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Il progetto
CONVEGNO
Comune di Muros
Il Comune di Muros ha avviato nel febbraio 2006 un progetto pilota di censimento, valorizzazione e promozione dei
beni culturali e ambientali compresi nel suo territorio. Le
attività di carattere multidisciplinare condotte in quindici
mesi di lavoro hanno riguardato:
il censimento dei beni ambientali, archeologici e architettonici, nonché dei beni materiali e immateriali con particolare riguardo alla produzione enogastronomica e alle
tradizioni popolari;
la rilevazione del patrimonio e la creazione di un catalogo informatizzato secondo gli standard ICCD, implementati da sezioni di monitoraggio della vulnerabilità del
bene (Carta Rischio) e integrati da schede sperimentali elaborate nell’ambito della ricerca universitaria;
la georeferenziazione dei beni e l’elaborazione di carte
tematiche in ambiente GIS per la creazione di itinerari di
trekking archeologico e ambientale mediante tecnologie di
navigazione satellitare GPS;
la realizzazione di pannelli didattici per la valorizzazione
dei siti con l’originale sistema del “libro percorso”;
un corso di formazione di 300 ore destinato a quindici
giovani di provenienza locale e finalizzato all’avviamento
di progetti imprenditoriali di conservazione, gestione e promozione del patrimonio studiato;
la redazione di una guida e di una mostra itinerante per
la promozione del patrimonio anche al di fuori del territorio comunale.
Il progetto, realizzato da GGallery editrice, è stato portato
avanti con la consulenza e la supervisione dell’Università
di Cagliari, della Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici e delle Soprintendenze di Sassari e Nuoro.
I risultati del lavoro sono stati raccolti in un volume che riporta anche esperienze significative maturate al di fuori del
territorio in esame, ma esemplari e di buon auspicio per la
valorizzazione del patrimonio materiale e immateriale del
Comune di Muros.
COORDINAMENTO: D.R. FIORINO / REALIZZAZIONE: GGallery srl - www.ggallery.it
Con il patrocinio di
Assessorato Pubblica Istruzione, Beni Culturali,
Informazione, Spettacolo e Sport
Provincia di Sassari
Territorio e
Patrimonio
Conoscere
per valorizzare
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Sardegna
Soprintendenza per i Beni Archeologici
per le Province di Sassari e Nuoro
Soprintendenza Beni Architettonici, Paesaggio
e Patrimonio Storico e Demoetnoantropologico
per le Province di Sassari e Nuoro
Università degli Studi di Cagliari
Facoltà di Architettura
SEGRETERIA ORGANIZZATIVA
Federico Tolu - c/o Comune di Muros
Via Brigata Sassari 66 - 07030 Muros (SS)
Cell. 328/6443231 - Uff. 079/344.00.44 - Fax. 079/344.00.39
mail:
[email protected]
ggallery
editrice
Centro Culturale
“Renato Loria“
ore 9.30
Muros
4 giugno 2007
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Programma
9.30 Registrazione dei partecipanti
10.00 Saluto delle autorità
Rita Desole
Sindaco del Comune di Muros
Carlo Mannoni
Assessore Regionale Pubblica Istruzione, Beni Culturali,
Informazione, Spettacolo e Sport
Alessandra Giudici
Presidente della Provincia di Sassari
Giovanni Azzena
Soprintendente per i Beni Archeologici CA OR e SS NU
Ercole Contu
Università di Sassari
Antonio Calzone
Presidente Comunità Montana Alto Tammaro
Introduzione alle sessioni di lavoro
Il progetto Muros: finalità, risultati, prospettive
Donatella Rita Fiorino - Curatrice progetto Muros
10.45 Sezione: il paesaggio e la storia
Coordina: Paolo Scarpellini
Direttore Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Sardegna
L’ambiente naturale e il paesaggio
Bruno Paliaga - AMP Sinis-Mal di Ventre
Il patrimonio archeologico di Muros:
prospettive e problematiche
Nadia Canu - Università di Sassari
Il miliario di Scala di Giocca:
alcune riflessioni sulla politica di Nerone in Sardegna
Antonio Ibba - Università di Sassari
12.00 La conoscenza e la documentazione del territorio
Coordina: Antonello Sanna
Direttore Dipartimento di Architettura Università di Cagliari
Il sistema informativo per la catalogazione
e il monitoraggio del patrimonio
Donatella Rita Fiorino - Università di Cagliari
Geomatica per il rilievo e la rappresentazione
del patrimonio culturale
Giuseppina Vacca - Università di Cagliari
Il GIS per la promozione e fruizione
dei Beni Culturali e ambientali
Pier Marcello Torchia - Geo’s Team Oristano
Prospettive per un sistema catalografico unico
della Sardegna
Anna Maria Musu - Servizio Beni Culturali Regione Autonoma Sardegna
13.00 Le fonti e il patrimonio immateriale
Coordina: Francesco Guido
Direttore Archeologo Coordinatore Soprintendenza per i Beni Archeologici SS NU
Le fonti documentarie relative a Muros
nell’Archivio di Stato di Sassari
Alessandro Soddu - Università di Sassari
La presenza nobiliare attraverso l’evoluzione
degli stemmi di Casa Martinez
Federico Tolu - Comune di Muros
Memorie di Casa Martinez
Franco Martinez di Montemuros - Discendente Casa Martinez
Il centro storico: analisi edilizia e proposte di intervento
Caterina Giannattasio - Università di Cagliari
Il costruito monumentale
Donatella Rita Fiorino - Università di Cagliari
Indagini archeologiche nella chiesa parrocchiale
di San Gavino
Daniela Rovina - Soprintendenza per i Beni Archeologici SS NU
San Basilio (CA): un progetto di “riconoscimento”
Maria Antonietta Mongiu
16.30 Opportunità e “buone pratiche”
per la gestione del progetto culturale
Coordina: Tatiana K. Kirova
Professore Ordinario di Restauro - Politecnico di Torino
La Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici
della Lombardia e i progetti per la valorizzazione
del patrimonio
Carla Di Francesco - Direttore Regionale per i Beni Culturali Lombardia
Il progetto “Conoscenza tutela e valorizzazione di aree
e parchi archeologici in Lombardia”
Marco Minoja - Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici
della Lombardia
Monica Abbiati - Regione Lombardia
Raffaella Poggiani Keller - Soprintendenza per i Beni Archeologici della
Lombardia
Il territorio di Muros e l’Alto Tammaro:
due modi di valorizzazione ambientale a confronto
Anna Maria Zeoli - Comunità Montana Alto Tammaro
13.30 Inaugurazione Mostra Itinerante
Il Museo di Archeologia Ligure di Genova:
esperienze di ricerca scientifica fra collezioni e territorio
Guido Rossi - Museo di Archeologia Ligure Genova
Buffet
18.00 Tavola rotonda e chiusura dei lavori
Il culto di Cerere a Sa Turricula
Giampiero Pianu - Università di Sassari
Sarà proposta una selezione di prodotti tipici del territorio scelta da
Antonella Usai (Direttore Museo del Vino Enoteca Regionale della
Sardegna - Berchidda)
Le monete di Sa Turricula
Francesco Guido - Soprintendenza per i Beni Archeologici SS NU
15.30 Il costruito storico
La riscoperta dei materiali dal santuario di Sa Turricula
Nadia Canu - Università di Sassari
Coordina: Stefano Gizzi
Soprintendente per i Beni Architettonici CA OR e SS NU
Brevi cenni sul villaggio medioevale di Irbosa
Alessandro Soddu - Università di Sassari
Tipologie tradizionali dell’ambiente urbano
Michele Pintus - Università di Cagliari
PROGETTO REALIZZATO CON IL FINANZIAMENTO DELLA REGIONE AUTONOMA SARDEGNA, ASSESSORATO EE.LL. FINANZE E URBANISTICA, L.R. 37/98
Stesura del documento di sintesi a cura dei relatori
Al termine dei lavori saranno consegnati gli attestati di partecipazione
al corso di orientamento/formazione tenutosi nell’ambito del progetto
Visita del percorso urbano
Seguirà spettacolo folcloristico di balli e canti tradizionali
religiosi e popolari
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Muros
Centro Culturale
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Territorio e
Patrimonio
CONOSCERE PER VALORIZZARE
Muros
Centro Culturale “Renato Loria” 4 giugno 2007
ATTI DEL CONVEGNO
a cura di Donatella rirta Fiorina
ATTI DEL CONVEGNO (a cura di Donatella Rita Fiorino)
TERRITORIO E PATRIMONIO - CONOSCERE PER VALORIZZARE
4 giugno 2007 - Muros (SS) - Centro Culturale “Renato Loria”
Con il patrocinio di
REGIONE AUTONOMA DELLA SARDEGNA
Assessorato Pubblica Istruzione, Beni Culturali, Informazione, Spettacolo e Sport
PROVINCIA DI SASSARI
MINISTERO PER I BENI E E LE ATTIVITÀ CULTURALI
Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Sardegna
Soprintendenza per i Beni Archeologici per le Province di Sassari e Nuoro
Soprintendenza Beni Architettonici, Paesaggio e Patrimonio Storico
e Demoetnoantropologico per le Province di Sassari e Nuoro
Università degli Studi di Cagliari - Facoltà di Architettura
@ 2007 GGallery srl
Piazza Manin 2 b rosso - 16122 Genova
Tel. 010.888871 - Fax 010.8598499
www.ggallery.it - e-mail:
[email protected]
Il volume è stato realizzato nell’ambito del progetto di Censimento, Valorizzazione e Promozione dei Beni Culturali e Ambientali del Territorio Comunale di Muros (Ss)
INDICE
A MUROS
Donatella Rita Fiorino
I DATI DEL PROGETTO
IL PAESAGGIO TAGLIATO
Paolo Scarpellini
IL
PAESAGGIO DI
MUROS
Bruno Paliaga
LA
13
PORTA D’ACCESSO AL
IL TERRITORIO DI
GOLFO
MUROS
DELL’ASINARA:
TRA ARCHEOLOGIA DEL PAESAGGIO E PIANIFICAZIONE INTEGRATA
Nadia Canu
IL
17
MILIARIO DI
NERONE
A
SCALA
DI
GIOCCA
Antonio Ibba
IL
CULTO DI
23
CERERE
A
SA TURRICULA
Giampiero Pianu
LE
MONETE DI
27
SA TURRICULA
Francesco Guido
29
CENNI SU ALCUNI MATERIALI VOTIVI PUNICI E ROMANI DA
SA TURRICULA
Nadia Canu
TIPOLOGIE
33
TRADIZIONALI DELL’AMBIENTE URBANO
Michele Pintus
IL
35
CENTRO STORICO: ANALISI EDILIZIA E PROPOSTE D’INTERVENTO
Caterina Giannattasio
IL
43
COSTRUITO MONUMENTALE
Donatella Rita Fiorino
SEPOLTURE
53
DI EPOCA BASSO MEDIEVALE PRESSO LA CHIESA DEI
SANTI PROTO, GAVINO
Daniela Rovina
LE
E
GIANUARIO
63
FONTI E IL PATRIMONIO IMMATERIALE
Francesco Guido
BREVI
CENNI SUL VILLAGGIO MEDIEVALE DI IRBOSA
Alessandro Soddu
67
(MUROS-SS)
69
LA
PRESENZA NOBILIARE A
MUROS
ATTRAVERSO L’EVOLUZIONE DEGLI STEMMI DI CASA
MARTINEZ
Federico Tolu
ASPETTI
71
DI CULTURA E TRADIZIONI LOCALI A
MUROS
Teresa Delrio
DALLA
75
CATALOGAZIONE AL SISTEMA INFORMATIVO PER LA TUTELA E IL MONITORAGGIO
DEL PATRIMONIO CULTURALE DELLA
SARDEGNA:
UN PROGETTO PILOTA
Donatella Rita Fiorino
STANDARD
81
CATALOGRAFICI E GESTIONE DEL DATO
Alessandro Pani
IL
89
RILEVAMENTO E LA RESTITUZIONE DEI BENI ARCHITETTONICI
Annetta Cabras
IL
91
RILEVAMENTO E LA RESTITUZIONE DEI BENI ARCHEOLOGICI
Carla Giuffrida Trampetta
LA
93
GEOMATICA PER IL RILIEVO E LA RAPPRESENTAZIONE DEL PATRIMONIO CULTURALE
Giuseppina Vacca
CENSIMENTO,
95
VALORIZZAZIONE E PROMOZIONE DEI BENI CULTURALI E AMBIENTALI
Pier Marcello Torchia
LE
103
PROSPETTIVE DI TUTELA E VALORIZZAZIONE DEI CENTRI MINORI
ALLA LUCE DELLE NUOVE DIRETTIVE REGIONALI
Marina Vincis
ATTIVITÀ
107
DI ANIMAZIONE E FORMAZIONE
PER LO SVILUPPO DI IPOTESI DI VALORIZZAZIONE DEL TERRITORIO
Bruno Paliaga
ASPETTI
113
DI FATTIBILITÀ DEI PROGETTI DI SVILUPPO IMPRENDITORIALE:
DAL PROGETTO DI VALORIZZAZIONE ALLO START-UP AZIENDALE
Emanuela Fiorino
117
ARCHEOLOGIA PER IL TERRITORIO: IL PROGETTO
“CONOSCENZA, TUTELA E VALORIZZAZIONE DI AREE
E PARCHI ARCHEOLOGICI IN
Monica Abbiati Marco Minoja Raffaella Poggiani Keller
IL MUSEO
DI
ARCHEOLOGIA LIGURE
DI
LOMBARDIA”
123
GENOVA:
ESPERIENZE DI RICERCA SCIENTIFICA FRA COLLEZIONI E TERRITORIO
Guido Rossi
“IL
TERRITORIO DI
131
MUROS
E L’ALTO
TAMMARO:
DUE MODI DI VALORIZZAZIONE AMBIENTALE A CONFRONTO”
Angela Maria Zeoli
141
A MUROS
Donatella Rita Fiorino
Cosa c’è “A Muros”? È l’interrogativo che ci si è
posti all’inizio di questo progetto di conoscenza delle risorse ambientali e culturali del
territorio di Muros, finalizzato alla loro valorizzazione, ovvero alla divulgazione di una ricchezza che non appartiene solo alla comunità
locale, ma che deve essere fruita da quanti,
turisti distratti o studiosi appassionati, decidano
di passare qualche ora in questo territorio.
Ed è così che, guidati dalla curiosità che ha
contraddistinto i viaggiatori del passato, ma
con le tecnologie e le metodologie scientifiche
che caratterizzano il nostro tempo, ci si è messi
al lavoro per esplorare il territorio, coglierne le
singolarità, riconoscerne le costanti regionali,
vivere la comunità e le sue tradizioni e, nello
stesso tempo, condividerne i problemi e le difficoltà, le cui motivazioni trovano le loro radici
nella storia.
Il villaggio di Muros risale all’epoca dei
Giudicati e le sue vicende seguono le grandi
tappe della storia della Sardegna e delle sue
dominazioni. Gli aragonesi, signori nel corso
del XIV secolo, lasciano il passo, a partire dalla
metà del Seicento, ai marchesi Martinez di
Montemuros, cui è legata la crescita urbanistica
del piccolo centro e delle sue costruzioni
monumentali, in particolare la chiesa parrocchiale dei Santi Gavino, Proto e Gianuario.
L’abitato, sorto in posizione geografica strategica sulla gola naturale scavata dal rio Mascari,
domina il suo territorio, che si estende oltre la
cesura della S.S. 131, fin dove lo sguardo è
chiuso dalle vette del monte Tudurighe e dalle
aspre pendici di Scala di Giocca. La vera ricchezza del territorio è proprio il suo ambiente
naturale, caratterizzato da terreni fertili, abbondanza d’acqua, varietà di vegetazione e molteplicità di specie animali; tutto ciò ha favorito lo
stanziamento umano fin dall’età remota del
neolitico antico, medio e recente.
Il paesaggio, mosso e mutevole, offre la possibilità di interessanti passeggiate nelle campagne, dove natura incontaminata e ambiente
antropizzato si incontrano in un inscindibile
connubio culturale. Si tratta di percorsi tra paesaggio e archeologia; la storia di questo angolo
di Sardegna emerge dalla domus de janas di
Rocca Ruja, dalle tombe di giganti di monte
Simeone, dai nuraghe di Sa Turricula e Santu
Giorzi, dagli ipogei di Badde Ivos, dalle antiche strade romane di Santu Lionardu e Coa de
Redulas. Le ripide pareti calcaree regalano,
invece, emozionanti percorsi di trekking per
chi desidera cimentarsi in impegnativi sentieri
montani o esplorare gli anfratti rocciosi e le
profonde gole geologiche della Grotta dell’inferno.
Ma l’anello di congiunzione tra l’ambiente e
l’uomo è, come spesso accade, l’acqua.
Numerose sono le sorgenti disseminate sul territorio e, anche all’interno del paese, tale
legame è fortemente segnato dalla presenza
della fontana monumentale, realizzata nella
seconda metà dell’Ottocento per l’approvvigionamento idrico della popolazione. Lo stesso
acquedotto è caratterizzato da una attenzione
formale, seppur sobria, che si manifesta nella
cura degli elementi di dettaglio e delle decorazioni; la stessa cura che si riscontra anche nei
graziosi palazzetti liberty, che fanno da cortina
alle strette vie dell’abitato, alternandosi all’architettura tradizionale, legata al saper fare contadino e alle esigenze dell’agricoltura.
L’acqua ha segnato anche le sorti dello sviluppo industriale del paese e della sua imponente cementeria, che aveva alimentato le speranze di un lavoro sicuro e scongiurato il peri-
5
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
colo dell’emigrazione. Oggi le tre ciminiere,
che appartengono oramai all’archeologia industriale, svettano incombenti nello stretto collegamento verso Sassari. La discontinua disponibilità d’acqua, legata ai capricci di un clima
troppo variabile per garantire la costanza della
portata dei torrenti, ha però decretato la fine
della produzione industriale, ridando speranza
alla conservazione del paesaggio già profondamente inciso dalle grandi cave.
Attualmente la produzione industriale è legata
piuttosto alla lavorazione del legno e alla produzione dei formaggi.
L’industria non ha però intaccato il saper fare
artigianale, che a Muros ha conservato le sue
tradizioni: infatti, in occasione delle principali
feste religiose e popolari è possibile assaggiare
i dolci e il pane, confezionati secondo le antiche ricette tramandate di madre in figlia;
alcune associazioni culturali si occupano di
conservare inalterati i riti e le usanze che
accompagnano la devozione per i Santi patroni
dei fedeli muresi e delle comunità limitrofe;
l’antico costume tradizionale viene ancora
indossato durante le celebrazioni, rallegrate da
canti e balli folcloristici del valido coro e del
balletto murese.
Fede, preghiera e un po’ di magia affiorano dai
tradizionali riti per la cura dei mali e per l’abbondanza dei raccolti.
Di fronte ad un territorio così ricco di valori,
ambientali, archeologici, architettonici, culturali, sconosciuti spesso alla stessa comunità
locale, specie alle giovani generazioni, è nata
6
l’esigenza di definire un progetto di
Censimento, valorizzazione e promozione dei
beni culturali e ambientali del territorio comunale di Muros. Si tratta, certamente, di un programma ambizioso e multidisciplinare, nato
dalla lungimiranza dell’Amministrazione
Comunale, la quale nel 2005, ha destinato a
tale iniziativa i fondi regionali provenienti dalla
L.R. 37/98, annualità 2002.
Il lavoro è partito dal “progetto di conoscenza”,
ovvero dalla fase di ricognizione sul campo del
territorio, della sua storia e delle sue risorse, al
fine di individuare l’entità e le categorie dei
beni da censire. Il primo problema era infatti
quello di fissare gli obiettivi del censimento e,
di conseguenza, di stabilire modelli di rilevamento adeguati agli obiettivi prefissati.
In dettaglio, lo studio ha interessato i principali
macroambiti disciplinari caratterizzanti il territorio antropizzato, ovvero: ambiente e paesaggio, con specifico riferimento ai siti naturalistici; archeologia e archeologia industriale;
architettura ed edilizia tradizionale; beni materiali storico-artistici e demoetnoantropologici,
con specifico riferimento all’artigianato artistico
e alle tradizioni alimentari; patrimonio immateriale. Ciascun ambito è stato sviluppato da un
consulente scientifico che, dopo la ricognizione sull’entità del patrimonio, ha proceduto
alla compilazione dei modelli di scheda predisposti per ciascuna categoria, corredati da
rilievi grafici e fotografici.
Ampio spazio è stato lasciato alle professionalità del luogo, sulla base del principio secondo
cui anche le risorse umane e le competenze
locali debbano essere ‘valorizzate’, ai fini della
definizione di un modello di gestione delle
specializzazioni che possa rappresentare un
processo formativo pilota nel contesto regionale, replicabile in altri settori e/o contesti geografici o culturali.
Ai due livelli di censimento, preliminare e di
catalogo, sono corrisposte due tipologie di
scheda, una di individuazione e analisi della
consistenza, l’altra sviluppata secondo i parametri ministeriali codificati dall’ICCD (Istituto
Centrale di Catalogo e Documentazione) e
dall’ICR (Istituto Centrale di Restauro),
entrambi facenti capo al Ministero per i Beni
Culturali. Lo studio è stato condotto con un
costante dialogo con le istituzioni preposte alla
tutela dei beni culturali. In particolare, per
quanto concerne gli aspetti connessi alla conoscenza del patrimonio archeologico, è stata
costantemente interpellata la competente
Soprintendenza Archeologica per le province
di Sassari e Nuoro.
Ogni categoria di beni ha evidenziato diverse
problematiche, dal riconoscimento stesso del
patrimonio al reperimento della relativa documentazione.
Dopo un’iniziale difficoltà a ritrovare segni tangibili della storia della comunità locale, abbandonata la scala delle ‘emergenze’, ci si è concentrati sulle testimonianze diffuse, con risultati tutt’altro che scontati. Muros, infatti, come
molti piccoli centri della Sardegna, anche se
spesso in maniera non evidente, conserva
ancora importanti tracce della sua storia, che è
necessario saper riconoscere per impedire che
se ne perda inesorabilmente la memoria.
Nello specifico, per quanto riguarda l’archeolo-
A Muros
gia, sono stati riconosciuti e documentati
dodici siti, molti dei quali di indubbio interesse
scientifico, ma di difficile accessibilità per la
mancanza di strade di accesso, di segnalazioni,
o perché interclusi in proprietà private. Si è
così rilevata la necessità, non solo di incrementare gli studi sui siti, ma di definire progetti di
fruizione legati a percorsi non tradizionali. È
questo, ad esempio, il caso del trekking a piedi
o a cavallo, per il quale sono oggi disponibili
tecnologie di promozione sofisticate, ma assolutamente accessibili, come GPS e mappe virtuali in grado di accompagnare il visitatore
interessato anche in posti di difficile penetrazione.
Il rilievo è stato preceduto da una campagna di
diserbo, effettuato con metodologie non invasive,
secondo
le
prescrizioni
della
Soprintendenza Archeologica di Sassari,
ovvero tenendo conto del fatto che la vegetazione costituisce un elemento caratterizzante
del paesaggio archeologico, nonché facendo in
modo da non compromettere la stabilità e la
conservazione dell’integrità delle porzioni
archeologiche interessate, specie laddove le
strutture vegetali costituivano sostegno strutturale alla stabilità dei sistemi costruttivi, e dunque rimandando ad una fase di restauro
archeologico, non contemplata in tale sede, le
scelte per una pulitura definitiva. Alcuni siti,
neanche leggibili prima dell’intervento, una
volta bonificati, hanno evidenziato interessanti
strutture, ponendo ancora una volta in evidenza la necessità di una costante manutenzione per la conservazione e la valorizzazione
del patrimonio.
Alla fase di pulitura è seguita quella di rilievo
fotografico, topografico, geometrico, ed in
taluni casi fotogrammetrico, al fine di ottenere
una documentazione - confluita nella banca
dati - capace di cogliere ed illustrare la conformazione morfologica del territorio e l’inserimento dei manufatti nell’ambiente, evidenziando, in particolare, il rapporto con il sistema
insediativo, ovvero tutti quegli elementi caratterizzanti il cosiddetto ‘paesaggio culturale
misto’. Le attività di rilevamento sono state eseguite da professionisti specializzati in collaborazione con il dipartimento di Disegno
dell’Università di Cagliari della Facoltà di
Ingegneria, al fine di garantire un edificante
scambio culturale tra mondo accademico e
imprenditoriale.
Tutti i siti monumentali ed ambientali sono
stati georeferenziati in modo puntuale o areale
mediante rilevazione diretta con sistema GPS a
correzione differenziale.
Inoltre, per ogni sito rilevato, si è proceduto
all’associazione della posizione geografica con
le informazioni contenute nella suddetta banca
dati. Così, oltre che attraverso il supporto cartaceo, la consultazione delle informazioni può
essere eseguita tramite un visualizzatore per
sistemi informatici GIS.
Un discorso a parte merita l’analisi del
costruito storico, con riferimento al quale
pochi, ma di notevole rilievo da un punto di
vista storico-testimoniale, sono gli esempi di
architettura monumentale, quali la chiesa parrocchiale, il cimitero di Muros e Cargeghe e la
fonte pubblica. Altra scoperta degna di nota è
rappresentata dall’acquedotto, da intendersi
come architettura ‘di collegamento’ tra l’insediamento abitativo e le risorse ambientali,
segno del progresso avviato verso la metà del
Novecento. Il tema dell’archeologia industriale
conduce direttamente al rilevante ed autonomo dibattito sul futuro della cementeria, la
riqualificazione delle cave. Oggi chi percorre la
S.S. 131 nel territorio del Comune di Muros
non può rimanere indifferente alle tre grosse
ciminiere che interrompono lo skyline naturale
del rilievo di Canechervu e impongono nuove
riflessioni sulla riconversione dell’enorme
patrimonio industriale produttivo ormai quasi
interamente dismesso con nuove finalità produttive e turistico-ricettive.
All’interno del centro storico - il cui nucleo
d’impianto, sia attraverso la lettura della conformazione dei lotti, sia col supporto della cartografia storica, è evidentemente riconoscibile è emersa la permanenza di un costruito tradizionale contraddistinto da tipi edilizi, caratteri
costruttivi e segni formali degni di nota, la cui
puntuale lettura, coadiuvata dalla consultazione della documentazione archivistica, ha
consentito di avanzare un’ipotesi cronologica
riferita ad ogni singolo immobile. Tale parte
dello studio è stata condotta con la consulenza
della Facoltà di Architettura dell’Università di
Cagliari.
Complessa è stata, poi, l’analisi dei beni materiali, compreso l’artigianato e la gastronomia,
fino ad arrivare al patrimonio immateriale delle
tradizioni, le usanze, le feste, attraverso l’approfondimento di aspetti sociali e dell’eredità
lasciata dal marchesato dei Martinez di
Montemuros.
7
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
Tutti i dati raccolti, inclusi quelli di carattere
ambientale, geologico, morfologico e flogistico, sono stati sistematizzati in un catalogo
informatizzato, concepito in maniera tale da
poter far confluire le informazioni nel catalogo
ICCD e nel nascente SICPAC regionale sardo. Il
catalogo è stato realizzato in ambiente
Windows Access, trattandosi di un software ad
elevata diffusione e di semplice utilizzo.
Sulla base delle esperienze compiute in ambito
scientifico, la banca dati è stata implementata
con il modulo dell’analisi della vulnerabilità e
dello stato di conservazione attinto dalla Carta
del Rischio, messa a punto dal succitato ICR. La
sezione, che comprende anche la percentuale
di diffusione del danno, la gravità e il grado di
urgenza dell’intervento, consentirà in futuro
all’Amministrazione comunale di determinare,
alla fine del rilevamento, un quadro degli interventi di restauro da porre in atto sui monumenti del proprio territorio, in vista di una loro
conservazione e manutenzione programmata,
e dunque per una gestione consapevole del
proprio patrimonio. Anche in questo senso, il
progetto si pone come processo formativo
pilota nel contesto regionale, estensibile ad
altre similari realtà della Sardegna, in modo da
giungere ad una conoscenza in rete di territori
sempre più ampi, in grado di facilitare la
gestione e la messa in rete del patrimonio
ambientale e culturale locale.
Il progetto non poteva ovviamente trascurare
aspetti di valorizzazione, come la segnalazione
dei siti e gli strumenti di comunicazione tradi-
8
zionali che hanno portato all’elaborazione
della guida del territorio e delle cartine di supporto alla conoscenza del patrimonio. A tal
fine, si è provveduto alla realizzazione di un
Libro percorso, consistente in pannelli, direzionali e didattici, disposti lungo le strade del
paese e in prossimità dei siti di interesse
ambientale e archeologico. Ciò nella convinzione che la scoperta di un episodio architettonico o di una bellezza naturalistica sia più facilmente visibile ed apprezzabile in presenza di
un immediato e sintetico riscontro posto direttamente sul sito, in grado di fornire le essenziali coordinate culturali e storico-artistiche
anche al turista occasionale. Si tratta, in altre
parole, non solo di uno strumento per il recupero della memoria collettiva, ma anche di un
segno di ospitalità, oltre che di un elemento di
carattere permanente, che facilita l’accessibilità, con ricadute di immagine certamente positive sulla comunità e sulle amministrazioni
locali.
Secondo la stessa logica, si è provveduto alla
realizzazione di un Libro guida, di supporto al
percorso territoriale ed urbano proposto, di un
E-book e di una Mostra itinerante, tutti strumenti illustranti le principali caratteristiche del
luogo, riferite all’ambiente, alla geo-morfologia, alla flora, all’archeologia, all’architettura, al
patrimonio edilizio tradizionale, alla cultura
materiale e immateriale (feste, tradizioni,
costumi, ecc.), alla gastronomia, ovvero tutti
quegli elementi identitari del luogo in esame.
Una tale iniziativa, così articolata, non poteva
svilupparsi in maniera avulsa dal contesto
locale. Di conseguenza, si è promosso il coinvolgimento diretto di giovani locali, attraverso
l’attivazione di un corso di formazione, con
percorsi formativi multidisciplinari, includente
lezioni frontali, laboratoriali, esercitazioni,
visite didattiche, tutoraggio personalizzato, ecc.
La riuscita del lavoro si deve anche alla professionalità e competenza della società appaltatrice, GGallery, che, pur avendo sede fuori dal
territorio regionale, ha avuto la felice intuizione di affidarsi a professionisti e studiosi del
territorio, e che ha messo a disposizione la
lunga e consolidata esperienza in editoria, formazione e comunicazione, maturata in numerosi e prestigiosi progetti nazionali.
Insomma, mediante la realizzazione di un
simile lavoro, l’auspicio è che il fermento e la
riflessione sul patrimonio di Muros non si
perda nell’eccezionalità di questo progetto, ma
diventi la quotidianità della sua comunità preparata e interessata alla conservazione della
sua memoria storica e alla riqualificazione del
suo paesaggio variamente antropizzato.
L’auspicio è, inoltre, che, sulla base di questa
esperienza, anche altre realtà regionali comprendano l’importanza e l’utilità di una simile
ricerca, e si adoperino per metterla in atto.
Il gruppo di lavoro ha interessato complessivamente più di trenta persone tra gli addetti della
società appaltatrice, i consulenti, le
Soprintendenze e l’Università.
A tutti coloro che hanno lavorato e hanno creduto in questo risultato, un sentito ringrazia-
I
DATI DEL PROGETTO
CURA
E COORDINAMENTO
Donatella Rita Fiorino
Responsabile di progetto presso la Soprintendenza per i Beni Archeologici
per le Province di Sassari e Nuoro
Dott. Francesco Guido, Direttore Archeologo Coordinatore
Responsabile di progetto presso il Comune di Muros:
Dott.ssa Anna Maria Deliperi, responsabile area socio culturale scolastica
CONSULENZE
SCIENTIFICHE
Ambiente: Bruno Paliaga, biologo, Direttore dell’Area Marina Protetta
Penisola del Sinis Isola di Mal di Ventre, esperto di gestione ambientale,
VIA, VINCA, ecc., progettazione ambientale, formazione e comunicazione.
Botanica: Ivo Piras, esperto botanico, rilevamenti fitosociologici e liste floristiche, fotografo naturalista.
Geologia: Vincenzo Solinas, geologo, Essei Oristano.
Archeologia: Nadia Canu, dottore in Conservazione dei BB.CC., dottore
di ricerca in “Il Mediterraneo in età classica: storia e cultura”, borsista presso
il Dipartimento di Storia dell’Università di Sassari.
Rilievo e rappresentazione:
COORDINAMENTO: Michele Pintus, ingegnere, professore associato di Disegno,
Università di Cagliari, Facoltà di Architettura, docente di Disegno II C.I. e
Storia dell’Architettura.
Nell’ambito della consulenza hanno collaborato l’ing. Carla Giuffrida
Trampetta per i rilievi archeologici; l’ing. Annetta Cabras per i rilievi architettonici.
Topografia, cartografia e GIS:
COORDINAMENTO: Giuseppina Vacca, ingegnere, ricercatore di Topografia e
Cartografia presso il Dipartimento di Ingegneria Strutturale, Università degli
Studi di Cagliari, Facoltà di Ingegneria, docente di Fotogrammetria.
RILIEVI TOPOGRAFICI E GIS: Pier Marcello Torchia, Roberto Defendente Geo’s
Team Oristano.
Analisi del costruito storico e della morfologia dell’abitato:
Caterina Giannattasio, architetto, ricercatore di Restauro presso il
Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Cagliari, Facoltà di
Architettura, docente di Restauro Architettonico.
Nell’ambito della consulenza hanno collaborato le dott.sse Valentina Pintus
e Martina Porcu.
Architettura monumentale e archeologia industriale:
Donatella Rita Fiorino, ingegnere, dottore di ricerca in Conservazione dei
Beni Architettonici, ricercatrice a contratto presso l’Università di Cagliari,
Facoltà di Architettura.
Nell’ambito della consulenza ha collaborato l’ing. Sabrina Vacca.
Patrimonio materiale e immateriale, feste e tradizioni: Teresa Delrio,
dottoressa in Beni Culturali.
Legislazione Beni Culturali: Marina Vincis, avvocato, archivista e paleografa.
Censimento, catalogazione e banca dati: Donatella Rita Fiorino.
Strutturazione dei dati e informatizzazione: Alessandro Pani, consulente informatico.
9
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
CORSO
DI
ORIENTAMENTO/FORMAZIONE
Docenze
Daniele Canepa, lingua inglese
Nadia Canu, Storia antica
Raffaele Crudele, Scienza della comunicazione
Teresa Delrio, Storia, cultura, tradizioni e beni immateriali di Muros
Donatella Rita Fiorino, Catalogazione e banche dati
Emanuela Fiorino, Imprenditorialità e finanziamenti
Caterina Giannattasio, Storia e metodologie del restauro
Carla Giuffrida Trampetta, Autocad
Francesco Guido, Archeologia
Francesco Macrì, Norme di gestione aziendale e Diritto del lavoro e normativa previdenziale
Bruno Paliaga, Pianificazione e gestione del turismo sostenibile ed
Economia e marketing dei beni culturali
Alessandro Pani, Informatica e informatica grafica
Michele Pintus, Storia dell’arte e dell’architettura sarda e Storia ed evoluzione del paesaggio rurale e degli insediamenti urbani
Ivo Piras, Ambiente e botanica
Vincenzo Solinas, Elementi di geologia applicata
10
Pier Marcello Torchia, Istituzioni di documentazione, monitoraggio e
gestione del territorio
Giuseppina Vacca, Cartografia tradizionale e numerica
Marina Vincis, Legislazione dei Beni Culturali
Direzione e coordinamento: Donatella Rita Fiorino
Istruttore amministrativo Comune di Muros: Federico Tolu
REALIZZAZIONE GRAFICA
GGALLERY SRL
ED EDITING
Paolo Macrì (GGallery), professore a contratto dell’Università di Genova,
interlocutore unico del progetto nei confronti dell’Amministrazione.
Francesca Ferrando (GGallery), dottoressa in lingue e letterature straniere,
Responsabile editorializzazione e gestione dei contenuti.
Michela Pinasco (GGallery), dottoressa in lingue e letterature straniere,
responsabile area lingue e comunicazione.
Estelle Schoeter (GGallery), dottoressa in giurisprudenza, Università di
Strasburgo, responsabile editing e-book.
IL
PAESAGGIO TAGLIATO
Paolo Scarpellini
Il territorio comunale di Muros è tagliato in due
parti dalla Strada Statale Carlo Felice, al quale è
affiancato il tracciato della linea ferroviaria e,
per la prevalenza del suo sviluppo, il corso del
rio Mascari (l’antico Melas). Una cesura orizzontale, lunga e continua, che separa drasticamente
il lembo sud occidentale dell’agro, aggrappato
al soprastante altopiano di Su Padru di Ossi e
formato da calcari detritici stratificati coperti di
bosco rado a roverella, dal settore meno abitato
ma più coltivato, delimitato a nord dalla Badde
Olia, dal monte Tudurighe, dal monte Simeone
e dai dolci rilievi che degradano da ponente.
Ma il paesaggio di Muros è “tagliato” anche
dalle cave.
Il massiccio di Canechervu (m 390) è stato spianato, nella sua parte più occidentale, per rifornire la sottostante cementeria. Un’altra cava è
stata attivata in località San Leonardo, sul versante meridionale del monte Canechervu, ma è
stata recentemente abbandonata. Tagli orizzontali alle vedute panoramiche sono invece causati
dalla presenza delle ciminiere della cementeria,
e dei tralicci degli elettrodotti
Tuttavia, benché aspramente tormentato dai
recenti “tagli” paesaggistici, lo scenario ambien-
tale di Muros conserva i suoi tratti salienti, costituiti dalla contrapposizione dell’erta scala di
Ossi e dei soffici colli settentrionali ed orientali,
oltre i quali si scorge la Rocca di Osilo, l’abitato
di Ploaghe e Codrongianos, e poi, più lontano,
il monte Santo e il monte Sant’Antonio.
Più piccoli e più antichi tagli furono eseguiti, in
epoca remota, per realizzare o adattare cavi ipogei: la domus de janas di Rocca Ruja, la Grotta
dell’Inferno, i due angusti invasi di Badde Ivos.
E ancora in epoca nuragica, tante pietre furono
tagliate per costruire diverse fortezze megalitiche, oggi ridotte allo stato di ruderi ma ancora
efficaci testimoni di quella antica e possente
civiltà millenaria.
Dunque un paesaggio tagliato. Tagliato, ma non
spezzato. Frazionato, ma non disperso. Una
delicata trama storica e ambientale, a tratti smagliata, non ancora strappata, che merita massima attenzione e profondo rispetto. Segni
importanti di una storia lieve, depositati in un
ambiente naturale di singolare suggestione…
Nel passato, il paese non doveva godere di
buona reputazione, come luogo insediativo,
poiché “Muros trovasi circondato a più parti da
eminenze montuose che impediscono la venti-
lazione, fuorché ad una o due parti. Vi si sente
molta umidità, si patisce la nebbia, e l’aria è
viziata dai miasmi della prossima valle” (V.
Angius…).
Le diciassette sorgenti stagionali o perenni, presenti negli anni sessanta del Novecento ed
ampiamente utilizzate in passato da pastori,
agricoltori e viandanti, sono oggi quasi tutte
scomparse: la vena d’acqua è stata captata
oppure la vegetazione ha ricoperto la fonte rendendola inaccessibile e inutilizzabile. Ma per
l’Angius, “le fonti sono poche in numero, e di
queste tre sole degne di menzione, quella che
sorge dentro l’abitato, quindi il Cantareddu a
cinque minuti dal paese, e quella che dicono di
Thiarosa entro l’oliveto del Marchese”.
Con brillante vigore e scrupoloso rigore,
Donatella Fiorino ha censito e catalogato i molteplici valori culturali e ambientali del territorio
comunale di Muros, ricomponendone il pregiato e variato tessuto storico e paesaggistico,
mettendo in luce ogni aspetto della tradizione
locale e dei connotati naturali, offrendoci una
rassegna completa dei beni e dei siti di interesse, oggi mete potenziali di una colta esplorazione, da parte di curiosi, studiosi e turisti.
11
IL
PAESAGGIO DI
MUROS
Bruno Paliaga
Pochi termini assumono un significato vago
come il termine “paesaggio”; termine molto utilizzato correntemente al quale si attribuiscono
però significati assai diversi a seconda del contesto del discorso o del punto di vista da cui
viene analizzato e descritto in funzione della
sensibilità e degli interessi specifici di chi ne
parla, di chi lo osserva o di chi si occupa di
paesaggio.
Secondo diverse definizioni si può rilevare
come primo significato quello di “panorama,
veduta, più o meno ampia, di un luogo, specialmente campestre, montano o marino”; un
secondo significato, ma più ampio come:
“complesso di tutte le fattezze sensibili di una
località”; o un terzo significato ancor più esaustivo quale: “particolare fisionomia di una
regione determinata dalle sue caratteristiche
fisiche, antropiche, biologiche, etniche”.
Il paesaggio può essere ambìto di interesse per
chi si occupa di arte, di geografia, di geologia,
di fotografia, di ecologia, di urbanistica, di economia, di architettura, di archeologia e di
molte altre discipline. Tanto basti per comprendere che il “paesaggio”, pur essendo argomento vasto e difficilmente circoscrivibile e
trattandosi di un “concetto” ha subìto profondi
cambiamenti nel tempo.
Ai nostri scopi è utile richiamare alcune di
quelle considerazioni fondamentali che possono risultare utili ad introdurre quanto seguirà
e che tende a descrivere, seppur sinteticamente, il paesaggio di Muros (i paesaggi)
secondo l’ottica dell’ecologia del paesaggio.
Una delle definizioni possibili di paesaggio
può limitarsi o coincidere con “l’immagine percepita di una porzione della superficie terrestre”. una definizione che non soddisfa nella
quasi totalità dei casi.
Secondo un uso più semplice del termine, il
paesaggio è sinonimo di “panorama”; la veduta
di una parte di territorio da un determinato
punto di visuale.
In tale accezione “visiva”, il paesaggio può
essere riprodotto, esso perde alcune delle sue
caratteristiche; per esempio una fotografia pur
fissando alcuni degli aspetti visibili si limita ad
una parte della veduta; oppure in un disegno
o dipinto, il risultato dipenderà dal pittore,
dalla sua ispirazione, dalla tecnica e da altri
fattori.
La veduta di alcune delle componenti del pae-
saggio può variare secondo la distanza e l’angolazione prospettica. Per esempio un rilievo
sarà grande e sovrastante se visto dal basso o
potrà scomparire fra altri rilievi se visto da lontano, da una rilievo più alto. Ciò rende evidente che una caratterizzazione esclusivamente o prevalentemente “visuale” del paesaggio è tutto sommato riduttiva, perché si fonda
su valutazioni estetiche e formali, oltre che
soggettive.
Ma non esiste un paesaggio migliore di un
altro poiché ogni individuo è diversamente
sensibile a viste, panorami o paesaggi che più
gli sono congeniali perché evocano elementi
noti, piacevoli o spiacevoli, talvolta in contrapposizione con il vissuto quotidiano. Per esempio, chi vive in città può prediligere luoghi
assolati (quelli estivi per la vacanza), mentre
chi vive normalmente in luoghi caldi non preferisce l’esposizione al sole.
Superata tale impostazione quando si parla di
paesaggio, di qualunque tipo sia, se si fa riferimento ad elementi correlati fra loro costantemente come: la morfologia del terreno e l’altimetria, i volumi, i colori dominanti, la copertura vegetale, il sistema idrico, l’organizzazione
13
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
dei contesti agricoli e di quelli urbanizzati, le
tipologie edilizie ed altro.
Considerando la modularità e l’articolazione
delle componenti che caratterizzano i paesaggi
omogenei, comprese le sfumature di raccordo
(la transizione) tra ambirti differenti potrebbe
essere adottata la definizione di paesaggio di E.
Turri: “Identificare il paesaggio significa [...]
identificare relazioni che si ripetono in uno
spazio più o meno esteso entro il quale il paesaggio esprime e sintetizza le relazioni stesse”.
Altra definizione meno soggettiva che si può
assegnare al termine paesaggio deriva dall’interpretarlo come “manifestazione sensibile dell’ambiente, realtà spaziale vista e sentita”; una
definizione che ancora possiede elementi di
soggettività, perché in essa è implicito che l’osservatore metta in gioco la sua sensibilità particolare, la sua cultura, la sua capacità ed il suo
modo di vedere.
Pur consci della complessità della definizione
di paesaggio che è stata sistematizzata anche in
sede legislativa (rif. DL 42/2004 - Codice dei
beni culturali e del paesaggio, ex art. 10 L. 6
luglio 2002, n. 137) e lungi dal volerne definire
un senso compiuto e condiviso del termine, di
seguito si propone una descrizione che seppur
tecnica mira a dare un contributo per la descrizione di un sistema complesso quale è il territorio di Muros.
NATURALITÀ DEL PAESAGGIO
(DAL PUNTO DI VISTA VEGETAZIONALE)
Premesso che definiamo il paesaggio come
una subregione territoriale con caratteristiche
fisioniomiche omogenee e tralascindo la
14
descrizione della flora, possiamo, ai nostri
scopi, schematizzare e suddividere il territorio
nelle seguenti unità di paesaggio (o unità paesaggistiche):
-
zone adibite a rimboschimento con specie
non autoctone quali pini, eucaliptus, ecc.
che contribuiscono notevolmente a delineare la fisionomia del paesaggio vegetale;
-
zone con intensa urbanizzazione turistica
(con l’inevitabile impatto e pressione antropica);
-
zone adibite prevalentemente alla coltivazione di piante erbacee annuali non spontanee;
-
zone utilizzate per colture legnose permanenti, o perenni, da tempo acclimatizzate
(vigneti, uliveti, mandorleti, agrumeti...
Le suddette zone costituiscono il cosiddetto
paesaggio vegetale antropico o, se si preferisce, umanizzato, in quanto la continua, intensa
ed estesa influenza dell’uomo ne ha mutato i
connotati di naturalità originaria che potrebbe
essere ricondotto a:
-
zone rupicole in cui è prevalente l’aspetto
di roccia nuda quale fattore limitante per la
colonizzazione vegetale;
-
zone caratterizzate da prevalente vegetazione erbacea naturale (pascolo naturale)
intercalata a suffrutici (gariga) o arbusti ed
alberi sparsi (pascolo cespugliato ed arborato);
-
zone coperte da macchia mediterranea più
o meno evoluta verso l’aspetto basso e
monospecifico (landa), o alta e diversificata
(macchia-foresta) e comunque sempre
caratterizzata dall’aspetto legnoso dei componenti l’associazione;
-
zone interessate da bosco, ceduo o a
fustaia, in cui la struttura è sempre e
comunque dettata dalla presenza di specie
a portamento arboreo.
Tali unità di paesaggio sono contraddistinte da
maggior naturalità rispetto al “paesaggio antropico” ma non per questo scevre da influenze
umane: esistono, infatti, tutta una serie di condizioni intermedie che sfumano tra le diverse
zone. Inoltre, alcuni fattori naturali quali l’acqua, l’ombra, l’elevata umidità, imponenti
affioramenti rocciosi verticali (falesie montane
rocciose), litosuolo... incrementano la biodiversità creando veri e propri habitat caratterizzati
dalla presenza delle seguenti categorie ecologiche di piante:
-
casmofite degli ambienti cavernicoli freschi,
ombrosi ed umidi;
-
idrofite, igrofite e flora ripariale in genere
degli ambienti acquatici e paracquatici;
-
xerofite delle zone aride e calde;
-
flora rupicola delle falesie montane;
- epifite dei boschi.
Va detto che l’habitat, ossia la parte di un
determinato paesaggio caratterizzata da condizioni climatiche omogenee, di un determinato
biotopo e geotopo, è riferito concettualmente
alla “possibilità di vita” e non all’estensione territoriale: va da sé che un habitat si definisce
vasto se le condizioni vitali che offre sono
adatte a più specie diverse; oppure limitato se
Il paesaggio di Muros
adatto solo alla vita di pochissime specie.
La suddivisione del territorio in ambiti caratterizzati dalla diffusione di unità fitosociologiche
o dalla loro combinazione, permette di effettuare una comparazione fra condizioni
ambientali e climax visto come associazione
finale delle serie dinamica della vegetazione.
A tal proposito la naturalità della vegetazione è
quindi specchio di quella ambientale generale
valutabile secondo i seguenti criteri:
-
distanza dal climax della vegetazione
attuale;
-
estensione e continuità delle aree con vegetazione naturale;
-
rapporto percentuale fra vegetazione naturale e vegetazione sinantropica;
-
degenerazione della vegetazione naturale
per progressiva sinantropizzazione;
-
sostituzione della vegetazione naturale con
la vegetazione sinantropica.
In riferimento a quanto detto ed in base ai 6
possibili livelli di naturalità definiti dalla
Società Botanica Italiana, il territorio di Muros
potrebbe essere ricondotto al 3° livello di cui
di seguito.
LIVELLI
DI NATURALITÀ
Territori con vasti complessi non frammentati
di vegetazione naturale estesa e continua,
che comprendono comunità di origine primaria; la vegetazione seminaturale e
sinantropica possiede molte caratteristiche
originarie; aree con vegetazione sinantropica di scarsa estensione.
Territori con vasti complessi di vegetazione
naturale con predominanza di comunità
con struttura modificata o di origine secondaria; la vegetazione seminaturale e sinantropica presenta numerose caratteristiche
naturali; aree con vegetazione sinantropica
a distribuzione aggregata.
Territori con nuclei di vegetazione naturale,
talvolta anche abbastanza estesi, rimasti
soltanto in stazioni non adatte per l’agricoltura o per le abitazioni; nella maggior parte
del territorio la vegetazione naturale è stata
sostituita da comunità sinantropiche e da
vegetazione seminaturale di sostituzione
delle foreste; si tratta, pertanto, di territori
prevalentemente con vegetazione sinantropica, ma con nuclei di vegetazione naturale
aggregata.
Territori con frammenti di vegetazione naturale rimasti soltanto in stazioni non adatte
per l’agricoltura e per le abitazioni (nuclei
relitti di vegetazione naturale residua e diffusa) o seminaturale; nella maggior parte
del territorio la vegetazione naturale è stata
sostituita dalla vegetazione sinantropica.
Territori nei quali la vegetazione naturale è
stata completamente sostituita dalla vegetazione sinantropica; rari nuclei residui di
vegetazione naturale.
Territori con vegetazione sinantropica dei coltivi intensivi e del verde pubblico con frammenti di vegetazione ruderale subspontanea.
15
LA
PORTA D’ACCESSO AL GOLFO DELL’ASINARA:
IL TERRITORIO DI MUROS TRA ARCHEOLOGIA DEL PAESAGGIO E PIANIFICAZIONE INTEGRATA
Nadia Canu
Nell’ambito del progetto per la valorizzazione e
promozione dei Beni Culturali del Comune di
Muros è stata condotta una ricerca bibliografica
e archivistica in materia di storia del territorio e
del patrimonio archeologico, comprendente il
censimento e la catalogazione dei beni archeologici noti, mediante i modelli dell’Istituto
Centrale per il Catalogo e la Documentazione. I
risultati esposti sono stati desunti dalla cartografia, dalle pubblicazioni relative ai principali siti,
dall’analisi dei documenti dell’archivio della
Soprintendenza per i Beni Archeologici delle
province di Sassari e Nuoro, dai dati emersi
durante una serie di ricognizioni presso le aree
di concessione mineraria in località San
Leonardo, effettuate per conto della stessa
Soprintendenza dalla scrivente, dalle fonti orali.
Attualmente manca un censimento organico
volto all’individuazione dei beni archeologici
del territorio in esame, se intendiamo per “censimento” la ricognizione estensiva dell’intera
area in oggetto con l’utilizzo delle metodologie
del survey e la successiva catalogazione,
motivo per il quale il presente studio costituisce
la fase preliminare del censimento vero e proprio.
Il territorio del Comune di Muros è quasi interamente compreso nel bacino idrografico del
rio Mascari, affluente del rio Mannu, che sfocia
a Porto Torres: la valle da esso modellata,
attualmente attraversata dalla S.S. 131, si identifica con la principale via di comunicazione tra
la costa settentrionale e l’interno dell’isola già in
età preistorica e protostorica e successivamente
in età punica, romana e medievale. Infatti la
gola sinuosa scavata dal fiume tra il massiccio
di Canechervu e il monte Venosu ha da sempre
costituito un passaggio obbligato dal mare
verso l’interno e viceversa. Si tratta quindi di un
territorio che ha avuto nei secoli un’importante
valenza strategica, grazie al controllo sulla via
di comunicazione da una parte, e alla ricchezza
delle risorse (abbondanza di sorgenti, buona
qualità dei suoli) dall’altra. Ciò ha favorito lo
stanziamento umano già dalle età più remote:
le prime testimonianze archeologiche risalgono
al neolitico antico. La Grotta dell’inferno, situata
sullo scosceso versante occidentale del monte
Venosu-Tudurighe, ha restituito, tra i vari
reperti, frammenti di ceramica cardiale, dalla
decorazione impressa con una conchiglia (cardium edule), e datati alla fase più antica del
neolitico. In questo periodo le grotte vengono
usate a fini abitativi, cultuali e funerari, polarizzando l’antropizzazione del territorio. L’utilizzo
della grotta continua per tutto il neolitico, come
testimoniano gli altri materiali, parte dei quali è
esposta al Museo Sanna di Sassari: è presente
un ampio campionario di utensili litici, in selce
e ossidiana, ma anche oggetti in serpentino; tra
le ceramiche, vasi a collo distinto e spalla arrotondata con piccole anse e finissima decorazione sull’orlo o sulla carena, impressa a tacchette o a puntini, della cultura di Bonu Ighinu
del neolitico medio, e frammenti con decorazioni tipiche della cultura di San Michele di
Ozieri, del neolitico recente. La relazione scientifica di Fulvia Lo Schiavo, nell’archivio della
soprintendenza, sottolinea come la continuità
di insediamento attraverso tutte le fasi del neolitico sia un fatto di enorme interesse, e auspica
indagini all’interno della grotta per valutare se,
nonostante i lavori di estrazione del guano,
siano rimasti depositi stratigrafici intatti.
Allo stesso orizzonte cronologico deve essere
riferito il più celebre reperto proveniente dal
territorio di Muros, la statuina femminile ora al
Museo Sanna, appartenente alla classe degli
17
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
“idoletti” di stile geometrico e volumetrico,
espressione artistica che nasce in relazione alla
cultura di Bonu Ighinu: secondo alcuni studiosi
rappresentazione di una divinità, sono l’espressione di un culto tipicamente neolitico legato
alla fertilità e allo sviluppo della pratica agricola. D’altra parte, l’esplosione demografica,
che tocca il suo apice con la cultura di Ozieri,
è testimoniata anche dal fiorire di insediamenti
e siti funerari, tra i quali i più noti sono le grotticelle artificiali, dette domus de janas: a Muros
sono note quelle di monte Terras e Badde Ivos,
altre ne risultano in documenti d’archivio (a Su
Crastu Covaccadu e a Su Monte de S’Abba de
Subra), un’ultima nel database del Piano
Paesaggistico Regionale, in località Su Saltu de
sa Campana, ma ulteriori devono essere dislocate nel territorio e non registrate, altre ancora
potrebbero essere state distrutte e perdute per
sempre a causa dei massicci lavori di estrazione
mineraria che hanno riguardato il versante
meridionale di Canechervu. In relazione ai
monumenti funerari afferenti al megalitismo
può essere citato il dolmen di Su Muzzigone, di
cui si ha notizia dall’archivio della soprintendenza.
Non sono ancora state individuate testimonianze dell’età del rame, probabilmente solo
per carenza di ricerche sulla totalità del territorio: la tomba di monte Simeone, che inizialmente era interpretata come recinto megalitico
o allée couverte (tali sono infatti le motivazioni
del decreto di dichiarazione di interesse), a più
attente analisi si è rivelata una tomba di giganti.
Tra le testimonianze dell’età del bronzo un
posto di primo piano spetta al sito di Sa
18
Turricula, caratterizzato da un campo visivo
estesissimo, in una posizione di larghissimo
dominio che consente, in buone condizioni del
tempo, di spingere lo sguardo dal Golfo di
Alghero, compreso Capo Caccia, fino al versante meridionale dell’altopiano di Campeda e
al monte Santo di Bonnanaro. È il primo insediamento di cultura Bonnanaro riconosciuto
nell’isola, collegato anche a un dolmen e un
nuraghe. Le indagini archeologiche, concentrate negli anni ’70 e condotte da Maria Luisa
Ferrarese Ceruti, hanno riguardato una delle
capanne del villaggio, il dolmen situato non
molto distante, in località Funtana ‘e Casu (in
territorio di Osilo), e il nuraghe, arroccato su
uno sperone roccioso lungo lo spartiacque tra
il monte Tudurighe e il monte Muros.
La capanna ha restituito una serie di materiali
omogenei riferibili alla “facies di Sa Turricula” e
considerata prodromo dell’età nuragica in
senso stretto: le analisi radiometriche sui resti di
un focolare hanno indicato una datazione
intorno al 1500 a.C. Anche dal dolmen provengono materiali di questo tipo, salvo qualche
reperto più tardo che ne indica un riutilizzo in
epoca nuragica. Non fu però possibile accertare
in sede di scavo una connessione di tipo stratigrafico tra l’insediamento e il nuraghe, perché
le indagini in questo edificio rivelarono una
rioccupazione in epoca punica e romana.
Mentre i materiali preistorici della capanna
sono stati studiati e pubblicati, non è avvenuto
lo stesso per quelli provenienti dal nuraghe (ad
eccezione delle monete, edite nel 1978), da
ormai trent’anni nei magazzini in attesa di
essere studiati.
L’età nuragica è caratterizzata da una presenza
relativamente scarsa di nuraghi: oltre a quello
di Sa Turricula, nel territorio comunale ne è
presente un altro in località Santu Giorzi,
entrambi in cattivo stato di conservazione.
Quello di Sa Turricula presenta evidenti rimaneggiamenti successivi, con tutta probabilità
pertinenti all’età romana; di quello di Santu
Giorzi è visibile un solo filare di blocchi, obliterato da un crollo e ricoperto di vegetazione
erbacea e arbustiva. Forse le scarse attestazioni
di edifici di questo tipo sono dovute al sostrato
litologico del territorio, interamente composto
di rocce calcaree, mentre per gli affioramenti di
basalto è necessario spostarsi nei vicini territori
di Cargeghe e Codrongianos, dove infatti sussistono un maggior numero di torri nuragiche e
in migliore stato di conservazione. Ciò non
implica comunque una minore presenza antropica: abbiamo infatti attestazioni di monumenti
funerari, mentre insediamenti di questo periodo
potrebbero non essere attualmente in luce.
Sono da segnalare due monumenti, entrambi
dichiarati di particolare interesse (sottoposti
cioè a vincolo archeologico): la tomba di
giganti di monte Simeone e l’ipogeo a facciata
architettonica di Rocca Ruja.
La tomba di giganti di monte Simeone si trova
a circa 400 metri da Sa Turricula e a circa 800
da Santu Giorzi, quindi poteva essere connessa
sia all’uno che all’altro presidio territoriale.
Come si è accennato, inizialmente, non individuando tracce evidenti dell’esedra, si interpretò
il monumento come recinto megalitico o allée
couverte, in un secondo tempo, il ritrovamento
di un frammento della stele centinata con por-
La porta d’accesso al Golfo dell’Asinara: il territorio di Muros tra archeologia del paesaggio e pianificazione integrata
tello a luce arcuata appena a valle indicò che si
trattava di una tomba di giganti. Sia in bibliografia che nel decreto di dichiarazione è sottolineato che la tomba è inesplorata e probabilmente questa è stata la principale causa dello
scavo clandestino, scoperto e segnalato dalla
scrivente nell’autunno del 2001: dalla camera
sepolcrale era stata recentemente asportata una
considerevole parte del giacimento stratigrafico,
probabilmente con l’ausilio di mezzi meccanici;
tra il materiale di risulta depositato lungo il lato
occidentale della tomba sono state osservate
ossa umane in grande quantità, ma non è mai
stata effettuata la setacciatura del sedimento per
il recupero dei pochi reperti scampati al furto.
Inoltre l’asportazione massiccia ha causato un
notevole dissesto statico al monumento, costituito da una serie di ortostati infissi verticalmente nel terreno.
In località Rocca Ruja si trova un ipogeo a facciata architettonica, tipologia diffusa in un’area
ristretta del sassarese coeva alle tombe di
giganti di tipo dolmenico-ortostatico, delle
quali riproduce il prospetto, scolpito nella roccia. Purtroppo lo stato di conservazione è cattivo, perché la tomba ha subìto una serie di riutilizzi e rimaneggiamenti, soprattutto durante il
periodo della seconda guerra mondiale. Venne
infatti usata come rifugio antiaereo e sia l’ingresso sia la camera subirono allargamenti che
ne hanno snaturato l’originaria conformazione.
Scarsa è la documentazione relativa al periodo
punico, consistente in alcuni materiali provenienti dal nuraghe Sa Turricula, segnalati dalla
scavatrice senza ulteriori specifiche, ma solo
indicando un’occupazione a fini cultuali.
Alcune verifiche effettuate solo su alcune delle
decine di cassette conservate al museo hanno
consentito di individuare frammenti di thymiateria fittili a testa femminile. Dello stesso contesto anche quattro monete puniche della zecca
di Sardegna, ora nel medagliere del museo
Sanna, datate tra il 241 e il 216 a.C.
Le testimonianze del periodo romano sono
molto più consistenti, pur non essendo state
individuate con ricerche di tipo sistematico: riusciamo ad avere un’idea del tipo di insediamento, finalizzato allo sfruttamento agricolo
attraverso la coltivazione del grano, conosciamo abbastanza delle infrastrutture, in particolare della viabilità, e abbiamo tracce della vita
religiosa.
Per quanto riguarda la viabilità, la valle era
attraversata dalla strada a Turre usque Karalis,
la cui costruzione, risalente nelle prime fasi alla
seconda metà del I secolo a.C., ha favorito l’intensivo sfruttamento agricolo del retroterra turritano. La via partiva dal foro della colonia di
Turris Libisonis, passava per Ottava, toponimo
che testimonia l’ottavo miglio da Turris e pare
seguisse in parte il tracciato dell’acquedotto che
aveva origine all’Eba Ciara, oggi conservato
solo in minima parte perché distrutto in relazione alla costruzione della ferrovia, che ne
ripercorre il tracciato. Il primo miliario con l’indicazione della distanza è stato rinvenuto nel
1823 a Scala di Giocca, presso il ponte situato
appena a monte della confluenza tra il rio
Bunnari e il Mascari: è datato agli anni finali del
principato di Nerone e indica il XVI miglio a
Turre (vedi contributo di A. Ibba in questo
stesso volume). La distanza indicata pone una
problematica, se cioè il percorso aggirasse da
ovest l’area attualmente occupata da Sassari,
come finora ritenuto, o se passasse per la città,
lungo la direttrice del Corso e via Roma proseguendo per via Carlo Felice e Scala di Giocca,
come propone Mastino, considerando l’esistenza del toponimo Iscala de Clocha, che sembra implicare un percorso a tornanti già esistente in periodo medievale. In base al miliario
si può ipotizzare che anche il ponte, comprendente due arcate realizzate in blocchi di calcare
locale, possa nelle sue prime fasi essere pertinente alla viabilità romana, nonostante non sia
inserito nella relativa monografia del Fois. Da
questo punto la strada seguiva con certezza la
valle del Mascari, passando per Campomela,
dove abbiamo il ricordo del ponte sul rio
Mascari e dell’antico selciato, ancora visibile nel
Settecento, attraversando i territori attualmente
dei comuni di Muros, Cargeghe e
Codrongianos. Nel territorio di Muros tracce
della viabilità secondaria sono state individuate
durante una serie di ricognizioni a carattere
intensivo, effettuate nel 2003 e mirate al riconoscimento di evidenze archeologiche in un’area
di concessione mineraria. In località Badde Ivos
è visibile un tratto di strada antica, che si dirige
verso est, per circa 140 m. La pavimentazione è
realizzata con pietrame calcareo, di media e
grande pezzatura, di morfologia piuttosto irregolare; i margines sono realizzati con pietre di
maggiori dimensioni e si possono osservare
delle modine in blocchi squadrati. Dopo circa
140 m, si perdono le tracce della strada antica,
ma il sentiero prosegue per 750 m circa, fino ad
immettersi nella S.S. 131. Probabilmente si trat-
19
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
tava di una strada secondaria, che collegava la
via a Turre a un insediamento rurale. In effetti
nella zona di San Leonardo, area utilizzata negli
anni passati come cava di sabbia, dove ha inizio il percorso, le fonti orali segnalano la presenza di sepolture in dolio, ad indicare la presenza di una necropoli e quindi di un villaggio
dalla fine dell’età punica ai primi secoli dell’occupazione romana. Sembra che in una di queste deposizioni sia stato trovato un anello in oro
recante una spiga di grano, ovviamente perduto, perfettamente coerente con la vocazione
agricola dell’insediamento e con il culto di
Cerere attestato a Sa Turricula a cui accenneremo in seguito. Si aggiunga che il toponimo
catastale della strada, Coa de Redulas, significherebbe “il sentiero delle anime”, avvalorando
la notizia della necropoli. A tale insediamento è
con tutta probabilità ascrivibile il riutilizzo e il
rimaneggiamento di una domus de janas che si
trova a poche decine di metri dalla strada.
L’ingresso è costituito da un vano rettangolare,
realizzato in pietrame di medie dimensioni con
volta a botte e giustapposto all’ipogeo vero e
proprio ricavato nella roccia. All’interno si succedono due vani, il primo, di forma ellissoidale,
il secondo subtrapezoidale, nel quale si trova a
destra una vasca scavata nella roccia, a sinistra
una nicchia. A pochi metri di distanza si trova
un secondo ipogeo con sezione grosso modo
semicircolare e planimetria sub-rettangolare.
Vista la presenza della strada antica e l’uso della
volta, si può ipotizzare una fase del riutilizzo in
epoca romana o altomedievale, per un uso
forse anche abitativo, produttivo o cultuale
(presenza della vasca), mentre il secondo ipo-
20
geo può essere interpretato come vano di servizio.
In diretta connessione con la strada di Badde
Ivos, si può osservare un secondo esempio di
viabilità antica: il sentiero di Canechervu, denominato nelle mappe catastali strada di Santu
Lionardu; il sentiero si inerpica in direzione
nord, verso la cima di Canechervu; dopo 80 m
iniziano a riconoscersi i resti della strada.
Questa è percorribile per una lunghezza di
circa 180 m, poi prosegue, infestata dagli arbusti per un tratto di 140 m; qui è tagliata dal gradone trasversale di un fronte di cava; la pavimentazione è realizzata con la stessa tecnica
della strada di Badde Ivos. Si osservano le
modine trasversali in grossi blocchi.
Considerando la connessione tra i due tratti
descritti, si osserva come dalla valle del Mascari
(e quindi dalla via principale) si diramasse un
deverticulum che in primo luogo portava ad un
insediamento (testimoniato dalla necropoli
segnalata dalle fonti orali) e in secondo luogo
procedeva inerpicandosi sulla cima del monte,
dove si rilevano evidenti tracce di frequentazione (un lastricato di età non precisabile), raggiungendo un punto di assoluto dominio sulla
vallata circostante. Un confronto molto significativo è la strada di Sos Baiolos, nel vicino territorio di Cargeghe, che si avvicina per tipologia e per essere stata usata e rimaneggiata fino
ad epoca recente.
La vocazione agricola dell’area in età romana è
confermata dalle scoperte nel nuraghe del villaggio di Sa Turricula, dove è attestata una fase
di riutilizzo a fini cultuali a partire dall’età
punica e per gran parte dell’età romana, testi-
moniata da una cospicua serie di materiali di
cui si hanno solo laconiche notizie. Nella
Rivista di Scienze Preistoriche (volume del
1978) M.L. Ferrarese Ceruti scrive: “In età
romana la costruzione era stata adibita ad edificio cultuale e vi si doveva esplicare il culto a
Cerere. Numerosi piccoli busti in terracotta di
questa divinità si rinvennero… in associazione
con lucerne, per lo più bilicni, con o senza
bollo di fabbricazione e databili alla prima metà
del I secolo d.C.”. Nello stesso anno, insieme a
quelle puniche, vennero pubblicate da F. Guido
le monete romane, 24 pezzi datati tra il III e il
V secolo d.C. Alcuni dei reperti, restaurati nel
1977, sono elencati in un documento dell’archivio della soprintendenza: tra questi, busti fittili
di divinità femminile con spiga di grano sul
polos, identificabile con Cerere (sul culto vedi
contributo di G. Pianu in questo stesso
volume). L’accesso ai magazzini del Museo
Sanna per gentile interessamento della dott.ssa
Luisanna Usai, e l’analisi del contenuto di 4
delle decine di cassette che contengono i
reperti, ha consentito di valutarne l’importante
consistenza sia qualitativa che numerica. La
gran parte è costituita da materiali ceramici, tra
i quali numerosi sono pertinenti a statuette del
tipo Sarda Ceres, mentre le lucerne sono in
prevalenza (la gran parte sono bilicni a volute
con ansa plastica del I d.C., ma sono presenti
anche lucerne a disco del II-III e un’africana I
B Hayes di IV-V d.C.), poiché il culto della dea
prevedeva rituali notturni; sono presenti poi
reperti bronzei e vitrei (calici su stelo), mentre
una percentuale consistente delle cassette contiene ossa animali. Lo studio integrale dei mate-
La porta d’accesso al Golfo dell’Asinara: il territorio di Muros tra archeologia del paesaggio e pianificazione integrata
riali, accompagnato da una revisione della
documentazione dello scavo e finalizzato
all’edizione scientifica sarebbe di estrema
importanza per la comprensione di un complesso santuariale a sfondo rurale e dei rituali
relativi, per un arco temporale esteso dal III
secolo a.C. al V secolo d.C., con la possibilità di
raffrontarlo con i contesti di questo tipo individuati in Sardegna.
Gli elementi esposti contribuiscono a chiarire le
dinamiche d’occupazione delle aree a vocazione agricola gravitanti intorno alla via a Turre
e alle sue diramazioni in età romana, caratterizzate da una grande concentrazione di insediamenti come provano i rinvenimenti a Cargeghe
(sito di Santu Pedru), a Florinas (strutture di
epoca romana sotto l’attuale abitato e necropoli
in ziro di via Roma e Cantaru Ena), a Ossi (insediamento repubblicano e necropoli di
Sant’Antonio), a Codrongianos (necropoli in
ziro a La Rimessa).
La stessa situazione viene in gran parte mantenuta nelle dinamiche insediative di età medievale: la zona di San Leonardo, frequentata
almeno a partire dall’età romana, prende il
nome dalla chiesa del villaggio di Irbosa, di cui
non sussistono che strutture murarie a livello
delle fondazioni e un’ampia area di dispersione
di frammenti ceramici. Doveva essere di un
certo rilievo se nell’XI secolo vi si tenne una
corona presieduta dal giudice Barisone. Il villaggio si spopolò nel XIV secolo, a causa delle
epidemie, ma la chiesa rimase attiva almeno
fino al 1688, quando venne visitata dal vescovo
di Sassari. Nel 1843 Angius dà notizia di un
antico villaggio denominato Tatareddu, che
aveva per titolare della chiesa San Leonardo, e
parla delle rovine di un grande edificio a livello
delle fondazioni. Una stessa situazione è ipotizzabile per l’area di Santu Giorzi, dove alle
tracce romane presso il nuraghe si sovrappone
il ricordo di un antico villaggio. Da verificare
sono invece eventuali preesistenze nell’ambito
dell’attuale centro urbano di Muros: non risultano in bibliografia o in archivio rinvenimenti di
età precedente alla medievale (necropoli
dell’XI-XIV secolo, individuata sotto la sacrestia
meridionale della chiesa di San Gavino da
Daniela Rovina), ma probabilmente solo perché non denunciati. Anche il tracciato della
principale strada romana viene ripercorso in età
medievale dalla cosiddetta via Turresa, citata in
alcuni atti del Condaghe di San Michele di
Salvenero (non ci sono riferimenti diretti circa
la localizzazione della strada, ma alcuni riferimenti topografici inducono a localizzarla lungo
Campomela).
Nell’età moderna, caratterizzata dalla riduzione
degli insediamenti rispetto alla fase medievale,
per il fenomeno dell’abbandono dei villaggi,
quale aggregato di un certo interesse resta
attivo solo l’attuale centro urbano. La situazione
della viabilità è invece ancora sovrapponibile a
quella riscontrata in età antica, infatti la costruzione della strada Carlo Felice ricalca volutamente il percorso romano. Per la zona in esame
possediamo una descrizione di Alberto La
Marmora, che nel suo itinerario dell’isola di
Sardegna descrive l’area di Campomela e la
gola che, seguendo il fiume, segna il passaggio
tra Canechervu e il monte Venosu e immette a
Scala di Giocca, porta d’accesso alla città di
Sassari.
In questa stessa ottica l’area è interpretata dal
Piano Paesaggistico Regionale di recentissima
adozione: nella scheda dell’ambito 14, che lambisce i limiti comunali, Scala di Giocca e il corridoio ambientale tracciato dai fiumi Mascari e
Mannu sono interpretati tra i valori principali in
quanto dominanti paesaggistiche; nell’indirizzo
6, Scala di Giocca e il sistema insediativo di
Campomela sono considerati elementi qualificanti dell’accesso alla città e al paesaggio del
Golfo dell’Asinara.
È chiaro quindi che oggi come in età antica, la
valle mantiene un’importanza fondamentale
non solo come nodo di passaggio, ma anche
per il valore paesaggistico: un’attenta programmazione degli interventi futuri dovrà necessariamente tenere conto della fitta rete degli insediamenti storici e promuoverne la conservazione unitamente alle peculiarità ambientali,
anche attraverso una coerente opera di riqualificazione della zona industriale e dell’area del
cementificio ormai in corso di dismissione e
trovando il modo di contrastare lo stato di
degrado e abbandono riscontrabile in queste
campagne, che per tutta l’antichità e fino a
qualche decennio or sono venivano considerate sacre per la loro fertilità.
Concludo rivolgendo un pensiero affettuoso
alla memoria di zio Paolo Merella, sempre sorridente e gentile, fonte inesauribile di informazioni e amore per ogni angolo di questa terra.
21
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
BIBLIOGRAFIA
Sulla cronologia, il quadro archeologico e culturale
della Sardegna preistorica e protostorica e per tutti i
siti editi in generale E. CONTU, La Sardegna preistorica
e nuragica, Sassari 1997;
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medievale A. MASTINO, Storia della Sardegna Antica,
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sull’idoletto di Su Monte: R. LORIA - D. TRUMP, op.cit.,
pp. 153-154; G. LILLIU, op.cit., p. 180, scheda 3, con
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Funtana ‘e Casu (Osilo), in RSP XXXIII, 2, 1978, pp. 444445; EAD., La cultura del vaso campaniforme. Il primo
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sui thymiateria a testa femminile A.M. BISI, Motivi sicelioti nell’arte punica di età ellenistica, in Arch Cl, XVIII,
1966, p. 49;
sulla via a Turre e sul miliario neroniano vedi infra
scheda di A. IBBA;
22
sull’acquedotto M.C. SATTA, L’acquedotto Romano di
Turris Libisonis, Piedimonte Matese (CE), 2000;
sulla strada di Sos Baiolos G. MANCA DI MORES, Aspetti
topografici del territorio di Cargeghe (SS) in età romana,
in L’Africa Romana XII, 2, 767-770;
sui ponti romani F. FOIS, I ponti romani in Sardegna,
Sassari 1964;
sulla tipologia della Sarda Ceres C. VISMARA, Sarda
Ceres. Busti fittili di divinità femminile della Sardegna
romana, Sassari, 1980;
sui materiali di Sa Turricula, vedi infra, scheda di N.
CANU;
sul periodo medievale G. CANU, D. ROVINA, D. SCUDINO, P. SCARPELLINI, Insediamenti e viabilità di epoca
medievale nelle curatorie di Romangia e Montes,
Flumenargia, Coros e Figulinas, Nurra e Ulumetu, in La
civiltà giudicale in Sardegna nei secoli XI-XIII. Fonti e
documenti scritti, Atti del Convegno Nazionale, SassariUsini, 16-18 marzo 2001; a cura di V. TETTI, Il
Condaghe di San Michele di Salvennor, Sassari, 1997; A.
TERROSU ASOLE, L’insediamento umano medievale e i
centri abbandonati tra il secolo XIV e il secolo XVII,
Suppl. al fascicolo II dell’Atlante della Sardegna, Roma,
1974; su Irbosa vedi infra contributo di A. SODDU; sull’individuazione della necropoli di età basso medievale
vedi infra contributo di D. ROVINA; sul XIX secolo LA
MARMORA, Voyage en Sardaigne, II, p. 472 n. 20; V.
ANGIUS, s.v. “Muros”, in CASALIS XI, pp. 611-613;
Il Piano Paesaggistico Regionale è stato adottato con
delibera n° 36/7 del 5 settembre 2006 della Giunta
Regionale;
Per immagini illustrative dei siti N. CANU, Itinerario
Archeologico in Guida del territorio di Muros.
IL
MILIARIO DI
NERONE
A
SCALA
DI
GIOCCA
Antonio Ibba
Fra i cumuli di terra smossi dagli operai
durante i lavori per la costruzione della “Strada
Reale” fra Sassari e Cagliari, nel 1823, ai piedi
della Scala di Giocca e nei pressi di un ponte
alla confluenza fra il rio Bunnari e il rio
Mascari, Alberto La Marmora ebbe modo di
notare fortuitamente una “colonna migliare”.
Prontamente recuperata, la pietra fu trasportata
a Sassari e conservata dapprima nell’atrio
dell’Università, quindi dal 1878 nel Regio
Museo Antiquario, allestito nei locali dello
stesso ateneo (dove ebbe modo di vederla
Theodor Mommsen), infine dal 1931 nel
Museo Archeologico “Giovanni Antonio
Sanna”, dove attualmente è conservata (inv nr.
4895).
Il cippo (fig. 1), in calcare locale, tenero e
chiaro, quasi marnoso, è sbozzato grossolanamente in forma cilindrica ed è fratto nella parte
inferiore (dim. max. residue cm 159 x 105).
Sulla superficie erosa dagli agenti atmosferici si
distinguono ancora i profondi tratti filiformi,
forse realizzati con la subbia, di una capitale
irregolare che conserva tuttavia alcune fattezze
dell’eleganza scrittoria di età augustea (l. 1:
aste verticali e oblique svasate alle estremità).
Il disegno di Salvatore Ganga (fig. 2) segue la
proposta di lettura di Maria Giuseppina
Oggianu, che pur con leggere differenze, conferma sostanzialmente quanto pubblicato dai
precedenti editori:
Ed: C. GAZZERA, Di un decreto di patronato e di clientela
della Colonia Giulia Augusta Usellis e di alcune altre
antichità della Sardegna, Memorie della Reale
Accademia delle Scienze di Torino, XXXV (1831), pp.
50-51; A. LA MARMORA, Voyage en Sardaigne, Torino
1839, vol. II, p. 472, nr. 20; V. ANGIUS, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli stati di S. M.
il re di Sardegna, vol. XVIII bis, Torino 1851, pp. 569-
570; G. SPANO, Abbecedario storico degli uomini illustri
sardi scoperti ultimamente nelle pergamene codici ed in
altri monumenti antichi, con Appendice dell’Itinerario
antico della Sardegna con Carta topografica colle indicazioni delle strade, città, oppidi, isole e fiumi, Cagliari
1869, p. 40; CIL X 8014; M.G. OGGIANU, Contributo per
una riedizione dei miliari sardi, Sassari 1990, p. 121,
fig. 57.
H. lettere: cm 10 (l. 1), 7,5 (l. 2), 6,5 (l. 3), 6 (l. 4),
5 (ll. 5-7), 4 (l. 8).
H. interlinea: cm 6 (ll. 1-3), 3 (ll. 3-5), 4 (ll. 5-6),
3,5 (ll. 6-7), 2,5 (ll. 7-8).
23
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
È possibile notare l’interpunzione puntiforme
(ll. 3-4), per i primi editori estesa a tutto il
testo, e la soprallineatura sulle cifre (ll. 7-8), in
origine presente anche sulla N (l. 4); il modulo
delle lettere e l’interlinea tendono a diminuire
nella parte inferiore del documento.
Rispetto alle letture precedenti, possiamo restituire il nome Nero (l. 2), già parzialmente intravisto da Mommsen (CIL X 8014), confermare il
gentilizio Claudi (l. 3; per Vittorio Angius, La
Marmora, Giovanni Spano: Claudi), la lacuna
(Cae]saris (l. 4; il titolo era integro per Angius;
Mommsen leggeva (Caes]aris), l’epiteto
Germanic(us) (l. 6, non riportato da Angius) e
l’iterazione delle acclamazioni imperiali (l. 8,
non vista da Angius; erroneamente per La
Marmora e Spano: XIIII; per alcuni studiosi tuttavia Nerone fu acclamato imperatore solo
dodici volte. Seguendo Costanzo Gazzera e
Mommsen, contro La Marmora e Angius, supponiamo che sin dall’inizio si dovesse integrare
la p di potestas (l. 7). Lo spazio sulla pietra alla
l. 8 potrebbe far supporre che il ricordo dei
consolati precedeva irregolarmente le acclamazioni imperiali (cfr. CIL II 4683; III 6741-6742)
o che il titolo imperator era riportato per esteso
(in questo caso i consolati erano menzionati in
una successiva l. 9).
Il cippo fu sistemato XVI miglia da Turris
Libisonis, in questa fase caput viae dell’arteria
forse non ancora unitaria che attraversava la
provincia Sardinia e si dirigeva verso Karales,
passando probabilmente per le Aquae
Ypsitanae (Fordongianus). Pur non essendo
perfettamente chiaro il percorso della strada, si
ritiene che questa, abbandonata la colonia
24
Iulia Turris Libisonis, passasse per Predda
Longa, la cantoniera Li Pedriazzi, Su Crucifissu
Mannu (luoghi tutti in territorio di Porto
Torres), raggiungesse una prima mutatio (stazione per il cambio dei cavalli) fra il “vadu de
ponte” sul rio di Ottava e la frazione San
Giovanni (ad Octavum lapidem), attraversasse
il rio Mascari presso Scala di Giocca per poi
proseguire verso i territori delle moderne Ossi,
Muros, Cargeghe, Codrongianos, Florinas. Gli
studiosi si dividono invece riguardo al tracciato
intermedio fra San Giovanni e il ponte sul rio
Bunnari: per alcuni la strada passava all’interno
dell’odierna Sassari (lungo la direttrice Corso
Vittorio Emanuele - piazza Azuni) per poi
affrontare le rampe della parete rocciosa del
Chighizzu; per altri risaliva il corso del Mascari,
toccando le località di Pischina, Sa Mandra,
Pala de Carru, Preda Niedda, Caniga (mutatio?), Padru.
Grazie alla titolatura imperiale sappiamo che il
cippo fu posto in opera fra l’ottobre - dicembre
67 e il 9 giugno 68 (XIV tribunicia potestas di
Nerone): se confermato il riferimento al V consolato, la forchetta cronologica si potrebbe
restringere fra il 1° gennaio o più verosimilmente la metà di aprile e il 9 giugno ’68. Forse
nella parte perduta del miliario era ricordato il
proconsole ex pretore Cn. Caecilius Simplex,
governatore della Sardegna dal 1° luglio ’67 al
30 giugno ’68, console suffeta dal 1° novembre
al 31 dicembre ’69, politico non di secondo
piano giacché imparentato con importanti
senatori di origine orientale e gallica.
Sconosciuta l’occasione per la dedica della pietra. Per gli anni seguenti, tuttavia, sempre sulla
Fig 1 - Miliario di Scala di Giocca. (foto Nadia Canu)
Il miliario di Nerone a Scala di Giocca
via a Turre sono ricordati i miliari di Vitellio da
Nostra Signora di Cabu Abbas, presso Torralba
(CIL X 8016 = ILS, 243: XLIIII miglio) e di
Vespasiano probabilmente da Mulargia (CIL X
8023 e 8024: rispettivamente miglio LV e LVI,
entrambi dell’anno ’74), questi ultimi esplicitamente riferibili a lavori di restauro della strada:
si potrebbe dunque ipotizzare un unitario progetto di ripristino dopo i lavori commissionati
da Claudio nell’anno ’46 (ILSard, I, 378, forse
EE VIII 744), pianificato da Nerone, ma com-
pletato solo dai suoi successori. L’iniziativa
potrebbe allora correlarsi a una più ampia riorganizzazione dell’annona (è di qualche anno
precedente l’ampliamento dello scalo di Ostia,
al quale fu sempre strettamente collegato il
porto di Turris Libisonis), forse resa più
urgente dalla crisi che afflisse Roma nella primavera del ’68, quando in assenza del frumento egiziano e africano il grano sardo
divenne probabilmente fondamentale per gli
approvvigionamenti dell’Urbe.
BIBLIOGRAFIA
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Kaisertabelle.
Grundzüge
einer
römischen
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Provinzen des römischen Reiches vom 1. bis 3.
Jahrhundert (Asia, Pontus-Bithynia, Lycia-Pamphylia,
Galatia, Cappadocia, Cilicia), in Epigrafia e ordine senatorio, (Tituli 5) Roma 1982, pp. 635-636;
G.W. BOWERSOCK, Roman senators from the Near East:
Syria, Judaea, Arabia Mesopotamia, in ibid., p. 667;
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CIZEK, L’époque de Néron et ses controverses idéologiques, Leiden 1972, pp. 229-230; H. PAVIS D’ESCURAC, La
préfecture de l’annone. Service administratif impérial
d’Auguste à Constantin, Rome 1976, p. 106; V.A. SIRAGO,
Aspetti del colonialismo romano in Africa, in L’Africa
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su Turris Libisonis, A. MASTINO, Popolazione e classi
sociali a Turris Libisonis: i legami con Ostia, in A.
BONINU, M. LE GLAY, A. MASTINO, Turris Libisonis colonia
Iulia, Sassari 1984, pp. 43-46, 75-77, 79; IDEM,
Sardegna, cit., pp. 278-279, 282.
Fig 2. Miliario di Scala di Giocca (disegno Salvatore Ganga).
25
IL
CULTO DI
CERERE
A
SA TURRICULA
Giampiero Pianu
Da quando l’uomo, agli inizi dell’età neolitica,
smette di essere un cacciatore, abbandona la
vita nomade all’eterna ricerca del cibo di
sostentamento, bacche, frutti e animali, e
diventa stanziale avendo “scoperto” come coltivare le piante ed allevare gli animali, la
necessità di un ciclo biologico corretto e continuo, che assicuri anno dopo anno i raccolti e
la buona proliferazione degli animali da cortile,
diventa essenziale. E perché non affidare tale
ciclo alle cure amorevoli di una divinità che
possa essere ingraziata ed invocata ed a cui
affidarsi anche nei momenti peggiori? Al principio tale divinità era probabilmente tutt’uno
con quella preposta al buon andamento della
vita umana, regolata dalla nascita e dalla morte
dei vari individui, che doveva essere regolato
su precisi ritmi per evitare un pericoloso calo
della forza lavoro o un incontrollabile aumento
delle bocche da sfamare.
Per quel che ne sappiamo già in età neolitica,
ma probabilmente anche prima, questa divinità
fu raffigurata nella figura della donna, capace
di creare quel miracolo fantastico che è la
riproduzione della vita umana, e con essa,
quella degli animali e del mondo vegetale. Le
figurine della Gran Madre, come noi la conosciamo solitamente, sono ben presenti anche
nel mondo sardo, sia in epoca prenuragica che
nuragica. Di particolare pregio è proprio la statuina ritrovata in territorio di Muros. Accanto
alla Dea Madre si è soliti affiancare, seppur in
maniera subalterna, il principio maschile, personificato dal Dio Toro.
Se questa religione primitiva e primordiale
fosse realmente basata sui soli due aspetti fondamentali della vita, quello femminile (preponderante!) e quello maschile, non è dato sapere
con certezza. Sappiamo invece che le società
più evolute culturalmente presentano un
insieme di credenze religiose decisamente più
articolato. E così nel mondo greco esiste
appunto una divinità preposta al buon andamento della vita vegetale ed in particolare
delle messi, Demetra. Nel racconto mitologico
relativo alla dea sono chiaramente espressi da
un lato i risultati nefasti della sua “arrabbiatura”, con tutto il mondo vegetale inattivo e
conseguente carestia che ne deriva per il
genere umano, dall’altro il rapporto con il
mondo sotterraneo, dove la figlia Kore vive col
marito per metà dell’anno, per poi tornare sulla
terra per l’altra metà, chiara metafora del seme
sepolto sotto terra che poi germoglia e fornisce
il frutto desiderato. Questo mito, e la religiosità
che ne consegue, genera nel mondo greco una
serie di rituali abbastanza complessi e differenziati che vanno dalla Demetra misteriosa di
Eleusi a quella Thesmoforica, più legata al
mondo dei campi.
Nel 396 a.C. i Cartaginesi conquistano e
distruggono il santuario greco di Demetra di
Siracusa e a tale azione sacrilega sarebbero
seguiti una serie di rovesci militari che avrebbero indotto i saggi della città a placare le ire
della dea instaurando un sacerdozio a lei dedicato. Tale culto importato, a Cartagine, ha
avuto, quasi sicuramente, solo la valenza più
prettamente agricola. Peraltro, secondo una
fonte greca (Ps. Aristotele, De mir. Ausc. 100)
sempre interpretata in maniera controversa, gli
stessi Cartaginesi, che dominavano la Sardegna
già da tempo, avrebbero proceduto all’abbattimento degli alberi da frutto, prevedendo
pesanti pene per chi le ripiantasse. Questa
fonte è stata spesso contestata per una apparente illogicità economica insita in un simile
provvedimento, ed interpretata quindi come
27
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
frutto della propaganda greca contro i Punici
sviluppatasi in Sicilia, dove le due etnie erano
in perenne scontro. In realtà, come avevo già
adombrato in un vecchio scritto, notando la
sostanziale assenza di produzione vinaria in
Sardegna (G. Pianu, Contributo ad un corpus
delle anfore romane in Sardegna, Arch. St.
Sardo 1980, p. 11 ss.) agli inizi del dominio
romano, oggi buona parte degli storici propende per una rivalutazione della notizia,
legata ad una decisione “economica” cartaginese che avrebbe imposto in Sardegna la
monocultura cerealicola, destinata a soddisfare
le proprie esigenze di grano ed a salvaguardare le culture pregiate del territorio attorno a
Cartagine. Ed è normale che l’abbondanza di
campi coltivati abbia favorito l’esportazione da
Cartagine in Sardegna di un culto come quello
di Demetra, culto che d’altra parte, come ho
detto, riprendeva sentimenti religiosi atavici
della nostra isola. Non è dunque un caso che
in siti di pianura o di altipiano dove abbondanti erano le coltivazioni troviamo inseriti
culti “demetriaci” o ad essi assimilabili. Cito, fra
i più noti, i casi del nuraghe Genna Maria di
Villanovaforru e del nuraghe Lugherras di
Paulilatino.
Nel 238 a.C. i Romani conquistano la Sardegna,
ma la politica di destinare le fertili pianure dell’isola alla sola cultura cerealicola non pare
abbia avuto modifiche, se è vero che proprio il
grano sardo salva Roma da vari momenti di
carestia, almeno fino ai primi tempi dell’im-
28
pero. Per i Romani la dea preposta all’abbondanza delle messi si chiama Cerere, che in origine aveva aspetti cultuali abbastanza diversi
dalla Demetra greca, ma viene poi ad essa
omologata. In Sardegna, soprattutto nella zona
Nord, esiste una produzione di specifici ex
voto che raffigurano proprio una dea con alto
copricapo in cui sono spesso rappresentate in
maniera esplicita le spighe.
Questa dea, che Cinzia Vismara ha chiamato la
Sarda Ceres, è abbondantemente attestata,
insieme alle lucerne necessarie al rito, che
avveniva di notte, nel materiale proveniente
dalla località Sa Turricula di Muros, ma purtroppo tutto ciò non è pubblicato e di conseguenza risulta virtualmente ignoto. Il sito di Sa
Turricula è stato infatti scavato vari anni fa da
M. Luisa Ferrarese Ceruti, che si è interessata,
com’è ovvio, al solo aspetto nuragico dell’insediamento. Si tratta di un sito particolarmente
interessante per quanto riguarda l’aspetto relativo all’età del bronzo. Ma anche in epoca
romana l’importanza de Sa Turricula doveva
essere ugualmente consistente. Il sito controlla,
infatti, tutta la vasta e fertile pianura che si apre
a valle della cosìddetta Scala di Giocca, verso
Sud, cioè il Logudoro e il Meilogu, ma da lì si
arriva a vedere, ad Ovest, addirittura Capo
Caccia. Non è dunque così stravagante pensare
che questo sito, al momento della ripresa dell’insediamento in età romana, sia diventato un
luogo di culto della Sarda Ceres, dea specializzata nell’elargire agli esseri umani ottime
messi. Questa zona del Logudoro-Meilogu
doveva dipendere direttamente dalla grande
città romana di Turris Libisonis, odierna Porto
Torres, il cui interesse economico non doveva
essere legato, come spesso si pensa, alla sola
zona della Nurra. In epoca romana la gola del
rio Mascari e della Scala di Giocca non era la
porta di accesso verso Sassari, come la consideriamo oggi, ma la prospettiva va ribaltata,
leggendola da Nord a Sud. Ed i naviculares
turritani, attestati nel porto di Ostia da un
importantissimo mosaico, non portavano a
Roma solo il grano della Nurra ma, io credo,
anche quello del Logudoro-Meilogu.
Sarebbe quanto mai opportuno effettuare uno
“scavo di magazzino” che mettesse in luce
tutto il materiale realmente reperito dalla
Ferrarese Ceruti nei suoi scavi, per poter capire
quali sono stati i diversi sistemi di occupazione
del territorio nei vari periodi storici. E in questa moderna fase storica diventa essenziale
arrivare ad un radicale ripensamento sul problema generale del paesaggio, che porti ad un
momento di studio globale che comprenda,
oltre che al semplice censimento, (che spesso
risulta una inutile elargizione di fondi per
archeologi e società che quasi mai rispettano i
protocolli delle moderne tecniche di rilevamento), lo studio di tutti i siti e reperti già scavati. Insomma, uno “scavo dello scavo”
potremmo dire, che fornirebbe sicuramente
novità forse oggi impensabili.
LE
MONETE DI
SA TURRICULA
Francesco Guido
Un piccolo gruppo di monete, attualmente
conservato nel Medagliere del Museo
Nazionale G.A. Sanna, proviene dagli scavi
effettuati, a cura della soprintendenza archeologica, negli ultimi mesi del 1976 presso il
nuraghe «Sa Turricula» in agro del comune di
Muros. Si tratta di 32 esemplari in bronzo; di
queste, quattro (nn. 1-4) appartengono a zecca
sardo punica (241-238 a.C. circa; 241-215 a.C.
circa). Delle monete romane (nn. 5-32) il
gruppo più numeroso, tranne la n. 5 (Salonina,
dopo il 235 d.C.) appartiene all’età tardo-imperiale (Costantino I. Teodosio I). La frequentazione in età punica è attestata anche da materiale ceramico; uno dei quattro esemplari qui
descritti è riferibile al breve periodo della
rivolta dei mercenari.
Studi recenti hanno collocato l’emissione
Core/Toro a d. al periodo della rivolta, attribuendo agli anni dal 241 al 215 quella con
Core/Tre spighe.
I ripostigli monetali finora osservati hanno
messo in evidenza il fatto che la moneta dei
ribelli ben difficilmente figura tra quelle in uso
nel resto delle genti puniche.
MONETE
PUNICHE
Zecca di Sardegna
Rivolta dei mercenari (241-238 a.C. circa).
D/Testa di Core, a s.
R/ Toro a d.; in alto, astro a otto raggi.
Bibl.: SNG, Evelpidis, 727.
1.AE. mm. 13; gr. 4,95; 130°.
Zecca di Sardegna (241-215 a.C. circa).
D/Testa di Core, a s.
R/Tre spighe; su quella centrale, crescente e
globo;
tra le spighe: a d. lettera mem. a s.; gimel.
Bibl.: SNG, Evelpidis, 724.
2. AE; mm. 22; gr. 7,85; 90.
D/Testa di Core, a s.
R/Tre spighe; su quella centrale, crescente e
globo.
3. AE; mm. 20; gr. 3,70; 135°.
4. AE; mm. 19/21; gr. 3,60; 315°.
Bibl.: SNG, DNM, North Africa, 251-252.
MONETE
ROMANE
SALONINA
Roma; dopo il 253 d.C.
D/ [C]OR[NELIA SALONINA AVG]. Busto diad.
e drapp a d. R/: VESTA SC. Vesta seduta a s.
con patera e scettro.
Bibl.: COHEN 145; RIC, V, l, p. 196, 43.
5. AE sesterzio; gr. 16,60; mm. 26/28; 0°.
CLAUDIO II
Zecca non precisabile; 268.270 d.C.
D/ [—]AVD[—]. Testa radiata a d.
R/ Indecifrabile.
6. AE antoniniano; gr. 2,05; mm. 8/19.
COSTANZO I
7. Alessandria, 296.297 d.C.
D/ [FL] VAL CONSTANTIVS [NOB CAES]. Busto
rad., drapp. e cor. a d.
R/. [CONCORDIA] MI [LlTVM]; ALE in ex. Il
principe in piedi a d., in abito militare, riceve
una piccola Vittoria su un globo, da Giove, in
piedi a S. con scettro.
Bibl.: RIC, VI, p. 667, 48 a.
7. AE fraz. di follis; gr. 3,10; mm. 19; 0°.
29
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
COSTANTINO I
Treviri, 319 d.C.
D/ CONSTANTlNVS MAX AVG.
Busto cor. a d. con elmo laur.
R/ VICTORIAE LAET AE PRINC PERP. Due
Vittorie affrontate reggono uno scudo, posto su
un altare, su cui è scritto VOT PR; STR in es.
Bibl.: RIC, VII, p. 182, 213.
8. AE follis; gr. 2,70; mm. 17; 0°.
COSTANZO II
Aquileia, 337.341 d.C.
D/ CONSTANT IVSPFAVG.
Busto laur. e cor. a d., in paludamentum.
R/ GLOR IAEXERC ITVS; A[..] in es. Un’insegna
tra due soldati.
Bibl.: LRBC, p. 18, 692 b.
9. AE; gr. 1,65; mm. 16; 180°.
Roma, 355.360 d.C.
D/ DN CONSTAN TIVS PF AVG.
Busto diad. e drapp. a d.
R/ SPES REI PVBLlCE. Virtus stante con elmo,
scettro e globo; R [..] in es.
Bibl.: LRBC, p. 60, 691.
10. AE 4; gr. 2,00; mm.17; 180°.
Aquileia, 352.354 d.C.
D/ DN CONSTA N [TIVS PF AVG].
Busto diad. e drapp. a d.
R/ FEL TEMP [REPARATlO].
Virtus a s. colpisce con l’asta un cavaliere che,
cadendo, si aggrappa al collo del cavallo.
Bibl.: COHEN 45; LRBC, p. 66, 930.
11. AE 3: gr. 2,45; mm. 16;180°.
30
Aquileia, 355-360 d.C.
DI [DN CONSTAN] TIVS PF AVG. Busto diad. e
drapp. a d.
R/ [SPES REI PVBLlCE]; AQ[.] in es.
Virtus a s. con elmo, globo e scettro.
Bibl.: COHEN 188; LRBC, p. 67, 951.
12. AE 4; gr. 2,00; mm. 15; 0°.
Eraclea Tracica, 351.354. d.C.
D/ DN CO[NST]AN TIVS PF [AVG]. Busto diad.
e drapp. a d.
RI [FEL TEMP REPARATIO];
SMHA in es. Virtus a s., colpisce con l’asta un
cavaliere che cade da cavallo (braccia alzate).
Bibl.: COHEN 45; LRBC, p. 83, 1900.
13. AE 3; gr. 1,80; mm. 17; 135°.
Eraclea Tracica, 351-354, d.C.
Simile alla precedente.
14. AE 3; gr. 1,55; mm. 17; 180°.
Eraclea Tracica, 355.361 d.C.
Simile alla precedente.
Bibl.: COHEN 45; LRBC, p. 83, 1902.
15. AE 3; gr. 1,45; mm. 18; 270°.
16. Nicomedia, 355-361 d.C.
Simile alla precedente.
Bibl.: COHEN 45; LRBC, p. 92, 2311.
16. AE 3; gr. 2,15; mm. 18; 0°.
Alessandria, 355.361 d.C.
Simile alla precedente.
Bibl.: COHEN 45; LRBC, p. 103, 2346.
17. AE 3; gr. 2,15; mm. 16; 315°.
Zecca non precisabile, 346-361 d.C.
18. AE 3; gr. 2,05; mm. 14; 0°.
Zecca non precisabile, 346.361 d.C.
19. AE 3; gr. 1,75; mm. 17; 180°.
Zecca non precisabile, 346-361 d.C.
Bibl.: COHEN 45.
20. AE 3; gr. l,55; mm. 17; 180°.
Zecca non precisabile, 355-360 d.C.
D/ [DN CONSTAN] TIVS PF AVG.
Busto diad. e drappo a d.
R/ SPES REIPVBLlCE. Virtus stante con globo e
scettro.
Bibl.: COHEN 188.
21. AE 3; gr. 1,65; mm. 18; 180°.
Zecca non precisabile, 337-361 d.C.
D/ [DN CONSTAN] TIVS PF AVG.
Busto diad. e drapp. a d.
R/ Indecifrabile.
22. AE 3; gr. 2,10; mm. 17.
GIULIANO
Zecca non precisabile, 354-363 d.C.
Dj DN IVL[IA NVS PF AVG].
Busto diad. e drapp. a d. R/ SPES REI PVBLlCE.
L’imperatore stante con globo e scettro.
Bibl.: COHEN 42.
23. AE 3; gr. 1,95; mm. 17; 135°.
VALENTINIANO I
Roma, 367-375 d.C.
D/ DN VALENTINI ANVS PF AVG.
Busto diad., drapp. e cor. a d.
Le monete di Sa Turricula
R/ SECVRIT AS REIPVBLlCAE;
R PRIMA in es. Victoria a s., con corona e
palma.
Bibl.: COHEN 37; RIC, IX, p. 121, 24 (a); LRBC,
p. 61, 712.
24. AE 3; gr. 2,90; mm. 18; 225°.
VALENTE
Roma, 367-375 d.C.
D/ DN VALEN S PF AVG.
Busto diad., drappo e cor. a d.
R/ SECVRITAS REIPVBLlCAE; SM[edera]RP in
es. Vittoria a S.
con corona e palma.
Bibl.: COHEN 47; RIC, IX, p. 121, 24 (b); LRBC,
p. 61, 725.
25. AE 3; gr. 1,95; mm. 17; 15°.
Nicomedia, 364-375 d.C.
Simile alla precedente.
Bibl.: COHEN 47; RIC, IX, p. 252, 12 (b); LRBC,
p. 93, 2329.
26. AE 3; gr. 2,15; mm. 17; 180°.
TEODOSIO
Zecca non precisabile, 379-395 d.C.
D/ [D] N TH [- -]. Testa diad. a d.
R/ Indecifrabile.
28. AE 3; gr. 1,4.0; mm. 14.
29-32. AE 3; gr. 1,90, 1,80, 1,25: indecifrabili.
Zecca non precisabile, 367-375 d.C.
Simile alla precedente.
Bibl.: COHEN 47.
27. AE 3; gr. 2,30; mm. 17; 315°.
BIBLIOGRAFIA
H.Cohen, Description historique des monnaies frappées
sous l’empire romain. Rist. Graz 1955.
Sylloge Nummorum Graecorum. Grèce. Collection Rèna
H. Evelpidis. Athènes, vol. I Italie-Sicilie-Thrace (a
cura di T. Hackens - E. Evelpidis). Louvain 1970.
Sylloge Nummorum Graecorum. The Royal Collection of
Coins and Medals. Danish National Museum. North
Africa, Syrtica- Mauretania (ed. G.K. Jenkins),
Copenhagen 1969.
Late Roman Bronze Coinage. A.D. 324-498.
Part I: The Bronze Coinage Of House Of Constantine A.D.
324-346. P.V. Hill and J.P.C. Kent.
Part II: Bronze Roman Imperial Coinage of the Later
Empire A.D. 346-498. R.A.G. Carson and J.P.C. Kent,
London 1960.
C.H.V. Sutherland, The Roman Imperial Coinage. Vol. VI,
London 1973.
P.M. Bruun, The Roman Imperial Coinage. Vol. VII,
London 1972.
J.W.E. Pearce, The Roman Imperial Coinage, Vol. IX, b
London 1972.
P.H. Webb, The Roman Imperial Coinage. Vol. V, part I,
London 1972.
31
CENNI SU ALCUNI MATERIALI VOTIVI PUNICI E ROMANI DA
SA TURRICULA
Nadia Canu
Fig. 1 - Frammenti di thymiateria: R 293/77 (h 8,4); R 300/77 (h. 5,0); thymiaterion in 5 frammenti (h 13,2).
Fig. 2 - Busto fittile femminile, mancante di tutta la parte superiore della testa; sulla parte posteriore, liscia, è
inciso a stilo il bollo FRVCT. R 291/77 (h 9,0 cm).
Nel dicembre 2006, su interessamento della
dott.ssa Usai e con la collaborazione del sig.
Stoccoro della Soprintendenza per i Beni
Archeologici delle province di Sassari e Nuoro,
sono state visionate 4 delle 27 cassette contenenti i materiali provenienti dallo scavo del
nuraghe Sa Turricula, condotto nel 1976 da
M.L. Ferrarese Ceruti. Nella prima sono conservati reperti restaurati nel 1977, mai esposti al
pubblico. È stato presentato alla soprintendenza un progetto per lo studio integrale della
documentazione dello scavo e dei materiali,
finalizzato all’edizione scientifica e in attesa di
finanziamento. Si ritiene utile nel frattempo
pubblicare, su concessione del Ministero per i
Beni e le Attività culturali, le immagini di alcuni
dei materiali votivi fittili che testimoniano una
fase di riutilizzo a fini cultuali del nuraghe in
età punica e romana. Sono presenti thymiateria e busti femminili del tipo Sarda Ceres. Si
rimanda per esigenze di spazio la schedatura
analitica degli stessi ad una monografia apposita. Nella didascalia sarà riportato il numero di
inventario, quando presente, e l’indicazione
delle misure in centimetri.
Tra gli altri reperti del contesto, vi sono in prevalenza lucerne bilicni a volute con ansa plastica (Dressel tipo 12-13, Deneauve V B), con
e senza bollo, databili al I secolo d.C.
33
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
Fig. 3 - Busti fittili femminili, frammenti di teste. R 295/77 (h. 3,9);
297/77 (h 9,9).
Fig. 4 - Busti fittili femminili, ricomposti e integrati
dall’intervento di restauro. R 277/77 (h 17,0);
278/77 (h senza integrazione 14,3); 279/77 (h 17,2).
Fig. 6 - Frammento di polos, (h 5,3); busti fittili femminili, ricomposti e mancanti
della parte superiore. R 286/77 (h 10,2); R 287/77, particolarmente evidenti le
tracce di colore rosso e verde (h 9,6).
Fig. 5 - Busti fittili femminili, ricomposti e integrati
dall’intervento di restauro. R 289/77 (h 14,1);
299/77 (h 16,5).
Fig. 7 - Lucerna bilicne a volute con presa plastica in forma di semiluna; disco decorato con disco solare e
crescente lunare. Sul fondo bollo QVOLVSIH. Ricostruita da sei frammenti. R 226/77 (lungh. 13,2).
BIBLIOGRAFIA
Sui thymiateria a testa femminile, espressione del mondo
punico in età ellenistica, e la loro diffusione in Sardegna
P. REGOLI, I bruciaprofumi a testa femminile dal nuraghe
Lugherras (Paulilatino), Roma, 1991; S. MOSCATI, Nuovi
studi sull’artigianato tardo-punico in Sardegna, in RSF,
XXI, 1993, pp.83-98; G. GARBATI, Religio votiva. Per
un’interpretazione storico-religiosa delle terrecotte votive
nella Sardegna punica e tardo-punica, tesi di dottorato,
34
Dipartimento di Storia dell’Università di Sassari, AA
2004-2005, pp. 41-43, tab. B;
Sui busti di Sarda Ceres, tipologia diffusa nell’area nordoccidentale dell’isola, vedi il catalogo con gli esemplari
noti al 1980, esclusi quelli di Sa Turricula, in C. VISMARA,
Sarda Ceres. Busti fittili di divinità femminile della
Sardegna romana, Sassari, 1980, che ne individua il centro di produzione a Porto Torres, presso il ponte romano;
sui ritrovamenti posteriori P. BASOLI, Un busto di Sarda
Ceres proveniente da Ozieri (Sassari), in NBAS, 1, 1984,
pp. 255-257; M. SOLINAS, D. LISSIA, Sassari. Nuraghe
Li Luzzani, in BdA, XLIII-XLIV, 1997, pp. 133-136:
Sulle lucerne E. DRESSEL, Lucernarum formae, in CIL X,
2,1, Berolini, 1899; J. DENEAUVE, Lampes de Carthage,
Paris 1969.
TIPOLOGIE
TRADIZIONALI DELL’AMBIENTE URBANO
Michele Pintus
Una delle condizioni generalmente osservate
in Sardegna, per contrarre matrimonio, è che
l’uomo abbia una casa, di sua proprietà, possibilmente nuova, dove accogliere la sua compagna e iniziare una nuova vita insieme. Questo
certamente era il concetto dominante anche al
momento della formazione degli insediamenti,
dei centri urbani, come Muros. La casa di riferimento è l’abitazione rurale, composta da un
unico locale, almeno nel primo periodo matrimoniale, poi, con l’arrivo dei figli, verrà
ampliata in modo da adeguarla via via al
numero dei componenti della famiglia.
“La casa sarda in modo particolare, dal punto
di vista umano, è un elemento dinamico intimamente collegato con la vita dei suoi abitanti… è un elemento in continua innovazione,
sensibilissimo e capace di modifiche e di adattamenti fra i più disparati, entro una cornice di
arcaismo che sembra sempre più persistente,
ma che in effetti è sempre meno reale”.1
Vi è una stretta corrispondenza tra la casa e la
famiglia che la abita, come tale quindi è sempre individuale, possibilmente chiusa in se
stessa per garantire il massimo della riservatezza.
L’accorpamento, quindi l’adattamento nell’ambito urbano impone varianti dimensionali che
molto spesso portano a strane e curiose compenetrazioni e sovrapposizioni, soprattutto
quando il nucleo principale viene frazionato
fra i diversi figli.
La caratteristica principale è la semplicità e la
sobrietà: nulla di più di quanto non serva, dell’essenziale, e talvolta anche meno. Ciò che
porta inevitabilmente a edifici piuttosto poveri
non solo dal punto di vista architettonico, ma
anche dei materiali impiegati: è sufficiente che
assolvano al compito per cui sono stati faticosamente realizzati, cioè protezione, difesa e
riservatezza.
Le diverse regioni geografiche della Sardegna
hanno una propria fisionomia morfologica e
ambientale, riscontrabile anche nelle tipologie
edilizie; ma possiamo senz’altro dire che, nella
parte settentrionale della Sardegna, non esiste
un tipo di abitazione nettamente diversa da
quella delle altre regioni. Tuttavia, proprio
nella parte dove si trova Muros è possibile rilevare alcuni caratteri tipologici omogenei, differenziati rispetto a quelli delle regioni circostanti.
Le differenze principali sono rilevabili nelle
soluzioni planimetriche, adottate, ma specialmente nella distribuzione interna degli
ambienti. Il che determina volumetrie tipiche,
assai diverse ad esempio da quelle delle
regioni più settentrionali, come la Nurra ma
soprattutto la Gallura.
Nel quadro delle informazioni che preludono
alla fase operativa si ritiene necessario chiarire
a quale accezione di “tipo” si fa riferimento;
perciò si assume quanto riportato dal
Dizionario di Architettura ed urbanistica alla
voce “tipo”: “Nell’edilizia, come in ogni altra
attività, l’uomo utilizza l’esperienza mediante la
memoria, operante a livello di coscienza spontanea, delle risoluzioni di problemi analoghi
attuate precedentemente. Queste sono presenti
nell’artefice come un corpo di nozioni mutuamente organizzate secondo una finalità unitaria, vero organismo edilizio a priori che, con
termine derivante dal greco “tipos”, modello,
chiamiamo tipo.
In successivi gradi di approfondimento, comprendenti una casistica di possibili organismi
similari, sempre più delimitata, il t. giunge ad
inglobare un insieme di nozioni sempre più
tipiche, in quanto codificazioni di esperienze
precedenti, ma difficilmente ripetibili in casi
analoghi nel complesso delle loro connessioni:
quindi contingenti ed atte, al limite, alla risoluzione di un solo caso particolare, perché derivanti dall’essere l’edificio da realizzarsi indivi-
35
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
duato nel tempo e nello spazio: il t. quindi dà
luogo nel suo concretarsi fisico, ad un solo edificio, un nuovo ed unico individuo edilizio...
Il t. condiziona l’intera gamma degli oggetti
edilizi, senza limitazioni di scala, dal materiale
da costruire agli organismi territoriali: è infatti
legata al t. la nozione di «materiale», distinto da
«materia» in quanto implicante l’uso per il quale
è finalizzato, tipico in quanto comprendente,
secondo la definizione data, un corpo di cognizioni organizzate mutante organicamente nella
storia: un materiale ha forma, dimensioni, resistenza atte ad un uso predeterminato, dal
quale si può relativamente prescindere solo a
pena di perdita di rendimento; ugualmente
tipiche sono le componenti di un organismo
territoriale - percorsi, insediamenti, aree produttive, nuclei urbani - e le relazioni intercorrenti tra queste (v. percorso; crinale; controcrinale): tanto che, sulla base di tale tipicità, possiamo verificare, ad esempio, la distribuzione
spiccatamente modulare dei nuclei urbani di
analoga grandezza, l’omogeneità di comportamento dei percorsi riguardo all’orografia, ecc...
Riassumendo possiamo dire che il t. come qui
è definito è caratterizzato dall’essere la proiezione logica totale dell’edificio, organismo
totale, con una propria storicità dipendente dai
differenti margini di individuazione derivanti
dall’uso che se ne fa a livello di coscienza critica, in funzione di una scelta pertinente del
livello di tipicità adatto; a livello di coscienza
spontanea, invece, il t. coincide sempre con il
«modello» totale dell’organismo edilizio individuato che viene a formare.
Il processo di formazione e di interscambio
36
della tipologia edilizia è dovuto alla derivazione dei vari t. da matrici comuni che, per
essere proprie di una base antropica generalizzabile per le differenti culture, anche se realizzata in epoche diverse a seconda dei vari livelli
culturali, sono necessariamente simili almeno
quanto lo sono gli uomini delle diverse civiltà.
A partire infatti da un determinato stadio civile
le case di tutte le culture attraversano una fase
t. elementare monocellulare di dimensioni
attorno ai m 5-6 di diametro o di lato. Abbiamo
chiamato altrove questo t. «t. base» o «cellula
elementare» in quanto condizionante la formazione dei t. successivi, o «pseudotipi», differenziati per successive aggregazioni e specializzazioni del t. base diversamente caratterizzate a
seconda dei vari stadi civili. In ciascun «pseudotipo» il t. base mantiene un certo grado di
autonomia, anche nelle associazioni più complesse, divenendo modulo strutturale e funzionale; è anche facile dimostrare che i t. intermedi tra cellula elementare e associazioni più
complesse sono leggibili in queste ultime come
elementi funzionali-strutturali con una relativa
autonomia nell’insieme. Nel processo di variazione del t. assume un ruolo determinante la
superficie necessaria alla vita autonoma di ciascuno dei t. base, di dimensioni e forma tipiche, chiamata “area di pertinenza”; questa presenta una persistenza di forma e dimensioni di
gran lunga maggiore dell’usuale intervallo cronologico di variazione tra i t., diminuendo la
superficie libera di tale area man mano che il
t. cresce per lo svolgersi, all’interno di questo,
di funzioni anteriormente svolte all’esterno”.2
Va poi chiarita, in particolare, la distinzione tra
“edilizia specialistica” ed “edilizia di base”,
considerando che: ...l’edilizia specialistica si
distingue dall’edilizia di base (residenziale)
proprio perché risolve funzioni che non sono
residenziali e, quando lo sono (vedi il
palazzo), sono secondarie rispetto a quelle che
producono la specializzazione del tipo.
L’edilizia di base è l’edilizia residenziale, la
prima ad essere stata concepita per soddisfare
l’esigenza abitativa dell’uomo e quella che
resta alla base di ogni processo tipologico.
Quindi anche il complesso di esperienze consumate nel campo della edilizia specialistica,
ha alla base il processo tipologico dell’edilizia
di base.3
Le strutture edilizie presenti nella nostra area di
studio risultano essere quasi elusivamente
quelle a schiera. Vale pertanto quanto sostenuto da G. Caniggia: ...“I tessuti formatisi nel
Medio Evo sono per la gran parte condizionati
dai tipi a schiera... caratteri costanti del Tipo a
schiera, oltre la misura codificata dell’area di
pertinenza in ml 5-6x12-20 circa, sono: le
pareti laterali in comune, ovvero adiacenti se
con interposto l’ambitus tra case contigue; l’appartenenza al margine di un percorso, di
norma utilizzando questo e l’area interna per
un duplice affaccio. Ne consegue che le case a
schiera tendono a formare tessuti seriali che
solo nelle fasi più mature della formazione di
un aggregato giungono a formare isolati rigiranti su quattro fronti, mentre usualmente si
organizzano linearmente in una prima fase,
lasciando vuoti inedificati e seguendo i percorsi matrice...”.4 Concetto, quest’ultimo,
ripreso anche da C. Chiappi e G. Villa che sem-
Tipologie tradizionali dell’ambiente urbano
pre a proposito della casa a schiera affermano:
…“Casa a schiera è una casa aggregata in serie
con altre dello stesso tipo. Le esigenze poste
dalle caratteristiche dell’impianto (fronte esiguo, che ha dimensione di una sola cellula)
configura questo tipo edilizio secondo un asse
di sviluppo perpendicolare al fronte strada.
Tale sviluppo in profondità viene mantenuto
durante le fasi (del processo) successive, sino
al consolidamento del tipo in linea”.5
L’esame attento del centro storico consente di
individuare alcuni «tipi» fondamentali che caratterizzano e qualificano il centro stesso e che
pertanto meritano di essere salvaguardati e
recuperati al patrimonio culturale della collettività. Il tipo edilizio base trae origine dall’evoluzione de «sa domo» l’abitazione monocellulare
primitiva, similmente a quanto è avvenuto per
«su casalittu» dell’agro turritano, «su cuile» della
Nurra o «su stazzu» gallurese; anche se queste
tipologie, per la verità, erano diffuse prevalentemente in campagna, mentre «sa domo» ha
costituito il tessuto di base originario del primitivo centro abitato e rappresenta anch’essa la
forma più povera ed elementare di abitazione
del bracciante o del pastore, non essendo altro
che la traduzione «urbana» della capanna
rurale. Quest’ultima, infatti, è scomparsa praticamente dappertutto e dove ancora permane è
utilizzata solo come ricovero temporaneo.
La crescita della famiglia rendeva necessario,
come già detto, l’ampliamento della monocellula base, che rispondeva appena ai più elementari bisogni del primo periodo di formazione del nuovo gruppo familiare. Gli ampliamenti andavano di pari passo col suo aumento:
essi variano fra la sovrapposizione di una cellula a quella di base e cioè con sviluppo verticale; l’aggiunta di una cellula laterale, con sviluppo in larghezza; l’accrescimento dal lato del
cortile con sviluppo in profondità e, infine, le
varie combinazioni, con le loro varianti, fra le
tre possibilità di sviluppo. Ne risulta una
varietà di «tipi» e di costanti, ciascuna delle
quali esprime una dimensione familiare, le
quali costituiscono altrettanti organismi abbastanza efficienti che si sono confermati in una
esperienza plurisecolare. Ancor oggi, a parte le
inevitabili innovazioni dovute esclusivamente
all’impiego delle nuove tecniche costruttive e
dei nuovi materiali, oltre che all’introduzione
di quegli indispensabili accessori e servizi di
cui nessun consorzio civile può ormai fare a
meno, essi si sono mantenuti nella loro impostazione generale e rappresentano le tipologie
prevalenti del tessuto urbano.
«Sa domo» era all’origine l’alloggio della famiglia appena formata, ma allo stesso tempo rappresentava anche il ricovero notturno degli
animali da cortile e dell’asino. Quest’ultimo era
utilizzato come animale da lavoro e anche
come mezzo di trasporto per raggiungere il
campo o l’orto o l’ovile, situati spesso assai
lontano dal centro abitato.
Condizioni, com’è noto, comuni a molte
regioni mediterranee in cui le popolazioni
rurali vivono ancora addensate in grossi borghi
e che una volta si ponevano in cammino prima
dell’alba per raggiungere la campagna circostante da cui facevano rientro al calar del sole.
Questa usanza è generalizzata in tutte le zone
della Sardegna, al Nord come al Sud. L’uso di
dimorare in campagna, come si sa, è nell’Isola
quasi sconosciuto, fatta eccezione per il
pastore, che una volta lasciava la famiglia in
paese e viveva nello stazzo accanto alle
pecore, trattenendovisi per lunghi periodi, specie se i pascoli erano reperibili in zone piuttosto lontane. Oggi non è più così ed è sempre
più diffusa anche in queste categorie l’abitudine di rientrare in paese alla sera, abitudine
facilitata dalla disponibilità, estesa ormai a tutte
le categorie sociali, di mezzi meccanici di locomozione.
Tutta la vita della piccola famiglia si svolgeva
quindi in quest’unico ambiente di 20-30 metri
quadrati. Si trattava certamente di uno spazio
minimo, appena in grado di soddisfare alle più
elementari necessità della vita organizzata, ma
il giovane bracciante o il pastore non poteva
permettersi di più al momento della formazione della sua famiglia. Provenivano essi
infatti, invariabilmente, da famiglie numerose e
per potersi sposare dovevano provvedersi di
una casa nuova, per quanto piccola, ma di loro
proprietà, e soprattutto autonoma rispetto a
quelle dei nuclei di provenienza: la coabitazione è infatti un fenomeno inesistente in
Sardegna. Tutto era quindi realizzato in grande
economia, spesso facendo a meno anche del
muratore, al quale essi ricorrevano solo per la
soluzione di qualche piccolo problema fuori
dall’ordinario. Ma nei casi normali il bracciante
e il pastore, capaci di allestire in campagna la
capanna per i ricoveri temporanei e i recinti
per gli animali erano anche normalmente in
grado di costruirsi un alloggio stabile nel centro abitato.
37
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
I materiali non mancavano, perché la natura
offriva loro ottime pietre da costruzione,
soprattutto la trachite, il basalto, il calcare, e
certe arenarie compatte. Queste pietre spesso
erano poste in opera promiscuamente, ma talvolta con un certo ordine. I pezzi speciali,
come gli stipiti, gli architravi, le soglie, i davanzali, ecc. erano scelti fra pietre di uguale colorazione, solitamente il calcare, ed erano realizzati in elementi monolitici rozzamente sbozzati. Lo stesso dicasi per la copertura, la cui
orditura portante poteva essere formata con
tronchi di quercia ghiandifera o di frassino o di
perastro, una volta assai diffusi, tanto da occupare quasi la metà del territorio. Il manto sottotegola era invece costituito da canne,
anch’esse molto diffuse lungo il corso dei tanti
ruscelli che scorrono nelle vicinanze.
Le condizioni igieniche all’interno de «sa
domo» non erano certo eccellenti. L’ambiente,
scarsamente illuminato e arieggiato, durante le
ore notturne e cioè nel periodo di massimo
affollamento, quando la famiglia si riuniva, era
anche il solo ricovero per gli animali da cortile
(il maiale e le galline erano immancabili) i
quali durante il giorno erano liberi di grufolare
e di razzolare all’aperto, in mezzo alla strada,
ma al calar del sole, venivano raccolti e ricoverati nella capanna. La pavimentazione in terra
battuta, su cui gli sposi stendevano la stuoia
per la notte, e le pareti spesso prive di intonaco erano comodi ricettacoli per gli insetti.
Oltre che per le ragioni sopraddette, le ridotte
dimensioni della capanna erano dovute all’addensamento delle cellule elementari all’interno
dell’abitato, raccolto attorno a un nucleo origi-
38
nario, costituito molto spesso dai primitivi
«muristenes». Questo tipo è inoltre privo di cortile posteriore di modo che il lotto risulta interamente occupato dalla casa. L’indisponibilità
di spazi liberi propri rendeva pertanto inevitabile il trasferimento di talune attività
familiari nelle aree pubbliche, vie o piazze, che
venivano quindi usate alla stregua di corti
comuni in cui si lasciavano anche i carri agricoli accanto alle abitazioni dei rispettivi proprietari. Per la stessa ragione la porta di
ingresso e la finestra, quando esisteva, erano
necessariamente aperte verso la strada, indipendentemente dall’orientamento.
Talvolta la cellula dispone di un rozzo
soppa1co che occupa solo una parte della
superficie. È costituito da un’orditura di tronchi
più o meno diritti con un impalcato di rozze
tavole o di canne secche affiancate e legate
con giunchi. La destinazione tradizionale è
quella di deposito di legna da ardere, di
pagliaio e di dispensa per viveri (legumi, formaggio, olio, ulive in salamoia, ecc.). Il collegamento a terra avviene mediante scala a pioli,
raramente fissa.
La copertura è a falda unica, con sgrondo
verso la strada (fig. 1).
Da questo tipo base, in relazione al crescere
della famiglia, del numero dei componenti e di
nuovi nuclei che da essa si originano, sviluppano tanti altri che diventano a loro volta tipologie essenziali e caratterizzanti: viene introdotto un disimpegno sul quale si aprono la
porta d’ingresso dalla strada e l’accesso alla
cellula base, che risulta così un po’ diminuita
di superficie. Il disimpegno ha anche la fun-
Fig. 1
Fig. 2
Fig. 3
Fig. 4
Tipologie tradizionali dell’ambiente urbano
Fig. 5
Fig. 6
Fig. 7
Fig. 8
zione di deposito per la legna e di ricovero
notturno per l’asino e gli animali da cortile, che
risultano così separati dal resto dell’abitazione
(fig. 2);
si crea un ampliamento minimo a sviluppo verticale, costituito da due piani monocellula
sovrapposti. La sopraelevazione è estesa a tutta
l’area di base di modo che la superficie complessiva dell’alloggio risulta di 50+55 mq (fig.
3);
In questo caso l’ampliamento rende possibile
un minimo di differenziazione funzionale poiché consente la collocazione della camera da
letto («s’appusentu») al piano superiore («sa
domo ‘e susu») lasciando il vano al piano terreno («sa domo ‘e sutta») per le funzioni diurne:
cucina, lavoro, soggiorno, oltre che naturalmente a ricovero degli animali e degli attrezzi
e per letto dei figli più grandi.
I collegamenti verticali sono assicurati con
scale in struttura muraria o in legno, disposte
in un angolo interno; avviene poi la sopraelevazione di un tipo base nel quale il disimpegno alloggia la scala in vano proprio, pur conservando, in parte, la funzione di ripostiglio e
di deposito di legna da ardere e di altre provviste. La scala è in struttura muraria o in legno,
oppure parte in muratura e parte in legno. La
parte superiore del vano scala in cui nella versione attuale è possibile ricavare un bagno, è
spesso occupata da cassapanche o da una o
due brande, destinate ai figli mentre «s’appusentu» attiguo conserva la destinazione esclusiva di camera da letto matrimoniale. Il sottoscala è spesso usato come piccolo deposito di
grano da seme («granariu») (fig. 4);
Anche in questo tipo il tetto è a falda unica,
sovente senza controsoffitto.
L’ampliamento minimo è ottenuto con l’aggiunta al piano terreno di una cellula affiancata
destinata alla camera da letto, «s’appusentu».
Alla cellula primitiva rimangono tutte le altre
funzioni di camera da lavoro, cucina «su
foghile»), ricovero di attrezzi e di animali. Nella
camera da letto spesso è presente una specie
di bassa soffitta («su pianu mortu») simile al
soppalco già usato nel tipo più elementare,
ma esteso a tutta la superficie. L’accesso può
aversi pertanto solo attraverso una botola («sa
trappa») e il collegamento avviene con una
scala di legno raramente fissa. La destinazione
di questo ambiente è principalmente a ripostiglio-dispensa (fig. 5);
al tipo precedente è aggiunto un disimpegno
su cui si apre la porta di ingresso e che
immette direttamente a «su foghile» e a
«s’appusentu» (fig. 6);
si sopraeleva il tipo precedente nel quale il
disimpegno è occupato dalla scala, al termine
della quale si crea uno spazio di disimpegno
che immette nelle due stanze da letto superiori. Anche qui, nella versione moderna, è
presente un locale per bagno (fig. 7);
al piano superiore dei tipi precedenti è
aggiunto un sottotetto («chelarasu» o «isostre»)
destinato a locale di sgombero e, al solito, a
granaio e a deposito di viveri. Il sottotetto talvolta è spezzato e copre solo parzialmente la
superficie disponibile, limitandosi al volume
avente un’altezza utilizzabile. La parte rimanente è a terrazza e in qualche modo sostituisce il cortile interno mancante (fig. 8);
39
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
il tipo precedente viene esteso all’area di due
cellule affiancate. Il sottotetto risulta molto più
vasto e costituisce un vero magazzino spesso
adoperato come granaio e deposito di legumi
da seme, oltre che come rispostiglio e
dispensa. Una casa di questo tipo rientra in
una speciale categoria, «su palattu», che è l’edificio a due piani con almeno due vani per ciascun piano, oltre al vano scala (fig. 9);
il tipo base ha la possibilità di avere un cortile
posteriore. In questo caso la cellula elementare
dispone di uno spazio libero proprio, il che
rappresenta un sensibile miglioramento funzionale. La presenza del cortile, per quanto ridotto, rende possibile ricavarvi il porcile e la
stalla per l’asino, la latrina o una piccola tettoia
per lo stesso uso. È inoltre possibile trovare
uno spazio per accatastarvi la legna da ardere
e custodire gli animali da cortile, togliendoli
dalla strada. Se lo spazio è sufficiente e il cortile ha un idoneo accesso da una via secondaria è anche possibile introdurre il carro agricolo; in caso contrario esso è lasciato sulla strada
(fig. 10);
i tipi precedenti si ripetono con il vantaggio del
cortile che consente di avere camere in ampliamento che si affacciano su di esso; si arriva al
«palattu» che, nella sua forma più completa, è
formato da quattro ambienti al piano terra e
altrettanti al piano superiore. Un andito centrale, aperto alla strada e al cortile posteriore,
disimpegna le quattro stanze ed è abbastanza
ampio per contenere anche le scale. Questo
disimpegno è a sua volta diviso in due parti:
quella anteriore del piano terra, disposta verso
la strada, assolve anche al compito di zona di
40
ingresso, mentre quella posteriore immette
nelle due camere interne e contiene l‘uscita al
cortile. Lo stesso avviene nel piano superiore
ove nelle versioni più moderne è anche possibile ricavare una camera da bagno (fig. 11).
I primi esempi di questi «palattos», cioè di
dimore caratteristiche di grossi proprietari terrieri, risalgono almeno al XVII secolo.
La distribuzione prevalente, nella versione, per
così dire, più rustica e tradizionale è quella che
assegna al piano terreno la cucina, la stanza da
lavoro e una o due camere da letto; mentre il
piano superiore contiene esclusivamente le
camere da letto.
Il «palattu» dispone, quasi sempre, del cortile
che è costantemente situato nella parte posteriore. Attorno a questo spazio libero, essenziale per il funzionamento della casa agricola,
sono posti gli accessori indispensabili: stalle
per gli animali da lavoro, fienile, magazzini e
tettoie per deposito attrezzi; il porcile, il pollaio, il forno per il pane, il mucchio della legna
da ardere, ecc.
Il cortile «corrale», ha il suo ingresso carrabile
rivolto di solito a una strada secondaria («carrela ‘e segus»), ma esso per la vita d’ogni
giorno è certamente il più importante ed è
l’unico ordinariamente praticato, essendo
quello verso strada riservato come «buono», da
aprirsi in caso di visite importanti o per altre
occasioni particolari.
Per quanto riguarda i materiali da costruzione
si è detto che la zona è ricca di giacimenti di
trachite, di basalto e di calcare, pietre che
localmente assumono nomi un po’ curiosi.
Così il basalto, prevalentemente di colore gri-
Fig. 9
Fig. 10
Fig. 11
Tipologie tradizionali dell’ambiente urbano
terre ad alto tenore di argilla, è quindi la malta
adoperata per il collegamento della massa
muraria interna. Nel paramento esterno non
compare di essa alcuna traccia perché i giunti
fra i vari pezzi sono rinzeppati con scaglie di
pietrame minuto incuneati a percussione.
Si è detto che i muri sono di pietrame grezzo
grossolanamente sbozzato disposto in filari
sostanzialmente orizzontali.
È quasi sconosciuto l’uso della pietra concia
che non è adoperata neanche per la formazione delle piattabande delle aperture, ove si
ricorre preferibilmente all’impiego di monoliti
di trachite o basalto poroso «pedra fumiga» o,
più raramente, al calcare. Con gli stessi materiali si inquadrano spesso le aperture aggiungendo agli architravi altri monoliti in corrispondenza sia degli stipiti che delle soglie o dei
davanzali. Talvolta questi riquadri sono di tipo
e colorazioni diverse da quella del corpo del
muro e risaltano rispetto ad esso, introducendo
una nota di modesta decorazione. Talvolta gli
stipiti e gli architravi sono lavorati allo scalpello con disegni molto semplici.
Inizialmente il muro è privo di intonaco, il
colore è quindi determinato dal mosaico di
pietre naturali che compongono il paramento
esterno, ma con il miglioramento delle condizioni economiche, il gusto e il decoro porta
alla diffusione dell’intonaco e alla tinteggiatura
finale con cromatismi talvolta anche pesanti.
Gli orizzontamenti più diffusi sono solai in
legno, con orditura di tronchi di quercia o di
frassino lasciati allo stato grezzo o grossolanamente squadrati, e impalcato di rozzo tavolate.
La volta massiccia è raramente impiegata: il
tipo è sempre a botte e la struttura interna in
conci di «pedra fumiga» per la sua leggerezza e
facilità di lavorazione.
I tetti sono prevalentemente a falda unica o a
due falde con disposizione «a capanna». Il padiglione è praticamente sconosciuto. Lo sgrondo
delle acque avviene senza canali di raccolta,
ma direttamente dai coppi disposti a canale
che si prolungano all’esterno, sostenuti spesso
da un doppio o anche triplo ordine di mensole
eseguite con tegole murate e determinano
quella caratteristica dentellatura che borda i
tetti di quasi tutte le case antiche.
1O.
Baldacci, La casa rurale in Sardegna, Centro di studi
per la geografia etnologica, Firenze 1952.
3C.
5C.
2Dizionario
4G.
gio, è chiamato «pedra ‘e fogu»; il calcare, «su
cantone», il basalto poroso, «pedra fumiga», ecc.
Infine «pedra ‘e codina» è chiamata un’arenaria
molto resistente, impiegata per pezzi speciali.
Le pezzature sono irregolari e nella costituzione della struttura muraria interna sono collocate in opera appena sbozzate. Per la formazione del paramento esterno, spesso lasciato a
vista, è invece abbastanza ricercata una certa
regolarità, anche se spesso le pietre sono di
diversa qualità e colore.
L’uso del mattone è molto recente: alcuni
decenni orsono era del tutto sconosciuto nell’edilizia comune.
I legno è largamente usato per la formazione
di soppalchi, dei solai intermedi e dei piani
sotto tetto e delle coperture. Le essenze più
diffuse sono la quercia ghiandifera («chelcu») il
frassino («frassu») e, più raramente, il ginepro
(«zinnibiri»).
Il cotto è di uso generalizzato nelle coperture,
quasi totalmente in coppi.
La struttura portante tradizionale è quindi la
muratura massiccia di pietrame di vario tipo e
«1udu», fango (lat. lutus). Il fango, formato con
NOTE
Enciclopedico di architettura e Urbanistica,
Istituto Editoriale Romano, 1969.
Chiappi - G.Villa, Tipo/Progetto/composizione
architettonica, Ed. Alinea, Firenze 1980.
Chiappi - G.Villa, op. cit.
Caniggia, Strutture dello spazio antropico, Uniedit,
Firenze 1976.
41
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
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Enidata S.p.A., Milano 1988.
C. Chiappi - G. Villa, Tipo/Progetto/composizione architettonica, Ed. Alinea, Firenze 1980.
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n. 4, Istituto di Architettura, STEF, Cagliari 1983.
AA.VV., Un disegno per il riuso, Edizioni Kappa, Roma
1983.
F. Clemente, Relazione introduttiva convegno “Cultura
del paesaggio e metodi del territorio”, Cagliari, 20-21
marzo 1986.
M. Pintus - P. Piga Serra, Rilievo del quartiere “sas
corte” nel centro storico di Bonorva, Quaderno
n. 6 Istituto di Architettura, STEF., Cagliari 1983.
Dizionario Enciclopedico di architettura e Urbanistica,
Istituto Editoriale Romano, 1969.
G. Siotto Pintor, Storia Letteraria di Sardegna, Tip.
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V. Mossa, Archiettura domestica in Sardegna, Delfino,
Sassari 1985.
A. Terrosu Asole, Sardegna, Milano 1963.
O. Baldacci, La casa rurale in Sardegna, Centro di studi
per la geografia etnologica, Firenze 1952.
G. Caniggia, Strutture dello spazio antropico, Uniedit,
Firenze 1976.
42
IL
CENTRO STORICO: ANALISI EDILIZIA E PROPOSTE D’INTERVENTO
Caterina Giannattasio
Fig. 1 - Muros, il centro storico visto da nord-ovest.
Fig. 2 - Muros, espansione edilizia a sud-est dell’abitato
tradizionale.
Il centro storico di Muros è contraddistinto da
un costruito organico e compatto, ricco di
significati intrinseci e di secolari stratificazioni,
realizzato in una perfetta concordanza di
volumi e materiali con il paesaggio (fig. 1), il
quale è riuscito a conservare il proprio carattere tradizionale. Ciò, nonostante le incontrollate manomissioni provocate da inopportuni
incrementi di superfici e volumi, da sostituzioni edilizie - specialmente in presenza dei
rari episodi superstiti di architettura rurale, non
più rispondenti alle attuali esigenze funzionali
- nonché dalla costruzione di quartieri di
nuova espansione, del tutto estranei all’antico
agglomerato urbano, che accentuano, peraltro,
un inorganico rapporto tra pieni e vuoti (fig.
2). Si tratta, com’è ben noto, di fenomeni perpetuatisi in maniera diffusa nella maggior parte
delle nostre città a partire dalla seconda metà
del Novecento, e a cui, purtroppo, si continua
ad assistere, causati, sostanzialmente, dall’assenza di idonei strumenti legislativi e di un
controllo attivo da parte delle autorità responsabili; assenza cui, a livello regionale, si sta cercando di porre rimedio, come dimostra la
recente redazione del Piano Paesistico della
Regione Sardegna (2006).
L’edificato del contesto urbano in esame è
ascrivibile, con ogni probabilità, al tardo
medioevo - come testimonia la conformazione
planimetrica degli isolati - con stratificazioni
più tarde, databili al periodo compreso tra il
XVI e il XIX secolo, emerse dalla lettura diretta
del tessuto edilizio; si tratta, cioè, di episodi di
alto valore culturale, tali da imporre la definizione di idonee misure di tutela, rivolte soprattutto agli esempi cosiddetti ‘minori’1, i più vulnerabili al processo di deterioramento per
mancanza di riconoscimento dei loro valori
intrinseci. L’ipotesi cronologica avanzata, supportata dalle fonti bibliografiche - seppur
scarne - iconografiche ed archivistiche, è peraltro coerente con le vicende che hanno investito la cittadina, secondo cui, così come
risulta da alcuni documenti2, risalirebbe
all’epoca dei Giudicati, quando già compare la
denominazione della villa. Nel corso del XIV
secolo essa passa agli Aragonesi e, a partire
dalla metà del Seicento, ai marchesi Martinez
di Montemuros.
L’indagine archivistica, tuttora in fieri, ha dimostrato, ancora una volta, le sue potenzialità ai
fini della conoscenza, essendo in grado di concorrere efficacemente all’illustrazione della sto-
43
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
Fig. 3 - ASS, Cessato Catasto Terreni, Mappa De Candia,
Comune di Muros, Tavoletta 4, 28 decembre 1843, part.
Fig. 4 - ASS, Cessato Catasto Terreni, Comune di Muros, Mappa
Abitato, Frazione G, s.d. (ma 1852 circa).
Fig. 5 - ASS, Cessato Catasto Terreni, Comune di Muros, Mappa
Abitato, Frazione G, 1885.
44
ria della coralità edilizia in qualsiasi ambito
geografico3. Nello specifico, di grande efficacia
è stata la lettura delle piante storiche ottocentesche, e in primo luogo la carta geodetica elaborata da Carlo De Candia4, del 1843 (fig. 3),
«al quale il governo aveva affidato il compito di
definire su carta, con valore quindi probatorio,
i limiti territoriali dei singoli villaggi, fino ad
allora stabiliti nella tradizione orale della toponomastica dei luoghi»5. Si è analizzata, inoltre,
la prima catastale d’impianto6 (fig. 4), contestualmente al Sommarione7, entrambi redatti
conseguentemente all’emanazione della legge
n. 1192, del 15 aprile 1851, ove sono indicati,
con riferimento a ciascuna particella, accuratamente numerata, i nomi dei proprietari e la
consistenza dei rispettivi beni, distinguendo gli
spazi liberi (adibiti a «vigneto», «pascolo», «aratorio», «oliveto», «improduttivo», «orto») da quelli
edificati (differenziati in «casa», «casa rurale»,
«civile») al fine di conteggiare la tariffa d’estimo
secondo quanto stabilito dalla Direzione del
Censimento prediale8. Tali strumenti, com’è
noto, si ponevano come base per l’applicazione della riforma tributaria, che si sarebbe
attuata a partire dal 1° gennaio 1853; per cui
essi, in considerazione dei necessari tempi di
esecuzione, possono ascriversi alla fine del
1852, o forse anche a qualche anno dopo. La
planimetria, nonostante sia stata redatta in
pieno Ottocento, quando, cioè, le tecniche di
rilevamento avevano ormai raggiunto un elevato livello di precisione, mostra notevoli inesattezze, derivanti dal fatto che gli operatori
catastali incaricati di redigere i nuovi elaborati
«concretarono gli abbozzi parcellari in base ai
perimetri già segnati» nelle tavolette del De
Candia, molto spesso effettuando rilievi non
geometrici, bensì a vista. Tali inesattezze si perpetuano altresì nel grafico di aggiornamento
della catastale, del 1885 (fig. 5)9, dove, rispetto
alla precedente, sono evidenziate le particelle
collocate in aree di nuova espansione, ovvero
posteriori al 1852.
Nonostante le suddette approssimazioni geometriche10, tali elaborati, confrontati con l’ultimo aggiornamento catastale, del 1971, e con
l’aerofotogrammetria attuale, hanno consentito
di definire, per ogni fabbrica, il limite ante
quem, e quindi di elaborare classi cronologiche evidenzianti lo sviluppo edilizio locale (fig.
6). In dettaglio, si sono indicate le strutture
d’impianto anteriori al 1843, quelle attuate nel
periodo compreso tra il 1843 e il 1852 circa, tra
il 1852 e il 1885, tra gli ultimi anni del XIX
secolo e i primi del XX secolo, e quelle erette
in pieno Novecento, evidenziando altresì le
sostituzioni edilizie avvenute negli ultimi
decenni. Tale successione è stata inoltre confermata dall’investigazione della veste architettonica prevalente che contraddistingue il patrimonio edilizio, arrivando, in alcuni casi, a puntualizzare cronologie più remote, riferite al
XVI-XVII secolo11. In particolare, il confronto
tra la cartografia del De Candia e la prima catastale d’impianto attesta che l’apertura dell’attuale via Garibaldi, e quindi dell’edilizia ad
essa prospiciente, è avvenuta proprio in questo
La pubblicazione dei grafici storici ivi presenti è stata gentilmente concessa dall’ASS con nota n. 202/IX. 4.1 del 20.01.2007.
Il centro storico: analisi edilizia e proposte d’intervento
Fig. 6 - Comune di Muros, aerofotogrammetria dello stato attuale, con la definizione cronologica
delle strutture. I pallini indicano la perimetrazione del centro storico secondo il P.U.C. vigente.
Fig. 7 - Muros, centro storico. Planimetria, su base aerofotogrammetrica, con l’indicazione, per ciascuna
unità immobiliare, delle destinazioni d’uso e del numero di piani dell’edificato.
45
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
lasso di tempo, non comparendo nella prima,
dove gli isolati XIII e XIV - così come numerati
nella fig. 7 - sono accorpati. Inoltre, il V, inopportunamente sventrato tra gli anni sessanta e
ottanta del Novecento producendo un vero e
proprio vuoto urbano, attualmente segnato da
un’edilizia del tutto priva di qualità formale,
nella iconografia degli anni quaranta del XIX
secolo compare come unico blocco, diviso
qualche anno dopo in due parti dal vicolo alla
Chiesa, asse posto in direzione est-ovest, a collegamento delle attuali vie Roma e Battisti. Un
diverso assetto contrassegnava altresì l’isolato
XII, il quale formava, verso oriente, una sorta
di triangolo isoscele, con ogni probabilità corrispondente ad un’area verde, poi assorbita nel
nuovo assetto per tracciare il tratto settentrionale di via Principe Umberto, con i due lati in
linea con via Brigata Sassari e via Roma, 12.
Tale conformazione era possibile per l’assenza,
fino a metà Ottocento, delle unità immobiliari
delimitanti, verso ovest, l’isolato XIII.
Come si evince dalla seconda catastale d’impianto, dalla metà dell’Ottocento fino al 1885 il
tessuto edilizio non conosce sostanziali incrementi, se non in corrispondenza del tratto settentrionale di via Roma (via Marchese), occidentale di via Principe Umberto (via Fonte) e
meridionale di via Brigata Sassari (via
Cargeghe), nonché del vicolo Ariosto, asse di
nuova apertura.
È interessante sottolineare, inoltre, che in tutta
la cartografia ottocentesca, in prossimità della
chiesa, verso occidente, si annota l’esistenza di
uno spazio molto più ampio rispetto a quello
odierno, che andava a creare una sorta di
46
sagrato, seppure non in perfetta corrispondenza con l’ingresso al luogo sacro, evidentemente adattato ad un assetto edilizio preesistente; spazio ridottosi, tra la fine del XIX e gli
inizi del XX secolo, con l’accrescimento dell’isolato VIII verso la gradinata di via Cavour.
Da essa si è pure desunta la toponomastica
dell’epoca, quando:
- via Brigata Sassari era denominata, sin dalla
prima metà del secolo, via Cargeghe e poi
anche Vittorio Emanuele;
- via Battisti era detta carela de adde puttu
prima, e via Umberto poi;
- via Garibaldi era appellata, così come riferito
dal De Candia, carela de su Rettore;
- via Principe Umberto era intitolata carela du
Cantaru e nel 1885 via Fonte, datando la collocazione della fontana alla seconda metà del
XIX secolo;
- via Roma si chiamava vicolo alla Chiesa nel
tratto meridionale e via Marchese in quello settentrionale, suggerendo l’esistenza di beni di
proprietà dei Martinez;
- via Eleonora d’Arborea era detta carela de
Chiesa e adde puttu, poi via Mazzini.
La suddivisione particellare deducibile dalla
documentazione storica è stata confermata,
come già accennato, dall’indagine diretta, da cui
è emerso un tessuto edilizio prevalentemente
dato da cellule abitative, ad uso residenziale,
con uno o due piani in elevazione (fig. 7)13,
coperte con falde semplici o doppie, tradizionalmente rivestite con coppi in cotto e contraddistinte, di regola, da un disegno di facciata
semplice ed essenziale che realizza un’autonoma identità figurale. Si è registrata, inoltre, la
Fig. 8 - Muros, centro storico. Via C. Battisti, 4.
Fig. 9 - Muros, centro storico. Via C. Cavour, 2.
Il centro storico: analisi edilizia e proposte d’intervento
Fig. 10 - Muros, centro storico. Via Mannu, 5.
Fig. 11 - Muros, centro storico. Via C. Battisti, 20.
sussistenza di piccoli corpi con diversa funzione (cantine, locali ad uso agricolo, depositi,
questi ultimi spesso trasformati in garage),
costituite dal solo pianterreno, solitamente con
tetto ad una falda, eseguite con tecniche
costruttive tradizionali peculiari del luogo.
Il censimento dell’abitato è stato condotto con
l’esame sincronico degli immobili per forma
(tipologie edilizie, scale, composizione di facciate, linguaggio decorativo, disegno di singoli
elementi architettonici, quali portali, ornie di
balconi e finestre, serramenti, elementi ornamentali) e per materia (materiali e tecniche
costruttive), nonché annotando il degrado
materico e le alterazioni indotte da utilizzazioni
incompatibili14. In dettaglio, si sono investigate
le modalità di costruzione adoperate per l’esecuzione di murature, volte, solai, coperture,
scale, oltre che di elementi di finitura, catalogando i dati in apposite schede riferite a ciascun immobile, corredate da immagini fotografiche15.
Come si accennava prima, nel contesto ‘diffuso’ spiccano, oltre alla chiesa dedicata ai
Santi Gavino, Proto e Gianuario e alla fonte
pubblica, alcuni organismi di notevole pregio,
in sporadici casi presumibilmente riferibili al
Cinquecento, in altri al marchesato dei
Martinez e, più frequentemente, qualificate da
una veste architettonica ascrivibile al periodo
compreso tra la fine del XIX e gli inizi del XX
secolo. La struttura edilizia più antica sembra
quella in via Cesare Battisti, 4 (fig. 8), dove il
disegno delle cornici in pietra delle finestre al
primo piano richiama modelli algheresi del
XVI-XVII secolo16. Altro esempio significativo
è rappresentato dal manufatto in via Cavour, 2,
marcato da spessori murari consistenti, oltre
che da un portale a tutto sesto e dal cantonale
ad angolo con via Roma, entrambi in bugnato
(fig. 9). La lettura della conformazione planimetrica dell’area, ed in particolare l’assenza di
un sagrato antistante la chiesa, cui si è già
accennato, farebbe supporre che essa sia anteriore all’ampliamento della stessa, avviato tra la
fine del XVI e gli inizi del XVII secolo.
Numerosi, invece, sono gli episodi edilizi caratterizzati da un apparato decorativo di gusto
sette-ottocentesco, spesso di fondazione riferibile ai primi del Novecento, con esiti formali di
una certa qualità, tramite l’uso di un linguaggio
essenziale, ma raffinato, che definisce un apparato scultoreo in pietra caratterizzante paraste,
cantonali, cornici di balconi e finestre, portali,
fasce marcapiano, trabeazioni. Significativi in
tal senso sono i corpi in via Roma, 1, via Brigata
Sassari, 13, via Mannu, 5 (fig. 10) e via Brigata
Sassari, 38. In particolare, gli ultimi due
mostrano, in facciata, segni di un precedente
assetto, ovvero il primo denuncia l’aggiunta di
un piano, di recente fattura, attestata dall’interruzione dei cantonali e dalla posizione dell’originaria trabeazione; il secondo, invece, esibisce
un tratto di cornice di coronamento appartenente all’attiguo edificio, oggi non più esistente, come si evince da un’immagine storica17. Quest’ultima evidenzia, peraltro, lo stato
dei luoghi antecedente allo sventramento di
piazza della Repubblica, nonché la consistenza
di alcuni edifici prospicienti via Brigata Sassari,
prevalentemente caratterizzati da un solo piano
in elevazione; condizione, questa, che si è con-
47
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
servata a tutt’oggi, tranne che per il civico 36,
attualmente costruito da due piani fuori terra.
Riconducibili con certezza al XX secolo sono,
invece, alcune costruzioni non risultanti nelle
piante storiche di fine Ottocento, tra cui quella
in via Cesare Battisti, 20 (fig. 11), segnata da un
apparato decorativo riproponente stilemi settecenteschi, impiegati in corrispondenza delle
cornici delle finestre e delle sottostanti specchiature a rombi, della trabeazione a dentelli,
ecc., i quali testimoniano un apprezzabile
impegno verso la ricerca formale, con risultati
di indubbio significato culturale. Di fondazione
precedente rispetto a quest’ultimo esempio,
ma oggetto di un intervento di ristrutturazione
novecentesca, è l’immobile in via Eleonora
d’Arborea, 8, dove, coerentemente con la
maniera eclettica che contraddistingue l’epoca,
viene adoperato un linguaggio liberty (fig. 12).
Di più incerta datazione sono gli episodi di
edilizia ‘diffusa’, strutture molto essenziali ma
di grande interesse, che, come già detto,
spesso conservano i tratti originari. Tra essi,
collocabili al periodo compreso tra gli ultimi
anni dell’Ottocento e i primi del Novecento,
talvolta utilizzando un carattere tradizionale, in
altri casi sperimentando un linguaggio più
innovativo, si evidenziano quelli in via Brigata
Sassari, 54, 22 e 29, tutti formati dal solo pianterreno: il primo reca un portale a tutto sesto a
bugne, così come le cornici delle finestre e le
paraste, con portone in legno inciso con decorazioni floreali e geometriche, il tutto sormontato da una trabeazione a dentelli; il secondo
mostra anch’esso un ingresso ad arco a tutto
sesto, affiancato, come il caso precedente, da
48
due finestre squadrate; il terzo è caratterizzato
da paraste bugnate o trabeazione in pietra,
oltre che da decori geometrici. Coevo è lo stabile situato al civico 44 della medesima strada,
contraddistinto da un cantonale decorato in
stile liberty, oltre a quello in via Roma, 23, marcato da una trabeazione in pietra con medaglioni inscritti in quadrati.
Degni di nota sono, inoltre, alcuni manufatti
con un piano in elevazione, quali quelli: in via
Cavour, 1, dal disegno semplice, segnato da
una trabeazione in pietra e da una cornice
modanata attorno alla finestra del primo
livello; in via Cesare Battisti, 10-12, anch’esso
con vani di accesso squadrati e finestre con
cornice a dentelli, di tono ingenuo ma decoroso, insieme all’attiguo civico 14, dove la continuità della trabeazione suggerirebbe una precedente unione tra le due strutture; in via
Brigata Sassari, 28 e in via Roma, 15, esempi
entrambi recanti cantonali a bugne e trabeazione a dentelli decorata.
Infine, si segnalano piccole fabbriche ad uso
agricolo o adoperate come cantine e depositi,
che in taluni casi consentono di analizzare le
tecniche costruttive tradizionali. Significative in
tal senso sono quelle in via Cavour, 4 e in via
IV Novembre, le quali conservano solai lignei
(fig. 13) e offrono una lettura delle apparecchiature murarie, entrambe in pietra cantone,
ma realizzate con elementi lapidei di differente
pezzatura e lavorazione; la prima irregolare,
contenuta dalla cornice del vano d’ingresso, in
conci ben squadrati, la seconda in blocchi
regolari, con ogni probabilità di non remota
fattura, come certificherebbe il trattamento
Fig. 12 - Muros, centro storico. Particolare del portale
d’ingresso e del portone ligneo in via Eleonora d’Arborea, 8.
Il centro storico: analisi edilizia e proposte d’intervento
Fig. 13 - Muros, centro storico. Solaio ligneo presente in un
locale in via IV Novembre.
Fig. 14 - Muros, centro storico. Apparecchiatura muraria a
vista caratterizzante l’edificio in via Principe Umberto, 14.
superficiale della pietra. Rilevanti sono anche i
corpi tardo-ottocenteschi siti in vicolo Ariosto,
mostranti un’apparecchiatura a conci irregolari
in pietra calcarea, con riferimento ad uno dei
quali si evidenzia la conservazione di un piano
pavimentale in battuto di cemento. Di pregio è
pure il civico 14 di via Principe Umberto, della
metà del XIX secolo (fig. 14), con muratura
squadrata in pietra cantone a vista e trabeazione aggettante, anch’essa composta dal solo
pianterreno.
In definitiva, tale percorso ha consentito di
giungere alla conoscenza di ciascuna unità
immobiliare del tessuto antico di Muros, registrandone le caratteristiche peculiari ed individuandone le stratificazioni e le recenti alterazioni, indispensabile premessa per la redazione di un progetto di restauro urbano. In
altre parole, l’intento è quello di agevolare l’interpretazione e la cronologia dei manufatti
architettonici cosiddetti ‘minori’, ovvero di produrre sussidi che facilitino un corretto approccio per la loro conservazione, rispettoso del
valore documentale del patrimonio edilizio e
dell’autenticità della materia storicizzata.
Da tale premessa scaturiscono alcune proposte
operative, volte alla tutela ed alla valorizzazione del patrimonio edilizio autoctono, finalizzate a far conciliare le ragioni della storia
con le pratiche esigenze della vita quotidiana.
In tale prospettiva si ritiene prioritario, all’interno del Piano Urbanistico Comunale vigente
(PUC), riperimetrare il centro storico, al fine di
estendere la tutela a settori più ampi del tessuto edilizio. Ciò, superando i margini del
costruito riportato nelle catastali d’impianto, ed
includendovi episodi di epoca tardo-ottocentesca e novecentesca di elevato valore culturale
ed ambientale, dove i rapporti volumetrici
sono ancora controllati ed i manufatti ben inseriti nel contesto urbano e paesaggistico (fig. 6).
Inoltre, come l’analisi dello stato dei luoghi ha
dimostrato, l’edificato è caratterizzato dalla
presenza di numerosi episodi, prevalentemente di carattere residenziale, ricchi di significato, che meriterebbero, in alcuni casi, di
essere sottoposti a vincolo ai sensi D. Lgs. n.
490/9918. In tal senso, si renderebbe fondamentale l’azione dell’Amministrazione comunale, la quale dovrebbe altresì provvedere
all’effettuazione di un’opera di sensibilizzazione ed informazione, finalizzata a coinvolgere la cittadinanza nelle scelte operative, partendo, ovviamente, da una consapevolezza del
significato storico e architettonico del patrimonio edilizio locale.
Infine, occorrerebbe revisionare il vigente
piano particolareggiato riferito alla zona A,
redatto nel 2002, ad integrazione del PUC, il
quale prevede, in alcuni casi, la possibilità di
aumentare i volumi esistenti, solitamente in
presenza di strutture col solo pianterreno, cancellando, così, uno dei caratteri più significativi
di tale tipologia edilizia. D’altra parte, esso,
nella definizione delle categorie d’intervento,
fa ovviamente riferimento all’unico strumento
legislativo esistente in materia, costituito dalla
legge 457/78, a proposito della quale, com’è
noto, numerosi ed accesi sono stati i dibattiti,
trattandosi di un testo non espressamente volto
alla tutela del patrimonio edilizio, bensì ideato
con la finalità di recuperare le zone degradate
49
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
dei centri storici e di risolvere il problema della
scarsa disponibilità di abitazioni. Secondo tale
strumento l’edilizia antica, non essendo differenziata da quella contemporanea, può essere
sottoposta alle medesime categorie operative
di questa (restauro e risanamento conservativo,
manutenzione ordinaria, manutenzione straordinaria, ristrutturazione edilizia, ristrutturazione
urbanistica); categorie che denunciano un
approccio non rispettoso dei principi della
conservazione, come prova, in particolare, la
voce “ristrutturazione urbanistica”, che offre la
possibilità di modificare il disegno dei lotti,
degli isolati e della rete stradale, ovvero di cancellare tracce insediative di elevato valore. Di
contro, sarebbe opportuno individuare classi
operative di carattere generale, più articolate
rispetto alla citata legge, accompagnate dall’elencazione degli interventi puntuali necessari, nel rispetto del carattere peculiare dell’ambito in questione e fondate su criteri conservativi, ovvero sui principi di autenticità, distinguibilità, reversibilità, attualità espressiva e
minimo intervento.
Notai, XVIII e XIX secolo, e dei Processi verbali di delimitazione del territorio di Muros, riferiti agli anni 1843
e 1845, tutti conservati presso l’Archivio di Stato di
Sassari (ASS). Qui vi è la descrizione della ricognizione
dei limiti territoriali del Comune con le attigue Sassari,
Osilo, Cargeghe ed Ossi, effettuata ad opera degli ingegneri di 2a classe delegati dal governo.
in “Archivio Storico Sardo”, vol. XVIII, a. 1930,
pp. 3-31; A. RAU, Le origini del catasto in Sardegna, in
“Studi economico-giuridici”, XLV (1965-68), pp. 333415; I. BIROCCHI, Per la storia della proprietà perfetta in
Sardegna. Provvedimenti normativi, orientamenti di
governo e ruolo delle forze sociali dal 1839 al 1951,
Milano 1982.
4
ASS, Cessato Catasto Terreni, Mappa De Candia,
Comune di Muros, Tavoletta 4, 28 dicembre 1843.
9 ASS, Cessato Catasto Terreni Comune di Muros, Mappa
Abitato, Frazione G, 1885.
5
10
NOTE
1 Come scriveva Roberto Pane in Napoli imprevista
(Torino 1949, pp. 7-8), «Il tono di una città è dato
(…) da quella che si può chiamare la sua letteratura
architettonica, l’espressione di una continuità ambientale nel pratico svolgimento della vita urbana con le
sue peculiarità di costume e di folclore, nel riecheggiamento artigiano e popolare dell’arte aulica; in quello
che si suole comunemente dire il colore locale e che
non è pura accidentalità destinata a fornire pittorici
spunti, ma il volto stesso della storia nella sua stratificazione, la presenza viva del passato nella sua forma
più generale».
2
Cfr. G. CASALIS, Dizionario geografico storico-artisticocommerciale degli stati di S.M. il re di Sardegna, vol. X,
Torino 1843, pp. 611-613, e in particolare p. 612: «La
chiesa parrocchiale ha per titolare il martire San Gavino
e un povero fornimento. Nella campagna era già una
cappella dedicata a San Giovanni (…). Nel territorio
sono vestige di qualche nuraghe. Sono indicate le
rovine di un antico paese che dicono Tatareddu, e che
aveva per titolare della chiesa San Leonardo.
Appariscono le fondamenta d’una gran casa che vuolsi
sia stato il palagio marchionale».
Cfr. anche M. SCANO (a cura di), Muros, ivi 2004, pp. 1720.
3
Essa necessita sicuramente di approfondimenti, in
particolare attraverso la consultazione dell’Archivio dei
50
I. ZEDDA MACCIÒ, Paesaggio agrario e controllo della proprietà fondiaria nella Sardegna dell’Ottocento: il contributo della cartografia, in Ombre e luci della restaurazione (Atti del convegno, Torino, 21-24 ottobre 1991),
Roma 1997, p. 471. Cfr. anche A. TERROSU ASOLE, Carlo De
Candia e la cartografia geodetica della Sardegna, in
“Contributi alla geografia della Sardegna”, III (1956),
pp. 55-62.
6 ASS, Cessato Catasto Terreni, Comune di Muros,
Mappa Abitato, Frazione G, s.d., ma 1852 circa.
7
Ivi, Cessato Catasto Terreni, Comune di Muros,
Sommarione dei beni rurali, Frazione G, s.d., ma 1852
circa.
8
Per approfondimenti circa il catasto cfr. F. LODDO
CANEPA, Cenni storici sul catasto in Sardegna in rapporto
alla legislazione catastale italiana vigente, estratto dal
Dizionario Archivistico per la Sardegna, voce “Catasto”,
Cfr. F. LODDO CANEPA, op. cit., p. 11, n. 1, e p. 19.
11
Si precisa che, al momento, l’unico documento in cui
si avanzano ipotesi cronologiche, peraltro fondate sulla
mera lettura dei caratteri formali, è rappresentato dalle
schede di censimento del Catalogo Regionale, A e OA.
Compilate nel 1999, esse si riferiscono a soli tre episodi architettonici, ovvero a via Brigata Sassari, 13
(NCTN 10937 e 24062) e 36 (NCTN 10938 e 24063), i
quali vengono riferiti al periodo compreso tra la fine
dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, e a via Cavour,
2 (NCTN 10936 e 24060), ascritta alla metà-fine del
XIX.
12
D’altra parte, l’icnografia del De Candia riporta semplicemente la conformazione dei lotti, non discernendo
i tratti edificati dagli appezzamenti di terreno liberi.
13 L’elaborazione grafica delle figure 6 e 7 è stata
curata da Valentina Pintus e Martina Porcu.
Il centro storico: analisi edilizia e proposte d’intervento
14 In generale, le patologie e le cause di deterioramento sono date da problemi di umidità di risalita,
dalla mancanza di un idoneo sistema di raccolta delle
acque meteoriche, dall’assenza di coperture, da scarsa
manutenzione o da improprie azioni antropiche. Altro
problema diffuso è rappresentato dal disordine formale
presente in alcune facciate, provocato, non solo da
impropri interventi di ristrutturazione piuttosto
recenti, ad esempio con l’inserimento di balconi al
posto delle originarie finestre, ma anche dalla disorganica collocazione degli impianti (pluviali, tubazioni,
cavi elettrici). Va evidenziato, però, che, nonostante le
manomissioni, il costruito ha generalmente conservato
l’altezza originaria degli edifici, non superando i due
piani.
15
Esse sono state concepite in coerenza con il modello
A - ICCD, opportunamente integrato. I dati confluiranno nel SIT del territorio comunale, elaborato nel
corso di questo stesso progetto.
e l’esecuzione di operazioni diagnostiche tali da consentire la lettura dei paramenti murari, attualmente
intonacati.
17 Essa è pubblicata in M. SCANO (a cura di), op. cit., pp.
60-61.
18
È questo, ad esempio, il caso degli edifici in via
Cavour, 2 e in via Battisti, 4.
16
Per giungere ad affermazioni più certe si renderebbero necessarie la consultazione dell’archivio dei notai
51
IL
COSTRUITO MONUMENTALE
Donatella Rita Fiorino
Fig. 1 - Veduta di Gaston Vuillier di Scala di Giocca, 1893.
L’abitato di Muros è stato trascurato da tutte le
rotte dei numerosi viaggiatori che, a partire dal
Settecento, hanno percorso la Sardegna, visitando angoli remoti e incontaminati dell’isola e
lasciandoci importanti descrizioni delle architetture tradizionali, ma soprattutto monumentali. Anche negli spostamenti tra Sassari e
Alghero, gli itinerari seguivano la strada che da
Ossi porta verso Tissi, saltando di fatto il piccolo abitato di Muros. Punto di passaggio
obbligato era, invece, Scala di Giocca, impropriamente citata dal Vuillier come il vallone di
Ossi1, rappresentato in una sua veduta (fig. 1).
Significativo è anche un passo de L’itinerario
dell’Isola di Sardegna di Alberto Della
Lamarmora dove, il vero monumento della tecnica moderna, non va ricercato nelle vestigia
del passato o nelle costruzioni dell’abitato,
quanto nel piccolo Moncenisio fatto di rampe
obbligate e ben condotte dove si gode l’ombra
tranquilla dei bellissimi olivi che ricoprono
tutto il fianco della montagna. Si tratta
dell’“imponente montagna di Scala di Giocca”
e della nuova strada tracciata dagli ingegneri
piemontesi sotto la direzione del maggiore
Carbonazzi, ex allievo del Politecnico, il quale
ha preferito attaccare la montagna di fronte
piuttosto che girarle intorno, seguendo il tracciato dell’antica via romana, riuscendo a dare
sviluppo alla salita in un modo che fa loro il
massimo onore. Proprio in prossimità del
ponte ai piedi della grande salita per Sassari
durante i lavori di costruzione della nuova
strada del 1822, lo stesso Lamarmora ritrova il
miliario romano risalente all’epoca di Nerone2.
Tale scoperta porta ad ipotizzare anche per il
semplice ponte a due fornici sul rio Bunnari
una remota origine connessa con la rete delle
grandi infrastrutture romane che, per l’entità
delle dimensioni e l’accuratezza delle tecniche
costruttive devono essere annoverate tra il
patrimonio monumentale di un territorio.
Anche Valery, che nel maggio del 1834 passa
per Cargeghe3, non cita il villaggio di Muros.
Una tale assenza dalle rotte culturali dei viaggiatori doveva essere determinata dalle condizioni del paese la cui popolazione, come
descrive l’Angius nel 1856, non prosperò per le
vessazioni degli agenti baronali, nonostante la
estensione e la fertilità del luogo4. Trascurato
perciò dalle più note e scandagliate fonti dell’architettura della Sardegna, la storia delle fabbriche muresi deve ricominciare dall’analisi
diretta del costruito e da una ricognizione più
53
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
attenta delle fonti archivistiche purtroppo
ancora non accessibili.
L’architettura monumentale, intesa invece
come costruito storico con funzione pubblica e
valore di rappresentanza, è piuttosto episodica
a Muros, limitata alla chiesa parrocchiale, al
cimitero e alla fonte urbana con il suo acquedotto, riferibili ad un arco cronologico di ben
cinque secoli.
LA
CHIESA PARROCCHIALE
La data di fondazione della chiesa parrocchiale
non è documentata. Una lapide murata nella
cappella di San Giovanni Battista, consente
però di collocarne l’edificazione a fundamentis
alla seconda metà del Seicento, per volere del
nobile Don Francesco Martinez5, ad esclusione
dell’abside, preesistente, con l’altare dedicato
ai Santi Martiri Turritani Gavino, Proto e
Gianuario, patroni di Muros (fig. 2).
La collocazione urbanistica, decentrata rispetto
al nucleo insediativo e lo stemma turritano,
riprodotto al centro della volta della sacrestia,
inducono a ipotizzare una primitiva funzione
di oratorio privato o semipubblico di proprietà
della nobile famiglia murese.
Le indagini archeologiche svolte nel 1992 al di
sotto del pavimento della sacrestia hanno però
portato in luce una vasta area cimiteriale con
tombe e ossario, risalente ai secoli XI-XVI. Tali
preesistenze sono dunque da porre in relazione con i registri delle decime conservati nell’archivio Vaticano che attestano, già dal 1341,
l’esistenza della Rettoria di Muros. Tali ritrovamenti costituiscono attualmente le uniche testi-
54
monianze della Muros medievale6.
L’attuale planimetria della chiesa è il risultato
di successive annessioni all’originale impianto
che si limitava all’area presbiteriale e all’abside
(fig. 3). L’aula centrale, priva di aperture, è
coperta con volta a botte, impostata su una
esile cornice di imposta modanata. Lo spazio
più significativo è però quello costituito dal
presbiterio e dal corpo trasversale con le due
cappelle laterali affrontate, oggi dedicate a San
Giovanni Battista (a sud) e all’Immacolata (a
nord), che, per ampiezza e morfologia, acquisiscono dignità di transetto. Prima dei restauri
del 1980 il pavimento delle due cappelle era
sopraelevato rispetto a quello dell’aula centrale.
Le due cappelle sono coperte con volta a
botte, impostata su un’ampia fascia modanata,
dotata di trabeazione. Quest’ultima presenta,
solo per la cappella di San Giovanni, una lavorazione a motivi geometrici, in adesione ai
canoni stilistici e decorativi del sottarco a lacunari che divide il catino absidale dal presbiterio (fig. 4).
La cappella dell’Immacolata è stata invece
annessa solo nei primi anni del Novecento per
volere dei coniugi benefattori Marianna Usai e
Antonio Giuseppe Tolu, riprendendo le proporzioni e le linee decorative della preesistente
cappella, compreso l’oculo reniforme di
memoria settecentesca
Singolare è, inoltre, la soluzione di copertura
dell’incrocio tra l’aula e il transetto, risolta
mediante volta a botte con asse nord-sud,
ovvero in continuità con le volte delle cappelle
laterali, ma impostata ad una quota superiore.
Fig. 2 - Lapide a memoria della fondazione della chiesa.
Fig. 3 - Planimetria attuale della chiesa.
Fig. 4 Trabeazione decorata nella cappella di San Giovanni.
Il costruito monumentale
Fig. 5 - Cappella dell’Immacolata.
Fig. 6 - Veduta verso il presbiterio.
Questa sistemazione fa sì che l’attuale aula
centrale rappresenti di fatto uno dei bracci
della croce planimetrica venutasi a determinare
solo dopo le recenti annessioni (figg. 5-8).
Ulteriori approfondimenti meriterebbero, a
questo proposito, le due finestre unghiate ricavate nella volta a botte centrale, rivolte rispettivamente verso la controfacciata e verso l’abside. Quest’ultima è però attualmente obliterata. Analoghe unghie con aperture sono presenti in entrambe le cappelle laterali. Un’altra
apertura doveva essere presente nel muro oltre
l’arco di accesso alla cappella di San Giovanni,
come testimonia la nicchia con davanzale
modanato ancora leggibile sul paramento intonacato.
Fig. 7 - Cappella di San Giovani Battista.
La porzione più antica della chiesa è però il
presbiterio, coperto con volta a crociera e
gemma pendula in chiave raffigurante la
Vergine Orante. La volta è impostata su
peducci due dei quali sono scolpiti con figure
antropomorfe, una maschile e una femminile
(figg. 9-10). Il catino che copre l’esedra absidale è intagliato a conchiglia e presenta
all’apice un motivo a sei foglie, allegoria dei
doni dello Spirito Santo (fig. 11). Anche il sottarco, scomposto in lacunari, è decorato con
motivi fitomorfi, tipici della tradizione decorativa sarda diffusi tra la fine del ’500 e l’inizio
del ’600, così come le paraste sono contraddistinte dal tipico ordine modulare7 ampiamente
diffuso nell’architettura sassarese contempora-
Fig. 8 - Controfacciata .
nea, articolato in bugne verticali alternate a
riquadri decorati a motivi fitomorfi, tratti dalla
iconografia popolare. Esempi simili si ritrovano
a Bonorva o nella chiesa della Madonna della
Salute a Pozzomaggiore. Sulla pietra di volta
del catino, durante i restauri del 1980 è stato
portato alla luce il bassorilievo con la figura di
San Gavino a cavallo.
Un discorso a parte merita la sacrestia la cui
volta, decorata con un bassorilievo in stucco di
semplice fattura, ma sicuramente commissionato a stuccatori di provenienza non locale, e
realizzato forse a più mani, data la difformità di
tecnica esecutiva tra i diversi elementi vegetali
rappresentati, ma di cui purtroppo non è stato
possibile rintracciare alcuna notizia. Non è
55
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
Fig. 9 - Peduccio sud.
Fig. 10 - Peduccio nord.
Fig. 11 - Catino absidale.
neppure da escludere che una simile decorazione potesse essere presente anche in altre
porzioni della chiesa. Infatti la statua lignea del
San Giovanni Battista, la balaustra e gli altari in
legno rimossi nei primi anni del XX secolo,
lasciano la possibilità all’ipotesi che potesse
esistere una sovrastruttura barocca della chiesa
ormai perduta.
Relativamente al prospetto, la semplice facciata
è del tipo piano con coronamento a capanna,
fortemente caratterizzata dal portale timpanato
con nicchia e oculo. Simili composizioni si
ritrovano in molte chiese della Sardegna.
Alcuni esempi sono il San Teodoro a
Paulilatino, il Sant’Andrea a Giave, Santa Maria
Maggiore a Bonorva, e anche la parrocchiale di
San Giorgio a Semestene, nella partitura centrale, presenta caratteristiche similari. La nicchia ospitava la piccola statua della Madonna
con bambino, oggi collocata all’interno della
chiesa (fig. 12).
Addossato al prospetto sud della chiesa era
situato il vecchio cimitero. Alcuni documenti
conservano interessanti prescrizioni legate alle
pratiche della sepoltura e in particolare agli
oneri dovuti in funzione delle onoranze richieste8.
In merito alla storia recente della parrocchiale
e delle sue vicende costruttive e non, ci è pervenuto un interessante diario di don Renato
Loria, che ripropone una lettura degli eventi
della comunità ed appunta le spese occorse
per la realizzazione di alcuni interventi di
manutenzione. Nel 1885 sono documentati
pagamenti al muratore Salvatore Piu per il riattamento del cappellone. Nel 1886 si dovette
procedere al riattamento esterno del muro laterale della chiesa, nonché alla sostituzione del
pavimento a “ismaldu” in terra battuta con
ardesie e marmetti. Tra il 1861 e il 1866,
essendo rettore Franciscus Alojsius Solinas
vennero anche ripristinati gli infissi, e si
dovette procedere al riattamento interno, intonaco e bianco, all’apertura di cinque fine-
strini, uno in sacrestia e cinque in chiesa,
rifatto il portone in legno di pino, la porta del
cimitero lavorata alla sarda, fu anche restaurata la porta della sacrestia e la balaustra dell’altare maggiore.
È del 1888 la nuova pila per l’acqua santa,
costata £. 25, cui fece seguito, nel 1893 la
costruzione del fonte battesimale.
Si tratta per lo più di lavori di manutenzione.
Le più grandi trasformazioni si ebbero, invece,
sul principio del XX secolo che si apre, nel
1900, con la riparazione dei tetti. L’anno successivo vennero tinti a finto marmo i gradini e
il frontone dell’altare maggiore, sostituito nel
1917 con l’attuale in marmo.
Nel 1904 si eseguirono lavori nella cappella di
San Giovanni, si sostituì la porta della sacrestia,
ma soprattutto venne innalzato il campanile, di
cui la chiesa difettava, costato circa tremila lire
messe a disposizione dai coniugi Marianna
Usai e Antonio Giuseppe Tolu.
Agli stessi benefattori si deve nel 1916 la
56
Il costruito monumentale
Fig. 12 - Facciata e portale.
costruzione di una nuova balaustra e nel 1917
la sostituzione dell’altare maggiore con l’attuale
in marmo. Analoga sorte toccò all’altare ligneo
nella cappella di San Giovanni Battista che
ospitava il simulacro ligneo del Seicento,
ancora oggi conservato nella stessa cappella.
Entrambi gli interventi della torre e del rinnovo
degli arredi sono documentati da una lapide
commemorativa. Tale pratica, più che ad una
improponibile ispirazione boitiana di documentazione delle stratificazioni architettoniche,
si deve al desiderio di immortalare la solita
munificenza9 dei benefattori.
Altri interventi sono documentati nel 1940
mentre era di stanza a Muros il II Gruppo
Artiglieria Reggio Calabria. Il pulpito, del 1951,
è invece stato donato dai coniugi Salvatore
Marche e Giovanna Maria Morella.
Il 12 novembre 1963, in seguito ad una istanza
presentata dal Comune di Muros, il parroco
don Loria, ottenne dall’economo ordinario diocesano l’autorizzazione all’abbattimento della
vecchia casa parrocchiale, fatiscente nonostante i diversi restauri del 1897-98 e del 1908.
L’edificio venne quindi raso al suolo e ricostruito a partire dal 1969 sulla parte destra della
chiesa ove era situato il vecchio cimitero.
Anche lo spazio antistante la chiesa ha subìto
delle modifiche. L’attuale scalinata ha sostituito
la preesistente ottagonale che caratterizzava il
piccolo sagrato, sacrificato alle esigenze della
percorribilità veicolare. Di fronte alla chiesa, si
conserva ancora un’antica casa, di pertinenza
religiosa, l’affitto della quale si applicava, nel
1837, al culto della Vergine del Buoncammino.
57
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
Figg. 13-14 - Planimetria e profili del primo progetto di costruzione del cimitero, recante il visto dell’ingegnere capo
dell’ufficio del Genio Civile di Sassari apposto in data 29 marzo 1924.
IL
CIMITERO MONUMENTALE
Dopo la dismissione del piccolo cimitero attiguo alla chiesa parrocchiale, le Comunità di
Muros e Cargeghe hanno provveduto alla
costruzione del nuovo cimitero monumentale
in località Baiolu Mannu. Il progetto è stato
avviato nel 1923 dal cav. ing. Gavino Canalis,
che nella relazione esplicativa al progetto10,
58
descrive le necessità che hanno portato all’avvio della nuova opera pubblica. Il paese, di
500 abitanti, poteva contare in quel momento
del solo cimitero addossato alla chiesa, che
occupava una superficie di circa 60 mq.
Questo stato di cose aveva come conseguenza
il fatto che dovessero essere esumati i cadaveri
per poter consentire nuove sepolture.
Fig. 15 - Finestre rastremate nel prospetto del cimitero
monumentale.
Il terreno prescelto per la nuova opera, situato
a circa 200 metri a valle dell’abitato, era raggiungibile mediante una strada vicinale la
quale, rettificando qualche muro a secco, può
essere resa carrozzabile.
L’ingegnere dichiara in relazione di aver largheggiato sul dimensionamento dell’area, su
esplicita richiesta della stessa Amministrazione,
Il costruito monumentale
onde far fronte a casi di epidemia, in cui la
mortalità viene più che triplicata, e in considerazione dell’aumento del numero degli abitanti. Compresa una zona di rispetto, l’area dell’esproprio venne stimata in 2.016 mq.
L’area rettangolare compresa nel recinto di
perimetro 23x36 m, secondo il progetto è suddivisa in quattro quadrati, collocando nel centro una colonna recante la croce. Lateralmente
all’ingresso sono progettati due vani di servizio, uno adibito a camera di deposito, l’altro
dedicato alle autopsie delle dimensioni di
5x3,50 m e altezza media 3,50 m, pavimentate
rispettivamente con quadrelle di Livorno e
quadrelle di cemento a pressa.
Nella parete opposta è collocata la cappella
con sottostante ossario. La cappella ha dimensioni 6x8 m per 6 m di altezza, coperta con
volta in mattoni forati. Al di sotto, l’ossario è
coperto a volta e munito di bottola. Le ferramenta di porta e finestre hanno spessore sufficiente per la loro resistenza e durata. Tutte le
finestre sono munite di inferriate. Attorno ai
muri di cinta, alti 3 m, è prevista una fascia di
2 m per tombe private (figg. 13-14). La spesa
complessiva stimata è di £. 62.000.
Il progetto ha poi subìto diverse modificazioni
prima dell’attuale realizzazione. Le prime
varianti vengono richieste dalla Prefettura di
Sassari in quanto la superficie stimata è ritenuta
eccessiva in rapporto alla mortalità di 100
individui in 10 anni, e pertanto si richiede di
rivedere il progetto e i relativi espropri, evidentemente da ridimensionare11. Sulla base di
questo progetto, il 25 marzo 1926 si tiene il
secondo esperimento d’asta per la costruzione
del cimitero a mezzo di schede segrete ed a
unico e definitivo deliberamento, procedura
opportunamente pubblicizzata tramite la
stampa locale12.
Con sollecito del 18.03.1927 il Comune di
Muros invita l’ing. Canalis a provvedere alla
revisione del progetto con l’aggiornamento dei
prezzi sulla base delle indicazioni fornite
dall’Ufficio del Genio Civile. L’archivio storico
del Comune conserva il computo metrico a
firma dell’ing. Canalis della perizia del 1927.
Ancora nel 1929, dopo il sopralluogo della
apposita Commissione Tecnico Sanitaria13, il
progetto viene rinviato all’ingegnere perché lo
integri secondo le indicazioni suggerite
dall’Ispettore Superiore del Genio Civile
addetto al Provveditorato14. In particolare
viene richiesta la sezione del terreno per il
computo dei movimenti di terra, qualche particolare costruttivo in ispecial modo decorativo,
alla scala 1:10 e la tabella delle espropriazioni,
tenendo conto delle correzioni in matita apportate.
Con lettera del 26/02/193015 la prefettura di
Sassari informa il comune che il progetto compilato dall’ufficio del Genio Civile di Sassari è
stato esaminato dall’Ispettore Superiore
addetto al Provveditorato alle Opere Pubbliche
ed è provvisto del regolare visto di approvazione. Nel settembre del 1930 prendono avvio
le procedure per l’espletamento della relativa
gara d’appalto per un importo di £. 133.00016.
I lavori di costruzione, eseguiti dalla ditta Usai,
furono collaudati nel 193117. Di esso si conserva il fronte principale con le cappelle cimiteriali affrontate, disposte secondo uno strin-
gente criterio di simmetria e caratterizzate da
quattro finestre rastremate (fig. 15). Interessanti
anche alcune cappelle di famiglia sia nella
parte competente al Comune di Muros che in
quella di Cargeghe. Dopo i recenti lavori di
restauro, i fabbricati si presentano in ottimo
stato di conservazione.
LA
FONTE PUBBLICA E L’ACQUEDOTTO
La fonte pubblica è stata costruita alla sommità
della via Principe Umberto nella seconda metà
del XIX secolo ad opera di maestranze locali,
per rendere fruibile alla popolazione l’acqua
dell’attigua sorgente. Contraddistinta da una
planimetria regolare, la muratura in elevato è
realizzata in cantoni di calcare ben squadrati
posti in opera su corsi regolari con spessi commenti in malta di calce. Nel prospetto, una nicchia appena accennata in profondità è conclusa da un arco di scarico; al di sopra il cornicione aggettante nasconde il profilo a timpano ribassato del tetto a due falde.
Prima che venisse collocato il tubo centrale,
l’acqua sgorgava direttamente attraverso due
cannule posizionate sui mascheroni. Questi
danno alla semplice composizione un tono di
elegante monumentalità. La vasca di raccolta,
preceduta da tre scalini, viene sporadicamente
utilizzata anche come lavatoio, dopo la recente
demolizione di quello ottocentesco al posto
del quale sorge oggi la cabina dell’Enel18 (figg.
16-17).
La datazione è suggerita da un verbale d’adunanza della Giunta municipale del 3 settembre
1891 conservato presso l’archivio comunale
che informa che il pubblico lavatoio trovasi in
59
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
disordine, occorrendovi riparazioni nel pavimento, essendo consumato quello esistente
come pure occorre rimettere le pietre del
davanzale o del parapetto19.
Sono ancora documentate, successivamente,
altre riparazioni alla fonte e al lavatoio a partire dai primi anni del Novecento. Nel 1916,
negli atti del Consiglio Comunale si fa presente
che il pubblico lavatoio ha bisogno di essere
ingrandito e modificato, onde evitare che
alcune malattie si possano comunicare da una
famiglia a un’altra; come pure si è riconosciuto
il bisogno di modificare l’uso del lavare delle
nostre donne di servizio e delle nostre massaie;
e ciò affinché l’acqua sia rinnovata con maggiore frequenza e rimanga più pulita. Tuttavia
non fu possibile in quel frangente avviare i
lavori di riparazione e ampliamento perché
non si disponeva dei materiali da costruzione
necessari il cui costo era ormai salito a prezzi
favolosi. Pertanto il consiglio, pur approvando
il progetto dei lavori, sospende di deliberare in
merito sino a che non sia terminata la
guerra20.
Il 24 luglio 1921, il consiglio comunale, riunito
in seduta straordinaria, rileva che “la fonte pubblica da cui attinge e si provvede l’acqua necessaria al paese, ha bisogno di urgente riparazione e la giunta ha affidato lo studio all’ingegnere cav. Gavino Canalis, il quale si è recato
sul posto e ha comunicato a questa
Amministrazione una apposita relazione”. I
lavori consistevano nella rimozione della vegetazione sovrastante, nella costruzione di un
pozzetto di presa in muratura idraulica coperta
con volta in mattoni intonacati a cemento con
60
la platea e l’estradosso in cls, opere stimate in
2.000 lire attinte, per l’urgenza dell’opera dal
fondo depositato dall’amm.ne comunale
presso “Cassa postale di risparmio” in due
distinti libretti, dando incarico che venisse eseguito con la massima celerità. I lavori erano
finalizzati all’aumento della portata e ad impedire l’inquinamento dell’acqua.
Il 17 aprile 1922 il consiglio comunale, riunito
in seduta ordinaria primaverile, delibera di prelevare altre 5.000 lire per i lavori da eseguirsi
sulla tubatura della fonte pubblica in quanto
l’ing. Canalis aveva ravvisato delle perdite e
l’intorbidamento dell’acqua durante la stagione
delle piogge. Nei documenti si ritrova la preoccupazione per la situazione della fonte pubblica e il pericolo di condannare la popolazione ad approvvigionarsi d’acqua dalle fonti
di campagna collocate a notevole distanza dall’abitato e non sufficientemente affidabili sotto
il profilo della salubrità perché scaturite direttamente dal suolo e quindi facilmente inquinabili.
Verificato che la fonte attingeva da filtrazioni e
non direttamente dalla polla, l’ing. Canalis propose alcuni lavori di sistemazione tra cui le
opere per la ricerca delle sorgenti e la realizzazione della relativa galleria di accesso, scavata
in trincea, la sostituzione delle tubazioni in
cotto con tubi metallici e la realizzazione di un
serbatoio. Una lettera del 1925 dell’ing. Capo
P.L. Carloni, dichiara, a distanza di due anni
dalla realizzazione, avvenuta nel 1923, la
buona riuscita dei lavori e il regolare funzionamento degli impianti.
Il problema dell’approvvigionamento idrico e
Fig. 16 - Il vecchio lavatoio pubblico recentemente demolito.
Fig. 17 - Attuale sistemazione dell’area dove sorgeva il lavatoio.
Il costruito monumentale
Fig. 18 - Attuale stato di degrado della fontana.
della qualità dell’acqua è stato sempre molto
sentito nel territorio di Muros e in tutti i
comuni del I Circondario, come si evince dalla
fitta corrispondenza tra le Amministrazioni
Comunali e la Prefettura di Sassari a partire
dagli anni Venti dello scorso secolo. Una lettera
del 6 dicembre 1923 inviata dalla Prefettura
segnala che “non ostante i ripetuti richiami e le
disposizioni in precedenza impartite, la sorveglianza sulle sorgenti, sulle rispettive zone di
protezione, sui serbatoi per l’alimentazione
idrica dei centri abitati viene […] qua e là trascurata dalle autorità locali e che il controllo
igienico da parte degli ufficiali sanitari sulla
manutenzione e cura delle suddette opere
viene esercitata troppo saltuariamente o talvolta in modo inadeguato”.21
Bisogna, infatti ricordare che esistevano apposite agevolazioni governative per la derivazione delle acque per uso pubblico a mezzo di
apposito acquedotto22.
In vista del Piano Regolatore delle Opere
Pubbliche avviato dal Ministero dei Lavori
Pubblici nel 1924, tenuto conto dell’importanza
degli acquedotti per il miglioramento delle
condizioni igienico-sanitarie delle popolazioni,
già dal marzo del 192423 venne richiesto ai
comuni un censimento dei sistemi di approvvigionamento idrico nei loro territori e in particolare la disponibilità d’acqua in relazione al
numero di abitanti, l’esistenza o meno di un
acquedotto e, nel caso di risposta affermativa,
se fosse ritenuto sufficiente, o se, in assenza di
acquedotti, il comune disponesse di una o più
fontane, specificando la loro ubicazione
rispetto al centro abitato.
L’alimentazione idrica dei centri abitati era
infatti sentita come “il problema più importante
per quest’isola” e pertanto si raccomanda che
“alle opere riguardanti detta finalità sia assegnato il primo posto”.24 Anche Muros si attivò
per la costruzione dell’acquedotto che nel 1924
è già in progetto25, ma si dovrà aspettare gli
anni Cinquanta per vederlo interamente ultimato.
L’importanza strategica della fonte pubblica
emerge con continuità nei documenti dell’epoca e una loro rilettura consente di comprendere la scelta monumentale fatta nella progettazione del manufatto.
Attualmente la fonte pubblica è pressoché
abbandonata, dopo i grossolani restauri compiuti mediante ristilature e rappezzi di cemento
(fig. 18).
Anche l’ambiente circostante andrebbe ripulito, assicurando la continua manutenzione del
manufatto e del suo ambiente, ormai piuttosto
snaturato dalla attigua presenza del locale
Enel.
61
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
NOTE
1 VUILLIER G., Les îles oubliées: les Baléares, la Corse et
la Sardigne, impressions de voyage, Parigi 1893. Nella
riedizione Le isole dimenticate la Sardegna, a cura di A.
Romagnino, ed Ilisso, 2002, pp. 110-111.
2
Cfr. IBBA A., Il miliario di Nerone di Scala di Giocca, in
questo stesso volume.
3 Nella riedizione, Viaggio in Sardegna, tradotta da M.G.
Longhi, ed. Ilisso, Nuoro 2003, pp. 58-59.
4
8 Una nota del sacerdote Antonico Cerchi, rettore tra il
1829 e il 1837, in merito alle funzioni di sepoltura
scrive che “non si paga la croce Parrocchiale negli associati di cadaveri se il sacerdote veste la sola stola e
cotta. Se si richiede l’Apparato per l’associamento di un
cadavere che è rarissimo si richiedono 10 lire. I poveri si
accompagnano gratis nel cimitero e senza cera fumaria.
9
Citato da diario di Don Renato Loria, p. 8. Archivio
Parrocchiale Muros.
V. Angius, Geografia, Storia e Statistica dell’isola di
Sardegna in G. Casalis (a cura di), Dizionario Geografico
Storico-Statistico-Commerciale degli Stati di S.M. il re di
Sardegna, vol. XVIII quater, Sardegna, III, Torino 1856,
pp. 159, 203-207.
Lettera del Prefetto di Sassari al sig. Podestà di
Cargeghe del 13/09/1923, prot. 14172. Oggetto: Mutuo
di £. 62.000 per il cimitero (ASCM).
5
12
Sulla storia della famiglia Martinez cfr. TOLU F., La presenza nobiliare a Muros attraverso l’evoluzione degli
stemmi di casa Martinez, in questo stesso volume.
6
Per approfondimenti sulle indagini archeologiche si
rimanda a ROVINA D., Sepolture di epoca basso medievale
presso la chiesa dei Santi Proto, Gavino e Gianuario, in
questo stesso volume.
7
Per ordine modulare si intende la ripetizione di elementi
geometrici che conferiscono all’ordine architettonico una
forte sensazione di verticalismo. Il modulo può essere
costituito da un quadrato, un rettangolo, un cerchio, ma
anche da motivi decorativi fitomorfi, tratti dalla fantasia
popolare. Sull’ordine modulare cfr. FAGIOLO M., voce
L’ordine modulare, in “Grammatica e sintassi del “gran
libro dell’architettura”. L’ordine e il disordine. La griglia e
il magma” in Barocco Latino Americano, Catalogo della
mostra, Roma 1980, p. 84, Sull’ordine modulare in
Sardegna cfr. KIROVA K.T., FIORINO D.R., Le architetture religiose del barocco in Sardegna, Cagliari 2003, p. 103.
62
10
Archivio Storico Comune di Muros (ASCM).
11
Quotidiano L’isola, mercoledì 3 marzo 1926 (ASCM).
13 Lettera del Prefetto di Sassari al sig. Podestà di
Cargeghe del 26/01/1929, prot. 1213. Oggetto:
Cimitero di Cargeghe-Muros (ASCM).
14
Lettera del Prefetto di Sassari al sig. Podestà di
Cargeghe del 31/05/1929, prot. 9198. Oggetto:
Costruzione cimitero (ASCM).
15
Lettera del Prefetto di Sassari al sig. Podestà di
Cargeghe del 26/02/1930, prot. 3758. Oggetto:
Cargeghe-Muros Cimitero (ASCM).
16
Lettera del Prefetto di Sassari al sig. Podestà di
Cargeghe del 18/09/1930, prot. 19965. Oggetto:
Cimitero (ASCM).
17 Lettera del Prefetto di Sassari al sig. Podestà di
Cargeghe del 15/12/1931, prot. 24067. Oggetto: Avvisi
ad Opponendum (ASCM).
18 La fotografia del lavatoio è stata gentilmente messa
a disposizione da Chiara Soggiu.
19
Verbale d’adunanza della Giunta municipale, 3 settembre 1891. Oggetto: Erogazione di somma della
spesa occorrente alle riparazioni del pubblico lavatoio
(ASCM).
20 Estratto del Registro per gli atti del Consiglio
Comunale, 15/10/1916. Oggetto: riparazioni da
eseguirsi alla fonte e al pubblico lavatorio (ASCM).
21
Lettera da R. Prefettura di Sassari, prefetto
Maggioni, ai Sigg. Sindaci I Circondario. Oggetto:
approvvigionamento idrico. Prot. Sanità 1180, del
6.12.1923. Archivio Storico Comune di Muros (ASCM).
22 Lettera da R. Prefettura di Sassari, prefetto
Maggioni, ai Sigg. Sindaci I Circondario. Oggetto:
acquedotti. Prot. Sanità 1151, del 27.11.1923 (ASCM).
23
Lettera da R. Prefettura di Sassari, prefetto
Maggioni, ai Sigg. Sindaci I Circondario. Oggetto:
acquedotti. Prot. Gabinetto 457, del 28.03.1924
(ASCM).
24
Lettera da R. Prefettura di Sassari, prefetto
Maggioni, ai Sigg. Sindaci I Circondario. Oggetto: Piano
regolatore di opere pubbliche in Sardegna. Prot. Sanità
8671, del 18.06.1924 (ASCM).
25
Lettera da Sindaco a R. Prefettura di Sassari, prot.
466 del 08.11.1924.
SEPOLTURE
DI EPOCA BASSO MEDIEVALE
PRESSO LA CHIESA DEI SANTI PROTO, GAVINO E
GIANUARIO
Daniela Rovina
Fig. 1 - Muros (SS). Veduta della chiesa dei Santi Proto,
Gavino e Gianuario.
Nell’ottobre 1992, in occasione dei lavori di
restauro nella chiesa dei Santi Proto, Gavino e
Gianuario nel centro abitato di Muros, è stato
condotto un breve intervento di scavo archeologico nella sacrestia meridionale dell’edificio,
dove, appena sotto il massetto della pavimentazione moderna, affiorava la copertura litica di
una grande tomba “alla cappuccina”1 (fig. 1).
La parte più antica della chiesa a croce greca è
rappresentata dall’abside cinquecentesca, mentre gli altri tre bracci sembrano essere stati edificati, insieme alla sacrestia, nella seconda metà
del XVII secolo, con un completamento ottocentesco.
Le indagini archeologiche hanno evidenziato la
destinazione funeraria dell’area in un momento
antecedente alla costruzione della chiesa cinquecentesca, forse in relazione ad un precedente edificio di culto. Al di sotto del pavimento della sacrestia sono infatti venute in luce
alcune sepolture di diversa tipologia, ascrivibili
ad epoca basso medievale: due tombe di notevoli dimensioni, orientate in senso est-ovest, e
con copertura litica a doppio spiovente, tre
sepolture in fossa terragna delimitate da un
muretto a secco, ed un ossario (fig. 2-3).
Una sepoltura “alla cappuccina”2 di grandi
dimensioni era situata lungo il lato settentrionale della sacrestia, parzialmente danneggiata
dalla fondazione del muro perimetrale dell’abside, evidentemente posteriore. Risultava costituita da una fossa ovoidale rivestita lungo il
perimetro interno con pietrame medio-piccolo
disposto accuratamente, con copertura, parzialmente danneggiata, realizzata mediante
grandi lastre calcaree disposte a doppio spiovente; delle lastre poste di taglio alle due
testate, si conservava quella occidentale, di
forma quadrata, con una croce incisa su
entrambe le facce.
All’interno si custodivano i resti scheletrici di
un inumato adulto, orientato ad est e deposto
con le gambe distese e le mani raccolte in
grembo, privo di elementi di corredo.
Quasi al centro della sagrestia si trovava un’altra tomba “alla cappuccina”, di fattura analoga
ed uguale orientamento, rivestita internamente
con pietre irregolari di medie dimensioni, una
grande lastra naturale posta di taglio alla testata
orientale, e quattro grandi spioventi litici per
parte nella copertura. All’interno, sul piano di
posa di terra, erano deposti due inumati adulti
63
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
affiancati (uno dei quali lacunoso nella parte
inferiore) privi di qualunque elemento di corredo o di ornamento personale. Nell’angolo
sud occidentale erano inoltre accumulate, in
deposizione secondaria, alcune ossa lunghe e
due crani, che documentano un prolungato
utilizzo della tomba.
Ad una quota leggermente superiore ed in
posizione adiacente al lato meridionale di questa tomba, sono state individuate altre tre
sepolture in semplici fosse terragne orientate
ad est e disposte all’interno di una delimitazione con pietre a secco; la posizione del
recinto quasi addossato alla cappuccina
potrebbe forse individuarne l’appartenenza ad
un gruppo familiare. Si trattava di un individuo
adulto, deposto con due bambini, uno più
grande ed uno più piccolo, poggiati sul petto.
L’individuo adulto presentava oltre quaranta
piccole asole di rame disposte in due file doppie verticali sul torace e lungo le braccia dal
gomito al polso, evidentemente per il passaggio di stringhe o nastri per allacciare il corpetto
della veste e le maniche (fig. 4).
Inoltre, in posizione non chiara, forse in relazione alle sepolture infantili, sono stati rinvenuti tre bottoncini sferici, anch’essi di rame, a
doppia calotta saldata sulla linea centrale, di
un tipo ben noto in Italia ed in Europa a partire dal XIII secolo, ed in Sardegna soprattutto
tra XIV e XV secolo3.
Nell’angolo nord-ovest infine, di fronte all’ingresso della sacrestia, si trovava parte di una
tomba, tagliata dal muro meridionale dell’abside, fondato direttamente su di essa, costituita
da una fossa rettangolare, orientata in senso
64
nord-sud, priva di copertura, delimitata da
muretti di pietre disposte con regolarità e
cementate con malta di fango. La tomba, forse
originariamente adibita a sepoltura individuale
data la scarsa profondità, nel suo ultimo
momento di utilizzo fungeva da ossario, contenente al momento dello scavo oltre venti crani
ed ossa umane di ogni tipo, sia di adulti che di
bambini. Nel riempimento, costituito prevalentemente da ossa con pochissima terra, si trovavano una moneta piemontese di XII-XIII
secolo4, e parte di una coppa di maiolica barcellonese a lustro metallico e decorazione “a
tripe trazo” databile alla fine del XVI secolo. Se
questo ultimo reperto è verosimilmente riferibile al momento dell’edificazione dell’abside,
la moneta, probabilmente appartenente ad una
della sepolture confluite nell’ossario in deposizione secondaria, costituisce la testimonianza
più antica del cimitero, in uso, sulla base delle
asole e dei bottoncini sferici, almeno fino al
XIV-XV secolo.
Le sepolture della chiesa dei Santi Proto
Gavino e Gianuario costituiscono, allo stato
attuale delle conoscenze, l’unica testimonianza
archeologica di epoca medievale nell’abitato di
Muros, e sembrerebbero avvalorare l’ipotesi
della coincidenza del paese moderno con
l’omonima villa di età giudicale, appartenente
alla Curatoria di Figulinas nel giudicato di
Torres, citata nei Condaghi di San Michele di
Salvennor e di Santa Maria di Bonarcado5.
Nel 1545 il villaggio di Muros risulta venduto,
insieme a quello di Ossi, da Galcerando
Cedrelles a Bernardo di Viramont, e successivamente a Durante Guiò di Alghero, i succes-
Fig. 2 - Planimetria generale e sezione N-S dell’area di scavo.
Fig. 3 - Planimetria e sezioni delle tombe alla cappuccina e
dell’ossario in fase di scavo.
Sepolture di epoca basso medievale presso la chiesa dei Santi Proto, Gavino e Gianuario
sori del quale, nel 1656, lo cedettero a Don
Francesco Martinez, che fece costruire, conservando l’abside precedente, l’attuale chiesa
dei Santi Proto, Gavino e Gianuario con la
sacrestia6.
luogo nel 1993, in territorio di Florinas, vicino alla
chiesa distrutta di San Salvatore.
medievale nelle curatorie di Romangia e Montes,
Flumenargia, Coros e Figulinas, Nurra e Ulumetu, in “La
Civiltà Giudicale in Sardegna nei secoli XI-XIII. Fonti e
documenti scritti”, Atti del Convegno nazionale
(Sassari 16-17 marzo, Usini 18 marzo 2001), a cura
dell’Associazione “Condaghe San Pietro di Silki”, Sassari
2002, pp. 395-423, p. 406 e 419.
Fig. 4 - Asole metalliche.
NOTE
1La
notizia dell’intervento di scavo è in D. Rovina,
Muros (Sassari). Chiesa dei Santi Proto, Gavino e
Gianuario, in “Bollettino di Archeologia del Ministero
per i Beni Culturali e Ambientali”, 19-21, 1993, p. 224.
Questa breve nota ne ricalca sostanzialmente il contenuto, con alcune integrazioni e modifiche dovute a
successivi approfondimenti.
2Il
tipo di sepoltura “a cappuccina”, di tradizione
romana, perdura fino alla piena epoca medievale realizzata soprattutto in materiale litico anziché laterizio. In
Sardegna altri esempi sono documentati nel cimitero di
Geridu a Sorso (SS) (M. Milanese). Una sepoltura di
analoga tipologia, danneggiata e lacunosa nella copertura, è stata documentata in occasione di un sopral-
3Per
l’inquadramento, i confronti e la cronologia delle
asole e dei bottoni sferici, cfr. da ultimo D. Rovina,
Gioielli e complementi di abbigliamento in Sardegna, in
“Sardinia, Corsica et Baleares antiquae” An
International Journal of Archaeology, IV, 2006, pp.
193-211.
4Per
l’inquadramento tipologico e cronologico della
moneta, ringrazio il collega Francesco Guido.
5Per
uno spoglio delle fonti documentarie e storiche sul
villaggio medievale di Muros, cfr. G. Canu, D. Rovina, D.
Scudino, P. Scalpellini, Insediamenti e viabilità di epoca
6V.
Angius, Geografia, Storia e Statistica dell’isola di
Sardegna in G. Casalis (a cura di), Dizionario Geografico
Storico-Statistico-Commerciale degli Stati di S. M. il re di
Sardegna, vol. XVIII quater, Sardegna, III, Torino 1856,
pp. 159, 203-207.
65
LE
FONTI E IL PATRIMONIO IMMATERIALE
Francesco Guido
Soltanto nell’ottobre del 2003 l’Assemblea
Generale dell’UNESCO, a Parigi, votava una
Convenzione per la salvaguardia del patrimonio
culturale immateriale. Dopo secoli di pregiudizi
e incomprensioni culturali si arriva al riconoscimento internazionale di patrimoni culturali
diversi da quelli occidentali: i patrimoni <altri>.
Appariva così, di conseguenza, un gravissimo
vuoto nel sistema giuridico internazionale della
protezione del patrimonio culturale dell’umanità
che, fino ad allora, aveva avuto come oggetto
unicamente il bene materiale, a detrimento di
quelle culture differenziate dal prevalere della
caratteristica immateriale. Evidentissimo lo squilibrio, dato che, nella lista dei capolavori dell’umanità, i beni indicati erano tutti di carattere
monumentale e materiale (per la maggior parte
fisicamente ubicati in paesi occidentali), mentre
mancava la rappresentazione di manifestazioni
culturali viventi e in prevalenza immateriali, che
si articolavano nel sud del mondo. Con la proclamazione dei Capolavori del patrimonio orale
e immateriale del 2001 e del 2003 e con la
Convenzione UNESCO del 2003, giungono alla
attenzione di tutti i patrimoni etnici immateriali
che, lasciando il carattere <folclorico>, sovente
venato di considerazioni deteriori, sembrano
rivestirsi subito di una dignità culturale simile a
quella della cultura occidentale. L’uomo occidentale è ancora lontano dalla conoscenza di
culture <altre>, dal riconoscimento della dignità
umana a popolazioni etniche, dall’accettare
l’idea che tutte le società umane producono cultura, ma soprattutto, è privo di quel senso di
autocritica che gli faccia vedere le contraddizioni
e i limiti della propria cultura. La natura umana
ha da sempre avuto timore del <diverso> cosi
come del <troppo simile>; di qui la necessità di
differenziarsi, sempre di più. Dal Settecento in
poi la demoetnoantropologia, nelle sue diverse
espressioni e scuole di pensiero ha reso possibile al pensiero occidentale la visione di nuovi
ed immensi lidi culturali; un esempio per tutti,
ed in epoca più vicina a noi, il contributo del
contenuto del “Ramo d’oro” di J. Frazer. La dinamica dello sviluppo delle società umane va ricercato nelle interazioni tra le diverse maniere di
affrontare i problemi della quotidianità e nello
scambio di esperienze; è l’influenzamento reciproco che porta la <novità>. Ora nella
Convenzione per il patrimonio mondiale culturale e naturale, fin dal 1972, l’UNESCO lancia un
appello per la salvaguardia delle tradizioni orali,
che non ha portato a nulla; solo dal 1980 si è
notata
sensibilità
al
problema,
nelle
Raccomandazioni sulla salvaguardia della cul-
tura tradizionale e popolare. La riflessioni maturate in merito alle differenze delle culture demoetnoantropologiche (DEA, in abbreviazione tecnica) hanno inciso nella definizione del patrimonio culturale immateriale, visto come sorgente di
diversità, creatività, identità, e come cerniera tra
i beni materiali e quelli immateriali, tra l’oggetto
e le dinamiche culturali diacroniche. In ambito
nazionale ci fu un momento di attenzione per
questi beni nel 1978, nel momento in cui si tentava di catalogare queste realtà. Ora, dietro sollecitazione di associazioni culturali come l’AISEA
(Associazione Italiana per le scienze etnoantropologiche) queste realtà sono state riconosciute
come beni culturali e rientrano tra le categorie
tutelate dal Codice dei beni culturali, sono inserite nei titoli delle Direzioni Generali, dei
Dipartimenti, delle Soprinten-denze periferiche,
soprattutto quelle ai beni storico artistici, prive
però della necessaria autonomia. Le stesse professionalità che sono deputate alla cura di questi
beni non sono riconosciute, perché rimangono
ancora collocate tra gli storici dell’arte e gli
archeologi, e difficilmente vedrà la luce in tempi
brevi un Istituto Speciale per i beni
Demoetnoantropologici.
67
BREVI
CENNI SUL VILLAGGIO MEDIEVALE DI IRBOSA
(MUROS-SS)
Alessandro Soddu
Il villaggio di Irbosa, ubicato approssimativamente nell’area di Badde Ivos e Santu
Nenardu, faceva parte nei secoli XI-XIII della
curatorìa di Figulinas, uno dei distretti amministrativi del giudicato di Torres1. Tale curatorìa era costituita dal territorio degli attuali
comuni di Florinas, Codrongianos, Muros,
Cargeghe e Ploaghe, più alcune porzioni degli
odierni territori comunali di Ossi e Banari, per
una superficie di circa 185 kmq. All’interno di
questa area si costituì successivamente la curatorìa di Ploaghe, che doveva comprendere l’attuale territorio comunale dell’omonimo villaggio (circa 96 kmq).
La regione di Figulinas può essere suddivisa in
tre porzioni. La prima è come racchiusa in una
grande conca, delimitata a nord dalle colline di
Osilo e a sud dagli altipiani sui quali stanno
arroccati i centri di Muros, Cargeghe e Florinas:
all’interno si trovano due grandi avvallamenti,
il Campomela e il Campo Lazzari, e modeste
emergenze collinari che creano un alternarsi di
monticelli e piccole valli (Saccargia e
Codrongianos). Le restanti due parti sono costituite, a nord-est, dal territorio di Ploaghe,
dominato dal monte Santa Giulia (617 m), e, a
sud-ovest, dal retroterra di Florinas.
Nella sua massima estensione, la curatorìa
annoverava i centri di Figulinas o Figulinas de
Castellu (odierno Florinas), Cotronianu o
Codrongianus Susu (odierno Codrongianos),
Cotronianu o Codrongianus Josso, Muros,
Carieke (antico Cargeghe, situato a valle
rispetto all’attuale ubicazione), Briave, Contra,
Irbosa, Muskianu o Muscianu, Novalia,
Saccaria o Saccargia, Seve o Sea, Urieke o
Urgeghe, Ploaghe (allora sede vescovile),
Augustana e Salvènnor (questi ultimi tre villaggi andarono a costituire probabilmente la
curatorìa di Ploaghe).
Tra le poche. ma significative notizie relative al
centro di Irbosa, si ha notizia di un’assemblea
giudiziaria (corona) tenuta nel villaggio e presieduta dal giudice di Torres Barisone I
(seconda metà XI secolo)2, mentre il condaghe
del monastero di San Michele di Salvennor
menziona un personaggio originario di Irbosa,
Pietro de Serra, vissuto a cavallo tra XII e XIII
secolo3.
Dopo la caduta del giudicato di Torres, nella
seconda metà del Duecento, l’intera curatorìa
fu acquisita dai marchesi Malaspina, prove-
nienti dalla Lunigiana (regione situata tra
Toscana e Liguria), che si affermarono come
signori territoriali, edificando i castelli di Bosa
e di Osilo a controllo dei distretti di Montes,
Figulinas, Coros, Planargia e Costavalle4. I
Malaspina furono signori di Osilo (cui facevano capo Montes, Figulinas e Coros) fino al
1343, quando il re d’Aragona Pietro IV ereditò
dal marchese Giovanni Malaspina tutti i possedimenti sardi della famiglia.
Nei decenni successivi la corte regia aragonese
procedette a una serie di concessioni di villaggi, terre e opifici in favore di sudditi iberici
e di sardi e còrsi fedeli alla Corona, determinando così un progressivo smembramento del
dominio ex malaspiniano5.
Nel 1358 il villaggio di Irbosa risulta essere
spopolato forse a causa delle guerre o della
pestilenza di metà Trecento: una statistica
fiscale redatta in quell’anno menziona, infatti,
la «villa de Ilvossa, la qual és tota endarrocada,
que no y habita nangú»6.
Nel 1380 il re Pietro IV concede in feudo al
sardo Borsolus Sirgo, abitante di Alghero, le
villas di Orsi (Ossi), e Sae (centro situato
presso Ossi), «sibi invicem contiguas», insieme
69
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
al «saltu de Ilbos, que antiquitus villa esse consuevit»7.
Se il villaggio di Irbosa fu abbandonato dai
suoi abitanti, che probabilmente ripararono nel
vicino centro di Muros, la sua chiesa, intitolata
a San Leonardo, continuò a svolgere per lungo
tempo un ruolo attivo, per quanto non appaia
citata nei resoconti delle decime che le chiese
sarde versarono alla Sede Apostolica tra 1341 e
13598. Nel 1495 il canonico di San Leonardo
era compreso tra gli otto che componevano il
capitolo della cattedrale di Ploaghe9 (la diocesi
venne soppressa nel 1503)10. Ed ancora nel
1688 gli atti della visita pastorale dell’arcivescovo di Sassari Juan Morillo y Velarde registrano l’esistenza della chiesa rurale di San
Leonardo11.
Nel 1843 Vittorio Angius, parlando delle antichità di Muros, dà notizia delle «rovine di un
antico paese che dicono Tatareddu e che
aveva per titolare della chiesa San Leonardo.
Appariscono le fondamenta d’una gran casa
che vuolsi sia stato il palagio marchionale»12. Il
ricordo da parte dell’Angius dello scomparso
villaggio di Tatareddu (letteralmente “piccolo
Thathari”, cioè Sassari)13 e la menzione di
tracce di murature, confermano l’esistenza dell’insediamento medievale di Irbosa nell’area in
cui, nell’estate del 2002, sono stati rinvenuti i
probabili ruderi della chiesa di San Leonardo
ed i segni inequivocabili dell’antica viabilità.
NOTE
1
Cfr. V. ANGIUS, in G. CASALIS, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli stati di S.M. il Re di
Sardegna, vol. 31, Torino, 1833-1856, vol. 6 (1840),
voce Figulina, pp. 625-635; A. TERROSU ASOLE,
L’insediamento umano medioevale e i centri abbandonati tra il secolo XIV ed il secolo XVII, Supplemento al
fascicolo II dell’Atlante della Sardegna, Roma 1974, pp.
44-45; M.G. DONAERA, L’insediamento umano medioevale
nella Sardegna settentrionale: i centri abbandonati della
curatoria di Figulina, Tesi di laurea Università di
Sassari, A.A. 1982-83; A. SODDU, Curatorie e chiese
medioevali. La curatoria di Figulina, Tesi di laurea
Università di Sassari, A.A. 1990-91.
2
Cfr. Il condaghe di San Pietro di Silki. Testo logudorese
inedito dei secoli XI-XIII, a cura di Giulio Bonazzi,
Sassari 1900, scheda 31.
3 Cfr. Il Condaghe di San Michele di Salvennor. Edizione
critica a cura di P. Maninchedda e A. Murtas, Cagliari
San Michele di Salvennor. Patrimonio e attività dell’ab-
70
bazia vallombrosana, Sassari 1997, pp. 82, 96, 198; p.
271 (repertorio toponomastico).
Cfr. P. SELLA, ‘Rationes decimarum Italiae’ nei secoli
XIII e XIV. ‘Sardinia’, Città del Vaticano 1945.
4
9
Cfr. A. SODDU, I Malaspina e la Sardegna. Documenti e
testi dei secoli XII-XIV, Cagliari 2005.
5
Cfr. F. FLORIS, Feudi e Feudatari in Sardegna, I-II,
Cagliari 1996, I, pp. 206-209.
6
Cfr. P. BOFARULL Y MASCARÓ, Repartimientos de los reinos
de Mallorca, Valencia y Cerdeña, in “Collección de documentos inéditos del Archivo de la Corona de Aragón”,
tomo XI, Barcelona 1856, p. 841.
7
ARCHIVO DE LA CORONA DE ARAGÓN, Cancillería, Reg. 1046,
cc. 100r-101v (1380, dicembre 8, Saragozza): edito in
A. SODDU, I Malaspina e la Sardegna. Documenti e testi
dei secoli XII-XIV, Cagliari 2005, doc. 576. Si tratta
molto probabilmente del Bartolo Sirigu infeudato nel
1375 del villaggio di Sennori: cfr. F. FLORIS, Feudi e
Feudatari in Sardegna, cit., I, p. 190, II, p. 513.
8
Cfr. F. DE VICO, Historia general de la Isla y Reyno de
Sardeña, voll 1-7, a cura di F. Manconi, ed. di M.
Galiñanes Gallen, Cagliari 2004, vol. 6, pp. 74, 86-87.
10
Cfr. G. SPANEDDA, Una Diocesi sarda del Medioevo.
Ploaghe, Sassari 1991.
11
ARCHIVIO STORICO DIOCESANO DI SASSARI, Fondo Capitolare,
S.K.4, c. 18v. Cfr. A. VIRDIS, Il sinodo diocesano dell’arcivescovo Giovanni Morillo y Velarde, in “Archivio Storico
Sardo di Sassari”, IV (1978), pp. 85-172.
12
Cfr. V. ANGIUS, in G. CASALIS, Dizionario geografico
storico-statistico-commerciale degli stati di S. M. il Re di
Sardegna, cit., vol. 11 (1843), voce Muros, pp. 611613.
13
Cfr. V. TETTI, I nomi di luogo. Quarta dimensione della
Sardegna, Sassari 1995.
LA
PRESENZA NOBILIARE A MUROS
ATTRAVERSO L’EVOLUZIONE DEGLI STEMMI DI CASA
MARTINEZ
Federico Tolu
Innanzitutto cos’è uno stemma e come sono
nati i primi stemmi? Il vocabolo “stemma” è di
origine greca, στεµµα (adornare, circondare).
Significa anche benda o corona e stava ad indicare la corona d’alloro o il ramo d’ulivo circondato di lana, che portavano i supplicanti
durante le loro cerimonie. Dal momento che
con le corone si soleva adornare le immagini
degli antenati, presso i romani la parola
stemma passò ad indicare l’albero genealogico
le tavole degli avi.
L’uso di figure ornamentali sulle armi risale a
tempi remoti; nel mondo romano l’emblema
più comune era quello dell’aquila; i franchi,
invece, usarono dapprima il leone e più tardi il
fiordaliso.
L’uso di segni distintivi personali su scudi e
corazze si diffuse durante il feudalesimo,
quando i cavalieri, coperti fin sul volto dalla
visiera dell’elmo, avevano assoluta necessità di
farsi riconoscere a distanza; gli studiosi di araldica sono concordi sul fatto che gli stemmi
nascano intorno all’XI secolo dagli emblemi
che venivano riprodotti sulla bandiere degli
eserciti medioevali per identificare i soldati di
un determinato feudatario, quindi, per una
mera esigenza pratica.
Dal momento che i guerrieri erano completamente ricoperti dalle proprie armature non era
possibile in alcun modo identificarli in battaglia: da ciò la necessità di poterli individuare
mediante un emblema araldico sulla bandiera
del vessillifero (colui che portava la bandiera).
Col passare del tempo, intorno al XII secolo
questi emblemi araldici passarono dalle bandiere sulle armature dei guerrieri, in particolar
modo sugli scudi dei soldati e diventarono dei
veri e propri distintivi di riconoscimento e vennero riportati su delle matrici di bronzo in
modo da essere trasferiti su documenti.
Nascono quindi i sigilli araldici, annoverati tra
i caratteri estrinseci di maggior rilievo in un
documento e che in Italia ebbero un uso quasi
esclusivamente limitato ai documenti pubblici1.
Il sigillo altro non è che l’impronta positiva su
una materia plastica, cera o metallo fuso, su
una matrice in negativo di pietra o di metallo,
per lo più bronzo o acciaio.
La materia più comune sulla quale i sigilli vengono apposti è la cera che può essere di diversissimi colori; bianca, rossa, bruna oppure vergine, di colore neutro.
Troviamo però anche sigilli su materiale metallico come piombo, argento od oro: esse pren-
dono il nome di bolle, perché ottenuti con un
globo “bulla” di metallo compresso tra due
matrici.
Il sigillo qui raffigurato è quello della famiglia
Martinez, originaria della Murcia2, che a partire
dal 16573 sino alla fine del 1700, fu feudataria
del villaggio di Muros, piccolo centro ora in
provincia di Sassari e precedentemente agglomerato alla Curatorìa di Figulinas4.
I Martinez, dapprima Signori di Muros, acquisirono il titolo baronale e, sotto il dominio
sabaudo, nel 1762 a partire da Pietro Martinez5,
furono elevati al rango di Marchesi con il predicato di Montemuros.
Si tratta di un sigillo di tipo araldico, ovale6; lo
stemma raffigurato presenta uno scudo semirotondo o gotico moderno7, sormontato da un
elmo a cancelli, chiuso, di pieno profilo a
destra, senza corona, circondato da lambrecchini8.
All’interno dello stemma, al centro, è rappresentato un quadrupede recante un bastone terminante con una croce, dal quale sventola un
vessillo9 quadripartito a coda di rondine.
Il quadrupede potrebbe essere un agnello, anzi
con certezza sarebbe il comune Agnus Dei, già
raffigurato assieme a numerose statue del San
71
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
Giovanni Battista10. L’animale è presentato “in
movimento” con la testa rivolta all’indietro nel
verso del vessillo e la zampa anteriore destra
sollevata (quasi rampante). Forse calpesta un
manto erboso.
Sotto di esso sono presenti tre foglie trilobate,
presumibilmente di vite o fico (molto probabilmente di si tratta di foglie di vite, si veda nota
n. 15), disposte orizzontalmente l’una accanto
all’altra. Non compaiono altri simboli.
È lecito pensare che, poiché lo stemma era
stato eseguito per un sigillo, doveva riportare
esclusivamente i simboli principali della
Famiglia al fine di un rapido riconoscimento su
documenti emanati; ma è pur vero che le
figure peculiari non venivano mai eliminate;
venivano modificati ed adattati quegli elementi
puramente decorativi come svolazzi e montanti
non compromettenti al fine di un riconoscimento della Famiglia e, cosa ben importante,
del suo rango nobiliare.
Talvolta una Famiglia nobile faceva costruire
diversi sigilli per diversi motivi: aggiunta di
simboli in funzione dell’elevazione al rango
nobiliare, erosione della matrice, ecc.
Questo sigillo, a differenza del precedente è un
troncato, sovrastato da una riconoscibile, seppur stilizzata corona tollerata di marchese, circondato non da svolazzi, ma da dei rami, forse
di ulivo.
Compaiono gli stessi simboli del precedente
sigillo (l’agnello e le 3 foglie trilobate di vite)
seppur con qualche diversità: l’agnello non è
più in piedi ma sdraiato che guarda avanti e
contrario è anche il verso del vessillo.
Infine, le tre foglie, in basso, sono rette da un
72
gambo più accentuato. Occorre far notare
come lo stemma presente sul sigillo sia molto
simile alla raffigurazione presente su una
lapide rinvenuta presso la Scuola Materna di
Muros11; si tratta di una lastra marmorea opistografa che presenta da un lato lo stemma,
come nel sigillo appunto, eccezion fatta per
l’agnello evidentemente rampante, e dall’altro
lato un’epigrafe in lingua spagnola, ancora da
decifrare nella sua totalità.
Un altro stemma che ho potuto visionare, probabilmente sempre appartenente alla famiglia
Martinez, consiste in uno scudo sannitico, contenente un troncato, sormontato da una corona
tollerata di Marchese12, con perle grigie disposte a tre a tre l’una accanto all’altra e collocate
sopra altrettante punte.
La fascia esterna della corona è tempestata di
pietre azzurre e rosse alternate, mentre la
fascia interna è di color rosso.
Lo scudo è affiancato da entrambi i lati da due
leoni rampanti, color oro, a bocca aperta e lingua di fuori rivolti verso l’esterno dello scudo,
che, con le zampe anteriori, lo abbracciano.
All’interno della metà superiore dello scudo, al
centro, compare un agnello13 sdraiato, (chiaramente riconoscibile), con le zampe all’interno
e la testa che guarda fuori lo stemma, disteso
su di un libro14 chiuso, color rosso, posizionato orizzontalmente col dorso verso l’interno
dello scudo; stringe tra le zampe anteriori un
bastone ove alla punta è attaccato un vessillo
rosso a coda di rondine, il tutto in campo
azzurro.
Nella parte inferiore compaiono tre foglie verdi
trilobate di vite15, (quasi sicuramente si tratta di
vite potrebbero essere anche di fico o edera,
ma non si sono trovati riscontri in altri stemmi
visionati), eguali, disposte a semicerchio in
campo rosso.
Sotto lo scudo vi è una lista bifida dorata con
la dicitura “MARTINEZ di MONTEMUROS” in
nero.
Questo stemma sembrerebbe essere un’evoluzione di quello presente sulla lapide e sul
sigillo; infatti la lapide porta la seguente datazione “IVNIO MDCLX” ossia “GIUGNO 1660”
anno in cui Muros era solo un possedimento
allodiale, di proprietà del “Don Francisco”16,
qui non appare né corona, né appaiono altri
simboli, come il libro e diversa è la disposizione di quelli già presenti, pertanto si
potrebbe ipotizzare che l’aumento degli elementi araldici sia proporzionale all’elevazione
del rango nobiliare della famiglia, quindi quest’ultimo stemma potrebbe essere quello nella
sua forma definitiva e ultima, cioè della famiglia “Martinez di Montemuros”.
Ciò potrebbe trovare riscontro nel fatto che
quando la Sardegna entrò a far parte dei possedimenti dei Savoia, questi non riconobbero i
titoli nobiliari precedenti poiché rilasciati da
un’istituzione spagnola e comunque non più
attiva nell’isola, pertanto Don Pietro Martinez
dopo aver acquistato vari terreni nelle pertinenze di Muros, fece domanda di infeudazione
ed ottenne dalla nuova Casa regnante l’elevazione al titolo di Marchese col nuovo predicato
“di Montemuros”17.
Lo stemma dei Martinez di Montemuros trova
ancora oggi continuità con l’attuale stemma del
Comune di Muros, concesso con DPR 6 agosto
La presenza nobiliare a Muros attraverso l’evoluzione degli stemmi di casa Martinez
198818. Araldicamente si tratta di un semipartito troncato: nel primo, di rosso, al leone
d’oro, impugnante con le zampe anteriori lo
spino di rovo secco, di nero, posto in palo; nel
secondo, di azzurro, l’agnello pasquale, d’argento, coricato, munito di gagliardetto con il
drappo bifido, posto in banda, di rosso e con
l’asta, posta in sbarra, di nero; nel terzo, d’argento, alla ruota dentata, di rosso, raggiata di
otto, munita di sedici denti, cui sono intrecciate
tre spighe di grano, impugnate, di azzurro.
Sono presenti, ovviamente, ornamenti esteriori
tipici dell’araldica civile.
Occorre infatti notare come nel cantone destro
superiore dell’attuale stemma del Comune di
Muros appaia l’agnello con il vessillo, già presente nello stemma Martinez, seppur rivolto
verso l’interno e senza libro, segno inequivocabile di una continuità nell’attuale identità storica e culturale dell’antica famiglia Martinez di
Montemuros.
loro funzione, in origine, era quella di protezione dell’elmo e quindi del cavaliere dai raggi solari e dalla polvere durante le battaglie, divenne in seguito mero simbolo d’ornamento, cfr. L. Caratti di Valfieri, Araldica,
Milano 1996.
12
NOTE
1
Cfr. A. Pratesi, Genesi e forme del documento medioevale, Roma 1979.
2
Città della Spagna sud-orientale, capoluogo della provincia e della comunità autonoma di Murcia, sul fiume
Segura.
3
Anno in cui viene ufficialmente acquistato il feudo di
Muros ad un’asta, ricavato dalla baronia di Ossi che
apparteneva alla Famiglia Gujo, cfr. Francesco Floris,
Feudi e Feudatari in Sardegna, Cagliari 1996.
4
La Curatorìa comprendeva inoltre i villaggi di Bedos,
Briaris, Cargeghe, Codrongianos, Contra, Florinas,
Ilvossa, Muscianu, Noraja, Ploaghe, Saccargia,
Salvennor, Seve e Urgeghe, cfr. Francesco Floris, Feudi e
Feudatari in Sardegna, vol. I, pag. 156, Cagliari, 1996.
5
Cfr. Francesco Floris, Feudi e Feudatari in Sardegna,
voce “Martinez”, vol. I pag. 209, Cagliari 1996.
6 La forma più comune dei sigilli è quella circolare; esistono poi sigilli ovali, a scudo, a losanga, esagonali ed
ottogonali. Cfr. A. Pratesi, Genesi e forme del documento medioevale, Roma 1979.
7
Tipo di scudo che nasce intorno al XV secolo, sostituito poi dal cosiddetto “scudo sannitico”, cfr. L.
Caratti di Valfrei, Araldica, Milano 1996.
8
Indica gli svolazzi esterni che ornavano lo stemma, la
9
Più precisamente un guidone ovvero una banderuola
formata da una lista di stoffa divisa in fondo in due
punte, cfr. L. Caratti di Valfieri, Araldica, Milano 1996.
10
All’interno della parrocchia dei Santi Gavino, Proto e
Gianuario, a Muros, è presente nella cappella di San
Giovanni, un’antica statua del San Giovanni Battista,
assieme ad un agnello, venerata dai Martinez di
Montemuros; si dice che proprio quella Cappella, dedicata al Santo, fosse stata fatta edificare dai Martinez e
a loro riservata, pertanto non si escluderebbe che la
grande devozione cattolica non abbia portato i
Martinez a scegliere come simbolo dello stemma proprio l’agnello su citato.
11
Si tratta della scuola materna “Maria Immacolata” di
Muros; il sito dove negli anni ’60 è stato costruito
l’asilo era adiacente all’antica casa parrocchiale (oggi
demolita e costruita adiacente alla Chiesa), ed in particolare al cortile dove, secondo fonti orali erano conservati marmi ed altri oggetti provenienti dalla Chiesa,
cfr. Nadia Canu, nella relazione redatta dopo il ritrovamento della lapide.
cfr. L. Caratti di Valfrei, Araldica, Milano 1996.
13
L’agnello è simbolo di pazienza, cfr. G.B. di
Crollalanza, Enciclopedia araldico-cavalleresca.
14 Con tutta certezza si tratta di una Bibbia, o del
Vangelo di Giovanni, comunque di un libro sacro a
rimarcare la fede profondamente cattolica della famiglia Martinez. Il libro è simbolo di sapienza, erudizione,
rispetto della legge ed amore per le scienze, cfr. G.B. di
Crollalanza, Enciclopedia araldico-cavalleresca.
15
La vite è simbolo di unione e concordia, cfr. G.B. di
Crollalanza, Enciclopedia araldico-cavalleresca.
16 Si tratta di “Don Francesco Martinez”, (X 1663),
assessore alla regia governazione di Sassari, che appare
con l’appellativo di “Baron Mon(te) Muros” il quale si
era fregiato appunto del titolo di barone di
Montemuros che aveva assunto infondatamente in
occasione della compera di Muros, villa che faceva
parte della baronia di Ossi; con atto 29 novembre 1658
il procuratore regio Iacopo Artaldo di Castelvì, marchese di Cea, inibiva allo stesso Don Francesco di usare
il titolo di barone, pena la comminatoria di 200 ducati
in caso di disobbedienza, cfr. F. Loddo Canepa,
Cavalierato e Nobiltà in Sardegna, le prove nobiliari nel
Regno di Sardegna, nuove ricerche sul regime giuridico
della Nobiltà Sarda.
73
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
17
Affermazione deducibile da quanto dichiarato in:
Francesco Floris, Feudi e Feudatari in Sardegna, Cagliari
1996.
18
Di seguito si riportano, in ordine cronologico, le
varie segnature di registrazione: Ministero del Tesoro Ragioneria Centrale -Ufficio Controllo Atti PCM n. 491
del 5.9.88; Corte dei Conti n. 9/285 del 20.9.88;
Registro Araldico dell’Archivio Centrale dello Stato del
15.10.88; Registro Ufficio Araldico n. 67 del 5.11.88.
74
ASPETTI
DI CULTURA E TRADIZIONI LOCALI A
MUROS
Teresa Delrio
La ricerca sui beni culturali di Muros ha avuto
come oggetto lo studio del patrimonio artistico
ed etnografico, includendo in quest’ultimo l’insieme di tradizioni e testimonianze della cultura locale, di carattere sia immateriale, come
feste, manifestazioni culturali e testimonianze
orali, sia materiale, come gli oggetti che testimoniano la vita e le attività degli abitanti del
paese, e la sua tradizione gastronomica.
Tra i beni immateriali sono state evidenziate le
feste religiose, le manifestazioni folkloriche, e
la raccolta delle testimonianze orali, con particolare riferimento alle credenze popolari.
Tra gli oggetti della cultura materiale sono stati
catalogati quelli legati alle attività artigianali, al
lavoro dei campi e alla vita quotidiana, ma
anche, in particolar modo, gli abiti tradizionali
del paese.
Come patrimonio artistico è stato rilevato un
unico bene, la tela ad olio della chiesa di San
Gavino, che ha destato particolare interesse
per la storia della sua realizzazione.
Infine è stata evidenziata la tradizione gastronomica, soprattutto relativamente alla preparazione dei dolci tradizionali.
Al fine della catalogazione è stata fondamentale la ricerca sul campo, attraverso le interviste agli abitanti del paese, in particolare ai
membri dell’associazione Pro Loco, spesso
coinvolti nell’organizzazione delle manifestazioni folkloriche. La documentazione è stata
integrata dalla raccolta del materiale fotografico, acquisito in fase di rilevamento, o preesistente, messo a disposizione dagli informatori
o in possesso della stessa Pro Loco.
Il prevalere della ricerca sul campo è stato dettato da ragioni ben precise, infatti, sulle tradizioni di Muros in particolare, non esiste una
vera e propria bibliografia, l’unica fonte bibliografica disponibile è il libro scritto da Tonino
Deriu, attuale presidente della Pro Loco, che
racconta la storia di Muros, dalle prime fonti
medioevali fino ai tempi moderni, attraverso i
ricordi degli anziani e quelli personali dell’autore. La ricerca bibliografica è stata tuttavia un
essenziale strumento di confronto, poiché le
tradizioni e le usanze di Muros si inseriscono
nel comune contesto sardo, in generale, e
logudorese, in particolare, sul quale la bibliografia è molto più ricca.
I
BENI IMMATERIALI
Tra i beni immateriali rilevati, come detto,
emergono in particolar modo le feste e le
manifestazioni folkloriche, la rassegna del coro
“Don Renato Loria”, la rassegna del balletto
“Antonio Francesco Ruju”, la festa di San
Gavino, la festa della Madonna di Buon
Cammino, la festa di San Giovanni, Cantos in
carrela e la festa di Santa Barbara.
Le prime due rassegne presentano varie caratteristiche comuni: sono organizzate nel
periodo primaverile, o estivo, e sono curate
rispettivamente dal coro e dal balletto di
Muros, i cui membri si occupano di invitare
altri gruppi, provenienti da diverse zone della
Sardegna, che si esibiscono nella piazza del
paese con un repertorio composto di testi e
balli tipici del folklore sardo.
È consuetudine offrire ai gruppi ospiti un
pranzo di ringraziamento e ricambiare la partecipazione all’evento, nei loro paesi di provenienza, in occasione di manifestazioni analoghe; questa pratica è detta “a cambiu torradu”
e trova le sue radici nel “do ut des” romano.
Questa tradizione si è conservata fino all’età
contemporanea, in particolar modo nelle piccole comunità agropastorali, e si esprime nel
reciproco scambio di doni e di prodotti delle
proprie attività, come olio, formaggio, uva e
vino, che, spesso veicolati attraverso i bambini,
in particolar modo nei periodi festivi, rinsaldavano rapporti di parentela e amicizia.
Tra le feste più sentite del paese c’è di sicuro
75
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
la festa di San Gavino, patrono del paese, i cui
festeggiamenti iniziano il 23 ottobre e durano
per tre giorni; il momento culminante è il 25,
quando si svolge la processione per le vie del
paese con le statue dei tre Santi, Gavino, Proto
e Gianuario.
È tuttora viva l’usanza di chiamare un predicatore esterno, cioè di un altro paese, che
affianca il prete di Muros nella celebrazione
della Messa, per conferire maggiore solennità
all’evento. Questa usanza viene rispettatata
non solo per la Messa di San Gavino, ma anche
per tutte le altre principali cerimonie religiose
del paese, come la Messa per la Madonna di
Buon Cammino e quella di San Giovanni.
La festa della Madonna di Buon Cammino,
invece, si svolge annualmente nella terza
domenica di settembre ed è seguita dalla processione per le vie del paese con la statua della
Madonna. Questa ricorrenza ha carattere
essenzialmente religioso, anche se a volte,
nella piazza del paese, la serata è chiusa da
musica o altri spettacoli.
Anche la festa di San Giovanni, il 24 giugno, ha
carattere essenzialmente religioso, con la
Messa solenne, ed è seguita dalla processione
con la statua del Santo. Per molto tempo questa ricorrenza non è stata celebrata; solo recentemente ripristinata, la sua organizzazione è
delegata ad un comitato formato essenzialmente da giovani del paese. Durante questa
festa viene organizzato anche il tradizionale
“fogarone”, il falò nella piazza del paese, sul
quale, come in passato, coloro che vogliono
suggellare un rapporto di amicizia, usano saltare insieme, tenendo in mano un lungo
76
bastone e pronunciando delle formule rituali;
dopo aver ballato insieme le coppie formate
sono “compari” e “comari di fogarone”.
Anche a Muros quindi troviamo in questa festa
i due elementi tipici che essa presenta in tutto
il territorio sardo: il fuoco e la creazione di rapporti di comparatico. In passato la festa di San
Giovanni rappresentava il momento di stima
del raccolto che si stava per realizzare, e si
traevano i presagi per gli anni successivi; come
in tutte le feste di passaggio o rinnovamento, il
fuoco, o il falò cerimoniale rappresentava un
elemento purificatorio, e convalidava anche il
legame di comparatico.
Anche la manifestazione Cantos in Carrela è
stata ripristinata solo recentemente, da circa
dieci anni, dopo un periodo di abbandono, su
iniziativa della Pro Loco di Muros. Si svolge
solitamente nei mesi di gennaio o febbraio, ed
è organizzata dal coro di Muros, che invita i
cori dei paesi vicini a partecipare all’evento.
Viene pianificato una sorta di percorso per le
vie del paese, con punti di sosta in alcune vie
prescelte, dove i cori si esibiscono con un
repertorio di canti della tradizione folklorica.
Al termine dell’esibizione le persone che abitano nella via selezionata offrono un piccolo
rinfresco a base di salumi, formaggi e dolci. La
partecipazione dei cori di altri paesi è sempre
regolata dall’uso del “cambiu torradu”.
Dal rilevamento sul campo è emersa inoltre
un’antica festa attualmente abbandonata,
quella dedicata a Santa Barbara. Si svolgeva
fino a circa venti anni fa nei pressi della polveriera di Campomela, località situata a valle del
paese, che ospitava un deposito di munizioni
presidiato da militari, nel giorno di Santa
Barbara, patrona degli artiglieri, il 4 dicembre,
e si articolava in una Messa seguita da una processione nella zona circostante il deposito, terminava poi tra vari festeggiamenti accompagnati da un lauto rinfresco. Col tempo i civili
impiegati nella base di Campomela sono stati
sostituiti da militari di leva e anche la festa è
stata col tempo dimenticata.
I
BENI MATERIALI
E L’ABBIGLIAMENTO TRADIZIONALE
L’individuazione dei beni schedati ha preso
spunto da una mostra, organizzata nel mese di
aprile 2006 dalla Pro Loco in collaborazione
col Comune di Muros, allestita nei locali di
recente ristrutturazione in piazza Nassirya,
destinati ad ospitare, in futuro, altre mostre o
un eventuale museo.
Si tratta soprattutto di alcuni pezzi di arredamento, ma anche oggetti legati alle attività produttive, al lavoro dei campi, e alla vita quotidiana. I pezzi in migliore stato di conservazione sono senz’altro due letti, realizzati in
ferro, con la tecnica della laminatura e provvisti di testiera e pediera, decorate con motivi
floreali policromi racchiusi da una cornice
color oro.
Oltre i vari oggetti originali è stata rilevata la
riproduzione di un antico strumento “musicale”, la raganella, detta roeddula, che emette
un suono simile al gracidio delle rane, da cui
prende il nome, utilizzata nei tre giorni precedenti la Pasqua per annunciare gli orari delle
funzioni religiose in sostituzione delle campane, legate in segno di lutto.
Aspetti di cultura e tradizioni locali a Muros
In questa sezione è stato inserito anche l’abbigliamento tradizionale di Muros, sia maschile
sia femminile; prima di descriverli però è
necessario fare una piccola premessa.
Il vestiario tradizionale della Sardegna è caratterizzato da un’ampia varietà di fogge, colori e
accessori, che caratterizzano prevalentemente
l’abbigliamento festivo, e in particolare quello
femminile. Tale varietà è dovuta sia alla funzione di riconoscimento sociale che esso assolveva, come distinzione tra comunità e ceti
sociali differenti, sia dall’influenza della moda
della penisola, e da quella esercitata dai vari
ordini religiosi che, in alcuni casi, condizionarono l’evolversi delle fogge, favorendo, o no,
determinate soluzioni al posto di altre.
L’abbigliamento tradizionale di Muros ricalca il
modello diffuso nel Logudoro, il vestiario quotidiano e da lavoro era particolarmente semplice, mentre quello festivo, più elaborato, era
arricchito di decorazioni e gioielli. Il modello
maschile schedato è una riproduzione di
quello utilizzato durante la seconda metà
dell’Ottocento, di cui purtroppo non si conservano originali, ed è stato riprodotto circa dieci
anni fa grazie all’iniziativa dei membri del balletto di Muros. L’abbigliamento femminile, contemporaneo a quello maschile, è invece totalmente originale, benché alcuni pezzi abbiano
subito leggeri interventi di restauro.
Il vestiario maschile era composto da vari elementi: sa berritta, tipico berretto a sacco di
panno nero; su entone, la camicia di cotone,
bianca, con collo e polsi lievemente ricamati e
increspati; su cosso, il giubbetto, di velluto
nero, senza maniche e chiuso a doppio petto;
sas ragas nieddas, gonnellino in velluto nero
finemente plissettato, fermato in vita con dei
lacci e un cinturone di cuoio, aveva funzione
di tenere aderenti e sostenere i pantaloni; sas
ragas biancas, pantaloni di cotone, bianchi,
ampi e lunghi oltre il ginocchio, chiusi in vita
e alle estremità delle gambe con degli elastici;
sos busighinos, le ghette di velluto nero, servivano come protezione e per allacciare i pantaloni. La parte superiore è chiusa da un laccio,
quella inferiore termina con un elastico nero,
passante sotto il tacco delle scarpe, costituite
spesso da grossi scarponi.
L’abbigliamento femminile, invece era così
composto: copricapo, su muncaloru ipastu, di
seta, quadrangolare, solitamente bianco; camicia, sa camijia, di tela bianca, con una leggera
scollatura e maniche larghe, increspate ai polsi;
la sciarpa ricamata, s’isceppa, indossata sopra
la camicia, ornata da motivi floreali policromi;
il busto, s’imbustu, indossato sopra la camicia,
costituito da due parti simmetriche di broccato,
decorate da motivi floreali policromi, tenute
insieme nella schiena da un lungo nastro di
seta color rosa. La struttura interna era costituita da stecche di palma nana e due asticelle
di ferro, cucite tra tessuto e fodera, che davano
rigidità all’indumento. Sopra il busto si indossava il giubbetto, su corittu, che lasciava scoperto il petto e il dorso, consentendo così al
busto di rimanere visibile. Veniva realizzato a
mano, in un tessuto pregiato, il tirziopelo, di
colore rosso o nero, ricamato da motivi floreali
e policromi. Completava l’abbigliamento la
gonna, sa punnedda, di panno nero, lunga,
ampia, e leggermente increspata, decorata da
una corta balza di broccato con disegni floreali, sempre di colore nero, e, infine, il grembiule, su panneddu, indossato sopra la gonna,
di broccato nero e forma vagamente trapezoidale, leggermente increspato in vita, allacciato
posteriormente, era decorato da motivi floreali
policromi.
PATRIMONIO
ARTISTICO
Il patrimonio artistico di Muros è quantitativamente contenuto, si segnala solo un oggetto: la
tela esposta attualmente nella cappella sinistra
della chiesa dei Santi Gavino, Proto e
Gianuario.
Si tratta di una tela ad olio, di forma vagamente
trapezoidale e dal lato superiore ricurvo, di
dimensioni 172 x 265 cm. In primo piano, in
basso, sono raffigurati i tre Martiri Turritani, a
destra Gianuario, al centro San Gavino a
cavallo, tiene in mano lo stendardo del
Giudicato di Torres, e a sinistra Proto, raffigurato con la mitria sul capo e in mano un calice
e la palma del martirio. Al di sopra delle figure
centrali sono raffigurate, in gloria, la Madonna
con in braccio il Bambino e a destra San
Giuseppe e San Giovanni tra gli angeli.
Per la compilazione della scheda della tela
sono state fondamentali la ricerca bibliografica
e d’archivio. Infatti, da una prima verifica dei
documenti esistenti, conservati all’interno della
parrocchia di San Gavino, essa è attribuita
genericamente ad un pittore sardo del
Seicento. Alcune fonti bibliografiche invece,
facendo riferimento ad un documento conservato nell’archivio della chiesa di Cargeghe,
allora amministrata insieme a quella di Muros,
77
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
lo attribuiscono ad un pittore di origine piemontese, Marco Antonio Maderna, attivo nel
confinante comune di Cargeghe. Tale documento sarebbe una quietanza di pagamento
del 1594, rilasciata dall’allora rettore di Muros,
monsignor Olmo, per la pittura e doratura di
un quadro. Dalla ricerca effettuata presso l’archivio della diocesi di Sassari e presso quello
della parrocchia di Cargeghe non è stato trovato il documento in questione, ma in quest’ultimo sono conservati una serie di altri documenti dello stesso anno, attestanti la presenza
e le attività del suddetto pittore nella parrocchia di Cargeghe, ma nessuno che confermi la
contemporanea attività in quella di Muros.
Ad ogni modo è possibile che questo documento sia andato perso, bisogna, infatti, ricordare che l’archivio in questione nel passato è
stato danneggiato da un incendio, così come
non si può escludere che dopo il restauro degli
stessi registri, attualmente in cattivo stato di
conservazione, si possa effettuare una ricerca
mirata. È comunque significativo che nello
stesso periodo di realizzazione della tela di San
Gavino, sia documentabile nei pressi di Muros
l’attività del pittore cui anche fonti bibliografiche più recenti attribuiscono la realizzazione
dell’opera.
LE
TESTIMONIANZE ORALI
Le testimonianze orali raccolte sono legate
sopratutto a credenze popolari e, come in tutta
la Sardegna, sono caratterizzate da uno stretto
legame tra magia e religione, in cui gesti scaramantici, forme di scongiuro e operazioni di tipo
magico si fondono a preghiere, oggetti consa-
78
crati, e gesti della religione cristiana. Basti ricordare Sa meighina ‘e s’ojiu (la medicina dell’occhio), antico rito magico-religioso contro la sfortuna, che consisteva nel versare chicchi di grano
all’interno di un bicchiere d’acqua, recitando nel
frattempo delle preghiere. Alla fine del rito, in
base alla risalita in superficie dei chicchi di
grano, si capiva se la persona interessata aveva,
o meno, ricevuto una sorta di maledizione, o se
era vittima dell’invidia di qualcuno.
Anche gli stessi sacerdoti spesso esercitavano
riti a metà tra il magico e il religioso, infatti, con
il loro misterioso alone di potere, che proveniva
dall’essere detentori e amministratori del sacro,
diventarono spesso veicoli di magia. A testimonianza di questo tipo di interventi a Muros si
ricorda che, durante il periodo estivo, gli uccelli
mangiavano il grano che maturava nei campi,
causando così la collera degli agricoltori, che si
rivolgevano
al
sacerdote
del
paese.
Quest’ultimo consegnava loro un foglio dove
aveva disegnato delle croci e scritto delle formule in latino, lo metteva all’interno di una
canna, cui aveva tagliato un’estremità, e la
richiudeva con un pezzo di sughero. Questa
veniva poi consegnata all’agricoltore, che aveva
il compito di nasconderla nel suo terreno, in un
angolo di difficile accesso. Da quel momento in
poi gli uccelli non avrebbero più sostato all’interno del terreno ma ne sarebbero stati lontani,
come impauriti.
Tra gli interventi magico-religiosi c’erano anche
rimedi taumaturgici, come ricette di medicina o
veterinaria, permeate di simboli religiosi cristiani, usati però magicamente, come immagini
e sostanze consacrate. Simile a questo tipo di
interventi si segnala quello per la cura dell’ernia dei bambini. Durante la notte di San
Giovanni Battista, i familiari del bambino si
recavano in una località del paese, su
Giardineddu, nell’attuale via Brigata Sassari,
dove si trovava un albero di fico; l’uomo che
celebrava il rito, chiamato da un paese vicino,
tagliava il tronco dell’albero, fino alla metà
della sua altezza, prendeva il bambino e, recitando delle formule particolari, lo faceva passare all’interno del taglio dell’albero, facendogli
fare un movimento rotatorio. Dopo di che si
richiudeva la “ferita” dell’albero con degli
stracci, avendo cura di tenerlo ben stretto.
Dopo un mese lo stesso uomo tornava in paese
e controllava la “ferita” dell’albero: se questa
era “guarita”, anche il bambino non avrebbe
più avuto disturbi.
Tra le consuetudini, invece, si ricorda quella di
chiedere sos responsos, una sorta di previsione
sull’esito di processi in corso. Infatti quando in
paese c’era qualcuno coinvolto come imputato
in un processo, i familiari, il giorno del dibattimento, si rivolgevano ad una donna, che
avrebbe dato loro una previsione su quella che
sarebbe stata la sentenza. La donna si sedeva di
fronte alla finestra e in base alle frasi sentite dai
passanti dava la sua interpretazione. Se ad
esempio qualcuno passando diceva una frase
come paga cosas, l’interpretazione era che
all’imputato sarebbe stata data solo una pena
leggera; se invece i passanti dicevano parole
come nudda l’imputato sarebbe stato assolto, al
contrario, se sentiva qualcosa come male, il
processo avrebbe avuto un esito negativo per
l’interessato.
Aspetti di cultura e tradizioni locali a Muros
ASPETTI
GASTRONOMICI
Nello studio del patrimonio gastronomico si è
focalizzato sopratutto l’aspetto relativo alla tradizione dolciaria e a quella del pane, entrambe
profondamente legate ad occasioni festive,
familiari (matrimoni, battesimi, ecc.) o religiose
(Natale, Pasqua, ecc.).
Tra i dolci ricordiamo in particolar modo gli
amaretti, sos amarettes, classico dolce a base di
mandorle dolci e amare, tipico di occasioni
festive familiari, come battesimi, comunioni,
cresime e matrimoni.
Tra quelli legati alle festività religiose invece ci
sono i bianchini, a base di zucchero, o le formaggelle, kasadinas, a base di formaggio,
entrambi preparati solitamente nel periodo
pasquale; i papassini, sos papassinos, a base di
mandorle, noci e strutto, e le tericche, tericcas
o tiriccas, il tipico dolce a base di vino cotto,
detto saba, preparato solitamente nel periodo
di Ognissanti Questi ultimi due tipi di dolce
sono spesso ricoperti da una glassa a base di
zucchero e albume d’uovo, detta kappa o branizza.
La tradizione dolciaria è ancora particolarmente viva in quasi tutte le famiglie; decisamente persa è invece quella di preparare, nel
periodo pasquale su kozzolu ‘e s’ou o kotzula
‘e ou, un pane particolare, che racchiudeva un
uovo cotto, preparato nel periodo pasquale
come dono per i bambini. Ancora più raro è
l’uso del pane degli sposi, preparato tradizionalmente in occasione di matrimoni, come
dono di buon augurio per gli sposi, finemente
lavorato e abbellito da raffinati decori, come ad
esempio delle piccole roselline, che richiede
una grande capacità tecnica e un grande impegno per la sua preparazione, ma che ormai in
pochi sono in grado di realizzare.
A conclusione della ricerca sui beni culturali di
Muros si può affermare che il suo patrimonio
etnografico è molto più ricco di quelle che
potevano essere le aspettative iniziali, e che
durante la ricerca, svolta essenzialmente sul
campo, si è notata una particolare vivacità e un
grande attaccamento del paese alle proprie tradizioni.
È sufficiente pensare alla collaborazione degli
abitanti, nel fornire testimonianze e materiale
fotografico; alle recenti attività della Pro Loco,
che negli ultimi dieci anni ha ripristinato la
festa di San Giovanni, la manifestazione Cantos
in carrela, e cura la partecipazione del paese
alle varie fiere.
Anche i membri del coro e del balletto sono
particolarmente attivi; sempre negli ultimi dieci
anni hanno svolto autonomamente ricerche sul
costume e sui balli tradizionali, raccogliendo le
testimonianze delle persone più anziane e
riportandole fedelmente.
Le stesse amministrazioni comunali hanno
dimostrato interesse al recupero e alla valorizzazione dei beni culturali, con la promozione
del progetto in cui si inquadra questa stessa
ricerca, o la recente ristrutturazione di un
locale da dedicarsi a mostre o ad un eventuale
museo, che ha ospitato recentemente una
mostra di carattere etnografico, organizzata
dalla Pro Loco. Questa mostra ha riscosso
grande partecipazione dai residenti, che hanno
messo a disposizione svariati oggetti di colle-
zioni private, permettendo di esporle al pubblico, che ha partecipato numeroso e con sentito interesse.
Nonostante Muros sia quindi un piccolo paese
si è dimostrato ricco di tradizioni, la sua popolazione ne è consapevole e collabora spesso
alle varie attività o manifestazioni, organizzate
il più delle volte dai gruppi folklorici e dalla
Pro Loco.
Bisogna sottolineare che durante la presente
ricerca si è sempre utilizzato il termine “folklorico”, e non quello “folkloristico”, tale scelta
non è stata dettata da un fattore puramente stilistico, ma piuttosto dal desiderio di sottolineare che le manifestazioni folk di Muros
hanno mantenuto un carattere spontaneo, e
sono sentite come elemento fondamentale
della propria identità culturale, da recuperare,
conservare e tramandare. Negli ultimi anni
invece, il continuo evolversi della domanda di
turismo culturale, rivolta anche ai beni etnografici, ha determinato lo svolgersi di rappresentazioni “fittizie” delle manifestazioni folkloriche,
definite appunto folkloristiche, rivolte esclusivamente alla soddisfazione della domanda turistica e non al manifestarsi di autentici sentimenti di identità culturali; Muros non è stato
toccato da questo fenomeno, anche perché
estraneo a veri e propri flussi turistici.
Lo scopo di questo progetto è tuttavia la promozione del paese a livello turistico che, a mio
parere, può essere realizzata attraverso la valorizzazione dei singoli beni e la promozione
integrata delle varie tipologie presenti sul territorio: naturali, archeologici e etnografici, ma
sopratutto attraverso la collaborazione e l’inte-
79
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
grazione tra i vari centri limitrofi, che solo proponendosi come territorio, unitario e caratterizzato dalle peculiarità di ogni singolo Comune,
può attrarre e sostenere un vero flusso turistico, che favorisca il fiorire di attività economiche ad esso correlate.
BIBLIOGRAFIA
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Balsamo 1987.
Scano M.G., Pittura e scultura del ’600 e del ’700, Ilisso
Edizioni, Nuoro 1991.
80
Turchi D., Lo sciamanesimo in Sardegna: da lontani miti
ancora presenti nell’immaginario collettivo dei sardi,
Roma 2001.
Storia dei Pittori sardi e catalogo descrittivo della privata pinacoteca del can. G. Spano, Cagliari dalla tipografia A. Alagna, p. 317.
DALLA
CATALOGAZIONE AL SISTEMA INFORMATIVO PER LA TUTELA E IL MONITORAGGIO
DEL PATRIMONIO CULTURALE DELLA SARDEGNA: UN PROGETTO PILOTA
Donatella Rita Fiorino
L’attuale istanza di conoscenza e documentazione del patrimonio culturale della Sardegna,
al centro del dibattito regionale e oggetto di
interessanti progetti di censimento e catalogazione, non è certamente un fatto recente. Le
metodologie e le tecniche di schedatura e di
trattamento del dato si sono evolute nel corso
di due secoli, seguendo le trasformazioni che
hanno contraddistinto il concetto stesso di
bene culturale e di tutela.
Prima di parlare di un sistema informativo, in
quanto contenitore moderno delle conoscenze
che si sono stratificate nel corso di decenni di
studi e ricognizioni sul territorio, sembra dunque opportuno soffermarsi a ricostruire, per
tappe significative, l’evoluzione del concetto e
delle prassi di catalogazione che hanno contrassegnato l’attività degli uffici preposti alla
tutela e al governo del territorio nell’isola.
La difficile e travagliata esperienza dei cataloghi trova oggi risposta nell’ambizioso progetto
di sistema catalografico unico, recentemente
proposto dalla Regione Autonoma della
Sardegna, nei confronti del quale il progetto
portato avanti per il comune di Muros si pone
come tassello compiuto e significativo al
nascente SICPAC regionale. Le esperienze condotte in ambito accademico e quelle provenienti da altre realtà geografiche hanno però
permesso di fare un passo in più rispetto alla
tradizionale schedatura ministeriale, implementando i modelli catalografici ICCD con il
modulo della vulnerabilità della Carta del
Rischio, al fine di convertire lo statico sistema
di conoscenza che è il catalogo in uno strumento di programmazione strategica degli
interventi sui beni culturali, a supporto degli
enti preposti alla tutela e al monitoraggio del
patrimonio culturale dell’isola.
LE RADICI DELLA CATALOGAZIONE IN SARDEGNA
La ricognizione dello scenario normativo e
dello stato delle conoscenze in materia di catalogazione in Sardegna dall’Ottocento ad oggi,
alla luce delle contemporanee iniziative poste
in atto in altre realtà italiane, fa risaltare una
certa inerzia in merito all’attività censuaria e
rilevanti ritardi nel raggiungimento degli obiettivi. Mentre già sul finire del XVIII secolo
nell’Italia pre-unitaria si delineano le prime
esperienze di catalogazione per la conservazione dei beni culturali1, in Sardegna l’attività
di censimento ed elencazione dei beni si limita
alle proprietà ecclesiastiche, al solo fine di salvaguardarne il possesso, e alle postazioni militari, per iniziativa del governo sabaudo, interessato a fortificare la presenza dell’autorità
dello Stato, ponendo ordine in un territorio in
mano ai privilegi di feudatari ed ecclesiastici.
La prima reale volontà di conoscenza della storia della Sardegna matura nella prima metà del
XIX secolo e si manifesta con una intensa produzione storiografica, accompagnata da accurate ricerche archivistiche. Un tale fervore non
trova, però, riscontro sul piano della storiografia artistica, dove l’unica voce di prestigio
rimane quella del canonico Giovanni Spano,
che manifesta la triste consapevolezza del
ritardo della Sardegna nell’acquisizione della
conoscenza dei monumenti antichi e medioevali. Nel primo numero del “Bollettino
Archeologico Sardo, ovvero della Raccolta dei
Monumenti antichi della Sardegna” ricorda, a
tal proposito, che “ogni terra, per piccola che
sia, ha avuto qualcheduno che con amore
abbia saputo raccogliere i monumenti sparpagliati, ed unirli in un sol corpo. La Sardegna
mancava di questa gloria, mentre che parte-
81
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
cipa nello sviluppo di ogni genere di scienza e
di progresso”2.
Questa prima esperienza, definita una “massa
informe di notizie minuziose”3 di un uomo che
“scorrazzò anche nella storia dell’arte, ma da
saraceno e non da cristiano”4, contiene, quasi
come in un censimento, sezioni dedicate alla
scoperta di architetture medioevali, accompagnate da riferimenti alle fonti archivistiche e un
adeguato supporto iconografico, tanto da
potersi considerare la prima sommaria esplorazione sulla storia dell’architettura sarda,
ristretta per motivi ideologici, alla produzione
antica e giudicale.
Mentre la conoscenza dell’isola si diffondeva in
tutto il mondo grazie agli scritti non sempre
attendibili, ma decisamente suggestivi, dei
viaggiatori, giunti numerosi in una Sardegna a
dir poco sconosciuta, gli ingegneri regi La
Marmora e De Candia ponevano le basi per la
conoscenza topografica del territorio, realizzando le prime carte geometricamente attendibili dell’isola e delle sue coste che costituiscono, di fatto, il primo lavoro organico di rappresentazione del territorio, segnando la fine
della cartografia empirica5.
Nel clima ottocentesco denso di attività speculative, maturano le premesse alla nascita dei
primi censimenti in ambito regionale nell’accezione moderna del termine. Tra il 1867 e il
1892, mentre nel resto dell’Italia vengono
poste in atto le prime significative esperienze
di catalogazione, le neonate strutture consultive ministeriali attive sul territorio6 non producono risultati apprezzabili fino agli ultimi anni
del secolo, ossia fin quando non si assiste alla
82
stesura delle prime norme nazionali. Oltre che
alla carenza di risorse e alla tardiva nascita di
una “cultura dell’antico” nella classe intellettuale sarda, tale ritardo è da imputarsi
all’enorme numero di monumenti di interesse
archeologico e architettonico da censire, per
gran parte dispersi su un territorio regionale
difficile da raggiungere a causa della inadeguata rete viaria, della scarsità di personale e di
mezzi finanziari a disposizione.
Tuttavia, per quanto non abbia trovato un concreto ed immediato riscontro, la volontà di una
attività di catalogazione si manifesta nel 1866
attraverso il primo decreto di istituzione delle
Commissioni Provinciali di Cagliari e Sassari
che definisce l’obbligo di “…compilare e
tenere in regola gli inventari di tutti gli oggetti
d’arte che si trovano nelle loro Province in edifici pubblici, sacri e profani, o che sono esposti
al pubblico in edifici privati”7, con precise
indicazioni sulle modalità da seguire. Si trattava
per lo più di schede per l’inventariazione delle
opere mobili, mutuate dal contemporaneo
Regolamento redatto per le province di Firenze
ed Arezzo. L’anno successivo all’emanazione
del decreto, Dionigi Scano non sembra
cogliere l’istanza ministeriale e nella sua proposta di “Statuto” per le Commissioni del 1867
non pone il problema dell’inventario, probabilmente per la consapevolezza dell’impossibilità
di provvedervi concretamente.
In tutto il decennio successivo le Commissioni
non attivano di fatto alcuna attività inerente
all’inventario, come risulta dall’assenza di
documentazione relativa a quegli anni e dalle
indicazioni alquanto lacunose in merito all’ar-
chitettura sarda indicate nell’“Elenco degli edifici Monumentali”8 approvato dalla Giunta di
Antichità e Belle Arti nel 1875.
Con la circolare n. 436 dell’11/06/1875, trasmessa a tutti i prefetti, il Ministero rinvia alle
Commissioni gli elenchi degli edifici medievali
e moderni redatti, accompagnati da un sollecito ad una maggiore attenzione al problema
del censimento, rendendo altresì obbligatoria
la compilazione degli elenchi distinti in monumenti e oggetti di interesse archeologico e
monumenti ed oggetti medievali. Oltre a ricordare l’impegno per un’accurata vigilanza per la
tutela dei monumenti, con essa si istituisce
l’obbligo dell’invio di un rapporto semestrale
sul loro stato di conservazione. Anche le
Commissioni Conservatrici, rinnovate nel 1876
e coadiuvate dagli Ispettori locali, non svolgono che una minimale attività.
Il passaggio al nuovo secolo è segnato dalla
lungimirante figura di Filippo Vivanet, direttore
dal 1893 al 1905, uomo di grande cultura, consapevole della necessità di costruire un quadro
conoscitivo d’insieme della realtà artistica sarda
attraverso apposite campagne di inventariazione.
A partire dal primo anno di incarico, dà avvio
all’attività di inventariazione, schedatura,
ricerca storico-archivistica, rilievo grafico e saggio di prospezione “archeologica” per la compilazione di un elenco degli edifici e ruderi
aventi importanza storica, nonché degli oggetti
d’arte. L’ufficio inizia così un lungo lavoro di
ricerca. “Essendo scarsissimo il materiale raccolto per l’illustrazione dei nostri monumenti
tanto dal lato storico, come dal lato artistico,
Dalla catalogazione al sistema informativo per la tutela e il monitoraggio del patrimonio culturale della Sardegna: un progetto pilota
quale indispensabile preparazione alla desiderata catalogazione dei Monumenti nell’isola,
l’ufficio, (….) rivolse le sue cure a mettere
insieme tutti quei documenti bibliografici, grafici o storici il cui esame potesse tornare utile
ad una completa descrizione (…) dell’architettura e delle altre minori arti nella Sardegna. A
tal uopo venne aperta una pratica per ogni
rudere, edificio od oggetto d’arte degno d’interesse ed in essa venne consegnato il frutto delle
ricerche ora intenzionali, ora semplicemente
occasionali fatte sopra di essi. Finora non è che
lavoro semplicemente sbozzato, che ha bisogno
di tempo per completarsi, ma la sua utilità
apparisce incontestabile (…)”9.
Tale inventario, conservato quasi interamente
presso l’Archivio della Soprintendenza per i
Beni Architettonici, Paesaggio, Patrimonio
Storico Artistico ed Etnoantropologico di
Cagliari e Oristano, è basato su un modello di
scheda ministeriale, sintetico ma efficace, che
viene trasmesso a tutti i sindaci dei Comuni,
tramite circolare, avente come oggetto i
“Monumenti preistorici”, con l’invito a compilarlo secondo precise istruzioni loro impartite.
Questa iniziativa ha avuto la funzione di sensibilizzare le amministrazioni locali al riconoscimento e all’inventariazione del proprio patrimonio archeologico e, pertanto, costituisce un
modello di prassi metodologica non trascurabile nell’evoluzione della storia della catalogazione nell’isola.
Ma la catalogazione introdotta dall’Ufficio in
questi primi anni non è solo quella della raccolta dati: una interessante iniziativa presa dal
Vivanet è infatti quella della creazione di un
archivio costituito da campioni di materiale
lapideo prelevato dai monumenti, destinato
non solo allo studio delle caratteristiche fisicochimiche, ma anche a quelle di degrado dei
materiali e del monumento. Nella sua Seconda
Relazione scrive “Ho stimato utile l’iniziare un
campionario delle varie pietre adoperate nei
monumenti, raccogliendo dati esatti sulla loro
durabilità e vario modo di comportarsi rispetto
all’azione complessa degli agenti atmosferici
(…) Le scuole di applicazione (...) e gli Uffici
tecnici (...) hanno mezzi opportuni per determinare gli altri coefficienti, quali il peso specifico, la durezza (…) ma nessuno di essi può
come gli Uffici regionali che si adoprano
attorno a fabbricati appartenenti ad età assai
remote dare notizie attendibili sulla forza di
resistenza dei materiali adoperati, di fronte
alle influenze telluriche, per lunga età, notizie
preziose per l’ingegnere ed il costruttore il quale
col loro sussidio può presentire la durata probabile dell’opera sua e proporzionarvi i mezzi
di esecuzione (…)”10. Questi continui riferimenti dell’ing. Vivanet all’attività della catalogazione, anche oltre le disposizioni ministeriali
che in quegli anni si andavano moltiplicando11, dimostrano un’adesione al significato
della catalogazione ben più avanti delle istanze
regionali, e non solo, a lui contemporanee.
A partire dal 1893 lo stesso Vivanet, nell’ambito
dell’inserimento all’interno dei regolamenti
edilizi Comunali dei tre articoli a tutela dei
monumenti, ruderi e oggetti d’arte, chiede agli
stessi comuni di provvedere alla compilazione
dell’elenco degli edifici degni di essere conservati sotto il profilo storico e artistico. In linea
con la sua attenzione verso l’uso dei materiali,
nel 1895 avvia anche il censimento delle antiche cave, nel tentativo di determinare la provenienza e la distribuzione dei materiali utilizzati
negli edifici monumentali, secondo un modello
di scheda opportunamente predisposto dal
Ministero. Il passaggio al Novecento, è segnato
dalla presenza a Cagliari di Luca Beltrami che
al paragrafo VII della relazione ivi tenuta nel
1902 in occasione del X Congresso degli
Ingegneri e Architetti italiani12, espone i più
importanti problemi che gli organismi di tutela
avrebbero dovuto affrontare. Primario è
l’elenco dei monumenti italiani, la loro “valutazione” e una perizia dei lavori da effettuare per
il loro mantenimento. “(…) Si tratta di due elementi difficili da concretare: il primo anzi, si
dovrebbe ritenere impossibile, poiché se il
Governo non è riuscito, dopo oltre 27 anni di
continuo dispendio, ad avere l’elenco materiale dei monumenti, tanto meno potrebbe arrivare alla loro valutazione: come valutare
Santa Maria del Fiore, il Palazzo Ducale di
Venezia (...). Difficile, ma non impossibile,
ammessa una certa larghezza di dati (...)”13.
La morte di Filippo Vivanet nel 1905 segna un
brusco rallentamento di tutte le attività di programmazione. Tra il 1905 e il 1923 si ferma, di
fatto, tutta l’attività di inventariazione, rilievo e
restauro dei monumenti, specie quella riguardante gli edifici lontani da Cagliari, per i quali
risulta impossibile pagare le missioni. Una tale
crisi non consente di compiere quel salto di
qualità che la nuova normativa e la riorganizzazione del servizio avrebbero reso ormai raggiungibile.
83
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
Con l’istituzione delle Soprintendenze nel
1907, la catalogazione entra a far parte dei
compiti istituzionali degli organismi preposti
all’attività di tutela, e in pochi anni si susseguono altre importanti puntualizzazioni ministeriali in merito agli inventari14, tra cui, nel
1907, le norme per la redazione dell’inventario
dei monumenti e degli oggetti d’arte15. Le
schede degli edifici di Cagliari e Sassari sono
pubblicate solo nel 192216, in concomitanza
con gli ultimi anni dell’attività dello Scano in
qualità di Soprintendente.
Anche in Sardegna, il tentativo di aggiornare
costantemente gli Elenchi tiene faticosamente
il passo di una cultura che amplia rapidamente
gli orizzonti fino a ricomprendere nel suo
alveo categorie di manufatti sempre più diversificate secondo una modalità di pensiero che
si allinea con le contemporanee vicende nazionali. L’esito del lavoro di censimento condotto
tra il 1892 e il 1923 è stato l’inserimento nei
monumenti “nazionali” delle sole basiliche
romaniche ed alcune manifestazioni “minori”
dell’architettura pisana e aragonese, mentre al
rimanente patrimonio architettonico si finisce
col riconoscere un interesse “regionale” o
“locale” o, più semplicemente, un valore puramente “storico” contrapposto a quello artistico.
Una lieve ripresa nei lavori di inventariazione
si rileva a partire dal 1934 grazie all’impegno
scientifico di Raffaello Delogu, insignito da
parte del ministero di un apposito incarico
ministeriale atto a colmare i vuoti di conoscenza del patrimonio artistico isolano. Poco
più che ventenne, visita con lo scrupolo che
contraddistingue tutta la sua carriera, anche i
84
centri più interni ed impervi, compilando un
migliaio di accurate schede di un patrimonio
per la maggior parte ignorato. A lui si deve la
nuova visione in Sardegna della storia dell’arte,
non più intesa come “sistematica enumerazione di eventi individuati filologicamente e da
classificare per tipi e cronologie”17, quanto,
piuttosto, una storia finalizzata a “scorporare e
distinguere le cosiddette fasi costruttive degli
edifici” attraverso una maturata attenzione
verso le strutture e le tecniche costruttive. Il
suo lavoro si inserisce nel dibattito produttivo
ed articolato della emanazione delle leggi fondamentali della tutela in Italia18.
Nel 1969 viene istituito l’Ufficio Centrale per il
Catalogo sulla base delle istanze scaturite nell’ambito del dibattito della Commissione
Franceschini, che, nel documento finale dal
titolo “Per la salvezza dei beni culturali in
Italia”, indica la catalogazione “completa e
capillare” come imprescindibile premessa ad
ogni tentativo di recupero e tutela dei beni artistici e ambientali in Italia.
A partire dagli anni Ottanta del Novecento, l’intensificarsi della pianificazione territoriale,
comunale e intercomunale, fino a quella paesistica, dà avvio alla creazione di nuclei censori
per i beni culturali, circoscritti ad ambiti ristretti
e in genere particolarmente significativi in termini di individuazione e prima descrizione del
bene culturale censito. Il problema di tali
risorse catalografiche consiste però nella disomogeneità del modello informativo anche in
termini di qualità del dato che talvolta privilegia alcune categorie di beni scelte sulla base
del loro ambito cronologico o stilistico di rife-
rimento (archeologia, medioevo, architettura
gotico-catalana) rispetto ad altri sovente trascurati (barocco, architettura otto-novecentesca).
Ancora nel 1989 un interessante studio di A.
Marotta Carboni condotto in ambito di tesi di
dottorato lamenta “la carenza di progetti culturali di ampio respiro, in grado di favorire problematizzazioni complesse, approfondimenti e
scambi a livello nazionale”, conseguenza
anche dell’“assenza di inventari sul patrimonio culturale dell’isola sufficientemente ampi,
specifici e documentati, organizzati con l’intento di costituire dei reference books, soprattutto per la consultazione di dati bibliografici e
documentari aggiornati”19.
L’attenzione verso il censimento si è sempre
più spostato dagli uffici di tutela verso gli
organi concorrenti in materia di governo del
territorio a cui la catalogazione è orientata in
maniera sempre più forte.
IL
PROGETTO MUROS: UN TASSELLO PER
IL CATALOGO UNICO DEI BENI CULTURALI
A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso
la Regione Autonoma della Sardegna ha
avviato una stagione di censimenti indipendente ed originale. L’attivazione del Catalogo
Generale del Patrimonio Culturale della
Sardegna segna la definizione di modelli catalografici innovativi specie per tutti i settori dell’archeologia. In particolare, con la promulgazione della prima legge specifica per il riconoscimento di valore, censimento e salvaguardia
dell’archeologia industriale si pone in Italia
quale modello per la valorizzazione di questa
categoria dei beni.
Dalla catalogazione al sistema informativo per la tutela e il monitoraggio del patrimonio culturale della Sardegna: un progetto pilota
Purtroppo però non altrettanto può dirsi dei
livelli di indagine raggiunti relativamente agli
altri settori del patrimonio per i quali l’attività
effettuata si rivela oggi parziale, in quanto il
catalogo dei beni architettonici monumentali
risulta sommario, sia in termini di livello di
compilazione come di quantità dei beni censiti.
Mancano inoltre tutti i beni relativi al patrimonio materiale e immateriale che l’Unesco prima
e la legge Urbani, poi, hanno ufficialmente
riconosciuto come parte integrante del patrimonio culturale.
I cataloghi attualmente esistenti non presentano unitarietà del dato, né sistematicità di rilevazione. Sono estremamente disomogenei
sotto il profilo della distribuzione, della qualità
ed attendibilità del dato, ma soprattutto scarsamente correlati e di difficile accesso, gestione
ed aggiornamento. Negli lavori effettuati per i
piani urbanistici a diverso livello si riscontrano
legende discordanti, talvolta anche base cartografica diversa, con l’evidente carenza di dialogo tra le banche dati e la difficoltà di
gestione del territorio regionale nel suo complesso.
Il grande sforzo avviato dalla Regione
Sardegna per l’unificazione del Sistema
Informativo Territoriale Regionale (SITR) nato
in concomitanza con il Piano Paesaggistico
Regionale porterà anche per i Beni Culturali
alla confluenza delle rilevazioni censuarie in
un’unica banca dati condivisa che potrà fornire
il necessario supporto alle attività di pianificazione e programmazione.
Alla luce del risultato fallimentare delle grandi
rilevazioni centralizzate avviate negli ultimi
rimentato in altri ambìti scientifici, interessanti
ed innovativi approcci tematici alla catalogazione20, si è riconosciuta la necessità primaria
non tanto di inventare cataloghi nuovi, lavoro
che sarebbe stato tanto dispendioso quanto
inutile, quanto di unificare gli strati informativi
adeguandoli ai consolidati modelli ministeriali.
Solo dopo aver garantito tale livello di conoscenza si è potuto pensare all’ampliamento
tematico del catalogo verso campi di interesse
legati alla rilevazione e al monitoraggio dello
stato di conservazione dei singoli beni.
Le tipologie dei beni censiti e i modelli schedografici utilizzati sono sintetizzati nella allegata tabella.
Come si vede, accanto ai modelli ministeriali,
sono state impiegate delle schede “minime”,
ovvero schede sintetiche che riassumono i
anni, si ritiene che l’unico strumento efficace
sia quello del “mosaico”, ovvero la costruzione
di una griglia ben strutturata nella quale far
confluire i tasselli conoscitivi provenienti da
rilevazioni di ambiti geografici o tematici circoscritti e controllabili. Il catalogo deve quindi
essere uno strumento work in progress ovvero
in continuo mutamento, fruibile e aggiornabile
con facilità, ma sotto il controllo di personale
qualificato. Il progetto di catalogazione del
patrimonio ambientale e culturale del comune
di Muros si è dato, come obiettivo primario,
non quello di costituire una isolata esperienza
conoscitiva, ma, forte della consapevolezza
degli errori compiuti nel passato, proporsi
come primo test di apporto al nascente SICPAC
Regionale, nonché al catalogo unico ICCD del
Ministero Beni Culturali. Infatti, dopo aver speCategoria del bene
beni ambientali
Specifica bene
Modello ministeriale
siti di pregio ambientale
e paesaggistico, specie botaniche
e monumenti vegetali
Modello non
ministeriale
Informatizzazione
nr
scheda beni
ambientali
X
13
scheda specie
botaniche
X
13
scheda tipi geologici
X
13
Scheda minima
X
13
X
13
beni archeologici
beni immobili
modello MA-CA
beni architettonici
siti monumentali e architettura
tradizionale del centro storico
modello A
beni storico artistici
dipinti
modello OA
Scheda minima
1
beni immateriali: feste, tradizioni,
danze…
Modello DBI
scheda beni
immateriali
13
oggetti: strumenti della quotidianità,
costumi tradizionali, giochi…
Modello DBM
scheda beni materiali
9
beni
demoantropologici
85
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
campi più significativi del bene censito. Tali
schede minime sono state utilizzate per l’implementazione del GIS.
Le schede compilate costituiscono una banca
dati informatizzata per quanto concerne i beni
ambientali, archeologici e architettonici, mentre non è stato informatizzato il catalogo relativo ai beni demoetnoantropologici. Il formato
scelto per l’informatizzazione è stato l’ambiente windows access in quanto il più diffusamente utilizzato a livello di pubblica amministrazione e ricerca scientifica.
La struttura informatica realizzata potrà così
essere utilizzata anche con finalità di formazione tecnico-professionale per l’avviamento
alla pratica del catalogo, ponendo le basi per
l’aggiornamento continuativo e la consultazione consapevole delle banche dati da parte
di tecnici specializzati21.
La scheda non ministeriale dei beni ambientali
è stata composta utilizzando sezioni coerenti
della scheda MA-CA relativi a identificazione,
uso e preesistenze, fonti, georeferenziazione,
allegati e compilazione cui sono state aggiunte
le schede sintetiche degli elementi floro-faunistici significativi e delle specifiche geologiche.
La scheda contiene anche una immagine-icona
di immediato riferimento visivo al bene, l’anteprima della miniatura e il collegamento alle
immagini ad alta definizione, l’anteprima e il
collegamento alla cartografia indicante il punto
di scatto della documentazione fotografica.
Questi ultimi dati costituiscono delle significative implementazioni a tutte le schede informatizzate rispetto alla relativa scheda ministeriale
e si sono rivelate di particolare utilità sia per la
86
compilazione delle maschere che per la fruizione del catalogo a stampa.
Tutte le schede prevedono, inoltre, accanto al
nr di catalogo proposto che contraddistingue il
bene nel catalogo specifico, anche il nr di catalogo del bene nella banca dati dell’istituzione
nella quale i dati confluiranno in modo da consentire di riversare i dati in maniera semplice
ed automatica sia nel futuro SICPAC che nel
catalogo ICCD, dopo il collaudo del sistema
che si intende richiedere al fine di verificare le
compatibilità e le correlazioni.
Tutti i campi delle singole schede coerenti con
i cataloghi ICCD sono stati infatti creati
secondo gli standard normati al fine di consentire l’interfaccia diretta.
IL
PROGETTO MUROS: UN MODELLO
INNOVATIVO PER IL MONITORAGGIO
E LA PROGRAMMAZIONE DEGLI INTERVENTI
SUI BENI CULTURALI
Le schede ICCD, con la loro rigida struttura,
seppur di complessa compilazione, presentano
grande potenzialità di descrizione del bene
censito. La qualità della documentazione e
della conseguente informazione che possono
fornire in sede di consultazione da parte di
terzi dipende dalla capacità dei soggetti preposti alla compilazione che deve essere fatta da
personale specializzato. Infatti esperienze di
catalogazione condotte in assenza di una specifica formazione dei compilatori hanno restituito un risultato lacunoso dal punto di vista
della qualità dell’informazione e limitato nel
numero di manufatti esaminati.
Tali schede si configurano pertanto come
ottimi strumenti di conoscenza, ma risultano
carenti sotto il profilo della documentazione
dello stato di conservazione, lasciato a valutazioni di tipo soggettivo come “buono, medio,
mediocre” ed in ogni caso di tipo esclusivamente qualitativo.
Le sperimentazioni condotte in altri ambiti22
hanno suggerito di ovviare a questo problema
attraverso l’implementazione della scheda con
moduli già testati nel tracciato schedografico
della Carta del rischio, sperimentazione che
risale al Piano Pilota per la Manutenzione
Programmata dell’Umbria voluto da Giovanni
Urbani, che propone una lettura del manufatto
non fine a se stessa, ma esaminata nelle sue
interrelazioni con il territorio.
Il Sistema informativo predisposto in questa
sede rileva dalla Carta del rischio la Scheda dei
dati di vulnerabilità, sia nel primo che nel
secondo livello di approfondimento e della
descrizione dello stato di conservazione. La
vulnerabilità delle singole porzioni del bene o
dell’intero complesso è analizzata in relazione
a 6 categorie di danno ritenute le più significative e relative specifiche, codificate secondo un
vocabolario chiuso, con l’indicazione della gravità, della diffusione e della localizzazione dei
danni stessi sulla base di dati quantitativi
oggettivamente individuabili. Una tabella esplicativa correla il dato qualitativo a un dato
numerico. La standardizzazione della categoria
e dell’entità del danno consente in questo
modo di superare i criteri discrezionali propri
della catalogazione ICCD.
La codifica del grado di urgenza del danno
consente inoltre una lettura del territorio per
Dalla catalogazione al sistema informativo per la tutela e il monitoraggio del patrimonio culturale della Sardegna: un progetto pilota
priorità di intervento, trasformando il catalogo
in uno strumento di programmazione indispensabile per l’intervento sui manufatti e
quindi di supporto alle pubbliche amministrazioni nella definizione delle strategie di intervento attuabili in funzione delle risorse disponibili.
La scheda A è stata inoltre testata sull’architettura minore e implementata con specifici collegamenti ai parametri urbanistici. Tale scelta
rappresenta un’apertura verso l’utilizzo del
catalogo come base di pianificazione degli
interventi nei centri storici, soprattutto in vista
dell’adeguamento dei Piani Urbanistici
Comunali e dei Piani Particolareggiati dei
Centri Storici alle linee di indirizzo del Piano
Paesaggistico Regionale. Lo screening realizzato dal catalogo, collegato al GIS urbano
costituisce l’ideale premessa conoscitiva per
l’individuazione dei centri matrice di un abitato. Infatti, in assenza di una cartografia sto-
rica specifica, il nucleo urbano antico può
essere individuato solo con una lettura capillare delle unità costruttive che non può essere
né solo tipologica, né solo urbanistica, ma
deve tener conto delle tecniche costruttive, dei
materiali, delle stratificazioni, del contesto
ambientale e paesaggistico.
Tali implementazioni consentono di passare
dal tradizionale concetto statico di catalogo a
quello più direttamente operativo di uno strumento di programmazione, in grado di vagliare
e gestire le priorità di intervento sul territorio
in funzione del reale stato di rischio dei manufatti e indirizzare la tutela e le norme di
gestione del territorio in maniera efficacie e
capillare. L’intervento di manutenzione tempestivo e continuativo, in luogo dei grandi interventi di restauro, consente, infatti, di rallentare
i processi di degrado, con conseguente riduzione dei costi ed ottimizzazione degli investimenti (criterio del minimo intervento).
Contestualmente, la verifica della condizione
d’uso degli edifici consentirà di monitorare la
compatibilità delle funzioni e di incentivare la
valorizzazione culturale e turistica del costruito
storico.
Tale percorso risponde a reali necessità manifestate dagli Enti preposti alla tutela a livello
regionale e locale (Soprintendenze, Regione,
Provincia, Comuni), fornendo un concreto
strumento di supporto alla gestione della tutela
e alla definizione e controllo degli interventi.
In questo modo, pone le basi per garantire la
conservazione, non solo degli episodi architettonici emergenti, ma soprattutto della cosiddetta “architettura minore” che, nella gran
parte dei casi, nonostante sia testimonianza
irripetibile di cultura materiale, è quella maggiormente compromessa, proprio a causa della
mancanza di opportuna conoscenza.
Nuova Antologia, (19/1/1903), Roma 1903, p. 3.
Monumenti ed Oggetti di Antichità e di Belle Arti: una
nella Provincia di Cagliari, l’altra nella Provincia di
Sassari, art. 5, riportato in INGEGNO A., op. cit., Allegato
4, pp. 373-374.
NOTE
1 Le origini della catalogazione nell’Italia preunitaria
sono riconosciute dalla bibliografia specialistica nell’iniziativa di Antonio Maria Zanetti nel 1773, volta a
trasformare le antiche usanze di redigere inventari in
uno strumento di controllo e prevenzione contro il
furto e il trafugamento delle opere.
2
SPANO G., B.A.S. I, 1855, p. 1.
3
INGEGNO A., Storia del restauro dei monumenti in
Sardegna dal 1892 al 1953, Editrice S’Alvure, Oristano
1993, p. 43.
4
RAFFA GARZIA, Storia dell’Arte in Sardegna, estratto da
5
AST, Carte Topografiche, s. III, n. 43 (1856).
6
Si tratta del Commissariato, delle due Commissioni
Provinciali per la Conservazione e pe’ restauri de’
Monumenti ed Oggetti di Antichità e di Belle Arti per le
Province di Cagliari e Sassari e degli Ispettorati
Circondariali che poterono contare ben poco sulla dotazione finanziaria fornita dallo Stato e sulla sensibilità
e collaborazione fornita dai Comuni.
7
Regio Decreto 22/09/1866 che istituisce in Sardegna
due Commissioni per la conservazione e pe’ restauri de’
8
BENCIVENNI M., DALLA NEGRA R., GRIFONI P., Monumenti e
Istituzioni, Ministero per i beni culturali e ambientali,
Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici
per le Province di Firenze e Pistoia, Sezione didattica,
1987, 1992, Parte I, p. 294.
9 VIVANET F., Prima Relazione dell’Ufficio Regionale per la
Conservazione dei Monumenti della Sardegna
(U.R.C.M.S.), Cagliari 1894, p. 6.
87
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
10 IDEM,
Congresso degli Ingegneri e Architetti italiani,
Cagliari 1902, p. 15.
Seconda Relazione…, cit., p. 5.
11
Tra i principali riferimenti normativi di quegli anni in
termini di catalogazione si ricordano: RD 21 agosto
1892: istituzione della Commissione Centrale per la
Compilazione del Catalogo dei Monumenti, avente funzione di coordinamento del lavoro dei diversi Uffici
Regionali Italiani; Circolare n. 1028 dell’11/09/1891
che chiarisce le modalità di compilazione delle schede
degli edifici monumentali; Circolare n. 1034 del
29/09/1891 sull’inventario dei beni di proprietà degli
enti pubblici; Circolare n. 1043 del 05/10/1891 sull’inventario dei beni di proprietà di province e comuni;
Circolare n. 1047 del 19/10/1891 sulla Catalogazione
della parte monumentale del patrimonio dello Stato;
Circolari del 26/06/1891 e 29/06/1892 relative all’obbligo di inserire nell’ambito dei Regolamenti Edilizi
Comunali alcuni articoli a tutela dei monumenti;
Circolare n. 48 del 07/05/1894 relativa all’obbligo di
far compilare ai Comuni l’elenco dei monumenti, ruderi
e oggetti d’arte per sottoporli all’esame delle
Commissioni Conservatrici; Circolare n. 64 del
14/08/1896 che attribuisce al censimento valore di
tutela e detta norme per la compilazione del catalogo.
12
BELTRAMI L., Per la difesa dei nostri monumenti, X
88
13
Ivi, p. 20.
14
Nel 1909 la commissione presieduta dall’on. Rosaldi
stabilisce in un disegno di legge modifiche alle operazioni di censimento del patrimonio artistico del paese
e negli anni 1923 e 1927 con due decreti regi viene
prevista per la prima volta la compilazione di schede
mobili corredate da documentazione fotografica degli
oggetti descritti.
15
R.D. 26 agosto 1907 n. 707, Norme per la redazione
dell’inventario dei monumenti e degli oggetti d’arte.
16 Elenco degli Edifici Monumentali della Provincia di
Cagliari, LXVIII, Roma 1922 e Elenco degli Edifici
Monumentali della Provincia di Sassari, LXIX, Roma
1922.
17 INGEGNO
18
A., op. cit., p. 51.
Nel 1938 durante il suo intervento alla Conferenza
dei Soprintendenti, Roberto Longhi propone una
sostanziale modifica alle schede di catalogazione precedentemente messe a punto. Tale variante rispecchia
la nuova funzione attribuita dallo studioso all’opera di
catalogazione nel raggiungimento “tanto delle esigenze
identificative allo scopo amministrativo, quanto quelle
qualificative a fine sostanzialmente scientifico”.
19
MAROTTA CARBONI A., Storia e cultura del territorio nella
Sardegna degli Stati Sardi (1720-1847), Tesi di
Dottorato in Conservazione dei Beni Architettonici (II
ciclo), 1989, p. 21.
20
FIORINO D.R., Censimento, catalogazione e monitoraggio per la conservazione: morfologia, sistemi costruttivi
e materiali delle torri campanarie in Sardegna dall’eredità medievale al sopralzo barocco e alle realizzazioni
eclettiche, tesi di Dottorato in Conservazione dei Beni
Architettonici, XVI ciclo, Politecnico di Milano,
Relatore: prof. arch. Tatiana K. Kirova, Correlatore:
arch. Maria Mascione, Coordinatore: prof. arch. Alberto
Grimoldi.
21
Per le specifiche tecniche della struttura informatica
e le problematiche di gestione del dato si rimanda
all’articolo di A. Pani in questo stesso volume.
22 Cfr. FIORINO D.R., Censimento, catalogazione e monitoraggio, cit.
STANDARD
CATALOGRAFICI E GESTIONE DEL DATO
Alessandro Pani
INTRODUZIONE
L’attuale standard catalografico adottato
dell’ICCD, la versione 2.0, è stata la base di
partenza per la realizzazione del database per
la catalogazione dei beni culturali del comune
di Muros, parte integrante del progetto di
“Valorizzazione e promozione dei beni culturali e ambientali del territorio comunale di
Muros”.
STRUMENTI
UTILIZZATI
Per la realizzazione del database si è deciso di
utilizzare Microsoft Access 2007. Tale scelta è
stata dettata dalla volontà di contenere i costi
di sviluppo e manutenzione dello strumento.
Inoltre Access gode di ampia diffusione e, una
volta implementata la struttura del database, è
di immediato utilizzo in qualsiasi personal
computer dotato di Microsoft Office
Professional, senza la necessità di usare alcun
server dedicato. Access ha tuttavia costretto, a
operare alcune scelte in merito alla struttura
delle tabelle e delle relazioni. Infatti Access
limita il numero di relazioni per ciascuna
tabella a 32, per cui non è stato possibile
implementare tutte le ripetitività previste nella
struttura del catalogo ICCD.
IMPLEMENTAZIONE
Nonostante i limiti imposti dallo strumento uti-
Esempio di campo ripetitivo. Per ogni Bene MA-CA esistono più scavi, ognuno con i propri campi descrittivi.
lizzato, la strutturazione dei campi ricalca con
buona fedeltà la struttura delle schede AMB, A
e MA-CA del catalogo ICCD. Tali schede si riferiscono a beni ambientali, architettonici e
archeologici. L’implementazione è stata resa
possibile grazie al fatto che l’Istituto Centrale
per il Catalogo e la Documentazione rende
disponibili le specifiche per la compilazione
delle schede di catalogo. Ogni scheda, relativa
ad un singolo bene, è suddivisa in diverse
sezioni; ogni sezione è costituita da più campi.
Ciascun campo, a seconda del contenuto, può
essere ripetitivo o non ripetitivo. Ad esempio,
per un dato bene architettonico (scheda di tipo
A) vi possono essere uno o più autori, e in
questo caso si parla di ripetitività del campo; vi
sarà, altresì, un solo comune di appartenenza,
e in tal caso si parla di non ripetitività del
campo.
La presenza di numerosi campi ripetitivi, con
ulteriori sotto-ripetitività, ha reso piuttosto
complessa la struttura realizzativa delle tabelle
integrate nel database; infatti essa include 75
tabelle e 96 relazioni. Ciascun campo è stato
implementato sotto forma di campo testo
rispettando le specifiche di lunghezza definite
dall’ICCD; inoltre, è stato rispettato il codice
89
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
del campo definito dallo standard e, laddove è
previsto un vocabolario chiuso, questo è stato
rispettato e conformemente riportato. Tutto ciò
è finalizzato a favorire la futura esportazione
dei dati raccolti nel presente progetto verso il
catalogo ufficiale dell’ICCD. Per le necessità di
questo progetto si è scelto di aggiungere ulteriori tabelle e campi rispetto a quelli proposti
dallo standard 2.0 dell’ICCD; ciò ha permesso
di inserire informazioni che sarebbe stato difficile includere in maniera organica e coerente
utilizzando la struttura standard. In particolare,
alle specifiche dell’ICCD sono state aggiunte
altre sezioni relative alla vulnerabilità del bene,
sia per le schede A che per le schede MA-CA,
e altre sezioni relative ai parametri urbanistici
per le schede A.
Inoltre, le schede AMB sono state integrate con
schede sintetiche relative agli elementi florofaunistici e alle specifiche geologiche.
IMMISSIONE
DEI DATI
All’apertura del database viene mostrata una
finestra che permette di scegliere su quale tipo
di scheda (A, AMB, MA-CA) operare. Una volta
scelto il tipo di scheda viene presentata una
maschera di immissione suddivisa in pagine,
selezionabili mediante linguette, allo scopo di
suddividere gli argomenti in macrocategorie
quali: Identificazione, Ambito Culturale,
Cronologia, ecc. Ciascuna pagina mostra i vari
campi raggruppati in sezioni omogenee per
argomento (es. Localizzazione, Oggetto).
L’utilizzo di un sistema di selezione a linguette
permette di razionalizzare la disposizione degli
elementi nell’interfaccia utente, suddividendo
90
le informazioni in pagine facilmente raggiungibili. In presenza di campi con vocabolari chiusi
è possibile selezionare i valori consentiti
mediante l’uso di un menù a cascata.
FRUIZIONE
DEI DATI
Il contenuto del database è visualizzabile sotto
forma di report strutturati. Ogni report mostra
tutti i campi compilati, fornendo una scheda
identificativa completa per ciascun bene.
Ciascun report include, oltre ai campi testuali,
anche un’anteprima delle fotografie catalogate
ed allegate alla scheda. Per ogni foto è prevista anche una visualizzazione del punto di
scatto.
Inoltre, il database genera automaticamente
dei report contenenti un numero ridotto di
informazioni che si integrano col GIS realizzato
nell’ambito di questo stesso progetto. Vengono
così realizzate delle schede descrittive, una per
ciascun bene, che possono essere associate a
precisi punti cartografici ottenendo la massima
fruibilità delle informazioni raccolte.
IL
RILEVAMENTO E LA RESTITUZIONE DEI BENI ARCHITETTONICI
Annetta Cabras
L’operazione conoscitiva condotta su un centro
storico pone in evidenza il problema della
strutturazione dell’immagine formale ovvero
dell’individuazione dei legami esistenti tra le
sue diverse componenti.
Strumento fondamentale per la conoscenza del
costruito in generale è il rilievo.
Qualsiasi organismo architettonico si presenta
ad un osservatore come un sistema tridimensionale, più o meno complesso, nel quale risultano strettamente connesse parti esterne visibili
e parti interne non visibili.
Il rilievo dell’elemento di un contesto urbano si
attua attraverso un sistema di lettura che va
oltre la semplice misurazione del manufatto e
parte dalla schematizzazione manuale su carta
sino ad arrivare alla restituzione informatizzata
mediante diverse metodologie evolutesi negli
anni. La raccolta dei dati dipende numericamente e qualitativamente da molteplici fattori.
È cioè strettamente dipendente dallo scopo
documentale, dalla scala di rappresentazione
dei risultati, e, operativamente, dall’accessibilità del manufatto, dei suoi dettagli costruttivi e
Fg. 1 - Muros - Restituzione grafica bidimensionale. Edificio in via Roma, 1 - Prospetti e dettaglio portone.
decorativi, nonché dagli strumenti tecnici a
disposizione.
È quindi evidente la necessità di un progetto
logico del rilievo tendente ad individuare le
scelte strategiche più opportune atte a minimizzare gli errori derivanti dalle imprecisioni
strumentali o dallo scambio di dati tra le
diverse competenze coinvolte nell’operazione.
Esso si conclude sempre e comunque con una
valutazione ed interpretazione dei risultati, parziali o sovrabbondanti, che, nel caso dell’edificio storico, non può mai prescindere dal confronto coi paradigmi architettonici formali culturalmente acquisiti.
La fase della restituzione costituisce il
momento di sintesi (fig. 1) e di ricucitura dei
vari aspetti dell’oggetto del rilevamento rappresentato nel suo stato attuale, ma spesso
risultato dell’avvicendarsi di modifiche derivanti dal suo uso nel tempo.
Diversi sono gli strumenti utilizzabili in questa
fase. Ai fini della semplice rappresentazione
bidimensionale sono di importante ausilio i
software destinati al fotoraddrizzamento che,
utilizzando gli algoritmi della fotogrammetria,
consentono di correggere deformazioni foto-
91
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
grafiche, identificare le linee di fuga e calibrare
in scala, di effettuare cioè i rilievi di massima
dalle sole immagini digitali. (fig. 2)
Per ciò che riguarda invece la restituzione di
architetture articolate ci si può avvalere di software dedicati alla grafica tridimensionale avanzata che permettono l’inserimento diretto dei
dati rilevati con gli strumenti topografici (in
formato ASCII o grafico) rendendo possibile la
generazione di modelli virtuali di inequivocabile lettura e oggettiva validità documentale.
(fig. 3)
Il loro uso fornisce, oltre l’esatta rappresentazione formale dell’oggetto nello spazio, la
creazione di una banca dati intrinseca al
modello costantemente aggiornabile e di facile
consultazione ai fini del monitoraggio dei beni
architettonici.
Fig. 2 Muros - Fotoraddrizzamento e restituzione grafica bidimensionale. Edificio in via Roma, 15.
Software utilizzati: Allplan 2006, Allplan Photo.
Fig. 3 - Muros - Restituzione grafica tridimensionale. Edificio in via Roma, 1 - Modello 3d.
92
IL
RILEVAMENTO E LA RESTITUZIONE DEI BENI ARCHEOLOGICI
Carla Giuffrida Trampetta
Il rilievo di dettaglio dei siti archeologici ha
preso avvio nel mese di ottobre 2006 sulla base
delle risultanze della prima fase di rilevazione
topografica e georeferenziazione. Considerata la
ridotta accessibilità ai siti, per la maggior parte
difficili da raggiungere, è stato necessario limitare i sopralluoghi a non più di due per sito,
durante i quali si è anche proceduto ad un infittimento dei punti topografici che potessero
costituire opportune basi per la restituzione
fotogrammetrica dei prospetti, come per esempio nel caso di Rocca Ruja e Badde Ivos1.
Nell’operazione di restituzione degli 11 siti rilevati, si è cercato di porre l’accento su elementi
di particolare rilevanza per lo studio archeologico come l’orientamento, le tecniche costruttive, la dimensione degli elementi lapidei, oltre
che la forma e le dimensioni complessive del
sito. L’accuratezza del dettaglio perseguita nella
restituzione è utile a documentare anche lo stato
di consistenza e conservazione dei manufatti
che si trovano attualmente in stato di abbandono. Soprattutto nel caso dei siti archeologici
abbandonati, la fedele rappresentazione degli
elementi costruttivi è di particolare importanza a
causa del rischio di perdita dei manufatti stessi
per degrado, incuria o vandalismo.
La scala di restituzione utilizzata varia da 1:50
per le planimetrie generali a 1:20 per gli elementi costruttivi. I rilievi, corredati da indica-
zioni metriche e riferimenti ai punti di scatto
della campagna fotografica, costituiscono parte
del sistema informativo, implementando la specifica sezione della scheda ministeriale MACA2.
1 Sulla metodologia di rilievo fotogrammetrico cfr.
VACCA G., La geomatica per il rilievo e la rappresentazione del patrimonio culturale, in questo stesso testo.
2 Per il sistema informativo cfr. FIORINO D.R., Dalla
catalogazione al sistema informativo per la tutela e il
monitoraggio del patrimonio culturale della Sardegna:
un progetto pilota, in questo stesso testo
Sa Turricula. Rilievo della muratura riconducibile alla fase
nuragica e relativo rilievo fotografico.
Sa Turricula. Planimetria generale del sito quotata con punti
di appoggio alla georeferenziazione.
93
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
Tomba di giganti presso monte Simeone. Planimetria generale quotata con punti di appoggio alla
georeferenziazione
Strada romana Coa de Redulas, rilievo di una sistemazione a gradino e di un tratto
di pavimentazione.
Tomba di giganti presso monte Simeone. Sezione longitudinale quotata.
Su Nuraghe: planimetria generale del sito quotata con punti di appoggio alla georeferenziazione
e punti di scatto fotografici
Ipogeo di Rocca Ruja. Prospetto quotato con punti di appoggio alla georeferenziazione.
Ipogeo di Rocca Ruja. Sezione longitudinale quotata.
94
Su Nuraghe: viste laterali.
LA
GEOMATICA PER IL RILIEVO E LA RAPPRESENTAZIONE DEL PATRIMONIO CULTURALE
Giuseppina Vacca
INTRODUZIONE
L’Italia “patria dell’arte” e “museo diffuso” è
uno degli Stati con il patrimonio di beni culturali tra i più importanti e ricchi al mondo. Ciò
è
anche
confermato
dall’UNESCO
(Organizzazione delle Nazioni Unite per
l’Educazione la Scienza e la Cultura) che, sulla
base della lista World Heritage 2002/3, classifica l’Italia come il Paese che detiene il maggiore patrimonio culturale del mondo, con
circa il 6% dei beni classificati come patrimonio dell’umanità. Aldilà di queste statistiche, è
facile per chiunque passeggiare per le città e
paesi italiani e scoprire l’esistenza di una moltitudine di beni, più o meno importanti dal
punto di vista storico, architettonico, ambientale, e rimanerne affascinati. Alcune volte però
troviamo questi siti in stato di totale abbandono o in decadenza, altre volte non si riesce
a reperirne notizie né sulle guide, né sui siti
internet, né presso gli uffici turistici. Capita
spesso, inoltre, che le stesse amministrazioni,
proprietarie dei beni, non conoscano completamente ed esaustivamente il loro patrimonio
culturale. Con l’ovvia conseguenza che ciò che
non si conosce non può essere catalogato e
quindi valorizzato e conservato al meglio.
Il progetto “Valorizzazione e promozione dei
beni culturali e ambientali del territorio comunale di Muros” nasce proprio con questo obiettivo: conoscere il proprio patrimonio culturale
per una buona conservazione, valorizzazione e
promozione ai fini turistici e culturali dei beni
presenti nel territorio comunale di Muros.
Per raggiungere questi obiettivi è di fondamentale importanza la “conoscenza” del bene sia
dal punto di vista storico, architettonico e artistico sia dal punto di vista geospaziale: georeferenziazione sul territorio, studio della forma,
colore e dimensione del bene, materiali utilizzati.
La geomatica, vista come l’insieme di tecniche
per il rilevamento, si fonde con la storia dell’arte, l’architettura e l’archeologia per fornire
una conoscenza profonda del bene tale da permetterne la sua documentazione, la sua valorizzazione, la sua conservazione e, nel caso
fosse necessario, il suo rispristino attraverso
operazioni di restauro. Basata sulla struttura
scientifica della geodesia, la geomatica usa
“sensori” di diversa tipologia terrestri, marini,
aviotrasportati e satellitari che insieme a
diverse metodologie permettono di acquisire,
analizzare e modellare dati spaziali per gli
scopi più vari inerenti il rilevamento e la rappresentazione del territorio. Le discipline della
geomatica hanno conosciuto, in questi ultimi
anni, un profondo rinnovamento che offre
nuove prospettive di intervento in diversi
campi. In particolar modo in quello dei beni
culturali, grazie sopratutto all’integrazione e
alla complementarietà di tecniche e tecnologie
diverse, quali i laser scanner, le termocamere,
la fotogrammetria digitale, i GIS, ecc.
Alcune di queste tecniche sono state utilizzate
a supporto delle fasi di rilevamento e di valorizzazione del patrimonio dei beni culturali di
Muros: dal rilevamento satellitare GPS per i
rilievi dei percorsi turistici e per la georeferenziazione dei siti, alla fotogrammetria digitale e
alla topografia classica per i rilievi dei beni ed
infine i Sistemi Informativi Territoriali (GIS) per
una migliore gestione e diffusione dei dati raccolti.
METODOLOGIE E TECNICHE GEOMATICHE
PER IL RILEVAMENTO DEI BENI CULTURALI
Il rilevamento dei beni culturali, sia per la
variegata tipologia di beni (edifici, dipinti, siti
archeologici, ecc.) sia per la differente e a volte
complessa forma geometrica, presenta delle
95
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
caratteristiche che possono renderlo di difficile
esecuzione attraverso le normali metodologie
geomatiche. Negli ultimi anni la tecnologia ha,
sicuramente, offerto un contributo sostanziale
alle tecniche di rilievo utilizzate per i beni culturali, permettendo di realizzare rilievi che,
solo alcuni anni fa, era impossibile immaginare. Basti citare ad esempio il laser scanner
che permette di rilevare, in modo esaustivo,
beni, anche di piccolissime dimensioni, con la
precisione sub-millimetrica. Le problematiche
legate a tali rilievi sono varie e dipendenti da
diversi fattori: dall’ambiente in cui ci si trova a
lavorare, alle precisioni richieste, alla scala di
rappresentazione.
Entrando maggiormente nel dettaglio, uno
degli aspetti da tenere in considerazione è
quello della rappresentazione multiscala.
Spesso, infatti, gli esperti del settore richiedono
sia il rilievo di dettaglio del bene (scala 1:50 o
più grande) sia il suo inquadramento in un
contesto più ampio quale l’ambito urbano o
territoriale (scala 1:200 o più piccola). Ci si
trova, dunque, di fronte a strumenti e tecniche
di rilievo differenti, che operano con diverse
precisioni e in differenti sistemi di riferimento
(locali o nazionali), ma che alla fine devono
colloquiare tra loro. Un altro aspetto, legato al
precedente, è l’accuratezza stessa richiesta dal
rilievo. Questa può essere molto elevata (millimetrica o sub-millimetrica) per studi finalizzati,
ad esempio, alla diagnostica, al monitoraggio
del degrado o delle deformazioni o per una
riproduzione stessa del bene, oppure la precisione può passare in secondo piano nei casi in
cui il rilievo è finalizzato alla mera visualizza-
96
zione ed esplorazione del bene all’interno di
prodotti multimediali.
Ciò che è importante, quindi, quando ci si
trova a progettare un rilievo di un bene, è
capire le esigenze dell’archeologo sia in termini di precisione metrica richiesta, sia i termini di finalità del rilievo stesso così da individuare le tecniche e gli strumenti più idonei da
utilizzare.
Altri problemi possono derivare dall’ambiente
in cui si opera, spesso infatti i beni sono ubicati in zone non facilmente accessibili o liberi
da ostacoli, altre volte è fatto divieto al rilevatore di entrare in contatto con il bene stesso
per motivi di sicurezza e di salvaguardia. In
questi casi l’operatore si trova costretto ad utilizzare tecniche e dispositivi speciali (trabattelli, carrelli elevatori, palloni, aquiloni, ecc.)
per poter eseguire il rilievo o per accelerarne i
tempi onde evitare di ostacolare il lavoro degli
esperti del settore durante gli scavi o lo studio
del sito.
I dati geospaziali ottenuti dai rilievi topografici,
fotogrammetrici vanno poi ad integrarsi con
tutta un’altra serie di dati di tipo storico,
archeologico, architettonico, ambientale creando quindi una mole di dati non indiferrente.
Per la loro integrazione e per una loro maggiore fruibilità vengono in aiuto quegli strumenti identificati come GIS (Geographic
Information System) ovvero i Sistemi
Informativi Territoriali che hanno la funzione
di collegare dati alfanumerici quali informazioni, dati, immagini, filmati a dati geografici
univocamente identificati sul territorio. Questi
sistemi permettono inoltre di effettuare analisi
di diverso tipo a supporto della gestione e
della valorizzazione degli stessi beni.
Con la diffusione di Internet, inoltre, viene
offerta anche la possibilità di distribuire i dati
presenti in un GIS in rete attraverso i WEBGIS,
ovvero Sistemi Informativi Territoriali consultabili direttamente via WEB attraverso i normali
browser (Internet Explorer, Netscape ecc).
Ormai sono davvero tante le amministrazioni
che stanno sviluppando questo tipo di prodotti
con l’intento di offrire una maggiore diffusione
del proprio patrimonio culturale, dando vita
così a quello che oramai viene definito “turismo tecnologico”, che fa uso di strumenti altamente performanti quali PDA, cellulari di
ultima generazione, Ipod o PSP (Play Station
Portable) per ottenere la massima assistenza
negli spostamenti e nelle ricerche di informazioni turistico-culturali sul territorio.
Quanto detto finora, ha mostrato una panoramica sulle problematiche e sulle potenzialità
delle tecniche della geomatica finalizzate al
rilievo e alla rappresentazione del patrimonio
culturale. Nei paragrafi successivi verrà data
una descrizione più dettagliata delle tecniche e
degli strumenti utilizzati per il rilievo e la rappresentazione del patrimonio culturale del
Comune di Muros, così come previsto dal progetto di “Valorizzazione e promozione dei beni
culturali e ambientali del territorio comunale di
Muros”. In particolare i rilievi effettuati sono
stati finalizzati alle seguenti operazioni:
-
georeferenziazione del patrimonio archeologico nel sistema cartografico nazionale
Gauss-Boaga;
La geomatica per il rilievo e la rappresentazione del patrimonio culturale
-
rilievo e rappresentazione dei siti archeologici e architettonici;
-
realizzazione di percorsi di trekking turistico tra i beni culturali e ambientali di
Muros con metodologia GPS/GIS;
-
realizzazione di un GIS per la gestione e la
fruizione del patrimonio culturale di Muros.
LA GEOREFERENZIAZIONE
DEL PATRIMONIO ARCHEOLOGICO
L’inquadramento dei beni archeologici del
comune di Muros nel sistema cartografico
nazionale Gauss-Boaga è stato realizzato utilizzando il sistema satellitare GPS (Global
Positioning System).
Il GPS è un sistema di posizionamento utilizzato sia per scopi navigazionali, in cui la precisione richiesta non è molto elevata (ordine
del metro), sia per scopi geodetici dove le precisioni richieste sono sub-centimetriche.
Il sistema GPS è formato da:
-
un segmento spaziale costituito da 24 satelliti che ruotano attorno alla Terra su orbite
fisse ad una quota di circa 20.200 km dalla
superficie terrestre;
-
un segmento di controllo costituito da stazioni a terra che hanno il compito di calcolare le orbite reali dei satelliti e gli errori
legati agli orologi a bordo dei satelliti;
-
un segmento utente costituito dai ricevitori
a terra.
La posizione delle orbite e il periodo di rotazione dei satelliti intorno alla Terra di ogni
satellite, sono studiati in modo che in ogni
punto della superficie della Terra e in qualsiasi
momento della giornata siano sempre visibili
almeno 4 satelliti.
I satelliti emettono con continuità dei segnali
su due frequenze L1 ed L2, in forma di onde
elettromagnetiche, che vengono modulate
secondo due codici, il codice C/A libero a tutta
l’utenza civile e il codice P criptato ad uso
esclusivo per i militari e gli utenti autorizzati.
Ogni segnale trasporta informazioni di tempo,
di posizione e stato di salute dei satelliti e permettono al ricevitore a terra di determinare la
sua posizione tridimensionale rispetto al
sistema di riferimento proprio del GPS chiamato WGS84 (World Geodetic System).
Il posizionamento GPS può essere effettuato
secondo differenti tecniche:
1) Posizionamento assoluto: la posizione di un
punto si determina con un’incertezza dell’ordine di ± 10-15 m. Si tratta di una tecnica
di precisione sufficiente per la navigazione
o per tracciamenti speditivi. In questo tipo
di tecnica è sufficiente utilizzare un solo
ricevitore e stazionare sul punto il tempo
sufficiente affinché il ricevitore riceva il
segnale da almeno 4 satelliti. Il posizionamento assoluto può essere eseguito con
misure di pseudorange, sfruttando la componente “codice” del segnale, che si basa
sulla misura dell’intervallo di tempo t di
propagazione del segnale, oppure con
misure di fase, eseguite sulla componente
“portante” del segnale, che si basa sulla
misura di sfasamento tra l’onda portante del
satellite e quella replicata dal ricevitore;
2) Posizionamento relativo: la posizione di un
punto (rover) si determina rispetto ad un
altro punto considerato noto (master). In
pratica viene determinato il vettore posizione (baseline) tra i due punti nelle sue tre
componenti rispetto a una terna cartesiana
assegnata. La precisione è dell’ordine di
qualche milionesimo della distanza, pari
quindi, o superiore, a quella di operazioni
geodetiche classiche eseguite con la massima accuratezza.
Con tale tecnica si possono eseguire rilievi in
diversa modalità:
- statica, nella quale il rover staziona sul
punto incognito per un certo periodo di
tempo, la precisione che si ottiene è subcentimetrica;
- cinematica nel quale il rover si muove
lungo una traiettoria, la precisione che si
ottiene è di qualche centimetro.
All’interno di questa tecnica vi sono
diverse modalità operative una delle quali
è detta “stop&go”, nella quale il rover staziona qualche secondo sui punti da rilevare, a differenza del “continuo” nel
quale il rover è in continuo movimento;
- statico-rapida in cui il rover staziona
alcuni minuti sul punto da rilevare e poi
si sposta nel punto successivo, la precisione che si ottiene è di qualche centimetro.
3) Posizionamento
differenziale
DGPS
(Differential GPS). In questa tecnica si
usano due o più ricevitori: uno posto su un
vertice di riferimento A (master), di posizione nota, ed uno su B (rover), solita-
97
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
mente in movimento, che occupa i punti di
nuova determinazione. La stazione master
calcola le correzioni di pseudorange PRC
(pseudo range correction) e le loro variazioni nel tempo RRC (range rate correction)
per poi inviarle al rover. Questo, applica le
correzioni alle sue misure di pseudorange e
determina la sua posizione con i range corretti, migliorando la precisione delle coordinate rispetto al posizionamento assoluto in
tempo reale. Il posizionamento differenziale può essere applicato al range di
codice o di fase. La correzione differenziale
può essere trasmessa in tempo reale dal
ricevitore base alla stazione rover, oppure
in post processamento. Le correzioni vengono inviate al rover nel formato standard
RTCM o nei formati proprietari delle ditte
costruttrici dei ricevitori. Nelle misure di
pseudorange di codice la tecnica è chiamata “Differential GPS” e la precisione è
metrica o sub-metrica; nelle misure di fase
prende il nome di RTK (Real Time
Kinematic) e la precisione è centimetrica.
4) Posizionamento differenziale Wide Area
(WADGPS), utilizza le correzioni trasmesse
dai satelliti geostazionari dei sistemi SBAS
(Satellite-Based Augmentation System). Il
sistema SBAS europeo EGNOS è basato sull’utilizzo dei sistemi di posizionamento
satellitare americano GPS e russo GLONASS
integrati dall’utilizzo di 3 satelliti geostazionari INMARSAT 3 (AOR-E (Atlantic Ocean
Region East), IOR (Indian Ocean Ragion) e
ARTEMIS. Il sistema è costituito da una
serie di stazioni di monitoraggio denomi-
98
nate RIMS (Ranging and Integrity
Monitoring Stations) connesse ad una serie
di centri di controllo e di elaborazione dati
denominati MCC (Master Control Centre).
Le RIMS hanno il compito di calcolare le
correzioni differenziali per ciascun satellite
della costellazione GPS o GLONASS monitorato, il ritardo ionosferico e le effemeridi
dei satelliti geostazionari. Queste informazioni sono inviate alle stazioni NLES
(Navigation Land Earth Stations) che le trasmette ai satelliti geostazionari i quali, a
loro volta, le ritrasmettono agli utenti a
terra. Il segmento utente è costituito dai
ricevitori GPS abilitati a ricevere le correzioni dai satelliti geostazionari di sistemi di
questo tipo. La precisione del posizionamento si aggira intorno al metro.
Il sistema di riferimento adottato per il GPS,
come già detto, è il sistema WGS84. L’origine
del sistema coincide con il centro di massa
“convenzionale” della terra, l’asse Z è diretto
come l’asse di rotazione terrestre “convenzionale”, l’asse X è formato dall’intersezione tra il
piano meridiano di riferimento e il piano equatoriale e l’asse Y è tale da formare una terna
ortogonale destrorsa. A questo sistema geocentrico cartesiano è associato l’ellissoide WGS84,
definito dal DMA (Defence Mapping Agency),
avente centro ed assi coincidenti con quelli
della terna OXYZ.
Le tecniche di posizionamento GPS sono state
utilizzate ampiamente all’interno del progetto
“Valorizzazione e promozione dei beni culturali e ambientali del territorio comunale di
Fig. 1 - Siti archeologici e ambientali georeferenziati.
La geomatica per il rilievo e la rappresentazione del patrimonio culturale
Muros” sia per la georeferenziazione dei siti
archeologici sia per la creazione dei percorsi
turistici tra i beni culturali di Muros.
La georeferenziazione dei siti archeologici è
stata realizzata con il GPS in modalità staticorapida. La stazione master utilizzata è la stazione permanente GPS ubicata nel comune di
Alghero che fa parte della rete regionale GPS
di proprietà della società “Geodesia
Tecnologia” srl di Cagliari.
Le coordinate WGS84 sono state trasformate
nel sistema di riferimento Roma40 utilizzando
il software ufficiale dell’IGM (Istituto
Geografico Militare) Verto2.
Nella fig. 1 sono indicati i siti rilevati all’interno
della cartografia del comune di Muros.
RILIEVO E RAPPRESENTAZIONE
DEI SITI ARCHEOLOGICI E ARCHITETTONICI
Per la valorizzazione dei beni culturali, come
già detto precedentemente, è di fondamentale
importanza la conoscenza della forma e della
geometria del bene stesso, che contribuisce a
fornire una rappresentazione spaziale precisa
ed esaustiva del bene.
Il rilevamento e la rappresentazione dei beni
sono stati realizzati dal gruppo di rilevatori
(ingg. A. Cabras e C. Giuffrida), coordinato dal
Prof. Michele Pintus dell’Università di Cagliari,
supportato dal gruppo di topografi della
Società Geos’Team di Oristano, coordinato
dall’Ing. Giuseppina Vacca dell’Università di
Cagliari. Oggetto dei rilievi sono stati tutti i
beni archeologici ubicati in agro di Muros e
alcuni edifici rappresentativi dell’architettura
del Comune di Muros.
Sulla base dei sopralluoghi dei siti da rilevare
sono state definite le tecniche geomatiche e gli
strumenti da utilizzare. In alcuni siti è stato sufficiente eseguire dei rilievi con una Stazione
Totale con tecnologia DR (Direct Reflex), in
altri casi si è optato per un rilievo di tipo fotogrammetrico. La prima scelta è ricaduta per
tutti quei siti che presentavano un’architettura
semplice e senza forme complesse, per i quali
il rilievo di strategici punti tridimensionali ha
permesso, insieme alle tecniche tradizionali, di
inquadrare il bene e di darne una sua rappresentazione a grande scala 1:50 e 1:20 (Strade
romane di San Leonardo e Ponte romano sul
rio Badde Olia).
In atri casi si è optato per un rilievo fotogrammetrico digitale integrato con rilievi topografici
classici e tecniche di rilievo tradizionali. In particolare, con tali tecniche, sono stati rilevati i
prospetti frontali di alcuni beni (Domus di
Rocca Ruja e gli ipogei di Badde Ivos).
Lo sviluppo della fotogrammetria digitale nel
campo dei beni culturali, nota anche come
fotogrammetria dei vicini, è dovuta soprattutto
alla caratteristica di essere una tecnica che non
richiede il contatto con l’oggetto, di rapida esecuzione e di elevata precisione.
Il rilievo fotogrammetrico può sinteticamente
suddividersi in diverse fasi: progetto della
presa, presa dei fotogrammi, appoggio a terra,
orientamento e restituzione dei fotogrammi.
A seconda dell’oggetto da riprendere e soprattutto degli aggetti presenti, le prese possono
essere stereoscopiche o monoscopiche. Nel
caso di un oggetto piano, ovvero di un oggetto
i cui aggetti possono essere ritenuti piccoli e,
sotto certi aspetti, trascurabili, possono eseguirsi delle prese monoscopiche. In tal caso
l’orientamento e la restituzione dei fotogrammi
risulta di più facile realizzazione anche per i
non addetti ai lavori. L’orientamento consiste
in un semplice raddrizzamento che può essere
eseguito da moltissimi software CAD presenti
sul mercato.
Il raddrizzamento si basa sull’applicazione di
un’omografia tra il piano del fotogramma e il
piano che contiene l’oggetto. I parametri dell’omografia vengono stimati sulla base di
almeno 4 punti noti sia nel sistema di riferimento esterno X, Y sia nel sistema interno dell’immagine (posizione di riga e colonna dei
pixel).
Le immagini raddrizzate, quindi, sono a tutti gli
effetti delle proiezioni ortogonali e come tali
possono essere restituite in forma grafica con
l’ausilio di software di tipo CAD. Questa è la
tecnica utilizzata per le facciate dei siti di Rocca
Ruja e di Badde Ivos, si trattava infatti di prospetti piani per i quali il raddrizzamento fornisce buone precisioni e tempi di realizzazione
veloci a costi limitati.
Le prese sono state effettuate con una camera
digitale amatoriale Sony DSC-T7, il raddrizzamento con il software fotogrammetrico GcartoGDS della Geosoft (vedi fig. 2) e la restituzione
con il software AutoCad dell’AutoDesk (vedi
fig. 3).
L’appoggio dei fotogrammi è stato realizzato
con una Stazione Totale DR della Trimble.
99
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
REALIZZAZIONE
DI UN PERCORSO
DI TREKKING TURISTICO TRA I BENI
CULTURALI E AMBIENTALI DI MUROS
Seguendo la politica del Club Alpino Italiano
(CAI) che promuove il motto “Camminare per
conoscere e tutelare” e che in questi ultimi
anni l’ha visto impegnato nell’informatizzazione dei sentieri e nella creazione del “Catasto
dei Sentieri”, si è voluto progettare e realizzare
un percorso turistico finalizzato alla conoscenza del patrimonio culturale di Muros, dai
beni archeologici a quelli ambientali.
Per facilitare la creazione del “Catasto dei
Sentieri”, il CAI ha intrapreso due strade: per
primo la creazione di un database dei Sentieri
CAI che si propone di censire la sentieristica
italiana dandone una descrizione dettagliata a
cui segue lo sviluppo di SIWGREI, un WEBGIS
della rete escursionistica italiana.
Il sistema WEBGIS SIWGREI si prefigge diversi
obiettivi. Dal punto di vista gestionale il
sistema permette di quantificare la rete dei sentieri in Italia, di individuare quelli con problemi
di degrado da sottoporre a lavori di manutenzione e di fornire informazioni di tipo ricettivoturistico presenti lungo i sentieri. Dal punto di
vista escursionistico consente la programmazione di escursioni definendone il percorso, i
dislivelli, le pendenze, i tempi di percorrenza e
le difficoltà del percorso progettato. A scopo
divulgativo costituisce la prima banca on-line
dei sentieri in Italia, evidenziandone le bellezze naturalistiche, ambientali, storiche,
archeologiche. Tale sistema, permetterà la
creazione di carte escursionistiche e lo scambio d’informazioni con altri WEBGIS di questo
100
Figg. 2 e 3 - A sinistra immagine ingresso ipogeo Badde Ivos raddrizzata, a destra restituzione del prospetto.
tipo. Infine, dal punto di vista istituzionale permetterà lo scambio e l’integrazione di dati con
gli altri gestori di reti di sentieri: regioni, parchi, comunità montane, ecc.
Per quanto riguarda il progetto Muros si è
deciso di studiare alcuni percorsi all’interno del
territorio, con l’obiettivo di offrire all’escursionista-turista una passeggiata tra i siti di maggiore interesse sia dal punto di vista storicoarcheologico sia dal punto di vista naturalistico-ambientale.
Per rilevare il percorso è stato utilizzato un
sistema integrato GPS-GIS. Questi sono degli
strumenti che offrono la possibilità di rilevare,
in tempo reale e con discrete precisioni, ele-
menti presenti sul territorio e di associare a
questi, informazioni e attributi consentendone
la loro rappresentazione direttamente all’interno di un sistema informativo territoriale.
Sono costituiti essenzialmente da un sensore
GPS navigazionale, con la possibilità di correzione differenziale del dato, accoppiato ad un
controller tipo PDA (Personal Digital Assistant)
o un notebook su cui è installato un software
in grado di trasferire la posizione GPS rilevata,
direttamente all’interno del GIS. I principali
vantaggi legati all’utilizzo di questi strumenti
sono essenzialmente la loro facilità d’uso, il
ridotto peso e le limitate dimensioni che permettono agli utenti di effettuare il rilievo del
La geomatica per il rilievo e la rappresentazione del patrimonio culturale
Fig. 4 - Percorso n. 1 Badde Ivos - Canechervu.
percorso attribuendogli, direttamente sul
campo, informazioni e dati utili ai fruitori futuri
di quel percorso. Il percorso così realizzato,
può essere convertito nei formati standard GPS
più diffusi, come ad esempio il formato
Garmin, così da essere utilizzato dagli escursionisti in possesso di un GPS per la guida al percorso. Il sistema GPS-GIS utilizzato nel rilievo
del percorso è composto dal GPS GeoXT della
Trimble integrato in un PDA con sistema operativo Windows CE 3.0. Il ricevitore funziona
sia in modalità DifferentialGPS sia in modalità
WADGPS. I dati GPS possono essere anche
corretti in fase di post-processamento con il
software della Trimble PathFinder. La correzione differenziale può utilizzare dati provenienti da una stazione master oppure, molto
utile per i meno esperti, scaricati direttamente
dalla rete internet attraverso un sistema di classificazione di PathFinder chiamato “Integrity
Index” che fornisce un elenco, costantemente
monitorato, dei provider di dati di stazioni permanenti di tutto il mondo. Il post-processamento differenziale può avvenire sia sul
codice, sia sulla fase della portante, permettendo, quindi, precisioni migliori. Il software
PathFinder esporta i dati corretti in diversi formati vettoriali DXF, shp, SSF Trimble ecc. e
diversi formati immagine (jpeg, tif, ecc.).
Il software GIS, connesso al GPS, utilizzato nel
rilievo dei sentieri è ArcPad della ESRI che permette di ottenere il rilievo direttamente in formato shapefile e attribuire i dati alfanumerici
agli elementi rilevati. Globalmente sono stati
rilevati 2 percorsi ubicati uno a nord della S.S.
131 e uno a sud, così da evitare ai turisti di
dover attraversare l’arteria principale della
Sardegna che collega Cagliari a Sassari.
I dati rilevati in tempo reale sono stati successivamente corretti con il software PathFinder
utilizzando la stazione permanente GPS ubicata ad Alghero con correzione differenziale di
fase. La precisione ottenuta si aggira intorno a
qualche decimetro. Il percorso indicato come
“Percorso 1” parte dalla chiesa parrocchiale e
tocca i seguenti siti storico-archeologici: gli
ipogei di Badde Ivos, la Strada romana (Santu
Lionardu, Coa de Redulas), i resti della chiesa
medievale di San Leonardo e la domus de
janas di Rocca Ruja. Il percorso termina nel sito
ambientale Canechervu. (fig. 4)
Il “Percorso 2” parte dalla Scala di Giocca per
arrivare al Ponte romano e proseguire per i siti
monte Fenosu, Grotta dell’Inferno, Sa Crabola,
monte Tudurighe, l’insediamento abitativo di
Sa Turricula, del recinto megalitico di monte
Simeone, le domus de janas di S’Isteri e di
monte Terras, il rio Mascari, il nuraghe Santu
Giorzi fino ad arrivare al monte Frundas.
REALIZZAZIONE DEL GIS PER LA GESTIONE
DEL PATRIMONIO CULTURALE DI MUROS
Tutte le informazioni spaziali ottenute con i
metodi sopra descritti, insieme a quelle ottenute dagli studi degli archeologi e degli storici,
relative ai beni di Muros sono state archiviate
in un sistema informativo territoriale tale da
consentirne una facile accessibilità, gestibilità e
disponibilità a tutti gli utenti coinvolti nella
conservazione e valorizzazione di tale patrimonio. Un sistema informativo territoriale SIT o
GIS (Geographic Information System) è,
101
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
secondo la definizione di Burrough (1986), un
sistema informatico composto di una serie di
strumenti software per acquisire, memorizzare,
estrarre, trasformare e visualizzare dati spaziali
dal mondo reale e in grado di produrre, gestire
e analizzare dati associando a ciascun elemento geografico una o più descrizioni alfanumeriche. Nei GIS sono presenti tre tipologie
d’informazioni:
-
informazioni geometriche, relative alla rappresentazione dell’oggetto quali le primitive
(punto, polilinea, area) e la posizione geografica;
-
informazioni topologiche, riferite alle relazioni reciproche tra gli oggetti (connessione, adiacenza, inclusione, ecc.);
-
informazioni riguardanti gli attributi (numerici, testuali, ecc.) associati ad ogni elemento geografico.
Il GIS prevede la gestione di queste informazioni in un database di tipo relazionale, che
presenta normalmente delle funzionalità di
analisi spaziale, ovvero di trasformazione ed
elaborazione degli elementi geografici e degli
attributi quali ad esempio: l’overlay topologico,
le query spaziali, il buffering, ecc.
Per quanto riguarda il Comune di Muros è stato
realizzato un GIS in cui sono stati fatti convergere tutti i dati rilevati, durante tutte le fasi del
progetto “Valorizzazione e promozione dei
beni culturali e ambientali del territorio comunale di Muros”, dalle diverse figure coinvolte
nel progetto: archeologi, storici, topografi, rilevatori, geologi, biologi, ecc. Le informazioni
alfanumeriche sono state archiviate nelle
schede ICCD (Istituto Centrale per il Catalogo
e la Documentazione) e nel database che le
contiene (vedi articolo D. Fiorino). Il database
è stato successivamente collegato, all’interno
del GIS, alle informazioni spaziali dei beni culturali ottenute nelle diverse campagne di
rilievi. Il software utilizzato per il GIS è ArcGIS
8.3 della ESRI. Con tale sistema è stato possibile elaborare carte tematiche sulla diverse
tipologie che caratterizzano i beni quali l’epoca
di costruzione, la tipologia costruttiva, ecc.
CONCLUSIONI
In questo articolo sono state presentate alcune
tecniche geomatiche utilizzate nel progetto
“Valorizzazione e promozione dei beni cultu-
rali e ambientali del territorio comunale di
Muros”, finalizzate principalmente a misurare e
a georiferire i beni culturali di Muros sul territorio.
All’interno del progetto le tecniche geomatiche
sono state in alcuni casi di supporto al meticoloso lavoro dei rilevatori, in altri hanno offerto
la possibilità di fornire degli strumenti agli
amministratori e ai turisti per fruire meglio del
patrimonio di Muros.
Il progetto, nel suo complesso, si è rivelato
interessante sopratutto grazie alle sinergie che
sono confluite. I contributi di tutti gli operatori,
i tecnici e gli studiosi hanno permesso di fare
un lavoro di ricerca, di rilievo, di misura e di
catalogazione che ancora non esisteva per la
maggior parte dei beni di Muros. Tutto il
lavoro prodotto all’interno di questo progetto,
rappresenta sicuramente un buon punto di
partenza, per l’amministrazione comunale, per
la gestione, la conservazione e la valorizzazione del proprio patrimonio che in questi
mesi di lavoro a Muros abbiamo imparato ad
amare e ad apprezzare.
BIBLIOGRAFIA
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Selandari S., “Il rilievo di sentieri secondo specifiche CAI
tramite sistemi integrati mobile-GIS e GPS”. Atti della X
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Magazine Bi- Monthly Vol. 1 Issue 5 September-October
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Breveglieri M., Geri A., Sala E., SIWGREI: Sistema
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Deruda G., Falchi E., Pusceddu L., Vacca G., Tecniche e metodologie per il rilevamento del sito archeologico di
Sant’Eulalia, in “Il quartiere di Marina a Cagliari.
Ricostruzione di un contesto urbano pluristratificato”
Edicom Edizioni Monfalcone (Gorizia) ISBN 88-86729-78-2.
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Conferenza Italiana Utenti ESRI Roma 21-22 aprile
2004.
Bitelli G., Moderne tecniche e strumentazioni per il
rilievo dei beni culturali, Atti della 7a Conferenza
Nazionale ASITA, Verona 2003.
102
CENSIMENTO,
VALORIZZAZIONE E PROMOZIONE DEI BENI CULTURALI E AMBIENTALI
Pier Marcello Torchia
RILIEVI
TOPOGRAFICI
Il lavoro di “Censimento, valorizzazione e promozione dei beni culturali e ambientali del territorio Comunale di Muros” è stato progettato
affinché ogni sito abbia una precisa collocazione sulla cartografia tradizionale e sui sistemi
cartografici informatizzati.
È stato necessario quindi eseguire una rilevazione topografica per determinarne con elevata precisione le coordinate cartografiche.
Con l’Università di Cagliari, nella persona dell’ing. Giuseppina Vacca, ricercatore nel raggruppamento ICAR06-Topografia e Cartografia
Dipartimento di Ingegneria Strutturale, è stata
preventivamente studiata una modalità operativa per l’esecuzione delle operazioni di rilevamento che prevedeva l’uso combinato del GPS
(Global Positionig System) e di strumentazione
celerimetrica tradizionale (Stazione totale con
rilevazione elettro-ottica delle distanze).
Lo studio prevedeva che presso ogni sito dovevano essere posizionati un numero sufficiente
di punti di appoggio necessari per l’esecuzione
del successivo rilievo di dettaglio.
Si è resa necessaria quindi la rilevazione di
circa 140 punti con sistema GPS e sono stati
utilizzati ricevitori a doppia frequenza della
Trimble modello 5700. Considerato l’elevato
numero di punti da rilevare abbiamo optato
per una tecnica di rilevazione denominata
“Stop&Go” (cinematico) che prevede la rilevazione delle coordinate con una velocità di circa
15 secondi per ogni punto.
La rilevazione con GPS richiede la correzione
dei dati mediante l’uso simultaneo di almeno
due ricevitori (compreso quello di rilevazione).
A tal proposito sono state utilizzate due “stazioni permanenti” che mettono a disposizione
la correzione dei dati dati GPS 24 ore su 24.
Le stazioni utilizzate sono posizionate ad
Alghero e ad Oristano, e fanno parte di una
rete di 13 stazioni operanti su tutto il territorio
regionale.
I dati forniti dalle “basi permanenti” hanno
quindi consentito di “postprocessare” i dati
rilevati e determinare le coordinate in tre
diversi sistemi: coordinate geografiche WGS84
per l’utilizzo con navigatori satellitari, coordinate cartesiane UTM (Universal Transverse
Mercatore) WGS84 ed ED50 per l’interscambio
con altri sistemi informativi territoriali a livello
mondiale, e coordinate cartesiane nel sistema
103
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
Gauss-Boaga Roma40 per consentire la sovrapposizione dei dati rilevati con gli strumenti
urbanistici e di pianificazione territoriale
vigenti in Sardegna.
Le elaborazioni sono state eseguite con il software della Trimble e le trasformazioni tra i
diversi sistemi sono state eseguite con il programma “Verto2”, prodotto dall’Istituto
Geografico Militare, che offre un’elevata qualità grazie all’utilizzo di apposite griglie di compensazione.
Per raggiungere i siti oggetto di rilievo è stato
preventivamente svolto, dai colleghi che si
sono occupati della catalogazione dei beni culturali, un lavoro di ricognizione diretta e individuazione cartografica grossolana. Questo
lavoro è stato svolto mediante l’utilizzo di
sistemi GIS (Geographic Information System)
che hanno consentito di acquisire la cartografia raster prodotta dall’Istituto Geografico
Militare in scala 1:25.000 su cui sono stati posizionati i riferimenti in corrispondenza dei siti
visitati.
Abbiamo quindi determinato approssimativamente le coordinate cartografiche dei siti, preventivamente acquisite nel sistema GPS di rilevazione, che in una prima fase ha consentito
alla squadra addetta ai rilievi di raggiungere i
siti.
Giunti in prossimità dei siti sono stati posizionati i punti di appoggio opportunamente
monografati (di ogni punto di appoggio rilevato è stata prodotta una scheda descrittiva)
quindi è stata eseguita la misurazione GPS.
Questi punti sono stati utilizzati successivamente per l’esecuzione dei rilievi di dettaglio
104
delle opere. Per questa operazione sono state
utilizzate stazioni totali della Geodimeter e
Trimble che hanno consentito, attraverso la
misurazione di angoli e distanze, di determinare le coordinate dei punti.
Al termine delle operazioni di rilevazione sono
state eseguite le acquisizioni e le opportune
trasformazioni che hanno consentito di produrre lo strato informativo per la consultazione
dei siti attraverso il GIS, e la restituzione delle
singole planimetrie di dettaglio dei siti.
SISTEMA INFORMATIVO TERRITORIALE “GIS”
(GEOGRAPHIC INFORMATION SYSTEM)
L’utilizzo del sistema GIS è stato indispensabile
in numerose fasi del lavoro di censimento.
Nella prima fase del lavoro, attraverso il GIS è
stato possibile produrre alcune carte che sono
state fondamentali per le operazioni di studio.
Tra queste, ad esempio, è stata riprodotta la
carta Tecnica Regionale nella scala 1:10.000, la
Carta di Uso del Suolo elaborata dalla RAS, l’ortofotocarta a colori scala 1:10.000 ed altre carte
di dettaglio.
Riveste però particolare importanza l’utilizzo
del GIS per il collegamento cartografico delle
informazioni agli elementi grafici riportati sulla
cartografia. Oltre alle informazioni sono state
inoltre collegate immagini e disegni tecnici.
Per tutte le elaborazioni è stato utilizzato il
software prodotto dalla ESRI, denominato
ArcView versione 8.3.
Per quanto riguarda i siti rilevati, attraverso il
GIS è possibile consultare le schede descrittive
dei siti con le relative immagini e disegni di
dettaglio.
Censimento, valorizzazione e promozione dei beni culturali e ambientali
Ma sarà possibile soprattutto leggere altre
informazioni come ad esempio il risultato dello
studio ambientale, vegetazionale e geologico
eseguito dai colleghi del gruppo di lavoro.
Il GIS infatti permette di acquisire qualunque
tipologia di “strato informativo”, a condizione
che sia georeferenziato (le cui informazioni
posseggono le relative coordinate cartografiche) nel medesimo sistema.
Grazie a questa peculiarità sarà possibile, in un
secondo tempo, implementare il sistema con
altre informazioni quali ad esempio itinerari,
ricettività, sentieristica, ecc.
A tale riguardo è stato eseguito (sempre con
sistema GPS) il rilievo di un percorso che, grazie all’inserimento nel GIS, viene ulteriormente
valorizzato dalle altre informazioni contenute
nel sistema informativo territoriale.
Il sistema ha inoltre consentito di realizzare
una carta di sintesi riportata sui pannelli informativi, su cui la morfologia del territorio è stata
rappresentata con gradazioni di colore generati
in automatico dal software.
Grazie infatti all’applicativo 3D Analist prodotto dalla ESRI (software house produttrice di
ArcView 8.3) è stato possibile creare il DTM
(Modello Digitale del Terreno) mediante l’acquisizione dell’altimetria direttamente dalla
Carta Tecnica Regionale alla scala 1:10.000.
La produzione del DTM consentirà inoltre di
generare automaticamente profili sull’andamento altimetrico delle parti di territorio di
Muros desiderate.
La consultazione delle informazioni raccolte
avverrà con due diversi sistemi:
1) attraverso ArcView 8.3 (software di cui l’amministrazione potrà dotarsi in un secondo
tempo) che oltre a consentire la consultazione
delle informazioni permette di implementare il
sistema e modificare i dati geografici;
2) attraverso un visualizzatore che consente la
sola consultazione delle informazioni raccolte,
ma la mancanza degli strumenti di “editing”
rendono l’utilizzo estremamente semplice;
CONCLUSIONI
Le operazioni sopradescritte hanno richiesto
un grande sforzo organizzativo derivante dall’elevata interdisciplinarietà del gruppo di
lavoro, ma i risultati raggiunti dimostrano che
questa procedura è indispensabile per mettere
a “sistema” i diversi patrimoni del territorio di
Muros.
Le informazioni rilevate e catalogate diventano
anch’esse un ulteriore patrimonio che, grazie
alla semplicità di relazione con informazioni
prodotte da altri, il Comune di Muros può
spendere.
Diventano però indispensabili il mantenimento/aggiornamento ed implementazione
delle informazioni raccolte affinché resti un
“patrimonio
indispensabile”
per
l’Amministrazione Comunale e per tutti gli operatori (turistici, ambientali, ricercatori, ecc.).
105
LE
PROSPETTIVE DI TUTELA E VALORIZZAZIONE DEI CENTRI MINORI
ALLA LUCE DELLE NUOVE DIRETTIVE REGIONALI
Marina Vincis
La legislazione sui centri storici, se pure ha
seguito l’evoluzione nel nostro ordinamento
del problema di una organica normativa disciplinante il recupero del patrimonio edilizio esistente, si è preoccupata di fare ciò quasi esclusivamente sotto il profilo tecnico-culturale,
piuttosto che prendere coscienza della necessità di intervenire sul tessuto urbano degradato.
È mancata, in passato, una più stretta connessione tra leggi urbanistiche e leggi di tutela
anche se sia nelle une che nelle altre, si è tentato qualche reciproco aggancio.
In tal senso la cosiddetta “legge ponte”1,
facendo propria la tematica relativa alla possibilità di salvaguardia e valorizzazione dei centri storici, solo se inserita nella pianificazione
urbanistica, tendeva a un nuovo modo di coordinamento anche fra le competenze di amministrazioni diverse. Successivamente, al fine di
incentivare la produzione, nel tentativo di
risolvere la crisi edilizia, sono stati predisposti
nuovi strumenti legislativi: le leggi n. 865/712 e
n. 457/783 e le leggi regionali attinenti in materia, nelle quali il legislatore si è preoccupato di
predisporre strumenti e mezzi, ma poco o
nulla era detto sugli obiettivi da raggiungere. I
piani particolareggiati sui centri storici erano
rari e non sempre validi. La citata legge 457/78,
tendendo al superamento del blocco costituito
dalla legge ponte, al titolo quarto “Norme
generali per il recupero del patrimonio edilizio
ed urbanistico esistente”, prevalentemente considerato come una normativa quadro per le
amministrazioni comunali, costituì una netta
frattura con tutta la politica e la prassi precedente introducendo un sistema organico con
cui si concretizzava la sistemazione disciplinare del recupero edilizio.
Il principio cardine era costituito infatti dalla
decisa sostituzione del meccanismo dei piani
particolareggiati, con il nuovo strumento del
piano di recupero individuato all’interno della
perimetrazione delle zone di degrado.
Parallelamente a queste leggi, ma senza
momenti di contatto ben chiari e definiti in
appositi regolamenti, continuarono ad essere
valide le leggi di tutela del 19394. Tali leggi,
generate da una cultura idealistica, si sono
rivelate dotate di una certa duttilità nella loro
applicazione seppure limitandosi ad una sorta
di tutela passiva soprattutto se opportuna-
mente affiancate dalla strumentazione legislativa urbanistica.
La spinta riformistica che caratterizzò gli anni
’60 coinvolse direttamente anche i centri storici. Infatti nel settore della tutela dei beni culturali ed ambientali sorse un problema circa la
collocazione dei centri storici nell’ambito di
questo settore o in quello della materia urbanistica.
Tale questione fu oggetto di particolare attenzione della “Commissione d’indagine per la
tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, artistico e del paesaggio” definita
“Commissione Franceschini”5.
Principale compito di questa commissione era
la revisione delle leggi di tutela e valorizzazione delle cose di interesse culturale, legandole quando risultava necessario con la legislazione urbanistica e formulare proposte per un
nuovo assetto strutturale del settore.
Le discussioni ed il dibattito interno alla commissione furono lunghi e complessi. Nel 1966
la commissione Franceschini lamentava situazioni pericolose e carenze legislative che a tutt’oggi permangono: l’abbandono dei centri
minori che ancora esiste, mentre i centri mag-
107
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
giori, i più importanti e quindi più appetibili,
venivano soffocati da nuovi modi di concentrazione. Contemporaneamente a questo la
Commissione lamentava la mancanza di tutela
e faceva pertanto delle proposte concrete,
allora innovative, benché ancora in parte interessanti. Ad esempio veniva proposta, previo
censimento, la scelta dei centri da salvaguardare ed in cui operare con priorità, ed inoltre
l’applicazione di vincoli cautelativi sui centri,
la formazione conseguente al vincolo di piani
particolareggiati, l’inserimento della pianificazione urbanistica e tutela paesistica, l’emanazione di norme generali di guida per gli interventi, l’emanazione di norme generali per l’inserimento degli edifici pubblici nei centri storici. I lavori della commissione affermarono,
conclusivamente, che il centro storico era inserito nei beni culturali, ricomprendendo nella
definizione di bene culturale sia i centri storici
racchiusi, - come parti più antiche - in una
struttura più vasta, sia quelli costituenti un
insediamento abitativo in sé compiuto, come i
piccoli centri che non hanno subìto un processo di espansione.
Individuati i centri storici si affermò la necessità della loro tutela, da attuarsi mediante
misure cautelari e mediante i piani regolatori,
redatti tenendo conto della perimetrazione
delle aree.
Da allora, certamente dei passi avanti sono
stati compiuti: se non altro ad una concezione
di natura statica del problema, così come è
andata maturandosi fino agli anni sessanta,
quando il concetto di tutela si è venuto arricchendo anche con finalità di salvaguardia e
108
valorizzazione, se ne è aggiunto un altro, qual
è quella di recupero, con caratteristiche dinamiche.
Il compito di riunire e coordinare la normativa
degli ultimi 60 anni, a salvaguardia del nostro
imponente patrimonio artistico e paesaggistico,
è stato affidato al Testo Unico sui beni culturali
e ambientali 6.
In esso, oltre alle funzioni di tutela e conservazione tradizionalmente assegnate al Ministero,
si sono affiancate quelle di valorizzazione e
promozione del patrimonio culturale. In questo ambito il Testo Unico ha riservato un ruolo
forte alle Regioni e agli enti locali, dando così
attuazione al decentramento voluto dalla legge
n. 59/19977 e dal regolamento di attuazione
(decreto legislativo n. 112/1998)8.
In coerenza con ciò la Sardegna si è dotata di
una legge specifica sulla tutela e valorizzazione
dei centri storici, la legge 13 ottobre 1998 n. 29.
Espressamente tra le finalità cui la legge mira,
viene considerato il preminente interesse per il
recupero, la riqualificazione ed il riuso dei centri storici e degli insediamenti storici minori,
rispettandone i valori socioculturali, storici,
architettonici, urbanistici, economici ed
ambientali.
Con tale legge la Regione annualmente (Bando
Domos), invita i Comuni, a fronte di un finanziamento, a presentare progetti di “programmi
di valorizzazione dell’edificato storico” perseguendo obiettivi e finalità dedotte dagli strumenti di pianificazione e dalle leggi regionali
di finanziamento.
Tra le finalità del “Bando Domos” vi è la valorizzazione dell’edificato storico con la riqualifi-
cazione ed il recupero del tessuto insediativo
dei centri minori, anche come occasione di
sperimentazione di modelli di ricomposizione
spaziale e figurativa dell’assetto urbanistico,
per una corretta definizione paesaggisticoambientale dell’insieme.
Per perseguire tali obiettivi la legge n. 29/98 ha
previsto l’istituzione di un repertorio regionale
dei centri storici (art.5)9, nel quale vengono
iscritti i comuni che abbiano nel loro territorio
presenze significative delle collettività locali
dal punto di vista storico, culturale ed ambientale e che attestino, a seguito del confronto fra
i catasti storici antecedenti l’anno 1940, l’esistenza di un tessuto urbano consolidato,
sostanzialmente invariato e l’esistenza di un
patrimonio edilizio formato da tipologie caratterizzanti l’insediamento storico per le caratteristiche costruttive e tecnologiche, nonché per
gli elementi architettonici. Con riferimento a
quella che è considerata la prima legge di
tutela dei beni culturali, la legge 29 giugno
1939 n. 1497, “Protezione delle bellezze naturali”, in sede di prima applicazione sono stati
inseriti nel Repertorio i Comuni che avessero
centri storici vincolati ai sensi di tale legge. Al
fine di valorizzare e soprattutto non perdere
l’identità dei centri minori, gli interventi regionali finanziari prevedono che ai piccoli comuni
venga assicurata una riserva non inferiore al
quaranta per cento delle risorse stanziate 10.
La valorizzazione viene quindi attuata attraverso interventi di riqualificazione urbana e
recupero primario degli edifici dei centri storici, e per far ripopolare i centri sono inoltre
previste agevolazioni agli emigrati.
Le prospettive di tutela e valorizzazione dei centri minori alla luce delle nuove direttive regionali
L’orientamento della Regione nella salvaguardia dei centri minori prosegue con il POR
Sardegna obiettivo 1, misura 4.14 del 2006, che
riguarda la “promozione dell’adeguamento e
dello sviluppo delle zone rurali”. Tra gli obiettivi si persegue il rinnovo e lo sviluppo di villaggi attraverso la tutela e la conservazione del
patrimonio rurale, l’incentivazione del turismo
e dell’artigianato correlati alle attività delle
aziende agricole.
La misura promuove l’attivazione, nell’ambito
di progetti a dimensione locale, di interventi
che integrano attività di tutela, manutenzione,
recupero e valorizzazione turistica del patrimonio rurale con le attività produttive, agricole e
no, con il fine di generare sia conservazione e
qualità territoriale, sia reddito e occupazione,
partendo dalle vocazioni del territorio di riferimento.
Ci si prefigge di consolidare e qualificare il
patrimonio archeologico, architettonico, storico-artistico, paesaggistico, naturalistico, quale
strumento di sviluppo qualificato ed equilibrato nei territori rurali mediante il sostegno
alla diversificazione delle attività economiche
locali che riguarderà anche le piccole e medie
imprese e il turismo rurale.
La misura riguarderà i centri minori rurali e
verrà attuata mediante specifiche azioni volte
prioritariamente alla valorizzazione del patrimonio rurale e ambientale a fini turistici e culturali.
La Regione Sardegna che vanta, ai sensi degli
articoli 3 e 4 dello Statuto speciale di autonomia11, competenze primarie in materia di urbanistica ed edilizia, mentre, in relazione alla
tutela paesaggistica, è vincolata dalle disposizioni statali in materia, ed in particolare dagli
artt. 131 e seguenti del codice dei beni culturali e del paesaggio, ha esercitato la propria
competenza legislativa esclusiva in materia di
“edilizia ed urbanistica” dettando una disciplina volta a fronteggiare una situazione particolarmente grave ed urgente attraverso la salvaguardia del territorio e dell’ambiente, emanando con legge regionale n. 8/200412 - nel
rispetto dell’art. 135 del codice dei beni culturali e paesaggistici - il proprio piano paesaggistico13.
Il Piano Paesaggistico Regionale rappresenta
sicuramente una novità sotto l’aspetto dell’approccio operativo alle trasformazioni edilizie
ed urbanistiche in Sardegna e, in un certo qual
modo, precede e coordina diversamente la
procedura urbanistica, fino ad ora applicata,
che si muoveva sostanzialmente sulla sola
zonizzazione del territorio.
Fino ad oggi si era andato sviluppando in
Sardegna un modello turistico legato fondamentalmente all’insediamento costiero sia di
tipo ricettivo-alberghiero che nelle forme di
residenza turistica. Ciò ha comportato un progressivo e forte consumo del territorio costiero
a discapito della conservazione e della valorizzazione di habitat di importante valore
ambientale e paesaggistico. Nel corso degli
anni, il carico antropico che si è generato ha
comportato la nascita, spesso disordinata, di
borgate e frazioni marine a ridosso della parte
più delicata della costa isolana.
Il Piano Paesaggistico Regionale si propone di
invertire questa tendenza, rilanciando la fun-
zione turistica e ricettiva dei centri abitati
situati nella fascia costiera attraverso la valorizzazione dei centri storici, delle tradizioni culturali e agro alimentari a servizio del turismo.
Ribadito che l’orientamento principale
espresso dal Piano è la conservazione e valorizzazione dell’intero patrimonio costiero
ancora intatto dal punto di vista delle trasformazioni e che le infrastrutture turistico-ricettive
dovranno insediarsi prioritariamente nei centri
abitati, la riqualificazione urbanistica si attua
nel rispetto di tutti i vincoli e valori riconosciuti
negli studi degli assetti storico culturale ed
ambientale, sulla base delle volumetrie esistenti per le quali le norme prevedono un definito premio di cubatura in contropartita ad evidenti e significative compensazioni paesaggistiche nell’azione di riqualificazione.
Tale politica viene perseguita anche prevedendo delle limitazioni nella fascia di 2000
metri dalla linea di battigia marina, anche per i
terreni elevati sul mare, e nella fascia entro i
500 metri dalla linea di battigia marina, anche
per i terreni elevati sul mare e per le isole
minori.
Di rilievo nel piano paesaggistico è la tutela
riconosciuta alle aree caratterizzate da insediamenti storici e da preesistenze di manufatti o
edifici che costituiscono, nel loro insieme,
testimonianza del paesaggio culturale sardo,
che ove non sia stato già effettuato dal P.P.R.,
sono perimetrate dai Comuni interessati ai fini
della conservazione e tutela e della migliore
riconoscibilità delle specificità storiche e culturali dei beni stessi nel contesto territoriale di
riferimento.
109
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
Per salvaguardare i centri rurali, si prevede in
particolare che per l’insediamento sparso
(stazzi, medaus, furriadroxius, boddeus, bacili,
cuiles) i Comuni, in sede di adeguamento degli
strumenti urbanistici al P.P.R, provvedano a
censire e perimetrare il tessuto dei nuclei
sparsi presenti sul proprio territorio.
Gli interventi di recupero e di modificazione
devono essere realizzati considerando il carattere di grande essenzialità e sobrietà dell’architettura rurale dei nuclei sparsi, secondo dei
principi puntualmente indicati nella legge paesaggistica14. È inoltre previsto che i piani urbanistici comunali introducano provvedimenti di
salvaguardia del patrimonio dei recinti in pietre murate a secco che costituiscono, con la
varietà locale delle tecniche e dei materiali, un
fattore insostituibile di identità paesaggistica e
culturale. In generale si può dire che scopo del
piano paesaggistico è quello di regolare e ottimizzare la pressione del sistema insediativo
sull’ambiente naturale, migliorando la vivibiltà
dell’ambiente urbano e i valori paesaggistici
110
del territorio. Viene dettata una disciplina edilizia orientata al mantenimento delle morfologie e degli elementi costitutivi tipici, correlata
alle tipologie architettoniche, alle tecniche e
materiali costruttivi tipici del luogo, con la previsione che il piano comunale dovrà contenere
pertanto opportuni piani del colore, degli abachi, delle facciate e delle tipologie ammissibili
nelle diverse zone urbane.
Nella sua politica di perseguimento di tutela e
valorizzazione dei centri minori, la Regione
con l’approvazione del “Bando CivisRafforzamento centri minori”15 ha messo oltre
90 milioni di euro a disposizione dei comuni
per il 2006 per la riqualificazione e il recupero
dei piccoli centri al fine di contrastare lo spopolamento delle aree interne, integrare i servizi
scolastici, culturali e sociali e ottimizzare i servizi per le attività produttive. Altro obiettivo è
quello di sostenere gli interventi di recupero
della qualità urbana finalizzata al riutilizzo di
abitazioni vuote nei centri storici per iniziative
di ricettività diffusa.
Infine è bene ricordare che nel rispetto dell’art.
117 della Costituzione16 e del Codice dei beni
culturali e del paesaggio17 per la prima volta
nella sua storia autonomistica, la Sardegna ha
una legge per la tutela, la valorizzazione, la
fruizione del suo straordinario patrimonio culturale, che comprende il settore di musei,
biblioteche e archivi, e ancora i parchi archeologici e gli ecomusei18.
La legge sarda amplia il concetto di patrimonio
culturale, così come definito del Codice
Urbano per i beni culturali e il paesaggio, ai
beni immateriali, di cui la Sardegna ha esempi
straordinari, riconoscendo ad essi lo stesso
diritto alla tutela e alla valorizzazione riservato
ai beni materiali.
C’è la volontà di valorizzare le punte di eccellenza, ma nello stesso tempo di far crescere le
piccole realtà, attraverso procedure di riconoscimento e standard di qualità.
Le prospettive di tutela e valorizzazione dei centri minori alla luce delle nuove direttive regionali
NOTE
1
7
2 L. 22 ottobre 1971 n. 865, Programmi e coordinamenti
dell’edilizia residenziale pubblica; norme sull’espropriazione per pubblica utilità; modifiche ed integrazioni alle
leggi 17/08/1942 n. 1150; 18/04/1962 n. 167;
29/09/1964 n. 847.
8
L. 6 agosto 1967 n. 765, Modifiche ed integrazioni alla
legge urbanistica 17 agosto 1942 n. 1150.
3
L. 5 agosto 1978 n. 457, Norme per l’edilizia residenziale (v. ora L.17/02/1992 n. 179).
4
L. 1 giugno 1939 n. 1089, Tutela delle cose di interesse artistico e storico e L.29/06/1939 n. 1497,
Protezione delle bellezze naturali, che hanno regolamentato la materia sino all’emanazione del D.Lvo 29
ottobre 1999 n. 490 Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, poi
sostituito dal D.Lvo 22 gennaio 2004 n. 42 Codice dei
beni culturali e del paesaggio.
5
La legge n. 310 del 26 aprile 1964 istituì una commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del
patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio. Questa commissione, nota come Commissione
Franceschini, dal nome del suo Presidente, concluderà i
lavori nel 1966. L’istituzione della commissione fu segno
della presa di coscienza della necessità che l’azione pubblica si rivolgesse con maggiore consapevolezza e con
risultati più efficaci ai compiti di protezione del patrimonio culturale ed ambientale.
6
Il Testo Unico (T.U.) ha avuto vita breve, infatti a cinque anni dalla sua emanazione, è stato sostituito dal
Codice dei beni culturali e del paesaggio, emanato come
abbiamo detto con D.Lgs 22 gennaio 2004 n. 42. Il
nuovo codice si è reso necessario in considerazione del
mutamento dell’assetto istituzionale: l’attuazione della
riforma del titolo V della Costituzione dedicato alle
Regioni, Province e Comuni, avvenuta con legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3, ha previsto un nuovo
riparto delle competenze tra Stato e Regioni in materia di tutela e valorizzazione di beni culturali.
L. 15 marzo 1997 n. 59 Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti
locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e
per la semplificazione amministrativa (Bassanini 1).
D. Lvo 31 marzo 1998 n. 112 Conferimento di funzioni
e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli
enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo
1997 n. 59.
9
Il repertorio previsto dall’art. 5 della legge n. 29/98
costituirà il quadro generale di riferimento per gli atti
di programmazione regionale di settore. Il successivo
art. 6 prevede poi una programmazione pluriennale con
una predisposizione e aggiornamento annuale del programma per i centri storici.
10
Con legge regionale n. 12 del 2 agosto 2005, Norme
per le unioni di Comuni e le comunità montane. Ambiti
adeguati per l’esercizio associato di funzioni. Misure di
sostegno per i piccoli comuni, sono stati inseriti e modificati dal capo IV intitolato “Interventi per la valorizzazione ed il sostegno dei piccoli comuni”, articoli della
legge n. 29/98. La legge ha introdotto anche la definizione di piccoli comuni, e cioè quelli con meno di 3000
abitanti il cui centro disti almeno 15 Km dal mare.
11
Legge costituzionale 26 febbraio 1948 n. 3, Statuto
speciale per la Sardegna. Sulla competenza in materia
v. inoltre il D.P.R. 22 maggio 1975 n. 480 (Nuove
norme d’attuazione dello Statuto speciale della Regione
autonoma della Sardegna) art. 6 comma 2, che definisce i confini delle competenze esclusive della Regione
in materia di “edilizia ed urbanistica”, attribuendole
anche “la redazione e l’approvazione dei piani territoriali paesistici di cui all’art. 5 della legge 29 giugno
1939 n. 1497 (e, implicitamente, il potere di emanare
le relative misure di salvaguardia).
12 L.R. n. 8 del 25.11.2004, Piano Paesaggistico
Regionale, approvato con Delibera n. 36/7 del 5 settembre 2006.
13
In esso viene individuato lo strumento della pianifi-
cazione paesaggistica (rivolta non più soltanto ai beni
paesaggistici o ambientali, ma all’intero territorio), e
affida alle Regioni la scelta di approvare “piani paesaggistici” ovvero “piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici”, con ciò
confermando l’alternativa tra piano paesistico e piano
urbanistico-territoriale già introdotta con l’art. 1-bis
del decreto-legge 27 giugno 1985, n. 312 (Disposizioni
urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse
ambientale), così come convertito in legge ad opera
della legge 8 agosto 1985, n. 431. Va aggiunto, infine,
che proprio sulla base dell’esplicito trasferimento di
funzioni di cui alle norme di attuazione dello statuto
speciale contenute nel D.P.R. n. 480 del 1975, la
Regione - già con la legge n. 45 del 1989, Norme per
l’uso e la tutela del territorio regionale - aveva appositamente previsto e disciplinato i piani territoriali paesistici nell’esercizio della propria potestà legislativa in
tema di “edilizia ed urbanistica”.
14
V. art. 81 e segg. L. n. 8/04 e in particolare il Titolo
II - Assetto storico-culturale.
15 Con determinazione n. 473/cs del 30/06/2006 la
regione ha approvato il Bando Civis “Rafforzamento
centri minori” POR Sardegna 2000-2006, Asse V - Città
misura 5.1 “Politiche per le aree urbane”.
16 L’art. 117 Cost., al secondo comma, lettera s), attribuisce alla potestà esclusiva dello Stato la “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, mentre
al terzo comma, prevede che sono materie di legislazione concorrente: “la valorizzazione dei beni culturali
e ambientali e promozione e organizzazione di attività
culturali”.
17 L’art. 7 del Codice fissa i principi fondamentali in
materia di valorizzazione del patrimonio culturale e
“nel rispetto di tali principi le Regioni esercitano la propria potestà legislativa”.
18
L.R. 20 settembre 2006 n. 14 Norme in materia di
beni culturali, istituti e luoghi della cultura.
111
ATTIVITÀ
DI ANIMAZIONE E FORMAZIONE
PER LO SVILUPPO DI IPOTESI DI VALORIZZAZIONE DEL TERRITORIO
Bruno Paliaga
Di seguito si descrive il quadro entro il quale
sono state svolte le attività rivolte ad un
gruppo di giovani del luogo attraverso le quali
ci si è posti l’obiettivo di avviare un percorso
che, nel futuro, sia capace di generare, sostenere e promuovere, iniziative, attività e progetti, il cui fine ultimo dovrebbe essere quello
di “valorizzare il territorio in senso turistico”.
Pur nei limiti del tempo disponibile si è trattato
di un percorso attuato tra la formazione e l’animazione che ha necessitato definire cosa si
dovesse valorizzare, perché valorizzarlo, con
chi e per chi valorizzarlo prima di iniziare a
ragionare su come valorizzarlo.
Con tali presupposti si è operato sia sul piano
del metodo (come valorizzare) che su quello
dei contenuti (cosa valorizzare).
L’APPROCCIO
Data la composizione del gruppo e la formazione di base degli allievi, preliminare alla trattazione dei contenuti posti alla base delle attività è stata una fase di riflessione sul significato
della conoscenza del territorio in relazione agli
obiettivi del progetto.
In tal senso ed in generale, non è sembrato
retorico, sottolineare che nell’esperienza vissuta ed in quella quotidiana è possibile verificare come processi/percorsi di conoscenza
autoreferenziati, non basati sull’approfondimento, sul riconoscimento, sul confronto, ecc.,
alimentano forme di campanilismo puro e
semplice.
Per non cadere in tale equivoco, la visione del
territorio è stata proposta in termini problematici, ovvero di quali sono le sue articolazioni, le
sue funzioni, i suoi valori e così via, prestando
molta attenzione al fatto che tutti i partecipanti
alle attività, ovviamente, conoscevano i luoghi
del proprio vissuto, della memoria, della storia
ecc., ma tenendo conto che si trattava di conoscenze, percezioni, interpretazioni non sempre
riconducibili a validità oggettiva.
Durante il percorso di animazione/formazione
si è inteso definire quei livelli di conoscenza e
quei valori affinché fossero condivisi e condivisibili e soprattutto riconoscibili anche fuori
dalla comunità locale.
Per riconoscere prima e per condividere poi i
valori si è reso necessario sviluppare la capacità di uscire dal ristretto ambito individuale o
di piccola comunità; ovvero sviluppare la capa-
cità di riconoscersi in uno spazio fisico-geografico ed in un contesto di relazioni ben più
ampio. Sono contesti dove il poco, il piccolo, il
solo, l’unico, ecc. assumono la loro vera
dimensione ed importanza.
Pur consci che acquisire tale capacità non è
facile e necessita di tempi e strumenti adeguati,
tale approccio lo si è ritenuto fondamentale
per l’eventuale buon avvio di processi di valorizzare situazioni, fatti, fenomeni e luoghi del
territorio da parte dei corsisti.
È stato un percorso attraverso il quale si è cercato di attribuire un giusto peso, o comunque
un peso diverso da quello attribuito ad un territorio tradizionalmente non turistico, che,
comunque, è un territorio nel quale le storie, i
cicli naturali, i cicli della cultura materiale, ecc.,
posseggono significati e valori intrinseci.
Altro presupposto di fondo del lavoro è stato
considerare la realtà del luogo, nel suo complesso dipendente dalle dinamiche della natura
e della cultura locali, potenzialmente valorizzabile senza cadere in un riduttivo processo di
valorizzazione non contestualizzato nell’ambito
geografico-naturalistico di riferimento.
La dimensione geografico-naturalistica ben più
113
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
ampia del “luogo in sé” ed alla quale, nel
nostro caso, lo stesso Muros appartiene. Per
tale motivo l’analisi del contesto allargato è
stato un riferimento importante e funzionale
all’ipotesi di lavoro: la valorizzazione.
Tutto ciò senza ignorare il vissuto degli allievi
e della loro esperienza come risorsa per le attività d’aula, ma sostenerli nel recupero della
fiducia sul valore, o sui valori del loro territorio, che in una piccola realtà dove le funzioni
economiche e sociali interne sono marginali o
comunque più funzionali a logiche economiche esterne, al polo sassarese, a Sassari città,
piuttosto che al paese di Muros. Sono valori
spesso percepiti, intesi o vissuti come residuali,
almeno rispetto all’ipotetico e potenziale sviluppo economico in senso turistico.
I valori territoriali rispetto ai quali si doveva
ragionare per una loro possibile valorizzazione
sono valori che vengono vissuti ed intesi come
residuali sia perché, a scala locale, tutto è più
piccolo (…e l’erba del vicino è sempre
migliore) sia perché sono ancora valori di
secondo piano rispetto ad ambiti territoriali
sardi la cui funzione turistica è ormai consolidata.
Dunque, si è trattato di sviluppare un ragionamento coerente con lo sforzo, ancora incompiuto e poco diffuso, di creare un’offerta turistica fondata sull’accoglienza, sull’identità,
sulla specificità, prescindendo da suggestioni
estive e spesso banali, così come vuole l’approccio dell’industria turistica di consumo di
massa che sta mostrando i suoi limiti.
Altro spunto interessante è stata la valorizzazione del concetto di sostenibilità del turismo
114
che, guarda caso, coincide con i concetti di
identità, di localismo, di originalità, di specificità, ecc., tutti attributi di nuove forme di turismo che altrove stanno cominciando ad affermarsi.
Secondo tale visione ha senso ipotizzare che
un piccolo centro della Sardegna come Muros
sia potenzialmente suscettibile a forme di sviluppo turistiche senza dover invidiare niente a
nessuno e soprattutto a quei luoghi già accreditati come luoghi turistici che tuttavia non
soddisfano ancora i criteri di sostenibilità
ambientale e talvolta di sostenibilità sociale.
LA (RI)LETTURA
DEL TERRITORIO
FUNZIONALE ALL’IPOTESI DI
VALORIZZAZIONE IN CHIAVE TURISTICA
L’ipotesi di lavoro è stata perseguita definendo
cosa fosse necessario per effettuare sia una
ricognizione delle risorse suscettibili di nuove
forme d’uso, sia gli approfondimenti del caso
(attualizzazione), il tutto secondo l’ottica di un
turismo sostenibile declinabile nel senso del
turismo naturalistico, culturale, enogastronomico, ecc.
Con tali presupposti, in estrema sintesi, le
risorse del territorio sono state definite
secondo lo schema seguente:
1. aspetti fisici
2. aspetti biotici
3. aspetti paesaggistici
4. aspetti storici e culturali
5. aspetti etnografici
6. aspetti socio economici
Il tutto è stato analizzato attraverso diversi contributi disciplinari (specialistici) cercando di
valorizzare gli elementi di naturalità affinché
potessero essere essi stessi degli attrattori oltreché dei descrittori di un territorio che ha
legami e relazioni con la zona più vasta, introducendo così la visione di Muros appartenente
ad una rete territoriale più ampia del proprio
contesto.
Oltre alle questioni di metodo, i temi dei quali
si è occupato chi scrive sono quelli compresi
tra 1) e 3), mentre per quanto indicato da 4) a
6) sono stati valorizzati i contributi di altri
docenti proponendoli come ambiti che sarà
necessario esplorare sistematicamente.
Ad ogni buon conto, a fronte di trattazioni
che non hanno potuto essere esaustive è stato
delineato il quadro degli elementi di conoscenza al quale un ipotetico processo di valorizzazione anche turistico dovrebbe necessariamente riferirsi.
1) Per quanto riguarda gli aspetti fisici, le attività del corso sono state rivolte a:
- inquadramento geografico generale della
macro area di appartenenza, il Logudoro;
- geomorfologia, idrografia e topografia
della vasta area;
- armatura urbanistica di riferimento (centri
abitati vicini, sistemi viari, ecc.).
2) Per quanto riguarda gli aspetti biotici essi
sono stati interpretati attraverso:
- vegetazione, flora e fauna.
Nell’analisi di tali elementi sono stati valorizzati quegli aspetti naturali che hanno
caratterizzato e che sostengono le attività
tradizionali con particolare riguardo all’agricoltura e all’allevamento.
Attività di animazione e formazione per lo sviluppo di ipotesi di valorizzazione del territorio
3) Gli aspetti paesaggistici sono stati proposti
in termini di:
- paesaggi geo-morfologici, paesaggi vegetali, paesaggi culturali, con particolare
riguardo a quello archeologico;
- paesaggio agrario ed urbano (uso del
suolo).
Secondo tali chiavi di lettura e/o di interpretazione delle risorse particolare significato ha
assunto l’osservazione del grado di antropizzazione che è inversamente proporzionale al
grado di naturalità del territorio.
4) Gli aspetti storico culturali sui quali è opportuno effettuare le dovute riflessioni sono
stati:
- storia dell’area vasta e del luogo (il marchesato?);
- l’archeologia e l’architettura (p.e. gli edifici religiosi);
- l’arredo urbano e le case storiche (nucleo
urbano storico...).
5) I caratteri etnografici, funzionali al potenziale recupero dell’identità ai quali è stato
fatto cenno sono stati:
- folclore (costume, ballo, gioielli…);
- cicli della cultura materiale, p.e. lana,
grano, pane, dolci, olio, vino;
- feste religiose (San Gavino, Proto e
Gianuario, San Giovanni, riti della
Pasqua);
- enogastronomia;
- prosa e poesia, teatro in lingua, storie e
leggende del luogo…
6) Infine a supporto di quello che deve essere
il profilo del territorio di Muros vi sono i
tratti socio-economici di riferimento,
ovvero:
- popolazione (struttura), istruzione, occupazione, struttura produttiva;
- categorie/attività produttive;
- servizi;
- ecc...
DALLA
CONOSCENZA ALL’OPERATIVITÀ
Le azioni preliminari
Se lo sviluppo di quanto prima consente di
delineare un quadro del territorio abbastanza
completo si è ritenuto utile far riflettere, per
grandi linee, su “Come e cosa si potrebbe fare”
che, orientativamente, potrebbe articolarsi
nelle seguenti fasi:
1) analizzare le risorse di cui prima e valutarne
lo stato in termini di punti di forza e/o di
debolezza;
2) confrontare l’armatura, le risorse con la
realtà di area vasta per la ricerca di elementi
specifici e/o unici;
3) ipotizzare alleanze, collaborazioni con le
comunità confinanti (p.e. Cargeghe, Tissi,
Ossi);
4) scegliere su quali elementi (tra quelli di cui
prima) agire, ma valutandone la fattibilità
sia in termini di condivisione di obiettivi
con diversi soggetti (attori, settori o componenti della comunità locale, pubblici e privati), che in termini di partecipazione degli
stessi al processo di recupero dei valori
spendibili individuati (validazione).
Strumento possibile potrebbe essere l’attiva-
zione di forum, di gruppi di discussione
tematici di discussione (interlocutori istituzionali, gruppi di lavoro ecc.): si tratta di
strumenti piuttosto efficaci per interloquire
con organizzazioni, Enti strumentali, Enti
Pubblici, Enti tecnici, Comune, Pro Loco,
associazioni ed organizzazioni di categoria,
ecc.
5) verificare la coerenza con l’ipotesi generale
(valorizzazione anche economica);
6) verificare la disponibilità effettiva del
bene/prodotto/servizio oggetto di possibile
valorizzazione (utilizzando l’output della
fase di analisi).
Va da sé che la sequenza ed il numero delle
fasi potrà variare in rapporto alla capacità di
operare del soggetto che si cimenterà in un
percorso simile oltreché dalle competenze e
capacità che lo stesso possiederà.
A prescindere dalla forma sotto la quale tali
attività dovranno essere svolte (società coop.
Associazione o altro), sarà fondamentale:
-
ricercare l’accordo con gli operatori/attori
del settore prescelto definendo l’interesse
reciproco (le ricadute per l’operatore del
settore, per chi promuove e per il territorio,
ecc.)
-
condividere e stabilire la definizione dei
ruoli (chi fa, cosa e quando);
-
definire un Sistema per l’ospitalità fondata
su Itinerari per l’escursionismo, le strutture
disponibili, ecc. (gli attrattori) ed in sub
ordine, ma non di importanza, si tratterà di
115
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
predisporre un’offerta per la recettività
(b&b, agriturismo, ristorazione, servizio
guida, prodotti tipici, ecc.);
-
definire, con il soggetto intermediario (promotore), il/i prodotto/i (attrattori) a matrice
ambientale e culturale.
Leonardo, Strada romana, il centro
urbano, Chiesa, Artigianato, Enogastronomia, Etnografia (folklore, coro, ecc.).
Si intende che per concretizzare gli itinerari di
cui prima le operazioni preliminari e fondamentali da compiere dovrebbero essere:
-
predisposizione fisica dei luoghi in accordo
con l’Amministrazione Comunale (accessibilità, restauro, sistemazione, l’orientamento, l’informazione, ecc.);
-
connessioni tra itinerari, strutture, situazioni, ecc.
Esemplificativi di tale approccio potrebbero
essere la realizzazione di:
-
itinerario ambientale - Grotta dell’Inferno,
Rocca Ruja, Su Monte, Punta Canechervu;
-
itinerario culturale - Sa Funtana, San
116
-
realizzare supporti alla comunicazione
(pannelli info, mappe, carto-guide, miniguide, brochure…).
Ovviamente per realizzare quanto prima sarà
necessario individuare i destinatari dell’offerta,
in altri termini si deve definire a chi vendere il
prodotto.
Si tratta di operazioni da realizzare previa
ricerca/analisi del mercato che deve essere
effettuata sui dati (ufficiali) acquisiti presso
organizzazioni di categoria, istituti o altro (p.e.
ISTAT, indagini specifiche di settore, rapporti).
ASPETTI
DI FATTIBILITÀ DEI PROGETTI DI SVILUPPO IMPRENDITORIALE:
DAL PROGETTO DI VALORIZZAZIONE ALLO START-UP AZIENDALE
Emanuela Fiorino
Il territorio di Muros presenta caratteristiche
morfologiche, naturalistiche, ambientali e
archeologiche di notevole interesse. Tuttavia,
siti archeologici e ricchezza di varietà botaniche e faunistiche, non sono tra le fonti reddituali dell’economia Comunale. Il settore turistico è completamente assente, nonostante il
patrimonio culturale, materiale ed immateriale,
ancora riconoscibile sul territorio urbano ed
extraurbano. La mancanza di attenzione verso
la valorizzazione degli aspetti culturali rischia
di indurre ad un processo di graduale perdita
della memoria storica e dell’identità del popolo
murese. La valorizzazione della cultura, delle
tradizioni e delle tipicità locali sono le tematiche principali sulle quali indirizzare attenzioni,
risorse e attività: il turismo ambientale di qualità è il settore più delicato, ma anche il più
promettente, per lo sviluppo economico dei
territori meno dotati di attrattori turistici architettonici e non ubicati sulle facili rotte costiere.
Lo sviluppo del turismo contribuisce alla crescita ed alla valorizzazione della realtà economica locale, promuovendo la conoscenza delle
problematiche relative alla fruibilità dei siti, dei
servizi e delle relative attrezzature, da parte di
una fascia più ampia possibile di utenti.
Affinché il turismo possa rappresentare un’importante risorsa in grado di riqualificare strategicamente il territorio, è imprescindibile approfondire l’analisi del contesto in cui il medesimo
territorio risulta inserito, anche al fine di individuare tutte quelle ulteriori realtà turistiche
cui esso può sinergicamente correlarsi.
Un prodotto turistico efficace deve essere pensato e sviluppato per “vendere” il territorio,
ossia per dare allo stesso forma e sostanza, nell’ambito di una mirata politica di comunicazione e promozione. Di certo si tratta di un
impegno non semplice, ma sicuramente di
sicura riuscita se, unitamente a competenza ed
investimenti mirati, è guidato da un forte attaccamento al territorio ed alle proprie radici.
Credere nelle proprie risorse culturali ed
ambientali diventa, allora, fondamentale
soprattutto quando devono essere proposte ai
turisti destinazioni poco conosciute.
Il turismo costiero, che nell’area di riferimento
rappresenta la quota maggiore del settore,
deve essere coinvolto nella conoscenza di un
entroterra che, a pochi chilometri di distanza,
offre ricchezza di elementi culturali e naturali-
stici, apprezzabili anche da un viaggiatore non
esperto. Questo, accompagnato lungo gli itinerari meno consueti, si immerge nei percorsi
dove profumi ed essenze, sapori tipici dell’eno-gastronomia locale, fanno da contorno ai
segni che un passato più o meno lontano ci ha
tramandato.
L’assenza di un sistema di offerta è uno dei
maggiori limiti nel processo di valorizzazione
delle risorse. Il patrimonio del territorio non
risulta organizzato in un sistema che colleghi
tra di loro i siti; manca, o è carente, una programmazione congiunta della loro valorizzazione turistica e della relativa promozione, non
solo a livello prettamente comunale. Manca,
cioè, l’integrazione dei singoli beni in un
sistema di offerta del patrimonio archeologico,
culturale ed ambientale, affinché gli attrattori
turistici siano inseriti in un circuito in cui cultura, ricettività, ristorazione e produzioni tipiche, sono sinergicamente coordinate per
garantire al turista, o generico fruitore, un servizio completo. La frammentazione dell’offerta
culturale non può essere sostituita dalla sola
politica di comunicazione e promozione che,
avulsa da un’azione coordinata, tenda a valo-
117
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
rizzare e a far conoscere le ricchezze.
Nel territorio che attrae turismo si genera
valore e si innescano scambi e relazioni con
aree e mercati diversi, da quello locale fino a
quello internazionale. Questo significa produrre offerte strutturate, vendibili, comunicabili, sostenibili sui mercati del turismo nelle
loro diverse espressioni. Laddove esistano già
degli itinerari, la realtà locale deve potenziare
gli attrattori turistici, sostenere la propria
offerta con una campagna di promozione
verso il mercato turistico non solo locale, ma
anche nazionale e internazionale; diventa
essenziale differenziare le strategie di comunicazione per Bisogna, in sostanza, produrre un
piano di turismo integrato, cui partecipino
forze politiche, culturali e sociali, che sia in
grado di attrarre e fidelizzare turismi dalla
diverse esigenze, che, soprattutto, sentano la
necessità di sostare e “vivere” più a lungo i territori che li ospitano, assaporandone con calma
e consapevolezza la cultura, l’ambiente i patrimoni religiosi, culturali e ambientali. Il turismo
in Sardegna si caratterizza, troppo spesso, per
una distribuzione di presenze altamente concentrata nei mesi di luglio ed agosto, con un
periodo medio di permanenza troppo ristretto;
diventa importante, allora, far sì che le nuove
iniziative di promozione turistica riescano ad
attrarre flussi di presenze anche negli altri mesi
dell’anno, durante i quali si può scoprire un
territorio più vero e godere di atmosfere meno
commerciali e più autentiche.
In questo quadro, va tenuto conto delle tipologie di attrattori presenti nel territorio e della
loro diversa potenzialità. In funzione della
118
“notorietà”, gli attrattori possono essere classificati come segue:
-
di primo livello o grandi attrattori, costituiti
da siti e località di nota importanza;
-
di secondo livello o attrattori, costituiti dall’insieme delle testimonianze di varia natura
e importanza, ma noti soprattutto alla specifica tipologia di turista:
-
di terzo livello o attrattori minori, costituiti
dall’insieme delle testimonianze della cultura locale sparse nel territorio, ma poco
conosciuti al grande pubblico.
A questo proposito, si possono individuare
alcune tematiche forti per lo sviluppo del settore, potenziali spunti per dar vita ad un progetto di valorizzazione di alcuni attrattori turistici, attraverso oggetti e immagini fruibili a
livelli diversi di approfondimento:
Attrattive “culturali”
- Aree archeologiche
- Luoghi della cultura
- Edifici storici
Attrattive “naturalistiche e ambientali”
- Grotte
- Parchi, aree protette e riserve
Attrattive “religiose”
- Luoghi sacri
Attrattive “sportive”
- Cicloturismo
- Trekking
- Escursioni in fuoristrada
Attrattive “rurali e tipicitò”
- Tradizioni popolari
- Sagre
- Luoghi e strade della tipicità
- Produzioni tipiche
Attrattive “affari ed eventi
- Eventi di cultura-arte-spettacolo
- Mostre temporanee
- Eventi sportivi
Il contesto territoriale di riferimento presenta
differenti elementi di criticità e punti di forza.
Con riferimento ai primi, si evidenziano: l’assenza di strutture ricettive, di qualsivoglia
genere; l’assenza di offerta turistica; la conseguente inesistenza di un’immagine caratterizzante dal punto di vista turistico; la carenza di
figure professionali specializzate in campo turistico; scarsa conoscenza del mercato; assenza
di fruibilità dei beni, materiali e immateriali,
presenti nel territorio; rischio di risentire del
fenomeno della “stagionalità” turistica, che
identifica il settore locale e regionale, che si
caratterizza, inoltre, per essere prevalentemente “monoprodotto”; assenza di circuiti per
i turisti che arrivano nella bassa stagione;
scarso utilizzo dei metodi di promozione e
comunicazione via web; carenze di sinergie
con i territori limitrofi.
D’altro canto, non mancano i punti di forza per
la realizzazione di una valida offerta turistica;
tra questi vale segnalare: il patrimonio archeologico, culturale, naturale e paesaggistico a
disposizione; la presenza di risorse umane in
età da lavoro che, pur gravitando nell’area
urbana di Sassari, fanno facilmente ritorno al
Comune di provenienza; una buona presenza
di giovani laureati e diplomati; la vicinanza ad
Aspetti di fattibilità dei progetti di sviluppo imprenditoriale: dal progetto di valorizzazione allo start-up aziendale
importanti mete turistiche estive a visibilità
internazionale, all’aeroporto di Alghero, con le
sue tratte low-cost, e al porto di Porto Torres;
la possibilità di offrire un prodotto turistico
complementare a quello marino-balneare,
sfruttando la maggiore visibilità delle località
costiere; la presenza di attività produttive tipiche; la facilità di accesso dalla strada statale
131; l’aumento della domanda di turismo
ambientale; la propensione dei turisti stranieri,
molto più spiccata di quella degli italiani, a
recarsi in vacanza in Sardegna nei periodi di
bassa e media stagione, climaticamente più
adatti ad un turismo naturalistico; possibilità di
“veicolare” la propria offerta durante tutto
l’anno, grazie alle tradizioni religiose, feste e
sagre di grande richiamo per l’area occidentale
della Provincia.
La comprensione del più complesso sistema in
cui una realtà locale deve muoversi e relazionarsi, l’approccio alle diverse problematiche,
che, esulando dal puro e semplice aspetto turistico, connotano l’iter di realizzazione di
un’iniziativa economica, in particolare quando
questa intende valorizzare patrimoni intangibili
e tangibili ad un tempo, sono stati il punto di
partenza ed il leit motiv nell’esplorazione degli
elementi di fattibilità dei progetti imprenditoriali proposti.
L’obiettivo del corso è stato quello di conciliare
la tutela e la conservazione dei beni materiali e
immateriali presenti sul territorio comunale,
con la valorizzazione delle risorse, naturali,
ambientali e culturali, mediante la creazione di
un progetto economico di gestione sostenibile
ed innovativa del patrimonio, in grado di esal-
tarne il valore economico ed ambientale e la
qualità di attrattore turistico.
Sulla scorta del bagaglio conoscitivo appreso
durante i corsi precedenti, l’analisi del contesto
locale si è meglio delineata con riferimento sia
alle potenzialità presenti nel territorio, sia agli
elementi di criticità, sia alle possibili azioni da
intraprendere concretamente nel medio-breve
periodo.
Il lavoro svolto durante le ore dedicate alla
finanza agevolata, ha cercato di sviluppare
un’analisi di fattibilità dei progetti imprenditoriali scaturenti dalle linee guida del corso, focalizzando, infine, l’attenzione sul progetto:
“Itinerari di trekking archeologico e ambientale mediante metodologie tradizionali, GPS e
orienteering”, ossia la creazione di itinerari
naturalistici, archeologici, didattici, culturali,
religiosi e folklorici, finalizzata a recuperare e
tutelare una consapevole attenzione alle testimonianze culturali del proprio territorio.
L’aspetto innovativo del progetto, oltre al contenuto, è la dotazione tecnologica in termini di
strumentazione GPS, che pone l’iniziativa
all’avanguardia nel panorama dei servizi turistici di tipo naturalistico, e ancor di più se questi sono integrati in un itinerario in cui si alternano a beni archeologici e architettonici.
La prima fase si è caratterizzata per un’indagine
conoscitiva dei principali strumenti agevolativi
comunitari, nazionali, regionali. I partecipanti
hanno appreso il significato della finanza agevolata, comprendendone il sistema di funzionamento ed i suoi attori: soggetti erogatori e
soggetti beneficiari sono stati analizzati attraverso i loro elementi distintivi. Dall’analisi
generale degli strumenti agevolativi europei, si
è passati all’individuazione delle principali
leggi di finanziamento nazionali e regionali,
evidenziando, di volta in volta, le tipologie di
contributo, le misure delle agevolazioni e le
procedure di erogazione. Ampio risalto è stato
dato al concetto di “aiuto di Stato” con particolare attenzione alla dimensione delle Piccole e
Medie Imprese ed alla regola del “de minimis”.
Particolarmente interessante è stato il confronto, basato anche sulle esperienze personali
di alcuni partecipanti, sulla scelta degli incentivi disponibili. Si è cercato di individuare i criteri per orientarsi tra le numerose leggi, al fine
di comprendere le opportunità da non perdere, riuscendo a coglierle con la massima efficacia.
Lo scopo che ci si è prefissi in questa prima
fase, è stato quello di dare ai partecipanti gli
strumenti minimi necessari per porsi di fronte
al panorama legislativo della finanza agevolata
quali soggetti “consapevoli”. Accedere ai finanziamenti agevolati è un passo fondamentale
per lo sviluppo dell’impresa in quanto consente di acquisire risorse per affrontare problemi e difficoltà che impediscono all’impresa
di svilupparsi. L’imprenditore ricopre un ruolo
importantissimo: deve innanzitutto definire il
suo obiettivo di spesa, poi l’ambito di intervento economico, e quindi le differenze, i vantaggi e gli svantaggi, che intercorrono tra i
diversi tipi di agevolazione.
La seconda fase del corso sulla finanza agevolata, ha avuto l’obiettivo di sviluppare concretamente uno dei progetti proposti dai partecipanti. L’analisi condotta sui principali strumenti
119
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
agevolativi attualmente operativi, o di più probabile apertura nell’immediato futuro, ha portato alla scelta della Legge Regionale 24 gennaio 2002 n. 1, che favorisce lo sviluppo di
nuova imprenditorialità nel territorio della
Sardegna e l’ampliamento della base produttiva ed occupazionale attraverso la promozione
di nuova imprenditorialità, agevolando le piccole e medie imprese costituite prevalentemente da giovani dai 18 ai 35 anni, che intendono avviare iniziative nei settori della produzione di beni e servizi, del turismo, delle opere
complementari alle attività turistiche e della
produzione di servizi turistici.
Poiché attualmente non è aperto alcun bando
per la selezione delle iniziative imprenditoriali,
il lavoro è stato condotto utilizzando l’ultimo
bando disponibile e le relative Direttive di
attuazione approvate con deliberazione della
Giunta Regionale n. 22/1 del 21.07.2003, che
ne hanno regolato il funzionamento.
Gli strumenti conoscitivi appresi nella prima
fase del corso, hanno consentito ai partecipanti
di valutare consapevolmente lo strumento agevolativo prescelto: analizzata la Legge 1/2002
nella sua globalità, lo studio si è concentrato
sulle Direttive di attuazione, al fine di verificare
l’esistenza dei requisiti necessari, la rispondenza del progetto imprenditoriale alle finalità
della legge ed individuare gli aspetti di criticità
e/o non rispondenza da affrontare.
Il gruppo di lavoro ha iniziato con l’analisi del
Titolo II delle predetti Direttive, verificando
attentamente i requisiti soggettivi che le
imprese beneficiarie devono possedere.
Aspetti particolari, quali la forma societaria ed
120
il contenuto del relativo statuto, sono stati
discussi alla luce anche delle nozioni apprese
in altre materie oggetto del corso.
L’individuazione e la verifica concreta dei
numerosi e precisi requisiti che i partecipanti al
capitale e gli esponenti aziendali devono
obbligatoriamente possedere, hanno impegnato il gruppo di lavoro, che si è infine
ampiamente riconosciuto nei soggetti beneficiari, così come indicati dalla Legge.
Più agevole è stato, invece, individuare il settore in cui all’iniziativa verrà applicato il
regime di aiuti: il progetto imprenditoriale è
stato, infatti, inserito nel settore turismo, opere
complementari alle attività turistiche e produzione di servizi turistici.
Terminata l’analisi del Titolo II, è iniziata la
fase critica della verifica della rispondenza del
progetto di spesa concreto, cuore del progetto
imprenditoriale, agli aiuti agli investimenti previsti dalla L.R. 1/2002. Con grande interesse i
partecipanti hanno valutato le spese in capitale
fisso ammissibili, i limiti di ammissibilità di
alcune tipologie, la non ammissibilità di altre.
Possedere i requisiti soggettivi previsti da uno
strumento agevolativo non implica, infatti, che
questo risponda alle esigenze del programma
di investimento. Si è trattato di un momento di
confronto importante, durante il quale i partecipanti hanno analizzato ogni singolo aspetto
del loro progetto, concentrandosi sugli strumenti necessari per poterlo realizzare, attribuendo ad ogni servizio che si proponevano di
offrire, la più appropriata dotazione tecnica. E’
stato, inoltre, affrontato l’aspetto finanziario
relativo all’apporto di capitale proprio ed ai
contributi in conto capitale ed in conto interessi.
Terminata l’analisi degli investimenti in beni
durevoli, è stato affrontato l’aspetto gestionale
dell’attività oggetto del programma agevolato.
Avviare un’iniziativa imprenditoriale non significa soltanto munirsi dell’apparato tecnico consistente in attrezzature, macchinari, impianti,
software, automezzi; significa anche capire le
esigenze quotidiane dell’azienda, programmarle, prevederle, per poterle gestire. Ogni
ente economico ha alcuni aspetti gestionali
comuni, ed altri suoi peculiari, determinati
dalla tipologia di attività che esso svolge. Il
gruppo di lavoro, in tal senso, ha enucleato
una serie di costi di gestione, così individuabili:
costi specifici, in quanto legati alla tipologia ed
alla natura dei servizi che si intende fornire;
costi amministrativi; costi commerciali; costi
generali; oneri finanziari; oneri straordinari;
oneri fiscali. Tale distinzione, oltre a permettere una migliore conoscenza dell’azienda, è
stata indispensabile per l’individuazione delle
spese di gestione ammissibili agli aiuti al funzionamento previsti dall’art. 7 della L.R. 1/2002.
L’analisi delle Direttive di attuazione si è conclusa con l’esame del Titoli V, VI e VII, relativi
alle modalità istruttorie del bando, all’erogazione delle agevolazioni ed ai controlli, aspetti
non meno rilevanti dei precedenti.
Avere una buona proposta imprenditoriale a
volte non è sufficiente: conoscere gli indicatori
usati per la definizione della graduatoria delle
domande, ed i criteri di premialità, significa
conferirle maggiori chance di finanziabilità. È
importante, allora, determinare il punteggio
Aspetti di fattibilità dei progetti di sviluppo imprenditoriale: dal progetto di valorizzazione allo start-up aziendale
massimo cui il progetto può aspirare, agendo
sugli indicatori, massimizzando quelli i cui fattori possono essere variati senza ledere l’equilibrio finanziario e strutturale dell’iniziativa.
L’iter procedurale di una legge agevolativa si
conclude con l’erogazione del contributo.
Un’idea imprenditoriale può avere tempi di
realizzazione più o meno lunghi, determinati
da elementi interni o esterni: requisiti professionali o tecnici in possesso o meno dei proponenti, autorizzazioni amministrative e/o
sanitarie da richiedere, disponibilità della sede
e, nel caso specifico, fruibilità dei territori e
delle infrastrutture in cui operare. Diviene,
allora, fondamentale valutare il percorso di
ottenimento dei titoli autorizzativi e formativi
(se non in possesso) in relazione ai tempi massimi concessi dalla legge agevolativa per la realizzazione dell’intervento. Per contro, i tempi
previsti dall’iter istruttorio delle domande di
concessione si potrebbero mal conciliare con
le esigenze di avvio a realizzazione, sminuendo l’importanza dello strumento agevolativo. Quest’ultimo va, dunque, valutato attenta-
mente anche in riferimento alla compatibilità
fra tempi di realizzazione, tempi di disponibilità dei finanziamenti, e tempi di spendibilità
degli stessi. L’erogazione del contributo non
avviene mai in un’unica soluzione e, di solito,
è correlata agli stati di avanzamento; poiché,
dopo una tranche anticipata, le erogazioni successive avvengono a consuntivo, i proponenti
hanno valutato le capacità finanziarie interne e
le risorse da apportare, al fine di determinare
l’impegno finanziario che possa garantire il
completamento degli investimenti e l’avvio dell’attività sino alla generazione dei primi flussi
di ricavi.
I contributi concessi possono essere revocati al
verificarsi di determinate condizioni, ben evidenziate dalle Direttive di attuazione. Nel caso
della L.R. 1/2002, l’arco temporale di permanenza e sussistenza di vari requisiti soggettivi
ed oggettivi copre un periodo fino a quindici
anni; vengono stabiliti anche gli scostamenti
percentuali massimi consentiti degli indicatori
che hanno determinato il punteggio della graduatoria. Il gruppo di lavoro ha analizzato le
condizioni che determinano la revoca dei contributi, cercando di prevedere i possibili ostacoli e le soluzioni adottabili; è stato sviluppato
uno scenario futuribile, in cui ad ogni condizione di revoca è stata contrapposta un’azione
volta a ripristinare i requisiti presenti ab origine.
Conclusa l’analisi dello strumento agevolativo
prescelto e delle direttive di attuazione, i partecipanti hanno redatto lo studio di fattibilità
nella misura in cui devono essere presentati i
soggetti proponenti, le finalità e le motivazioni
che hanno portato all’idea imprenditoriale, le
aree interessate dall’iniziativa, l’analisi del contesto locale, fattibilità dell’ipotesi progettuale
considerata, risultati attesi. La redazione ha
riguardato le parti più descrittive del businessplan: data la difficoltà insita nella determinazione della sostenibilità economico-finanziaria
(appannaggio degli esperti in contabilità e
bilancio), non è stato possibile, per il gruppo
di lavoro, elaborare i bilanci previsionali, gli
indici di bilancio ed il break-even point.
BIBLIOGRAFIA
Regione Autonoma della Sardegna, Assessorato alla
programmazione, bilancio, credito e assetto del territorio, Rapporto d’Area, Executive Summary, Laboratorio
territoriale della Provincia di Sassari.
Regione Puglia, Studio di fattibilità per il potenziamento di una rete regionale di attrattori turistici territoriali, Termini di riferimento, Forum Regionale del
Turismo novembre 2006
121
ARCHEOLOGIA
PER IL TERRITORIO: IL PROGETTO “CONOSCENZA, TUTELA
E VALORIZZAZIONE DI AREE E PARCHI ARCHEOLOGICI IN LOMBARDIA”
Monica Abbiati
Marco Minoja
Raffaella Poggiani Keller
PREMESSA
La Direzione Regionale per i Beni Culturali e
Paesaggistici
della
Lombardia,
la
Soprintendenza per i Beni Archeologici della
Lombardia e la Regione Lombardia, con il coinvolgimento di tre diverse Direzioni Generali
(Culture, Identità e Autonomie della
Lombardia; Territorio e Urbanistica; Qualità
dell’Ambiente) hanno condiviso la predisposizione e l’avvio di un progetto di conoscenza e
valorizzazione delle aree e dei parchi archeologici del territorio regionale: la sottoscrizione
congiunta del progetto avvenuta il 19 luglio
2006 ha formalmente dato avvio alla fase attuativa, sancendo un primo punto di arrivo in un
processo di condivisione avviatosi già dall’anno precedente.
L’avvio di processi di collaborazione e cooperazione tra gli enti a diverso titolo coinvolti nell’attività di valorizzazione del patrimonio, in
coerenza con le indicazioni del Codice dei
Beni Culturali e del paesaggio1, rappresenta un
elemento di non trascurabile importanza per la
costruzione di un quadro normativo e regolamentare di riferimento coerente e organico.
All’integrazione tra bene culturale e paesaggio,
già prefigurata dal Codice, si aggiunge così la
possibilità di un intervento integrato sul territorio che tenga conto anche delle componenti
urbanistiche e delle specificità locali, favorendo nel contempo processi di crescita culturale e promozione della persona.
L’OGGETTO
DELL’ANALISI:
AREE E PARCHI ARCHEOLOGICI
Aree e parchi archeologici sono stati individuati come oggetti destinati alla tutela e alla
valorizzazione a partire dalla redazione del
Testo unico sui Beni Culturali n. 490/1999, che
ne ha per la prima volta tentato una definizione circostanziata e al contempo ne ha riconosciuto la valenza di luoghi per la promozione culturale al pari dei musei, delle biblioteche e degli archivi storici2.
Gli unici precedenti nell’ordinamento nazionale possono essere rintracciati in una circolare
del Ministero per i Beni Culturali3 del 1990,
dove il Parco Archeologico veniva definito
come «un’area protetta nella quale, per la consistenza di presenze monumentali, può individuarsi e definirsi uno spazio di particolare
valenza quale Museo all’aperto»; e nella legge
istitutiva della «Soprintendenza speciale» di
Pompei, che fa esplicito riferimento alle «aree
archeologiche» della città vesuviana.
Le definizioni di «area archeologica» e «parco
archeologico» sono state ulteriormente sviluppate e compiutamente articolate nell’ambito
del Codice dei beni culturali e del paesaggio4
che ha individuato nella «presenza di resti di
natura fossile o di manufatti o strutture preistorici o di età antica» la caratterizzazione delle
aree archeologiche, recuperando invece
quanto già espresso dal Testo Unico a proposito dei parchi archeologici, vale a dire la caratterizzazione di un ambito territoriale attraverso
«importanti evidenze archeologiche», laddove
siano compresenti anche «valori storici, paesaggistici o ambientali» e la organizzazione del sito
123
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
come «museo all’aperto». A partire pertanto da
questi riferimenti normativi è possibile cercare
di approfondire le caratteristiche di questi specifici oggetti individuati a tutti gli effetti come
luoghi della cultura.
Nella definizione di area archeologica contenuta nel codice, l’elemento caratterizzante
risulta essere la semplice presenza di resti,
manufatti, strutture archeologiche in una determinata area: è rilevante la variazione rispetto al
testo del 1999, dove la descrizione fornita sembra connotare piuttosto un monumento o un
complesso archeologico (insieme edilizio concluso per funzione o destinazione) piuttosto
che un’area con presenze archeologiche di
qualsivoglia natura. La definizione non specifica ulteriori caratteristiche, né per quanto
riguarda l’area in cui tali resti si trovano, né per
quanto riguarda il contesto territoriale del
quale essa fa parte.
Il riferimento ai resti di natura fossile sembra
portare ad includere tra le aree archeologiche
anche i giacimenti paleontologici, assimilati ai
beni archeologici peraltro anche in altri strumenti della normativa di tutela5.
L’estensione cronologica dei beni considerati,
dalla preistoria a tutta l’età antica, con la significativa esclusione di ogni oggetto di epoca
medievale, risente di una più generale e discutibile caratterizzazione dei beni archeologici
nell’ambito della medesima normativa di
tutela, che assegna agli organi di tutela archeologica del ministero competenze in ordine allo
scavo di manufatti medievali, ma non in relazione alla loro tutela e valorizzazione; ma
appare in questo caso forse ancora più opina-
124
bile, in considerazione della significativa presenza sul territorio italiano di evidenze monumentali di epoca medievale che vengono correntemente percepite come evidenze aventi a
che fare con la “caratterizzazione archeologica”
dei luoghi.
Più articolata e naturalmente più ricca di spunti
appare la definizione di parco archeologico,
che sembra incardinare su tre differenti e ben
esplicitate caratteristiche la connotazione degli
oggetti in questione.
Tali caratteristiche sono evidentemente la presenza di evidenze archeologiche definite
importanti, terminologia che assimila tali evidenze a tutti i beni culturali suscettibili di
tutela; la compresenza di valori storici, paesaggistici o ambientali, e pertanto una connotazione non indifferente del contesto all’interno
del quale i resti archeologici si trovano collocati, quale che sia il tipo di considerazione che
si intende riservare ai succitati «valori»; infine
una specifica attività di valorizzazione riservata
ai beni e al loro contesto, che tende ad assimilare, quanto meno per questa specifica connotazione, i parchi archeologici ad altri più tradizionali luoghi della cultura come i musei.
Tra le relazioni che si vengono a istituire tra
queste articolate caratteristiche quella che evidentemente riveste il maggiore interesse è senz’altro quella che tende a collegare i resti
archeologici al loro contesto territoriale: si
tratta innanzitutto di un principio fondamentale di corretta lettura dei beni archeologici,
per i quali il dato contestuale non riveste evidentemente il valore puramente amministrativo
di «luogo di rinvenimento», ma costituisce una
delle ragioni stesse della loro esistenza e della
loro specifica collocazione, e per gli archeologi
rappresenta un dato di analisi al pari di tutte le
altre caratteristiche del bene.
In questo senso la definizione del Codice, che
specifica il valore ambientale e paesaggistico,
ma anche storico, anzi principalmente storico,
quanto meno per mera collocazione dei termini, del contesto all’interno del quale i resti
archeologici si collocano, nell’ambito di un
parco archeologico, aiuta a porre nella giusta
ottica la considerazione relativa ai medesimi
valori; in altri termini, nel pensare a un parco
archeologico, il contesto territoriale di riferimento non andrà inteso come semplice giustapposizione di una componente naturalistica,
per quanto pregevole o correttamente preservata, ad un’altra di natura archeologica di per
sé importante; ma andrà visto come quel complesso di componenti naturalistiche, con ciò
intendendo le componenti geomorfologiche e
idrogeologiche, biologiche e vegetazionali dei
luoghi, paesaggistiche, vale a dire quegli elementi di modellazione dell’ambiente che ne
fanno lo sfondo su cui si collocano le attività
dell’uomo, che concorrono a determinare le
caratteristiche di un territorio, sulla base delle
quali esso ha costituito il punto di definizione
di una determinata manifestazione archeologica, per esserne a sua volta ulteriormente
modellato e ridefinito, in un processo continuo
di reciproca determinazione, che costituisce in
ultima analisi il dato storicamente e culturalmente rilevante da comprendere e valorizzare.
In questo senso il riferimento al criterio di
valorizzazione come museo all’aperto andrà
Archeologia per il territorio: il progetto “Conoscenza, tutela e valorizzazione di aree e parchi archeologici in Lombardia”
inteso, al di là degli aspetti “strumentali” della
valorizzazione, nel senso di una omologia con
quei casi in cui il museo costituisce un significativo elemento di testimonianza della storia di
un territorio, cosa che peraltro avviene in
molte, ma non certo in tutte le tipologie di
museo riconosciute; ferme restando peraltro le
significative differenze che intercorrono tra i
due oggetti, laddove il parco archeologico,
proprio per la sua caratteristica di testimone
delle interazioni prodottesi in un determinato
contesto territoriale, richiederà un processo di
valorizzazione che per un verso evidenzi il
contributo dell’archeologia alla storia del territorio, per un altro si faccia carico anche del
potenziale di condizionamento del territorio
stesso che la sua caratterizzazione archeologica
comporta.
I CONTENUTI E GLI STRUMENTI DEL PROGETTO
Il progetto di conoscenza e valorizzazione che
qui si presenta si è posto come obiettivo la
catalogazione di tutti i beni esistenti in
Lombardia, aventi le caratteristiche di area e
parco archeologico, a partire da una selezione
di un campione di dieci parchi ed aree variamente strutturati e distribuiti sul territorio
regionale.
Come si comprende dall’articolato sistema
delle definizioni, che nel paragrafo precedente
si è cercato di esaminare, l’oggetto del lavoro
è caratterizzato da una significativa varietà,
relativamente alla tipologia dei beni indagati,
alla loro estensione, proprietà e livello di valorizzazione. La realtà lombarda affianca ad
esempio parchi archeologici strutturati e di
importanza mondiale riconosciuta, come il
Parco delle incisioni rupestri della Valle
Camonica, sito inserito nella lista del patrimonio culturale dell’UNESCO, o il comprensorio
delle ville gardesane di epoca romana, in cui il
solo sito delle “Grotte di Catullo” fa registrare
presenze superiori alle 200.000 unità di visitatori annui, ad aree di recente grande sviluppo
sul piano della valorizzazione, come alcuni
parchi archeologici in aree urbane quali
Brescia o Milano, ad aree ancora da valorizzare
appieno, in cui spesso i rinvenimenti archeologici sono all’interno di contesti ambientali e
naturali protetti, distribuite su tutto il territorio
regionale.
Molta parte di questo patrimonio peraltro, che
un’analisi preliminare ha quantificato in oltre
un centinaio di realtà tra aree e parchi archeologici, ampiamente diffuse su tutto il territorio
regionale, risulta tuttora assai poco o per nulla
conosciuto: può essere interessante, a questo
proposito, segnalare come il sito della
Direzione Generale Beni Archeologici ascriva
alla Lombardia soltanto cinque importanti complessi archeologici tra parchi (Parco delle
Incisioni Rupestri in Valle Camonica, Parco di
Castelseprio), aree archeologiche (Villa romana
di Desenzano) e monumenti (Grotte di
Catullo); il dato peraltro sembra potersi associare ad una generale percezione del territorio
lombardo come di una regione scarsamente
caratterizzata da presenze archeologiche rilevanti e attraenti sul piano della valorizzazione
e della fruizione.
Per cercare di controbilanciare questa diffusa
percezione, e per rendere conto dell’effettiva
consistenza del patrimonio archeologico regionale, il piano di intervento prevede un approfondito approccio conoscitivo ai parchi e alle
aree archeologiche, attraverso la schedatura
complessiva di tutti i beni, effettuata con strumenti di catalogazione allineati agli standard
nazionali.
I tracciati catalografici individuati corrispondono alle schede SI e MA/CA, successivamente
integrate dalla scheda IRweb6 per la schedatura delle rocce incise: la banca dati contenente i risultati della schedatura contribuirà ad
arricchire i sistemi informativi di Ministero e
Regione relativi ai beni culturali7.
La scheda SI - Sito Archeologico è stata individuata per la descrizione dell’area di ciascun
parco, o, in caso di articolazioni territoriali più
complesse, delle diverse aree su cui ciascun
parco è distribuito; a ciascuna scheda SI si collega un numero variabile di schede MA/CA Monumento/Complesso
archeologico,
a
seconda dell’articolazione dei monumenti o
complessi monumentali all’interno di ciascun
sito.
L’utilizzo di strumenti di catalogazione standardizzati a livello nazionale e forniti di specifiche
norme e vocabolari è stato ritenuto quello più
idoneo per la produzione di un livello informativo che si allineasse agli altri livelli descrittivi
dei beni culturali inseriti nei diversi sistemi
informativi; per questo motivo si è deciso di
utilizzare le schede SI e MA/CA, anche indipendentemente dall’attuale revisione della normativa relativa, optando in sede di progetto
per uno sforzo di elaborazione e integrazione
coerente con le indicazioni già pubblicate sia
125
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
sulle normative che sui vocabolari, attivando
nel contempo le procedure necessarie per
effettuare su tali elaborazioni un confronto
puntuale con l’Istituto Centrale del Catalogo e
della Documentazione, che certifichi e renda
condivise le soluzioni adottate; un confronto
che in questa fase del progetto è stato avviato
e che potrebbe condurre, come risultato auspicabile, alla costituzione di un gruppo di lavoro,
che possa affrontare in maniera approfondita
tanto la problematica delle diverse tipologie di
beni, quanto quella degli strumenti di catalogazione più idonei. In questa ottica di sperimentazione, a livello locale, di strumenti di catalogazione per il patrimonio nazionale, il progetto
potrà inoltre costituire un’utile applicazione di
modelli di scheda che non solo sono stati
oggetto di una revisione significativa, ma risultano ancora essere tra gli strumenti di catalogazione meno utilizzati, contribuendo alla diffusione e adozione degli stessi anche da parte
delle altre Regioni.
Nell’ambito della catalogazione delle aree e dei
parchi, in linea con quanto contenuto nei
nuovi modelli catalografici, è prevista la georeferenziazione di tutti i beni schedati; la georeferenziazione delle aree indagate consentirà
l’utilizzo dei dati rilevati come ulteriori livelli
da collegare ai sistemi informativi territoriali,
alimentati dai diversi enti e tra loro in stretta
correlazione, consentendo ricadute immediate
nelle attività di pianificazione urbanistico-territoriale sia a livello di pianificazione regionale,
per quanto attiene tutti gli strumenti derivanti
dall’applicazione della legge 12/20058, sia a
livello locale.
126
DALLA CONOSCENZA ALLA VALORIZZAZIONE:
LE «SCHEDE DI GESTIONE»
Una significativa ricaduta dell’indagine è attesa
inoltre nel settore della promozione culturale e
turistica del patrimonio archeologico regionale.
Il complesso dei sistemi informativi interessati
dal progetto, destinati a raggiungere, attraverso
la Rete, non solo l’utenza specialistica, ma
anche il pubblico più allargato dei navigatori di
Internet, potrà rappresentare infatti un efficace
volano per la conoscenza turistica delle aree
segnalate.
In questo senso il lavoro sulle realtà archeologiche lombarde potrà giovarsi del significativo
potenziamento che, a livello ministeriale, si sta
riservando alla comunicazione on line, attraverso il progetto Portale della Cultura che, oltre
a prevedere l’aggiornamento e il potenziamento dei siti web delle Soprintendenze e
delle Direzioni regionali9, comporta la realizzazione di un punto privilegiato di accesso alle
informazioni culturali prodotte e veicolate
dalla struttura centrale e periferica del MiBAC;
i dati raccolti contribuiranno inoltre ad alimentare i consolidati canali di comunicazione on
line della Regione Lombardia10.
Proprio in considerazione dell’importanza
degli aspetti connessi alla fruizione e valorizzazione delle aree in esame, prioritari in una
logica di sensibilizzazione e crescita culturale
della regione, all’indagine conoscitiva sulle
caratteristiche dei luoghi della cultura indagati
si sta accompagnando un approfondito monitoraggio delle attività di valorizzazione delle
aree.
Tale analisi viene effettuata attraverso l’im-
piego di uno specifico modulo catalografico,
appositamente studiato e realizzato nell’ambito
di questo progetto, a integrazione delle informazioni contenute nella scheda Sito; il modulo
denominato «GLCP Gestione Luoghi della
Cultura - Parchi e Aree Archeologiche» consentirà il rilevamento di un’articolata serie di informazioni relative alle strutture di gestione delle
aree e dei parchi archeologici, pertinenti alla
loro organizzazione, alla descrizione delle
strutture del parco, delle sue attività, dei servizi
proposti ai visitatori, dell’offerta culturale e
didattica. La scheda è suddivisa in otto sezioni,
costruite per descrivere i diversi aspetti dell’attività di gestione dei parchi e delle aree
archeologiche: la prima sezione, dedicata alla
Caratterizzazione organizzativa della struttura, contiene tutti i dati anagrafici e quelli
relativi all’istituzione della struttura, nonché la
qualificazione e i caratteri dell’ente proprietario
e dell’ente gestore.
Nella seconda sezione, Descrizione struttura, è
possibile offrire una descrizione complessiva
dell’area e delle caratteristiche relative all’allestimento e didascalizzazione della stessa.
La terza contiene le informazioni relative alla
Accessibilità: è destinata a raccogliere i dati
relativi a giorni, modi e tempi di apertura al
pubblico, precisando anche la presenza di barriere architettoniche nonché la percorribilità
del percorso di visita.
Nella quarta sezione vengono registrati i Dati
sull’affluenza: i dati sono articolati in modo da
consentire, ove possibile, l’elaborazione di statistiche circa la provenienza e l’età dei visitatori, oltre ovviamente a quelle relative alla
Archeologia per il territorio: il progetto “Conoscenza, tutela e valorizzazione di aree e parchi archeologici in Lombardia”
quantificazione numerica complessiva.
I diversi servizi offerti dalla struttura, distinti in
servizi al pubblico (caffetteria, aree sosta, servizi, ecc), servizi didattici (visite guidate, laboratori), e servizi culturali (biblioteca, sala conferenza, ecc.) sono registrati nella quinta
sezione Descrizione servizi.
La successiva sezione Descrizione funzioni e
attività intende esaminare in particolare l’attività scientifica svolta dal parco o dall’area sia al
suo interno sia sul territorio circostante, e
quindi la capacità di costituire un centro di
promozione di attività di ricerca, considerando
anche la relativa attività di comunicazione
(allestimento di mostre, conferenze, pubblicazione di testi specifici).
Le ultime due sezioni consentono di analizzare
i diversi aspetti del bilancio gestionale: nella
sezione Descrizione risorse sono raccolti i dati
relativi sia alle risorse umane professionali e
volontarie11, sia alle risorse finanziarie; l’organizzazione dei dati distingue le risorse ordinarie, quelle straordinarie e quelle legate allo
svolgimento di progetti specifici; nell’ultimo set
di dati, Descrizione costi, le informazioni sono
raccolte in modo da risultare speculari rispetto
a quelle presenti nella sezione precedente, differenziando i costi legati all’attività ordinaria da
quelli per specifiche attività.
L’organizzazione delle informazioni nella
scheda, strutturate in paragrafi, campi e sottocampi, è coerente con il modello utilizzato dai
tracciati messi a punto dall’Istituto Centrale per
il Catalogo e la Documentazione. Come si
evince dalla sintetica descrizione delle sezioni
ci si propone di rilevare in modo quanto più
possibile organico, accanto ai dati descrittivi
degli aspetti di valorizzazione (sezioni 2-3-5),
anche i dati relativi alle parti strutturali delle
aree oggetto di analisi (sezione 1), gli elementi
correlati alle attività di tipo tecnico scientifico
e divulgativo (sezione 6), nonché i dati relativi
al funzionamento della struttura (sezioni 4-78). La scelta dello strumento catalografico,
apparentemente più faticosa rispetto alle
modalità di raccolta dati comunemente utilizzate per il rilevamento di informazioni di questa natura, è finalizzata, oltre che all’integrazione coerente con il tracciato della scheda
Sito ICCD, all’acquisizione quanto più possibile
uniforme dei dati, come premessa a tutte le
possibili analisi e confronti tra le diverse situazioni sul territorio regionale.
L’analisi comparata delle differenti situazioni
consentirà infatti di progredire, anche
mediante la sperimentazione su siti campione,
nello studio dei modelli di gestione più adeguati alle diverse tipologie, nella prospettiva di
giungere alla definizione di standard di funzionamento, applicabili ai parchi e alle aree
archeologiche, analogamente a quanto effettuato per altri più tradizionali luoghi della cultura come i musei.
Tale percorso risulta funzionale non solo
all’astratta definizione di un modello di funzionamento delle aree e dei parchi archeologici,
ma può fornire ai soggetti gestori delle stesse
un parametro di riferimento per le attività,
costituendo altresì uno strumento di valutazione in un’ottica di pianificazione degli interventi degli enti di governo. Altra caratteristica
del progetto è quella di valutare la situazione
di tutela e valorizzazione delle aree e dei parchi archeologici in stretta correlazione con la
realtà ambientale e paesaggistica, in un’ottica
di tutela integrata e condivisa tra i diversi soggetti coinvolti nel progetto, dalla quale si prevedono importanti ricadute sulle strategie di
governo del territorio.
Molte delle realtà archeologiche lombarde
sono infatti, come sopra ricordato, collocate
all’interno di territori individuati come aree
protette, e spesso devono la loro conservazione anche alla tempestiva apposizione di
vincoli ambientali: un simile collegamento tra
tutela di tipo culturale e paesaggistico, coerente con la definizione unitaria della materia
prevista del Codice dei beni culturali e del paesaggio oltre a costituire una significativa potenzialità nell’ambito della valorizzazione delle
strutture archeologiche, rappresenta indubbiamente un’ulteriore attrattiva per i visitatori, ai
quali si offre la possibilità di godere ad un
tempo delle bellezze naturalistiche e del
fascino delle strutture archeologiche, in contesti a volte molto evocativi grazie a una realtà
ambientale ben preservata.
IL
PERCORSO DI LAVORO
La necessità di elaborare, condividere ed attivare in tempi ristretti una proposta progettuale
che coordinasse le competenze di numerosi
soggetti, è stata sicuramente l’aspetto predominante nella prima fase di lavoro.
A tal fine è stato costituito un gruppo di progetto, composto da rappresentanti di Regione
e Ministero, specificamente delegati dalle strutture di appartenenza. Frutto del lavoro del
127
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
gruppo è stata la stesura di una bozza di progetto che quantificava costi e tempi di svolgimento del lavoro, elaborando un dettagliato
cronoprogramma.
La bozza è stata quindi sottoposta a tutti i soggetti coinvolti nell’attività e modificata in funzione delle specifiche esigenze segnalate.
L’intento perseguito è stato infatti quello di
ottenere un risultato comune, rispettando le
specifiche competenze, evitando se possibile
le sovrapposizioni, garantendo altresì a tutti la
gestione delle attività di competenza abituali.
Si è quindi tenuto conto nell’elaborazione dei
tracciati informativi delle caratteristiche dei
sistemi già in uso, configurando in alcuni casi
la raccolta di dati come un’integrazione di
archivi già esistenti12.
Ognuno dei soggetti coinvolti ha a tal fine
garantito la messa in comune del proprio bagaglio di conoscenze (elenchi dei vincoli, ortofoto del territorio in esame, ecc.).
In assenza di un unico specifico finanziamento
per la realizzazione dell’attività si è attinto a
canali differenziati per le diverse fasi di lavoro,
distinguendo interventi di implementazione
del sistema informativo e raccolta dati.
L’individuazione delle aree in cui avviare la
sperimentazione ha privilegiato, per parte
regionale, le realtà contenute all’interno di parchi naturali, attivando in tal senso anche una
forma di collaborazione sussidiaria con gli enti
parco coinvolti. Il Ministero ha quindi integrato
tale elenco, in un’ottica di copertura e massima
rappresentatività delle realtà presenti nel territorio. La versione finale del progetto è stata
illustrata e condivisa in una riunione plenaria
128
con tutti i soggetti coinvolti. Non essendo previsto alcun obbligo reciproco di natura finanziaria, l’approvazione dello stesso è avvenuta
mediante sottoscrizione del verbale della riunione da parte delle strutture apicali degli enti
coinvolti.
Lo stesso verbale ha inoltre consentito ai partecipanti di segnalare e registrare anche numerose altre opportunità connesse alla realizzazione dell’attività.
La fase successiva di lavoro ha previsto lo sviluppo di due sistemi informativi per la raccolta
dati, distinti e perfettamente e compatibili, per
Regione e Ministero.
Sono quindi stati individuati i catalogatori incaricati della raccolta dati. Visto il carattere sperimentale del progetto (soprattutto per quanto
attiene la scheda GLCP) la formazione relativa
alla compilazione delle schede si è svolta in
forma seminariale, prevedendo la realizzazione
di incontri periodici nel corso di tutte le attività
di raccolta dati.
UN’ESPERIENZA AVANZATA
DI VALORIZZAZIONE: IL PARCO DELLE
INCISIONI RUPESTRI DELLA VALCAMONICA
Nel quadro delle aree e dei parchi archeologici
lombardi, la Valle Camonica, ubicata nella
parte nord-orientale della regione, in provincia
di Brescia, rappresenta, con il suo articolato
sistema di realtà espositive, un campione territoriale significativo come esempio di valorizzazione, attuata e in corso di ulteriore potenziamento, dell’esteso sito “Arte Rupestre della
Valle Camonica” riconosciuto nel 1979 patrimonio mondiale nella World Heritage List
dell’UNESCO. Le incisioni, che coprono un
arco cronologico di oltre 12.000 anni, a partire
dall’Epipaleolitico fino ad età storica, romana e
medioevale, con persistenze fino all’età
moderna, sono distribuite su un ambito territoriale molto vasto comprendente l’intera Valle,
estesa per più di 80 km, su una superficie di
oltre 1300 kmq. In ben 24 dei 41 comuni della
Valle sono attestate oltre 180 località con incisioni rupestri, per un totale - con una stima per
difetto - di almeno 2400 rocce istoriate, collocate in una fascia altimetrica compresa tra 200
e 1300 m/slm, pur non mancando attestazioni,
soprattutto di arte schematica, anche a quote
prossime o superiori ai 2000 m/slm. Si tratta
quindi di un sito complesso per estensione,
durata e varietà dei temi figurativi e dei contesti archeologici.
Questa situazione ha determinato negli anni
vari interventi di valorizzazione che si sono
concretizzati nella creazione di parchi archeologici (ben otto per la preistoria e protostoria13) dallo storico Parco Nazionale delle
Incisioni Rupestri, fondato nel 1955, ai due
nuovi Parchi aperti nel 2005 a Capo di Ponte
(il Parco Archeologico Nazionale dei Massi di
Cemmo ed il Parco Archeologico Comunale di
Seradina-Bedolina), nell’allestimento, in corso,
del Museo Nazionale della Preistoria della Valle
Camonica, nel centro storico di Capo di Ponte,
e nella progettazione di Percorsi pluritematici
attorno a siti archeologici di recente indagine
(a Dosso Poglia di Cedegolo e Lòa di BerzoDemo).
Nel 2004 la richiesta rivolta dall’UNESCO al
governo italiano (tenuto agli adempimenti
Archeologia per il territorio: il progetto “Conoscenza, tutela e valorizzazione di aree e parchi archeologici in Lombardia”
derivanti dalla Convenzione sulla tutela del
Patrimonio mondiale, culturale e naturale,
Parigi 16 novembre 1972) di adeguare tutti i siti
del Patrimonio mondiale iscritti prima del 2002
con un Piano di Gestione ha comportato un
impegnativo lavoro di concertazione da parte
di un consesso di Enti territoriali e locali
(Provincia di Brescia; Comunità Montana di
Valle Camonica; Consorzio dei Comuni del
Bacino Imbrifero Montano di Valle Camonica
(B.I.M.); Comuni di Darfo Boario Terme, Capo
di Ponte; Sellero; Sonico; Consorzio della
Riserva Regionale di Ceto, Cimbergo e
Paspardo), unitamente alla Soprintendenza che
lo ha coordinato per incarico del Ministero per
i Beni e le Attività Culturali14. Insieme sono
stati definiti obiettivi, strategie, progetti e tempi
di attuazione per la tutela, la conservazione e
la valorizzazione del sito, con l’intento di conciliare l’identità dei luoghi e la loro tutela e
conservazione con le esigenze dello sviluppo
socio economico. Il Piano di Gestione, elaborato nel 2005, ha perseguito un disegno complessivo di valorizzazione della valle sulla linea
di alcuni obiettivi prioritari:
- tutelare e conservare il patrimonio d’arte
rupestre della Valle Camonica considerato nel
contesto archeologico e territoriale al quale è
strettamente legato;
- promuoverne e potenziarne la conoscenza,
con interventi sistematici e coordinati di documentazione, di ricerca e di studio;
- valorizzare il sito nelle forme e con gli strumenti più idonei, nel rispetto, prioritario e
imprescindibile, dell’integrità e dell’identità del
bene, all’interno del contesto territoriale e cul-
turale nel quale esso è inserito;
- svilupparne con sapienza l’inserimento nel
circuito del turismo culturale e, più in generale, di un sistema turistico;
- operare in modo da rendere compatibili tali
priorità con lo sviluppo sostenibile del territorio,
per il quale il sito arte rupestre costituisce elemento promotore di sviluppo economico e
sociale.
Sono stati definiti vari piani di intervento
(Piano di intervento per l’adeguamento e la
valorizzazione dei Parchi d’Arte Rupestre;
Piano di intervento per la realizzazione del
Museo Nazionale della Preistoria della Valle
Camonica; Piano di intervento per la valorizzazione dei siti archeologici pre-protostorici;
Piano di intervento per il rilevamento, la documentazione e la valorizzazione degli altri siti
d’arte rupestre della Valle Camonica non compresi nei Parchi d’Arte Rupestre; Piano di intervento sulla rete dei percorsi storici; Piano di
intervento per il ripristino paesaggistico del
fondovalle).
I problemi conservativi, che riguardano tanto
le singole rocce quanto gli insiemi ed i comprensori in cui esse si trovano, sono stati
affrontati nel Piano di conservazione sui tre
diversi livelli della salvaguardia, manutenzione e restauro conservativo. La serie di Piani,
che si articola operativamente anche nei Piani
dell’accessibilità, dell’accoglienza, della formazione e altri ancora, comporta l’identificazione
degli Indicatori per un attento monitoraggio
sugli esiti delle strategie adottate e sulla validità
dei progetti, finalizzati principalmente alla
tutela, alla conservazione e alla valorizzazione
del sito.
La sfida in campo è quella di far sì che il Piano
di Gestione aiuti la Valle Camonica, un comprensorio a forte tradizione industriale e artigianale, a riconvertirsi in “distretto culturale”,
facendo perno su un patrimonio di arte rupestre senza pari al mondo, diffuso capillarmente
sul territorio e aggregato per ora attorno a otto
Parchi, nazionali e comunali, ma destinato ad
una più estesa valorizzazione che dovrà, con
grande attenzione e scelta lungimirante di
metodi e di risorse, integrarsi in modo strategico con il nuovo sistema turistico della Valle.
Questo processo virtuoso ricerca-scoperta-studio-valorizzazione con apertura al pubblico di
siti, parchi e aree archeologiche, musei, attuato
e via via potenziabile, con attenzione non solo
alle espressioni d’arte rupestre ma a tutto l’ambito archeologico territoriale nei suoi vari
aspetti (la trama dei percorsi storici, i contesti
archeologici, i segni di devozione, di memoria
legati all’arte rupestre) si completa con quanto
programmato per l’altrettanto importante
sistema dell’archeologia di età romana che
ruota attorno al polo di Cividate Camuno (interessato da un Accordo di Programma tra Enti,
cui partecipano unitamente ad altri, Ministero e
Regione), con una strategia complessiva, coordinata ed incisiva, di promozione (Piano del
Marketing territoriale), che si giocherà tuttavia
sulla capacità di coinvolgimento delle comunità locali.
129
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
NOTE
1
DL 42/2004 Codice dei beni culturali e del paesaggio,
Articolo 102 «Fruizione degli istituti e luoghi della cultura di appartenenza pubblica».
2
Articolo 99 «Apertura al pubblico di musei, monumenti, aree e parchi archeologici, archivi e biblioteche»; le definizioni adottate sono le seguenti:
- area archeologica: sito su cui insistono i resti di un
insieme edilizio originariamente concluso per funzione
e destinazione d’uso complessiva;
- parco archeologico: ambito territoriale caratterizzato da
importanti evidenze archeologiche e dalla compresenza
di valori storici, paesaggistici o ambientali, attrezzato
come museo all’aperto in modo da facilitarne la lettura
attraverso itinerari ragionati e sussidi didattici.
3
Circolare n. 12059 del 15.11.1990
4
DL 42/2004 Codice dei beni culturali e del paesaggio,
Articolo 101 «Istituti e luoghi della cultura».
5
DL 42/2004 Codice dei beni culturali e del paesaggio,
Articolo 10, comma 4: «Sono comprese tra le cose indicate al comma 1 e al comma 3, lettera a): a) le cose
che interessano la paleontologia, la preistoria e le primitive civiltà».
6 Tracciato cartografico appositamente sviluppato per
la catalogazione delle rocce incise della Valle
Camonica.
7
SIGeC (Sistema Informativo Generale Catalogo), IDRA
(Information Database of Regional Archaeological
Regional Archaeological-Artistic-Architectural heritage) - Atlante dei beni culturali della Lombardia, GIS
dei parchi e dei siti archeologici della Valle Camonica,
130
per quanto riguarda i sistemi informativi del Ministero;
SIBA (Sistema Informativo Beni Ambientali), SIAP
(Sistema Informativo Aree Protette), Lombardia Beni
Culturali, SIRBeC-NaDIR (Sistema Informativo
Regionale Beni Culturali/Navigatore geografico tra Dati
e Informazioni sulle Risorse culturali), Lombardia
Luoghi della Cultura per quanto riguarda i sistemi informativi della Regione.
8
Legge Regionale 11 marzo 2005, n. 12 Legge per il
governo del territorio.
9
Per quanto riguarda lo specifico di questo progetto:
www.lombardia.beniculturali.it
www.archeologica.lombardia.beniculturali.it.
10
Sito della Regione www.regione.lombardia.it, della
Direzione Culture Identità e Autonomie www.lombardiacultura.it, della Direzione Qualità dell’ambiente
www.ambiente.regione.lombardia.it.
11 Si sono adottate le definizioni delle figure professionali presenti nel DM 10 maggio 2001 Atto di indirizzo
sui criteri tecnico-scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei e recepite nell’ambito della
Delibera regionale sul riconoscimento dei musei, D.g.r.
20 dicembre 2002 n. 7/11643 Criteri e linee guida per
il riconoscimento dei musei e delle raccolte museali in
Lombardia, nonché linee guida sui profili professionali
degli operatori dei musei e delle raccolte museali in
Lombardia, ai sensi della l.r. 5 gennaio 2000, n. 1,
commi 130-131.
12
Nello specifico completando i dati del sistema informativo regionale sui beni ambientali, e integrando
quelli relativi alle aree protette.
13
Risalendo nella Valle, il Parco Comunale di Luine,
Darfo Boario Terme; la Riserva Regionale delle
Incisioni Rupestri di Ceto, Cimbergo e Paspardo; il
Parco Nazionale delle Incisioni Rupestri, Capo di
Ponte; il Parco Archeologico Nazionale dei Massi di
Cemmo, Capo di Ponte; il Parco Archeologico
Comunale di Seradina-Bedolina, Capo di Ponte; il
Parco Comunale di Sellero; il Parco pluritematico del
“Còren de le Fate”, Sonico. A questi nel 2005 si è
aggiunto il Parco archeologico di Ossimo-Anvòia,
dedicato ad un sito di culto con monoliti istoriati calcolitici.
14
Il Piano è in corso di stampa: R. POGGIANI KELLER, C.
LIBORIO, M.G. RUGGIERO, Il sito UNESCO n. 94 “Arte
Rupestre della Valle Camonica”. Piano di Gestione,
Breno 2005, c.s. Il Gruppo di lavoro per l’elaborazione
del Piano, oltre agli Enti sopra indicati, era formato
da una segreteria tecnico-scientifica e da un secondo
“Gruppo di Lavoro Tecnico-scientifico” aperto alle
Istituzioni culturali e scientifiche che si occupano in
Valle dello specifico tema dell’arte rupestre e alle
quali fosse riconosciuto un ruolo autorevole nello studio delle incisioni e, anche, alle istituzioni che si
occupano localmente di coordinamento e gestione di
aree a tutela paesaggistico-ambientale di interesse
sovracomunale (Parco dell’Adamello).
IL MUSEO
DI ARCHEOLOGIA LIGURE DI GENOVA:
ESPERIENZE DI RICERCA SCIENTIFICA FRA COLLEZIONI E TERRITORIO
Guido Rossi
ABSTRACT
Le collezioni archeologiche della città di
Genova sono per la prima volta esposte in una
sede autonoma nel 1929 alla Villetta Di Negro
e ben presto spostate nella Villa Pallavicini a
Genova Pegli dove, dal 1936, ad opera di Luigi
Cardini, e di Cardini e Luigi Bernabò Brea poi,
con il riordinamento e la riapertura nel dopoguerra (1954), costituiscono il Museo di
Archeologia Ligure. È stata proprio l’opera di
questi due studiosi e l’azione dell’Istituto
Italiano di Paleontologia Umana, assieme alla
forte volontà della civica amministrazione, a
dar vita a quell’importantissima stagione di
ricerche nei principali siti paletnologici della
Liguria che culminò con gli scavi e le conseguenti straordinarie scoperte nella grotta delle
Arene Candide a Finale Ligure (SV), dove fu
possibile riconoscere una delle prime e più
importanti
sequenze
neolitiche
del
Mediterraneo e mettere in luce la serie delle
sepolture paleolitiche ed epipaleolitiche.
Questa stagione di studi ha in effetti profondamente segnato anche le successive esperienze
del Museo, non solo dal punto di vista espositivo, ma anche da quello della gestione scien-
tifica del Museo, poiché molti dei progetti di
ricerca ed analisi effettuati da studiosi di tutto
il mondo vedono ancora protagonista lo straordinario patrimonio messo in luce da Cardini e
Bernabò Brea.
Aldilà dell’organizzazione del lavoro sull’intero
patrimonio archeologico conservato nel
Museo, di cui interessa comunque evidenziare
le operazioni di schedatura, monitoraggio conservativo, interventi di restauro, progettazione
e/o partecipazione a programmi di ricerca che
coinvolgono i nostri materiali, un altro aspetto
attinente la gestione scientifica è quello della
ricerca sul campo.
Si è scelto, in questa sede, di segnalare l’esperienza del Progetto Santu Antine-Meilogu che
dal 1994 al 2001 ha operato al fine di analizzare le caratteristiche della presenza umana su
un’area che comprende uno dei nuraghi più
noti della Sardegna e il suo territorio, durante
l’Età del Bronzo, associando ricercatori della
Soprintendenza Archeologica delle province di
Sassari e Nuoro, del Museo di Archeologia
Ligure e di varie Università italiane e straniere.
Alcuni risultati sono già stati oggetto di pubblicazione.
I
PRIMI INDIRIZZI DELLA RICERCA,
DA ARTURO ISSEL A LUIGI BERNABÒ
BREA
Come per molti musei archeologici italiani,
anche per il Museo Civico di Archeologia
Ligure di Genova1 la prima fase di formazione
delle collezioni è in stretta relazione con le
vicende collezionistico-antiquarie della città ed
è quindi legata a rinvenimenti fortuiti avvenuti
nel passato, come ad esempio per la Tavola di
Polcevera2, a depositi da altre Istituzioni3, a
lasciti importanti quali quello del Principe
Odone di Savoia4, ad acquisti sul mercato antiquario come nel caso delle collezioni del noto
scultore Santo Varni5 .
Il lungo processo di acquisizione conosce una
tappa fondamentale nella Mostra d’Arte Antica
organizzata in Genova, a Palazzo Bianco, per
l’occasione delle celebrazioni colombiane del
1892 e che, fungendo da catalizzatore per
molti dei materiali archeologici raccolti fino ad
allora in città, costituì anche il nucleo di un
“museo cittadino” che vide la luce fra il 1906 e
il 1908, dedicando appunto alcune sale espressamente alle collezioni archeologiche.
È in questa fase che al Museo confluiscono i
corredi delle tombe della necropoli preromana
131
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
di Genova che, fra il 1898 ed il 1910, viene alla
luce negli scavi per la costruzione della nuova
arteria di via XX Settembre (Pastorino, 1991, p.
20). A partire da questi anni, la figura di Arturo
Issel (Rossi, in corso di stampa), ponendo l’attenzione con i suoi studi (Issel, 1908) sull’importanza della Liguria nell’ambito della preistoria, si attiva per raccogliere e far acquisire alla
fruizione pubblica le importanti collezioni preistoriche che, nel corso della seconda metà
dell’800 soprattutto, erano state costituite da un
gruppo attivissimo di ricercatori e collezionisti
operanti prevalentemente nel Ponente della
nostra regione (Isetti-Rossi, in corso di stampa;
Traverso, in corso di stampa; Odetti, in corso
di stampa; Odetti, in corso di stampa a; BoaroDe Pascale-Venturino Gambari, in corso di
stampa).
La sua azione si colloca nel più ampio fenomeno di consolidamento della paletnologia italiana come disciplina a sé stante (Guidi, 1988,
p. 28), in rapporto alla più blasonata e consolidata archeologia classica, e trova in Liguria un
fertile bacino d’accoglienza sia per la ricchezza
dei siti presenti sia per la consolidata tradizione degli studi scientifici (Doldi, 1990).
Questa importante operazione si rivelerà di
fatto determinante nell’aprire il solco lungo il
quale si incanaleranno gli sviluppi più significativi della ricerca condotta negli anni seguenti
presso il Museo Archeologico, quando esso
diverrà un’istituzione autonoma dal punto di
vista della sede espositiva e delle scelte di indirizzo scientifico.
Peraltro, ben prima del trasferimento nella
sede della Villetta Di Negro (1929) (fig. 1),
132
dove alle raccolte preistoriche già acquisite dal
Comune di Genova6 si aggiunsero quelle del
Museo Geologico dell’Università voluto da
Issel (Issel, 1914), lo stesso Issel forniva, in una
bozza di percorso guidato del Museo di Storia
ed Arte (Bonci-Firpo-Rossi, in corso di
stampa), un’ampia disamina delle grotte e delle
sepolture preistoriche della Liguria, sottolineando l’importanza della Sezione Paletnologica
dello stesso Museo.
In questo clima favorevole, agli inizi degli anni
’30, la municipalità di Genova, nella figura di
Orlando Grosso, Direttore dell’Ufficio di
Antichità, Belle Arti e Storia, chiama l’Istituto
Italiano di Paleontologia Umana a far parte
della Commissione Archeologica Comunale
che si proponeva la tutela e l’incremento del
Civico Museo di Archeologia, ma anche di
dare un indirizzo alle ricerche e agli scavi cui
il Comune di Genova contribuiva finanziariamente (Garibaldi-Rossi, 2004, p. 187 ss.).
L’Istituto Italiano di Paleontologia Umana è
espressione di quella “scuola fiorentina” di
preistoria certamente all’avanguardia nel panorama della paletnologia del tempo (Tarantini,
2004, p. 6-16) e che se da un lato era impegnata nel riconoscimento e nello studio del
Paleolitico Superiore italiano, sul piano metodologico fondava le ricerche della preistoria
più antica su indispensabili basi naturalistiche
atte a ricostruire il paleoambiente in cui l’uomo
era vissuto (Tarantini, 2004, pp. 7-8).
Direttore scientifico della Sezione di Genova
dell’IIPU fu Luigi Cardini e membro il giovane
Soprintendente
della
neonata
Regia
Soprintendenza alle Antichità della Liguria
Fig. 1 - Il Museo alla Villetta Di Negro
Il Museo di Archeologia Ligure di Genova: esperienze di ricerca scientifica fra collezioni e territorio
Fig. 2 - L’esterno della caverna delle Arene Candide (SV)
durante gli scavi di Cardini e Bernabò Brea.
Fig. 3 - La sepoltura paleolitica del cosiddetto “Principe” delle
Arene Candide.
(1939) Luigi Bernabò Brea, cioè gli studiosi
che, con le loro ricerche, in particolare nella
caverna delle Arene Candide di Finale (SV)
(Bernabò Brea, 1946; Bernabò Brea 1956;
Cardini, 1942) (fig. 2), determinarono la natura
dell’ordinamento espositivo del nuovo Museo
di Archeologia Ligure,7 ma anche il taglio principale della ricerca operata negli anni ’40 e ’50.
In modo estremamente marcato, infatti, il
Museo esprimeva (ed esprime in buona parte
ancora oggi) i risultati delle ricerche condotte
in Liguria, con una rilevanza significativa attribuita alla preistoria in generale ed agli scavi
nelle caverne del Ponente ligure in particolare.
La modernità delle ricerche condotte da
Cardini e Bernabò Brea, la quantità e la straordinaria importanza dei dati messi in luce, l’ampio rilievo nazionale e internazionale assunto
dalle loro scoperte hanno fatto sì che, fino ad
oggi, continuino ad alimentare un’inesauribile
serie di studi condotti da allora sui vari record
messi in luce, in particolare nella caverna delle
Arene Candide8 (fig. 3).
L’organizzazione del lavoro scientifico del
Museo si è in seguito concentrata quindi, per
molto tempo, su attività e su programmi di
ricerca spesso in stretta connessione con le
rilevanti testimonianze preistoriche e protostoriche che attraverso eventi, politiche museali e
personalità di studiosi hanno arricchito l’istituzione.
Parallelamente si è andata consolidando quella
serie di attività caratteristiche di una moderna
gestione scientifica, incentrate su una capillare
opera di schedatura del materiale e sul suo
conseguente aggiornamento scientifico, su un
continuo monitoraggio dello stato conservativo
dei reperti e sui conseguenti interventi di
restauro, sull’organizzazione o la partecipazione a progetti di studio riguardanti direttamente o indirettamente il patrimonio archeologico conservato9.
ALCUNI
ASPETTI DELLA RICERCA OGGI
Se dunque è tradizione consolidata che un’istituzione museale che opera nel campo dell’archeologia abbia fra le sue attività quella di
ricerca anche sul campo, la sintesi fornita
riguardante il passato del Museo di
Archeologia Ligure in questo ambito non fa
che confermarlo.
A partire dalla fine degli anni ’8010, la gestione
scientifica si è nuovamente espletata nell’organizzazione di autonomi filoni di ricerca, alcuni
dei quali, come ad esempio quello sul collezionismo ligure o sull’utilizzo delle “pietre verdi”
nell’ambito del Neolitico, hanno certamente
avuto origine dalla natura delle collezioni conservate in Museo.
A titolo d’esempio si ricorda proprio quest’ultimo ambito che ha dato vita ad interessanti
sviluppi di lavoro che sono ad oggi in corso.
L’importanza della “pietra verde” alpina
(soprattutto giadeititi, eclogiti ed onfacititi) per
la confezione di asce, accette ed altri strumenti
nel Neolitico, di cui in Liguria esiste una delle
pochissime fonti di approvvigionamento
nell’Europa Occidentale, appare ben evidenziata nella bibliografia archeologica nazionale
ed internazionale della seconda metà
dell’Ottocento e dei primi del Novecento ed in
Liguria con autori come Issel (Issel, 1908),
133
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
Morelli (Morelli, 1901) e Bartolomeo Gastaldi
(Gastaldi, 1869). Gli ulteriori sviluppi degli
studi in tempi più recenti (ad es. Ricq De
Bouard-Fedele, 1993; Venturino Gambari,
1996) hanno ribadito la significatività del fenomeno all’interno delle problematiche della
preistoria, rimarcandone anche le prospettive
su scala continentale (Pétrequin et alii, 2005)
(fig 4).
Una prima fase della ricerca, condotta attraverso esperienze di lavoro comuni fra archeologi, petrografi e geomorfologi, ha messo a
fuoco l’importanza dell’ingente record archeologico presente in Museo (ed in Liguria in
generale) (Gaggero et alii, 1993), ed ha impostato le prime ipotesi relative alla localizzazione dei reperti, alla provenienza della materia prima e alla sua circolazione in ambito
regionale ed extraregionale (Firpo et alii, 1996;
Garibaldi-Isetti-Rossi, 1998).
Attualmente il gruppo di lavoro facente capo al
Museo è impegnato in un progetto di ricerca
internazionale (JADE-Inégalités sociales et
espace européen au Néolithique: la circulation
des grandes haches en jades alpins, coordinato
da Pierre Pétrequin) che permetterà di tentare
risposte più articolate per un fenomeno comprensibile appieno soltanto in una prospettiva
di scala europea e, se possibile, di avviare
indagini archeologiche sul territorio.
Particolarmente in relazione con l’ambito geografico e tematico di questo incontro ci sembra
una delle esperienze maturate in questi ultimi
anni nell’ambito dell’attività di ricerca sul
campo del Museo di Archeologia di Genova.
La collaborazione con la Soprintendenza
134
Archeologica delle province di Sassari e Nuoro
ha portato nel 1994 alla nascita del Progetto
Santu Antine-Meilogu, finalizzato allo studio
della presenza umana su un territorio che comprende l’area occupata dal nuraghe S.Antine
(Torralba, SS) durante l’età del Bronzo, indagato negli aspetti della ricostruzione ambientale in relazione all’impatto antropico (Bafico
et alii, 1996) (fig. 5).
Come noto, il nuraghe Santu Antine, un sito
pluristratificato frequentato dalla Media Età del
Bronzo fino all’età Tardo Antica, è uno dei
nuraghi più interessanti per lo stato di conservazione e la complessità dell’architettura e
costituisce uno dei monumenti più visitati dell’isola (Moravetti, 1988); si trova nel territorio
del Meilogu, una piana fertile, storicamente di
grande importanza per lo sfruttamento agricolo
e come crocevia di due delle principali direttrici che attraversavano l’isola, già percorse in
età protostorica e sistematizzate dalla viabilità
romana.
Nel corso degli anni il progetto si è articolato
affrontando problematiche relative al sito, al
villaggio di età nuragica, al suo immediato territorio, alla geomorfologia e all’occupazione in
età antica di un areale più ampio coincidente
con la cosiddetta “valle dei nuraghi” nel
Logudoru-Meilogu. Di pari passo con l’aumento della complessità delle indagini, la partecipazione al Progetto è stata necessariamente
ampliata ad altri soggetti appartenenti a varie
istituzioni, soprattutto Università italiane e straniere.
Uno degli aspetti più interessanti per quanto
riguarda le indagini sul sito è stato lo studio di
Fig. 4 - Asce neolitiche in pietra verde dalle collezioni del
Museo di Archeologia Ligure.
Fig. 5 - Il nuraghe Santu Antine di Torralba (SS).
Il Museo di Archeologia Ligure di Genova: esperienze di ricerca scientifica fra collezioni e territorio
Fig. 6 - L’edificio tardo romano interpretato come magazzino
nei pressi del nuraghe Santu Antine.
Fig. 7 - Uno degli “alti morfologici” (Planu Altu)
che circondano la piana del nuraghe Santu Antine.
tipo architettonico del nuraghe condotto da
Salvatore Lanza (Università di Genova, Istituto
di Tecnologia dell’Architettura e dell’Ambiente)
che ha permesso di formulare importanti ipotesi circa le modalità e le fasi costruttive dell’intero complesso ed anche di studiare un programma di lavoro finalizzato agli interventi
conservativi e a quelli connessi alla valorizzazione (Lanza, 2003); a cura dell’Università di
Venezia (Istituto Universitario dell’Architettura
di Venezia) è stato inoltre realizzato il rilievo
topografico, fotogrammetrico e diretto del
nuraghe (Guerra-Balletti, 2003).
Una serie di campagne di scavo, condotte con
finanziamenti della Regione Sardegna, sono
state effettuate in relazione a problematiche
riguardanti l’interpretazione del monumento
principale e del villaggio nuragico circostante,
per i quali uno studio dei reperti degli scavi
degli anni ’60, rimasti a lungo inediti, aveva
proposto ipotesi di tipo cronologico da verificare sul campo (Bafico-Rossi, 1987; BaficoRossi, 1992).
Le campagne 1994-1995 sono state finalizzate
quindi alla comprensione della sequenza abitativa del sito e delle sue caratteristiche di sviluppo dall’Età del Bronzo fino al periodo
Tardo Antico, in particolare all’indagine del
grande edificio di età tardo romana, interpretabile come magazzino (fig. 6), e alla conoscenza
della stratigrafia già messa in luce in precedenti
sondaggi e trincee, con particolare riferimento
al substrato geologico su cui insiste il nuraghe
(DIPTERIS Università di Genova, Ufficio
Geologico del Comune di Genova).
Parallelamente veniva effettuata la survey del
territorio immediatamente circostante che confermava una notevolissima frequentazione
preistorica e protostorica, concentrata in particolare sugli “alti morfologici” (fig. 7) attorno a
Santu Antine (Neolitico Antico-Eneolitico).
La necessità di una migliore e più articolata
comprensione delle dinamiche geomorfologiche della zona spingeva inoltre il Dipartimento
per lo studio del Territorio e delle sue Risorse
(DIPTERIS) dell’Università di Genova (Marco
Firpo e Agostino Ramella) ad estendere l’analisi all’intera area della valle dei nuraghi, circa
100 kmq. fra i comuni di Torralba, Giave e
Bonorva.
Negli anni 1996-1997 venivano condotti due
sondaggi, uno all’interno di un ambiente laterale del primo piano della torre centrale e l’altro ad indagare i livelli archeologici pertinenti
la costruzione (e successive fasi di vita) dei
bastioni del nuraghe; quest’ultimo sondaggio
ha permesso di confermare stratigraficamente
una cronologia per la costruzione del nuraghe
Santu Antine alle fasi finali del Bronzo Medioinizi Bronzo Recente (Bafico et alii, 1996 a;
Bafico et alii, 2003); inoltre veniva effettuata
un’indagine magnetica preliminare del sottosuolo, condotta con Geoscan FM 36 dal topografo Alan Mc Pherron dell’Università di
Pittsburgh (USA) nel tentativo di individuare la
presenza di strutture sepolte.
Ultimo terreno d’azione del Progetto è stato, ad
oggi, un intervento di prospezione che, nell’autunno 2001, ha permesso di evidenziare
alcuni aspetti delle dinamiche insediative nell’ampia area della Valle dei nuraghi (fig. 8) per
l’ambito cronologico dell’Età del Bronzo. In
135
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
base alla distribuzione dei nuraghi in relazione
ad alcune caratteristiche geomorfologiche del
territorio, al carattere dei terreni, alla presenza
di materia prima e ad altre variabili di tipo economico-ambientale, è stato possibile evidenziare un primo quadro dell’occupazione
umana in un territorio caratterizzato da forte
variabilità ambientale e conseguente disponibilità di nicchie ecologiche e di risorse variate
(Bafico et alii, 2002).
Assieme alla coesistenza accertata nella valle di
quasi tutti i monumenti considerati durante il
Bronzo Recente, uno dei dati più significativi
sembra essere quello del posizionamento di
tutti i nuraghi complessi nelle aree di pianura
fra i 300 ed i 400 m circa di altitudine e della
loro disposizione ai margini delle odierne aree
pianeggianti, interessate dalle bonifiche nove-
136
centesche (Bafico et alii, 2003), un comportamento che sottolinea fortemente l’importanza
economica dell’agricoltura nelle comunità
nuragiche della valle.
Un ragionamento a parte è quello che interessa
il nuraghe Santu Antine per il quale i condizionamenti tecnici legati al reperimento della
materia prima e ai caratteri dei terreni di fondazione non sono stati determinanti nella
scelta del luogo sul quale fu costruito che
rispondeva invece ad altre esigenze, forse di
ordine culturale, ad oggi non ancora comprese.
Al momento sono allo studio elaborazioni cartografiche digitalizzate in 3D e una fotointerpretazione dell’area, mentre saranno comunque necessari altri interventi sul terreno.
Fig. 8 - Una vista parziale della valle dei nuraghi
con al centro il cono del vulcano spento Cujaru.
Il Museo di Archeologia Ligure di Genova: esperienze di ricerca scientifica fra collezioni e territorio
NOTE
L’attuale denominazione è stata adottata a partire
dalla collocazione del Museo in Villa Pallavicini dal
1936.
1
L’iscrizione riporta la sentenza d’arbitrato emessa da
Roma in relazione ad una controversia territoriale fra le
tribù liguri dei Genuati e dei Langenses. Datata al 117
a.C., è la più antica iscrizione romana in Liguria e dal
momento del suo rinvenimento, nel 1506, ha sempre
costituito uno dei documenti più importanti della
romanità in Liguria, assumendo spesso significati
anche politici per giustificare la supremazia regionale
di Genova o, in tempi più recenti, proprio in relazione
all’azione “civilizzatrice” di Roma. Da sempre comunque conservata in importanti edifici pubblici della città
(il Palazzo dei Padri del Comune, Palazzo Ducale,
Palazzo Tursi sede del Municipio) solo recentissimamente (1994) ha trovato collocazione nel Museo genovese dopo che un convegno (Pastorino, 1995) ed
un’esposizione ne hanno sottolineato l’importanza
anche come documento storico della cultura ligure
della tarda età del Ferro.
2
Ricordiamo fra i primi quello effettuato
dall’Università di Genova in occasione della Mostra
d’Arte Antica del 1892 con il deposito, fra gli altri,
della statua-stele di Zignago e di collezioni dalla città
romana di Libarna.
3
Il lascito di Vittorio Emanuele II di Savoia delle collezioni del Principe Odone (1846-1866), suo figlio, è
4
all’origine delle raccolte di molti musei cittadini.
Particolarmente significativa era la sua collezione di
antichità greche e romane, di cui uno studio recente
(Pastorino, 1996) ha precisato le modalità e le logiche
di formazione, la provenienza dei pezzi e le vicende
fino alla donazione.
Alla sua morte (1887) il Comune di Genova riuscì ad
acquistare all’asta due lotti di oggetti fra cui i marmi
antichi oggi esposti in Museo.
5
L’azione di Issel aveva permesso l’acquisto da parte
del Comune di Genova, con modalità diverse, delle collezioni preistoriche di Pietro Deogratias Perrando
(1886), di Giambattista Rossi (1909), di Nicolò Morelli
(1914).
6
L’ordinamento del 1936 è dovuto principalmente a
Luigi Cardini; dopo il trasferimento delle collezioni in
luogo più sicuro durante la Seconda Guerra Mondiale, il
nuovo allestimento del 1954 fu progettato da Luigi
Bernabò Brea e condiviso da Luigi Cardini (GaribaldiRossi, 2004 p. 190)
7
8 Un bellissimo esempio di come lo spirito metodologico che informava i ricercatori maggiormente all’avanguardia in quegli anni abbia richiesto un completamento del lavoro possibile solo negli anni successivi, ci
viene proprio dalle parole di Luigi Bernabò Brea nella
prefazione al volume curato da R. Maggi sui livelli olocenici della grotta delle Arene Candide: “Per studi specialistici sulle varie classi di reperti e soprattutto per
quelli di carattere naturalistico, da noi raccolti con la
stessa cura con cui si raccoglievano gli elementi archeologici, non era stato allora possibile trovare studiosi che
potessero occuparsene” (Maggi, 1997 p. 9). Per il livelli
paleolitici si veda Bietti, 1994.
9 Oltre alla pubblicazione ancora in corso dei cataloghi
scientifici del Museo (ad es. Bettini-GiannattasioPastorino-Quartino, 1998), sono da ricordare, fra gli
altri, gli studi preparatori e le relative esposizioni temporanee allestite in Museo o in Palazzo Ducale a
Genova che hanno permesso un moderno inquadramento scientifico di notevoli testimonianze dell’archeologia ligure o della storia del collezionismo ligure.
Ricordiamo, fra le altre, la mostra sulla figura di collezionista del Principe Odone (Giubilei-Papone, 1996)
che ha permesso, come già detto, la revisione delle collezioni archeologiche, la mostra “Le meraviglie dei
primi liguri” (1996) con il recupero della collezione di
frottages e disegni dei graffiti del Monte Bego di
Clarence Bicknell; la mostra sui “Vetri antichi nelle collezioni del Museo di Archeologia ligure di GenovaPegli” (1992) (Pastorino, 1992); l’operazione di complesso restauro del sarcofago e della mummia del sacerdote egizio Pasherienaset, conclusasi con l’esposizione
di Palazzo Ducale “Io vivrò per sempre. Storia di un
sacerdote nell’antico Egitto” (Leospo, 1999).
Quando l’organico del Museo ha potuto prevedere in
pianta stabile la presenza di archeologi.
10
137
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
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139
“IL
TERRITORIO DI MUROS E L’ALTO TAMMARO:
DUE MODI DI VALORIZZAZIONE AMBIENTALE A CONFRONTO”
Angela Maria Zeoli
PREMESSA
Fig. 1 - Gregge all’alpeggio.
Chi opera nei territori comunemente definiti
“marginali”, perlopiù situati nelle aree interne
collinari e montane, ha il compito, non facile,
di cercare una sintesi intelligente tra conservazione e sviluppo, tra ambiente ed economia, tra
promozione del territorio a scopi turistici e
gestione dell’accoglienza, in sostanza; tra utopia e realtà, per utilizzare al meglio le risorse spesso considerate scontate, a volte poco conosciute persino ai residenti e generalmente mal
conservate - di cui dispone.
È quanto si sforza di fare, fin dalla sua costituzione, la Comunità Montana dell’Alto Tammaro
che ha la fortuna di poter vantare, sul proprio
territorio, un tracciato storico-naturalistico millenario qual è quello del regio tratturo
Pescasseroli-Candela.
INQUADRAMENTO TERRITORIALE DELLA
COMUNITÀ MONTANA ALTO TAMMARO
La Comunità Montana dell’Alto Tammaro, che
prende la denominazione dal suo fiume più
grande, il Tammaro, si estende su 36.000 ettari
di territorio interno della regione Campania, nel
cuore dell’antico Sannio, al confine con il
Molise. I suoi 23.000 abitanti sono distribuiti in
11 comuni che condividono un’origine antichissima (anno 1000 d.C.), caratteristici centri storici
in pietra calcarea locale, bellissime tradizioni,
paesaggi gradevoli e un legame profondo con
il regio tratturo.
I TRATTURI DELLA TRANSUMANZA
“Settembre andiamo, è tempo di migrare…”
scriveva D’Annunzio e in genere ai pastori e
alla transumanza si associa poco più del ricordo
scolastico di una poesia, ma delle antiche vie
armentizie, le piste erbose che come fiumi
d’erba collegavano i territori montani
dell’Abruzzo e del Molise con il Tavoliere delle
Puglie, parla già Marco Terenzio Varrone che,
nel 118 a.C., scrive: “…quelle greggi, che si
fanno pascolare nelle terre salde, e che son lontane dalle case, portan seco graticci, reti per
costruire delle chiuse in luoghi solitari ed ogni
altro utensìle; perché si vuole condurle a pascolare in luoghi lontani ed anche tra di essi
distanti ed avviene non di rado che i pascoli
dell’inverno sieno lontani molte miglia da quelli
141
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
dell’estate”. Ed aggiunge: “Ciò io so bene, perché
le mie greggi passavano l’inverno nella Puglia e
l’estate sui monti di Rieti; giacché tra questi due
luoghi vi sono dei pubblici sentieri (calles pubblicae), che congiungono le pasture distanti,
come l’arconcello riunisce le ceste da soma”.
I tratturi, però, hanno un’origine ancora più
remota e vanno ricollegati ai tracciati delle antichissime piste di epoca protostorica, al servizio
delle popolazioni che abitarono il territorio
prima della conquista romana, poi battuti dalle
greggi transumanti.
Le “calles publicae” vennero, dai Romani, protette e regolate con leggi, così, lungo il loro
percorso, venivano tutelate mandrie e mandriani, greggi e pastori.
Il privilegio degli allevatori al libero passaggio
ed al pascolo gratuito per le “calles publicae”
venne chiamato, nei codici degli imperatori
Teodosio e Giustiniano, “tractoria” e le piste ad
essi aperte “tratturi”.
I Romani capirono l’enorme ricchezza che
poteva derivare dalla pastorizia - il termine
“pecunia”, infatti, deriva da “pecus” (pecora) -e
proteggendo i pascoli proteggevano i tratturi.
Al tempo dei Romani le greggi venivano condotte verso i monti all’inizio del periodo estivo,
mentre in autunno si riconducevano in pianura,
dove trascorrevano l’inverno, ma la pratica dell’alpeggio costituisce una consuetudine ben più
antica. I tratturi hanno rappresentato, infatti, un
grande sistema viario esteso in tutta Europa. In
Spagna le piste maggiori, di 75 metri di larghezza venivano chiamate “vias pecurias”,
mentre le minori, di 37,5 metri di larghezza,
erano definite “cordeles”. In Francia i tracciati
142
erano definiti “carraires”.
La storia dei tratturi dell’Italia centrale e meridionale non può prescindere dalla storia del
Tavoliere delle Puglie che comprendeva circa
400.000 ettari di pascolo.
Tale area, fin dal tempo dei Romani, veniva
concessa al pascolo per la pastorizia errante
dietro pagamento di un tributo (publicum vectigal) che variava secondo il numero e la taglia
degli animali; non risulta, però, che tale uso
fosse disciplinato da speciali ordinamenti.
Ordinamenti veri e propri vennero stabiliti, nel
Medioevo, per opera del re Alfonso I d’Aragona
che, nel 1447, istituì la “Dogana per la mena
della pecore in Puglia” che, con sede prima a
Lucera poi a Foggia, funzionò fino al 1806.
Sotto gli Aragonesi la transumanza assunse
modelli e forme industriali, interessando milioni
di capi di bestiame, e i tratturi divennero larghi
come autostrade, fino a 60 passi napoletani,
corrispondenti a 111,11 metri (un passo napoletano = 1,852 m).
Risale all’epoca aragonese (1574, ad opera del
vicerè Granvela) anche la prima apposizione di
termini lapidei, delimitanti il confine tra il tratturo e i proprietari terrieri frontisti, per arginare
le continue usurpazioni da parte dei frontisti
che si giustificavano affermando che i confini
non erano ben visibili. Gli stessi frontisti, a quel
punto, per ostacolare lo sconfinamento delle
greggi nei campi coltivati, iniziarono, lungo i
confini, a costruire muretti a secco e ad
impiantare siepi.
Dopo aver raggiunto l’apogeo nel periodo aragonese la transumanza va in declino e con essa
i tratturi che sono stati, però, per più di 2.000
anni, non solo pascoli per le greggi in transito,
ma strade di grande comunicazione (le autostrade del passato con un verde manto d’erba
al posto dell’asfalto e i tratturelli come svincolo
per ogni centro urbano), dotati di servizi e
attrezzature per uomini e animali, usati per
scopi militari, come itinerari religiosi e per gli
scambi commerciali.
La transumanza, d’altra parte, è stata, per secoli,
un fenomeno non solo economico e pastorale
- con punte di 6 milioni di capi in transito su
3.000 chilometri di tracciati distinti in 83 diversi
percorsi - ma anche politico, sociale e culturale,
che ha influenzato, lungo il tracciato dei tratturi,
la gastronomia, il linguaggio, la religiosità, l’abbigliamento e ha dato origine, addirittura, ad
una particolare razza ovina, la Pagliarola, frutto
dell’incrocio tra la razza Gentile di Puglia e la
pecora Appenninica.
Dismessi ormai da tempo come vie di comunicazione, in parte soppressi con legge del 1908
che, degli 83 esistenti, ne ha conservati solo
quattro ritenuti di importanza nazionale, i tratturi hanno riconquistato l’attenzione che meritano entrando a far parte del progetto APE
(Appennino Parco d’Europa) che prevede la
riscoperta e valorizzazione dei sentieri storiconaturalistici che attraversano, senza soluzione
di continuità, tutta l’Europa.
IL REGIO TRATTURO PESCASSEROLICANDELA
Il tratturo in questione, uno dei quattro considerati di importanza nazionale e preservati
dalla legge del 1908, prende il nome dai 2 capisaldi: Pescasseroli, in Abruzzo e Candela, in
“Il territorio di Muros e l’Alto Tammaro: due modi di valorizzazione ambientale a confronto”
Fig. 2 - Termine feudale.
Puglia; con una lunghezza complessiva di 211
chilometri è delimitato da termini lapidei
numerati progressivamente a partire da
Pescasseroli, con i numeri pari sul lato destro e
i dispari sul lato sinistro e ha una larghezza di
30 passi napoletani cioè 55,55 metri lineari.
Poiché i Romani utilizzavano il tratturo come
via militare e i consoli davano il loro nome ai
tracciati, il tratturo Pescasseroli-Candela, che
collegava i porti pugliesi con Roma, passando
per Isernia, prendeva il nome di “via consolare
Minucia”, dal console romano Minucio (305
a.C.); è forse per questo specifico utilizzo che
il suo tracciato alterna vallate e altopiani; da
questi ultimi si dominano le zone circostanti,
condizione ideale per le sentinelle che avrebbero così scoperto per tempo eventuali attacchi
nemici. Nel 181 a.C. il tratturo PescasseroliCandela fu utilizzato per la deportazione di un
intero popolo, quello dei Liguri Apuani che,
sconfitti dai romani, furono trasferiti nel Sannio
in numero di 49.000. Essi compresero subito
l’importanza di quella grande via di comunicazione e lungo il suo tracciato fondarono la propria capitale che chiamarono Bebio. Ancora
oggi si possono ammirare i resti delle mura dell’antica capitale e la Tabula Alimentaria, una
grande piastra metallica che, datata all’anno 101
d.C., elenca i fondi e i proprietari ai quali era
stata concessa, per volontà dell’imperatore
Traiano, una somma di danaro in prestito,
all’interesse del 2,50%. Il ricavato degli interessi
andava a favore dei fanciulli poveri, assicurandone gli alimenti.
IL PROGETTO DI VALORIZZAZIONE
Il trasporto delle greggi a mezzo ferrovia e il
trasferimento, nel 1977 con DPR n. 616, della
competenza sui tratturi alle regioni hanno
determinato un progressivo disinteresse delle
istituzioni per il tratturo. Di conseguenza,
quello che era un territorio meticolosamente
tutelato è stato abbandonato a se stesso, con le
siepi di confine, in alcuni tratti, estirpate, i
muretti a secco crollati e i confini, a tratti, abusivamente superati.
Per tentare di arginarne il degrado, dal 1988 la
Comunità Montana dell’Alto Tammaro, sul cui
territorio ricadono 25 chilometri del tracciato
tratturale, ha intrapreso iniziative per la riscoperta, la tutela e la valorizzazione del regio tratturo Pescasseroli-Candela.
Appunto nel 1988 è stata pubblicata, in collaborazione con il CAI (Club Alpino Italiano) e con
le comunità montane limitrofe, una “Guida al
trekking della transumanza” sui 90 chilometri
del tratto campano del tracciato del tratturo.
Questa prima guida ha risvegliato l’interesse
per l’itinerario e ci ha messi di fronte alle prime
difficoltà rappresentate dal fatto che, mentre
per il passato l’intero percorso era perfettamente identificabile, una volta crollati i muretti
ed estirpate le siepi, il tracciato si confondeva
con i pascoli e i turisti non riuscivano ad orientarsi.
È sorta così l’esigenza di ridelimitare il percorso
e dotarlo di segnaletica per promuoverne l’utilizzo come tracciato naturalistico, ippovia e
pista cicloturistica, recuperandone anche la
vocazione storica di itinerario religioso. A differenza dell’Abruzzo, del Molise e delle Puglie,
però, che avevano emanato una propria legge
regionale di tutela, la regione Campania non
143
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
aveva mai dato attuazione alla delega per cui le
comunità montane campane non disponevano
del supporto legislativo per progettare interventi sul tracciato tratturale.
Finalmente, grazie alle continue pressioni delle
comunità interessate, nel 1996 è stata emanata
la legge regionale che disciplina gli interventi
sul demanio pubblico e, in particolare su quello
armentizio, per cui si è potuto iniziare ad operare.
Un primo fondamentale intervento, tuttora in
fase di realizzazione per stralci annuali,
riguarda il ripristino dei muretti a secco, che
vengono ricostruiti sulla fondazione dei vecchi
muri, e il reimpianto delle siepi di confine con
essenze autoctone, allo scopo di rendere il tracciato fisicamente individuabile; questi interventi
vengono attuati con gli operai forestali che
lavorano alle dipendenze della comunita’ montana; la seconda iniziativa, oggetto di “comparazione” con il progetto di valorizzazione del
Comune di Muros, riguarda la ricerca documentaria, le indagini in campo e la posa in opera di
segnaletica e cartellonistica e la promozione del
percorso.
La ricerca documentaria e quella in campo
sono state sicuramente le fasi più affascinanti
della progettazione.
Le prime tappe della nostra ricerca sono state
quelle presso l’Istituto Storico “Galanti”, di cui
la comunità montana è socio fondatore, che ci
ha fornito gli atti dei tre convegni nazionali realizzati sul tema della Civiltà della transumanza e
quella presso l’Archivio di Stato di Foggia, che
conserva copia della documentazione secolare
riguardante i tracciati dei tratturi.
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Qui abbiamo trovato, tra l’altro, una mappa
accuratissima redatta da un agrimensore che,
nel 1837, ha percorso a piedi i 211 chilometri
del tracciato, ha indicato la posizione dei circa
duemila termini lapidei posti ad ogni deviazione, con la distanza, in passi napoletani, di
ciascun termine con il successivo e l’angolazione della deviazione stessa, ha verbalizzato le
occupazioni abusive indicando superficie occupata e nominativi degli occupanti, ha indicato
la lunghezza del percorso ricadente in ciascun
comune attraversato e il tratturello che collegava (e collega tuttora) il regio tratturo con
ogni centro urbano, ha elencato la flora prevalente del pascolo e ha disegnato le emergenze
ambientali più significative.
Questo documento ci ha guidati nella ricerca in
campo che ci ha consentito di ritrovare 158 termini lapidei su 180 complessivi e di tracciare la
mappa della situazione attuale del tratturo comparata con quella originaria.
L’esame accurato del tracciato ci ha riservato
non poche sorprese, come la presenza di termini lapidei posizionati al centro del tratturo,
scolpiti con stemmi diversi nei due lati.
Risalire ai titolari degli stemmi ha comportato
non poche difficoltà in quanto i documenti in
nostro possesso indicavano i termini di confine
laterale, ma non davano spiegazioni su quelli
centrali, per cui non si avevano informazioni né
su cosa rappresentassero, né sul motivo della
loro particolare posizione.
Gli stemmi poi, in parte cancellati dalle intemperie, non si distinguevano a sufficienza per
poter riprodurre l’intero disegno.
Fortuna ha voluto che fosse ancora individua-
Fig. 3 - Mappa storica.
“Il territorio di Muros e l’Alto Tammaro: due modi di valorizzazione ambientale a confronto”
Fig. 4 - Stesso termine della fig. 2 visto dal lato opposto.
bile la somiglianza di uno degli stemmi del tratturo con quello scolpito sull’architrave della
chiesa di San Sebastiano, patrono di Santa
Croce del Sannio (il cui territorio è in gran parte
delimitato dal tratturo), fatta edificare dal
barone Del Balzo nel 1536 d.C. Rintracciato il
primo feudatario e il periodo storico di riferimento, l’Archivio di Stato di Napoli ci ha fornito
le risposte mancanti e cioè che il tratturo era
una strada così importante da essere oggetto di
contesa all’epoca del feudalesimo, per cui
quando il tracciato correva lungo il confine di
due feudi la gestione veniva divisa esattamente
a metà, con l’apposizione di termini lapidei
scolpiti con gli stemmi dei due feudatari interessati… e per evitare tentazioni di sconfinamento, gli stemmi erano scolpiti anche nella
parte interrata, ad oltre un metro di profondità,
in modo da rendere inutile una eventuale decapitazione della pietra.
Quegli stessi stemmi sono poi divenuti, nella
maggior parte dei casi, gli stemmi civici dei
nostri comuni.
Un’altra scoperta interessante ha riguardato la
flora e la microfauna del tracciato.
La prima immagine che colpisce chi percorre il
tracciato della transumanza è quella di un verde
fiume d’erba, ma il pascolo del tratturo, mai
coltivato da millenni, riserva, ad occhi attenti,
molte sorprese e costituisce un piccolo mondo
a sé, con una flora particolare e una microfauna
perfettamente distribuita ed equilibrata. I tratti
di siepe che hanno resistito all’incuria offrono,
con l’alternarsi delle stagioni, un panorama
sempre diverso, ma sempre affascinante, con i
cespugli di rosa canina (Rosa canina), caprifo-
glio (Lonicera caprifolium), e biancospino
(Crataegus monogyna), che regalano, in primavera, splendide e profumatissime fioriture
nelle tonalità dal bianco al rosa pallido e, in
autunno, una distesa di bacche rosse per
nutrire gli uccelli fino ad inverno inoltrato, con
il rovo (Rubus ulmifolius) che, in piena estate,
fornisce le more per gustosissime marmellate,
con l’acero montano (Acer Pseudoplatanus) e
la berretta di prete (Euonymus europaeus) i cui
fiori, durante la transumanza, offrivano ai
pastori un ottimo rimedio contro le pulci, e con
la presenza, qua e là, del maggiociondolo
(Laburnum anagyroides), con i suoi grappoli
di fiori gialli.
Nel pascolo crescono anche splendidi fiori ed
erbe aromatiche: dall’orchidea selvatica
(Ophrys apifera) al ciclamino (Cyclamen hederifolium), dal gladiolo (Gladiolus segetum) al
cipollaccio (Muscari comonus), dal croco (gen.
Crocus), alla menta (mentha piperita) al timo
selvatico (Thymus serpyllum) è tutta una sinfonia di colori e profumi che accompagnano piacevolmente le escursioni.
Nelle zone umide è comune il giunco (Juncus
spp.) che veniva usato dai pastori per intrecciare le “fascère” per il formaggio e la ricotta,
mentre le pendici sono ricche di ginestre
(Spartium junceum) dai profumati fiori giallooro.
Sul tratturo, accuratamente nascosti da cardi e
cespugli, si trovano anche ottimi funghi mangerecci come il prataiolo, (Psalliota campestris), il
prugnolo, (tricholoma spp.) e il cardarello
(Pleurotus eryngii); molto più visibili, ma decisamente meno gustose, sono le vescie
145
Territorio e Patrimonio - Conoscere per valorizzare
(Lycoperdon), che possono raggiungere anche
notevoli dimensioni.
Lungo i confini o al centro del tracciato troviamo, infine, maestosi esemplari di cerro
(quercus cerris) che offrono riparo alla calura
estiva.
Non meno attenzione merita la fauna. Il tratturo
è il paradiso di talpe e arvicole, di coccinelle e
farfalle, di cavallette e mantidi, di libellule e
bombus, di vespe e api, di rane e rospi, di lucertole e ramarri, di ricci e chiocciole, di lucciole
e cetonie ma, soprattutto, è il paradiso dei grilli,
tanto numerosi che il loro canto è l’accompagnamento costante e inarrestabile delle escursioni.
L’ultima appassionante tappa del nostro percorso di riscoperta del tratturo è stata quella
delle interviste agli anziani residenti lungo il
tracciato; veri “custodi della memoria”, i vecchi
pastori e contadini ci hanno riportato nell’atmosfera un po’ magica del nostro recente passato,
all’epoca non lontana (ancora negli anni ’50 e
’60), in cui migliaia di capi di bestiame, ovini e
bovini, attraversavano il tratturo due volte
l’anno - in primavera verso l’Abruzzo e in
autunno verso i pascoli pugliesi - guidati da
pochi pastori accompagnati da muli carichi di
attrezzature e coadiuvati da splendidi cani di
razza abruzzese-maremmana che venivano guidati da fischi variamente modulati.
Al calar della sera, nelle valli ricche di sorgenti
e giuncaie, si costruivano, con il materiale scaricato dai muli, gli stazzi mobili per le greggi; i
giunchi venivano intrecciati per preparare le
fascere e il latte appena munto era utilizzato sul
posto per produrre formaggi e ricotta che veni-
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vano ceduti alle famiglie contadine in cambio
di pane e olio.
Da questa secolare collaborazione ha avuto origine una gastronomia “della transumanza”
sostanzialmente a base di pane raffermo, olio,
erbe aromatiche, formaggi e ricotta. Acquisito il
quadro sufficientemente completo del tratturo e
della sua storia, abbiamo realizzato:
- un volume intitolato “Sulle vie della transumanza”, che vuol essere una guida ad un percorso non solo fisico, ma anche della memoria,
dove vengono riportate non solo la storia del
tracciato, ma anche le leggende e le tradizioni
legate al tratturo;
- un filmato che ha come filo conduttore il tratturo e illustra il legame socio-economico dei
centri urbani dell’Alto Tammaro con questo
straordinario tracciato;
- un CD-rom contenente tutto il materiale realizzato nel progetto;
- 29 pannelli-libro che sono stati posizionati nei
punti significativi del tracciato e consentono, a
chi percorre il tratturo, di “leggere” la sua storia
e le emergenze ambientali e archeologiche che
lo caratterizzano e riportano le informazioni
logistiche relative alla propria posizione e ai
recapiti delle aziende agrituristiche più vicine;
- 11 pannelli-libro posizionati negli 11 centri
urbani per indicare la posizione del tratturo, il
tratturello di collegamento e una breve sintesi
sulle caratteristiche del percorso;
- 50 pannelli-libro di piccole dimensioni, posizionati alla confluenza dei tratturelli e in punti
particolari del percorso, riportanti indicazioni
sulle emergenze architettoniche, storiche e
ambientali raggiungibili dal tratturo;
Fig. 5 - Pannello-libro sul regio tratturo.
“Il territorio di Muros e l’Alto Tammaro: due modi di valorizzazione ambientale a confronto”
- posters, cartine e segnalibro;
- un sito internet.
Sia i pannelli-libro che il rimanente materiale
sono stati realizzati dalla Editrice GGallery di
Genova, con la quale abbiamo iniziato, con
questo progetto, un positivo rapporto di collaborazione, che continua tuttora.
LE ULTERIORI PROGETTAZIONI
L’interesse sempre crescente per il turismo
verde, lo sviluppo del settore agrituristico che
ormai conta, nell’Alto Tammaro, 500 posti letto
e 4.000 posti mensa e, non ultimo, il profondo
legame che amministratori e tecnici hanno
riscoperto con il tratturo, sono stati un ulteriore
incentivo a continuare nell’impegno di salvaguardia e valorizzazione del tracciato.
È stato così realizzato nel 2005, in collaborazione con le Comunità Montane campane e
molisane confinanti, il progetto: “Salvaguardia
e valorizzazione del patrimonio dei tratturi”,
inerente la messa in sicurezza e continuità del
tracciato, con la realizzazione di ponti in legno
(fino a 40 metri di campata) sui fiumi più
grandi, per rendere il percorso fruibile anche
nel periodo invernale, e con la posa in opera di
apposita segnaletica agli incroci con le strade,
per rendere il percorso più sicuro.
È, inoltre, in fase di realizzazione, a cura del
partenariato locale, composto di 93 membri di
cui 10 comuni e le CC.MM. Alto Tammaro e
Fortore, il Progetto Integrato Rurale “Terre dei
tratturi e della transumanza” che prevede, tra
l’altro, il recupero dei tratturelli di collegamento
tra i due grandi tratturi Pescasseroli-Candela e
Castel di Sangro-Lucera, in modo da aggiungere, ai tracciati verticali dei tratturi che possono essere percorsi solo nella direzione nordsud, anche un percorso naturalistico a circuito
di circa 130 chilometri, che collega i due tracciati verticali e tocca i centri urbani di 10
comuni; tale percorso consente di collegare le
zone interne del Tammaro e del Fortore ma
anche di raggiungere la città di Benevento e il
comune di Pietrelcina, paese natale di Padre
Pio, ricreando l’originario itinerario religioso.
È, infine, in fase di idea progetto, il coinvolgimento degli allevatori di ovini per la produzione di carne e formaggio di qualità sul
pascolo del tratturo. Tale produzione dovrebbe
essere realizzata nel rispetto di un disciplinare
di produzione, anche per uniformare la qualita’
del prodotto.
Il mercato di tale produzione sarebbe costituito
dagli stessi turisti che usufruiscono del tracciato
naturalistico e soggiornano nelle aziende agrituristiche. Il pascolamento costante del prato,
assicurerebbe, inoltre, la manutenzione naturale del pascolo stesso che, dove viene ancora
utilizzato con regolarità dalle greggi, si presenta perfettamente bilanciato con presenza
equilibrata di leguminose e graminacee, al contrario delle aree non pascolate dove prevalgono
le infestanti e le graminacee scarsamente appetibili.
Quest’ultimo progetto “chiuderebbe il cerchio”
degli interventi di salvaguardia e valorizzazione
del tracciato del tratturo, assicurando una sorta
di autotutela, senza la necessità di ulteriori iniziative, oltre quelle eventualmente aggiuntive e
migliorative dell’offerta turistica, come la realizzazione di stazioni di sosta per il cambio dei
cavalli e il ristoro dei cavalieri, posizionate a
distanza regolare.
In ogni caso, le progettazioni già eseguite ci
consentono, fin da subito, di offrire un piacevole soggiorno nella terra dei tratturi.
BIBLIOGRAFIA
CC. MM. Alto Tammaro-Fortore-Ufita: Guida al trekking
della transumanza- 1988.
Istituto Storico G.M. Galanti - Atti del convegno: Sulle
vie della transumanza, Guida editore.
Comunità Montana Alto Tammaro: Sulle vie della transumanza. Un affascinante itinerario lungo il tracciato del
regio tratturo Pescasseroli-Candela, 2005;
Regione Campania-Comunità Montana Alto Tammaro:
Nel territorio dell’Alto Tammaro c’è…, Edizione ’96.
CC. MM. Alto Tammaro-Fortore: Itinerari del tratturo,
2005.
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