. Il dissidio fra arroganti feudatari e rispettosi servitori della Corona si sarebbe trascinato nel corso del Cinquecento, conducendo spesso in prigione con false accuse gli Arquer, padre e figlio, per poi concludersi con la cattura, ancora una volta sulla base di imputazioni pretestuose, del secondo e della sua morte sul rogo. Le ricerche più recenti hanno, invece, ridimensionato l’incidenza nella vicenda di contrasti locali, per mettere in rilievo, invece, le posizioni dissidenti di Arquer e la sua appartenenza alla corrente di pensiero valdesiano che si sviluppa su matrice luterana e calvinista e che si diffonde in gran parte del mondo iberico33. Le due interpretazioni S. Azteni, Passavamo sulla terra leggeri, Ilisso, Nuoro, 1996: un testo impegnativo che sarà oggetto di trattazione in altra sede. 32 G. Angioni, Le fiamme di Toledo, Sellerio, Palermo, 2006. 33 Inclini a rintracciare le cause della prigionia di Arquer nelle vicende sarde sono D. Scano, Memorie e documenti. Sigismondo Arquer, «Archivio Storico Sardo», XIX, I-II, 1935, pp. 3-137 e B. Anatra, Dall’unificazione aragonese ai Savoia, in J. Hay, B. Anatra, L. Scaraffia (a cura di), La Sardegna medievale e moderna, Utet, Torino, 1984, pp. 450461. Una rilettura delle vicende biografiche di Arquer in chiave filoprotestante è data da M.M. Cocco, Sigismondo Arquer dagli studi giovanili all’autodafè, Deputazione di Storia Patria per la Sardegna – Università degli Studi di Cagliari, Cagliari, 1987, e da M. Firpo, Alcune considerazioni sull’esperienza religiosa di Sigismondo Arquer, in Id., Dal sacco di Roma all’Inquisizione. Studi su Juan de Valdés e la Riforma italiana, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 1998, pp. 161-220. Le diverse posizioni sono discusse da M. Loi, Sigismondo Arquer. Un innocente sul rogo dell’Inquisizione. Cattolicesimo e protestantesimo in Sardegna e Spagna nel ‘500, Amed edizioni, Cagliari, 2003 e R. Turtas, Sigismondo Arquer. Introduzione biografica, in S. Arquer, Sardiniae brevis historia et descriptio, a cura di M.T. Laneri, Cuec, Cagliari, 2007. 31 363 Nicoletta Bazzano s’intrecciano nella narrazione di Angioni34, che peraltro sembra non aspirare a realizzare un vero e proprio romanzo storico, ma quasi il memoriale di una vittima predestinata che nelle ultime ore della sua esistenza ripercorre le tappe che lo hanno condotto alla prigionia e che lo porteranno alla morte. Totalmente frutto della fantasia dell’autore sono, ad esempio, le pagine dedicate a un ipotetico soggiorno di Arquer nei Grigioni, isola della tolleranza nella descrizione idillica che ne porge il romanzo. Inoltre, nelle pagine di Angioni i dettagli fattuali giungono come l’eco di rumori lontani, distanti dalla cella dove trascorre gli ultimi giorni Sigismondo Arquer. Angioni non si preoccupa dell’aderenza storica di quanto racconta, ma piuttosto del valore ideologico della sua rappresentazione letteraria: Arquer è un martire del libero pensiero, dalle «idee comuniste anabattiste»35 che per quanto azzardate mai e poi mai devono condurre alla morte, e soprattutto per mano di un potere ottuso, sordo e cieco alle istanze degli uomini in carne e ossa e pronto solo a seguire le regole che consentono di perpetuarsi. Così, nelle carceri di Toledo, trova posto una serie di vittime tipologicamente esemplari (la strega, la prostituta, il bestemmiatore, il sodomita, il corruttore di monache…), campioni di una sofferenza ingiusta. Hombres y dinero (2010) di Pietro Maurandi è la riproposizione romanzesca di fatti effettivamente avvenuti in Sardegna nel 1668: l’assassinio del marchese di Laconi e quello del viceré Camarasa36. La narrazione prende le mosse dall’arrivo in Sardegna del giudice napoletano Juan de Herrera, personaggio effettivamente esistito, chiamato a 34 G. Angioni, Le fiamme di Toledo cit., p 49: «Ho fatto male, oggi lo so, a insistere su queste e altre cose simili qui in tribunale per spiegare la malevolenza di certi testimoni sardi contro di me, di una terra dov’è più facile comprare cento spergiuri a favore di una falsità che trovare due testi spontanei in favore della verità»; ivi, p. 140141: «L’odio degli Aymerich, origine a causa dei miei guai, ha annoiato i miei giudici. Storie della mia terra, lo so, miserie antiche e nuove, chiacchere come quelle che già Dante irrideva nei sardi giù all’inferno, che “a dir di Sardigna le lingue lor non si sentono stanche”. Siamo fatti così. Ma siamo fatti male. Come una specie di condanna, ci sbraniamo nella nostra aiola di terra in mezzo a troppo mare. Così ho fatto io, partendo dall’odio sardo degli Aymerich contro noi Arquer. Io non l’ho acceso né cercato, ci sono nato dentro»; ivi, p, 143: «Ho ereditato da avvocato fiscale della città di Cagliari tutte queste lotte tra la feudalità isolana, Aymerich in testa, contro la corte viceregia. Il diavolo ci ha messo la coda, ma tutto può ridursi al grano, al pane nostro quotidiano: le rivalità e le lotte aperte e chiuse tra l’amministrazione viceregia e la feudalità vecchia e recente erano e sono lotte per il grano, comprato e requisito, di scorta e da esportare. Gli Aymerich si sono fatti ricchi e nobili coi traffici anche illeciti del grano dentro e fuori l’isola. E queste dispute mortali sulla vera fede, da noi laggiù nell’isola si sono usate per fare i propri affari». 35 Ivi, p. 47. Inutile sottolineare l’anacronismo dell’espressione. 36 P. Maurandi, Hombres y dinero. Storia di passioni, congiure e delitti nella Sardegna spagnola, Cuec, Cagliari, 2010. 364 La leyenda negra continua...: la Sardegna viceregia nella narrativa sarda coadiuvare il viceré Francesco Tuttavilla, duca di San Germano, nell’inchiesta per i due omicidi. Il giudice rilegge la documentazione relativa all’omicidio di Agustin de Castelvì, marchese di Laconi, alla luce del racconto degli avvenimenti che gli viene fatto da alcuni abitanti di Cagliari di bassa estrazione sociale, e delinea le tensioni politiche che percorrono la Sardegna del secondo Seicento, caratterizzata da una contrapposizione fra sardi e spagnoli. I primi, nobili e popolani, hanno il proprio campione nel marchese di Laconi, prima voce dello stamento militare di un Parlamento che ha negato il rituale donativo al sovrano nella consapevolezza del diniego alle proprie proposte da parte della Corona, e che richiede con forza che la Sardegna venga governata da sardi e non da spagnoli. Il suo assassinio viene compiuto, nella ricostruzione di Maurandi, su commissione della viceregina e della marchesa di Villasor, sua sodale, tradizionale esponente di una famiglia nemica a quella del marchese. La morte di Agustin de Castelvì accende la rabbia sarda contro lo strapotere spagnolo. L’indignazione culmina nell’assassinio del viceré: una vendetta del «partito sardo» contro l’arroganza e l’alterigia viceregia. Il processo contro gli assassini del viceré – esponenti della nobiltà dell’isola – conduce anche a una revisione del processo contro gli assassini del marchese di Laconi: in virtù del desiderio del nuovo viceré di cancellare le insinuazioni che vogliono che la viceregina, ormai vedova del marchese di Camarasa, sia la principale mandante del delitto contro la prima voce dello stamento militare, il giudice Herrera istruisce una nuova indagine. Questa volta, la giovanissima vedova del marchese di Laconi e il cavaliere Silvestre Aymerich, che nel frattempo sono convolati a nozze, sono visti come i colpevoli dell’assassinio, compiuto per motivi passionali: il giudice è amareggiato dalla ragion di Stato che lo ha indotto a manipolare quanto egli è venuto scoprendo sull’assassinio del marchese di Laconi, vittima della crudeltà spagnola, così come colpiti sono coloro che hanno pensato di liberarsi dell’asfissiante presenza spagnola. Poco interessato a una ricostruzione veritiera non solo degli avvenimenti ma anche della vita quotidiana che rappresenta, non a caso costellata di anacronismi e forzature37, e lontano dal disegnare le effettive (e storicamente comprovate) dinamiche fazionali regnicole e i caratteri 37 Sui vari tipi di anacronismo si veda C. Barbanente, Appunti sugli effetti di anacronismo nel romanzo storico contemporaneo, in M. Columni Camerino (a cura di), La storia nel romanzo (1800-2000), Bulzoni, Roma, 2008, pp. 199-236. Fra le tante imprecisioni che il romanzo contiene, evidente è quella riguardante il fil’ ‘e ferru, la tipica acquavite del Logudorese, più volte richiamato nel testo. Com’è noto, fil’ ‘e ferru è il nome che prende l’abbardente circa un secolo fa, quando essa veniva prodotta clandestinamente e nascosta sotto terra per non essere trovata durante eventuali ispezioni: un filo di ferro che fuoriusciva dal terreno ne indicava la posizione. 365 Nicoletta Bazzano della società del tempo, Maurandi insiste sul (presupposto) conflitto fra sardi e spagnoli, ignorando peraltro che la nobiltà sarda, com’era uso, tesseva i propri legami matrimoniali al di fuori dell’isola portandovi spose dagli altri regni della Monarchia, e che la sensibilità del tempo conduceva a distinguere all’interno del mondo spagnolo i castigliani dagli aragonesi, i catalani dai valenzani e così via38. Maurandi, nel suo desiderio di tracciare una linea netta fra sardi e spagnoli non teme di esasperare il contrasto fra i due schieramenti (o partiti, come più volte li chiama), ammantando i primi di ogni virtù e i secondi di ogni nequizia. Agustìn de Castelvì, le cui uniche debolezze sono i piaceri della carne, è un uomo maturo e vigoroso, spavaldo con i forti e premuroso con i deboli, latore di un progetto politico maturo e consapevole. Francisca Zatrilla è una giovane moglie trepidante, il cui sentimento per il coetaneo Silvestre Aymerich è causato dalle continue infedeltà del marito e, comunque, è negato e frustrato, per manifestarsi poi con grande pudore dopo settimane di tormentata vedovanza. Maria, la giovane guardarobiera di Francisca, originaria di Stampace, è bella, sincera e ardimentosa, in grado di resistere alle sconvenienti avances del cavaliere spagnolo Miguel, uno di quei «giovani dignitari che passavano il loro tempo ad angariare la gente del popolo»39, che di lei si è invaghito; inoltre si dimostra una fanciulla determinata e decisa a salvaguardare il buon nome della sua signora, infangato dai sospetti. Antonio, il suo corteggiatore e futuro marito, è forte, instancabile nel lavoro, coraggioso, attento e, soprattutto, valoroso nel difendere l’onore dei sardi. L’avvocato Deonetto, mente del partito sardo, è saggio e sapiente, fragile come ogni uomo di pensiero di fronte alla bruta violenza dei soldati spagnoli che lo aggrediscono. Perfino gli abitanti dello stagno di Santa Gilla, presso Cagliari, sono silenziosi «piccoli uomini, cotti dal sole e corrosi dall’umido»40 ma consapevoli dell’incolmabile distanza con gli spagnoli e pronti a dare loro filo da torcere. Di contro, il viceré Camarasa è un debole vanitoso, la viceregina sua moglie un’instancabile virago, capricciosa e spietata41, la loro 38 La vicenda era già stata al centro dello sforzo ricostruttivo di D. Scano, Donna Francesca Zatrillas, marchesa di Laconi e di Sietefuentes, «Archivio storico sardo», XXIII (1941), pp. 3-349, che tuttavia mantiene un tono assai più distaccato. 39 P. Maurandi, Hombres y dinero cit., p. 233. 40 Ivi, p. 259. 41 Ivi, p. 187: «Donna Isabel, così indifesa e impaurita nei giorni dell’assassinio del marito, non era affatto una donna debole e remissiva. Aveva organizzato lei una vera corte viceregia, quella corte così spensierata e barocca, si era circondata di personaggi frivoli, poco interessati alle cose di Caller e della Sardegna, Era in gran parte ispirato da lei quel profondo disprezzo per la nobiltà sarda, che in tante occasioni si manifestava sottilmente e qualche volta esplodeva incontrollato. Apparteneva a una nobile famiglia castigliana, il suo carattere autoritario e volitivo la metteva al centro di tutte le attenzioni, 366 La leyenda negra continua...: la Sardegna viceregia nella narrativa sarda complice marchesa di Villasor una malvagia intrigante, i cortigiani madrileni politici incapaci di comprendere la fedeltà dei sardi alla Corona e il loro desiderio di governare il regno di Sardegna autonomamente, seppur in concordia con il sovrano. Maurandi si discosta, quindi, dalla storiografia più accreditata che si è soffermata a più riprese sui delitti consumatisi nel tardo Seicento cagliaritano e che riconosce la matrice passionale nell’assassinio del marchese di Laconi, un tracotante aristocratico, e reperisce cause complesse per la trattativa che egli come prima voce dello stamento militare porta avanti. Lo scrittore, invece, imbastisce – sulla base di fatti realmente accaduti – un racconto totalmente di fantasia e non privo di imprecisioni nell’ambientazione42. Ugualmente basato su vicende effettivamente avvenute, anche se meno conosciute e avvolte da un velo leggendario, è L’eroe maledetto (2013) di Antonio Strinna, che ripercorre la vicenda del bandito Giovanni Galluresu già raccontata dal cronista secentesco Giorgio Aleo e poi ripresa in un romanzo storico di fine Ottocento, L’alcaide di Longone di Carlo Brundo43. Il protagonista del romanzo è un orfano, allevato da un frate, che ventenne diviene torriere a Longonsardo, l’odierna Santa Teresa di Gallura, e che, una notte in cui i suoi commilitoni si sono allontanati dalla torre per festeggiare la Pasqua, da solo, sconfigge un centinaio di mori, giunti sulla costa con tre sciabecchi e pronti e portare morte e distruzione sulle coste sarde. L’impresa gli fa meritare il titolo di alcalde; ma gli onori che riceve non gli fanno dimenticare la sua posizione di orfano, che non conosce i genitori, assassinati mentre egli stava ancora nella culla. Per questo, si mette in cammino per la Gallura prima e per il Logudoro poi per cercare l’assassino. Egli stesso, però, si macchia le mani di sangue innocente, diventando un bandito, seppure sempre e solo ai danni di quanti sono ricchi e spietati. L’incontro con la comprensiva vedova Agnese riesce a fargli trovare tregua temporanea al suo affannoso quelle buone e quelle cattive, voce di popolo voleva che fosse lei, assai più del marito, la lucida conduttrice degli affari di governo e di famiglia. Lei, ancor più del viceré era ritenuta dal partito sardo la mandante del primo delitto». 42 F. Manconi, Don Agustìn de Castelvì, “padre della patria” sarda o nobile-bandolero?, «Diritto @ storia», 2, 2003, online; J. Revilla Canora, El asesinato del virrey Marqués de Camarasa y el pregón general de Duque de San Germán (1668-1669), in E. Serrrano (a cura di), De la tierra al cielo. Líneas recientes de investigación en historia moderna, Institución Fernando el Católico, Madrid, 2013, pp. 575-584. 43 A. Strinna, L’eroe maledetto, Arkadia, Cagliari, 2013. La vicenda è narrata nel manoscritto di G. Aleo, pubblicato solo nel corso della prima metà del Novecento (G. Aleo, Storia cronologica di Sardegna (1637-1672), tradotta da p. Attanasio da Quartu, Editrice cattolica sarda, Cagliari, 1926, pp. 116-117), e viene ripresa da C. Brundo, L’Alcaide di Longone. Racconto storico del XVII secolo, Cagliari, 1870. 367 Nicoletta Bazzano girovagare; ma proprio mentre lascia la casa della donna, Galluresu viene preso dai soldati del viceré che lo uccidono. Di lui rimarrà un figlio e l’imperituro ricordo, fissato per sempre in strofe popolari, cantate in ogni dove nella Sardegna del tempo e destinate a essere ripetute nei secoli, a suggello della vita di un uomo valoroso e intemperante a ogni forma di ingiustizia. Totalmente frutto di fantasia è invece La storia vera di Diego Henares de Astorga (2013) di Nicolò Migheli44, un romanzo che, a differenza di molta della produzione narrativa isolana, nel ritrarre la Sardegna del secondo Cinquecento tiene conto della vicenda complessiva della Monarchia asburgica. Il protagonista, che dà il titolo al volume, è un pastorello castigliano che prima di approdare a Cagliari si arruola nelle truppe di Filippo II: il Mediterraneo levantino, le Fiandre e la catalana Barcellona sono gli scenari nei quali si svolgono le sue gesta prima che diventi ayudante mayor del sovrintendente alle fortificazioni cagliaritane, grazie alla sua capacità di barcamenarsi fra le due fazioni in lotta sull’isola che fanno capo alle famiglie degli Aymerich e degli Zatrillas. Il suo successo è coronato dalle nozze con una ricca fanciulla sarda, Julia. Ben presto, però, in base agli ordini ricevuti da Madrid, Diego deve ledere gli interessi degli Aymerich, che a loro volta, per vendicarsi dell’oltraggio subito dall’ayudante mayor, brigano affinché Julia sia incarcerata dal Tribunale dell’Inquisizione con l’accusa di essere una strega. Allontanatosi da Cagliari in preda a una rabbiosa disperazione, Diego entra a far parte di una quadrilla, una banda nobiliare, nelle lande del Montiferru. Prima impresa della quadrilla è la liberazione di Julia, in viaggio verso le carceri inquisitoriali di Sassari: un atto che fa diventare Diego un fuorilegge che però riceve protezione dalle genti sarde di Urassala, di cui diviene compaesano, in attesa di nuove avventure. 5. L’uso pubblico odierno dell’antispagnolismo Assai diversi per tono e ritmo narrativo, oltre che per fuoco, questi romanzi rivelano un’unità di fondo, come specchi che – con prospettive diverse – riflettono sostanzialmente la stessa immagine, e la comune volontà di dare, attraverso un affresco del passato, un’interpretazione forte del presente. L’antispagnolismo, più o meno evidente, non è semplicemente un elemento di colore, ma un sentimento che nasce dal sentirsi oggetto di persecuzione costante, la cui pericolosità non diminuisce con la lontananza: «”Re Filippo credo non c’entri nulla. È 44 368 N. Migheli, La storia vera di Diego Henares de Astorga, Arkadia, Cagliari, 2013. La leyenda negra continua...: la Sardegna viceregia nella narrativa sarda la sua corte che ce l’ha con noi. Che vuole asservirci e dominarci, succhiandoci tutte le ricchezze […]”. In quelle poche parole Perique aveva riassunto decenni di contrasti tra la nobiltà locale e la monarchia accentratrice. Non era vero che Filippo non leggesse tutte le carte. Anzi, accadeva proprio il contrario»45. A fronte del fosco ritratto del perfido e crudele spagnolo – spesso un viceré malvagio e che grazie all’astuzia distoglie «l’attenzione dei sardi da certe sue decisioni, non condivise»46 – si staglia quello dell’eroe sardo. Va innanzitutto detto, a scanso di ogni equivoco – come già del resto precisato da Sergio Azteni in un’intervista – che la «sardità» non è elemento che si trasmette con il sangue: l’appartenenza al popolo sardo non è dunque frutto della discendenza, ma piuttosto della capacità di dimostrare balentìa, eroico coraggio misto a reverenziale rispetto per l’ambiente naturale e per i più deboli, nonché una tenace fedeltà alle proprie idee, alla propria terra, ai propri affetti: «un sardo dalla testa dura» viene definito da un sacerdote castigliano il prigioniero Sigismondo Arquer47, nato e cresciuto in Sardegna. Ma non è l’ascendenza o il luogo di nascita a determinare l’appartenenza al popolo isolano. «Non importa dove si è nati, di chi si è figli, è importante come ti senti e chi vuoi essere»48. Fondamentali sono l’attaccamento all’isola, l’adesione a una comunità che ha radici nella notte dei tempi, che ha lasciato tracce della sua presenza «nel villaggio degli antichi, in una grotta dove c’erano colonne mostruose e bizzarre, nella casa dei morti»49, che ha venerato deità importanti e mai dimenticate prima del dio cristiano, affidando loro il compito di proteggere «tutte le leggi che di anno in anno venivano scritte e promulgate»50, e che è custode gelosa di saperi millenari – «l’antica biblioteca dei sardi»51 o «il frutto di una tradizione che si perde nella notte dei tempi»52 –: una comunità che alimenta il desiderio di proteggere il carattere isolano contro gli stranieri conquistatori che non conoscono l’antichità, e quindi il pregio, della popolazione che sottomettono. Il suocero di Diego Henares de Astorga rimarca le risalienti radici dei sardi, sfogliando un antichissimo libro: «Questa è la vera storia del nostro popolo. Qui si racconta ciò che gli altri non dicono o non sanno. Da dove veniamo, chi siamo stati. Chi abbiamo adorato. L’ha scritto tanto tempo fa un uomo col- 45 46 47 48 49 50 51 52 N. Migheli, La storia vera di Diego Henares de Astorga cit., p. 233. A. Strinna, L’eroe maledetto cit., p. 52. G. Angioni, Le fiamme di Toledo cit., p. 51. N. Migheli, La storia vera di Diego Henares de Astorga cit., p. 118. S. Atzeni, Apologo del giudice bandito, Sellerio, Palermo, 1986, p. 127. A. Strinna, L’eroe maledetto cit., p. 33. S. Atzeni, Apologo del giudice bandito cit., p. 30. N. Migheli, La storia vera di Diego Henares de Astorga cit., p. 236. 369 Nicoletta Bazzano tissimo, morto da secoli. Ancora prima che il papa desse la nostra isola in feudo agli aragonesi»53. E tuttavia, più che l’antichità della stirpe, è l’amore per la Sardegna che conta per considerarsi veri abitanti dell’isola. Di origine spagnola sono quanti, nobili e popolani, attorniano don Agustín de Castelví, marchese di Laconi, e lo stesso don Agustín, ma la provenienza non conta a fronte della venerazione che hanno appreso ad avere nei confronti della terra sarda, dalla quale emana un’irrefrenabile energia identitaria54. Giunge dalla Castiglia ma viene immediatamente integrato Diego Henares de Astorga, che si sposa a Cagliari e trova rifugio in un momento di difficoltà nelle impenetrabili lande dell’interno. “Fratello”, per volere del destino, del protagonista dell’Apologo del giudice bandito, Itzoccor Gunale, è il suo assassino, Alì, un musulmano che alla fine di un duello «avrà il cuor e il fegato del vinto» e raccoglierà dalla sua vittima il testimone della balentìa55. La comunità composta dai balentes, i “veri” sardi odiati e disprezzati da tutti gli altri che non ne comprendono il valore – «Maledetti sardi, sono tutti uguali …»56, «lupi son sui varchi»57, «non hanno anima, non brilla alcun barlume, si esprimono con grugniti cinghialeschi, vivono in tane affumicate senza finestra né camino, tremano come pecore quando sentono gli stivali dei soldados»58, «senza una patria, costretti Ivi, pp. 275-276. P. Maurandi, Hombres y dinero cit, pp. 184-185: «”A parte i veleni… in fondo c’è una sola cosa che vi rimprovero – replicò l’arcivescovo – non avere fatto alcuno sforzo per capire i sardi e le loro ragioni.” “Sardi? Ma voi siete spagnoli. Quasi tutte le famiglie nobili sono spagnole!” disse con decisione la marchesa. “Ah è vero, certo – replicò don Pedro – ma vedete, la mia famiglia, come tante altre, è in Sardegna da quasi due secoli, abbiamo da tempo imparato ad amare questa terra, abbiamo appreso i difetti e le virtù dei suoi abitanti, abbiamo capito i loro problemi, che sono diventati anche i nostri. Siamo sardi e siamo spagnoli; è questo che voi non avere capito, non vi siete sforzati di capire, né di intendere la nostra lealtà.” “ Di questa è lecito dubitare!” disse con durezza la marchesa. “È un modo ben singolare di ragionare il vostro – rispose l’arcivescovo – voi ci volete sardi, signori di questa terra, pronti a tenerla in ordine, a difenderla da attacchi esterni e interni, solleciti a raccogliere il donativo. Ma non vi piace che siamo rozzi e duri e fieri come gli antichi abitanti di questa terra». 55 S. Contarini, S. Onnis, Reinterpretazioni del codice barbaricino: i banditi di Sergio Azteni, in P. Serra (a cura di), Questioni di letteratura sarda cit., pp. 215-225. La scena è un elogio della mescidanza, intesa in senso filologico come assimilazione in un contesto linguistico superiore di un elemento proveniente da un contesto linguistico inferiore. Tale tipo di ricezione, che prevede l’adeguamento del nuovo arrivato alle caratteristiche della società che lo accoglie, sembra qualificare ancora oggi la natura della proverbiale accoglienza sarda, soprattutto nei confronti degli immigrati: un’accoglienza che si mantiene benevola fino a quando il nuovo arrivato rispetta i codici comportamentali locali, ma che in caso contrario è pronta a trasformarsi in rifiuto. Ringrazio Eva Garau per le stimolanti conversazioni sull’argomento. 56 S. Atzeni, Apologo del giudice bandito cit., p. 43. 57 Ivi, p. 64. 58 Ivi, p. 107. 53 54 370 La leyenda negra continua...: la Sardegna viceregia nella narrativa sarda a subire la spada e la croce, rinchiusi nel recinto della memoria e della rassegnazione»59 – freme dinanzi a ogni sopruso degli invasori, ma si scopre in grado di resistere alle loro provocazioni, anche per un privilegiato contatto con la natura circostante. Infatti, in questi romanzi, chi al popolo sardo appartiene – sia per discendenza sia per assimilazione – sembra in grado di instaurare con le forze naturali un dialogo magico, impossibile e incomprensibile per gli altri, intessuto di un vocabolario i cui termini emergono da un passato ancestrale, mitico e selvaggio, fatto di lotte con un fato ostile, «con una natura selvaggia, con i suoi spaventosi estremi»60 e con una «terra dura a cui tornavo, con amore e scontento», ma composto anche di istanti preziosi di comunione totale con gli elementi primigeni61. Coloro che non tollerano i catalani, nell’Apologo del giudice bandito, sperano nell’intervento salvifico delle locuste: «Occhi e orecchie del Rey riferiscono che la fazione sarda, i cui resti sono annidati dappertutto, pare ben disposta a subire l’inevitabile carestia se da essa rinascesse la furia delle genti contro la stirpe catalana. Sperano nell’indole indocile e bestiale dei sardi, che si perpetua nei bandidos scellerati che infestano i monti. La fazione sarda crede in loro e nella locusta, che si spera capace di inferocire gli isolani coi morsi della fame e di armarli agli ordini di quei capi. La cenere non ha coperto i carboni della conquista, el Rey sa»62. Nella prigione in cui è rinchiuso, «il bandito più temuto del viceregno […] giudice e volpe […] Satana in persona»63, Itzoccor Gunale viene riverito e mantenuto in vita dai topi, che invece nelle intenzioni del viceré dovrebbero divorarlo64; la schiava Janica, in fuga da Cagliari dopo aver accoltellato il nobile rampollo Rodrigo Curraz che ha attentato alla sua virtù, viene spronata e incoraggiata dalle canne, dai rospi e dallo scirocco, che sembrano proteggerla dai cani che la inseguono, fino a condurla a quella che diverrà la sua casa di donna libera65; Julia, la moglie di Diego Henares de Astorga, durante un temporale che rischia di affondare la nave dove si trova il marito, al largo del golfo cagliaritano, invoca i santi Barbara e Giacomo «come se avesse il potere di controllare quella spaventosa carica di energie»66. A. Strinna, L’eroe maledetto cit., p. 71. Ivi, p. 28. 61 Una rappresentazione parallela avviene in campo cinematografico, almeno fino agli anni Ottanta, come fa notare A. Floris, L’isola che non c’era. Cinema sardo vecchio e nuovo dal folklore alla modernità, «Bianco e nero», 1 (2014), pp. 47-54. 62 S. Azteni, Apologo del giudice bandito cit., p. 35. 63 Ivi, p. 86. 64 Ivi, p. 103. 65 Ivi, pp. 77-85. 66 N. Migheli, La storia vera di Diego Henares de Astorga cit., p. 255. 59 60 371 Nicoletta Bazzano Così come viene rappresentata da questi autori, bistrattata e magica, la Sardegna appare agli occhi dei lettori odierni un’eterna vittima sacrificale, immolata nel corso dei secoli sull’altare dei potenti che di volta in volta l’hanno dominata, a loro maggior gloria, e destinata dalla natura stessa delle cose a un continuo, interminabile, martirio: immagine coinvolgente e ammantata di un fascino cui è arduo resistere67. Difficile per molti lettori, sardi e non, rimanere indifferenti di fronte alle sofferenze di chi è colpito da malaria, vaiolo, peste, cavallette, carestie e che vaga nell’isola alla ricerca di una tregua68, di chi non ha visto «che terra rapinata, […] che invasori più forti, […] che uomini piegati e umili di fronte allo straniero»69, in un «clima di morte e miseria […] in una terra che da secoli non apparteneva più ai suoi figli»70, di chi è sopravvissuto ai villaggi svuotati dalle epidemie che in futuro sarebbero diventati che «poche pietre senza nome, brutalmente spogliate della loro esistenza»71, di chi è stato testimone e vittima di una «Sardegna spagnola [con] passioni personali e passioni civili, delitti gratuiti e catene di vendette [e con] le aspirazioni dei sardi […] dimenticate, fino a quando non verranno altri a farle rinascere»72. Tale immagine, tuttavia, non risponde né parzialmente né nel suo insieme al ritratto della Sardegna spagnola tratteggiato dagli storici nell’ultimo cinquantennio. Autori come B. Anatra, F. Manconi, R. Turtas, A. Mattone, G.G. Ortu, G. Tore e G. Murgia, fra gli altri, ravvisano nell’isola uno spazio complesso all’interno dell’articolato insieme della Monarchia asburgica, retto da logiche che prevedono la ricerca del consenso e l’appoggio delle élites locali, in un gioco politico di enormi dimensioni, sottoposto a continue spinte e controspinte, sicuramente terreno in cui si scontrano gli interessi individuali, ma irriducibile a nette monocasualità: tema specifico, lontano dalle facili immedesimazioni cui indulge la narrativa, ma non per questo poco interessante agli 67 M. Marras, Dall’Ottocento ai nostri giorni: la parabola del romanzo a tema storico in Sardegna tra coloniale e post-coloniale, in P. Serra (a cura di), Questioni di letteratura sarda cit., pp. 195-214. 68 A. Strinna, L’eroe maledetto cit., p. 17: «le poche popolazioni sopravvissute si erano trasferite da una regione all’altra come bestie transumanti, portandosi appresso le ultime miserie insieme a una memoria sempre più ferita, priva degli affetti più cari. Il più delle volte cercando un rifugio, soltanto momentaneo, sulle montagne. Privati della loro terra, della propria storia, portavano altrove e ad altri la loro tragedia, che così si moltiplicava a ogni passo, ovunque andassero». 69 S. Azteni, Apologo del giudice bandito cit., p. 92. 70 A. Strinna, L’eroe maledetto cit., p. 76. Significativamente fra le vittime dello strapotere degli stranieri in terra sarda vengono richiamati Agustìn de Castelvì e Sigismondo Arquer, ivi pp, 75-77. 71 Ivi, p. 91. 72 P. Maurandi, Hombres y dinero cit., p. 351. 372 La leyenda negra continua...: la Sardegna viceregia nella narrativa sarda occhi di chi vuole guardare alla realtà trascorsa e comprenderne le dinamiche73. Sicuramente il quadro problematico di carattere storicistico non è in grado di soddisfare l’attuale sete di conoscenza storica, non solo perché – giustamente – non utilizza l’arma dell’emozione per colpire i lettori, ma anche perché non concede facili apparentamenti fra il tempo passato e il tempo presente. Rischia, anzi, come spesso accade di sembrare “falso”, da un lato perché privo di verità emotiva e dall’altro perché fornito da storici di professione, interessati – nella percezione comune – non a rappresentare la verità, così come si viene ricostruendo, ma a fornirne, per propri inconfessabili fini, una visione distorta74. All’interno della ricostruzione storica, in primo luogo, c’è poco spazio, e marginale, per definizioni protonazionalistiche, che appaiono, irrazionalmente, ai lettori costante ineliminabile della connotazione isolana: la Monarchia asburgica – e con essa la Sardegna –, infatti, è un insieme percorso incessantemente, per ragioni militari e commerciali, ma anche culturali e matrimoniali, da persone e cose. Tuttavia, proprio l’appartenenza regionale, uno dei punti di forza della narrativa sarda di carattere storico, è uno dei tratti amati dai lettori sardi ma difficili da reperire nel discorso storico aulico75. In una regione, in cui l’identità regionale viene indicata dai suoi stessi abitanti come quella più forte, il romanzo storico si fa così interprete di una necessità sentita e diffusa. Facile, inoltre, per gli scrittori sardi attivare nessi attraverso i quali i mali della Sardegna contemporanea sono frutto di una meccanica consequenziale che ha origine nel passato e che si ripete incessantemente senza che i sardi possano avere un’occasione di riscatto. A suggello della fine dell’età spagnola, Strinna non a caso commenta: «La Sardegna cambiava padrone. In pratica, soltanto il nome del padrone. Tutto il resto rimaneva tale e quale. Immutato, come lo era da secoli»76. Le sciagure della Sardegna, anzi, 73 Impossibile qui citare la ricchissima la bibliografia di questi e di molti altri autori. Per una panoramica esaustiva sulla produzione storiografica sull’argomento fino al 1999 si veda V. Nonnoi (a cura di), Il Regno di Sardegna in epoca spagnola. Un secolo di studi e ricerche, Edizioni ETS, Pisa, 2003. Significativamente un romanzo storico che non indulge a una rappresentazione stereotipa della Sardegna spagnola è stato scritto da uno storico, Raffaele Puddu (Pueblo, AM&D, Cagliari, 2000). La vicenda del giovane pastore Diego Flores, che si arruola nell’esercito spagnolo e dal centro dell’isola giunge prima a Cagliari, poi nelle Fiandre e infine al di là dell’Atlantico, fa comprendere la vastità di orizzonti di cui i sardi godevano con l’inserimento del loro Regno all’interno della Monarchia asburgica e le possibilità che si aprivano alla popolazione. 74 Su tale aspetto insiste, per esempio, Martinat, Tra storia e fiction cit. 75 I. Ruggio, L’identità sarda. Caratteristiche e ipotesi di giuridificazione, in G. Demuro, F. Mola, I. Ruggiu (a cura di), Identità e Autonomia in Sardegna e Scozia, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2013, pp. 53-62. 76 A. Strinna, L’eroe maledetto cit., p. 137. 373 Nicoletta Bazzano sembrano acquistare maggiore rilievo e legittimità proprio perché si ripropongono uguali, e irresolubili, da secoli. Inutile dire che tale visione deterministica fa evaporare la possibilità del presente di essere diverso dal passato e, quindi, ogni reale possibilità di cambiamento. D’altro canto, proprio in questa maniera, il lettore viene rassicurato sull’impossibilità di incidenza sul divenire pubblico e sulla necessità di un (passivo ma superficialmente eroico e quindi appagante) atteggiamento «resistenziale», consolatorio, che ne salvaguarda la sua autoassolutoria idea di dignità personale pur non impegnandolo in maniera diretta e compromissoria nell’attualità scottante dell’agone politico77. 77 P. Ciarlo, Rappresentati e rappresentanti ovvero di una cattiva pedagogia politica, ivi, pp. 151-155. Molto interessanti le considerazioni avanzate sul tema da F.L. Marrocu, V. Deplano, F. Bachis, Diversi da chi. Note sull'appartenenza e politiche dell'identità, in L. Marrocu, V. Deplano, F. Bachis (a cura di), La Sardegna contemporanea cit., pp. 691-715. 374 Maria Pia Pedani, Paola Issa IL VIAGGIO DELL’ARABO RA‘D DI ALEPPO A VENEZIA (1654-1656) DOI: 10.19229/1828-230X /37162016 SOMMARIO: Negli anni 1654-1656 l’arabo cristiano Ra‘d, un mercante di Aleppo, raggiunse Venezia con il suo compagno Abd al-Mas īḥ. Quando tornò a casa scrisse una relazione basata sulla sua esperienza nella città dei dogi e nel viaggio che fece per mare. Si tratta di uno delle rare opere in arabo che trattano di un’esperienza di viaggio in una città europea. Il manoscritto si trova nella Biblioteca Apostolica Vaticana ed è stato già edito in arabo nel 2005 e ri-pubblicato e tradotto in inglese in un libro del 2015. Queste due opere sottolineano le peculiarità linguistiche del medio-arabo con influenze ottomane in cui è stato scritto ma non si occupano della parte storica. Al contrario qui si presenta la traduzione italiana basata direttamente sull’originale arabo accompagnata da un ampio saggio introduttivo basato su un confronto tra quanto Ra‘d vide e quanto si conosce della città e della vita veneziana nella seconda metà del Seicento. PAROLE CHIAVE: Aleppo, Arabi cristiani, Venezia, racconti di viaggio, Manoscritti arabi, Storia del XVII secolo, relazioni tra Oriente e Occidente. THE TRAVEL OF THE ARAB RA‘D FROM ALEPPO TO VENICE (1654-1656) ABSTRACT: In the years 1654-1656 the Christian Arab Ra‘d, a merchant from Aleppo, reached Venice with his friend Abd al-Masīḥ. When he came back he wrote a report about what he had seen and lived during his stay in Venice and his travel by sea. It is one of the few reports written in Arabic about a European city. The manuscript is kept in the Vatican Library and it has been already edited in Arabic in an essay in 2005 and re-edited and translated into English in a book in 2015. The two works stress the linguistic peculiarities of the text written in middle Arabic with Ottoman influences, but do not take into consideration its historical setting. On the contrary, this essay presents its Italian translation, made directly on the Arabic original, with a historical introduction based on a confrontation between what Ra‘d saw and what is known about the city of Venice and its society in the second half of the seventeenth century. KEYWORDS: Aleppo, Arab Christians, Venice, travelogues, Arabic manuscripts, 17th century history, East-West relations. n. 37 Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIII - Agosto 2016 ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online) 375 Maria Pia Pedani, Paola Issa 1. Il manoscritto Sin dall’Ottocento la storiografia sull’impero ottomano ha utilizzato e sfruttato a piene mani i resoconti dei viaggiatori europei. Invece pochissimi sono gli scritti, sia in ottomano sia in arabo, di sudditi del sultano volti a raccontare la loro esperienza di viaggiatori nelle contrade europee1. Tra i pochi racconti di viaggiatori arabi in Europa ve n’è uno, conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, che descrive Venezia alla metà del XVII secolo2. Fu scritto dal cristiano Ra‘d, un mercante di Aleppo ed egli stesso afferma che, una volta tornato in patria, venne ordinato diacono verso il 1660, dopo tre anni sacerdote e quindi, intorno al 1671, parroco dal patriarca Makarios ibn-al-Za’īm (1647-1672). Questo presule cita il nostro viaggiatore nel racconto in arabo del viaggio che fece in Moldavia, Valacchia, Ucraina e Mosca tra il 1062 dell’Egira (14 dic. 1651-1 dic. 1652) e il 1069 (29 set. 1658-17 set. 1659), in cerca di sovvenzioni con cui pagare i debiti del suo patriarcato3. Secondo Carsten-Michael Walbiner è probabile che si tratti di quel Giovanni Ra‘d, figlio di Michele, figlio di ḥāǧǧ Farǧallāh, che intorno al 1 B. Lewis, Europa barbara e infedele. I musulmani alla scoperta dell’Europa, Arnoldo Mondadori, Milano, 1983, pp. 264-280; S. Yerasimos, Les voyageurs dans l’Empire ottoman (XIVe-XVIe siècles). Bibliographie, itinéraires et inventaire des lieux habités, Imprimerie de la Societe turque d’histoire, Ankara, 1991, pp. 169-170, 248-249, 290-291; C.-M. Walbiner, “Images painted with such exalted skill as to ravish the senses ...”: Pictures in the Eyes of Christian Arab Travellers of the 17th and 18th Centuries, in B. Heyberger and S. Naef (eds), La multiplication des images en pays d’Islam: de l’estampe à la télévision (17e-21e siècle), Ergon Verlag, Istanbul and Würzburg, 2003, pp. 15-30; H. Kilpatrick, Between Ibn Baṭṭūṭa and al-Ṭahṭāwī: Arabic Travel Accounts of the Early Ottoman Period, «Middle Eastern Literatures», 11/2 (August 2008), pp. 233-248 ; cfr. anche la tesi di laurea di Paola Issa (Ca’ Foscari, a.a. 2007-08) in parte pubblicata in: P. Issa, Il viaggio in Egitto di Muḥibb Al-Dīn Al-Ḥamawi, «Annali. Dipartimento di Studi Storici, Ca’ Foscari, Venezia», (2008-2009), pp. 38-54. 2 Cfr. P. Sbath, Les manuscrits orientaux de la bibliothèque du R. P. Paul Sbath, «Échos d’Orient», 22/132 (1923), pp. 455-477, in particolare p. 168; J. Nasrallah, Histoire du mouvement littéraire dans l’église malchite du Ve au XXe siécle: contribution à l’étude de la littérature arabe chrétienne, vol. 4/1, Période ottomane 1516–1900, Peteers, Louvain, 1989, p. 231; K.-M. Wālbīnar [C.-M. Walbiner], Riḥlat Ra‘d min Ḥalab ilā l-Bunduqiyya, in N. Edelby and P. Masri (eds), Mélanges en mémoire de Mgr. Néophytos Edelby (19201995), CEDRAC, Université St. Joseph, Beirut, 2005, pp. 368-383; E. Kallas, The Travel Account of Ra‘d to Venice (1656) and its Aleppo Dialect according to the Ms. Sbath 89, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano, 2015 (il fac-simile sta alle pp. 1*-38*). Cfr. anche E. Kallas, The Aleppo Dialect according to the Travel Accounts of ibn Ra‘d (1656) Ms Sbath 89 and Ḥana Dyāb (1764) Ms Sbath 254, in M. Menouak, P. Sánchez, Á. Vincente (eds), De los manuscritos medievales a internet: la presencia del árabe vernáculo en las fuentes escritas, Universidad de Zaragoza, Zaragoza, 2012, pp. 221-252. 3 H. Kilpatrick, Between Ibn Baṭṭūṭa and al-Ṭahṭāwī: Arabic Travel Accounts of the Early Ottoman Period cit., pp. 240-241, 247 nota 40. 376 Il viaggio dell’arabo Ra‘d di Aleppo a Venezia (1654-1656) 1662-1663 copiò un altro manoscritto arabo, di argomento teologico, sempre conservato alla Vaticana, e che si descrive come parroco in una nota del 1669-16704. Il manoscritto del viaggio di Ra‘d è una copia del resoconto dell’autore ed è conservato nella raccolta Sbath al n. 89. Edito una prima volta in arabo nel 2005 da Walbiner, è stato recentemente ri-pubblicato da Elie Kallas assieme a una traduzione inglese e a un fac-simile del manoscritto. Alla fine del nostro saggio, volto a inquadrare invece il racconto da un punto di vista prettamente storico, si fornisce anche una nuova traduzione in italiano, basata direttamente sul testo arabo. Infatti, proprio lo studio della storia veneta della seconda metà del Seicento ha permesso di sciogliere qualche dubbio su alcune parole utilizzate nel testo. Non si conosce la data in cui il racconto venne scritto ma sicuramente fu dopo il 1672, dunque sedici anni dopo il viaggio, in quanto, alla fine, esso cita la morte del patriarca Makarios avvenuta proprio in quell’anno. Elementi come il tipo di scrittura e la carta fanno pensare che anche la copia risalga allo stesso periodo. Accompagnano il racconto del viaggio altri tre testi relativi a Venezia, pure editi da Kallas: nel primo si parla della fondazione della città avvenuta nel 421, del primo doge (797), della costruzione della chiesa di San Marco (832) e dell’erezione del campanile (1141); nel secondo si descrive la chiesa di San Marco e nel terzo la torre dell’Orologio. Si può tuttavia discutere se l’autore di tutti i testi conservati in Sbath n. 89 sia lo stesso, in quanto nessun elemento avalla una simile attribuzione, in nessuno dei tre si cita il viaggio a Venezia e inoltre, poiché sono pervenute solo delle copie, si può pensare anche a una raccolta tematica. 2. Le date Ra‘d comincia il suo racconto affermando: «Correva l’anno 7164 di Adamo». Parla cioè dell’era bizantina o della Creazione del mondo, un computo che comincia dal 1° settembre, anticipando di quattro mesi il calendario gregoriano. Quindi il 7164 corrisponde al periodo 1° settembre 1654 - 31 agosto 1655. Dalla lettura del manoscritto, però, si capisce che Ra‘d e il suo compagno Abd al-Masīḥ partirono da Aleppo all’inizio di agosto del 1654, e, salparono da Tripoli di Siria dopo quaranta giorni, nella ricorrenza della festa della Croce che si celebrava allora il 14 settembre. Dopo aver sorpassato l’isola di Cipro la loro nave 4 P. Sbath, Les manuscrits orientaux de la bibliothèque du R. P. Paul Sbath, «Échos d’Orient», 22/131 (1923), p. 299-339, in particolare p. 333 sul ms n. 45 intitolato Les cent questions...; Sbath sottolinea qui la bella calligrafia del manoscritto. 377 Maria Pia Pedani, Paola Issa fece vela verso occidente ma la rotta non fu lineare: arrivò ad avvistare la costa africana e quindi dovette tornare indietro fermandosi due giorni presso Creta. Proseguì poi per la Morea dove trovò rifugio per una notte in un porto utilizzato normalmente da pirati del Maghreb. Dopo una sosta di tre giorni a Zante proseguì poi verso nord toccando prima un porto tra le montagne della costa dalmata e quindi Parenzo. Dopo due mesi i viaggiatori giunsero finalmente a Venezia, cioè verso la metà di novembre, e qui furono trattenuti nel Lazzeretto Nuovo per altri quaranta giorni. Ra‘d afferma poi che trascorse a Venezia un anno intero e che, in quel periodo, morirono ben tre dogi. Infatti tra il 1655 e il 1656 vi furono le esequie di Francesco Molin (20 gennaio 1646-27 febbraio 1655), Carlo Contarini (27 marzo 1655-1 maggio 1656) e Francesco Corner (17 maggio 1656-5 giugno 1656) e l’elezione al dogado di Bertuccio Valier (15 giugno 1656-29 marzo 1658): quindi soggiornò in città tra l’inizio del 1655 e l’estate del 1656 quando finalmente trovò una nave che faceva rotta per Tripoli di Siria. Ripartì infatti per Aleppo solo il 1° di agosto del 1656 e rimase, quindi, a Venezia per circa un anno e mezzo, un tempo più lungo degli usuali viaggi di commercio dei mercanti ottomani che prevedevano di solito una permanenza di sei o otto mesi e seguivano l’andamento delle stagioni con l’arrivo a primavera o autunno e la partenza nell’autunno o nella primavera seguenti. Alcune volte Ra‘d non cita esattamente il giorno del mese, ma solo la festività cui partecipò o in cui avvenne qualche fatto importante per lui. Nei tempi antichi era questo un altro modo per comunicare una data in quanto, in una società impregnata di religione, tutti sapevano quando cadeva una determinata ricorrenza. Per esempio dice che arrivarono a Venezia nel periodo dell’Avvento che, nel 1654, cominciò il 29 novembre. Poco dopo, «al primo giorno di digiuno del Natale», al Lazzaretto venne loro consegnato un quarto di lenticchie. Si trattava del primo mercoledì dopo la festa di Santa Lucia (13 dicembre) che nel 1654 cadde il 16 dicembre. Mentre era a Venezia partecipò, nella quinta settimana di Quaresima, all’ostensione della reliquia del Sangue Divino che si mostrava, infatti, nella chiesa di Santa Maria Gloriosa dei Frari nella domenica di Passione (quinta di quaresima)5. Ra‘d quindi la poté vedere o il 14 marzo 1655 oppure il 2 aprile 1656. Egli vide anche la festa dell’Ascensione (Sensa in veneziano) celebrata giovedì 6 maggio nel 1655 e il 25 aprile nel 1656, l’incoronazione di tre dogi e quindi anche la festa dell’Annunciazione che si celebra sempre il 25 marzo, nove mesi esatti prima di Natale. Ricorda poi il ritorno del 5 F. Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare con le aggiunte di G. Martinioni, Steffano Curti, Venezia, 1663, pp. 187-188. 378 Il viaggio dell’arabo Ra‘d di Aleppo a Venezia (1654-1656) patriarca Makarios ibn-al-Za’īm dal suo viaggio in Russia, nell’aprile 1659, e la sua morte, avvenuta il 12 giugno 16726. Ra‘d era un suddito ottomano: eppure compì il suo viaggio in piena guerra di Candia (1644-1669). Il suo racconto è una testimonianza tangibile di come un tempo, anche durante i periodi di ostilità, si continuavano i commerci e i mercanti viaggiavano anche nei paesi nemici pur con qualche difficoltà data la presenza di navi da guerra che potevano ostacolare le normali rotte commerciali o ritardare carichi e convogli, come infatti sperimentò anche il nostro viaggiatore che dovette evitare di toccare la costa anatolica e far vela direttamente verso il mare aperto. Anche durante la guerra di Cipro (1570-1573), i contatti commerciali veneto-ottomani non si erano interrotti tanto che, quando la notizia della vittoria cristiana a Lepanto (1571) si diffuse a Venezia, i 75 ottomani musulmani e i 97 ebrei ottomani presenti si rifugiarono nella casa del bailo Marc’Antonio Barbaro, per evitare di essere attaccati dalla folla esultante7. Un fatto che colpisce può essere l’assenza nel racconto di Ra‘d di un qualsiasi riferimento agli scontri ai Dardanelli, né a quello del 21 giugno 1655 né, tantomeno, a quello famosissimo avvenuto il 26 giugno 1656 dove la flotta del sultano fu pesantemente sconfitta: i turchi persero infatti 84 unità, 10.000 militari furono uccisi e 5000 fatti prigionieri contro una perdita di tre navi e 300 uomini da parte della Serenissima. In questo caso, però, bisogna tener presente il tempo che le notizie impiegavano per giungere dal Levante: da Costantinopoli a Venezia si impiegavano come minimo trenta giorni, se la navigazione era favorevole, ma anche di più nel caso di accidenti o tempi inclementi. L’annuncio del «disfacimento dell’armata turchesca» fu portato dal comandante Lazzaro Mocenigo, che aveva perso un occhio durante i combattimenti e che, al comando della capitana di Kenan pascià, stracarica di trofei e di schiavi liberati, giunse, il 1° agosto, a Venezia accolto dal saluto dei cannoni che sparavano gioiosamente a salve. Nelle stesse ore Ra‘d partiva e non poté quindi assistere, né raccontare, i tre giorni di festa in cui si cantò il Te Deum e si illuminò a giorno la città8. L’unico riferimento di Ra‘d alla politica internazionale, riportato proprio in una delle ultime righe del suo manoscritto, è il ricordo del secondo blocco veneto dei Dardanelli, dopo il quale il suo compagno Abd al-Masīḥ fece un altro viaggio a Venezia. Tale evento terminò il 19 6 K.-M. Wālbīnar [C.-M. Walbiner], Riḥlat Ra‘d min Ḥalab ilā l-Bunduqiyya cit., pp. 368, 382, note 38-39; E. Kallas, The Travel Account of Ra‘d to Venice (1656) and its Aleppo Dialect according to the Ms. Sbath 89 cit., p. 81 nota 53. 7 M.P. Pedani, Venezia Porta d’Oriente, il Mulino, Bologna, 2010, p. 219. 8 G. Benzoni, Mocenigo, Lazzaro, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 75, Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, Roma, 2011, pp. 140-143. 379 Maria Pia Pedani, Paola Issa luglio 1657, quando il temutissimo Kör kaptan (capitano cieco), cioè Lazzaro Mocenigo, venne ucciso: l’antenna della sua nave, colpita da un (s)fortunato colpo di cannone, gli cadde in testa mentre un’altra palla centrava la santabarbara. Due giorni prima anche il kaptan-i derya ottomano, Topal Mehmed pascià, aveva trovato la morte, condannato dallo stesso gran visir Köprülü Mehmed pascià, per aver allora fallito nel forzare il blocco. Pur senza volerlo le gloriose gesta di Mocenigo contribuirono a mutare drasticamente la storia ottomana e a far risorgere quell’impero dalle sue stesse ceneri: la paura che si diffuse a Costantinopoli tra il 1655 e il 1656, quando ci si aspettava di vedere i veneziani entrare trionfanti in città, spinse la sultana valide Turhan, che reggeva allora lo stato, a cercare un uomo forte cui affidarne la salvezza: lo trovò proprio in Köprülü Mehmed che, il 15 settembre 1656, accettò di essere nominato gran visir in cambio del potere stesso del sultano. Negli anni seguenti questo grande uomo di stato, usando il pugno di ferro, risanò la forza militare, politica ed economica ottomana riuscendo anche a far quadrare i conti del bilancio statale. 3. Il viaggio Ra‘d comincia il suo racconto descrivendo il viaggio da Tunisi di Siria fino all’Adriatico, il «mare di Venezia» (baḥr al-banādiqa) o «dei veneziani» (al-banādiqyyin), come esso era chiamato dagli scrittori arabi sin dai tempi di Ibn Ḥawqal (m. 976- 977). Venezia è l’unica città europea ad aver anche un nome arabo, al-bunduqiyya, parola che sembra derivare non tanto da bunduqa (nocciòla e, dopo l’invenzione delle armi da fuoco, anche pallottola) bensì dal suo nome in greco, pur forse con un qualche riferimento anche alla sua forma e all’antico toponimo Olivolo (dalla forma di una delle sue isolette dove era costruito un castello), con cui era un tempo conosciuta9. Il racconto continua con la descrizione di un incontro con dei pirati maghrebini anche se si può supporre che si sia trattato di albanesi di Dulcigno travestiti da maghrebini, come allora spesso capitava10. Segue poi l’attracco a varie cale per raccogliere acqua e a Parenzo, per imbarcare un pilota esperto di quei luoghi, come ogni nave che si recava a 9 M. Nallino, Venezia in antichi scrittori arabi, «Annali della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere di Ca’ Foscari», 2 (1963), pp. 111-120; Pedani, Venezia, porta d’Oriente, pp. 243-244. 10 M.P. Pedani, Ottoman Merchants in the Adriatic. Trade and smuggling, «Acta Histriae», 16/1-2 (2008), pp. 155-172. 380 Il viaggio dell’arabo Ra‘d di Aleppo a Venezia (1654-1656) Venezia era obbligata a fare per legge11. Infine, già in vista dei campanili di Venezia, la nave venne legata con quattro ancore in mezzo al mare per passare la notte, secondo le indicazioni del pilota, così come fecero altre sei imbarcazioni. Un racconto così preciso non lascia nulla all’immaginazione. Infatti è noto che, a circa due miglia e mezzo da Malamocco, vi era un tempo una zona sicura e di bassi fondali, chiamata «Pelo rosso», segnata anche da boe, dove le navi che dovevano entrare in Bacino usavano trascorrere la notte, oppure aspettare l’alta marea senza la quale non si poteva attraversare quella bocca di porto12. La mattina seguente il galeone su cui si trovava Ra‘d venne trascinato assieme alle altre imbarcazioni, come si era soliti fare, fino alle torri di difesa dove fu detto loro di attraccare. Si tratta di quelle isolette utilizzate per la difesa delle bocche di porto, su cui nel 1571 vennero costruiti dei veri e propri forti su progetto o di Jacopo Sansovino o, più probabilmente, del Sanmicheli. Per quanto riguarda la conoscenza che ne ebbero gli ottomani si può ricordare che questi castelletti sono chiaramente visibili sia nell’immagine di Venezia del portolano del primo cinquecento di Piri Reis sia nell’opera seicentesca di Sayyid Nuh. Stranamente però Ra‘d parla solo di tre bocche di porto, come sono oggi, mentre nella sua epoca ve erano quattro, come dice infatti anche Piri Reis13. Ra‘d racconta anche le varie procedure applicate al Lazzaretto dai veneziani nei confronti di coloro che giungevano da paesi dove la peste era endemica, come l’impero ottomano. Venezia fu la prima città al mondo a dotarsi di una struttura del genere: nel 1423 venne costruito un primo lazzaretto in un’isola della laguna di fronte al Lido; nel 1468 ne venne costruito un altro, detto Nuovo, posto all’inizio del canale di Sant’Erasmo, che dal 1576 fu destinato ad essere primo luogo di accoglienza per i viaggiatori, mentre l’altro, detto da allora Vecchio, venne trasformato in ospedale per i malati contagiosi. Al Lazzaretto Nuovo i viaggiatori vennero confinati per i giorni di quarantena14. Tutto ciò che portavano venne esposto al sole per disinfettarlo, compreso il turbante, il vestito e la camicia. Anche le lettere che avevano subirono un trattamento particolare e vennero spruzzate d’aceto, in quanto si riteneva che così si sarebbero distrutti i germi della peste. In qualche occasione si ricorreva anche all’af- 11 Su questa usanza cfr. anche Pîrî Reis, Kitab-ı Bahriye, The Historical Research Foundation, Ankara, 1988, vol. 2, pp. 854-855, fig. 202/a, che trascrive il nome Parenzo come Pīrānse. 12 G.B.V.M. Grubas, Nuovo costiere del mare Adriatico, Orlandini-Antonelli, TriesteVenezia, 1833, pp. 35-39. 13 Piri Reis, Kitab-i bahriyye cit., pp. 898-903, 904-905, fig. 215/a; Eredità dell’Islam. Arte islamica in Italia, a cura di G. Curatola, Silvana editoriale, Milano, 1993, pp. 408-409. 14 G. Caniato, Il Lazzaretto Nuovo, in Venezia e la peste, 1348-1797, Marsilio, Venezia, 1979, pp. 343-346. 381 Maria Pia Pedani, Paola Issa fumicatura, per cacciare con il fuoco i miasmi mortali: alle volte, cercando tra le carte d’archivio, capita ancora di imbattersi in buste bruciacchiate che recano traccia di un simile trattamento15. A Venezia il nostro viaggiatore, che era cristiano, non fu ospitato nel fondaco dei Turchi, inaugurato nel 1621 e destinato unicamente ai musulmani, bensì presso un veneziano, probabilmente un interprete o un sensale, che poteva trovare in questa attività un’ulteriore fonte di guadagno, come dimostra anche la notazione di Ra‘d sul costo dei pasti offerti loro da chi li alloggiava. Erano soprattutto le abitazioni poste nella zona di San Marco e nelle parrocchie di Santa Maria Formosa e San Giovanni Crisostomo, vicino a Rialto, a essere destinate a quest’uso. Nel Seicento vi andavano a soggiornare i mercanti di passaggio, sia i cristiani sia i persiani sciiti che non volevano condividere gli stessi locali con i loro tradizionali nemici, ottomani e sunniti, tanto è vero che nel 1662, quando il senato veneziano varò una legge per far risiedere in fondaco tutti i musulmani, a qualsiasi corrente appartenessero, alcuni sudditi dello scià scelsero di abbandonare definitivamente la città16. Ra‘d riuscì a vendere la merce che aveva portato in soli due giorni, ma poi dovette aspettare a lungo un passaggio per Tripoli. Anche il viaggio di ritorno fu abbastanza tranquillo. La sua nave raggiunse Zante ma, vicino alla Morea, trovò ancora delle imbarcazioni maghrebine per cui dovette attendere prima di rischiare la traversata. Infine, al seguito di quattro galeoni da guerra che passavano, fece vela per Creta. Passata poi l’isola di Cipro fu bloccata da un galeone di maltesi che vollero controllare se a bordo vi fossero ebrei o turchi, intendendo così, come allora si soleva, non il gruppo etnico bensì la religione cui si apparteneva. Ra‘d raggiunse infine Tripoli e quindi Aleppo, la città da cui era partito. 4. Misure e monete Nel passato durante un viaggio ci si doveva confrontare con pesi, misure e monete differenti. Le unità di lunghezza o capacità variavano da località a località e alle volte anche secondo il tipo di materiale. Lo stesso nome poteva essere applicato a monete diverse a seconda del luogo dove ci si trovava. Non stupisce quindi come Ra‘d si esprime in tale campo. Per esempio, raccontando di una sosta sulla costa dalmata, J. Brossolet, A. Zitelli, La disinfezione delle lettere, in Venezia e la peste, pp. 155-156. M.P. Pedani, Between Diplomacy and Trade: Ottoman Merchants in Venice, in Merchants in the Ottoman Empire, ed. by S. Faroqhi and G. Veinstein, Peeters, ParisLouvain-Dudley, MA, 2008, pp. 3-21. 15 16 382 Il viaggio dell’arabo Ra‘d di Aleppo a Venezia (1654-1656) dice che raccolsero 3 o 4 qinṭār (pl. qanāṭīr) di legna. Non si può sapere a quale misura effettiva faccia riferimento: il cantaro di Aleppo corrispondeva a 229,52 kg, quello grande di Tripoli a 401,66 kg., quello di Costantinopoli a 56,36 kg e quello di Costantinopoli per il cotone a 57,64. Si può supporre che intenda quest’ultimo e parli cioè di circa 169/225 kg, in quanto, calcolando in base alle misure di Aleppo si arriverebbe a circa 688/918 kg, forse un po’ troppi da raccogliere in una breve sosta17. Quando invece descrive una sacra icona della Vergine, dipinta secondo la tradizione da Luca Evangelista, dice che era adornata con quasi 20 roṭl, un’altra misura di peso usata anche per i metalli preziosi che variò tra i 2 e i 3 kg, a seconda delle località: 20 roṭl potrebbero quindi corrispondere a 40/60 kg d’oro e pietre, oppure, se si considerano quelli di Costantinopoli, pari a 0,56 kg ciascuno, otteniamo un peso complessivo di 10 kg circa, certamente più realistico18. In un altro passo afferma che nel primo giorno di Avvento venne loro consegnato un quarto (rub‘iyye) di lenticchie. Non si capisce però se l’autore faccia riferimento a una frazione di moneta o a un’unità di capacità. Nel caso Ra‘d citi monete veneziane si potrebbe pensare al «quarto di ducato», detto anche «quarto di zecchino», coniato in oro sino dal tempo di Pietro Loredan (1567-1570). Nel Seicento gli aridi, come le lenticchie, erano calcolati in base al loro volume e quindi alle misure di capacità. A Costantinopoli si utilizzavano il kile (=37 litri), şinik (= ¼ di kile) e il kutu (=1/2 şinik). Non era invece in uso allora il sistema decimale che fu adottato per la prima volta in Francia nel 1795, nell’impero ottomano nel 1875 e in Egitto nel 1891: proprio nel decreto di riorganizzazione di pesi e misure in base a questo sistema emesso allora dal kedive si cita una misura detta rub‘iyye di cui però non vi è traccia due secoli prima19. 17 A. Martini, Manuale di metrologia, ossia misure, pesi e monete in uso attualmente e anticamente presso tutti i popoli, Loescher, Torino, 1883, pp. 19, 179. 18 H. Inalcik, Weights and Mesures, in An Economic and Social History of the Ottoman Empire, 1300-1914, ed. by H. nalcık, D. Quataert, Cambridge U.P., Cambridge, 1994, p. 992; A. Martini, Manuale di metrologia, ossia misure, pesi e monete in uso attualmente e anticamente presso tutti i popoli cit., p. 179. 19 Secondo J. Redhouse, A Turkish and English Lexicon, Librairie du Liban, Beirut, 1890, p. 963, rub‘iyye significa «1. Pertaining to a fourth part; 2. A gold coin, quarter of sequin, and of the same value of the Spanish dollar; the name was afterwards given to the gold piece of 100 paras, the eight of a sequin, and worth about sixpence sterling; the term is now sometimes applied to a gold 25 piastre piece, of the value of four shillings and six pence sterling.»; E. Martinori, La moneta. Vocabolario generale, Istituto Italiano di Numismatica, Roma, 1915, p. 409. Sul variabile rapporto tra ducati e zecchini, cfr. F. Rossi, “Melior ut est florenus”. Note di storia monetaria veneziana, Viella, Venezia, 2012, pp. 81-103. Système des mesures, poids et monnaies de l’Empire Ottoman et des principaux états, Galata, Constantinople, 1910, p. 16-19; H. Inalcik, Weights and Mesures cit., pp. 987-994. 383 Maria Pia Pedani, Paola Issa Per quanto riguarda le monete, Ra‘d cita in tre occasione i qirīš. Una prima volta afferma che al Lazzaretto ne pagarono uno al giorno a chi li sorvegliava per tutti i quaranta giorni in cui vi furono trattenuti. Più avanti dice che mangiare presso chi li ospitava a Venezia sarebbe loro costato quotidianamente un terzo di qirīš. Infine ricorda che i trovatelli affidati alla pubblica assistenza erano abbandonati dai loro genitori con una metà di una moneta d’argento di questo tipo, che poteva poi essere utilizzata per un successivo loro riconoscimento. Di solito questa parola viene tradotta con il termine piastra (kuruş); però, se si controlla più attentamente, si scopre che tale moneta venne introdotta per la prima volta nell’impero ottomano nel 1688, quindi circa trent’anni dopo la fine del viaggio. Nel 1690 un kuruş pesava gr. 26 e aveva un contenuto di argento puro di gr. 15,6; allora 1 ducato corrispondeva a 2 kuruş e 60 akçe e 1 kuruş a 120 akçe. O si tratta di un voluto anacronismo dovuto o all’autore o al copista, oppure bisogna pensare che si faccia qui riferimento a un’altra moneta. Qirš deriva dalla parola groschen/grosso, termine usato anche per una moneta veneziana d’argento (tra i 1,40 e i 2 gr.), corrispondente alla 24 parte di un ducato, che però a metà Seicento non era più coniata da secoli. A questo punto si possono fare solo supposizioni: nel caso non si faccia riferimento a una moneta ottomana bensì veneziana si possono proporre o gli scudi (31,83 gr. d’argento per quello coniato nel 1656) o, molto più probabilmente visto il valore, i soldi (2,04 gr. di mistura d’argento, 1656) che erano valute allora correntemente usate. Quando infine Ra‘d racconta della morte e dell’incoronazione ducale parla dei famosissimi ducati d’oro, chiamati in arabo bunduq dal nome della città, e di dirham, parola allora usata per indicare genericamente le monete o il denaro, oltre a essere un’unità di misura per metalli preziosi e spezie20. 5. Le chiese e le celebrazioni Ra‘d approfittò del soggiorno veneziano per visitare svariate chiese e venerare reliquie di santi legati al mondo orientale. Fu dunque nell’isola della Giudecca, posta di fronte a San Marco, per venerare Sant’Atanasio il Grande, patriarca di Alessandria, alla cui intercessione si era affidato durante una tempesta. Il santo corpo era stato portato da Costantinopoli a Venezia nel 1455 e posto nella chiesa di Santa Croce della Giu- 20 S. Pamuk, A Monetary History of the Ottoman Empire, Cambridge University Press, Cambridge, 2000, pp. 159-164; C. Gamberini di Scarfèa, Prontuario prezzario delle monete, oselle e bolle di Venezia, Forni, Bologna, 1969, p. 109; Système des mesures, poids et monnaies de l’Empire Ottoman et des principaux états cit., p. 18. 384 Il viaggio dell’arabo Ra‘d di Aleppo a Venezia (1654-1656) decca; a causa della soppressione dei conventi in epoca napoleonica fu traslato a San Zaccaria dove rimase dal 1810 al maggio 1973, quando passò nella chiesa di San Marco ad Alessandria d’Egitto. Alcuni però avanzano riserve sull’autenticità della reliquia sostenendo che il corpo sarebbe quello di Sant’Atanasio patriarca di Costantinopoli (12891309). Ra‘d visitò anche il tempio di San Giovanni Battista in Bragora, dove ancora si conserva il corpo di San Giovanni Elemosinario, patriarca greco di Alessandria d’Egitto, qui traslato da Costantinopoli nel 1249. A Sant’Antonino poté invece vedere le reliquie del monaco San Saba (Mar Saba). Dal monastero omonimo posto a est di Betlemme furono portate a Venezia nel 1249, ma nel 1965 vennero restituite agli antichi possessori. Si tratta però di una reliquia poco sicura tanto che, già nel 1830, era stata proposta l’abolizione di questo culto21. Come molti moderni turisti anche Ra‘d, nella sua affannosa ricerca di tracce del passato e della sua cultura, fu forse ingannato o ricevette comunque informazioni errate. Non si spiega altrimenti la sua affermazione di aver visitato la chiesa dedicata a San Gregorio di Nissa. A Venezia non esistette mai un edificio per questo santo mentre vi erano invece una chiesa e un’abbazia dedicate a San Gregorio I Magno, papa e dottore, oltre alle reliquie di San Gregorio Nazianzeno, vescovo di Costantinopoli, il cui cranio era suddiviso tra la chiesa di San Luca e quella di Santa Maria dei Crociferi. Il corpo di questo santo si trovava allora a Roma, ma poi, nel 2004, venne donato al patriarca di Costantinopoli. Secondo Ra‘d si trattava del patriarca di Costantinopoli, mentre in realtà il santo titolare era o un vescovo di Verona o un confessore di Bologna. Non esiste più oggi invece la chiesa dedicata a San Proclo (vulgo San Provolo). A pochissima distanza da campo San Provolo, si trova la chiesa di San Zaccaria, pure visitata dal nostro viaggiatore: non è chiaro se le reliquie del santo titolare qui conservate appartengano a un profeta minore o al padre del Battista, ma, secondo la tradizione, furono inviate al doge dal basileus Leone V l’Armeno (813-820), lo stesso che regnava quando arrivò a Venezia la reliquia di San Marco22. Nella domenica di Passione del 1655 (14 marzo) o del 1656 (2 aprile), Ra‘d assistette nella basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari all’osten- 21 F. Corner, Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia e di Torcello, Stamperia del Seminario, Padova, 1758, pp. 29-30, 32, 538; G. Musolino, A. Niero, S. Tramontin, Santi e beati veneziani. Quaranta profili, Studium cattolico veneziano, Venezia, 1963, pp. 195, 198, 199-200, 202-204, 289-290, 297, 322. 22 In tempi antichissimi da Samo fu portato a Venezia anche il corpo di un altro San Gregorio, eremita e soldato, compagno di Teodoro e Leone. F. Corner, Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia e di Torcello cit., pp. 41-42, 126, 128, 220, 304, 432436; G. Musolino, A. Niero, S. Tramontin, Santi e beati veneziani. Quaranta profili cit., pp. 121, 171-172, 189, 194-195, 293, 323. 385 Maria Pia Pedani, Paola Issa sione dell’ampolla con il sangue di Cristo arrivato anch’esso da Costantinopoli. Egli vide anche altre cose: per esempio il dito di San Basilio, venerato un tempo nella chiesa omonima chiusa nel 1810 e distrutta nel 1824, che si trova oggi a San Giorgio dei Greci, e il corpo di Anastasio il persiano, monaco e martire di Cesarea, portato sempre da Costantinopoli nel 1204 e venerato allora a Santa Tèrnita e poi traslato, in epoca napoleonica, a San Francesco della Vigna. Tra i quadri invece Ra‘d ricorda un’icona attribuita all’evangelista Luca e incorniciata d’oro. Si tratta sicuramente della Nicopeia, che gli imperatori bizantini usavano portare in battaglia. Giunta prima del 1234 fu collocata a San Marco e, nel 1618, fu adornata con una preziosissima cornice. Altre icone attribuite a San Luca giunsero in città, come la Mesopanditissa, portata da Candia da Francesco Morosini nel 1670 e posta nella chiesa di Santa Maria della Salute, mentre un’altra, piccola e poco appariscente, era venerata un tempo nella chiesa della Carità. Sempre a San Marco, dalla parte del Molo, vide anche il mosaico della Vergine con il bimbo, opera del XIII secolo, detta anche Madonna di Broglio, dalla parola brolo, giardino, davanti alla quale brilla ancora un lume, così come volle un dalmatino che si salvò da un naufragio proprio perché riconobbe una lampada che ardeva allora davanti a quella sacra immagine. Ra‘d si recò anche ai SS. Giovanni e Paolo, il pantheon veneziano dove venivano sepolti gli eroi della patria. Egli non si occupò però di notare i monumenti di quanti combatterono gli ottomani, come Marc’Antonio Bragadin, e neppure si diede premura di citare la cappella del Rosario, costruita a fianco della sacrestia per celebrare la vittoria veneziana a Lepanto (1571), come se la politica internazionale che pure coinvolgeva la sua patria non lo sfiorasse. Era invece, come cristiano, molto più interessato alle immagini sacre come l’icona greca detta Madonna della Pace, davanti alla quale, secondo la tradizione, San Giovanni Damasceno aveva recuperato miracolosamente l’uso di una mano. Portata a Venezia da Costantinopoli nel 1349 dal nobile Paolo Morosini, venne da questi donata ai padri domenicani e, dopo essere stata conservata sull’altare della sala capitolare, venne poi nel 1505 situata nella nuova cappella allora eretta nella basilica, dalla parte della Scuola di San Marco23. 23 F. Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare cit., pp. 102, 187-188; F. Corner, Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia e di Torcello cit., pp. 34, 86, 363, 419, 450; Forestiero illuminato. Intorno alle cose più rare, e curiose antiche e moderne della città di Venezia, Giambattista Albrizzi, Venezia, 1772, pp. 16-17, 306; G. Musolino, A. Niero, S. Tramontin, Santi e beati veneziani. Quaranta profili cit., pp. 116, 246, 253-254, 289, 297, 302; Venezia favorita da Maria. Relazione delle imagini miracolose di Maria conservate in Venezia, Stamperia del Seminario-Manfrè, Padova, 1758, pp. 117-118. Ora l’icona è collocata in una cappella dall’altra parte della navata centrale. 386 Il viaggio dell’arabo Ra‘d di Aleppo a Venezia (1654-1656) Ra‘d si sofferma a descrivere anche alcune, per lui strane, usanze veneziane. Parla, per esempio, di dodicimila ponti e dodicimila barche mentre oggi, dopo secoli di costruzioni, sono poco più di 400 quelli che uniscono le 118 isolette del tessuto urbano. Un’altra curiosità che annota riguarda la mancanza di acqua sorgiva: un tempo si doveva infatti ricorrere all’acqua piovana, raccolta nei pozzi, o a quella dei fiumi dell’entroterra trasportata con barche sino in città. Ra‘d afferma, a questo proposito, che i veneziani non si dissetano con l’acqua, bensì con solo vino che tracannano come fosse succo di lampone di Damasco. Non parla invece dei luoghi di mescita, delle malvasie, dedicate al dolce vino greco, o dei bastioni da vin, dove si serviva solo il vino e non il cibo, che era riservato alle furatole, dove invece si poteva solo mangiare e non bere. Non cita neppure il fatto curioso che, nel lessico marinaresco ottomano, il termine di chiara origine veneta lōstārya voleva dire bettola o taverna24. Un’altra strana usanza era quella che permetteva alle famiglie povere di abbandonare i neonati lasciandoli con la metà spezzata di una moneta in un catino di pietra, vicino a piazza San Marco. Essi venivano allevati a spese dello stato ed eventualmente restituiti a chi fosse presentato con l’altra metà della moneta. In questo caso Ra‘d non cita giustamente la chiesa della Pietà, presso cui stava la ruota per gli esposti, che venne infatti costruita solo all’inizio del XVIII secolo. Sempre a San Marco vide invece sia la processione per la Nicopeia, sia le botteghe in legno costruite per l’Ascensione, sia gli svaghi e le feste celebrate tra il Natale e il martedì grasso. Descrive poi la torre dell’Orologio, dove sono ancor oggi due statue di ferro che battono le ore e un meccanismo che mostra le fasi lunari. In particolare lo colpì la processione delle statue dei re Magi che nel giorno dell’Annunciazione camminano e si inchinano di fronte alla Vergine e al Bambino. Vide probabilmente con i suoi occhi i bambini veneziani sostare ammirati davanti a un simile spettacolo gridando ‘Annunciazione, annunciazione’, come si faceva ancora cinquant’anni fa. Ricorda infine le zattere che portavano a Venezia il legname che era poi usato come combustibile. A Codissago esiste dal 1982 un museo etnografico che racconta la storia degli zatereri che fornivano alla Dominante un materiale così prezioso per la vita quotidiana. Tre furono gli eventi che meritarono però una più lunga attenzione: la festa dell’Ascensione (la Sensa in veneziano) e le esequie e l’intronizzazione del doge. Ra‘d descrive lo sposalizio con il mare che si celebrava ogni anno, quando il doge si recava alla bocca del porto di Lido che egli 24 J. Redhouse, A Turkish and English Lexicon cit., p. 1643. L’uso del termine ‘osteria’ è attestato per la prima volta proprio a Venezia nel XIII secolo. 387 Maria Pia Pedani, Paola Issa definisce infatti boğaz. Era celebrata quaranta giorni dopo la Pasqua. Ra‘d poté quindi assistervi sia il 6 maggio 1655 sia il 25 aprile 1656. In occasione di tale solennità si imbarcavano sul bucintoro il doge e la Signoria, organo costituito dal doge e i sei consiglieri ducali, cui si aggiunsero, dall’inizio del ‘400, i tre capi della Quarantia Criminal, il massimo tribunale dello stato veneziano. In tutto quindi dieci persone cui si aggiungevano vari notabili cittadini. Ra‘d però cita quaranta ministri (wazīr) che accompagnavano il doge e i nobili della città. Se bisogna dar fede alle sue parole, e non ritenere quel numero solo una cifra generica indicante gran quantità, potrebbero essere un riferimento impreciso ai 41 elettori ducali che poco prima della festa dell’Ascensione del 1655 misero sul trono Carlo Contarini25. Poco dopo nel manoscritto, descrivendo la complicata prassi veneziana in materia di elezione ducale, i numeri degli elettori risultano infatti imprecisi: Ra‘d parla di successive estrazioni di quaranta, dodici e quattro persone, cui era demandata infine la nomina della massima carica dello stato. Un’antica poesia invece così descrive questa usanza: Nove di trenta e poi quaranta sono / Poi dodici, poi venti e cinque appresso, / nove, quarantacinque, undici, e messo / dai quarantuno è il sommo duce in trono26. Più lunga è la descrizione delle cerimonie in occasione di esequie e intronizzazioni. Ra‘d stesso racconta, come detto, che fu presente alla morte e salita al potere di ben re dogi. Quindi parla dell’usanza di riprodurre in cera il volto del defunto, di pagare i suoi debiti prima del funerale e quindi della complicata elezione dogale e delle svariate estrazioni a sorte di nomi di elettori fatte con bossoli (contenitori cilindrici in legno detti anche cappelli se ricoperti di velluto) e balote (biglie) che avvenivano per cercare di limitare al massimo i brogli, parola che deriva proprio dal brolo situato presso il palazzo ducale dove i nobili veneziani si ritrovavano a discutere di politica. Se l’eletto non era presente, la nomina gli veniva annunciata dal cancellier grande che gli consegnava un cappello nero, una baréta a tozzo, in velluto, non dissimile da quelli di lana nera, un tempo usati effettivamente, ma che dalla seconda metà del Seicento erano solo portati in mano dai nobili veneti in segno di distinzione. F. Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare cit., p. 500. A. Da Mosto, L’Archivio di Stato di Venezia, vol. 1, Biblioteca d’Arte, Roma, 1937, p. 16 (volume scaricabile in pdf in: http://www.archiviodistatovenezia.it/web /index.php?id=67, consultato il 22.02.2016). Cfr. quanto dice, a proposito dell’elezione dogale, anche un altro ottomano, il cronachista Na’îmâ, Târih-i Na’îmâ, haz. M. İpşirli, Türk Tarih Kurumu, Ankara, 2007, vol. 2, p. 909; M.P. Pedani, La Serenissima vista dal Turco, in Città della Strada. Città della Spada. Cividale e Palmanova, a cura di M.A. D’Aronco, Società Filologica Friulana, Udine, 2013, pp. 101-111. 25 26 388 Il viaggio dell’arabo Ra‘d di Aleppo a Venezia (1654-1656) Di solito tale cerimonia era fatta nella sala dei Pregadi a Palazzo Ducale ma, tra i dogi eletti mentre Ra‘d era a Venezia, ricevettero a casa tale distintivo sia Carlo Contarini sia Bertuccio Valier, che addirittura si trovava da quattro giorni a letto a causa della podagra che lo tormentava. Il cappello non veniva quindi consegnato in basilica, come racconta Ra‘d. A San Marco il nuovo eletto riceveva dal primicerio lo stendardo rosso con il leone, usato dalla flotta di Venezia, e il bastone del comando. Veniva quindi fatto sedere su una specie di trono, detto pozzetto, coperto da un parasole, e portato a spalla dai lavoratori dell’arsenale (gli arsenalotti) attorno alla piazza, mentre il doge gettava monete alla folla festante. Si trasferivano quindi tutti in corteo a Palazzo dove, alla sommità della Scala dei Giganti, dopo aver promesso fedeltà alla Repubblica e alle sue leggi, il doge riceveva il camaùro, cioè la berretta bianca, dal più giovane tra i consiglieri ducali e quindi, dal più anziano, era incoronato con il corno ducale, detto anche acidario o zoia27. Seguivano poi le feste con distribuzione di pane al popolo. Le cronache veneziane ricordano a questo proposito soprattutto la munificenza mostrata da Carlo Contarini, che gettò monete in gran parte d’oro durante il giro che fece in piazza e quindi diede pane e vino in gran quantità28. 6. Conclusione I documenti forniscono il nome di altri orientali che, a metà Seicento, nello stesso periodo del viaggio di Ra‘d e del suo compagno Abd al-Masīḥ, soggiornarono a Venezia. Si trattava di ambasciatori, mercanti e, alle volte, anche spie. Per esempio, nel maggio 1656 era sicuramente in città un suddito dello shah di nome Yusuf il quale, dopo essere stato a Creta, tornava nel suo paese passando per la Tana, in modo da evitare le terre ottomane. Nello stesso mese si trova notizia anche di un certo Seyfi, forse un persiano o forse una spia del sultano, che poi proseguì il suo viaggio verso la Francia e da Parigi scrisse una lettera di ringraziamento per il doge29. Contemporaneamente morì un Hacı Mehmed, lasciando delle stoffe di pelo di cammello (zambelotti) che furono poi vendute e il cui ricavato venne depositato in Zecca dallo 27 A. Vitali, La moda a Venezia attraverso i secoli, Lessico ragionato, Filippi, Venezia, 1992, pp. 46-48. A. Da Mosto, I dogi di Venezia nella vita pubblica e privata, Giunti, Firenze, 1977, pp. 384, 393. 28 A. Da Mosto, I dogi di Venezia nella vita pubblica e privata cit., p. 384. 29 M.P. Pedani, A Seventeenth Century Muslim Traveller in Paris, «Quaderni di Studi Arabi», 13 (1995), pp. 227-236. 389 Maria Pia Pedani, Paola Issa stato veneziano, in attesa dell’arrivo degli eredi30. In ottobre arrivò un çavuş da Costantinopoli, di nome Mustafa, per parlare di pace31. Nel gennaio 1656 morì invece nella parrocchia di Santa Maria Formosa un musulmano di circa 70 anni, Hacı Ahmed Nazinali32, mentre nel 1660 ne morirono altri due33. Nel 1662 venne espulso Hacı Osman, sospettato di spionaggio, il quale da anni risiedeva a Venezia senza esercitare alcuna mercatura34. Nel 1665 il persiano Mustafa arrivò per reclamare l’eredità del padre Hoca Hüseyin, detto Mullah, morto a Venezia nel 1631 mentre ad aprile 1665 morì Abdulqi Spira che abitava nel fondaco dei Turchi; nel 1668, alla fine della guerra, ci fu una lite tra i fratelli della Bernarda e un certo Ömer per una questione legata al commercio di stoffe35. Nello stesso tempo si potevano incontrare anche musulmani convertiti, spesso sudditi del sultano fatti schiavi o trattenuti, come quella Zanetta turca cui il doge Giovanni Pesaro lasciò per testamento un legato nel 165936, o come quel gruppo di trecento «volontari» che combattevano allora per i veneziani a tre dei quali, nell’ottobre del 1654, venne aumentato il salario37. I cristiani ottomani hanno invece lasciato tracce minori. Appartenne probabilmente a questa categoria un Caram d’Affif quondam Seftallah che nel 1661 presentò all’ufficio dei Savi alle decime la dichiarazione di beni immobili che allora possedeva nella zona di Treviso38. Molti dunque erano i sudditi del sultano ottomano e dello shah safavide che Ra‘d avrebbe potuto incontrare. Eppure nessuno di loro ha lasciato un racconto del suo soggiorno veneziano e quello del nostro viaggiatore appare dunque come un unicum, raro e eccezionale, silenziosa testimonianza di una persona curiosa e aperta a conoscere l’altro e il diverso. 30 Archivio di Stato di Venezia (in seguito Asve), V Savi alla Mercanzia, 2ª serie, b. 186. 31 M.P. Pedani, In nome del Gran Signore. Inviati ottomani a Venezia dalla caduta di Costantinopoli alla guerra di Candia, Venezia, Deputazione editrice, 1994, p. 209. 32 G. Lucchetta, Note intorno a un elenco di turchi morti a Venezia, in Veneziani in Levante. Musulmani a Venezia, «Quaderni di Studi Arabi», suppl. 15 (1997), pp. 133-146. 33 Asve, Avogaria di Comun, Misc. Civil, b. 39, fasc. 14. 34 M.P. Pedani, Venezia. Porta d’Oriente cit., p. 214, 35 Aave, V Savi alla Mercanzia, 2ª serie, b. 186. 36 Asve, Inquisitorato alle acque, reg. 509, c. 38v. 37 M.P. Pedani, Oltre la retorica. Il pragmatismo veneziano di fronte all’Islam, in L’Islam visto da Occidente. Cultura e religione del Seicento europeo di fronte all’Islam, a cura di B. Heyberger, M. Garcia-Arenal, E. Colombo, Paola Vismara, Genova-Milano, Marietti, 2009, pp. 171-186. 38 Asve, Dieci Savi alle Decime in Rialto, b. 222/1131; G. Gullino, Quando il mercante costruì la villa: la proprietà dei Veneziani nella Terraferma, in Storia di Venezia, vol. 6, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1994, pp. 875-924, in particolare p. 918. 390 Il viaggio dell’arabo Ra‘d di Aleppo a Venezia (1654-1656) TRADUZIONE (c. 10r) Descrizione del nostro viaggio a Venezia, terra franca. Era l’anno settemilacento sessantaquattro di Adamo. Viaggiammo io, misero Ra‘d, e Abd al-Masīh,̣ nei paesi franchi fino alla città di Venezia. Partimmo da Aleppo alla volta di Tripoli e soggiornammo a Tripoli quaranta giorni. Salpammo da Tripoli con il galeone del capitano Martin e era la notte della festa della Croce. Gli amici ci salutarono e salpammo e il capitano sparò col cannone [a salve] e partimmo. Dopo quattro giorni vedemmo l’isola di Cipro e, dopo sette giorni oltrepassammo l’isola di Cipro, e seguimmo la rotta, e non vedemmo più né terra né isola. Il capitano ordinò al nostromo di virare oltre la punta di Creta perché c’era l’accampamento dei militari turchi. Dopo sette giorni, verso sera, vedemmo degli uccelli sopra la nave. Sparò con il fucile e ne fece cadere due che assomigliavano a dei polli gialli, ma erano delle quaglie. Guardando gli uccelli, vedemmo la terra vicino a noi. Era a un quarto d’ora. Se avessimo accostato verso terra, ci avrebbero presi prigionieri; era il paese dei berberi, vicini al Maghreb. (c. 10v) Virammo e la nave tornò indietro. Il vento era molto forte, cosicché l’albero di prua si ruppe e la nave sbandò. Arrivò la notte e ci preparammo ad annegare. Ci salutammo gli uni con gli altri e disperavamo della vita. Dopo questo tirammo via dalla vela l’albero, che continuava ad inclinarsi e lo mettemmo sulla nave, che si stabilizzò e tornammo indietro. Dopo qualche giorno scoprimmo l’isola di Creta (Krīt), che si chiama anche Iqrīṭiš 39; ci avvicinammo all’isola, a distanza di un lancio di pietra. Il vento si fermò e rimanemmo fermi per due giorni. Dopo l’arrivo del vento mandatoci da Dio, uscimmo vicino all’isola e ripartimmo dopo aver rialzato le vele. Dopo sette giorni oltrepassammo l’isola di Iqrīṭiš e navigammo in mezzo al mare; poi ci avvicinammo all’isola40 di Morea chiamata anche Peloponneso. Seguimmo le coste dell’isola per sette giorni poi il vento divenne più forte e giungemmo presso una piccola isola, dove ci fermammo. Era un porto per i pirati maghrebini. La nave fu coperta con una rete metallica annodata (c. 11r) poi furono portate delle lance con delle teste come un grosso ago. Dettero a ognuno di noi una lancia e dissero: «Rimanete svegli, che nessuno dorma, e se vedete qualcuno sopra la rete, colpitelo con la lancia» e poi, quando giunse l’alba, salpammo [e navigammo] per cinque giorni, lasciando questo posto, e arrivammo all’isola di Zante che era in mano ai franchi veneziani, all’inizio della loro dominazione. Rimanemmo lì per tre giorni. 39 Creta in turco detta Girit, ottomano Kirīd, in veneziano Candia, in greco Κρήτη (pronuncia Kríti). 40 Sic, recte penisola. 391 Maria Pia Pedani, Paola Issa Poi la lasciammo per navigare nel mare Adriatico che è il mare veneziano. Navigammo in questo mare per sette giorni. Il vento si fermò e noi ci fermammo in un porto lontano un miglio marino dalla terra. Dopodiché navigammo altri sette giorni, ma terminammo la riserva d’acqua per bere e per fare da mangiare e, dopo molti sforzi, trovammo un porto sperduto tra le montagne e ci fermammo; cinque uomini sbarcarono dal galeone e scesi anch’io con loro, a me diedero il timone e a essi i remi e girammo per una trentina di isolotti. Guardavamo, cercando acqua, ma non c’era nessuna acqua; non sapevamo cosa fare per bere e cucinare! Dopo questo, vicino al mare c’erano delle grandi botti e dentro c’era dell’acqua piovana. Il mare arrivava, quando le onde si abbattevano (c. 11v) e spruzzavano acqua, e l’acqua piovana diventava salata. Riempimmo i barili di quest’acqua piovana e ritornammo la sera al galeone. L’indomani salimmo sulla montagna e spaccammo circa tre o quattro cantara di legna. Poi navigammo per altri cinque giorni. Il vento si era alzato e la nave era rimasta in mezzo al mare, e le onde si abbattevano su di noi come montagne. E stavamo annegando; allora gridammo al capitano «Trova un porto vicino, per evitare il naufragio!» allora egli, guardando con il cannocchiale, vide un porticciolo e disse: «Questo è un porto dove, se il galeone sosta, ho paura che non ne esca più.» Allora noi rispondemmo: «Dobbiamo annegare tutti per la tua nave?» Allora virò verso terra e arrivammo e ci fermammo, e trovammo altre dieci piccole imbarcazioni attraccate in quest’isola. Prima dell’alba da tutte le piccole imbarcazioni ci gridarono «Andatevene prima che il vento rinforzi: impedirete di uscire anche a noi». Allora uscimmo da questo porticciolo e la nostra barca navigò in sicurezza lungo la costa e dopo sette giorni arrivammo in una città chiamata Parenzo41. (c. 12r) Gettammo l’ancora e a un miglio di distanza c’era un’isola. Il capitano sbarcò in questo paese e portò con sé un nuovo pilota, in quanto il pilota che si trovava sulla nostra nave non era del posto e non poteva governare il galeone, in quanto il mare diventava poco profondo in certi luoghi, e le rotte da seguire le conoscevano solo loro. Dopo due giorni lasciammo questa città e il nuovo pilota aveva in mano una cima legata a un piombo, e ogni ora misurava e diceva al nostromo: «Vira a destra» o «Vira a sinistra» e dopo tre giorni scoprimmo di lontano le montagne del paese germanico. 41 Būlṭ, recte Parenzo. K.-M. Wālbīnar [C.-M. Walbiner], Riḥlat Ra‘d min Ḥalab ilā l-Bunduqiyya cit., p. 375 nota 18: Būlṭ, la città di (Pula) si trova oggi in Croazia. E. Kallas, The Travel Account of Ra‘d to Venice (1656) and its Aleppo Dialect according to the Ms. Sbath 89 cit., p. 63: Būlṭ / Bulat (Pola). Probabilmente errata lettura da parte del copista di un originale Bīrānse come si scriveva questo nome in ottomano. 392 Il viaggio dell’arabo Ra‘d di Aleppo a Venezia (1654-1656) E dopo un giorno vedemmo le sommità dei campanili che sono a Venezia. E la sera vedemmo Venezia. Il pilota ordinò di fermarci e buttammo quattro ancore, a est e ovest, a nord e sud, perché non c’era un porto e neanche una protezione. Guardando intorno c’erano altre sei imbarcazioni ferme vicino a noi. Passammo la notte senza dormire per la paura, perché spesso si rompono gli attracchi e la nave torna indietro e si squarcia. Quando arrivò il giorno, c’era una nebbia così fitta che non potevamo vederci l’un l’altro. Ecco che venticinque imbarcazioni, di quelle grandi (c. 12v) che uscivano da Venezia, si diressero verso quelle che erano ferme. Allora il nostro galeone cominciò a sparare cannonata dopo cannonata, così sarebbero venuti da noi, e ci avrebbero fatto attraccare per primi. Si diressero verso di noi e il capitano li pregò di trascinare la nostra imbarcazione. Legarono una cima molto grossa alla prua del nostro veliero e legarono a questa cima altre venticinque corde e ogni cima era legata a un’imbarcazione. Cominciarono a remare, e così trainarono il nostro veliero, e il loro pilota era davanti a tutti e teneva in mano una lancia, e ogni quarto d’ora misurava con la lancia [il fondale] e diceva loro: «Virate a sinistra» e un quarto d’ora dopo misurava con la lancia e diceva: «Virate a destra» e rimase così dalla mattina fino a sera; poi arrivammo e vedemmo terra e frutteti da questa parte e dall’altra, e uno sbocco in mare che permetteva all’imbarcazione di passare, e delle torri da entrambi i lati. Ci dissero: «Legate la vostra imbarcazione a una delle torri» e lo facemmo. Poi partirono lasciandoci soli. Dormimmo una notte senza chiudere occhio (c. 13r) perché il mare con la marea saliva, poi tornava indietro, e andava a Venezia che era circondata da tutti i lati da tre bocche di porto. E questo posto dove ci fermammo si chiama Malamocco. Quando l’onda passava sotto il nostro galeone, questo saliva in alto, poi scendeva in basso. Quando giunse la mattina, quelli che ci avevano tirati ci raggiunsero, legarono la nostra barca e attraversammo questo passaggio in un tiro di freccia. Guardammo ed ecco un mare che si estendeva fino all’orizzonte e c’erano tante imbarcazioni ferme, l’una lontana dall’altra a un lancio di pietra, e tanti soldati della laguna. Sparammo con il cannone una volta, vuol dire un saluto, e anche loro risposero con una cannonata. Facemmo così a ogni imbarcazione che incontravamo, e passarono una ventina di navi. Dopo questo vedemmo Venezia. Prima di arrivarci, a un miglio marino [di distanza] gettammo l’ancora. Il capitano prese le lettere e si diresse verso l’ufficio pubblico attraverso un ponte di barche lungo mezzo miglio; allora lanciò le lettere da lontano per farle arrivare fino a quelli (c. 13v), che le presero con una pinza e le buttarono nell’aceto per paura di essere contagiati dalla peste e dal colera, perché pensavano 393 Maria Pia Pedani, Paola Issa che il suo odore disinfettasse. Il foglio esterno si inzuppò. Lessero le lettere del console di Tripoli. Contarono il numero degli uomini che erano nella nostra imbarcazione e quanta merce avevamo. Scrissero tutto; poi mandarono un addetto sul nostro galeone, per controllare i passeggeri durante i quaranta giorni, in quanto nessuno poteva sbarcare in città. E i commercianti che vennero con la nostra nave furono poi mandati in un posto lontano dalla città di quasi un miglio, che si chiamava Lazzaretto, e inviarono un addetto per controllarli per quaranta giorni, mangiando e bevendo con loro; e era pagato quaranta qirīš, uno per ogni giorno. Ci portarono in questa imbarcazione e arrivammo in questo posto ed eravamo tredici commercianti, perché a Zante ci avevano raggiunto sulla nave delle persone franche. Presero la nostra merce e la portarono al Lazzaretto, e l’esposero al sole per sessanta giorni. E dal giorno che abbiamo lasciato Tripoli fino al nostro arrivo a Venezia, passarono 60 giorni, e era il periodo dell’Avvento. (c. 14r) Al primo giorno di digiuno del Natale ci diedero un quarto di lenticchie, e allora scesi per lavarle con l’acqua di mare, ma venne colui che ci controllava, me le prese e disse: «Vieni che ti faccio avere acqua dalla botte di acqua piovana, e lavale perché se le lavi con l’acqua di mare, [il contagio] arriverà a Venezia e sarà peggio». Poi ci fece aprire i nostri oggetti e li espose al sole, anche la stoffa del turbante, il vestito e la camicia42. Lo stesso per una cassa che avevamo a bordo e ci disse: «Apritela, perché c’è dell’odore dentro». L’aprimmo e l’esponemmo al sole. Dopo questo, la domenica ci portò alla preghiera. Rimanemmo in piedi nell’angolo, nella parte in fondo alla chiesa, ed ecco che un’altra persona portò la sua gente, e la fece stare in piedi all’altro angolo della chiesa. E il sacerdote iniziò a celebrare la messa, e poi portò un piatto che mise sul pavimento, sulla porta della chiesa43 e lo spinse verso di noi. Lo prese il signore che ci aspettava e girò in mezzo a tutti noi e ognuno mise un’offerta, poi lo ripose a terra e lo spinse verso l’altro gruppo; l’altro guardiano lo prese facendo il giro tra di loro, raccogliendo le offerte, poi lo ripose di nuovo sul pavimento e lo spinse verso l’entrata della chiesa. Il sacerdote lo prese, (c. 14v) quando la messa fu finita ritornammo al nostro posto e il capo del Lazzaretto arrivò e si sedette su una sedia e ci presentammo uno a uno e ci esaminò; poi c’era con noi un signore magro, lo spogliò anche della camicia e i vestiti, lo controllò per vedere se era malato, ma non trovò nulla. Dopo 42 Šāš, ǧūḫa, ṣāya, cioè la stoffa che forma il turbante, un abito con ampie maniche o senza maniche, di solito di lana, chiuso da un bottone sul collo indossato dagli uomini e la camicia. Y.K. Stillman, Libās, in Enciclopaedya of Islam, vol. 5, Leiden, Brill, 1986, pp. 732-147. 43 Hīkal, heykel, tempio o grande edificio, J. Redhouse, A Turkish and English Lexicon cit., p. 2176. 394 Il viaggio dell’arabo Ra‘d di Aleppo a Venezia (1654-1656) quaranta giorni arrivò la persona che stava con noi al Lazzaretto; ci portò a Venezia, dove abbiamo abitato, e ci accolse quella notte dicendoci «Volete mangiare con me o da soli?» rispondemmo: «Mangiamo da soli» perché chi mangiava con lui gli calcolava un terzo di qirīš al giorno. Dopo venti giorni ci consegnarono la nostra merce, che vendemmo in due giorni. Rimanemmo un anno a Venezia aspettando una nave che rientrasse a Tripoli. Quando avevamo rischiato di annegare in mare, avevamo pregato Sant’Atanasio il Grande, e avevamo detto: «Oh santo di Dio salvaci, e nella settimana che entreremo a Venezia, andremo nella tua chiesa e saremo benedetti dal tuo corpo e pagheremo il nostro voto». Allora prendemmo un’imbarcazione e andammo nel quartiere dove si trova la chiesa e fummo benedetti. Il suo corpo era completamente tempestato, (c. 15r) di perle e pietre preziose e [portava] una corona, che aveva un gran valore. Mentre scendevamo per ritornare al nostro luogo [di soggiorno], il vento rinforzò e non potevamo riprendere il mare. Ci mettemmo di nuovo a piangere e a declamare: «O santo, noi siamo stranieri dove possiamo dormire in questo quartiere?» e ecco che il mare si calmò e il marinaio dell’imbarcazione ci chiamò: «Venite» e attraversammo il mare44 verso San Marco e quando uscimmo dal mare, altre imbarcazioni ci seguirono ed erano in mezzo al mare. Il vento rinforzò e cinque barche si rovesciarono in mare. Ringraziammo il santo che ci aveva salvato. Dopo questo ci facemmo benedire dal corpo di Giovanni Elemosinario, e era come se dormisse. Poi visitammo la chiesa di San Saba e il suo corpo sembrava dormiente, e ancora altre chiese: San Gregorio di Nissa, e Proclo, patriarca di Costantinopoli, e il profeta Zaccaria con le sue ossa e molti altri santi dei quali non conosco il nome. Nella quinta settimana del Quaresima visitammo la chiesa che porta il nome del Sangue Divino, che è colato dalle mani e dai piedi di nostro signore il Cristo quando è stato crocefisso. Questo sangue si trova in una piccola ampolla, piena a metà, ed è appesa sotto una cupola d’oro e vi sono dei sacerdoti che pregano. Ciascuno porta un fascio di candele rosse e sottili, le danno al sacerdote che le avvicina all’ampolla con il sangue (c. 15v) e poi riprendono queste candele. Se faceva molto freddo in tutto il paese, allora accendevano queste candele e il freddo e i lampi cessavano. Nei giorni di festa ci sono fuochi d’artificio e la felicità non è descrivibile. Fummo benedetti dal dito di Basilio il Grande e dal corpo del martire Anastasio il Persiano, che si faceva girare in città. Ogni sabato andavano in giro con l’icona della Madonna dipinta da Luca Evangeli- 44 Cioè il canale della Giudecca. 395 Maria Pia Pedani, Paola Issa sta, e essa aveva quasi venti rotoli (roṭl ) di oro intorno. Quattro sacerdoti la portavano sulle loro spalle. E giravano con il sangue che è colato dall’icona di Cristo che l’ebreo aveva trafitto e che si trova in un’ampolla. E ricevemmo la benedizione dall’icona della Madonna che aveva guarito la mano di Giovanni, il prete di Damasco. Le bellezze di questa città non sono descrivibili e non possono essere apprezzate perché ci sono dodicimila ponti e dodicimila barche. E le viuzze sono tra l’acqua e la terra. Colui che cammina sulla terra passa sopra il ponte per passare da un quartiere all’altro, mentre colui che è in barca passa sotto i ponti per arrivare in un altro luogo; e le viuzze non contengono né fango né argilla, tutto è pulito. Gli abitanti della città non si dissetano con l’acqua, ma con il vino, come se fosse succo di lampone di Damasco, quattro bicchieri, e non bevono altro, e non hanno sete fino alla sera; poi cenano, bevono e infine dormono. (c. 16r) Hanno un’altra consuetudine: il doge con i quaranta ministri e i notabili della città vanno alla bocca [del Lido] che si trova a Venezia dove pregano e gettano al loro passaggio un prezioso anello d’oro. Il doge ha fatto preparare, alla vigilia, un banchetto ricco di tutti i tipi di cibo: dolci, carne rossa, pesce, diversi tipi di molluschi e patelle (baṭlīnos) grandi quanto il piatto, pere rosse, uva rossa e bianca, prugne, pesche, albicocche, mele e tutte quello che si mangia fatto con lo zucchero, e questo banchetto viene esposto ovunque, in mezzo al palazzo. E in città non vi era nessuno, uomini e donne, che non si recasse ad ammirare questo banchetto regale che era costato un minimo di diecimila qirīš. Vedevi tutte le donne incinte che avevano voglia di mangiare, ma nessuno poteva toccare nulla. A mezzogiorno il doge e i ministri uscivano dalla bocca di porto e venivano al banchetto e mangiavano. Ogni ministro poi prendeva per casa sua e per i suoi figli. Questa consuetudine era a carico del doge, e veniva fatta ogni anno. Hanno anche un’altra consuetudine per le feste di Pasqua. Il doge e i suoi ministri (c. 16v) giravano in piazza San Marco, cioè l’apostolo Marco Evangelista; il doge veniva affiancato da un povero vestito con un caffettano lacero e ogni due passi parlava con il povero. Anche i ministri, ognuno con un povero accanto, facevano come il doge; poi li facevano pranzare e davano un’offerta come segno d’umiltà. Hanno anche un’altra consuetudine, se un povero non ha la possibilità di educare il proprio figlio, allora il figlio quando viene battezzato gli viene data un qirīš d’argento; questo viene diviso in due [parti] e su una si scrive il nome del figlio e la data di battesimo e la si appende al collo del figlio; poi il padre lo porta prima dell’alba in piazza San Marco e lo mette in un catino di pietra e aspetta lontano. Giunge uno dei ministri o dei notabili che lo prende con sé, gli trova una donna per allattarlo e lo cresce fino all’età di sette anni. Il padre prende l’altra metà della moneta e va a casa del signore che ha preso suo figlio, gli bacia 396 Il viaggio dell’arabo Ra‘d di Aleppo a Venezia (1654-1656) le mani e gli dice: «Signore restituisci mio figlio» e l’altro risponde, «Dammi l’altra metà della moneta» e poi prende quella che era al collo del bambino, e unisce le due metà, allora, se la moneta combacia, il padre riprende il proprio figlio e se ne va dopo avergli dato un dono. Avevano anche un’altra consuetudine, quando il doge moriva lo seppellivano di notte dopo che una persona aveva riprodotto con la cera il suo volto con barba e baffi, (c. 17r) poi lo stendevano su un letto alto, e quattro ministri stavano seduti intorno a lui. Se doveva dei soldi a qualcuno, questi portava un foglio, sul quale era scritto l’ammontare dei soldi, e veniva fissato con un ago. Non si poteva togliere, se non dopo che i ministri avessero pagato il suo debito. Tutti accorrevano a vedere. E rimaneva tre giorni così. Dopo questi tre giorni, venivano tutti i parrocchiani con i preti delle chiese e seguivano i funerali e lo portavano dal palazzo e giravano con il feretro intorno alla piazza fino alla porta della chiesa di San Marco Evangelista. Poi si fermavano sulla porta e alzavano la bara e contavano uno, due, fino a dieci e lo portavano a lato della chiesa. Tutti i ministri e i notabili andavano al palazzo e lo portavano nella grande sala, poi mettevano in un sacchetto delle biglie nere e quaranta biglie argentate, e uno alla volta si avvicinavano a questo contenitore e [ognuno] metteva la mano all’interno e estraeva una biglia. Se era nera la buttava via e se ne andava ma se era argentata, allora lo rinchiudevano in una stanza fino a che fossero uscite le quaranta biglie argentate, pari a quaranta uomini. Poi mettevano dodici biglie argentate e ventotto nere nel sacchetto e di nuovo ogni uomo si alzava e estraeva una biglia. Coloro che (c. 17v) avevano avuto le dodici biglie argentate erano chiusi in una stanza. Di nuovo riponevano le quattro biglie argentate e le otto nere, e c’era una nuova estrazione. Coloro che prendevano le nere erano mandati via e i quattro, con le biglie argentate, li rinchiudevano in una stanza dentro alla quale vi era un’altra stanza, e all’interno un’altra stanza ancora. E chiudevano tutte le entrate e le uscite per paura che qualcuno dei ministri potesse lanciare un foglio di carta per farsi eleggere. Chiudevano la porta del palazzo e cinquanta soldati con tutte le loro armi aspettavano davanti alla porta. Disegnavano l’immagine di Cristo e della Vergine in alto e San Marco Evangelista in basso. I quattro uomini rinchiusi erano in ginocchio e pregavano per eleggere un doge. Intanto i quattro uomini rinchiusi all’interno facevano un sorteggio che nominava uno dei ministri; allora rendevano noto a coloro che erano davanti alla porta del palazzo e dicevano: «Il sorteggio ha nominato quel tale ministro», e correvano a avvertirlo a casa. Dopo un’ora gli altri ministri venivano e lo portavano nella chiesa di San Marco Evangelista e gli mettevano sulla testa un copricapo di velluto. Egli poi si alzava in piedi sulla porta edificio e diceva: «O cristiani sono diventato il vostro doge, nominato da voi, non uscite dall’eredità di nostro signore Gesù Cristo e di sua madre 397 Maria Pia Pedani, Paola Issa la Vergine.» Poi avevano preparato due travi di legno con una poltrona in mezzo per il doge, e altre due, una a destra e una a sinistra per i due ministri, e queste erano portate da venti uomini. Poi uscivano dalla chiesa e colui che si trovava alla sinistra lanciava delle monete, (c. 18r) quarti, terzi e mezzi dirāhm, e la gente si buttava l’uno sull’altro, altri le prendevano con il cappello e, davanti al corteo, vi erano alcuni uomini, con dei bastoni, per farsi largo. Facevano il giro completo della piazza e si fermavano davanti alla porta del palazzo, dove si trovavano in piedi i notabili. Allora l’altro ministro cominciava a buttare dei ducati d’oro. Poi oltrepassavano la porta del palazzo che si trovava vicino alla chiesa di Marco Evangelista. Allora gli toglievano il copricapo di velluto e gli posavano un cappello d’oro con pietre preziose, poi lo mettevano sul trono; dopodiché, egli si trasferiva da casa sua al palazzo e venivano i ministri e i notabili con le loro mogli, per salutarlo e omaggiarlo. Per sette giorni si lanciava dal cortile del palazzo del pane (kmaǧ)45 che veniva raccolto dai poveri e dai ricchi. Questa era un’usanza. Tutti i sabato usciva con i ministri e faceva il giro della piazza fino a raggiungere la chiesa e gli ecclesiastici (i religiosi), portando l’icona della Vergine fatta da Luca. Quell’anno morirono tre dogi e noi abbiamo visto cosa facevano. La città di Venezia sta in mezzo al mare e la grande costa (il Lido) è a due miglia. Gli abitanti legano un centinaio di tavole di legno per farne come un letto poi l’acqua di mare arriva e spinge questa zattera fino a toccare terra, (c. 18v) e ci mettono sopra il combustibile46, quasi 300 quintali. L’acqua di mare comincia allora a salire lo vedi galleggiare sulla superficie del mare fino a d arrivare alle mura della città, poi prendono il combustibile da sopra la zattera. Poi il mare rientra e lo riporta verso terra. E ogni giorno ciò avviene due volte. Poi, se sali sui campanili, si scorge il mondo intorno a Venezia: si vede mare e terra: da due miglia a ovest a due miglia a est a due miglia a nord tutto mare che dopo sei ore si asciuga e vedi tutta argilla, e questo tutti i giorni. Poi hanno l’abitudine, il giovedì dell’Ascensione, di costruire nella piazza della chiesa di Marco Evangelista una cinquantina di botteghe fatte di legno dove espongono tutti gli oggetti d’arte che si offrono al 45 J. Redhouse, A Turkish and English Lexicon cit., p. 1569: ‘A flat round cake of unleavened bread’. 46 Cioè il legname portato dai monti del bellunese su zattere sfruttando i fiumi fino a Venezia. Cfr. La via del Fiume dalle Dolomiti a Venezia, a cura di G. Caniato, Cierre, Caselle di Sommacampagna (Verona), 1993; G. Caniato, Commerci e navigazione nel bacino plavense, in Il Piave, Cierre, Caselle di Sommacampagna (Verona), 2000, pp. 307322, in particolare pp. 309-315; G. Caniato, La “strada dei burchieri”. Navigazione, porti e commercio lungo il Sile, in Il Sile, Cierre, Caselle di Sommacampagna (Verona), 2000 pp. 206-223. 398 Il viaggio dell’arabo Ra‘d di Aleppo a Venezia (1654-1656) doge, e vengono da tutte le città franche principi e notabili con le loro consorti per ammirarli. L’esposizione dura dieci giorni e chi vuole può comprare. E hanno un’altra usanza che dura dal Natale fino a martedì grasso, dove vi sono svaghi e divertimenti di tutti i tipi in piazza. Le chiese non si contano. E vicino alla piazza se tu stai in piedi e guardi di fronte, trovi l’immagine della Vergine con il figlio in grembo, e all’inizio c’è un orologio rotondo con una pietra in mezzo. Quando appare la luna, vedi una pietra bianca grande quanto la luna finché (c. 19r) in plenilunio vedi la luna bianca, poi la pietra comincia a annerirsi in proporzione alla diminuzione della luna. A ogni ora [una statua di] ferro batte un colpo e l’altra il colpo seguente, poi si apre una porta di legno vicino all’icona della Vergine, e l’arcangelo Gabriele passa davanti [al quadrante dell’orologio], seguito dai tre Re Magi, portando i regali fino a arrivare davanti alla Vergine, e indica loro il Messia nel grembo di sua madre; allora viene avanti uno dei Re Magi, si ferma di fronte a Gesù, si inginocchia fino a terra e dopo si alza, seguito dagli altri due che fanno lo stesso. Si apre poi una seconda porta vicino alla Vergine, che essi attraversano e che si chiude dopo di loro. Quando i bambini sentono il tocco dell’orologio si riuniscono e si mettono a gridare «Bašāra (?)»47, che vuol dire «Sii felice, sii felice» ed è cosi ad ogni ora. Dopo questo rimanemmo a Venezia fino il primo di agosto, comprammo della merce che avremmo venduto a Aleppo, e poi prendemmo un galeone, e lasciammo la città di Venezia. Dopo dieci giorni arrivammo a Zante, poi a Corfù. A Corfù c’è il corpo di Santo Spiridione, e ogni qualvolta i turchi si avvicinavano con le loro imbarcazioni all’isola, lui usciva e diceva loro «Andatevene da qui, altrimenti tutte le vostre imbarcazioni saranno distrutte». Partimmo da Zante fino a raggiungere le vicinanze della Morea. Vedemmo sette imbarcazioni (c. 19v) maghrebine che pattugliavano e che ci tesero un’imboscata; ci seguirono e allora fummo costretti a tornare indietro verso Zante dove ci dovemmo fermare. Eravamo spaventati e impauriti in quanto non sapevamo come fare per continuare il nostro viaggio. Ecco che sopraggiunsero improvvisamente quattro galeoni da guerra che partivano per Creta. Ci unimmo a loro e superammo i maghrebini che non poterono attaccarci. Oltrepassammo la Morea, Creta, Atene fino a raggiungere l’isola di Cipro. Un galeone franco di Malta si diresse verso di noi. Ci chiesero 47 Bašāra (?), in ottomano ‘buone notizie’ ‘piacere causato dalle nuone notizie’ o anche a festa dell’Annunciazione, cfr. J. Redhouse, A Turkish and English Lexicon cit., p. 366. K.-M. Wālbīnar [C.-M. Walbiner], Riḥlat Ra‘d min Ḥalab ilā l-Bunduqiyya cit., p. 382: bašāra; E. Kallas, The Travel Account of Ra‘d to Venice (1656) and its Aleppo Dialect according to the Ms. Sbath 89 cit., p. 80 nota 50: šbāro. 399 Maria Pia Pedani, Paola Issa se avevamo con noi dei turchi o degli ebrei. Nascondemmo un ebreo che era con noi, che pianse e ci baciò i piedi. Poi se ne andarono e allora proseguimmo fino a raggiungere Tripoli, in pace. Giunti in città salutammo gli amici e continuammo il nostro viaggio fino a raggiungere Aleppo dove vendemmo la nostra merce. Dopo un anno Abd al-Masīḥ tornò a Venezia ma io rimasi ad Aleppo. In seguito ci fu un secondo assedio48, e appena usciti dall’assedio, Abd al-Masīḥ fece rientro a Aleppo. Il Patriarca Makarios quando tornò dalla Russia, nominò diaconi e preti e mi nominò, meschino Ra‘d, diacono e dopo tre anni sacerdote, e in seguito parroco; ma dopo un anno morì nella misericordia di nostro signore Gesù e poi morì anche Abd alMasīḥ. 48 Si parla qui dei blocchi dei Dardanelli, posti dai veneziani tra la primavera 1654 e il 24 luglio 1657. 400 Elisa Bianco, La Bisanzio dei lumi. L’impero bizantino nella cultura francese e italiana da Luigi XIV alla Rivoluzione, Peter Lang, Berna, 2015, pp. 396 Il 1453 è una data spartiacque fondamentale nella storia euro-mediterranea, poiché coincide con la caduta del millenario Impero bizantino e la fine della sua influenza sull’Occidente. Il volume di Elisa Bianco raccoglie, con estrema cura e precisione, le diverse prospettive storiografiche che dal Rinascimento al Romanticismo si sono adoperate nella riscoperta e nell’interpretazione della cultura di Costantinopoli, città dal fascino seducente, denominata dalla stessa autrice “Proteo d’Oriente”. Come già preannuncia il titolo stesso del libro, si tratta non soltanto di un confronto diretto con una tradizione di studi bizantini d’ambito francese, italiano e anglosassone, bensì di uno dei primi tentativi, il più organico e complesso apparso sinora, di ricostruzione del vasto panorama delle fonti intorno alla storia dei romani d’Oriente. Per delineare tale percorso, lo studio prende avvio dall’Europa di età moderna lacerata da continue lotte confessionali, scossa dal conflitto franco-asburgico e minacciata dagli Ottomani, eventi questi che fanno da n. 37 scenario perfetto agli eruditi del tempo per il ritorno in auge di Bisanzio e della sua antica civiltà. Se, infatti, a partire dal XVII secolo la riscoperta dei testi greci divenne motivo di esaltazione, specie alla corte del “Re Sole” che ne promosse lo studio e la pubblicazione, di contro, per tutto il secolo dei Lumi, l’Impero romano orientale venne criticamente associato al dispotismo sfrenato, all’eresia, allo scisma e all’iconoclastia, gettando pertanto le basi del “mito della decadenza”. Soltanto l’Ottocento, è da considerarsi il periodo culturale che inaugura un approccio prettamente scientifico alla storia bizantina pur tuttavia producendo un filone di letteratura romanzata e teatrale che ha cristallizzato l’immagine di Bisanzio in un modello di metropoli corrotta e depravata da cui prendere le distanze. La ricerca di Elisa Bianco che appare ben informata sul dibattito storiografico transnazionale e ben documentata sul piano delle fonti, come dimostra la vasta bibliografia finale, offre un valido apporto scientifico alle ricerche di bizantinistica, passando in rassegna oltre tre secoli di considerazioni sulle cause e le conseguenze del tramonto della Megali Idea greca, attraverso le parole di autorevoli intellettuali quali Wolf, Du Cange, Montesquieu e Gibbon. Le tre Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIII - Agosto 2016 ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online) 401 Recensioni e schede principali scuole di pensiero (francese, inglese, italiana) su cui si focalizza l’attenzione di un dibattito pro o anti Bisanzio, ritrovano comuni radici nell’amore umanistico per la cultura orientale vista come emblema di sapienza e maestria nelle arti e non come exemplum vitandum di malgoverno e fanatismo religioso. L’interesse per il mondo bizantino prende avvio in Italia già dai primi del Quattrocento, grazie alla poliedrica figura del cardinale Bessarione, attivo nella trasmissione della cultura greco-ortodossa durante e dopo il Concilio di Ferrara e che nel 1468, anno della morte, fece dono alla città di Venezia della sua ricca biblioteca. Iniziò un lungo periodo di splendore per la cultura bizantina che vide un serrato reclutamento di greci eruditi da parte di facoltosi signori al fine di copiare e miniare codici classici scritti in antico demotico e riguardanti le vicende e le imprese degli imperatori di Costantinopoli. Dopo un lungo letargo, grazie alla filologia italiana, videro di nuovo la luce Procopio di Cesarea, Agapeto e il suo Ekthesis, le Storie di Niceta Coniate, la Cronaca di Zonara e infine il de origine et rebus gestis Turcorum di Laonico Calcondila. È interessante osservare, attraverso il presente studio, come la repubblica della Serenissima per tutto il XV e XVI secolo si faccia promotrice della conservazione e della divulgazione della letteratura greca, tanto che dai torchi delle proprie stamperie furono pubblicate svariate opere anche a soggetto turchesco. Il primo vero corpus di fonti storiche sui bizantini fu, tuttavia, ideato in territorio tedesco da Hieronymus Wolf, bibliotecario della ricca e influente famiglia dei Fugger, il quale volle riunire in una monumentale opera tutti 402 i testi greci riguardanti le vicende di Costantinopoli, nell’interesse di rivendicare per la Corona asburgica il diritto legittimo di proclamarsi Nea Rhome secondo la teoria della translatio imperii, ideata da Ottone Frisinga nel XII secolo. Nella prima parte del libro, suddivisa in tre capitoli, l’autrice ricostruisce con estrema chiarezza un discorso di ampio respiro sulle interpretazioni storiografiche date dagli eruditi francesi al tema della presa di Bisanzio e al tramonto della cultura greco-orientale, che ebbe inizio sin dal 1530, prima con la fondazione del Collège de France per volere di Francesco I, quindi con la nascita del collegio gesuita di Clermont (1560) e di quello maurino di Saint-Germaindes-Prés (1618). L’opera di entrambi gli ordini religiosi, si configura come “apripista” ai successivi studi di patristica bizantina, mirando alla creazione di un’intensa attività editoriale post tridentina che estirpi l’eresia protestante e dimostri un’effettiva continuità fra tradizione apostolica e cattolicesimo. Non meno importante, fu in tal senso la comunità giansenista di Port Royale che nella figura di Sébastien Le Nain de Tillemont diede alle stampe, a fine XVII secolo, una fondamentale opera: Histoire des empereurs. Da storico e teologo, egli vede nella fondazione di Bisanzio un peccato, un male letale per la compattezza e l’unità dell’Impero romano che, se fino a quel momento per più di seicento anni era riuscito a reggere il peso della sua vastità, adesso, con la creazione di una nuova capitale e la diarchia regia, si avviava inesorabilmente alla disgregazione tanto politica quanto culturale. Nel secondo capitolo, il discorso prosegue con un interessante appro- Recensioni e schede fondimento sugli studi bizantini alla corte assolutista di Luigi XIV, nella quale gli interessi per la cultura greca si intrecciarono mirabilmente con i progetti propagandistici di grandeur borbonica. Infatti, stando ad un filone storiografico che affondava le sue origini nel testo Gerarchia celeste dello pseudo Dionigi, nella cui traduzione si cimentò lo stesso Luigi XIII, i sovrani francesi erano da ritenersi diretti discendenti degli ultimi imperatori romani d’Oriente, considerato che con la quarta crociata, Bisanzio, seppur brevemente, venne inglobata entro i possedimenti del regno di Francia. Il cerimoniale di corte bizantino era ben conosciuto e apprezzato specialmente dal “Re Sole” che si adoperò nella diffusione del codice de officiis di Codino, già in circolazione dal 1588 e presente nella biblioteca del castello di Fontainebleau, tanto da essere stato fonte di ispirazione per la festa di incoronazione di Enrico II, durante la quale fu introdotta l’usanza di elargire (largesse) ingenti somme di denaro al popolino, pratica risalente alla dinastia dei Paleologi. Nella stessa reggia di Versailles e nella biblioteca nazionale di Parigi, sempre per volere del re, vennero raccolti numerosi manufatti di preziosa fattura bizantina legati al culto e alla devozione che andarono ad arricchire il Cabinet des médailles. L’influenza dei costumi orientali alla corte francese è evidente finanche dagli epiteti che al sovrano venivano un tempo attributi dai propri sudditi e dignitari; gli stessi titoli onorifici di Roi Soleil o “porfirogenito”, infatti, deriverebbero dagli appellativi dati agli imperatori bizantini e ricordati da Agapeto nei Capitoli parenetici. Si deduce, dunque, che per tutto il XVII secolo, la promo- zione della cultura bizantina divenne per il sovrano di Francia un valido modo per rafforzare la propria posizione sullo scacchiere europeo, giustificando in senso genealogico, guerre ed espansioni territoriali a scapito degli imperatori tedeschi, ritenuti detentori illegittimi e usurpatori di un titolo antico. Nelle pretese francesi di successione al trono orientale, Luigi XIV divenne l’incarnazione del Carolus redivivus o “l’unto del Signore” che avrebbe riportato alla restaurazione della res publica cristiana secondo la volontà provvidenziale di Dio. Grazie al mecenatismo della casata borbonica, dal 1645 al 1688, prese avvio la composizione del corpus monumentum del Louvre sotto la supervisione dello storico Du Cange, autore dell’Histoire de l’Empire de Costantinople sous les empereurs françois. In quest’opera, tagliente nei toni, i Bizantini sono ritenuti colpevoli di eccessi, crudeltà e perfidia tanto che a causa del fanatismo alimentato dalla propria ortodossia religiosa, compromisero l’unità geopolitica dell’Impero decretandone il collasso. La fedeltà alla monarchia, conduce lo storico a confrontare parallelamente Francia e Bisanzio, dimostrando come ognuno dei sovrani parigini possedesse le stesse qualità (vires, potentia, ratio) dei grandi regnanti d’Oriente, ma allo stesso tempo superiori capacità di governo e grande acume militare. Nel terzo capitolo, l’interesse accademico di Elisa Bianco si sofferma nell’analisi dei giudizi negativi che il predicatore Louis Maimbourg diede alla storia bizantina nella sua più celebre opera Histoire des croisades, bistrattata dai contemporanei per la sua discutibile natura scientifica e le inesattezze cronologiche tanto che 403 Recensioni e schede Quesnel la definì livres pour les femmes. L’opera appare sfaccettata per il suo carattere sia storico-encomiastico che di intrattenimento, il cui stile narrativo dai toni mitici punta al dilettare il lettore evocando ardimentose imprese di cavalieri ed esotici scenari. In tale contesto fiabesco, l’Impero bizantino è descritto come corrotto, ambiguo nel suo essere cristiano i cui sovrani, come ad esempio Manuele III Comneno denominato nouveau Neron, sembrano essere predisposti per natura alla malignità, alla perfidia e alla dissimulazione nell’intento di punire i nemici e ingannare l’esercito crociato. Da buon gesuita, Maimbourg scorge nella conquista ottomana di Bisanzio la mano castigatrice di Dio, pronta a punire severamente gli scismatici per salvaguardare la Chiesa romana; in tal senso la condanna dell’iconoclastia acquista un significato del tutto attuale, divenendo un monito rivolto ai protestanti affinché essi si riconcilino con il papato. Nella seconda parte del volume, composta da cinque capitoli, l’autrice tenta di ricostruire con lavoro certosino, le considerazioni espresse dalla storiografia illuminista e romantica intorno alle vicende bizantine, mostrando il carattere pregiudizievole dei Lumi nei confronti del Medioevo, visto per antonomasia periodo buio della cultura occidentale. Tra i primi eruditi che nel XVIII secolo misero a confronto gallicanesimo e mondo bizantino, furono Claude Fleury (Histoire ecclésiastique) e Louis Du Pin (Nouvelle bibliothèque des auteurs ecclésiastiques), i quali fermi su posizioni francocentriche evidenziano come il proprio regno abbia ricoperto un peso rilevante nella risoluzione dei dissidi religiosi sorti fra Oriente e Occidente. Aspetti autenticamente 404 bizantini, individuati dai due storici, sono l’empietà, l’assenza di pietas e il disprezzo per la religione di cui il patriarca Fozio diviene simbolo indiscusso perché responsabile di tollerare atti contro la fede cristiana. Eppure, se da un lato nell’opera di Fleury appare accesa la critica ai costumi tirannici degli imperatori d’Oriente, dall’altro non vi è alcun festeggiamento o giubilo per l’assedio e il sacco di Costantinopoli durante la quarta crociata, né alcuna speranza di riconquistare la Terrasanta poiché tale atto segnò l’inizio di tempi difficili per l’Europa in favore dell’espansionismo turco. Nucleo centrale del libro, è certamente la parte dedicata agli studi bizantini di Montesquieu poiché attraverso la sua penna furono consegnate ai posteri infuocati giudizi sull’Impero greco-orientale creando nell’immaginario collettivo l’idea di una cultura dedita a «révoltes, de séditions et de perfidies». Egli, padre dell’Illuminismo francese e del libero pensiero, scrisse nel 1734 Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence, opera che forse trae spunto dai discorsi del veneziano Paolo Paruta e nella quale si asserisce che tra le principali cause della caduta di Roma vi furono: l’enorme espansione territoriale, la meschinità degli imperatori, la degenerazione della disciplina militare ma soprattutto la diffusione forzata del cristianesimo a scapito della secolare eterogeneità religiosa. L’anticlericalismo e il giurisdizionalismo, conducono Montesquieu a essere intransigente nei confronti della fede cristiana, responsabile di aver ammollato gli animi dei cittadini romani, fuso e confuso la sfera laica con quella spirituale ed infine di aver fratturato in due nette parti la com- Recensioni e schede pagine politica dell’Impero con il trasferimento della capitale dall’Italia al Bosforo, ad opera di Costantino il Grande. Interessanti appaiono le considerazioni del filosofo sul mal governo bizantino, poiché offrono l’occasione per affrontare due temi di riflessione, già discussi nell’Esprit des Lois, a lui particolarmente cari: la tolleranza e la libertà confessionale. L’Impero, infatti, nella sua natura pagana, prima ancora di essere contaminato dal cristianesimo, è oggetto di lode per la tolleranza culturale che seppe dimostrare nei riguardi dei popoli accolti entro i confini del suo territorio. Su questa scia, imperatori come Giuliano l’Apostata vengono rivalutati agli occhi della storia dopo essere stati cancellati dalla damnatio memoria cristiana, mentre, di contro, vengono sminuite le figure di Giustiniano o Basilio I, ritenuti scellerati e superstiziosi despoti pronti a mutilare, accecare e incarcerare ingiustamente i sudditi. A questo punto, sorge spontanea al lettore la domanda: l’età dei Lumi è da considerarsi un unico compatto attacco sferrato alla cultura di Bisanzio e alle sue multiformi manifestazioni? La risposta dell’autrice è ovviamente negativa. Ciò lo si può facilmente dedurre leggendo il capitolo dedicato agli studi voltairiani sul tema dell’iconoclastia e del fenomeno delle crociate francesi a Gerusalemme nell’Alto Medioevo. Voltaire, pur essendo uno dei maggiori rappresentanti dell’anti-bizantinismo del Settecento, nel suo volume Le pyrrhonisme de l’histoire, se da un lato vede in Bisanzio un chiaro esempio di regime assolutistico, dall’altro condanna gli abusi dell’iconodulia cattolica appoggiando di buon grado la politica iconoclasta degli imperatori orientali, intenti ad arginare il monopolio economico raggiunto dai monaci nel fiorente mercato delle reliquie e delle immagini sacre. Le crociate, inoltre, danno modo a Voltaire di lanciare una dura invettiva contro il potere temporale e teocratico dei papi, specialmente quello di Urbano II e Gregorio VII, poiché dietro l’apparente pellegrinaggio armato in Terrasanta si celò il desiderio di sottomettere Bisanzio alla Chiesa latina. Questo contraddittorio atteggiamento filo bizantino di Voltaire si evince anche dal fatto che nel 1778 a Parigi compose e mise in scena l’Irène, una tragedia ambientata alla corte orientale, in cui il protagonista, l’imperatore Alessio I Comneno, è ritratto come un saggio eroe che ha liberato il trono dal giogo del tiranno Niceforo. La storia trae spunto da un’opera greca al tempo conosciuta, l’Alessiade, scritta dalla principessa Anna Comnena in ricordo del padre, dove vengono denunciati i misfatti e i crimini commessi dall’orda latina dei crociati che come barbari osarono violare le nobili terre d’Oriente, offendendo la millenaria civiltà bizantina. Eppure il 1261 diviene il turning point nelle relazioni bizantino-voltairiane poiché a partire da questo momento la prospettiva del filosofo cambia, tornando ad essere di nuovo anti-bizantina a seguito della salita al trono della dinastia di Michele VIII, ritenuta artefice di un inarrestabile processo di decadenza. La critica illuminista ai costumi bizantini, inoltre, prosegue in campo giuridico nelle opere del francese Charles Le Beau (Histoire du Bas Empire) e in quelle italiane di Alessandro Verri (Caffè o sia brevi e vari discorsi) e Cesare Beccaria (Dei delitti e delle pene), dove sembra delinearsi un forte spirito “antitribo- 405 Recensioni e schede niano” ovvero di ostilità e diffidenza nei riguardi del Corpus Iuris Civilis giustinianeo, considerato soltanto opera di manipolazione e frammentazione del diritto classico romano, la cui responsabilità venne attribuita a Triboniano. Nel penultimo capitolo del libro, l’autrice si sofferma a ricostruire le considerazioni fatte oltralpe da eminenti studiosi italiani come Ludovico Antonio Muratori e Francesco Becattini, spese tra erudizione e propaganda patriottica. L’immagine muratoriana dell’Impero bizantino emerge soprattutto dagli Annali d’Italia, dalle Dissertazioni sopra le antichità italiane e in Rerum italicarum scriptores, opere complesse per la cui realizzazione furono utilizzate fonti inusitate e rare. Nel pensiero di Muratori, influenzato dallo storico modenese Carlo Sigonio, il principio della translatio imperii di Carlo Magno non ha alcuna solida validità giuridica poiché, pur considerando che nel IX secolo a Bisanzio regnava illegittimamente una donna, Irene l’Ateniana, il titolo di Imperator Sacri Romani Imperii appare del tutto onorifico e anacronistico. C’è di più, il gusto patriottico dello storico fa sì che i regni longobardi e gotici dell’Italia centrosettentrionale siano visti come esempi di buona autonomia governativa e di età dell’oro della penisola, fortemente minacciati dalle ambizioni dispotiche di Giustiniano e del suo fedele generale Belisario. Il capitolo conclusivo che suggella la ricerca scientifica di Elisa Bianco, è tutto incentrato sul dibattito storiografico bizantino in ambito anglosassone e sull’eredità illuministica riscontrabile nell’opera Decline and fall of the Roman Empire (1776-1788) di lord Edward Gibbon. Questi, partecipe della cultura 406 franco-britannica, condivide con i philosophes l’idea dell’unità della decadenza che coinvolge tutto l’Impero la cui origine sarebbe da ricercarsi nella vastità dei suoi possedimenti e nella tetrarchia diocleziana che condusse alla quadripartizione della compagine romana. Gibbon, tuttavia, prende le distanze da Voltaire e Montesquieu sul tema delle crociate poiché sono ritenute dallo storico motivo di acceso fanatismo religioso oltre che ponderato progetto degli Stati europei di esportare il feudalesimo in Oriente. In diversi capitoli, Gibbon, si sofferma sull’analisi dell’organizzazione dell’esercito e della marina bizantina, sull’equipaggiamento e le fortificazioni, sulle tecniche di combattimento e sull’impiego di mercenari, concludendo che le forze militari orientali non erano per nulla inferiori a quelle arabopersiane né a quelle franche. Unico punto debole delle armate greche, secondo lo storico, era l’assenza di valore, di coraggio e amor patrio, fondamentali caratteristiche represse da un senso di remissività e rassegnazione contaminati dal fervore ecclesiastico. Gibbon, inoltre, continua gli studi sui costumi bizantini, prestando il proprio supporto alla causa iconoclasta cercandone i motivi che nell’VIII secolo ne determinarono la sconfitta e otto secoli dopo, con la Riforma luterana, il successo. Lo storico inglese riscontra una reale degenerazione nel culto delle icone sacre a partire da Costantino e, spingendo la sua riflessione attraverso i secoli, giunge ad esprimere un sintetico giudizio sulla condanna dell’idolatria delle reliquie nel tardo Medioevo e sulle critiche mosse da Lutero attorno a tale pratica oscurantista. Recensioni e schede Concludendo, possiamo dire che il volume di Elisa Bianco, nella cui parte finale troviamo la lista delle fonti e una ricchissima bibliografia, rappresenta il punto di arrivo di decenni di ricerche, ma contestualmente un importante punto di inizio per approfondire i futuri studi su Bisanzio e il suo multiforme mondo. Andrea Ferruggia Cesarina Casanova, Per forza o per amore. Storia della violenza familiare nell’età moderna, Salerno editrice, Roma, 2016, pp. 157 Sono oltre cinquanta i casi di femminicidio nei primi sei mesi del 2016. Una pagina web del Corriere della sera, in costante aggiornamento e interamente dedicata a La strage delle donne, mostra i volti, l’età e il dramma subito dalle vittime di violenza. Senza entrare troppo nel merito di dati statistici va detto che, secondo l’ultimo rapporto Eures (Secondo Rapporto sul femminicidio in Italia Caratteristiche e tendenze del 2013, Roma 2014), a fronte di una diminuzione dei casi di omicidio non diminuiscono i femminicidi. Appare forse inutile rimarcarlo troppo, ma il tema non solo e non tanto dei femminicidi quanto, più in generale, della violenza di genere nelle sue molteplici sfumature e accezioni è un argomento di scottante attualità. Per forza o per amore, il breve, per estensione, ma intenso per contenuti, libro di Cesarina Casanova, ripercorre alla luce di quella che ormai appare essere un’emergenza sociale, la Storia della violenza familiare nell’età moderna, come recita il sottotitolo dello stesso. Sin dalle ricche pagine introduttive l’Autrice è condotta in un serrato, ma necessario, confronto tra passato e presente. Il racconto dei fatti accaduti nella Bologna di età moderna sono lo stimolo per recuperare le fila e le radici di un retaggio culturale tutt’oggi ancora troppo difficile da sradicare. È notorio che «chi ha pagato di più la presunta stabilità sociale del passato – scrive la Casanova – sono stati le donne e i minori, soggetti all’autorità dei padri e dei mariti ampiamente riconosciuta dalle leggi civili e canoniche» (p. 18). In tal senso, è inevitabile il richiamo, nelle pagine del libro, alla storia degli istituti giuridici le cui origini si collocano in epoche lontane ma la cui abrogazione si è avuta solo in tempi molto recenti. L’abolizione della dote o del delitto d’onore, avvenuti in Italia nel 1975 il primo e nel 1981 il secondo, sono solo due dei diversi istituti giuridici su cui per secoli si sono rette le trame socio-culturali e che vengono prese in considerazione dalla Casanova. Numerosi e vari sono gli spunti trattati e da tener necessariamente in considerazione per discutere le forme assunte dalla violenza di genere nell’età moderna: la trattatistica, le relazioni familiari e con esse le questioni matrimoniali. Attorno alla possibilità o meno di avere una dote e soprattutto circa la sua composizione e il suo valore ruotava gran parte potremmo dire – senza esagerare troppo – del sistema familiare e socio-economico dell’Antico Regime e anche oltre. La Casanova tratta attentamente ognuno di questi aspetti nei cinque capitoli che compongono il libro, componendo un quadro dettagliato e complesso dal quale dedurre i profili delle vittime (donne e bambini di ogni sesso) e dei carnefici (mariti, parenti e frequentatori degli ambienti dome- 407 Recensioni e schede stici), ma anche e soprattutto per delineare «le strutture mentali e i riferimenti culturali condivisi» tra i diversi protagonisti delle storie (p. 33). Il rigido schema sociale che contraddistingueva le società di epoca moderna e di cui possono notarsi propaggini anche in tempi non troppo lontani da noi, prevedeva, senza alcuna eccezione, la subalternità femminile alla quale faceva da contraltare o comunque era sostenuta da una ferma e altrettanto longeva tradizione misogina, tramandata da una vasta letteratura. In tal senso, il primo capitolo del volume è dedicato a ripercorrere la lunga “stagione di produzione pedagogico-moraleggiante” (p. 24), inaugurata nel corso del Quattrocento dai numerosi trattati intenti a fornire modelli edificanti per dettare i diversi stili comportamentali che ciascuno doveva assumere a seconda del proprio ruolo nella società (padre, madre, figlio, figlia, balia, moglie, etc.). In diversi casi si trattava, come fa notare l’Autrice, di testi che ebbero un ampio successo, contando numerose ristampe a distanza di molti secoli. Il vero cuore del libro è, poi, rappresentato dallo spoglio delle carte processuali conservate nel fondo del maggiore tribunale criminale, il Torrione, della Bologna di età moderna. Il complesso documentario analizzato rappresenta, come sottolinea la Casanova, un unicum nel panorama italiano. Degli oltre tremila processi, consultati a campione, è stato condotto uno spoglio sistematico sui fascicoli processuali per il quinquennio dal 1671 al 1676, all’epoca in cui fu uditore Gian Domenico Rainaldi, uno dei più rilevanti giuristi della Bologna del tempo. Nel raccontare e descrivere l’organizzazione del foro bolognese e le sue interazioni con il con- 408 testo sociale, la Casanova sottolinea anche le dinamiche operative del tribunale: «il processo veniva avviato quando una denuncia era sostenuta da indizi sufficienti e da testimoni disposti a confermare l’accusa del querelante» (p. 35), fatta eccezione per i casi in cui l’uditore riteneva di dover procedere d’ufficio. Rientrava tra questi ultimi casi lo “stupro violento”. Quasi a voler seguire un fil rouge, nei restanti quattro capitoli del libro, l’Autrice traccia via via i diversi casi di violenza, dai meno gravi a quelli più gravi, subiti nelle diverse fasi della vita di una donna in età moderna. Il secondo capitolo è, in tal senso, dedicato ai “minori”, tenendo conto di due distinti aspetti, vale a dire la prematura età delle donne al momento in cui contraevano matrimonio di fatto combinato dalla famiglia di origine e, dall’altro lato, al tema assai più delicato degli abusi sui minori. «La precoce nuzialità femminile è un elemento fondante il sistema dei lignaggi e l’asimmetria, in essi dei ruoli di genere» (p. 49). Le vicende matrimoniali dei più alti ranghi della società di Antico Regime e, nella fattispecie, le trattative matrimoniali tra le case regnanti attestano come non si tenesse affatto conto dell’età dei contraenti. Anzi, le condizioni ideali per favorire la politica del lignaggio erano un’alta dote e una bassa età della sposa. La fanciullezza di queste piccole donne portate all’altare è per altro documentato dalla presenza, in diversi casi, di bambole negli inventari dotali (p. 49). La questione dell’infanzia e degli abusi sui minori, invece, è un argomento di fatto già indagato per Bologna e anche per altre realtà italiane, come dimostrano i confronti che la Casanova propone nel testo e nell’apparato delle note critiche al volume Recensioni e schede (si veda a riguardo e prima di tutto O. Niccoli, Il seme della violenza. Putti, fanciulli e mammoli nell’Italia tra Cinque e Seicento, Roma-Bari 1995). La Casanova ritorna, dunque, sull’argomento ricostruendo i sei casi riscontrati nelle fonti processuali oggetto della sua indagine. Un numero che solo in parte può sembrare esiguo se si tiene conto delle informazioni che, invece, possono dedursi da essi. Tra le vittime di abuso vi erano indistintamente maschi e femmine, di età compresa tra i dieci e i dodici anni, originari della città così come della campagna, di ceti sociali più agiati così come di ceti meno agiati. A questo riguardo, ciò che appare interessante porre in evidenza è, intanto, il processo in sé, che in alcuni casi non andò oltre la denuncia e che solo in un caso portò all’impiccagione per il violentatore della piccola Francesca Zappoli. Scrive l’Autrice, infatti, che: «molti di questi processi – riferendosi per altro a gran parte dei casi trattati nel volume – non si concludevano con l’applicazione della pena ordinaria (l’impiccagione) e spesso neppure con altre sanzioni perché l’accusa non era sostenuta da prove inoppugnabili ma solo dalla testimonianza delle vittime» (p. 54). La complessità e l’eterogeneità dell’operato istituzionale è, tra gli altri, uno dei campi di indagine privilegiati dall’Autrice, sempre attenta a tener conto del decorso dell’iter burocratico. Tra le altre cose, però, appare a mio dire molto singolare notare il ruolo “attivo” delle donne – maritate e non vedove – che sceglievano di denunciare gli abusi perpetrati ai danni dei propri figli e su cui forse sarebbe stato interessante sviluppare qualche maggiore considerazione. Entrando, poi, negli interni domestici e provando a scorgere e riper- correre le storie di violenza familiare ci si trova davanti a una “realtà inconfessabile”: i rapporti incestuosi. Questi ultimi erano tra i frequenti e impenetrabili segreti della mentalità e del costume dell’epoca di cui non resta traccia nelle fonti processuali, ma di cui è tramandata nella letteratura un’immagine a tratti anche “nobilitata”, come mostra l’Autrice proponendo alcuni tra i casi più noti, da Edipo a Lucrezia Borgia. Con il quarto capitolo si analizza la casistica, a quanto pare, più numerosa di molestie o violenze sessuali ai danni di fanciulle in età da matrimonio e prossime alle nozze. In Antico Regime per stupro si intendeva ogni tipo di rapporto sessuale – anche consensuale – con l’amata illibata o presumibilmente tale. Ed è proprio nella fase o, per meglio dire, in età di corteggiamento che venivano denunciati i casi di “stupro” perpetrati “per forza o per amore”, riprendendo le parole del titolo del volume e del quarto capitolo. Attraverso la discussione di questi ultimi si apre la strada a considerazioni di varia natura circa i diversi escamotage messi in atto dalle giovani coppie per convolare a nozze non sempre approvate dalle rispettive famiglie. In tal senso, la Casanova offre tutti gli elementi necessari a contestualizzare correttamente questi casi di violenza a volte qualificati come forzati e altre volte organizzati “per amore”. Ancora una volta, l’attenzione all’operato del foro criminale fa emergere che la necessità di preservare l’onore dell’individuo o della famiglia e, molto più spesso, l’impossibilità di avere delle prove certe, difficilmente comportava l’adozione di pene dure e severe nei confronti dei numerosi «reati, nascosti, circoscritti alla sfera in- 409 Recensioni e schede tima, quindi quasi sempre sfuggenti per un giudice che non si accontentasse di vaghe dicerie divulgate da fonti malevole o da un amante deluso» (p. 90). Chiude il libro il capitolo dedicato a quelli che noi oggi chiameremmo femminicidi. Due in particolare sono i casi presi in esame, quello di Maria Gentile Nanni e quello di Giacoma Avanzi, i cui cadaveri furono trovati lungo i canali dei mulini rispettivamente di Granaglione e di Pontecchio, comunità dell’entroterra bolognese. Entrambe le donne erano, stando alle numerose testimonianze raccolte durante i lunghi processi del Torrione, mogli di uomini particolarmente lascivi. In nessuno dei due casi fu appurata la causa della loro morte, in quanto l’esame dei corpi lasciava troppi dubbi per poter ipotizzare sia un omicidio che un suicidio. Le diverse testimonianze, dall’altro lato, denunciavano i comportamenti dei rispettivi mariti e le frequenti intenzioni degli stessi ad avvelenare le mogli o a commissionarne l’uccisione. Insomma, i singoli casi proposti nel volume sono stati appositamente selezionati per il loro forte valore emblematico. Attraverso la loro lettura possono trovarsi spesso elementi di continuità, nei moventi e nelle dinamiche, con i fatti cui ormai quotidianamente veniamo informati dai media. Lo sfondo comune a tutte le storie raccontate si compone di «interni domestici, stili di corteggiamento, rapporti brutali [classificati] come abituali e comuni ad ampi strati della società, non necessariamente quelli inferiori» (p. 131). Per forza o per amore concorre a offrire interessanti spunti e considerazioni necessari per inquadrare sempre più chiaramente il fenomeno 410 della violenza di genere in una prospettiva di lungo periodo. Esso si pone peraltro all’interno di un recente filone di studi della gender history proiettato a interrogare con un’ottica multidisciplinare la violenza di genere in un confronto dialettico tra passato e presente e i cui esiti di ricerca stanno via via venendo alla luce (si veda per questo il numero monografico dedicato al tema in questione della rivista «Genesis», o ancora gli atti del convegno, in corso di pubblicazione, La violenza contro le donne in una prospettiva storica. Contesti, linguaggi, politiche del diritto (secoli XV-XXI), Roma, 27-28 novembre 2015). Nel moltiplicarsi di interventi normativi a livello mondiale, europeo e nazionale, da oltre un ventennio è stato stabilito ormai in via definitiva che la violenza di genere è, a tutti gli effetti, una violazione dei diritti umani. Eppure appare evidente che ancora molti passi debbano farsi per riconoscere e contrastare qualsiasi forma di violenza. Anche l’emergenza contemporanea su questo fronte e la necessità di favorire e garantire la prevenzione di abusi di ogni tipo ai danni del genere femminile e non solo, è alla base di studi come quello di Cesarina Casanova volti a favorire la conoscenza complessiva di un fenomeno che, pur apparendo di estrema attualità, in realtà affonda le proprie radici molto lontano nel tempo. Non ci sono confini geografici o culturali per la violenza di genere. Uno sguardo nel lungo periodo alla storia della violenza pur mostrando – a dir vero pochi – elementi di cambiamento denuncia l’immutata pervasività e pericolosità che essa ha per la società. Valeria Cocozza Recensioni e schede Guido Candiani, Dalla galea alla nave di linea. Le trasformazioni della marina veneziana (1572-1699), Città del Silenzio, Novi Ligure, 2012, pp. 344 Quello di Guido Candiani è un lavoro con alle spalle un’accurata e puntuale indagine archivistica e bibliografica, che va ad affrontare uno dei periodi cruciali della storia marittima veneziana, il XVII secolo, trattandolo attraverso un approccio non esclusivamente navalista ma a tuttotondo. Il Seicento è il secolo della grande trasformazione della Marina di San Marco, della nascita della componente velica (Armata grossa) e del progressivo declino, come forza di battaglia, della flotta remica, con galee e galeazze sempre più relegate ai margini dei grandi eventi bellici dal protagonismo dei vascelli da guerra (dapprima mercantili armati, olandesi e inglesi principalmente, poi navi di linea statali costruite in Arsenale). La composizione, l’organizzazione e il funzionamento della marina veneziana sono oggetto di una storiografia ricchissima, ma sostanzialmente limitata al Medioevo e al XVI secolo. Ciò non deve sorprendere: il cliché del protagonismo delle città marittime italiane nell’età medievale con un’appendice che tocca l’età moderna arrivando a Lepanto, per poi lasciar spazio, fino all’età contemporanea, alla decadenza, ha condizionato pesantemente la storiografia navale fino a tempi recentissimi. Solo negli ultimi anni, grazie anche al lavoro del gruppo di ricerca che fa capo al Laboratorio di Storia marittima e navale dell’Università di Genova (di cui Candiani è socio fondatore), si sta riscoprendo – attraverso un’indagine archivistica a tutto campo, un approccio metodologico multitematico e una riflessione che va oltre la dicotomia splendore/decadenza – una realtà le cui caratteristiche sono ben lontane da quelle che le attribuiva il cliché. Invece di un mondo sclerotizzato, incapace di evolvere e tecnicamente arretrato gli studi ci presentano una realtà vivace, dinamica e tecnicamente in grado di stare al passo con le novità di matrice nordica. Una realtà mediterranea in cui la gente della Penisola è ancora presente sul mare; non protagonista assoluta come nel Medioevo ma non certo scomparsa. Le marinerie italiane non perdono le proprie attitudini, conoscenze e competenze e non vengono emarginate dallo strapotere dei nordici. Anzi, in uno spazio, quello mediterraneo, in cui va via via aumentando la presenza e il peso di inglesi, olandesi e francesi, gli armatori e i marinai degli Stati italiani sanno ritagliarsi i propri spazi: commerciano, combattono, pescano, interagendo con i nuovi protagonisti e con gli altri attori in scena nel Mare Nostrum (gli ottomani, i barbareschi, gli spagnoli, ecc.). Ciò è vero soprattutto per Venezia, la cui Marina da guerra, nel XVII secolo, lungi dall’essere in una fase di irreversibile decadenza, combatte conflitti per il controllo dell’Adriatico e per la supremazia navale nel Levante mediterraneo, ha potenzialità umane e materiali notevoli ed evolve sotto il profilo tecnico accogliendo le novità nordiche – la nave da guerra a vela e la tattica della linea di fila, in primo luogo – e adattandole al teatro mediterraneo (per il quale, è bene sottolinearlo, non sempre erano di per sé idonee). L’attenzione di Candiani si concentra non a caso sulla fine del XVI e sul XVII secolo, una fase cruciale, come ho già accennato, nella storia marittima veneziana, scandita da una 411 Recensioni e schede serie ininterrotta di conflitti navali: due particolarmente intensi e lunghi – la guerra di Candia (1645-1669) e la prima guerra di Morea (1684-1699) –, altri parimenti lunghi ma meno intesi – come la guerra di corsa con gli Asburgo in Adriatico e il conflitto con gli uscocchi (1574-1615) –, altri ancora più brevi – come la campagna del 1572 contro gli ottomani, la guerra di Gradisca (1615-1617) e il conflitto col viceré di Napoli, duca di Osuna (1616-1620). Più in generale, gli anni che vanno dal 1572 al 1699 sono caratterizzati, dopo lo strascico della guerra di Cipro (campagna navale del 1572), dapprima da un lungo periodo di tensione “a bassa intensità” con gli Asburgo (1574-1635), e poi da un altrettanto lungo e ben più intenso periodo di rinnovata conflittualità con l’Impero ottomano. È questo il quadro di riferimento in cui Candiani colloca la grande trasformazione della Marina veneziana: se alla fine del Cinquecento la flotta della Serenissima era ancora composta esclusivamente da galee e galeazze, cento anni dopo essa sarà composta in primo luogo da vascelli da battaglia, con le unità a remi relegate a compiti operativi complementari: pattugliamento, controllo del mare, polizia marittima, controcorsa e supporto delle unità a vela. Compiti complementari, ma non subordinati: è bene sottolineare, infatti – come puntualmente fa Candiani – le unità a remi continuarono a essere presenti nella flotta «non come un semplice retaggio del passato, ma come una risposta concreta a determinate esigenze di politica navale che, considerata nella sua totalità, non si è mai esaurita, oggi come allora, nella sola lotta tra flotte da battaglia». Questa grande trasformazione è scandita da due fasi. La prima, che 412 Candiani individua negli anni 16101670, caratterizzata da una politica di noleggio di vascelli mercantili, ossia di utilizzo di mercantili armati, preferibilmente stranieri (olandesi e inglesi) ma anche veneziani. La seconda, che prende avvio negli anni Settanta, durante la quale venne varato un programma di costruzione di vascelli da guerra statali, con la squadra pubblica di navi di linea (formata a partire da un nucleo di unità ottomane, catturate ed inglobate nella flotta nel 1651) che andò progressivamente a prendere il posto dei mercantili armati come nerbo dell’Armata grossa. Un passo decisivo che non mancò di incidere in modo determinante sulla fisionomia della Marina da guerra e della cantieristica militare veneziana, portando alla riorganizzazione della flotta (rivoluzionata sotto il profilo dell’organica, della tattica e della dottrina operativa) e alla ristrutturazione dell’Arsenale; senza però sconvolgere le linee guida della politica navale veneziana, incardinata su due saldi pilastri: la flotta permanente e la riserva navale da armare in caso di necessità (siano esse remiche o veliche). Alla fine di questa seconda fase, il passaggio epocale dalla preminenza del remo a quella della vela si può dire compiuto, con la consegna alla Venezia del Settecento di uno strumento marittimo-militare nuovo, modernizzato sotto il profilo materiale, duttile e flessibile, che coniugava in sé le novità nordiche, l’esperienza mediterranea e la tradizione gestionale semiprivata veneziana. Candiani affronta questi temi attraverso un’esposizione ricca e densa, che principia dalla storia delle operazioni navali per approdare al delicato tema del rapporto tra Stato, patriziato e flotta. Il lavoro si sviluppa Recensioni e schede in due parti. Nella prima si ripercorrono gli avvenimenti che interessano la marina della Serenissima dal 1572 al 1669: una storia politica e navaleoperativa – poco quotata negli ultimi decenni e di cui si sentiva la mancanza, soprattutto nella misura in cui essa costituisce il quadro di riferimento nel quale va collocata l’analisi tematica – trattata con un approccio agile, snello, arricchito da un puntuale ricorso alle fonti d’archivio. La seconda parte è dedicata alla descrizione e all’analisi delle strutture della Marina veneziana in una prospettiva dinamica, articolata non solo attraverso la distinzione tra Armata sottile e Armata grossa, ma anche, trasversalmente, attraverso l’analisi della componente permanente e di quella straordinaria (ossia delle risorse navali sempre in servizio e di quelle mobilitate solo in risposta a circostanze di emergenza). L’analisi dell’organizzazione della Marina diventa poi occasione – come detto – per trattare del rapporto fra Stato, patriziato e flotta. Ma non solo, anche di politica navale e commerciale (nella misura in cui, ad esempio, la decisione di noleggiare mercantili armati olandesi e inglesi piuttosto che veneziani era determinata dalla volontà di non distogliere risorse navali dal commercio e al contempo sottrarne ai concorrenti) e di leva marittima nelle sue declinazioni territoriali – Venezia, Dogado, Terraferma veneto-lombarda, Levante (Dalmazia, Isole Ionie, Creta) – come istituto sul quale agiscono al contempo i rapporti fra il governo, la città, i suoi domini, gli interessi del patriziato veneziano e della nobiltà locale. E ancora: del rapporto tra comandanti patrizi (ufficiali militari) e capitani non nobili (capitani di coperta), un tema centrale nella genesi della professione navale; di lavoro marittimo (sulle navi e sulle galee); di relazioni internazionali e, infine, di rappresentazioni, comportamenti e mentalità (nella misura in cui, ad esempio, il comando delle galee era preferito a quello delle ben più potenti navi da guerra a vela perché più prestigioso. La galea: elegante, magnifica a vedersi, con una ciurma disciplinata che si muoveva all’unisono; immagine del potere del patriziato della Serenissima). Il tema centrale resta tuttavia quello del rapporto tra Stato, patriziato e flotta, su cui si concentrano, non a caso, le conclusioni. Candiani mette l’accento su un’iniziale condizione di maggior presenza dello Stato nella gestione della flotta attraverso l’incremento delle galee ciurmate con forzati, introdotte a metà Cinquecento e arrivate, negli anni Novanta del secolo, a costituire la quasi totalità della flotta permanente. Un processo di statalizzazione della Marina quindi, precedentemente formata da galee ciurmate con rematori liberi reclutati dai patrizi al comando delle unità e ora da unità equipaggiate direttamente dallo Stato con forzati (galee statali con ciurme statali). Un processo caratterizzato da una brusca inversione a partire dalla metà degli anni Novanta con l’introduzione della galea a ciurma mista (rematori forzati e liberi): una soluzione che coinvolgeva nuovamente il patrizio comandante nella gestione economica dell’unità, attraverso l’investimento di denaro proprio nel reclutamento della ciurma, e che dava quindi nuovamente una connotazione privatistica – o meglio semiprivatistica – alla flotta (galee statali con ciurme in parte statali e in parte private). Ma non bisogna vedere nella mancata statalizzazione della flotta 413 Recensioni e schede remica necessariamente un fattore di arretratezza. Se è vero che «statalizzati e burocratizzati già nei secoli precedenti i mezzi, il governo veneziano si mostrò molto più restio a seguire questa strada per gli uomini», è anche vero che il rinnovato coinvolgimento del patriziato nella gestione economica delle galee spinse i nobili veneziani a mantenere una stretta interconnessione tra l’amministrazione dello Stato e i loro patrimoni privati (investiti nelle galee), legando quindi strettamente al servizio pubblico buona parte del ceto dirigente, attraverso l’interesse economico, fino alla definitiva statalizzazione della flotta remica nel 1774. Tutto ciò relativamente all’Armata sottile. Per l’Armata grossa – che dalla fine del Seicento diviene la componente principale della flotta, costituendone la forza da battaglia – la completa statalizzazione non arriverà mai. Candiani sottolinea come la squadra di navi di linea, sebbene componente primaria della flotta, resti un «mondo estraneo alla mentalità navale del patriziato della Repubblica». Il comando di una nave di linea rimane un incarico meno prestigioso rispetto al comando delle galee, nonostante siano le navi la componente militarmente più importante della flotta. E anche le maggiori difficoltà nella gestione di equipaggi meno militarizzati contribuiscono allo scarso appeal che il comando di un vascello esercita sui patrizi veneziani. La Marina veneziana che ha la propria genesi nel Seicento è quindi un organismo articolato in due componenti, remica e velica, entrambe statalizzate solo parzialmente. Una Marina moderna sotto il profilo tecnologico, operativo e tattico ma che resta, per così dire, «in mezzo al 414 guado, tra tradizione e modernizzazione», perché la statalizzazione dei mezzi non è accompagnata da quella degli equipaggi. Dall’analisi di questa peculiare trasformazione bivalente, all’insegna di una parziale e incompleta modernizzazione, emerge una Marina che è «molto meno nazionale di quanto la storiografia sia stata indotta a ritenere»: una Marina legata a doppio filo a quel patriziato cittadino che era chiamato a gestirla e a investire in essa. Lo Stato era presente, sotto il profilo materiale e logistico, ed era partecipe dei costi di gestione che tuttavia ricadevano, come del resto le responsabilità, in gran parte sui privati, cioè sui patrizi. Quel che ne derivò fu un rapporto patriziato-Marina che impedì la formazione, la definizione e il consolidamento di quel naval service che, su modello inglese, divenne tratto caratteristico di tutte le moderne Marine da guerra europee: «la flotta rimase fino all’ultimo patrizia, ma non divenne mai realmente “veneziana”». Emiliano Beri Fabrizio D’Avenia, La Chiesa del re. Monarchia e Papato nella Sicilia spagnola (secc. XVI-XVII), Carocci, Roma, 2015, pp. 183 Fornire un quadro della situazione giurisdizionale della Sicilia spagnola è un compito arduo. La pletorica organizzazione istituzionale dell’isola, le numerose figure e i molti interessi che vi agivano, con suddivisioni e sovrapposizioni di competenze inevitabilmente incerte e conflittuali, rendono più ricco di asperità un terreno già di per sé generalmente accidentato. Per giunta, quasi a complicare ulteriormente le cose, l’autore parte Recensioni e schede da una interpretazione di giurisdizione non limitata alla mera azione giuridica, ma estesa anche e soprattutto alla facoltà di esprimere un potere decisionale politico. Lettura imprescindibile della questione, perché giustizia e potere politico non sono certamente distinguibili in maniera netta: non in Antico regime, e forse neppure nelle epoche successive, sino ai giorni nostri. Ma questa visione ampliata getta la Chiesa del Re nel bel mezzo del ginepraio siciliano, e dei suoi innumerevoli piani di potere continuamente intersecati tra loro. La sfera ecclesiastica e quella secolare, i poteri locali e il governo centrale di Madrid, gli ambivalenti e ambigui rapporti tra Corona spagnola e Santa Sede: un mare magnum dai molti abissi oscuri, nel quale D’Avenia s’immerge – altro elemento di complessità dell’intero lavoro – senza limitarsi alle acque siciliane. Anzi, con una programmatica enunciazione introduttiva, l’autore spiega di non voler cedere a quella «tentazione “siculocentrica”», che è stata a lungo un vizio pernicioso di una storiografia locale «assillata dall’ansia della sua unicità, dallo spettro delle famigerate “dominazioni straniere” (quella spagnola innanzi tutto), nonché dall’ambivalente giudizio sulla sua classe dirigente e le sue istituzioni, ora baluardo delle libertates del Regnum Siciliae […], ora ostacolo di gattopardesca memoria a tutti i tentativi di modernizzazione» (pp. 13-14). Con tutti questi elementi da raccogliere, indagare, riunire e confutare, questa Chiesa del re richiama l’annosa “questione divulgativa” degli studi storici. Maneggiare la complessa strutturazione giurisdizionale siciliana, conciliando lo sforzo di approfondimento con la trasmissione dei risultati che ne fuoriescono, è l’ennesima difficoltà che ha dovuto affrontare l’autore, consapevole che istituzioni come il Regio patronato e la Regia monarchia non sono un assunto storiografico diffuso. Con mirabile sistematicità, D’Avenia opera uno sforzo chiarificatore che dà risultati di grande interesse, rendendo però inevitabilmente densa e faticosa la stesura; il che fa sospettare che la Chiesa del re colga l’importante risultato di accostare alla materia gli studiosi, scoraggiando però l’indolente lettore non specializzato. Di riflesso, queste stesse difficoltà si presentano anche in sede di recensione, dove – per ragioni di stringatezza riassuntiva – ci si potrà affidare soltanto ad alcune coordinate generali. Vediamole. Si parte da Filippo II, deciso sostenitore delle prerogative della Legazia Apostolica: organo istituzionale ereditato dai normanni, che garantiva il privilegio dell’esclusiva competenza di governo sulla chiesa siciliana. Fortemente sostenuta da Madrid per puntellare il proprio potere sull’isola, la Legazia è fonte di inevitabili frizioni con le autorità romane, preoccupate dall’instaurarsi di un fenomeno protoscismatico simile a quello del gallicanesimo. Ne seguono trattative, dispute e accesi scontri destinati a un nulla di fatto. Due cardinali particolarmente battaglieri, Bellarmino e Baronio, patirono il loro impegno in questa battaglia: il primo rischiando di finire sotto processo davanti al Sant’Uffizio spagnolo, ch’era slegato da quello romano; il secondo mancando l’elezione papale «a causa del veto opposto attraverso lo ius exclusivae dal re di Spagna (e quindi di Sicilia)» (p. 19). L’ingresso in scena del Sant’Uffizio spagnolo in Sicilia evidenzia uno scontro interno alle autorità spagnole, perché i Viceré si- 415 Recensioni e schede ciliani cercarono di contrastarne il potere: chi aveva precedenza giurisdizionale – e dunque politica – sull’isola? Alla base del problema vi era una «contraddizione sostanzialmente insanabile: la maggior parte dei magistrati […] da un lato appoggiavano la politica viceregia a favore della Regia Monarchia, dall’altro erano allo stesso tempo foristi del Sant’Uffizio, che a loro si rivolgeva in qualità di consultori» (p. 32). In questa competizione, concorreva, poi, lo jus presentationis: la facoltà cioè dei sovrani spagnoli di nominare i presuli siciliani. Un diritto a lungo concesso e rinnovato pro tempore dai pontefici a ogni singolo monarca sul trono di Madrid sino al 1621, quando Gregorio XV gli diede un carattere perpetuo destinato però presto ad affievolirsi e a rimanere aleatorio. Con i successivi avvicendamenti al soglio pontificio, quel provvedimento perse ogni carattere definitivo, e continuò il confronto/scontro tra Madrid e la Santa Sede. Questo garbuglio di autorità e di poteri in lotta tra loro, non può dunque spiegarsi soltanto ricorrendo alle trattative e alle dispute tra poteri e organi di governo formali; ma occorre penetrare quelle logiche parentali e clientelari che miravano ad assicurare fedeltà al potere centrale di Madrid. Una “alternativa” all’impossibilità di giungere a una normativa chiara e impersonale, che però sollevava altri conflitti, adesso di natura privatistica. La gratificazione di parenti del sovrano non era solo frutto dell’uso familistico del patronage ecclesiastico: «nella cornice della Union de las armas, rientrava in una più ampia consuetudine di utilizzare le rendite di importanti benefici di una provincia “periferica” della monarchia per […] 416 le necessità finanziarie di altri domini più direttamente coinvolti nelle operazioni della Guerra dei Trent’anni» (p. 42). Una realpolitik dalla quale era difficile derogare, ma che incontrò un’altra contrapposizione – in questo caso interna al Consiglio d’Italia – tra due partiti: «da una parte siciliani e napoletani, una volta tanto uniti, e dall’altra spagnoli» (p. 49). E, con la puntualità che caratterizza l’intero lavoro, D’Avenia rintraccia due “alternative”: una “ristretta” ai più vicini clienti della Corona spagnola, l’altra “allargata” ai patriziati dei suoi domini. «All’interno del Consiglio d’Italia si stava dunque dibattendo una questione squisitamente politica, ovvero il delicato equilibrio tra le esigenze della monarchia spagnola e le prerogative proprie delle sue province» (p. 51). Ne segue un’ampia casistica che, sviscerata nelle sue peculiarità, dà conto di un altro terreno di scontro a lungo incerto, ma tendenzialmente pendente in favore del potere centrale di Madrid. E così, ancora in pieno Seicento, «effettivamente nulla era cambiato»: «Filippo IV, anche quando non erano in ballo suoi consanguinei, disponeva del regio patronato soprattutto a favore di spagnoli e altri italiani, lasciando ai siciliani solo qualche briciola» (pp. 69 e 72). Non s’arrivò, dunque, a quell’alternanza delle diverse “alternative”, che, già evocando un beffardo gioco di parole, denunciava tutta la sua natura contorta. Ai patriziati locali, non restava dunque che la carriera ecclesiastica di alto rango, secondo dinamiche di ascesa non diverse da quelle operanti in altri contesti; e che D’Avenia definisce efficacemente con la «metafora del “gioco di squadra”» (p. 83). Un attivismo congiunto di membri di fami- Recensioni e schede glie aristocratiche decise ad affermare e ad ampliare il proprio prestigio e il proprio potere, ritenendo «strategica [la] “vocazione” ecclesiastica dei propri cadetti» (p. 97). Ma non diversamente andarono le cose tra quelle «famiglie di giuristi, appartenenti al “ceto ministeriale”, che costruirono la loro ascesa sociale attraverso l’esercizio di alte cariche nelle magistrature o tribunali del Regno di Sicilia […] e/o della monarchia spagnola […] per approdare finalmente anche loro ai ranghi della feudalità parlamentare» (p. 97). D’Avenia non rimane tuttavia invischiato in questa dimensione tutta politica e di potere. Indagando l’attività pastorale dei presuli, rileva come quelle «logiche molto poco “spirituali”» non comportassero «automaticamente un danno per la cura pastorale delle diocesi» (p. 119). Non mancano ancora gli intrecci: tra politiche locali e centrali, e tra le incerte e complicate istanze riformistiche della Chiesa post-tridentina. Emergono altre infuocate contese su singoli casi; e la Chiesa del re rimane insomma un rovo pieno di spine anche in pieno Settecento, quando la perdurante «difesa a tutti i costi della Legazia Apostolica rappresentò uno dei limiti del rinnovamento culturale avviatosi con la dominazione piemontese». «La Sicilia fu più di altre volte […] quasi “violentemente” sollecitata a confrontarsi con la sua storia e con altre esperienze culturali, religiose e istituzionali». Un complicato cammino nel rinnovamento settecentesco della religione e delle strutture ecclesiastiche che coinvolse appieno anche la Sicilia, che, dal cesaro-papismo della prima età moderna, «si avviava a diventare anche una Chiesa “senza papa”» (p. 158). Diego Pizzorno E. Novi Chavarria (a cura di), Ecclesiastici al servizio del Re tra Italia e Spagna, «Dimensioni e problemi della ricerca storica. Rivista del Dipartimento di Storia, Culture, Religioni della Sapienza Università di Roma», 2/2015, Carocci, Roma, 2016, pp. 237 Il tema del rapporto tra religione e politica, particolarmente in riferimento all’età moderna, può essere declinato attraverso le categorie – non onnicomprensive ma sicuramente rappresentative – di collusione e collisione; in una prospettiva – più ampia rispetto alla precedente tradizione di studi – tipica della più recente storiografia: «“Elementi di sistema”, se si vuole usare il concetto di “sistema imperiale spagnolo”, o “elementi di connessione”, nella terminologia utilizzata a proposito della Monarchia ispanica dai sostenitori del “modello policentrico”, gli ecclesiastici al servizio del Re tra Italia, Spagna e gli altri domini della Corona funsero molte volte da trait d’union nelle maglie delle reti dell’Impero e del suo inesorabile potenziale di risorse, in virtù della mobilità e circolazione delle loro carriere. Anelli di congiunzione di alleanze e reti trasversali, essi contribuirono a legittimare scelte e linea politica dei gruppi cortigiani sul piano sia delle pratiche e delle istanze operative sia per loro apporto teorico di riflessione» (Novi, p. 15). Proprio in questa prospettiva e alla luce delle più recenti tendenze storiografiche si pone il numero monografico (2/2015) di «Dimensioni e problemi della ricerca storica», curato da Elisa Novi Chavarria e contenente scritti di Ida Mauro, Fabrizio D’Avenia, Sara Caredda, Silvia Canalda i Llobet, Giulio Sodano e Valeria Cocozza. Ida Mauro analizza come «corpo “specializzato”» il gruppo di ecclesia- 417 Recensioni e schede stici chiamato a esercitare il ministero episcopale nelle 25 sedi di regio patronato del Regno di Napoli: «Per evitare lunghi viaggi, ricoprire al più presto le sedi vacanti e affidarsi a candidati preparati nella guida delle diocesi locali, si preferiva ricorrere a soggetti che erano già presenti sul territorio, fossero o no abitanti del Regno. Si promuoveva, dunque, una continua circolazione di questi esperti nella guida degli episcopati regi sullo scacchiere delle diocesi del Regno, in base alle ambizioni e alle qualità dei candidati disponibili» (Mauro, p. 26). Importante indicatore delle dinamiche politiche interne al “sistema imperiale spagnolo” e della posizione degli attori nel complesso rapporto tra sfera laica ed ecclesiastica risultano le consulte del Consiglio d’Italia dedicate alle presentazioni, da parte del viceré, dei candidati all’elezione o alla traslazione nelle sedi episcopali vacanti: «emerge di volta in volta come fattore decisivo il curriculum del presule, l’influenza dei suoi protettori, il contesto della diocesi, le congiunture politiche o la possibilità di scegliere tra la classe dei regnicoli e quella degli stranieri» (Mauro, p. 28); grande incidenza avevano poi la “prassi” dell’alternativa e le pressioni delle élite cittadine. In una prospettiva analoga, quella di considerare tanto la «composite monarchy» quanto il «sistema imperiale» come «spazio aperto per le carriere e la circolazione delle élite» (D’Avenia, p. 45) – funzionari, militari ed ecclesiastici –, si pone il saggio di Fabrizio D’Avenia Lealtà alla prova: “Casa”, Monarchia, Chiesa. La carriera politica del cardinale Giannettino Doria (1537-1642). Infatti, particolarmente indicativo della dialettica collisione-collusione è «il caso delle car- 418 riere dei cardinali fedeli alla Monarchia spagnola, per nascita o per appartenenza di fazione». Si tratta di figure caratterizzate da oscillazione o equilibrio tra «lealtà alla Chiesa e alla Corona di Spagna»: elettori del pontefice e vescovi di diocesi importanti ma allo stesso tempo «titolari di cariche istituzionali, diplomatiche e militari nel “sistema imperiale spagnolo”» (D’Avenia, p. 45). Importante lente di osservazione di questo tipo di dinamiche è il Regno di Sicilia – dove per ben dieci volte durante la presenza spagnola si registra l’attività di un cardinale-viceré – , per la «particolare configurazione ecclesiastico-giurisdizionale dell’isola», motivata dallo «statuto di regio patronato di tutte le diocesi» e dalla «compresenza di tribunali come quelli della Regia Monarchia… dell’Inquisizione spagnola e della crociata», che «sovrapponevano… le competenze su persone e reati e moltiplicavano i conflitti, che spesso coinvolgevano la sede apostolica». In questo interessante teatro politico, sociale e culturale si sviluppò importante parte della carriera del cardinale Giannettino Doria (1537-1642), «membro di una delle più autorevoli famiglie del patriziato genovese con ampi interessi nei domini iberici», arcivescovo di Palermo e più volte presidente del Regno di Sicilia (D’Avenia, pp. 46-47). D’Avenia ne legge la figura alla luce di alcune caratteristiche comuni ad altri «cardinali viceré», che «da sempre hanno definito il profilo “professionale” dell’ecclesiastico “prestato” all’alta politica nell’ambito della Monarchia spagnola» (D’Avenia, p. 47): una coerente condotta filoasburgica che in qualche momento lasciava spazio alle rivendicazioni romane; un concreto e attivo appoggio alle strategie della propria famiglia, Recensioni e schede tanto in ambito matrimoniale quanto ecclesiastico-beneficiario. Sara Caredda nel saggio vescovi regi e linguaggio del potere nella Sardegna spagnola. La committenza artistica di Diego Fernandez de Angulo (1632-1700), mette in evidenza come per la Corona fosse fondamentale non solo un «rigido controllo» sulla geografia ecclesiastica dell’isola, ma soprattutto sulla scelta degli uomini posti a capo delle diocesi, resa possibile dal diritto di regio patronato ottenuto nel 1531. Particolare attenzione e controllo “ferreo” furono esercitati sull’arcidiocesi di Cagliari e sul suo presule: «la prassi era che il re concedesse tale prestigiosa carica a un ecclesiastico spagnolo, normalmente ben inserito nell’entourage della Corte, che fungesse allo stesso tempo da guida spirituale e da agente politico della Corona» (Caredda p. 75). La Caredda punta la sua attenzione in particolare su Diego Fernandez de Angulo, arcivescovo di Cagliari dal 1676 al 1683: «la sua piena padronanza del linguaggio del potere e le sue strette relazioni con la corte di Madrid emergono chiaramente dalle imprese artistiche che promosse in Sardegna» (Caredda, p. 78). Conclude sottolineando come la biografia di Angulo «ha molti punti in comune con quella di tanti altri arcivescovi cagliaritani … questi personaggi, ognuno con la propria storia, costituiscono nel loro insieme un’élite dai caratteri molto omogenei per estrazione sociale, cursus honorum e soprattutto fedeltà incondizionata al sovrano, arbitro dei loro destini. Per l’importanza del suo ruolo politico e la rilevanza della sua committenza artistica, che lo colloca a pieno diritto tra i principali mecenati della cattedrale cagliaritana, Diego de Angulo è quindi uno dei più eminenti rappresentanti di questa categoria di vescovi regi, i cui profili sono fondamentali per comprendere la complessa rete di relazioni politiche, ecclesiastiche e artistiche tra Madrid e la Sardegna nel corso dell’età moderna» (Caredda, p. 88). Su una linea parallela a quest’ultimo si colloca il saggio di Silvia Canalda i Llobet, Estrategias visuales de promocion del cardenal Portocarrero por tierras de Italia (16691679). L’autrice sottolinea con efficacia come Luis Fernandez de Portocarrero, durante il decennio della sua presenza in Italia, abbia utilizzato la committenza artistica come strumento per costruire e proporre alla società la sua immagine non solo di cardinale ma anche di uomo di stato. Alla capacità dei “vescovi regi” di intervenire in modo autorevole nella discussione pubblica su temi politici e culturali è dedicato il saggio di Giulio Sodano Tra politica e religione: le riflessioni di un vescovo regio sul duello. Il teatino Gregorio Carafa, al secolo Carlo Marcello, apparteneva a un ramo cadetto del prestigioso lignaggio aristocratico ma godette lo stesso di «grande fortuna»: provinciale di Napoli e generale del suo ordine, dal 1644 al 1647, vescovo di Cassano nel 1648 e di Salerno dal 1664; «nobile per nascita, sebbene cadetto e non di famiglia di alto rango feudale, sacerdote di un ordine particolarmente sensibile alle esigenze del mondo aristocratico; legato a rapporti di collaborazione e servizio ai viceré; vescovo di diocesi regie di primario valore» (Sodano, p. 126). Nel corso del suo governo generale dei Teatini diede alle stampe l’opera De Monomachia seu Duello opus theologico-morale, da cui emer- 419 Recensioni e schede gono tanto il suo legame col potere viceregio, quanto lo stretto nesso tra l’ordine a cui apparteneva e l’aristocrazia. Secondo Sodano, la risposta di Carafa al quesito sulla liceità del duello fu efficace ma allo stesso tempo densa e diplomatica: «Quale migliore servizio un aristocratico ecclesiastico poteva prestare a sé stesso e al proprio sovrano se non militando per le guerre giuste del proprio principe nelle quali riversare tutta la carica aggressiva dell’etica dell’onore? Quale migliore monito dare, però, al potere regio che l’ardimento nobiliare restava la componente che maggiormente poteva risolvere le guerre» (Sodano, pp. 137-138). Nell’ultimo saggio, dal titolo “Hombres de pecho y inteligencia en negocio de estado”: il cappellano maggiore di Napoli tra Cinque e Seicento, Valeria Cocozza illustra le dinamiche politiche sottese alla nomina del cappellano da parte del sovrano. Si trattava di una figura che assommava innumerevoli competenze al confine tra la sfera del potere laico e quella del potere ecclesiastico e addirittura pertinenti alla sfera culturale, era infatti prefetto dell’Università degli studi di Napoli ed esercitava il controllo sulla produzione libraria. Secondo l’autrice «i casi proposti … offrono un altro angolo visuale da cui osservare la circolazione delle elite che caratterizzò il sistema politico dell’Italia spagnola»: gli ecclesiastici nominati a quella prestigiosa carica «dovevano vantare un cursus honorum tessuto nel tempo grazie a politiche clientelari promosse dalle famiglie di origine che, da più generazioni, avevano maturato esperienze e prove di lealtà al servizio della Corona» (Cocozza, p. 158). Daniele Palermo 420 G. Foscari, La gran machina della sollevatione. Due città e un capopopolo nella rivolta di Masaniello (16471648), Ipermedium libri, Salerno, 2015, pp. 239 Giuseppe Foscari, autore di importanti lavori sulle rivolte nel Regno di Napoli nel 1647, presenta nel volume La gran machina della sollevatione ancora un’interessante trattazione del problema della diffusione nel territorio delle grandi rivolte urbane. In particolare, attraverso i casi di Cava e Salerno, prova a fornire un’interpretazione d’insieme delle complesse vicende del Regno di Napoli nel biennio 1647-1648. Indice della complessità della trattazione di Foscari è già la confutazione dell’espressione «un po’ iperbolica» “gran machina della sollevatione” utilizzata da Giuseppe Donzelli nell’autunno 1647, nella sua opera Partenope liberata, caratterizzata da «un punto di vista dichiaratamente antispagnolo». La frase «non ci allontana troppo dall’idea di una rappresentazione complessa e architettata della ribellione, un modello meccanico di cartesiana memoria, e dunque, per sua natura, strategico, un teorema progettuale di liberazione dell’intero popolo napoletano dai nobili e dagli Spagnoli, che evidentemente era nelle corde e negli auspici di Donzelli e dei capi napoletani della sommossa. Nella sua percezione, la gran machina della sollevatione richiamava alla mente in qualche modo la dimensione spazio-temporale del conflitto che si era scatenato, che da urbano e metropolitano si era amplificato in tutte le aree del Regno e che sarebbe durato ancora per molti mesi del 1648, o ne lasciava presagire l’ampiezza e la consapevolezza» (pp. 11-12). Il complesso dibattito storiografico Recensioni e schede dei secoli successivi ha progressivamente ridimensionato «l’ipotesi di un’organizzazione su base nazionale della rivolta … e, con essa, forse, anche l’idea di un congegno ad orologeria immaginato su larga scala per esautorare il dominatore spagnolo per affidarsi ai francesi», tuttavia, nota l’autore con efficacia, «il fascino del l’espressione di Donzelli resta … intatto e, addentrandoci nella narrazione e nell’analisi della rivolta del 1647-48 con lo sguardo puntato su un osservatorio periferico, la complessità della sollevatione, le città protagoniste, il capopopolo implicato, le strategie adottate, i ripetuti e non sempre prevedibili colpi di scena, le profonde relazioni con la più generale dinamica della sommossa, lasciano ben intendere quello scenario di macchinazioni a cui alludeva il medico-storico. Se non c’è stata una vera e propria condivisione del progetto … c’è stata sicuramente una condivisione dell’azione ribelle e l’idea stessa di insorgere, protestare con violenza, dissentire, è corsa in lungo e in largo per il Regno» (p. 13). Per rappresentare dalla periferia questo inestricabile intreccio di progetti e pulsioni, scelte pianificate e casualità, obiettivi di gruppi e fazioni e azioni individuali, Foscari sceglie due punti di osservazione privilegiati e tutt’altro che marginali come Cava e Salerno, «città tipo della fedeltà monarchica»: demaniali «in un quadro di dilagante feudalità» e luogo di osservazione delle due tipiche modalità della rivolta, il conflitto fazionale per la conquista del potere cittadino e l’azione sobillatoria di un capopopolo. Entrambi i centri poi, anche se con modalità molto diverse, videro l’azione di Polito Pastena, leader della rivolta di stampo “masanielliano”, la cui capacità di mobilitazione travalicava i confini di città e distretti. Cava, città nettamente filomonarchica e «tradizionalista», fu teatro del conflitto tra due «fronti patrizi» che, approfittando della congiuntura attraversata dal Regno di Napoli, entrarono in dura competizione per conquistare il controllo del teatro politico ed economico cittadino. Salerno fu invece scenario dell’azione del capopopolo Pastena: la città «non ebbe, nell’immediato, alcun motivo legato a vicende interne al patriziato per ribellarsi, sicché, quasi da subito, toccò a Polito Pastena sobillare la plebe dei suoi casali, caricando la sommossa di altri contenuti e rivendicazioni» (p. 15). Particolarmente indicativa degli equilibri politici e territoriali nel Regno di Napoli a metà secolo è proprio la vicenda di Cava; infatti la sua identità civica aveva la «demanialità» come caposaldo pressoché indiscutibile e «cardine politico e culturale». Tutto questo è frutto di un «pragmatismo che, in verità ha permeato tutta la vicenda… di Cava e che consisteva nell’essere sempre fedele alla Monarchia al potere» (p. 53). Inoltre, la riforma dello «statuto cittadino» del 1556 aveva costituito uno strumento di equilibrio nel teatro politico municipale: le cariche venivano assegnate in base a un criterio di eguaglianza e alternanza tra distretti «e quindi tra i casali che li componevano», al fine «di evitare dispute accanite fra le famiglie cittadine più in vista» (pp.5657). Da notare anche i legami tra l’élite cittadina e un «partito cavese» a Napoli, originato, tra ‘400 e ‘500, dall’emigrazione di centinaia di famiglie, che, ormai «napoletanizzate», secondo «non pochi scrittori contemporanei», svolsero un «ruolo attivo … nel supportare Giulio Genoino nelle sue istanze filopopolari ed antiaristocratiche» (p. 60). 421 Recensioni e schede I caratteri particolari della rivolta di Cava sono anche importanti indicatori di dinamiche più generali. In un costante obiettivo di perseguimento di un’inviolabile e perpetua demanialità, si articolò in due fasi: «La prima, durata praticamente dall’11 luglio 1647 alla fine del mese, è stata caratterizzata dall’iniziativa politica del patriziato escluso dal potere; un ceto variegato, professionale, mercantile, commerciale, capace di dialogare e accordarsi con la plebe più esasperata dalle condizioni del Regno e della città … e di avvalersi della sua preziosa collaborazione per esercitare un forte pressing su quanti gestivano il potere locale … la seconda fase, quella della lotta plebea, ispirata e spesso fomentata da Polito Pastena, che si è registrata nel momento in cui il legame tra il gruppo ribelle e la plebe si è dissolto per le troppe differenze sociali, culturali e per la diversità delle istanze che rispettivamente misero in campo» (p.62). L’autore sottolinea con efficacia la diversità del caso salernitano rispetto a quello di Cava: «Salerno fu uno dei luoghi chiave e più rappresentativi della conquista del potere dei popolani. Per nove mesi … seppure in un quadro politico che andò mutando, la città fu tenuta in scacco da Polito Pastena e dai suoi uomini» (p. 220). Il lavoro di Foscari è caratterizzato non solo da una visione d’insieme delle rivolte nel Regno di Napoli attraverso la lente della periferia, ma anche da un respiro globale dato all’argomento, soprattutto allorché, in riferimento alle rivolte in Europa e nelle colonie tra il 1647 e il 1660, cita gli scritti di Rediker e Linebaugh, che, «in buona sostanza … hanno riproposto i temi del conflitto di classe, suggerendo l’idea di una circolarità dell’esperienza rivoluzionaria … una 422 matrice comune sembra mettere tutto assieme, a loro giudizio, in una gigantesca protesta sociale determinata dalle evidenti disuguaglianze della società». Pur non volendo riproporre il conflitto di classe come chiave di lettura, l’autore ritiene che non si possa smettere «di pensare all’esistenza di un conflitto sociale che ha caratterizzato l’Europa (e non solo) nel corso del XVII secolo; che non esclude un certo grado di consapevolezza delle proprie condizioni sociali da parte della plebe e neppure un antagonismo plebeo e “popolare” verso i poteri forti, un’insofferenza sfociata in una ribellione con l’eloquenza primitiva dei plebei, per usare il lessico di Linebaugh e Rediker, dunque astiosa, rancorosa, ribelle, istintiva, non programmabile, non coerente e violenta» (pp. 219-220). Daniele Palermo L. Braida, S. Tatti (a cura di), Il Libro. Editoria e pratiche di lettura nel Settecento, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2016, pp. XVIII, 446 Il volume raccoglie gli atti di un convegno dedicato al libro e all’editoria nel Settecento. I saggi sono organizzati in una struttura tematica la cui lettura ci fornisce il quadro complessivo del progetto disegnato dagli organizzatori del convegno. Un percorso apparentemente frammentato, ma con una forte coerenza progettuale, giacché la stampa e la sua capillare diffusione in ogni strato sociale diventano uno degli strumenti che contribuiranno a costruire la nuova realtà sociale e politica europea che segnò la fine della società di antico regime. Gli interventi pubblicati affrontano cinque temi: «il rap- Recensioni e schede porto tra l’autore e i suoi editori; le trasformazioni del mestiere del libro e del mercato editoriale; i generi editoriali di larga circolazione; la mobilità dei testi pensati per i nuovi contesti cultural; (traduzioni, materialità delle edizioni); l’attenzione ai lettori, alla storia delle biblioteche e alle nuove forme di lettura» (p. X). Il Settecento è un momento di svolta per la realtà editoriale europea: la cartina di tornasole è data dai cataloghi degli editori che aumentano a dismisura l’offerta dei titoli. Gli scaffali della bottega del libraio si riempiono di volumi in modo esponenziale. Il mercato librario si espande in maniera a macchia d’olio, creando canali commerciali che permettono una circolazione dell’oggetto libro massiccia e tempestiva. Utilizzando un osservatorio formalmente periferico come la Sicilia vediamo che i dati di crescita che si riferiscono al mercato siciliano e palermitano in particolare sono in piena sintonia con quelli europei. Bartolomeo Inbert, “gallicus”, nel 1523 nella sua bottega di mercerius, che rispecchia i canoni organizzativi delle analoghe strutture francesi, ha la disponibilità di 166 titoli e 414 volumi; il libraio Achille Piffari nel 1597 ha sugli scaffali 1217 titoli e 2816 volumi; Luciano Meli nella sua bottega nel 1623 offre 2039 titoli con 7612 volumi. Nel Settecento il volume delle offerte dei titoli e dei volumi disponibili raddoppia ulteriormente. Un mercato in crescita imponente che evidentemente è alimentato da una sinergia che si sviluppa su alcuni snodi importanti: l’autore, il lettore, l’editore e il circuito di commercializzazione. Tutte queste realtà interagiscono tra di loro e contribuiscono alla creazione di una nuova realtà del rapporto del lettore con il libro. Cambia radicalmente l’approccio alla lettura della pagina stampata: si legge silenziosamente e non si rendono partecipi gli altri alle emozioni legate alla trasposizione della scrittura in parole. Un segno tangibile della trasformazione del nuovo approccio è segnato tipograficamente dall’abbandono dei segnali tipografici che segnalavano a chi leggeva ad alta voce dei necessari cambiamenti di tono per partecipare agli ascoltatori l’opportuna emozionalità. Il nuovo modo di leggere è ricostruito da Tiziana Plebani nel saggio La rivoluzione della lettura e la rivoluzione dell’immagine della lettura anche per il tramite di un’analisi delle rappresentazioni iconografiche dei lettori del Settecento. La presenza delle donne nelle immagini legate al mondo della lettura è un altro indicatore per comprendere come sia cambiato l’approccio alla pagina scritta, che non è più uno strumento di lavoro per il giurista, per il filosofo, per l’ecclesiastico o per il medico, bensì un oggetto che stimola un approccio emozionale. Si legge un romanzo d’amore, si legge in villeggiatura, ma ci si preoccupa di avvicinare al mondo della lettura anche i bambini come ci mostra l’immagine di una bambina che si appresta a leggere un libro mentre le donne della famiglia lavorano al tombolo. Altro momento importante per il processo di ampliamento della platea dei lettori, che s’indirizzano a un tipo di lettura non professionale e che si approcciano alla carta stampata per diletto, è individuato nell’irrompere sSl palcoscenico della lettura di un prodotto editoriale specifico: il giornale, il periodico che stravolge completamente l’approccio alla carta stampata. Roberto de Romanis nel suo saggio sui riti della sociabilità 423 Recensioni e schede inglese invita a riflettere che i giornali, che s’inseriscono nel sistema della comunicazione del Settecento, hanno una costruzione della notizia che non invecchia e non si consuma in un giorno. In particolare afferma che «i contenuti di quel genere di stampa, proprio per prestarsi come oggetti del vivace dibattito cui si accennava poc’anzi, sono più che altro echi di notizie, o meditazioni o spunti cui quelle notizie o altri materiali apparsi in qualche volume recente potevano dare origine, o l’avevano già data su altre testate o contesti; …imponendo ai lettori dei ritorni, degli approfondimenti, dei ripensamenti con passaggi da un periodico all’altro o da un giornale a un volume e viceversa». La lettura dei giornali e il loro commento in Inghilterra avevano luogo non già nel silenzio degli studi, bensì nel rumoroso scenario dei club e delle coffee-houses – nella sola Londra si contavano almeno duemila caffè – innescando la costruzione di reti relazionali che coinvolgevano spesso anche gli autori. Il romanzo e il saggio costituivano il carburante principale con il quale alimentare il dibattito all’interno delle predette realtà con i vantaggi e gli svantaggi che ne derivavano. Inoltre, il caffè e il club erano strutture che avevano bisogno della città per nascere e svilupparsi, mentre nei villaggi di campagna o nei piccoli centri la realtà dei giornali e della loro lettura condivisa non riusciva a consolidarsi. I temi affrontati nel volume sono numerosi e complessi e meriterebbero una lettura specifica e attenta. Un esempio valga per tutti: Serenella Rolfi Ožvald dedica il suo saggio proprio al tema dell’uso delle immagini in una rinnovata editoria di qualità, dedicata a uno specifico circuito 424 dell’editoria di “alta divulgazione” legato alla stampa di volumi corredate da incisioni spesso a colori. Un mercato difficile che si alimentava con le sottoscrizioni delle associazioni di lettori specializzati che alimentavano un’editoria di lusso criticata da chi vede nel libro uno strumento culturale e non già un oggetto di collezione. Francesco Milizia nel 1797 criticava «quegli amatori curiosi, i quali tengono fin i libri come chincaglierie di lusso e temono di toccarli affinché non perdano niente del loro valore pecuniario. A questo valore la ciarlataneria sacrifica il merito intrinseco delle opere, e così avvelena le arti e i costumi» (pp. 237-238). In realtà, ci si trova davanti a un mondo tipograficamente nuovo, dove si sperimentavano le diverse tecniche in uso per la riproduzione su carta delle immagini colorate. Un’esperienza che necessitava dell’attivazione di una stretta collaborazione dell’arte della tipografia con quella della calcografia. I costi di produzione di questo specifico prodotto librario erano molto elevati ma esso costituiva uno strumento essenziale per gli autori e gli editori «specializzati nello specifico campo della storia e della critica delle belle arti» (p.245). L’ultima sezione di questo volume è dedicata a “Editoria e biblioteche nella Sicilia del Settecento”, con cinque saggi che aprono degli squarci sulla realtà siciliana del Settecento poco conosciuta da sviluppare e da approfondire in un contesto temporale che necessita in molti casi di una rilettura. Michela D’Angelo apre la sezione con un saggio dedicato all’editoria e libri nel ‘lungo’ Settecento messinese (1678-1783); Diletta D’Andrea continua con la sua riflessione su “Stampatori e librai a Mes- Recensioni e schede sina nel tardo Settecento” ; Rosario Lentini illustra il funzionamento della Reale Stamperia di Palermo nel primo ventennio di attività ( 17791799); Danilo Siracusa presenta l’iniziativa voluta dal viceré Caracciolo della pubblicazione dei calendari del Regno di Sicilia (1759-1805); Caterina Sindoni si sofferma su i libri per le scuole e la Biblioteca dei maestri nella rivoluzione scolastica di Giovanni Agostino De Cosmi. Le analisi di Michela D’Angelo e di Diletta d’Andrea mostrano una Messina profondamente segnata da alcuni eventi traumatici come la rivolta contro la Spagna (1674-78), la peste del 1743 e il terremoto del 1783. Avvenimenti che hanno delle ricadute negative sia sul numero delle tipografie, che operavano all’interno delle mura cittadine, sia sull’attività dei librai e degli editori. Un’attività editoriale che supportava il “consumo” locale sfornando libretti di devozione, spartiti musicali, bandi ma, nello stesso tempo, garantiva le pubblicazioni di maggiore peso scientifico stimolate dalla presenza operante di accademie e di biblioteche le quali dedicavano numerose letture ai temi scientifici e culturali di rilievo. Diverse pubblicazioni, ad esempio, sono dedicate all’analisi dei terremoti che squassarono in quel periodo sia la Calabria sia la Sicilia. Le officine tipografiche messinesi garantivano, inoltre, settimanalmente la stampa di “gazzette”, con le quali la realtà politica e culturale europea fece irruzione in Sicilia grazie alle notizie tratte dai fogli di Venezia, Trieste, Napoli e di altre capitali europee, che si mescolavano a quelle della guerra contro la Francia rivoluzionaria e ai riferimenti alla cronaca locale. Altra riflessione è dedicata all’esperienza legata alla creazione a Palermo della Reale Stamperia, uno stabilimento tipografico funzionale al piano governativo di realizzare una struttura di supporto all’Accademia palermitana, primo nucleo del futuro Ateneo, e all’ambizioso progetto della riforma del sistema scolastico siciliano. Il saggio di Rosario Lentini disegna i percorsi di questa ambiziosa intrapresa affidata alla Deputazione dei Regi Studi che ne avrebbe fatto uno dei suoi più importanti riferimenti per la sua politica culturale. Il progetto era di far sì che la stamperia si autofinanziasse obbligando il Tribunale del Real Patrimonio e gli altri uffici della Regia Corte a servirsi della Real Stamperia di Palermo per produrre tutta la modulistica necessaria per la loro attività istituzionale. Una privativa che suscitò le ire degli altri stampatori palermitani che si ritennero danneggiati dalla scelta della Deputazione. La documentazione, conservata presso l’archivio storico dell’Ateneo palermitano, ci permette di avere il quadro complessivo della produzione che usciva annualmente dai torchi giacché si conservano i dati relativi alle tirature e alle giacenze di magazzino. I torchi della stamperia reale produrranno, su specifico mandato di mons. Airoldi, i volumi del Il Consiglio d’Egitto frutto della arabica impostura dell’abbate Vella ma, anche, grammatiche, libri di diritto, opere devozionali e altro materiale didattico. L’ampliamento della platea dei lettori è legato anche agli sforzi che sono riservati alla formazione culturale e didattica del maestro di scuola. Caterina Sindoni con un saggio sui libri per le scuole e la biblioteca dei maestri apre un ampio squarcio sul ruolo avuto dal De Cosmi nella modernizzazione e laicizzazione della formazione dei maestri delle scuole elementari. Dalle prime indagini 425 Recensioni e schede emerge che l’impostazione delle strutture didattiche della scuola elementare siciliana, sotto l’impulso decisivo del De Cosmi, sia stata «orientata verso quel modello scolastico offerto dal sistema in vigore nel LombardoVeneto tutto basato, come sottolinea Piseri, sul principio della necessità della formazione dei maestri» (p. 403). Una formazione che passa sempre per il tramite dell’oggetto libro. Le stamperie palermitane si occupavano anche della pubblicazione dei cosiddetti Calendari di corte, il cui primo esemplare fu stampato a Palermo nel 1759 da Epiro, ma questa linea editoriale non ebbe un grande successo. La svolta si ebbe con il viceré Caracciolo, il quale nel 1785 dette vita al Notiziario del Regno di Sicilia con l’obiettivo di creare un supporto in funzione della formazione di una opinione pubblica favorevole alle iniziative del governo. La scelta di utilizzare il Gregorio come redattore e coordinatore della redazione dei Calendari non è casuale, ma funzionale alle scelte politiche anti baronali del viceré. Il libro e la scolarizzazione diventano le armi con le quali supportare la politica riformistica. Il volume, come Silvana Braida e Silvia Tatti sottolineano nella loro introduzione, riapre il dibattito sul ruolo che la produzione, la diffusione e, soprattutto, la fruizione dell’oggetto libro ha avuto nei processi di destrutturazione dell’antico regime. Ognuno dei saggi pubblicati offre lo spunto per nuove riflessioni e riletture, ma soprattutto mette in luce che la rete, con la quale si supportano i processi riformistici che demoliranno gli stati di antico regime, sarà costruita grazie agli editori, agli stampatori e ai librai che assicureranno la capillare diffusione delle nuove idee. Antonino Giuffrida 426 Marcella Aglietti, L’istituto consolare tra Sette e Ottocento. Funzioni istituzionali, profilo giuridico e percorsi professionali nella Toscana granducale, Edizioni ETS, Pisa, 2012, pp. 438 L’obiettivo e la metodologia di questo lavoro sono ben chiariti fin dall’inizio: capire l’evoluzione della figura del console, nel suo passaggio da organo rappresentativo di una comunità mercantile a ufficiale di un’amministrazione statale, «con gli strumenti e le inquietudini della storia delle istituzioni». Un libro d’altro canto interdisciplinare, che vuole «ricorrere a una molteplicità di prospettive […] proprie della storia economica, della storia del diritto internazionale e delle relazioni internazionali», e che si distingue per una cronologia non proprio usuale, ponendosi sul crinale tra due secoli, il XVIII e il XIX, caratterizzati da fratture che spesso creano barriere anche nella comunità degli studiosi. La chiave di lettura, per contro, è tradizionale ma storiograficamente valida: la storia dello Stato come percorso di modernizzazione, che pure fra rallentamenti e difficoltà si vede bene anche dalla prospettiva del console, il quale ne interpreta con l’ampliamento e la definizione delle sue funzioni il rafforzamento nelle relazioni interstatuali e nell’ambito degli equilibri interni di potere. Rispetto alla letteratura esistente sul tema (relativa alla Spagna, alla Francia, all’Inghilterra, agli Stati Uniti, ai paesi scandinavi, ai vari Stati italiani ecc.), l’originalità della ricerca sta nella capacità di ripercorrere e seguire lucidamente la transizione dell’istituto consolare nel passaggio dal tramonto dell’antico regime alla genesi delle «moderne nazioni di età contemporanea». Figura sfuggente, quella del console, che a differenza dell’ambascia- Recensioni e schede tore non sempre gode di una rappresentanza pubblica ufficiale e che nel suo agire quotidiano dipende dai margini che gli vengono concessi dagli usi e dalle consuetudini locali, ma che da un certo momento in avanti (il caso francese è emblematico) comincia a essere nominata regolarmente dal Principe (non più dalla comunità dei mercanti), ha l’obbligo di risiedere nel luogo di destinazione e riceve precise consegne in merito alla sua condotta (ad esempio, non può più svolgere attività commerciali). Per spiegare questa lenta ma decisiva trasformazione, Aglietti fa intelligentemente ricorso ad una trattatistica ampia e in certi casi anche molto prestigiosa (anche se talora su posizioni contrastanti). Una trattatistica alla quale sul finire del XVIII secolo fa seguito una legislazione sempre più precisa in materia (a partire dal Real decreto di Carlo III di Borbone, per poi passare alle leggi francesi e veneziane e alle disposizioni toscane di Cosimo III ben conosciute dall’A.). Viene realizzato in questo modo il perfezionamento dell’istituzione consolare, «formalizzata e sottoposta a una massiccia operazione di riforma» con la quale «se ne definiscono competenze e qualità, modalità di investitura e di legittimazione, gerarchie e prerogative». In altre parole, si tratta della compiuta definizione normativa – in un certo senso una vera e propria metamorfosi – di una figura che era stata l’emblema di quella «commistione inscindibile fra interesse pubblico e interesse privato precipuo delle società pre-contemporanee». Sullo sfondo di questo solido e nitido contesto, nella prima parte del libro Marcella Aglietti si sofferma sul caso del Granducato di Toscana, che per la presenza del cosmopolita scalo livornese («città portuale multietnica») ben si adatta allo studio delle tensioni, di cui i consoli si fanno catalizzatori, fra la giurisdizione sovrana e «quella miriade di privilegi e giurisdizioni particolari» che le comunità straniere provano a esercitare. Naturalmente, trattandosi di Settecento toscano, ben forti sono le differenze fra «l’equilibrismo strategico» dei Medici e la tendenza all’affermazione del principio di sovranità dello Stato di cui si fanno portatori gli Asburgo-Lorena: una cesura che gli specialisti del Granducato conoscono bene, e che si avverte continuamente nel libro. Al frastagliato Settecento, nella trattazione dell’autrice segue un Ottocento più “granitico”, in cui anche la Toscana partecipa a quel processo di omologazione e di mutuazione reciproca che mettono in atto gli Stati al fine di ottenere la «burocratizzazione e [la] uniformizzazione della carica consolare e delle sue competenze». Nella Livorno del XVIII secolo i consoli sono l’espressione più lampante del favore con il quale i mercanti forestieri sono considerati e trattati. Il granduca sa che bisogna trattarli bene (gli uni e gli altri). Ma non sempre fila tutto liscio. Anzi, «la natura delle relazioni fra le istituzioni toscane e le agenzie consolari estere si delinea come un continuo braccio di ferro condizionato da una molteplicità di fattori non riducibili al mero dialogo di carattere istituzionale». Detta altrimenti, è talmente intenso il movimento commerciale del porto labronico che spesso insorgono disguidi e controversie tali da mettere a repentaglio la cortesia formale dei rapporti consoli esteri-Firenze. E poi non tutti i consoli sono uguali: diversi possono essere i legami fiduciari fra consoli e “nazioni”, così come diversi 427 Recensioni e schede si rivelano i rapporti fra consoli e ministri toscani di Livorno e Firenze (rapporti che si costruiscono «su base concordataria e permanentemente rinegoziabile», e che tanto sono influenzati dallo scenario internazionale del momento). Ancora, il caso dei consoli francesi, sotto questo ultimo aspetto, la dice lunga: un po’ per l’influenza politico-militare esercitata dalla grande potenza borbonica, un po’ perché riflesso della razionalità normativa della Corona francese in materia consolare, essi si considerano «ministres publics» investiti di «piena autorità giuridica nei confronti dei sudditi francesi per delega sovrana», e in pratica giudicano nelle cause in cui sono implicati dei connazionali. I granduchi considerano la pratica una mal tollerata «eccezione alla regola», mai formalmente ratificata, tanto è vero che, quando il console a Livorno di Giorgio II incarica un notaio locale di redigere gli atti di prede corsare alle quali sono interessati i mercanti britannici (è il 1741), viene aspramente redarguito dal governo fiorentino. Specie quando arrivano gli Asburgo-Lorena, Firenze vorrebbe ridurre i consoli esteri nello scalo livornese a mere figure di mercanti privati, laddove questi personaggi chiamano i loro scrittoi «cancellerie», «ove affettano di parlare e scrivere in stile cancelleresco e diplomatico, a similitudine delli tribunali legittimi». Certo, lo ripetiamo, le situazioni non sono tutte uguali: nella Livorno ancora medicea, ai consoli di Francia, Inghilterra e Olanda, le cui pretese si fanno via via sempre più insistenti, fa da contrappeso il ridicolo consolato sardo, con un incaricato (Gregorio Mendes) che non si sa neppure se si possa definire console, vede cadere più volte nel 428 vuoto le proprie richieste di istruzioni al governo di Torino e finisce in miseria perché resta privo di compenso per ben quattro anni di fila. Ma al di là delle vicende personali e delle parabole professionali, nell’analisi dell’Aglietti emerge con evidenza l’eccezionalità del caso studiato – quello di Livorno – in cui la figura del console raggiunge il climax della sua ambivalenza: soggetto istituzionale in potenziale collisione con il governo dello Stato in cui risiede; prezioso garante del buon ordine e della permanenza pacifica (e possibilmente proficua) di una comunità mercantile. Le due cose devono essere in qualche modo conciliate. Ma come cercare di limitare le ingerenze giurisdizionali dei consoli proprio in un porto dove ai forestieri «giova fare maggiori agevolezze» che ai «paesani»? Le ovvie ripercussioni sul piano delle relazioni internazionali che può avere il comportamento nei confronti di un console estero richiedono dunque un astuto dosaggio dell’«arte del compromesso e della dissimulazione». Illuminante, a questo proposito, che Firenze abbia disposto più volte, nel corso del XVIII secolo, che «il governatore non [debba trattare] alcuno affare con i consoli in scritto». Tutto viene lasciato all’improvvisazione degli approcci informali: in un certo qual modo, li si favorisce nel loro concreto operato, si chiude un occhio sulle loro prerogative, ma si sta ben attenti a non pronunciarsi mai ufficialmente in materia. All’esatto opposto, la lunga trattativa fra il Granducato e lo Stato Pontificio per lo stabilimento di un console romano nei «porti di Toscana» – che, più di una trattativa, si rivela una «operazione di ostruzionismo» Recensioni e schede – mostra bene l’importanza della forma, delle procedure e delle for mule retoriche nella produzione delle patenti consolari, che è solo il punto di partenza dell’ampia attività di un console. Nel secondo capitolo si passa a esaminare il sistema consolare toscano, ramificato sulle due sponde del Mediterraneo e in quasi tutta Europa, che si contraddistingue per una certa eterogeneità (vedi i casi delle sedi romana e napoletana, dove il ruolo del centro nella scelta del console è ben diverso). Con l’eccezione proprio di Roma, il tentativo dei Medici è quello di svincolare l’ufficio dall’influenza delle comunità mercantili locali e di esercitare un controllo maggiore al fine di fare della figura consolare un «organo di governo coerentemente inserito all’interno del sistema statuale toscano». E la tendenza all’interventismo di governo si fa ancora più forte con gli Asburgo-Lorena, i quali esordiscono con un censimento di tutti i «ministri ed agenti» nominati o confermati presso le corti estere; e che arrivano in breve tempo a perfezionare un sistema consolare che sarà preso a modello dall’Impero, il quale «riconosce ai toscani una maggiore esperienza nelle attività mercantili» (e che materialmente comincia ad affidarsi per le proprie sedi a sudditi granducali). Quando la macchina asburgica sarà ben oleata, i rapporti si invertiranno, e sarà Firenze ad affidarsi ai consoli nominati da Vienna (o ad accettare rappresentanze comuni); ma non è la sede per entrare in questi dettagli. Ulteriore conferma del carattere bicefalo dello Stato toscano (a Firenze la capitale politica, a Livorno il cuore pulsante dei traffici commerciali), tutti i consoli del granduca in servizio all’estero devono corrispondere con il Governatore labronico (la cui figura è stata al centro di una precedente monografia dell’autrice), che in generale ha ampie prerogative in materia consolare. Quanto al loro operato, malgrado l’esistenza di precise patenti di nomina, i margini d’azione sono dettati più dalla prassi che dal diritto: si guarda in sostanza a quanto è in uso negli altri consolati e a quanto viene concesso nelle situazioni di reciprocità. Pesa poi la congiuntura politico-militare, nella vita di un console: il secondo paragrafo di questo secondo capitolo è dedicato proprio a spiegare come nel Mediterraneo altamente militarizzato del Settecento le fortune delle comunità mercantili toscane all’estero possano variare anche di molto a distanza di pochi anni (in particolare, molto dipende se si è, o meno, in pace con le reggenze barbaresche). Ed è proprio in queste occasioni che il console fa sfoggio della sua importanza: «l’esistenza di un console di Toscana […] è ugualmente utile e necessaria in ogni tempo, ma soprattutto il tempo di guerra», scrive nel 1780 il ministro plenipotenziario per gli As burgo-Lorena a Londra. Al lettore, giunto a questo punto del libro, al termine di questa operazione speculare (l’analisi dei consolati esteri a Livorno, quella dei consolati toscani all’estero), non può sfuggire una cosa. La peculiarità di Livorno rende più stimolante e ricco di prospettive il primo campo di indagine, mentre il secondo presenta molti aspetti generalizzabili ad altre realtà statuali. Non è un caso se uno dei capitoli più originali di tutto il lavoro è quello sul consolato spagnolo a Livorno, che tra l’altro, per il fatto di essere rimasto appannag- 429 Recensioni e schede gio di una sola famiglia (i de Silva) fra 1677 e 1802, permette di verificare da un’angolatura particolare i processi di costruzione delle élite internazionali della diplomazia, e di apprezzare la vastità della rete di corrispondenti di un console settecentesco (si veda l’elaborazione di p. 191). L’eccezionalità di Livorno si vede anche dal fatto che «le sedi consolari [lì] di stanza attraversano pressoché indenni i turbolenti anni francesi», quelli della tempesta napoleonica, «proprio per l’importanza strategica della sede livornese». E non è un caso se la restaurata monarchia sabauda confida nel proprio console a Livorno (Luigi Spagnolini) per potenziare la navigazione dei natanti “nazionali” nel Mediterraneo: è nello scalo labronico che risiedono le ricche case di negozio ebraiche in grado di rabbonire le potenze barbaresche. Nell’Ottocento, è significativo che il testo delle istruzioni per i consoli toscani all’estero del 1820 (integrato nel 1826) ricalchi in maniera pressoché identica quelle redatte per il console genovese a Livorno del 1767: retaggi di antico regime. Cambia invece tutto a partire dal 27 aprile 1859: se ancora nei mesi precedenti il Governatore di Livorno aveva ricevuto ragguagli da buona parte del Mediterraneo e dal resto d’Europa, all’inizio dell’estate si sondano gli orientamenti politici dei consoli toscani presso le sedi straniere, e poi questi stessi personaggi vengono esautorati e sostituiti dai sardi. Mentre la “vecchia” prestigiosa piazza livornese diventa una «sede consolare di rango inferiore rispetto al passato». La sezione sui «percorsi professionali», dopo un primo capitolo in cui si esaminano il sistema delle pa- 430 tenti e delle istruzioni, l’usanza (sovente contrastata) di tenere le insegne presso le residenze consolari e le modalità (molto diversificate) di elargire compensi ed emolumenti – e che segna l’apice della pratica della comparazione all’interno del libro – si concentra sul curriculum del console toscano e sull’identikit del console estero a Livorno. L’obiettivo è delineare come i consoli arrivino a costituire una sorta di «oligarchia», altamente professionalizzata e dotata di un patrimonio di competenze trasmissibile. «Il profilo del suddito toscano adatto a rivestire un incarico consolare non differiva […] molto da quello richiesto negli altri Paesi». Il segreto, per farsi scegliere, è coniugare l’animo del commerciante con l’esperienza del funzionario, fidato servitore mosso da «amorevole affetto» verso il proprio governo. Di solito si tratta di un cittadino fiorentino, che può usare il consolato anche come rampa di lancio per una carriera nelle magistrature della Dominante, e per eventualmente acquisire la nobiltà. Con la Restaurazione non cambia granché: nella scelta si tiene sempre conto della «moralità, condotta e buona reputazione», oltre che della «posizione sociale» e della capacità di «disimpegnare le consolari ingerenze»; e la proposta delle candidature rimane costantemente a carico del Governatore di Livorno, vero perno del sistema consolare toscano all’estero tra Sette e Ottocento. Curioso il fatto che la dinastia asburgica non permettesse la copertura delle carica ai religiosi, neppure in via interinale. Il console estero nella piazza labronica è invece tradizionalmente un «negoziante», inteso quale soggetto dotato di notevole disponibilità economica e di un’ampia rete di contatti Recensioni e schede personali, al fine di espletare al meglio le due funzioni che gli vengono generalmente richieste: tutelare i traffici dei connazionali «come fossero i propri», informare il proprio governo su tutto quello che accade nella sua sede di residenza. Ciò non toglie che i vari Stati abbiano orientamenti anche dissimili: i sovrani di Francia preferiscono uomini altolocati, con precedenti esperienze negli uffici pubblici, che in loco non commercino in prima persona (su quest’ultimo punto non transigono neppure i Savoia e gli Hannover); agli spagnoli interessa che il console sia di cristallina fede cattolica (ne vogliono controllare anche le scelte matrimoniali!); gli olandesi (ma anche gli svedesi) puntano sui mercanti e su persone “pratiche”; i veneziani badano molto alla dote della «fedeltà»; i genovesi considerano molti elementi ma in linea di massima preferiscono optare per chi ha già fatto esperienza, magari al fianco del padre (non sono mancate difatti alcune dinastie consolari, la più importante delle quali è proprio quella dei Gavi a Livorno, di cui l’autrice parla nel libro, e che risulta molto studiata dalla più recente storiografia genovese). In definitiva, il libro di Marcella Aglietti è frutto di una ricerca ampia e originale, ed è uno strumento utile per ben comprendere nelle sue sfaccettature e nelle sue vicende non sempre ben lineari il passaggio della figura del console da rappresentante di una comunità mercantile, immerso in un orizzonte giuridico incerto e di carattere pattizio, a burocrate del nuovo Stato ottocentesco. Riprendendo il titolo dell’ultimo capitolo, da console della “nazione” a console dello Stato. Paolo Calcagno Emiliano Beri, Genova e La Spezia da Napoleone ai Savoia. Militarizzazione e territorio nella Liguria dell’Ottocento, Città del Silenzio, Novi Ligure, 2014, pp. 240 Nel corso dell’Ottocento la Liguria – così come molte altre parti della penisola toccate dall’epopea napoleonica e dall’ascesa di casa Savoia – vide mutare drasticamente alcune aree del proprio territorio sotto la spinta invasiva di una massiccia militarizzazione, diretta risposta alle rapide innovazioni in campo bellico che interessarono il XIX secolo. Le città di Genova e La Spezia, per effetto del loro rilievo strategico, furono protagoniste primarie di quest’evoluzione militare, pur con tempi e modi completamente diversi: se per la prima si trattò del prosieguo di un fenomeno già avviato da qualche secolo, per la seconda determinò – nelle parole di Emiliano Beri – una vera e propria «genesi della città e [del]le sue vie di sviluppo» (p. 8). Proprio per questo motivo, l’autore ha deciso di studiare due casi tanto differenti in un approccio comparativo, volto a indagare l’impatto che la militarizzazione ebbe sui centri liguri non solo dal punto di vista strettamente tecnico-militare, ma anche in relazione al territorio, all’economia, alla demografia e all’urbanistica dei poli spezzino e genovese. La via seguita è stata quella di un’analisi trasversale, tesa per un verso a donare organicità a filoni di ricerca che fino a ora – almeno in campo ligure – s’erano mossi prevalentemente su binari paralleli senza dialogare in maniera proficua, e per l’altro, grazie allo scavo di una vasta documentazione archivistica in gran parte inedita, ad ampliare significativamente con nuovi dati lo studio di una fase tanto cruciale per lo sviluppo delle due piazze liguri. 431 Recensioni e schede La prima parte del lavoro si focalizza sui mutamenti subiti dall’area del Golfo della Spezia. Se l’insediamento dell’Arsenale della Marina militare – a partire dalla metà dell’Ottocento – fu sicuramente il momento di gran lunga più significativo per la trasformazione del «grosso borgo sonnacchioso» (p. 17) levantino in una delle maggiori basi navali della penisola italiana, Beri sceglie di principiare la sua trattazione con un salto indietro, delineando il ruolo della piazza e del territorio immediatamente circostante all’interno del sistema difensivo del Dominio di Terraferma genovese. I secoli XVII e XVIII videro un graduale incremento delle opere di fortificazione intorno al Golfo, che assurse a caposaldo strategico della Riviera di Levante in virtù della sua caratteristica di straordinario porto naturale, capace di attirare le pericolose mire dei concorrenti della Repubblica nel controllo del Tirreno settentrionale. Caratteristica questa che non mancò di suscitare anche la viva attenzione di Napoleone, quand’egli designò idealmente Spezia come «grande arsenale marittimo in funzione anti-inglese» (p. 24) da sfruttare in concerto con Tolone nel teatro mediterraneo, teorizzando un fondamentale ribaltamento di prospettiva che sarebbe poi stato mantenuto in età sabauda: da sito vulnerabile, possibile punto di pressione per un potenziale invasore e dunque necessitante protezione, l’area spezzina divenne un fulcro ideale per operazioni offensive, da sfruttare come polo navale per costruire, ospitare e rifornire una flotta. Anche se la breve durata della cometa napoleonica non permise agli ingegneri imperiali di realizzare i loro grandiosi piani, il portato dell’intensa stagione progettuale francese si deli- 432 nea nell’analisi di Beri come un elemento fondamentale per lo straordinario salto compiuto dalla città sotto i Savoia. È grazie agli scrupolosi sopralluoghi sul territorio effettuati in questo periodo che per la prima volta si raggiunse una conoscenza dello Spezzino «non solo descrittiva ma anche scientifica, sviluppata in funzione della progettazione dell’arsenale, della nuova città, del sistema difensivo e, più in generale, della necessità di governare e amministrare» (p. 57). Gli anni Quaranta e Cinquanta dell’Ottocento videro la gestazione dei primi grandi lavori per la costruzione di infrastrutture marittime nella zona del Varignano, ma fu con la nascita della Marina militare italiana – nel novembre del 1860 – che Spezia subì un radicale mutamento della propria identità. Per descriverne la complessa metamorfosi sotto la spinta cavurrina, lo sguardo dell’autore attraversa diversi quadri prospettici: le relazioni tra sviluppo militare e vocazione turistica del borgo fino alla metà del XIX secolo, la sua trasformazione in città, gli effetti demografici ed economici del veloce – e drasticissimo – cambiamento del Golfo. Il risultato che emerge da questo grande affresco è quello di «un caso macroscopico e assolutamente singolare di rapida, intensa e pervasiva militarizzazione, con rilevanti conseguenze tanto sul tessuto urbano quanto sul territorio circostante» (p. 213), tratteggiato da Beri con l’ausilio di fonti di natura molto differente, e proprio per questo esaustivo nella sua profondità d’analisi. L’unicità dell’esperienza spezzina è ancor più evidente se comparata a quella genovese, protagonista della seconda parte del volume. Per questa piazza la militarizzazione avvenuta sotto la bandiera sabauda non rappresentò un fenomeno nuovo, ma Recensioni e schede piuttosto una prosecuzione – pur in scala maggiore – degli interventi che dal secondo Settecento al periodo napoleonico avevano interessato la città e le sue difese. In questo caso la metodologia utilizzata nel lavoro permette di portare alla luce linee di sviluppo assai differenti da quelle tratteggiate per Spezia: se il volto di quest’ultima fu radicalmente modificato dalla presenza dell’Arsenale, delle sue difese e del suo personale, la documentazione archivistica studiata per Genova mostra come la maggior parte degli interventi interessarono aree marginali rispetto al tessuto cittadino – sia dal punto di vista meramente geografico, sia per il trascurabile valore economico delle aree coinvolte – non comportando dunque alcuna sensibile modifica alla morfologia, alla demografia e all’economia del centro. «Lungi dal generare una nuova città e dal rappresentare un motore industriale», si legge riguardo al capoluogo nelle conclusioni del volume, «la militarizzazione – sebbene foriera di ricadute positive sull’attività edilizia, e non solo – non influì nemmeno sull’espansione dell’abitato, sebbene andasse a incidere in modi diversi (realizzazione di caserme, magazzini, strade, piazze, acquedotti, ecc.) sul tessuto urbano, secondo forme peraltro comuni ad altre città militari coeve» (p. 213). Contestualmente, c’è da rilevare come gli intenti con i quali gli ingegneri dei Savoia posero mano alla città murata, sancendone la definitiva trasformazione in piazzaforte, partissero da presupposti differenti. Oltre a contemplare un rafforzamento delle difese genovesi da possibili aggressioni esterne – e, in particolare, dalla minaccia francese – il potenziamento dell’impianto fortificatorio e l’organizzazione dell’acca- sermamento furono pensate per fornire in egual maniera ai nuovi padroni piemontesi una prudente capacità di sorveglianza sull’urbe, nell’eventualità – non così remota – di sollevazioni interne. Beri individua in ultima analisi nell’elemento del controllo stretto sul territorio della città ottocentesca uno dei tratti salienti che accomuna le due esperienze liguri prese in esame, evidenziandone le diverse declinazioni che le necessità particolari di punti strategici tanto sensibili imposero ai dominatori nella progettazione e nella costruzione dei loro nuovi centri militari. Matteo Barbano G. Ferraro, Il prefetto e i briganti. La Calabria e l’unificazione italiana (18611865), Quaderni storici fondati da Giovanni Spadolini, Le Monnier/Mondadori, Firenze, 2016, pp. 228 Il volume affronta la vicenda politica di Enrico Guicciardi, originario della Valtellina, prefetto di Cosenza tra il 1861 e il 1865, anno in cui venne rimosso e trasferito a Lucca. Partendo da fonti archivistihce pubbliche e private inedite e in particolare dai carteggi di Guicciardi con esponenti di primo piano della classe dirigente italiana (come Spaventa, Torelli, Visconti Venosta, etc.), l’autore ricostruisce uno spaccato della storia della Calabria negli anni immediatamente successivi all’unificazione italiana. Emerge il ritratto di un territorio influenzato dai “signori della terra”, spesso manutengoli dei briganti e nella maggior parte intenzionati a mantenere il controllo politico-economico sul territorio, anche a costo di rallentarne i processi di rifoma e cambia- 433 Recensioni e schede mento portati avanti dalle prime classi dirigenti italiane. L’autore nel suo lavora evidenzia anche le dinamiche che portarono all’esclusione di Guicciardi dal governo della provincia cosentina, nonostante si fosse addossato tutte le responsabilità nella gestione del brigantaggio, preferendo all’uso esclusivo della forza repressiva anche soluzioni politiche e sociali. Infatti il duro regime repressivo inaugurato in molte province meridionali dopo l’unità inflazionò non poco alcuni problemi già radicati, non ultimo proprio quello del brigantaggio. Il primo capitolo descrive la situazione in Calabria dal sistema borbonico a quello italiano, e l’arrivo di Guicciardi alla prefettura di Cosenza. Nel secondo capitolo particolarmente interessante è la ricostruzione dei rapporti tra Guicciardi e Pietro Fumel, originario di Ivrea, colonnello della Guardia Nazionale e principale artefice della repressione. Il terzo capitolo tratta invece le divergenze tra potere militare e politico per quanto riguardava il governo del territorio, soprattutto con l’invio del generale Emilio Pallavicini di Priola in Calabria. Il quarto delinea i diversi metodi del “salutare terrore” messi in campo dalle autorità per sconfiggere il brigantaggio. In questa parte si evidenzia l’inefficacia della legge Pica del 1863, il ruolo della Chiesa e di altre parti sociali nella lotta al brigantaggio. Il quinto capitolo affronta invece la questione dell’occupazione delle terre demaniali da parte dei proprietari terrieri e i suoi riflessi sul brigantaggio. Conclude il libro il sesto capitolo, con delle considerazioni generali sulla vita politica e le riforme 434 portata avanti in Calabria in quel quinquennio; seguono due appendici: una documentaria, con delle lettere di Guicciardi, e una fotografica. La pubblicazione si rivela in definitiva originale e utile per la comprensione non soltanto della storia della Calabria nei primi anni unitari, ma anche dei diversi approcci da parte del governo centrale alle questioni territoriali. Giuseppe Ferraro riesce a descrivere con precisione i vari intrecci della vicenda, evidenziando chiaramente le singole responsabilità e i mezzi, più o meno rigidi, per garantire stabilità a un contesto particolarmente instabile e delicato come la Calabria nella fase postunitaria. Il prefetto Guicciardi emerge come personalità complessa, combattiva, ma anche sensibile ai problemi socio-economici del territorio. Uno dei pregi del volume è, anche, quello di porre l’attenzione sulla rilevanza dei carteggi nella ricerca storica. Infatti, grazie proprio a quest’approccio, il lavoro permette di far capire con profondità e accuratezza certe dinamiche politiche, sociali, culturali nella fase postunitaria nel Mezzogiorno. Infatti solo nei carteggi privati gli esponenti della classe dirigente italiana potevano esprimere con totale schiettezza e chiarezza alcune valutazioni sul processo unitario e le sue conseguenze. In conclusione, il volume si rivela un prezioso quanto utile contributo, che getta luce – direttamente e per riflesso – su una delle pagine più controverse della storia dell’unificazione italiana nel Mezzogiorno. Francesco Corigliano Elena Sapienza [email protected] Dottore in Studi Storici, Antropologici e Geografici presso la Scuola di Scienze Umane e del Patrimonio Culturale dell’Università di Palermo, ha conseguito nel 2013 il Diploma di Archivistica, Paleografia e Diplomatica presso l’Archivio di Stato di Palermo e nel 2016 il diploma di master in Economia e Management dell’Arte e dei Beni Culturali presso la Business School del Sole 24ore. Rossella Cancila [email protected] Ordinario di Storia Moderna presso il Dipartimento Culture e Società dell’Università di Palermo, ha condotto ampie ricerche sulla Sicilia del Cinquecento, nel contesto geopolitico del Mediterraneo e del sistema imperiale spagnolo (finanza di guerra, fiscalità, rivolte). Successivamente ha orientato il suo interesse storiografico sulle tematiche connesse all’esercizio della giurisdizione feudale in Sicilia in età moderna, argomenti su cui ha pubblicato diversi saggi e più recentemente la monografia Autorità sovrana e potere feudale nella Sicilia moderna (2013). Nel 2015 ha curato con Aurelio Musi il volume Feudalesimi nel Mediterraneo moderno. Si è inoltre interessata al tema della guerra e della frontiera nel mondo mediterraneo in età moderna, coordinando tra l’altro la pubblicazione dell’opera Mediterraneo in armi (secc. XV-XVIII) (2007). Ha pubblicato recentemente ricerche su temi connessi alla cittadinanza, ai processi di integrazione (2014) e alle pratiche di identificazione tra età medievale e prima età moderna (2015). Marco Rafael Cañas Pelayo [email protected] Laureato in Storia presso l’Università di Córdoba (2010), dove è attualmente dottorando, e collaboratore onorario del Dipartimento di Storia Moderna, Contemporanea e dell’America. Discuterà entro l’anno la sua tesi dottorale Los judeoconversos portugueses en el Tribunal Inquisitorial de Córdoba: Un análisis social (siglos XVIXVII, sotto la direzione del Prof. Enrique Soria Mesa. Ha pubblicato di recente vari saggi sui giudeo-conversi portoghesi, tra cui: Los judeoconversos portugueses de la Edad Moderna en la historiografía española: un estado de la cuestión («Revista de Historiografía», n. 23, 2015), Tácticas y medidas de protección social: El establecimiento de comerciantes portugueses en el reino de Córdoba (siglos XVI-XVII) («Yakka», n. 20, 2015), e Judaizantes y malsines: redes criptojudías portuguesas durante el seiscientos ante el Tribunal de Córdoba («Historia y Genealogía», n. 3, 2013). n. 37 Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIII - Agosto 2016 ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online) 435 Gli Autori María López Díaz [email protected] Professore associato e in posseso dal 2012 dell'abilitazione a cattedratica di Storia Moderna, è autrice di diversi studi monografici e di quasi un centinaio di articoli, capitoli di libro, relazioni e comunicazioni a congressi scientifici. Ha dedicato gran parte della sua attività di ricerca allo studio dei poteri e delle istituzioni locali e territoriali e dei conflitti giurisdizionali nel regno di Galizia. Recentemente ha studiato il processo di (re)incorporazione di regalie al patrimonio regio. Tra le sue monografie si ricordano Señorío y municipalidad. Concurrencia y conflicto de poderes en la ciudad de Santiago (ss. XVI-XVII) (Santiago de Compostela, 1997); o Jurisdicción e instituciones locales en la Galicia meridional (siglos XVI-XVIII) (Vigo, 2011). È anche curatrice di volumi collettivi: Homenaje al profesor José Manuel Pérez García, 2 vols. (I. Historia y cultura, II. Historia y modernidad) (Vigo, 2009); Élites y poder en las monarquías ibéricas: del siglo XVII al primer liberalismo (Madrid, 2013) o il pù recente Galicia y la instauración de los Borbones (en stampa). Nell’ultimo ventennio, ha partecipato a diversi progetti di ricerca, gli ultimi dei quali da lei diretti. Ha diretto anche il Departamento de Historia, Arte y Geografía de la Universidad de Vigo (2008-2014) e dal 2009 la rivista Minius. Historia, Arte y Geografía. Nicoletta Bazzano [email protected] Associato di Storia Moderna presso l’Università degli Studi di Cagliari. Si è occupata della storia politico-istituzionale e culturale del Cinque-Seicento nell’Italia spagnola e della storia del costume del Novecento. Ha poi lavorato sulla simbologia in ambito politico, sviluppando una ricerca sull’allegoria femminile d’Italia dall’antichità ai giorni nostri. Attualmente sta approfondendo temi relativi alla storia e alla storiografia della Sardegna in età moderna. Fra le sue pubblicazioni: Marco Antonio Colonna (Roma 2003); La donna perfetta. Storia di Barbie (Roma-Bari 2008); Donna Italia. L’allegoria della Penisola dall’antichità ai giorni nostri (Costabissara -Vi 2011). Maria Pia Pedani [email protected] Associato di Storia dei Paesi Islamici presso l’università Ca’ Foscari di Venezia, in precedenza ha prestato servizio per un ventennio presso l’Archivio di Stato di Venezia. I suoi interessi scientifici vertono in particolare sulla storia dell’impero ottomano. Ha pubblicato regesti di documenti ottomani (Documenti turchi e Lettere e scritture turchesche, 1994 e 2012) e le ultime relazioni ancora inedite degli ambasciatori veneti a Costantinopoli (1996), oltre a volumi sugli ambasciatori ottomani a Venezia (1994; traduzione in turco, 2011), gli accordi di pace tra cristiani e musulmani (1996), i confini veneto-ottomani (2001), Venezia e i paesi islamici (2010). È anche autrice di una storia della gastronomia ottomana (2012). Nel 2013 è stata nominata socia onoraria del Türk Tarih Kurumu (la Società nazionale di storia turca con sede ad Ankara). Paola Issa [email protected] Dopo aver conseguito nel 2009 la laurea specialisica in Culture, Istituzioni e Lingue dell’Eurasia e del Mediterraneo presso l’Università Ca’ Foscari con una tesi sul viaggio in Egitto di Muḥibb al-Dīn al-Ḥamawī (978-981 AH/1571-1574 AD), continua a occuparsi di viaggiatori arabi e in particolare di quanti tra loro ebbero contatti con l’Europa in età moderna. 436 Fotocomposizione e Stampa FO TO G R APH S . r. l . - PAL E R MO per conto dell’Associazione no profit “Mediterranea” Agosto 2016