Il pellicano rosso
nuova serie
a cura di Paolo De Benedetti
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«Bisognerà evitare il tentativo di ricostruire
ciò che la grazia ha demolito».
A. Louf
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RICHARD AVENARIUS
Il concetto umano di mondo
a cura di Chiara Russo Krauss
MORCELLIANA
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Titolo originale dell’opera:
Der menschliche Weltbegriff (1891)
© 2015 Editrice Morcelliana
Via Gabriele Rosa 71 - 25121 Brescia
Traduzione di Chiara Russo Krauss
Prima edizione: ottobre 2015
Lavoro realizzato grazie a una borsa di studio
dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici
www.morcelliana.com
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale
o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati
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4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dell’accordo stipulato tra SIAE, AIE, SNS, SLSI
e CNA, CONFARTIGIANATO, CASARTIGIANI, CLAAI e LEGACOOP il 17 novembre
2005. Le riproduzioni ad uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero
di pagine non superiore al 15% del presente volume, solo a seguito di specifica autorizzazione
rilasciata da AIDRO, via delle Erbe n. 2, 20121 Milano, telefax 02.809506, e-mail
[email protected]
ISBN 978-88-372-2920-7
LegoDigit srl - Via Galileo Galilei 15/1 - 38015 Lavis (TN)
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Introduzione
l’empiriocriticismo di avenarius tra
psicofisiologia e teoria della conoscenza
1. Nel 1891 Avenarius dava alle stampe Der menschliche Weltbegriff 1. Era passato solo un anno dalla pub1
Tra gli scritti che si concentrano sull’opera in questione si vedano O.
Ewald, Richard Avenarius als Begründer der Empiriokritizismus, Berlin
1905, in particolare pp. 18-88; L. Ziegler, Über einige Begriffe der “Philosophie der reinen Erfahrung”, in «Logos» ii (1911-1912), pp. 316-349, in
particolare pp. 338-348. Delle due monografie scritte dall’allievo di Avenarius Joseph Petzoldt e volte ad approfondire e sistematizzare il pensiero del
maestro, quella che sviluppa i temi del Weltbegriff è Das Weltproblem vom
positivistische Standpunkt aus, Leipzig 1906. In seguito alla pubblicazione
del Weltbegriff Wilhelm Schuppe scrisse una lettera aperta ad Avenarius, per
discutere le posizioni espresse nell’opera del collega e confrontarle con le
proprie (W. Schuppe, Die Bestätigung des naiven Realismus. Offener Brief an
Herrn Prof. Dr. Richard Avenarius, in «Vierteljahrsschrift für wissenschaftliche Philosophie» iii [1893], pp. 365-388). La lettera ebbe una breve risposta
a firma di Avenarius stesso (R. Avenarius, Anmerkung zu der Abhandlung
von R. Willy, in «Vierteljahrsschrift für wissenschaftliche Philosophie» xviii
[1894], pp. 29-31) e una risposta più lunga da parte di uno degli allievi di Avenarius (R. Willy, Das Erkenntnisstheoretische Ich und der natürliche Weltbegriff, in «Vierteljahrsschrift für wissenschaftliche Philosophie» xviii [1894],
pp. 1-28). Si segnalano le seguenti recensioni alla prima edizione del Weltbegriff: P. Barth, in «Philosophische Monatshefte» xxviii (1892), pp. 622624; W. Caldwell, in «The Philosophical Review» i (1892), pp. 325-327; L.
Grandgeorge, in «Revue Philosophique de la France et de l’Étranger» xxxiv
(1892), pp. 533-540; J. Rehmke, in «Göttingische gelehrte Anzeigen» (1892),
pp. 596-605; recensione anonima su «The Monist» ii (1892), pp. 451-453.
Alla seconda edizione: recensione anonima su «Revue de Métaphysique et de
Morale» xiv (1906), p. 10. Alla terza edizione: H. Prager, in «Zeitschrift für
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blicazione del secondo volume della Kritik der reinen
Erfahrung, un’opera di quasi ottocento pagine, alla cui
elaborazione aveva dedicato dieci anni della sua vita.
Basterebbe questo dato per comprendere come le idee
contenute nel Weltbegriff fossero state sviluppate insieme a quelle espresse nella Kritik e formassero quasi
un tutt’uno con esse. Ciò nonostante Avenarius stesso,
nella Prefazione del Weltbegriff, parla di una «relativa
indipendenza reciproca» tra le due opere (p. viii; tr. it.
infra, p. 52)2, i cui temi e i cui stili di scrittura possono effettivamente apparire molto distanti fra loro. Non
a caso un acuto commentatore come Leopold Ziegler
fu portato ad affermare che Avenarius «che nella sua
opera principale ha offerto poco più di un sensualismo
positivistico trasposto in formule, nel suo ultimo lavoro
[il Weltbegriff] ha rotto veramente con tutte le direzioni
storiche del passato»3.
Il primo passo da compiere per comprendere Der
menschliche Weltbegriff è dunque chiarirne il rapporto con la Kritik der reinen Erfahrung, così da stabilire
come sia possibile che due opere nate in così stretta comunione possano per altri versi apparire tanto diverse
l’una dall’altra.
Philosophie und philosophische Kritik» cl (1913), pp. 205-207; recensione
anonima su «Revue de Métaphysique et de Morale» xx (1912), p. 13.
2
Nel presente saggio introduttivo i riferimenti a Der menschliche Weltbegriff sono riportati indicando il numero del paragrafo. Per le parti dell’opera i cui paragrafi sono sprovvisti di numero viene citata la pagina della
seconda edizione tedesca (1905) e della traduzione italiana dell’opera qui di
seguito proposta.
3
L. Ziegler, Über einige Begriffe der “Philosophie der reinen Erfahrung”, cit., p. 348.
6
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2. Possiamo anzitutto affermare che tanto nel Weltbegriff quanto nella Kritik l’oggetto delle ricerche di
Avenarius è la conoscenza umana, oppure, dal momento che egli accosta spesso i due termini, possiamo dire
più precisamente che l’oggetto delle sue ricerche sono
la conoscenza e l’esperienza. Quello che cambia tra le
due opere è invece l’approccio alla questione.
All’inizio del Weltbegriff Avenarius rende conto del
tentativo portato avanti nella Kritik, spiegando come
in quello scritto egli avesse provato ad adottare la prospettiva realistica propria della psicologia sperimentale
o della psichiatria. Compiendo una mossa per così dire
“anticartesiana”, invece di cercare di fondare il sapere
su basi certe, mettendo in sospeso ogni possibile conoscenza e dubitando di ogni cosa, Avenarius aveva
scelto di mettere da parte ogni possibile dubbio per affrontare la questione della conoscenza e dell’esperienza dal punto di vista gnoseologicamente ingenuo delle
scienze naturali.
Procedendo in questo modo, Avenarius voleva evitare di cadere prigioniero da un lato della «immediata datità della coscienza» e dall’altro delle prospettive
unilaterali proprie di quelle che egli era solito definire
«teorie particolari della conoscenza».
Nel momento in cui estendo il dubbio a tutta la realtà, vengo infatti consegnato a quell’unica certezza che è
rappresentata dalla mia coscienza in quanto è ciò che è
immediatamente dato. Una volta ritrovatomi su questo
terreno “idealistico”, mi è però impossibile procedere
al di là di esso per riguadagnare un’oggettività, perché
tutto ciò che provo a porre come misura delle mie cono7
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scenze non può che trovarsi nuovamente nella coscienza, con il risultato che, pur avendo acquisito un fondamento certo per le mie conoscenze, su di esso non riesco
ad edificare alcunché.
Se invece guardo alla conoscenza e all’esperienza
dalla prospettiva di uno scienziato, posso trattarle come
dei comuni fenomeni psichici, che dipendono dal nostro
cervello e che come tali possono essere studiati. Ed è
proprio percorrendo questa strada che, secondo Avenarius, si può approdare a una vera teoria generale della
conoscenza, nel momento in cui – invece di affannarci
a determinare unilateralmente cosa sia o debba essere
la conoscenza, come fanno le teorie particolari, che dicono “la conoscenza è questo”, “questo è ciò che viene
conosciuto” (l’essenza, il fenomeno, i dati provenienti
dai sensi o quant’altro) – ci limitiamo a descrivere dal
punto di vista neurologico e psichico cosa accade quando qualcosa viene conosciuto, quando una conoscenza
viene affermata, modificata o rigettata.
Nella Kritik Avenarius sceglie dunque la strada più
“fruttuosa”, a scapito di quella gnoseologicamente più
corretta, aggirando l’impasse dell’immediata datità della
coscienza in favore di un realismo dichiaratamente ingenuo. Così facendo, egli sviluppa un’indagine psicofisiologica sul funzionamento dei meccanismi conoscitivi,
osservati prima dal loro versante cerebrale (nel primo
volume) e poi dal loro versante psichico (nel secondo).
Il presupposto di questa separazione dell’indagine era il rigido parallelismo psicofisico propugnato da
Avenarius. Affermare che l’attività cerebrale e quella
psichica sono tra loro parallele vuol dire certamente so8
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stenere che la serie dei fenomeni psichici è strettamente
dipendente dalla serie dei fenomeni cerebrali (nel senso
che ogni variazione verificatasi nella prima deve trovare la propria condizione in una parallela variazione
occorsa nella seconda), ma vuol dire anche che le serie
non debbono essere intrecciate tra loro, che nessun elemento dell’una deve comparire nell’altra. Pertanto deve
essere possibile tanto seguire la serie dei fenomeni psichici senza curarsi del loro versante cerebrale (il che è
piuttosto abituale), quanto seguire la serie dei fenomeni
cerebrali senza curarsi del loro versante psichico, e studiare dunque l’intero comportamento umano esclusivamente come un insieme di processi fisico-organici.
Pur avendo come conseguenza la possibilità di studiare l’attività umana esclusivamente dal versante organico, il parallelismo psicofisico sostenuto da Avenarius
si oppone ad ogni forma di riduzionismo materialistico.
Il fondamento di tale parallelismo era infatti la dipendenza logica delle variazioni psichiche dalle variazioni
cerebrali, la quale implica che in nessun modo l’ambito
psichico possa essere considerato dipendente dall’attività cerebrale nel senso di un esser causato o generato
da essa. Il versante psichico e il versante fisico sono
due dati parimenti originari e sono per l’appunto solo le
variazioni dell’uno a dipendere dalle variazioni dell’altro, e solo nel senso che, quando qualcosa si modifica a
livello dell’attività cerebrale, allora si deve modificare
qualcosa anche nell’ambito dell’attività psichica.
Ad ogni modo questa duplice indagine fisiologica
e psichica portata avanti nella Kritik non è una vera e
propria indagine scientifica, condotta in laboratorio, per
9
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mezzo di esperimenti. Avenarius, infatti, pur rifacendosi
spesso al lavoro di studiosi come Wundt o Helmholtz,
preferisce procedere sulla base di assunti, presupposti,
proposizioni generali, per una via che saremmo portati
a definire “deduttiva”. Ad esempio nelle pagine della
Kritik egli non si occupa di ricercare quali sono i centri
neuronali concretamente responsabili dei processi conoscitivi, ma si limita a delineare il concetto di “sistema
C”, cui corrisponderebbe quella parte del sistema nervoso centrale da cui si assume che i contenuti psichici
dipendano direttamente.
L’attività di questo sistema C è secondo Avenarius
fondata sulla sua autoconservazione: dal momento che
ogni stimolo implica una rottura dell’equilibrio del sistema, la sua elaborazione rappresenta una riaffermazione dello stato di quiete. Proprio in tale autoconservazione risiederebbe la molla dell’evoluzione del cervello,
poiché per un organo vivente conservarsi non significa
chiudersi agli stimoli, così da non esserne minacciato,
bensì sviluppare delle modalità standard – ovvero abituali – di risposta agli stimoli così da consentirne un’elaborazione sempre più perfetta. Considerando però che
la fonte primaria di stimoli non è altri che l’ambiente
che ci circonda, Avenarius afferma che l’attività del cervello consiste proprio nel progressivo esercizio di schemi cerebrali in grado di rispondere agli stimoli ambientali con sempre maggiore efficacia4.
4
Proprio il concetto di “esercizio” (Übung) risulta centrale nell’economia della Kritik, in quanto esso serve ad esprimere quel miglioramento delle
risposte del sistema che avviene tramite la loro successiva ripetizione. Dunque grazie all’esercizio, che permette al sistema di sviluppare delle rispo-
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In particolare, nel corso di questo processo di perfezionamento delle risposte del sistema, tutti i momenti
che servono effettivamente ad elaborare gli stimoli provenienti dall’ambiente si conserverebbero, a differenza
di quelli non funzionali a questo scopo, che decadrebbero progressivamente proprio a causa del loro mancato utilizzo, con il risultato che il sistema, liberandosi di
quei momenti che non corrispondono all’ambiente, diverrebbe sempre più adatto ad esso.
Se questo è ciò che accade sul versante cerebrale, il
corrispettivo psichico di tale attività per Avenarius va
invece cercato nel processo di comprensione dei contenuti particolari per mezzo di concetti generali che la
psicologia ottocentesca – in particolar modo quella di
matrice herbartiana – definiva “appercezione”. Come
il cervello elabora i nuovi stimoli attraverso degli schemi operazionali abituali, così i contenuti psichici nuovi e “ignoti” vengono compresi riconducendoli ad altri
abituali e “noti”. Come le risposte cerebrali si liberano progressivamente di tutti i momenti che non sono
necessari ad elaborare gli stimoli provenienti dall’ambiente, così i concetti si spogliano progressivamente di
tutti quegli aspetti che non servono alla comprensione
di ciò che ci circonda, divenendo in tal modo sempre
più puramente empirici.
È questa l’“esperienza pura” di cui parla Avenarius:
il perfetto adeguamento dei concetti all’ambiente per
ste abituali (üblich) ottimali, da impiegare al porsi degli stimoli provenienti
dall’ambiente, il cervello si evolve progressivamente, incrementando le proprie capacità di conservazione.
11
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mezzo dell’«eliminazione progressiva»5 di tutto ciò che
non è empirico. L’esperienza pura non è quindi identificata né con le pure sensazioni (che sono qualcosa che
non viene mai esperito) né con una supposta esperienza incontaminata da cercare risalendo alle origini del
nostro sapere; al contrario, il raggiungimento dell’esperienza pura è da considerarsi come «funzione dello spazio e del tempo»6, ovvero come qualcosa che è destinato
a realizzarsi man mano che procede la nostra storia evolutiva e che il nostro ambiente di riferimento si allarga
fino ad abbracciare tutta la Terra.
Con la Kritik Avenarius costruisce dunque una sorta
di teoria “biologica” della conoscenza, che mette in relazione l’evoluzione dell’organo-cervello con l’evoluzione dei nostri saperi. Questa sorta di reinterpretazione
della adaequatio intellectus et rei nei termini di un adattamento dei concetti all’ambiente, fondato sul parallelo
adattamento del sostrato cerebrale agli stimoli ambientali, fa sì che per Avenarius le conoscenze non vadano
più misurate in base alla loro “verità”, cioè in base ad
una presunta corrispondenza con un’irraggiungibile realtà oggettiva, ma in base alla loro Haltbarkeit, ovvero a
partire dal loro destino evolutivo. Giocando sull’ambiguità del termine tedesco, che può indicare tanto la “sostenibilità” psichica (nel senso di possibilità di portare
avanti una determinata convinzione) quanto la “conservabilità” biologica (propria di quelle strutture che sono
in grado di mantenersi nel tempo perché adatte all’am5
Cfr. R. Avenarius, Kritik der reinen Erfahrung, 2 voll., Leipzig 188818901, 1907-19082 (d’ora in poi Kritik), vol. i, p. 198.
6
Kritik, vol. i, p. 199.
12
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biente), Avenarius individua nell’Haltbarkeit il principio cardine della propria psicofisiologia della conoscenza, facendone il pendant positivo dell’eliminazione
progressiva: se in base a quest’ultima tutte le strutture
cerebrali e i concetti che non dipendono dall’ambiente
sono destinati a scomparire, quel che è destinato a rimanere è invece ciò che è haltbar. Pertanto, nel valutare le
nostre conoscenze, non dobbiamo chiederci se esse siano “vere” o “false”, ma se esse siano destinate a incorrere nell’eliminazione progressiva o se siano al contrario
sostenibili/conservabili7.
Certo si potrebbe rilevare che, se le conoscenze sostenibili sono comunque quelle empiriche, ovvero quelle che dipendono dall’ambiente, Avenarius in fondo
ricadrebbe in una concezione della conoscenza basata
sulla corrispondenza con la realtà. Ciò non è scorretto, dato che tra gli scopi di Avenarius v’era sicuramente
quello di giungere ad una concezione della conoscenza umana per cui questa è effettivamente conoscenza
di qualcosa, di una realtà. Quel che conta, però, è che
tale realtà non è più il metafisico e sfuggente “mondo
esterno”, ma è l’ambiente in cui ci conserviamo e in cui
si svolge la nostra storia evolutiva, e che tale ambiente
non è qualcosa che le nostre conoscenze rispecchierebbero, bensì ciò a cui esse si adattano.
Come sottolineato più volte dai suoi allievi, l’empiriocriticismo di Avenarius condividerebbe dunque con
posizioni solipsistiche e scettiche l’idea che non vi sia
7
Essendo costretta a sciogliere l’ambiguità semantica del termine tedesco, nel saggio introduttivo e nella traduzione dell’opera ho scelto di rendere
haltbar con “sostenibile”.
13
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alcuna metafisica “realtà” fuori di noi cui la conoscenza
dovrebbe riferirsi, ma al contempo si differenzierebbe
da queste nella misura in cui, partendo da una simile
consapevolezza, andrebbe in cerca di un altro criterio
che ci permetta di valutare i nostri saperi, senza rinunciare a stabilire “differenze di valore” tra le conoscenze dei diversi individui8. Tale criterio verrebbe quindi
individuato in quel «carattere biologico della verità»
che «lo scetticismo ignora completamente», ovvero
nel «rapporto [della verità] con il nostro impulso alla
conservazione»9.
3. Il principale risultato della Kritik è dunque la tesi
che in generale la nostra attività cerebrale diviene sempre più adatta all’ambiente e che in generale i contenuti
psichici che da tale attività dipendono si spogliano progressivamente di tutti gli elementi non empirici e non
sostenibili, avvicinandosi così all’esperienza pura. Tale
risultato viene raggiunto, come detto, mettendo da parte
ogni possibile questione gnoseologica, per partire direttamente dall’analisi dei rapporti tra ambiente, cervello
e contenuti psichici. Considerato ciò, rimanevano due
compiti fondamentali che Avenarius cerca di affrontare nel Weltbegriff: il primo era quello di riprendere in
mano il problema di quale sia il punto di partenza gno8
Cfr. R. Willy, Der Empiriokritizismus als einzig wissenschaftliche
Standpunkt, in «Vierteljahrsschrift für wissenschaftliche Philosophie» xx
(1896), pp. 55-86, pp. 191-225, pp. 261-301, qui p. 60.
9
Cfr. M. Klein, Die Philosophie der reinen Erfahrung, in «Naturwissenschaftliche Wochenschrift» ix (1894), pp. 1-6, x (1895), pp. 453-462, xi
(1896), pp. 377-382, pp. 389-394, qui vol. ix, p. 3.
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seologicamente saldo su cui fondare una teoria della conoscenza; il secondo era invece quello di integrare i risultati della Kritik, non accontentandosi più di stabilire
in generale in che direzione debbano evolversi il nostro
cervello e il nostro sapere, ma procedendo piuttosto ad
esaminare in concreto quali siano i contenuti psichici
che si sono effettivamente sviluppati nel corso della nostra evoluzione cerebrale.
Anche se nella Kritik Avenarius aveva messo tra parentesi la questione dell’immediata datità della coscienza, per occuparsi della conoscenza e dell’esperienza
come si farebbe con un qualsiasi altro oggetto di indagine psicofisiologica, egli era ben consapevole che questa
poteva essere tutt’al più una soluzione temporanea, un
metodo per aggirare un problema che non per questo
cessava di esistere in tutta la sua serietà. Che tale problema non potesse essere accantonato tanto facilmente lo dimostrava tra l’altro il fatto che, anche partendo
dal rapporto tra ambiente, cervello e contenuti psichici,
si viene sospinti su posizioni idealistiche, perché se è
vero che l’ambiente causa le percezioni in noi, l’unica
cosa che è effettivamente data sono comunque queste
ultime, per cui l’esistenza dell’ambiente risulta tutt’al
più inferita a partire da esse. Ma se, anche provando a
partire dal realismo, si finisce comunque a dover fare i
conti con l’idealismo, allora è proprio da quest’ultimo
che bisogna prendere le mosse, ovvero dall’immediata datità della coscienza. Ecco dunque che la questione
fondamentale diviene quella di conciliare la prospettiva
idealistica dell’immediata datità della coscienza (la sola
da cui sia gnoseologicamente giustificato partire) con la
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prospettiva realistico-scientifica (che, indagando la dipendenza della conoscenza dal cervello e dall’ambiente,
è invece la sola in grado di spiegare come funzionano i
nostri processi intellettivi).
La proposta di soluzione al problema della conciliazione tra la prospettiva idealistica e quella realistica
presentata da Avenarius nel Weltbegriff si basa sulla distinzione tra me stesso – l’io – e gli altri uomini. La coscienza immediata da cui bisogna partire è la mia, perché
tutta la realtà si dà solo come qualcosa che è sul piano della mia esperienza. La conoscenza e l’esperienza
di cui si può indagare da cosa dipendano sono invece
quelle del mio prossimo, le quali costituiscono, al tempo stesso, una parte di ciò che si dà sul piano della mia
esperienza. In particolare il modo in cui la conoscenza
e l’esperienza altrui si danno all’interno del piano della
mia esperienza è attraverso le asserzioni. È solo grazie al
linguaggio, infatti, che dispongo di un’esperienza, quella del mio prossimo, la quale, non essendo più il piano
della immediata datità della coscienza su cui si colloca
ogni cosa, ma piuttosto una parte di ciò che si dà sul piano della mia esperienza, può essere trattata alla stregua
di ogni altro fenomeno che si dà su tale piano, e sottoposta a un’indagine scientifica volta a stabilire da cosa
essa dipenda. Chi vuole svolgere una ricerca di tipo psicofisiologico non dovrebbe pertanto parlare di contenuti
di coscienza, rappresentazioni, vissuti etc. – tutti termini
che rimandano a ciò che io esperisco in prima persona
– ma, più correttamente, di contenuti di asserzione. Per
questo motivo Avenarius stesso, nello scrivere di fenomeni psichici, adopera costantemente le virgolette, a se16
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gnalare che si sta riferendo a contenuti asseriti dal suo
prossimo, o “valori-E”, come pure li chiama.
A ben vedere, però, già nella Kritik i contenuti psichici di cui veniva indagata la dipendenza dal cervello
erano riportati tra virgolette, ed erano dunque valori-E,
contenuti di asserzione. Difatti, come riferisce lo stesso Avenarius nella Prefazione del Weltbegriff, durante
la composizione della sua opera principale egli aveva
già sviluppato il suo personale punto di vista, secondo cui bisogna partire “idealisticamente” dalla propria
esperienza per poi indagare “realisticamente” i rapporti di dipendenza tra quei componenti di essa che sono
l’ambiente, il cervello e i contenuti di asserzione degli
altri uomini. Ciò nonostante egli aveva preferito lasciare in secondo piano la questione del punto di vista da cui
venivano svolte le ricerche della Kritik, perché ciò che
contava in quell’opera era solo stabilire in che modo
funzionino i processi conoscitivi dal versante cerebrale e da quello psichico, e non da che punto di vista sia
giustificato parlare di tali processi. In questo modo Avenarius allargava la platea di coloro che potevano accogliere le sue suggestioni, perché la teoria psicofisiologica della conoscenza delineata nella Kritik poteva essere
accolta anche da chi non avesse sposato le sue tesi sul
punto di vista da adottare. Viceversa, la proposta di soluzione dell’antinomia tra idealismo e realismo presentata separatamente nel Weltbegriff poteva venir condivisa anche da chi avesse rifiutato la sua concezione dei
processi cerebrali e psichici.
Ecco dunque spiegato il motivo della singolare scelta compiuta da Avenarius: quella di riservare a un altro
17
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scritto l’illustrazione del punto di vista da cui erano state
sviluppate le idee contenute nella sua opera principale.
4. Il Weltbegriff non costituisce però soltanto la
chiarificazione dei presupposti gnoseologici della
Kritik, ma anche un’integrazione rispetto alla teoria
dell’evoluzione della conoscenza umana contenuta in
quest’ultima.
Come detto, nella Kritik Avenarius aveva scelto di
procedere per una sorta di via “deduttiva”, volta a stabilire in linea di principio come si deve assumere che
funzionino l’attività cerebrale e psichica in generale.
Questa scelta era dovuta principalmente al fatto che il
percorso che dovrebbe consentirci di stabilire, sulla base
di indagini ed esperimenti, come funziona concretamente il cervello, e quali sono in concreto i contenuti psichici
che dipendono dai differenti processi cerebrali, appariva
ancora tanto remoto agli occhi di Avenarius da risultare
sostanzialmente impraticabile. Per arrivare a una simile
conoscenza dei rapporti mente-cervello bisognava infatti acquisire una conoscenza di quest’organo così perfetta
da poter essere pensata al massimo come meta ideale per
una psicofisiologia come quella tardo-ottocentesca, che
in questo campo compiva allora i suoi primi passi.
Visto che tale indagine, ammesso che potesse essere
ritenuta attuabile, non era certo assolvibile dalla Kritik,
Avenarius aveva preferito dedicarsi a costruire un’ipotesi generale sulla direzione in cui si muove l’evoluzione cerebrale e psichica, con la speranza che siffatta ipotesi potesse svolgere una funzione euristica per la coeva
psicologia sperimentale, evitandole di smarrirsi in una
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molteplicità di studi specialistici privi di un quadro di
riferimento.
In particolare, partendo dal presupposto che l’attività cerebrale procede sempre attraverso tre stadi –
uno iniziale di quiete, uno di disequilibrio in cui il sistema risponde al porsi di uno stimolo mettendo in atto
delle variazioni volte a ristabilire la quiete, e infine
uno in cui viene ripristinato l’equilibrio – Avenarius
assume che anche sul versante psichico debba essere
riscontrabile una processualità simile. A prescindere
dal contenuto particolare dei concetti che si realizzerebbero in ciascuno dei tre momenti, egli stabilisce
che quelli che compaiono nel primo e nell’ultimo stadio debbano avere una connotazione positiva, al contrario di quelli dello stadio intermedio, che sarebbero
invece caratterizzati in parte positivamente e in parte
negativamente, a seconda che le variazioni messe in
atto dal sistema comportino un avvicinamento o un allontanamento rispetto al ripristino dell’equilibrio. Pertanto, mentre tutti i contenuti corrispondenti al primo
momento possiedono i caratteri positivi di “esistente”,
“sicuro”, “noto” ed “esperito”, per cui il concetto nel
suo insieme è dotato di una «caratteristica interamente
positiva»10, nel secondo momento alcuni di questi contenuti vedono i loro caratteri svilupparsi in senso negativo, diventando ad esempio un che di “non esperito”
ed “ignoto”, anche se magari ancora “esistente”, dato
che i caratteri non devono necessariamente diventare
negativi tutti assieme.
10
Cfr. Kritik, vol. ii, p. 396.
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Nel corso di questo processo i contenuti che acquisiscono i caratteri negativi di “non esistente”, “non
sicuro”, “ignoto” e “non esperito” sono anche quelli
destinati a venir rimossi, a cadere per effetto dell’eliminazione progressiva, con il risultato che il concetto che
si afferma al termine di questo processo di rimozione
è nuovamente composto solo di contenuti caratterizzati
interamente in senso positivo come “esistenti”, “sicuri”,
“noti” ed “esperiti”. Dunque, pur presentando gli stessi
caratteri, il momento iniziale e quello finale dell’evoluzione di un concetto secondo Avenarius si differenziano
per il fatto che i contenuti del concetto conclusivo risultano purificati da tutto ciò che, pur comparendo in origine come “esistente”, “sicuro”, “noto” ed “esperito”, nel
corso dell’evoluzione si è modificato – diventando “non
esistente”, “non sicuro”, “ignoto” e “non esperito” – per
poi venir eliminato dal concetto in questione.
Nella Kritik Avenarius giungeva dunque al risultato
che l’evoluzione dei nostri concetti vede in generale il
passaggio da uno stadio in cui i loro contenuti sono caratterizzati in modo interamente positivo ad uno dove
emergono dei caratteri negativi, per concludersi con
il ripristino della caratterizzazione positiva. Nel Weltbegriff egli vuole invece capire quali sono in concreto i contenuti che vengono così caratterizzati nel corso
dell’evoluzione umana, applicando tale schema ad un
concetto in particolare: il concetto di mondo.
Per Avenarius, infatti, il compito della critica dell’esperienza pura era solo quello di stabilire le condizioni generali della purificazione dell’esperienza, incarico
che risultava assolto una volta individuato il processo di
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evoluzione umana, il quale porta a eliminare tutto ciò
che è non empirico. Tutt’altra cosa era invece riuscire
ad elaborare un sistema dell’esperienza pura, ovvero un
sistema che fissasse quali sono in concreto i concetti puramente empirici. Con il Weltbegriff Avenarius intende
compiere un primo, fondamentale passo in questa direzione, nella misura in cui lo scopo dell’opera è per l’appunto stabilire quale sia il concetto puramente empirico
di mondo che è destinato a realizzarsi nel corso dell’evoluzione umana11.
Dunque nel Weltbegriff Avenarius sceglie di allontanarsi dalla prospettiva psicofisiologica generale propria della Kritik per indagare nel dettaglio l’evoluzione psicofisiologica di un determinato concetto, quello
di mondo. Resta tuttavia il problema dell’insufficiente conoscenza del funzionamento del cervello, in sé e
nel suo rapporto con i contenuti psichici. In particolare,
Avenarius è consapevole di non poter descrivere come
funziona lo sviluppo cerebrale responsabile dell’evoluzione del concetto di mondo. Per tale motivo egli limita il suo campo di indagine al processo evolutivo che
si è già svolto nel corso della storia umana. In questo
modo, invece di partire dall’attività cerebrale per definire poi quali sono i concetti di mondo che vengono via
via realizzati in quanto dipendenti da essa, Avenarius
11
Anche l’ultimo lavoro di Avenarius – la serie di articoli intitolata
Bemerkungen zum Begriff des Gegenstandes der Psychologie e pubblicata
sulla «Vierteljahrsschrift für wissenschaftliche Philosophie» tra il 1894 e il
1895 – può essere visto nell’ottica di una fondazione di un sistema dell’esperienza pura, dato che il suo scopo è per l’appunto definire il concetto puramente empirico di “oggetto della psicologia”.
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parte dall’analisi dei concetti di mondo che sono effettivamente comparsi nel corso del tempo. Ciò gli consente
comunque di affermare che tutti i contenuti eliminati
dal concetto di mondo nel corso della sua storia erano dipendenti da funzioni cerebrali non condizionate
dall’ambiente.
Lo strumento di cui Avenarius si serve per stabilire
quale dev’essere il concetto di mondo puramente empirico e come procede il suo sviluppo psicofisiologico
è dunque una ricostruzione della storia del concetto
di mondo, volta a far emergere qual è quella parte di
esso che viene progressivamente eliminata (i cosiddetti
“concetti accessori”) e qual è invece quella che viene
conservata nel corso del tempo, risultando alla fine l’unica sostenibile (il “concetto universale”)12.
5. Da quanto abbiamo detto emerge come il Weltbegriff, rispetto alla Kritik, si ponga allo stesso tempo a un
livello più generale e ad uno più particolare. Da un lato,
infatti, è il Weltbegriff che sembra contenere entro di sé
la Kritik, nella misura in cui esso ha il compito di chiarire quale fosse il punto di vista da cui sono state svolte le
ricerche contenute nell’opera precedente e in che modo
queste possano essere giustificate gnoseologicamente;
dall’altro, invece, è la Kritik che sembra contenere entro di sé le indagini condotte nel Weltbegriff, dato che
in essa viene delineata una teoria psicofisiologica sullo
sviluppo dei concetti che l’opera successiva mette poi
alla prova, applicandola ad un concetto particolare.
12
Cfr. Kritik, vol. ii, p. 379.
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Per comprendere questo apparente paradosso bisogna chiarire come si leghino tra loro la questione del
punto di vista da adottare e quella dell’evoluzione del
concetto di mondo, addentrandoci nel merito delle risposte fornite da Avenarius a tali problemi.
Come detto in precedenza, anche se Avenarius afferma di aver adottato una prospettiva “realista” all’interno della Kritik, in realtà egli sceglie come punto di
partenza della propria filosofia quello dell’immediata
datità della coscienza, basandosi sull’assunto che essa
è l’unico fondamento possibile, dato che non si può che
prendere le mosse da ciò che concretamente troviamo.
Ciò nonostante la scelta di porre a fondamento l’immediatezza della coscienza non viene da lui interpretata
nel senso di una riduzione al soggetto, quanto piuttosto
come un partire dall’esperienza nella sua effettività.
Questa esperienza che fornisce ad Avenarius la base
delle sue riflessioni non è però l’esperienza pura (l’esperienza da cui è stato rimosso tutto ciò che non è
propriamente empirico), anche se per altri versi essa è
comunque “pura”, nel senso che per ottenerla bisogna
spogliarsi di quella sorta di «misterioso impulso a scegliere il punto di vista più elevato, profondo, astratto
o, quanto meno, più complicato possibile» che è proprio delle «ricerche che si occupano della conoscenza
umana»13. Solo liberandoci da quei punti di vista uni13
Kritik, vol. i, p. 11. A tal proposito, nel suo articolo di critica alle
posizioni di Avenarius, Wundt affermava: «In realtà l’espressione “puro”,
all’interno della cerchia di pensiero empiriocritica, non si riferisce tanto
all’esperienza stessa, quanto piuttosto a quel punto di vista completamente
disinteressato, di osservazione puramente oggettiva, che viene richiesto per
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laterali che abbiamo già visto essere propri delle teorie
particolari della conoscenza, per limitarci invece a descrivere ciò che incontriamo nella vita di tutti i giorni,
otteniamo la nostra esperienza naturale o, per usare la
terminologia avenariusiana, il trovato:
«Io, con tutti i miei pensieri e sentimenti, mi trovai in mezzo
ad un ambiente. [...] Di questo ambiente facevano parte anche
altri uomini con innumerevoli asserzioni; e ciò che essi dicevano stava per lo più a sua volta in un rapporto di dipendenza
con l’ambiente. Inoltre questi uomini parlavano e agivano
come me [...] per questo non ho pensato altro se non che gli
altri uomini fossero esseri come me e che io stesso fossi un
essere come loro» (§ 6).
Questa esperienza e i suoi contenuti fondamentali –
l’io, l’ambiente e gli altri uomini – costituiscono dunque il punto di partenza delle riflessioni di Avenarius.
Il fatto che per giungere a tale esperienza egli si sia
dovuto spogliare di ogni punto di vista filosofico, per
adottarne invece uno “ingenuo”, non garantisce però né
che l’esperienza in questione sia puramente empirica
(ossia che in essa non si nasconda qualcosa che non sia
effettivamente esperienza), né che essa sia sostenibile,
ovvero in grado di conservarsi senza dare origine a problemi che ne rendano necessaria la variazione.
Il compito che Avenarius affidava al Weltbegriff è
dunque quello di saggiare l’empiricità e la sostenibilità
determinare il contenuto effettivo dell’esperienza» (W. Wundt, Über naiven
und kritischen Realismus. ii: der Empiriokritizismus, in «Philosophische Studien» xiii [1898], pp. 1-105; pp. 323-433, qui p. 7).
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dell’esperienza trovata adottando il punto di vista ingenuo. Perseguendo tale compito si rischia però di incorrere nuovamente in tutti quei problemi che sorgono
ogni qual volta si ha a che fare con l’immediata datità
della coscienza. Infatti, stando alla concezione di Avenarius stesso, per stabilire se la mia esperienza è effettivamente empirica e sostenibile dovrei indagare da
cosa essa dipende, separando così ciò che corrisponde
a schemi cerebrali effettivamente condizionati dall’ambiente e conservabili da ciò che rimanda invece a schemi cerebrali non dipendenti dall’ambiente e destinati a
scomparire progressivamente per carenza di utilizzo.
Quest’operazione non è tuttavia possibile in riferimento
alla mia esperienza, perché oltre essa non c’è niente, né
ambiente, né cervello, mentre l’ambiente e il cervello
che sono in essa, proprio perché sono in essa, non possono esserne al contempo la condizione.
Per aggirare questo ostacolo, una volta fissato il
contenuto della propria esperienza, Avenarius la attribuisce al suo prossimo, assumendo che sia questi ad
asserire: «Io, con tutti i miei pensieri e sentimenti, mi
trovai in mezzo ad un ambiente etc.». Così facendo,
infatti, non abbiamo più a che fare con il trovato, con
il piano della mia esperienza, ma con un contenuto di
asserzione altrui – il concetto di mondo – che è una
parte determinata di tale piano, parte di cui può essere
studiato lo sviluppo psicofisiologico. In altre parole,
per evitare di restare ancorato al piano della propria
esperienza personale e di ciò che egli ha trovato in prima persona, Avenarius opera un cambio di prospettiva, guardando ai contenuti da lui stesso esperiti come
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se questi fossero asseriti, per così dire, in terza persona, da un altro uomo.
Per Avenarius questo cambio di prospettiva non costituisce però soltanto un espediente, un meccanismo
concettuale costruito con lo scopo di non ricadere nelle
solite antinomie tra idealismo e realismo. Certo, se si
rimane alla considerazione del proprio trovato, è impossibile mettere in relazione i vissuti personali con qualcosa che sarebbe di là da essi. Ma, a prescindere da questa considerazione “filosofica”, alla base del passaggio
da una prospettiva “in prima persona” ad una “in terza
persona” c’è un vero e proprio dato di fatto: noi non
abbiamo alcuna conoscenza diretta della relazione che
c’è tra i nostri vissuti da una parte e noi stessi, il nostro
cervello e l’ambiente dall’altra, perché tale relazione
viene conosciuta in modo diretto solo rispetto al nostro
prossimo, e poi da questi viene trasferita a noi stessi,
per analogia.
In altre parole, qualcosa come l’esperienza del rapporto tra il nostro vissuto “albero” e l’oggetto “albero”
non esiste, perché nella nostra esperienza l’albero come
oggetto e l’albero come vissuto sono una e una sola
cosa. A ben vedere quel che abbiamo è esclusivamente
l’esperienza del rapporto tra l’asserzione “albero” del
mio prossimo e l’oggetto “albero”, ed è partendo da
questa esperienza, che viene proiettata su noi stessi, che
possiamo parlare anche di un rapporto che sussisterebbe
tra il nostro vissuto “albero” e l’oggetto “albero”.
Pertanto quando nella vita di tutti i giorni consideriamo i nostri vissuti come qualcosa che “dipende-da”,
in realtà non stiamo facendo altro che trasferire su noi
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stessi la nostra conoscenza del fatto che le asserzioni
altrui sono un qualcosa che “dipende-da”, ovvero non
stiamo facendo altro che considerare noi stessi in analogia con il nostro prossimo, anche se ciò avviene in
modo inconscio e inconsapevole. Il considerarsi come
un altro uomo non è dunque soltanto l’escamotage messo in piedi da Avenarius per uscire dalle secche dell’idealismo filosofico, ma è la modalità standard che adottiamo ogni qual volta consideriamo i nostri vissuti come
qualcosa che è in rapporto ad altro e non semplicemente
come qualcosa che “si dà”.
Questa possibilità di considerare la propria esperienza in due modi – dal nostro punto di vista, come
qualcosa che semplicemente “si dà”, oppure come un
qualcosa di asserito da un individuo terzo e che “dipende-da” (il cervello, l’ambiente etc.) – nel Weltbegriff
viene indicata con la differenza tra “prospettiva assoluta” e “prospettiva relativa”. La prospettiva “assoluta”
è per l’appunto quella del piano della mia esperienza,
che è absolutus – slegato, sciolto – in quanto non può
essere messo in relazione con qualcosa che sarebbe di
là da esso giacché questo qualcosa semplicemente non
c’è. La prospettiva relativa è invece quella che si adotta
quando ci si considera in terza persona, in analogia con
l’altro uomo, ed è così chiamata perché ci permette per
l’appunto di mettere in relazione la nostra esperienza
(trattata come un contenuto di asserzione) con qualcosa
di là da essa.
Nel distinguere tali prospettive bisogna sottolineare come la prospettiva relativa sia comunque possibile solo all’interno di quella assoluta. Infatti, quando
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considero la mia esperienza come se fosse un contenuto asserito dal mio prossimo, mettendola in relazione
con l’ambiente o il cervello altrui (che sto considerando
come se fosse il mio), tutti questi elementi – l’asserzione, l’ambiente e il cervello – fanno comunque parte del
piano della mia esperienza e in quanto tale sono assunti
assolutamente. La prospettiva relativa non può pertanto
mai prescindere da quella assoluta, perché far ciò vorrebbe dire prescindere dal piano dell’esperienza, mentre
è solo all’interno di questo che può darsi qualcosa o la
relazione tra qualcosa.
6. Questo gioco tra le due prospettive, che innerva
tutto il Weltbegriff, fa sì che lo scopo dell’opera risulti
da un lato l’analisi dell’esperienza in prima persona,
in quanto essa è il fondamento su cui Avenarius erige
la sua filosofia, e dall’altro l’analisi di questa esperienza in terza persona, osservata cioè come se fosse un
determinato contenuto di asserzione di un altro uomo,
vale a dire il concetto di mondo, di cui bisogna ricostruire lo sviluppo psicofisiologico, così da accertarne
la sostenibilità.
Come abbiamo già visto, similmente a quanto accade nella Kritik, anche nel Weltbegriff Avenarius non
realizza una vera e propria indagine psicofisiologica
volta a ricercare quale sia l’attività cerebrale da cui il
concetto di mondo dipende. Egli si occupa invece di ricostruire la storia di tale concetto. In particolare, nel
momento in cui imposta la sua ricerca come un tentativo di ripercorrere le diverse fasi che hanno segnato
l’evoluzione del concetto di mondo, Avenarius assume
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che quei contenuti che egli aveva trovato adottando un
punto di vista ingenuo non siano solo il punto di partenza della sua filosofia, ma più in generale il punto di
partenza delle riflessioni di ogni uomo, e quindi dell’umanità stessa. In altre parole, quel concetto di mondo
costituito da io, ambiente ed altri uomini per Avenarius
sarebbe il concetto di mondo che gli uomini si formano
spontaneamente e originariamente, e dal quale tutti gli
altri concetti di mondo deriverebbero, in quanto sue variazioni. Per questo motivo egli definisce tale concetto
il «concetto naturale di mondo».
Una volta assunto che il concetto naturale di mondo è la radice comune dalla cui variazione si sviluppa
ogni altro concetto di mondo, sorgono due questioni: 1)
come accade che il concetto naturale di mondo dia origine a delle variazioni? 2) cos’è sostenibile, il concetto
naturale di mondo o le sue variazioni? La risposta alla
prima domanda viene cercata nella storia evolutiva del
concetto di mondo, perché la via più agevole per comprendere come si determinino delle variazioni nel concetto naturale di mondo è analizzare le variazioni che
esso ha effettivamente subito durante la sua storia. Sempre la storia del concetto di mondo ci può anche aiutare
a rispondere alla seconda domanda, sulla sostenibilità
del concetto naturale di mondo e delle sue variazioni,
mostrandoci cosa si è conservato e cosa è stato invece
eliminato nel corso del tempo.
Poiché la ricostruzione della storia evolutiva del
concetto di mondo viene condotta in accordo con le teorie della Kritik circa lo sviluppo dei contenuti conoscitivi, in essa Avenarius individua tre fasi: una prima,
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rappresentata per l’appunto dal concetto naturale di
mondo, ovvero da quell’insieme di io, ambiente ed altri
uomini che per Avenarius è il contenuto primario dell’esperienza sua e di ogni altro uomo; una seconda, in cui
interviene un elemento di disturbo che determina – per
usare un’espressione della Kritik – «l’incepparsi di una
generalizzazione»14, nel senso che il concetto di mondo
iniziale si trova a fare i conti con qualcosa che non è in
grado di comprendere, per cui è costretto a modificarsi, a variare, nel tentativo di «appercepire» tale elemento estraneo; infine una terza fase, in cui l’«enigma del
mondo»15 che caratterizzava il secondo momento viene
risolto o tramite la riaffermazione del concetto di mondo iniziale (nel momento in cui l’elemento di disturbo
è derubricato a falso problema) oppure tramite la sostituzione o modifica di esso (per cui si afferma un nuovo
e variato concetto di mondo, che riesce a comprendere
stabilmente quell’elemento estraneo, senza che insorgano nuovi problemi).
Da questa scansione della storia del concetto di mondo – che si ritrova nella divisione del Weltbegriff in tre
parti – si evince che per comprendere come e perché il
concetto naturale di mondo finisca col variare è necessario spiegare quale sia l’elemento di disturbo che dà
avvio alla seconda fase, e in che modo esso si origini. In
altre parole bisogna cercare dov’è, nelle pieghe del concetto di mondo, che si annida quel germe di una possibile incomprensione in grado di svilupparsi fino a mettere
14
15
Kritik, vol. ii, p. 248.
Cfr. Kritik, vol. ii, pp. 383 ss.
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in crisi il concetto naturale di mondo, determinandone
la variazione.
Per rispondere a questa domanda Avenarius analizza più nel dettaglio il contenuto del concetto naturale
di mondo – «Io, con tutti i miei pensieri e sentimenti,
mi trovai in mezzo ad un ambiente etc.» – rilevando
che non tutto ciò che è presente in esso è effettivamente un’esperienza. Esso racchiude infatti anche un contenuto ipotetico, corrispondente all’assunto secondo
cui gli altri uomini sono esseri come me; esseri, cioè, i
cui movimenti, gesti e suoni hanno un senso, sono asserzioni. Che il mio prossimo sia simile a me e che i
suoi movimenti non siano semplicemente un qualcosa
di meccanico, al pari dei movimenti dei semplici componenti dell’ambiente, è un’ipotesi perché per poterla
confermare io dovrei mettermi dal suo punto di vista,
per esperire ciò che egli stesso esperisce. Ma ciò non è
possibile, in quanto non posso mai abbandonare il mio
punto di vista; tutto ciò che posso fare è solo attribuire
un significato ai gesti altrui, in analogia con il significato effettivamente detenuto dai miei gesti.
Denunciando il carattere ipotetico della significatività del movimenti, gesti e suoni degli altri uomini Avenarius non intende però sostenere che sia necessario rimuovere questa ipotesi dal concetto naturale di mondo. Tale
ipotesi, infatti, risulta comunque intimamente legata
all’esperienza, o quanto meno si accorda maggiormente
con essa rispetto all’ipotesi opposta, secondo cui gli altri
uomini non sarebbero esseri come me, così che i loro gesti dovrebbero essere considerati come movimenti di un
automa, aventi una valenza esclusivamente meccanica.
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Dunque secondo Avenarius la problematicità dell’ipotesi racchiusa nel concetto naturale di mondo non è data
dal significato linguistico dei gesti altrui in sé, ma dal
modo in cui questa ipotesi può essere sviluppata.
Come abbiamo detto, i movimenti, gesti e suoni altrui acquisiscono un significato nel momento in cui io
li interpreto in analogia con i miei stessi movimenti,
gesti e suoni, per cui essi risultano significativi al pari
di questi. Tale processo è comunque fondato sull’esperienza, in quanto, sulla base dell’esperienza per cui i
miei movimenti hanno non solo una valenza meccanica, ma anche un significato, io attribuisco agli analoghi
movimenti altrui un analogo significato. L’errore nasce
invece nel momento in cui l’ipotesi del significato dei
movimenti altrui si allontana dal suo essere una analogia con l’esperienza per divenire qualcosa che non ha
affatto una base empirica, ma anzi contraddice persino
l’esperienza.
In particolare ciò accade nel momento in cui l’analogia tra me e il mio prossimo dà vita a un’impropria sovrapposizione tra due punti di vista inconciliabili. Sulla
base dell’assunto per cui io e il mio prossimo siamo simili è infatti possibile tanto guardare a se stessi come se
si fosse un altro uomo (come accade dalla prospettiva
relativa), quanto adottare il punto di vista altrui, calandosi nei panni dell’altro uomo, per cui egli non è un più
visto come un altro uomo, ma come un io. Anche se,
cambiando punto di vista, io posso tanto considerare me
stesso come un altro uomo quanto l’altro uomo come
un io, quel che non posso mai fare è fondere insieme i
due punti di vista, considerando me o il mio prossimo
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allo stesso tempo come un io e come un altro uomo.
Quando ciò accade si genera infatti il paradosso per cui
un altro uomo, che è una parte dell’esperienza, diviene
al contempo qualcuno che ha l’esperienza. Il tentativo
di unire il mio punto di vista, per cui l’altro è per l’appunto un altro uomo, e il suo punto di vista, per cui egli
è un io, conduce dunque a una duplicazione dell’esperienza: da un lato abbiamo la mia e dall’altro abbiamo
la sua, la quale – appartenendo a un uomo che è parte
della mia esperienza – deve essere anch’essa in qualche modo contenuta nella mia esperienza. Nasce così
il problema di come faccia l’esperienza altrui a darsi
all’interno della mia, dato che io non la esperisco; problema cui si risponde affermando che l’esperienza altrui
è inaccessibile perché nascosta dentro l’altro uomo, nella sua interiorità.
Una volta che la duplicazione dell’esperienza nata
dalla sovrapposizione dei due punti di vista è stata risolta collocando l’esperienza del mio prossimo in lui, i
gesti e suoni dotati di significato non sono più il modo
fondamentale in cui si dà l’esperienza dell’altro, ma divengono tutt’al più uno strumento per inferire ciò che
accade dentro di lui, perché i contenuti espressi dai suoi
movimenti sono stati ormai trasferiti o, meglio, inseriti
al suo interno, nella supposta dimensione interiore.
Questo processo, che Avenarius chiama «introiezione» (Introjektion) o «inserimento» (Einlegung), non si
accorda con l’esperienza non solo perché io attribuisco
al mio prossimo qualcosa di cui non faccio esperienza
rispetto a lui, come la sua esperienza interiore, ma anche
e soprattutto perché io gli attribuisco qualcosa che non
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esperisco nemmeno rispetto a me stesso. Difatti io non
ho alcuna esperienza di qualcosa come il mio “interno”:
né i miei vissuti, né tantomeno il significato linguistico
dei miei gesti, vengono esperiti come un qualcosa che
sarebbe dentro di me. Per questo motivo la dimensione
interiore che si origina nel momento in cui sovrappongo le due prospettive, inserendo il significato linguistico
delle asserzioni del mio prossimo dentro di lui, non è il
frutto di una analogia con l’esperienza, ma di una vera e
propria «creazione dal nulla»16.
A chi potrebbe dissentire dall’affermazione secondo
cui io stesso non ho un’“interiorità” Avenarius risponde
che l’idea del mio “interno” non è qualcosa di originario, perché essa deriva proprio dall’introiezione dei
contenuti di asserzione negli altri uomini. In altre parole, Avenarius ritiene che solo dopo aver donato al mio
prossimo un’interiorità, mal interpretando il significato
linguistico dei suoi gesti e dei suoi suoni, io inizierei ad
attribuire anche a me stesso una dimensione interiore
come quella degli altri uomini, sulla base dell’analogia
che sussiste tra me e loro. Il risultato paradossale di questo modo di pensare sarebbe quindi che invece di ricondurre l’ignoto al noto (interpretando l’esperienza altrui
sulla base della mia), io ricondurrei il noto all’ignoto
(interpretando la mia esperienza sulla base di una malintesa esperienza altrui)17.
16
Cfr. R. Avenarius, Bemerkungen zum Begriff des Gegenstandes der
Psychologie, in «Vierteljahrsschrift für wissenschaftliche Philosophie» xviii
(1894), pp. 137-161, pp. 400-420; xix (1895), pp. 1-18; pp. 129-145, qui
xviii, p. 159.
17
Cfr. ibi, xviii, p. 153.
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7. Con l’introiezione entra in gioco uno dei temi fondamentali del Weltbegriff e più in generale del pensiero
di Avenarius, il quale ritornerà sull’argomento nella sua
ultima opera, le Bemerkungen zum Begriff des Gegenstandes der Psychologie.
Se il punto debole del concetto naturale di mondo è
l’ipotesi della significatività dei movimenti altrui, l’introiezione è quell’elemento problematico che si sviluppa a partire da tale debolezza, finendo col mettere in crisi
lo stesso concetto naturale di mondo. Con l’introiezione
è infatti aperto il vaso di Pandora degli enigmi filosofici, perché nel momento in cui i contenuti di asserzione
vengono collocati all’interno dell’altro uomo si genera
d’un colpo ogni sorta di interrogativi sul rapporto tra
questo interno e ciò che si troverebbe invece fuori di
esso. Mentre l’esperienza originaria che trovava espressione nel concetto naturale di mondo era un’esperienza
unitaria, perché tutti i suoi componenti – l’io, l’ambiente e gli altri uomini – erano collocati su uno stesso piano, una volta che i contenuti di asserzione sono posti
dentro gli uomini, all’interno del piano dell’esperienza
si genera un altro piano, quello dell’esperienza interna.
L’introiezione determina così una scissione della realtà
in più sfere – l’interno e l’esterno, il soggetto e l’oggetto
etc. – i cui rapporti risultano inesplicabili.
La storia delle variazioni del concetto naturale di
mondo è dunque la storia dell’introiezione e del modo
in cui nel corso dei secoli si è cercato di rispondere agli
interrogativi da questa scaturiti. Nel ricostruire il percorso compiuto dal pensiero umano dai suoi inizi animistici fino ad arrivare all’epoca a lui coeva, Avenarius
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disegna pertanto quella che potremmo definire, rifacendoci alla celebre espressione nietzscheiana, la “storia di
un errore”: tutti i sistemi filosofici che si sono succeduti, infatti, non sono altro che tentativi sempre più elaborati di fornire una soluzione alla divisione della realtà
in due sfere determinatasi con l’introiezione, o provando a spiegare come queste si relazionino o cercando di
ricondurre l’una all’altra, come fanno l’idealismo e il
materialismo.
Lo scopo della ricostruzione della storia del pensiero
fornita da Avenarius nel Weltbegriff non è però soltanto
svelare il ruolo giocatovi dall’introiezione, intesa come
radice nascosta dei diversi interrogativi filosofici, ma è
anche mettere in evidenza l’azione svolta nel corso di
questa storia dal principio dell’eliminazione progressiva. Dopo aver stabilito come si determina la variazione
del concetto di mondo, Avenarius deve infatti stabilire
cosa la storia ha rivelato essere sostenibile, se il concetto di mondo o le sue variazioni.
Ovviamente agli occhi di un empiriocriticista i falsi
problemi nati con l’introiezione non possono che aver
generato false soluzioni, destinate l’una dopo l’altra a
venire caratterizzate come “non esistenti”, “non sicure”,
“ignote” e “non empiriche”, per essere poi rimosse dai
contenuti del concetto di mondo. Non sono però soltanto le variazioni del concetto naturale di mondo nate in
risposta ai problemi derivanti dall’introiezione ad essere
progressivamente eliminate, ma anche questi problemi
stessi vengono accantonati l’uno dopo l’altro, in quanto
questioni mal poste e insolubili, fino al momento in cui
sarà l’introiezione stessa a venir eliminata.
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La storia dell’introiezione diviene così la storia del
suo progressivo svelamento e della sua ineluttabile eliminazione, culminanti con l’opera di Avenarius stesso.
In quest’ottica il Weltbegriff rappresenta il momento
conclusivo delle tre fasi che scandiscono l’evoluzione
del concetto di mondo, in quanto nelle sue pagine Avenarius non si limita a smascherare l’introiezione ma si
propone anche di elaborare una concezione del mondo
che ne possa garantire il definitivo superamento.
Per riuscire in questo proposito bisogna sì ritornare
al concetto naturale di mondo, recuperandone ciò che
rimane dopo l’eliminazione dell’introiezione, ma si
deve al contempo disinnescare ciò che nel concetto naturale di mondo dava adito ad incomprensioni, ovvero
l’ipotesi dell’affinità tra me e gli altri uomini. Questo
significa che per ottenere un concetto di mondo pienamente sostenibile, in grado di non incorrere in ulteriori variazioni, non basta riproporre semplicemente quel
concetto naturale di mondo per cui «Io con tutti i miei
pensieri etc.», ma bisogna fissare con esattezza tutti i
contenuti che fanno parte di esso, chiarendo al tempo
stesso in che misura è possibile interpretare il mio prossimo in analogia con me stesso.
L’ultima parte del Weltbegriff è dunque volta alla costruzione di un nuovo e definitivo concetto di mondo, il
quale, pur esprimendo gli stessi contenuti del concetto
naturale di mondo, vuol delinearli in modo tale da non
dare più adito a fraintendimenti. In particolare, dovendo «esprimere in forma linguistica» – o, meglio, in una
forma linguistica sostenibile e invariabile – «quel che il
“concetto naturale di mondo” contiene in forma di intui37
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zione» (§ 192) Avenarius prende le mosse dal carattere fondamentale proprio di ogni cosa: quello di essere
un trovato. Difatti, se tutto ciò che c’è si dà solo come
esperienza, niente sfugge a questa determinazione, così
che proprio quella di “trovato” risulta essere la descrizione massimamente generale del mondo. A differenza
di questa prima caratterizzazione, tutte le ulteriori determinazioni del concetto di mondo fissano delle differenze tra i contenuti che si danno in esso, a cominciare
dalla successiva, quella tra “fatti” e “pensieri”. Questi
diversi modi di darsi dei contenuti esperiti non vanno
però intesi come se fossero assolutamente differenti, in
quanto: 1) tra loro vi sono innumerevoli forme intermedie (Avenarius cita ad esempio le immagini postume);
2) ognuno di questi modi è confrontabile con gli altri
(un contenuto che si dà come pensiero può essere più o
meno simile a uno che si dà come fatto e viceversa); 3)
essi sono variabili (qualcosa che è stato trovato come un
fatto in un secondo momento può venir esperito come
un pensiero e viceversa).
Se dunque vogliamo esprimere in un concetto sostenibile quel che si dà sul piano della nostra esperienza
dobbiamo dire che tutto ciò che c’è è un trovato, e più
nel dettaglio un trovato come “fatto” o come “pensiero”. Oltre a questa è però possibile un’ulteriore differenziazione, quella tra “io” e “ambiente”. Ogni contenuto
del concetto di mondo appartiene infatti a una di queste
regioni del piano dell’esperienza, le quali, anche loro,
non vanno considerate come assolutamente differenti,
al punto che, a seconda di dove traccio il confine tra
di esse, uno stesso contenuto (ad esempio il mio cor38
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po) può essere annoverato tra i componenti dell’una o
dell’altra. Ovviamente questa determinazione dei contenuti del concetto di mondo è in certa misura legata alla
precedente, dal momento che quanto si dà come “pensiero” appartiene alla sfera dell’“io”.
Alla diade io-ambiente nel suo concetto di mondo
Avenarius dà il nome di «coordinazione empiriocritica
principale», a sottolineare la «coappartenenza e indivisibilità» tra i due termini, dei quali l’io viene definito
«membro centrale» e l’ambiente «membro opposto» (§§
148 e 149). Se dunque ciò che caratterizza l’io è l’essere il membro centrale di una coordinazione empiriocritica, il contenuto ipotetico del concetto naturale di mondo
viene ad essere così riformulato: «Un componente del
mio ambiente – l’altro uomo – è membro centrale di una
coordinazione empiriocritica principale» (§ 152).
Per evitare di ricadere nella sovrapposizione tra il
mio punto di vista e quello altrui bisogna però chiarire
in che misura è possibile parlare del mio prossimo in
quanto altro-io, stabilendo cioè come deve essere pensata la seconda coordinazione empiriocritica, considerando che il suo membro centrale risulta al contempo
membro opposto della prima. Definire in che termini si
può parlare dell’esperienza dell’altro uomo non è però
solo un modo per evitare l’introiezione, ma è anche un
passo necessario per chiarire come si può adottare la
prospettiva relativa, e quindi come si possono analizzare i rapporti di dipendenza tra l’esperienza, l’individuo
cui appartiene e l’ambiente.
È chiaro che nel mettere in luce come si deve assumere l’esperienza altrui secondo il concetto definitivo
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di mondo Avenarius non può che rifarsi a quanto già affermato e messo in pratica nel corso dell’opera, sottolineando cioè ancora una volta come l’esperienza altrui si
dia esclusivamente nel linguaggio altrui, come contenuti di asserzione. È questo ciò che Avenarius intende dire
quando sostiene che i membri della seconda coordinazione empiriocritica devono essere assunti come dei determinati «elementi e caratteri» (§ 159). Gli elementi e
caratteri, infatti, non sono altro che i due tipi fondamentali di contenuti di asserzione, di valori-E: le sensazioni
(verde, blu, freddo, caldo etc.) e quel che conferisce ad
esse una certa Färbung, una certa tonalità (piacevolezza, spiacevolezza etc.).
L’ipotesi dell’affinità umana nel concetto di mondo
proposto da Avenarius prende dunque questa veste: se
all’interno della prima coordinazione empiriocritica l’altro uomo, in quanto membro opposto, viene assunto al
contempo come membro centrale di una seconda coordinazione empiriocritica, il membro centrale e il membro
opposto di questa si danno come contenuti di asserzione.
Adesso tali contenuti di asserzione (ovvero l’esperienza altrui in quanto seconda coordinazione empiriocritica) dipendono dall’altro uomo in quanto membro
opposto della prima coordinazione empiriocritica, e in
particolare dal rapporto che costui ha con l’ambiente
(il quale è anch’esso membro opposto della prima coordinazione). Parlando più precisamente bisogna però
affermare che essi dipendono direttamente solo dal cervello dell’altro uomo, dal suo sistema C, e nel dettaglio
da determinate variazioni che si verificano in esso. Per
questo motivo, se vogliamo analizzare da cosa dipen40
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dono i contenuti di asserzione che costituiscono la seconda coordinazione empiriocritica, invece di prendere
in considerazione l’interezza dell’altro uomo, possiamo
concentrarci solo sul suo sistema C e sulle sue variazioni. È questo il senso della cosiddetta «sostituzione
empiriocritica» (§ 158), secondo cui, quando nella prima coordinazione il membro opposto costituito dall’altro uomo viene considerato come membro centrale di
una seconda coordinazione, assunta come contenuti di
asserzione, a fare le veci dell’altro uomo (a sostituirlo)
all’interno della prima coordinazione deve subentrare il
suo sistema C o, meglio, le determinate variazioni che
si verificano in esso.
Nel gioco tra le due coordinazioni principali Avenarius sistematizza dunque il meccanismo concettuale da
lui elaborato per conciliare idealismo filosofico e realismo scientifico: la prima coordinazione, corrispondente alla prospettiva assoluta e “idealistica”, descrive
quell’unità di io e ambiente che si dà immediatamente
alla coscienza, mentre la seconda coordinazione ci fornisce la prospettiva “realistica”, che fa dipendere l’esperienza (quella altrui, che si dà come insieme di contenuti di asserzione) dalle variazioni del sistema C. In
questo modo Avenarius fissa il quadro entro cui è possibile sviluppare una scienza psicofisiologica, ponendo
come limite e condizione di possibilità di questa il suo
riferirsi esclusivamente a rapporti di dipendenza che
si danno all’interno della mia esperienza, come quelli
che sussistono tra le variazioni del sistema C dell’altro
uomo e gli elementi e caratteri che costituiscono i suoi
contenuti di asserzione.
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8. Possiamo quindi trarre le somme del percorso
tracciato da Avenarius nel Weltbegriff.
Cercando un fondamento stabile su cui edificare la
sua filosofia, Avenarius prende le mosse da quanto concretamente trovato in prima persona, ovvero se stesso,
l’ambiente e gli altri uomini. Osservando però il contenuto di questo trovato da una prospettiva terza, egli
vi riconosce lo stesso contenuto del concetto originario
e “naturale” di mondo, così che la domanda su come
egli sia arrivato a quel contenuto finisce col diventare
la domanda su quale sia il percorso storico che ha fatto
sì che, dopo una lunga evoluzione, questo “altro uomo”
che è Richard Avenarius abbia riguadagnato il concetto
naturale di mondo che il pensiero filosofico aveva smarrito. La risposta a questo interrogativo è la storia dell’introiezione e della sua progressiva eliminazione, la quale
è pertanto a un tempo la storia del pensiero umano e la
storia autobiografica di Avenarius stesso e del percorso
intellettuale che egli ha compiuto per risalire al momento in cui per la prima volta è intervenuta l’introiezione a
falsificare la nostra esperienza naturale.
Dopo secoli di evoluzione cerebrale, che hanno visto l’una dopo l’altra cadere tutte le variazioni del concetto di mondo scaturite dall’introiezione, Avenarius
può quindi finalmente riaffermare il concetto naturale
di mondo. Per metterne al sicuro il contenuto egli deve
però esprimerlo in una forma che non dia adito a ulteriori incomprensioni. Il concetto di mondo che Avenarius propone al termine del Weltbegriff afferma dunque:
che ogni cosa è un trovato (1), il quale si dà come fatto o pensiero (2) e fa parte del membro centrale o del
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membro opposto di una coordinazione empiriocritica
(3); inoltre esso specifica che è possibile assumere che
gli altri uomini, in quanto membri opposti della coordinazione empiriocritica, siano a loro volta membri centrali di una seconda coordinazione empiriocritica (4),
nel qual caso questa seconda coordinazione viene assunta come elementi e caratteri, ovvero come contenuti
di asserzione (5), mentre gli altri uomini vengono rappresentati dalle variazioni del loro sistema C, in quanto è da queste che i contenuti di asserzione dipendono
direttamente (6).
Se è vero che questo concetto di mondo compare
al termine dell’opera, esso ne è però anche il punto di
partenza: grazie all’alternanza tra prospettiva assoluta e
prospettiva relativa l’esperienza che Avenarius pone a
fondamento del suo pensiero costituisce infatti allo stesso tempo un contenuto di asserzione risultante da una
millenaria storia evolutiva. Dopotutto lo stesso passaggio dalla mia prospettiva a quella altrui risulta essere a
un tempo un dispositivo attuato nel corso dell’indagine
– e quindi un qualcosa di presupposto da essa – e un
suo risultato, nella misura in cui confluisce nel concetto
di mondo proposto in chiusura dello scritto. Il costante
rovesciamento di prospettive fa dunque sì che l’opera di
Avenarius assuma una struttura circolare, in cui i presupposti della ricerca ottengono una validazione a posteriori nel corso della ricerca stessa.
Nonostante la sua dichiarata volontà di non aumentare il già cospicuo numero di «sistemi filosofici» (p. viii;
tr. it. infra, p. 52) – forse più uno sfoggio di modestia che
un serio convincimento –, il progetto filosofico delinea43
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to da Avenarius nelle sue opere della maturità prende
proprio la forma di un sistema, in cui il concetto naturale di mondo – come ciò che è trovato originariamente in
prima persona e come ciò che viene riformulato in forma sostenibile al termine del processo storico-evolutivo
di eliminazione dell’introiezione – emerge come punto
di partenza e punto di approdo.
Volgendo lo sguardo al complesso del sistema filosofico elaborato da Avenarius non si può non notare il
ruolo chiave che la questione del linguaggio riveste in
esso. È sull’ipotesi del significato linguistico dei movimenti altrui che si gioca infatti la partita decisiva per le
sorti del concetto naturale di mondo, perché, se da un
lato Avenarius attribuisce ad una errata interpretazione
di tale ipotesi la “colpa” dell’introiezione, individuando
così in un problema “linguistico” la radice dei diversi
interrogativi filosofici, dall’altro è proprio grazie al linguaggio che possiamo sciogliere questi interrogativi. È
infatti solo grazie alla possibilità di disporre dell’esperienza altrui, dischiusaci dalle asserzioni, che possiamo
ricucire la spaccatura della realtà in mondo esterno e
mondo interno determinata dall’introiezione, affermando che un mondo “esterno” si può dare solo dalla prospettiva relativa, come “esterno dell’altro uomo”, e mai
dalla prospettiva assoluta, come “esterno rispetto al piano dell’esperienza tout court”. Ed è sempre grazie all’esperienza altrui, quale si esprime nel linguaggio, che
possiamo conciliare l’approccio idealistico, che proclama il carattere irrelato dell’esperienza, con l’approccio
realistico proprio degli scienziati, che ne studiano invece la dipendenza dal cervello e dall’ambiente.
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Nel sistema di Avenarius il linguaggio appare dunque come fonte di perdizione e di salvezza, tanto da risultare la «questione filosofica katæ ejxochvn» (§ 122),
una caratteristica, questa, che avvicina fortemente l’empirio-criticismo al neopositivismo novecentesco, dimostrando, ancora una volta, la rilevanza di un autore che
non fu solo un punto di riferimento per i suoi contemporanei, ma anche un pensatore che esercitò una notevole
influenza sul dibattito filosofico della prima metà del
ventesimo secolo.
Chiara Russo Krauss
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nota alla traduzione
Con le sue tre edizioni Der menschliche Weltbegriff
fu l’opera di maggior successo di Avenarius. La prima
edizione vide le stampe nel 1891. La seconda, curata
da Joseph Petzoldt nel 1905 (a nove anni dalla morte
dell’autore), si distingue dalla precedente solo per la
correzione di alcuni errori di stampa e per l’aggiunta da parte di Petzoldt di un breve brano tratto dalla
serie di articoli di Avenarius intitolata Bemerkungen
zum Begriff des Gegenstandes der Psychologie1, con
lo scopo di illustrare ulteriormente il concetto di “introiezione”. Nella terza edizione, pubblicata nel 1912,
all’opera furono affiancate per intero le Bemerkungen, nonché la lettera aperta ad Avenarius scritta da
Wilhelm Schuppe nel 1893, corredata della sintetica
risposta di Avenarius2.
La traduzione qui presente è stata svolta sul testo della seconda edizione, ma si è scelto di non riportare an1
R. Avenarius, Bemerkungen zum Begriff des Gegenstandes der Psychologie, in «Vierteljahrsschrift für wissenschaftliche Philosophie» xviii (1894),
pp. 137-161, pp. 400-420; xix (1895), pp. 1-18; pp. 129-145.
2
W. Schuppe, Die Bestätigung des naiven Realismus. Offener Brief an
Herrn Prof. Dr. Richard Avenarius, in «Vierteljahrsschrift für wissenschaftliche Philosophie» iii (1893), pp. 365-388; R. Avenarius, Anmerkung zu der
Abhandlung von R. Willy, in «Vierteljahrsschrift für wissenschaftliche Philosophie» xviii (1894), pp. 29-31.
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che il brano delle Bemerkungen aggiuntovi da Petzoldt,
per rispettare il progetto originario dell’autore.
Nel testo Avenarius adopera le virgolette ad apice
singolo per indicare i contenuti di asserzione e le virgolette a doppio apice per tutti gli altri usi. Nella traduzione abbiamo mantenuto questa differenza, limitandoci
a sostituire le virgolette a doppio apice con i caporali
quando queste sono utilizzate per citazioni testuali.
Le note al testo, che nell’originale comparivano in
chiusura, sono state spostate a piè di pagina. Il ricco indice ragionato redatto da Avenarius è collocato, come
nell’originale, tra Prefazione e Introduzione.
Per facilitare la lettura alcuni rimandi alla terminologia della Kritik der reinen Erfahrung sono stati esplicitati in nota. Ad ogni modo tutti gli interventi della traduttrice in nota sono segnalati dall’uso di parentesi quadre.
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