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"Don Giovanni" secondo Da Ponte e Mozart

Sappiamo dalle Memorie di Lorenzo Da Ponte che ai primi del 1787 egli stava lavorando simultaneamente a tre libretti che dovevano esser consegnati nella primavera seguente ad Antonio Salieri, Vicente Martín y Soler e Wolfgang Amadé Mozart. Per il primo scelse Tarare, da un dramma di Beaumarchais. Al secondo fornì L'arbore di Diana, d'argomento mitologico. Al salisburghese propose invece Il dissoluto punito, o sia Il Don Giovanni, soggetto di lunga e consolidata tradizione, fresco d'una recente ripresa sulle scene musicali veneziane (5 febbraio 1787) per opera di Giovanni Bertati e Giuseppe Gazzaniga (Don Giovanni o sia Il convitato di pietra). Il libretto dapontiano fu ultimato alla fine di aprile. Con tutta probabilità Mozart ne aveva avviato la composizione già in marzo, man mano che Da Ponte gli passava le scene che completava, e la concluse a Praga, dove giunse il 4 ottobre. La première dell'opera era prevista per il 14 ottobre in onore dell'arciduchessa Maria Teresa, sorella dell'imperatore Giuseppe II, ma per quest'occasione vennero riprese Le nozze di Figaro, già trionfalmente accolte nel capoluogo boemo nel dicembre 1786, e Don Giovanni andò in scena il 29 ottobre 1787 con una compagnia interamente italiana. Il successo fu enorme, tanto che a Praga l'opera rimase in cartellone per anni. Quando nel maggio 1788 giunse al Burgtheater di Vienna, fu invece accolta senza particolari entusiasmi, tanto da non riapparire più sulle scene viennesi se non dopo la morte di Mozart (nel 1792 in tedesco e in un teatro minore; nel 1798 all'Opera di corte).

“Don Giovanni” secondo Da Ponte e Mozart Sappiamo dalle Memorie di Lorenzo Da Ponte che ai primi del 1787 egli stava lavorando simultaneamente a tre libretti che dovevano esser consegnati nella primavera seguente ad Antonio Salieri, Vicente Martín y Soler e Wolfgang Amadé Mozart. Per il primo scelse Tarare, da un dramma di Beaumarchais. Al secondo fornì L’arbore di Diana, d’argomento mitologico. Al salisburghese propose invece Il dissoluto punito, o sia Il Don Giovanni, soggetto di lunga e consolidata tradizione, fresco d’una recente ripresa sulle scene musicali veneziane (5 febbraio 1787) per opera di Giovanni Bertati e Giuseppe Gazzaniga (Don Giovanni o sia Il convitato di pietra). Il libretto dapontiano fu ultimato alla fine di aprile. Con tutta probabilità Mozart ne aveva avviato la composizione già in marzo, man mano che Da Ponte gli passava le scene che completava, e la concluse a Praga, dove giunse il 4 ottobre. La première dell’opera era prevista per il 14 ottobre in onore dell’arciduchessa Maria Teresa, sorella dell’imperatore Giuseppe II, ma per quest’occasione vennero riprese Le nozze di Figaro, già trionfalmente accolte nel capoluogo boemo nel dicembre 1786, e Don Giovanni andò in scena il 29 ottobre 1787 con una compagnia interamente italiana. Il successo fu enorme, tanto che a Praga l’opera rimase in cartellone per anni. Quando nel maggio 1788 giunse al Burgtheater di Vienna, fu invece accolta senza particolari entusiasmi, tanto da non riapparire più sulle scene viennesi se non dopo la morte di Mozart (nel 1792 in tedesco e in un teatro minore; nel 1798 all’Opera di corte). All’altezza cronologica della versione Da Ponte-Mozart il mito di Don Giovanni vantava quasi due secoli di metamorfosi nella letteratura europea, tutte incentrate sul motivo dell’empio e beffardo invito a cena rivolto da un libertino alle spoglie d’un defunto che, con grande stupore di quello, accoglie l’invito e lo trascina all’inferno. Varie sono le accezioni attraverso le quali il tema viene riletto dagli autori. Nel suo significato principale, infatti, il termine “libertino” designa un libero pensatore che non accetta dogmi e proclama la sua assoluta indipendenza religiosa, filosofica e intellettuale, e dunque anche morale. E tale appare il protagonista del Burlador de Sevilla y convidado de piedra di Tirso de Molina (1630): ingannatore, beffatore, prima ancora che seduttore. Più ricercata è invece la figura eponima del Dom Juan ou le festin de pierre di Molière (1665), esponente di un libertinismo inteso in primis come sfida alla morale, «gioco dell’intelletto ancor prima che dei sensi, portato all’eccesso sia nella blasfema irrisione dei valori della religione e della famiglia, sia nel fiero rifiuto di pentirsi giunto al passo estremo», per dirla con Sergio Sablich. Quello dapontiano è invece un «giovane cavaliere estremamente licenzioso» – così nel libretto –, vero e proprio seduttore occupato in continue e turbolente avventure erotiche, conquistatore di donne «d’ogni grado, d’ogni forma, d’ogni età» per il puro «piacer di porle in lista». Le vicende narrate nell’opera ruotano tutte attorno alle reazioni prodotte dai conflitti tra Don Giovanni e i personaggi che questi trova sul suo cammino. Il concitato avvio notturno del prim’atto (scene I-III) si concentra sulla figura della giovane Donna Anna, vittima predestinata della bramosia di Don Giovanni messa in salvo dall’intervento di suo padre, il Commendatore, subito dopo ucciso in duello. A questo evento funesto e alla fuga repentina dell’assassino segue il duetto del giuramento di vendetta cantato dalla stessa Donna Anna insieme con Don Ottavio, di lei promesso sposo. Poco dopo, all’«alba chiara» del nuovo giorno, sortisce Donna Elvira (IV-VI), già concupita dal seduttore e ora in cerca di quest’ultimo, con l’aria «Ah chi mi dice mai», inframmezzata dagli interventi di Don Giovanni e Leporello. Si passa poi nell’ambiente contadino di Zerlina (VII-IX), semplice e astuta fanciulla sulla quale Don Giovanni ha messo gli occhi proprio nel giorno delle sue nozze col bel Masetto; ma la seduzione («Là ci darem la mano») è bruscamente interrotta dalla furia di Donna Elvira (X-XIV), e poi da Donna Anna e Don Ottavio, che dapprima intonano con Don Giovanni il quartetto «Non ti fidar, o misera», indi traggono dall’accaduto la rivelazione del di lui misfatto e un nuovo giuramento di vendetta. Una nuova fase dell’azione (XV-XVI) ha inizio verso il tramonto e si conclude in piena notte con il finale primo: Don Giovanni dapprima prende in mano le fila dell’intreccio annunciando con l’aria «Fin ch’han dal vino» gli intenti per la nottata imminente («Ah la mia lista | doman mattina | d’una decina | deve aumentar»); indi dà avvio a una festa in costume improntata alla più completa libertà. La realizzazione musicale che Mozart concepisce per questo finale è a dir poco stupefacente. Tre orchestre in palcoscenico attaccano una dopo l’altra altrettante danze distinte: un aristocratico Minuetto, riservato a Ottavio, Donna Anna e Donna Elvira, è eseguito da un’orchestra di 2 oboi, 2 corni, violini primi e secondi, viola e bassi; una contadinesca contraddanza (violini e bassi) è ballata da Don Giovanni e Zerlina (che finiscono per appartarsi, non visti dagli altri); un villanesco “Teitsch” per soli archi consente a Leporello di distrarre Masetto. La poliritmia che l’esecuzione simultanea di queste tre danze ricrea sortisce l’effetto di una straniante concitazione, tuttavia inquadrata in una precisa gerarchia sociale. Le grida improvvise di Zerlina “di dentro” riportano bruscamente alla realtà e il caos raggiunge il suo acme quando Don Ottavio, Donna Anna e Donna Elvira, soccorrendo Zerlina, si tolgono le maschere e accusano Don Giovanni, che riesce comunque a fuggire repentinamente. La prima parte del second’atto allenta la tensione drammatica. L’episodio iniziale (scena I) vede lo scambio d’abiti tra Don Giovanni e Leporello: alla languida serenata («Deh vieni alla finestra») intonata dal protagonista per la cameriera di Donna Elvira segue una serie di schermaglie amorose che sfociano nel sestetto aperto da quest’ultima («Sola sola in buio loco») con Leporello, Zerlina e Masetto, Donna Anna e Don Ottavio. I successivi recitativo e aria di Donna Elvira («Mi tradì quell’alma ingrata») proseguono nello scavo psicologico e affettivo del personaggio. La successiva scena del cimitero (XI) – un paio d’ore dopo la mezzanotte -, determina un cambiamento improvviso di timbri e atmosfere: la lugubre voce sepolcrale della statua del Commendatore («Di rider finirai pria dell’aurora») accompagnata da due oboi, due clarinetti, due fagotti e tre tromboni, arresta per la prima volta la vitalità di Don Giovanni. L’invito a cena è una reazione quasi istintiva del protagonista («Parlate, se potete...»), che escogita così un modo per togliersi dall’impaccio d’una situazione a dir poco bizzarra e grottesca. Le tinte scure si protraggono nella “camera tetra” in cui Donna Anna e Don Ottavio meditano ancora sulla vendetta e sull’illusione del loro triste amore (XII): la grande aria di Donna Anna («Non mi dir, bell’idol mio»), quasi un congedo dalla speranza di una felicità futura, funge da cerniera per la scena successiva. Sul finire dell’opera (finale secondo, scena XIII), nella sala predisposta per la cena («Già la mensa è preparata») Don Giovanni è allietato dal suono di melodie celebri (tre estratti di opere contemporanee, fra cui un’autocitazione mozartiana dalle Nozze di Figaro). È il momento della resa dei conti, del compimento ultimo per le scorribande del libertino: l’apparizione del defunto Commendatore finisce per annichilirlo e lo proietta – stante il fermo rifiuto di qualsivoglia pentimento per la propria condotta scellerata – in un aldilà per lui privo d’ogni speranza. Segue, in ultimo, il ritorno in scena di tutti gli altri personaggi a commentare l’accaduto e trarre la morale della storia («Questo è il fin di chi fa mal»). Rispetto alla prima versione del 1787, per le recite viennesi dell’anno successivo Mozart apportò all’opera una serie interessante di modifiche. Tra queste, l’aria di Don Ottavio «Il mio tesoro intanto» (II, 10) fu espunta e sostituita con «Dalla sua pace», spostata però nella scena quattordicesima del prim’atto; e ciò a tutto vantaggio dell’interprete, per il quale la prima delle due arie qui elencate era risultata alquanto impervia. Per compiacere il virtuosismo del soprano Caterina Cavalieri (Donna Elvira) Mozart compose invece l’aria di bravura «Mi tradì quell’alma ingrata», introdotta dal recitativo accompagnato «In quali eccessi, o Numi» e inserita subito prima della scena del cimitero, nel second’atto. La precedeva una serie di nuove scenette comiche tra Leporello, Zerlina e un contadino, di cui però non è rimasta pressoché traccia nella tradizione esecutiva. La più discussa novità della seconda versione, come è noto, risiede però nel finale dell’opera, con la soppressione di ciò che segue alla catabasi di Don Giovanni: il secondo libretto viennese (maggio 1788) lo presenta mentre «si sprofonda nel momento stesso in cui escon tutti gli altri, guardano, metton un alto grido, fuggono, e cala il sipario». Sebbene questo taglio nella partitura sia stato successivamente riaperto, con il ripristino del sestetto conclusivo (e ciò in corrispondenza tanto alle prime quanto alle ultime intenzioni drammatico-musicali di Mozart.), tuttavia nella prassi esecutiva viennese e tedesca dell’Otto e primo Novecento esso fu sovente mantenuto. Il che ha sollevato una copiosa serie di valutazioni accademiche sul significato e sulla struttura del Don Giovanni: un’opera da alcuni ritenuta a metà fra la tragedia e la commedia, da altri un ripensamento dell’opera buffa, alla cui tradizione si rifà invece pienamente sin nella sua denominazione di “dramma giocoso”. Al di là di ogni definizione di genere, occorre forse considerare una simile fusione di elementi eterogenei come la cifra programmatica dell’opera, come a dire che la realtà ha sempre due facce che Mozart squaderna costantemente davanti agli occhi dello spettatore. Così, ad esempio, la comicissima aria di Leporello «Madamina, il catalogo è questo» si pone in netto contrasto con la situazione esistenziale in cui si trova Donna Elvira, abbandonata alla disperazione. Allo stesso modo il duettino tra Don Giovanni e Zerlina, seppur diretto a un turpe tentativo di violenza sessuale, non accantona con ciò l’estasi che la giovane prova nel sentirsi, almeno per un momento, innalzata di rango e status. E ancora, il farsesco sussultare di Leporello nella scena finale non inquina la densità del momento, anzi ne potenzia la tragicità. Si consideri in ultimo l’Ouverture, che Mozart compose a opera ultimata (forse addirittura nella notte precedente la prima praghese) col chiaro intento di anticiparvi lo svolgimento del dramma: essa dapprima presenta la spessa tensione drammatica contenuta nel tema del Commendatore (un compassato Andante in Re minore caratterizzato da forti accordi a piena orchestra, da ritmi sincopati, da ripide scale ascendenti e discendenti); indi introducendo il dinamismo sfrenato di Don Giovanni (uno spigliato Allegro molto in Re maggiore, in forma-sonata, energico e frizzante). Quando nel 1797 Goethe profetizzò che nessun’altra opera in musica avrebbe raggiunto l’altezza del Don Giovanni, il massimo poeta tedesco alludeva forse alla perfezione del contrappunto fra musica e parola, fra affetti diversi, fra tragedia e commedia, fra mito e realtà, che rende questo lavoro per certi versi quasi inafferrabile. Si rilegga, su tutti, il compendioso giudizio di Fedele d’Amico: «Don Giovanni viene veramente dannato, ma il suo fascino ‘positivo’ rimane intatto: privilegiare la sua condanna rispetto alla sua apoteosi o viceversa non è possibile, la musica di Mozart contempla dall’alto così l’indeterminazione come la determinazione etica imparzialmente, nell’atto stesso in cui, con pari lealtà, le fa vivere». Nicola Badolato