Vereno Brugiatelli
POTERE E RICONOSCIMENTO
IN PAUL RICOEUR
Per un’etica del superamento dei conflitti
Collana “Orizzonti”
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Vereno Brugiatelli, Potere e riconoscimento in Paul Ricoeur
Copyright © 2012 Tangram Edizioni Scientifiche
Gruppo Editoriale Tangram Srl
Via Verdi, 9/A – 38122 Trento
www.edizioni-tangram.it –
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Prima edizione: giugno 2008 – UNI Service
Seconda edizione: gennaio 2012 – Printed in Italy
Collana “Orizzonti” – NIC 12
ISBN 978-88-6458-039-5
In copertina: illustration with hearts, circles and flowers for valentine backgrounds,
Dan Ionut Popescu
Progetto grafico di copertina: Lucio Brugiatelli
Stampa su carta ecologica proveniente da zone in silvicoltura, totalmente priva di cloro.
Non contiene sbiancanti ottici, è acid free con riserva alcalina
A Catia Bessi
Ringraziamenti
Sono grato al professor Domenico Jervolino per la Prefazione e al
professor Giuseppe Beschin per la Postfazione. Desidero inoltre ringraziarli per le loro preziose osservazioni.
PREFAZIONE
di Domenico Jervolino
L’ultima opera di Ricoeur Parcours de la reconnaissance può essere letta
anche come un invito a filosofare che l’anziano filosofo ci ha lasciato e
possiamo immaginare che i primi destinatari di tale invito siano i giovani filosofi di oggi, che dalla lettura di tale opera possono ricavare
come una sorta di ricapitolazione del cammino di un testimone
d’eccezione – autorevole e affidabile – del tempo che fu suo e che è
anche il nostro tempo. Una ricapitolazione essenziale, che non concede nulla alle mode culturali, ma che disegna come un’eredità per noi e
per chiunque s’incammini sulla strada che egli ha esemplarmente percorso, dedicandosi al lavoro del pensiero, nel tormentato mondo
d’oggi. Per questo mi pare importante che i giovani studiosi di filosofia rispondano a questo dono di Ricoeur con proprie ricerche come
questo libro di Vereno Brugiatelli, che ha già dedicato al filosofo francese un’eccellente tesi dottorale e ora ci propone un lavoro accurato
che ha i pregi di un commento analitico.
Con la chiarezza consueta Ricoeur individua una tematica – quella
del riconoscimento – da seguire nei suoi sviluppi, facendosi istruire
dalla polisemia del linguaggio, ma senza chiudersi in essa, cogliendo
tre momenti fondamentali di un’elaborazione concettuale (che è il
compito proprio dei filosofi) che vanno dal riconoscere come identificazione di qualcosa al riconoscere se stessi fino al riconoscersi reciprocamente, che culmina nella mutualità di un rapporto fra le persone
nel quale l’essere riconosciuti diventa ri-conoscenza, gratitudine.
Ricoeur considera i tre momenti come altrettante “vette” del suo
percorso filosofico, chiamandoli col nome di tre grandi filosofi del
passato che in questo modo egli onora, anche se nessuno dei tre esaurisce la ricchezza di riferimenti storici che questo libro ci offre: Kant,
Bergson, Hegel. Essi sono per così dire eponimi di una triplice problematica concettuale, che non può essere sostituita o risparmiata dalla
mera analisi lessicologica dei molteplici significati del riconoscere. È
questo un primo insegnamento metodologico di cui fare tesoro: l’autonomia e la necessità dell’interrogazione filosofica in quanto tale.
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Il primo momento, la problematica dell’identificare qualcosa in
quanto tale, in cui il ri-conoscere è più vicino al conoscere, rappresenta un punto di partenza ineludibile del percorso. Pensiero dell’azione,
quello del Ricoeur, ma che non cede mai a tentazioni irrazionalistiche.
L’identificare qualcosa come tale non va irrigidito in una concezione
che stabilisca – per così dire – un’egemonia del momento teoretico e
che pensi l’azione, l’affettività, i rapporti intersoggettivi solo a partire
da tale egemonia. Ma nonostante ciò non si può prescindere da
un’identificazione delle significazioni col risultato di dissolvere il pensiero in un fluire indistinto. Pensare significa sempre pensare qualcosa
e poterla distinguere da ciò che è altro. È – se si vuole – la tematica
fenomenologica della intuizione delle essenze, al di fuori di ogni sua
interpretazione platonizzante. E in effetti questa prima parte potrebbe
anche essere vista come un elogio della fenomenologia congiunto alla
consapevolezza della sua crisi – se essa si chiude nell’ambito del pensiero rappresentativo – e della necessità di un suo rinnovamento, in
direzione di una filosofia del mondo della vita e dell’essere al mondo.
Si tratta quindi di una trasformazione di cui già Husserl – e non solo
Heidegger – ci offrono gli elementi. Ma in questa trasformazione il
soggetto puramente conoscitivo si ritrova come esistente finito e temporale, fragile, esposto al rischio del misconoscimento. Mirabile è a
questo punto l’evocazione di una pagina del Tempo ritrovato di Proust,
la celebre scena della cena nella quale l’autore rivede dopo anni vecchi
volti di persone da lui conosciute, trasformati, invecchiati dall’opera di
quel misterioso artista che è il Tempo. Si apre uno scarto (e quindi si
profila una seconda vetta nel cammino del riconoscimento) fra il riconoscere qualcosa come qualcosa e il riconoscimento delle persone.
Nel riconoscimento di sé, di quel sé che ciascuno di noi è, emerge
pienamente l’antropologia ricoeuriana dell’homme capable, delle molteplici capacità che ci costituiscono nel nostro essere persone, sulle quali
giustamente Vereno Brugiatelli si sofferma con perizia. Qui in effetti
lo stesso Ricoeur offre una sintesi essenziale e luminosa della sua ricerca, in particolare dei lavori degli due ultimi decenni della sua lunga
vita, sintesi che trova nella nozione di uomo capace un filo conduttore
e unificante. Tale filo conduttore può rimediare all’apparenza di dispersione che talora disorienta i lettori del filosofo francese.
Il sé è capacità di dire, di agire, di narrare e di narrarsi, di assumere
la responsabilità del proprio agire. Questa problematica dell’uomo ca-
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pace – che ripercorre le tappe fondamentali di Sé come un altro – si
completa con la fenomenologia della memoria e con quella della promessa, memoria e promessa che entrambe si iscrivono in modo originale nel ciclo delle capacità costitutive dell’umano.
Gli elementi di originalità, afferma Ricoeur, sono innanzitutto l’accento posto sul momento dell’effettuazione – è ora che io ricordo, è
ora che io prometto –; sull’accentuazione peculiare nella dialettica fra
medesimezza e ipseità che attraversa il sé ricoeuriano (la memoria è
rivolta più verso la medesimezza, la promessa è in certo senso la cifra
della ipseità; l’una guarda al passato, l’altra al futuro); e soprattutto entrambe, memoria e promessa, sono minacciate dall’ombra di una negatività che le minaccia: l’oblio e il tradimento.
Come si vede siamo già dentro la problematica dei rapporti intersoggettivi, problematica che viene affrontata in profondità nella terza
parte, guidata dall’idea di reciprocità, del necessario rapporto con l’altro e insieme dell’assoluto rispetto per l’essere ciascuno nella sua intimità unico e insostituibile. Qui, dialogando con Hegel e con le riflessioni che cercano di attualizzarne la lezione – la problematica del riconoscimento nella filosofia sociale più recente, in particolare con Axel
Honneth – Ricoeur ci invita ad impegnarsi nell’ambizioso progetto di
offrire una replica alla concezione hobbesiana dei rapporti interumani
che ha segnato così profondamente la modernità. Non possiamo rassegnarci, nonostante le manifestazioni antiche e nuove della violenza
nella storia e nella società, a considerare l’uomo come lupo verso
l’altro uomo. Se la lotta per il riconoscimento offre già una prima risposta a Hobbes, essa va però integrata con una riflessione sul dono (e
qui gli interlocutori vanno da Marcel Mauss a Marcel Hénaff) e sul
ruolo che esso svolge nella costituzione del legame interumano, introducendo un elemento di gratuità e di festività.
Tutta questa problematica delinea in definitiva una grande sfida etica e politica, che appartiene pienamente al nostro presente. Potremmo
chiederci, raccogliendo aspirazioni diffuse nel mondo d’oggi, soprattutto nell’immenso popolo degli oppressi e degli esclusi: è possibile un
mondo altro? Quello che il movimento che si è detto altermondialista
afferma come parola d’ordine, come obiettivo di una lotta nonviolenta: “Un altro mondo è possibile!”, la riflessione filosofica deve almeno
porselo come interrogativo problematico, problematico ma non per
questo privo di speranza, anzi fondatore di speranza.
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Certamente Ricoeur condivide l’indignazione morale verso ciò che
il suo grande amico Mounier chiamava il disordine costituito ed è
sempre stato fedele all’idea che il filosofo abbia una responsabilità nella città degli uomini.
Sono tentato di dire di più ancora: che oggettivamente qui – in questo snodo cruciale del percorso ricoeuriano – si pone il problema della
transmodernità (benché il termine non sia ricoeuriano, ma del filosofo
latino-americano della liberazione Dussel), cioè di un superamento del
moderno non già in direzione del post-moderno ma di una cultura
della pace e della liberazione, che sappia contrastare efficacemente i
germi di violenza così profondamente radicati nella storia e aprirsi alla
visione di ciò che Ricoeur chiama gli «stati di pace».
Mi pare che qui veramente Ricoeur ci lasci una grande e impegnativa eredità di pensiero, cioè qualcosa su cui tocca a noi – che veniamo
dopo di lui e siamo da lui illuminati – lavorare, assumendoci le nostre
responsabilità. Sarà – presumo – il compito di una o più generazioni e
forse di un’intera epoca storica, esposta alla durezza di un mondo in
cui la violenza e l’inimicizia dell’uomo nei confronti dell’uomo sembrano prevalere e ben deboli possono apparire di fronte alla loro cruda realtà le risorse della parola filosofica. Mi pare perciò lodevole il
fatto che il tentativo di Vereno Brugiatelli vada in questa direzione,
nella quale mi auguro molti altri giovani filosofi si impegneranno, affrontando il tema di un’etica del superamento dei conflitti, che non è
un generico irenismo, ma nasce proprio dall’assunzione dei conflitti,
senza velarne la radicalità e la crudezza, ma scegliendo nello stesso
tempo – anche nel lavoro del pensiero – di essere solidali con le vittime della storia e con gli operatori di pace. Mi pare infine importante
che, evocando alla scuola di Ricoeur – i grandi temi della pace, della
giustizia e dell’amore, si conservi quella laica sobrietà che non è
l’ultimo degli insegnamenti del grande maestro che ci ha lasciato – così
attento a “non mescolare i generi” della ricerca filosofica e del linguaggio biblico e cristiano che egli peraltro così profondamente conosceva e meditava e al quale ha reso la testimonianza non già di pomposi proclami ma di quel “restare vivo fino alla morte” che egli ha desiderato per sé e ci ha proposto col suo esempio.
Domenico Jervolino,
Università “Federico II” di Napoli
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INTRODUZIONE
1. L’ultima opera che Ricoeur ci ha lasciato, Parcours de la reconnaissance
(2004)1, è molto più di una ricapitolazione di alcune delle numerose
tematiche che hanno caratterizzato il suo percorso filosofico. Infatti,
alla luce della categoria del «riconoscimento», egli apre una nuova prospettiva sull’uomo e sul suo «essere-al-mondo». In tal senso, la categoria del riconoscimento, oltre a gettare nuova luce su molte problematiche-tematiche da lui affrontate in passato, amplia ulteriormente gli
orizzonti della sua antropologia filosofica. Essa è, dal pensatore francese, assunta per elaborare una vera e propria «filosofia del riconoscimento», intesa come «filosofia dell’essere-al-mondo», in stretta connessione con la prospettiva etica e politica.
Nel presente lavoro intendiamo porre la tematica del riconoscimento in relazione con la nozione di potere. Nella considerazione della
nozione di potere, assumeremo come punto di partenza la dimensione
originaria della natura umana che, per Ricoeur, consiste in un «fondo di
essere, ad un tempo potente ed effettivo», dal quale si stagliano diverse forme
di agire e sul quale si radica l’«io posso». Tutte le diverse accezioni del
«potere-di» – parlare, agire, narrare, rispondere all’accusa, ecc. – che
prenderemo in esame, presuppongono questo fondo potente ed effettivo originario, base di ogni potere-capacità dell’uomo agente. Nel
contesto della ricoeuriana antropologia filosofica, le idee di potere e
riconoscimento sono strettamente correlate e da esse prendono vita
molteplici articolazioni concettuali concernenti diverse regioni speculative.
Al «potere-di» e al riconoscimento, si contrappongono il potere violento (che è il «potere-di» trasformato in un «potere-su») e il misconoscimento (ossia il diniego di riconoscimento). Prenderemo in conside1 P. Ricoeur, Parcours de la reconnaissance, Stock, Paris 2004; trad. it. di F. Polidori, Percorsi del riconoscimento, Raffaello Cortina Editore, Milano 2005.
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razione queste tematiche facendole incrociare tra loro. Tale lavoro sarà
svolto assumendo e perseguendo una prospettiva etica. In particolare,
ci proponiamo di: 1. fare emergere, dal contesto delle riflessioni ricoeuriane, i legami teorico-pratici tra potere e riconoscimento; 2. cogliere potere e riconoscimento alla luce del problema della realizzazione etica; 3. analizzare il concetto di potere come portatore di violenza
in maniera congiunta con le diverse figure del misconoscimento; 4.
muovendo dalle riflessioni ricoeuriane che, dalle molteplici figure della
lotta per il riconoscimento, conducono all’etica del mutuo riconoscimento, tracciare alcuni tratti di un’etica «del superamento dei conflitti»
alimentata dall’idea di «realizzazione etica».
2. Già prima di Parcours de la reconnaissance, la tematica del riconoscimento fa la sua comparsa in diversi testi ricoeuriani. Ma è solo in
quest’opera che Ricoeur ne fa oggetto di studio specifico. Alla base di
tale scelta c’è la constatazione del fatto che, pur essendoci un gran
numero di teorie della conoscenza, non esiste una filosofia del riconoscimento. In Parcours, egli cerca di supplire a questa carenza.
Da buon allievo della scuola anglosassone che analizza il linguaggio
ordinario2, Ricoeur inizia il suo lavoro con l’analisi dei diversi modi di
dire il riconoscimento consultando e mettendo a confronto due importanti opere di lessicografia francese: il Dictionnaire de la langue française (compilato e pubblicato da Émile Littré dal 1859 al 1872) e il Grand
Robert de la langue française (seconda edizione, diretta da Alain Rey,
1985).
Dalla considerazione del lessico, il filosofo francese trae una importante distinzione riscontrabile nell’impiego del verbo “riconoscere”:
quella tra la forma attiva – riconoscere qualche cosa, degli oggetti, delle persone, sé, un altro, l’un l’altro – e quella passiva – essere riconosciuto, chiedere di essere riconosciuto. Il percorso ricoeuriano del riconoscimento, scandito in tre “macro momenti”, prende vita proprio
su queste due forme grammaticali del riconoscimento. Il primo moRicoeur analizza il linguaggio ordinario per attingere il piano ontologico
dell’agire e del soffrire dell’uomo. Il linguaggio articola l’esperienza temporale
dell’uomo, cosicché, il chiarimento del linguaggio ha proprio l’obiettivo di
comprendere l’esperienza. Da questo punto di vista, egli si oppone a quella
filosofia analitica che si chiude nel “cerchio incantato” del semantismo senza
uscire dal linguaggio.
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mento è all’insegna della forma attiva con l’assumere il riconoscimento
secondo un’ottica gnoseologica; il secondo momento, riguardante il
riconoscimento di se stessi, comprende entrambe le forme; il terzo
momento, concernente il mutuo riconoscimento, è all’insegna della
forma passiva. Da questo percorso, risulta un passaggio dalla forma
attiva alla forma passiva che conduce ad un abbandono del piano del
riconoscimento come atto conoscitivo. Questo itinerario segna un
movimento che, dal riconoscimento come conoscenza, come identificazione, di un “oggetto”, di un “qualcosa”, di un “che”, passa a modalità di riconoscimento che investono a pieno il sé delle persone e le loro relazioni etico-morali.
Il primo studio di Parcours de la reconnaissance, dedicato alla considerazione delle modalità epistemiche del riconoscimento, ha come titolo:
“Il riconoscimento come identificazione”. A tale proposito Ricoeur si
concentra su due pensatori, che poi corrispondono a due epoche del
pensiero moderno: Descartes e Kant. Nel contesto della gnoseologia
cartesiana risulta centrale la teoria del giudizio. Nelle Meditazioni, il
giudizio è costituito mediante due facoltà collegate tra loro: l’intelletto,
come facoltà di ricevere l’idea e la volontà, come facoltà di scegliere
(ossia di «confermare» o «negare»). A queste due operazioni corrispondono due accezioni del termine «riconoscere»: 1. riconoscere come identificare, dove identificare vuol dire distinguere il «medesimo
dall’altro», «il vero dal falso»; 2. riconoscere come «accettare», «ritenere
come vero».
Anche per Kant, come per Descartes, riconoscere significa «identificare», ma per Kant giudicare non consiste nel comporre l’intelletto
con la volontà, ma porre un’intuizione sensibile sotto un concetto e il
giudizio come facoltà (Urtheilskraft), è «facoltà di sussumere sotto regole; cioè distinguere se qualcosa [oggetto o fenomeno] stia o no sotto
una regola data (casus datae legis)»3. L’atto di giudicare consiste nel sintetizzare il molteplice dell’intuizione sensibile attraverso le categorie (regole). I modi del giudizio (le categorie) sono i modi secondo cui avviene la sintesi. Tutti i giudizi sono atti di sintesi. Il molteplice dato
nella intuizione sensibile non sarebbe conosciuto se non fosse sinte-
I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, Hartknoch, Riga 1787; trad. it. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari 1987, p.
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tizzato dalla rappresentazione dell’unità, la quale ha sede nell’Io penso
o appercezione originaria.
Ricoeur individua nella funzione di sintesi, nel giudizio come atto di
collegare, in cui la ricettività della sensibilità si compone con la spontaneità dell’intelletto, un contributo specifico di Kant ad una filosofia
del riconoscimento. A tale proposito, è nella sintesi della ricognizione
che il pensatore francese ha sperato di ritrovare una importante prospettiva sul concetto di riconoscimento, ma si tratta di una speranza
delusa.
Ricoeur prende in esame, nel contesto della Prima edizione della
Critica della ragion pura (1781), le tre sintesi (nelle quali è sempre implicato il tempo): «sintesi dell’apprensione nell’intuizione», «sintesi della riproduzione nell’immaginazione» e «sintesi della ricognizione nel concetto». La
ricognizione è una identificazione concettuale; nel suo momento empirico, afferma Kant, la ricognizione è la coscienza che ciò che pensiamo è precisamente lo stesso di ciò che pensavamo un istante prima.
Ciò che era ieri (passato) e ciò che è oggi (presente), ora è riconosciuto
«identico», «lo stesso». La ricognizione è una sintesi che mira all’identico, è una «sintesi nel concetto» e il concetto è la rappresentazione di una unità che procede dalla unità della coscienza. Si ha a che
fare con un riconoscimento nel concetto che non apre nuove prospettive rispetto alla modalità di riconoscimento che risulta dalla sintesi
dell’immaginazione. Di qui la delusione di Ricoeur. In fondo, ciò che
nella sintesi della ricognizione è importante «è che l’unità della coscienza si produca nel concetto per riconoscervi se stessa»4. Al fine di individuare modalità etiche del riconoscimento, è necessario oltrepassare
la prospettiva gnoseologica kantiana radicata sul dualismo soggettooggetto e affermante che gli oggetti, in quanto fenomeni, si regolano
sul nostro modo di rappresentarli; inoltre, si tratta di accedere a modalità di riconoscimento non riducibili all’idea di identificazione.
3. Ora, dall’idealismo trascendentale, afferma Ricoeur, è possibile uscire solo di colpo, «così come di colpo vi si entra». Dal suo punto di vista, distaccarsi dalla prospettiva kantiana significa saltare fuori dal
«cerchio magico della rappresentazione» per entrare nel contesto
dell’esperienza fondamentale dell’essere-al-mondo, la quale si pone
4
Parcours de la reconnaissance, cit., p. 76; trad. it. p. 55.
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come «riferimento ultimo di tutte le esperienze particolari suscettibili
di stagliarsi su tale sfondo»5. Ricoeur assume come riferimenti di questa filosofia dell’essere-al-mondo, le riflessioni dell’Husserl della Krisis6,
la fenomenologia della percezione di Merleau-Ponty7 e l’ermeneutica
ontologica di Heidegger8.
Dalla presa d’atto della «rovina della rappresentazione»9 – ossia della modalità epistemica del pensiero rappresentativo fondato sul dualismo soggetto-oggetto – si tratta di entrare nell’esperienza fondamentale dell’«essere-al-mondo» in cui è possibile ritrovare una condizione
esistenziale di co-appartenenza dell’uomo al mondo, di cui il «corpo
proprio» è un’articolazione. Il «corpo proprio» è il “luogo” di tutte le
sintesi attive e passive tra uomo e mondo e, come «esistenza incarnata», costituisce una dimensione intenzionale dell’uomo pre-oggettivante e ante-predicativa. Questa prospettiva segna il superamento
Ivi, p. 90; trad. it. pp. 67-68.
E. Husserl, Die Krisis der Europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, a cura di W. Biemel in Husserliana, Gesammelte Werke, Kluwer,
Dordrecht 1950, vol. VI; trad. it. di E. Filippini, La crisi delle scienze europee e la
fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1975 (5^ ediz.).
7 M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1972; trad.
it. di A. Bonomi, Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano 1965.
8 Sulla contrapposizione di Heidegger alla concezione del mondo come rappresentazione e all’idea di rappresentazione cfr.: M. Heidegger, Kant und das
Problem der Metaphysik, V. Klostermann, Frankfurt am Main 1965; trad. it. di
V. Verra, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Roma-Bari 1981; Id., “Die
Zeit des Weltbildes”, in Holzwege, V. Klostermann, Frankfurt 1950; trad. it. di
P. Chiodi, L’epoca dell’immagine del mondo, contenuto in Sentieri interrotti, La
Nuova Italia, Firenze 1973. Sulla riduzione del mondo a immagine, a un
“quadro”, Heidegger afferma che «Quando il mondo diviene immagine, l’ente
nel suo insieme è assunto come ciò in cui l’uomo si orienta, e quindi come
ciò che egli vuole portare innanzi a sé, e quindi, in un senso decisivo, come
ciò che vuole porre innanzi a sé (Vorstellung), rappresentarsi» (L’epoca
dell’immagine del mondo, cit., p. 87).
9 Ricoeur riprende l’espressione «la rovina della rappresentazione» da E.
Lévinas, il quale, in un articolo scritto in occasione del centenario della nascita di Husserl, afferma che nell’ultima filosofia di Husserl si annuncia «la rovina della rappresentazione» (E. Lévinas, “La ruine de la représentation”, ora in
En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 1949, 2001 (3^ ed.);
trad. it. di F. Sossi, “La rovina della rappresentazione”, in Scoprire l’esistenza con
Husserl e Heidegger, Raffaello Cortina, Milano 1998).
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della modalità rappresentativa di parlare dell’uomo poiché conduce ad
un’esperienza pre-epistemica di sé e del mondo. Heidegger ha espresso questa esperienza relativa al coinvolgimento esistenziale dell’uomo
nei confronti dell’altro, con i termini «cura» (Sorge) e «sollecitudine»
(Fürsorge). Entrambi gli atteggiamenti appartengono a modalità interrelazionali non gnoseologiche, non oggettivanti. Sono all’insegna di un
impegno e di una responsabilità esistenziali. Ricoeur lascia capire che
la modalità gnoseologica del riconoscimento, con la sua logica identificante e oggettivante, non può assorbire le modalità etiche del riconoscimento, pena la cancellazione della dimensione dell’ipseità dell’uomo,
che così verrebbe appiattito completamente sul piano della medesimezza, della semplice “datità”10.
L’impostazione epistemico-identificativa del riconoscimento, può
svolgere la sua funzione in un circoscritto campo d’indagine. È a partire dalla consapevolezza di ciò che essa può e non può offrire, che Ricoeur passa all’elaborazione di modalità – non identificative – del riconoscimento concernenti l’ipseità dell’uomo. Nel secondo studio di
Parcours – all’insegna del «riconoscersi se stessi» – e nel terzo studio –
concentrato sul «mutuo riconoscimento» – egli prende in esame modalità del riconoscimento che, per il fatto di porsi in un contesto etico,
segnano uno scarto rispetto al riconoscimento inteso come atto conoscitivo. Questo scarto può essere illustrato con le seguenti distinzioni:
un conto è il riconoscimento che l’altro ha di me in base alla mia parola mantenuta – ossia in base alle mie azioni che confermano ciò che
promettevo di realizzare – e un’altra cosa è essere riconosciuto a distanza di anni sulla base di certi tratti somatici (si noti fin d’ora che, in
L’identità dell’uomo è da Ricoeur dispiegata dal punto di vista della dialettica tra medesimezza e ipseità. L’identità come medesimezza corrisponde alla
permanenza delle impronte digitali e al codice genetico dell’uomo, inoltre, a
ciò che, a livello psicologico, si manifesta come carattere, inteso come
l’insieme delle note distintive che consentono di reidentificare un individuo
umano come il medesimo. Il carattere è il «che cosa del chi» (cfr. P. Ricoeur,
Soi-même comme un autre, Seuil, Paris 1990, p. 147; trad. it. di D. Iannotta, Sé
come un altro, Jaca Book, Milano 1993, p. 211). A questo modello si oppone
l’identità di permanenza ipse fondata sulla parola mantenuta. Tale mantenimento
costituisce una figura di identità polarmente opposta a quella del carattere.
Perseverare nella «fedeltà alla parola data» investe a pieno ed esclusivamente
la dimensione del chi e si pone in un contesto etico (Ivi, pp. 148-149; trad. it.
pp. 212-213).
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entrambi gli esempi, è sempre implicata la dimensione temporale) 11. Il
primo caso appartiene ad un piano di riconoscimento etico; il secondo
è invece relativo alla modalità di riconoscimento come conoscenza.
Questo discorso vale anche per il riconoscimento di se stessi: da certe
fotografie che mi ritraggono quando ero bambino, in base a certi tratti
somatici posso riconoscere me stesso, e tale riconoscimento si fonda
su un atto conoscitivo-identificativo; oppure posso riconoscermi come responsabile dei miei atti, ed è chiaro che qui sono entrato
nell’ambito del riconoscimento etico. Nel primo caso colgo la mia
identità come medesimezza, nel secondo caso faccio riferimento all’identità intesa come ipseità.
11 Nel paragrafo del primo studio, di Parcours de la reconnaissance intitolato “Il
riconoscimento alla prova dell’irriconoscibile”, Ricoeur offre un esempio di
riconoscimento come identificazione riprendendo, dalle bellissime pagine de
Il tempo ritrovato di M. Proust, la scena di un pranzo in cui gli invitati si incontrano dopo molto tempo. Proust mette in risalto la penosa difficoltà che gli
invitati incontravano nel riconoscersi reciprocamente per il fatto che il Tempo aveva cambiato profondamente il loro aspetto. (cfr. M. Proust, À la recherche du temps perdu, 3 voll., Gallimad, Paris 1989, Le Temps retrouvé; trad. it. di G.
Roboni, Alla ricerca del tempo perduto, 4 voll., Mondadori, Milano 1983-1993,
IV, Il Tempo ritrovato, pp. 607-608). Il Tempo (Proust usa la maiuscola) è da lui
paragonato ad un artista che modella i corpi e i volti. In essi, egli dice, il
Tempo diviene visibile. In casi come questi il riconoscimento si ritrova alle
prese con l’assillo dell’«irriconoscibile». In tal senso, il Tempo si rivela come
«un agente doppio, un agente dell’irriconoscibilità e del riconoscimento» (cfr.
Parcours de la reconnaissance, pp. 102-103; trad. it. pp. 78-79). Occorre osservare
che, questa forma del riconoscimento rimane nell’ambito del riconoscimento
come conoscenza, come identificazione di qualcuno o di qualcosa. Ricoeur
oltrepassa questa posizione nella trattazione del riconoscimento di sé e, in
maniera ancora più esaustiva, del mutuo riconoscimento. Il passaggio che dal
riconoscimento come identificazione conduce al riconoscimento di sé, è da
lui tratteggiato nelle battute conclusive del paragrafo intitolato “Il riconoscimento alla prova dell’irriconoscibile”, lì dove, richiamandosi a Proust, attraverso il racconto il lettore diviene, «lettore di se stesso» (cfr. Parcours de la reconnaissance, pp. 104-105; trad. it. pp. 80-81). Alla luce dell’esperienza temporale dispiegata dal testo, il lettore opera un «riconoscimento dentro di sé», ossia comprende se stesso secondo una prospettiva nuova. È chiaro che qui il
riconoscimento è di natura etica e non può più essere inteso come conoscenza-identificazione.
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Ora, le due modalità del riconoscimento sono sì distinte tra loro,
ma si tratta di un’opposizione polare, come quella esistente tra
l’identità-idem e l’identità-ipse; inoltre, è possibile individuare una dimensione ad esse comune. Questa può essere ravvisata nel «fondo
d’essere effettivo e potente», nell’«Io posso», base di ogni poterecapacità dell’uomo.
4. L’ipseità non può essere riconosciuta per mezzo della logica epistemologica, la quale si fonda sulla semplice-presenza (Vorhandenheit) di
ciò che può essere oggettivato-identificato come un «che cosa». In
fondo, il concetto di riconoscimento come identificazione è caratterizzato dalla volontà di dominio del senso, propria di un soggetto che
aspira a diventarne il padrone. Riteniamo che la rinuncia a questa pretesa sia uno dei principali aspetti che alimentano la ricoeuriana esplorazione del riconoscimento in ambito etico.
Quella di Parcours de la reconnaissance è una filosofia dell’«essere-almondo» priva di velleità epistemiche. Ponendosi in quest’ottica, essa si
espone al pericolo di essere tacciata di inconsistenza speculativa. Ma in
fondo, una «”filosofia-dell’essere-al-mondo” non può che essere problematica, non solo per ragioni che dipendono dalla sua tematica, ma
per quelle ragioni che dipendono dall’impegno del filosofo che la professa e che si assume i rischi della controversia, inseparabile dal suo
carattere non scientifico. Per le medesime ragioni questa filosofia, oltre che problematica, sarà anche frammentaria, non totalizzabile. I
suoi seguaci non potranno mai scrivere, come Kant, “quello che
all’inizio avevamo ammesso come un semplice tentativo si mostra nella sua fondatezza”; questa filosofia invece, cominciata come un tentativo, resterà per sempre un tentativo»12.
Terminiamo questa introduzione richiamando gli obiettivi di partenza, ma questa volta alla luce di questo atteggiamento filosofico più
consono alla delineazione di un percorso etico che cerca, attraverso le
nozioni di potere e riconoscimento, delle modalità teorico-pratiche
capaci di dare indicazioni sulla realizzazione etica di se stessi e sulla
costruzione di una comunità umana pacificata. Possiamo subito dire
che queste indicazioni, come la ricoueriana filosofia del riconoscimento, recano in se stesse i limiti di un’esistenza umana fragile e vulnerabi-
12
Parcours de la reconnaissance, cit., p. 91; trad. it. cit., p. 68.
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le, di un’esistenza umana che solo con una grande fatica può farsi
strada verso una sempre più elevata e sincera presa di consapevolezza
di se stessa e del proprio essere al mondo.
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CAPITOLO I
RICONOSCIMENTO DI SÉ E PROSPETTIVA ETICA
«Per l’uomo che “agisce e soffre”,
prima di arrivare sino al riconoscimento
di ciò che egli è in verità, ossia un uomo
“capace” di certe realizzazioni,
il cammino è lungo…»
(P. Ricoeur, Parcours de la reconnaissance)
1. Dall’«io» al «sé»
Nella riflessione filosofica di Ricoeur, la distinzione tra «io» e «sé» è di
fondamentale importanza, tanto da segnare l’intero arco del suo percorso filosofico. All’«io» fanno capo le filosofie di un soggetto che
trova in se stesso il suo senso e quello del mondo; sul «sé», invece,
prende vita una filosofia riflessiva che coglie il senso sempre indirettamente. Secondo quest’ottica, il superamento dei limiti della filosofia
fenomenologica di Husserl mediante l’innesto dell’ermeneutica sulla
fenomenologia, va letto nella direzione di un soggetto che non rimane
chiuso nella sua coscienza13, ma che coglie se stesso attraverso la mediazione del suo altro riconosciuto sotto diverse figure e significati.
13 La fenomenologia husserliana non ha saputo vedere fino in fondo
l’indicazione contenuta nella scoperta del carattere universale della intenzionalità, «e cioè che la coscienza ha il suo senso fuori di sé. La teoria idealista
della costituzione del senso nella coscienza è approdata così all’ipostasi della
soggettività» (P. Ricoeur, Du texte à l’action. Essais d’herméneutique II, Seuil, Paris
1986, p. 59; trad. it. di G. Grampa, Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, Jaca
Book 1989, p. 50).
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Quello ricoeuriano, è un cammino fenomenologico-ermeneutico
che ha una immediata incidenza sulla sfera etico-esistenziale
dell’uomo. Si tratta infatti di un percorso che, nell’avere come fine la
riappropriazione di se stessi, del proprio desiderio di esistere e del
proprio sforzo di essere, si salda con la prospettiva etica, definita da
Ricoeur come «la prospettiva della “vita buona” con e per l’altro all’interno di
istituzioni giuste»14. La realizzazione etica non si pone sul piano individuale, ma in un contesto intersoggettivo, infatti, ha luogo attraverso
molteplici relazioni con l’altro. L’altro, considerato nelle sue diverse
figure, costituisce per il «sé» una sfida, rappresenta un momento di
crescita ma anche una suprema minaccia. Il riconoscimento e il misconoscimento dell’altro sono i momenti polari di una lotta che
l’uomo conduce in sé e fuori di sé. Rimanendo ancorato a se stesso
come un «io», l’uomo si preclude la possibilità di aprirsi e di riconoscere l’altro; inoltre, ignora che l’altro è costitutivo della sua ipseità, così
da sbarrarsi la strada che conduce alla comprensione-riconoscimento
di sé, dei propri poteri e non-poteri.
Tutto il discorso ricoeuriano sulle capacità-poteri dell’uomo e sul riconoscimento, si situa e si nutre delle tensioni tra l’io e il sé e tra il sé e
l’altro. Quest’ultima tensione dialettica presuppone la prima poiché
senza il passaggio dall’io al sé non è possibile l’apertura-riconoscimento dell’altro. La differenza tra «io» e «sé» risulta evidente già prendendo
in considerazione la grammatica del linguaggio naturale. Il francese
«Soi», come l’italiano «sé», designa un pronome riflessivo della terza
persona. Ricoeur osserva che nel «si» dei verbi riflessivi all’infinito il
«sé», a livello potenziale, investe «tutti i pronomi personali» e anche
quelli «impersonali». Il «sé» è un pronome riflessivo, un «riflessivo onnipersonale» che si oppone all’«ego» chiuso in se stesso. L’«io», dal
punto di vista paradigmatico appartiene alla tavola dei pronomi e dal
punto di vista sintagmatico «designa ogni volta soltanto una persona
ad esclusione di ogni altra, quella che parla qui e ora»15. L’«io» equivale
ad un medesimo autofondante; il «sé» comporta un movimento riflessivo. Secondo quest’ottica, la differenza tra «io» e «sé» richiama da vicino quella esistente tra una filosofia dell’immediato, quella di un sog«Appelons “visée éthique” la visée de la “vie bonne” avec et pour autrui dans des
institutions justes» (P. Ricoeur, Soi-même comme un autre, cit., p. 202; trad. it. cit., p.
266).
15 Soi-même comme un autre, p. 65; trad. it. p. 129.
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getto-idem che si erge come trasparente a se stesso e padrone del senso, ed una filosofia riflessiva, la quale si svolge attraverso la via lunga
dell’interpretazione dei simboli, dei testi, dei linguaggi delle diverse
culture. C’è quindi uno scarto tra l’ermeneutica del sé e le filosofie del
Cogito caratterizzate dall’immediatezza dell’io sono. «Dire sé non significa
dire io. L’io si pone o è deposto. Il sé è implicato come riflessivo in
quelle operazioni la cui analisi precede il ritorno verso esso stesso»16.
Un soggetto-ipse considera e comprende se stesso sempre indirettamente; il suo è un guardare attraverso l’altro da sé. Ma, a tal fine, occorre che il soggetto abbia intrapreso il difficile lavoro di «spossessamento di sé». Questo vuol dire che l’apertura all’altro necessita di una
progressiva, anche se dolorosa, eliminazione dello spadroneggiare dell’io.
Occorre lavorare sul proprio narcisismo, il quale, attraverso astute
strategie, ci fa vedere l’altro come un alter ego, come una replica di se
stessi. Senza il lavoro sul proprio narcisismo, l’altro diviene il prodotto
delle proiezioni psicologiche dell’io, oppure viene abbassato a suo
semplice strumento. Questo lavoro non deve però comunque provocare la mortificazione del sé, la sua frantumazione, il suo misconoscimento, ma condurre ad una equilibrata stima di sé, senza la quale, ancora
una volta, non può esserci riconoscimento dell’altro.
L’impostazione etica di Ricoeur si avvale delle critiche nietzschiane
e freudiane alla falsa coscienza, ed è poi legata al problema del «divenir
cosciente» (Bewusstwerden) poiché, oltre all’umiliazione dell’io narcisista,
necessita del lavoro di appropriazione del senso dell’esistenza. In virtù
di tale appropriazione è possibile capire come e in che cosa consiste la
vita buona.
All’operazione di spossessamento deve seguire il movimento di
«riappropriazione di sé»17. Quest’ultimo è possibile solamente attraverIvi, p. 30; trad. it. p. 94.
La psicoanalisi freudiana consente di mettere a nudo la falsa coscienza e di
cogliere la forza del dèsir, ossia il desiderio di essere che pone l’uomo
nell’esistenza. Si tratta di un percorso archeologico che chiede di essere contrapposto in maniera dialettica al percorso teleologico. Infatti, con la sola archeologia del soggetto non si capisce come l’uomo diviene adulto, quali sono
le figure e i simboli indispensabili al «divenir coscienti». È assumendo anche il
percorso inverso, quello teleologico, che il «divenir cosciente» si concretizza
pienamente. Ricoeur assume la Fenomenologia dello spirito di Hegel come modello di ermeneutica teleologica; essa «contiene il modello di ogni teleologia della
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so la via lunga che passa attraverso l’interpretazione delle molteplici e
variegate forme dell’altro. Ciò significa che il soggetto può arrivare a
riappropriarsi di se stesso solamente riconoscendo e lasciandosi istruire dal suo altro. Un sé che si inoltra in questo viaggio, è un sé che si
riappropria del proprio sforzo di esistere e del suo desiderio di essere,
è un sé che prende consapevolezza di ciò che lo precede e lo pone in
essere, è un sé che conosce e comprende se stesso come agente e sofferente, come ente capace e, al tempo stesso, passivo dell’alterità, è un
sé che è divenuto consapevole delle implicazioni teorico-pratiche derivanti dalle relazioni intrasoggettive ed intersoggettive.
Da quanto detto risulta che per Ricoeur il «sé» è un compito che si
realizza attraverso il divenire cosciente dei poteri più propri e, al tempo stesso, dei propri non-poteri. La sottovalutazione, come anche la
sopravvalutazione di sé, sono entrambi da superare sul piano del proprio riconoscimento. Ciò costituisce un tratto fondamentale della via
etica che assume il nome di «stima di sé». A questa è possibile giungere
solamente in relazione all’altro da sé, ossia attraverso le esperienze maturate a livello intersoggettivo. Il riconoscimento di sé è legato all’attestazione delle proprie capacità-incapacità, dei propri poteri-non poteri.
In virtù della vicinanza semantica tra la nozione di riconoscimento e la
nozione di attestazione, è possibile aprire un ventaglio di capacità di
cui l’uomo ha certezza e fiducia di poter esercitare, è possibile fare
emergere le diverse figure dell’io posso. Potere e riconoscimento, a livello individuale, si pongono in stretta relazione nel contesto teleologico
del «divenir-coscienti». Riconoscersi risulta fondamentale per la crescita personale dell’uomo, il quale, senza conoscere le sue capacità, i suoi
poteri più propri, non sarà in grado di capire come e cosa potrà fare
coscienza». Lungi dal costituire un opposto irriducibile, l’archeologia del soggetto si comprende pienamente alla luce del suo rapporto dialettico con una
teleologia. Come in quest’ultima è presente un movimento archeologico, così
in questo prende vita una apertura teleologica. Su questo punto cfr. De
l’interprétation. Essai sur Freud, Seuil, Paris 1965, p. 446; trad. it. di E. Renzi Della interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano 2003, pp. 505-506. Su
Ricoeur e la psicoanalisi cfr. D. Jervolino–G. Martini, a cura, Paul Ricoeur e la
psicoanalisi. Testi scelti, Franco Angeli, Milano 2007. Questo testo, oltre ai saggi
di L. Aversa, D. Jervolino, G. Martini, contiene alcuni scritti di Ricoeur concernenti la psicoanalisi.
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nel mondo, la sua iniziativa risulterebbe bloccata, la sua fiducia nei
mezzi di cui dispone sarebbe debole se non totalmente assente.
2. Soggetto esaltato e soggetto umiliato
Cartesio e Nietzsche sono i due poli opposti che Ricoeur considera
per mettere da un lato in evidenza un soggetto chiuso in se stesso e,
dall’altro, provocare la crisi di questa posizione facendone emergere
l’illusorietà e l’infondatezza. Superando ogni tentazione distruttiva nei
riguardi del soggetto, il suo fine è quello di intraprendere un cammino
che conduca ad una equilibrata considerazione del sé. Nella prospettiva cartesiana si è in presenza di un io narcisista circoscritto nella sua
autotrasparente certezza. In fondo, vi è solamente un io che continua
ad ingannarsi poiché non coglie che il piano della riflessione e della
ragione è solamente lo strato ultimo e più superficiale della vita psichica dell’uomo. Il polo-Nietzsche manda in frantumi la certezza del cogito
cartesiano mostrando che quella di un unico io è solamente una falsa e
pericolosa certezza. Ricoeur afferma che Nietzsche è molto più abile
nel dubitare di Cartesio perché, non cadendo nella trappola metafisica,
consistente nella ricerca della prima certezza-autoevidenza, mette in
luce che anche questa è il risultato di un complesso gioco di pulsioni
che si svolge alle spalle della vita consapevole. Chi dice io? A questa
domanda Cartesio risponderebbe «Io soggetto pensante», senza accorgersi di rispondere in maniera tautologica, aprendo così la strada ad un
Io come assoluta realtà comprendente contenuto e forma del conoscere e identifincantesi con la realtà intera. Siamo così giunti, con un sol
balzo, al primo principio della Dottrina della scienza di Fichte che è la
diretta e massima conseguenza dell’impostazione narcisistica del cogito
cartesiano.
Per Nietzsche, a fondamento dell’uomo, non c’è alcuna natura sostanziale. L’uomo appella se stesso «io» senza avvertire che ogni volta
che lo fa è un io diverso. Questo perché a livello inconscio è mutata la
dinamica pulsionale. Una lotta di pulsioni e contro pulsioni determina
l’uomo a pensare, credere, scegliere secondo certe direzioni. Nel credere di essere padrone dei proprio atti egli si illude in quanto ignora i
moventi effettivi che si celano alle spalle della sua coscienza. Il soggetto è una molteplicità. Si potrebbe obiettare che anche questa, come
quella del cogito cartesiano, costituisca una posizione dogmatica. Ri23
coeur fa notare che non lo è poiché l’idea di «soggetto come molteplicità» costituisce per Nietzsche una ipotesi di lavoro assunta per mettere allo scoperto le motivazioni e le dinamiche di diverso ordine (psicologico, grammaticale, edonistico…) che si nascondono nelle radicate
convinzioni espresse nella storia del pensiero occidentale. L’idea di
soggetto come pluralità di forze, pulsioni, desideri, ecc., esprime anche
e soprattutto l’impossibilità di guardare a se stessi nella propria autotrasparenza e certezza. In tal senso, Nietzsche «saggia questa idea; egli
gioca, in qualche modo, con l’idea di molteplicità di soggetti in lotta
fra di loro come altrettante “cellule” che si ribellano contro l’istanza
direttiva»18. Ricoeur, memore di questo insegnamento, imposterà
l’indagine sul sé riconoscendone l’imprescindibile carattere contingente, condizionato, limitato, precario, frammentario e privo di ogni base
certa da cui muovere. Si tratta, per lui, di impostare di nuovo il discorso sul soggetto al di là di ogni prospettiva ontologica incentrata sulla
natura-identità intesa come sostanza, come sostrato immutabile, ma
anche al di là della prospettiva nichilistica che dissolve il soggetto in
un flusso di stati psichici. La prospettiva ricoeuriana si pone come
obiettivo quello di scalzare il soggetto da ogni posizione narcisistica e
di aprirlo ad esperienze di se stesso realizzate attraverso l’altro da sé. Il
riconoscimento-attestazione porta alla consapevolezza il processo delle capacità-poteri che di volta in volta vengono a costituirsi proprio
mediante complesse ed intricate esperienze realizzate attraverso
l’altro19. Dal punto di vista ricoeuriano, l’idea di molteplicità dei soggetti può essere superata attraverso un viatico etico-esistenziale in grado di condurre alla formazione del «sé».
Il «sé» costituisce una meta poiché esprime la consapevolezza e, insieme, la realizzazione, di un soggetto come identità ipse che non è una
natura sostanziale ma dinamica, che si fa e disfa in continuazione. Vedremo che per Ricoeur, l’identità idem, quella di natura fisica e biologica, costituisce una medesimezza che non esaurisce l’identità umana.
L’identità idem si pone in relazione dialettica con l’identità-ipse, la quale
si colloca sul piano etico e ha a che fare con il mantenimento della parola data. È su questo versante che l’uomo può costruire la propria
Soi-même comme un autre, p. 27; trad. it. p. 91.
Sulla tematica del «divenire capaci» svolta in relazione con quella
dell’«essere riconosciuti», Ricoeur ha insistito in uno degli ultimi saggi, pubblicato postumo, intitolato: Devenir capable, être reconnu, «Esprit», 2005, n. 7.
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identità. Se come identità idem l’uomo non può mutare se stesso perché dal punto di vista fisico, biologico e caratteriale si trova determinato, è sul fronte dell’identità ipse che può divenire quello che vuole essere. In altri termini, se è vero che l’identità intesa come «medesimezza»
costituisce la dimensione involontoraria dell’uomo, qualcosa che egli si
ritrova e poco o nulla può fare per modificarla, è altresì vero che egli
può lavorare sulla sua identità-ipse mediante un percorso etico teso alla
realizzazione della vita buona.
L’identità come ipseità si situa nel contesto del divenire ciò che si è
capaci di essere. Qui il margine accordato da Ricoeur alla trasformazione di se stessi è molto ampio e richiama da vicino la capacità di
ogni uomo di prendere possesso di se stesso e di realizzare la propria
vita buona «con e per l’altro all’interno di istituzioni giuste». Da questa
formula è facile evincere che la realizzazione etica non può essere costruita in solitudine facendo affidamento solamente ai propri poteri,
ma necessita della partecipazione e riconoscimento dell’altro e di condizioni socio-politiche idonee, favorevoli. A tale proposito si vedrà
quanto risulti fondamentale vivere in una comunità civile fondata sul
riconoscimento dei diritti e delle libertà al fine della realizzazione personale – l’idea di vita che si è scelti di perseguire – e di condizioni di
vita dignitose. Una forma di misconoscimento dell’altro è data proprio
dall’impedire o distruggere l’idea di vita che un individuo persegue nella sua esistenza. Oltre a questo aspetto, cercheremo di fare emergere
che lo stesso sé, nella tensione di realizzare la sua vita buna, dà un suo
contributo alla costruzione di una comunità civile dal volto umano che
fa della pace un valore irrinunciabile.
3. L’antropologia dell’uomo agente e sofferente
La problematica concernente il sé, al centro di Sé come un altro, si snoda
attraverso diverse forme di discorso, ciascuna delle quali è all’insegna
di una certa modalità di domandare chi? Per Ricoeur il linguaggio costituisce un «mezzo di mediazione totale». Mezzo di mediazione tra uomo e uomo, tra uomo e realtà, tra l’uomo e se stesso. È sempre nel
linguaggio che viene ad esprimersi ogni comprensione ontica o ontologica. Per quanto concerne la comprensione di sé, a questa si può
giungere passando per le diverse modalità di discorso rispondenti ai
diversi modi di chiedere chi? Sempre attraverso il linguaggio è possibile
25
portare alla coscienza l’alterità che abita e costituisce il sé. È a livello
linguistico che l’uomo si relaziona con se stesso nel contesto del suo
foro interiore, quello della coscienza, dal quale gli proviene
l’ingiunzione a vivere bene.
Molteplici sono i modi di chiedere chi?: «chi parla?», «chi agisce?»,
«chi si racconta?», «chi è il soggetto morale d’imputazione?». Tutte
queste domande trovano la loro risposta nell’homme capable: di dire, di
fare, di raccontare e raccontarsi, di essere responsabile delle proprie
azioni. Alla luce delle ultime opere, come La mémoire, l’histoire, l’oubli
(2000)20 e Percours de la reconnaissance (2004), in cui troviamo dispiegata
una fenomenologia dell’uomo capace, Ricoeur ritorna sulla problematica dell’identità e pone in primo piano altre capacità, come quelle di
ricordare, di dimenticare, di promettere, di perdonare, di donare e di
ricevere. Ma l’uomo non è solo quell’ente che agisce, è anche un ente
che patisce, allora ogni capacità ha come suo corrispettivo una passività, ad ogni potere si oppone un non potere. Nella condizione di essere
capace l’uomo è attivo, viceversa, nella condizione di incapacità egli è
passivo; ciò è dovuto ai propri limiti e all’azione esercitata dall’altro. È
qui possibile trovare un forte aggancio all’antropologia di Spinoza poiché, anche per Ricoeur, la comprensione di quanto accade in sé e fuori
di sé risulta essere molto importante per incrementare il proprio potere-capacità. Egli trova nell’Etica spinoziana l’idea di vita come potenza.
Qui potenza, afferma il filosofo francese, non significa semplice potenzialità – come «poter essere» – ma «produttività». Si tratta di una
«potenzialità» che stabilisce una tensione con l’«effettività», con il
«compimento». Potenzialità ed effettività sono dei gradi della potenza
di esistere. Su questo piano concettuale egli riprende la definizione di
conatus dalla sesta proposizione della terza parte dell’Etica che recita:
«Ogni cosa, per quanto è in essa, si sforza di perseverare nel suo essere». Tale conatus, «sforzo», per Spinoza costituisce l’essenza stessa di
ogni cosa (essentia actuosa). Il conatus è la stessa potenza di agire dell’uomo. Esso viene incrementato attraverso la conoscenza di secondo
e di terzo genere, ossia mediante idee vere e adeguate. La conoscenza
adeguata e vera comporta l’essere attivi e, quindi, un progressivo aumento della potenza di agire; le idee inadeguate determinano una vita
schiava delle passioni e, quindi, un decremento della propria potenza,
20 P. Ricoeur, La mémoire, l’histoire, l’oubli, Seuil, Paris 2000; trad. it. di D. Iannotta, La memoria, la storia, l’oblio, Raffaello Cortina, Milano 2003.
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del proprio sforzo di esistere. Nel corso del nostro lavoro avremo occasione di fare emergere che, secondo l’impostazione ricoeuriana, questa comprensione passa attraverso l’attestazione-riconoscimento di sé
e dell’altro.
È nel contesto di un sapere come attestazione che, in Sé come un altro, Ricoeur mette in rilievo un sé come agente e sofferente, un sé che
agisce e patisce e che ritrova in se stesso e fuori di sé una alterità che
lo costituisce. Una volta superata la prospettiva filosofica di un soggetto trasparente a se stesso, narcisista, padrone del senso, e dopo aver
preso atto dei pericoli insiti nell’abbracciare la posizione opposta,
quella di matrice nietzschiana che umilia e manda in frantumi il soggetto, Ricoeur, attraverso un pensare che congiunge analisi e riflessione, delinea in maniera progressiva un sapere come attestazione o «certezza morale». L’attestazione «si presenta innanzitutto come una sorta
di credenza. Ma non si tratta di una credenza dossica, nel senso in cui
la dòxa-l’opinione-possiede meno titoli di validità rispetto alla epistéme –
la scienza, o meglio il sapere. Laddove la credenza dossica si iscrive
nella grammatica dell’“io credo-che”, l’attestazione scaturisce da quella
dell’“io credo-in”»21. L’attestazione è legata alla fiducia che è, afferma
Ricoeur, una specie di confidenza («Fiducia è anche fidanza»), la quale costituisce uno dei principali fili conduttori dell’analisi ricoeuriana del sé.
A tale proposito, richiamando le principali tappe di Sé come un altro, Ricoeur afferma che «Questa confidenza sarà, volta a volta, confidenza
nel potere di dire, nel potere di fare, nel potere di riconoscersi quale
personaggio di racconto, infine nel potere di rispondere all’accusa con
l’accusativo: “eccomi!”». In ultima analisi, il sapere come attestazione
può definirsi «come la sicurezza di esser se stessi agenti e sofferenti»22. Dell’attestazione è propria la fragilità e vulnerabilità; essa, proprio per
mancanza di fondazione ultima, è continuamente esposta al sospetto.
Con il sospetto l’attestazione è condotta ad un confronto con il cogito
umiliato. L’attestazione è legata alla testimonianza e di fronte ad una
falsa testimonianza se ne ricerca una più credibile: contro il sospetto si
cerca una testimonianza più affidabile. L’attestazione di un uomo capace (di dire, di agire, di raccontare, di rispondere dei propri atti) fa
emergere una dimensione che precede ogni discorso, poiché «La capacità precede l’attestazione ed in questo senso è di livello ontologico;
21
22
Soi-même comme un autre, cit., pp. 33; trad. it. p. 98.
Ivi, p. 35; trad. it. p. 99.
27
proprio essa viene postulata dall’attestazione come suo referente»23. In
un colloquio del 9 novembre del 1994, Ricoeur afferma: la nozione di
«uomo capace» «è il concetto fondamentale della mia antropologia
[…] Così, retrospettivamente, posso dire che in tutti i miei studi sul
male e sulla colpevolezza, ciò che mi appariva minacciato e colpito
nell’uomo era proprio questa capacità fondamentale… È dunque questa «capacità» fragile, sempre minacciata ed esposta alla sofferenza […] il concetto fondamentale della mia antropologia»24. Da questo punto di vista, l’opera Parcours de la reconnaissance non farà che dare fondo alla nozione di uomo
capace alla luce del concetto del riconoscimento.
Per Ricoeur, il sapere come attestazione è in grado di condurre il discorso sul piano della fondazione; in questo senso esso si pone in servizio del percorso fenomenologico-ermeneutico caratterizzante
l’indagine sul sé. In Parcours de la reconnaissance, Ricoeur afferma che tra
l’attestazione e il riconoscimento di sé esiste una stretta parentela semantica. Pur appartenendo e conservando i loro rispettivi campi semantici, nell’esprimere la certezza delle asserzioni introdotte dal verbo
modale «io posso», attestazione e riconoscimento entrano in intima
relazione. Può accadere che un uomo, nel corso della propria esistenza, non giunga ad un adeguato riconoscimento di sé, che si attesti poteri che non possiede o che, viceversa, non si riconosca quelli che effettivamente gli sono propri. Siamo qui di fronte ad una situazione di
misconoscimento di sé che può facilmente condurre al disprezzo di se
stessi e degli altri. Se è vero che, come dice Pascal, «L’essenza
dell’errore consiste nel fatto che non lo conosciamo», è anche vero
che chi erra-disprezza – Ricoeur sottolinea che in francese il termine
«disprezzo», mépris, ha una vicinanza lessicale con il termine «errore»,
méprise25 – può lavorare al fine di giungere alla consapevolezza del fatto
P. Ricoeur, Per una ontologia indiretta: l’essere, il vero, il giusto (e/o il buono),
«Aquinas», III, 1995, pp. 483-499; la citazione si riferisce alla p. 494.
24 P. Ricoeur, Ermeneutica del sé e filosofia dell’attestazione, Colloquio a cura di M.
Minelli, «Humanitas» 1996, pp. 956-966. La citazione si riferisce alla p. 958.
25 La lingua francese «permet de placet le terme “mépris” dans un saisissant
voisinage lexical avec la méprise, figure de la méconnaissance dans le primière
étude. De la méprise au mépris, pourrait-on lire» (Cfr. Parcours de la reconnaissance, p. 371; trad. it. p. 286). È interessante osservare il passaggio dal piano
epistemologico, dove si ha l’errore, a quello etico, nel quale all’errore si sostituisce il disprezzo.
23
28
di errare (disprezzare), può sempre più divenire capace di attestarericonoscere che sta errando-disprezzando se stesso o l’altro, o entrambi. Il riconoscimento-attestazione dei propri errori di valutazione
e di giudizio fa capo ad un altro potere-capacità. È difficile dire se
questo appartenga al piano dell’involontario, al carattere, all’indole, o
se sia qualcosa che può essere acquisito mediante la messa in discussione di se stessi, ossia affrontando quel narcisismo che spinge, in maniera puntuale, all’autogiustificazione. Stando ai testi ricoeuriani, non
abbiamo trovato una risposta a tale riguardo. Ma essi contengono un
numero molto abbondante di problematiche che si prestano o che attendono di essere ulteriormente sviluppate – e questo è un requisito
fondamentale di un testo per meritare di continuare ad essere letto ed
interpretato – pertanto cercheremo di dare una nostra personale risposta, con l’intento di non mettere in bocca a Ricoeur ciò che egli non ha
mai detto e che forse non ha nemmeno condiviso.
Ma veniamo al dettato ricoeuriano di Sé come un altro, cercando di
chiarire cosa può svelare il sapere come attestazione di sé. Sul fronte
dell’agire, l’attestazione rivela un «fondo di essere, ad un tempo potente ed
effettivo, sul quale si staglia l’agire umano» («un fond d’être, à la fois puissant
et effectif, sur le quel se détache l’agir humain»)»26. L’agire umano, come
modo d’essere fondamentale, viene visto, nel contesto dell’esplorazione
ontologica ricoeuriana, alla luce della reinterpretazione di alcuni concetti della tradizione del pensiero occidentale, come dýnamis-enérgeia
(Aristotele), conatus (Spinoza), appetitus (Leibniz), Potenzen (Schelling),
Wille zur Macht (Nietzsche), libido (Freud). Da questa prospettiva
emerge una ontologia dell’atto che restituisce una concezione del sé in
termini di azione, tensione, sforzo, potenzialità produttiva e non in
termini di fissità, immutabilità, impermanenza di una identità sostanziale. Mediante il sapere come attestazione la fenomenologia
dell’uomo capace, trova un radicamento ontologico. L’insieme dei poteri dell’uomo sono, di volta in volta, l’estrinsecazione di un «fondo di
essere, effettivo e potente». Le diverse forme di agire dell’uomo trovano in questo fondo il comune denominatore.
26
Soi-même comme un autre, cit., p. 357; trad. it. p. 421.
29
4. Fenomenologia dell’uomo capace
La fenomenologia ermeneutica dell’uomo capace (homme capable),
dell’io posso (je peux) nelle sue diverse accezioni (poter dire, poter fare,
poter raccontare e raccontarsi, poter rispondere all’accusa, poter promettere) sono, accomunate dal fatto di emergere tutte da un fondo di
essere «puissant et effectif».
Il poter dire («pouvoir dire») consiste nella capacità specifica di produrre spontaneamente un discorso sensato. Nel discorso qualcuno dice qualcosa ad un altro o ad altri secondo regole comuni. Il discorso
può essere definito come «intenzione di dire qualcosa su qualcosa a
qualcuno». Dire qualcosa è il senso; su qualcosa, è la referenza extralinguistica; a qualcuno, è il destinatario, base della conversazione. Il
poter agire («pouvoir agir») è la capacità di produrre degli avvenimenti
nella società e nel mondo. In tal senso, l’agire umano introduce la contingenza umana, l’incertezza e l’imprevedibile nel corso delle cose e
degli accadimenti. Il poter raccontare («pouvoir raconter») consiste nella
capacità di intrecciare a livello temporale una storia di avvenimenti riguardanti l’agire e il patire degli uomini. Attraverso il racconto del
proprio agire e soffrire, l’uomo costruisce la storia della sua vita, costruisce se stesso come una identità narrativa, conferisce alla propria
vita una unità narrativa.
Il potere di rispondere all’accusa, l’imputabilità (imputabilité), è una
capacità morale. Ricoeur definisce l’imputabilità come «l’ascrizione
dell’azione al suo agente, sotto la condizione dei predicati etici e morali che
qualificano l’azione come buona, giusta, conforme al dovere, fatta per
dovere, e in definitiva come la più saggia nei casi di situazioni conflittuali»27. L’imputabilità si riferisce a ciò che può essere messo sul conto
di una certa persona, è il poter imputare a se stessi l’origine dei propri
atti. Essa si lega alla capacità di un essere umano di rispondere all’accusa, di essere responsabili delle proprie azioni e delle conseguenze
da esse provocate anche a lungo termine. «Con l’imputabilità la nozione di soggetto capace raggiunge perciò il suo più alto significato, e la
forma di autodesignazione da essa implicata include e in certo modo
ricapitola le forme precedenti di sui-riferimento (sui-réferénce)»28.
27
28
Soi-même comme un autre, p. 338; trad. it. p. 402.
Cfr. Parcours de la reconnaissance, p. 158; trad. it. p. 123.
30
Il poter promettere presuppone gli altri poteri, in un certo senso li
include riassumendo il poter dire, il poter agire sul mondo, il poter
raccontare e raccontarsi e il poter imputare a se stessi i propri atti. Ma
al di là di questo, la promessa fa leva sull’atto mediante il quale il sé si
impegna effettivamente. Quello della promessa è un atto di discorso e
un atto morale. Ciò vuol dire che la promessa non si esaurisce in un
atto dichiarativo in quanto comporta il mantenere in futuro la parola
data: è a questo punto che si entra nella sfera etica della promessa.
Questi poteri-capacità, qui presentati in maniera sintetica, in seguito
saranno oggetto di analisi e riflessione. Ciò che su questo punto ci
preme precisare è che essi, con il porsi sul piano antropologico dell’uomo capace, rimandano e chiedono di essere considerati a livello
intersoggettivo secondo l’ottica della prospettiva etica del riconoscimento di sé, del riconoscimento dell’altro e del mutuo riconoscimento. Inoltre, devono essere visti anche secondo il loro aspetto negativo,
quello del misconoscimento.
5. Problema etico dell’identità e riconoscimento di sé
In Sé come un altro, viene esposto un itinerario che vede il sé condurre
al suo altro per poi far ritorno al sé, ad un sé non come idem, ma come
ipse, ossia ad un sé che ha preso consapevolezza di se stesso attraverso
il suo altro. Da questo punto di vista, l’altro costituisce il sé a livello
ontologico. Del resto, «Sé come un altro suggerisce fin dall’inizio che
l’ipseità del se stesso implica l’alterità ad un grado così intimo che
l’una non si lascia pensare senza l’altra, che l’una passa piuttosto
nell’altra, come diremmo in linguaggio hegeliano. Al “come” vorremmo annettere la significazione forte, legata non soltanto ad una comparazione – se stesso somigliante ad un altro-, ma ad una implicanza:
sé in quanto… altro (soi-même en tant que… autre)»29. In quest’opera,
l’etica trova un suo esplicito svolgimento nel contesto della dialettica
dell’idem e dell’ipse e risulta centrale in quello della dialettica del sé e
dell’altro. Nella prima dialettica è in evidenza il problema dell’identità30.
Soi-même comme un autre, cit., p. 14; trad. it. p. 78.
Se consideriamo le ultime opere ricoeuriane, il problema dell’identità è centrale non solo in Soi-même comme un autre, ma altresì in La mémoire, l’histoire,
l’oubli e in Parcours de la reconnaissance.
29
30
31
Questa viene dispiegata secondo due figure: una è l’idem, medesimezza, o samennes; l’altra è l’ipse, la ipseità, selfhood. La medesimezza è la
permanenza delle impronte digitali dell’uomo, del suo codice genetico,
inoltre, è ciò che a livello psicologico si manifesta come carattere (inteso come l’insieme delle note distintive che consentono di reidentificare un individuo umano come il medesimo): «il carattere assicura ad
un tempo l’identità numerica, l’identità qualitativa, la continuità ininterrotta nel cambiamento e, finalmente, la permanenza nel tempo, che
definiscono la medesimezza… Il carattere è veramente il che cosa del
chi»31. Al modello di permanenza dato dal carattere si oppone, non in
senso assoluto, l’identità di permanenza ipse, fondata sulla parola mantenuta. E qui si entra in un contesto etico. Tale mantenimento costituisce
una figura di identità polarmente opposta a quella del carattere: perseverare nella fedeltà alla parola data investe a pieno ed esclusivamente
la dimensione del chi. «Una cosa è la continuità del carattere; un’altra è
la costanza nell’amicizia […] il mantenimento della promessa…». La
promessa sembra «costituire in senso vero e proprio una sfida al tempo, un diniego di cambiamento: quand’anche il mio desiderio cambiasse, quand’anche io dovessi cambiare opinione, inclinazione, “manterrò”»32. Al tema della promessa, Ricoeur dedica un paragrafo di Parcours de la reconnaissance nel contesto della dialettica tra idem ed ipseità.
Egli afferma che mentre la memoria rinvia soprattutto alla medesimezza, la promessa fa capo all’ipseità. Nella promessa il rapporto con
l’altro è molto forte tanto da condurre al mutuo riconoscimento. La
tematica della promessa risulta allora preziosa sia per comprendere
l’identità-ipse – di cui la promessa costituisce l’archetipo – che per riconoscere se stessi. Inoltre, essa ci conduce su quel terreno etico che
consente all’uomo di costruire e realizzare il proprio «sé».
6. Promessa e riconoscimento di sé
Per promettere occorre esserne capaci: il poter promettere è uno dei
diversi poteri dell’uomo capace. Se da un lato esso presuppone altri
poteri, come il poter dire, il poter agire sul mondo, il poter raccontare
e raccontarsi e il poter imputare a se stessi i propri atti, dall’altro lato il
31
32
Soi-même comme un autre, p. 147; trad. it. p. 211.
Ivi, p. 148-149; trad. it. pp. 212-213.
32
poter promettere si distingue da tutti questi poteri in quanto esprime
una nuova idea di capacità: quella data dall’atto con il quale il sé si impegna effettivamente. Da un punto di vista linguistico, osserva Ricoeur, la promessa è un atto di discorso appartenente agli atti performativi, si esprime cioè con verbi che «fanno» ciò che dicono33. Dicendo «Io prometto» il locutore si impegna in un’azione futura, si impegna a fare ciò che promette. L’impegno è, innanzitutto, nei confronti
dell’allocutore: ci si impegna, ad esempio, a «fare» o a «dare» qualcosa
ritenuto buono per lui. In tal senso, la promessa, oltre ad avere un destinatario ha anche un beneficiario. Ma «cosa ci si può promettere?».
Stando all’analisi dell’atto illocutorio, osserva il filosofo francese, si
può promette di fare o di dare. Come afferma Nietzsche, «si possono
promette azioni, ma non sentimenti, perché questi sono involontari»34.
L’analisi linguistica, con il riferire la promessa ad un beneficiario,
comporta una riflessione morale. Con essa ci si chiede: da dove
l’enunciatore di una promessa trae la forza di impegnarsi? Da una
promessa più fondamentale: dalla promessa di mantenere la parola in
tutte le circostanze. Vi è quindi una «promessa prima della promessa»
che imprime ad ogni promessa la forza dell’impegno. Una promessa è
caratterizzata dalla propria affidabilità. È affidabile in base a chi promette, ossia in base all’affidabilità dell’enunciatore. Questi dà fiducia, è
affidabile, se ha tenuto e continua ad essere fedele alla «promessa prima di ogni promessa». La promessa costituisce un tratto indelebile
dell’ipseità. «Questa ipseità, a differenza della medesimezza tipica della
identità biologica e caratteriale di un individuo, consiste in una volontà
di costanza, di un mantenere il sé che suggella la storia di vita suscettibile di ritrovarsi alterata dalle circostanze e dalle vicissitudini del cuore»35. L’ipseità è quell’identità che emerge da un certo potere-di, essere
capace-di… mantenere se stessa nonostante ciò che nella vita può ca33 Su queste tematiche, si vedano le analisi del linguaggio ordinario di: J.-L.
Austin, How to Do Things with Words?, Oxford University Press, London 1962;
trad. it. di C. Villata, Come fare cose con le parole, Marietti, Genova 1987; J. Searle
Speech Acts, Cambridge University Press 1967; trad. it. di G.R. Cadorna, Atti di
discorso, Boringhieri, Torino 1992².
34 F. Nietzsche, Menschliches, Allzumenschliches. Ein Buch für freie Geister, trad. it.
di S. Giametta, Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi, in Opere, a cura di
G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964 sgg., vol. IV, t. 2, p. 61.
35 Parcours de la reconnaissance, p. 191; trad. it. p. 147.
33
pitare. Essa fa capo ad una capacità di mantenersi nella propria identità che, afferma Ricoeur, non può essere confusa con una testarda
ostinazione poiché «riveste la forma di una disposizione abituale, modesta e silenziosa, al rispetto della parola data. È ciò che in un rapporto di amicizia si chiama fedeltà»36.
Una promessa è credibile se chi la enuncia è credibile, ossia se dà
fiducia di mantenere un impegno. Come la promessa anche la testimonianza implica l’aspetto fiduciario. La testimonianza di colui che è
chiamato in tribunale a testimoniare, come anche la testimonianza documentaria del passato, per essere presa in considerazione deve dare
garanzie dal punto di vista della sua veridicità; essa ha come intenzione
perlocutoria di convincere l’allocutario facendo in modo che questi sia
sicuro di ciò che viene asserito dalla testimonianza. Da questo punto
di vista, la testimonianza asserisce la realtà fattuale dell’evento riportato (in quel luogo e in quel tempo è accaduto questo, in questo modo…); inoltre, la testimonianza comporta una sorta di certificazioneautenticazione della dichiarazione del testimone. Dichiarando ciò a cui
ha assistito, il testimone autodesigna se stesso di fronte a qualcuno. Vi
è qui una dimensione dialogale della testimonianza che «ne mette in
risalto la dimensione fiduciaria». Questa è una struttura comune tanto
alla testimonianza che alla promessa. Inoltre, entrambe possono essere
accomunate dalla menzogna: dire falsa testimonianza, tradire la parola
data.
Il poter infrangere la propria parola coincide con la «zona d’ombra»
della promessa. Certo che colui che non mantiene la parola data provoca nel destinatario e beneficiario della promessa moti di rabbia, di
riprovazione, d’indignazione. Ma, al di là di questi stati d’animo suscitati dal tradimento della parola data, occorre comprendere la fragilità
insita nel poter promettere. Qui, come in molti altri casi, torna utile a
Ricoeur utilizzare le armi della filosofia del sospetto di Nietzsche al
fine di smascherare «le segrete debolezze del poter promettere». In
principio della Seconda dissertazione della Genealogia della morale, il
pensatore di Röcken pone un interrogativo sul tema della promessa:
«Allevare un animale, cui sia consentito far promesse – non è forse precisamente questo il compito paradossale impostosi dalla natura per
quanto riguarda l’uomo? non è questo il vero e proprio problema
36
Ivi, p. 192; trad. it. p. 147
34
dell’uomo?»37. All’atto di promettere, continua Nietzsche, si contrappone una «forza agente in senso contrario, quella di dimenticare». In
questa problematica, Ricoeur sospetta che la costanza «del mantenere», base dell’atto di promettere, non sia altro che l’espressione di una
forza che si contrappone ad un’altra forza radicata nella vita, quella di
dimenticare. Il mantenimento della promessa si colloca nel contesto
della facoltà della memoria: si tratta infatti di ricordare la promessa fatta e di tutto ciò che essa comporta per il destinatario e beneficiario così da non dimenticare, da non lasciare cadere in oblio l’impegno preso.
Ma qui, osserva Ricoeur riprendendo Nietzsche, si potrebbe essere di
fronte ad una volontà ostinata, ad una «”memoria della volontà”, di
una volontà che continua “ancora a volere quel che si è voluto una
volta”. A dire il vero, non siamo qui alle prese con una fenomenologia
della memoria, ma con la fenomenologia della volontà nella sua forma
più ottusa e ostinata»38. Si tratta di una volontà di mantenere la parola
a tutti i costi. In tal senso, la promessa può essere espressione di una
volontà “testarda” che non ha niente a che fare con l’autentico mantenere il sé e che non prende vita dalla promessa della promessa. In
fondo, afferma Ricoeur citando Nietzsche: «non è forse la memoria
della volontà a rendere l’uomo “calcolabile, regolare, necessario”»?
Allevare un animale come l’uomo in grado di fare promesse, dal
punto di vista nietzschiano, ha come compito quello di rendere
l’uomo prevedibile, «uniforme, uguale tra gli uguali, coerente alla regola e di conseguenza calcolabile». Ricoeur mette in evidenza un altro
rischio, quello di un’ipseità vittima del narcisismo e della volontà di
potenza. Da questo punto di vista, la costanza del mantenere, da gloria
dell’ipseità può tramutarsi in qualcosa per essa nocivo e addirittura distruttivo; ciò può essere espresso nei termini di un preteso raggiungimento dominio di sé – e dell’altro – accompagnato al dominio del
senso39. Per non cadere in una vera e propria patologia del poter promettere, Ricoeur, in maniera molto umile e succinta, suggerisce qualF. Nietzsche, Genealogie der Moral; trad. it. di F. Masini, Genealogia della morale,
in Opere, cit., vol. VI, t. 2, p. 255.
38 Parcours de la reconnaissance, p. 196; trad. it. p. 150. Nietzsche parla della
«memoria della volontà» nel primo paragrafo della Seconda dissertazione della Genealogia della morale.
39 Si tratta di un dominio del senso che richiama da vicino il riconoscimentoidentificazione di qualcosa messo in atto dalla prospettiva epistemologica.
37
35
che rimedio. Innanzitutto, si tratta di non fare troppo affidamento sul
proprio potere, quindi «non promettere troppo», o come dice un adagio greco: «Niente di troppo!». Per porsi su questa via, l’uomo può
trovare utili consigli dalla sua stessa identità narrativa, ossia raccontando la propria vita, il proprio agire e soffrire nel tempo. In secondo
luogo, si tratta di separare il più possibile il «mantenere sé» dalla «volontà ostinata» a costo di essere molto indulgenti con se stessi e con gli
altri. Ma soprattutto occorre «invertire l’ordine di priorità tra colui che
promette e il suo beneficiario; prima viene l’altro, che conta su di me e
sulla fedeltà alla mia parola; poi io rispondo alla sua attesa»40.
La promessa, oltre a porsi sul piano individuale, si pone anche su
quello collettivo di intere culture ed epoche. Noi siamo gli eredi di una
serie di promesse del passato nelle quali culture e società hanno
proiettato desideri e ambizioni.
Molte promesse non sono state mantenute e io pure, afferma Ricoeur, «contribuisco ad aumentare il debito nei confronti di queste ultime»41.
7. Memoria e riconoscimento di sé
Con la promessa il riconoscimento di sé raggiunge un livello davvero
rilevante. Nel momento dell’effettuazione e nel conteso della dialettica
tra la medesimezza e l’ipseità, essa costituisce il tratto distintivo
dell’ipseità. Sempre nel contesto di questa dialettica, l’altra vetta del
riconoscimento di sé è data dalla memoria. Con essa l’accento principale cade sulla medesimezza, anche se nella memoria l’ipseità continua
ad essere presente. Come per la promessa, anche per la memoria esiste
un momento negativo: se per la prima si tratta della minaccia del tradimento, per la memoria si ha a che fare con il pericolo dell’oblio42.
Parcours de la reconnaissance, p. 197; trad. it. p. 151.
Ibid.
42 «È anzitutto come un attentato all’affidabilità della memoria che l’oblio è
avvertito. Un attentato, una debolezza, una lacuna. A questo riguardo, la
memoria si definisce essa stessa, almeno in prima istanza, come lotta contro
l’oblio […] Ma, allo stesso tempo, e con lo stesso gesto spontaneo, noi fuggiamo lo spettro di una memoria che non dimenticasse niente. Lo consideriamo persino mostruoso. Conserviamo fissa in mente la favola di Borges
40
41
36
Questi elementi negativi, il tradire e il dimenticare, sono comunque
parte del loro senso.
Il ricordo può essere inteso come una sorta di traccia lasciata dal
passato. La traccia viene distinta da Ricoeur in tre ordini: le tracce corticali, di cui trattano le scienze neuronali; le tracce psichiche delle impressioni esercitate dagli eventi (anche traumatici) sui nostri sensi e
sulla nostra affettività; le tracce documentarie conservate negli archivi.
Appartiene all’idea di traccia il poter essere cancellata. Come dire che
la minaccia dell’oblio è sempre incombente. L’oblio è il nemico della
memoria, «Sì, l’oblio è senz’altro il nemico della memoria, e la memoria è il tentativo disperato di strappare qualche frammento al grande
naufragio dell’oblio». Si capisce allora perché l’oblio accompagni ogni
fase della riflessione ricoeuriana sulla memoria. Occorre precisare che
l’oblio, al di là del suo aspetto negativo, può rivelarsi anche necessario
e, quindi, positivo: l’uomo per perdonare deve essere capace di oblio, di
dimenticare i torti subiti.
L’oblio può essere provocato dalla cancellazione delle tracce, in
questo caso esso segna l’impossibilità di recuperare qualche ricordo.
Ma, come mostra la psicoanalisi, vi sono casi in cui l’oblio non è definitivo ma solo apparente. È l’oblio operato dalla rimozione, è l’oblio
dovuto a qualcosa che non è affiorato alla coscienza in quanto è stato
rimosso, ricacciato nell’inconscio. Per portare alla coscienza il rimosso
occorre allora il «lavoro di rammemorazione», il quale incontra come
ostacolo le «resistenze della rimozione» che mantengono viva la «pulsione di ripetizione». La psicanalisi ripropone l’antica opposizione
anamnesis-lethe, reminiscenza-oblio.
Ora, come per la promessa, anche per la memoria si tratta di cogliere quella dimensione equivalente al riconoscimento di sé. Ad essa Ricoeur vi giunge procedendo attraverso una serie di analisi; ogni analisi
prende le mosse da una domanda specifica. La prima analisi muove
dalla domanda «cosa?»: «di che cosa mi ricordo?». La seconda dalla
domanda: «come?»: «in che modo il richiamo del ricordo assicura la
dinamica della rammemorazione?». In queste analisi, il pensatore francese prende in esame: 1. la distinzione tra mneme e anamnesis al centro
sull’uomo che non dimenticava nulla, nella figura di Funes el memorioso»
(P.Ricoeur, La mémoire, l’histoire, l’oubli, cit., p. 537).
37
del trattato di Aristotele intitolato De memoria et reminiscentia43; 2. la proposizione XVIII del Libro II dell’Etica di Spinoza; 3. le lezioni di Husserl raccolte sotto il titolo Per la fenomenologia della coscienza interna del
tempo e, il volume XXII della Husserliana44. Ma è solamente con l’analisi
(la terza) che prende vita dalla domanda «chi si ricorda?», che si compie quel passaggio che vede il riconoscimento del passato contribuire
al riconoscimento di sé. Questo passaggio è da Ricoeur realizzato ricorrendo al momento bergsoniano del riconoscimento.
Un primo avvicinamento verso il chi della memoria viene da Ricoeur individuato nei Libri X e XI delle Confessioni di Agostino45. Nel
X Libro, Agostino accorda alla memoria il grande potere di contenereconservare immagini sensibili, ricordi delle passioni, nozioni astratte,
esseri intelligibili, memoria di me stesso in quanto sento e agisco. Inoltre posso anche ricordare di aver ricordato. Agostino può così concludere che «la memoria è anch’essa spirito» (Confessioni, X, 14.21). Il potere della memoria è tale da ricordare anche ciò che, momentaneamente, avevo dimenticato. Posso ricordare «anche l’oblio stesso, affossatore di ogni nostro ricordo» (Ibid., X, 16-25). Nel Libro XI la sua confessione accorda all’interiorità della memoria la misura del tempo trascorso; è l’anima ad essere misura del tempo, è nell’anima che si dispiega la
dialettica tra distentio e intentio. Ai fini della trattazione ricoeuriana, la
tematica della memoria di Agostino risulta utile fino ad un certo punto. Infatti Agostino, pur trattando la memoria in connessione alla costituzione dello spirito umano e sul piano del riconoscimento di Dio
nella memoria stessa, non conduce la sua analisi in relazione al problema dell’identità umana. È con J. Locke (Saggio sull’intelletto umano46),
che è possibile compiere un passo in avanti verso questa direzione.
Aristotele, De memoria et reminiscentia; trad. it. di R. Laurenti, Della memoria e
della reminiscenza, in Aristotele, Opere, Laterza, Roma-Bari, 1983, vol. 4, pp.
237-253.
44 E. Husserl, Phantasie, Bildbewusstsein, Erinnerung. Zur Phänomenologie der anschaulichen Vergegenwärtigungen. Texte aus dem Nachlass (1898-1925), a cura di E.
Marbach (1980), in Husserliana, Gesammelte Werke, Kluwer, Dordrecht 1950,
vol. XXIII.
45 Agostino, Le confessioni; trad. it. di C. Carena, Einaudi, Torino 1966.
46 J. Locke, An Essay concerning Human Understanding (1690), P. H. Niditch, Oxford 1975; trad. it. a cura di N. Abbagnano, Saggi sull’intelletto umano, UTET,
Torino 1971.
43
38
Contrapponendo l’identità a diversità, egli afferma che l’identità è
quella cosa identica a se stessa, ciò nel senso che «è quella cosa e non
un’altra». Come dire che il sé è il medesimo di se stesso. Ma Locke
non si accorge della differenza tra idem ed ipse, così da schiacciare
l’identità sulla medesimezza.
Locke coglie l’identità nella permanenza della “coscienza” nel tempo. La coscienza è l’autentico sé della persona, è ciò che fa di una persona un self. Egli tratta la problematica della memoria nel contesto
dell’estensione temporale della riflessione: «E fin dove questa coscienza può essere estesa indietro a una qualsiasi azione o pensiero del passato, fin lì giunge l’identità di quella persona; si tratta dello stesso io
ora e allora ed è dallo stesso io – lo stesso di quello attuale che ora riflette su di esso – che quell’azione venne compiuta»47. A tale proposito, Ricoeur osserva che si viene così a stabilire l’equazione tra consciousness, self, memory. Dal suo punto di vista, la soluzione di Locke, che
pone l’identità come legata alla memoria, genera una gran quantità di
aporie sia di ordine psicologico concernenti i limiti, le intermittenze
(per esempio durante il sonno), i mancamenti della memoria, sia di ordine ontologico: invece di dire che la persona esiste per quel tanto che
possa ricordare, si potrebbe obiettare che la continuità della memoria
è dovuta all’esistenza continua di un’anima-sostanza. In tal senso, con
questa obiezione, si riaffaccia ciò che Locke ha cercato di spazzare via:
l’idea di sostanza. In Locke non c’è segno della dialettica tra idem e ipse,
tra medesimezza ed ipseità; la categoria di samennes domina la scena
dell’identità. Ricoeur procede oltre ponendo la medesimezza di riflessione e di memoria in relazione dialettica con la promessa, paradigma
di una ipseità che non può essere gabellata per medesimezza. Come
vedremo in seguito, è l’identità narrativa a instaurare un movimento
dialettico tra i due poli dell’identità.
Passiamo ora alle analisi e alle riflessioni ricoeuriane concernenti la
memoria e il riconoscimento di sé. A questo punto, si tratta di cogliere
l’equivalenza tra riconoscimento del ricordo e il riconoscimento di sé.
È il riferimento a Bergson a consentire di approdare a questo risultato.
In Materia e memoria48, Bergson pone una separazione tra la traccia psiJ. Locke, An Essay concerning Human Understanding, § 11, citazione ripresa da
P. Ricoeur, Parcours de la reconnaissance, p. 180; trad. it. p. 138.
48 H. Bergson, Matière et Mémoire. Essai sur la relation du corps à l’esprit, ora in
Oeuvres, édition du centenaire, Presses Universitaires de France, Paris 1959;
47
39
chica e la traccia corticale: la prima non trova una spiegazione nella
seconda poiché il cervello è organo di azione e non di rappresentazione. Seguendo questa direzione, Bergson considera la traccia psichica
come un problema a sé, autosufficiente. Il problema della traccia psichica potrà così essere formulato nell’idea di sopravvivenza delle immagini che sarà elaborata in relazione con il concetto di riconoscimento49. È la soluzione di un vecchio enigma della problematica della memoria a consentire, osserva Ricoeur, di comprendere il «piccolo miracolo del riconoscimento». Si tratta dell’enigma della «rappresentazione
presente di una cosa assente». Il riconoscimento è caratterizzato dalla
certezza che qualcosa o qualcuno sia effettivamente essa stessa o lei
stessa. Nell’atto di riconoscere ci esprimiamo con le esclamazioni : «È
proprio lei! È proprio lui!». La distinzione del passato e del presente si
dà nel riconoscimento stesso. È nel riconoscimento che gli eventi con
i loro contorni, i loro colori e con la loro collocazione nel tempo fanno ritorno. In tal senso, afferma Bergson, «l’atto concreto attraverso
cui riaffermiamo il passato nel presente, è il riconoscimento»50. Egli continua osservando che il nostro ricordo rimane attaccato al passato e se
non fosse uno stato presente e qualcosa che si contrappone al presente, «noi non lo riconosceremmo mai come ricordo»51. Si viene così a
riaffermare l’enigma della presenza e dell’assenza. Riconoscere un ricordo, secondo Ricoeur, significa ritrovarlo, e ritrovarlo significa presumerlo disponibile anche se ancora non accessibile. Il passato dura
nel presente, ma in esso rimane nascosto, latente.
Un aspetto precipuo dell’esperienza del riconoscimento è dato dal
fatto che essa rinvia ad uno stato di latenza del ricordo della prima
impressione, la cui immagine ha dovuto costituirsi contemporaneamente all’affezione originaria e come afferma Ricoeur: «costituisce il
paradosso più profondo della memoria. Il passato è “contemporaneo”
al presente che esso è stato. E quindi noi non percepiamo la sopravvitrad. it. di F. Sossi, Materia e memoria, Saggio sulla relazione tra il corpo e lo spirito,
in Opere 1889-1896, a cura di P.A. Rovatti, Mondadori, Milano 1986, pp. 141342.
49 Bergson ha studiato il fenomeno della memoria sul piano psicologico; è in
questo contesto che ritrova l’esperienza del riconoscimento, «piccolo miracolo della coscienza felice». Cfr. La mémoire, l’histoire, l’oubli, cit., p. 556.
50 H. Bergson, Materia e memoria, cit., p. 209.
51 Ivi, p. 245.
40
venza, bensì la presupponiamo e la crediamo; ed è, questo, il senso
della latenza e della incoscienza dei ricordi del passato che vengono
conservati. In ciò consiste la verità dell’anamnesis greca: cercare significa trovare e ritrovare significa riconoscere ciò che una volta – anteriormente – si è appreso»52. Certo è che, come ha mostrato Freud, ci
sono dei meccanismi di difesa che ci rendono incapaci di ricordare,
così da far cadere in oblio gli effettivi moventi che condizionano la
nostra vita consapevole. In certi casi si fa allora pressante la necessità
di lottare contro l’oblio, ossia contro i meccanismi di difesa, al fine di
riaprire la strada del passato verso il ricordo. In termini freudiani «la
lotta contro le resistenze non ha altro scopo che quello di riaprire il
cammino della memoria»53.
Secondo la forte espressione usata da Aristotele nel parlare della
anamnesi, «la memoria è del passato»54. Per Bergson, il passato è fondamentalmente indistruttibile. Di questa sua idea egli trova conferma
nelle verifiche empiriche dei discepoli di Freud. Il ricordo «si conserva
da sé»55, questa autoconservazione è – osserva Ricoeur – la durata
stessa. Il divenire non è da intendere come passaggio ma, alla luce della memoria, durata. «Un divenire che dura, ecco l’intuizione regina di Matière et mémoire»56.
Il ricordo costituisce per l’uomo la via d’accesso al riconoscimento
della storia della sua vita e, tramite questa, al riconoscimento di sé. Nel
ricordo inteso come «memoria meditante» un uomo tiene sotto il suo
sguardo i molteplici dettagli della propria storia passata ed è in questa
memoria meditante che «il riconoscimento delle immagine del passato
e il riconoscimento di sé si ritrovano a coincidere»57. Nel portare alla
memoria il proprio passato, l’uomo costruisce il racconto della sua vita
e nel narrare della «memoria meditante», egli si riconosce e si riappropria di se stesso.
Parcours de la reconnaissance, p. 186; trad. it. p. 143.
P. Ricoeur, La questione della prova negli scritti psicoanalitici di Freud (1977), saggio incluso in Studi freudiani, a cura di D. Megnaghi, Guerini, Milano 1989, pp.
115-146, la cit. si riferisce alla p. 122.
54 Parcours de la reconnaissance, p. 186; trad. it. p. 143.
55 H. Bergson, La Pensée et le mouvant. Essais et conférences (1934), Œuvres, cit.,
trad. it. di F. Sforza, Pensiero e movimento, Bonpiani, Milano 2000, p. 66.
56 La mémoire, l’histoire, l’oubli, cit., p. 564.
57 Parcours de la reconnaissance, p. 187; trad. it. p. 144.
52
53
41
8. Poter raccontare e raccontarsi: l’identità costruita attraverso il racconto
La dialettica dell’ipseità e della medesimezza è alla base della costituzione dell’identità narrativa. Riprendendo in mano alcuni momenti
teorici della trilogia di Tempo e racconto58, come quello dato dal concetto
di mythos, intreccio (totalità concordante o discordante), in Sé come un altro
Ricoeur sostiene che «l’identità del personaggio si comprende attraverso una trasposizione su di lui della operazione di costruzione
dell’intreccio, applicata in primo luogo all’azione raccontata; il personaggio, diremmo, è esso stesso costruito nell’intreccio»59. Egli definisce la costruzione dell’intreccio come sintesi tra un gran numero di
avvenimenti e l’unità temporale della storia raccontata. L’intreccio
mette insieme elementi eterogenei: agenti, pazienti, relazioni di conflitto o di collaborazione tra gli attori, casi fortuiti o cercati, incontri casuali o voluti. Con l’unificare tutti questi elementi in una storia,
l’intreccio è una totalità concordante o discordante. Ricoeur parla della
configurazione come l’arte della composizione narrativa, questa fa da
mediazione tra concordanza e discordanza. Da un punto di vista temporale, comporre una storia vuol dire trarre una configurazione da una
successione. Ricorrendo ai risultati di Tempo e racconto, Ricoeur chiarisce la correlazione fra storia raccontata e personaggio. Nel secondo
tomo di quest’opera60 egli mostra come la struttura narrativa congiunge il procedimento di costruzione dell’intreccio dell’azione con quello
del personaggio. Se è vero che da un punto di vista paradigmatico le
questioni chi?, che cosa?, come?, ecc., designano i termini di una rete concettuale dell’azione, è altrettanto vero che da un punto di vista sintagmatico, le risposte a tali domande formano una catena coincidente con
il concatenamento del racconto. In tal senso, «Raccontare è dire chi ha
fatto che cosa, perché e come, estendendo nel tempo la connessione
fra questi punti di vista»61.
Dalla correlazione fra azione e personaggio del racconto, scaturisce
una dialettica interna al personaggio, la quale è, dice Ricoeur, «l’esatto
corollario della dialettica di concordanza e discordanza, che viene diP. Ricoeur, Temps et récit, 3 voll., Seuil, Paris 1982-1985; trad. it. di G.
Grampa, Tempo e racconto, 3 voll., Jaca Book, Milano 1986-1988.
59 Soi-même comme un autre, p. 170; trad. it. p. 234.
60 Cfr. Temps et récit II, cit., pp. 79-101; trad. it. pp. 71-91.
61 Soi-même comme un autre, p. 174; trad. it. p. 238.
58
42
spiegata dalla costruzione dell’intreccio dell’azione»62. Dal punto di vista della concordanza, il personaggio è una singolarità in relazione
all’unità della sua vita considerata come unità temporale; secondo
l’ottica della discordanza, questa totalità temporale è minacciata dagli
eventi imprevisti. L’identità del personaggio, costruita dall’intreccio,
risulta essere intelligibile alla luce di questa dialettica. In tal senso si ha
a che fare con una identità dinamica, come dinamica è la storia raccontata. Il racconto costruisce l’identità del personaggio, la quale è la sua
identità narrativa.
Il successivo passaggio di Ricoeur consiste nell’inscrizione della dialettica della concordanza discordante del personaggio nella dialettica
della medesimezza e dell’ipseità. Questa inscrizione, egli spiega, si impone nel momento in cui si viene a confrontare la concordanza discordante con la permanenza nel tempo, la quale è connessa alla nozione di identità intesa come medesimezza di un carattere e come ipseità del mantenimento della parola data. L’identità narrativa, segnata
dalla dialettica concordanza-discordanza, svolge una funzione mediatrice tra i due poli della permanenza del tempo, ossia tra il polo della medesimezza e quello dell’ipseità. Tale funzione è attestata dalle variazioni
immaginative generate dal racconto che vanno ad investire pienamente
l’identità narrativa.
Nel contesto di queste variazioni immaginative, il polo della medesimezza può essere illustrato ricorrendo alle ipotesi fantascientifiche di
Parfit63 ed ai diversi casi di puzzling cases (esperienze di bisezione, di
clonazione, di trapianto, ecc.) che intendono la persona come oggetto,
come un cervello manipolabile attraverso una sofisticatissima ingegneria. «In tal senso, si può dire che le variazioni immaginative della fantascienza sono variazioni relative alla medesimezza»64. L’altro polo dato
dall’ipseità, è delineato da certe finzioni letterarie come quella de
L’uomo senza qualità di Robert Musil65. Le finzioni letterarie differiscono da quelle tecnologiche in quanto costituiscono variazioni immagiIvi, p. 176; trad. it. p. 240.
D. Parfit, Reasons and Persons, Oxford University Press, Oxford 1984; trad.
it. di R. Rini, Ragioni e persone, Il Saggiatore, Milano 1989.
64 Soi-même comme un autre, p. 179; trad. it. p. 243.
65 R. Musil, Der Mann ohne Eigenschaften, Rowohlt Verlag, Berlin; trad. it. di A
Rho, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1972. Per Ricoeur, l’uomo senza
qualità di Musil è l’uomo senza medesimezza, ossia senza proprietà.
62
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43
native che investono la condizione corporea, carnale e terrestre del sé.
E, «Nella misura in cui il corpo proprio è una dimensione del sé, le variazioni immaginative attorno alla condizione corporea sono variazioni
sul sé e la sua ipseità»66.
La connessione tra ipseità e identità narrativa rivela che «il sé della
conoscenza di sé non è l’io egoista e narcisista di cui le ermeneutiche
del sospetto hanno denunciato l’ipocrisia e insieme l’ingenuità, il carattere di sovrastruttura ideologica e l’arcaismo infantile e nevrotico. Il sé
della conoscenza di sé è frutto di una vita sottoposta ad esame, secondo l’espressione di Socrate nell’Apologia. Ora una vita sottoposta ad
esame è, in larga parte, una vita depurata, chiarificata grazie agli effetti
catartici dei racconti sia storici che di finzione portati dalla nostra cultura. L’ipseità è così quella di un sé istruito dalle opere della cultura
che si è applicato a se stesso»67. Siamo qui di fronte al prosieguo
dell’argomentazione precedente relativa al sé come «compito di una
vita». La costruzione dell’intreccio delle vicende della propria vita è
anche un faticoso lavoro su se stessi che si avvale delle esperienze
temporali dispiegate dagli altri racconti e ha come fine il «divenir coscienti».
La nozione di «identità narrativa» non vale soltanto per l’individuo,
può essere applicata anche ad una comunità (che può essere intesa
come un quasi-individuo). Si può parlare dell’identità di una comunità
come si è appena parlato dell’identità di un soggetto individuale: «individuo e comunità si costituiscono nella loro identità ricevendo certi
racconti che diventano per l’uno come per l’altra la loro storia effettiva»68. In Parcours de la reconnaissance, Ricoeur mette in evidenza il fatto
Soi-même comme un autre, p. 178; trad. it. p. 242.
Temps et récit III, p. 356; trad. it. p. 376. Si veda anche P. Ricoeur, La vita: un
racconto in cerca di un narratore (La vie: un récit en quête de narrateur, conferenza tenuta a Napoli nel gennaio 1984 poi inclusa nella raccolta antologica: P. Ricoeur, Filosofia e linguaggio, a cura e con introduzione di D. Jervolino, Guerini,
Milano 1994). La finzione narrativa diventa una dimensione della vita e la vita
si comprende attraverso le storie che raccontiamo su di essa, ne consegue che
«una vita esaminata, nel senso socratico della parola [….] è una vita raccontata»
(Ivi, p. 182). L’intelligenza narrativa si pone al servizio del nostro sforzo di
ritrovare l’identità narrativa che ci costituisce. L’identità diventa allora una creazione della composizione narrativa.
68 Temps et récit III, p. 356; trad. it. p. 376.
66
67
44
che l’identità narrativa «rivela la propria fragilità quando viene messa
alla prova nel confronto con altri, che si tratti di un individuo o di una
collettività»69. A tale riguardo la storia è ricca di insegnamenti, essa ci
mostra che sono molti i casi in cui certi regimi, certe ideologie, esercitano il loro potere in modo tale da manipolare le identità fragili «tramite mediazioni simboliche dell’azione, e principalmente grazie alle risorse di variazione offerte dal lavoro di configurazione narrativa, dato che
è sempre possibile […] raccontare altrimenti. Queste risorse di configuarazione diventano così delle risorse di manipolazione»70. Ricoeur
conclude osservando che, con il subire l’azione manipolatrice,
l’identità individuale e quella collettiva ripiegano la loro identità-ipse
sull’identità-idem, sull’identità medesimezza. Quando ciò accade è allora evidente che viene cancellata quella dimensione della persona che la
fa essere un chi.
9. La dimensione etica dell’identità narrativa
Ricoeur afferma che la teoria del racconto costituisce un collegamento
tra la teoria dell’azione e la teoria etica. Prendendo in considerazione il
mondo dell’azione, vediamo che la teoria narrativa svela la connessione fra intreccio e personaggio. Nel contesto dell’equiparazione tra
l’azione descritta con l’azione raccontata, tale connessione comporta
una notevole estensione del campo pratico. In effetti, solo mediante
questa estensione si possono apportare dei nuovi chiarimenti al rapporto tra l’azione e il suo agente. Dire estensione del campo pratico
significa oltrepassare le analisi semantiche dell’azione di autori appartenenti all’area della filosofia analitica come Danto71, Anscombe72, von
Wright73. Se allora il concetto di azione deve essere portato al livello di
configurazione narrativa, oltre al rapporto fra azione e agente, è lo
stesso concetto di azione che deve essere rivisto. A tale riguardo ocParcours de la reconnaissance, p. 156; trad. it. pp. 121-122
Ivi, p. 157; trad. it. p. 122.
71 A. Danto, Analytical Philosophy of History, Cambridge Press, Cambridge 1973.
72 G.E.M. Anscombe, Intention, Basic Blackwell, Oxford 1957, 1979.
73 G. H. von Wright, Explanation and Understanding, Routledge and Kegan
Paul, London 1971; trad. it. di G. Di Bernardo, Spiegazione e Comprensione, Il
Mulino, Bologna 1977.
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70
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corre fare riferimento alla triplice relazione mimetica tra l’ordine del
racconto e l’ordine dell’azione e della vita dispiegata da Ricoeur in
Tempo e racconto. Il racconto è una imitazione creatrice dell’azione, dove
azione sta per composizione di casi, ossia commistione di agire e patire, di azione e sofferenza che costituiscono la trama di una vita. Si ricorda che qui il grande faro è la definizione di Aristotele del racconto
in termini di «imitazione di un’azione» (mimesis praxeos). Si tratta di cogliere gli aspetti dell’esperienza viva dell’agire e del patire attraverso i
quali il racconto può agganciarsi all’esperienza viva stessa. Questi agganci sono posti in Tempo e racconto sotto il titolo di mimesis I. Il primo
aggancio per la configurazione narrativa è dato dal dispositivo concettuale
che distingue strutturalmente l’ambito dell’azione da quello del movimento fisico; il secondo è dato dalle risorse simboliche del campo pratico e il terzo è costituito dai caratteri temporali sui quali il tempo narrativo innesta le sue configurazioni. La configurazione del racconto (mimesis II) può così essere costruita su queste diverse mediazioni appartenenti all’ordine della prefigurazione narrativa (mimesis I). Ora, se applichiamo a noi stessi, sul nostro ego, le variazioni immaginative, ne ricaviamo una comprensione narrativa di noi stessi (mimesis III).
Nel contesto di mimesis II, le variazioni immaginative della configurazione narrativa esigono che vengano sospese le censure morali e le
richieste etiche riguardanti le invenzioni degli intrighi e dei personaggi.
In altri termini, il potere creativo della configurazione del racconto
esige libertà. A questo momento di rottura fra narratività e eticità risponde un’altro momento, questa volta di implicazione, di collegamento. Da questo punto di vista, attraverso la finzione «non facciamo
a meno di esplorare nuove maniere di valutare azioni e personaggi. Le
esperienze di pensiero che conduciamo nel vasto laboratorio dell’immaginario sono anche indagini condotte nel regno del bene e del male»74. Il racconto mette in campo una esperienza di pensiero implicante
il gioco tra le diverse componenti etico-morali della vita come quelle
dell’amore, dell’odio, della vendetta, della morte, del valore, della colpevolezza, della condanna, della bontà, ecc. La finzione letteraria, allora, può benissimo essere intesa come generatrice di variazioni immaginative sul tema della «vita buona». Inoltre, se entriamo nell’ordine
della mimesis III, questo lavoro di configurazione nell’atto di lettura
74
Soi-même comme un autre, p. 194; trad. it. p. 258.
46
contribuisce alla rifigurazione del mondo del lettore. Ciò significa che,
appropriandosi dell’esperienza temporale dispiegata da un testo, il lettore riorganizza il suo «essere-al-mondo», reinterpreta se stesso e la
realtà in cui vive così da esaminare eticamente la propria vita. Siamo
condotti nell’ordine delle connessioni tra le considerazioni di tipo ermeneutico-ontologiche e le considerazioni strettamente etico-morali.
In letteratura ci sono certi casi limite che presentano una messa in
discussione dell’identità narrativa che si spinge fino al punto da operare una sua cancellazione. È il caso della dissoluzione dell’identità de
L’uomo senza qualità di Musil. Il sé che qui è rifigurato dal racconto è
posto a confronto con l’ipotesi del proprio nulla. Ma questo niente,
afferma Ricoeur, non è il niente assoluto, ma è un sé privato della sua
medesimezza (della sua proprietà). In letteratura sono numerosi gli
esperimenti relativi all’annullamento dell’identità. «In questi momenti
di estremo spogliamento, la risposta nulla alla questione chi sono io? (qui
suis-je?) rinvia non già alla nullità, ma alla nudità della questione stessa»75. A questo punto, ciò che sembra riaprire la questione, afferma Ricoeur, è il carattere assertivo della risposta «Eccomi!». Si tratta allora di
tenere insieme il carattere problematico dell’ipse sul piano narrativo e il
suo carattere assertivo sul piano dell’impegno morale. Ciò significa tenere unita la domanda: «Chi sono io?», con la risposta: «Eccomi!». Il
problema principale è dato da un sé che sul piano narrativo si trova di
fronte a casi in cui rimane eclissato. Secondo il pensatore francese, la
soluzione va cercata nella «dialettica vivente» tra identità narrativa e
identità morale. Di fronte ad una immaginazione che conduce il sé ad
un confronto con una moltitudine di modelli di azione fino all’estremo autoannientamento, l’«Eccomi!» segna l’ingresso della persona
come soggetto di imputazione che arresta questo modo di procedere
affermando che, se è vero che è possibile sperimentare tutto, è altresì
vero che non tutto è benefico per sé e per gli altri. Secondo
quest’ottica, la questione «chi sono io?», messa a nudo dalla finzione letteraria, confluisce nella dichiarazione: «Qui, io mi arresto!». «La questione diventa: “Chi sono io, così versatile, perché, nondimeno, tu conti
su di me?” Lo scarto tra la questione nella quale si inabissa
l’immaginazione narrativa e la risposta del soggetto, reso responsabile
dall’aspettativa dell’altro, diventa faglia segreta nel cuore stesso
75
Soi-même comme un autre, p. 197; trad. it. p. 261.
47
dell’impegno»76. La «faglia segreta» di cui parla Ricoeur è relativa alla
differenza tra le due modalità di caratterizzare l’identità: o secondo la
permanenza nel tempo del carattere, o secondo la permanenza della
parola data.
Alla luce di questi ultimi giri argomentativi, riceve un ulteriore chiarimento la distinzione tra due diverse dimensioni del mantenimento
della promessa che abbiamo illustrato in precedenza. Da un lato si ha
l’«inflessibile costanza del sé»; dall’altro «la modestia del mantenersi».
L’ipseità come caratterizzata dal rapporto di possesso tra la persona e i
suoi pensieri, le sue azioni, le sue «esperienze», dal punto di vista etico
risulta essere ambigua. La ricoeuriana filosofia dell’ipseità afferma che
«il possesso non è ciò che importa». I casi limite generati
dall’immaginazione narrativa suggeriscono una dialettica del possesso
e dello spossessamento, della cura e del distacco, dell’affermazione di
sé e dell’esclissi di sé. Così, «il nulla immaginato del sé diventa “crisi”
esistenziale del sé»77. Tale crisi del sé non dovrebbe però comportare,
afferma Ricoeur, la sostituzione dell’odio di sé alla stima di sé. È necessario poi che lo spossessamento, l’eclissi del sé, comporti l’apertura
e la disponibilità del sé verso l’altro da sé.
Dall’idea di identità narrativa derivano diverse implicazioni etiche.
Tale concezione dell’identità scavalca quella tradizionale fondata sulla
categoria di sostanza, su qualcosa che, nel tempo, rimane immutato
sotto il susseguirsi delle componenti accidentali. Con ciò, non si tratta
di cancellare il sé. A quanti come D. Parfit che invitano a cambiare la
nostra concezione su noi stessi e sulla vita, a prenderci meno cura del
nostro «io» e, quindi, della nostra morte, del nostro invecchiare, predicando l’abbandono dell’io: «Identity is not what matters» («ciò che conta
non è l’identità»)78, Ricoeur, uscendo da ogni logica di attaccamento a
se stessi, alla propria identità personale, accoglie questa operazione di
«spossessamento di sé», ma lo fa per acquisire da essa una difesa per
l’ipseità, affinché non venga ridotta alla medesimezza e neanche venga
liquidata. In altri termini, non si tratta di rinunciare all’identità, ma di
scoprire la sua autentica dimensione, quella dell’ipseità. Ciò costituisce
un lavoro etico fondamentale poiché, in primo luogo, mette direttamente in gioco e chiama in causa la dimensione esistenziale dell’uomo.
Ivi, p. 198; trad. it. p. 262.
Ibid.
78 D. Parfit, Ragioni e persone, cit., p. 325.
76
77
48
Nel corso della presente trattazione, la tematica dell’identità troverà un
ulteriore svolgimento in connessione con quella dell’altro. Vedremo
che è nel mutuo riconoscimento tra il sé e l’altro che l’uomo diviene
capace di riappropriarsi della propria ipseità e di giungere al vertice del
riconoscimento di se stesso.
10. Raccontare, interpretare, stimare se stessi
È nel contesto della concezione dell’uomo inteso come un ente agente
e sofferente, che la prospettiva etica di Ricoeur trova un fondamentale
presupposto ontologico. È a partire da questo fondo ontologico che
l’uomo può svolgere il suo lavoro di spossessamento e di riappropriazione di sé nel contesto di una vita con e per l’altro in un «mondo abitabile». Il sé può, è capace di diverse forme di azione. Con l’applicazione
all’azione dei predicati «buono» ed «obbligatorio», il pensatore francese
conduce il discorso del sé nel contesto dell’etica e della morale. Dal
suo punto di vista, i predicati che determinano l’azione, quali «buono»
e «obbligatorio», appartengono a due ambiti distinti, rispettivamente a
quello etico e a quello morale. Certo che tale separazione non è avvertibile stando ad una loro considerazione etimologica o storica79. Solo
su base convenzionale è possibile operare una distinzione. Egli riserva
il termine etica per la «prospettiva di una vita compiuta» e quello di morale per l’articolazione di tale prospettiva all’interno di norme. In questa
distinzione è facile cogliere l’opporsi di due eredità, quella aristotelica,
per cui l’etica è data da una prospettiva teleologica e quella kantiana, per
cui la morale, caratterizzata dalla norma, esprime una posizione deontologica. Le due posizioni sono opposte, ma non in senso assoluto: tra le
due eredità vi è, nello stesso tempo, un rapporto di subordinazione
della morale all’etica e di complementarietà80. Alla prospettiva etica
«L’uno viene dal greco, l’altro dal latino ed entrambi rinviano all’idea intuitiva di costumi, con la duplice connotazione, che cercheremo di scomporre, di
ciò che è stimato buono e di ciò che si impone come obbligatorio» (Soi-même comme un autre, p. 200; trad. it. p. 264).
80 Cfr., P. Ricoeur, Éthique et morale, «Revue de l’Istitut Catholique de Paris»,
1990, n. 34, pp. 131-142; trad it. Etica e morale, a cura di C. Vigna, L’Etica e il
suo altro, Angeli, Milano 1994, pp. 217-227; Id., Avant la loi morale: l’éthique,
79
49
viene fatta corrispondere la «stima di sé», mentre al momento deontologico il «rispetto di sé». Entrambi costituiscono uno spiegamento
dell’ipseità, ma ciò nel senso che la stima di sé è più importante del rispetto di sé. Il rispetto di sé è l’aspetto che la stima di sé riveste sotto
l’egida della norma, che qualora la norma non offra una guida sicura
per l’esercizio del rispetto, questo ultimo trova un punto di appoggio
nella stima di sé.
Nella definizione della prospettiva etica come «la prospettiva della “vita buona” con e per l’altro all’interno di istituzioni giuste», sono compresi tre
tratti fondamentali: «la stima di sé», la «sollecitudine», la «giustizia». Il
secondo tratto comporta l’ingresso del «tu», mentre con il terzo si va al
di là del faccia a faccia e si entra nel contesto del «ciascuno».
Cominciamo con il primo, il quale non è dato se non indirettamente
attraverso un percorso etico. La prospettiva etica è di carattere teleologico, ha per scopo la «vita buona» (sulla scia di Proust la si potrebbe
chiamare «vera vita») in istituzioni giuste. La vita buona, o vera vita, è
la «vita compiuta». Qualunque sia l’idea che ciascuno si fa della vita
compiuta, la sua realizzazione, afferma Ricoeur, costituisce il fine ultimo della sua azione. È Aristotele ad aver cercato nella praxis
l’ancoraggio alla vita buona e ad aver posto la teleologia interna alla
praxis come principio base e strutturante della vita buona. L’uomo, per
Aristotele, non delibera sui fini, ma sui mezzi per raggiungerli81. Ricoeur osserva che nel VI libro dell’Etica Nicomachea, in cui vengono
trattate le virtù dianoetiche, la deliberazione «è il cammino percorso
dalla phrónesis, la saggezza pratica (termine che i Latini hanno tradotto
con prudentia), e, più precisamente, il cammino percorso dall’uomo della phrónesis – il phrónimos – per indirizzare la propria vita. […] l’insegnamento più forte del libro VI concerne lo stretto legame che Aristotele
stabilisce tra la phrónesis e il phrónimos, legame che assume senso soltanto se l’uomo dal giudizio determina, nello stesso tempo, la regola e il
caso, cogliendo la situazione nella sua piena singolarità»82.
Ora, se è vero che le azioni particolari della vita quotidiana hanno il
loro fine in se stesse e che ognuna persegue il proprio bene, è altresì
vero che esiste, afferma Ricoeur, un «piano di vita». Esso costituisce il
Enciclopaedia Universalis. Supplément II. Les enjeux, Encyclopaedia Universalis France, pp. 42-45.
81 Aristotele, Etica Nicomachea, III, 5, 1112 b 12.
82 Soi-même comme un autre, pp. 205-206; trad. it. pp. 269-270.
50
riferimento ultimo del concatenamento delle diverse finalità. Vi è
quindi uno stretto rapporto tra pratica e piano di vita: «una volta scelta, una vocazione conferisce ai gesti che la mettono in opera questo
carattere di “fine in sé”»83. La vita buona è una sorta di idea limite alla
quale fa riferimento l’uomo nella sua interezza. La realizzazione di ciò
che ciascuno considera essere la vita compiuta, la «vita buona», costituisce una finalità nelle finalità, una finalità interna all’agire umano.
Alla base del tentativo di adeguare ciò che riteniamo essere il meglio
per l’insieme della nostra vita e le scelte che governano le nostre pratiche, c’è un continuo lavoro di interpretazione delle proprie azioni e di
se stessi. Si stabilisce una sorta di circolo ermeneutico fra la nostra
prospettiva di «vita buona» e le nostre scelte particolari, fra l’idea di
vita buona e le decisioni più importanti della nostra esistenza. Inoltre,
mediante le variazioni immaginative condotte su noi stessi, di volta in
volta possiamo raccogliere una comprensione narrativa del nostro sé.
In questo modo costruiamo la nostra identità elaborando, a livello narrativo, la trama della nostra vita come trama della vera vita, della vita
buona.
Nel raccontarsi il soggetto incontra se stesso, ed è un raccontarsi
che ha usufruito dei racconti di altre vite e di altre azioni (e passioni)
udite e lette. Seguendo il percorso della triplice mimesis è possibile cogliere lo stesso percorso del circolo mimetico che dalla vita procede
verso la vita raccontata e da questa ritorna alla vita. Ricoeur attacca
quella posizione affermante che la vita si vive e non si racconta. A suo
avviso, «Una vita è solo un fenomeno biologico finché non viene interpretata. E
nell’interpretazione la finzione gioca un considerevole ruolo di mediazione»84. La vita ha come trama la commistione di agire e patire. Questa trama viene mediata a livello simbolico, concettuale e temporale;
tali mediazioni costituiscono il presupposto della configurazione temporale del racconto della propria vita. Nell’analisi del racconto della
nostra vita noi ritroviamo l’«identità narrativa» che ci costituisce. In tal
senso, «la comprensione che ognuno ha di se stesso è narrativa: non
posso cogliere me stesso al di fuori del tempo e dunque al di fuori del
racconto»85.
Ivi, p. 209; trad. it. p. 273.
La vita: un racconto in cerca di un narratore, cit., p. 179.
85 P. Ricoeur, La componente narrativa della psicoanalisi, trad. it. di D. Iannotta, in
«Metaxù», 1988, n. 5, pp. 7-19. La cit. si riferisce alla p. 8.
83
84
51
L’identità narrativa non è data una volta per tutte, ma è soggetta a
continue interpretazioni e modificazioni. Nella comprensione di noi
stessi, entrano in gioco la dialettica tra sedimentazione e innovazione
che è in atto in ogni tradizione. Interpretiamo continuamente la nostra
identità narrativa attraverso la mediazione delle opere, dei racconti delle diverse culture. Possiamo così applicare a noi stessi gli intrecci che
abbiamo ricevuto dai diversi racconti e calarci nelle parti dei personaggi che per diversi motivi ci hanno più colpito, esaltato, impressionato,
in questo modo possiamo contribuire ad essere narratori di noi stessi
senza però cancellare la distanza esistente tra vita vissuta e storia raccontata.
Attraverso l’interpretazione e il racconto del proprio essere agenti e
sofferenti nel mondo e nel tempo, si stabilisce un circolo virtuoso tra:
interpretazione dell’agire e del soffrire – costruzione dell’identità narrativa – realizzazione della vita buona. Interpretando le proprie azioni
(e passioni), come se fossero un testo, interpretiamo e comprendiamo
noi stessi86. «Nello stesso tempo, il nostro concetto di sé esce gradualmente arricchito da questo rapporto fra interpretazione del testo
dell’azione e autocomprensione. Sul piano etico, l’interpretazione di sé
diventa stima di sé»87. Su questo piano, la vita buona si riflette nella
86 Sul rapporto tra etica e narrativa cfr: P. Kemp, Éthique et narrativité. À propos
de l’ouvrage de Paul Ricoeur: Temps et récit. «Aquinas», 1986, pp. 211-232. In
questo saggio, Kemp indaga sulla possibilità di trovare l’etica muovendo dalle
riflessioni ricoeuriane sul rapporto tra narratività e temporalità. Nel saggio
intitolato Per un’etica narrativa. Un ponte tra l’etica e la riflessione narrativa in Ricoeur
(Aquinas, 1988, n. 3, pp. 435-457), Kemp compie un percorso inverso cercando di dimostrare «come la narratività sia indispensabile alla sua [di Ricoeur] etica» (ivi, p. 435). Sempre di P. Kemp cfr., Toward a Narrative Ethics: a
Bridge between Ethics and the Narrative Reflection of Ricoeur, testo incluso nel volume collettaneo: The Narrative Path. The Later Works of Paul Ricoeur, a cura di
T.P. Kemp e D. Rasmussen, Cambridge-London 1989, pp. 65-87. Sul rapporto tra etica e narratività cfr. anche: R. Kearney, Narrative and Ethics, Études de
lettres, «Revue de la Faculté des lettres de l’Université de Lausanne», 1996,
nn. 3-4, pp. 55-72; M. Cepl, La narrativité comme moralité. Pour une lecture ‘poétique’ de l’éthique dans Soi-même comme un autre, in «Études des
lettres», cit., pp. 141-158. R.D. Sweeney, Ricoeur on Ethics and Narrative, testo
incluso nel volume collettaneo: Paul Ricoeur and Narrative. Content and Contestation, a cura di M. Joy, University of Calgary Press, Calgary 1997, pp. 197-205.
87 Soi-même comme un autre, pp. 211; trad. it. p. 274-275.
52
stima di sé e quest’ultima è indispensabile per la realizzazione della vita
buona. La stima di sé è legata all’altro poiché il sé per stimare se stesso
necessita che venga riconosciuto dall’altro come un sé capace (di parlare, di fare, di raccontare, di rispondere all’accusa). Nel terzo capitolo
avremo modo di approfondire questa dimensione della stima di sé alla
luce del modello di riconoscimento detto «stima sociale».
Sulla stima di sé possono prendere vita la sollecitudine e la giustizia:
con la prima il sé trova il suo altro: il volto del «tu»; con la seconda il
sé va al di là delle relazioni interpersonali ed entra nel contesto delle
istituzioni. Chi compie questo passaggio è un soggetto-ipse, un soggetto
che fa i conti con il proprio narcisismo ed è così rivolto a sé («stima di
sé») e all’altro da sé.
Nel prossimo capitolo si prenderà in considerazione il passaggio
che conduce alla comprensione dell’altro come costitutivo del sé. Inoltre, si osserverà che la prospettiva etica non è completa senza quel
passaggio che conduce il sé a scoprirsi nell’altro88. È su questa base
che può pienamente dispiegarsi la pratica del riconoscimentoriconoscenza, momento focale della vita etica. In tal senso l’altro viene
colto e compreso alla luce della categoria del riconoscimento.
Ricoeur afferma che non vi è contraddizione alcuna nel ritenere il
movimento dal sé verso l’altro e quello dell’altro verso il sé come dialetticamente complementari. La dialettica tra il sé e l’altro di Sé come un
altro, viene ripresa e fatta lavorare in Parcours de la reconnaissance. È
nell’ultimo momento di questo percorso che Ricoeur dispiega la dialettica tra il sé e l’altro, in particolare nella parte riguardante
l’antropologia del dono, da lui posta al di fuori di una logica puramente economico-commerciale e caratterizzata da un’apertura all’altro posta sotto il segno della gratuità (del «senza prezzo»). È in questo vertice etico che è possibile realizzare forme di vita non conflittuali.
Sull’aspetto del sé che scopre se stesso nell’altro cfr. L. Altieri, “Je est un autre”. Una lettura del Parcours de la reconnaissance di Paul Ricoeur, «Per la Filosofia. Filosofia e insegnamento», XXI, 2004, n. 61, pp. 77-98.
88
53
CAPITOLO II
IL SÉ E L’ALTRO
Nella riflessione filosofica di Ricoeur, il percorso riguardante il riconoscimento di sé procede in intima relazione con la tematicaproblematica dell’altro visto e considerato sotto diversi significati, figure e dimensioni. In tal senso, il percorso dell’identità si svolge in
connessione con il problema dell’alterità. Questo percorso confluisce
in quello del riconoscimento e del misconoscimento. Il riconoscimento di sé non può essere scisso dal riconoscimento dell’altro ed è nel
mutuo riconoscimento che il riconoscimento di sé tocca il suo supremo vertice.
1. L’alterità costitutiva del sé
Insieme ai poteri dell’uomo, il sapere come attestazione comporta il
riconoscimento dei suoi non-poteri, ossia delle sue diverse forme di
passività. Esso svela diverse forme di «alterità». Su questo piano, Ricoeur chiarisce che la varietà delle esperienze di passività mescolate in
modi molteplici all’agire umano, costituisce il corrispettivo fenomenologico della «meta-categoria» di alterità89. Si tratta allora di render conto «del lavoro dell’alterità nel cuore dell’ipseità»90 nella direzione
dell’attestazione dell’alterità nel contesto delle diverse esperienze di
Insieme alla «meta-categoria dell’altro», Ricoeur ha assunto, nella sua antropologia filosofica, quelle del «medesimo» e dell’«analogo». Egli ha ricavato
queste categorie reinterpretando quei «sommi generi» che Platone ha messo
in campo in dialoghi come il Teeteto, il Sofista, il Filebo e il Parmenide.
90 Soi-même comme un autre, p. 368; trad. it. p. 432.
89
55
passività. Egli indica tre fondamentali esperienze di passività91 che si
manifestano in altrettante figure di alterità: la passività riassunta
dall’esperienza del corpo proprio, o meglio, della carne in quanto mediatrice fra il sé e il mondo; la passività implicata nella relazione tra il
sé e l’altro essere umano (l’estraneo); passività data dalla coscienza
(Gewissen) intesa come forum92, colloquio interiore.
Il patire ha la stessa estensione dell’agire. Sotto il titolo «la carne»
possono essere riportate una grande varietà di esperienze di passività.
Le molteplici figure dell’alterità della carne fanno emergere alla coscienza una estensione del campo della sofferenza che eccede quello
del dolore fisico. Tali figure del patire rendono il sé estraneo a se stesso nella propria carne; il corpo proprio diviene, come carne, corpo estraneo. Qui l’alterità della carne significa «primordialità rispetto ad ogni
disegno». La primordialità non appartiene all’ordine del volontario, essa
«precede ontologicamente ogni distinzione fra il volontario e l’involontario»93.
L’alterità del corpo proprio si manifesta come fascio di pulsioni e
desideri inconsci, come libido e come destrudo, come l’involontario
assoluto che l’uomo si ritrova a livello originario. «Questa anteriorità
disposizionale del corpo si rivela in un certo numero di esperienza-limite che io, ne Le volontaire et l’involontaire, ho posto sotto il segno
dell’involontario assoluto: esperienza di essere già nato – esperienza di
avere o di essere un carattere non scelto – esperienza di essere “portato” da un fondo pulsionale largamente inconscio, che è come la terra
sconosciuta della sfera psichica»94. Il corpo proprio è anche la fonte
Sul «tripode della passività» cfr. anche: De la métaphysique à la morale, «Revue
de métaphysique et de morale», IV, 1993, pp. 455-477 (saggio contenuto in P.
Ricoeur, Riflession fatta. Autobiografia intellettuale, trad. it. e prefaz. di D. Iannotta, Jaca Book, Milano 1998, pp. 101-131); Molteplice estraneità (relazione inaugurale del Congresso europeo di ermeneutica, svolta in tedesco), Halle, 21-24
settembre 1994; trad. it di G. Losito, saggio incluso in D. Jervolino, L’amore
difficile, Studium, Roma 1995, pp. 115- 134; Per una ontologia indiretta: l’essere, il
vero, il giusto e/o il buono, «Aquinas», III, 1995, pp. 483-499.
92 Qui Ricoeur preferisce tradurre il termine tedesco Gewissen con «foro interiore» piuttosto che con «coscienza morale».
93 Soi-même comme un autre, p. 375; trad. it. p. 439.
94 La sémantique de l’action, C.N.R.S., Paris 1977, p. 129; trad. it. La semantica
dell’azione. Discorso e azione, con introd. di A. Pieretti, Jaca Book, Milano 1986,
p. 170. Sul corpo proprio (corps propre) e sul corpo vissuto (corps vécu), Ricoeur
91
56
del nostro potere di agire (puissance d’agir), è l’insieme dei nostri poteri
e non-poteri, ed è proprio dal punto di vista del nostro non-potere che
esso costituisce un limite alle possibilità umane. Nell’azione «io provo
il mio corpo come ciò che non solo sfugge alle mie intenzioni, ma anche che mi precede nell’azione»95. Mediante un percorso esistenziale
all’insegna del «divenir coscienti», questa dimensione dell’alterità può
essere sempre più conosciuta e posta sotto i nostri poteri-capacità. In
tal senso, come ha mostrato Freud, può essere assunta in servizio delle
nostre diverse forme di agire e della nostra stessa crescita personale.
Questa non può essere realizzata senza riuscire, in maniera progressiva, ad armonizzare la propria vita con le proprie spinte pulsionali.
Ma il sé si deve misurare anche con quella forma di alterità data dal
foro interiore. Questo è una sorta di voce della coscienza che si rivolge a
me dal fondo di me stesso. È tramite l’ascolto e la meditazione nel foro interiore che il sé ritorna a se stesso, ma il sé che ritorna, ora, non è
più lo stesso sé, è un sé «come un altro». Nell’ascolto del foro interiore, l’«altro» è anche mistero. Della voce che dal fondo della coscienza
mi giunge e che «mi ingiunge a vivere bene», non conosco la provenienza (proviene dagli antenati? È una sorta di Super-Io? Giunge da
Dio?). È possibile affermare che l’alterità, come fonte dell’ingiunzione,
è nel cuore stesso del sé. Di più, a livello filosofico, non è possibile
dire. Esito agnostico e apofatico di Sé come un altro, segnato dalla presa
d’atto della impossibilità di dire questo «altro» che mi ingiunge a vivere
bene. È comunque possibile dire che la voce interiore rinvia al mistero
della Trascendenza, ma è altresì vero che questo rinvio per Ricoeur
non può essere fatto oggetto di discorso filosofico96, anche se può
si sofferma in un colloquio con J.-P. Changeaux, pubblicato con il titolo La
nature et la règle (Odile Jacob, Paris 1998). A tale riguardo si veda il primo capitolo, che ha per titolo “Une rencontre nécessaire”, pp. 12-43, e il secondo,
intitolato “Le corps et l’esprit: à la recherche d’un discours commun”, pp. 47150.
95 La sémantique de l’action, p. 129; trad. it. p. 170.
96 In diversi luoghi, D. Jervolino ha parlato della filosofia di Ricoeur come
una filosofia «senza assoluto». A tale proposito, in Entre Thévenaz et Ricoeur: La
“philosophie sans absolu” (testo incluso in Le souci du passage. Mélanges offerts à Jean
Greisch, Cerf, Paris 2004, pp. 180-190), egli afferma che: «La philosophie de
Ricœur, en particulier par ce que révèlent ses derniers grands ouvrages: Soimême comme un autre et La Mémoire, l'Histoire, l'Oubli, mérite pleinement les
titres de métaphysique de l'ici-bas, philosophie de l'homme en tant qu'
57
comunque trovare, kantianamente, un suo sviluppo nel contesto della
fede e del pensare. Al di là di questo discorso, la sua prospettiva etica
trova sì un aggancio ad una alterità che possiamo denominare “mistero insondabile” che sento chiamarmi alla vita buona, alla vera vita, ma
essa non si fonda su questa alterità, non si dispiega secondo la sua direzione. La stessa definizione che egli dà dell’etica, dalla quale poi opera le sue deduzioni e implicazioni, lo conferma chiaramente.
L’alterità del «foro interiore» è ciò che può generare nell’uomo la
sua «cattiva coscienza». Si tratta di un’alterità che, ancora una volta,
sfugge al suo pieno controllo. Questa alterità può costituire per l’individuo la causa di conflitti interiori laceranti. Intesa come Super-Io, con
le sue censure ed interdizioni può generare diverse forme di nevrosi.
Concepita come Trascendenza, l’alterità del foro interiore può essere
motivo di una vita angosciata e sempre alle prese con il dramma del
peccato, può provocare nell’uomo quel senso di “squilibrio spirituale”
dato dal sentirsi sempre indegni di fronte a Dio (Kierkegaard). Anche
questa alterità, come quella data dalla carne, può generare diverse forme di passività che possono diventare un peso insostenibile per la vita
dell’individuo. Si tratta, allora, anche in questo caso, non di dominare
o misconoscere questa alterità, ma di riconoscerla ed integrarla nella
propria vita consapevole e responsabile. Infatti, questa alterità come
voce della coscienza è anche ciò che mi ingiunge alla vita buona e a
scegliere ciò che è più consono per essa.
Passando alla forma di passività data dall’altro a me estraneo, Ricoeur afferma che non è possibile derivare, seguendo Husserl, l’altro
dall’ego, né, seguendo Lévinas, concepire l’altro come un totalmente
homme, réflexion sur la finitude et la condition humaine. Sa première anthropologie philosophique de L'Homme faillible se précise et se complète dans
l'anthropologie de l'homme capable qu’il développe dans ses derniers ouvrages
et dans laquelle il reconnaît une sorte de fil conducteur de toute sa recherche.
En effet, le thème unifiant de son itinéraire est l'humanité de l'homme qui veut
être reconnue en tant que telle dans sa finitude et dans sa contingence mais aussi dans sa splendeur de don gratuit et généreux. Philosophes de la contingence Thévenaz et Ricœur, mais toute la démarche de ce dernier montre ce
qui était sans doute une présupposition commune aussi au premier, c’est-àdire que cette contingence est aussi ouverture, que la contingence, c’est
l’événement d’un sens. La réflexion qui assume cet événement devient alors reconnaissance dans sa double valence sémantique: un acte cognitif qui est aussi un
acte de gratitude» (p. 185).
58
altro posto dinanzi a me che mi chiama alla responsabilità. Ricoeur
propone di sfuggire all’alternativa fra il criterio percettivo dell’appresentazione dell’altro (Husserl) e il criterio immediatamente morale
dell’ingiunzione inerente alla chiamata alla responsabilità propria
(Lévinas). A tale proposito, egli persegue l’obiettivo di superare entrambe le posizioni, cercando una via che permetta di dispiegare un
movimento che proceda dal sé verso l’altro e dall’altro verso il sé come dialetticamente complementari. Ma prima di giungere a questa posizione occorre riconoscere l’originaria dissimmetria tra l’io e l’altro. Il
passaggio successivo sarà poi quello di prendere in considerazione le
diverse figure delle lotta per il riconoscimento con le sue relative forme di misconoscimento.
2. La dissimmetria tra l’io e l’altro
L’altro è costitutivo del sé, il sé si costituisce mediante l’altro. Un sé
che ignora questo è un soggetto-idem chiuso nella propria narcisistica
autoposizione. L’altro, si è visto, implica passività che può tradursi in
conflitto, lotta e sofferenza. Come evitare queste spiacevoli situazioni
esistenziali? Come perseguire e realizzare un disegno di pace in sé e,
fuori di sé, nei confronti dell’altro e con l’altro? Per quanto concerne
la relazione tra il sé e l’altro suo simile, Ricoeur indica la soluzione
nell’esperienza del mutuo riconoscimento. Ma questo è solo un obiettivo, spesso irrealizzabile, che passa per il riconoscimento della dissimmetria originaria tra l’io e l’altro. La dissimmetria originaria tra l’io
e l’altro costituisce una resistenza alla realizzazione del rapporto di
mutualità. È proprio muovendo da tale dissimmetria che Ricoeur fa
emergere la novità rappresentata dalla categoria esistenziale di mutualità. Si tratta di superare la dissimmetria originaria per giungere alla mutualità. Ricoeur assume come punto di partenza due versioni contrapposte di tale dissimmetria offerte dalla fenomenologia: «la prima versione, quella di Husserl nelle Meditazioni cartesiane, resta una fenomenologia della percezione; il suo approccio è in tal senso teoretico; la seconda versione, quella di Lévinas, in Totalità e infinito e in Altrimenti che
essere o al di là dell’essenza è decisamente etica e, per implicazione, decisamente antiontologica»97. Ciascuna versione, a suo modo, si cimenta
nel tentativo di superare la dissimmetria.
97
Parcours de la reconnaissance, p. 228; trad. it. p. 176.
59
Il Nachwort (1930) di Ideen98 insieme alle Meditazioni cartesiane99, afferma Ricoeur, costituiscono l’espressione più spinta dell’idealismo
husserliano100. La teoria idealista della costituzione del senso nella coscienza è approdata così all’ipostasi della soggettività»101. Ma, afferma
Ricoeur, la fenomenologia, «nata dalla scoperta del carattere universale
dell’intenzionalità, non ha seguito l’indicazione contenuta in questa
scoperta e cioè che la coscienza ha il suo senso fuori di sé»102. Il nostro
autore afferma che è nelle Meditazioni cartesiane che Husserl ricorre
all’Auslegung. In quest’opera egli mette in atto una prospettiva diversa
rispetto a quella delle Ricerche logiche. Infatti nelle Meditazioni, Husserl
«non mira più soltanto a dare conto del senso ideale delle espressioni
ben costruite, ma piuttosto del senso dell’esperienza nel suo insieme»103. Ma quando è che il concetto di Auslegung non può non intervenire in seno alla fenomenologia husserliana? Ricoeur afferma che nelle
Meditazioni tale concetto interviene nel punto più critico di essa. Egli lo
individua nel momento in cui l’egologia viene costituita come «tribunale del senso»: il senso e il valore d’essere del mondo oggettivo si costituisce «in me» e «a partire da me». È questo che la riduzione di ogni
senso alla vita intenzionale dell’ego implica. Dall’altro lato però, la fenomenologia si trova a dover rendere conto dell’originalità
dell’esperienza dell’altro, in quanto è esperienza di un altro che non
sono io. Siamo qui di fronte, rileva il pensatore francese, ad un paradosso: «L’intera “Quinta Meditazione” è dominata dalla tensione tra
queste due esigenze: costituire l’altro in me, costituirlo come altro»104.
98 E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, III, «Husserliana» V, a cura di M. Biemel, Nijhoff, Den Haag 1952; trad.
it. a cura di E. Filippini, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino 1965.
99 E. Husserl, Cartesianischen Meditationen, «Husserliana», I, a cura di S. Strasser,
Nijhoff, Den Haag 1950; trad. it. a cura di F. Costa, Meditazioni cartesiane,
Bompiani, Milano 1970².
100 Cfr. Du texte à l’action, cit., pp. 43-44; trad. it. p. 38.
101 Phénoménologie et herméneutique, in Du texte à l’action, p. 59; trad. it. p. 50.
102 Ibid.
103 Phénoménologie et herméneutique, in Du texte à l’action, p. 74; trad. it. p. 63.
104 Ivi, p. 76; trad. it. p. 65. Queste tematiche torneranno anche nel grande
saggio Soi-même comme un autre, cit., e in studi come De la métaphysique à la morale
(«Revue de métaphysique et de morale», 1993, n. 4, pp. 455-477) e Parcours de
la reconnaissance.
60
Egli tenta l’audace impresa di giustificare l’esistenza dell’alterità
dell’estraneo a partire dall’ego e, in un secondo momento, di derivare la
comunità degli ego a partire dalla costituzione dell’alter ego. Si presenta il
rischio di solipsismo che si viene ad aggravare se si considera che
Husserl «ha spinto la riduzione dell’ego sino al punto della “sfera del
proprio”, o “sfera di appartenenza”, incentrata sul mio corpo proprio,
senza riferimento alcuno a un altro esterno a questa sfera»105. Husserl
cercherà di superare il pericolo solipsistico muovendo dalla «appercezione analogica», che non è un ragionamento per analogia, ma consiste
in una trasposizione categoriale preintellettiva che rinvia ad una creazione di senso in virtù della quale il rapporto tra me e l’estraneo è un
rapporto da modello a copia. Questa «appercezione analogica», o «appresentazione», si avvale di diversi sostegni, tra i quali quello di una
relazione denominata «accoppiamento». Gli esempi di accoppiamento
possono essere dati nell’esperienze sessuali, nell’amicizia, nella conversazione ordinaria, nello scambio delle idee. Per Ricoeur, la via husserliana dell’«appercezione analogica» non scioglie l’enigma dell’alterità,
anzi lo esalta. Certo che l’altro non rimane un totale sconosciuto, altrimenti non si vede come se ne possa parlare, ma «resta solamente
“percepito”, non soltanto come un altro me stesso, nel senso esclusivo
del termine, ma come un altro io, un alter ego, nel senso analogico del
termine […] l’io e l’altro non “compaiono” veramente; soltanto io appaio, sono “presentato”; l’altro, supposto analogo, resta “appresentato”»106.
Il rischio solipsistico per Ricoeur può essere superato attraverso
l’innesto dell’ermeneutica sulla fenomenologia. Il soggetto si coglie
come «io sono» attraverso la riflessione ermeneutica esercitata sui
simboli colti nella storia, nella cultura, ovvero attraverso l’altro da sé.
«Io sono» prima ancora di «pormi e di possedermi» e posso arrivare a
pormi e a possedermi soltanto a partire dall’alterità che mi precede.
Secondo quest’ottica, cadono le concezioni del cogito solipsista, idealista, soggettivista e narcisista107.
Parcours de la reconnaissance, p. 229; trad. it. p. 177.
Ivi, pp. 230-231; trad. it. p. 178.
107 Ed è la stessa dimensione del linguaggio inteso come discorso a smentirle.
Come afferma D. Jervolino, è il linguaggio e la sua interpretazione «ad offrire
un nuovo, potente argomento contro la tentazione del solipsismo e
l’autocomprensione idealistica della riflessione. È infatti il linguaggio, come
105
106
61
Al contrario di Husserl, in E. Lévinas «la dissimmetria originaria tra
l’io e l’altro procede dal polo altro verso il polo io». Si tratta di una posizione che si lega a quella ancor più fondamentale del primato
dell’etica sull’ontologia. Come è noto, in Totalità e infinito108, Lévinas si
sofferma sul volto dell’altro che non appare nel senso di una rappresentazione ma si esprime. Nel suo apparire, il volto interpella, esso
non è visione, «La sua rivelazione è parola»109. L’io è così spinto ad
uscire da sé, dalla sua separazione, è chiamato a rispondere. Vi è una
dissemmetria originaria tra l’io e l’altro che viene colta muovendo dal
primato etico dell’altro. Ma a questo punto si pone un problema, quello dato dal riuscire a rendere conto della reciprocità tra partner. Subentra
il problema della giustizia e della politica che è al centro dell’opera Altrimenti che essere o al di là dell’essenza110. Lévinas afferma che l’io e l’altro
sono degli incomparabili ed è nella giustizia che trovano un paragone.
Ma è proprio questo aspetto, secondo Ricoeur, a non trovare nell’opera di Lévinas un approfondimento adeguato.
Nell’opera Parcours de la reconnaissance, Ricoeur riprende in mano la
questione del sé e dell’alterità, discussa in Soi-même comme un autre, alla
luce della categoria de la reconnaissance. Anche in questa occasione egli si
distanzia sia da Husserl che da Lévinas, prospettando la reconnaissance
mutuelle tra il sé e l’altro, tra l’altro e il sé. Mediante il confronto tra
queste due posizioni, Ricoeur giunge alla dialettica incrociata del sé e
dell’altro da sé. Egli è convinto che non vi è contraddizione alcuna nel
discorso vivente che, al di là dell’opposizione fra teoria e prassi, rappresenta
la smentita eloquente dell’illusione solipsistica e la quasi materiale testimonianza della pluralità e della reciprocità dei soggetti parlanti. Il discorso in
quanto tale comporta non solo apertura al mondo e riferimento ad un soggetto parlante, ma anche un “tu” al quale esso è rivolto: la genesi delle persone
del discorso è per sua natura plurale» D. Jervolino, Il cogito e l’ermeneutica (pref.
di P. Ricoeur e introduz. di T.F. Geraerts, Procaccini editore, Napoli 1994,
seconda edizione: Marietti, Genova 1993; trad. in inglese: Kluwer, London
1990), p. 43.
108 E. Lévinas, Totalité et Infini. Esai sur l’extériorité, Nijhoff, La Haye 1961; trad.
it. di A. Dell’Asta, Totalità e infinito. Saggio sull’estriorità, Jaca Book, Milano
1980.
109 Ivi, p. 197.
110 E. Lévinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Nijhoff, La Haye 1974;
trad. it. di S. Petrosino e M.T. Aiello, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza,
Jaca Book, Milano 1983.
62
ritenere il movimento dal Medesimo verso l’Altro e quello dell’Altro
verso il Medesimo come dialetticamente complementari. Infatti, «i due
movimenti non si annullano nella misura in cui l’altro si dispiega nella
dimensione gnoseologica del senso, l’altro in quella etica, dell’ingiunzione. La chiamata alla responsabilità, nell’ottica della seconda dimensione, rinvia al potere di autodesignazione, trasferito, nell’ottica della
prima dimensione, ad ogni terza persona in grado di dire “io”»111.
Dal suo punto di vista, si tratta di superare tale dissimmetria alla luce di un effettivo e pacifico reciproco riconoscimento tra il sé e l’altro.
L’uomo diviene un sé riconoscendo l’alterità che lo costituisce, riconoscendosi attraverso l’altro e riconoscendo l’altro. Quest’ultimo tratto necessita di una alterità in grado di porsi sulla stessa lunghezza
d’onda. La realizzazione piena del sé necessita del riconoscimento reciproco tra gli uomini.
L’altro è per il sé, a livello costitutivo, il suo non-potere. La psicoanalisi ci insegna che il bambino, volto per sua natura all’onnipotenza,
tende a subordinare gli altri e il mondo ai suoi desideri112. È con il diventare adulto che l’uomo prende atto che l’altro (il mondo) segna un
limite al suo potere. Nel riconoscimento dell’altro, il sé si accorge di
non poter disporre dell’altro a proprio piacimento, che l’altro non può
rientrare nella sfera del suo potere. Ciò, per il sé, risulta tanto più evidente tanto più supera quel suo narcisismo di fondo che lo spinge al
misconoscimento dell’altro e a subordinarlo ai suoi desideri. L’altro
non sono io, io non sono l’altro, l’io e l’altro non sono intercambiabili.
Vi è una dissimmetria originaria tra l’io e l’altro, tra l’io e gli altri.
Di questa dissimmetria gli individui non ne sono sempre consapevoli, eppure esiste. L’oblio di tale dissimmetria costituisce un vantagSoi-même comme un autre, p. 393; trad. it. p. 457.
A tale riguardo, E. Fromm afferma che «Il fanciullo non accetta la realtà
così com’è, ma come vorrebbe che fosse; vive i propri desideri e vede la realtà come la vorrebbe. Se quei desideri non vengono soddisfatti, diventa furioso, e tale furia ha la funzione di violentare il mondo (mercé la mediazione di
padre e madre) onde renderlo corrispondente ai desideri stessi. Nello sviluppo normale del fanciullo, questo atteggiamento cambia lentamente, sino alla
maturazione della consapevolezza e dell’accettazione della realtà, delle leggi e
della necessità di questa» (E. Fromm, Zen Buddhism and Psycoanalysis, Harper &
Brothers, New York 1960; trad it. di P. La Malfa, Psicoanalisi e Buddhismo Zen,
Astrolabio-Ubaldini, Roma 1968, p. 97).
111
112
63
gio per la pratica del riconoscimento mutuale, al tempo stesso,
l’ammissione di tale dissimmetria consente di ricordare che l’uno non
è un altro, «si scambiano i doni, ma non i posti». Inoltre, l’ammissione
della dissimmetria offre il vantaggio di mettere al riparo la mutualità
dalle «insidie dell’unione fusionale, sia che ciò avvenga nell’amore, sia
che avvenga nell’amicizia o nella fratellanza, tanto in scala comunitaria
che cosmopolitica»113. Alla luce della dialettica dissimmetria-mutualità,
se è vero che il sé si scopre nell’altro, è altresì vero che il sé non può
mai diventare l’altro. Le distanze rimangono preservate nel cuore stesso della mutualità. Anche nella situazione di mutuo riconoscimento
permane il mantenimento delle individualità. Ma cos’è che conduce un
individuo ad aprirsi all’altro, a condividere la vita nei suoi aspetti più
diversi, anche i più dolorosi? L’amore (l’agape) per l’altro e la sollecitudine
per l’altro. La sollecitudine è posta da Ricoeur a fondamento
dell’amicizia e sul piano del mutuo riconoscimento.
3. La sollecitudine per l’altro
La sollecitudine (sollicitude) è data dal movimento del sé verso l’altro. In
tal senso, essa è sinonimo di apertura del sé verso l’altro da sé. Dire
apertura mediante la sollecitudine è dire che il sé che stima se stesso
non è una monade chiusa in se stessa. Il movimento di sollecitudine
chiarisce la stima di sé nella misura in cui quest’ultima lascia spazio
all’altro da sé, alla valutazione e al giudizio dell’altro che reputa una
persona come degna (capace) di stima. La stima di sé (tematica analizzata nel precedente capitolo) non deve rischiare di capovolgersi in un
Parcours de la reconnaissance, pp. 376-377; trad. it. p. 289. Questa ammissione
della dissimmetria tra l’io e l’altro in amore viene espressa anche da Unberto
Galimberti in Le cose dell’amore (Feltrinelli, Milano 2006): «ogni volta che siamo
in relazione con l’altro, mettiamo in atto anche il nostro desiderio di non annullarci nell’altro. Vogliamo essere con l’altro, ma nello stesso tempo, per salvare la nostra individualità, vogliamo non esserci completamente. Di qui
quell’esserci e non-esserci, quel rincorrersi e tradire, che fa parte della relazione amorosa. Perché l’amore è una relazione, non una fusione. Se infatti non esistessimo come individualità autonome, non solo non potremmo incontrare
l’altro e metterci in relazione, ma non avremmo neppure nulla da raccontare
all’altro fuso sembioticamente con noi» (Ivi, cit., pp. 103-104).
113
64
egoistico attaccamento al proprio io-medesimezza, non deve essere
posta al servizio dell’accrescimento della propria potenza sugli altri.
Non a caso Ricoeur parla di «stima di sé» e non di «stima di me». La
stima di sé è legata all’io posso in senso etico come capacità di saper valutare le proprie azioni e i propri scopi. La sollecitudine viene come in
soccorso alla stima di sé nel senso della sua apertura all’altro. In questo
modo la sollecitudine arricchisce la stima di sé attraverso l’altro.
L’analisi ricoeuriana della nozione di «sollecitudine» incontra
l’importante tematica dell’amicizia (philía) svolta da Aristotele nei libri
VIII e IX dell’Etica Nicomachea. L’importanza di questa trattazione è
data anche dal fatto che, dal punto di vista ricoeuriano, in Aristotele
«l’amicizia fa da transizione fra la prospettiva della “vita buona”, che
abbiamo visto riflettersi nella stima di sé, virtù apparentemente solitaria, e la giustizia, virtù di una pluralità umana di carattere politico»114.
Come è noto, Aristotele nel libro VIII dell’Etica Nicomachea pone
l’esistenza di tre tipi di amicizia: l’amicizia secondo l’«utile», quella secondo il «piacere» e quella secondo il «buono»115. L’amicizia più elevata
è quella legata alla virtù, ossia quella esistente tra uomini che sono simili per virtù116. L’amicizia, da un lato fa capo alla capacità e all’effettuazione, essa implica un passaggio dalla potenza all’atto: è una attività
(enérgeia); dall’altro lato, essa rinvia alla mancanza, il che implica il bisogno dell’altro. A questo punto subentra la fondamentale questione relativa a «se l’uomo felice abbia bisogno di amici, oppure no». Ricoeur
osserva che tale questione è molto rilevante per Aristotele, ed è rilevante anche per la propria trattazione del sé come un altro poiché qui
«il bisogno e la mancanza, l’alterità dell’“altro da sé” (héteros autós) (IX,
9, 1169 b 6-7; 1170 b 6) passano in primo piano. L’amico, in quanto
egli è questo altro da sé, ha il ruolo di provvedere a ciò che uno è incapace di procurarsi da sé (di’ hautoû) (IX, 9, 1169 b 3)»117. Anche
l’uomo felice, l’uomo che è nella vita piena e buona, ha bisogno di
amici eccellenti. Per un simile uomo la vita è cosa desiderabile e lo è
Soi-même comme un autre, p. 213; trad. it. p. 277.
Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, VIII, 1156 a 10-24.
116 «Costoro infatti, in quanto buoni, desiderano allo stesso modo reciprocamente l’uno il bene dell’altro, e sono buoni di per sé [….] L’affetto e
l’amicizia che si trovano in tali persone sono al massimo grado, e i migliori»
(Ivi, VIII, 4, 1156 b 7-24).
117 Soi-même comme un autre, p. 217; trad. it. p. 281.
114
115
65
anche quella dell’amico: «Dicevamo che l’esistenza è desiderabile per il
fatto che si ha coscienza di essere buoni, e tale esistenza è piacevole
per se stessa. Dunque, bisogna prendere coscienza, oltre che della nostra esistenza, anche di quella dell’amico (IX, 9, 1170 b 9-11)». Tale
presa di coscienza, continua Aristotele, è possibile soltanto se si vive
in comune con gli altri (IX, 9 1170 b 11). Ricoeur può così sottolineare che «la mancanza abita nel cuore della più solida amicizia»118. L’amicizia è
una virtù etica che supera quella prospettiva che considera l’altro come
strumento di realizzazione dei propri interessi e piaceri, essa comporta
reciprocità: «l’un l’altro» (allélous) rende mutua l’amicizia.
Dietro l’amicizia c’è la sollecitudine. Alla stima di sé, «intesa come
momento riflessivo dell’aspirazione alla vita buona, la sollecitudine aggiunge essenzialmente il momento della mancanza, per la quale noi abbiamo bisogno di amici; per contraccolpo della sollecitudine sulla stima di sé, il sé «percepisce se stesso come un altro fra gli altri». La sollecitudine fa sì che una persona sia non rimpiazzabile nel nostro affetto e
nella nostra stima; in particolare tale carattere lo apprendiamo con la
perdita di una persona amata. Al di là dell’idea di irrimpiazzabilità, Ricoeur pone la similitudine (similitude), la quale non appartiene solamente
alla dimensione dell’amicizia ma, altresì, è propria di tutte le forme inizialmente disuguali del legame fra se stessi e l’altro, essa «è il frutto
dello scambio fra stima di sé e sollecitudine per l’altro. Questo scambio autorizza a dire che non posso stimare me stesso senza stimare
l’altro come me stesso»119. Stimare l’altro come me stesso vuol dire: anche tu sei capace di dare inizio a qualcosa, di agire per delle ragioni, di
valutare gli scopi delle tue azioni, di conferire una gerarchia alla tue
preferenze, di mantenere la parola data, di stimare te stesso come io
stimo me stesso. Si entra così nel contesto dell’equivalenza tra l’«anche
tu» e il «come me stesso». È un percorso che va dall’attestazionericonoscimento di sé al riconoscimento delle capacità dell’altro. Il tratto conclusivo di questo percorso è quello afferente la problematica del
mutuo riconoscimento, tratto che sarà centrale nell’ultimo capitolo.
118
119
66
Ivi, p. 219; trad. it. p. 282.
Ivi, p. 226; trad. it. p. 290.
4. Potere, istituzioni e giustizia
Il potere viene esercitato sia direttamente che attraverso le istituzioni.
Non sempre il potere si serve delle istituzioni per fini giusti, non sempre le istituzioni sono al servizio delle persone. Come ha mostrato
Foucault, vi è tutta una «microfisica» del potere appartenente al piano
delle istituzioni, come tribunali, polizia, scuole, università, carceri,
ospedali, che può scavalcare il controllo dello Stato o che quest’ultimo
se ne può servire per esercitare il suo potere anche da lontano. Il problema del potere di uno Stato si salda con quello della giustizia e delle
istituzioni giuste. Ricoeur pensa che solamente all’interno di istituzioni
giuste l’individuo può trovare una sua piena realizzazione etica. Su
questa via egli sviluppa una modalità di realizzazione etica non individualistica che non può fare a meno di istituzioni giuste. Viceversa, la
stessa realizzazione etica delle singole persone può offrire un importante contributo al cammino di una comunità civile sulla via della giustizia. È certo che sull’idea di giustizia si sono avuti e si hanno punti di
vista diversi ed anche opposti; ma oltre a questo problema su come
debba essere intesa la giustizia, c’è quello di chiarire il ruolo delle istituzioni nei confronti della stessa giustizia.
Il vivere bene comporta anche il senso della giustizia. Ciò significa
che il vivere bene, oltre ai rapporti interpersonali, coinvolge la sfera
delle istituzioni120. L’idea di istituzione, afferma Ricoeur, è caratterizzata dall’ordine etico dei costumi comuni e non da regole coercitive. «Introducendo il concetto di istituzione, introduco una relazione all’altro
che non consente d’essere ricostruita sul modello dell’amicizia. L’altro
è chi mi sta di fronte (vis à vis) ma senza volto, il ciascuno di una distribuzione giusta. Non affermerò che la categoria del “ciascuno” si identifichi con quella dell’anonimo… Il “ciascuno” è una persona distinta,
ma la raggiungo solo attraverso i canali delle istituzioni»121. Con il tu,
inteso sul piano del «ciascuno» della vita nelle istituzioni, si compie il
«Per istituzioni, intenderemo qui la struttura del vivere insieme di una comunità storica – popolo, nazione, regione ecc.- struttura irriducibile alle relazioni
interpersonali e, tuttavia, ad essa collegata …L’idea di istituzione si caratterizza fondamentalmente attraverso costumi comuni e non attraverso regole
coercitive. Siamo con ciò ricondotti all’éthos, da cui l’etica trae il suo nome»
(Ivi, p. 227; trad. it. pp. 290-291).
121 P. Ricoeur, Approches de la personne, «Esprit», 1990, n. 160, pp. 115-130;
trad. it. a cura di I. Bertoletti, La persona, Morcelliana, Brescia 1997, p. 43.
120
67
passaggio dall’etica alla politica. Qui emergono i paradossi del potere
politico (H. Arendt e E. Weil) e la difficoltà di giungere ad una idea di
giustizia.
Con il concetto di istituzione si esce dal faccia a faccia. Attraverso
le istituzioni posso entrare in relazione con altre persone, con altri
«tu», senza che le abbia mai viste o stretto con loro rapporti amicali.
L’istituzione rende possibile attribuire a ciascuno il suo dovuto e ciò
risponde alla dimensione etica della giustizia. Su questa via Ricoeur
giunge al concetto di giustizia distributiva passando per la considerazione della prospettiva che a tale riguardo ha presentato Aristotele:
«Una specie della giustizia particolare, e del giusto secondo questa, è
quella che consiste nella ripartizione di onori, di denaro e di qualsiasi
altra cosa che si può ripartire tra i membri della cittadinanza»122. Questo concetto di distribuzione connesso a quello di giustizia va esteso,
afferma Ricoeur, al di là del contesto economico. Tale estensione riguarda il piano delle istituzioni nella misura in cui queste regolano la
ripartizione dei ruoli, delle funzioni, dei vantaggi e degli svantaggi fra i
membri della società. La distribuzione deve riguardare anche l’ordine
dei diritti, dei doveri e delle responsabilità. L’istituzione appartiene così alla prospettiva etica. Un’interpretazione distributiva dell’istituzione,
dice Ricoeur, contribuisce ad abbattere il muro fra individuo e società
e «assicura la coesione fra le tre componenti individuali, interpersonali
e societarie del nostro concetto di prospettiva etica»123. L’ingiusto è sinonimo di disuguale. Il problema della giustizia diventa un problema
etico che si specifica come problema di uguaglianza (isótes). Ma quale
uguaglianza? In suo nome sono sorte società tiranniche, totalitarie. Per
Ricoeur non si tratta di attuare una eguaglianza aritmetica, ma, come
afferma John Rawls in Una teoria della giustizia124, una eguaglianza proporzionale: sarà giusta la divisione che, anche se ineguale, equilibrerà
l’aumento dei vantaggi dei più favoriti con la diminuzione degli svantaggi dei meno favoriti. Si tratta di una giustizia proporzionale che cerca di massimizzare la parte minimale.
Aristotele, Etica Nicomachea, V, 2, 1130 b 30-33.
Soi-même comme un autre, p. 234; trad. it. p. 298.
124 J. Rawls, A Theory of Justice, Harvard University Press 1971; trad. it. di U.
Santini, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1984.
122
123
68
C’è un legame tra giustizia e uguaglianza, dove l’uguaglianza «sta alla
vita delle istituzioni come la sollecitudine sta alle relazioni interpersonali»125. La
sollecitudine è nell’ordine di un sé relazionato ad un altro che ha un
volto. Ciò nel senso che l’altro è conosciuto direttamente. L’uguaglianza è invece relativa a un altro che è un ciascuno senza volto, a un altro
che rimane sconosciuto. È attraverso le istituzioni che è possibile stabilire la giustizia etica dell’uguaglianza. La giustizia come uguaglianza
«aggiunge qualcosa alla sollecitudine, nella misura in cui il campo di
applicazione dell’uguaglianza è l’umanità intera»126.
Seguendo la via del linguaggio, sulla base del predicato «buono», Ricoeur ha così costruito un discorso etico scandito dal passaggio attraverso tre fasi: la prima concerne la vita buona, la seconda la sollecitudine e la terza la giustizia.
5. La norma come risposta alla violenza e come difesa della «vita buona»
Ora però la realizzazione della «vita buona» è minacciata dalla violenza, dalla degenerazione del potere umano che assume il volto di ciò che
chiamiamo male. «Poiché c’è il male, la prospettiva della “vita buona”
deve assumere l’esame dell’obbligo morale, che potrebbe essere riscritto nei termini seguenti: “Agisci unicamente secondo quella massima
che consente che tu possa volere, nello stesso tempo, che non sia ciò
che non dovrebbe essere, e cioè il male»127. Il male deriva dalla degenerazione del potere che da «potere-di» si trasforma in «potere-su», ecco allora
la necessità della norma che si impone alla visèe ethique. È perché i rapporti umani sono spesso segnati dalla violenza che occorre passare dal
registro teleologico dell’etica (Aristotele) al registro deontologico della
morale (Kant). Il formalismo kantiano esige che il desiderio venga subordinato all’obbedienza della legge morale. Questa è quella legge che
è in noi come esseri razionali, essa è la pura legge universale della ragione. Ciò significa che per Kant l’obbedienza all’altro è sostituita con
l’obbedienza a se stessi. In tal senso l’obbedienza è scevra di ogni elemento di sottomissione e dipendenza eteronome. Su questo piano
Kant non ha ancora introdotto un riferimento esplicito alla struttura
Soi-même comme un autre, p. 236; trad. it. p. 299.
Ivi, p. 236; trad. it. p. 300.
127 Ivi, p. 254; trad. it. pp. 318-319.
125
126
69
dialogica della legge morale. Si ha qui l’autonomia di un sé visto
nell’ottica dell’unità della forma del volere, unità che è poi quella
dell’universalità del volere di un ego solitario. Siamo sul piano dell’universalità considerata nel suo momento astratto che attende ancora di
entrare nel contesto della pluralità delle persone. Kant compie un passaggio dalla forma, consistente nell’universalità, alla materia, in cui le
persone sono concepite come fini in sé, nella seconda formulazione
dell’imperativo: «Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo». Ricoeur osserva, che è la Regola d’Oro della tradizione giudaico-cristiana a permettere la transizione tra la sollecitudine e questa seconda formulazione dell’imperativo. La Regola d’Oro
dice: «Non fare al tuo prossimo ciò che detesteresti che ti fosse fatto.
Sta qui la legge nella sua interezza; il resto è commentario». La stessa
legge compare nel Vangelo: «E come volete che gli uomini facciano a
voi, così fate a loro» (Lc 6, 31). Queste formule, la prima negativa
(non fare…), la seconda positiva (fa…) esprimono «una norma di reciprocità». Ricoeur sottolinea che tale reciprocità ha a monte una situazione di dissimmetria che vede uno nella posizione di agente e l’altro
nella situazione di paziente, come del resto risulta evidente dalla
grammatica della frase che esprime l’opposizione tra la forma attiva
del fare e la forma passiva dell’essere fatto, del subire.
Sul piano deontologico subentra il discorso ricoeuriano sulla violenza in ogni sua forma, la quale è l’espressione del male che l’uomo
trova e che egli continua128 ogni volta che si fa protagonista dell’esercizio del suo «potere-su».
Il potere-su può assumere il volto della tortura dell’altro, una tortura oltre che sul corpo può incidere sulla stima di sé della vittima (stima
di sé che il passaggio attraverso la norma ha portato al rango di «rispetto di sé»): «Quella che viene chiamata umiliazione –orribile caricaIl male non è qualcosa di radicato nell’uomo e non è stato da lui iniziato.
Questa è una posizione che Ricoeur ha espresso già a partire da La symbolique
du mal, 1960 (P. Ricoeur, Philosophie de la volonté 2. Finitude et Culpabilité I.
L’homme faillible II. La symbolique du mal, Aubier Montaigne, Paris 1960; trad. it.
in un solo volume di M. Girardet, Finitudine e colpa, intr. di V. Melchiorre, Il
Mulino, Bologna 1970). Per Ricoeur la narrazione di Adamo ed Eva alle prese
con il serpente, va interpretata nel senso che l’uomo non è l’iniziatore del male, poiché lo ha già trovato presente tanto da cadere nella sua trappola.
128
70
tura dell’umiltà- non è altro che la distruzione del rispetto di sé, al di là
della distruzione del potere-di-fare. Qui sembra attinto il fondo del
male»129. È la morale ad opporsi alla violenza. Le diverse interdizioni e
prescrizioni sono sorte e sorgono per far fronte alle diverse forme di
violenza derivanti dai comportamenti di interazione: «non dire falsa
testimonianza, non uccidere, non torturare. Ogni volta, la morale fa da
replica alla violenza. E se il comando non può fare a meno di rivestire
la forma dell’interdizione, ciò avviene precisamente a causa del male: a
tutte le figure del male risponde il no della morale»130.
La norma si viene a distaccare dalla sollecitudine per concentrarsi
sull’interdetto. Se sul piano della prospettiva etica si ha una posizione
di affermazione data dalla sollecitudine, sul piano della norma morale
si ha una posizione di negazione data dall’interdizione (non…). Occorre comunque che in questa necessità del momento della negazione alla
violenza non venga perso il primato dell’etica sulla morale. È la prospettiva teleologica della «vita buona» che deve animare l’interdizione.
Ci si conceda l’osservazione su questo “deve”: c’è un dovere insito
nella stessa prospettiva teleologica ed è quel dover aspirare alla vita
buona.
Per la vita etica, la tappa morale costituisce un momento di estraneamento, per essa stessa fondamentale. È infatti proprio attraverso
questo passo indietro che è possibile riaffermare una prospettiva etica
più salda e sicura in virtù dell’interdizione morale accolta e riconosciuta in seno alla stessa vita etica.
6. Saggezza pratica, sollecitudine critica e capacità di imputazione
Dopo essere passato dall’etica alla morale, Ricoeur si rivolge alla saggezza pratica131, o giudizio morale in situazione. Tale passaggio si renSoi-même comme un autre, p. 257; trad. it. p. 321.
Ivi, p. 258; trad. it. p. 322.
131 Per un approfondimento della tematica ricoeuriana relativa alla saggezza
pratica si veda, AA. VV., La sagesse pratique. Autour de l’ouvre de Paul Ricoeur,
Actes du Colloque international, Amies 1997, Centre Régional de Documentation Pédagogique de l’Académie d’Amiens, 1998. Tra gli altri, il libro comprende i seguenti articoli: D. Jervolino, La poétique retrouvée de Paul Ricoeur, pp.
31-43; J. Greisch, Pouvoir promettre: le rôle de la promesse dans l’herméneutique du soi,
129
130
71
de necessario dalla singolarità dei diversi casi dati dai conflitti tra doveri, dalla complessità stessa della vita sociale e civile che ci pone di
fronte a scelte su questioni molto complesse (come quelle riguardanti
la inseminazione artificiale, l’aborto, l’eutanasia, ecc.). Ci sono esperienze limite, come quelle mostrate da certe tragedie di Sofocle, ad
esempio dall’Antigone, in cui la morale non riesce a dare risposta. Ciò
che può aiutare l’uomo, con tutti i rischi e pericoli connessi, è la saggezza pratica. Dall’Antigone non si ricavano soluzioni, comunque offre
un importante suggerimento: Antigone ci conduce al riconoscimento
del carattere «umano, troppo umano» di ogni istituzione. È dal riconoscimento di questo limite, insito nella legge, che l’etica riceve dal tragico un importante insegnamento. Di qui la necessità di andare al di là
della norma, ed è la saggezza pratica a consentire ciò.
Ma il tragico, osserva Ricoeur, non va ricercato soltanto all’aurora
della vita etica, ma, al contrario, «ad uno stadio avanzato della moralità, nei conflitti che emergono sul cammino che conduce dalla regola al
giudizio morale in situazione (jugement moral en situation)»132. Su questa
via il nostro autore cerca nel giudizio morale in situazione non tanto
una Aufhebung hegeliana derivante dalla sintesi di eticità e moralità.
Non si tratta di sostituire la Moralität, la morale astratta, con la hegeliana Sittlichkeit (vita etica), morale effettiva e concreta.
Una morale dell’obbligo genera situazioni conflittuali e la saggezza
pratica, nel contesto del giudizio morale in situazione, ha per Ricoeur
come via di uscita il far ritorno all’etica. Si tratta comunque di un ritorno che apporta i guadagni ottenuti dai passaggi attraverso la Sittlichkeit hegeliana e la Moralität kantiana e ricavati dalle riflessioni sui
conflitti generati dalla morale dell’obbligo che Ricoeur riconduce a tre
regioni conflittuali: «Istituzioni e conflitto», «Rispetto e conflitto»,
«Autonomia e conflitto».
Prendendo in esame la seconda regione conflittuale, che prende
corpo dalle applicazioni del secondo imperativo kantiano («Agisci in
modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona che in quella di ogni
altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo»),
Ricoeur muove dalla posizione a cui era giunto nel precedente studio
pp. 45-63; R. Célis, Le schème de la disponibilité chez Paul Ricoeur, pp. 65-74; O.
Abel, Qu’est-ce que la cohérence éthique?, pp. 75-83; D. Pellauer, A la limite de la
sagesse pratique, la cécité morale, pp. 85-95.
132 Soi-même comme un autre, p. 290; trad. it. p. 354.
72
sull’obbligo morale – che vede una sottile linea di separazione tra il
piano universalistico dell’imperativo rappresentato dall’idea di umanità
e il piano pluralistico dato dall’idea delle persone come fini in se stesse
– per osservare, che la possibilità del conflitto, emerge in certe situazioni di vita estreme quando l’alterità delle persone risulta non armonizzabile con l’universalità delle regole che stanno alla base dell’idea di
umanità. Su questo piano si pone la frattura fra rispetto della legge e
rispetto delle persone133. La saggezza pratica, in queste condizioni,
«può consistere nel conferire priorità al rispetto delle persone, nel nome stesso della sollecitudine verso le persone nella loro insostituibile
singolarità (singolarité irremplaçable)»134.
La saggezza pratica ha come compito quello di individuare condotte
richieste dalla sollecitudine per la singola persona e dal suo specifico
caso in modo da tradire il meno possibile la regola. Il rispetto allora
rinvia alla sollecitudine «preoccupata dell’alterità delle persone» e delle
«persone potenziali» (gli embrioni umani). Giunti a questo punto la
sollecitudine, dopo aver attraversato «il duplice esame delle condizioni
morali del rispetto e dei conflitti suscitati da quest’ultimo», da «ingenua» è divenuta «critica». Tale sollecitudine critica «è la forma che la saggezza pratica assume nella regione delle relazioni interpersonali»135.
Alla base delle relazioni interpersonali c’è una complessa e dinamica
trama di azioni e passioni. Continuamente, noi tutti facciamo considerazioni sui torti recati ad altri e su quelli subiti. Ricoeur chiama «capacità di imputazione» la capacità di un soggetto di imputare i propri atti
a se stesso. Attraverso i predicati etico-morali «bene» e «male», noi
stimiamo le nostre azioni come buone o cattive, riferendoci invece
all’idea di obbligo, le consideriamo come permesse o vietate. In tal
senso, ci rendiamo capaci di imputazione (capables d’imputation)136.
L’idea di imputabilità, considerata in senso giuridico, pone l’accento
sul colpevole e sulla sua pena, la quale è concepita come ciò che deve
far soffrire il colpevole per causa della sua colpa. Ma questo far soffrire, secondo Ricoeur, relega in secondo piano la sofferenza della vittima. L’idea di responsabilità sottrae l’idea di imputabilità alla sua riduSu questa tematica cfr. P. Ricoeur, Etica e conflitti dei doveri: il tragico
dell’azione, «Il Mulino», 1990, n. 3, pp. 365-390.
134 Soi-même comme un autre, p. 305; trad. it. p. 369.
135 Ivi, p. 318; trad. it. p. 382.
136 Parcours de la reconnaissance, p. 158; trad. it. p. 123.
133
73
zione giuridica e pone l’accento «sulla alterità implicata nel danno o
nel torto»137. L’idea di responsabilità, applicata a quella di imputabilità,
comporta un riorientamento di quest’ultima nella direzione dell’altro
considerato come vittima reale o potenziale di un agire violento. Un
esempio di tale riorientamento è offerto da H. Jonas138. Egli espande la
responsabilità a lungo termine introducendo la responsabilità dell’agente dal punto di vista delle future conseguenze derivanti dalle sue
azioni. Il suo «principio di responsabilità», opera una «rimoralizzazione» dell’idea di responsabilità intesa in senso strettamente giuridico. Se
sul piano giuridico l’autore viene dichiarato responsabile degli effetti
conosciuti o prevedibili della sua azione e, tra questi, dei danni immediatamente causati, sul piano morale, egli «viene ritenuto responsabile
dell’altro uomo, di altri. In virtù di questo spostamento di accento, l’idea
dell’altrui vulnerabilità tende a sostituire, nella posizione di oggetto di
responsabilità, l’idea di danno commesso […] Io sono responsabile di
un altro che ho in carico»139.
Il «principio di responsabilità» di Hans Jonas, costituisce un imperativo categorico che comanda di agire in modo tale che una umanità
futura esista anche dopo di noi, nel contesto di una terra abitabile. Jonas introduce la responsabilità dal punto di vista delle conseguenze a
lunga portata che possono derivare dalle decisioni dei governi degli
Stati e dei cittadini nell’età della tecnica. Ricoeur osserva che Jonas dà
luogo ad una sorta di rivoluzione etica: mettendo l’accento sulle conseguenze dei nostri atti, si viene ad orientare «lo sguardo in senso inverso rispetto alla ricerca delle intenzioni più nascoste, verso cui inclina la nozione di imputabilità. La conseguenza è paradossale: con
quest’ultima ci può essere colpevolezza senza esecuzione, senza effettuazione; con la responsabilità, può esserci colpevolezza senza intenzione; la portata dei nostri atti, concetto che abbiamo dianzi richiamato,
eccede quella dei nostri progetti»140.
C’è poi una dimensione retrospettiva della responsabilità, una responsabilità nei confronti del passato nella misura in cui essa implica
Ivi, p. 161; trad. it. p. 125.
H. Jonas, Das Prinzip Verantwortung. Versuch einer Ethik für die technologische
Zivilisation, Insel Verlag, Frankfurt 1980; trad. it. di P. Rinaldo, Il principio di
responsabilità, Einaudi, Torino 1990.
139 Parcours de la reconnaissance, p. 162; trad. it. p. 126.
140 Soi-même comme un autre, p. 342; trad. it. p. 405.
137
138
74
che noi ci facciamo carico di un passato che, anche nel caso in cui non
è stata opera nostra, lo assumiamo come nostro. Si affaccia l’idea di
debito rispetto al passato che Ricoeur ha ampiamente svolto nel terzo
volume di Témps et recit. A queste due dimensioni di responsabilità si
aggiunge quella nel presente. Questo non è il presente puntuale del tempo cronologico, ma è il presente correlato alla permanenza del tempo
della medesimezza e dell’ipseità. «Ritenersi responsabili ora, significa
[…] accettare di essere ritenuto oggi il medesimo/stesso di colui che
ha fatto ieri e farà domani»141. Nel contesto di questa responsabilità nel
presente, entrano in gioco le due prospettive di identità: da un lato,
una certa continuità nei caratteri corporei e psicologici (piano della
medesimezza, del carattere) è alla base del riconoscimento dell’identità
morale nei casi di responsabilità riguardanti il diritto civile e penale;
dall’altro lato, l’identificazione di un uomo mediante i criteri corporei e
psicologici potrebbe risultare inconsistente tanto da rivelarsi come irriconoscibile. A questo punto il discorso si sposta verso il mantenersi
inteso in relazione all’identità-ipse. Tale mantenersi è proprio di un
soggetto morale che domanda di essere ritenuto lo stesso di quello che
ormai, nei tratti corporei e psicologici, non è più riconoscibile. Questa
richiesta di essere riconosciuto come lo stesso è una presa di responsabilità del sé nei confronti del passato e delle conseguenze a venire
nel presente che in lui è ricapitolato.
La prospettiva del mantenersi, che non può essere ricondotta ai
tratti della persistenza empirica, chiarisce ulteriormente la nozione di
imputazione: «imputare significa mettere qualcosa sul conto di… Tutto
accade come se i nostri atti si iscrivessero su di un grande libro dei
conti, per esservi registrati e farvi archivio. Forse questa metafora
dell’iscrizione e della registrazione esprime l’oggettivazione di ciò che
abbiamo chiamato ricapitolazione nel presente della responsabilità delle conseguenze e di quella dell’indebitamento»142. Si tratta di un mantenersi che, nel concatenamento di tutti i nostri atti, assume le sembianze di un destino che fa del sé il nemico di se stesso. Forse qui con
«concatenamento di tutti i nostri atti» Ricoeur allude ad una sorta di
karma proprio di ogni sé che agisce e patisce, karma che richiama in
maniera intima le nozioni di responsabilità e di debito.
141
142
Ivi, p. 342; trad. it. p. 406.
Ivi, p. 343; trad. it. p. 406.
75
Su questa via ricoeuriana degli studi riguardanti il piano eticomorale, siamo giunti alla individuazione delle determinazioni del sé
consistenti nella imputabilità, nella responsabilità e nel riconoscimento.
Quest’ultima determinazione è una categoria hegeliana, essa «è una
struttura del sé riflettente sul movimento che porta la stima di sé verso
la sollecitudine e questa verso la giustizia. Il riconoscimento introduce
la diade e la pluralità nella costituzione stessa del sé»143. La categoria
del riconoscimento segna, insieme alle categorie della imputabilità e
della responsabilità, il percorso di ritorno al sé. Si tratta di un ritorno
ad un sé arricchito di tutte le mediazioni e dei movimenti dialettici con
il suo altro da se stesso. Come l’imputabilità e la responsabilità, anche
il riconoscimento fa capo all’essere capace del sé, alla sua dimensione
ontologica che, a livello fondamentale, consiste in un fondo effettivo e
potente. Come dire che tutte le capacità, compresa quella di riconoscimento, presuppongono questo «potere-di» che è alla base di ogni
forma di agire dell’uomo.
7. Poteri-capacità del sé in relazione con l’altro
Certo è che nelle analisi delle capacità dell’individuo, Ricoeur ha soprattutto posto l’accento sull’autoasserzione di queste stesse capacità e
le ha considerate sul piano delle loro potenzialità, tralasciando di metterne in evidenza il legame di intersoggettività. Occorre allora non dimenticare di considerare le analisi dei poteri-capacità dell’individuo in
relazione alle diverse figure dell’altro. Per ogni capacità è possibile far
riferimento all’altro mettendone in rilievo, ogni volta, significati, funzioni e valenze. In tal senso, è lo stesso sé, con le sue capacità, ad acquisire nuovi tratti. Ora, «Se nell’analisi delle capacità sul piano delle
loro potenzialità si è potuto fare astrazione di qualsiasi legame di intersoggettività, il passaggio dalla capacità all’esercizio di essa non permet«La reconnaissance est une structure du soi qui réfléchissant sur le mouvement qui emporte l’estime de soi vers la sollicitude et celle-ci vers la justice.
La reconnaissance introduit la dyade et la pluralité dans la constitution même
du soi. La mutualité dans l’amitié, l’égalité proportionnelle dans la justice, en
se réfléchissant dans la conscience de soi-même, font de l’estime de soi ellemême une figure de la reconnaissance » (Soi-même comme un autre, p. 344; trad.
it. p. 407).
143
76
te più una simile elisione»144. Nel contesto dell’esplicazione della capacità di dire, di parlare, questa non può essere disgiunta dall’aspettativa
e dall’intenzione di poter essere compreso. Il discorso, per sua natura,
è intenzionalmente rivolto anche a qualcuno che non sono io; inoltre
reca in sé il tratto etico di essere comprensibile da colui che ascolta.
L’esercizio della capacità di agire come capacità di far accadere degli
eventi nel mondo fisico e sociale, si sviluppa attraverso continue interazioni con l’altro, il quale può svolgere di volta in volta il ruolo di aiuto, collaboratore, o essere da ostacolo e antagonista. Come
nell’applicazione del poter dire e del poter agire, anche nell’esercizio
della capacità di raccontare si produce un racconto che ha un destinatario, che è intenzionalmente aperto all’ascolto o lettura da parte
dell’altro. Con la capacità di rispondere all’accusa e di essere responsabile, l’individuo si pone in relazione ad un altro che riveste il ruolo o di
interrogante o di inquisitore o di accusatore. Rispondendo dei propri
atti e con l’essere responsabile di certe azioni, l’individuo incentra su
di sé la propria facoltà di agire.
Passiamo ora alla considerazione delle capacità di ricordare e di
promettere secondo l’ottica della loro dimensione temporale. Considerate in coppia, la memoria e la promessa consentono di analizzare due
forme di riconoscimento: «riconoscimento nel tempo» e «riconoscimento di fronte ad altri». Queste forme acquistano tratti divergenti a
seconda che siano poste in relazione alla memoria oppure in relazione
alla promessa. Nel primo caso, si ha che il rapporto tra la mia memoria e quella degli altri può assumere la forma di una condivisione di ricordi che possono porsi sul piano dell’amicizia e/o sul piano pubblico,
come nella rievocazione di una storia comune. Ma tale rapporto può
tradursi in conflittualità, come quando le memorie divergono rispetto
agli stessi eventi. L’altro assume così il volto del nemico. Nel secondo
caso invece, il rapporto tra riconoscimento nel tempo e riconoscimento di fronte ad altri considerato in relazione alla promessa, risulta essere diverso. Qui è il «di-fronte ad altri» a passare in primo piano. Si
promette di fronte ad altri e anche per il bene di altri. Ma anche in
questo caso possono sorgere conflitti: la promessa può non essere capita o addirittura rifiutata, ricusata e sospettata. Ad ogni modo, la
promessa ha a che fare con il tempo, non solo perché essa si volge
144
Parcours de la reconnaissance, p. 364; trad. it. p. 280.
77
verso il futuro, ma anche per il fatto di aver a che fare con la credibilità, la quale riassume l’intera storia di colui che promette. In essa si ricongiungono il riconoscimento nel tempo e il riconoscimento di fronte ad altri145.
Nell’esercizio delle diverse capacità, il riconoscimento di sé, osserva
Ricoeur, «fa riferimento ad altri senza tuttavia che altri siano in posizione di fondamento, come lo è la facoltà di agire, e senza che il difronte-ad-altri implichi reciprocità e mutualità. Nel di-fronte-ad-altri la
mutualità del riconoscimento si anticipa, ma non vi si compie»146. Il sé
esprime le sue capacità in rapporto e di fronte all’altro senza che
quest’ultimo assuma la posizione di essere il fondamento delle sue
stesse capacità; al tempo stesso, questo operare non implica ancora
reciprocità mutuale. Questo è vero anche se, è pur sempre di fronte ad
altri che l’individuo si pone. A tale riguardo, la promessa ne è un caso
eclatante: l’impegno di fronte all’altro non può essere disgiunto, sia in
positivo che negativo, dall’aspettativa e dall’approvazione da parte
dell’altro.
8. Diritti e capacità
Fino ad ora ci siamo soffermati sulle capacità individuali e sulla relazione che esse, sul piano dell’effettuazione, stabiliscono con l’altro. In
Parcours de la reconnaissance, il filosofo francese, oltre alle capacità attestate
dagli individui, prende in esame quelle rivendicate dalle collettività e
che sono oggetto di approvazione e apprezzamento pubblici. Si tratta
di capacità sociali che fanno capo alla facoltà di agire (agency) di gruppi
o comunità sociali. Da un punto di vista giuridico, queste possono essere riconosciute oppure non esserlo. Si tratta allora di vedere la questione alla luce della coppia diritti e facoltà di agire nel contesto del
problema della «giustizia sociale». È l’economista Amartya Kumar Sen
ad aver posto in maniera chiara e illuminante la questione dirittifacoltà di agire (rights and agency o rights and capabilities). La coppia «diritti» e «capacità», espressa con «diritti alle capabilità»147, è da Ricoeur
Cfr. Parcours de la reconnaissance, cit., pp. 366-367; trad. it. p. 282.
Ivi, p. 367; trad. it. p. 282.
147 Il termine inglese capability è ricco di significati e quindi si presta ad essere
tradotto in molti modi. In italiano può essere tradotto con: capacità, capacita145
146
78
giudicata come la forma più elaborata di capacità sociali e costituisce
un importantissimo momento di transizione tra riconoscimento di sé e
mutuo riconoscimento.
A. Sen, premio Nobel per l’economia nel 1998, riprende l’utilitarismo anglosassone legandolo alla dimensione giuridica dei diritti, ossia alla grande tradizione del liberalismo di lingua inglese. Ricoeur osserva che il suo grande contributo consiste nell’«avere associato l’idea
di libertà da una parte all’idea di scelta di vita e dall’altra all’idea di responsabilità collettiva»148. Sen spiega questa congiunzione prendendo
la nota distinzione di I. Berlin149 tra «libertà negativa» e «libertà positiva». Nel primo senso la libertà consiste nell’assenza di impedimenti
che gli individui e lo Stato possono imporre ad un individuo. Su questo versante troviamo i diritti civili di espressione, di associazione, di
proprietà, di stampa, ecc. In senso positivo, la libertà coincide con tutto ciò che un uomo è capace o incapace di compiere. Questo tipo di
libertà aggiunge alla libertà negativa la capacità di un individuo di condurre la vita che sceglie. Come in campo etico, anche in quello concernente il «comportamento economico», le persone sono influenzate
dalla domanda socratica: «come bisogna vivere?»150. Si tratta di una
domanda che sorge dall’esame di sé e che è alla base non solo dell’azione etica ma altresì di quella economica. Ebbene, per Sen, i diritti
che l’economia politica deve assumere sono i «diritti a certe capabilità». Con capabilities, Sen intende la libertà (possibilità) di un individuo
di scegliere il tipo di vita che più apprezza. È certo che reddito e ricchezza sono strumenti per essere liberi di condurre il tipo di vita che
più si desidera, possono avere un enorme peso su ciò che è possibile
fare e non fare. Ma per Sen «anziché i mezzi per vivere bene, si può
mettere al primo posto la vita reale che la gente riesce a vivere o, facendo un passo in più, la libertà di realizzare vite reali cui si possa a ragion
zione, capabilità, abilità, idoneità, potenzialità volontaria. Nelle edizioni italiane, alcuni traduttori usano il termine capacità, altri preferiscono capacitazioni.
Nella traduzione di Percorsi del riconoscimento, F.Polidori lo traduce con capabilità.
148 Percours de la reconnaissance, cit., p. 211; trad. it. p. 162.
149 I. Berlin, Four Essays on Liberty, Oxford University Press, Oxford 1969;
trad. it. di M. Santambrogio, Quattro saggi sulla libertà, Feltrinelli, Milano 1989.
150 Cfr. A. Sen, On Ethics and Economics, Basil Blackwell, Oxford 1987; trad. it.
di S. Maddaloni, Etica ed economia, Laterza, Roma-Bari 2002.
79
veduta dare valore»151. Su questa via, egli introduce l’approccio delle
capability (the Capability approach) per spiegare i fenomeni di disuguaglianza e di povertà.
Sull’idea di capabilities si configura una nuova idea di giustizia sociale. Ricoeur mette in rilievo la grande importanza che per Sen le libertà
positive e quindi i «diritti a certe capabilità» assumono per combattere
il problema delle carestie e della fame. Prendendo in esame le carestie
verificatesi in India, Sen ha mostrato che non esisteva alcun nesso
causale tra le riserve di nutrimento disponibili e le carestie e che, invece, i gruppi colpiti non avevano diritti, libertà. Gli studi di Sen sulla
carestia, commenta Ricoeur, «hanno confermato che nel momento in
cui la capacità di agire, nella sua forma minimale di capacità di sopravvivere, non è assicurata, allora si scatena il fenomeno della carestia»152.
Sen mette in evidenza che moltissimi uomini sono soggetti a diverse forme di «illibertà» che li privano a priori della possibilità di condurre una vita come la desiderano e della possibilità di ricavare un reddito
sufficiente alla propria sopravvivenza. Inoltre, sulle carestie e sulla fame, pesa la mancanza di libertà politiche, di diritti civili e umani. Egli
stabilisce una equazione tra la natura non democratica di un sistema
politico e le carestie, afferma che il successo di una società va in primo
luogo giudicato sulla base delle libertà concrete di cui godono i suoi
membri, considera decisivo per un individuo il raggiungimento delle
libertà sostanziali al fine di essere una persona agente e attiva nella società, una persona capace di realizzare cambiamenti i cui risultati possono essere valutati e apprezzati in base ai suoi obiettivi e valori. In
definitiva, l’economista indiano, afferma che ci sono molte buone ragioni per concepire la povertà come privazioni di capabilities fondamentali
e che essa non può essere ricondotta solamente alla pura e semplice
mancanza di reddito, anche se questa ha la sua indubbia responsabilità.
Si tratta di porre in stretta correlazione bidirezionale la povertà di reddito con la povertà di capabilities. Nella comprensione del fenomeno
della povertà, ciò che per Sen risulta fondamentale, è la necessità di
spostare il centro dell’attenzione dai mezzi (reddito) ai fini che gli esseri umani perseguono a buona ragione e, quindi, a quelle libertà che
rendono capaci di realizzare tali fini.
151
152
80
A. Sen, Lo sviluppo è libertà, Mondadori, Milano 2000, p. 77.
Parcours de la reconnaissance, pp. 214-215; trad. it., pp. 164-165.
Alla luce dell’approccio delle capabilities è possibile vedere la capacità
come criterio per valutare la giustizia sociale, che può essere intesa alla
luce della reale capacità di un individuo di poter scegliere il tipo di vita
che più apprezza. Ricoeur osserva che «la capacità di essere e di agire
si rivela inseparabile dalle libertà assicurate dalle istanze politiche e
giuridiche»153. I poteri di uno Stato devono farsi artefici, promotori e
garanti dei diritti civili, sociali ed economici. Come dire che la capacità
di vivere e realizzare la propria vita necessita di istituzioni giuste. Nella
prospettiva ricoeuriana, l’insegnamento di Sen può essere assunto sul
piano della necessità di istituzioni giuste riconoscenti e favorevoli, in
modo concreto, all’effettuazione delle capacità individuali e collettive.
Risulta evidente che l’uomo può esprimere al meglio le proprie capacità, solamente nel contesto di una comunità civile retta da princìpi
di giustizia e riconoscente i diritti umani e le libertà fondamentali. Nello stesso tempo, la spinta a realizzare se stessi non in modo egoistico
può costituire un momento di estrema importanza al fine della lotta
per il riconoscimento dei diritti soggettivi, ossia dei diritti civili, politici
e sociali. A tale proposito, avremo modo di vedere che certe forme di
misconoscimento generano dei sentimenti, degli stati d’animo che, se pur
molto dolorosi, possono produrre dei moti di reazione indispensabili e
necessari alla lotta per la conquista dei diritti soggettivi.
153
Ivi, p. 215; trad. it., p. 165.
81
CAPITOLO III
MISCONOSCIMENTO E LOTTA PER IL RICONOSCIMENTO
1. Il misconoscimento originario
Dopo essere passati per il riconoscimento della dissimmetria originaria
tra l’io e l’altro, prima di giungere al mutuo riconoscimento e alla mutua riconoscenza che segnano l’ingresso in uno «stato di pace», occorre prendere in considerazione il misconoscimento, ossia quella dimensione
conflittuale che porta l’uomo, nel suo turbinoso sforzo di autoconservazione e di preventivo accrescimento del proprio potere, ad usare
violenza nei confronti dell’altro. È il Leviatano154 di T. Hobbes ad illustrare, ricorrendo all’esperienza di pensiero dello «stato di natura»,
l’immagine di uomo come fascio di desideri, come costante pericolo
per la vita dell’altro uomo. Ricoeur riprende quest’opera alla luce del
misconoscimento originario. In tal senso, il discorso hobbesiano viene visto
sul filo della «lotta per la sopravvivenza» che ha nella paura della morte violenta il suo tratto specifico. Per Hobbes, contrariamente ad Aristotele, l’uomo non è un animale politico incline per natura alla società155. L’origine delle «grandi e durevoli società» non sta nella mutua
T. Hobbes, Leviathan, Penguin classics, Oxford 1982; trad. it. di R. Santi,
Leviatano, Bompiani, Milano 2001.
155 Nel suo saggio intitolato Lotta per il riconoscimento, Axel Honneth osserva
che «La filosofia sociale moderna fa la sua comparsa nella storia culturale
quando la vita sociale viene definita come un rapporto di lotta per
l’autoconservazione. La concezione in base alla quale i singoli soggetti, non
diversamente dagli organismi politici collettivi, si fronteggiano in una permanente concorrenza di interessi trova una prima formulazione teorica negli
scritti politici di Machiavelli e diventa infine la base portante di una formulazione contrattualistica della sovranità dello stato nell’opera di Hobbes [….]
Dalla teoria politica classica di Aristotele fino al diritto naturale cristiano del
154
83
simpatia degli uomini, ma «nel reciproco timore». L’unico collante che
tiene uniti gli uomini è l’utile individuale, che in primo luogo consiste
nell’autoconservazione, fine di ogni organismo. In ogni natura umana
c’è, osserva Hobbes, la tendenza all’autoconservazione ai danni
dell’altro, in tutti è insita la volontà di danneggiare l’altro. Nello «stato
di natura», che consiste nella stessa condizione naturale dell’uomo in
assenza di vincoli artificiali tesi a regolarne il comportamento,
l’aggressività, prima della costituzione di una autorità statale, era intensa e molto sfrenata. Nello stato naturale si ha la naturale uguaglianza di
tutti gli uomini, questa uguaglianza deve essere intesa nel senso della
estrema facilità con cui anche il più debole può uccidere il più forte.
Questi non può mai essere interamente sicuro di non essere ucciso dal
più debole, ciò favorisce i contrasti e le lotte in una condizione in cui
ognuno ha il diritto di difendersi con tutti i mezzi a sua disposizione
contro le sofferenze e la morte. La natura, afferma Hobbes, ha dato
tutto a tutti, tutti hanno il diritto a tutto. Ma questo implica che in
realtà nessuno ha diritto ad alcuna cosa e che per le stesse cose molti
entrano in conflitto determinando una condizione di guerra perenne.
Hobbes pone tre passioni primitive alla base della «guerra di tutti
contro tutti»: la competizione, la diffidenza, la gloria. Ogni passione fa
riferimento alle altre, «La prima fa sì che gli uomini si aggrediscano per
il guadagno, la seconda per la sicurezza e la terza per la reputazione»156.
In questa condizione non rimane che distruggersi o «sottomettersi l’un
Medioevo l’uomo era stato concepito fondamentalmente come un essere
comunitario, uno zoon politikon che realizza la propria intima natura entro la
cornice sociale di una collettività politica: la disposizione sociale della natura
umana può trovare pieno dispiegamento solo nella comunità etica della polis o
della civitas, che si distingue dal nesso meramente funzionale delle attività
economiche grazie all’esistenza di virtù intersoggettivamente condivise. A
partire da una simile concezione teleologica dell’uomo la dottrina politica tradizionale si era data il compito di esaminare e definire teoricamente l’ordine
etico del comportamento virtuoso al cui interno l’educazione pratica e pedagogica del singolo individuo poteva seguire il corso più appropriato. Per questo la scienza politica, oltre che un’indagine sulle istituzioni e le leggi adeguate, fu sempre anche una dottrina della vita buona e giusta». (A. Honneth,
Kampf um Anerkennung. Grammatik sozialer Konflikte, Suhrkamp, Frankfurt am
Main 1992; trad. it. di C. Sandrelli, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica
del conflitto, Il Saggiatore, Milano 2002, p. 17).
156 T. Hobbes, Leviatano, cit., p. 205.
84
l’altro». Ricoeur osserva che qui «l’un l’altro» è una struttura del diniego di riconoscimento, «il quale riscontra nella diffidenza la sua esperienza più prossima e nella vanità la sua motivazione più profonda»157.
Lo stato di natura è segnato da un lato dalla vanità e, dall’altro, dalla
paura della morte violenta. La natura ragionevole degli uomini si esplica come meccanismo puramente formale che calcola le possibilità di
autoconservazione e che induce gli uomini a comportarsi secondo
norme o massime tese a salvaguardare la vita di un più grande numero
di uomini possibile. Dal calcolo delle probabilità di sopravvivenza, la
ragione ha così prodotto una serie di massime prudenziali o leggi di
natura che nel Leviatano Hobbes chiama «teoremi della ragione» (capitoli XIV e XV). La ragione suggerisce articoli di pace convenienti, in
base ai quali gli uomini possono essere spinti ad accordarsi. Questi articoli sono quelli che vengono altrimenti chiamati leggi di natura»158. Ai
fini dell’autoconservazione, le massime prudenziali consigliano: di cercare la pace fin che è possibile, l’associazione di individui per scopo di
pace o di difesa, di mantenere i patti, di rendersi utili agli altri.
Hobbes rifiuta la definizione di Ugo Grozio del diritto come «qualità morale»; dal suo punto di vista, il diritto di natura, jus naturale, «è la
libertà che ha ogni uomo di utilizzare il proprio potere come vuole per
la preservazione della propria natura, vale a dire della propria vita e, di
conseguenza, di fare tutto ciò che nel suo giudizio e nella sua ragione
concepirà come i mezzi più adatti a questo scopo»159. Il diritto è ciò
che autorizza, mentre la legge vieta. Questa distinzione è messa in evidenza dal precetto che suggerisce di «deporre il diritto ad ogni cosa».
Tale precetto «è per un uomo privarsi della libertà di impedire a un altro
di beneficiare del suo diritto alla stessa cosa». Le leggi di natura non
sono propriamente leggi perché ad esse mancano l’elemento coercitivo; esse obbligano, afferma Hobbes, solamente in coscienza, «nel foro
interiore non sempre nel foro esteriore». La legge, con la sua carica
coercitiva, compare con la rinuncia di ciascun uomo al proprio diritto
su tutto, rinuncia implicante il trasferimento di un diritto. Tale trasferimento, quando è reciproco, stabilisce un rapporto chiamato contratto.
Qui Ricoeur osserva che «Per la prima volta gli epiteti “reciproco” e
“mutuale” vengono pronunciati non più nel contesto dello stato di
Parcours de la reconnaissance, p. 242; trad. it. pp. 187-188.
T. Hobbes, Leviatano, cit., p. 211.
159 Ivi, p. 213.
157
158
85
guerra bensì nel contesto della ricerca della pace. Ma che si tratti di
abbandono, che si tratti di transfert o di contratto, non si tratta in alcun caso di costrizione morale, bensì di precauzione interamente volontaria e sovrana, raccomandata dal calcolo sotto la pressione della
paura»160. All’unilateralità del trasferimento si aggiunge la reciprocità
del convenant: «I patti […] nella condizione naturale sono obbligatori»161. La definizione hobbesiana di Stato e il contratto da cui esso nasce, trovano nell’abbandono del proprio diritto la loro preparazione e
il loro presupposto. Ciò che nell’intero itinerario hobbesiano viene a
mancare, costituendo per Ricoeur il grande difetto di questa impostazione, è l’assenza di una dimensione di alterità. «È il calcolo suscitato
dalla paura della morte violenta a suggerire queste misure, che hanno
una parvenza di reciprocità ma la cui finalità resta la preservazione del
proprio potere»162. Le nozioni di trasferimento, di contratto, di convenant esigono la dialettica costruttiva tra il sé e l’altro, tra l’identità-ipse
e l’alterità. Nella stessa storia del mutuo riconoscimento, non è solamente importante l’invenzione del «soggetto di diritto», «ma anche il
congiungersi di ipseità e alterità nell’idea stessa di diritto»163. È con
Hegel che, per il filosofo francese, è possibile trovare un’alternativa
all’impostazione hobbesiana. Tale alternativa consiste nel porre il legame tra auto-riflessione e orientamento verso l’altro, ossia nello stabilire il rapporto con se stessi e di se stessi con l’alterità.
2. La lotta per il riconoscimento nell’Hegel del periodo di Jena (1802-1807)
La ripresa che Ricoeur ha fatto della teoria hobbesiana dello stato di
natura dal punto di vista del misconoscimento originario, costituisce un
momento che ha come replica quella di Hegel, replica consistente nel
fatto che alla base del vivere insieme esiste un motivo morale che il
filosofo tedesco identifica con il «desiderio di essere riconosciuto» che
si esplica nella lotta per il riconoscimento. Nell’impostazione hegeliana, il concetto di Sittlichkeit, di «vita etica» o «eticità», prende il posto
del concetto hobbesiano di «artificio», la cui massima espressione è il
Parcours de la reconnaissance, p. 246; trad. it. pp. 190-191.
T. Hobbes, Leviatano, cit., p. 229.
162 Parcours de la reconnaissance, p. 251; trad. it. p. 194.
163 Ibid.
160
161
86
Leviatano. Secondo quest’ottica, alla paura della morte violenta si contrappone il desiderio di essere riconosciuto. Ma cosa ha permesso a
Hegel di passare dalla lotta per la sopravvivenza alla lotta per il riconoscimento? Ricoeur individua il debito più immediato di Hegel nei confronti dei testi di Fichte concernenti la rilettura della grande tradizione
del diritto naturale. Del resto, sempre da Fichte, Hegel ha potuto ricavare l’idea di includere la lotta per il riconoscimento nella dialettica tra
autoasserzione e intersoggettività.
La teoria del riconoscimento trova una sua prima comparsa nello
scritto System der Sittlichkeit164. Qui l’idea di riconoscimento interviene
in relazione alla formalità del diritto e nel contesto della struttura del
governo del popolo sotto l’egida della giustizia. La tematica del riconoscimento non è mai riproposta senza la sua ombra negativa data dal
crimine come diniego del riconoscimento stesso. Degli aspetti e momenti della hegeliana nozione di riconoscimento, Ricoeur respinge il
contesto speculativo dell’Identità, della Totalità in cui questa nozione
viene di volta in volta delineata senza «contropartita empirica». Respinge poi i suoi corollari: intuizione versus concettualità, indifferenza
versus differenza, universalità versus particolarità. «Questa forma di ontoteologia – osserva Ricoeur – impedisce infatti alla pluralità umana di
apparire come l’elemento referente insuperabile delle relazioni di mutualità, scandite dalla violenza, che il discorso hegeliano percorre, dal
livello della pulsione e dell’amore sino al livello della fiducia in seno
alla totalità del popolo»165.
In un altro scritto hegeliano, risalente sempre al periodo di Jena, intitolato Realphilosophie (1805-1806)166, la nozione di riconoscimento
non è solamente menzionata ma anche elaborata ed articolata. In questo testo viene delineata una filosofia in cui lo spirito si fa «uguale a sé»
facendosi «altro da sé». Nei suoi passaggi, la natura compare come
elemento da superare e sopprimere. Nel contesto delle fasi del ritorno
dello spirito a sé la tematica del riconoscimento viene elaborata ed arG.W.F. Hegel, System der Sittlichkeit, ristampa della Lasson-Ausgabe Meiner
Hamburg 1969; trad. it. di A. Negri, Sistema dell’eticità, in Scritti di filosofia del
diritto (1802-1803); trad. it. di A. Negri, Laterza, Bari 1971, pp. 161-301.
165 Parcours de la reconnaissance, p. 264; trad. it. p. 203
166 G.W.F. Hegel, Jenaer Realphilosophie, Meiner, Hmburg 1969; trad. it. Filosofia
dello spirito jenese (1805-1806), in G.W.F. Hegel, Filosofia dello spirito jenese (18051806); trad. it. di G. Cantillo, Laterza, Bari 1971, pp. 103-216.
164
87
ticolata, cosa che nel sistema dell’eticità non accadeva. Ma, afferma
Ricoeur, il tema del riconoscimento non costituirà, «come invece accade nelle filosofie posthegeliane della finitezza e della pluralità umane, la spinta dinamica della conquista della mutualità»167.
Per la trattazione ricoeuriana, risulta di particolare utilità la ripresa
operata da Axel Honneth della nozione di lotta per il riconoscimento
elaborata da Hegel nel periodo di Jena. Nel libro Lotta per il riconoscimento, egli opera una riattualizzazione di questa tematica al di fuori però della metafisica dell’assoluto. In tal senso, egli pone la sua trattazione in un contesto «postmetafisico» mettendo la «pluralità umana al posto dell’Identità e della Totalità». Honneth opera una svolta intersoggettiva al tema dell’autoaffermazione-volontà di potenza. A. Ferrara, introducendo il breve testo di Honneth intitolato Riconoscimento e
disprezzo, osserva che «Il conflitto sociale, nella visione di Honneth,
non è mai solo un conflitto per il mero controllo delle risorse, per avere di più, per imporre agli altri la volontà per il potere. È un conflitto
che ha bensì come fine l’affermazione del Sé individuale o collettivo,
ma un’affermazione che non è veramente completata se non conquista
il riconoscimento dell’altro. Se il conflitto è al fondo una lotta per essere
riconosciuti nel proprio valore dall’altro, alla sua radice c’è sempre in
qualche modo una mancanza di riconoscimento»168. Ricoeur si trova
d’accordo con Honneth sia nella critica alla hegeliana metafisica
dell’assoluto che nell’impostazione di base della riattualizzazione del
tema hegeliano dell’Anerkennung, cercando comunque di fare emergere, più di quanto non abbia fatto Honneth, le esperienze pacificate di
mutuo riconoscimento. Per il filosofo francese, si tratta di portare
avanti la riflessione sulla problematica della lotta per il riconoscimento
esponendo i momenti di quelle esperienze di pace che segnano la fine
della lotta e il superamento del diniego del riconoscimento. In definitiva, si presenta la prospettiva di far sfociare il discorso relativo alla
lotta per il riconoscimento nel contesto della tematica riguardante gli
«stati di pace».
Parcours de la reconnaissance, p. 265; trad. it. 204.
A. Ferrara, Presentazione a A. Honneth, Anerkennung und Mißachtung. Ein formales Konzept der Sittlichkeit trad. it. e presentazione di A. Ferrara, Riconoscimento
e disprezzo. Sui fondamenti di un’etica post-tradizionale, Rubbettino, Messina 1993,
pp. 48; la cit. si riferisce alle pp. 8-9.
167
168
88
3. Modelli di riconoscimento e forme negative del disprezzo
Dagli scritti di Hegel risalenti al periodo di Jena, nel contesto della tematica concernente la lotta per il riconoscimento, Honneth ricava tre
modelli di riconoscimento intersoggettivo. Questi tre modelli sono riconducibili agli ambiti dell’amore, del diritto e della stima sociale. Ad
essi, l’autore fa corrispondere tre figure del diniego del riconoscimento, ossia tre diverse forme di negazione. Questa messa in parallelo, per
Ricoeur, costituisce «il contributo più importante del libro di Honneth
alla teoria del riconoscimento nella sua fase posthegeliana, in quanto i
tre modelli di riconoscimento forniscono la struttura speculativa, mentre i sentimenti negativi conferiscono alla lotta la sua carne e il suo
cuore»169. Ricoeur analizza questo studio ricavandone un allargamento
delle capacità individuali dell’uomo; si tratta per lui di far emergere
l’idea di un uomo che lavora per conquistare la propria ipseità e che,
nel mutuo riconoscimento, giunge al compimento del percorso del riconoscimento di sé. Al tempo stesso, egli cerca di delineare una prospettiva etica che, lungi dal rinserrarsi nel cerchio incantato dell’autorealizzazione solitaria e individualistica dell’ego, si pone sul piano intersoggettivo di una ipseità che realizza la propria vita buona con gli altri
e per gli altri, dando il proprio contributo a nuovi modi di «essere-almondo» sempre più radicati nella giustizia e nel mutuo riconoscimento. È su questo piano teorico pratico che può così prendere vita
un’etica all’insegna del superamento dei conflitti.
a) Lotta per il riconoscimento: amore e umiliazione
L’amore, come primo contesto di lotta per il riconoscimento, comprende i rapporti amicali, familiari ed erotici che implicano «forti vincoli affettivi tra poche persone»170. Nella sua riattualizzazione di questo
primo modello di riconoscimento, Honneth assume la teoria psicoanalitica della «relazione d’oggetto» per trattare delle molteplici situazioni
conflittuali generate dalle diverse forme di attaccamento emotivo del
tipo madre-figlio e dei conflitti di natura intrapsichica del tipo «Io-Es».
Egli prende in considerazione i conflitti interpersonali e intrapsichici
caratterizzanti il percorso del bambino nella sua faticosa acquisizione
169
170
Parcours de la reconnaissance, p. 275; trad. it. p. 213.
A. Honneth, Lotta per il riconoscimento, cit., p. 117.
89
della propria autonomia171. Per il bambino si tratta di uscire dalla dipendenza assoluta dalla madre, segnata da un legame libidinale di natura fusionale, affrontando e superando la prova della sua assenza. Le
stesse dinamiche conflittuali si ripetono anche in altre età della vita,
compresa l’età adulta in cui gli individui sono messi a confronto con la
prova della separazione, la quale, se per un verso costa molto dispiacere, dall’altro apre la strada alla maturazione della capacità di stare da
soli. Questa capacità, osserva Ricoeur, «cresce in proporzione alla fiducia dei partner nella permanenza del legame invisibile che si intesse
nell’intermittenza della presenza e dell’assenza»172. Fusione emozionale
e affermazione di sé nella solitudine vanno così a costituire, nella storia degli amanti, i due poli dinamici di un rapporto amoroso maturo. A
tale proposito Honneth afferma che «nel precario equilibrio tra fusione e demarcazione del Sé, il cui mantenimento caratterizza qualunque
forma ben riuscita di relazione primaria, i soggetti possono reciprocamente esperirsi come amati nella loro individualità solo nella misura in
cui hanno la capacità di restare soli con se stessi senza paure. Una
modalità simile della fiducia in se stessi costituisce il presupposto elementare dell’autorealizzazione, in quanto permette al singolo di acce-
171 Se per Freud la spiegazione dello sviluppo psichico del bambino aveva
come riferimento base il modello strutturale Es-Io (conflitto intrapsichico tra
le istanze pulsionali inconsce e i meccanismi di controllo che si vengono a
radicare nell’Io), dopo il secondo dopoguerra si aprirono campi di ricerca che
rivelarono la grande importanza delle esperienze interpersonali fatte dal bambino nei primissimi mesi di vita. Si comprese il grande peso svolto dalle interazioni sociali nell’acquisizione della sua autonomia. Questa posizione venne
avvalorata dai numerosi casi di patologie psichiche non più spiegabili in base
ai conflitti intrapsichici tra le componenti dell’Io e dell’Es e riconducibili proprio a disturbi interpersonali intervenuti nel processo di raggiungimento
dell’autonomia da parte del bambino. Su tale questione cfr. M.N. Eagle, La
psicoanalisi contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1993; D.W. Winnicott, The Maturational Process and the Facilitatine Environment. Studies in the Theory of Emotional
Development, Hogarth Press and the Istitute of Psychoanalysis, London 1965;
trad. it. di A. Bencini Baratti, Sviluppo affettivo e ambiente. Studi sulla teoria dello
sviluppo affettivo, Armando, Roma 1970; Id., Playing and Reality, Tavistock, London 197; trad. it. di G. Adamo e R. Gaddini, Gioco e realtà, Armando, Roma
1997.
172 Parcours de la reconnaissance, p. 277; trad. it. p. 214.
90
dere a quella libertà interna che a sua volta gli consente di articolare i
propri bisogni»173.
In un rapporto d’amore maturo, gli amanti possono tenere saldi i
loro legami e vincoli anche a distanza. La stessa situazione può essere
ritrovata nell’amicizia in cui, come in amore, ci sono i momenti
dell’incontro e della separazione, la quale provoca sofferenza per
l’assenza; ma è proprio la prova dell’assenza che può far maturare la
capacità di stare da soli e, in questo stato, conservare e rendere permanente la sollecitudine reciproca174.
Honneth fa corrispondere a questa prima forma di riconoscimento,
relativa alle relazioni primarie, una forma di disprezzo consistente nel
maltrattamento e nella violenza. Qui la componente della personalità
minacciata è l’integrità fisica. Egli precisa che la lesione fisica non
comporta solamente dolore fisico poiché, quest’ultimo, si combina
con il sentimento di essere in balia della volontà di un altro soggetto
fino al punto di essere privati dell’esperienza della realtà. Il maltrattamento fisico è un tipo di misconoscimento che va ad incidere sulla sicurezza di sé, sulla fiducia in sé e nel mondo sociale. Per Ricoeur gli
attacchi all’integrità fisica non bastano a delimitare questo primo tipo
di disprezzo; nelle relazioni primarie è la mancanza di approvazione a
costituire la più grave e profonda ferita che si possa infliggere all’altro.
In tal senso, la più crudele forma di disprezzo in amore non è data dalle violenze fisiche (sevizie di ogni genere, tortura o stupro) – che pure
distruggono alla radice la fiducia che una persona può avere in se stessa – ma sono la mancanza di approvazione e l’umiliazione a costituire
il diniego più grave. La disapprovazione, infatti, va a colpire un ordine
di aspettative ben più complesso di quello riguardante l’integrità fisica.
A. Honneth, Riconoscimento e disprezzo. Sui fondamenti di un’etica posttradizionale, cit., pp. 39-40.
174 A tale riguardo, è molto bella e incisiva la citazione che Ricoeur fa di un
passaggio del testo di Simone Weil intitolato “Amitié”: «Ci sono due forme di
amicizia, l’incontro e la separazione. Sono indissolubili. Esse racchiudono il
medesimo bene, il bene unico, l’amicizia […] Giacché racchiudono il medesimo bene, sono ugualmente buone; gli amanti, gli amici, hanno due desideri;
uno è il desiderio di amarsi a tal punto da compenetrarsi a vicenda per diventare un unico essere; l’altro è il desiderio di amarsi a tal punto che se fossero
separati dalla metà del globo terrestre la loro unione non soffrirebbe alcuna
diminuzione» (“Amitié” in Œuvres, Gallimard, Paris 1999, p. 755).
173
91
Gli amici e gli amanti, osserva Ricoeur, «si approvano mutualmente
di esistere» e questa approvazione fa dell’amicizia un bene, anzi, come
afferma Simone Weil, un bene unico sia nella «separazione» che nell’«incontro». «L’umiliazione, avvertita come il ritirarsi o il rifiutarsi di
questa approvazione, colpisce ciascuno al livello pregiuridico del suo
“essere con” altri. L’individuo si sente in certa misura guardato dall’alto in basso, addirittura non considerato affatto. Privato di approvazione, è come se non esistesse»175.
Sempre nella sfera del modello di riconoscimento dato dall’amore
sono compresi i rapporti familiari ed erotici e quindi i rapporti genitori-figli e marito-moglie. Questi rapporti sono caratterizzati da regole e
costrizioni che, come ha mostrato Hegel, sono vere e proprie istituzioni appartenenti a contesti affettivi che hanno poi sviluppi giuridici.
«Nella famiglia i legami verticali di filiazione si incrociano con le linee
orizzontali della coniugalità […] Il legame coniugale, a qualsiasi statuto
giuridico si richiami, è il punto di scambio obbligato tra queste relazioni verticali e orizzontali. Dal canto suo, anch’esso è sottoposto a
una costrizione, che si impone a tutte le varianti socialmente accettate
della coniugalità, ossia alla proibizione dell’incesto; quest’ultima inscrive la sessualità nella dimensione culturale, instaurando la differenza tra
il legame sociale e il legame di consanguineità»176. Per quanto riguarda
il fenomeno della filiazione, Ricoeur prende in esame il sistema genealogico. In esso, l’ego è in fondo ad una scala ascendente che si divide in
due linee, paterna e materna, le quali a loro volta si sdoppiano. Ma al
di là di questa considerazione esteriore, passando al significato vissuto
dall’ego nel sistema dei posti, risulta che l’ego, con la sua nascita, ha avuto una assegnazione di un posto fisso nel lignaggio, assegnazione che
gli ha conferito una identità nel contesto dell’istituzione civile come
«figlio di…», «figlia di…». Questo significa che, prima ancora di essermi pensato e voluto come soggetto di percezione, di azione, di imputazione, di diritto, io sono stato e resto, afferma Ricoeur, «quell’inestimabile oggetto di trasmissione»177. Trasmissione della vita, della
storia della famiglia, della eredità di beni sia materiali che spirituali, traParcours de la reconnaissance, p. 280; trad. it. p. 216.
Ivi, pp. 280-281; trad. it. pp. 216-217.
177 Ricoeur riprende questa espressione e gli studi sul sistema genealogico dal
libro di Pierre Legendre, L’inestimable Objet de la trasmission. Étude sur le principe
généalogique on Occident, Fayard, Paris 1985.
175
176
92
smissione che si riassume nell’assegnazione di un nome. Nella denominazione si concentrano diversi ordini di trasmissione e ciò costituisce il «riconoscimento del lignaggio», ossia l’essere stato riconosciuto/a figlio/a. Proprio in quanto sono stato riconosciuto come figlio
di…, mi riconosco come tale e, in tal senso, «sono questo oggetto inestimabile di trasmissione». Nell’ambito di questo atto di riconoscimento di sé nel lignaggio, è possibile fare due ordini di riflessioni. Uno riguardante la nascita, un altro concernente i permessi e le costrizioni
che il principio genealogico esercita nei riguardi dell’intero percorso di
vita del desiderio.
Sul fronte della nascita, il filosofo francese distingue una nascita
come inizio della vita dalla nascita come origine. La prima è preceduta
dagli antecedenti biologici, dai desideri e dai progetti dei genitori; la
seconda non può essere spiegata in termini di inizio: l’origine non è
inizio, per la riflessione costituisce un enigma poiché l’origine rinvia
solamente a se stessa. «Di fronte alla nascita come origine, il pensiero
speculativo non sa cosa scegliere: o la contingenza dell’evento (avrei
potuto non esserci o essere un altro) oppure la necessità di esistere (è
perché io ci sono, in maniera irrefutabile, che io posso domandare)»178.
Per quanto riguarda la riflessione sul versante di ciò che il principio
genealogico vieta e permette, Ricoeur osserva, seguendo le analisi di
Pierre Legendre, che il principio genealogico «obietta alla spinta incestuosa». In tal senso, esso mette in ordine i legami di parentela, mette
ordine nella coniugalità, e, in questo modo, organizza la filiazione. Il
principio genealogico opera una fortissima interdizione nei confronti
dell’incesto poiché la pulsione incestuosa è profondamente radicata
nell’uomo costituendo una seria minaccia per tutto il sistema genealogico. Se ciò non fosse vero, afferma Ricoeur, non si capisce perché nel
mito e nella tragedia sia stato rappresentato come il crimine più orribile, insieme al parricidio che ne è il corollario. È proprio alla luce
dell’orrore suscitato dal crimine di Edipo che la coniugalità svela il suo
178 Parcours de la reconnaissance, p. 282; trad. it. p. 219. È interessante osservare
che a proposito della «nascita come origine, che non è inizio», Ricoeur cita il
bellissimo distico di Angelus Silesius che recita: «La rosa fiorisce senza perché: fiorisce perché fiorisce, A se stessa non bada, che tu la guardi non chiede» A. Silesius, (Cherubinischer Wandersmann…., Glatz 1675; trad. it. di G. Fozzer e M. Vannini, Il pellegrino cherubino, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo
2004, 3^ ediz.), I, 289, p. 209.
93
più profondo significato di mediatrice tra il principio genealogico e la
pulsione incestuosa. Se pur non immune dalle dinamiche conflittuali
scatenate dallo scontro con l’amore erotico, è in virtù dell’affetto coniugale che i coniugi si considerano non solo semplici genitori ma genitori dei loro figli. «A questo mutuo riconoscimento tra gli stessi genitori corrisponde il riconoscimento filiale da cui il riconoscimento di se stessi nella filiazione riceve il suo senso più completo»179.
b) «Lotta per il riconoscimento sul piano giuridico»
Passando alla lotta per il riconoscimento sul piano giuridico, risulta
che il predicato «libero» prende il posto occupato, in ambito affettivo,
dalla «capacità di stare da solo» e il «rispetto» va ad occupare il posto
della «fiducia». Se la fiducia è caratterizzata dal carattere di prossimità
sul piano affettivo, il rispetto va oltre questa relazione poiché ha pretesa universale. Hegel ha individuato nella sfera giuridica un nesso tra la
comprensione del nostro «io» come portatore di diritti e la conoscenza
degli obblighi normativi che dobbiamo rispettare di fronte agli altri.
Honneth ha evidenziato che negli anni della maturità Hegel ha sintetizzato, con estrema lucidità e chiarezza, la nozione di riconoscimento
giuridico come forma di reciproco riconoscimento nel seguente brano
dell’Enciclopedia: «Nello stato […] l’uomo viene riconosciuto e trattato
come un essere razionale, come libero, come persona; e il singolo individuo a sua volta si rende degno di questo riconoscimento ubbidendo, con il superamento della naturalità della sua autocoscienza, a una
volontà universale, alla volontà che è in sé e per sé, cioè si comporta
nei confronti degli altri in modo universalmente valido, riconoscendoli
come ciò che lui vuol essere considerato – come libero, come persona»180.
Tale forma di reciprocità del riconoscimento giuridico, secondo
Honneth, si è realizzata in seguito a un processo storico che ha segnaParcours de la reconnaissance, p. 286; trad. it. p. 221.
Cfr. G.W.F. Hegel, Enzyklopädie der Philosophischen Wissenschaften III, in Werke in 20 Bänden, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1970, vol. X. La citazione è tratta
da un’aggiunta alle lezioni di Hegel, posta in nota al par. 432 dell’ Enzyklopädie
ma non compresa nell’edizione italiana dell’opera: Hegel, Enciclopedia delle
scienze filosofiche, trad. it. di B. Croce, introd. di C. Cesa, Laterza, Bari-Roma
1984. Abbiamo ripreso la citazione da A. Honneth, Lotta per il riconoscimento,
cit., p. 132.
179
180
94
to la nascita di un diritto post-tradizionale. Egli osserva che con il passaggio dai sistemi legislativi tradizionali a quelli moderni, i diritti individuali non sono più legati ai ruoli in quanto essi devono spettare ad
ogni uomo. Nei rapporti giuridici della tradizione, il riconoscimento
giuridico è intimamente legato alla stima sociale accordata al singolo
nel suo status di membro della società. Nei sistemi giuridici moderni,
invece, il riconoscimento come persona giuridica deve valere, per
principio, per ogni soggetto in eguale misura. Secondo quest’ottica,
tale riconoscimento si separa dal grado di stima sociale. Nel corso del
processo storico, il riconoscimento giuridico è stato distaccato dalla
stima sociale. Ciò risulta evidente, continua Honneth, nelle discussioni
che dai tempi di Kant e Schiller sono state condotte sull’idea del rispetto o della stima per altre persone. Sempre in questa direzione, alla
fine dell’Ottocento, Rudolf von Ihering, nel secondo volume di Der
Zweck im Recht181, opera di notevole importanza per lo sviluppo delle
scienze giuridiche, rispondendo alla domanda su cosa sia degno di
considerazione in un altro uomo, afferma che nel «“riconoscimento
giuridico” […] trova espressione il fatto che ogni soggetto umano deve valere senza distinzione come un fine in sé, mentre il “rispetto sociale” mette in risalto il valore di un individuo, in quanto può essere
misurato secondo i criteri della rilevanza sociale»182. Honneth osserva
che nel primo caso si ha a che fare, in senso kantiano, con il rispetto
universale della libertà del volere di una persona; nel secondo siamo
invece sul piano delle prestazioni individuali il cui valore dipende da
quanto sono percepite come significative da una certa società.
Facendo un confronto tra il riconoscimento giuridico e la stima sociale, Honneth afferma che in entrambi i casi un essere umano viene
considerato in base a delle qualità. Ma i due casi implicano qualità differenti: per il riconoscimento giuridico si tratta della qualità generale
che fa dell’uomo una persona; per la stima sociale si tratta di qualità
che differenziano una persona da altre persone. Nel contesto del riconoscimento giuridico è centrale la questione del modo in cui può essere determinata la qualità costitutiva delle persone in quanto tali, e allora «come poter determinare la capacità che i soggetti si accreditano re-
181 R. von Ihering, Der Zweck im Recht, Breitkopf u. Härtel, Leipzig 1905, 2
voll.
182 A. Honneth, Lotta per il riconoscimento, cit., p. 136.
95
ciprocamente quando si riconoscono come persone giuridiche?»183.
Tale questione per i sistemi giuridici post-tradizionali è di fondamentale importanza. Infatti, una volta sciolta dalla condizione di status,
l’attribuzione di diritti deve assumere il compito non solo di proteggere il possesso, ma anche l’esercizio di quella capacità universale che fa
dell’uomo una persona. Si tratta di una capacità senza la quale risulta
impossibile sia l’accordo su un ordinamento giuridico, che la disponibilità individuale all’obbedienza di quanto lo stesso ordinamento giuridico prescrive. Questa capacità consiste nel «decidere razionalmente e
autonomamente sulle questioni morali». «Pertanto ogni comunità giuridica moderna, solo perché la sua legittimità viene a dipendere
dall’idea di un accordo razionale tra individui dotati di uguali diritti,
poggia sull’assunto della capacità morale di intendere e di volere di tutti i suoi membri»184. Questa capacità dà luogo alla responsabilità di rispondere di se stessi.
Prendendo in considerazione la procedura di accordo razionale, è
possibile chiarire cosa significa la formula: soggetto capace di agire autonomamente da un punto di vista razionale. La responsabilitàcapacità di «decidere razionalmente e autonomamente sulle questioni
morali» è intimamente legata alla responsabilità-capacità di prendere
parte ad una discussione basata su argomentazioni ragionevoli e avente come tema principale l’allargamento della sfera dei diritti soggettivi.
Dal punto di vista storico, in tale allargamento ha svolto un ruolo decisivo la lotta per il riconoscimento. «L’estensione cumulativa delle
pretese giuridiche individuali con cui abbiamo a che fare nelle società
moderne può essere intesa come un processo nel quale le qualità generali di una persona moralmente capace di intendere e volere hanno assunto proporzioni sempre maggiori perché, sotto la pressione di una
lotta per il riconoscimento, hanno dovuto essere immaginati sempre
nuovi presupposti della partecipazione alla formazione razionale della
volontà»185.
Il passaggio alla modernità comporta l’affermazione di un sistema
giuridico contrapposto a quello tradizionale legato alla stima sociale.
Questa contrapposizione non è accolta da Ricoeur per il fatto che la
ricostruzione del passaggio alla modernità effettuata da Honneth coA. Honneth, Lotta per il riconoscimento, p. 138.
Ivi, p. 139.
185 Ibid.
183
184
96
stituisce una eccessiva semplificazione. Ciò che invece da Honneth
riprende è, da un lato, la prospettiva di un processo storico segnato da
lotte per il riconoscimento giuridico, dall’altro il fatto che questo processo storico ha determinato un allargamento della sfera dei diritti con
la relativa estensione delle capacità possedute dalla persona giuridica.
Ricoeur afferma che nel riconoscimento in senso giuridico si ha la
congiunzione tra validità universale della norma e la singolarità delle
persone e che è da questa congiunzione che derivano nuove capacità
individuali. Il riconoscimento giuridico possiede una struttura duale,
questa consiste nella congiunzione tra l’allargamento della sfera dei diritti riconosciuti alle persone e l’arricchimento delle capacità che queste stesse persone riconoscono a se stesse. «Allargamento della sfera
dei diritti» ed «arricchimento delle capacità individuali» sono processi
tra loro collegati e sono il risultato storico di lotte per il riconoscimento.
L’allargamento della sfera normativa dei diritti può essere considerata,
da un lato sul piano dell’enumerazione dei diritti soggettivi; dall’altro sul
piano dell’attribuzione di questi diritti a diverse categorie di individui o
di gruppi. Nella enumerazione dei diritti soggettivi, Ricoeur segue A.
Honneth, Robert Alexy186 e Talcott Parsons187, i quali distinguono i diritti soggettivi in tre categorie: diritti civili, diritti politici e diritti sociali.
Honneth afferma che nella prima categoria sono compresi «i diritti
negativi che proteggono le libertà, la vita e la proprietà della persona
dalle ingerenze dello Stato», nella seconda sono compresi i diritti positivi riguardanti la partecipazione ai processi della formazione della volontà pubblica, mentre la terza riguarda i diritti positivi che consentono una partecipazione equa alla ripartizione dei beni fondamentali188.
Basandosi su uno studio di Thomas H. Marshall189, Honneth ritiene
che l’affermazione dei diritti alle libertà della prima categoria ha poi
aperto la strada ai diritti soggettivi delle altre due categorie: «per poter
agire come persona moralmente capace di intendere e volere, il singoR. Alexy, Theorie der Grundrechte, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1986.
T. Parsons, The System of Modern Societies Prentice Hall, Englewood Cliffs,
NJ, 1971; trad. it. a cura di L. Gallino, Sistemi di società. Le società tradizionali. Le
società moderne, 2 voll., il Mulino, Bologna 1971-1973, II.
188 Cfr. A. Honneth, Lotta per il riconoscimento, cit., p. 140.
189 T.H. Marshall, Citizenship and Social Class, in Sociology at the Crossroads,
Heinemann, London 1963.
186
187
97
lo necessita non soltanto della protezione giuridica da intrusioni nella
sua sfera di libertà, ma anche dell’opportunità giuridicamente garantita
di partecipare al processo di formazione della volontà pubblica; di tale
opportunità, però, egli può fare un uso effettivo solo se contemporaneamente gli è garantito un certo standard di condizioni di vita»190.
Questo significa che insieme all’allargamento della sfera dei diritti del
singolo cittadino si è realizzata una estensione delle capacità fondamentali precipue dell’uomo come persona. A tale proposito, Marshall
ha effettuato una ricostruzione storica della spinta evolutiva che ha
portato ad una progressiva estensione del riconoscimento dei diritti.
Nel diciottesimo secolo si sono imposti i diritti di tipo liberale, nel diciannovesimo secolo si sono affermati quelli riguardanti la partecipazione politica e nel ventesimo secolo i diritti connessi al benessere
economico. Ricoeur osserva che l’apertura dei diritti sociali relativi alla
equa distribuzione dei beni commerciali e non, su scala planetaria costituisce un grave problema: «ciò di cui soffrono in maniera particolare
i cittadini di tutti i paesi è il contrasto stridente tra l’eguale attribuzione
di diritti e la diseguale distribuzione di beni»191. Una società come la nostra, che concepisce il progresso in base alla produttività e che, in tutti
i settori, riconosce le persone per la loro capacità di produrre, altro
non fa che aumentare le disuguaglianze non solo nei confronti dei cosiddetti Paesi poveri, ma anche all’interno di uno stesso Stato.
Come in amore, così anche nel contesto della forma di riconoscimento dato dalle relazioni giuridiche (diritti) si hanno diverse figure di
misconoscimento. In particolare, ad ogni categoria dei diritti soggettivi
corrispondono diverse manifestazioni di diniego di riconoscimento. Il
diniego dei diritti civili produce umiliazione, l’esclusione dalla partecipazione alla vita politica, dà luogo a frustrazione, infine, il sentimento
di esclusione deriva dalla negazione di accedere ai beni elementari.
Ogni diniego del riconoscimento ha come conseguenza la perdita di
rispetto che la persona nutre nei confronti di se stessa192; ogni diniego
produce nella persona differenti condizioni affettive, sentimenti negaA. Honneth, Lotta per il riconoscimento, p. 142.
Parcours de la reconnaissance, p. 291; trad. it. p. 225.
192 A tale proposito Honneth afferma che «l’esperienza della privazione dei
diritti si accompagna tipicamente a una perdita del rispetto di sé, cioè della
capacità di riferirsi a se stessi come a un partner dotato di uguali diritti nelle
interazioni con i propri simili» (Lotta per il riconoscimento, cit., p. 161).
190
191
98
tivi. È ovvio che questi sentimenti, come risultato di esperienze negative derivanti dall’emarginazione sociale, sono molto spiacevoli, ma è
altresì vero che attraverso essi l’individuo è spinto alla reazione, alla
mobilitazione. Così l’indignazione, vissuta come lesione del rispetto di
sé, da un lato può risultare disarmante, dall’altro può generare una risposta morale all’oltraggio, può determinare nell’individuo la volontà
di diventare un attore della lotta per il riconoscimento. Partecipando
in prima persona nella lotta per il riconoscimento, l’individuo viene
riconosciuto come responsabile dalla società e da se stesso. Tale responsabilità viene definita da Ricoeur come la capacità di risponde di
se stesso e di decidere autonomamente sulle questioni morali. Questa
responsabilità-capacità risulta essere legata alla responsabilità-capacità
di partecipare attivamente, con altri interlocutori, alla discussione sui
diritti civili, politici o sociali.
Oltre alla questione relativa all’allargamento della sfera dei diritti
soggettivi, c’è anche quella della sua estensione ad un numero sempre
più grande di individui. Il discorso viene così a riguardare le popolazioni delle diverse latitudini del mondo che sono state e continuano ad
essere oppresse, sfruttate, violentate nel corpo e nell’anima, negate anche dei più elementari diritti civili. In questi casi, «L’esperienza negativa del disprezzo assume allora la forma specifica dei sentimenti di
esclusione, di alienazione, di oppressione e l’indignazione che ne deriva ha potuto imprimere alle lotte sociali la forma della guerra, sia che
si trattasse di rivoluzione, sia che si trattasse di guerra di liberazione o
di decolonizzazione»193. Il «rispetto di sé», generato dalle vittorie riportate in queste guerre dalle popolazioni oppresse, merita, afferma Ricoeur, «il nome di orgoglio». Il sentimento di orgoglio si lega con la
capacità di avanzare rivendicazioni e in questa consiste ciò che si chiama
dignità umana194.
Parcours de la reconnaissance, pp. 293-294; trad. it. p. 226.
In questo passaggio Ricoeur riprende la bella espressione di Joel Feinberg
riportata da Honneth : «ciò che si chiama “dignità umana” può soltanto essere la riconoscibile capacità di avanzare rivendicazioni» (J. Feinberg, “The Nature and Value of Rights”, in Rights, Justice and the Bounds of Liberty. Essays in
Social Philosophy, Princeton University Press, Princeton, NJ, 1980, cit. ripresa
da A. Honneth, Lotta per il riconoscimento, cit., p. 146).
193
194
99
c) Lotta per il riconoscimento e stima sociale
La stima sociale si distingue dal concetto di rispetto di sé come
quest’ultimo non può essere confuso con il concetto di fiducia in sé
che si pone sul piano affettivo. Honneth afferma che «i soggetti umani
hanno sempre bisogno, oltre che dell’investimento affettivo e del riconoscimento giuridico, anche di una stima sociale che consente loro
di riferirsi positivamente alle concrete qualità e capacità»195. La stima
sociale riassume, dice Ricoeur, tutte le modalità di mutuo riconoscimento che oltrepassano il semplice riconoscimento dell’uguaglianza
dei diritti tra soggetti liberi. Ma su quali basi normative, in virtù di quali regole sociali e valori, si realizza la stima sociale? Quali forme di
conflittualità genera? E quali capacità personali sono in gioco nel contesto del mutuo riconoscimento consistente nella stima sociale? Da
queste problematiche prende avvio la ricerca di Ricoeur sulla stima sociale. Egli assume come base di partenza la considerazione di Honneth
relativa al fatto che questo modello di riconoscimento trova il suo presupposto nell’esistenza di valori intersoggettivamente condivisi. «Ego
ed Alter possono stimarsi vicendevolmente come persone individuate
solo se condividono gli orientamenti di valore e i fini che segnalano
loro reciprocamente l’importanza o il contributo delle loro qualità personali per la vita dell’altro»196. La stima sociale ha a che fare con le qualità che caratterizzano le persone nella loro singolarità, essa esige un
medium sociale che esprima, in maniera universale e intersoggettivamente vincolante, le differenti qualità delle persone. La società offre
un quadro di orientamento simbolicamente articolato nel quale sono
indicati un complesso di valori e fini etici. La stima intersoggettiva è
determinata dalle finalità etiche che si sono affermate in una certa società.
Dal complesso di valori e finalità etiche risulta l’autocomprensione
che una società ha di se stessa; la concezione culturale che una società
elabora di se stessa è data dall’insieme dei suoi valori e fini etici da essa
accolti. I criteri di autocomprensione culturale di una società costituiscono la base di orientamento della stima sociale delle persone. In tal
senso le capacità e le prestazioni delle persone vengono valutate intersoggettivamente nella misura in cui possono contribuire alla trasfor195
196
Cfr. A. Honneth, Lotta per il riconoscimento, cit. p. 147.
Ibid.
100
mazione dei valori culturalmente stabiliti. Le caratteristiche della forma di riconoscimento consistente nella stima sociale, cambiano a seconda delle epoche e, quindi, risentono dei mutamenti storicostrutturali della società, i quali comportano un cambiamento delle stesse mediazioni sociali. Sulla scia di Honneth, Ricoeur afferma che
«L’esame del concetto di stima sociale si ritrova così a dipendere da
una tipologia delle mediazioni che contribuisce alla formazione
dell’orizzonte di valori condivisi, giacché la nozione stessa di stima varia secondo il tipo di mediazione che rende una persona “stimabile”»197.
Muovendo da questo quadro di riferimento, Ricoeur prende in
esame altri tipi di conflittualità, quelli derivanti dalla competizione sociale alla luce di un testo di Luc Boltanski e Laurent Thévenot intitolato De la justification. Les économies de la grandeur198. Qui il termine «giustificazione» assume lo stesso senso del termine «riconoscimento» usato
da Ricoeur. Questi autori intendono la giustificazione come la strategia
attraverso la quale dei competitori si fanno accreditare dei posti nella
scala delle grandezze. In virtù delle loro prestazioni sociali, le persone
sono valutate come «grandi» o «piccole»; queste valutazioni sono effettuate in base a determinati criteri che fungono da griglie di grandezza.
Queste sono dagli autori chiamate «economie di grandezza» in relazione ad un certo tipo di riuscita sociale. Si hanno diversi ordini di
grandezza in corrispondenza alle diverse forme di giustificazione (riconoscimento); per ognuna di essa vale una certa griglia di grandezza
e, quindi, valgono determinati criteri di valutazione. Boltanski e
Thévenot parlano di cittadinanze, come M. Walzer parla di “sfere di
giustizia” 199, assumendo un approccio pascaliano secondo il quale gli
«ordini» possiedono una propria ragione di legittimazione: ciò che è
valido in una sfera può non esserlo in un’altra.
Boltanski e Thévenot presentano per ogni ordine di grandezza una
situazione di disputa tra le persone; tale situazione si pone sullo stesso
piano del ricoeuriano concetto di lotta per il riconoscimento. Secondo
il loro punto di vista, oltre alle forme di giustificazione civiche, domeParcours de la reconnaissance, p. 295-296; trad. it. p. 228.
L. Boltanski, L. Thévenot, De la justification. Les économies de la grandeur, Gallimard, Paris 1991.
199 Cfr. M. Walzer, Sphères de justice, Paris, Seuil, 1997; trad. it. di G. Rigamonti,
Sfere di giustizia, Feltrinelli, Milano 1987.
197
198
101
stiche, industriali, commerciali o di opinione, ne esistono altre. Ad
esempio, nel caso di creativi e artisti, si parlerà di «grandezza ispirata».
Le valutazioni delle prestazioni sono effettuate in base a prove di giustificazione, a test, da superare. Superando le prove i contendenti sono
«giustificati» e gli vengono attribuite delle grandezze. Tali dispute, per
gli autori, non si pongono sul piano della violenza, come invece sostengono certe filosofie della politica che concentrano l’attenzione sul
potere e la forza, ma sul piano dell’argomentazione.
Ora, tra i diversi protagonisti della disputa ci deve essere un accordo sulle prove idonee per l’attribuzione della grandezza, nonché dei
princìpi che fanno da base per l’accordo sulla grandezza nell’ambito di
certi modi di vita che gli autori chiamano «città» o «mondi»: città
commerciale, città ispirata, città domestica, città dell’opinione, città industriale, ecc. Da ogni città deriva una certa strategia di giustificazione,
in ognuna di essa ci sono dei princìpi in virtù dei quali viene attribuita
la grandezza ad una persona. Per ogni città, gli autori si sono avvalsi di
testi di diverso genere. Per la «città dell’ispirazione», si sono serviti della Città di Dio di Agostino. Da questo testo deriva che il principio della
grazia è ciò che permette di separare la grandezza ispirata dalle altre
forme di grandezza corrotte da interessi terreni e dalla «vanagloria».
Inoltre, questo principio permette di stabilire una gerarchia di beni.
Nessun credito viene accordato alla fama. È nella «città dell’opinione»
che la celebrità e la grandezza dipendono esclusivamente dal giudizio
degli altri, mentre nella «città domestica», per la quale gli autori trovano utili argomentazioni nell’opera di J.-B. Bossuet intitolata La politica
estratta dalle proprie parole della Sacra Scrittura200, la grandezza di una persona è connessa con i valori di fedeltà, di bontà, di giustizia, di mutua
assistenza. Passando alla «città civica» troviamo come riferimento privilegiato Il contratto sociale di Rousseau, che identifica nella subordinazione alla volontà generale il principio fondante la grandezza civica.
Quasi agli antipodi della città civica di Rousseau, gli autori pongono la
«città industriale» dove, come afferma Saint-Simon nel Sistema industriale (1869), sono gli industriali a governarla e a stabilire ciò che per essa
è utile. La città industriale può essere confrontata con la «città commerciale», la quale trova il proprio paradigma nelle opere di Adam
200 J.-B. Bossuet, La Politique tirée de propres paroles de l’Écriture sainte, Droz, Genève 1709.
102
Smith, che nella Teoria dei sentimenti morali201, pone una base etica alla
ricerca dell’utile individuale. In tal senso, egli presenta il legame sociale
come fondato su una inclinazione interessata allo scambio che non è
accompagnata da sentimenti di invidia.
Ora le diverse città (o mondi) non rimangono isolate tra loro, ma
entrano in comunicazione, e allora, oltre alle rivalità, agli scontri generati dalle dispute per essere giustificati (in termini ricoeuriani: per essere riconosciuti) all’interno di un singolo mondo, ci sono i dissidi che
sorgono allorché questi mondi si confrontano tra loro. Un mondo
può contestare i criteri di grandezza di un altro mondo, ma non solo,
tale dissidio può arrivare fino al punto da colpire la nozione stessa di
grandezza: che peso può avere un grande intellettuale agli occhi di un
grande imprenditore? (è ovvio che la questione può essere rovesciata:
che peso ha un grande imprenditore per un grande intellettuale?). Non
c’è accordo nei criteri di valutazione, inoltre si può verificare quella
situazione, chiamata da M. Walzer di «dominanza», che vede una sfera
imporsi su un’altra. Nella storia occidentale, una tipica situazione di
dominanza si è verificata tutte le volte che, ad esempio, la sfera religiosa si è voluta imporre su quella politica e viceversa. Un altro pericolo è
poi quello detto di «struttura di conversione»: una sfera traduce i suoi
valori in un’altra.
Nel caso in cui una grandezza di un mondo viene misconosciuta da
coloro che sono «grandi» in un altro mondo, è l’importanza di certe
capacità delle persone ad essere screditata. Questo misconoscimento,
segnato dall’incomprensione, può dal discredito spingersi all’odio
(spesso frutto di una inconscia invidia) per l’altro. Per Ricoeur questo
discorso (che è parte di quella dimensione negativa della relazione intersoggettiva che non può essere omessa in quanto può, in senso hegeliano, rivelarsi feconda) è molto utile per la sua capacità di risvegliare, tramite la critica, «ciascun attore di un mondo ai valori di un altro
mondo, a rischio di cambiare mondo. Si rivela così una nuova dimensione della persona, la dimensione che la vede in grado di comprendere un mondo diverso dal suo; e si tratta di una capacità che può essere
paragonata alla capacità di imparare una lingua straniera al punto da
percepire la propria lingua come una lingua tra altre lingue»202. Tale
A. Smith, The Theory of Moral Sentiments; trad. it. di S. Di Pietro, Teoria dei
sentimenti morali, Rizzoli, Milano 1995.
202 Parcours de la reconnaissance, p. 306; trad. it. p. 236.
201
103
capacità, ancora una volta, richiede un preliminare e quanto mai faticoso lavoro sul proprio narcisismo, sulle resistenze ad ospitare e riconoscere l’altro, su tutto ciò che ci impedisce un autentico incontro con
l’altro. Si tratta di superare la dimensione egoistica ed egocentrica di se
stessi. Solo seguendo questa via è possibile giungere al riconoscimento
delle altrui capacità e dei risultati teorici e pratici di quest’ultime.
Una via più semplice di questa è data dal giungere al bene comune
mediante un compromesso. Boltanski e Thévenot affermano che «in
un compromesso ci si mette d’accordo per comporre, vale a dire per
sospendere il dissidio, senza perciò regolarlo facendo ricorso a una
prova in un unico mondo»203. Il compromesso è un tipo di tregua che
può essere paragonato agli stati di pace, ossia ad una condizioni di
conciliazione. A tale riguardo, Ricoeur tiene a precisare che «facciamo
compromessi per il bene della pace civica»204 e che essi risultano essere
indispensabili quando non si trova un accordo. Il compromesso richiede un duro lavoro di negoziazione, di confronto e dialogo tra le
parti in gioco. È fondamentale per il mantenimento della pace, ma è
per sua natura fragile, poiché esprime la fragilità stessa del bene comune in cerca di giustificazione propria. Il compromesso può sempre
essere bollato dai polemisti come compromissione. Al di là di questo,
la nozione di compromesso costituisce una prospettiva che consente,
afferma Ricoeur, una rilettura delle procedure di allargamento dei diritti soggettivi visti in precedenza; inoltre, spesso è la sola via per perseguire il bene comune. Ma il bene comune costituisce il presupposto
o il frutto delle condotte di compromesso? Forse, la risposta può essere data richiamandoci alla saggezza phronetica, ovvero al giudizio pratico in situazione che ogni volta consente di agire nel modo che più
conviene.
Continuando il percorso della giustificazione avente come guida
«l’idea di grandezza», incontriamo il problema dell’autorità e quindi la
dimensione verticale tra grande e piccolo che sembra contrastare quella orizzontale del riconoscimento inteso come stima di sé. Certo che
l’autorità può essere vista come ciò che mette coloro che comandano
di fronte a coloro che obbediscono. A tale riguardo Hegel, nell’ultima
L. Boltanski, L. Thévenot, De la justification. Les économies de la grandeur, cit.,
p. 337.
204 P. Ricoeur, Pour une éthique du compromis, in «Alternatives non violentes»,
1991, n. 80, pp. 2-7. La cit. è di p. 3.
203
104
sezione della Realphilosophie aveva affrontato la questione dell’alienazione di fronte alla potenza e dell’elogio della tirannia fondatrice. Osserva Ricoeur, «il diritto di comandare non coincide con la violenza,
nella misura in cui il potere è ritenuto legittimo e in tal senso autorizzato o, meglio dire, accreditato»205. In Parcours de la reconnaissance, egli
considera il problema dell’autorità secondo il suo aspetto sociale e culturale, tralasciando quello istituzionale e politico già affrontato in Le
Juste II nella sezione intitolata “Le paradoxes de l’autorité”206.
Ci sono forme di potere, come quelle imposte con la forza, con la
violenza, con la persuasione e il paternalismo, che non possono assolutamente conciliarsi con la prospettiva etica del vivere insieme nel
contesto di istituzioni giuste. Nei diversi casi di potere assoluto, la pretesa superiorità del potere è tale da cercare in Dio la propria legittimazione (come è noto, la storia è piena di sovrani e di imperatori che ritenevano che il loro potere derivasse dall’alto, da Dio). In altri casi ancora, nei regimi dittatoriali e totalitari come quelli del secolo scorso in
Europa e in America latina, la figura del capo-dittatore assume la sembianza del «capo branco» che richiede obbedienza assoluta e si arroga
per sé il diritto-potere di vita e di morte. Certo che in questi casi ci
troviamo lontani da quella dimensione del «prestigio della grandezza»
evocato da Pascal nei Pensieri207 quale rimedio alla lacerazione del legame sociale; ma, occorre dire che anche quest’ultima forma di autorità, al pari di quella «assoluta», comporta una forma molto problematica di riconoscimento di coloro che stanno in basso e, sicuramente,
non compatibile con la sfera del «vivere insieme». Una forma di autorità in armonia con l’etica del vivere insieme, separata da quella facoltà
di comandare che chiede obbedienza, è per Ricoeur rintracciabile in
ciò che Gadamer, in Verità e metodo, chiama «riconoscimento della superiorità». Gadamer afferma che «L’autorità delle persone non ha il
suo fondamento ultimo in un atto di sottomissione e di abdicazione
della ragione, ma in un atto di riconoscimento e di conoscenza, cioè
nell’atto in cui si riconosce che l’altro ci è superiore in giudizio e in inParcours de la reconnaissance, p. 308; trad. it. p. 237.
P. Ricoeur, «Le paradoxe de l’autorité», in Le Juste II, Esprit, Paris 2000;
trad. it. di I. Bertoletti, Il paradosso dell’autorità, «Hermeneutica», 2002, pp. 93107.
207 B. Pascal, Pensées; trad. it. di P. Serini, Pensieri, Einaudi, Torino 1962, n. 369,
p. 160.
205
206
105
telligenza, per cui il suo giudizio ha la preminenza, cioè sta al di sopra
del nostro proprio giudizio»208. La nozione di grandezza illustrata da
Boltanski e Thévenot si pone in linea con questo modello gadameriano di riconoscimento della superiorità. Secondo Ricoeur, «Il modello
di riconoscimento della superiorità più completo sarebbe da ricercarsi
nel rapporto di insegnamento tra maestro e discepolo. Già all’esordio
del De Magistero Agostino mette di fronte all’altro due atti, l’atto di insegnare e quello di imparare, collegati tra loro dall’atto di interrogare,
di cercare»209. Tale forma di riconoscimento della grandezza si pone
nel contesto di un rapporto verticale di autorità.
Dal punto di vista del diniego di riconoscimento o misconoscimento nel contesto sociale, ciò che alla persona viene negata è l’approvazione sociale del suo modo di vita e della sua forma di autorealizzazione alla quale è pervenuta, magari a costo di grandi sacrifici. In tal
senso, l’individuo viene colpito sul piano del suo ideale di vita, ossia
viene misconosciuto, svuotato di ogni carattere positivo per la società.
Honneth chiama questo tipo di diniego «offesa», «umiliazione»; esso
colpisce l’onore e la dignità di una persona privandola della possibilità
di attribuire alle proprie capacità un valore sociale. Questo misconoscimento può riguardare non solo gli individui ma interi gruppi, non
solo modi di vita individuali ma anche collettivi. Egli osserva che «nelle ricerche psicologiche che studiano le ripercussioni personali di esperienze di tortura o di stupro si parla frequentemente di “morte psichica”; nell’ambito di ricerca che, riferendosi a esempi come quello della
schiavitù, si occupa della privazione collettiva dei diritti e
dell’emarginazione sociale ha preso piede invece il concetto di “morte
sociale”»210.
4. Riconoscimento e multiculturalismo
Il misconoscimento, la lotta per il riconoscimento e il mutuo riconoscimento sono tematiche che riguardano da vicino una società, come
H.G. Gadamer, Wahrheit und Methode. Grundzüge einer philosophischen Hermeneutik, Tübingen, J.C.B. Mohr, 1960; trad. it. di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1983², p. 328.
209 Parcours de la reconnaissance, p. 310; trad. it. pp. 238-239.
210 Cfr. A. Honneth, Lotta per il riconoscimento, cit. p. 162.
208
106
quella di oggi, caratterizzata dalla convivenza, più o meno conflittuale,
di una pluralità di culture, etnie, ideologie, fedi religiose. Questa diversità, in continua trasformazione, è testimoniata dalla stessa pluralità
delle lingue che esprimono, dicendola con Wittgenstein, altrettante
«forme di vita». L’affermazione di una lingua sulle altre è senza dubbio
indice di una spinta all’egemonia culturale, alla superiorità di determinati modelli e stili di vita su altri. Assumendo un punto di vista psicoanalitico, Ricoeur osserva che c’è una certa resistenza, ossia un «subdolo rifiuto» di accogliere lo straniero nella propria lingua. «La pretesa
di una autosufficienza, il rifiuto della mediazione dello straniero, hanno segretamente nutrito numerosi etnocentrismi linguistici e, ancor
più gravemente, varie pretese di egemonia culturale, come per il latino
dalla tarda antichità fino alla fine del Medioevo e anche al di là del Rinascimento, per il francese nell’età classica, per l’angloamericano ai
nostri giorni»211.
La lotta per il riconoscimento si dispiega su un numero davvero
impressionante di fronti: quello della lotta per il riconoscimento dei
diritti delle donne, per il riconoscimento dei diritti delle minoranze nere, delle diverse culture, dei diversi gruppi etnici. Di tutte queste forme
di lotta, Ricoeur si sofferma su quella collegata al problema del multiculturalismo. Con questo termine egli intende tutte quelle «istanze volte a ottenere uguale rispetto che provengono da culture effettivamente
sviluppatesi all’interno del medesimo ambito istituzionale»212. Qui è in
gioco quel riconoscimento dell’identità delle minoranze culturali che
continua ad essere oggetto di discriminazioni. Ricoeur affronta il problema del multiculturalismo con molta cautela poiché si tratta di una
tematica che può facilmente coinvolgere in discussioni e in prese di
posizione. A tale proposito, alto è il rischio di trasformarsi in un «osservatore coinvolto», il cui primo compito, egli osserva, è quello di
prendere in seria considerazione le tesi antagoniste per poi giungere
all’elaborazione di posizioni migliori. In questo contesto tematico, il
filosofo francese assume come riferimento l’opera di un autore che è,
P. Ricoeur, Défì et bonheur de la traduction, Discours à la remise du Prix de
traduction pour la promotion des relations franco-allemandes (15 avril 1997),
DVA Fondation, Stuttgart 1997, pp. 15-21; trad. it. di I. Bertoletti in P. Ricoeur, La traduzione. Una sfida etica, a cura di D. Jervolino, Morcelliana, Brescia
2001, pp. 41-50, la cit. si riferisce alla p. 43.
212 Parcours de la reconnaissance, p. 311; trad. it. p. 239.
211
107
per l’appunto, un osservatore coinvolto. Si tratta del saggio di Charles
Taylor intitolato La politica del riconoscimento213. Nel discutere della situazione del Québec francofono l’autore, da osservatore coinvolto, lega il
problema dell’identità al riconoscimento-misconoscimento. Nelle lotte
per il riconoscimento, condotte da gruppi minoritari, egli trova conferma che la nostra identità viene plasmata, in parte, «dal riconoscimento o dal mancato riconoscimento o, spesso, un misconoscimento
da parte di altre persone»214. Il mancato riconoscimento, o misconoscimento, dice Taylor, colpisce direttamente le persone del gruppo leso dal punto di vista dell’immagine che esse si fanno di se stesse. Si
tratta di un’immagine che esse percepiscono come «spregevole, degradante, avvilente». Taylor costruisce le sue argomentazioni sul piano
della «politica della differenza» che contrappone a quello della politica
fondata sul principio di uguaglianza universale. Ricoeur osserva che
Taylor rimprovera all’universalismo astratto di non aver preso in considerazione le differenze, di essere “cieco alle differenze” in nome della neutralità liberale. Queste due politiche, la «politica della differenza»
e quella fondata sul principio di uguaglianza universale, sono accomunate dal fatto di fondarsi sulla nozione di «uguale rispetto», ma è proprio a partire da questa nozione che entrano in conflitto sul concetto
di dignità e sulle sue implicazioni egualitarie. Per quanto riguarda la
nozione di dignità, il liberalismo classico «si affida allo statuto di agente razionale, condiviso da tutti a titolo di potenziale umano universale
[…] nel caso della politica della differenza, l’esigenza di riconoscimento universale deriva dal fondo culturale differenziato, giacché
l’affermazione di un presunto potenziale umano universale è ritenuta
essere la semplice espressione di una cultura egemonica, quella
dell’uomo bianco di sesso maschile, al suo apice nell’età dei Lumi»215.
In fin dei conti, dal punto i vista della politica della differenza,
l’universalismo sbandierato dal liberalismo classico, non sarebbe altro
che un particolarismo mascherato da principio universale, frutto di
una cultura particolare egemonica. Una società liberale, afferma TayC. Taylor, The politics of Recognition, Princeton University Press, Princeton,
NJ, 1992; trad. it. di G. Rigamonti, “La politica del riconoscimento”, in J.
Habermas, C. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 9-62.
214 Ivi, p. 9.
215 Parcours de la reconnaissance, p. 313-314; trad. it. pp. 241-242.
213
108
lor, «si dimostra tale per il modo in cui tratta le minoranze, compresi
coloro che non condividono la definizione pubblica di bene, e soprattutto per i diritti che accorda a ognuno dei suoi membri»216. Secondo
l’ottica ricoeuriana, questa massima definisce una «politica del riconoscimento» che, sul piano personale, può recare vantaggio alla crescita
della stima di sé. Inoltre, il fatto di riconoscere reciprocamente le proprie radici culturali, istituisce una comunità priva di conflitti, offre le
condizioni per una convivenza pacifica e di reciproco rispetto.
5. Potere, riconoscimento e «stati di pace»
Al riconoscimento sociale corrisponde sul piano della relazione pratica
con se stessi la «stima di sé» o «autostima». Questa modalità di relazione pratica con se stessi si aggiunge alla «fiducia in sé» e al «rispetto di
sé». Sono modalità che, correlate ai rispettivi modelli di riconoscimento, alimentano la realizzazione etica. L’identità personale risulta così
costituirsi a livello intersoggettivo attraverso le diverse forme di riconoscimento. Ed è nel contesto delle diverse esperienze intersoggettive
di riconoscimento che l’uomo si riferisce a sé come soggetto:
nell’esperienza di riconoscimento dell’amore può maturare la fiducia
in sé, nell’esperienza di riconoscimento giuridico può sorgere il rispetto di sé, nell’esperienza del riconoscimento sociale può nascere la stima in sé. Tutte queste esperienze intersoggettive concorrono alla realizzazione dell’idea di «vita buona».
Dalla considerazione delle diverse forme di lotta per il riconoscimento sono così emersi nuovi poteri soggettivi. Sono «poteri-di» avere
fiducia in se stessi, di rispettare se stessi, di stimare se stessi. Sul piano
intersoggettivo questi poteri si dispiegano come capacità di avere fiducia nell’altro, di rispettare l’altro, di stimare l’altro. Essi si aggiungono a
quelli già emersi in precedenza e, per certi versi li presuppongono.
Tutti spingono verso la costituzione dinamica dell’identità personale.
Il movimento dal sé verso l’altro e quello che va dall’altro al sé, concorrono alla continua e dinamica modifica delle situazioni esistenziali
soggettive e intersoggettive. La stessa identità personale ne risulta modificata fino ad incidere sulle capacità e sui poteri più propri
dell’uomo.
216
C. Taylor, Lotta del riconoscimento, cit., p. 46.
109
La ricoeuriana prospettiva del potere si pone in un ambito etico.
Con l’etica, il potere politico deve mantenere solidi legami217 e deve
ogni volta, considerarne le ragioni e le rivendicazioni. Questo perché
senza condividere uno spazio comune con l’etico, il politico rischia di
trasformarsi in un «potere-su», ossia in una forma di violenza. Secondo l’ottica ricoeuriana, il potere non è nell’uomo una cieca spinta
all’accrescimento di se stesso, non è una mera pulsione autoreferenziale che cerca di incrementare se stessa attraverso l’altro. Il potere non
può essere per il potere. L’altro non può essere appiattito sul piano
strumentale a semplice mezzo utile per l’autorealizzazione di un io
narcisista. Ma all’altro viene indirizzata la richiesta di essere riconosciuti. E ciò può avvenire su diversi piani intersoggettivi: in amore, in
ambito giuridico, in un contesto sociale. Ad esempio, un individuo
può chiedere all’altro che gli venga riconosciuta la sua autorità. A tale
proposito Gadamer afferma che «l’autorità non viene semplicemente
concessa, ma deve essere acquistata con il rivendicarla. Essa si fonda
su un riconoscimento, e quindi su un’azione della ragione stessa, che,
consapevole dei suoi limiti, concede fiducia al miglior giudizio di altri.
Questo senso dell’autorità correttamente inteso non ha nulla da fare
con la cieca sottomissione a un comando. Anzi, l’autorità non ha immediatamente nulla da fare con l’obbedienza, ma con la conoscenza»218.
Affinché il potere non si trasformi da «potere-di» a «potere-su», occorre però superare anche la posizione affermante che il riconoscimento deve essere richiesto. Ciò che nel passo citato da Gadamer
manca, ma è assente anche nella lotta per il riconoscimento di Hegel, è
il carattere intrinsecamente reciproco di ogni domanda di riconoscimento. In tal senso, non si tratta solamente di esigere dall’altro riconoscimento, ma anche di offrirlo. Seguendo questo percorso ci avviciniamo a
In Dal testo all’azione, nella parte riguardante “Etica e politica”, Ricoeur tratta dell’interazione tra etica e politica affermando che il politico prolunga
un’esigenza costitutiva dell’intenzione etica, l’esigenza del mutuo riconoscimento, «che mi fa dire: la tua libertà vale quanto la mia. Ora, la dimensione
etica del politico consiste appunto nella creazione di spazi di libertà. Infine, in
quanto organizzazione della comunità, lo Stato dà forma giuridica a ciò che ci
sembra costituire il terzo neutro dell’intenzione etica, cioè la regola. Lo Stato
di diritto è in questo senso l’effettuazione dell’intenzione etica nella sfera del politico» (Du
texte à l’action, cit., p. 444; trad. it. p. 389).
218 H.G. Gadamer, Verità e metodo, cit., p. 328.
217
110
quella condizione etica che scavalca la logica della lotta per il riconoscimento.
Il riconoscimento ottenuto nel contesto di questa lotta è spesso il
frutto, come dicono Boltanski e Thévenot, di un compromesso. In
altri casi è il risultato di uno scambio. In tal senso, tra gli individui si
ha una reciprocità caratterizzata da una logica di tipo commerciale:
quella dell’equivalenza. In base ad essa tutto ha un prezzo, il dare è in
funzione dell’avere, si dona per essere riconosciuti, si riconosce per
essere riconosciuti. A questo riguardo, il denaro nel riconoscimento
sociale, ma anche in amore, gioca spesso un ruolo determinante. In
una società dominata dal mercato, dalla legge della domanda e
dell’offerta, dal profitto, dalla reificazione dell’uomo e delle relazioni
intersoggettive, anche il riconoscimento dell’altro diviene qualcosa che
può essere quantificato, misurato, pesato sulla bilancia sociale, scambiato e comprato. Naturalmente, ciò non ha niente a che fare con il
desiderio morale di essere riconosciuto, ma piuttosto con il desiderio
di incrementare la propria potenza seguendo la via del calcolo interessato. È possibile che il riconoscimento possa essere comprato? Stando
alle motivazioni consce delle persone, no. Pochissimi ammetterebbero
a se stessi di aver conquistato il cuore di un'altra persona con il proprio potere economico. Inoltre, sarà proprio vero che la persona non
si renda davvero conto di corrispondere all’affetto dell’altro per denaro? Forse no, vista la ben nota capacità incantatrice del denaro. Come
si sarà ben capito, qui stiamo scivolando nel contesto delle motivazioni inconsce che pochi hanno il coraggio e la capacità di affrontare. È
proprio vero, come dice Ricoeur, «l’essere-riconosciuto mantiene sino
alla fine una parte di mistero».
Un’etica del superamento dei conflitti, un’etica degli «stati di pace»,
è caratterizzata dal mutuo riconoscimento, la quale si distingue anche
dalla logica della reciprocità. Ma questa mutualità può essere retta dalla
giustizia? Può la giustizia da sola essere in grado di stabilire uno stato
di pace? In altri termini, può la giustizia mettere fine ai conflitti e garantire il perdurare di una condizione di pace? C’è mutuo riconoscimento quando alla base delle relazioni intersoggettive c’è giustizia?
Giunti a questo punto, si tratta di capire in che cosa consiste il mutuo riconoscimento, di quale logica o a-logica si nutre, come può essere realizzato e in quali contesti. E soprattutto, quali sono le «forme di
vita» che consentono gli stati di pace?
111
CAPITOLO IV
PER UN’ETICA DEL SUPERAMENTO DEI CONFLITTI:
MUTUO RICONOSCIMENTO E «STATI DI PACE»
1. Verso il superamento dei conflitti
È ora giunto il momento di riflettere sulle possibilità esistenziali
dell’«uomo capace» di realizzare un suo «essere-al-mondo» all’insegna
di «stati di pace», di forme di vita etiche caratterizzate dal superamento
dei conflitti. Seguendo il percorso ricoeuriano, si tratta di vedere se e
secondo quali modalità e contesti di vita, è possibile oltrepassare la lotta per il riconoscimento. A questo proposito, occorre chiarire quali
poteri-capacità dell’uomo devono essere mobilitati, dispiegati nell’agire
concreto.
Dalle molteplici considerazioni concernenti la lotta per il riconoscimento, emerge che la domanda di riconoscimento affettivo, giuridico e sociale, nasconde un’insidia, quella di essere, in fin dei conti, una
domanda indefinita. Si è visto che tale situazione può verificarsi non
solo nel contesto di un «mondo», ma anche tra mondi differenti; come
dire che il riconoscimento ottenuto nel proprio mondo può non essere valido dal punto di vista di un altro mondo. C’è di più, quella del
riconoscimento si rivela essere una domanda indefinita non solo per la
presenza reale o minacciosa di mancanza di riconoscimento nel proprio mondo o da parte di un altro, ma anche e soprattutto perché essa
conduce ad una rincorsa indefinita e mai paga del riconoscimento delle capacità, così da rendere la lotta interminabile. In tal senso si affaccia il pericolo di una nuova «coscienza infelice», alla quale Ricoeur
contrappone l’esperienza effettiva degli «stati di pace»: «l’alternativa
all’idea di lotta nel processo di mutuo riconoscimento va ricercata nelle esperienze pacificate del mutuo riconoscimento, le quali si basano
113
su mediazioni simboliche che si sottraggono tanto all’ordine giuridico
quanto all’ordine degli scambi commerciali»219.
Nella cultura occidentale, osserva Ricoeur, i modelli di stati di pace
sono stati posti sotto il nome di philia (nel senso aristotelico), di eros
(nel senso platonico), di agape (nel senso biblico e post biblico). Ora
però, proprio per il fatto che questi modelli sono legati a tradizioni antiche come quelle ebraica, greca e cristiana, possono rappresentare un
ostacolo al tentativo di elaborare una prospettiva etica all’insegna del
mutuo riconoscimento. A tale proposito l’agape, «sembra rifiutare a
priori l’idea di mutuo riconoscimento nella misura in cui la pratica generosa del dono, per lo meno nella sua forma “pura”, non richiede né
aspetta alcun dono in restituzione»220. Da questo punto di vista, l’agape
che genera il dono gratuito stabilisce con l’altro una relazione unilaterale. Come può allora esserci mutualità con il dono puro? Ma, tra i diversi modelli di stati di pace, è proprio nell’agape che Ricoeur coglie la
possibilità di superare il piano della lotta per il riconoscimento e di approdare all’esperienza di mutuo riconoscimento. Questo può sembrare
paradossale; si tratta di vedere come egli riesce a conciliare quest’aspetto dell’agape con l’esigenza di mutualità nell’affermazione di uno
stato di pace. Un’altra tematica da chiarire è quella data dal fatto che
risulta essere significativo che tra i modelli di stati di pace, Ricoeur
non prende in considerazione la giustizia, che pure, in virtù della sua
logica dell’equivalenza e del suo principio di dare ad ognuno ciò che
gli è dovuto, sembra avere tutte le carte in regola per esserlo.
Negli ultimi scritti ricoeuriani, la tematica dell’amore inteso come
sovrabbondanza e gratuità, assume una posizione di primo piano proprio nel contesto della discussione sui rapporti intersoggettivi. È necessario però precisare che in Sé come un altro la tematica dell’amore è
messa fuori campo, non viene considerata dal discorso filosofico. Ciò
potrebbe sorprendere. Tale posizione può essere chiarita alla luce del
fatto che parlare di amore nella nostra cultura significa poi, in maniera
inevitabile, riferirsi all’agape biblico. In quella sede filosofica, il pensatore francese preferiva non parlarne, offrendo delle meditate motivazioni basate sulla distinzione tra due generi di discorso, quello filosofico e quello concernente la fede biblica. Il discorso etico di Ricoeur voleva così rimanere un discorso filosofico non mescolato con quello
219
220
Parcours de la reconnaissance, p. 319; trad. it. p. 247.
Ivi, p. 320; trad. it. pp. 247-248.
114
religioso. Del resto, egli osservava, sul piano etico e morale «la fede
biblica non aggiunge niente ai predicati “buono” e “obbligatorio” applicati all’azione. L’agape biblico dipende da una economia del dono di carattere meta-etico, che mi porta a dire che non esiste una morale cristiana, se non sul piano della storia della mentalità, ma una morale
comune (quella che tento di articolare nei tre studi dedicati all’etica,
alla morale e alla saggezza pratica) che la fede biblica pone in una
nuova prospettiva, in cui l’amore è legato alla “maniera di dire Dio” […]
Anche il fatto che ne risulti una dialettica dell’amore e della giustizia,
presuppone che ciascuno dei termini conservi la loro dipendenza
dall’ordine dal quale dipende»221.
A distanza di anni, Ricoeur smorzerà un po’ questi toni, prospettando una poetica della volontà (progetto giovanile, forse mai realizzato)
in diversi testi: in Giustizia e amore: l’economia del dono (1994)222; nella parte conclusiva de La mémoire, l’histoire, l’oubli intitolata «Il perdono difficile»; nella parte etica di Parcours de la reconnaissance. È una modalità tipica della filosofia ricoeuriana quella di portare alla riflessione anche ciò
che, pur non appartenendo all’ambito filosofico, non manca di avere
implicazioni speculative per il fatto di fare parte integrante dell’agire e
del soffrire temporali dell’uomo. Nel nostro caso preso in esame, anche l’agape nel senso biblico ed evangelico può essere assunto dalla riflessione filosofica e ciò, sia per le immense ripercussioni che nella
storia ha prodotto a livello individuale e collettivo, sia perché costituisce una fonte di illuminazione per la vita di ogni uomo. La logica, o alogica, della sovrabbondanza propria dell’agape dà a pensare e offre
una fondamentale e forse insostituibile risorsa per la comprensione
dell’essere-al-mondo dell’uomo e quindi per l’elaborazione concettuale
e pratica di condizioni esistenziali non conflittuali.
È muovendo dal linguaggio, dalle diverse modalità espressive attraverso le quali l’uomo parla, dice, il suo agire e soffrire determinati
dall’agape, che Ricoeur cerca di rendere intelligibili le caratteristiche
della logica della sovrabbondanza. Sia in Giustizia e amore che in Parcours, egli fa emergere i tratti distintivi dell’agape mediante un suo con-
Soi-même comme un autre, p. 37; trad. it. pp. 101-102.
P. Ricoeur, Justice et amour: l’économie du don, «Protestantesimo», 49, 1994, n.
1, pp. 13-24; trad. it. Giustizia e amore: l’economia del dono, in D. Jervolino,
L’amore difficile, cit., pp. 135-153.
221
222
115
fronto dialettico con la giustizia. Tra poco vedremo che è proprio in
contrasto con la logica della giustizia che l’agape «fa valere i suoi titoli».
2. L’opposizione dialettica tra agape e giustizia
La dialettica amore-giustizia viene svolta in Parcours de la reconnaissance
seguendo gli stessi movimenti argomentativi svolti in Giustizia e amore.
Nell’opera del 2004, tale dialettica risulta utile a Ricoeur al fine di fare
emergere l’esistenza di uno stato di pace, come quello dell’agape, che
non risponde né alla logica commerciale né a quella della giustizia. A
proposito dell’agape come stato di pace, in Parcours Ricoeur riprende da
un testo di L. Boltanski, intitolato L’Amour et la Justice comme compétences223, il seguente problema: «La teoria dell’agape pone un problema centrale, che è il problema del suo statuto. Si tratta forse di una costruzione che permette di descrivere delle azioni compiute dalle persone nella
realtà, di un ideale parzialmente realizzabile, di una utopia o di un inganno?»224. Occorre vedere quanta credibilità può essere accreditata
all’agape. La prova di credibilità del discorso dell’agape può essere ricavata alla luce della dialettica tra amore e giustizia.
Tra amore e giustizia, vi è uno scarto, o meglio, una sproporzione:
quella dell’amore è la logica della sovrabbondanza, quella della giustizia è la logica dell’equivalenza. È partendo dal piano espressivo che è
possibile impostare la dialettica agape-giustizia. Si tratta di mettere in
evidenza lo scarto, la distanza tra amore e giustizia, ma anche i loro
avvicinamenti muovendo dalle loro modalità espressive. Dal linguaggio dell’agape è possibile cogliere le caratteristiche della sua logica della
sovrabbondanza. L’agape parla, anzi ci parla, ma non come parla la giustizia, «si direbbe che parli un’altra lingua». Il linguaggio dell’amore è
soprattutto quello della lode, è un linguaggio elogiativo. «Nella lode,
l’uomo si rallegra della vista del suo oggetto, che regna al di sopra di
tutti gli oggetti delle sue preoccupazioni: mettere più in alto, rallegrarsi, celebrare, questa è l’opera della lode»225. Ricoeur indica come paraL. Boltanski, L’Amour et la Justice comme compétences, II parte: Agapè. Une introduction aux états de paix, Métaillé, Paris 1990.
224 Parcours de la reconnaissance, p. 323; trad. it. p. 250.
225 Giustizia e amore: l’economia del dono, cit., p. 136. Cfr. anche Parcours de la reconnaissance, p. 323; trad. it. p. 250.
223
116
digma dell’inno all’amore l’Epistola di Paolo ai Corinzi (1 Corinzi, capitolo XIII): «La carità è paziente, è benigna; la carità non invidia; la carità non si vanta, non si gonfia, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s’inasprisce, non sospetta il male, non gode dell’ingiustizia, ma gioisce della verità; soffre ogni cosa,
crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa». Ad esprimere
l’altezza dell’amore ci sono poi gli inni di benedizione e di celebrazione.
Un’altra caratteristica dell’amore viene espressa con un linguaggio
che si avvicina a quello della giustizia assumendo la forma imperativa
con espressioni del tipo: «Tu amerai il Signore tuo Dio […] e tu amerai il tuo prossimo come te stesso»; «Amate i vostri nemici». Sono,
questi, comandamenti che non possono essere intesi come leggi. Ricoeur riprende dall’opera Stella della Redenzione di Franz Rosenzweig226
l’idea che prima delle leggi di Dio del Sinai, al di sopra di tutti, c’è la
parola che l’amato rivolge all’amata: «amami!». C’è qui, osserva Ricoeur, un uso poetico dell’imperativo che si lega con il linguaggio della
lode e con la poesia dell’inno. In tal senso, l’imperativo assume la tonalità di una supplica che, come tale, si situa al di là della legge e
dell’interdizione. L’imperativo dell’amore, infatti, non porta con sé il
peso della punizione che è proprio della legge; «amami!», è un comandamento che si contrappone alla legge e alla sua costrizione morale:
«comandamento dell’amore mediante l’amore, comandamento che
contiene le condizioni della sua stessa obbedienza nella tenerezza della
sua intimazione»227. Ancora una volta, come nel precedente caso dell’inno all’amore, ci si ritrova di fronte alla logica della sovrabbondanza,
anche se qui risulta essere celata e per questo di facile fraintendimento.
Sempre seguendo il filo dell’espressione linguistica, Ricoeur mette
in rilievo una terza caratteristica dell’agape considerando la potenza
metaforica di certe espressioni – come quella del Cantico dei cantici –
che consente di stabilire dei legami con l’amore erotico e di percorrere
tutta la scala dell’amore (dinamica dell’amore) congiungendo i due
estremi: l’amore erotico e la devozione, il desiderio sensuale e il mistico.
F. Rosenzweig, Der Stern der Erlösung, Nijhoff, The Hague 1976; trad. it. di
G. Bonola, La stella della redenzione, Marietti, Casale Monferrato 1985.
227 Giustizia e amore: l’economia del dono, cit., p. 138.
226
117
Ponimi come sigillo sul tuo cuore,
come un sigillo sul tuo braccio;
perché forte come la Morte è l’Amore,
inesorabile come gli inferi la passione:
le sue scintille sono scintille ardenti,
una fiamma divina!
(Ct, 8, 6)228.
Qui l’amore è cantato come cosa umana, terrena, corporea e sensuale.
Al tempo stesso, le sue espressioni possono essere intese in senso metaforico come amore divino, la sua forza consente di ripercorrere nei
due sensi quella che Ricoeur denomina «la scala degli stati amorosi».
Ecco perché, egli afferma, «si è sempre potuto leggere il Cantico, sia
come canto nuziale, sia come poema mistico»229. In questo modo viene privata di valore la tesi relativa all’opposizione tra eros e agape230.
L’agape esclude ogni sentimento di privazione, e ciò in virtù
dell’abbondanza del cuore. La sua è una logica della sovrabbondanza
che fondamentalmente significa: dare più di quel che è dovuto, dare
più di quel che è preteso o che è giustamente rivendicato. In breve, significa: dare senza chiedere nulla in cambio. Questo discorso ci apre la strada alla logica del dono che vedremo più avanti.
La logica della sovrabbondanza, osserva Ricoeur, trova nel Nuovo
Testamento una grande varietà di espressioni. In alcune parabole si
congiunge con la retorica dell’eccesso. Ciò risulta evidente dal comandamento contenuto nel Sermone del Monte: «Voi avete udito che fu detto: Ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico, ma io vi dico: Amate i
vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano […] Se infatti
amate quelli che vi amano, che premio ne avete? Non fanno anche i
pubblicani lo stesso? E se fate accoglienza soltanto ai vostri fratelli,
che fate di singolare?…» (Mt 5, 43-48). A tale proposito Ricoeur afferma che si può persino parlare di una stravaganza etica e di una
«punta» rivolta contro la Regola aurea che è segnata dalla logica
Cantico dei cantici, a cura di G. Ravasi, Paoline, Cinesello Balsamo 1990
(quarta edizione).
229 Giustizia e amore: l’economia del dono, cit., p.138.
230 In Penser la Bible (Le Seuil, Paris 1998), Ricoeur sostiene la tesi della continuità tra eros e agape e della capacità del Cantico (che egli definisce come “Il
giardino delle metafore”) di significare più dell’amore erotico.
228
118
dell’equivalenza. I comandamenti: «A chi ti percuote su una guancia,
porgigli anche l’altra […] Dà a chiunque ti chiede; e a chi ti toglie il
tuo, non glielo ridomandare» (Lc 29-30), vengono prima della legge,
sono comandamenti impossibili come impossibile è l’«amami!» che
Rosenzweig formula riprendendo il Cantico dei cantici.
A questo punto si tratta di considerare l’altro polo dato dalla logica
della giustizia in opposizione a quello dell’amore. Per comprendere la
logica della giustizia, Ricoeur prende in esame il sistema giudiziario e,
in particolare, il settore penale. Da questo infatti si può capire ciò che
la giustizia degli uomini può di meglio produrre nel contesto delle diverse culture, antiche e moderne, esotiche o vicine. È ancora a livello
linguistico che la dialettica giustizia-amore può essere compresa. Assumendo l’ottica del linguaggio che dice l’azione e che esprime
l’esperienza dell’uomo, è interessante vedere come funziona la giustizia in un processo prendendo come riferimento l’argomentazione. Nei
trattati giuridici, l’argomentazione occupa un posto fondamentale. La
giustizia argomenta mentre l’agape si dichiara e si proclama. Da una
parte c’è la regola formale della giustizia, dall’altra l’inno dell’agape. C’è
poi un altro aspetto della giustizia che si contrappone all’agape. Nel diritto penale la sentenza giusta è quella che rende proporzionale la pena
al delitto. Essa si basa sulla correlazione tra la scala dei delitti e quella
delle pene: «Ecco la logica dell’equivalenza in tutta la sua gloria, e anche in tutta la sua severità, come ricorda l’emblema che riunisce la bilancia dai piatti uguali e il gladio che taglia»231. Il gladio è il simbolo
della sentenza che cade come una parola che separa, che mette da una
parte la vittima e dall’altra colui che è giudicato colpevole. La sentenza,
rispondendo alla logica dell’equivalenza, pone fine alla disputa, ma
questa, come vedremo, non comporta l’affermazione di uno stato di
pace. La logica dell’equivalenza, oltre ad essere attuata nella sentenza,
è operante in altri contesti del processo: tutti sono uguali di fronte alla
legge, uguale ascolto delle argomentazioni opposte.
Il legame tra giustizia e argomentazione risulta altresì evidente nelle
diverse situazioni in cui gli individui sono chiamati a superare delle
prove di giustificazione al fine di raggiungere, o di difendere, una certa
posizione nel contesto di un mondo (nel senso di come ne parlano
Boltanski e Thévenot). È evidente che questo discorso riguardante la
231
Giustizia e amore: l’economia del dono, cit., p.143.
119
società ci porta a cogliere la logica della giustizia in ambiti altri da quelli del sistema giudiziario, del penale, dei processi e delle sentenze. Infatti, si parla di giustizia sociale fuori dai tribunali: se ne discute nei diversi contesti di vita, sui giornali, in televisione. Spesso al centro delle
discussioni ci sono i numerosissimi casi di disuguaglianza sociale,
emarginazione, discriminazione, sfruttamento dei minori. Si tengono
dibattiti su leggi ed istituzioni ritenute ingiuste, sulle leggi da fare, da
modificare o da eliminare. Ma in base a che cosa usiamo i termini giusto e ingiusto? In base alla identificazione, pressoché completa, tra
l’idea generale di giustizia e l’idea di giustizia distributiva. Questa identificazione è all’insegna della logica dell’equivalenza. La giustizia distributiva è a fondamento di una società in cui viene realizzata una ripartizione di ruoli e compiti, di diritti e doveri, di vantaggi e svantaggi, di
benefici e costi. In ogni situazione di ripartizione, la formula più generale della giustizia è la seguente: «Dare a ciascuno ciò che gli spetta».
Sin dall’antichità, afferma Ricoeur, i moralisti hanno così connesso
il giusto con l’uguale: «Trattare in maniera simile i casi simili». Qui si
riaffaccia quella stessa logica dell’equivalenza che in precedenza abbiamo visto sul piano giudiziario. In questo caso si ha l’eguaglianza di
tutti di fronte alla legge e l’obbligo dei giudici di trattare i casi simili in
modo uguale. La connessione tra il giusto e l’uguale risulta più difficile
da mantenere, osserva Ricoeur, nell’ambito della società quando si
tratta di ripartire i beni di mercato e i servizi, autorità e responsabilità,
onori ed obblighi. Si pone allora la questione: quale uguaglianza? Economisti, moralisti, politologi si sono sforzati di distinguere tra uguaglianza proporzionale e uguaglianza aritmetica. Alla luce di questa distinzione è possibile affermare che «una ripartizione sarà giusta quando le parti saranno proporzionali all’apporto sociale delle parti». Questa definizione dà luogo ad un vero e proprio dilemma delle divisioni
ineguali, ma in termini di giustizia distributiva, consente di mantenere
l’uguaglianza. A tale proposito, nel secondo capitolo abbiamo già visto
la soluzione data da J. Rawls in Teoria della giustizia: alla luce della giustizia proporzionale, si tratta di massimizzare la parte minimale. In
questa formula, afferma Ricoeur, vi si ritrova la stessa logica dell’equivalenza che pone una corrispondenza tra la scala dei delitti e la
scala delle pene. «In fondo, è qualche cosa nello stesso ordine che ci
aspettiamo dalla giustizia sociale: la più giusta o la meno ingiusta, sarà
quella società dove la scala dei vantaggi sarà equivalente alla scala dei
120
contributi o prestazioni sociali. Questo non esiste certamente da nessuna parte, ma è un’idea feconda e degna di guidare l’azione, a differenza del sogno utopico della uguaglianza pura e semplice, la quale ho
detto non potrebbe essere realizzata se non al prezzo di una tirannia
pignola, con un ordine repressivo e violento»232. D’altra parte, nemmeno la carità (l’elemosina) può rimediare le ineguaglianze e sostituire
la giustizia; anzi, come dice lo stesso Ricoeur, per troppo tempo è servita per nascondere la miseria e per rendere accettabile le enormi ineguaglianze233. Certo che il donare senza domandare nulla in cambio
costituisce la dimensione precipua dell’amore, ma non è su questo
piano che può essere affrontata la vasta problematica della giustizia
sociale. Questo discorso però non deve precludere la possibilità di cogliere dei collegamenti costruttivi tra agape e giustizia. Anzi, la loro
concreta attuazione è resa necessaria alla luce del fatto che, in diverse
situazioni, possono trarre reciproco beneficio.
3. Un ponte tra amore e giustizia
In Giustizia e amore e in Parcours è possibile leggere lo sforzo-desiderio
ricoeuriano di cogliere dei collegamenti tra la logica dell’amore e quella
della giustizia. È la tematica del dono a consentire il collegamento tra
amore e giustizia, essa permette di gettare un ponte tra la sovrabbondanza dell’amore e l’equità della giustizia. In tal senso, agape e giustizia,
pur conservando la loro autonomia e diversità, possono incontrarsi
dando luogo ad una sorta di «categoria mista». Se questo è vero, è allora possibile «fare dell’amore il motivo profondo della giustizia, e della
giustizia il braccio efficace dell’amore, diventando la giustizia il relais
dell’amore, la sua immagine quotidiana, la sua versione prosaica»234. La
Giustizia e amore: l’economia del dono, cit., p. 146.
«Il nostro modo di donare, attraverso tutte le istituzioni caritative, non è
sovente una maniera di eludere il problema della giustizia sociale?» (Ivi, p.
147).
234 Ivi, p. 147. A tale riguardo, Ricoeur osserva che questo doppio legame tra
amore e giustizia lo si ritrova in diversi luoghi della Bibbia e del Nuovo Testamento; ad esempio nella «piccola escatologia di Mt 25: “Or quando il Figliuol dell’uomo sarà venuto nella gloria, avendo seco tutti gli angeli, allora
sederà sul trono della sua gloria: E tutte le genti saranno radunate dinnanzi a
232
233
121
via seguita da Ricoeur è quella di riuscire a rendere produttiva la sproporzione tra amore e giustizia, sproporzione che è emersa sia a livello
linguistico che logico (logica della sovrabbondanza e logica
dell’equivalenza). In precedenza, abbiamo avuto modo di osservare
che dal punto di vista ricoeuriano il Sermone sul Monte, come l’Epistola ai
Romani di Paolo, trasmette una stravaganza etica ed è caratterizzato
dalla retorica dell’eccesso. I comandamenti di amare i propri nemici, di
porgere l’altra guancia, di prestare senza aspettarsi ritorno, si contrappongono alla Regola aurea che è invece caratterizzata dalla logica
dell’equivalenza e della reciprocità. A tale riguardo, Ricoeur osserva
che il comandamento di amare non costituisce una semplice opposizione e tanto meno abolizione della Regola aurea, ma libera quest’ultima da un’interpretazione utilitaria e la riorienta verso un’interpretazione disinteressata. Secondo quest’ottica, l’amore disorienta, destabilizza la giustizia, spesso alimentata dal calcolo interessato, al fine di
«riorientarla verso la generosità […] Essere giusti, non per assicurare
l’equilibrio degli interessi ben compresi, come in una morale utilitaristica, ma perché il più sfavorito è in ultima analisi una persona singolare, insostituibile, non intercambiabile»235. L’amore agisce nel cuore dellui ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri; e metterà le pecore alla sua destra: Venite, voi, benedetti dal Padre mio;
ereditate il regno che vi è stato preparato sin dalla fondazione del mondo.
Perché ebbi fame, e mi deste da mangiare; ebbi sete, e mi deste da bere; fui
forestiere, e mi accoglieste; fui ignudo, e mi rivestiste; fui infermo, e mi visitaste; fui in prigione, e veniste a trovarmi. Allora i giusti risponderanno: Signore, quando mai t’abbiamo veduto aver fame e t’abbiamo dato da mangiare? O
aveste sete e t’abbiamo dato da bere? Quando mai t’abbiamo veduto forestiero e t’abbiamo accolto? O ignudo e t’abbiamo rivestito? Quando mai
t’abbiamo veduto infermo o in prigione e siam venuti a trovarti? E il Re, rispondendo, dirà loro: In verità vi dico che in quanto l’avete fatto ad uno di
questi minimi fratelli, l’avete fatto a me” (Mt 25, 31-40). E conosciamo – continua Ricoeur – le parole terribili rivolte a quelli di sinistra: “In verità vi dico
che in quanto non l’avete fatto ad uno di questi minimi, non l’avete fatto
neppure a me” (v. 45)». Questa via, che Kant avrebbe chiamato quella
dell’amore pratico, è quella seguita oggi dai diversi movimenti della teologia
della liberazione. «Diciamo: l’amore costituisce il motivo (la motivazione) della giustizia, e la giustizia è ciò che rende operativo l’amore» (Ivi, cit., pp. 147148).
235 Giustizia e amore: l’economia del dono, cit., p. 150.
122
la giustizia facendo in modo che essa guardi all’uomo nella sua irripetibile singolarità, nella sua umanità individuale.
Nella storia ci sono stati casi in cui l’amore ha acceso situazioni
conflittuali con la giustizia. Ciò si è verificato tutte le volte in cui
l’amore ha infranto i limiti delle mentalità, dei costumi, delle culture
dei diversi popoli, tutte le volte che ha abbattuto le divisioni e discriminazioni attuate nei secoli dagli uomini in ogni parte del mondo e in
ogni tempo, come quelle tra uomo e donna, libero e schiavo, ricco e
povero, bianco e nero… Per abbattere queste barriere, l’amore ha dovuto compiere atti intempestivi, spesso illegali nei confronti della legislazione vigente, «Per esempio San Francesco, che applica alla lettera i
comandamenti eccessivi, esorbitanti, stravaganti del Sermone del
Monte; oppure Gandhi, che tenta di trasformare la non violenza in
arma politica sotto forma di resistenza non violenta. E Martin Luter
King, che rompe le regole, perfettamente legali, che istituivano la segregazione razziale […] grazie alla rottura che queste azioni sovversive
operano nell’ordine, o meglio nel disordine stabilito, l’amore del nemico viene in soccorso della giustizia, aiutandola a compiere il di lei programma, in particolare la di lei mira universalista»236. La giustizia, attraverso l’aiuto dell’agape, può trovare un fecondo ed irrinunciabile aiuto
al fine di progredire sulla via del suo ideale: l’universalità. Ciò è possibile in quanto l’agape fa superare alla giustizia i sui limiti storici e culturali, i pregiudizi di classe e di casta, le ristrettezze etniche. Attraverso
gesti concreti, l’amore «istilla un po’ di generosità e di compassione in
un mondo di cui la giustizia non riesce da sola a limitare la violenza»237.
Pur conservando la sua sproporzione nei confronti della giustizia,
l’amore si pone in suo servizio e la giustizia può progredire in virtù
dell’opera dell’amore. In molte azioni e attività degli uomini, come
quelle caritative e quelle delle organizzazioni non governative, viene
attuata una continuità tra amore e giustizia. Ad esempio, nelle attività
delle ONG il gesto disinteressato, il dono gratuito si lega con un forte
senso di giustizia e quest’ultima, grazie all’amore, si ritrova nella sua
universalità, al di là di ogni distinzione di sesso, di razza, di religione,
di ideologia. Sul piano penale poi, un po’ di compassione (com-patire,
patire insieme) e di oblio volontario, addolciscono la severità della legge introducendo uno sconto della pena, la prescrizione, l’amnistia, la
236
237
Giustizia e amore: l’economia del dono, cit., p. 152.
Ivi, p. 153.
123
condizionale. Inoltre, ci sono i gesti di perdono che sono un concreto
esempio di amore e quindi di dono gratuito. A tale proposito Ricoeur
cita, nel contesto dei rapporti internazionali, i gesti simbolici, che rivelano l’economia del dono caratterizzata dalla logica della sovrabbondanza, come quello del cancelliere Brandt che si inginocchia a Varsavia, o di Vaclav Havel che chiede perdono ai tedeschi per le esazioni
seguite alla guerra contro i Sudeti, o di Juan Carlos che chiede perdono agli ebrei per le persecuzioni e le espulsioni messe in atto durante il
regno di Ferdinando d’Aragona, o la richiesta di perdono dei tedeschi
per i campi di sterminio238.
Un collegamento tra amore e giustizia è allora possibile, ed è il dono gratuito e disinteressato a costituire un ponte tra i due piani di vita,
tra le due logiche. L’agape è estranea al desiderio, non patisce privazione. Suo unico desiderio è quello di donare. L’uomo esprime e concretizza questo desiderio in diversi contesti di vita e si pone fuori dal
mondo del calcolo e dell’economia dei commerci in cui tutto ha un
prezzo e tutto è all’insegna del dare per ricevere. In un mondo come
questo anche i doni, se non dettati dalla logica dell’agape, sono fatti per
qualcosa e chiedono di essere contraccambiati. A tale proposito, vedremo più avanti, si fa strada tutta una serie di problematiche relative
al dono e al contro dono, al dono che richiede di essere ricambiato
con un oggetto avente almeno un prezzo equivalente.
Chi segue la logica della sovrabbondanza, l’uomo dell’agape, viene
spesso non compreso, anzi misconosciuto. Questo perché, richiamandoci alle economie di grandezza di Boltanski e Thévenot, appartiene
ad un mondo con una logica e dei criteri di grandezza totalmente diversi da quelli di quei mondi aventi in comune la logica dell’equivalenza. Questa incomprensione tra due mondi totalmente differenti è
illustrata anche da B. Spinoza: l’uomo che vive secondo ragione, ossia
l’uomo libero, non può essere compreso dall’ignorante, ossia dall’uomo che vive secondo immaginazione. Così Spinoza suggerisce che
«L’uomo libero, che vive tra gli ignoranti, si sforza, per quanto può, di rifiutare i
loro benefici» (Etica, Parte Quarta, Proposizione LXX). C’è il rischio della incomunicabilità tra mondi diversi, ecco perché l’uomo dell’agape
appare come stravagante e, in certi casi, sovversivo e pericoloso per
l’ordine costituito. Un uomo di questo tipo, Dostoevskij lo ha chiamaCfr. Parcours de la reconnaissance, p. 354; trad. it. p. 273; Giustizia e amore:
l’economia del dono, cit., p. 153.
238
124
to Idiota. Il principe Myškin è l’idiota non perché manchi di intelligenza, ma per il fatto di non valutare i diversi casi di disputa o contestazione con il metro della giustizia, di non usare la logica dell’equivalenza. I suoi gesti, i suoi giudizi, non sono compresi dagli altri
uomini. Nei confronti degli altri il malinteso è spesso ricorrente. Questo malinteso si verifica anche nell’esperienza del dono, tra colui che
dona per amore e colui che segue la logica dell’equivalenza e del dono
ricambiato.
Il gesto del perdono può anch’esso essere oggetto di malinteso poiché si pone al di là della logica economica del dare in vista del ricevere.
L’atto di perdonare è un atto d’amore che obbedisce alla stessa logica
dell’amare i nostri nemici; per coloro che non condividono il mondo
della sovrabbondanza è un gesto impossibile. Il perdono c’è, seppure
ai più risulta inspiegabile, incomprensibile; «C’è il perdono, come c’è la
gioia, come c’è la saggezza, la follia, l’amore. L’amore, appunto. Il perdono è della stessa famiglia»239. Il perdono è un dono gratuito che non
chiede ritorno. Come in Giustizia e amore, anche in La mémoire, l’histoire,
l’oubli, il perdono viene collocato nel contesto dell’«economia del dono». In Parcours viene messo in luce che è il perdono, e non la giustizia,
a contribuire alla pace. Qui si dice, che i gesti di perdono o la domanda di perdono, «non possono costituire una istituzione ma, portando
in luce i limiti della giustizia di equivalenza e aprendo uno spazio di
speranza nell’orizzonte della politica e del diritto sul piano postnazionale e internazionale, questi gesti producono un’onda di irradiazione e
di irrigazione che, in maniera segreta e obliqua, contribuisce all’avanzare della storia verso gli stati di pace»240.
Come dono gratuito, e solo in questo senso, il perdono abolisce la
tanto pericolosa sproporzione con la colpa. Se così non fosse, il perdonato sarebbe guardato dall’alto in basso, semplicemente come un
povero uomo incapace, crudele, inconsapevole dei suoi atti. Si stabilirebbe una relazione di potere che innalzerebbe colui che perdona al di
sopra del perdonato. In tal senso, il perdonare produrrebbe, in colui
che compie questo atto, orgoglio, senso di superiorità. Inoltre, un perdono che chiedesse un ritorno, una ricompensa, stabilirebbe una relazione verticale con colui che viene perdonato. Il perdono come dono
gratuito, invece, nasce dal silenzio del proprio cuore, dall’amore che si
239
240
La mémoire, l’histoire, l’oubli, cit., p. 605.
Cfr. Parcours de la reconnaissance, p. 354; trad. it. p. 273.
125
preoccupa dell’altro. Solo a partire dalla condizione d’agape il perdono
può sciogliere, liberare il colpevole dalla sua colpa che così avrà la
possibilità di iniziare una nuova vita, di «rifarsi una vita». L’uomo capace di perdono smentisce ogni teodicea che vede il male come originario: «Radicale è la “tendenza al male”, originaria è la “disposizione”
al bene»241.
L’uomo può essere capace di perdonare, e questa capacità si pone
sullo stesso piano delle capacità viste in precedenza e che, insieme,
compongono «il ritratto dell’uomo capace».
4. I paradossi del dono
È l’agape che permette lo stato di pace e non la giustizia. Infatti, nella
giustizia l’idea di equivalenza, implicitamente, contiene il germe di
nuovi conflitti. Questo perché spesso lascia nel contendente il desiderio di rivalsa e anche di vendetta. È l’agape a consentire di sospendere
la disputa, poiché permette di andare al di là dell’equivalenza e del calcolo. L’uomo dell’agape non si trova a suo agio nel mondo del calcolo
e dell’equivalenza, opera il primo gesto del dono generoso, ignora
l’obbligo di contraccambiare il dono, non si aspetta di essere contraccambiato.
Nell’«economia del dono», la logica della sovrabbondanza irrompe
nel discorso filosofico sull’etica svolto dal pensatore francese in Parcours de la reconnaissance. In quest’opera, a livello filosofico, Ricoeur assume la logica dell’amore: quella della sovrabbondanza. Nel dono gratuito c’è la sovrabbondanza dell’amore: «dare senza esigere un ritorno», c’è la generosità del donatore. Il «donare senza essere ricambiati
dell’agape» si pone sul piano del «senza prezzo», si distacca dalla logica
della giustizia retta dalla regola dell’equivalenza. Ma il dono «puro»,
quello di colui che dà gratuitamente senza esigere ritorno, può comunque comportare uno squilibrio tra donatore e beneficiario. Colui che
dà potrebbe essere percepito da colui che riceve su una posizione superiore fino a cogliere nel dono puro la manifestazione del potere,
l’essenza stessa del potere. Inoltre, in esso non c’è mutualità, ma solamente unilateralità.
241
La mémoire, l’histoire, l’oubli, cit., p. 640.
126
Se poi dal dono puro si passa all’esperienza dello scambio dei doni,
si osserva che spesso in essa è sottesa una logica della reciprocità che
si colloca sullo stesso piano della reciprocità dominante negli scambi
commerciali. Tale reciprocità comporta un circolo vizioso che ricorda
quello della vendetta (“Uccidere colui che ha ucciso”) e quello del sacrificio (“donare a chi donerà”). Oltre a questo non trascurabile aspetto, lo scambio dei doni, genera tutta una serie di problematiche relative al fatto che colui che riceve il dono sente in se stesso un obbligo a
ricambiare il dono ricevuto: «in che modo il donatario è obbligato a
ricambiare? E se questi, nel caso in cui sia generoso, è obbligato a ricambiare, in che modo il primo dono ha potuto essere generoso? In
altre parole, riconoscere un regalo contraccambiandolo non significa
forse distruggerlo in quanto regalo? Se il primo dono è un gesto di generosità, il secondo annulla, sotto l’obbligo di ricambiare, la gratuità
del primo»242. Proseguendo su questo versante, si può parlare di circolo vizioso tra il donare e il ricambiare, di double bind, doppio vincolo.
Per Ricoeur si tratta da un lato di non rimanere bloccati sul piano del
dono puro poiché questo comporta unilateralità; dall’altra di prendere
le distanze da uno scambio dei doni basato sulla reciprocità. La soluzione, ispirata dalla tesi espressa da Hénaff nell’opera Il prezzo della verità, è data dall’idea di «mutuo riconoscimento simbolico». Questa esperienza si pone nello stesso contesto dell’agape, ma in modo tale da: 1.
superare la sua dimensione unilaterale; 2. opporsi alla logica della reciprocità; 3. situarsi sul piano del «senza prezzo».
Per comprendere la prospettiva elaborata da Ricoeur sul dono simbolico cerimoniale, momento fondamentale dello stato di pace caratterizzato dall’affermazione del «mutuo riconoscimento simbolico», occorre partire dalla prospettiva che egli assume nelle sue riflessioni.
Questa muove dai risultati dell’etnologia delle società arcaiche ed ha
come testo di riferimento l’opera di Marcel Hénaff intitolata Le Prix de
la vérité243. In essa l’autore, tra le altre cose, analizza e sviluppa alcune
importanti tematiche elaborate da Marcel Mauss nel Saggio sul dono244.
Parcours de la reconnaissance, p. 332; trad. it. p. 257.
M. Hénaff, La prix de la vérité. Le don, l’argent, la philosophie, Le Seuil, Paris
2002; trad. it. di R. Cincotta, Il prezzo della verità, Città Aperta, Troina 2006.
244 M. Mauss, Essai sur le don. Forme et raion de l’écharge dans les sociétes arcaïques,
Presses Universitaires de France, Paris 1950; trad. it. di F. Zannino, Saggio sul
dono: forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino 2002.
242
243
127
Muovendo dalle tesi sul dono cerimoniale di Hénaff, Ricoeur elabora
l’importante tema del «mutuo riconoscimento simbolico» realizzato
attraverso il dono reciproco cerimoniale. Si dovrà allora comprendere
in che cosa consiste questo dono simbolico cerimoniale analizzato da
Hénaff, per poi passare alla trattazione della reinterpretazione ricoeuriana. Avremo modo di osservare che Ricoeur svolge una sorta di riattualizzazione di certi aspetti della tematica del dono cerimoniale, ponendo quest’ultimo nel contesto dell’agape.
In fondo, si tratta di pensare ad una relazione di scambio non appartenente all’ambito del commercio. Su questa via, occorre disgiungere le pratiche del dono dalle pratiche economico-commerciali e di non
intendere il dono come una forma arcaica dello scambio commerciale.
Il dono cerimoniale costituisce nelle società tradizionali, definite da
Mercel Mauss, «società arcaiche», la loro dimensione precipua. Di esso
risulta importante cercare di mettere in luce alcuni aspetti fondamentali in vista dell’apertura di un’interessante prospettiva sullo scambio dei
doni all’insegna del mutuo riconoscimento.
5. Il dono reciproco cerimoniale nelle «società arcaiche»
Marcel Mauss, tesaurizzando i risultati delle indagini di diversi studiosi,
come Emile Durkheim e Bronislaw K. Malinowski, descrive le pratiche del dono cerimoniale. Queste pratiche costituiscono i momenti
fondamentali della vita collettiva delle società tradizionali, «intendendo
con questo termine quelle società in cui la maggior parte delle relazioni
sociali e delle posizioni statutarie viene definita dai sistemi di parentela»245. Dove l’espressione «sistema parentale» non designa la famiglia
moderna, ma l’organizzazione del gruppo configurato dai rapporti di
alleanza, di filiazione e di consanguineità. Mauss non è stato di certo il
primo ad occuparsi delle pratiche del dono rituale, ma, afferma Hénaff, fu comunque il primo ad averne fatto un problema di ordine epistemologico. Ricercatori sul campo, come F. Boas, G. Hunt, E. Best,
B. Malinowski, si erano già occupati del dono cerimoniale; Mauss, basandosi sul vasto materiale etnografico da loro raccolto, individua
l’universalità del dono cerimoniale in diverse società tradizionali presenti in diversi luoghi della Terra: America nord-occidentale, Melane245
M. Hénaff, Il prezzo della verità, cit., pp. 156-157.
128
sia, Polinesia, isole Andatane; inoltre, nel passato, in società cosiddette
«storiche» (Scandinavi, Celti, Romani, Germani, Indiani). Hénaff osserva che Mauss «mette in evidenza l’unità dei diversi gesti del dono, e
dimostra che non si tratta affatto di un fenomeno marginale, bensì di
una componente fondamentale della vita delle società tradizionali e di
una pratica che, sotto forme meno visibili, continua a interessare le
società moderne»246. Al fine di giungere alla comprensione della grande
importanza che lo scambio dei doni riveste nella società tradizionali, a
Mauss è risultata fondamentale l’opera di Malinowski intitolata Argonauti del Pacifico occidentale (1922)247, nella quale vengono descritti i grandi cicli di doni detti kula (termine che può essere tradotto “cerchio”)
delle isole Trobriand, arcipelago della Melanesia. Un’altra sua principale fonte è stata quella di Franz Boas (1916-1966)248, la quale descrive lo
scambio agonistico detto potlàc delle popolazioni della costa nordoccidentale americana.
L’attività di scambio dei doni chiamato kula, momento cruciale della vita sociale indigena, riguarda beni preziosi (detti vaygu’a) consistenti
in due tipi di monili fatti di conchiglie e di coralli: i mwali, braccialetti
considerati femminili portati dagli uomini che viaggiano soltanto da
ovest verso est; i soulava, collane considerate maschili per sole donne
che viaggiano in senso opposto da est ad ovest. In questo doppio movimento, mwali e soulava tendono l’uno verso l’altro come il maschio e
la femmina249. Le spedizioni sono preparate con grandissima cura e
dovizia nei particolari; diverse settimane sono dedicate per raccogliere
i beni preziosi e per preparare le navi. Prima della partenza sono protetti da diverse cerimonie magiche. La partenza delle imbarcazioni,
come anche l’accoglienza, è solenne. Una volta che le navi sono giunte
sull’isola, sulla spiaggia vengono deposti dei doni introduttivi (opening
gift) detti vaga destinati a sedurre i partener kula. Coloro che li accettano possono continuare: può allora cominciare lo scambio principale
dei braccialetti e delle collane. Dopo vari giorni di scambi e di festeggiamenti, i naviganti ripartono con nuovi doni verso un’altra isola sulla
Ivi, pp. 167-168.
B. Malinowski, Argonauti del Pacifico occidentale. Riti magici e vita quotidiana nella
società primitiva, Newton Compton, Roma 1978.
248 F. Boas, Contribution to the Ethnology of the Kwakiutl (1895-1913), Am press,
New York 1969.
249 Cfr. M. Mauss, Saggio sul dono, cit., pp. 37-38.
246
247
129
quale avvieranno un altro scambio. Il valore dei doni non è solamente
dato dall’essere costituiti da materiali come coralli, pietre e conchiglie
rare, ma soprattutto per il fatto che sono appartenuti ad una certa persona.
Il tratto originale dell’analisi di Mauss consiste nell’aver mostrato
che le pratiche del dono rituale implicano tre obblighi inseparabili: quello
di donare, quello di accettare e quello di donare a propria volta. «Rifiutarsi di donare, trascurare di invitare, così come rifiutare di accettare
equivalgono ad una dichiarazione di guerra; è come rifiutare l’alleanza
e la comunione»250. C’è un obbligo a rispondere. Questo obbligo è illustrato da un discorso, riportato da Elsdon Best nel 1909, di un saggio
Maori, chiamato Tamati Ranaipiri, della Nuova Zelanda. Il saggio
Maori spiega così lo cambio rituale dei doni: se A fa un dono a B che
lo offre a sua volta a C, quando B riceverà un dono da C dovrà offrirlo ad A.
A→B→C
A←B←C
Il saggio Maori dice che una forza – lo hau- obbliga a ricambiare251.
Mauss interpreta questo hau come una forza magica, un’anima, che
pervade la cosa donata e che proviene da colui che dona: nelle cose
scambiate nel kula, c’è una virtù che costringe i doni a circolare, a essere dati e a essere ricambiati. Lévi-Strauss, nella “Introduzione
all’opera di Marcel Mauss”, afferma che Mauss si è lasciato ingannare
dall’indigeno accettando la sua interpretazione del termine hau. Per
Lévi-Strauss, questo termine non costituisce la ragione ultima dello
scambio, esso rinvia ad una necessità inconscia, quella di agire secondo regole. In tal senso, egli riduce il sociale a un universo calcolabile
tramite regole. Lévi-Strauss insiste sulla logica della reciprocità, ma,
secondo Hénaff, egli trascura un importante aspetto che Mauss ha colto: nel bene donato c’è compreso l’essere del donatore. Quello che il
donatore si attende in cambio è la gratitudine e ciò che costituisce l’hau
è proprio «lo spirito del dono» e non la cosa donata. Ciò che torna
verso A non è lo stesso oggetto, ma è il gesto di donare. I Maori
chiamano hau ciò che costituisce un sovrappiù, un vantaggio «spirituale». Questo vantaggio è reso possibile con il dono iniziale che deve far
250
251
M. Mauss, Saggio sul dono, cit., pp. 21-22.
Ivi, pp. 17-18.
130
ritorno a colui che l’ha reso possibile nel circolo specifico. Hénaff
chiarisce che il coinvolgimento del donatore nell’oggetto donato non è
da intendere i senso metaforico. Il donatore mette se stesso in ciò che
dona, in questo modo stabilisce con il donatario una relazione personale ed esclusiva. «Nell’oggetto che circola – pegno e sostituto – è il
donatore stesso che circola […] come nel caso dello hau, è lo spirito
della cosa donata che si fa carico delle reciproche relazioni […] Tutta
la rete delle prestazioni consiste nel fatto che ognuno rischia altrove
qualcosa di sé e riceve a casa propria qualcosa degli altri. Certo, si tratta
di un rischio condiviso. Non solo: costituisce l’ingresso all’interno
dell’altro, o dell’altro all’interno di sé»252.
Dalle indagini di Mauss e da quelle condotte sul campo da circa un
secolo, Hénaff giunge all’individuazione di otto componenti del dono
cerimoniale: 1. Beni scambiati: oggetti preziosi (o esseri), cibi di festa; 2.
Procedure: rituali ben stabiliti ed accettati; 3. Livello di comunicazione: pubblico; 4. Effetti prodotti o attesi: a) forti legami tra i partner, b) prestigio,
valore sociale; 5. Tipo di scelta: obbligatorio; 6. Modalità della relazione:
reciproca; 7. Attitudine di scambio: rivalità generosa; 8. Natura dell’impegno: offerta di se stesso nella cosa donata.
Gli scambi possiedono un carattere solenne e festivo, occorre mostrarsi molto generosi, saper donare i vaygu’a più belli; inoltre, lo scambio kula si distingue dal baratto, il gimwali, che può essere praticato con
altri compagni e in modo parallelo al kula. Fondamentalmente, lo
scambio kula è «una questione di riconoscimento reciproco e di acquisizione di
prestigio». È per questo che non ci si può sottrarre alla replica se non
rompendo con le regole. Colui che deve ricambiare non contrae un
debito, ma è piuttosto chiamato a rispondere ad una sfida. Ciò che poi
conferisce valore ad ogni vaygu’a è il fatto di essere appartenuto a qualcuno e che, per questo, racchiude la storia e la memoria del donatore.
Sempre appartenente al contesto della sfida e dell’obbligo di replica
appartiene il potlàc. Nella lingua Chinooki delle tribù della costa nordoccidentale americana, il termine potlàc significa “nutrire”, “consumare”, “luogo in cui si viene saziati”. Il potlàc viene praticato, oltre che nel
luogo suddetto, nelle isole oceaniche citate in precedenza, tra gli
eschimesi dell’Alaska occidentale, della Siberia nord-orientale, tra i
pigmei della foresta equatoriale africana. Il potlàc è una cerimonia in cui
252
M. Hénaff, Il prezzo della verità, cit., p. 182.
131
un capo clan (o capo tribù) offre in nome del suo clan una festa in
onore di un altro capo, il quale rappresenta un uomo degno della sua
più alta considerazione e che, nello stesso tempo, è visto come un rivale. Dando in dono beni preziosi tra i quali cibi per le feste, il capo
intende acquisire pubblicamente un prestigio legato a questa ricchezza
suntuaria, obbligando l’altro capo, se desidera conservare il proprio
rango, a ricambiare. In questo modo si avvia una rivalità tale da degenerare fino a dare tutto ciò che si possiede. In gioco ci sono il prestigio e l’onore.
Mauss definisce il dono cerimoniale come «un fatto sociale totale»
in quanto: 1. include tutte le dimensioni della vita sociale; 2. negli
scambi la società agisce come realtà indivisa anche se attraverso figure
individuali (il capo ne costituisce il tramite); 3. gli scambi creano legami tra gli individui e, addirittura, questi legami si estendono agli animali, agli esseri naturali e a quelli soprannaturali, ai morti, agli spiriti. Si
può addirittura intendere il dono cerimoniale come un «fatto sociale
totale» in un’accezione ancora più ampia se si considera che l’atmosfera del dono permea l’universo intero253.
Riprendendo e rielaborando i risultati di Mauss e di altri ricercatori,
Hénaff afferma che il dono rituale (cerimoniale) non è né di ordine
economico, né di ordine morale o giuridico. Esso si pone fuori dallo
scambio vantaggioso, ma anche dalla generosità caritatevole e dai rapporti di tipo contrattuale. E allora, che cos’è? È molto interessante seguire l’analisi di Hénaff del dono cerimoniale per poi comprendere la
tesi elaborata da Ricoeur, tesi che segna, come vedremo, una continui-
A tale proposito Hénaff cita un testo di I. Goldman, un ricercatore che ha
approfondito la società Kwakiutl: «L’obbligo di reciprocità nello scambio non
è una risposta a specifici poteri legati agli oggetti, ma una concezione cosmica
che presuppone una circolazione eterna delle specie e degli esseri. L’obbligo
di donare e di ricambiare è un obbligo di partecipazione a questa circolazione
vitale […] I capi Kwakiutl sono parte integrante di scambi in cui essi incarnano antenati ed esseri soprannaturali. Per loro, quindi, il sistema totale degli
scambi inglobava un universo popolato da uomini, da spiriti ancestrali, da
esseri soprannaturali e, attraverso i beni messi in circolazione, un universo di
forme di vita animali e vegetali» (I. Goldman, The Mouth of Haven. An Introduction to Kwakiutl Religious Thought, J. Wiley, New York 1975, p. 124; la citazione
ripresa da Hénaff, Il prezzo della verità, pp. 183-184)
253
132
tà e, ad un certo punto, un cambio di direzione rispetto alla stessa posizione di Hénaff.
In primo luogo, il dono reciproco cerimoniale praticato dalle società tradizionali, non è riconducibile ad una forma arcaica dello scambio
commerciale. Molti studiosi hanno invece proposto una interpretazione economica dello scambio dei doni, riconducendolo ad una forma di
baratto, ad un antenato del commercio. Sorprende che, osserva Hénaff , Max Weber e Karl Polanyi, autori molto critici verso i pregiudizi
economici, rimangono tributari del modello di commercio quando
spiegano il dono reciproco cerimoniale. Weber, in Storia economica, parla di «commercio di doni»254, il quale ha lasciato poi spazio ad un
«commercio basato sul calcolo esatto» segnando un progresso della
razionalità nelle relazioni umane. Polanyi, ne La grande trasformazione a
proposito del circuito dei doni, il kula ring delle isole Trobriand descritto da Malinowski, dice che si tratta di «una delle più elaborate
transazioni commerciali note all’uomo»255. Mauss ha avuto il grande
merito di riformulare il problema del dono reciproco cerimoniale cogliendo in questa pratica non solo una dimensione essenziale della vita
sociale, ma, altresì, la sua stessa costituzione. Egli ha offerto un grande
contributo al superamento della trattazione del dono cerimoniale in
termini di commercio, profitto, contratto, mettendo in luce che esso
domina la vita delle società tradizionali, compresa quella occidentale
fino alla modernità, ma anche lui, pur combattendo i pregiudizi legati
all’homo oeconomicus, finisce con l’esprimersi in maniera ambigua parlando del dono cerimoniale come una sorta di mercato prima ancora della
comparsa dei mercati. Pur affermando che esso è opposto alle pratiche commerciali, non manca di porlo sullo stesso piano evolutivo. Per
Hénaff, e su questo concorda pienamente Ricoeur, «il dono non è
l’antenato del commercio (i due esistono contemporaneamente), né
un’alternativa ad esso (non svolgono la stessa funzione)»256.
Il dono cerimoniale, se non è di natura economica, non è neanche
di natura morale. Esso non consente di essere ricondotto sul piano dei
M. Weber, Storia economica. Linea di una storia universlae dell’economia e della società, Donzelli, Roma, 1993 e 1997, p. 145.
255 K. Polanyi, The Great Trasformation, Holt, Rinehart & Winston Inc., New
York 1944; trad. it. di R. Vigevano, La grande trasformazione, Einaudi, Torino
1974, p. 65.
256 M. Hénaff, Il prezzo della verità, cit., p. 163.
254
133
gesti generosi di ordine privato, come un contributo caritatevole, né di
essere inteso in senso pubblico come un’azione filantropica. Interpretarlo come aiuto umanitario significherebbe proiettare su esso il fine
morale del dono moderno. Da questo punto di vista, il termine «dono», come lo intendiamo noi, è inappropriato. Il problema sta nel fatto
che, dice Mauss, non ne troviamo un altro migliore. A tale proposito
Hénaff afferma che occorrerebbe parlare piuttosto di «prestazioni suntuarie»257. Se l’atto caritatevole è tale nella misura in cui rimane discreto, se non vuole pubblicità e non chiede di essere ricambiato, se non
produce un rafforzamento del legame sociale in una comunità ed è rivolto a persone che spesso non si conoscono, per il dono cerimoniale
delle società tradizionali vale tutto il contrario: è necessario che siano
noti i donatori, i donatari, le cose donate, i gesti, i luoghi. Inoltre, esso
deve essere pubblico.
Se non è di ordine economico, se non è di ordine morale, il dono
cerimoniale non è nemmeno di tipo giuridico, ossia non è riconducibile ad una forma arcaica di contratto. Un obbligo contrattuale implica
degli impegni giuridici che in caso di inadempienza comporta delle
sanzioni. Un contratto pone i contraenti su un piano ugualitario e mira
al loro mutuo profitto. Il dono cerimoniale, invece, va oltre ogni calcolo egualitario ed implica il prestigio degli uni e degli altri, il loro onore e il loro valore.
6. Scambio cerimoniale e festivo dei doni come etica del mutuo riconoscimento
Giunti a questo punto è possibile fare delle importanti considerazioni
sul dono cerimoniale. Innanzitutto, ciò che in esso è fondamentale,
osserva Hénaff, «non è tanto donare, quanto mettere in moto o continuare un processo di riconoscimento reciproco (nel senso di riconoscersi), espresso attraverso beni preziosi o cortesie»258. Da questo punto di
vista, è chiaro che non si tratta di generosità disinteressata, né di bontà, né di realizzazione spirituale, né di una forma di scambio commerciale, ma, in primo luogo, si tratta di realizzare un «riconoscimento solenne dell’altro secondo le regole trasmesse dalla tradizione». Donare
prima di tutto vuol dire: «riconoscersi in modo solenne, accettarsi,
257
258
Ivi, p. 185.
M. Hénaff, Il prezzo della verità, cit., p. 165.
134
onorarsi reciprocamente e soprattutto allearsi attraverso la mediazione
di ciò che viene ceduto ad altri»259. È in virtù di tale riconoscimento
che si produce o si rafforza il legame sociale. Infatti, la finalità del dono non è l’oggetto donato, né il gesto del dono, bensì «è creare un alleanza o rinnovarla». In tal senso, «il dono cerimoniale è relazione: atto
pubblico senza il quale non esiste comunità»260.
Nel dono cerimoniale, il riconoscimento dell’altro viene realizzato
attraverso dei beni che il donatore reputa preziosi. Ciò testimonia il
fatto che il bene presentato e ceduto dal donatore è qualcosa che gli
appartiene e che è parte di se stesso. In ultima analisi, il bene donato è
un pegno, un sostituto del donatore. A tale riguardo Ricoeur osserva che
la rivoluzione del pensiero di Hénaff consiste nell’aver individuato la
chiave dell’enigma dell’obbligo di ricambiare «nella mutualità dello
scambio tra protagonisti e nel definire questa operazione condivisa
con il termine di mutuo riconoscimento»261.
Per Hénaff occorre fare attenzione a non considerare il dono cerimoniale come una condivisione di un bene. Infatti, esso «non è una manifestazione di altruismo […] non è semplice cessione disinteressata o
meno di ciò che si possiede; è la concessione di un pegno che impegna, come sostituto di sé, e che si presenta come conclusione di un
patto. Tale dono – questa prestazione arrischiata – non mira ad aumentare il patrimonio del partner né a soccorrerlo»262. La cosa donata
e ricambiata costituisce allora il sostituto del processo di riconoscimento, «ossia il pegno dell’impegno del donatore nel dono, il sostituto
della fiducia nel verificarsi del gesto del contraccambiare»263. La cosa
donata è da intendere come un’estensione del donatore.
Con il gesto di donare, il donatore mette in gioco se stesso: lancia
una sfida. Come? In primo luogo provocando l’altro per indurlo alla
risposta; in secondo luogo, donando molto e donando cose preziose
per obbligare l’altro alla risposta. È proprio la sfida ad avvicinare le parti, a porre le premesse per il superamento della distanza con l’alterità.
Possono darsi casi in cui questo superamento non avvenga e che
Ivi, p. 191.
Ivi, p. 200.
261 Parcours de la reconnaissance, p. 342; trad. it. p. 264.
262 M. Hénaff, Il prezzo della verità, pp. 190-191.
263 Parcours de la reconnaissance, p. 342; trad. it. p. 265.
259
260
135
l’offerta di riconoscimento venga rifiutata provocando il conflitto tra
le parti.
Alla luce di quanto detto, i rituali del riconoscimento non devono
essere intesi come la testimonianza di una naturale disposizione dell’uomo al consenso, anzi, gli studiosi hanno fatto emergere che il dono
reciproco cerimoniale acquista il suo senso in relazione ad un possibile
conflitto. La sua realizzazione scongiura il pericolo del conflitto, dissolve le minacce di guerra, poiché trasforma l’altro da possibile nemico in alleato. Si direbbe allora che il dono reciproco cerimoniale viene
ad essere portatore di uno «stato di pace». Questa è l’interpretazione di
Ricoeur, secondo il quale il dono cerimoniale si colloca nel contesto
dell’agape, non la pensa così Hénaff, il quale vede nella posizione ricoeuriana un inaccettabile tentativo di porre il dono cerimoniale sul
piano della generosità ablativa.
Ricoeur riprende l’interpretazione elaborata da Hénaff del dono reciproco cerimoniale operando delle sensibili trasformazioni: per lui si
tratta di vedere il dono cerimoniale nel contesto della società contemporanea come un prolungamento dell’agape e come portatore di uno
stato di pace. È alla luce dell’agape che lo stesso dono simbolico cerimoniale subisce un mutamento in certi suoi tratti essenziali. Resta comunque che per Ricoeur, certe dinamiche e aspetti del dono cerimoniale, descritti da Mauss e reinterpretati da Hénaff, valgono ancora oggi. Secondo la sua prospettiva, esso viene attuato in diverse circostanze della vita di una comunità civile e degli individui e ha sempre come
fine la relazione tra gli uomini all’insegna del mutuo riconoscimento.
La pratica del dono si pone fuori dal contesto commerciale, si situa
sul piano del «senza prezzo» e confluisce nell’ambito del riconoscimento simbolico. Ora però, il problema dato dal dono che può costituire una costrizione non è ancora risolto, poiché la pratica del dono
contiene in sé anche il pericolo di situazioni conflittuali. Non rari sono
i casi «dei doni andati storti». Per Ricoeur, non si tratta di rinunciare
all’esperienza del mutuo riconoscimento simbolico nel contesto del
dono reciproco cerimoniale, ma di distinguere tra la reciprocità buona
e quella cattiva. In precedenza abbiamo parlato dell’agape nel senso di
donare senza aspettativa di restituzione, inoltre, abbiamo evidenziato il
problema del ricambiare. Secondo quest’ottica, è sempre nell’ ambito
dell’agape che per il pensatore francese può essere trovata la soluzione
a questa stessa problematica e anche alle aporie da essa generate. In
136
primo luogo Ricoeur chiarisce che nel contesto dell’agape, «anziché di
obbligo di contraccambiare occorre parlare di risposta a un appello
che proviene dalla generosità del dono iniziale»264. In questo modo, il
secondo dono diventa qualcosa di completamente diverso da un dono
contraccambiato, e ciò per il fatto di porsi nello stesso contesto
dell’agape del primo dono. Proseguendo l’argomentazione, della triade
donare-ricevere-ricambiare, egli assume il ricevere come categoria cardine. È nella maniera di ricevere che si decide l’obbligo a ricambiare. E il
«buon ricevere» (bon recevoir) si basa sulla gratitudine (gratitude) (parola
che in francese significa anche «riconoscimento», «riconoscenza»). La
gratitudine solleva dal peso di ricambiare poiché esprime una generosità all’altezza di quella espressa dal dono iniziale. Su questo piano può
essere così superato il pericolo di unilateralità insito nel dono puro
dell’agape, al tempo stesso, viene meno anche la minaccia del potere
che, come abbiamo in precedenza osservato, può celarsi nel gesto di
chi dà senza chiedere nulla in cambio. La gratitudine agisce nel cuore
del gesto del dono come dinamica etica messa in atto da colui che è
capace di ricevere. La gratitudine appartiene allo stesso ambito del senza prezzo del dono generoso; essa non può essere quantificata, misurata. In tal senso, tra le coppie donare-ricevere e ricevere-ricambiare, la
gratitudine produce uno scarto, «uno scarto di inesattezza (inexactitude),
relativamente all’equivalenza della giustizia, ma anche relativamente
all’equivalenza della vendita»265.
È in virtù del «buon ricevere» che il dono dell’agape non si riduce ad
un gesto unilaterale. In questo ambito non unilaterale dell’agape, tra chi
dona e chi riceve trionfa la sovrabbondanza. Con essa, è la stessa idea
di equivalenza che va in frantumi poiché ci si pone su un piano di mutuo riconoscimento in cui l’uno dona parte di sé all’altro, l’uno riconosce e si riconosce nell’altro. Questa esperienza è legata al carattere cerimoniale del dono che Ricoeur tiene molto a mettere in rilievo, non
solo perché esso è legato con il carattere simbolico di un riconoscimento che dimentica se stesso nella misura in cui assume significato
nella gestualità dello scambio, ma altresì perché il carattere cerimoniale, evidenziato da un certo rituale, mette in luce l’aspetto festivo dello
scambio. Il festivo abita nelle pratiche del dono, come nel gesto di
perdono o nella domanda di perdono. Questi gesti, sottolinea Ricoeur,
264
265
Parcours de la reconnaissance, p. 351; trad. it. p. 271.
Ivi, p. 352; trad. it. p. 272.
137
si pongono al di là della giustizia di equivalenza, sfuggono ad ogni riduzione moraleggiante e sono fondamentali per far avanzare la storia
verso gli stati di pace. Il festivo è presente «nei rituali dell’arte di amare, nelle sue forme erotiche, amicali e societali» e «appartiene alla stessa famiglia dei gesti di domanda di perdono»266. Inoltre, il festivo del
dono è ciò che sul piano grammaticale è l’inno sul piano verbale, appartiene alle formule dell’ottativo.
Con l’esperienza del dono simbolico cerimoniale, la lotta per il riconoscimento trova una tregua. Ma, come osserva Ricoeur con grande
realismo, si tratta solo di una parentesi, di una schiarita, poiché essa
continua a trascinare dietro di sé la coda dei conflitti potenziali pronti
ad essere scatenati dalla tensione suscitata dal rapporto generositàobbligo. È comunque un’esperienza che, da un lato pone la lotta per il
riconoscimento alla base di una motivazione non contaminata dalla
sete di potere e dalle diverse forme di violenza; dall’altro introduce e
orienta l’uomo nel contesto di un’esperienza temporale pacificata.
In definitiva, il dono simbolico cerimoniale, per avere un felice esito, chiede l’incontro tra la capacità di donare e la capacità di ricevere,
esige che il donatario non metta in atto strategie finalizzate al conseguimento di vantaggi personali, necessita che il beneficiario sia veramente capace di ricevere. In questa dinamica, il dono simbolico cerimoniale costituisce il tramite del mutuo riconoscimento. Ciò nel senso
che il dono è un’estensione del donatore, è il suo sostituto. Col gesto
di donare, il donatore mette in gioco se stesso, si espone al rischio del
rifiuto o all’incapacità dell’altro di accogliere il dono. Ma è in virtù di
questo rischio che l’«essere-al-mondo» degli uomini può porsi sotto la
stella guida dello «stato di pace».
266
Ivi, p. 354; trad. it. p. 273.
138
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
1. Nel corso delle nostre argomentazioni, abbiamo fatto incrociare tra
loro le diverse modalità del riconoscimento, del misconoscimento, dei
poteri-capacità, dei non-poteri e del potere violento. Questo lavoro è
stato svolto in stretta relazione con l’idea di vita buona, ossia con la
prospettiva della realizzazione etica «con e per l’altro» nel contesto di
un mondo abitabile. È emerso che il percorso del riconoscimento di
sé e dell’altro si pone all’insegna di un cammino esistenziale che fa
tutt’uno con la realizzazione etica, la quale è continuamente contrastata dal potere violento e dal misconoscimento.
Al fondo del discorso etico, c’è un soggetto che si è emendato del
proprio narcisismo e che ormai può riconoscere l’altro in sé e se stesso
nell’altro. Sotto il segno del dono si concretizza il processo di riconoscimento e di riconoscenza, ossia l’ordine della relazione reciproca tra
il sé e l’altro, tra l’altro e il sé. Con il dono gratuito ha termine (anche
se in maniera provvisoria) la lotta per il riconoscimento, c’è una condizione di pace all’insegna di un sé che dona se stesso e, nel ricevere,
accoglie qualcosa dell’altro. Ciò che nel dono è fondamentale, non è
tanto la cosa donata, né il gesto di donare, ma il fatto che nel dono e
nel gesto è compreso il donatore. Nel dono, colui che dona si dà
all’altro. Il dono è, come ha fatto emergere M. Hénaff, il sostituto del
donatore. Nella dinamica del donare-ricevere-ricambiare, Ricoeur sottolinea che la condizione indispensabile per il felice esito del dono, che
è poi lo stato di pace, consiste nella capacità di ricevere. Come dire che lo
stato di pace, costruito mediante lo scambio simbolico dei doni, richiede piena disponibilità tra le parti in gioco. Ne consegue che non è
possibile dare più di quanto l’altro sia capace di ricevere. Colui che
dona, dona veramente se stesso nella cosa donata se diviene vuoto di
ogni componente narcisistica ed egoistica, se il suo «Io» è stato il più
possibile cancellato a vantaggio del «sé». Colui che riceve, riceve vera-
139
mente, ossia è capace di ricevere, nella misura in cui avrà superato il
suo ego, l’attaccamento al suo «Io».
Finché domina lo spadroneggiare dell’Io non c’è spazio per il sé. Un
soggetto che è divenuto un sé, che si è riconosciuto nell’insieme dei
suoi poteri e non-poteri, è senz’altro capace di donare e di ben ricevere. Colui che realizza questo, esplica in pieno il suo essere capace, dà
espressione al suo stesso fondo di essere «puissant et effectif». È capace di
riconoscere l’alterità in sé e fuori di sé, riesce nell’impresa di armonizzare l’altro in sé – l’involontario, la carne, la propria vita inconscia e
pulsionale – con l’altro fuori di sé, fino al punto di riconoscersi in questo altro. Un sé capace di tutto questo è un sé che percorre la via della
realizzazione etica di se stesso.
I molteplici rapporti con l’altro costituiscono allora per il soggetto
un tratto fondamentale della sua condizione esistenziale finita e fragile,
incarnano le incessanti ed imprevedibili sfide che il sé è chiamato ad
affrontare nello svolgersi della sua esperienza temporale. Ancora una
volta, capace di aprirsi alla sfida dell’altro, è un soggetto capace di attestare-riconoscere la propria finitezza e vulnerabilità così da non cadere
nel vortice del «cattivo infinito del desiderio», le cui cieche vie non
conducono che alla rimozione e all’oblio dell’altro, ad esserne schiavo,
oppure, alla riduzione di esso ad oggetto di piacere, a strumento di accrescimento del proprio potere, ad una lotta senza fine per il riconoscimento.
2. Come per il mutuo riconoscimento, anche la realizzazione etica, ossia la realizzazione della «vita buona», non può approdare ad un compimento definitivo. Questo perché essa ha come limite invalicabile la
fragilità e la finitezza dell’uomo che lo fanno un essere inquieto, incerto, timoroso, mai pago, preda dei sui stessi desideri di piacere e di
morte e per questo, in perenne lotta con se stesso e con gli altri. Secondo quest’ottica, Ricoeur ha messo bene in luce il carattere contraddittorio dell’agire e del soffrire dell’uomo, la sua estrema difficoltà
di riconoscere la sua stessa umanità; una difficoltà che può sfociare nel
misconoscimento di sé e dell’altro. Nell’«umanità dell’uomo» sono
comprese tutte le sue contraddizioni, i suoi lati oscuri e duri (anche in
senso etico e morale) da riconoscere, il suo carattere, «umano, troppo
umano» dei suoi desideri, delle sue aspirazioni e delle sue leggi. Anche
se scomode ed insolubili, queste contraddizioni devono essere ricono-
140
sciute, messe in rilievo e fatte oggetto di riflessione critica. Ne va della
relazione sincera e pacifica con se stessi e con gli altri.
Tra i grandi meriti di Ricoeur c’è proprio quello di essere riuscito a
riconoscere e mettere a nudo quelle contraddizioni, insite nell’agire
teorico pratico dell’uomo, che la falsa coscienza lascia cadere in oblio.
Dal suo punto di vista, questa consapevolezza è possibile solamente in
maniera indiretta, passando attraverso l’altro considerato nelle sue diverse forme, figure e significati. Ma tale percorso è segnato da numerose contraddizioni che proprio la presenza dell’altro genera in seno
all’agire dell’uomo. Queste contraddizioni, spesso non comprese, anzi
obliate, rimosse, sono poi alla base dei conflitti e delle lotte che l’uomo combatte in sé e fuori di sé. Spesso la causa dei conflitti non risiede nell’altro a me estraneo, ma nella mancata consapevolezza dell’altro
in me. Di qui il misconoscimento-disprezzo di se stessi e, di conseguenza, di quello dell’altro a me estraneo. Forse, il narcisismo dell’io
nasconde proprio l’inconsapevole e pericoloso disprezzo di sé. Alla
luce di ciò, si capisce allora perché risulta fondamentale per il sé, al fine della vita buona, della realizzazione etica, armonizzare, conoscere e
riconoscere l’altro che lo costituisce e l’altro a lui estraneo.
Un altro grande merito della riflessione ricoeuriana, è poi quello di
aver fatto lavorare le stesse contraddizioni riconosciute al fine del progresso etico e morale dell’uomo. E forse, in un’età come la nostra,
dominata dalla tecnica e dagli apparati tecnologici dispiegati dalla ragione strumentale e calcolante, il vero ed autentico progresso dell’uomo consiste proprio in quello etico e morale.
Ricoeur presenta una prospettiva etica come vita buona sul piano di
un duro lavoro su se stessi in intima relazione con l’altro, accettando
fino in fondo la sua sfida, assumendosi tutti i rischi di un possibile fallimento. Inoltre, la vita buona da realizzare non è quella che ha come
meta il Sommo bene, Dio, il totalmente Altro, la Trascendenza. Ciò
che eccede il nostro pensare e il nostro agire, ciò che, in senso assoluto, non rientra in nostro potere, appartiene ad una dimensione metaetica, ad una dimensione del sacro che Ricoeur non manca di richiamare dal punto di vista della meditazione e dell’ermeneutica riguardante i diversi generi di discorso delle Sacre scritture, ma che non può essere fatta oggetto di discorso filosofico. In tal senso, egli si tiene lontano dalla tentazione di mescolare i piani di vita e di discorso. Assumendo quest’ottica, egli delinea una prospettiva etica appartenente al
141
piano dell’agire e soffrire temporali dell’uomo visti nel contesto delle
relazioni interpersonali. Si tratta di un etica che si dispiega su un piano
orizzontale, quello umano, carnale, mondano e temporale. E anche
l’altro, considerato e riconosciuto nelle sue molteplici figure e nei suoi
significati, appartiene a queste dimensioni.
3. Giunti a questo punto, si potrebbe obiettare che il desiderio di essere riconosciuti sia in servizio della volontà di potere e che è sempre in
funzione dell’accrescimento della potenza che si desidera e si lotta per
il riconoscimento. Ora però se si rimane su questa posizione, non si
procede oltre il punto di vista del misconoscimento originario di matrice hobbesiana, ciò in quanto tale obiezione ci riporta sul piano di
una autoaffermazione che contempla il riconoscimento solamente sul
piano del calcolo razionale e che preclude ogni possibilità morale di
realizzare il mutuo riconoscimento. Alla luce di queste considerazioni,
l’obiezione cade poiché risulta che essa si fonda solamente su una visione narcisistica, egoistica e non etica del riconoscimento, mentre Ricoeur dà fondo all’impostazione di Honneth proprio sul piano
dell’apertura intersoggettiva e sul piano del superamento di ogni residuo narcisistico ed egoistico. Questo superamento è illustrato dagli
«stati di pace», come quelli dati dall’amicizia e dall’amore, i quali sono
la realizzazione concreta del mutuo riconoscimento e segnano la sconfitta del diniego del riconoscimento.
Nelle esperienze di pace, il registro del potere e della potenza lasciano spazio a quello della sollecitudine reciproca (amicizia) e dell’agape.
Secondo questa prospettiva, il potere non è più su-l’altro, ma è il potere di essere capaci di riconoscere l’altro come uomo capace ed è il potere di riconoscersi nell’altro. Il «potere-di» si dispiega sul piano della
sollecitudine e dell’agape non solo nel senso di ciò che un uomo può fare
per l’altro, ma anche nel senso di ciò che Heidegger intendeva con
l’espressione: «lasciar “essere presente” (wesen) qualcosa nella sua provenienza (Her-kunft), cioè far essere»267. Questa impostazione consente
Dice Heidegger che «Volere bene significa donare l’essenza. Questo volere
bene (Mögen) è l’essenza autentica del potere (Vermögen) che può non solo fare
questa o quella cosa, ma anche lasciar “essere presente” (wesen) qualcosa nella
sua provenienza, cioè far essere […]. Potere qualcosa qui significa conservarlo nella sua essenza, mantenerlo nel suo elemento» (M. Heidegger, Brief über
267
142
di vedere il «potere-di» secondo l’ottica di un riconoscimento dell’altro
all’insegna del lasciar fiorire il suo essere e del custodire questo stesso fiorire. Ovviamente, tale discorso vale anche nei confronti del riconoscimento di sé; anche nella relazione pratica con se stessi si tratta di
«lasciar essere se stessi». È su questo piano che è possibile scongiurare
ogni forma di violenza, ogni potere-su anche nei riguardi di se stessi.
Scomparsa ogni traccia di volontà di «potere-su», rimane solamente
quel «potere di essere» che costituisce l’uomo a livello originario. Questo potere di essere è, per l’uomo che procede lungo il sentiero del
«divenir cosciente», “oggetto” di riappropriazione consapevole. Nel
mutuo riconoscimento, con la scomparsa del «potere-su» è anche il
potere dell’altro ad essere riconosciuto, ed è nel suo «potere-di» che il
sé si riconosce.
Tale prospettiva ci suggerisce che la costruzione di una comunità
umana più giusta può passare attraverso il mutuo riconoscimento delle
persone. Questo si traduce in un mutuo riconoscimento dei propri poteri e non-poteri che si pone in servizio di una convivenza pacifica, di
uno «stato di pace»268. In tal senso, il mutuo riconoscimento tra gli
uomini costituisce la condizione indispensabile per unire (e lasciar fiorire) i loro poteri-capacità al fine di contrastare ogni forma di ingiustizia,
di ineguaglianza; inoltre, esso fa parte integrante della realizzazione, sia
individuale che collettiva, dell’idea di vita buona.
In un mondo come il nostro dominato dal culto edonistico dell’individuo, dai suoi bisogni, spesso gabellati per diritti, dalle sue aspirazioni e dai suoi desideri, che esasperano fino alla nausea una vuota
quanto mai sterile e logorante lotta per il riconoscimento, con l’idea di
mutuo riconoscimento, la prospettiva etica ricoeuriana indica una direzione, e quindi un senso umano “forte”, a uomini desiderosi di coden «Humanismus», Klostermann, Frankfurt am Main 1976; trad. it. di P. Del
Santo, Lettera sull’umanismo, Adelphi, Milano 1995, p. 36).
268 Nei suoi ultimi lavori, Domenico Jervolino, assume «il tema del “dono delle lingue” e della traduzione come un possibile fondamento non violento della comunità interumana». La sua vuole essere una risposta alla riflessione di
Ricoeur sul dono e sul legame che il dono stabilisce con il bisogno umano di
essere riconosciuti (Cfr. D. Jervolino, Il dono delle lingue, in Olivetti M. M., a
cura, Le don et la dette, Cedam, Padova 2004, pp. 129-136; Id., L’ultimo percorso
di Ricoeur, in Piras M., a cura, Saggezza e riconoscimento. Il pensiero etico-politico
dell’ultimo Ricoeur, Meltemi, Roma 2007, pp. 21-39).
143
struire la pace in se stessi e tra loro, rivolge un invito e un richiamo
alla responsabilità di lasciare in eredità, a coloro che ancora non sono
nati, un mondo più umano.
144
POSTFAZIONE
di Giuseppe Beschin
Quest’opera di Vereno Brugiatelli è un contributo molto importante
alla conoscenza del pensiero di P. Ricoeur. Egli ne sa cogliere in profondità i temi essenziali e li espone in maniera limpida, mettendone in
luce le implicazioni feconde e stimolanti. L’autore mette in risalto alcune caratteristiche molto rilevanti del pensiero del filosofo francese.
Anzitutto la concretezza. Negli scritti di Ricoeur è la vita attuale che
parla in tutta la sua ampiezza. Sono presenti tutti i problemi attuali: le
ingiustizie sociali, l’emarginazione, il razzismo, il mancato riconoscimento dei diritti delle donne e delle minoranze, la responsabilità dell’uomo d’oggi verso le generazioni future. Per trovare una luce che
aiuti a chiarire il significato e la portata di queste istanze ed avviare il
percorso verso la soluzione di questi problemi Ricoeur non solo ricorre ai pensatori del passato ed anche a quelli contemporanei, ma ricorre
pure a studiosi di psicologia, di antropologia, di diritto e di economia.
Lo scritto di Brugiatelli ha come tema specifico il potere in rapporto al riconoscimento ed al superamento dei conflitti in vista di uno stato di pace. Vogliamo accennare molto brevemente a qualche aspetto
che, nella trattazione, ci sembra più importante. Sembra anzitutto importante la distinzione tra identità-idem e identità-ipse. Se ben si guarda,
è facile scorgere che nell’uomo c’è un aspetto, quello fisico e biologico, che egli non può cambiare a suo piacimento, perché non dipende
dalla sua volontà. Ma diciamo spesso che l’uomo è un progetto e ha il
compito di realizzarsi con le decisioni della sua libertà conducendo
una vita eticamente buona. Il primo aspetto coincide con l’identitàidem, il secondo concerne l’identità-ipse. Questa, per quanto abbiamo
detto, è essenzialmente dinamica, si fa e disfa in continuazione. Essa
non è nulla di tutto fatto, ma è un compito per la nostra vita: l’uomo
deve divenire ciò che, in senso positivo, è capace di essere.
Ma capacità è potere-di. Ecco il problema del potere, che oggi sembra il problema centrale. Ricoeur propone una concezione dinamica
145
dell’uomo affermando che la sua dimensione originaria consiste in un
fondo di essere «potente ed effetivo» che si può esprimere in termini
di azione, tensione, sforzo, potenzialità produttiva. L’uomo è capacità,
potere-di: poter dire, poter agire, poter rispondere all’accusa, poter
promettere, poter donare. Ma giustamente il filosofo francese precisa
che la capacità dell’uomo è una capacità fragile, sempre minacciata ed
esposta alla sofferenza nel senso che egli è quell’ente che agisce, ma è
anche un ente che patisce: ogni capacità ha come suo corrispettivo
una passività, ad ogni potere si oppone un non-potere. E questo perchè l’uomo è limitato e deve fare i conti con l’azione che su di lui
compie tutto ciò che è altro da lui e, se si guarda bene, i poteri che abbiamo ricordato non possiamo esercitarli senza il riferimento all’altro.
Del resto, se l’uomo, come abbiamo accennato, è finito, non può bastare a se stesso.
Quindi è importante la distinzione proposta di Ricoeur tra io e sé.
All'io fanno capo le filosofie che concepiscono l’uomo come un soggetto, il quale trova in se stesso il suo senso e quello del mondo, un
soggetto che si considera come autotrasparente e padrone del senso.
Un soggetto inteso come sé, come ipseità, invece, comprende se stesso sempre attraverso l’altro da sé. Ma l’uomo tende spontaneamente a
considerarsi come un io che spadroneggia, tende al narcisismo. Per
questo è necessario lottare contro questo spadroneggiare dell’io, che
considera l’altro come una proiezione psicologica dell’io, o come un
semplice strumento. Ma lottare contro il narcisismo non significa mortificare la propria ipseità, il proprio sé, misconoscerlo, ma condurlo ad
una equilibrata stima di sé senza la quale non ci può essere il riconoscimento dell’altro: riconoscere è stimare e come posso stimare un altro, se non stimo me stesso?
Per realizzarsi veramente ed attuare la vita buona, l’uomo deve riconoscere se stesso per quello che è, nei suoi poteri e nei suoi limiti.
Ma senza l’altro egli non può riconoscersi per quello che veramente è
e quindi non può avere la giusta stima di sé e la necessaria fiducia per
attuare la vita buona. C’è di più. É la stessa vita etica che a sua volta
contribuisce alla realizzazione ed alla conoscenza del sé. E ciò non accade senza la mediazione dell’altro. È quanto avviene nella promessa,
che non ha senso senza il rapporto all’altro. Nel mantenimento della
promessa non c’è una permanenza come quella del carattere, che rimane nel mutare del tempo e delle circostanze e non dipende dalla vo-
146
lontà dell’uomo, la permanenza che si attua nella promessa è frutto
della volontà libera di chi promette: io mantengo la promessa, sebbene
cambino tante cose, perché così voglio, perché sento che è mio dovere
farlo. Così facendo io conosco meglio la mia ipseità, ma anche la costruisco: rispettando la promessa, la mia ipseità diventa più buona. Così il rapporto con l’altro ha un valore ontologico.
Conoscendo se stesso in rapporto con l’altro, l’uomo coglie anche il
senso della realtà e della sua vita, comprende pure che cosa sia per lui
la vita buona. La vita buona è una specie di idea limite, cui fa riferimento l’uomo nella sua interezza ed alla realizzazione della quale è finalizzato tutto il suo agire. Ma, come abbiamo visto, la vita buona non
si può realizzare senza l’altro e, aggiunge Ricoeur, solo all’interno
d’istituzioni giuste. L’uomo per realizzarsi dal punto di vista etico ha
bisogno del riconoscimento dell’altro e di condizioni socio-politiche
idonee, favorevoli, che riconoscano i diritti dei singoli e garantiscano
condizioni di vita dignitose. Ricoeur in proposito tiene presenti le analisi dell’economista Amartya Kumea Sen. D’altra parte, chi tende a realizzare la vita buona, contribuisce alla costruzione di una comunità civile dal volto umano e considera la pace come un valore irrinunciabile.
Brugiatelli sottolinea il valore di queste affermazioni e le loro implicazioni importanti.
Abbiamo visto che la promessa è indispensabile per riconoscere il
tratto distintivo dell’ipseità, ma è importante anche la memoria, con la
quale l’uomo giunge al riconoscimento della sua vita. Il narrare della
memoria conduce l’uomo a riflettere su di sé e a riconoscere se stesso
in profondità. Brugiatelli dedica alcune pagine molto acute a questo
argomento, che è uno dei temi più nuovi del pensiero di Ricoeur.
Abbiamo accennato che l'uomo non può riconoscersi, se non riconoscendo l’altro ed il riconoscimento di sé raggiunge la sua attuazione
più piena nel mutuo riconoscimento. Brugiatelli distingue bene tre
forme di alterità: quella del nostro corpo, quella dell’altro uomo, quella
della voce interiore della coscienza. La prima forma di alterità è data
dal corpo inteso come fascio di pulsioni e desideri inconsci, come libido. Per quanto riguarda il rapporto con gli altri uomini occorre anzitutto prendere atto che l’alterità implica per il nostro sé passività, la
quale può tradursi in sofferenza, che porta al conflitto ed alla lotta con
l’altro. La situazione è aggravata dal fatto che l’uomo tende al narcisismo, che lo pone al centro del mondo e gli fa considerare gli altri co-
147
me suoi strumenti. Occorre convincersi che tra l’io e l’altro, o gli altri
uomini, c’è una dissimetria originaria, perché l’altro non sono io, io
non sono l’altro, l’io e l’altro non sono intercambiabili. Per questo io
non posso disporre dell’altro a mio piacimento, perché non è nella sfera del mio potere. Del resto nemmeno nell’amore si può realizzare la
fusione completa perché esso è una relazione in cui coloro che si
amano conservano la loro diversità: infatti la gioia dell’amore scaturisce dal sentirci amati da un altro che non diventa noi.
Sinteticamente si può dire (ma Brugiatelli lo mostra in maniera
esauriente e precisa) che, secondo Ricoeur, Husserl supera questa dissimetria privilegiando l’io, Lévinas privilegiando l’altro. Ricoeur invece
ritiene che la dissimetria venga superata con un riconoscimento effettivo e reciproco tra il sé e l’altro. Ma, per i motivi che abbiamo appena
accennato, è un obiettivo spesso irrealizzabile. E tuttavia il solipsismo,
il narcisismo sono insostenibili. L’io non è la fonte della sua esistenza
poiché rimanda ad altri esseri, a tutto un mondo fisico e culturale e, se
vuole chiarirsi a se stesso, possedersi, deve servirsi di questa cultura.
Quindi l’alterità è nello stesso centro ontologico dell’uomo. Il suo sé
per riconoscersi e realizzarsi davvero deve allora guardare oltre se
stesso, verso l’altro.
La prima forma di apertura all’altro è la sollecitudine. Se stimo in
maniera giusta me stesso, non posso non stimare l’altro uomo come
simile a me. E, siccome è simile a me, ma anche diverso, è insostituibile e merita tutta la mia attenzione. Ma non c’è vita buona e riguardo
per le persone senza giustizia, che rinvia alle istituzioni e deve estendersi al di là del contesto economico e regolare la ripartizione dei ruoli,
delle funzioni, dei vantaggi e svantaggi fra i membri della società.
Come mette bene in luce Brugiatelli, è centrale in Ricoeur il tema
della violenza, che nasce dalla degenerazione del potere umano, il quale assume il volto del male. La persona è chiamata alla stima di sé, ma
in quanto si riconosce come fine in sè, anche al rispetto di sé e delle
altre persone. Per la degenerazione cui abbiamo accennato, il potere
umano da potere-di, ossia di parlare, agire donare ecc., diventa potere
sulle persone e può giungere alla tortura, che sembra attingere il fondo
del male, perché non incide solo sul corpo, ma anche sulla stima di sé
e sul rispetto di sé. In riferimento al principio di responsabilità, di cui
parla Jonas, Ricoeur sottolinea che il pensatore tedesco ha dato luogo
ad una specie di rivoluzione etica, mettendo in luce le nostre respon-
148
sabilità nei riguardi delle conseguenze per le generazioni future dei nostri comportamenti attuali: noi possiamo esseri colpevoli per cattive
intenzioni non realizzate, nella prospettiva di Jonas invece ci può essere colpevolezza senza intenzione, perché la portata dei nostri comportamenti eccede quella dei nostri progetti.
Secondo Ricoeur nella prospettiva di Hobbes manca la dimensione
dell’alterità, le misure cui gli uomini ricorrono hanno solo una parvenza di reciprocità, perché la loro finalità resta la preservazione del loro
potere. Per Hegel invece è centrale nell’uomo il desiderio di essere riconosciuto, desiderio che si esplica nella lotta per il riconoscimento.
Ricoeur sviluppa questo tema, come abbiamo accennato, accettando la
realtà di una vera pluralità di uomini al posto dell’identità hegeliana. Il
conflitto sociale non nasce mai solo per avere di più, per imporre la
propria volontà, ma per l’affermazione di sé dal punto di vista individuale o collettivo, ma tale affermazione non è completa senza la conquista del riconoscimento dell’altro. Ecco la lotta per il riconoscimento, alla radice della quale ci deve essere una mancanza di riconoscimento, altrimenti essa non nascerebbe. Per questo e per i motivi cui
abbiamo accennato può sembrare che il superamento dei conflitti sia
difficile, se non impossibile, ma Ricoeur, come Brugiatelli mostra in
maniera molto perspicua ed efficace, è fiducioso sul raggiungimento di
stati di pace.
Tra le forme di riconoscimento emerge come particolarmente importante l’amore in tutte le sue forme. Coloro che si amano, afferma
Ricoeur, si approvano mutuamente di esistere. Infatti per chi ama veramente la persona amata appare come necessaria, se cessa di esistere
per lui sembra che la vita non abbia più senso. Tra i famigliari o gli
amici, che dovrebbero amarsi, il misconoscimento si manifesta nel
maltrattamento e nella violenza, che comportano per chi ne è colpito
il sentimento di essere totalmente in balia della volontà di un altro e
generano sfiducia in se stessi. Ancora più gravi sono la disapprovazione e l’umiliazione, che non riguardano l’integrità fisica, ma tutta
l’attività di chi ne è colpito.
Ma Ricoeur parla anche del riconoscimento giuridico, basato sulla
dignità della persona, da cui scaturiscono i diritti e i doveri. Egli insiste
a ragione sulla giusta distribuzione dei beni e fa rilevare che la privazione dei veri diritti genera in chi ne è colpito umiliazione, frustrazione, sentimento di esclusione, ma anche sentimento di rivalsa e reazio-
149
ne, che può portare alla lotta per far valere i propri diritti. La vittoria
in questa lotta fa nascere il rispetto di sé, che merita il nome di orgoglio, il quale si lega con la capacità di avanzare delle rivendicazioni ed
in essa consiste quella che si chiama dignità umana.
Ma è importante una terza forma di riconoscimento, che è la stima
sociale, la quale viene attribuita ai singoli in base ai valori ed ai fini etici
cui una società s’ispira. Molte volte questa stima è negata ingiustamente, misconoscendo l’impegno, la tensione ideale di una persona, che
viene così colpita in ciò che le è più proprio e più caro. Tale emarginazione decreta veramente una morte sociale. Ricoeur parla anche del riconoscimento delle minoranze culturali. Brugiatelli tratta di queste varie forme di riconoscimento con una chiarezza e profondità esemplari.
Ricoeur ha il merito di non affermare soltanto ma di mostrare concretamente che l’uomo non si può realizzare senza il rapporto con l’altro
e l’aiuto dell’altro.
Ricoeur è convinto che gli uomini possono giungere ad uno stato di
pace superando la lotta per il riconoscimento e quindi i conflitti e ritiene che ciò possa accadere facendo ricorso all’agape cristiana, che
tocca una dimensione diversa dal discorso filosofico, ma ha delle implicazioni speculative, in quanto fa parte integrante dell’agire e del soffrire temporali dell’uomo. L’agape è in contrasto con la logica della
giustizia. Basti pensare alle modalità espressive dell’una e dell’altra. La
logica dell’agape è quella della sovrabbondanza ed il suo linguaggio è
quello dell’elogio, della lode, perché l’amore considera la persona amata come necessaria e quindi è naturale che chi ama la esalti. La logica
dell’agape è la logica della sovrabbondanza, perché essa consiste nel
dare più di ciò che è dovuto, più di quello che è giustamente rivendicato, è dare senza chiedere nulla in cambio. La giustizia invece si basa,
non sull’inno, ma sull’argomentazione che si fonda sulla logica
dell’equivalenza: la pena deve essere proporzionale al delitto. Ricoeur
sviluppa ampiamente questi aspetti e Brugiatelli li evidenzia in modo
egregio. Il filosofo francese mette poi anche in luce che l’amore e la
giustizia possono collaborare: l’amore può spingere a superare una
mentalità dominata dal calcolo e determinate norme giuridiche frutto
di pregiudizi al fine di far riconoscere i diritti delle persone concrete.
Il concetto di perdono ci avvia a comprendere il concetto di dono.
Chi perdona non lo fa per sentirsi importante e per mirarare ad una
ricompensa qualunque essa sia, ma perché ha fiducia nell’amore e nel
150
bene e si augura che il suo amore riaccenda l’amore al bene nel cuore
del colpevole. Ricoeur dice delle cose stupende sul dono e Brugiatelli
le espone in maniera intensa. Nel dono si raggiunge il mutuo riconoscimento, in un’atmosfera di pace e di gioia. Chi dona, se lo fa per vera generosità, anche se il dono è piccolo, dona se stesso: la misura dell’amore secondo S. Agostino consiste nel non avere misura e l’amore
più autentico e pieno è quello di chi dona tutto se stesso. Ma il dono
non vuole ricompensa. Tuttavia chi riceve il dono può, anzi dovrebbe,
porsi allo stesso livello di chi dona, tramite la riconoscenza, che è della
stessa natura della generosità di chi dona, cioè non è quantificabile, è
senza prezzo, caratterizzata dalla sovrabbondanza. Se questo accade
c’è mutuo riconoscimento. Nel dono e nella riconoscenza, che costituiscono un dono reciproco, ognuno dei due riconosce all’altro una
dignità quasi infinita, al punto di donare se stesso all’altro, anche fino a
morire per lui. Allora nasce la pace, la violenza è vinta. Ma Ricoeur
sottolinea che si tratta di una parentesi, perché i conflitti sono sempre
pronti a insorgere. Tuttavia questo mostra che alla radice del desiderio
di riconoscimento non c’è il desiderio di potere, ma la ricerca della pace e della mutua collaborazione, che è indispensabile.
Brugiatelli alla fine delle sue considerazioni conclusive, che sottolineano in maniera molto convincente il valore, l’importanza e l’attualità
del pensiero di Ricoeur, riprendendo un’affermazione di Heidegger,
precisa che il potere-su è violenza, invece il potere-di è riconoscere
l’altro, lasciarlo fiorire, cioè lasciarlo giungere alla piena realizzazione
delle sue capacità irripetibili, senza sovrapporsi a lui per farlo diventare
quello che vogliamo noi, o strumentalizzarlo. Ma questo implica, proprio in base a quanto abbiamo visto, che noi diamo tutta la nostra collaborazione perché l’altro fiorisca. Ma dobbiamo anche lasciar essere e
fiorire noi stessi, senza farci violenza; dobbiamo diventare ciò che
siamo, nel senso di realizzare la nostra vocazione profonda e le nostre
attitudini autentiche.
Sembra che questi accenni possano bastare per mettere in luce
l’attualità del pensiero di Ricoeur ed i pregi, davvero rilevanti, dell’esposizione che Brugiatelli ne fa.
Giuseppe Beschin,
Università di Trento
151
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INDICE DEI NOMI
Abel, Olivier; 72
Agostino, Aurelio; 38; 102;
106; 151; 153
Alexy, Robert; 97
Altieri, Lorenzo; 53; 153
Anscombe, Gertrude
Elisabeth Margaret; 45; 153
Arendt, Hannah; 68
Aristotele; 29; 38; 41; 46; 50;
65; 68; 69; 83; 153
Austin, John Langshaw; 33;
153
Bergson, Henri; 5; 39; 40; 41;
153
Berlin, Isaiah; 43; 79; 154; 158
Boas, Franz; 128; 129; 154
Boltanski, Luc; 101; 104; 106;
111; 116; 119; 124; 154
Borges, Jeorge Luis; 36
Bossuet, Jacques-Bénigne; 102;
154
Brugiatelli, Vereno; 5; 6; 8;
145; 147; 148; 149; 150;
151; 154
Changeux, Jean-Pierre; 154
Danto, Arthur; 45; 154
Descartes, René; 11
Dostoevskij, Fëdor; 124
Durkheim, Emile; 128
Eagle, Morris N.; 90; 154
Feinberg, Joel; 99; 154
Ferrara, Alessandro; 88; 155
Fichte, Johan Gottlieb; 23; 87
Freud, Sigmund; 22; 29; 41;
57; 90; 159
Fromm, Erich; 63; 154
Gadamer, Hans Georg; 105;
106; 110; 154
Galimberti, Umberto; 64; 154
Greisch, Jean; 57; 71; 154; 156;
160
Hegel, Gorge Wwilhelm
Friedrich; 5; 7; 21; 86; 87;
88; 89; 92; 94; 104; 110;
149; 154; 155
Heidegger, Martin; 6; 13; 14;
142; 151; 155; 157
Hénaff, Marcel; 7; 127; 128;
130; 131; 132; 133; 134;
135; 136; 139; 155
Hobbes, Thomas; 7; 83; 84;
85; 86; 149; 155
165
Honneth, Axel; 7; 83; 88; 89;
91; 94; 95; 96; 97; 98; 99;
100; 101; 106; 142; 155
Husserl, Edmund; 6; 13; 19;
38; 58; 59; 60; 62; 148; 155;
156; 157
Ihering, Rudolf von; 95; 156
Jervolino, Domenico; 3; 5; 8;
22; 44; 56; 57; 61; 71; 107;
115; 143; 156; 159; 161; 162
Jonas, Hans; 74; 148; 156
Kant, Immanuel; 5; 11; 12; 13;
16; 69; 95; 122; 155; 157
Kearney, Richard; 52; 157; 161
Kemp, Peter; 52; 157
Kierkegaard, Søren; 58
Legendre, Pierre; 92; 93; 157
Leibniz, Gottfried Wilhelm
von; 29
Lévinas Emmanuel; 13; 58; 59;
62; 148; 157
Littré, Émile; 10
Locke, John; 38; 39; 157
Malinowski, Bronislaw; 128;
129; 133; 158
Marshall, Thomas Humphrey;
97
Mauss, Marcel; 7; 127; 128;
129; 130; 131; 132; 133;
134; 136; 157
Merleau-Ponty, Maurice; 13;
158
Musil, Robert; 43; 47; 158
166
Nietzsche, Friedrich Wilhelm;
23; 29; 33; 34; 35; 158
Parfit, Derek; 43; 48; 158
Parsons, Talcott; 97
Pascal, Blaise; 28; 105; 158
Piras, Mauro; 143; 154; 156;
158
Polanyi, Karl; 133; 158
Proust, Marcel; 6; 15; 50
Ravasi, Gianfranco; 118; 158
Rawls, John; 68; 120; 158
Rey, Alain; 10
Ricoeur, Paul; 5; 6; 7; 8; 9; 10;
11; 12; 13; 14; 15; 19; 20;
21; 22; 23; 24; 25; 26; 27;
28; 30; 32; 33; 34; 35; 36;
37; 38; 39; 40; 41; 42; 43;
44; 45; 47; 48; 49; 50; 51;
52; 53; 55; 56; 57; 58; 59;
60; 61; 62; 64; 65; 66; 67;
68; 69; 70; 71; 72; 73; 74;
75; 76; 78;79; 80; 81; 83; 85;
86; 87; 88; 89; 90; 91; 92;
93; 96; 97; 99; 100; 101;
103; 104; 105; 107; 110;
111; 113; 114; 115; 116;
117; 118; 119; 120; 121;
122; 124; 126; 127; 132;
133; 135; 136; 137; 138;
139; 140; 141; 142; 143;
145; 146; 147; 148; 149;
150; 151; 153; 154; 156;
157; 158; 159; 160; 161; 162
Rosenzweig, Franz; 117; 119;
162
Rousseau, J. Jacques; 102
Saint-Simon, Claude-Henry de
Rouvroy, conte di; 102
Sen, Amartya; 78; 79; 80; 81;
147; 162
Silesius, Angelus; 93; 162
Smith, Adam; 103; 162
Socrate; 44
Spinoza, Baruch; 26; 29; 38;
124
Thévenot, Laurent; 101; 104;
106; 111; 119; 124; 154
Walzer, Michael; 101; 103; 162
Weber, Max; 133; 162
Weil, Simone; 68; 91; 92; 162
Winnicott, Donald Woods; 90;
162; 163
Wittgenstein, Ludwig; 107
Wright, Georg Henrik von; 45;
163
Taylor, Charles; 108; 109; 162
167
INDICE
Prefazione
5
Introduzione
9
Capitolo I
Riconoscimento di sé e prospettiva etica
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
Dall’«io» al «sé»
Soggetto esaltato e soggetto umiliato
L’antropologia dell’uomo agente e sofferente
Fenomenologia dell’uomo capace
Problema etico dell’identità e riconoscimento di sé
Promessa e riconoscimento di sé
Memoria e riconoscimento di sé
Poter raccontare e raccontarsi: l’identità costruita attraverso
il racconto
9. La dimensione etica dell’identità narrativa
10. Raccontare, interpretare, stimare se stessi
Capitolo II
Il Sé e l’Altro
1.
2.
3.
4.
5.
L’alterità costitutiva del sé
La dissimmetria tra l’io e l’altro
La sollecitudine per l’altro
Potere, istituzioni e giustizia
La norma come risposta alla violenza e come difesa
della «vita buona»
6. Saggezza pratica, sollecitudine critica e capacità di imputazione
7. Poteri-capacità del sé in relazione con l’altro
8. Diritti e capacità
19
19
23
25
30
31
32
36
42
45
49
55
55
59
64
67
69
71
76
78
Capitolo III
Misconoscimento e lotta per il riconoscimento
1. Il misconoscimento originario
2. La lotta per il riconoscimento nell’Hegel del periodo
di Jena (1802-1807)
3. Modelli di riconoscimento e forme negative del disprezzo
a) Lotta per il riconoscimento: amore e umiliazione
b) «Lotta per il riconoscimento sul piano giuridico»
c) Lotta per il riconoscimento e stima sociale
83
83
86
89
89
94
100
4. Riconoscimento e multiculturalismo
5. Potere, riconoscimento e «stati di pace»
106
109
Capitolo IV
Per un’etica del superamento dei conflitti:
mutuo riconoscimento e «stati di pace»
113
1.
2.
3.
4.
5.
6.
Verso il superamento dei conflitti
L’opposizione dialettica tra agape e giustizia
Un ponte tra amore e giustizia
I paradossi del dono
Il dono reciproco cerimoniale nelle «società arcaiche»
Scambio cerimoniale e festivo dei doni come etica
del mutuo riconoscimento
113
116
121
126
128
134
Considerazioni conclusive
139
Postfazione
145
Bibliografia
153
Indice dei nomi
165