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Tiziana Lazzari
Le donne nell’alto Medioevo
Bruno Mondadori
La collana “Il Medioevo attraverso i documenti”
è diretta da Gabriella Piccinni
Tutti i diritti riservati
© 2010, Pearson Italia, Milano-Torino
Prima edizione: marzo 2010
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Per le immagini:
p. 74 e p. 127 © Universitäts-Und Landesbibliothek Darmstadt
p. 78 © Fotostudio Rapuzzi
La scheda catalografica è riportata nell’ultima pagina del libro.
www.brunomondadori.com
Indice
1
Premessa
5
1.
La parola agli storici
6
7
9
13
17
1.1
1.2
1.3
1.4
1.5
Medievistica italiana e storia delle donne
Storiografia francese e storiografia anglosassone
La sfera giuridica, economica e sociale
La storia del potere e delle istituzioni
Storia delle donne e gender studies
25
2.
La parola alle fonti
25
44
64
86
104
130
153
2.1
2.2
2.3
2.4
2.5
2.6
2.7
Nascere
Generare
Non generare: la vita religiosa
Possedere, gestire, governare
Lavorare
Scrivere
Morire
169
3.
Misfatti
181
4.
Lessico
a Max
Premessa
Poche parole per dar conto di alcune scelte che ho fatto nella
stesura di questo testo.
In primo luogo sulla periodizzazione, un problema che è sempre centrale in ogni lavoro storiografico perché le date, ossia gli
avvenimenti che si scelgono quali spartiacque fra un periodo e
l’altro indicano, inevitabilmente, i termini concettuali del problema che si vuole porre e che assume un significato specifico quando si tratta di storia delle donne. Nel 1977 Joan Kelly propose
infatti una domanda provocatoria: «Le donne hanno avuto un Rinascimento?». Kelly intendeva sottolineare il fatto che le scansioni tradizionali della storia generale perdono parte del loro senso
quando si affrontano tematiche che con i presupposti interpretativi sottesi a quella periodizzazione hanno poco a che fare. La
proposta di giungere a una nuova scansione delle epoche storiche
sulla base della condizione femminile non ha avuto grande eco e
non ha raggiunto alcun risultato significativo, se non, come ha
notato Tommaso Detti [2004], nel mero numero delle citazioni di
un titolo così accattivante da un lato, e di un problema così chiaramente messo in luce dall’altro.
Resta comunque un problema importante ed è per questo che
mi sono chiesta se, trattando di storia delle donne, abbia senso
usare il concetto di alto Medioevo, un concetto che per alcuni
termina al secolo IX e alla fine dell’impero carolingio – lo “stato”
altomedievale per eccellenza –, per altri invece prosegue fino al
XII, quando si assiste alla ricomposizione territoriale del potere in
Europa. Credo sia possibile parlare di un alto Medioevo femminile fermandosi però al secolo X, il momento cioè in cui cominciarono ad affermarsi alcuni mutamenti profondi nella struttura
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Le donne nell’alto Medioevo
delle parentele che incisero in modo assai significativo sulla condizione femminile. È dalla seconda metà del secolo X infatti che
le discendenze cominciarono a irrigidirsi su una base patrilineare,
che il patronimico affiancò sempre più regolarmente il nome
degli esponenti delle aristocrazie, che i beni patrimoniali furono
concentrati rigidamente nelle mani degli eredi maschi e che le
comunità religiose femminili furono ricondotte sotto una rigorosa
autorità vescovile.
Nelle introduzioni ai temi, nelle poche righe dedicate a spiegare le domande da cui quei temi scaturiscono, ho impiegato spesso una tecnica retorica, l’attualizzazione, che può comportare un
rischio grave, quello di stimolare negli studenti una precomprensione delle fonti – così l’ha chiamata Giuseppe Sergi [1982] –
basata su categorie di pensiero contemporanee e poco avvertite
in merito alle specificità e alle differenze di un passato molto
remoto. Ho però voluto così rendere esplicito che quelle domande nascono inevitabilmente dal presente soggettivo del ricercatore e che possono pertanto trovare un riscontro nel presente,
altrettanto soggettivo, di chi legge. Ho lasciato invece le fonti nel
loro tempo remoto, cercando, seppur brevemente, di restituire il
contesto in cui furono prodotte e riportare, storicizzando
anch’esse, le interpretazioni di chi su quelle fonti ha lavorato.
Le fonti, io credo, non hanno voce propria: si tratti di scritti,
disegni, buche di palo o frammenti di ceramica, sono solo tracce
lasciate dai morti e come tali inerti e mute se non adeguatamente
interrogate. Parola hanno pertanto gli storici, coloro che per
indole, per professione, e per più o meno coscienti esigenze di
cercare risposte a domande irrisolte, interrogano quelle tracce e,
con specifica preparazione, ne interpretano i segni, ne indagano
i contenuti, investigano sull’intenzionalità che esprimono.
Attraverso questo lavoro le fonti allora parlano, ma offrono soltanto il conforto di rispondere alle domande che si sono loro
poste.
Le fonti che ho scelto sono perciò ordinate in base a una serie
di temi che si riferiscono a precise domande, che saranno esplicitate di volta in volta: sono domande che solo il lavoro di ricerca
di storiche delle ultime generazioni hanno reso possibili. Il lavo2
Premessa
ro di queste studiose ha permesso di rileggere fonti anche molto
note, interpretate fino a pochi decenni fa talora in modi assai
diversi da quelli che sono proposti qui. Le fonti sono raggruppate di seguito secondo una logica narrativa che segue un tempo
ciclico e non un tempo lineare; questo perché il tempo ciclico è
quello che meglio si adatta a seguire le tappe del corso della vita
biologica, delle scelte e delle conseguenti attività che accomunano uomini e donne, attori sempre associati sul palcoscenico della
storia.
Tali attività sono state ovviamente – dato il tema – declinate al
femminile, prestando attenzione alla peculiarità cronologica e
geografica di questi testi, al loro possibile inserimento nel tempo
lineare, quello che guida la storia generale cui non si può non
fare riferimento se non si vuole che la storia delle donne rimanga
una storia settoriale, chiusa in se stessa, incapace così di fornire
apporti a una comprensione più complessa e articolata delle
vicende del passato. Ho cercato allora di raccogliere una serie di
testimonianze che si riferiscono in modo coerente a un ambito
territoriale specifico, l’Europa occidentale, e a un intervallo cronologico compreso sostanzialmente, con pochissime eccezioni,
fra la metà del secolo VIII e il X. Ho scartato quindi, deliberatamente, fonti pur significative e importanti, troppo distanti però
dal tempo storico e dal contesto geografico-culturale che è al
centro dei miei interessi e delle mie competenze.
Giunta alla fine di questo lavoro, desidero ringraziare anzitutto
Gabriella Piccinni, per l’invito a scrivere in questa collana e su
questo tema: un invito che in un primo momento ho accolto con
una certa perplessità perché non mi considero certo una specialista sul tema, ma che mi ha offerto l’occasione per ordinare materiali e letture che raccoglievo da tempo. Un ringraziamento davvero speciale devo a Paola Guglielmotti, che è stata per me una
compagna preziosa di scambio di opinioni oltre che attenta lettrice e ottima consigliera. Devo molto anche alla discussione e alle
letture di Massimo Montanari, Giovanni Isabella e Massimo
Vallerani, e alla collaborazione di Tobia, che con allegra incredu-
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Le donne nell’alto Medioevo
lità non riesce a credere al mito delle Amazzoni perché «le femmine non sanno fare a botte».
Questo lavoro non ha pretese di completezza, non è esente da
errori e da mancanze e soffre di una scoperta simpatia, non sempre pienamente giustificabile, per tutte le signore che affolleranno le pagine a seguire. Rosvita di Gandersheim è comunque,
senza dubbio, la mia preferita ed è per questo che mi piace chiudere rubandole le parole: «Si enim alicui placet mea devotio,
gaudebo; si autem vel pro mei abiectione vel pro vitiosi sermoni
rusticitate placet nulli, memet ipsam tamen iuvat, quod feci».
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1. La parola agli storici
Come in convento, leggi, prigioni, storia edificata dagli uomini. Ma è la donna che ha accettato
di tenere le chiavi, guardiana inflessibile del
verbo dell’uomo.
Goliarda Sapienza, L’arte della gioia [1974]
Il concetto che in forma letteraria esprimeva la scrittrice Goliarda
Sapienza negli anni settanta del secolo scorso nasceva, oltre che da
dolorose esperienze personali, dalle analisi e dagli studi che in quegli anni maturavano in un ambiente di matrice femminista che cominciava a dare contributi importanti alla storia delle donne. Quel
concetto fu definito, in termini antropologici, “inculturazione” da
Annarita Buttafuoco, che così si esprimeva nel 1975: «[la donna]
priva di identità propria, inconsapevole portatrice di contenuti
altrui, totalmente aliena da sé, si è fatta paradossalmente trasmettitrice e garante dei pregiudizi che stanno alla base della sua immagine culturale e che determinano la sua condizione esistenziale». In
quel saggio Buttafuoco si riferiva alle donne del Medioevo: mettere
in parallelo le sue parole con una testimonianza letteraria coeva
credo possa restituire il comune sentire di chi si occupava allora di
donne e condizione femminile. Allora come ora: nell’introduzione
alla Storia della maternità da lei curata, Marina D’Amelia [1997]
definisce ancora le madri come le «più rigide custodi di una disparità formativa fra maschio e femmina», sottolineando che la vicenda
femminile non può essere considerata come propria di un mondo a
parte, un mondo fatto solo di donne, ma che invece è inserita nel
rapporto continuo con chi domina la società, e spiegando che proprio «da questo rapporto deriva che il ruolo subalterno deve essere
recepito come naturale, nel migliore dei casi come il meno pericoloso, e deve essere appreso e di conseguenza insegnato fin dalla primissima infanzia».
5
Le donne nell’alto Medioevo
Annarita Buttafuoco tendeva a restituire però, in quel contesto di
lotta politica per i diritti femminili, una ricostruzione di un passato
lontano – il Medioevo ben si presta a fornire un “altrove” un po’
indistinto – che, come in uno specchio, rifletteva piuttosto l’immagine di un presente in cui gran parte delle donne era non solo restia
ai cambiamenti per cui le femministe combattevano, ma anche
francamente schierata per la conservazione dell’ordinamento costituito. Un ordinamento tutto italiano che, ricordiamo, fino al 1981
prevedeva istituti quali il “matrimonio riparatore” e il “delitto d’onore”: lo stupro di una minorenne non era perseguito penalmente
se l’uomo dichiarava la propria disponibilità a sposare la vittima e
l’uccisione di una donna giudicata colpevole di aver leso l’onore
della famiglia, se perpetrata dal marito, dal padre o da un fratello,
poteva essere punita con un massimo di tre anni di pena carceraria.
Le studiose che in quegli anni cominciarono a occuparsi di storia delle donne, in un contesto culturale come quello italiano, preferirono rinunciare a quello specchio troppo lontano dal mondo
contemporaneo che era il Medioevo e indagare invece tempi più
recenti.
1.1 Medievistica italiana e storia delle donne
Negli atti del seminario che si tenne a Milano il 15 marzo 2002,
volto a fare un punto sulla storia delle donne in Italia, Dinora
Corsi, nell’unico saggio relativo agli studi di storia medievale, di
fronte a una significativa carenza di produzione scientifica italiana
sul tema, dedicava gran parte della propria attenzione a cercare di
capire e di spiegare le motivazioni che possono aver creato tale
distanza fra la storiografia italiana e quelle d’Oltralpe. Corsi osservava che a fronte di una carenza di ricerche specifiche italiane
negli anni settanta, le curatrici di due antologie di scritti sulle
donne nel Medioevo edite entrambe nel 1981, Maria Consiglia De
Matteis e Michela Pereira, avevano dovuto ricorrere quasi esclusivamente a saggi di autori stranieri. Quelle antologie costituirono
un’importante apertura al tema che, però, non ebbe grande seguito. Nel 2005 infatti Giulia Barone, nella prefazione alla traduzione
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La parola agli storici
italiana del libro di una studiosa inglese, Patricia Skinner, dedicato alle Donne nell’Italia medievale, pur non esprimendosi in toni
entusiastici sul lavoro in sé, accoglieva comunque il libro come un
testo utile quantomeno per stimolare ricerche in un campo di
indagine che in Italia – nel condivisibile giudizio di Barone – non
ha conosciuto che una minima tradizione, nonostante gli sforzi
editoriali compiuti per la sua promozione e l’interesse, anche
presso un pubblico largo, che l’argomento stimola.
Proviamo allora a riflettere brevemente sulle possibili cause di
questa scarsa attenzione italiana per il tema, soprattutto in merito al
taglio cronologico che riguarda questo libro, i secoli VI-X, e a descrivere contestualmente i diversi approcci delle storiografie anglosassone e francese sulla questione e i risultati che hanno conseguito.
1.2 Storiografia francese e storiografia anglosassone
Sono assai diverse le vicende che hanno determinato l’affermazione della storia delle donne nei paesi anglosassoni da un lato e
in Francia dall’altro, non solo nella ricerca ma nella stessa struttura dell’insegnamento accademico. La storiografia anglosassone,
americana prima ancora che inglese, ha compiuto un percorso
strettamente connesso con il movimento femminista ed è stata la
forza politica del movimento stesso a imporre la storia delle
donne, in prima istanza, e la storia di genere, poi, al corpo accademico nel suo complesso. Anche se, ovviamente, non tutte le
studiose di gender history sono femministe: soprattutto dagli anni
novanta del secolo scorso in poi, l’equazione è senza dubbio arbitraria e storiche formatesi nel solco della storia religiosa e delle
istituzioni politiche si sono accostate ai gender studies sulla base
di percorsi individuali di ricerca. Così per esempio la storica
inglese Janet Nelson, che ha scelto di applicare le proprie competenze analitiche a temi tradizionali quali le forme della regalità,
della ritualità religiosa, della scrittura di storia in epoca altomedievale, aprendoli però a prospettive di genere. I suoi lavori hanno così permesso di pensare in modo profondamente rinnovato
alle corti e ai centri di cultura altomedievali, che prima dei suoi
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Le donne nell’alto Medioevo
studi erano rappresentati «come se il mondo fosse formato soltanto da uomini» [2004].
Vent’anni fa Gianna Pomata [1990] già poteva discutere i risultati di sintesi della storiografia americana e inglese sul tema sulla
scorta di tre manuali di storia delle donne pubblicati in quegli
anni, che rappresentavano l’esito di più di vent’anni di studi e, in
un caso, addirittura la riproposizione a distanza di dieci anni del
medesimo manuale che la fitta attività di ricerca di quei pochi anni
rendeva già obsoleto. I tre manuali furono letti da Pomata come
caratteristici di altrettante impostazioni, profondamente diverse tra
loro, che la storiografia anglosassone era riuscita a esprimere e che
risultano evidenti sin dai loro titoli. Il primo, Becoming Visible – il
manuale che aveva già conosciuto una prima edizione alla fine
degli anni settanta – pubblicava i risultati raggiunti dall’impostazione che intendeva rendere visibile la presenza femminile in tematiche che non ne avevano mai considerata l’esistenza. Il secondo, A
History of Their Own, era espressione invece dell’indirizzo che si
propone di rappresentare la storia delle donne come una disciplina
a sé stante, completamente autonoma da quelle tradizionali, e che
chiama her-story non his-[s]tory il proprio campo di indagine; un
modello che trova un diretto contrappunto in Connecting Spheres,
che esprime invece l’intento di inserire i risultati della storia settoriale delle donne nei quadri della storia generale.
La storiografia delle donne di area francese deve invece moltissimo della sua affermazione non alla forza politica del movimento
femminista ma piuttosto all’opera e all’attività di un grande storico,
Georges Duby. Non a caso, la principale rivista francese di storia
delle donne, “Clio”, gli dedicò a pochi anni dalla morte un numero
monografico che costituiva un omaggio riconoscente: si intitolava
Georges Duby et l’histoire des femmes e fu curato da Christiane
Klapisch-Zuber [1998]. Il percorso di ricerca di Duby segna nelle
sue tappe fasi diverse, che in parte riflettono e in altra invece promuovono cambiamenti di prospettiva più ampi della ricerca storiografica. Il suo primo lavoro fu una grande tesi dottorale del 1953
dedicata alla regione di Mâcon, condotta sulla base del sistematico
spoglio della documentazione conservata nell’archivio del monastero di Cluny, che interpretava i grandi motivi della geografia umana
8
La parola agli storici
e di attenzione agli aspetti sociali ed economici ai quali si era aperta
la storiografia francese dagli anni trenta del XX secolo in poi per
iniziativa di Marc Bloch e di Lucien Febvre e promossa dall’attività
della rivista “Annales”. I temi alla base di quella ricerca puntuale
furono poi sviluppati da Duby in libri dal carattere più generale,
come Le origini dell’economia europea. Guerrieri e contadini nel
Medioevo nel 1975; parallelamente però, grazie alla sua capacità di
animare e mettere a frutto seminari di ricerca condotti prima
all’Università di Aix-en-Provence, poi, dal 1970, al Collège de
France, instaurò con antropologi ed etnologi un dialogo intenso
che lo condusse a introdurre nei suoi temi di ricerca la storia della
mentalità e quella delle strutture sociali profonde quali la famiglia e
il matrimonio. Alla fine degli anni settanta libri quali I tre ordini del
feudalesimo (1978) e Il cavaliere, la donna, il prete (1981), ma anche
l’organizzazione di un famoso convegno a Parigi dedicato a
Famiglia e parentela nell’Europa medievale (1974), al quale furono
invitati studiosi di ogni paese europeo insieme con etnologi e antropologi, segnano il compimento di quella fase e, insieme, l’apertura
di una nuova prospettiva di ricerca, quella sulle donne, che lo
accompagnò fino alla fine della sua vita e che diede risultati di grande rilievo quali la trilogia sulle Dame del XII secolo. Duby si fece
promotore ed ebbe la cura fra la fine degli anni ottanta e i primi
anni novanta di importanti lavori collettivi dedicati prima alla vita
privata e poi alla storia delle donne, che avevano un ampio respiro
cronologico espresso dai diversi volumi in cui videro la luce e che
raccolsero contributi di ricerca da tutte le storiografie europee.
L’attività di Duby ha di fatto “sdoganato” la storia delle donne in
Francia, facendola emergere dalla nicchia delle indagini settoriali e
dandole piena dignità nel contesto della storia generale.
1.3 La sfera giuridica, economica e sociale
In Italia, sulla scorta di una tradizione che origina nei primi decenni del secolo XX, le ricerche sulle donne sono state condotte
in prima istanza dagli storici del diritto. Alle origini di tali ricerche stavano in genere la struttura della famiglia e i problemi con-
9
Le donne nell’alto Medioevo
nessi alle relazioni fra i suoi membri, soprattutto di ordine patrimoniale e successorio. La disuguaglianza della condizione femminile emergeva inevitabilmente in tale contesto di ricerca e si
proponeva come un argomento di forte interesse in un periodo
come quello degli anni cinquanta-sessanta, nel quale le donne
dovevano ancora rivendicare diritti primari: le ricerche di Manlio
Bellomo sui Rapporti patrimoniali tra coniugi [1961] e le opere
anche divulgative sulla Condizione giuridica della donna in Italia
[1970] sono significative in questo senso. Anche i lavori di Maria
Teresa Guerra Medici, che pure appartiene a una generazione
successiva, indagano prevalentemente il contesto giuridico della
condizione femminile e si segnalano, nell’ottica cronologica di
questo lavoro, per una ricerca specifica dedicata al periodo altomedievale, I diritti delle donne nella società altomedievale [1986].
L’approccio giuridico costituisce solitamente nell’ambito storiografico italiano una premessa per indagini di natura economica e sociale che mirano a indagare i riscontri concreti di quelle
norme nella realtà storica. Per l’alto Medioevo ciò non è avvenuto – torneremo sul problema più avanti –, mentre per il periodo
che va dal Trecento in poi è proprio la storia sociale l’ambito di
studio sul quale si sono concentrate le ricerche medievistiche di
storia delle donne, indagini che devono molto alla coeva affermazione di un questionario storiografico rinnovato dal contributo
delle scienze umane, sociologia e antropologia, volto allo studio
di strutture profonde e di lungo periodo quali gli usi della vita
quotidiana e le strutture della famiglia e della parentela.
Sono studi su un tardo Medioevo che sconfina ampiamente
nella storia moderna e che sono stati avviati da studiosi e studiose stranieri sulla base degli spogli di grandi archivi come quelli di
Firenze e Venezia: pensiamo a Christiane Klapisch-Zuber e a
Isabelle Chabot per Firenze, e a Stanley Chojnacki per Venezia. I
ricchissimi fondi notarili, i libri delle ricordanze, le fonti catastali,
le carte processuali e le normative statutarie hanno consentito di
ricostruire larghi tratti della vita quotidiana femminile, indagando la struttura della parentela, la distanza fra norme e pratiche
testamentarie, i modi e le forme del lavoro. Questi studi, per
quanto siano stati condotti in modo metodologicamente inecce-
10
La parola agli storici
pibile e nonostante arricchiscano enormemente le nostre conoscenze sull’intera struttura sociale del tempo e non solo sulla
condizione femminile, non sono mai stati accettati pienamente
dalla medievistica accademica, che probabilmente vi ha visto alle
spalle soltanto un tema alla moda, e in quanto tale trascurabile, o
più spesso un tema troppo intriso, anche solo implicitamente, di
ideologia femminista. Un semplice riscontro sugli indici delle
riviste specialistiche del settore mostra con evidenza palese che il
problema esiste. Forse, però, questo è avvenuto anche perché la
cultura cattolica da un lato e quella marxista dall’altro, dominanti nella tradizione storiografica italiana, hanno sempre preferito
nell’ambito della storia economica e sociale lo studio dei ceti
subalterni e negato specificità alla condizione femminile.
Le importanti ricerche di storia sociale dedicate alle donne che
vissero nelle città italiane dal tardo Duecento in poi hanno contribuito a creare una sorta di confine interno, difficilmente valicabile, fra basso e alto Medioevo. Chi si dedica a questo tipo di
ricerche afferma – e a ragione – che, per carenza di fonti, non è
possibile produrre indagini analoghe sull’alto Medioevo, e che
pertanto quel periodo non può che restare il regno indiscusso di
un modello di storia biografico, basato sulle vite di donne per
loro stessa natura eccezionali, vale a dire regine e principesse. Le
donne comuni spariscono, anzi, restano schiacciate da modelli
inarrivabili: Christiane Klapisch-Zuber [1990], riferendosi agli
studi sulla nota storiografa quattrocentesca Christine de Pizan,
ha stigmatizzato duramente il panegirico delle donne eccezionali
che, così come è stato condotto, segna con «disprezzo tutte le
altre che non hanno fatto la Storia».
Adele Cilento [1998] ha indicato quale positiva reazione a tale
forma storiografica la rilettura operata da alcune storiche di quelle attestazioni di eccezionalità in chiave negativa, ossia la lettura
che deduce proprio dalla scarsità e dalla eccezionalità delle figure femminili eminenti l’esistenza di un’oggettiva difficoltà per le
donne di quei tempi di suscitare un’attenzione tale da meritare
menzione nelle cronache coeve e, ancor di più, di riuscire a tramandare la loro stessa voce. In merito alla voce diretta delle
donne, alla loro autorialità, tuttavia, credo che questo tipo di let-
11
Le donne nell’alto Medioevo
tura mostri forse il limite di prendere troppo alla lettera, come se
fossero un dato di fatto, le retoriche affermazioni di incapacità
dovuta alla debolezza del proprio sesso che le autrici medievali
premettono ai loro lavori, sottovalutando il luogo comune della
protesta di umiltà, tipico degli scrittori di quei tempi. Un luogo
comune che, declinato al femminile, come ha osservato Natalie
Zemon Davies [1980], diventa una dichiarazione di orgoglio che
non intende far rilevare la propria soggettiva eccezionalità autoriale, ma piuttosto mettere in serio dubbio, fino al ridicolo, pregiudizi diffusi da cui non sono immuni neppure molti intellettuali contemporanei.
Credo invece che il ridimensionamento, anzi, talvolta, il vero e
proprio rifiuto che le storiche femministe più impegnate riservano al protagonismo delle figure eccezionali nasca da una fin troppo ovvia reazione rispetto a un modo di fare storia delle donne
che risale alla fine dell’Ottocento, quando i primi studiosi che se
ne occuparono stesero biografie di regine, principesse e poche
altre figure di grandissimo rilievo, in modo tale da rimarcarne la
distanza non solo rispetto alle loro contemporanee, ma al genere
femminile in quanto tale, astoricamente inteso.
È vero che per l’alto Medioevo non è possibile praticare una storia delle donne in senso economico-sociale come quella che si è
sviluppata e ha dato splendidi risultati per il tardo Medioevo e
prima rinascenza, come definiscono gli anglosassoni il periodo
compreso fra i secoli XIV e XVI. Mancano fonti seriali da un lato,
cosa che è stata sottolineata più volte, ma mancano soprattutto
fonti giudiziarie che consentano di verificare nei fatti le pur abbondanti fonti normative che, spesso, appaiono fra loro in larghissima
contraddizione, anche interna alle medesime codificazioni. Esistono comunque numerose fonti, anche molto note, che hanno caratteristiche tali da poter essere utilmente impiegate in indagini sul
ruolo femminile altomedievale negli strati subalterni della società.
In uno dei suoi ultimi lavori Jean-Pierre Devroey [2006], per
esempio, ha letto le testimonianze dei polittici, gli inventari di
coloni e redditi delle maggiori aziende agrarie, e dei placiti, i verbali delle sedute giudiziarie, con un’attenzione specifica alla presenza delle donne in quella società, al loro ruolo nel sistema di
12
La parola agli storici
produzione e alla definizione delle famiglie e della condizione personale. Letture analoghe si potrebbero fare sui contratti agrari –
riprendendo uno studio di Paola Galetti della fine degli anni
ottanta – che descrivono spesso la composizione delle famiglie
contadine, che testimoniano un’onomastica semplificata, spesso
priva di patronimici e che sono insomma ricchi di indizi per chi li
legga con una chiara e orientata esigenza di ricerca.
1.4 La storia del potere e delle istituzioni
Il modello Connecting Spheres è quello che più è stato perseguito
dalle moderniste e dalle contemporaneiste italiane, come dimostra l’organizzazione in anni recenti di un convegno i cui atti
sono confluiti nel volume Innesti [2004]. L’obiettivo dell’iniziativa oltrepassa il modello della “connessione” ed è bene espresso
dalla metafora vegetale dell’innesto, che sulla base di due specie
diverse ne crea una completamente nuova: su alcuni grandi temi
tradizionali – cittadinanza, giustizia, Stato, Chiesa, famiglia, lavoro – sono state invitate a esprimersi coppie di esperti, l’uno di
storia delle donne, l’altro di storia generale, che lavorando in
autonomia dovevano valutare se l’innesto sul tema specifico fosse
riuscito, ossia se l’apporto della storia delle donne alla storia
generale fosse stato pienamente recepito al punto da determinare
una riconsiderazione complessiva dei temi oggetto di indagine.
Il saggio di Marco Meriggi Privato, pubblico, potere, pur essendo dedicato a questioni cronologicamente assai lontane dall’alto
Medioevo, offre considerazioni preziose in merito alla contrapposizione fra una “storia politica tradizionale” che ignora le donne sia come oggetto sia come soggetto di potere, e una nuova,
recente prospettiva di ricerca, che valorizza la comprensione
delle relazioni sociali nel loro complesso per indagare la sfera
pubblica, e che mette in discussione la stessa distinzione tra sfera
pubblica, appunto, e sfera privata. È proprio questa distinzione
la base concettuale che conduce a ignorare l’azione femminile
nell’ambito del potere; rimossa questa sorta di pregiudizio, nell’ambito delle reti informali e delle clientele la presenza e il ruolo
13
Le donne nell’alto Medioevo
delle donne acquistano una centralità rilevante e un ruolo proprio. Nel saggio di Anna Bellavitis Alla ricerca delle cittadine si
sottolinea come, proprio attraverso l’apporto degli studi di genere, la cittadinanza non sia più intesa solo come un principio giuridico ma sia approdata a definizioni complesse, non limitate alla
sola nozione di esercizio dei diritti politici. Il concetto di cittadinanza in tale forma fu elaborato durante la Rivoluzione francese,
ma nelle società europee precedenti diversi tipi di cittadinanza
potevano coesistere in uno stesso luogo e non dovevano insistere
necessariamente tutti insieme nella medesima persona. Considerazioni alle quali si collegano direttamente quelle di Julius Kirshner quando afferma che nelle città comunali italiane la cittadinanza non era solo sinonimo di godimento dei diritti politici, ma
piuttosto di appartenenza alla comunità dei liberi, e in quanto
tale non escludeva le donne. Jean Bodin, nel Cinquecento, distingueva fra appartenenza alla città e appartenenza al corpo
politico: alle risorse della città, essenzialmente di tipo economico
e sociale, le donne potevano accedere direttamente; allo spazio
politico, invece, solo per interposta persona, in quanto membri
subordinati di una famiglia.
Le considerazioni che emergono dagli atti del convegno Innesti,
riportate qui in estrema sintesi, potrebbero essere facilmente
applicate anche a periodi cronologici molto più alti. Le voci dei
medievisti tuttavia sono state assenti in quel convegno, che rifletteva piuttosto un lavoro di ricerca pluridecennale di confronto fra
storici e storiche dell’età moderna e contemporanea, condotto
attraverso molti lavori specifici che già avevano trovato spazi di
confronto e discussione nella rivista “Quaderni storici”. Nata a
metà degli anni sessanta come rivista di storia moderna, ha sempre
avuto, pur nei cambiamenti della composizione del comitato
scientifico, un’attenzione specifica a ricerche anche estremamente
minute, che mostrassero però forte consapevolezza dei problemi
di carattere generale con cui si confrontavano insieme con una
precisa coscienza delle implicazioni metodologiche impiegate. La
progettazione di numeri monografici dedicati a problemi di largo
respiro cronologico ha progressivamente allargato la redazione a
storici dell’età contemporanea, ma anche, seppure in numero più
14
La parola agli storici
ridotto, a medievisti e antichisti. L’esempio di “Quaderni storici”
credo possa essere usato in modo quasi emblematico rispetto all’emarginazione dei temi di genere nella medievistica italiana. A partire dall’inizio degli anni ottanta la redazione infatti si aprì a numerose rappresentanti femminili, storiche dell’età moderna: l’incontro con la gender history è da allora in avanti presente in maniera
vistosa e proficua. Numeri monografici quali Costruire la parentela.
Donne e uomini nella definizione dei legami familiari [1994], Diritti
di proprietà [1995], Gestione dei patrimoni e diritti delle donne
[1998] dimostrano quanto una ricerca che integri prospettive di
genere restituisca quadri più complessi e articolati e quindi una
migliore comprensione dei fenomeni del passato; in questi numeri
monografici manca però l’apporto della medievistica. Nel pur
ridotto numero di medievisti della redazione, non ci sono donne
ma neppure uomini che nelle loro ricerche abbiano dedicato una
compiuta attenzione ai generi e al ruolo femminile nel periodo alto
e pieno medievale.
Rispetto alle tematiche di storia del potere e delle istituzioni l’isolamento che ora, alla luce delle prime sintesi dei risultati di area
moderna e contemporanea, emerge come un dato di fatto, è un
fenomeno che ha origini ben precise. Nel 1974, su iniziativa di
Georges Duby e Jacques le Goff, fu organizzato a Parigi, presso il
Collège de France, un grande convegno intitolato Famille et
parenté dans l’Occident médiéval, al quale intervennero antropologi, sociologi e storici provenienti dalle diverse aree europee. In
una società come quella alto e pieno medievale, nella quale la storia del potere ha strettissime e ineludibili connessioni con le reti
parentali e clientelari, la ricostruzione storiografica delle discendenze e del concetto stesso di famiglia costituisce la base stessa di
ogni approccio al problema. A Parigi emersero per la prima volta
i diversi atteggiamenti che avrebbero in seguito condizionato fortemente gli esiti delle ricerche successive nei diversi contesti
nazionali, tedesco, francese e italiano: Karl Ferdinand Werner,
uno storico che ha dedicato larga parte della sua attività di ricerca
allo studio delle aristocrazie europee, mise in discussione l’uso
degli alberi genealogici tradizionali che, ricostruiti sulla base di
documentazione privata, inducono a sovrapporre e dunque a con-
15
Le donne nell’alto Medioevo
fondere i rapporti patrimoniali con quelli parentali. Un’opinione
diversa, ma che conduceva infine alla medesima contestazione, fu
espressa da Georges Duby che, sottolineando le forti differenze
che si possono cogliere fra le genealogie costruite dagli storici e la
rappresentazione che di quelle medesime famiglie davano i contemporanei in fonti narrative o propriamente genealogiche, propose di considerare la famiglia e la parentela come prodotti culturali e, pertanto, di riportare ciascuna struttura familiare allo specifico contesto di rappresentazione dei contemporanei. Da queste
rinnovate prospettive di indagine restava assai distante la ricerca
italiana; Cinzio Violante soprattutto confermò per le strutture
familiari e parentali nel regno italico una ricostruzione nella quale
pratica giuridica, percezione culturale e realtà sociale e politica
convergevano nel medesimo esito: una solida struttura familiare
patrilineare, fortemente ancorata alla gestione del patrimonio fondiario, che dalle prime attestazioni risalenti al secolo IX non
avrebbe poi nei secoli a seguire mutato in modo rilevante la sua
forma. Da questa interpretazione monolitica si distaccava solo
Giovanni Tabacco, osservando che anche in Italia, nel primo
Medioevo «i matrimoni non erano mai definiti con lo scopo di
determinare un funzionamento più serrato della parentela», ma
che esprimevano piuttosto l’appartenenza degli individui a un
gruppo di potenti che non si divideva ancora in rigide strutture
parentali patrilineari.
La forza del magistero di Cinzio Violante nella storiografia italiana e, in specie, nelle indagini sulla storia delle aristocrazie, ha
comportato di fatto da allora in avanti un sostanziale isolamento
su questo tema della ricerca italiana rispetto a quella d’Oltralpe.
Gli atti del convegno di Parigi [1977] inoltre, non furono tradotti in italiano: o meglio, furono tradotti e pubblicati solo i contributi dedicati alla penisola italiana.
In Germania l’ingresso del contributo delle scienze umane nella ricerca storica medievistica legata al potere è stato accompagnato dal ricorso a strumenti di analisi legati alla sociologia del
potere e ai suoi tratti ideologici, senza che si siano aperte in tal
modo prospettive significative per indagini di genere. In Francia
invece si sono applicate alla ricerca sulle aristocrazie soprattutto
16
La parola agli storici
le acquisizioni dell’antropologia in merito allo studio delle strutture parentali. Le forme della famiglia proprie dell’aristocrazia
franca e poi dell’impero carolingio sono state così ridisegnate
completamente da Régine Le Jan nel 1995 con un lavoro che ha
dato origine a numerose nuove ricerche. Grazie a questi studi e
al patronage di Georges Duby di cui già si è detto, le indagini
sulla condizione femminile si sono perfettamente integrate in
progetti di ricerca comuni, incentrati sul tema della memoria e
della creazione culturale delle identità, personali e sociali, non
esclusa quella maschile: saggi quali Medioevo maschio di Duby
[1988] così come le riflessioni dell’antropologo Pierre Bourdieu
in Il dominio maschile [1988] dimostrano la sensibilità della cultura francese in merito al problema della pretesa “naturalità” dei
rapporti sociali di forza legati all’identità di genere.
1.5 Storia delle donne e gender studies
Ha scritto Christiane Klapisch-Zuber [2007]: «Non mi sono mai
considerata una “specialista” della storia delle donne e degli
studi di genere; la scelta dei miei temi di ricerca non è stata guidata dall’ambizione prioritaria di dare un contributo a questo
tipo di studi. Tuttavia, che fosse per coscienza femminista della
posizione delle donne nelle società di oggi o del passato, o che
fosse per curiosità verso gli enigmi posti dalle tracce documentarie del passato, sta di fatto che mi sono rapidamente persuasa che
gli storici si amputavano di una chiave di comprensione indispensabile quando pensavano di poter fare a meno del concetto
di genere nella loro analisi dei fenomeni storici».
Un’amputazione pienamente consapevole da parte della medievistica italiana, vittima – secondo Dinora Corsi – di una sorta di
sindrome da isolamento che ha origini lontane, antecedenti all’affermarsi degli studi sulle donne, e che è ben rappresentata dal titolo di un articolo di Ovidio Capitani del 1967, Italicum est, non legitur, dove si lamentava quanto la produzione della storiografia italiana non fosse letta, per probabili difficoltà linguistiche, e che pertanto rimanesse completamente assente dalle rassegne internazio-
17
Le donne nell’alto Medioevo
nali. Tale frattura nella comunicazione scientifica fra l’Italia e le
altre tradizioni storiografiche europee avrebbe creato una sorta di
chiusura, preconcetta e di reazione, a quanto di nuovo proveniva
dall’estero, non solo alla storia delle donne ma anche al dialogo
con scienze umane quali l’antropologia e la sociologia e all’impiego
consapevole di taluni strumenti interpretativi da esse elaborati.
Un dialogo mancato che ha condizionato anche la ricezione, sia
pure critica, da parte della medievistica italiana della discussione
in merito al positivismo storiografico, l’approccio cioè che ritiene
possibile estrarre dalle fonti notizie che, opportunamente indagate con metodo critico filologico e combinate fra loro, riescano a
restituire una verità oggettiva sulle vicende del passato. Il positivismo storiografico è stato proprio il principale modello contro il
quale si sono concentrate le critiche delle studiose di matrice femminista, soprattutto di cultura anglosassone: nell’intento di svelare, o meglio, di portare a consapevolezza critica, il fatto che ogni
storico non può astrarsi dalla propria condizione soggettiva, fatta
di attitudini mentali, credenze politiche e gerarchie di valori, e
che le fonti scritte risentono anch’esse dei medesimi inevitabili
condizionamenti, queste studiose hanno denunciato quanto la
pretesa oggettività del lavoro storiografico celasse in realtà una
solida base di pregiudizi e preconcetti interpretativi. La critica
femminista ha condiviso in questa direzione un indirizzo più
generale della storiografia occidentale degli anni settanta che,
negando la possibilità teorica di poter ricostruire una verità storica oggettiva, ha proposto un nuovo approccio critico alle fonti
noto come linguistic turn (svolta linguistica), base ermeneutica del
post-modernismo. Non si può spiegare in poche parole un movimento intellettuale che ha coinvolto non solo la storiografia ma
ogni campo del sapere umanistico con esiti spesso diversi e fra
loro contrastanti: l’elemento che qui più conta, però, è la centralità che è stata data al testo, in tutte le sue componenti. L’analisi
del lessico e dei significati specifici che assume in ogni autore,
quella degli elementi involontari del discorso, quali l’uso delle
particelle pronominali o avverbiali, quella della struttura compositiva così come la considerazione delle inferenze più diverse nella
composizione, hanno rinnovato profondamente l’approccio alle
18
La parola agli storici
fonti insieme con la lettura della storiografia precedente. Nessuno
oggi userebbe più in maniera ingenua, ossia come “prova”, la narrazione degli eventi di una fonte annalistica e neppure – ma nel
campo specifico il positivismo interpretativo rimane forte – la
obiettiva realtà di una formula contrattuale di una carta di livello.
Occorre chiedersi – abbiamo imparato – non solo chi ha scritto
quella cronaca o quel documento, ma anche a quale entourage di
potere apparteneva, quali interessi si proponeva di difendere, a
quale lessico attingeva le espressioni di cui faceva uso. È importante sottolineare che applicazioni estreme di questo approccio
hanno condotto a negare la stessa possibilità di ricostruire il passato. Si tratta del cosiddetto negazionismo: se tutto è solo narrazione, se la ricerca si risolve interamente nella retorica delle fonti e
in quella degli storici che le impiegano, si rischia di poter affermare come verosimile qualsiasi assunto, anche il più assurdo, perché
la ricerca della verità storica è ridotta a puro esercizio dialettico.
Ma proprio nell’ambito della ricerca medievistica italiana è
possibile individuare un approccio metodologico che, partendo
da presupposti teorici in parte simili a quelli del linguistic turn,
non nega però la verità storica. Arsenio Frugoni, già nel 1954,
produsse una straordinaria ricerca dedicata ad Arnaldo da Brescia nella quale accostò le diverse narrazioni esistenti della vita di
Arnaldo, contestualizzandole rigorosamente ma rinunciando a ricomporle, dichiarando esplicitamente l’impossibilità per lo storico di attingere alla verità della figura storica del chierico mediante le combinazioni di fonti così diverse. Il procedimento di Frugoni è stato definito da Giuseppe Sergi «storiografia del restauro», con chiaro riferimento al restauro conservativo che valorizza
le informazioni offerte dalle tracce superstiti, ma si astiene dal ricreare un insieme fittizio. È un procedimento assai lontano dalla
svolta linguistica, ma ne condivide una fondamentale premessa,
cioè la consapevolezza dei limiti insiti nella soggettività autoriale,
sia delle fonti, sia degli storici che combinano quei testi per ricostruire una verità storiografica oggettiva.
In seguito, con un passaggio che va oltre il problema della soggettività, la cosiddetta gender history si è proposta di rendere
espliciti i meccanismi della trasmissione del sapere prevalente-
19
Le donne nell’alto Medioevo
mente determinati dai gruppi sociali dominanti: è un problema
che non riguarda solo le donne, ma anche tutti i gruppi antagonisti in un modo o in un altro a quello dominante, che non riescono a trovare la possibilità di esprimere e tramandare il proprio
punto di vista: questo, messo a tacere dalla falsa “oggettività”
della tradizione culturale, letteralmente scompare. I gender studies vogliono indagare attraverso quali meccanismi l’appartenenza a un gruppo, sia su base biologica, sia su base sociale, si irrigidisca in un costrutto culturale, il “genere”, che incasella in rigidi
codici sociali la ricchezza della soggettività umana.
Identificare e poi decostruire i codici sociali e linguistici sottesi
alle narrazioni delle fonti sono obiettivi comuni a gran parte della
storiografia contemporanea: basti pensare alla scuola di Vienna
costituitasi a partire dagli anni sessanta e alla riscrittura che su tali
basi ha proposto sul complesso problema delle diverse etnie altomedievali e della loro rappresentazione narrativa. In questo senso
gli studi di genere sono perfettamente inseriti in una prospettiva
storiografica complessiva che non confina più le indagini sulla storia delle donne in un circolo eletto o asfittico, a seconda della prospettiva da cui le si giudicano, ma che integra ricercatori uomini e
donne in una comune prospettiva di indagini attente a farsi carico
dei problemi di comunicazione connessi ai modelli sociali prima
ancora che alla soggettività autoriale. In un contesto come questo
si possono iscrivere i risultati dei lavori del gruppo di ricerca internazionale Transferts patrimoniaux en Europe occidentale durant le
haut Moyen Âge che dal 1999 al 2002 ha coinvolto un gruppo di
studiosi europei che hanno indagato sulla base delle competenze
personali il tema, mettendo a diretto confronto tagli interpretativi
strettamente economici, approcci antropologici, attenzione al
genere e ai processi di comunicazione. Nelle quattro monografie
che sono originate da questo lavoro – ricordiamo soprattutto Dots
et Douaires dans le haut Moyen Âge [2002] e Sauver son âme et se
perpétuer [2005] – Cristina La Rocca ha proposto e promosso
studi relativi al regno dei longobardi e al successivo regno italico
che hanno avuto il merito di coinvolgere in questa prospettiva di
studi anche l’alto Medioevo italiano.
20
La parola agli storici
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23
2. La parola alle fonti*
2.1 Nascere
Qual era il ruolo femminile nella nascita dei nuovi individui che
popolavano l’Occidente europeo nell’alto Medioevo? In altre
parole, i diritti di nascita che determinavano la posizione giuridica, sociale ed economica delle persone dipendevano da entrambi
i genitori o esisteva una prevalenza dell’una o dell’altra ascendenza? L’Occidente altomedievale su questo aspetto (come su
molti altri) fu un crogiuolo di tradizioni diverse che, soprattutto
fra i secoli V e VIII, vide convivere e poi fondersi retaggi diversi
che si è soliti accorpare in tre grandi gruppi: quello giudaico-cristiano, quello romano-ellenistico e quello barbarico. Benché la
storiografia recente e più aggiornata abbia messo radicalmente
in discussione la possibilità di ricostruire un’identità barbarica
propria, distinguibile in base a tratti peculiari originari, è vero
però che il confronto fra la società occidentale del secolo X,
rispetto a quella prossima dei bizantini che non aveva conosciuto
un così forte inserimento di popolazioni allotrope, rivela una
diversità profonda che si è inevitabilmente tentati di riferire alle
differenti vicende che avevano caratterizzato le due parti dell’antico impero di Roma.
Nella società romana di età imperiale, le norme del diritto,
insieme con le credenze scientifiche, avevano relegato la donna al
ruolo di mero contenitore del seme maschile; l’identità dei nuovi
*
Le parole nel testo contrassegnate con un asterisco rimandano a una voce
esplicativa nel Lessico.
25
Le donne nell’alto Medioevo
nati, la loro posizione sociale e patrimoniale era indissolubilmente
legata a quella dell’uomo che si assumeva la loro paternità. L’estratto dal Digesto, la compilazione voluta da Giustiniano nel 553
che raccoglieva e ordinava per temi la tradizione del pensiero giuridico romano, mostra chiaramente una doppia concezione della
parentela che divide la “natura” dal diritto: la parentela naturale,
ossia quella biologica che lega inevitabilmente la donna alla sua
prole, e la parentela giuridica, che si basa sulla scelta maschile di
assumere il ruolo paterno. Solo la parentela giuridica, definita
agnazione, attribuiva diritti ai figli: la madre, in senso giuridico,
non era considerata parente dei propri figli, neanche in mancanza
del padre, e non poteva neppure trasmettere loro i beni che eventualmente possedesse. Quando si dice “diritto romano”, talvolta
si dimentica che noi disponiamo della sua codificazione di pieno
secolo VI, quando ormai alcune norme non corrispondevano più
alla realtà sociale che andavano a regolare: se nel Digesto i giuristi
incaricati da Giustiniano codificarono le norme giurisprudenziali
tradizionali, nelle Novelle invece furono raccolte le disposizioni di
Giustiniano stesso che, nel 543 (Novellae, CXVIII), tolse agli agnati [agnatizio*], ossia ai discendenti diretti in linea maschile della
famiglia, tutti i privilegi in materia di successione e attribuì diritti
paritari agli elementi cognatizi [cognatizio*] della discendenza.
Fu una vera rivoluzione nella concezione giuridica della parentela e non arrivò all’improvviso, ma fu la conseguenza di un’evoluzione di lunga durata interna alla società romana, forse almeno
in parte dovuta al contatto frequente, che durava ormai da tre,
quattro secoli, con le popolazioni barbariche: la parentela giuridica non era più solo quella che derivava dal padre e dai suoi
ascendenti, ma anche quella che legava i nuovi nati alla madre e
al suo gruppo familiare d’origine. La Novella di Giustiniano
segna con chiarezza le trasformazioni che il ruolo femminile aveva vissuto nei primi secoli dell’era cristiana, ma la disposizione
non deve essere considerata una conquista definitiva: delle molteplici forme in cui si proponeva il diritto romano in tale materia,
i comuni delle città italiane del Duecento scelsero le norme più
antiche, quelle che privilegiavano nella successione esclusivamente il ramo paterno.
26
La parola alle fonti
La prassi giuridica romana tradizionale trovava un fondamento
scientifico nella teoria della generazione della specie umana detta
“emogenesi”*, espressa da Aristotele e ripresa poi da Galeno di
Pergamo, il celebre medico che visse a Roma nel pieno II secolo
dopo Cristo. Tale teoria è volta a negare l’evidenza fisica del legame di sangue fra la donna e i suoi figli: il sangue materno nutre il
feto anche dopo la nascita, trasformato in latte, ma non interviene nell’atto della generazione, che è dovuto solo al seme maschile, spuma bianca del sangue dell’uomo simile a quella del vino
rosso, come ci spiega Isidoro. La donna diventa allora soltanto il
vaso che accoglie il seme dell’uomo e nutre il frutto di quel seme,
il feto prima, il bambino poi. Sia in Aristotele sia in Galeno, la
teoria emogenetica vuole provare la preminenza del maschio
sulla femmina nell’atto della generazione e legittimare così l’esclusivo controllo della prole da parte dell’uomo.
Però Isidoro vescovo di Siviglia, che visse fra i secoli VI e VII –
appena pochi decenni dopo che fu compilato e diffuso il Codex di
Giustiniano – e che con le sue Etimologie trasmise la cultura classica all’Occidente europeo, pur citando e spiegando la teoria
emogenetica, si scosta dalla tradizione e mostra una concezione
della generazione meno teorica e più ancorata all’esperienza
empirica: la somiglianza dei bambini o al padre, o alla madre, o a
un avo dell’una o dell’altra parte testimonia della compartecipazione paritaria dei due semi alla procreazione.
Un salto in una tradizione diversa, la tradizione trasmessa dalle
saghe nordiche nella loro versione più antica che si suppone sia
stata messa per iscritto nel secolo X, mostra invece una concezione della generazione in base alla quale sono le donne a trasmettere ai figli le qualità non solo personali, ma pure di condizione e
di appartenenza sociale. Un vero rovesciamento prospettico della
concezione mediterranea: il dio Odino, per dare origine ai tre
gruppi sociali in cui si articola la società barbarica – servi, contadini liberi e guerrieri – si accoppia con tre donne diverse che già
presentano i caratteri fisici, i talenti personali e le abitudini di
vita che caratterizzano, preconizzandoli, i tre diversi gruppi sociali che dai loro tre figli avranno rispettivamente origine.
Non solo le leggende ma le leggi romano-barbariche, nel loro
27
Le donne nell’alto Medioevo
insieme, insistono molto sulla qualità personale degli uomini:
servi, semiliberi e liberi sono attributi che segnano una distinzione giuridica fra le persone che ne determina, insieme con i diritti,
l’intera esistenza. L’appartenenza a ciascuno di questi ordini era
segnata dalla nascita o, meglio, dalla condizione personale della
madre. I figli seguivano il destino materno: chi nasceva da una
serva non poteva essere un uomo libero, neppure se il padre era
un uomo potente e ricco.
Sulla base di tali considerazioni si possono provare a interpretare alcune note vicende dei secoli altomedievali che raccontano
della renitenza di alcuni padri, specie se molto potenti, a dare in
moglie le proprie figlie. Tali figlie, se di origine regia, trasmettevano infatti ai loro eredi quella specifica qualità, una sorta di legittimazione a diventare re, indipendentemente dall’origine e dal
ruolo del loro compagno e padre dei bambini. E una molteplice
quantità di aspiranti al regno, in un sistema di successione non
ancora fissato con norme certe, non poteva che creare conflitti e
tensioni. Eginardo, il biografo di Carlo Magno, racconta proprio
di come il re non volle mai che le sue figlie si sposassero: non pretese da loro la scelta della castità, rimasero nella casa del padre e
lì, a corte, ebbero unioni sentimentali importanti che portarono
anche alla nascita di figli. I figli rimasero però nel seno della famiglia carolingia, con un preciso e non pericoloso ruolo che non
diffondeva in altre discendenze la legittimità di una nascita carolingia. L’accenno allo scandalo che trapela dalle parole di Eginardo deriva probabilmente dal fatto che, nonostante scrivesse
poco tempo dopo la morte di Carlo, visse la cristianizzazione forzata dei costumi privati dei franchi imposta sempre più duramente dalla chiesa nel corso del secolo IX e quindi, palesemente, dovette fare i salti mortali nel descrivere “accettabilmente” la vita
privata del grande re e della sua famiglia. Sappiamo che la figlia di
Carlo, Rotrude, ebbe un figlio con il conte del Maine, Rorgone, a
cui fu dato nome Ludovico (un nome carolingio, si noti) e che
divenne poi abate della potente abbazia regia di Saint-Denis; la
figlia Berta ebbe molti figli dal poeta Angilberto, fra i quali il
famoso storiografo Nitardo.
Nell’Italia longobarda del secolo VIII una specifica norma che si
28
La parola alle fonti
deve al re Liutprando prende in considerazione il caso in cui il diritto dei longobardi e quello dei romani vengano a incrociarsi in occasione di un matrimonio misto. L’uomo romano acquista il mundio*
di una donna longobarda e, così facendo, ne trasforma la condizione
giuridica: da quel momento in avanti la donna seguirà la legge romana a tutti gli effetti e i suoi figli seguiranno la condizione del padre,
non quella della madre. Questa è un’eccezione rispetto alla consuetudine longobarda, un’eccezione che rende palese il contrasto fra i
due diritti proprio sulla questione se la prole dovesse ereditare la
condizione del padre o quella della madre. Due secoli più tardi, a
Liutprando da Cremona, uomo politico e ambasciatore di Ottone I
oltre che vescovo e narratore di storia, tali differenze appaiono così
anomale rispetto alla concezione diffusa in cui vive, condivisa dai
suoi potenziali lettori, da suggerirgli di spiegare esplicitamente lo
strano atteggiamento dell’imperatore bizantino Romano. Romano si
“accontenta” di dare in moglie al proprio nipote una figlia illegittima
di re Ugo, figlia di un re, certo, ma anche di una concubina di condizione servile: accade perché «i Greci in merito alla nobiltà di nascita
indagano non chi sia la madre, ma chi sia il padre», chiosa Liutprando. I greci, ossia i bizantini, appaiono così aver conservato la
concezione propria del diritto romano pre-giustinianeo in merito
alla prevalenza della discendenza maschile, mentre la popolazione
del regno italico prima longobardo, poi franco, mai avrebbe ammesso come sposa di un re la figlia di una donna di condizione servile,
chiunque fosse stato suo padre. Senza che tutto ciò togliesse nulla,
peraltro, all’esigenza di una paternità certa per attribuire a un figlio
la piena legittimità dell’appartenenza a una discendenza: ancora una
volta Liutprando, con i dubbi che sparge ad arte sui costumi licenziosi di alcune grandi signore del regno che mettono in dubbio la
paternità della loro prole, è per noi testimone prezioso della mentalità del suo tempo.
29
Le donne nell’alto Medioevo
Bibliografia
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Cremona on dynastic legitimacy, in “Frühmittelalterliche Studien”, 29,
pp. 207-225.
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di C.A. Mastrelli, Sansoni, Firenze, pp. 263-269.
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Lombards, in Femmes et pouvoirs des femmes à Byzance et en Occident
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c. di C. Azzara e S. Gasparri, Viella, Roma.
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Pomata G. [1994], Legami di sangue, legami di seme. Consanguineità e
agnazione nel diritto romano, in “Quaderni Storici”, 86, pp. 299-334.
30
La parola alle fonti
2.1.1 La tradizione romana: la prevalenza maschile
a) Diritto civile, diritto naturale
Corpus juris civilis, Digesta (528-533)
La natura della parentela (cognatio) presso i Romani è di
due tipi: infatti alcuni legami parentali (cognationes) derivano dal diritto civile, altri dal diritto naturale, e talvolta
entrambi i tipi coincidono, così che la parentela secondo la
legge di natura coincide con la parentela secondo la legge
civile. E in verità la parentela naturale può esistere di per sé
senza che esista parentela civile, come nel caso delle donne
che hanno figli illegittimi. Viceversa la parentela civile,
anche chiamata parentela legittima (legitima cognatio), può
esistere a prescindere da alcun legame naturale, come nel
caso dell’adozione. Vi è parentela per entrambe le leggi,
naturale e civile, quando si forma un’unione attraverso il
matrimonio legalmente contratto. Peraltro la parentela naturale (cognatio) è propriamente chiamata così [cioè cognatio], laddove invece la parentela civile, sebbene possa
anch’essa essere propriamente così designata, è più precisamente chiamata adgnatio, vale a dire quella parentela che
è creata attraverso i maschi.1
Testo tratto da G. Pomata, Legami di sangue, cit., che traduce Corpus juris
civilis, Digesta, XXXVIII, 10, 4.
1
31
Le donne nell’alto Medioevo
b) Matrimonio e condizione dei figli
Isidoro di Siviglia, Etimologie o origini (620 ca.)
Il matrimonio è giusta unione e accordo fra persone di
nobile condizione. Il coniugium è l’unione con cui due persone che abbiano le caratteristiche previste dalla legge si
legano l’un l’altra e si accoppiano carnalmente: si parla di
coniugium perché gli sposi si congiungono, ovvero con
riferimento al iugum, ossia al giogo, da cui gli sposi stessi
sono uniti in occasione delle nozze, perché non possano
sciogliersi o separarsi. La parola connubio non deriva da
nupta, ossia da sposa, ma dall’azione di nubere, ossia andare in sposa. Si definisce connubio l’unione di due persone
della medesima condizione, come, per esempio, due cittadini romani, ovviamente di pari dignità: non si tratta dunque di connubio quando un cittadino romano si unisce
con una latina. Quando non si tratta di connubio i figli
non ereditano la condizione paterna.2
2.1.2 Le credenze scientifiche
a) L’emogenesi e la consanguineità
Isidoro di Siviglia, Etimologie o origini (620 ca.)
Di agnati e cognati. Gli agnati hanno tale nome in quanto
accedunt pro nati ossia vengono a occupare il posto dei nati
quando mancano i figli. Sono riconosciuti con priorità come
parte del lignaggio perché procedenti dalla linea maschile: è
il caso del fratello nato dallo stesso padre, del figlio del fratello, ovvero del nipote di questi, come pure dello zio pater2
Testo tratto da Isidoro di Siviglia, Etimologie o origini, a c. di A. Valastro
Canale, Torino, Unione tipografico-editrice torinese, 2004, IX, VII, 19-21, pp. 785.
32
La parola alle fonti
no. I cognati hanno tale nome in quanto anch’essi uniti da
un vincolo di cognatio, ossia di consanguineità. Sono posti in
secondo piano rispetto agli agnati perché procedenti dalla
linea femminile diversamente da quanto avviene con gli
agnati, la loro parentela si basa sul diritto naturale. Il prossimo è così denominato a causa della prossimità di sangue. I
consanguinei sono così chiamati perché nati da un unico
sangue, ossia da un unico seme paterno: il seme dell’uomo è
infatti schiuma di sangue, simile all’acqua che si infrange
sugli scogli producendo una schiuma bianca, o come il vino
scuro, che forma una schiuma chiara quando si agita il calice. I fratelli sono così chiamati in quanto nati dallo stesso
frutto, ossia dallo stesso seme; i germani, invece, perché ex
eodem genitrice manantes, il che significa procedenti dalla
medesima genitrice e non, come dicono molti, dal medesimo germe, perché in tal caso si parla solo di fratelli. Riassumendo, si denominano fratelli i nati dallo stesso frutto, o
seme, germani, invece, i nati dalla medesima genitrice.3
b) Ma il seme è duplice
Si dice che i figli nascono simili al padre se predomina il
seme paterno, simili alla madre se prevale quello materno:
in tal caso il figlio ha volto simile a quello di uno dei genitori. Coloro invece che assomigliano a tutti e due i genitori
sono concepiti dall’unione del seme paterno e materno in
parti uguali. Alcuni assomigliano ai nonni o ai bisnonni
perché, come nella terra vi sono molti semi nascosti, così
anche dentro di noi si celano molti semi destinati a restituire le fattezze dei progenitori. Dal seme paterno nascerebbero le bambine, da quello materno i bambini, perché ogni
generazione si compone di un seme duplice, la cui parte
maggiore, prevalendo, determina i caratteri sessuali.4
3
4
Ivi, IX, VI, pp. 771-773.
Ivi, I, 145.
33
Le donne nell’alto Medioevo
2.1.3 La tradizione nordica: la prevalenza femminile
a) Odino e l’ordine sociale
Rigsthula – Il carme di Rig (sec. X)
Si dice nelle antiche saghe che uno degli Asi, chiamato
Heimdall, approdato a una spiaggia, giungesse a un villaggio,
sotto il nome di Rig. Secondo quella storia è stato scritto questo carme:
Un tempo andò, si dice, per verdi vie,
un saggio Aso, potente e vecchio,
forte e ardito, il viandante Rig.
Egli giunse a una casa: la porta era aperta;
entrò dentro: il fuoco ardeva sul suolo;
là sedevano due vecchi sposi al focolare,
Ai ed Edda, con dei vecchi cappucci.
Rig dette loro dei buoni consigli,
poi si mise a sedere tra le panche
e ai suoi lati aveva i due sposi.
Allora Edda prese una grossa focaccia,
spessa e gonfia e fatta di cruschello;
la mise quindi dentro alle scodelle;
della salsa v’era in un piatto, e la servì.
Vi era del vitello migliore delle leccornie.
Rig dette loro dei buoni consigli,
poi si alzò per andare a dormire;
quindi si mise a giacere nel mezzo del letto
e ai suoi lati aveva i due sposi.
Colà egli rimase per tre notti,
andò quindi nel mezzo della strada,
poi passarono nove mesi.
Edda generò un bambino, dalla pelle bruna,
essi lo lavarono e lo chiamarono Thräl.
Egli crebbe e molto prosperò;
la pelle delle sue mani era rugosa,
34
La parola alle fonti
nodose le nocche, […]
grosse le dita, orribile il volto,
curvo il dorso, sporgenti i calcagni.
Quindi cominciò a misurare la sua forza,
a intrecciare il libro, e a far dei fardelli,
e a casa portava le fascine tutto il giorno.
Un giorno arrivò a casa una schiava valga,
con le suole sudice e le braccia arse dal sole,
e il naso adunco, che si chiamava Thir.
Ella si mise a sedere tra le panche
E al suo fianco stava il figlio di Edda,
essi si parlarono tutto il giorno,
Thräl e Thir, e prepararono il letto.
Essi generarono dei figli – erano felici:
si chiamavano Hreim e Fiosnir,
Klur e Kleggi, Kefsir, Fulnir,
Drum, Digraldi, Drott e Hosvir,
Lut e Leggialdi; costruirono recinti,
concimarono campi, allevarono porci,
pascolarono capre, scavarono la torba.
Le figlie erano: Drumba e Kumba,
Ökkvinkalfa e Arinnefia,
Ysia e Ambott, Eikintiasna,
Totrughypia e Tronobeina.
Da loro derivarono le stirpi dei servi.
Rig andò poi per diritti sentieri;
egli giunse a una casa: la porta era aperta;
entrò dentro: il fuoco ardeva sul suolo,
e due sposi sedevano intenti al lavoro.
Il marito digrossava del legno per il telaio;
la barba era ben tagliata, la chioma pettinata,
e la camicia attillata; una cassa era in terra.
La donna sedeva e svolgeva la conocchia;
agitava le braccia e preparava da tessere.
Era ben acconciata, aveva fermagli sul petto,
un fazzoletto al collo, un mantello sulle spalle.
35
Le donne nell’alto Medioevo
Afi e Amma abitavano in quella casa.
Rig dette loro buoni consigli,
[…]
Si alzò da tavola per andare a dormire;
quindi si mise a giacere nel mezzo del letto,
e ai suoi lati aveva i due sposi.
Colà egli rimase per tre notti;
andò quindi nel mezzo della strada,
poi passarono nove mesi.
Amma generò un figlio, lo lavarono con acqua,
lo chiamarono Karl, e la donna l’avvolse in fasce;
era bianco e rosa, e i suoi occhi erano vispi.
Egli crebbe e molto prosperò:
apprese a domare i buoi, a fare aratri,
a costruire case, a fabbricar granai,
a fare carri e a tirare il vomero.
Essi condussero a casa una brava massaia,
vestita con pelli di capra e la dettero a Karl;
Snör è il suo nome: ella si mise il velo;
gli sposi si fecero una casa, si scambiarono gli anelli,
stesero le coperte e così vissero insieme.
Essi generarono dei figli ed erano felici:
si nomavano Hal e Dreng, Holdh, Thegn e Smidh,
Breidh, Bondi, Bundinskeggi,
Bui e Boddi, Brattskegg e Segg.
Invece le figlie si chiamavano così:
Snot, Brudh, Svanni, Svarri, Sprakki,
Filodh, Sprund e Vif, Feima, Ristil.
Da loro derivarono le stirpi dei contadini.
Rig andò poi per diritti sentieri;
giunse a una casa: la porta volgeva a sud,
era accostata e un anello stava nell’incavo.
Egli entrò dentro: il suolo era cosparso di paglia;
i due sposi sedevano guardandosi negli occhi,
Fadhir e Modhir, e giocavano con le dita.
L’uomo era seduto e intrecciava delle corde,
36
La parola alle fonti
curvava archi e appuntiva le frecce;
la donna invece considerava le sue braccia,
lisciava la stoffa, tendeva le maniche.
Portava sul capo una cuffia, una spilla sul petto;
lungo era lo strascico, azzurra la camicia;
bruni i sopraccigli, il petto più bianco,
il collo più candido di pura recente neve.
Rig dette loro buoni consigli;
poi si mise a sedere sulle panche,
e ai suoi lati aveva i due sposi.
Allora Modhir prese una tovaglia ricamata,
di bianco lino, e la stese sulla tavola;
poi prese ancora una focaccia sottile
di bianco grano e la mise sulla tovaglia.
Poi ella imbandì delle scodelle colme,
inargentate; pose quindi su un vassoio
carne abbrustolita ed uccelli arrostiti;
vi era del vino nella brocca, calici cesellati;
bevvero e conversarono: così passò il giorno.
Rig dette loro dei buoni consigli,
poi si alzò per andare a dormire,
e quindi si mise a giacere nel mezzo del letto,
e aveva ai suoi lati i due sposi.
Colà egli rimase per tre notti,
andò quindi nel mezzo della strada;
poi passarono nove mesi.
Un figlio generò Modhir, lo fasciò nella seta;
lo lavarono con acqua e lo chiamarono Iarl;
bionda era la sua chioma, bianche le guance,
acuti gli occhi come d’un serpentello.
Iarl crebbe colà in quella casa,
agitava lo scudo, tendeva le corde,
curvava archi, appuntiva frecce,
scagliava dardi, brandiva lance,
montava a cavallo, aizzava i cani,
maneggiava la spada, si allenava al nuoto.
Là giunse Rig venendo da un bosco,
37
Le donne nell’alto Medioevo
Rig che molto errò e gli insegnò le rune;
gli dette il suo nome e lo riconobbe come figlio,
poi gli offrì il possesso sulle sue terre,
sulle terre ereditate e antichi possedimenti.
Quindi di là cavalcò per boschi oscuri,
per monti brinati, finché giunse a una casa;
brandì la lancia, agitò lo scudo,
pungolò i cavalli, maneggiò la spada,
suscitò battaglie, arrossò i campi,
uccise guerrieri, conquistò terre.
Egli solo possedeva diciotto dominî;
ripartì i tesori, e a tutti regalò
gioielli e monili, e agili cavalli;
donò anelli e divise i bracciali.
Dei messi andarono per umide vie,
e giunsero alla casa dove abitava Hersir;
egli aveva una figlia dalle dita affusolate,
bianca e savia, che si chiamava Erna.
Essi la chiesero in sposa e tornarono indietro,
la dettero a Iarl e si mise il velo;
insieme vissero e furono contenti,
ebbero molti figli e una vita felice.
Bur fu il primo e Barn il secondo,
Iodh e Adhal, Arfi, Mog,
Nidh e Nidhiung, Son e Svein,
– si addestravano al nuoto e alle tavole –.
Uno si chiamava Kund, e Kon il più giovane.
Là crebbero i figli di Iarl;
domavano cavalli, armavano scudi,
levigavano dardi, brandivano lance.5
5
Testo tratto da L’Edda. Carmi Norreni, Introduzione, traduzione e commento di C.A. Mastrelli, Firenze, Sansoni, 19822, Rigsthula (Il carme di Rig),
pp. 263-269.
38
La parola alle fonti
2.1.4 Regni romano-barbarici
a) I figli ereditano la condizione giuridica della madre
Leggi di Liutprando (731)
Se l’aldio* di qualcuno prende in moglie un’aldia di qualcun altro e dall’unione nascono figli, nel caso non abbia
versato il mundio, i figli siano di colui cui appartiene anche
la madre; se invece aveva versato il mundio ed erano nati
figli, così come disposto in un precedente editto, essi seguano il padre, e nei confronti del patrono abbiano la medesima condizione che ha il loro padre.6
Editto di Rotari (643)
Se un aldio prende in moglie una serva sua o di un altro, i
figli che nasceranno da lei siano servi di colui di cui è serva
anche la madre.7
Della serva resa libera grazie al matrimonio
Se qualcuno vuole prendere in moglie una propria serva gli
sia consentito. Deve però renderla libera legalmente, così che
sia completamente libera, ossia wirdibora, e renderla sposa
legittima con il gairethinx. Sia allora riconosciuta come
moglie legittima di condizione libera e i figli che nasceranno
da lei divengano legittimi eredi del padre.8
Testo tratto da Le leggi dei Longobardi, cit., Leggi di Liutprando, n. 126,
pp. 213 e 215.
7
Testo tratto da Le leggi dei Longobardi, cit., Editto di Rotari, n. 219, p. 69.
8
Testo tratto da Le leggi dei Longobardi, cit., Editto di Rotari, n. 222, p. 69.
6
39
Le donne nell’alto Medioevo
Placito di Saint Remi di Reims (13 maggio 847)
Su ordine dell’arcivescovo Incmaro di Reims, due suoi delegati, l’arcidiacono Sigloardo e il vassallo Dodilone, hanno
tenuto un placito pubblico a Courtisols, per esercitare la giustizia di S. Remi e del signor Incmaro. Essi sono stati informati che alcuni mancipia (dipendenti) della proprietà dovrebbero a giusto titolo essere considerati non liberi (servi et ancillae)
perché la loro genealogia indica che le loro nonne, Berta e
Auila, erano state comperate con il denaro del padrone. I due
missi hanno ascoltato allora gli interessati, quattro uomini e
due donne, che respingono l’accusa e affermano di essere
liberi per nascita. È stato fatto un appello a coloro che fossero
a conoscenza della verità sulla questione e volessero apportare
prove. Allora si sono presentati sette testimoni fra i più anziani e hanno testimoniato che la famiglia di quei mancipia era
stata acquistata con il denaro del padrone e che pertanto essi,
per la giustizia e per la legge, erano servi e serve piuttosto che
liberi e libere. Dato che non si è presentato alcun altro testimone per contraddire questa testimonianza, gli accusati
hanno riconosciuto la verità emersa dal giudizio e la prova
che era stata apportata. In base al giudizio di otto scabini, essi
si impegnarono a riprendere il servizio ingiustamente sospeso
e trascurato da molti giorni.9
b) Donne troppo nobili per potersi sposare
Eginardo, Vita di Carlomagno (830 ca.)
Mise così grande attenzione nell’educazione dei figli e delle
figlie che mai cenava senza di loro quando era in casa, mai si
metteva in viaggio senza di loro. Cavalcavano al suo fianco i
Testo tratto e tradotto da J.-P. Devroey, Puissant et misérables. Système social
et monde paysan dans l’Europe des Francs (VIe-IXe siècles), Bruxelles 2006, pp.
377-378.
9
40
La parola alle fonti
figli, le figlie seguivano appresso e chiudevano il corteo protette da un gruppo di guardie del corpo assegnate a esse.
Poiché erano molto belle e molto da lui amate, strano a dirsi,
non volle mai darne una in sposa a chicchessia dei suoi o di
fuori, ma le tenne tutte con sé in casa fino alla sua morte,
dicendo che non poteva fare a meno della loro compagnia. E
in questo, sebbene fortunato nelle altre cose, conobbe la
malignità della sorte. Tuttavia dissimulò la cosa, come se
riguardo a esse mai fosse sorto sospetto o voce disonorevole,
o niente mai si fosse saputo in giro.10
2.1.5 Occidente e Bisanzio: una diversa tradizione
a) Longobardi e romani
Leggi di Liutprando (731)
Se un uomo romano prende in moglie una donna longobarda e acquista il mundio su di lei e, dopo la morte di lui, ella
va da un altro marito, senza il consenso dei parenti del
primo, non si deve ricorrere alla faida e all’anagrip perché,
dopo essersi unita a un marito romano e dopo che questi ha
acquisito il mundio su di lei, è diventata una romana e i figli
che nascono da tale matrimonio siano romani secondo la
legge del padre e vivano secondo la legge del padre. Perciò
colui che in seguito se la prende in sposa, non deve affatto
versare la composizione per la faida e l’anagrip, così come
non lo si fa per un’altra romana.11
Testo tratto da Eginardo, Vita di Carlomagno, a cura di G. Bianchi, Salerno
editrice, Roma 1988, cap. 19, p. 66.
11
Testo tratto da Le leggi dei Longobardi, cit., Leggi di Liutprando, n. 127,
p. 215.
10
41
Le donne nell’alto Medioevo
b) Noi e loro: una concezione antitetica
Liutprando di Cremona, Antapodosis (960 ca.)
Romano chiede a Ugo sua figlia in sposa per il nipote
omonimo
Mentre si svolgevano queste cose (941), l’imperatore di Costantinopoli insieme con gli ambasciatori di re Ugo manda
anche i suoi, con l’incarico di offrirgli navi e tutto ciò che
desiderava, se avesse dato in moglie sua figlia al suo nipote
omonimo, figlio di Costantino. Intendo dire Costantino figlio
dell’imperatore Leone, non dello stesso Romano. […] Re
Ugo, udita questa proposta degli ambasciatori, rimandò i
messi a Romano, affermando di non avere alcuna figlia nata
da un matrimonio legittimo, ma, se Romano avesse voluto
una tra le figlie che aveva avuto da concubine, allora poteva
offrirgliene una di straordinaria bellezza. E poiché i Greci in
merito alla nobiltà di nascita indagano non chi sia la madre,
ma chi sia il padre, l’imperatore Romano senza indugio preparò le navi con il fuoco greco, mandò grandissimi doni e
diede l’incarico di unirla in matrimonio con suo nipote.12
La vicenda vede poi la sua conclusione al capitolo 20 quando
Ugo invia a Costantinopoli una figlia illegittima.
In quello stesso torno di tempo (16 settembre 944) ancora lo
stesso Ugo inviò a Costantinopoli sua figlia Berta, che egli
aveva generato dalla meretrice Pezola, accompagnata da
Sigifredo, venerabile vescovo di Parma, per unirla in matrimonio con il piccolo Romano, figlio di Costantino Porfirogenito. Reggevano il supremo impero Romano maggiore e
i suoi due figli Costantino e Stefano, innanzi ai quali, dopo
Testo tratto da Liutprando di Cremona, Italia e Bisanzio alle soglie dell’anno mille, a c. di M. Oldoni e P. Ariatta, Europía, Novara 1987, Antapodosis,
libro V, cap. 14, p. 174.
12
42
La parola alle fonti
Romano, stava Costantino, figlio dell’imperatore Leone, il
cui piccolo figlio, avuto da Elena figlia dell’imperatore
Romano maggiore, aveva sposato la già nominata Berta, che
i Greci, mutatole nome, avevano chiamato Eudocia.13
Ma non sempre Liutprando se la cava bene nell’intreccio fitto di
parentele che legava re, imperatori, mogli, concubine, figli e
figlie. In precedenza aveva infatti tratteggiato la genealogia “illegittima” dei figli e delle figlie di Ugo, i cui dati non coincidono
con quelli poi riportati nei capitoli che abbiamo letto sopra.
Morte di re Rodolfo, la cui moglie sposa re Ugo, e la figlia
sposa Lotario
Rodolfo re di Borgogna morì (11-7-937), la cui vedova Berta sposò re Ugo (12-12-937) dopo la morte di Alda, madre
di Lotario re. Inoltre Ugo diede in moglie a suo figlio Lotario la figlia di Rodolfo e Berta, di nome Adelaide, di bello
e onesto aspetto e graziosa per probità di costumi. Il che a
tutti Greci non sembra lecito, cioè che, se il padre prende
in moglie la madre (essendo due una cosa sola), il figlio non
dovrebbe sposare la figlia senza peccato.14
Un matrimonio solo politico quello di Ugo: non fu neppure consumato a sentire Liutprando. Diverse erano le relazioni personali del re.
Ugo ha in uggia la moglie per le concubine
Ugo, invischiato dalle attrattive di molte concubine, non
solo non cominciò ad amare d’amor coniugale la predetta
sua moglie Berta, ma anzi ad esecrarla in tutti i modi: quanto giustamente Dio abbia punito ciò, non ci rincrescerà di
esporlo a suo luogo. Ma pur avendo parecchie concubine,
per tre soprattutto ardeva di turpissimo amore: Pezola, nata
13
Testo tratto da Liutprando di Cremona, Italia e Bisanzio, cit., Antapodosis,
libro V, cap. 20, p. 178.
14
Testo tratto da Liutprando di Cremona, Italia e Bisanzio, cit., Antapodosis,
libro IV, cap. 13, p. 147.
43
Le donne nell’alto Medioevo
da sangue di vilissimi servi, dalla quale generò anche un
figlio di nome Bosone che ordinò vescovo della chiesa di
Piacenza dopo la morte del vescovo Guido; Roza quindi,
figlia del decapitato Gualperto sopra ricordato, che gli generò una figlia di straordinaria bellezza; la terza Stefania di
origine romana, che gli generò un figlio di nome Tebaldo
che in seguito egli fece arcidiacono nella chiesa milanese,
con l’idea che, morto l’arcivescovo, venisse posto lui a suo
successore. Se la vita mi accompagna, l’ordine dello scrivere
perché Dio non permise che queste cose avessero effetto.
Ma anche il popolo, per il vergognoso esempio di impudicizia, chiamava queste coi nomi delle dee: Pezola cioè Venere; Roza Giunone, per i litigi e il perpetuo odio, perché
quella, secondo i criteri di giudizio di questa nostra putrida
carne, sembrava più bella di questa; Stefania invece Semele.
E poiché non era il re solo ad avere rapporti con esse, i loro
figli traggono origini da padri incerti.15
2.2 Generare
Il titolo scelto per questa parte mette in primo piano il processo
della generazione, ma vuole raccogliere insieme testimonianze
sulle diverse fasi della vita che portano una coppia a far figli: dall’attrazione reciproca alla formalizzazione del rapporto, alla sua
eventuale fine. La domanda che guida queste scelte non può che
apparire banale: quali erano i modi, le forme giuridiche, ma
quale anche il comune sentire di allora rispetto a fenomeni che,
coinvolgendo inevitabilmente chi li indaga anche oggi, frappongono tra le fonti e il ricercatore ostacoli scivolosi, tanto più pericolosi perché riguardano un sentire profondo e non sempre perfettamente consapevole. Basti pensare alla definizione oggi così
diffusa di “famiglia naturale”, che dà per scontata e non storiciz-
15
Testo tratto da Liutprando di Cremona, Italia e Bisanzio, cit., Antapodosis,
libro IV, cap. 14, pp. 147-148.
44
La parola alle fonti
zata una cellula base della società e del diritto fondata su una
coppia eterosessuale sposata e con prole.
Isidoro di Siviglia, uscendo per una volta dagli schemi etimologici della sua composizione, racconta quali fossero le qualità che
uomini e donne cercavano rispettivamente al momento di scegliere
un compagno per generare figli. Ha in mente matrimoni in senso
tecnico, come vedremo più avanti, cioè regolati da un preciso contratto giuridico che poteva intercorrere solo fra persone di stato
libero e di elevata posizione sociale. Così si spiega una qualità
come la nobiltà di stirpe, valida per gli uomini come per le donne;
e forse, anche, la bellezza, se si considera essa pure quale indice di
un’origine elevata. La distinzione legata al genere interviene nelle
altre due qualità: per gli uomini forza ed eloquenza, per le donne
ricchezza e buoni costumi. Nella formazione di una nuova coppia
alla donna spettava l’onere economico di una buona dotazione,
all’uomo quello di offrire concrete prospettive con la sua capacità
di agire con la forza o con la testa, di essere in grado di far rendere
e aumentare quel patrimonio di base. Siamo ancora in un ambito
di tradizione giuridica romana: poco più avanti nel tempo anche
l’uomo dovrà contribuire con il morgengabe* alla dotazione patrimoniale di base della nuova famiglia che si andava a creare.
In una prospettiva più vicina alla concretezza delle relazioni sessuali che, al di là del matrimonio, si sviluppavano fra uomini e
donne, troviamo testimonianze diverse sugli strumenti opportuni
per ottenere – o per sedare – l’attrazione reciproca: il vescovo
Incmaro di Reims, a metà del secolo IX, mostra di credere all’effettivo potere della magia e degli incantesimi nel creare o distruggere
legami affettivi, almeno quanto crede all’efficacia degli esorcismi
che gli uomini di Chiesa potevano mettere in atto per contrastarli.
La stessa “laica” legislazione di re Liutprando, che è relativa a circa
cent’anni prima, deve negare con forza la credenza nei poteri delle
streghe, assumendosi l’onere della diretta tutela regia in favore di
quelle donne che fossero accusate di praticare sortilegi. Magie
meno potenti, forse più efficaci – o forse no, se si leggono con
attenzione le ricette – erano le consuete pratiche femminili volte alla
cura del corpo, come si usa dire, o meglio alla pratica di rendere
consoni tanti corpi reali ai modelli ideali dell’estetica dominante:
scopriamo così, attraverso i consigli di Trotula di Ruggero, medi45
Le donne nell’alto Medioevo
chessa della grande scuola salernitana altomedievale, che nella
Salerno del secolo XI donne che immaginiamo dagli spiccati caratteri mediterranei intervenivano sulla loro pelle con la calce viva per
eliminare l’inevitabile peluria che, evidentemente, i canoni estetici
contemporanei non ammettevano.
La storiografia si è talvolta interrogata sulla natura dei sentimenti
che univano uomini e donne fra loro in tempi così remoti dai nostri:
se esistesse la nozione stessa d’amore come la intendiamo noi oggi,
se una vita forse più difficile dal punto di vista della quotidiana
lotta per la sopravvivenza rendesse più diffidenti gli esseri umani
nei confronti di legami costantemente a rischio di una tragica fine.
Certo è difficile leggere parole d’amore sentimentale nelle fonti del
primo millennio: eppure non mancano. Le due piccole poesie anonime che si sono inserite nel testo testimoniano di un sentire rispetto all’amore coniugale che, credo, non ci risuona estraneo.
Alcuni aspetti delle leggi romano-germaniche, insieme con attestazioni narrative e documentarie, evidenziano che nell’Occidente
altomedievale dei secoli VI-IX potevano coesistere diverse forme
di connubio fra un uomo e una donna: questa evidenza ha contribuito a creare un mito storiografico, quello della Friedelehe, ossia
della libera unione, concepito soprattutto da studiosi tedeschi
degli anni venti del Novecento come carattere peculiare delle
popolazioni germaniche. Uomini e donne, alla pari, si sarebbero
in tal modo liberamente scelti senza che ci fosse bisogno di un
vincolo giuridico formalizzato. Di pari passo con il mito del primitivo comunismo delle comunità germaniche, costruzioni ideologiche come queste intendevano marcare i caratteri peculiari di
popolazioni che venivano contrapposte a quelle di cultura romana
per creare una sorta di grande identità collettiva a giustificazione
delle volontà aggressive presenti nella Germania di quei decenni e
che maturarono poi con il regime nazionalsocialista.
Tali indagini partono in genere dalla testimonianza della Germania
di Tacito (I sec. d.C.), il quale però non distingue diversi gradi di
matrimonio fra i germani, ma identifica soltanto un tratto peculiare
delle loro unioni, confermato dalle norme delle leggi romano-barbariche, ossia la reciproca dotazione dei coniugi, un uso estraneo al
mondo romano che – abbiamo visto – prevedeva unicamente l’ap-
46
La parola alle fonti
porto dotale femminile. Tacito descrive solo un uso matrimoniale
diverso da quello romano.
Anche gli storici di altre culture europee, in specie gli storici
del diritto, vivendo all’interno di pratiche sociali segnate dal matrimonio ecclesiastico così come si impose, progressivamente, a
partire dal secolo XII, tendevano allora – e così è accaduto fino a
tempi assai recenti – a ragionare sulle unioni che le fonti attestano cercando di definire quale sia un vero matrimonio e quale no:
dimostrano in tal modo di avere assorbito passivamente la forma
di giudizio attraverso la quale la Chiesa impose il proprio dominio sulla vita privata degli individui.
Le analisi più recenti mostrano che in realtà diverse forme di
unione potevano convivere, perché nessuna delle componenti
che abbiamo appena tratteggiato – romana, germanica, ecclesiastica – ebbe allora supremazia assoluta sulle altre.
E così possiamo leggere un passo celebre quale quello di
Eginardo che racconta di tutte le diverse unioni, diverse anche
nella forma giuridica che assunsero, che segnarono la vita di Carlo
Magno. Alcuni dati biografici aiutano a capire meglio tanta
abbondanza di legami diversi. La più celebrata fra le mogli di
Carlo Magno, Ildegarda, esaltata da Notkerio di San Gallo come
madre di re e imperatori, rischia sulla base di tale immagine di
apparire ai nostri occhi come una solida, attempata e venerata
matriarca: ella però morì ad appena venticinque anni, dopo che in
ben dodici anni di matrimonio aveva sostenuto il peso di otto gravidanze. Che si tentasse di anticipare il più possibile per le donne
l’età lecita per il matrimonio risulta chiaro, oltre che da esempi
come questi, dalla normativa del regno longobardo, dove si sente
il bisogno di precisare che dodici anni, l’età minima per la donna,
dovevano essere pienamente compiuti.
Lo status di donna sposata non pare dare garanzie giuridiche e
di autonomia personale maggiori rispetto alla condizione di
donna nubile, né nella legislazione longobarda né in quelle degli
altri regni romano-barbarici, anzi: prevale unicamente, dal punto
di vista del diritto, il fatto di appartenere al gruppo dei liberi. La
donna libera era tutelata dalle molestie, fosse o non fosse sposata:
la tutela si spingeva anche all’interno del rapporto matrimoniale,
47
Le donne nell’alto Medioevo
dal momento che la moglie maltrattata fisicamente o psicologicamente poteva ricorrere al tribunale regio e allontanarsi dalla casa
maritale. La legge comunque tendeva a mettere un freno innanzitutto ai legami combinati dai genitori, sia per i maschi sia per le
femmine, volti palesemente a creare unioni proficue dal punto di
vista economico e relazionale fra le due famiglie d’origine, ma
inadeguati rispetto a quella che era considerata la finalità prima
del matrimonio, ossia la generazione. La legge dei visigoti offre
un quadro indignato della pratica di sposare bambine a uomini
anziani, così come ragazzini a donne mature: vieta però esplicitamente solo quest’ultimo caso, considerando illegittime tutte le
unioni in cui la donna sia più anziana del marito.
Se la generazione doveva essere la finalità prima del matrimonio, la
fertilità diventava qualità indispensabile perché si conservassero le
unioni. Le stesse cerimonie di incoronazione delle regine sono state
lette quali veri e propri riti di propiziazione della fertilità. E l’infertilità era pertanto motivo socialmente accettabile per il divorzio, per
gli uomini così come per le donne che, ci racconta Incmaro di
Reims, erano solite accusare di impotenza i mariti di cui volevano
liberarsi. Ma poi le cose cambiarono, soprattutto a partire dal secolo
IX, quando la Chiesa volle imporre in materia matrimoniale la
norma canonica su quella civile, o meglio, iniziò a pretendere che la
norma civile si adeguasse a quella canonica. Fu un caso celebre accaduto alla metà del secolo IX, la pretesa di Lotario II, re di Lotaringia,
di divorziare dalla moglie Teutberga che, dopo due anni di matrimonio, non aveva ancora avuto figli, a dare modo al vescovo Incmaro di
Reims, avversario politico di Lotario, di essere il capofila di coloro
che negavano la legittimità della scelta del re. La circostanza gli offrì
l’opportunità di redigere un poderoso trattato, il De divortio, che
partendo dal caso specifico disegnava per la prima volta in modo
completo e argomentato la dottrina intransigente della Chiesa in
materia. La conseguenza immediata per Teutberga fu che Lotario e i
suoi alleati, per ottenere comunque il ripudio, la coprirono di accuse
infamanti in un processo pubblico dai contenuti violentemente
indecenti; Lotario non riuscì comunque a divorziare e non poté così
legare a sé con un contratto matrimoniale la donna che gli era stata a
fianco per decenni, Waldrada, dalla quale aveva avuto quattro figli.
48
La parola alle fonti
Il primogenito, un maschio, Ugo – nato da un’unione non pienamente legittimante portava un nome “non carolingio” – combatté
ugualmente per poter succedere al padre, ma non ebbe successo.
Bibliografia
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Lothar II, in “Past and Present”, pp. 3-38.
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CISAM, Spoleto, pp. 15-39.
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Schmitt J-Cl. [2004], Medioevo superstizioso, Laterza, Roma-Bari, pp.
54-57.
49
Le donne nell’alto Medioevo
2.2.1 Le ragioni dell’attrazione
Isidoro di Siviglia, Etimologie o origini (620 ca.)
Nello scegliere il marito si fa solitamente attenzione a quattro
aspetti: la forza, il lignaggio, la bellezza e la sapienza. Tra questi
aspetti la sapienza è il più potente nel suscitare il sentimento d’amore. Virgilio fa riferimento a queste quattro qualità a proposito
di Enea, perché Didone fu spinta da esse a innamorarsi di lui. La
bellezza: «con qual volto avanzava»; la forza: «che forza nel petto
e nelle armi»; l’eloquenza: «oh, da quali fati colpito, quali guerre
sofferte cantava»; il lignaggio: «credo davvero, e non è illusione
la mia fede, che egli sia lignaggio di dei».
Analogamente, nello scegliere la moglie, sono quattro le caratteristiche che spingono l’uomo ad amare: la bellezza, il lignaggio, le ricchezze e i buoni costumi. Meglio però ricercare nella moglie i buoni
costumi piuttosto che la bellezza: oggigiorno invece si ricercano le
donne che si distinguono per ricchezza o aspetto piuttosto che per
integrità di costumi.
Per questo le donne sono sottomesse alla potestà degli uomini,
perché cioè si lasciano per lo più ingannare dalla leggerezza del
proprio animo: era pertanto giusto che esse fossero frenate dall’autorità dell’uomo. Perciò gli antichi vollero che le donne non
sposate, pur in età matura, a causa di tale leggerezza d’animo,
vivessero sotto tutela.16
Testo tratto da Isidoro di Siviglia, Etimologie o origini, cit., IX, VII, 28-30,
pp. 787-789.
16
50
La parola alle fonti
2.2.2 Incantesimi d’amore e passione
a) Pozioni d’amore
Incmaro di Reims, De divortio Lotharii regis (860)
È cosa turpe riferire le leggende che ci sono note e prende troppo
tempo stare a enumerare le fatture che vengono combinate con
ossa di morti e ceneri di carboni spenti e con capelli e peli delle
parti genitali di uomini e donne, tenuti insieme da fili di variopinti
colori e di varie erbe e di piccole lumache e di particelle di serpente e rese incantate da formule magiche che, abbiamo saputo,
incantano uomini che poi, una volta guariti e liberati dalla benedizione ecclesiastica, sono tornati a godere delle grazie coniugali e
del debito naturale. Alcuni addirittura si vestivano o meglio si
coprivano con abiti incantati, altri erano resi dementi dalle streghe con bevande o con cibo; altri poi, incantati soltanto dalle formule magiche delle fattucchiere, si sa che sono stati resi pressoché
inermi. Altri poi indeboliti dalle lamie, ossia donne perverse, e
anche certe femmine turbate dagli spiriti maligni soprattutto degli
uomini per i quali ardevano di passione, si sa che si sono ridotti
allo stremo con l’accoppiamento. La potenza divina ha restituito a
quelli e a quelle la salute, dopo aver catturato e scacciato gli spiriti
diabolici grazie agli esorcismi e agli antidoti cattolici.17
17
Testo tratto e tradotto da Hinkmar von Reims, De divortio Lotharii regis et
Theutgergae reginae, a c. di L. Böhringer, MGH Concilia, IV. Supplementum I,
Hannover 1992, p. 206.
51
Le donne nell’alto Medioevo
b) Le streghe non esistono
Editto di Rotari, 376 (643)
Nessuno presuma uccidere un’aldia o una serva altrui come
se fosse una strega, che chiamano masca, perché per menti
cristiane non è in alcun modo credibile né possibile che una
donna possa divorare un uomo vivo intero. Se qualcuno
oserà in futuro perpetrare una tale azione illecita e nefanda,
se uccide un’aldia paghi una composizione di 60 solidi per la
sua condizione e aggiunga inoltre 100 solidi per la colpa,
metà al re e metà a colui cui apparteneva l’aldia. Se invece è
una serva, paghi la composizione per la sua condizione, come
è stabilito sopra, a seconda che sia una serva ministeriale o
rustica, e inoltre 60 solidi per la colpa, metà al re e metà a
colui cui apparteneva la serva. Ma se un giudice ha ordinato
di perpetrare questa azione malvagia, componga egli stesso,
di tasca propria, la pena suddetta.18
c) La cosmesi: una magia lecita
Trotula de Ruggiero, Sulle malattie delle donne (metà sec. XI)
Affinché la donna diventi tutta dolce e liscia, senza peli
superflui dal capo sino ai piedi, vada alle terme per prima
cosa e si faccia un bagno di vapore così preparato. Prendi
tegole calde e pietre nere calde, mettile in una stufa e la donna sieda sopra. Oppure prendi tegole calde o pietre nere
calde, mettile in una stufa o in una fossa scavata nella terra, vi
si sparga sopra dell’acqua calda per far sprigionare il vapore
e la donna sieda sopra, ben avvolta in un telo, sì da sudare. E
quando avrà ben sudato, entri nell’acqua calda e si lavi con
cura. Dopo il bagno si asciughi con un panno di lino e si
unga tutta con la crema depilatoria descritta qui appresso.
18
Testo tratto da Le leggi dei Longobardi, cit., Editto di Rotari, n. 376, p. 109.
52
La parola alle fonti
Prendi calce viva ben passata attraverso un crivello, mettine
in un recipiente di terracotta quattro once e cuoci finché non
sarà diventata una poltiglia. Poi prendi un’oncia di ossido
d’arsenico, cuoci di nuovo, prova con una penna se il composto è abbastanza cotto e, badando che non scotti troppo e
non rimanga a lungo sulla pelle, applicalo. […]
Per ottenere una depilazione totale e definitiva, prendi uova
di formiche, ossido d’arsenico rosso e gomma d’edera, mescola il tutto con aceto e strofinati la zona da depilare.19
2.2.3 Parole d’amore
Grabschriften und Persönliches (sec. X)
Soltanto un amore sicuro è una grande medicina del dolore:
l’olmo ama la vite, la vite non lascia l’olmo da solo,
gli uccelli hanno i loro amati, i pesci si congiungono
con mutuo piacere,
la cerva segue il suo compagno, il serpente si allaccia
al serpente,
e ognuno cerca il proprio compagno d’amore.
La grazia coniugale unisce te a me e io a te,
che la destra di Dio ti difenda dall’odioso nemico.
Amore è latte per i bambini, timo per le api e citiso20
per i capelli,
onda del mare per i pesci e volo per gli uccelli.
Anche noi, caro, tiene insieme l’amore reciproco;
nessuno lo infranga e non si lasci guastare dal tempo.21
Testo tratto da Trotula de Ruggiero, Sulle malattie delle donne, a c. di P.
Cavallo Boggi, Torino 1979, pp. 62-63.
20
Il citiso è una specie di trifoglio cui erano attribuite proprietà benefiche
nella cosmesi.
21
Testi tratti e tradotti da Grabschriften und Persönliches, MGH, Poetae latini
medii aevi, V/III, a c. di G. Silagi, B. Bischoff, Hannover 1979, p. 642.
19
53
Le donne nell’alto Medioevo
2.2.4 Un variegato mondo di unioni possibili
Eginardo, Vita di Carlomagno (830 ca.)
Ora comincerò a trattare delle sue [di Carlo Magno] doti
morali, della sua massima fermezza in qualunque evento
prospero o avverso, e di tutto quanto si riferisca alla sua vita privata e familiare.
Dopo la morte del padre, divisosi il regno col fratello
[Carlomanno], sopportò con tale tolleranza la rivalità e la
gelosia di lui che sembrava strano come egli potesse non trascendere nell’ira per le sue provocazioni. Successivamente,
avendo preso in sposa, per esortazione della madre, la figlia
di Desiderio, re dei Longobardi, dopo un anno, non si sa
come mai, la ripudiò e prese in moglie Ildegarda, donna di
grande nobiltà di origine sveva, dalla quale generò tre figli,
Carlo, Pipino e Ludovico, e altrettante figlie, Rotrude, Berta
e Gisella. Ebbe altre tre figlie, Teoderada, Iltrude e Rodaide,
due dalla moglie Fastrada della stirpe dei Franchi Orientali,
cioè dei Germani, la terza da una concubina, il cui nome ora
non torna alla mia memoria. Morta Fastrada, sposò l’alemanna Liutgarda da cui non ebbe alcun figlio. Dopo la morte di questa, ebbe quattro concubine: Maldegarda, che gli
diede una figlia chiamata Rotilde, Gersuinda di stirpe sassone, da cui nacque una figlia chiamata Adeltrude, Regina, che
gli diede Drogone e Ugo, e infine Adalinda, da cui generò
Teodorico.22
22
Testo tratto da Eginardo, Vita di Carlomagno, cit., cap. 18, pp. 63-64.
54
La parola alle fonti
2.2.5 Il matrimonio e lo status femminile
a) La tutela dalle molestie
Leggi di Liutprando (731)
Se qualcuno per malizia e arroganza, così come sappiamo
che è accaduto, osa pizzicare o sculacciare una donna o una
fanciulla di condizione libera, mentre si trova seduta per le
sue necessità fisiologiche o per altro bisogno, nuda proprio
per tali necessità, versi al suo mundoaldo una composizione
di ottanta soldi; nel caso sia un aldio o un servo a osare fare
ciò, il suo padrone paghi una composizione di sessanta
soldi e deve essere proprio il colpevole in persona a versare
il denaro nelle mani del mundoaldo della femmina.23
b) Il giogo
Isidoro di Siviglia, Etimologie o origini (620 ca.)
I coniugi sono così chiamati con riferimento al iugum, ossia al
giogo, imposto a coloro che si uniscono in matrimonio: i futuri sposi, infatti, passano tradizionalmente sotto un giogo,
simbolo della futura concordia, perché non si separino mai. A
onor del vero, il nome coniuge si utilizza sin dal momento
della prima promessa matrimoniale, sebbene i futuri sposi
non conoscano ancora l’unione coniugale: così Maria è chiamata coniuge di Giuseppe sebbene tra di essi non vi fosse, né
vi sarebbe stata unione carnale alcuna.24
23
24
Testo tratto da Le leggi dei Longobardi, cit., Leggi di Liutprando, n. 125, p. 213.
Testo tratto da Isidoro di Siviglia, Etimologie o origini, cit., IX, VII, 9, p. 783.
55
Le donne nell’alto Medioevo
c) La matrona
Isidoro di Siviglia, Etimologie o origini (620 ca.)
La matrona è la donna già sposata, così chiamata quasi a
dire mater nati, ossia madre del nato, ovvero perché può
ormai diventare madre, donde anche il termine matrimonio. Vi è comunque differenza tra matrona e madre e tra
madre e mater familias, o madre di famiglia: le matrone
infatti sono così chiamate perché hanno già contratto un
matrimonio; le madri perché hanno avuto figli; le madri di
famiglia perché in virtù di una precisa formalità giuridica
sono passate a far parte della famiglia del marito.25
d) L’età minima per le nozze
Leggi di Liutprando (729 e 731)
Riguardo alla fanciulla che, come abbiamo già detto, può
legittimamente sposarsi a dodici anni, stabiliamo ora questo, che si può legittimamente sposare non quando entra
nel dodicesimo anno, ma quando lo ha compiuto. Diciamo
ora questo perché siamo venuti a conoscenza di molte liti in
merito a tale questione e a noi pare che la cosa non sia matura prima che i dodici anni siano compiuti.
Se un ragazzo prima dei diciotto anni, che noi abbiamo
disposto essere l’età legale, vuole contrarre gli sponsali o
congiungersi in matrimonio con una donna, abbia facoltà di
costituire la meta* e di dare il morgengabe secondo il tenore
dell’editto e anche di contrarre un’obbligazione e di porre
un fideiussore e di scrivere, se lo vuole, un documento
riguardo questa cosa. Chi fa da fideiussore, o lo scrivano che
scrive il documento, non subisca nessuna condanna per
Testo tratto da Isidoro di Siviglia, Etimologie o origini, cit., IX, VII, 13, pp.
783-785.
25
56
La parola alle fonti
questo. Noi abbiamo fatto giungere lo stato infantile fino a
quell’età, perché i ragazzi non mandino in rovina e non dissipino i propri beni, ma per quanto riguarda un’unione voluta da Dio, concediamo che sia fatta.26
e) La fecondità: un imperativo
Ordo V. Matrimonio e incoronazione di Giuditta (856)
Benedici Signore queste doti, e degnati di dotare con la tua
benedizione coloro che le ricevono: affinché essi, conservando immacolato il talamo e la fedeltà nell’unione, meritino di congiungersi alla comunità dei santi patriarchi. Nel
nome del Signore.
Accetta questo anello, segno dell’amore e della fedeltà e il
sacro vincolo del matrimonio, affinché l’uomo non separi
ciò che Dio ha unito. Che vive e regna nei secoli dei secoli.
Unisco in matrimonio te a un solo uomo, vergine casta, e
futura sposa pudica così come lo furono per i loro uomini le
sante donne Sara, Rebecca, Rachele, Ester, Giuditta, Anna,
Noemi, con il favore del creatore e santificatore delle nozze,
Gesù Cristo nostro signore, che vive e regna nei secoli dei
secoli.
Dio, che all’inizio del mondo benedicesti la prole affinché
crescesse e si moltiplicasse, ascolta le nostre suppliche e a
questo tuo servo e a questa tua serva infondi la forza della
tua benedizione, affinché si accoppino nel vincolo matrimoniale in forza del tuo consenso, con pari intenzione, disposizione simile e reciproca santità. Rendili in grado di generare
una progenie tale che essa meriti l’eredità del tuo paradiso.
Apri loro, o Signore, le porte dei cieli e dona loro la pace.
Irriga la loro terra affinché vi germini il frutto dello spirito.
Santificali, tu che sei stato dato a noi da una vergine, e conTesto tratto da Le leggi dei Longobardi, cit., Leggi di Liutprando, nn. 112 e
117, pp. 205 e 207-209.
26
57
Le donne nell’alto Medioevo
cedi loro una vita di salvezza, quella che prima del tuo avvento predisse il santo profeta Giovanni, così che fedelmente credano e vivendo felicemente i loro giorni meritino di
accedere al regno dei cieli per grazia tua, Cristo salvatore
nostro, che con Dio padre, nell’unità con lo Spirito santo,
vivi e regni, Dio, per sempre.
[…] Incoronazione
Con gloria e con onore il Signore ti incoroni, e ponga sopra
il tuo capo una corona di una spirituale pietra preziosa,
vero significato dello splendore dell’oro e della diversa brillantezza delle pietre preziose; che essa rifulga sempre nei
tuoi atteggiamenti e nelle tue azioni. Ciò si degni di concedere colui cui spetta onore e gloria nei secoli dei secoli.
Benedizioni
Benedici, Signore, questa tua serva, che governerà qui sulla
terra i regni dei re. Così sia.
Innalza le opere delle sue mani e con la tua benedizione la
sua terra, resa umida e feconda, si colmi dei frutti rigogliosi dei cieli. Così sia.
Con la tua benedizione si allieti delle cime delle antiche
montagne e delle colline eterne, dei frutti della terra e della
sua pienezza. Così sia.
La benedizione di colui che apparve nel rovo discenda sul
suo capo. Donale, grazie alla rugiada del cielo e alla fecondità della terra, abbondanza di frumento e vino: che servano a lei e alla discendenza del suo popolo, e in tuo onore
adorino quella tribù e la sua discendenza. Così sia.
Colmale di benedizioni l’utero e la vulva. Le benedizioni
degli antichi padri si posino sempre su di lei e sul suo
seme, così come hai promesso al tuo servo Abramo e alla
sua discendenza nei secoli. Così sia.27
27
Testo tratto e tradotto da Ordines Coronationis Franciae, a c. di R.A. Jackson,
vol. I., Philadelphia 1995, Ordo V. Marriage and Coronation of Judith, pp. 76-77 e 79.
58
La parola alle fonti
f) La propagazione della specie, sola finalità del matrimonio
Lex Visigothorum (506)
Affinché donne più grandi non sposino uomini più giovani
di loro
Il diritto di natura affida la speranza di una diretta procreazione futura disponendo un patto nuziale concordato con
piena solennità. E infatti se si congiungono con l’unione
matrimoniale persone in condizione non appropriata per
età o per status, che cosa rimane del fine della procreazione, se non che il nascituro sarà o malformato o deforme? E
non potrà certo nascere nella concordia della pace ciò che è
noto essere stato concepito nella discordia dell’origine.
Vediamo infatti che alcuni, avidi non dell’amore della natura ma affascinati dalla brama della cupidigia, pre dispongono per i loro figli patti matrimoniali così contrari
all’ordine naturale delle cose, che in ciò che fanno non si
rinviene né la concordia delle età né dei costumi. Infatti che
nome darebbero gli uomini ad azioni siffatte, prendere
femmine con la forza, accoppiare bambinette ai maschi con
ripugnanti sforzi della natura, e allo stesso modo congiungere con l’unione matrimoniale ragazze adolescenti con
bambini piccoli e così, per anticipare il momento dell’età
corretta che farebbe svanire un immediato guadagno, spingere alla rovina dell’impudicizia, rifiutandosi di aspettare
un guadagno lecito, troppo avidi per valutare la giovinezza
delle fanciulle e la vecchiaia degli uomini, ormai tardi e
lenti. Affinché dunque sia riportata all’ordine la propagazione della stirpe così male ordinata, evitando unioni illecite, stabiliamo con questa sanzione di legge che le donne si
sposino sempre con uomini di età maggiore della loro. Un
matrimonio che non si attenga a tale disposizione, se una
delle due parti denuncia la situazione, ordiniamo che non
possa in alcun modo restare valido. Dal giorno del fidanzamento fino al giorno delle nozze non si devono attendere
più di due anni nel caso ci sia un onesto e opportuno con-
59
Le donne nell’alto Medioevo
senso della volontà o dei parenti o dei cognati o certamente
anche degli stessi sposi, se già hanno raggiunto l’età opportuna. Se invece si decidesse con volontà comune di lasciare
immutati in questo contratto i patti già intercorsi ossia il
prolungamento del tempo di fidanzamento, o se per necessità una sola persona venisse meno, il prolungamento dovrà
essere contenuto in non più di due anni di tempo. E se si
convenisse di fare al contrario o di prolungare più volte,
resterà sempre il biennio come massima dilazione consentita. Diversamente non avranno valore neppure le cerimonie
perfezionate dal versamento delle arre e dalla firma dei
contratti. Se qualcuno, dopo aver correttamente stabilito il
momento del perfezionamento del contratto, a meno di
necessità o di consenso della volontà, volesse rescindere il
contratto e venisse meno la sua volontà di ottemperare alla
promessa coniugale, paghi la pena prevista nel placito e
non sia comunque lecito mutare ciò che è stato stabilito. La
donna poi che abbia già avuto uno o più mariti, dopo la
morte di tali uomini non potrà sposarsi con un altro uomo
che sia adolescente, sia che egli non abbia mai avuto
moglie, sia che egli abbia stretto una o più unioni matrimoniali, neppure se lo sposasse in modo onesto e secondo la
legge.28
28
Testo tratto e tradotto da Lex Visigothorum, III, 1, 4, pp. 124-126.
60
La parola alle fonti
2.2.6 Il divorzio: una diffusa e inaccettabile realtà
a) Motivi legittimi e no
Leggi di Grimoaldo (668)
Delle mogli ripudiate
Se qualcuno trascura la propria moglie senza che abbia
commesso una colpa grave, e ne fa venire un’altra in casa,
paghi una composizione di 500 solidi, metà al re e metà ai
parenti della donna; perda inoltre il mundio della donna
che ha trascurato. E se la donna non vorrà ritornare da suo
marito, torni invece presso i suoi parenti con i suoi beni e il
suo mundio.
Dell’accusa contro la moglie
Se qualcuno accusa la propria moglie, intenzionalmente,
senza un legittimo motivo, come se avesse commesso adulterio o tramato contro la vita del marito, sia consentito a
quella donna di discolparsi tramite il giuramento dei
parenti o un duello. E se fosse scagionata, allora suo marito presti giuramento con i suoi parenti legittimi, facendo
lui stesso da dodicesimo, di non averle mosso tale accusa
deliberatamente e con dolo per poterla lasciare, ma di aver
udito queste parole come un sospetto fondato, e se farà
ciò, sia assolto dalla colpa. Se invece non osasse giurare,
paghi il guidrigildo della donna come se avesse ucciso il
fratello di lei, metà al re e metà ai parenti della donna.
Se una donna, o una ragazza, viene a sapere che uno ha
moglie e la scavalca e le porta via il marito che non è suo: ordiniamo che perda tutti i suoi beni quella donna che pur sapendolo, ha dato il proprio consenso di sua volontà al marito di un’altra; e la metà dei suoi beni prenda la corte regia,
l’altra metà i parenti. E quella prima donna suo marito la
riprenda e abbia cura di lei come si deve nei confronti di
una moglie legittima. Colei che ha osato farsi avanti, sca-
61
Le donne nell’alto Medioevo
valcando una moglie altrui, la consideri colpa propria e
non le sia pagata alcuna composizione e non si ricerchi la
faida.29
b) La Chiesa: per nessun motivo
Incmaro di Reims, De divortio Lotharii regis (860)
Tuttavia, non leggiamo forse in un lungo libello sinodale
che la femmina deve essere separata dal suo coniuge solo
in un’assemblea o che non sia lecito essere sciolti dal vincolo coniugale senza un pubblico giudizio inquisitorio?
Spesso, infatti, sopportiamo donne vocianti che, con grande improntitudine, alcune con un giuramento, altre, la
maggior parte, con un lungo libello, si affannano a dimostrare che gli uomini ai quali sono legittimamente legate
non sono in grado di soddisfare il debito coniugale e
oppongono altre molteplici menzogne. Quelli poi, al contrario, affermano che esse mentono, così come prova l’esito della causa in molti casi. Ma anche gli uomini sono soliti
lanciare contro le donne molteplici accuse che riteniamo
orribile, oltre che superfluo, inserire qui; se a tali cose concedessimo un facile assenso, un’immensa turba di separati
violerebbe le legittime unioni coniugali così come Dio le
ha instituite, perché nel caso in cui sia gli uomini sia le
donne lascivi potessero sciogliersi dal vincolo coniugale in
qualunque modo volessero, così da potersi legare con altri
legami coniugali o accoppiarsi con rapporti furtivi, con
grande gioia si separerebbero di mutuo accordo, così come
possiamo ben vedere nelle vedove adolescenti, persino in
quelle che dopo la morte dei mariti prendono il sacro velo,
che, senza pudore, abusano di molti e diversi uomini. Ma,
Testi tratti da Le leggi dei Longobardi, cit., Leggi di Grimoaldo, nn. 6, 7, 8,
pp. 133 e 135.
29
62
La parola alle fonti
allo stesso modo, gli uomini si astengono dalla legittima
unione coniugale per praticare amplessi con molte e diverse concubine. Prevedendo, grazie allo spirito santo, tali
situazioni e insegnando a evitare, fra le altre cose, anche
situazioni di tal fatta, l’apostolo afferma «Voglio che le vedove più giovani si sposino, che abbiano figli e che diventino madri di famiglia».
Ragion per cui, in modo assai cauto e prudente, la discrezione disciplinatrice dell’autorità ecclesiastica ha provveduto affinché con la consapevolezza del valore di testimonianza che deriva da chi officia il ministerio sacro, gli uomini di
chiesa possano astenersi e dedicarsi ai degni frutti della
penitenza, perché in tale occupazione non possa insorgere
alcuna occasione di voluttà e furbizia, ma piuttosto la devozione della sola umiltà e della salvezza.
Tuttavia l’uomo e la donna, dato che il sacro verbo afferma
che ora non sono più due ma una sola carne, non possono
separarsi né con un giuramento segreto, né con un lungo
libello, dato che è stato scritto: «Ciò che Dio ha unito, l’uomo non separi», né in qualunque altro modo se non un
palese atto di infedeltà, e qualora fossero pure separati così
(liberi da ogni altro vincolo) rimangano o di comune accordo si rappacifichino, né possano separarsi in modo tale
che una sola parte dell’unico corpo formato dall’uomo e
dalla donna mantenga la continenza mentre l’altra parte permanga nel peccato della carne. Possono tuttavia di comune
accordo, ancor più uniti, astenersi dai rapporti sessuali, così
da essere liberi di accogliere, grazie alla continenza, l’amore
perpetuo di Dio.30
30
Testo tratto e tradotto da Hinkmar von Reims, De divortio Lotharii regis,
cit., pp. 128-129.
63
Le donne nell’alto Medioevo
2.3 Non generare: la vita religiosa
Non fare figli, in condizioni di normale capacità procreativa, è
oggi una scelta possibile per le donne, anche se considerata
socialmente riprovevole, segno di egoismo profondo e di manifesta incapacità di dedizione e sacrificio, quando non addirittura di
celate turbe psichiche. Insomma, una scelta possibile ma non
facile: al punto che nel mondo anglosassone, a partire dagli anni
settanta del Novecento, si è sentito il bisogno di creare un’associazione – ora nota come “Child free” – che si propone per statuto di offrire sostegno, informazione e aiuto a coloro che decidano
di dedicare il proprio tempo e le proprie energie di adulti ad
altro che non sia generare e allevare bambini.
Fare o non fare figli era una domanda che si potevano porre le
donne protagoniste della nostra storia e, se sì, era una scelta che
avevano facoltà di fare? Quali modelli avevano di fronte le bambine che assai presto, abbiamo visto, potevano essere date in
moglie dai genitori, quali alternative possibili alla maternità e alla
soggezione personale e patrimoniale al marito?
Le fonti che abbiamo scelto testimoniano che la domanda loro
posta è pienamente ammissibile. Fin dai primi secoli cristiani la
scelta della vita religiosa fu molto popolare presso le donne: era
una scelta socialmente accettabile, eticamente ammissibile, anzi,
resa eroica dalle privazioni della castità. Ida Magli, nei primi anni
settanta, ha osservato che «la donna è tanto più connessa con la
vita religiosa quanto più è libera e disponibile nella vita sociale,
in quanto la funzione matrimoniale e materna determina fortissime limitazioni allo sviluppo della sua personalità». Se è vero che,
per gli uomini come per le donne, la scelta della vita monastica
sottintendeva un rifiuto del mondo, per le donne in particolare
costituiva però l’unica via lecita per sottrarsi alla propria condizione di soggezione.
Una via che si legittimava attraverso la scelta della castità. Rosvita, l’autrice cui dobbiamo la nostra prima fonte e di cui parleremo a lungo più avanti, una canonichessa* che apparteneva al
cenobio sassone di Gandersheim, illustra con pienezza nel dialogo teatrale quanto voleva fosse percepita come eversiva la scelta
64
La parola alle fonti
femminile di rifiutare il matrimonio e di fondare o soltanto aderire a comunità indipendenti. L’arrivo a Roma di Sapienza e delle
sue figlie e il loro successo presso le donne di quella città viene
infatti interpretato dai due personaggi maschili quale un pericolo: Rosvita reimpiega così in forme nuove materiali della tradizione martiriologica, sottolineandone aspetti sociali vicini alle scelte
sue e delle sue consorelle. Una castità che corrispondeva a una
scelta, prima ancora che a una concreta condizione fisica, concetto che Rosvita sottolinea più volte, sia che la scelta personale
femminile venga attaccata con la violenza fisica, sia con la necessità sociale del matrimonio.
La scelta del matrimonio poteva non apparire sempre come la
migliore possibile per una donna fornita di copiosi mezzi e di
formazione adeguata: l’esempio di Gerberga narrato nel poema
di Rosvita dedicato alle origini del monastero di Gandersheim
mostra che, sia pure con un fattivo aiuto di Dio, la volontà di sottrarsi al matrimonio poteva avere successo. Così come poteva
averlo la scelta di evitare seconde nozze, ritagliandosi quella condizione di buona indipendenza personale consentita dalla vedovanza, spesso, forse non a caso, interpretata quale manifestazione
del “favore divino” nelle scritture femminili dell’epoca. La vita
associata fra donne, oltre a consentire di condurre una produttiva vita di relazione, le rendeva libere di agire in campi del sapere,
della politica e dell’azione economica, che altrimenti erano loro
sostanzialmente preclusi.
La stessa Chiesa, in fin dei conti, con la proposta di un modello
femminile ideale ambiguo e irraggiungibile quale quello di Maria,
allo stesso tempo madre e vergine, un modello nato nelle strettoie
dialettiche delle dispute cristologiche dei primi secoli del cristianesimo ma progressivamente dotato di forza propria, contribuiva
a creare una scappatoia legittima alle donne che fossero in grado
di perseguirla.
Al rifiuto del matrimonio poteva pertanto associarsi pure il
rifiuto della maternità, difficile da trovare espresso chiaramente a
parole, ma di cui mi pare esplicita manifestazione la rappresentazione della Natività che si trova nel codice di Hitda, un evangeliario realizzato fra il 1000 e il 1020 per la badessa omonima delle
65
Le donne nell’alto Medioevo
canonichesse di Meschede, in Westfalia. È un codice importante
perché segna una tappa estremamente originale nelle rappresentazioni evangeliche ed è considerato il capolavoro della cosiddetta
scuola di Colonia; è anonimo e, nonostante la provenienza da un
cenobio femminile e l’esplicita segnalazione della committenza, è
stato senz’altro attribuito a un “maestro di Hitda”. L’insieme delle
miniature offre però un’insistita ricerca della centralità del ruolo
femminile nelle azioni, insistita al punto da variare, e in modo
vistoso, la tradizione rappresentativa di alcune scene topiche,
quali la lapidazione dell’adultera, la resurrezione del figlio ecc.
Ma è senz’altro la rappresentazione della Natività il soggetto più
anomalo: origina da una scelta compositiva che si nutre di due
diverse tradizioni e, mescolandole, propone una composizione
completamente originale. Attraverso il matrimonio di Ottone II
con Teofano, moduli e modelli dell’arte bizantina ebbero occasione di circolare con maggior frequenza e incisività presso la corte
sassone. Nella tradizione bizantina la scena della Natività non
rappresenta la Sacra Famiglia, che è un modello occidentale, ma
piuttosto un insieme di scene fortemente simboliche che hanno
come fulcro la rappresentazione della “madre di Dio”. In tali
icone la madre è al centro, la sua figura è di proporzioni enormi
rispetto alle altre e appare rinchiusa in se stessa: un atteggiamento
volto a rappresentare lo stupore per l’accaduto insieme con la
preveggenza del dolore che ne seguirà. Giuseppe, in genere nell’angolo basso a sinistra, non è solo bensì accompagnato da una
figura che rappresenta il demonio tentatore che instilla in lui il
dubbio sul prodigio di quella nascita. In basso a sinistra invece le
levatrici lavano il bambino, dando conto così della concreta natura umana del nuovo nato che, dentro alla mangiatoia e nella grotta, alle spalle della madre, è riscaldato dal bue e dall’asino, ed è
fasciato in modo tale da rappresentare insieme l’immagine della
nuova vita e della morte precoce e salvifica che lo attende. Gli
angeli, i Re Magi e i pastori, ogni gruppo a sé stante, completano
il quadro, che assomma in una sola immagine tutti i dettagli narrativi propri dei vangeli cosiddetti apocrifi. Chi compose l’immagine del codice di Hitda mescola coscientemente i canoni dell’arte
occidentale con quelli di questa icona: elimina tutti i comprimari e
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La parola alle fonti
seleziona soltanto i personaggi del sacro quadro familiare, madre,
padre e bambino. Lascia il bambino in compagnia dei due animali
che lo scaldano e inventa un isolamento completo per le altre due
figure che, fuori dal contesto iconografico complessivo, conservano solo questa rappresentazione di disperata solitudine individuale. Non c’è bisogno che Satana tenti Giuseppe: con le spalle
incurvate, l’espressione triste e la testa china, privo di aureola,
conserva solo un piedistallo a rappresentarne l’importanza gerarchica, in un ruolo paterno che non riesce a esprimere relazione
umana. La madre di Dio resta grandissima rispetto alle altre figure ma non è più il centro mistico della scena: è portata in primissimo piano e il suo sguardo desolatamente triste incontra per primo
quello di chi guarda. Attraverso brandelli della tradizione iconografica bizantina, rimontati ad arte e tolti dal loro contesto simbolico originario, chi disegnò questa immagine volle esprimere con
grande forza espressiva tutti gli aspetti negativi dell’esperienza
della maternità, dalla depressione post-partum alla forzata emarginazione sociale che l’esperienza impone: aspetti che la cultura
retorica diffusa nell’Occidente cristiano, non solo in quei secoli, è
sempre stata attenta a occultare e negare. Concepita in un ambiente tutto femminile formato da donne che, in buona misura,
quella esperienza potevano aver vissuta prima di aderire alla vita
religiosa, poteva servire da monito per le appartenenti alla comunità che, in età più giovane, ancora dovevano operare scelte importanti per la loro vita futura.
Certo la castità è una scelta che può comportare problemi e
sofferenze, anche fisiche: di esse si occupa Trotula di Ruggero,
consigliando rimedi che intendevano alleviarle ma che, prima ancora, mostra attenzione a un disagio che doveva essere diffuso.
Altri rimedi, meno artificiosi e più comuni, si può immaginare
fossero le pratiche contro cui non esita a scagliarsi il vescovo Incmaro di Reims.
A margine dell’idealizzazione della castità come strumento
forte per creare un’identità comunitaria nei monasteri e nelle
canoniche femminili, merita attenzione la riproposizione del mito
delle Amazzoni. Un mito noto attraverso i testi che mediavano
all’alto Medioevo occidentale la tradizione classica, soprattutto
67
Le donne nell’alto Medioevo
quelli di Isidoro di Siviglia e Paolo Orosio, e noto pure in una
versione più largamente narrativa sicuramente dal X secolo in
avanti, quando l’arciprete Leone di Napoli tradusse dal greco in
latino il Romanzo di Alessandro, dove un lungo episodio è dedicato all’incontro del re macedone con quelle donne dai costumi
singolari. Nella tradizione narrativa del regno dei longobardi il
mito della Amazzoni si riproponeva in forme che Paolo Diacono,
l’intellettuale che diede forma scritta a quella tradizione sul finire
del secolo VIII con l’Historia Langobardorum, sottopone a un vaglio critico: non discute però della verosimiglianza del mito, ma
della possibilità cronologica che un re longobardo abbia potuto
combattere contro le Amazzoni: dovevano essersi estinte da un
pezzo, afferma Paolo, che aggiunge peraltro di aver sentito voci
della sopravvivenza di una tribù di quelle donne ancora nel
mondo a lui contemporaneo, nella lontana Germania del Nord.
Della rivalutazione identitaria di tale mito si può identificare una
chiara traccia in una grande lastra di marmo che raffigura in bassorilievo La battaglia delle Amazzoni. La lastra risale ai primi decenni
del III secolo d.C. e faceva parte di un sarcofago riconducibile a
una produzione attica, la regione di Atene specializzata nella realizzazione di rilievi marmorei con scene di battaglie mitologiche,
destinati a una committenza alta e diffusi in tutto il Mediterraneo
tra il II e il III secolo d.C. La grande lastra, giunta a noi quasi integra, fu reimpiegata e incassata nel pavimento presso l’ingresso
della navata principale della chiesa di San Salvatore di Brescia, alla
metà del secolo VIII, all’epoca cioè della fondazione di questo
monastero femminile da parte di re Desiderio e della regina Ansa.
Essi, in un momento di grave difficoltà del regno longobardo che
di lì a poco sarebbe caduto nelle mani dei franchi, raccolsero gran
parte dei beni pubblici del regno nel patrimonio di quel monastero
e lo affidarono alla loro figlia Anselperga, designata prima badessa
di quella comunità. La Battaglia delle Amazzoni, proprio all’ingresso della chiesa, non poteva non apparire un chiaro monito simbolico a chi vi accedesse: si entrava nella sede di una comunità di guerriere, pronte a difendere anche con la forza quanto del regno era
stato loro affidato.
Le leggi dei longobardi, soprattutto quelle di Liutprando, la-
68
La parola alle fonti
sciano intravedere una volontà del legislatore di contrastare un
costume che doveva essere piuttosto diffuso, ossia l’uso delle vedove di prendere il velo senza pronunciare i voti, lasciandosi così
aperta la possibilità di contrarre seconde nozze o, più semplicemente, di gestire il proprio mundio e almeno parte del proprio
patrimonio in modo indipendente. Il legislatore interviene con una
severità che lascia intendere la volontà sottesa di tutelare i diritti
patrimoniali dei figli e, insieme, di precludere una pratica volta ad
assicurare una sostanziale autonomia delle vedove. Oltralpe, con
una forte concentrazione nell’Europa centrosettentrionale, in Lotaringia e in Sassonia, erano numerose le comunità femminili che
non seguivano la regola monacale: le donne che compivano tale
scelta erano dette sactimoniales, e la storiografia le identifica
come canonichesse. Di estrazione sociale elevata, dotate di un
cospicuo patrimonio personale, godevano di un’ampia libertà di
movimento, vivevano in abitazioni proprie con la cura dei loro
servi, mettevano a frutto il loro patrimonio, continuavano a indossare ricchi abiti laici; ricevevano visite da uomini e donne,
uscivano liberamente, erano dedite alla lettura, allo studio, continuavano a partecipare alla vita di società. Anche in questo caso,
come abbiamo visto per le vedove velate del regno dei longobardi, una condizione ambigua dal punto di vista religioso, una risorsa per l’indipendenza femminile, alla quale si cerca di imporre
regole con il Concilio di Aquisgrana dell’816, quando fu dettata
una complessa regola che richiamava le religiose alla vita comune, all’isolamento, a un vitto e a un abbigliamento di privazione.
Richiami troppo insistiti per non riferirsi a usi diffusi: la stessa
regola che intende imporre limiti leciti al consumo di alimenti e
alla qualità delle vesti, con la sua insistita attenzione sulle quantità giornaliere di alcolici destinati alle religiose – un minimo di
un litro di vino a testa o, dove ci fosse penuria, una ancora più
abbondante fornitura di birra – non può che infrangere l’immaginario comune in merito alla vita claustrale femminile.
Molte comunità monastiche femminili, infine, ottennero fra i
secoli IX e X l’immunità* regia. Ciò significava che il monastero
stesso e tutti i vasti possessi fondiari che entravano nel suo patrimonio, insieme con i dipendenti, liberi o servi che fossero, diven-
69
Le donne nell’alto Medioevo
tavano esenti dalla giurisdizione di conti e marchesi: l’amministrazione della giustizia, la riscossione delle imposte, la stessa leva
militare dipendevano così dalla comunità femminile che ne era
titolare, guidata dalla badessa coadiuvata da uno o più vassalli.
Le comunità di monache e di canonichesse lottarono per ottenere tale privilegio al pari delle comunità maschili, così come combatterono per ottenere il diritto di eleggere autonomamente la
propria badessa: una serie di privilegi che solo a partire dal secolo XI furono messi in discussione.
Bibliografia
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Althoff G. [1991], Gandersheim und Quedlinburg. Ottonische Frauenklöster als Herrschaftsun-düberlieferungszentren, in “Frühmittelalterliche
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Parisse M. [1978], Les chanoinesses dans l’Empire germanique (IX-XIe
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Frühen Mittelalter, a c. di W. Affeldt, A. Kuhn, Patmos Verlag, Düsseldorf, pp. 309-324.
— [1993], Des veuves au monastère, in Veuves et veuvage dans le haut
Moyen Âge, a c. di M. Parisse, Picard, Paris, pp. 255-277.
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La parola alle fonti
2.3.1 Sulla castità
a) Un pericolo sociale?
Rosvita, Martirio delle sante vergini Fede, Speranza e Carità (963 ca.)
Antioco: Una donna straniera, è arrivata da poco a Roma,
insieme con le sue tre creaturine.
Adriano: Di che sesso sono queste creaturine?
Antioco: Tutte femmine.
Adriano: E l’arrivo di un gruppo sparuto di donnette è così pericoloso per lo stato?
Antioco: Pericolosissimo.
Adriano: In che senso?
Antioco: Insidia la pace.
Adriano: E come?
Antioco: C’è qualcosa in grado di turbare la pacifica concordia fra i cittadini più della diversità di culto?
Adriano: No, non c’è niente di peggio e di più grave; lo
dimostra il mondo romano da quando la peste mortale
degli sporchi cristiani lo ha infettato in ogni punto.
Antioco: La donna di cui ti parlo spinge le nostre concittadine ad abbandonare i culti degli avi e ad abbracciare la
religione cristiana.
Adriano: Con risultati concreti?
Antioco: Sin troppo buoni; le nostre mogli provano repulsione per noi e ci disprezzano tanto da rifiutarsi di mangiare e persino di dormire insieme a noi.
Adriano: Sono d’accordo: è un pericolo.
Antioco: Ti conviene stare in guardia.31
31
Testo tratto da Rosvita, Dialoghi drammatici, a c. di F. Bertini, Milano 1986,
Martirio delle sante vergini Fede, Speranza e Carità, scena I, 3-5, pp. 275 e 277.
71
Le donne nell’alto Medioevo
b) Uno stato dell’animo, non del corpo
Rosvita, Martirio delle sante vergini Agape, Chionia e Irene (963 ca.)
Soldati: Eccola.
Sisinnio: Inorridisci, Irene, dinanzi alla fine delle tue sorelle e cerca di non morire anche tu, seguendone l’esempio.
Irene: Ma io voglio seguirne l’esempio e morire per meritare con loro la gioia eterna.
Sisinnio: Piegati, piegati al mio consiglio.
Irene: Non mi piegherò a uno che mi consiglia un crimine.
Sisinnio: Se non ti pieghi, non ti riserbo una fine rapida: la
prolungherò, moltiplicando i supplizi, inventandomene
ogni giorno di nuovi.
Irene: Più feroce è il supplizio, più in alto si leverà la mia
gloria.
Sisinnio: Non temi le torture? Ne sperimenterò una orribile per te.
Irene: Infliggimi la pena che vuoi: Cristo mi aiuterà a salvarmi.
Sisinnio: Ti assegnerò a un postribolo, dove il tuo corpo
sarà insozzato turpemente.
Irene: Meglio un corpo contaminato da non importa quali
oltraggi, che un’anima corrotta dagli idoli pagani.
Sisinnio: Associata alle prostitute, contaminata, come potrai
far parte della comunità delle vergini?
Irene: Il piacere porta il dolore; la necessità la corona del
martirio. Si considera tale la colpa solo se c’è il consenso
dell’animo.
Sisinnio (ai soldati): È stato inutile da parte mia tentare di
salvarla, provare compassione per la sua giovane età.32
Testo tratto da Rosvita, Dialoghi drammatici, cit., Martirio delle sante vergini Agape, Chionia e Irene, scena XII, 1-4, p. 103.
32
72
La parola alle fonti
c) Il rifiuto del matrimonio
Rosvita, Le origini del monastero di Gandersheim (970 ca.)
Gerberga era stata promessa in matrimonio a un uomo nobile
e straordinariamente potente, di nome Bernardo; ella però di
sua spontanea volontà si era consacrata in segreto a Cristo,
prendendo il sacro velo, mossa da un fervente amore per lo
sposo celeste e da un profondo disprezzo invece, in cuor suo,
per uno sposo mortale. Tuttavia, per evitare lo screzio, non poté rinunciare subito ai suoi abiti risplendenti d’oro, ma continuava a indossare i consueti vestiti preziosi.
Giunse un giorno colui che la sposa di Dio aveva respinto,
chiedendo di avere con lei un chiaro e schietto colloquio; aveva
infatti appreso per sentito dire che ella voleva conservare in
castità la sua purezza verginale, perché aveva spontaneamente
pronunciato un voto. Poiché ella esitava e non voleva passare
dalle parole ai fatti in tempi brevi, egli aveva in tremendo timore che ciò che aveva sentito dire in precedenza fosse vero; e
insofferente per il ritardo, supplicò la signora Oda finché ella
ordinò alla figlia di presentarsi splendidamente abbigliata nella
sfarzosa eleganza del suo vestito prezioso, adorna di monili
tempestati di gemme, secondo il costume delle promesse spose.
Appena Bernardo vide la donna oggetto dei suoi desideri, si
racconta che con queste parole chiese un chiarimento alla sua
cara amica: «Non poche volte ho sentito dire, circola infatti
tale voce malevola, che tu vorresti infrangere il nostro patto e
sciogliere l’indissolubile impegno di fedeltà contratto. Adesso
però io, per ordine del re, nostro signore, sono costretto a prepararmi in fretta per la guerra imminente; non è quindi questo
il momento giusto per discuterne. Certamente, se ritornerò
incolume e in piena salute, sappi senz’ombra di dubbio che ti
sposerò e che considererò del tutto inutile il tuo voto».
Così disse e, palesemente turbato, levata la mano destra giura
sulla spada e anche sul suo chiaro, tenero collo, di tradurre in
realtà per quanto fosse nelle sue possibilità, quanto aveva
appena affermato. Allora in risposta, Gerberga gli disse, con
contegno pudico: «Io affido tutta me stessa e anche la mia vita
73
Le donne nell’alto Medioevo
a Cristo e chiedo che Dio faccia di me quello che risponde alla
sua volontà». Così, terminato questo colloquio con questo
scambio di battute, Bernardo partì subito e presto si rese
conto della sua sventura che nessun superbo può nulla contro
Dio e poiché aveva peccato più del lecito con quelle vane e
fatue affermazioni, morì in battaglia vinto dalla potenza divina.
E la vergine si congiunse subito nell’amore con Cristo, fidanzato celeste, che aveva sempre amato castamente.33
d) Il rifiuto della maternità
Codice di Hitda, Natività (1000-1020)
Evangeliario
della badessa Hitda,
La natività, 1000-1020 ca.,
miniatura.
Darmstadt, Hessische
Landesbibliothek,
Hs. 1640, fol. 21r
33
Testo tratto e tradotto da Rosvita di Gandersheim, Le origini del monastero
di Gandersheim, in Rosvita, Poemetti agiografici e storici, a c. di L. Robertini,
M. Giovini, Alessandria 2004, pp. 439-472.
74
La parola alle fonti
e) Sofferenze e rimedi
Trotula de Ruggiero, Sulle malattie delle donne (metà sec. XI)
Vi sono donne che si astengono dai rapporti sessuali o perché
hanno fatto un voto, o perché impedite dalla loro condizione
di monache o di vedove. A talune, infatti, non è consentito
passare a una condizione diversa. E poiché desiderano avere
rapporti sessuali, sono afflitte da gravi sofferenze a causa dell’astinenza. Si applichi loro questo rimedio. Prendi lana imbevuta di olio di muschio o di menta e applicala alla vulva. Se
quest’olio non è disponibile, prendi trifera magna, scioglila
con un po’ di vino caldo e introduci nella vulva con bambagia
o lana appena tosata. Tale rimedio smorza efficacemente il
desiderio sessuale e la lussuria, calmando dolori e pruriti.
Bada che, in questo caso, non si deve applicare nessun pessario, affinché l’utero costretto da una lunga astinenza non sia
danneggiato. La bocca dell’utero, infatti, si unisce alla vulva
come le labbra alla cavità orale, se non si concepisce mai.34
f) Rimedi diversi
Incmaro di Reims, De divortio Lotharii regis (860)
Hanno desideri sordidi persino le donne, come scrive Ambrogio nell’esposizione del pensiero dell’Apostolo, che fanno
cose turpi alle donne. Ed esse mettono la carne nella carne,
non però la carne della parte genitale nella carne dell’altra,
cosa che la natura impedisce; invece mutano l’uso naturale di
questa parte del corpo in quell’uso che è contro natura: e si
dice che usino certi ordigni opera del diavolo allo scopo di
far ribollire la libidine.35
34
Testo tratto da Trotula de Ruggiero, Sulle malattie delle donne, a c. di P.
Cavallo Boggi, Torino 1979, pp. 42-43.
35
Testo tratto e tradotto da Hinkmar von Reims, De divortio Lotharii, cit., p. 180.
75
Le donne nell’alto Medioevo
2.3.2 Il mito delle Amazzoni
a) La tradizione
Isidoro di Siviglia, Etimologie o origini (620 ca.)
Le Amazzoni furono così chiamate o perché vivevano insieme senza maschi, quasi a dire ©ma zÒn, il che significa
“vivendo insieme”, ovvero perché avevano la mammella
destra bruciata per agevolare il lancio delle frecce, quasi a
dire ©neu mazo„, il che significa “senza mammella”. Lo
stesso Tiziano36 dice che le Amazzoni non esistono più in
quanto parte di esse fu distrutta da Ercole, parte da Achille o Alessandro, sino allo sterminio completo.37
b) Echi della tradizione
Paolo Diacono, Storia dei Longobardi (787-789)
Si racconta che una volta i Longobardi, mentre erano in
marcia con il loro re, giunsero alla riva di un fiume; impediti dalle Amazzoni di procedere oltre, Lamissione a nuoto
andò a combattere in mezzo alla corrente con la più forte di
esse e la uccise, procurando a se stesso il vanto della gloria
e ai Longobardi il passaggio. Infatti fra le due schiere si era
stabilito in precedenza questo: se l’amazzone avesse vinto
Lamissione, i Longobardi si sarebbero ritirati dal fiume; ma
se, come avvenne, essa fosse stata vinta, ai Longobardi sarebbe stato concesso il diritto di attraversare quelle correnti. Tuttavia la cronologia di questo racconto risulta avere
scarso fondamento di verità. Infatti, a tutti coloro che cono-
36
Giulio Tiziano fu uno scrittore latino del II secolo d.C. che aveva scritto
un’opera sulle province dell’impero citata frequentemente dagli autori antichi
ma per noi perduta.
37
Testo tratto da Isidoro di Siviglia, Etimologie o origini, cit., IX, II, 64, p. 719.
76
La parola alle fonti
scono le antiche storie, consta che la stirpe delle Amazzoni
fu distrutta assai prima di quando poterono accadere questi
fatti; a meno di pensare che, siccome i luoghi nei quali la
tradizione li colloca non erano molto noti agli storici e a
stento sono stati ricordati da qualcuno, in essi sia potuta sopravvivere la stirpe di tali donne. Anch’io ho sentito dire
infatti da certuni che ancora oggi nelle regioni più interne
della Germania vive una tribù di queste donne.38
c) Violenza a mano armata: l’impensabile
Editto di Rotari (643)
Sull’hoberos, ossia l’irruzione a mano armata in una proprietà. Una donna non può fare irruzione a mano armata in
una proprietà, ossia un hoberos, perché appare assurdo che
una donna o una fanciulla di condizione libera possano
esercitare violenza con le armi, come se fossero uomini.39
38
Testo tratto da Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, traduzione e note di
A. Zanella, Rizzoli, Milano 1991, I, 15, p. 169.
39
Testo tratto da Le leggi dei Longobardi, cit., Editto di Rotari, n. 278, p. 85.
77
Le donne nell’alto Medioevo
d) La battaglia delle Amazzoni
Fronte di sarcofago con Amazzonomachia, particolare, da Salonicco o Asia
Minore, III secolo d.C., marmo proconesso. Brescia, Santa Giulia-Museo della
Città (già nella basilica di San Salvatore).
78
La parola alle fonti
2.3.3 Vantaggi della vita religiosa
a) Indipendenza personale: il velo senza voti
Leggi di Liutprando (723)
In merito a quelle donne che prendono il velo della santa
religione o che sono votate a Dio dai loro parenti o che scelgono autonomamente di indossare l’abito religioso o la
veste monastica, anche nel caso in cui non siano state consacrate da un sacerdote a noi pare lo stesso giusto per l’amore
di Dio che continuino a indossare quell’abito, e che non sia
giustificabile la colpa di quegli uomini che dicono: «Dato
che non sono consacrate, se si accoppiano non hanno colpa». Ma, come abbiamo premesso sopra, quelle che, per
qualunque motivo, decidano di indossare tali segni, cioè il
velo o la santa veste di Maria madre di Dio, non osino poi
in alcun modo far ritorno alla vita o all’abito secolare. Perché ogni cristiano deve considerare che se chiunque di condizione secolare contrae matrimonio con una donna egualmente di condizione secolare, con un solo anello la impegna
e la fa sua, e se poi un altro uomo la prende in moglie, quest’ultimo è condannato a pagare 600 solidi. Quanto più
grande quindi deve essere la causa di Dio e di Maria santa,
tanto che chi indossa il velo o l’abito deve mantenerli per
sempre. Ma se una donna agisce contro questa norma che è
stata istituita dalla nostra eccellenza e si congiunge con un
marito, perda tutto il suo patrimonio in favore del palazzo
regio; riguardo il destino personale di quella donna che ha
commesso tale azione malvagia, giudichi il re regnante in
quel tempo a suo piacimento: la mandi in monastero o faccia ciò che ritiene meglio secondo Dio. Allo stesso modo, il
principe disponga come gli piaccia riguardo al suo vitto e ai
suoi abiti.
Se poi l’uomo sotto il cui mundio si trova la donna ha dato
il suo consenso alla suddetta azione malvagia, e ciò viene
provato, paghi come composizione il suo guidrigildo; e
79
Le donne nell’alto Medioevo
colui che ha osato prenderla paghi una composizione di
600 solidi al palazzo. Se invece il mundoaldo non ha dato
il suo consenso a quell’azione malvagia, riceva egli stesso
metà di quei 600 solidi e metà il re. Chi rapisce una donna
in tale stato paghi una composizione di 1000 solidi, in
modo che la causa di Dio sia superiore di 100 solidi, dato
che nell’editto si legge che la composizione per il rapimento di una donna laica è di 900 solidi. Colei che non osserva
quanto si legge sopra e dà il suo consenso alla suddetta
azione malvagia subisca la pena stabilita sopra.40
b) Agiatezza e socialità
Concilium Aquisgranense (816)
Come le religiose debbano ricevere le quote necessarie al
loro sostentamento
Poiché è palesemente certo che nessuna badessa possa
attribuire in modo negligente e con pigrizia alle sue sottoposte quanto necessario per il sostentamento quotidiano, in
modo assai opportuno e soprattutto ragionevole è stato
deciso che in ogni monastero femminile nel quale si viva
secondo la norma canonicale, ciascuna religiosa riceva ogni
giorno tre libbre di pane e, in quelle regioni che sono produttrici di vino, tre libbre di vino, a meno che una carestia
temporaneamente non lo impedisca; se invece tale regione
non fosse pienamente ferace nella produzione vinicola, due
libbre di vino e due di birra e, se fosse invece assai poco
produttiva di vino, tre libbre di birra e una di vino, se la disponibilità lo permette. In canoniche piccoline, però, ricevano due libbre di vino e se tale regione, come si è già detto
sopra, non fosse feconda di vino, due libbre di birra e,
40
Testo tratto da Le leggi dei Longobardi, cit., Leggi di Liutprando, n. 30, pp.
159 e 160.
80
La parola alle fonti
disponibilità permettendo, una libbra di vino. Sia loro consentito in quelle regioni dove manca abbondanza di vino e
dove tuttavia abbondino altri generi di ricchezze che il Signore attribuisce alla santa chiesa di Dio, procurarsi vino
dalle altre province grazie ai suddetti proventi e possano
dunque le badesse con legittima facoltà procurarsi tali
bevande per loro stesse e per le loro sottoposte. Nei luoghi
invece dove i beni della chiesa fossero assai limitati oppure,
a causa del prelievo di altri, con redditi fortemente ridotti,
sia comunque concesso ugualmente quanto suddetto, in
modo tale che sia possibile dare senza difficoltà per lo meno la quantità più piccola che abbiamo sopra indicata. In
quei luoghi poi dove alcune badesse che imitano l’esempio
delle pie elette fossero solite dare di più alle sottoposte, in
nessun modo omettano di fare il buono che già fanno. Ma
anche, se qualcuna preferisse distribuire assai di più alle
sottoposte per meritare un’eterna retribuzione, assegni ciò
che potrà con animo lieto, e comunque in nessun modo le
privi della giusta misura suddetta. Nei giorni festivi poi,
così come è consuetudine della chiesa, amministrino come
meglio riescano le retribuzioni alle religiose. E così l’operosità delle badesse deve vigilare in modo assai sollecito
anche nelle cibarie da distribuire loro, in modo tale che, a
seconda delle possibilità, siano assegnati loro carne, pesce,
legumi e verdure, legna e tutte le altre cose necessarie, e,
sostenute con queste, si conservino più pronte al servizio di
Dio. Pertanto le badesse devono anche organizzare luoghi
tali da potervi nutrire in modo completamente acconcio il
bestiame minuto ed da potervi coltivare orti per far crescere le erbe da cui trarre il cibo, fatta eccezione per quelle che
ricevono i donativi delle aziende agricole della chiesa e le
elemosine. Facciano pertanto grande attenzione a che nessuna per la loro incuria o per loro colpa patisca nell’indigenza in modo tale da prevenire che sia la badessa sia le religiose cadano nell’errore del peccato di borbottare. Siano
anche presenti con loro nel refettorio, in modo tale che alle
religiose gli alimenti siano serviti con maggiore abbondanza
81
Le donne nell’alto Medioevo
e che, nel caso ci fosse meno da mangiare, lo si sopporti
insieme con animo più sereno, poiché, se prendendosi poca
cura della loro comunità si facessero preparare cibi più
allettanti nella propria residenza privata, fatta eccezione nel
caso in cui fossero ammalate o avessero ospiti, senza dubbio provocherebbero nelle loro sottoposte la colpa di malignare e borbottare. Diano anche loro tutti gli anni lana e lino con cui possano prepararsi gli indumenti necessari, fatta
eccezione per quelle che sono ammalate o troppo deboli e
che non possono per l’incapacità fisica prepararseli da sole
e per quelle che non vogliano possedere nulla di proprio,
per le quali si sforzino in modo misericordioso di procurare
tutto quanto il necessario. Ricevano infine tutte in parti
uguali quanto proviene dalle elemosine.41
c) Gestione autonoma dei propri beni
Leggi di Liutprando (728)
A nessuno sia concesso di far prendere il velo o di far
indossare l’abito monacale a una donna della quale abbia il
mundio prima di un anno dalla morte del marito. Se costei
di sua volontà dispone di fare così entro un anno, venga al
palazzo del re ed esponga il suo volere alla sua clemenza e,
una volta scrupolosamente interrogata ed esaminata dal re,
prenda con il suo permesso il velo della religione. Se però
qualcuno osa fare questo prima di un anno senza il permesso del re, paghi come composizione al re il proprio
guidrigildo; e il mundio della donna e i suoi beni personali
siano in potestà del palazzo. Chi cerca di fare questo prima
di un anno cerca di farlo per brama di denaro o per brama
41
Testo tratto e tradotto da Institutio sanctimonialium Aquisgranensis, in
Concilium Aquisgranense (a. 816), MGH, Concilia aevi carolini, I, a c. di A.
Werminghoff, Hannover-Lipsia 1906, pp. 421-456: cap. XIII, pp. 447-448.
82
La parola alle fonti
terrena e non per amore di Dio o per salvare la sua anima;
dal momento che, dopo la morte del marito, mentre il dolore è recente, si può far volgere l’animo di lei da che parte
si vuole. Ma quando è ben ripresa e sopraggiunge il piacere della carne e, cosa ben peggiore, cade in adulterio,
non è evidentemente monaca e non può essere laica. Se un
altro uomo qualsiasi, sotto il cui mundio ella non sia, osa
fare questo, paghi come composizione il proprio guidrigildo al sacro palazzo ed ella, con i suoi beni, sia in potestà
del suo mundoaldo.
Se una donna prende il velo della religione o, osservando
tutto quanto stabilito nel capitolo precedente, vuole entrare
in monastero, se ha figli, sotto il cui mundio ella si trova, o
delle figlie, entri in monastero con un terzo dei suoi beni
personali e, dopo la sua morte, questi beni rimangano al
monastero nel quale ella è entrata. Se invece non ha figli o
figlie, possa entrare in monastero con metà dei suoi beni, se
lo vuole, e, dopo la sua morte, quella metà rimanga in potestà del monastero. Se invece ella resta in casa, abbia potestà
di disporre un terzo dei suoi beni per la sua anima o a chi
vuole; due terzi dei suoi beni siano in potestà di colui cui
spetta il mundio su di lei.42
42
Testo tratto da Le leggi dei Longobardi, cit., Leggi di Liutprando, 100 e
101, p. 199.
83
Le donne nell’alto Medioevo
d) Indipendenza comunitaria: l’immunità
Diploma di Ottone I a Gandersheim (947)
Nel nome della santa e indivisibile Trinità. Ottone re con il
favore della divina clemenza. Sia noto all’attenzione di tutti i
nostri fedeli presenti così come futuri che noi, per meritare la
ricompensa eterna, doniamo al monastero di Gandersheim
dedicato in onore di santa Maria e di tutti i santi e costruito
dai nostri progenitori, l’immunità del nostro patrocinio, concedendo alle religiose di quel monastero il diritto di elezione43 e, attraverso questo precetto, confermiamo tutti i beni
che sono stati loro consegnati dai re che ci hanno preceduto,
ossia da Ludovico44 i possessi delle corti di Bad Tennstedt e
di Grossenehrich e di Bliederstedt insieme con i servi e tutti i
loro annessi nel pago Suthuringa, nel comitato cui allora era
preposto Ottone;45 e da Arnolfo,46 le proprietà nelle corti
dette Cruth e Kalkum, assegnate da lui e dal nostro proavo
Liudolfo,47 che aveva costruito il predetto monastero, tutto
ciò che si trova nei confini delle corti sotto nominate, ossia
Gandersheim, Riade, Ahlum, Denkte, Lagendorf, ebbe dato
in proprietà, e da sua moglie Oda, la corte di Wanzleben con
tutto ciò che legittimamente le pertiene, e dal nostro avo
Ottone la corte Hollenstedt con tutti i suoi annessi e anche le
corti assegnate loro dalla nostra regalità, Harriehausen e
Feldbergen con tutte le loro pertinenze che il nostro padre e
signore re Enrico diede al monastero, con anche quel possesso assegnato loro in Frisia dalla nostra signora e madre, la
Ossia di eleggere autonomamente la propria badessa.
Ludovico III, detto il Giovane, appartenente alla dinastia carolingia, fu re
dei franchi orientali dall’879 all’882.
45
Si tratta di Ottone, duca di Sassonia dall’880 al 912, nonno dell’imperatore
Ottone I.
46
Arnolfo di Carinzia, appartenente alla dinastia carolingia, fu re dei franchi
orientali dall’887 all’899.
47
Si tratta di Liudolfo, duca di Sassonia, morto nell’866, bisnonno dell’imperatore Ottone I.
43
44
84
La parola alle fonti
regina Matilde. Consegniamo inoltre per il sostentamento di
quelle religiose tutto ciò che deteniamo in proprietà nella
corte Mündelheim, nel pago Hatteri, nel comitato di Erenfredo. Ordiniamo inoltre che nessun conte né qualunque
altro esattore possa pretendere di esercitare la potestà giudiziaria né di esigere multe, o presumere di ricevere accoglienza e vitto nelle località del suddetto monastero, se non con il
consenso espresso dalla badessa di quel monastero, e gli
uomini di quella badessa, liberi o servi che siano, non siano
assoggettati ad alcuna autorità giudiziaria, ma alla presenza
dell’avvocato di quella badessa dimostrino la loro rettitudine
e accertino quella degli altri. E, affinché questa nostra decisione rimanga immutabile e sia osservata sempre meglio in
futuro dai nostri fedeli, con la nostra stessa mano l’abbiamo
firmata in calce e abbiamo ordinato che vi fosse impresso il
sigillo del nostro anello.
Segno del signore Ottone, re serenissimo.
Io Bruno cancelliere, facendo le veci dell’arcicapellano Federico, ho controllato.
Datata 4 maggio dell’anno dell’Incarnazione del signore
946 [computo attuale: 947], indizione seconda, e anno di
regno del signore Ottone, re piissimo, undicesimo e redatta a Werla, felicemente nel nome di Dio. Amen.48
Testo tratto e tradotto da Die Urkunden Konrad I, Heinrich I und Otto I, a
c. di T. Sickel, MGH, Diplomata regum et imperatorum Germaniae, I ,
Hannover 1879-1884, n. 89 (a. 947), pp. 171-172.
48
85
Le donne nell’alto Medioevo
2.4 Possedere, gestire, governare
Un aspetto della vita delle donne che solo recentemente è diventato oggetto di indagine storica è quello relativo al grado di indipendenza economica che esse potevano raggiungere, un aspetto
di grande importanza perché intrinsecamente connesso, e in
modo molto stretto, alla possibilità di godere di un’autentica indipendenza personale e di operare scelte proprie. La storiografia
giuridica fin dalla seconda metà dell’Ottocento si è chiesta se le
donne nell’alto Medioevo potessero disporre di pieni diritti di
proprietà. Una domanda non peregrina, se pensiamo che negli
anni sessanta del Novecento la legge in Francia non consentiva
alle donne di essere titolari di un conto corrente bancario. Più
recentemente, tuttavia, gli studiosi si sono interrogati su quale
fosse la concreta disponibilità che le donne avevano dei beni di
cui erano proprietarie: solo l’effettiva disponibilità del patrimonio, infatti, consente di impiegare i propri beni per tessere relazioni, stringere alleanze, attivare un sistema di scambi.
Nell’Europa occidentale dei secoli V-X, con minime variazioni
regionali, le donne in base alle leggi potevano disporre di pieni
diritti di proprietà. Il loro patrimonio personale era composto
dalla quota ereditaria che ricevevano dalla famiglia d’origine e
che spesso coincideva con la dote* e, inoltre, dalla dote che ricevevano dal marito, la meta nel diritto longobardo, e dal morgengabe, il dono cui avevano diritto una volta che l’unione fosse stata consumata. Questo non significa però che esse potessero
disporre a proprio piacimento di quei beni.
Proprio nel regno dei longobardi, dove una norma specifica
dell’Editto di Rotari (643) prevedeva esplicitamente che la donna
non potesse in alcun modo vivere solo affidata a se stessa, ma che
dovesse sempre essere soggetta all’autorità – ma si può intendere
anche protezione – di un uomo, la norma giuridica subì nel breve
volgere di tre generazioni, cent’anni scarsi, cambiamenti importanti. Autorità e protezione sono concetti che hanno una relazione stretta: già nell’Editto di Rotari si prevedeva che la donna che
avesse subito violenza potesse scegliere da sola a chi assegnare il
proprio mundio: in questa scelta era compresa la possibilità di
86
La parola alle fonti
assegnare il proprio mundio al re. Una tale concessione di autonomia di scelta poteva rendere una donna largamente indipendente: il mundio del re difficilmente poteva intervenire nella quotidianità delle scelte. Cambiamenti importanti intervennero,
abbiamo detto: sono le norme che aprono la legislazione di
Liutprando, che prevedevano diritti ereditari femminili in termini tali che non hanno precedenti nella legislazione romana. Le
figlie, sposate e no, in assenza di fratelli avevano diritto di succedere pienamente al padre e così anche le sorelle del defunto.
Cristina La Rocca ha affermato che queste norme non attestano
una progressiva conquista di diritti da parte delle donne ma,
piuttosto, la volontà regia di ostacolare la politica patrimoniale
delle aristocrazie, che tendeva sempre più a svincolare i beni soggetti alle rigide norme giuridiche della successione convogliandoli nella meta e nel morgengabe. Così si potevano gestire più liberamente e diventavano utili soprattutto per creare reti di clientele
potenzialmente pericolose per un potere regio che non aveva trovato la garanzia dell’ereditarietà, ma che si trasmetteva con forme
di legittimazione femminile. Di queste forme di legittimazione è
una buona testimonianza il brano che proponiamo della Storia
dei Longobardi di Paolo Diacono. Il patrimonio femminile, più
flessibile, poteva diventare così un oggetto strategico nello scambio tra famiglie alleate, senza tuttavia che ciò comportasse una
maggiore capacità di azione femminile. Un’interpretazione brillante e non ovvia alla quale però si può aggiungere una considerazione: laddove il diritto e le strategie parentali lasciano alle
donne un margine effettivo di azione, queste, se si trovano nella
condizione culturale e sociale per potersene rendere pienamente
conto, non mancano di sfruttare la possibilità.
Il ruolo chiave che ebbero le regine nel regno longobardo
dovette creare una loro condizione peculiare, diversa da quella
degli altri regni europei, che trova una delle sue manifestazioni
più vistose proprio negli enormi patrimoni dotali che venivano
loro assegnati dai mariti. Angelberga, che era nata nel regno italico, ricevette a metà del secolo IX dall’imperatore Ludovico II,
suo marito, una larghissima dotazione formata da beni fiscali,
strategicamente collocati lungo le rive del Po, di cui poté dispor-
87
Le donne nell’alto Medioevo
re autonomamente e che poté gestire attraverso amministratori
propri anche dopo la morte del marito. A titolo di esempio di tali
eccezionali dotazioni delle regine italiche, si è scelto qui il documento che segnò il fidanzamento fra Lotario, associato al regno
dal padre Ugo dagli anni trenta del secolo X, e Adelaide di Borgogna. Beni estremamente cospicui del patrimonio regio furono
attribuiti in piena proprietà alla donna; rimasta vedova, divenne
perciò imprescindibile, per chiunque volesse diventare il nuovo
re, controllare Adelaide, il suo patrimonio, le sue reti vassallatiche. Tali reti, rese possibili da quel patrimonio, le consentirono
di scegliere un secondo matrimonio importante, con il re di Germania Ottone che, proprio grazie a questa unione, divenne re
anche del regno italico e poi imperatore. Reti vassallatiche legate
direttamente alla regina, in grado di imporsi a suo favore anche
quando, lo vedremo fra pochissimo, la sua volontà politica si
scontrò con quella di suo figlio, ed erede, Ottone II.
La madre, date queste premesse, poteva così diventare una presenza molto ingombrante nella vita dei figli adulti. Se rimanevano
vedove, le donne avevano la possibilità di associare la gestione
del loro patrimonio personale all’usufrutto di quello del marito
defunto e ciò poteva porle in condizioni di aperto conflitto di
interessi economici e patrimoniali con i propri figli.
La testimonianza più precoce – studiata da La Rocca – è quella
relativa a Taneldi, una vedova che, nei primi decenni del secolo
VIII, dispone di donare all’abbazia di Farfa il patrimonio che
aveva ricevuto in usufrutto dal marito, sottraendolo in tal modo
agli eredi del proprio figlio già morto, perché quel figlio le aveva
procurato tali e tante sofferenze da meritare di essere diseredato.
La carta offre uno spaccato di vita sociale di grande interesse:
dalla lettura emerge che quel figlio aveva vissuto un’intera vita di
minorità giuridica. La longeva madre, infatti, disponendo in pieno
del patrimonio della famiglia, non gli aveva consentito di gestire
in modo autonomo alcunché dell’eredità paterna, rendendolo nei
fatti un minore, un uomo cioè che non poteva decidere di vendere
e comprare, di impiegare quel patrimonio per crearsi una vita
indipendente, soprattutto nelle relazioni con altri. Il disaccordo
fra la madre e il figlio – che è reso in modo assai vivace nel docu-
88
La parola alle fonti
mento – creava una condizione di debolezza anche per la stessa
vedova che, infatti, a sua volta, non aveva potuto disporre del
patrimonio se non alla morte del figlio. Con la donazione ella si
libera degli eredi del figlio stesso, come ha commentato La Rocca:
diventa solo un’usufruttuaria del monastero e pur non essendo né
una monaca, né una vedova velata, acquisisce comunque la protezione per il resto dei suoi giorni dal monastero di Farfa.
Il possibile contrasto fra la volontà delle madri vedove e dei
figli era reso possibile da una reale disponibilità dei patrimoni da
parte femminile, una concreta possibilità di azione che le rendeva
temibili e pericolose: senza il loro consenso per i figli era assai
difficile agire. Lo stesso insistito rilievo che Eginardo pone nel
descrivere l’accordo fra Carlo Magno e l’attivissima madre Berta
dimostra la consapevolezza del rischio che avrebbe comportato
la mancanza di un accordo così pieno: e, anche se espressa in
modo velato, una ragione di disaccordo forte fra i due doveva esserci stata nel momento in cui Carlo, ripudiando il legame con la
figlia di re Desiderio – Gerperga, probabilmente, e non Ermengarda come la sentimentale ricostruzione manzoniana ci ha insegnato – aveva drasticamente cancellato la politica internazionale
che Berta per decenni aveva condotto in prima persona.
Un’altra Berta è protagonista di un rapporto con un figlio
maschio che rivela una potenziale, diciamo così, concorrenzialità
familiare. Non è un caso che avesse lo stesso nome della mamma
di Carlo Magno: apparteneva infatti alla discendenza carolingia
ed era figlia di Lotario II, re di Lotaringia. La sua origine e le sue
indubitabili capacità politiche avevano fatto di lei una protagonista assoluta delle lotte per il potere regio nel regno italico nei
primi venticinque anni del secolo X. Alla morte del marito, il
marchese Adelberto II di Tuscia (915), uno dei figli maschi della
coppia, Guido, fu nominato marchese al posto del padre, ma nei
fatti – è il vescovo Liutprando da Cremona a raccontarcelo – fu
Berta a continuare a reggere la marca e a proseguire la politica
che aveva condotto in precedenza insieme con il marito. Solo
dopo la morte della madre Guido poté agire in forza di una politica personale che si discostava da quella materna e che non ebbe
successo.
89
Le donne nell’alto Medioevo
Nella seconda metà del secolo X, due narrazioni indipendenti fra
loro per area geografica e per ambito politico e culturale di composizione ci raccontano vicende la cui analogia strutturale è vistosa: ancora una volta, conflitti fra madri potenti e figli ribelli,
ambientati proprio al vertice del potere. La prima narrazione è una
fonte di difficile definizione: a un primo sguardo, pare corrispondere ai canoni di una composizione agiografica volta a esaltare i
meriti esemplari della madre di Ottone I, la regina Matilde.
L’autrice del testo però, probabilmente una canonichessa di Quedlimburg o di Nordhausen, usa quel canone per raccontare la storia politica di quei decenni da un punto di vista inatteso, quello
femminile. Non solo narra le vicende da una prospettiva diversa
– ne parleremo più avanti – ma racconta episodi che nella nutrita
produzione storiografica di quei decenni non compaiono proprio. Uno di questi è appunto il durissimo conflitto che scoppiò
dopo la morte di re Enrico fra Matilde e i suoi figli, non solo
Ottone, l’erede al trono, ma anche Enrico. Il cospicuo patrimonio dotale che Matilde aveva ricevuto, insieme con il ruolo effettivo che esercitava a corte, rendeva ai figli impossibile governare
senza il pieno consenso materno: quel consenso venne meno, la
regina fuggì e si rifugiò presso i componenti della sua famiglia
d’origine. Lì la sua resistenza contro la politica dei figli dovette
raccogliere larghi consensi se Ottone fu costretto, per riuscire a
regnare, a trovare un accordo con la madre e con i suoi alleati.
Analogamente, nel racconto dell’abate Odilone di Cluny, la
regina Adelaide, vedova di Ottone I, sopravvenuti contrasti con il
figlio dopo la morte del marito, si rifugiò nella sua terra d’origine, il regno di Borgogna, sottraendo in tal modo a Ottone II l’appoggio delle clientele armate del regno italico da decenni legate
alla regina. Anche in questo caso fu necessaria una cerimonia
pubblica di riconciliazione che si tenne a Pavia, la capitale del
regno, perché l’imperatore potesse ottenere un controllo effettivo
del proprio regno.
90
La parola alle fonti
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und Landbesitz langobardischer Frauen, in “Mitteilungen des Instituts
für Österreichische Geschichtsforschung”, 101, pp. 201-227.
— [1995], Vorsorge, Memoria und soziales Ereignis. Frauen als Schenkerinnen in den bayerischen und alemannischen Urkunden des 8. und 9.
Jahrhunderts, in “Mitteilungen des Instituts für Österreichische Geschichtsforschung”, 103, pp. 265-287.
91
Le donne nell’alto Medioevo
2.4.1 Capacità patrimoniale e potere
a) La libertà delle donne e il mundio regio
Editto di Rotari (643)
A nessuna donna libera che viva sotto la giurisdizione del
nostro regno secondo la legge dei Longobardi sia consentito
vivere sotto la potestà del proprio arbitrio, cioè selpmundia,
ma al contrario, debba sempre restare sotto la certa potestà
degli uomini o del re; e non abbia facoltà di donare o alienare alcunché dei beni mobili o immobili senza il consenso di
colui sotto il cui mundio si trova.49
Della violenza
Se un uomo fa violenza a una donna e la prende in moglie
contro la sua volontà, sia condannato a pagare 900 soldi,
metà al re e metà ai parenti della donna; se non ha parenti i
900 soldi siano riscossi dalla corte del re. La donna abbia,
assieme a tutti i suoi beni personali che le spettano per legge,
licenza di scegliere chi debba avere in potestà il suo mundio,
vuoi il padre, se ce l’ha, vuoi il fratello, vuoi il barba, vuoi la
mano del re: sia facoltà della donna, come ella stessa sceglie
per sé.50
49
50
Testo tratto da Le leggi dei Longobardi, cit., Editto di Rotari, 204, p. 65.
Testo tratto da Le leggi dei Longobardi, cit., Editto di Rotari, 186, p. 59.
92
La parola alle fonti
b) I diritti ereditari delle donne longobarde
Leggi di Liutprando (713)
Prima di tutto, sulla successione delle figlie.
Se un longobardo muore senza figli maschi legittimi e
lascia delle figlie, queste gli succedano come eredi in tutta
l’eredità del loro padre o della loro madre come se fossero
figli maschi legittimi.
Se un longobardo durante la sua vita dà in matrimonio
alcune sue figlie e lascia altre figlie in casa, nubili, ebbene
tutte gli succedano con pari diritto come eredi del suo
patrimonio, così come i figli maschi.
Se un longobardo lascia sorelle che si erano sposate mentre lui era ancora in vita, ricevano del patrimonio del fratello, se egli lascia anche figlie, soltanto quanto ricevettero
nel giorno delle nozze, quando andarono a marito. Se invece il fratello non lascia né figli né figlie, o se ne ha avuti e
sono morti o morte prima di lui, senza aver avuto figli,
allora le sue sorelle, sia quelle rimaste nubili sia quelle
andate a marito, gli succedano come eredi in tutto il suo
patrimonio.
Se un longobardo lascia in casa delle sorelle e delle figlie
nubili, per quante esse siano devono succedergli in parti
uguali e con pari diritto nell’eredità, come se avesse lasciato figli legittimi.
Se delle figlie o delle sorelle agiscono contro la volontà del
padre o del fratello, il padre o il fratello abbia facoltà di
decidere dei suoi beni nel modo e nella misura che vuole.51
Testo tratto da Le leggi dei Longobardi, cit., Leggi di Liutprando, nn. 1-5,
p. 141.
51
93
Le donne nell’alto Medioevo
c) La trasmissione della legittimità regia
Paolo Diacono, Storia dei Longobardi (787-789)
Il re Autari, bevuto del veleno, come dicono, morì a Pavia
il 5 settembre [590], dopo aver regnato sei anni. […] Poiché la regina Teodolinda era assai accetta ai Longobardi,
questi le consentirono di conservare la dignità regale, suggerendole di scegliersi come sposo quello che voleva fra i
duchi longobardi, tale naturalmente che potesse ben governare il regno. Ella, consigliatasi con i più saggi, scelse
Agilulfo, duca di Torino, come sposo per sé e come re per
la gente longobarda. Era infatti un uomo valoroso, forte in
guerra, tanto di aspetto che di animo adatto al governo del
regno. Subito la regina lo fece venire a sé ed ella stessa
andò a incontrarlo presso la fortezza di Lomello. Quando
arrivò Agilulfo, la regina, scambiata qualche parola, si fece
servire del vino; dopo aver bevuto per prima, gli porse ciò
che restava perché lo bevesse. Egli, presa la coppa, baciò
rispettosamente la mano della regina; ma questa, piena di
rossore, gli disse che non doveva baciarle la mano colui
che avrebbe dovuto baciarla sulla bocca. Quindi, fattolo
alzare per ricevere il suo bacio, gli svelò ciò che riguardava
sia le nozze, sia la dignità di re. Che più? Si celebrano le
nozze in grande letizia.52
52
Testo tratto da Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, cit., III, 35, pp. 335 e
337.
94
La parola alle fonti
d) Il patrimonio dotale di Adelaide di Borgogna
Carta dotale (938)
Nel nome della santa e indivisibile Trinità. Ugo e Lotario re
per il favore della clemenza divina. Al primo uomo, formato
a sua immagine e somiglianza, Dio creatore di ogni cosa
volle affiancare una moglie affinché, dato che Adamo da
solo, una volta cacciato dall’angelico ordine dei cieli a causa
della superbia, non sarebbe stato in grado di popolare il
mondo, con Eva al suo fianco quale moglie, generando figli
e figlie, costituisse il decimo ordine53 grazie alla prole moltiplicatasi all’infinito; e volle che la donna esistesse quale aiuto
per l’uomo, ella che Dio non aveva voluto nascesse semplicemente dal fango della terra, come l’uomo, ma creandola
da una costola sottratta all’uomo durante il sonno, le aveva
dato una forma simile affinché avessero entrambi una sola e
stessa carne e affinché da quell’osso la donna traesse una
pur fragile forza. Ragion per cui è stato scritto: «l’uomo
abbandonerà il padre e la madre e si congiungerà con la sua
sposa e saranno due in una sola carne». E anch’Egli, l’uomo
nuovo, mediatore fra Dio e gli uomini, recandosi a Cana in
Galilea, partecipò alle nozze e le volle santificare e, prendendosi in sposa la santa chiesa, lasciò ai posteri un esempio
affinché non cessassero di contrarre unioni mediante il patto
matrimoniale e perché persistesse fra loro un reciproco e
indissolubile affetto per procreare poi la prole.
Pertanto, reso edotto da questi e da altri esempi, io, nel
nome di Cristo, Lotario, re per la clemenza della grazia divina, con l’approvazione della divina provvidenza e grazie al
consiglio dei nostri fedeli, ho deciso di fidanzarmi con
Adelaide, figlia del defunto re Rodolfo di diva memoria,
avendo deciso di volerla prendere in moglie. Pertanto, sappiano tutti i fedeli della santa chiesa di Dio e nostri, presenti
53
Nove sono gli ordini degli angeli nella gerarchia celeste; il decimo è quello
degli uomini.
95
Le donne nell’alto Medioevo
e futuri, che alla suddetta Adelaide, mia fidanzata, alcune
corti di nostra proprietà, ossia la corte di Marengo e la corte
di Coriano e anche la corte di Olona con tutte le loro pertinenze, alla quali si riconosce pertengano mille poderi e pure,
nel comitato Cornino, la corte di Valli con cinquanta poderi,
e un’altra corte, sempre nel comitato di Cornino, con trenta
poderi, e anche l’abbazia di Sesto, sita nel comitato di Lucca
con duemila poderi, e l’abbazia di S. Antimo nel comitato di
Siena con mille poderi e l’abbazia del Salvatore nel monte
Amiata, pertinente al comitato di Chiusi con cinquecento
poderi, il che assomma in totale quattromila cinquecento
ottanta poderi, grazie a questo precetto, a titolo di dote,
concediamo, doniamo e regaliamo, e trasferiamo completamente dalla nostra proprietà e dominio alla sua proprietà e
dominio e deleghiamo, insieme con i castelli, le case, i servi e
le serve, gli aldii e le aldie, le terre, i campi, le vigne, i prati, i
boschi, i monti, le valli, le paludi, le acque e i corsi d’acqua, i
mulini, le peschiere e tutte le cose che alle suddette corti e
abbazie appartengano per intero, in modo che le detenga a
pieno titolo di proprietà, le abbia e le possegga in modo
sicuro, e che abbia il diritto di donarle, venderle, permutarle, regalarle, destinarle alla salvezza dell’anima, e di farne
qualunque cosa le venga in mente, senza nessun ostacolo da
parte di alcuno. Se poi qualcuno osasse infrangere questa
nostra carta dotale, sappia che dovrà versare mille libbre di
ottimo oro alla suddetta fanciulla Adelaide e ai nostri e ai
suoi eredi. E affinché tale carta sia creduta completamente
autentica e con piena diligenza sia rispettata da tutti, abbiamo ordinato che sia insignita con il sigillo nel nostro anello,
rafforzandola con le nostre mani.54
Monogrammi dei serenissimi re, signori Ugo e Lotario.
Io Giseprando notaio, quale vice di Azzo, vescovo e arcicancelliere, ho controllato e sottoscritto.
54
Ossia apponendo monogrammi autografi.
96
La parola alle fonti
Datata il giorno prima delle idi di dicembre, dell’anno dell’incarnazione del Signore 938, durante il dodicesimo anno
di regno del signor Ugo, e il sesto di suo figlio Lotario,
ugualmente re, indizione undicesima, in Borgogna, nella
corte della Colombaria, felicemente.55
2.4.2 Le madri: una presenza ingombrante
a) Un figlio ribelle
Donazione (768)
Nel nome del signore Dio nostro salvatore Gesù Cristo.
Durante il regno dei nostri signori Desiderio e Adelchi, re
piissimi, anno del loro regno, col favore di Dio, XII e IX, e al
tempo del signor Teodicio, duca glorioso del ducato di
Spoleto, nel mese di marzo, indizione VI.
Io, Taneldi, vedova del fu Pando. È noto a tutti che Pando,
mio defunto marito di buona memoria, durante la sua vita
emanò a mio favore una carta di donazione di Ciciliano, dove
io abito, con tutti i casali pertinenti, con i coloni, le case, le
vigne, le terre, coltivate e incolte, con tutti i beni mobili e
immobili e tutte le cose che pertengano a Ciciliano stesso nel
loro insieme, in base però a questa disposizione, ossia che
finché io stessa Taneldi fossi rimasta in vita, restasse in mio
possesso, e che dopo la morte di mio marito e la mia, se
Benedetto mio figlio mi avesse trattata correttamente e affettuosamente così come si conviene fra parenti, tutte le cose
che mio marito mi aveva donato tramite documento scritto,
io avrei lasciato in possesso a Benedetto stesso. E se invece
Benedetto si fosse dimostrato ribelle nei miei confronti, e
55
Testo tratto e tradotto da L. Schiaparelli, I diplomi di Ugo e di Lotario di
Berengario II e di Adalberto, Roma 1924 (Fonti per la storia d’Italia, 38), n. 47,
pp. 141-144.
97
Le donne nell’alto Medioevo
ostile e disobbediente, i beni suddetti che il fu Pando, mio
marito, mi ha concesso con un documento scritto, avrei
dovuto donarle ancora per la sua grazia e per la mia. E dato
che Benedetto, mio figlio, mi ha dato molte amarezze, mi ha
ingiuriata e danneggiata, così come molti sanno, e che mentre io ancora sono viva egli è già defunto, io, così come sopra,
Taneldi, sana di mente e di mia spontanea volontà, e insieme
con il consenso e l’autorizzazione del signor Teodicio, duca
glorioso, e dei miei parenti, con questo documento dono e
concedo e consegno quelle proprietà per l’anima di mio
marito Pando e della mia e di mio figlio Benedetto, al monastero di S. Maria madre di Dio sito ad Acutiano, dove è abate
Alano, uomo venerabile, ossia il suddetto casale che si chiama Ciciliano, con tutto ciò che a quel casale pertiene integralmente: case, vigne, terre coltive e incolte, beni mobili e
immobili, alberi da frutto e non, insieme con i coloni che
risiedono in quel casale, liberi in quanto liberi, servi in quanto servi; così come lo abbiamo avuto noi nello stesso modo lo
abbiamo ceduto nel possesso del santo monastero, con la
riserva che fino a quando io Taneldi resterò in vita, rimanga
nella mia facoltà farne uso, ma senza che io abbia la licenza
di venderlo. E tutto ciò da questo giorno in poi rimanga un
nostro dono certo e stabile per quel santo monastero e non
sia messo mai in discussione da noi né alcun altro erede e
successore nostro, ma rimanga stabile per sempre. Fatto
presso San Vito, nel mese e nell’indizione suddetti.
Segno + della mano di Taneldi donatrice che ha ordinato
di redigere questa carta.
+ Io Isemondo, sculdascio, su richiesta di Taneldi e per
ordine del glorioso signor Teodici duca, ho sottoscritto
proprio con la mia mano.
+ Io Teudemondo, su richiesta di Taneldi vedova del fu
Pando, ho sottoscritto di mia mano.
+ Io Gainelapa, su richiesta di Taneldi, ho sottoscritto di
mia mano.
98
La parola alle fonti
+ Io Lupo, su richiesta di Taneldi, ho sottoscritto di mia
mano.
+ Io Guilerato, su richiesta di Taneldi, per ignoranza delle
lettere, ho fatto il segno della santa + e ho testimoniato.
+ Io Adeodato, su richiesta di Taneldi, ho fatto il segno
della santa + e ho testimoniato.
+ Io Liusperto prete, su richiesta di Taneldi, ho sottoscritto di mia mano.
+ Io Stefano notaio, scrittore di questo documento, dopo
la conferma dei testimoni, l’ho completato e consegnato.56
b) La mamma di Carlo Magno
Eginardo, Vita di Carlomagno (830 ca.)
Sua madre Bertrada invecchiò in grande onore del figlio
presso di lui. Egli la trattava difatti con sommo rispetto,
tanto che non sorse mai tra loro alcun motivo di contrasto,
a parte il caso del divorzio dalla figlia di re Desiderio, che
egli aveva preso in moglie. Essa morì dopo Ildegarda, quando aveva già visto in casa del figlio tre nipoti maschi e
altrettante femmine. Egli la fece seppellire con gran pompa
nella stessa basilica dove era deposto il padre, presso SaintDenis.57
56
57
Testo tratto e tradotto da Codice diplomatico longobardo, V, n. 50, pp. 177-180.
Testo tratto da Eginardo, Vita di Carlomagno, cit., cap. 18, p. 64.
99
Le donne nell’alto Medioevo
c) Berta e il figlio Guido
Liutprando di Cremona, Antapodosis (960 ca.)
In questo tempo (915) Adalberto II, potente marchese di
Tuscia, muore e suo figlio Guido viene nominato da Berengario al posto del padre. Tuttavia Berta, sua moglie,
dopo la morte del marito non ebbe minor potenza insieme
con il figlio di quanta non ne avesse avuta suo marito. Costei con l’astuzia e con regali, come pure con la pratica
delle dolcezze di imeneo, si era resi fedeli molti. Onde
avvenne che, qualche tempo dopo, fu presa e tenuta in
custodia a Mantova da Berengario, insieme con il figlio; i
suoi fedeli, tuttavia, non resero affatto le città e tutti i
castelli al re Berengario, ma li tennero saldamente e ben
presto la liberarono dalla prigione insieme con il figlio.58
Solo dopo la morte della madre, Guido ottiene autonomia
sufficiente per reggere la marca di Tuscia e per sposarsi.
A quel tempo, morta Berta madre dello stesso Ugo re (8
marzo 925), Guido suo figlio, generato da Adelberto come
già dicemmo, teneva la marca di Tuscia e si era presa per
moglie Marozia, prostituta romana.59
58
Testo tratto da Liutprando di Cremona, Italia e Bisanzio, cit., Antapodosis,
libro II, cap. 55, p. 99.
59
Testo tratto da Liutprando di Cremona, Italia e Bisanzio, cit., Antapodosis,
libro III, cap. 18, p. 99.
100
La parola alle fonti
d) Ottone contro la madre, Matilde
Vita Mathildis reginae antiquior (970 ca.)
Accadde che dopo la morte del venerando re Enrico, insediatosi sul trono il suo figlio maggiore Ottone, la suddetta regina
mantenne una tale onestà durante la vedovanza che a stento
pochi di entrambi i sessi sarebbero in grado di imitarla.
Era infatti prudente nel dare consigli, estremamente mite con
le persone buone, dura con i superbi, generosa nelle elemosine, sempre intenta a pregare, pia con tutti i bisognosi, affettuosa nel discorrere, grazie all’amore nei confronti di Dio e
del prossimo e alla castità si mantenne pura.
Ma il provocatore di tutti i mali, il nemico invidioso, intervenne spingendo alcuni dei principi a dire al re e agli altri
suoi figli che ella aveva conservato una grandissima quantità
di vari beni e che avrebbe dovuto restituirli immediatamente. E quelli – così spinge a fare l’amore insaziabile per il possesso che non si accontenta dei propri beni – costringendola
a consegnare i cumuli di tesori nascosti che ella erogava nel
nome di Cristo alle chiese e agli indigenti, ordinarono ad
alcuni esploratori di andare attentamente qua e là, per i fianchi delle montagne e sulle cime dei colli, per le terre incolte
e per le selve, perquisendo quei luoghi attraverso i quali ritenessero che la regina avesse trasmesso ricchezze ai monasteri; e questi, se trovarono persone che portavano qualcosa di
prezioso – infatti ella, diletta da Dio, si dava molto da fare
per offrire di nascosto alla mano di Cristo tutto ciò che le
era rimasto – dopo aver pesantemente insultato i servi che le
portavano e averle loro sottratte con la forza, li lasciavano
andare a mani vuote.
E persino la volevano costringere con queste e con altre
innumerevoli ingiurie ad abbandonare quella parte del regno che aveva ricevuto in dote, a entrare in monastero e a
farsi monaca. Ella, afflitta da così gravi offese, non dimentica però delle sacre scritture che affermano che solo attraverso molte tribolazioni noi possiamo entrare nel regno dei
101
Le donne nell’alto Medioevo
cieli, dopo aver abbandonato le città della sua dote e non
disponendo più di alcun patrimonio, si ritirò in una cella a
Enger, nella regione occidentale. Ivi, non meno del consueto, perseverava nelle buone opere. Si abbatterono allora
sopra il re Ottone molti flagelli come se, ferendo la madre,
si fossero rovesciati i trionfi della vittoria e le altre fortune.
Infatti la grazia dello Spirito santo riposava su Matilde, madre del re, che possedeva molteplici affetti in Cristo. Rendendosi allora conto il re che nulla procedeva più favorevolmente come prima, rattristato, era spaventato a morte.
Ma, sopraggiunta la regina Edith di buona memoria gli disse:
«Non rattristarti re, mio signore! Infatti sei tormentato dai
flagelli divini perché hai scacciato come una sconosciuta la
tua ottima madre dal regno. Richiama allora quella donna
santissima e il regno, come si conviene, possederai come
prima». Ascoltando queste parole, il principe pieno di stupore in un primo momento, ma poi di immensa gioia, mandò
vescovi, luogotenenti e altre oneste guardie del corpo a chiedere il proprio perdono alla sua degnissima madre, mettendo
a disposizione se stesso e ogni suo bene e a qualunque condizione di espiazione ella volesse, mostrando con gioia che
sarebbe stato contento anche soltanto di ottenere il suo perdono. Lieta allora la madre, ricevendo le decisioni del figlio,
dimenticando, quasi, quanto accaduto prima, compiendo
l’intero viaggio con grande fretta giunse a Gottinga e il re
insieme con sua moglie le venne incontro e, prostrato ai suoi
piedi, promise che qualunque decisione sbagliata avesse
preso, l’avrebbe cambiata in base alle volontà della madre.
Ma ella, con le belle gote bagnate di pianto, baciava il figlio
tenendolo stretto al petto, mostrando chiaramente così di
essere stata toccata dai suoi enormi peccati. E senza indugio,
ottenuta la soddisfazione della riconciliazione nella pace,
concesse al figlio la parte dotale del regno.60
60
Testo tratto e tradotto da Vita Mathildis reginae antiquior, MGH, Scriptores
rerum Germanicarum in usum schol. separatim editi, 66, a c. di B. Schütte,
Hannover 1994, pp. 109-142, cap. 4-6, pp. 122-125.
102
La parola alle fonti
e) Ottone II contro la madre, Adelaide
Odilone di Cluny, Epitaphium Adalheide imperatricis (999 ca.)
E dopo che l’augustissimo Ottone intraprese la strada del
mondo ultraterreno (973), l’imperatrice continuò a reggere
felicemente il potere del romano impero insieme con il
figlio. Ma nonostante il principato sul romano impero fosse stato consolidato per grazia divina e con l’azione e i meriti di quella imperatrice, pur tuttavia non erano scomparsi
uo mini malvagi che altro non fanno se non seminare
discordia. Ingannato dalla loro adulazione, il cuore del re
abbandonò la madre. Se dovessimo ricordare con le parole, quante e quali cose ella dovette patire in quel tempo,
saremmo costretti a venir meno allo stile che si impone in
un testo di cotanto genere; pur tuttavia non dobbiamo
troppo trattenere la penna perché troppo presto ciò sederebbe un’umile soddisfazione. Dato che amava il figlio, che
non era in grado di denunciare i colpevoli della discordia,
e che, secondo il precetto dell’Apostolo, concedeva all’ira
uno spazio limitato (Rom., XII, 19), decise di ritirarsi nel
regno di suo padre (978). Dove fu accolta con affetto e con
grandi onori dal fratello, ossia il re Corrado, e dalla nobilissima Matilde, sua moglie. Si doleva della sua assenza la
Germania, si allietava invece del suo arrivo tutta quanta la
Burgundia ed esultava Lione, straordinaria città che fu madre e nutrice della filosofia e nondimeno Vienne, nobile sede regia.
In seguito però l’imperatore Ottone, spinto dal desiderio
di pentirsi, mandò un’ambasceria a suo zio il re e a padre
Maiolo di santa memoria (980), supplicandoli umile con
grandissima fretta, affinché grazie alla loro intercessione
potesse riconquistarsi il favore della madre che aveva perso
a causa delle sue grandi colpe; pregandoli più volte e supplicando, affinché al più presto possibile si sforzassero di
accorrere presso di lui, a Pavia, insieme con l’imperatrice
sua madre. Convinta allora dal consiglio di uomini di tal
103
Le donne nell’alto Medioevo
calibro, a Pavia, nel momento convenuto, accorse la madre
al figlio. E ivi, quando reciprocamente si videro, piangendo e lacrimando, completamente prostrati a terra, cominciarono a salutarsi umilmente. Un umile sentimento di penitenza era nel figlio, la madre era generosamente disposta
a perdonare; rimase in entrambi da allora in poi, un’unione indivisibile di pace perpetua.61
2.5 Lavorare
Alla domanda «ma tu che fai nella vita?» tutti gli uomini rispondono sempre dando conto della propria attività lavorativa: anche
risposte quali «sono disoccupato» o «frequento l’università» rivelano comunque una concezione del “fare” collegata con il lavoro.
Può capitare invece che una donna fra i trenta e i cinquant’anni
risponda, legittimamente, «sono madre di tre figli» anche se, mentre i bambini sono a scuola, fa l’impiegata all’anagrafe.
È un modo in parte improprio per affrontare il tema del lavoro
femminile – riportare all’esperienza contemporanea realtà storiche di tempi molto remoti è sempre un rischio, perché la storia
serve per conoscere le differenze e non per riscontrare analogie
con il passato – ma che uso per introdurre in termini piani un
concetto un po’ sfuggente relativo al lavoro femminile, cioè la
differenza fra il lavoro di cura, domestico, ma anche di produzione artigianale o di servizi se svolto per mere esigenze economiche
della famiglia, e il lavoro elettivo, quello che incide sull’identità
personale e che viene dichiarato in risposta alla generica domanda «cosa fai?». Questa ambiguità del concetto di lavoro riguarda
solo le donne, non gli uomini, e può essere il motivo di fondo che
spiega perché il tema del lavoro femminile nel Medioevo si sia
affermato relativamente tardi come oggetto di indagine e non
61
Testo tratto e tradotto da Epitaphium Adalheide imperatricis auctore sancto
Odilone, in MGH, Scriptores, IV., a c. di D. Pertz, cap. 6 e 7, p. 640.
104
La parola alle fonti
abbia goduto di grande interesse storiografico fino a tempi assai
recenti.
Le donne hanno sempre lavorato e hanno sempre contribuito
con il loro lavoro all’economia e alla creazione di reddito non
solo delle loro famiglie ma della società intera. Si tratta spesso,
però, oggettivamente di un lavoro misconosciuto e sommerso,
privo di riconoscimento sociale pubblico. L’identità femminile,
anche nel mondo contemporaneo, dipende strettamente dalla
condizione personale della donna, se sposata o no, se madre o
meno, piuttosto che dal suo ruolo lavorativo nella società. Le studiose degli anni sessanta sentivano tuttavia che era intervenuto
un cambiamento, che si poteva dire: «ora che la donna lavora». Il
problema è chiedersi: ora rispetto a quando? A volte il pensiero
progressivo, soprattutto negli studi sulla condizione femminile,
tende a immaginare un’ininterrotta evoluzione dei diritti delle
donne che approda felicemente al suo più alto grado nella società
occidentale contemporanea. Concezione su cui si potrebbe
discutere, e con profitto, ma che non interessa qui. Ci interessa
invece chiederci se nei secoli altomedievali le donne lavoravano,
nel senso che alla parola lavoro davano le studiose degli anni sessanta: se quell’ora che sottolineavano costituiva una conquista
rispetto a tempi in realtà assai recenti e non rispetto all’intera
vicenda femminile del passato.
Le fonti che abbiamo potuto scegliere grazie al lavoro dei numerosi studiosi che, recentemente, si sono occupati di questo tema
consentono di affermare che sì, le donne nell’alto Medioevo lavoravano, in entrambi i significati che abbiamo assegnato al verbo:
lavoravano in occupazioni di cura e di supporto all’attività produttiva di padri, mariti e figli, ma lavoravano anche per scelta propria
in attività esterne alla famiglia, seguendo le proprie inclinazioni e
in base, certo, alle possibilità che avevano a disposizione.
Sono due fonti assai diverse quelle che ho scelto in merito al
lavoro della terra: entrambe hanno però una caratteristica in
comune, ossia mostrano uomini e donne affiancati nel lavoro dei
campi. Il polittico, ossia l’inventario di coloni e redditi dell’azienda curtense di Saint-Germain-des-Près nei primi anni del secolo
IX definisce colone, contadine libere o serve, le donne che, al
105
Le donne nell’alto Medioevo
pari degli uomini, si prendevano cura dei poderi dell’azienda,
spesso quali mogli ma talvolta pure incluse, da sole, in gruppi di
coltivatori più ampi. La scultura di Wiligelmo che rappresenta
Adamo ed Eva insieme occupati a zappare illustra la Genesi ma
si discosta dal testo biblico – «Tu uomo lavorerai con gran sudore, tu donna partorirai con gran dolore» – per aderire invece a
una realtà più consueta, che vedeva le donne contadine occupate
non soltanto nella procreazione. Un lavoro, quello delle donne
contadine, che lo studio degli inventari e dei contratti altomedievali ha rivelato essere specializzato in attività interne alla casa,
quali la preparazione di conserve, l’allevamento degli animali da
cortile, piuttosto che esterne; il lavoro all’aperto, negli spazi larghi dei campi e dei boschi appare invece essere stato prerogativa
maschile.
Fra le attività proprie delle donne contadine troviamo l’intero
ciclo della produzione di stoffe e abiti, dalla rasatura delle pecore
e dalla battitura del lino sino alla confezione degli abiti. La tessitura appare già nella tradizione romana un’occupazione così
esclusivamente legata all’attività femminile da far meritare ai
laboratori tessili per traslato il nome di ginecei, genitia in seguito.
Nel Capitolare de villis, l’insieme delle norme che furono emanate da Carlo Magno per regolare la conduzione delle grandi aziende agricole pubbliche, un largo spazio è dedicato all’organizzazione produttiva dei laboratori tessili dove lavoravano le donne:
dovevano essere costruiti in muratura, difesi da steccati e con
infissi ben chiusi per proteggerle da possibili molestie ma, forse,
anche per incrementarne la produttività (pensiamo alle fabbriche
contemporanee che ricevono luce solo dall’alto perché le finestre
ad altezza occhi “distraggono”). La tessitura non era però attività
esclusiva delle serve e delle contadine: anche le figlie di Carlo
Magno, racconta Eginardo, tessevano.
I campi in cui poteva allargarsi l’attività femminile erano ampi
e diversi: emerge comunque dalle fonti, ma è un’evidenza che
appartiene alla società nel suo complesso, non solo alle donne, il
fatto che il lavoro che si svolgeva dipendeva in modo molto stretto dall’ambiente in cui si viveva, dalle opportunità concrete che
offriva la propria condizione di nascita. I talenti personali aveva-
106
La parola alle fonti
no modo di esprimersi solo in un contesto che ne rendesse possibile la messa a frutto: Trotula di Ruggiero (1040-1090) è la più
nota fra le cosiddette matrones sapientes salernitanae, ossia le
donne che presso la scuola medica di Salerno – la scuola più
celebre e produttiva prima del Mille – esercitavano la professione
medica ed erano dette “maestre”. Era figlia e moglie di medici di
quella scuola. Ho scelto un brano dell’introduzione che premise
al suo trattato perché vi si trova un passo che rivela un’importante motivazione sia della scrittura di quel testo sia della stessa pratica della medicina: la consapevolezza, cioè, di quanto per molte
donne fosse difficile accedere alle pratiche terapeutiche, farsi
curare da medici uomini. La diversa complessione fisiologica del
corpo femminile insieme con il pudore consigliava alle donne di
dedicarsi alla cura delle proprie simili.
Anche le pratiche educative, rivolte soltanto a persone di estrazione sociale medio-alta, risentivano di una rigida separazione di
genere: maschi e femmine ricevevano una formazione separata,
non necessariamente però difforme. Era uso diffuso che i bambini di entrambi i sessi cominciassero il loro percorso educativo al
compimento del settimo anno: talvolta erano affidati a precettori
assunti dalla famiglia, più spesso però, sia i maschi sia le femmine, ricevevano un’educazione esterna. I maschi potevano essere
accolti nelle case di grandi aristocratici dove ricevevano prevalentemente una formazione di tipo militare; oppure entrare in
monastero, non necessariamente quali promessi alla vita ecclesiastica, ma anche solo da esterni, per ricevere un’educazione nelle
arti liberali. Questa seconda opportunità riguardava anche le
donne che venivano affidate a monasteri e a canoniche femminili:
non significava necessariamente destinare le bambine alla vita
religiosa, ma offrire loro una possibilità formativa.
Le fonti che ho scelto vogliono dare un quadro di questa attività
femminile: partendo dalla consuetudine delle donne con la lettura
e dalla passione di alcune di loro per lo studio, i testi raccontano
di una passione per lo studio che poteva indirizzarsi poi alla formazione delle allieve. Il testamento del marchese Everardo e della
moglie Gisla mostra come a metà del secolo IX le figlie ricevessero
in eredità libri dai genitori come i fratelli, senza che i contenuti di
107
Le donne nell’alto Medioevo
quei libri mostrassero alcuna volontà di distinzione per genere fra
gli eredi. Il brano della vita di santa Geretrude sottende che ella
conosceva scuole internazionali di studio e di produzione libraria,
che disponeva di una cospicua dotazione economica per procurarsi testi e di una forte volontà di dedicarsi allo studio che preferiva ai doveri amministrativi che il suo ruolo di badessa le imponeva. È un’agiografia e non un ritratto di vita, certo: ma proprio
per questo possiamo affermare che le caratteristiche che l’agiografo attribuisce a Geretrude non solo erano accettabili ma addirittura benemerite per il pubblico che si prefiggeva di raggiungere. Il fatto cioè che una donna si dedicasse pienamente allo studio
e che per far questo trascurasse incombenze quotidiane poteva
rappresentare, allora, un modello esemplare. Il brano tratto dalla
prima scena del dramma di Rosvita Pafnuzio è uno scorcio di particolare vivacità sulla tecnica dialettica nell’insegnamento: è un
uomo che insegna e maschi sono i suoi allievi, ma l’originalità del
dialogo sottende a parere di molti critici la trasposizione di un’esperienza personale di insegnamento certo non improbabile visto
l’attività di Rosvita e la sua presenza a Gandersheim, dove furono
educate molte delle massime esponenti dell’aristocrazia sassone
della seconda metà del secolo X.
Nei monasteri e nelle canoniche femminili il lavoro intellettuale
era molto fecondo. Un luogo comune di pensiero induce ad attribuire automaticamente le opere anonime, frequentissime nell’alto Medioevo, a mani maschili. Così come vedremo per i testi
scritti, anche per la miniatura e la pittura si tratta di un pregiudizio pericoloso, perché emargina senza piena consapevolezza le
donne dalla produzione artistico-letteraria, non solo nella sua fase compositiva e creativa ma pure nella più umile manualità, quel
lavoro artigianale indispensabile affinché un manoscritto fosse
compiuto. Nonostante ciò, almeno una delle donne che miniavano firmò la propria opera: Ende, che realizzò una delle copie
dell’Apocalisse del Beato di Girona nel secolo X, sottoscrisse nel
colophon «En pittrice e aiutante di Dio».
Attività strettamente connesse al ruolo, ma non per questo di
mera rappresentanza, erano quelle della regina, almeno in base al
dettato di diverse fonti di età carolingia. Nel dettato del capitolare
108
La parola alle fonti
de villis alla regina sono attribuiti specifici compiti di responsabilità nella gestione delle risorse alimentari così come, nel De ordine
palatii, Incmaro attribuisce alla regina compiti precisi nella conduzione del palazzo, che veniva considerato allo stesso tempo
centro politico e morale del regno. Una prima versione di questo
testo, una raccolta di norme che attribuisce compiti e funzioni ai
diversi rappresentanti della corte, era stata scritta negli anni venti
del secolo IX da Adalardo di Corbie, ma la versione definitiva che
ci è stata tramandata fu rivista completamente da Incmaro di
Reims nell’881. A parere di Janet Nelson la parte che descrive i
compiti specifici della regina doveva essere presente senza sostanziali modifiche sia nella prima versione sia nell’ultima.
Fonti di quegli stessi anni, che hanno una base culturale comune ma un carattere completamente diverso, dichiaratamente ideologico, quali gli ordines di incoronazione, propongono per la regina modelli attivi e guerrieri, le figure bibliche di Esther e Giuditta
soprattutto, e si propongono almeno retoricamente di superare la
consueta attribuzione di caratteri di debolezza alle donne valorizzando le caratteristiche “strategiche”, e quindi politiche, di quella
debolezza in contrapposizione alla forza bruta.
Un testo francamente eccezionale, consegnatoci dalla tradizione araba e che risale ai primi anni del secolo X, mostra il lavoro
diplomatico sotteso all’esercizio del potere di Berta, figlia di
Lotario e moglie del marchese Adelberto di Tuscia, della quale
già abbiamo parlato. La lettera attesta relazioni reciproche, scambio di informazioni e di doni, pratiche di politica internazionale
che mostrano Berta pienamente inserita in tale contesto nel quale
agiva in prima persona.
L’attività politica condotta in modo indipendente, non solo a
supporto e in supplenza di mariti e figli, fu prerogativa piena delle
badesse. A capo di monasteri o di canoniche dovevano gestire
comunità in genere formate da donne di elevata estrazione sociale
e rappresentanti delle famiglie più potenti dei diversi regni. I
grandi monasteri regi, fondati con quote larghe del patrimonio
fiscale, diventavano luoghi strategici per la gestione delle reti
clientelari che supportavano il potere regio. Ma le stesse dinamiche si riproponevano, in scala ridotta, nelle fondazioni di rilievo
109
Le donne nell’alto Medioevo
regionale, dove si concentravano le donne esponenti di aristocrazie locali. La gestione dei rapporti con l’esterno e, insieme, di consistenti beni patrimoniali erano prerogativa della badessa e delle
donne che collaboravano con lei. L’esenzione immunitaria di cui
godevano gran parte di tali fondazioni imponeva alla badessa la
gestione di poteri di natura civile, quali l’esazione dei tributi,
l’amministrazione della giustizia, la tutela dei deboli. Erano donne
di potere, dunque, e come tali venivano rappresentate. Notevole
in questo senso l’immagine dedicatoria premessa all’evangeliario
di Hitda, attribuito ai primi anni del secolo XI. L’evangeliario è
considerato il capolavoro di una scuola di miniatori che si distacca dall’egemonia della scuola di Reichenau e che viene detta scuola di Colonia. La badessa Hitda offre il manoscritto alla santa
Walburga, cui era dedicato il monastero femminile di Meschede,
in Westfalia, che aveva strette connessioni con Colonia: la santa e
la badessa hanno le stesse dimensioni, tratto che sottolinea analogo rilievo delle due figure su un piano simbolico e con l’atteggiamento dei corpi e delle mani trattano fra loro pressoché alla pari.
La badessa appare velata, come disponeva la norma canonica, ma
con un lungo velo di pizzo che il raffinato lavoro del miniatore
lascia intendere di qualità estremamente preziosa.
Le manifestazioni esteriori, negli abiti e negli ornamenti, del
ruolo di prestigio e di potere che esercitavano le badesse dovevano essere consuete, così come consueti dovevano essere i viaggi, le
permanenze al di fuori del monastero presso le corti e i diversi
centri del potere dove potevano incontrare gli altri membri delle
élites cui appartenevano e dove potevano rappresentare fattivamente gli interessi delle loro comunità. Il concilio di Aquisgrana
dell’816 tentò di reprimere questi comportamenti usuali – le stesse norme li additano come tali – e cercò di relegare a un ruolo
marginale le comunità femminili aristocratiche, imponendo loro
soprattutto l’isolamento e condannando l’abitudine delle badesse
a muoversi continuamente per il regno. Da appena due anni era
diventato imperatore Ludovico, detto il Pio, e il clima alla corte
carolingia, come abbiamo già avuto modo di notare, era bruscamente cambiato. Il disciplinamento proposto da quelle norme
non dovette conoscere successi significativi: durante i secoli IX, X,
110
La parola alle fonti
e ancora nell’XI, numerose sono le fonti che testimoniano che i
comportamenti e il ruolo delle badesse non ne avevano risentito.
Gravosi erano gli impegni di Gerberga, nipote dell’imperatore
Ottone I e badessa di Gandersheim, ricorda Rosvita, che pure
aggiunge la richiesta di continuare a comportarsi con lei come una
maestra, accogliendo i suoi scritti a cui dedicare ore di svago ma
con l’impegno critico di discuterne con lei le mancanze. Gandersheim era stato fondato nell’852 dal duca Liudolfo di Sassonia,
trisavolo di Ottone I re di Germania e dalla moglie Oda; fu, fin
dall’inizio, un luogo riservato esclusivamente all’aristocrazia femminile sassone e le sue badesse appartennero sempre alla discendenza ottoniana. Nel 947 Ottone I concesse al monastero l’immunità e lo pose sotto la diretta autorità del papa per renderlo indipendente anche dalla diocesi d’appartenenza: quando Rosvita vi
entrò poteva essere definito – come ha fatto Peter Dronke – un
«piccolo, orgoglioso, indipendente principato guidato da donne».
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112
La parola alle fonti
2.5.1 Il lavoro della terra
a) Insieme, nei poderi
Polittico dell’abbazia di Saint-Germain-des-Près (814 ca.)
1. [L’abbazia] possiede a Palaiseau un manso signorile con
una casa e altre costruzioni agricole in numero sufficiente.
[In questo manso] essa possiede sei colture di terra arabile
per la superficie complessiva di 287 bunuaria dove possono essere seminati 1300 moggi di frumento, e 127 arpenti
di vigna dove possono essere raccolti 800 moggi di vino.
Ha cento arpenti di prato, dove possono essere raccolti
150 carri di fieno e una foresta la cui circonferenza totale è
stimata in una lega, dove possono essere ingrassati 50
porci. Essa vi possiede tre mulini da grano, che procurano
un censo di 154 moggi di grano, e una chiesa, costruita con
ogni diligenza, da cui dipendono 17 bunuaria di terra arabile, cinque arpenti e mezzo di vigna e tre arpenti di prato.
Inoltre essa vi possiede un manso ingenuile che comprende quattro bunuaria e due antsingas di terra arabile, un arpento e mezzo di vigna, tre arpenti di prato. Vi risiedono
sei ospiti che hanno ciascuno un manso di terra arabile e
debbono in contraccambio una giornata lavorativa, un pollo e cinque uova alla settimana. Essa possiede un’altra
chiesa a Gif, tenuta dal prete Warodo. Vi risiedono sette
ospiti, […] i quali devono una giornata lavorativa alla settimana, se la chiesa dà loro il vitto, un pollo, cinque uova e
quattro denari; inoltre esige in dono un cavallo.
2. Walafredo colono e fattore e sua moglie, colona, […] uomini di San Germano, hanno con sé due bambini. […] Egli
tiene due mansi ingenuili, per sette bunuaria di terra arabile, sei arpenti di vigna, quattro arpenti di prato. Paga per
ogni manso un bue all’anno; l’anno seguente un porco
adulto; quattro denari per il diritto d’uso del bosco, due
moggi di vino per il pascolo, una pecora con un agnello.
113
Le donne nell’alto Medioevo
Egli ara quattro pertiche per il grano invernale e due pertiche per il grano primaverile; fa corvées, trasporti, lavori
manuali e taglio della legna per quanto gli si comanda; deve
tre polli e quindici uova.
3. Airmondo colono, e sua moglie, colona, […] uomini di
San Germano, hanno con sé cinque bambini. […] Egli
tiene un manso ingenuile per dieci bunuaria di terra arabile, due arpenti di vigna, un arpento e mezzo di prato, paga
come il precedente.
38. Ebrulfo, colono, e sua moglie, schiava, […] uomini di
San Germano, hanno con sé quattro bambini; Ermenoldo,
schiavo, e sua moglie, colona, uomini di San Germano,
hanno con sé quattro bambini; Teutgarda, schiava di San
Germano, ha con sé un bambino. […] Questi tre tengono un
manso ingenuile per otto bunuaria e una antsingo di terra
arabile, quattro arpenti di vigna, due arpenti oli prato. Nella
vigna [signorile] coltivano otto arpenti; pagano per il pascolo
due moggi di vino e due staia di senape nera.62
Testo tratto da Polittico dell’abbazia di Saint-Germain-des-Près, cc. 1-3, 38
(circa 814).
62
114
La parola alle fonti
b) Insieme, sui campi
Wiligelmo, Il lavoro dei progenitori, 1099-1106, marmo. Modena, Duomo.
2.5.2 La tessitura
a) Isidoro e il gineceo
Il gineceo è stato così chiamato, con vocabolo greco, in
quanto luogo in cui si riuniscono delle donne per lavorare
la lana; in Greco infatti donna si dice gunø.63
63
Testo tratto da Isidoro di Siviglia, Etimologie o origini, cit., XV, VI, p. 277.
115
Le donne nell’alto Medioevo
b) I genitia: l’organizzazione produttiva
Capitulare de villis (800 ca.)
Che i nostri laboratori di tessitura siano ben costruiti, cioè
chiusi da mura, con camere riscaldate e stanze per l’inverno; e siano circondati da buoni steccati e abbiano infissi
ben chiusi in modo che ci si possa lavorare con tranquillità.
Ai nostri laboratori di tessitura facciano dare, e a tempo
opportuno, così come è stato stabilito, il materiale necessario, cioè il lino, la lana, il guado,64 lo scarlatto,65 la robbia,66 i pettini da lana, i cardi per la cardatura, il sapone, il
grasso, i vasetti e tutti quei piccoli oggetti necessari alle
varie operazioni.67
c) Tutte le donne tessono
Eginardo, Vita di Carlomagno (830 ca.)
Volle che i suoi figli fossero educati così che prima tanto i
maschi quanto le femmine fossero istruiti nelle arti liberali,
che si era messo a studiare anche lui. Successivamente fece
addestrare i maschi, appena l’età lo permise, a cavalcare, a
usare le armi e a cacciare al modo dei Franchi, mentre,
riguardo alle figlie, fece sì che si impratichissero nell’arte
della lana e si abituassero al lavoro della conocchia e del
fuso, perché non si impigrissero nell’ozio e curò che fossero educate a comportarsi con ogni onestà e decoro.68
È l’isatide, un’erba da cui si produce una tinta blu.
È un estratto dalla cocciniglia che serve a tingere di rosso.
66
È un’erba da cui si produce una tinta rossa.
67
Testo tratto da B. Fois, Il Capitulare de villis, cap. IL, p. 291 e cap. XLIII, p. 290.
68
Testo tratto da Eginardo, Vita di Carlomagno, cit., cap. 19, p. 65.
64
65
116
La parola alle fonti
2.5.3 La medicina
Perché è utile che siano le donne a curare le altre donne
Trotula de Ruggiero, Sulle malattie delle donne (fine sec. XI)
Quando Dio, artefice dell’universo, sin dall’origine del mondo
distinse ogni natura secondo il suo genere, foggiò quella umana al di sopra delle altre per singolare dignità. Le conferì
infatti una condizione razionale superiore a quella degli altri
esseri animati e libertà d’arbitrio. E poiché volle che il genere
umano si perpetuasse in eterno, creò l’uomo e la donna con
diverso sesso, affinché una futura prole non cessasse mai di
nascere dalla loro feconda unione. Infondendo dilettosi lacci
nel loro congiungimento, creò la natura del maschio calda e
asciutta e quella della donna fredda e umida, sicché l’eccesso
di ciascuna complessione fosse moderato dalla mutua incompatibilità dei contrari, al punto che la natura dell’uomo, calda e
asciutta, moderasse quella fredda e umida della donna e, viceversa, la natura di lei, fredda e umida, moderasse quella di lui,
calda e asciutta. Fece pure sì che il maschio, di costituzione più
robusta, riversasse il suo seme nella donna come in un campo,
e questa, di costituzione più debole in quanto soggetta al ruolo
del maschio, ricevesse secondo natura il seme versato nel suo
grembo. Poiché le donne sono per natura più deboli degli
uomini, ne deriva che in loro sono più frequenti le malattie,
soprattutto in quelle parti che debbono adempiere al compito
naturale. E dal momento che tali malanni si manifestano nelle
zone più intime, le donne non osano, per pudore e per la fragilità della loro condizione, rivelare al medico i tormenti provocati dal dolore. Per questo motivo io, mossa da tali compassionevoli circostanze, sollecitata soprattutto da una nobile signora, presi a riflettere più attentamente sulle malattie che assai
spesso affliggono il sesso femminile.69
69
Testo tratto da Trotula de Ruggiero, Sulle malattie delle donne, a c. di P.
Cavallo Boggi, Torino 1979, pp. 5-6.
117
Le donne nell’alto Medioevo
2.5.4 Studiare e insegnare
a) Ereditare libri
Testamento di Everardo marchese del Friuli e di Gisla sua moglie
(867)
Vogliamo anzitutto che Unroch abbia il nostro salterio
doppio, la nostra Bibbia, il libro di sant’Agostino Delle
parole del Signore; i libri che contengono le leggi dei Franchi, dei Ripuari, dei Longobardi, degli Alamanni e dei Bavari; il libro sull’arte militare, il libro dei vari sermoni, il
primo dei quali è dedicato a Elia e Achab; il libro delle
costituzioni dei principi e degli editti imperiali, i Sinonimi
di Isidoro, il libro delle quattro virtù, il Vangelo, il bestiario e la Cosmografia del filosofo Aethicus.
Vogliamo che Berengario abbia l’altro salterio scritto in lettere d’oro, la Città di Dio di sant’Agostino, il trattato delle
parole del Signore, la storia dei pontefici romani, la Storia dei
Franchi, il libro dei vescovi Isidoro, Fulgenzio e Martino, il
libro di Efrem, i Sinonimi di Isidoro, un glossario e un calendario.
Vogliamo che Adalardo abbia l’altro salterio che noi adoperiamo, il commento delle Epistole di Paolo, il libro di
sant’Agostino Delle parole del Signore, il commento al profeta Ezechiele, il lezionario delle Epistole e dei Vangeli
scritto in oro, la vita di san Martino, il libro di Aniano, i
sette libri di Paolo Orosio, i libri di sant’Agostino e del
prete Gerolamo su ciò che disse Giacomo: «Chiunque,
dopo aver osservato la legge, venga meno in un sol punto,
è giudicabile come tutti gli altri».
Vogliamo che Rodolfo abbia il salterio commentato di cui si
serviva Gisella, l’opera di Smaragdo, il Collectaneum, il libro
di Fulgenzio, il messale quotidiano che era nella nostra cappella, la Vita di san Martino, la Fisionomia del medico Losso
e l’Elenco dei primi principi.
Vogliamo che la nostra figlia maggiore Engeltrude abbia il
118
La parola alle fonti
libro chiamato Vite dei Padri, il libro dell’insegnamento di
san Basilio, la storia di Apollonio, i Sinonimi di Isidoro.
Vogliamo che Giuditta abbia un messale e il libro che
comincia con il sermone di sant’Agostino sull’ubriachezza,
la legge dei Longobardi, il libro di Alcuino al conte Guido.
Vogliamo che Eilvince abbia un messale, un passionario,
un libro di preghiere con i Salmi, un libretto di orazioni.
Vogliamo che Gisella abbia il libro delle quattro virtù e
l’Enchiridion di sant’Agostino.70
b) Studiare
Vita Geretrudis. Recensio A (fine VII sec.)
La madre Itta condusse sua figlia Geretrude, eletta da Dio,
dai sacerdoti perché prendesse il sacro velo con le sue
compagne e ordinò che fosse preposta al santo gregge
delle monache, secondo il volere di Cristo; infatti per la
correttezza dei comportamenti, la serietà del pensiero e la
moderazione nel linguaggio appariva assai più matura della
sua età. Era anche affettuosa, bella in viso ma ancor più
bella nell’animo, di pura castità, generosa nelle elemosine,
dedita al digiuno e alla preghiera, provvida nell’accoglienza dei poveri e dei pellegrini, pia nei confronti dei malati e
dei vecchi, ma severa nell’applicare la disciplina ai giovani.
Con grandissima dedizione poneva cura pastorale allo sviluppo degli studi ecclesiastici e, tramite suoi ambasciatori,
uomini di sicura fede, meritò di ottenere per sé e per le sue
consorelle reliquie di santi e sacri testi dalla città di Roma e
dalle regioni al di là del mare che generano uomini inegua-
70
Testo tratto da S. Gasparri, A. Di Salvo, F. Simoni, Fonti per la storia
medievale. Dal V all’XI secolo, Sansoni, Firenze 1992, Testamento di Everardo,
in originale latino in Cartulaire de l’abbaye de Cysoing et de ses dépendences, a
c. di I. de Coussemaker, I, Lille 1884, pp. 1-5.
119
Le donne nell’alto Medioevo
gliabili nell’insegnare i testi della legge divina, affinché,
grazie all’ispirazione divina, potessero meditarvi.
[…] Una volta che la madre morì, la beata Geretrude, serva di Dio, trovatasi a sostenere da sola tutto il peso della
gestione pratica dell’esistenza, meditava fra sé quanto
avrebbe preferito dedicarsi completamente alla contemplazione divina senza la rumorosa distrazione delle cure secolari.
Affidò allora la cura dei fratelli a buoni e fedeli amministratori, mentre, all’interno del monastero, consegnò la
gestione della comunità alle sue sorelle spirituali, in modo
tale che poté così combattere giorno e notte nel santo
agone con veglie, preghiere, santo studio e digiuni contro
la malvagità spirituale.
E raggiunse così tali risultati da conoscere a memoria pressoché tutta la biblioteca della legge divina, e, grazie alla
rivelazione dello Spirito Santo, da spiegare con chiarezza a
chi l’ascoltava gli oscuri misteri dell’allegoria. E inoltre
costruì dalle fondamenta chiese dei santi e altri importanti
edifici e provvide con grande generosità al quotidiano
sostentamento di orfani, vedove, prigionieri e pellegrini.71
c) E insegnare
Rosvita, Conversione della prostituta Taide (960 ca.)
Discepoli: Cos’è la musica?
Pafnuzio: È una delle discipline del quadrivio filosofico.
Discepoli: Quello che tu definisci quadrivio da cosa è costituito?
Pafnuzio: Da aritmetica, geometria, musica e astronomia.
Discepoli: Perché quadrivio?
Testo tratto e tradotto da Vita Geretrudis. Recensio A, in MGH, Scriptores,
Scriptores rerum Merovingicarum, 2. Fredegarii et aliorum Chronica. Vitae
Sanctorum, a c. di B. Krusch, Hannoverae 1888, pp. 435-464, alle pp. 456-458.
71
120
La parola alle fonti
Pafnuzio: Dal quadrivio si diramano le strade e così da un
unico principio filosofico hanno origine diretta i procedimenti di queste discipline.
Discepoli: Vorremmo farti delle domande per appurare
qualcosa sulle altre tre discipline, ma esitiamo perché riusciamo a stento a orientarci nella difficile discussione cominciata: il nostro cervello è di modeste capacità.
Pafnuzio: Sono argomenti difficili.
[…]
Discepoli: Noi, colle nostre domande, cerchiamo di uscire al
più presto dalle difficoltà e tu ce le moltiplichi di continuo.
Pafnuzio: È quanto richiede una discussione di questo tipo.
[…]
Discepoli: Se avessimo previsto che il nodo della questione
fosse così difficile da sciogliere per degli ignoranti, avremmo preferito non conoscere il microcosmo piuttosto che
affrontare una simile difficoltà.
Pafnuzio: Tanta fatica non è male: avete imparato cose che
prima vi erano sconosciute.
Discepoli: È vero: ma le dispute filosofiche ci stancano: la
difficoltà del tuo ragionamento non siamo in grado di
misurarla con la nostra intelligenza.
Pafnuzio: Perché vi prendete gioco di me? Io sono soltanto
un ignorante e non un filosofo.
Discepoli: E le cognizioni che ci hai esposto facendoci
sudare da dove le hai prese?
Pafnuzio: Ho cercato di rendervi partecipi di una minuscola
goccia di sapienza. Mi ci sono imbattuto e l’ho assorbita,
mentre traboccava dalle coppe ricolme dei saggi, e non è che
mi fossi fermato per raccoglierla, passavo di lì per caso.
Discepoli: Ti ringraziamo per la tua benevolenza, ma ci
spaventa la frase dell’Apostolo: «Dio ha scelto gli sciocchi
per confondere i sapienti».72
Testo tratto da Rosvita, Dialoghi drammatici, cit., Conversione della prostituta Taide, scena I, 7-8; 13; 18-20, pp. 217-229.
72
121
Le donne nell’alto Medioevo
2.5.5 Fare la regina: un mestiere impegnativo
a) La forza della debolezza
Ordines coronationis imperialis, Benedictio reginae (950-964)
Dio onnipotente ed eterno, fonte e origine di ogni bene,
che non hai mai condannato la fragilità del sesso femminile, ma che piuttosto lo hai prescelto, approvandolo pienamente con grande benevolenza; e che hai stabilito di turbare i forti preferendo le debolezze del mondo e che hai persino voluto consegnare nelle mani di Giuditta, che fu
donna del popolo ebraico, la palma del trionfo della tua
gloria e della tua virtù su un nemico ferocissimo, ascolta, ti
preghiamo, le preghiere della nostra umiltà, e sopra questa
tua serva N. che abbiamo scelto quale regina con supplice
devozione, moltiplica i doni delle tue benedizioni e circondala sempre e ovunque con la mano destra che esprime la
tua potenza, affinché ovunque sia protetta, recando seco lo
scudo della tua protezione e sia in grado di sconfiggere
trionfalmente la malvagità dei nemici visibili o invisibili, e
insieme con Sara e Rebecca, Lia e Rachele, donne beate e
venerabili, meriti di essere fecondata nella grazia dal frutto
del suo grembo, reggendo e proteggendo a onore di tutto
il regno e della condizione della santa chiesa di Dio. Per
Cristo nostro signore che, nato dall’intatto grembo della
beata Maria vergine, ci ha fatto grazia di vivere in questo
mondo e di rinnovarlo. Che Dio viva e si glori con te nell’unità con lo Spirito Santo, nell’immortalità dei secoli dei
secoli. Così sia.73
Testo tratto e tradotto da Ordines coronationis imperialis. Die Ordines für
die Weihe und Krönung des Kaisers und der Kaiserin, in MGH, Fontes iuris germanici antiqui in usum scholarum, IX , a c. di R. Elze, Hannover 1960,
Benedictio reginae, pp. 6-9, alle pp. 7-8.
73
122
La parola alle fonti
b) I compiti della regina a palazzo
Incmaro di Reims, De ordine palatii (881)
Alla regina e, in second’ordine, al camerario, spetta in modo
precipuo di occuparsi del decoro del palazzo e in special
modo degli ornamenti regi così come dei doni annuali per i
cavalieri, eccetto per quel che riguarda il cibo, le bevande e i
cavalli. E sarà loro cura, sulla base delle caratteristiche di
ciascuna fornitura, di provvedere sempre a tempo debito al
loro approvvigionamento, in modo che non manchi mai ciò
che serve nel momento opportuno. Spetta al camerario invece occuparsi dei doni per le diverse delegazioni di ambasciatori, a meno che non accada che, per ordine del re, ci siano
questioni tali che sia opportuno che la regina le tratti di persona insieme con il camerario. A tutte queste cose comunque e ad altre simili il camerario deve prestare attenzione,
affinché il signor re, sgravato da ogni occupazione domestica e relativa al palazzo, per quanto ragionevolmente e decorosamente ciò possa essere, riponendo instancabilmente la
sua speranza in Dio onnipotente, possa aver sempre tutto il
suo animo pronto per governare e conservare la condizione
di tutto intero il suo regno.74
Testo tratto e tradotto da Hincmari Remensis De ordine palatii, a c. di T.
Gross, R. Schieffer, MGH, Leges, Fontes iuris Germanici antiqui, III, Hannover
1980, cap. 22, pp. 72-74.
74
123
Le donne nell’alto Medioevo
c) La regina ordina e punisce
Capitulare de villis (800 ca.)
Vogliamo che qualunque cosa noi o la regina abbiamo ordinato a ciascun amministratore o che i nostri officiali, il
siniscalco e il bottigliere, abbiano ordinato agli stessi amministratori riportando una nostra volontà, sia fatta così come
è stata ordinata; e se qualcuno avesse mancato di far ciò per
negligenza, si astenga dal bere dal momento in cui gli sarà
comunicato di presentarsi, fino al momento in cui venga
davanti a noi o alla regina e chieda di essere perdonato. E se
un amministratore fosse stato nell’esercito, di guardia, o
impegnato in un’ambasceria o in un altro luogo e, approfittando di ciò, i suoi sottoposti avessero ignorato i suoi ordini,
che questi vengano a piedi a palazzo e restino digiuni fino a
che non spieghino il perché della loro mancanza. Quindi
subiscano la punizione, o in frustate o in qualsiasi altro
modo sarà deciso da noi o dalla regina.75
2.5.6 La diplomazia
La lettera di Berta al califfo di Bagdad (905)
In nome di Dio clemente e misericordioso. Dio con la sua
potenza, o re eccellente nella conoscenza e potente nell’autorità, ti preservi da tutti i tuoi nemici, consolidi il tuo regno, ti
mantenga per sempre in salute nel corpo e nell’anima.
Io, Berta figlia di Lotario, regina di tutti i Franchi, ti saluto,
mio signore re: su di te la pace. Tra me e il re dell’Ifriqiyya vi
era amicizia, perché io finora non sospettavo che vi fosse
Testo tratto da B. Fois Ennas, Il “Capitulare de villis”, Milano 1981, capitolo XVI, pp. 285-286.
75
124
La parola alle fonti
sulla terra un re superiore a lui che governava la terra fino a
questo punto estremo. Le mie navi uscirono e presero le
navi del re dell’Ifriqiyya, il cui comandante era un eunuco
chiamato Alì. Lo feci prigioniero con centocinquanta uomini che erano con lui su tre navi e rimasero nel mio regno per
sette anni. Lo trovai intelligente e pronto, ed egli mi informò
che tu sei re di tutti i re e benché molti uomini fossero venuti nel mio regno, nessuno mi aveva detto la verità su di te,
eccetto questo eunuco che ti porta questa mia lettera.
Ho mandato con lui doni, cose che si trovano nel mio paese,
per tributarti onore e ottenere il tuo appoggio. Essi sono:
cinquanta spade, cinquanta scudi, cinquanta lance franche,
venti vesti intessute d’oro, venti servi, venti ancelle, dieci
grandi cani, contro i quali non resistono neppure le bestie
feroci, sette falchi, sette sparvieri, una tenda di seta con tutto
il suo apparato, venti vesti di lana tinte con conchiglie estratte dal fondo del mare, dai colori cangianti come l’arcobaleno, che cambia colore a ogni ora del giorno, tre uccelli originari del paese dei Franchi i quali, se vedono cibi e bevande
avvelenati, emettono strida orrende e sbattono le ali finché
non lo si capisce, perle di vetro che estraggono senza dolore
frecce e punte di lancia, anche se vi è ricresciuta la carne
attorno.
Egli mi ha informato che tra te e il re dei Romani che risiede a Costantinopoli vi è amicizia. Ma io ho sovranità più
vasta ed eserciti più numerosi, poiché la mia sovranità si
estende su ventiquattro regni, ciascuno dei quali ha un linguaggio diverso da quello del regno che gli è vicino, e nel
mio regno sta la città di Roma la Grande. Dio sia lodato.
L’eunuco mi ha detto che le tue cose procedono bene,
riempiendo il mio cuore di soddisfazione e io chiedo a Dio
di aiutarmi a ottenere la tua amicizia e la concordia tra noi
per quanti anni tu desideri: che ciò avvenga dipende da te.
La concordia è cosa che nessuno della mia famiglia, della
mia parentela e della mia stirpe ha mai ricercato, né alcuno
mi aveva mai informata dei tuoi eserciti e della tua nobiltà
come ha fatto questo eunuco che ti ho mandato.
125
Le donne nell’alto Medioevo
O mio signore, sia su di te, per l’amore di Dio, la pace più
grande. Scrivimi della tua salute e di tutto ciò di cui hai
bisogno nel mio regno e nel mio paese tramite l’eunuco
Alì. Non trattenerlo presso di te, affinché egli possa portarmi la tua risposta: io aspetto il suo arrivo. Gli ho anche
fatto portare un segreto che egli ti dirà quando vedrà il tuo
volto e udrà le tue parole, affinché questo segreto rimanga
tra noi, giacché non voglio che venga a conoscenza di alcuno tranne te, me e questo eunuco.
La più grande pace di Dio sia su te e sui tuoi e possa Iddio
umiliare il tuo nemico e farlo calpestare sotto i tuoi piedi.
Salute.76
Testo tratto da G. Gandino, Aspirare al regno: Berta di Toscana, in Agire da
donna. Modelli e pratiche di rappresentazione (secoli VI-X), a c. di C. La Rocca,
Turnhout 2007 (Collection Haut Moyen Âge, 3), pp. 249-268, alle pp. 267-268.
76
126
La parola alle fonti
2.5.7 Fare la badessa
a) Un ruolo di prestigio
Evangeliario della badessa Hitda, Hidta offre a santa Walburgis l’Evangeliario, 10001020 ca., miniatura. Darmstadt, Hessische Landesbibliothek, Hs. 1640, fol. 6r.
127
Le donne nell’alto Medioevo
b) Rettrici e maestre
Rosvita, Poemetti agiografici, Dedica a Gerberga (960 ca.)
Salve Gerberga, luminosa discendente di una stirpe regale,
illustre per costumi e cultura. Accetta, mia buona signora,
con fronte serena queste mie modeste poesie che ti consegno perché tu le corregga. Emenda come si conviene i rozzi
versi di colei che ammaestrasti con la tua sublime dottrina.
E quando ti sentirai stanca delle tue molteplici occupazioni,
degnati di leggere per diletto questi poveri carmi; cerca di
eliminare i difetti di questa mia spregevole musa e di sostenerla con i tuoi preziosi insegnamenti, in modo che l’ardente
zelo dell’alunna possa tributare fama alla sua signora, mentre
i carmi della devota allieva ne tributeranno all’insegnante.77
c) Responsabilità e impegni
Concilium Aquisgranense (816)
Quali debbano essere le badesse dei monasteri femminili
Le badesse che devono prendersi cura di governare le anime
devono essere tali da esercitare con le parole e con gli esempi la guida della santa religione nei confronti delle proprie
sottoposte che devono servire non per volontà personale ma
che piuttosto devono esprimere con la massima solerzia
l’impegno dovuto da chi è suddito; e devono custodire loro
stesse e le consorelle immuni da ogni possibile vizio, come
vasi santi nei quali si possa offrire degnamente in qualsiasi
istante a Dio l’incenso della preghiera, in modo tale che,
protese alla vita eterna, meritino di partecipare alla sola
comunità dei cittadini superni. Quale autorità dunque, quali
Testo tratto da Rosvita di Gandersheim, Poemetti agiografici, in Rosvita,
Poemetti agiografici e storici, cit., p. 19.
77
128
La parola alle fonti
scritti dei santi padri attribuiscono loro l’autorizzazione a
vagare fuori dai monasteri, o a risiedere all’esterno, o a indossare vesti di seta o a servirsi di inutili ornamenti? Ma
poiché non possono fare lecitamente tutto ciò sulla base di
alcuna autorizzazione, soprattutto perché è esplicitamente
vietato dai santi padri, come risulta dai capitoli precedenti,
che la smettano, e che da ora in poi evitino abitudini di tal
fatta in tutti i modi che Dio possa loro concedere, perché,
anche se nel mondo secolare erano solite godere voluttuosamente di tali delizie di diversa specie, nei monasteri invece
nei quali le spose di Cristo devono essere governate comunitariamente a spese del Signore, è giusto vietare ciò in nome
del limite dell’uguaglianza. Conviene allora che esse siano
ben consapevoli perché non sono state scelte solamente per
loro stesse, ma piuttosto affinché nutrano sia fisicamente, sia
spiritualmente loro stesse e le proprie sottoposte, e che Dio
le ha elevate sopra le altre non soltanto per comandare ma
affinché giovino alla comunità. Pertanto è necessario che
con solerzia costringano loro stesse e le loro sottoposte alle
regole della santa religione. E così come sono superiori alle
altre grazie alla carica abbaziale, siano superiori anche nell’esempio delle conversazioni pie e non osino perpetrare ciò
che vietano di fare alle altre. Infatti, come afferma il beato
Gregorio, corregge in modo giusto gli errori degli altri solo
colui che non si macchia delle colpe che condanna. Ma,
dato che l’assenza del pastore suole rendere facili prede le
pecore, è necessario che le badesse risiedano con regolarità
nei monasteri e che vigilino con la massima cura sulle pecore
loro affidate per evitare che, in loro assenza, le sottoposte
diventino prede per invisibili lupi.78
78
Testo tratto e tradotto da Institutio sanctimonialium Aquisgranensis, cit.,
cap. VII, pp. 442-443.
129
Le donne nell’alto Medioevo
2.6 Scrivere
“Scrivere” avrebbe potuto essere solo un paragrafo di “Lavorare”: questo perché la scrittura di cui tratteremo non è una scrittura occasionale, diaristica – che peraltro non è giunta a noi neppure per gli uomini – ma proprio una scrittura professionale, quella
di chi esercita un’attività intellettuale dopo aver ricevuto una formazione adeguata. È diventato un capitolo a sé stante perché solo
la scrittura riesce a trasmettere a distanza di tanti secoli almeno
qualcosa dell’identità personale: è l’unica tipologia di fonte che
conserva tracce della coscienza di sé e del modo di rappresentarsi
proprio delle donne di quei tempi lontani, l’unico modo che
abbiamo per sentire ancora la loro voce. E, inevitabilmente, è un
capitolo a sé stante perché io stessa sono donna e scrivo: e non
voglio celare né la simpatia né il coinvolgimento personale nei
confronti di chi, migliaia di anni prima di me, ha fatto un lavoro
simile al mio.
Ci fu, ed è stato da lungo tempo studiato, un rapporto “artigianale” fra le donne e la scrittura nell’alto Medioevo: numerosi
furono i centri scrittori nei monasteri femminili dove si producevano i libri copiando testi e miniature, con attestazioni che partono dal secolo VIII e proseguono nei secoli successivi. Talvolta le
religiose che svolgevano questo lavoro lasciavano sui codici piccole tracce di scrittura spontanea, note memoriali o, più semplicemente, di lettura.
Molte donne si dedicavano poi – ed è un’acquisizione storiografica più recente – a una scrittura “comunicativa”: erano donne che possedevano libri, avevano accesso alle raccolte di codici
delle biblioteche, leggevano abitualmente e, in prima persona, si
dedicavano ai generi letterari più diversi: agiografie, epistole,
poesie ma anche, come vedremo, drammi, trattati, narrazioni storiche. Tali donne appartenevano senz’altro ai vertici sociali del
loro tempo, ma questo non è un argomento sufficiente per considerarle eccezioni a una presunta regola che vorrebbe comunque
le donne illetterate e ignoranti. La tradizione delle fonti altomedievali e, probabilmente, la loro stessa composizione ci mettono
sempre a contatto con una élite intellettuale, sia maschile sia fem-
130
La parola alle fonti
minile: sul livello di istruzione delle classi subalterne pochissimo
si riesce a dire. Una scorsa rapida all’epistolario di Alcuino di
York, l’intellettuale più celebre della corte di Carlo Magno, mostra una presenza femminile cospicua e costante fra i suoi corrispondenti, donne con cui egli appare avere una confidenza e uno
scambio basato su studi e argomenti di discussione comuni.
È espediente consueto per gli scrittori usare l’argomento retorico
dell’umiltà per presentare ai lettori il proprio lavoro: è una modalità cortese che intende prevenire critiche violente mostrando per
primi consapevolezza delle pecche del proprio lavoro. Questo
topos però, ha osservato Natalie Davies scrivendo delle storiche
che lavorarono fra 1400 e 1800, assume un sapore particolare sulla
bocca delle donne: sotto le proteste di incapacità, sotto un modesto (o prudente) anonimato, dobbiamo essere preparati a trovare,
così come consiglia Janet Nelson, strenuae matronae. Donne combattive cioè, che, dichiarando per prime la loro inadeguatezza, non
solo difendono il loro lavoro in quanto autrici, ma instillano anche
il dubbio che quel “fragile intelletto femminile” di cui dicono di
essere dotate risulti, alla prova dei fatti, così tanto inadeguato al
lavoro che hanno compiuto.
Rosvita di Gandersheim usa l’intero campionario di questi elementi retorici presentando i propri Dialoghi drammatici ai dotti
che dovranno correggerli, impiegando nel contempo una forma
ricchissima e complessa, una prosa rimata piena di antitesi e
metafore, che contraddice nei fatti quell’incapacità che, a parole,
dichiara di avere. E dimostra forte consapevolezza di sé, affermando che avrebbe compiuto un peccato contro Dio stesso che
l’aveva dotata di quell’«ingeniolum» (piccolo ingegno), se non
l’avesse educato e poi impiegato a dovere. La forma retorica dell’umiltà e dell’inadeguatezza fu poi facilmente piegata da Rosvita
per giustificare un rifiuto politico di esporsi su temi e fatti scottanti: nei Gesta Othonis, epica narrazione in esametri delle imprese di Ottone I, Rosvita si sottrae in parte all’ordine della sua
badessa Gerberga, nipote dell’imperatore, adducendo la sua
incapacità di trattare temi così alti quali le imprese “imperiali” di
Ottone. Si limita a raccontare quelle “regie”, ma nega nei fatti –
ancora una volta mentre la afferma a gran voce – la propria inca-
131
Le donne nell’alto Medioevo
pacità, riassumendo con grandissima abilità tecnica le imprese
italiane di Ottone in una ventina di versi finali del poema che
dimostrano la sua piena conoscenza dei fatti, le sue indiscutibili
capacità tecniche e, insieme, la sua precisa e forte volontà di non
esprimere pubblicamente giudizi in merito, giudizi che, evidentemente, intendeva tenere per sé.
Molti riferimenti nell’opera di Rosvita dimostrano che non era
un’autrice isolata, ma perfettamente inserita in un circolo intellettuale che ruotava intorno alla corte di Ottone I, dove trovavano posto Bruno, fratello del re e cancelliere del regno, poi vescovo di Colonia, dove furono accolti i vescovi Raterio di Verona,
Liutprando di Cremona, Gonzone di Novara, ma che comprendeva anche Gerberga, nipote di Ottone I, e le altre donne dell’aristocrazia che avevano scelto di dedicarsi agli studi, vivendo
come monache o come canonichesse nei monasteri femminili,
come quello di Regensburg (Ratisbona), dove Gerberga aveva
ricevuto la sua prima formazione e dove, alla fine del Quattrocento, fu ritrovato il manoscritto delle opere di Rosvita.
Anche l’anonima autrice della Vita Mathildis reginae – della
versione più antica di questo testo redatta negli anni settanta del
secolo X –, una donna della stessa generazione di Rosvita, usa
con piena analogia argomenti simili per giustificare il proprio
lavoro. Consapevole che narrazioni di quel tipo dovrebbero essere trattate da autori dotati di migliori capacità professionali, pure
«non con l’audacia dei maschi ma con prona devozione», l’autrice dichiara di non aver potuto fare a meno di quel gesto di arroganza, perché, altrimenti, il ricordo di imprese così degne di
essere raccontate sarebbe andato perduto. E qui interviene un
argomento ulteriore che le autrici adducono per giustificare e
legittimare la propria attività di scrittura: la consapevolezza cioè
che di certi temi e di certi fatti, senza il loro lavoro, non sarebbe
rimasta traccia.
Originalità nei temi e originalità nelle scelte dei testi su cui
appoggiare il proprio lavoro: Rosvita, ancora una volta, è preziosa testimone di questo atteggiamento. Usa come ispirazione narrativa dei suoi – peraltro noiosissimi – Poemetti agiografici, testi
apocrifi, condannati dai vertici ecclesiastici. Adduce a scusa la
132
La parola alle fonti
propria ignoranza – «non sapevo fossero considerati spuri» – ma
ne rivendica coscientemente l’impiego e la scoperta: «perché
quel che oggi sembra falso, forse un giorno sarà provato e riconosciuto come vero».
La scrittura femminile di narrazioni storiche fra i secoli VIII e X è
un tema di ricerca molto recente, praticato in prima istanza da
Peter Dronke, storico della letteratura mediolatina, e poi da Janet
Nelson che, quale storica della politica e delle istituzioni, ha trattato il tema con un’attenzione centrata più su tali aspetti che su quelli, più strettamente letterari, valorizzati da Dronke. Nelson è partita da un’osservazione quasi banale: i proemi di molte narrazioni
storiche di quei secoli dedicano tali opere a donne potenti che
spesso sono ricordate quali committenti delle opere stesse: Adelperga, la figlia di re Desiderio che divenne principessa di Benevento, commissiona a Paolo Diacono la Storia romana, perché
ormai si annoiava a leggere il compendio di Eutropio; Freculfo di
Lisieux dedica all’imperatrice Giuditta, moglie di Ludovico il Pio,
i suoi Gesta imperatorum et regum; numerosi sono gli esempi che
Nelson riporta e che coprono l’intero continente europeo, Inghilterra inclusa. Una specifica attenzione femminile, dunque, alla
memoria scritta degli avvenimenti che non manca di tradursi in
diretta autorialità femminile.
Sono due le opere storiche del secolo X scritte da donne che
Nelson analizza: l’Alexiade di Anna Comnena e i Gesta Othonis
di Rosvita. Sulla base delle caratteristiche compositive e tematiche di questi testi, riconosciuti nella loro “anomalia” anche dalla
critica tradizionale, Nelson ha ricavato una sorta di paradigma in
tre punti che ne sintetizza le peculiarità. In primo luogo una
certa libertà nella forma, mai completamente ortodossa, insieme
con un uso dichiarato di fonti orali e di tradizioni popolari; lo
stesso Dronke aveva riconosciuto nella scrittura di storia femminile la qualità dell’immediatezza, la mancanza dei formalismi
consueti in tali scritture. Il secondo e il terzo punto riguardano
aspetti contenutistici e cioè una spiccata attenzione al ruolo degli
intrecci parentali nella costruzione del dominio delle famiglie
regie e, in ultimo, la descrizione delle concrete attività politiche e
patrimoniali svolte dalle donne. Se ognuno di questi caratteri,
133
Le donne nell’alto Medioevo
preso singolarmente, può essere presente anche nelle narrazioni
maschili, la compresenza di tutte e tre diventa un utile indicatore
per riconoscere l’autorialità femminile nell’ambito delle numerosissime opere anonime che l’alto Medioevo ci ha consegnato. E
Nelson ha così proposto di attribuire a donne opere quali la Vita
Mathildis reginae antiquior, gli Annales Mettenses priores e il
Liber historiae Francorum, non limitandosi, certamente, all’applicazione di quel paradigma, ma usandolo come rete indiziaria per
poi sottoporre i singoli testi a un’analisi critica serrata.
La Vita Mathildis reginae antiquior si presenta come un’agiografia della defunta regina e, insieme, dichiara di voler essere una
storia della sua intera parentela, gli Ottoni, una sorta di biografia
allargata: l’anonima autrice, una canonichessa di Quedlimburg o
una monaca di Nordhausen, cita personaggi ed episodi che nessun’altra fra le numerose narrazioni coeve menziona. Si rappresenta l’azione politica di un gran numero di donne, non solo
della regina Matilde, e si svelano così intrecci parentali e intrighi
e conflitti personali che spiegano eventi altrimenti poco chiari.
Aggiungiamo che la contrapposizione netta fra “l’audacia dei
maschi” e la “prona devozione” femminile che l’autrice afferma
nel proemio, ci appare prova testuale di quanto dedotto da
Nelson sulla base del suo paradigma.
Anche gli Annales Mettenses priores furono redatti in un monastero femminile, a Chelles, nei primissimi anni del secolo IX,
quando badessa era la sorella di Carlo Magno, Gisla, la donna che
abbiamo incontrato quale abituale corrispondente di Alcuino di
York e che godeva di grande influenza sul fratello e sulla corte.
Gli Annales raccontano gli avvenimenti politici del secolo VIII del
regno dei franchi, rilevando quali momenti critici di quella vicenda tutte le successioni al regno. Gli Annales mostrano, come nessun’altra opera coeva, completa consapevolezza dei rischi di una
concezione patrimoniale del regno: il re in carica era costretto a
generare numerosi figli per essere sicuro di avere un erede e non
scatenare appetiti fuori dalla famiglia regia, ma, nello stesso
tempo, non esistendo una preordinata gerarchia fra gli eredi, tale
politica spostava la conflittualità per la successione all’interno
della famiglia del re. Tali dinamiche sono raccontate con precisio-
134
La parola alle fonti
ne di dettagli, con la descrizione delle manovre di tutti gli uomini
e di tutte le donne coinvolti in quei conflitti: ricostruendo in questo modo la storia pregressa, gli Annales appaiono allora avere la
finalità di legittimare la decisione di Carlo di favorire con una successione privilegiata il figlio Carlo il Giovane, così come fu espressa nell’805 dalla Divisio regni. Insomma una storia di donne e di
intrighi familiari che intende raccontare come vanno davvero le
cose, e mettere in guardia il re dal ripetere simili errori.
Tali analisi sono utili per rispondere a una domanda non poi
così ovvia, cioè per quale motivo queste donne decisero di prendere la penna in mano, di non lasciare soltanto agli uomini il
ruolo di narratori, ovvero di interpreti, delle vicende politiche
coeve. Queste donne appartenevano all’aristocrazia, conoscevano
bene il ruolo che gli intrecci parentali giocavano in una politica
gestita in modo completamente clientelare come quella altomedievale: forse ritenevano che gli autori di storia ponessero troppa
poca attenzione ai retroscena dei legami personali che univano
gli attori del gioco politico, fingendone un isolamento e una
capacità di azione personale che non potevano spiegare bene la
complessità degli avvenimenti. La politica si giocava allora completamente sulla base di relazioni personali e familiari e le donne
non furono mai più così vicine ai più alti gangli del potere come
in quegli anni. Le loro narrazioni ricostruiscono la struttura delle
reti informali, quelle che danno corpo all’azione politica nel pensiero contemporaneo, e che sono, per noi storici del XXI secolo,
preziosissime.
L’esclusiva tradizione religiosa che copre tutti i secoli altomedievali non ha potuto conservare agli storici delle età successive la voce
dei laici, fatta un’unica, e proprio per questo straordinaria, eccezione: il Manuale di Dhuoda per suo figlio Guglielmo. Dhuoda visse
nei primi decenni del secolo IX. Apparteneva alla più alta aristocrazia carolingia: era molto colta, molto ricca ed era la moglie di
Bernardo, marchese di Settimania, un esponente di spicco della
discendenza detta dei Guglielmini, legati da parentela stretta alla
famiglia regia. Le nozze fra Bernardo e Dhuoda si celebrarono proprio ad Aquisgrana, nella cappella palatina. L’opera di Dhuoda è
stata tradizionalmente interpretata quale manuale di comportamen-
135
Le donne nell’alto Medioevo
to rivolto a un figlio lontano, testimone di amore materno e dell’attività “privata” di educazione che compivano le donne sui loro
figlioli. La lettura che Regine le Jan ha dato recentemente del testo
ne cambia radicalmente il significato: il manuale si configura secondo questa interpretazione come una scrittura “pubblica”, pienamente politica, una sorta di pamphlet che Dhuoda compila in un
momento specifico – fra la fine di novembre 842 e febbraio 843 – e
spedisce al figlio perché fosse letto alla corte di Carlo il Calvo. Lo
scritto argomenta infatti sulla fedeltà in un momento in cui l’alta
aristocrazia carolingia aveva dovuto schierarsi su fronti opposti, a
causa dei conflitti fra gli eredi di Ludovico il Pio, e vuole difendere
la posizione fragile a corte sia di Gugliemo, il figlio, sia di Bernardo,
il marito di Dhuoda, che non erano stati in prima battuta fra i fedeli
di Carlo il Calvo e che correvano pertanto, in quel momento, rischi
gravi. Testimone diretto dell’effetto devastante che ebbe all’interno
dell’aristocrazia carolingia quel conflitto, il testo di Dhuoda rappresenta una genealogia “politica” della famiglia, volta a menzionare
soltanto tutti coloro che erano morti o avevano subito gravi danni
per rendere i dovuti servizi al loro re. Un testo che, così interpretato, mostra ancora una volta la natura politica e pubblica della scrittura femminile altomedievale.
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137
Le donne nell’alto Medioevo
2.6.1 Brama di sapere
Alcuini Epistolae (a. 800)
Alcuino, umile fratello e padre, augura la salute di una perpetua beatitudine alla sorella Gisla e alla figlia Rotrude, vergini votate a Dio, nobilissime nella santità della religione cristiana e devotissime agli studi che conducono alla sapienza.
Lodo la vostra straordinaria devozione nel santissimo studio
della sapienza tanto quanto piango invece la mia imperizia; e
riconosco di essere di gran lunga indegno della vostra lodevole devozione. E magari avessi nel mio petto una capacità
di scrivere grande quanto è il vostro desiderio di leggere.
Per questo motivo mi tormentano due angustie. Da un lato,
negare qualcosa al vostro amore che mi rende obbligato a
fare qualunque cosa per voi; dall’altro ambire troppo in alto
e oltrepassare i limiti della mia pochezza, dato che la Scrittura afferma: «Non chiedere a te stesso troppo alte imprese». A meno che, forse, sia vostra la colpa, che mi avete chiesto cose troppo difficili; e in me, allora, la ragione di una
legittima scusa dato che, considerate le mie debolezze, ho
deciso di non porre il mio calamo all’opera.79
79
Testo tratto e tradotto da Alcuini Epistolae, MGH, Epistolae (in Quart.)
IV, Epistolae Karolini aevi II, a c. di E. Dümmler, Berlino 1895, n. 213, p. 354
[a. 800].
138
La parola alle fonti
2.6.2 Il topos dell’umiltà
a) Intelletto di donna
Rosvita, Dialoghi drammatici, Lettera ad alcuni dotti (863 ca.)
A voi che siete pieni di saggezza e ricchi di virtù e che, come si
addice ai veri dotti, non provate invidia, ma anzi vi rallegrate
per il successo altrui, Rosvita, la piccola ignorante incapace di
fare alcunché di buono, augura buona salute nel presente e
gioia per l’eternità. Io dunque non riesco a esprimere a sufficienza la mia meraviglia per la vostra grande ed encomiabile
indulgenza e non sono all’altezza di contraccambiare con un
degno ringraziamento la piena dimostrazione di generosa
benevolenza e affetto nei confronti della mia pochezza, perché
voi, essendo nutriti fondamentalmente con lo studio delle
discipline filosofiche e avendo largamente e mirabilmente perfezionato la vostra dottrina, avete reputato degna della vostra
attenzione la mia operetta di donna da poco e avete esaltato,
dimostrandomi il vostro favore con fraterna bontà, Colui che
mi ha fatto dono della grazia operante in me, ritenendo che io
possedessi, sia pure in modesta misura, la conoscenza di quelle discipline letterarie la cui finezza sorpassa di gran lunga il
mio intelletto di donna. Inoltre fino ad ora avevo a mala pena
il coraggio di mostrare queste mie rozze composizioni soltanto
a pochi intimi; perciò avevo quasi smesso di comporre ulteriormente opere di questo genere perché, come erano pochi
quelli che le potevano esaminare quando io le mostravo loro,
così non erano molti quelli che potevano spiegarmi che cosa ci
fosse da correggere o che potevano esortarmi ad avere il
coraggio di comporne altre simili. Ma adesso, confortata dal
vostro parere, poiché è noto che nella testimonianza di tre
persone risiede la verità, mi accingo con maggior fiducia da un
lato, se Dio me lo consentirà, a metter mano alle mie composizioni, dall’altro a sottopormi all’esame di qualsiasi dotto. Frattanto due opposte sensazioni, vale a dire gioia e paura, mi trascinano in direzioni opposte; infatti da un lato mi rallegro dal
più profondo del cuore che in me venga esaltato Dio, perché
139
Le donne nell’alto Medioevo
solo grazie a Lui io sono quel che sono; dall’altro temo di
apparire superiore a quel che sono, perché son certa che sia
ugualmente sacrilego tanto il rinnegare un dono spontaneo di
Dio, quanto fingere di aver ricevuto quel che non si è ricevuto.
Perciò non contesto assolutamente, dal momento che sono un
essere vivente in grado di apprendere, di conoscere le arti letterarie per la capacità che mi deriva dall’aiuto della grazia del
Signore, ma devo ammettere che grazie alle mie sole forze
sarei del tutto ignorante. Riconosco che per grazia divina sono
stata dotata di un ingegno pronto, che però, col venir meno
delle attenzioni dei maestri, resta come addormentato, trascurato e abbandonato in preda alla naturale pigrizia e inattività.
Quindi, perché questo dono che il Signore mi aveva fatto non
venisse vanificato dalla mia trascuratezza, se talvolta mi si è
presentata l’opportunità di strappare qualche filo, o persino
qualche brandello di stoffa, dal mantello della Filosofia, ho
avuto cura di inserirlo nella trama di questa mia operetta, perché la pochezza della mia ignoranza potesse trar luce dall’introduzione di un argomento più elevato e Colui che mi ha
fatto dono di questo ingegno venisse tanto più giustamente
esaltato in me, quanto più lenta si ritiene che sia l’intelligenza
di una donna. Questo è quanto mi propongo nel comporre,
questa la sola ragione delle mie fatiche; e non mi vanto falsamente di sapere quel che non so, ma, per quanto mi riguarda,
so soltanto di non sapere. Ma poiché, commossa dalla vostra
benevolenza e dalla vostra richiesta, piegandomi come una
canna al vento vi ho consegnato perché lo esaminaste questo
libretto, che ho composto con i suddetti propositi, ma che
finora per la sua pochezza avevo preferito nascondere piuttosto che mostrare, conviene che lo vagliate correggendolo con
attenzione non minore di quella che usereste con un’opera
vostra, E così rimandatemelo solo dopo averlo corretto a regola d’arte, in modo che, sotto la guida dei vostri insegnamenti,
io possa rendermi conto dei miei errori più gravi.80
80
Testo tratto da Rosvita, Dialoghi drammatici, cit., Lettera ad alcuni dotti,
pp. 11, 13 e 15.
140
La parola alle fonti
b) Ancora sull’umiltà
Vita Mathildis reginae antiquior, Prologo (973-983)
E per quanto noi sappiamo di non avere familiarità alcuna
con questa cosa, ossia di scrivere ciò che si racconta, tuttavia, cercando di provocare grandi onde in un arido ruscello per rendere onore alla dignità imperiale, abbiamo occupato imprudentemente una materia che, a giusto titolo,
dovrebbe essere riservata alla facondia degli scrittori, non
con l’audacia dei maschi ma con prona devozione, e questo perché abbiamo ritenuto fosse un delitto tenere nascoste in un silenzio sconsiderato le virtù di persone così importanti.81
c) Umiltà o prudenza?
Rosvita, Gesta Othonis Imperatoris (965 ca.)
Sin qui, seppure con debole Musa, ho cantato in versi le
imprese del grande re Ottone. Ciò che resta da scrivere
ora, le imprese che lo stesso Ottone ha compiuto come
imperatore, governando la somma dell’impero, ho paura di
trattarlo perché me lo impedirà la mia natura femminile, e
perché non devono essere trattate con uno stile di basso
profilo: in che modo, grazie alla dura lotta di una guerra
vittoriosa, conquistò i castelli costruiti presso le rive del
mare che erano in mano a Berengario e a sua moglie e,
imponendogli di rispettare il giuramento prestato un tempo, lo mandò in esilio insieme con la trista sposa Willa; e in
che modo, pungolato da un giusto zelo, fece in modo di
privare della dignità della sede apostolica il sommo Pontefice che compiva azioni perverse e si rifiutava di prestare
ascolto ai suoi ripetuti ammonimenti, e al suo posto pose
81
Testo tratto e tradotto da Vita Mathildis reginae antiquior, cit., Prologo, p. 109.
141
Le donne nell’alto Medioevo
un altro degno del titolo di guida della Chiesa; e in che
modo, ritornando in patria, mentre quel regno era ormai
tranquillo in una pace sicura, e poi di nuovo rientrando in
Italia da lì, e con il potere di entrambi i regni, innalzò
Ottone, il figlio che veniva dopo di lui nella successione,
già re nel seno della nutrice, alla dignità del rango imperiale, e lo fece benedire seguendo il suo esempio.
Queste vicende dunque non possono essere narrate dalle
nostre parole, ma richiedono per loro una trattazione di
gran lunga più nobile. Quindi io non proseguo – il peso di
eventi tanto grandi lo impedisce – e metto qui opportunamente la fine, per non dover soccombere in futuro sopraffatta dal compito intrapreso.82
d) L’originalità rivendicata
Rosvita, Poemetti agiografici – Prefazione (960 ca.)
Consegno questo libriccino, privo di raffinatezze stilistiche
ma comunque frutto di non poche fatiche, alla benevolenza dei dotti, perché lo sottopongano a revisione: non a
tutti, ma a quelli che si limitano a correggere gli errori e
non si compiacciono di coprire di ridicolo chi sbaglia. Riconosco infatti d’aver commesso molti gravi errori, non
solo nella prosodia, ma anche nella composizione in stile
poetico, e che in questa serie di poemetti si nascondono
numerosi difetti degni di rimprovero. Ma a chi ammette le
proprie colpe si concede più facilmente il perdono e gli
errori vengono corretti con benevola indulgenza.
Se poi mi si rimprovera d’aver tratto alcuni poemetti di
questo libro da opere apocrife, come ritengono alcuni,
82
Testo tratto da Hrotsvitha Gandeshemensis, Gesta Ottonis Imperatoris.
Lotte, drammi e trionfi nel destino di un imperatore, a c. di M.P. Pillolla,
Edizioni del Galluzzo, Firenze 2003, p. 57.
142
La parola alle fonti
questo non è frutto di audace presunzione, ma si tratta di
un errore dovuto invece alla mia ignoranza, perché, quando cominciai a tessere l’ordito di questa serie di componimenti, ignoravo che alcune delle opere su cui avevo deciso
di lavorare fossero di dubbia autenticità. Ma quando lo
venni a sapere, non volli distruggerle, perché quel che oggi
sembra falso, forse un giorno sarà provato e riconosciuto
come vero.
Dal momento che questa è la situazione, necessito dell’aiuto di molti per difendere questo libriccino che ho portato a
compimento, nella misura in cui all’inizio del mio lavoro
mi basavo unicamente sulla forza delle mie capacità, del
tutto inadeguate; poiché ero ancora immatura e non particolarmente istruita, ma non ebbi l’ardire di svelare a qualche dotto le mie intenzioni e di consigliarmi con lui, per
paura che questi mi dissuadesse dal continuare a causa
della rozzezza del mio stile. Perciò, di nascosto da tutti,
quasi furtivamente, ora faticando da sola sui miei componimenti, ora stracciando quel che avevo composto ed era
pieno di errori, mi sforzavo, secondo le mie capacità, di
produrre un’opera, per quanto priva di qualsiasi utilità,
ricorrendo alle espressioni contenute negli scritti che avevo
raccolto entro alle mura del nostro monastero di Gandersheim. Ciò era avvenuto dapprima grazie agli istruttivi insegnamenti di Rikkarda, maestra dotata di cultura e generosità straordinarie, e di altre che presero il suo posto; in un
secondo momento grazie al magnanimo interesse nutrito
nei miei riguardi da Gerberga, di stirpe regale, che è ora la
nostra badessa. Costei, più giovane di me ma, come si conveniva alla nipote dell’imperatore, più istruita, mi fece
conoscere a dovere alcuni autori che ella aveva in precedenza studiato sotto la guida di insegnanti dottissimi.
Sebbene l’arte dello scrivere in metrica sembri complessa e
difficile per una debole donna, tuttavia, confidando esclusivamente nell’aiuto della suprema Grazia, sempre misericordiosa, e non nelle mie forze, ho deciso in aggiunta di
cantare in metri dattilici i carmi contenuti in questo libret-
143
Le donne nell’alto Medioevo
to, in modo che il talento del modesto ingegno a me concesso non intorpidisse nell’oscuro fondo della mia anima e
non si deteriorasse per la ruggine della trascuratezza, ma,
percosso dal sollecito martello della devozione, emettesse
qualche nota, anche lieve, di lode in onore del Signore; di
modo che, quand’anche non mi venisse concessa alcuna
occasione di trarne qualche lucroso guadagno, questo
potesse almeno trasformarsi alla fine in uno strumento d’estrema utilità.
Quindi, caro lettore, chiunque tu sia, se sei saggio e segui
la legge di Dio, non esitare per pigrizia a rivolgere la tua
opera di correzione a queste mie povere pagine, prive del
sostegno di un maestro autorevole. Se vi troverai qualche
cosa ben scritta e degna di approvazione, attribuiscine il
merito a Dio, mentre l’insieme complessivo dei difetti va
addebitato alla mia incapacità. Non essere, comunque, un
critico troppo severo, dimostra comprensione: anche i più
gravi rimproveri perdono la loro forza di fronte a un’umile
ammissione di colpa.83
2.6.3 Scrivere di storia: autorità e fonti
a) Sentieri mai percorsi
Rosvita, Gesta Ottonis Imperatoris (965 ca.)
Rosvita di Gandersheim, l’ultima delle ultime della schiera
che milita sotto la guida della sua illustre persona, si rivolge, quale serva alla sua signora, alla nobile badessa Gerberga,84 alla quale, per la superiorità della sua bontà spetta
83
Testo tratto da: Rosvita di Gandersheim, Poemetti agiografici, a c. di L.
Robertini, Prefazione, pp. 15 e 17.
84
Gerberga era figlia di Enrico, il fratello di Ottone I. Divenne badessa di
Gandersheim nel 959.
144
La parola alle fonti
una devozione non minore di quella che merita per l’insigne distinzione della sua regale nobiltà.
Mia signora, che risplendete della luce molteplice della
sapienza spirituale, non dispiaccia alla vostra serenità esaminare l’opera portata a termine, non lo ignorate, per vostro ordine. Mi avete infatti assegnato questo incarico, ripercorrere in versi le imprese dell’imperatore che io non
sono stata in grado di raccogliere interamente con racconti.
Voi stessa potete immaginare quanti ostacoli abbia incontrato la mia ignoranza mentre proseguivo faticosamente
questo compito, perché non trovai scritti precedenti che
trattassero questi argomenti, né potei ricavarli dai discorsi
di qualcuno in modo sufficientemente completo e ordinato.
Ero come un viandante che si incamminasse per le distese di
un territorio sconosciuto, dove ogni sentiero fosse nascosto
coperto da una spessa coltre di neve, e questo, senza nessuna
guida, spingendosi avanti solo con i cenni di chi gli dava
indicazioni, ora si perdesse sbagliando strada, ora ritrovasse
inaspettatamente la traccia del sentiero giusto, finché, dopo
aver superato la metà della distesa boscosa, trovasse un luogo
adatto al riposo che desidera, e fermandosi lì, non osasse
procedere ancora, finché non arrivasse qualcuno a guidarlo,
o trovasse da seguire le tracce di qualcuno che lo precedeva.
Così anche io, che ho ricevuto l’ordine di incamminarmi in
un’ampia serie di splendidi eventi, con grandissima difficoltà, esitando e titubando ho percorso le molteplici vicende delle imprese regali, e pur molto incitata da queste, fermandomi al momento adatto taccio, e non me la sento di
trattare senza una guida le altezze della dignità imperiale.
Se infatti mi avessero sostenuto le dotte esposizioni di validi scrittori, che non dubito siano ormai state scritte o
saranno scritte presto su questi avvenimenti, avrei procurato di che nascondere almeno un po’ la mia inesperienza.
Ma in questo momento la mia posizione è tanto più debole
quanto meno è sostenuta dall’autorità di qualcun altro,
perciò ho paura di venir accusata anche di temerarietà e di
non poter evitare le trappole del biasimo di molti, proprio
145
Le donne nell’alto Medioevo
perché ho osato svilire con la pochezza del mio rozzo stile
un argomento che doveva essere trattato con le finezze più
espressive di una forma elegante e di spirito.
Però se l’esame del mio lavoro sarà condotto da una persona
ragionevole, che sia abituata a valutare correttamente quanto il sesso femminile è più debole per capacità e inferiore
per preparazione, tanto più spontaneo sarà il perdono, soprattutto perché ho cominciato a trattare l’articolazione di
quest’operetta non per mio ardire, ma per vostro ordine.
Perché allora dovrei temere il giudizio degli altri, io che mi
rivelerei colpevole solo ai vostri occhi, se ho sbagliato qualcosa? o perché non potrei evitare le critiche, io che devo
dedicarmi solo al silenzio, per non incorrere nei rimproveri
di tutti, se volessi diffondere un’opera che non deve essere
mostrata a nessuno a causa dello suo meschino valore?
Comunque lascio valutare in qualunque modo sia riuscito il
mio lavoro al vostro giudizio e al giudizio del vostro congiunto, cioè l’arcivescovo Guglielmo,85 al quale avete deciso
che sarebbe stata presentata questa rozza opera.86
b) Autopsia e fonti orali
Vita Geretrudis. Recensio A (fine VII sec.)
Nel nome di nostro signore Gesù Cristo inizia la vita della
santa vergine Geretrude.
In grazia della carità santa e indivisibile, noi crediamo e
abbiamo una fede certa e inviolabile che sia importante aiutare coloro che desiderano mantenere la strada che conduce
alla patria celeste e abbandonare i cespiti dei beni terreni per
ottenere premi eterni, e pertanto mi adopero, scrivendo o
85
Guglielmo fu arcivescovo di Magonza (954-968) ed era figlio di primo
letto di Ottone I.
86
Testo tratto da Hrotsvitha Gandeshemensis, Gesta Ottonis Imperatoris,
cit., pp. 3 e 5.
146
La parola alle fonti
predicando in modo veritiero qualcosa, forse troppo poco,
della vita e dei discorsi dei santi e delle sante vergini di Cristo
per l’edificazione e il profitto del mio prossimo, affinché gli
esempi dei santi e delle sante vergini che ci hanno preceduto
siano utili per illuminare le tenebre del nostro cuore con la
fiamma dell’amore e con l’ardore della santa compunzione.
Per tale motivo, con l’aiuto dello Spirito Santo creatore di
ogni cosa, facendovene richiesta, mi sforzo di sollecitare la
vostra carità scrivendo dell’esempio di Geretrude, beatissima
vergine e madre di famiglia di Cristo, che visse sotto l’asse del
cielo abbracciando la disciplina della regola, secondo ciò che
abbiamo visto o che abbiamo ascoltato da testimoni informati, con l’aiuto di Cristo e della sacra fanciulla Domenicana,
badessa del monastero e della santa congregazione di Nivelles, dove è noto che è stata badessa la santa vergine Geretrude.87
c) Un ruolo centrale all’azione femminile
Annales Mettenses Priores (805 ca.)
[Anno 714] Pipino, che aveva retto il popolo dei Franchi per
27 anni e sei mesi e lasciò un figlio di nome Carlo. Dopo la
morte di Pipino, però, fra la gente dei Franchi si manifestò un
grande turbamento: infatti i suoi figli maggiori, Drogone e
Grimoaldo, erano morti mentre egli era ancora in vita, ma
Teobaldo che era figlio di Grimoaldo nato da una concubina,
era ancora bambino e tale che anche se fosse succeduto al
padre nel principato, non avrebbe avuto alcuna possibilità di
governare un regno tanto grande; Carlo invece, che il padre
aveva lasciato come solo superstite erede degno di un così
grande potere, sopportava con difficoltà le insidie della matri-
87
Testo tratto e tradotto da Vita Geretrudis. Recensio A (S. 435-464), in MGH,
Scriptores, Scriptores rerum Merovingicarum, 2. Fredegarii et aliorum Chronica,
Vitae Sanctorum, a c. di B. Krusch, Hannoverae 1888, Prologo, pp. 453-454.
147
Le donne nell’alto Medioevo
gna. Plectrude infatti, la vedova di Pipino, infiammata da un
odio incomparabile nei confronti di Carlo, ordinò di incarcerarlo pubblicamente. Plectrude, dato che desiderava favorire
suo nipote Teodaldo, cercava allora di impedire a Carlo di
governare legittimamente al posto del padre, e aveva l’audacia
di pretendere di tenere le redini di un regno così importante
con il solo ausilio di un fanciullo e delle decisioni di una
donna. E perciò avendo deciso di governare con un’astuzia
femminile più crudele di quanto fosse necessario, convertì
velocemente l’ira dei Franchi di Neustria nella morte di suo
nipote e dei principi che stavano con lui. E infatti, attaccato
all’improvviso l’esercito di Teodaldo nella silva Cozia, compirono un’immensa strage; ma Teodaldo con pochi uomini seppur a stento riuscì a scappare, anche se non molto tempo
dopo terminò egualmente la sua vita innocente. Al suo posto
nominarono re Raginfredo, maggiordomo ai tempi di re Dagoberto. Allora gli uomini di quella gente, dimentica egualmente di tutti i benefici ricevuti dall’invitto principe, entrati in
Austrasia con grande impeto, saccheggiarono tutta quanta
quella regione fino al fiume Mosa; e strinsero anche un patto
contro Carlo insieme con Radbodo, re dei Frisoni. Ma Dio
che dà e non disapprova, sottraendo Carlo dalle insidie della
sua matrigna, lo rese palesemente manifesto a quelli che trepidavano. Allora, così come i luminosi raggi del sole fanno uscire la terra a piccoli passi dall’ombra dell’eclissi, così Carlo
degnissimo erede di Pipino, risplendette come robustissimo
difensore della salvezza del popolo davanti a coloro che soffrivano e ormai disperavano: così dunque apparve apertamente
alla folla che indugiava e fu accolto con così grande favore e
tanta gioia da tutti, come se fosse tornato in vita in loro aiuto
il loro dominatore, Pipino. E dunque, due anni dopo la morte
di suo padre Pipino, Carlo riuscì a diventare re degli Austrasiani.88
88
Testo tratto e tradotto da Annales Mettenses Priores, in MGH, Scriptores,
Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum separatim editi 10, a c. di B. De
Simson, Hannover 1905, pp. 1-98, alle pp. 19-21.
148
La parola alle fonti
d) Attive, non necessariamente sante
Liber historiae Francorum (720 ca.)
La regina Fredegonda era bella e molto intelligente e non di
meno adultera. Allora era maggiordomo di palazzo Landerico, un uomo astuto e capace, che la suddetta regina amava
molto perché ci andava a letto regolarmente. Un certo giorno, in tarda mattinata, il re, che dalla villa di Calais stava per
partire verso Parigi per andare a caccia, dato che la amava
troppo, dalla stalla dei cavalli tornò indietro nella camera del
palazzo dove la donna si stava lavando i capelli e, avvicinatola da dietro, le percosse le natiche con un bastone. Ma ella,
pensando che fosse Landerico, disse: «Perché fai così Landerico?». Sollevata la testa, girandosi vide che invece era il re
e si spaventò tantissimo. Ma il re, colpito da troppa tristezza,
si allontanò comunque per andare a caccia. Fredegonda allora chiamò a sé Landerico e gli raccontò tutto quello che il re
aveva fatto, dicendo: «Pensa bene a cosa devi fare, perché
domani saremo costretti a subire terribili pene». E Landerico, turbato e spaventato fino alle lacrime, diceva: «Che
orribili ore dovrete vedere occhi miei! Non so proprio cosa
debbo fare perché sono oppresso da troppe angosce!». Ed
ella disse a lui: «Non aver paura, ascolta la mia idea, facciamo
questa cosa e non moriremo. Quando, alla fine di questa
giornata, fattasi notte, il re tornerà dalla caccia mandiamogli
incontro uomini che lo uccidano e che affermino che gli è
stato teso un agguato da Childeberto, re dell’Austrasia. Una
volta che sarà morto, noi regneremo insieme con mio figlio
Clotario». Giunta la notte, tornato il re Chilperico da caccia,
mentre il re scendeva da cavallo e gli altri se ne tornavano
alle loro case, i sicari di Fredegonda, resi arditi dal vino, questi due gladiatori con la spada in pugno colpirono il re nel
ventre. Ed egli con un urlo straziante, morì. I sicari mandati
dalla regina cominciarono allora a gridare a gran voce: «È un
attentato, un attentato contro il nostro signore fatto da
Childeberto, il re dell’Austrasia». L’esercito allora cominciò a
149
Le donne nell’alto Medioevo
correre di qua e di là ma, non avendo trovato nulla, tornarono tutti alle proprie case. Allora Mallolfo, vescovo di Senlis,
che si trovava il quel momento a palazzo, rivestitolo con gli
abiti regi, caricatolo su una barca, con inni e salmi, accompagnato dalla regina Fredegonda e da tutto l’esercito, lo seppellirono nella basilica del beato martire Vincenzo, nella città di
Parigi. Egli regnò 23 anni. Regnarono allora Fredegonga con
il piccolo re Clotario, suo figlio, e con Landerico che elessero
maggiordomo di palazzo. Anche i Franchi decisero di affidare il regno al piccolo re Clotario.89
2.6.4 Dhuoda: una scrittura laica e politica
a) Un ricordo selettivo della famiglia
Dhuoda, Manuale per il figlio (30 novembre 841 – 2 febbraio 843)
Prega per i parenti di tuo padre che a lui lasciarono in legittima eredità i loro beni. Chi fossero e quali siano i loro nomi
lo troverai scritto negli ultimi capitoli di questo libretto. E
sebbene la Scrittura dica: Un altro gode dei beni altrui (Sir.
14, 4), tuttavia, come ho già detto, Bernardo, tuo signore e
padre, è in possesso di tali eredità, non degli estranei.
Prega per coloro che le possedevano, per quanto essi le trasmisero; prega perché ne possa godere in una lunga vita felice. Confido infatti che se ti adoprerai nei suoi confronti con
una condotta conveniente e remissiva, Colui che è clemente,
per questo e in tuo favore favorirà la promozione delle sue
altrimenti caduche dignità. Per i suoi molti impegni non gli è
possibile in questo tempo. Tu invece, mentre sei in grado di
farlo e ne hai facoltà, prega sempre per le loro anime.90
Testo tratto e tradotto da Liber historiae Francorum, a c. di B. Krusch, MGH,
Scriptores rerum Merovingicarum, 2, Hannover 1888, pp. 215-238, alle pp. 302-304.
90
Dhuoda, Educare nel Medioevo. Per la formazione di mio figlio. Manuale, a c.
di I. Biffi, trad. di G. Zanoletti, Jaca Book, Milano 1984, cap. VIII, 14, pp. 138-139.
89
150
La parola alle fonti
Nomi dei defunti
Sappi qui in breve i nomi di alcune persone che avevo omessi
nelle pagine precedenti. Essi sono: Guglielmo, Cunegonda,
Gerberga, Guiburga, Teodorico, Gozelmo, Guarnerio, Rotlindo.
Alcuni discendenti di questa genealogia vivono ancora nel
mondo, con l’aiuto di Dio; la loro chiamata è del tutto nelle
mani di chi li creò, come Egli volle. Cosa devi fare, figlio
mio, se non dire con il Salmista: Noi viventi benediciamo il
Signore d’ora in avanti e per tutti i secoli?
Chiunque muoia della tua stirpe, il che sta soltanto nel potere di Ariberto tuo zio, se gli sopravvivrai, ti prego di fare
scrivere il suo nome con quello delle persone di cui trattai
sopra, e di pregare per lui.91
b) La fedeltà: un impegno potenzialmente lacerante
Ancora nei confronti di tuo padre. Dal punto di vista della
società umana il simbolo e la potenza regale o imperiale
trionfano in questo mondo, così si usa rendere omaggio
innanzitutto alle azioni e ai nomi di questi potenti; essi
condizionano all’ossequio e il loro potere è rafforzato da
un supremo rispetto, come testimoniano le parole di colui
che disse: Come al re, che viene innanzi a tutti, così ai capi
[…]; la mia volontà, o figlio, è dunque questa: secondo
l’avviso della mia modesta intelligenza, secondo Dio, innanzitutto a colui che ti generò, finché sei in vita, non trascurare di offrire la tua dedizione amorosa, fedele e sicura.
Rimane immutabile l’ordinamento per cui nessuno, a meno di sopravanzare in grado il proprio genitore, può pervenire al grado più alto tra i feudatari, al posto di un’altra
persona giunta al culmine del potere.
Ti invito dunque, figlio mio, che tanto ardentemente vorrei a
me vicino, di amare innanzitutto Dio, come già hai trovato
91
Ivi, cap. X, 5, p. 151.
151
Le donne nell’alto Medioevo
scritto; subito dopo ama, temi e onora il padre tuo. Ricorda
che da lui ti viene la tua condizione nel mondo. Sappi infatti
che sin dai tempi antichi, coloro che onorarono i loro padri e
prestarono loro fedele obbedienza, meritarono sempre di
ricevere la benedizione loro e di Dio.92
Esortazione sul comportamento verso il tuo signore.
Carlo, che tu hai come signore, poiché Dio, come credo, e
tuo padre Bernardo lo scelsero perché tu lo servissi già in
questo inizio della tua vita e con il vigore della tua giovinezza in boccio, tieni a mente che è uscito da una progenie
elevata e nobile per entrambi i genitori; servilo dunque
non per piacere soltanto ai suoi occhi, ma anche secondo
la tua intelligenza, sia per il corpo, sia per l’anima.; conservagli in ogni evenienza una fedeltà schietta, consapevole e
a lui proficua. Rifletti sull’ottimo servo del patriarca Abramo che se ne andò in un paese lontano per cercare una
sposa al figlio del suo padrone. La missione fu portata a
termine grazie alla fede di colui che comandava e alla
rimarchevole dimostrazione di obbedienza del servo, e per
la sua numerosa progenie la sposa fu largamente benedetta
e colmata di grandi beni. Che dire del comportamento di
Ioab, di Abner e di altri verso il re Davide? Sopportando
per lui molte difficoltà in molti luoghi, desideravano con
tutto il loro ardore di piacere più a lui che a se stessi; e
molti altri di cui trattano le sante Scritture che ottemperano fedelmente agli ordini dei signori. Per la loro sempre
vigile energia meritarono di godere di ogni prestigio nel
secolo. Sappiamo anche secondo i testi sacri che ogni onore e potere è dato da Dio. Dobbiamo dunque servirlo pazientemente, senza fastidio o tiepidezza, o pigramente, ma
con grande fedeltà. Leggiamo infatti: Non vi è potere che
non venga da Dio e chi fa resistenza al potere si oppone
92
Ivi, cap. III, 2, pp. 67-68.
152
La parola alle fonti
anche alle disposizioni di Dio [Rm 13, 1 e 2]. Perciò ti
esorto, figlio, conserva fedelmente la tua devozione finché
avrai vita, col corpo e con la mente. Man mano che ti perfezionerai nel cammino intrapreso, credo fermamente che
sarai di grande utilità a te stesso e ai tuoi familiari. Giammai, neppure una volta, esca dalla tua bocca una parola
infame e ingiuriosa per la follia dell’infedeltà; non nasca e
non proliferi nel tuo cuore il pensiero di essere in alcun
modo infedele al tuo signore. Coloro che si comportano in
tal modo sono definiti con termini duri e infamanti. Non
credo tuttavia che questo possa accadere a te o a coloro
che militano con te; questa abitudine, come ben sappiamo,
non si manifestò mai nei tuoi progenitori; non fu mai presente, non lo è o lo sarà nel futuro.93
2.7 Morire
È una morte piena di vita quella cui è dedicata quest’ultima
parte, a dispetto del titolo che appare inevitabilmente macabro ai
nostri occhi: piena della vita e delle volontà di chi pretende di
indirizzare un futuro che più non gli appartiene stendendo complesse carte testamentarie, e piena del ricordo di azioni e strategie che avevano caratterizzato l’esistenza di un defunto di cui si
intendeva tramandare la memoria ai posteri. Ma non solo: vorrei
recuperare qui un’attenzione specifica sulla dimensione “pubblica” del momento stesso della morte, sulla scorta del pensiero di
Georges Duby, che ormai più di vent’anni fa notava con grande
sensibilità quanto esso sia diventato estraneo al nostro sentire. La
società contemporanea chiama «buona», notava Duby, «la morte
solitaria, rapida, discreta», perché per noi la morte è diventata un
momento inevitabile ma imbarazzante. Difficilmente oggi si rac-
93
Ivi, cap. III, 4, pp. 69-70.
153
Le donne nell’alto Medioevo
conta, anche ai parenti e agli amici più stretti, come sia avvenuto
il trapasso o le ultime parole pronunciate dal defunto: da un lato
perché la struttura sociale non concede più, se non in casi rari, di
morire in casa propria e l’ospedalizzazione dei malati terminali,
necessaria per esigenze di cura che la configurazione delle famiglie contemporanee non assicura più, nasconde l’agonia anche ai
parenti più stretti. Dall’altro perché l’agonia, nell’ottica contemporanea che lega l’identità personale all’efficienza e alla produttività, è già una “non vita”: il morente non appartiene al consesso
sociale, la sua condizione rappresenta principalmente un impiccio familiare e un costo sanitario. La medicalizzazione estrema
delle malattie terminali implica che i moribondi arrivino spesso
alla fine in stato di coma, privi di coscienza, e la stessa medicalizzazione, applicata alle emozioni di chi sopravvive, tende a somministrare psicofarmaci ai parenti stretti per evitare scene di dolore, facendo vivere loro, invece, in uno stato di sogno appannato
momenti cruciali dell’esistenza.
Nelle testimonianze altomedievali l’agonia è invece ancora, pienamente, un momento della vita; anzi, è il momento più importante, quello in cui una persona ha modo di manifestare per l’ultima – e quindi più significativa – volta le proprie qualità personali e sociali. Le narrazioni riguardano esclusivamente persone di
altissimo rango sociale, re, principi, vescovi e abati, e seguono
uno schema rituale molto preciso che segna un progressivo
distacco dal mondo terreno: si abbandonano le cariche pubbliche e i patrimoni; si donano le piccole cose personali a chi resta;
si adempiono i riti religiosi e si purifica l’anima e, infine, si salutano le persone care, nell’ordine conoscenti, clienti, e infine gli
intimi. In quelle narrazioni il dolore non è celato: tutti piangono,
anche chi sente che sta per morire. La fede offre una speranza
ma non un palliativo al dolore cocente che segna la separazione
dalle persone care nella vita terrena. Il lutto viene vissuto fino in
fondo: ai maschi – che pure sono valorosi guerrieri – non viene
richiesto di trattenere le lacrime. Piangono tutti insieme, uomini
e donne. In questo contesto si inseriscono le varianti narrative
che introducono elementi strettamente politici nei racconti delle
morti illustri: l’ordine di priorità in base al quale vengono intro-
154
La parola alle fonti
dotti al capezzale del malato i visitatori, il valore economico e
simbolico dei doni che il morente offre loro; le raccomandazioni
agli eredi.
Il racconto che ho scelto narra gli ultimi giorni di vita di Matilde, vedova di Enrico I di Sassonia e madre dell’imperatore
Ottone I. È una lunga agonia, vissuta in modo sereno e pienamente consapevole: la rappresentazione segue schemi rituali e,
nella narrazione dell’anonima autrice della Vita, è condotta in
prima persona dalla regina morente che mostra in modo pieno le
proprie volontà. Matilde si spoglia progressivamente di tutti i
suoi beni: si alleggerisce così per potere più facilmente ascendere
al cielo. Il quadro che viene rappresentato non è solo quello di
una morte pubblica, ma anche quello di una morte “politica”: al
capezzale della regina non ci sono figli e figlie, che vengono
nominati ma che sono lontani. Ci sono invece le figlie “spirituali”
o meglio, le vere eredi di Matilde secondo la nostra narratrice,
cioè le badesse di Nordhausen e di Quedlimburg, le due fondazioni monastiche femminili che più avevano ricevuto benefici e
sostegno da Matilde. Sono le ultime ad accostarsi al capezzale, il
posto che spetta agli intimi; sono loro a ricevere le raccomandazioni a conservare un comportamento consono per conservare e
aumentare la forza e l’indipendenza delle comunità loro affidate.
La dimensione pubblica, politica e sociale della memoria con
cui si intendono celebrare e, insieme, proporre come modello
figure femminili di spicco emerge con forza anche dagli epitaffi.
Gli epitaffi altomedievali sono spesso testi complessi che, sulla
base di codici retorici propri, offrono spie di vicende difficilmente attingibili da altre fonti. L’epitaffio era un genere poetico: non
sempre vi si esercitarono raffinati versificatori, talvolta però sì, ed
è uno dei casi che ho scelto. L’epitaffio della regina Ansa, anonimo, è stato attribuito a Paolo Diacono: è conservato in un manoscritto assieme ad altri componimenti poetici di Paolo e non fu
mai inciso, per quel che ne sappiamo fino a oggi, su lapide.
L’attribuzione oggi è diffusamente accettata, mentre più discussa
è la sua datazione – 770 o 774 – e questo proprio in base ai contenuti del testo. Ansa, l’ultima regina del regno dei longobardi, è
esaltata nei versi in base ad attributi che ne sottolineano l’attività
155
Le donne nell’alto Medioevo
politica. È ricordata quale madre, ma madre solo di regine e di
re: di tre figlie che, sposate, grazie alla sua accorta politica, ai re
di tre diversi regni, avevano contribuito a superare le barriere dei
fiumi che ne segnavano i confini; e di Adelchi, il figlio maschio,
identificato come l’unica speranza per un regno ormai oppresso
dall’invasione dei franchi. E, inoltre, come costruttrice di chiese:
nel testo, il monastero di S. Michele nel Gargano ma anche – e fu
fondazione di rilievo eccezionale nel regno italico nei secoli a
venire – del monastero femminile di S. Salvatore di Brescia, nella
cui chiesa, come abbiamo visto sopra, fu reimpiegata la lastra
marmorea che rappresentava la battaglia delle Amazzoni e dove,
in posizione eminente, si trova un sepolcro che recenti indagini
archeologiche attribuiscono proprio alla regina. La speranza, che
emerge dal testo, che ancora il regno dei longobardi potesse
respingere l’invasione franca ha fatto pensare che l’epitaffio fosse
stato composto nel 770, quando Ansa era ancora viva. È più probabile invece che Paolo Diacono abbia composto i versi alcuni
anni dopo, per la corte beneventana della figlia di Ansa, Adalperga, che già abbiamo ricordato come committente di alcuni
lavori storiografici di Paolo, rievocando lo spirito del 770 in un
momento in cui però ogni speranza di riscossa doveva apparire
ormai vana. Emerge comunque dalla composizione una figura
femminile pienamente inserita nel clima di guerra che caratterizzò quei decenni difficili, una figura militante in lotta per salvaguardare fino all’estremo il regno di cui, insieme con il marito,
costituiva il vertice.
Accenti di elogio che si concentrano esclusivamente su un’attività politica condotta ad ampio raggio, per tutto il bacino del
Mediterraneo, si ritrovano anche nell’epitaffio di Berta di Toscana, inciso questa volta su una lapide che si trova nella chiesa
di S. Martino di Lucca, insieme con quello del marito Adelberto
e un terzo, riferito alla sorella di Berta, Ermengarda, figlia
anch’essa di Lotario II e di Waldrada. Come Ansa, Berta è descritta nell’atto di omaggio estremo come una donna battagliera:
Ansa «sempre nel mondo intero sarà vincitrice» e di Berta si assicura che «nessun nemico è riuscito a prevalere su di lei al punto
di vincerla». Non importa naturalmente che ciò sia vero o no: ciò
156
La parola alle fonti
che importa è che in entrambi gli epitaffi emerge l’immagine di
donne definite da attributi che alcuni, sulla scorta di un sentire
contemporaneo, definiscono “maschili”. Sono donne che governano, fanno politica, combattono, intessono relazioni diplomatiche con i diversi regni del loro mondo: sono insomma donne di
potere e come tali vengono ricordate e proposte come modello.
Inutile e fuorviante definire maschili quegli attributi che sono
invece solo propri di chi governa e che paiono indipendenti, in
quel linguaggio remoto, da connotazioni di genere.
Testimonianza di un atto politico di grande rilievo è pure l’ultima fonte di questa sezione, nota come il testamento dell’imperatrice Angelberga, vedova di Ludovico II, ma che appare piuttosto
come l’atto di fondazione, ancora una volta, di un monastero femminile, il monastero di S. Sisto a Piacenza. Ai nostri occhi può
apparire strano che si possano dare due definizioni a prima vista
così lontane di un medesimo documento: ma è proprio l’intima
connessione che caratterizzava il privato e il pubblico in quei
secoli che ci consente di spiegare meglio un testo complesso.
Prima regina italica a ricevere un dotalizio [dotario*] dal marito
estremamente cospicuo, Angelberga aveva acquistato in tal modo
a titolo di piena proprietà un vastissimo patrimonio costituito da
beni “fiscali”, ossia beni pubblici ma anche, e qui sta il problema, patrimonio personale del re. Erano beni disposti lungo l’asse
strategico del fiume Po, la grande arteria commerciale della pianura padana in quei secoli, beni dal rilevante valore economico
ma anche di importanza strategica decisiva per il controllo del
regno. Angelberga, rimasta vedova, aveva continuato ad amministrare quel patrimonio e, quindici anni dopo la morte del marito,
anch’essa ormai prossima alla fine, dispose di quei beni non
come di cosa propria, da lasciare semplicemente alla sua unica figlia ed erede, Ermengarda. Nel rispetto pieno del loro valore
strategico oltre che patrimoniale, della loro natura pubblica e
non privata, li concentrò allora nella fondazione di un ente religioso, S. Sisto appunto. Nella stessa carta Angelberga provvide a
garantire l’indipendenza del monastero dal potere vescovile
assoggettandolo direttamente al papa, e a definire le linee di successione rigidamente femminili alla carica di badessa e di ammi-
157
Le donne nell’alto Medioevo
nistratrice patrimoniale. Si riservò fino alla morte la gestione diretta di quei beni, onere che avrebbe dovuto poi passare alla figlia, ma solo se ella avesse in futuro indossato il velo; altrimenti la
carica di badessa e quella di amministratrice di quel patrimonio
doveva spettare a una donna appartenente alla sua famiglia d’origine – i Supponidi, ricordiamo – ma solo se questa avesse ricevuto una formazione adeguata al ruolo che sarebbe andata a ricoprire. Altrimenti ancora a una discendente della sua famiglia d’origine materna – che non ci è nota – sempre che rispettasse i medesimi requisiti. In mancanza di questi, Angelberga dispose fosse
meglio che la comunità religiosa decidesse autonomamente da
chi farsi guidare ed eleggesse liberamente la propria badessa,
senza ingerenze esterne.
Certo, si tratta di un testamento, della carta con la quale l’imperatrice vedova volle e poté disporre del destino del suo patrimonio dopo la propria morte, ma è un testamento che nulla ha a
che fare con una carta privata di ultime volontà. Si configura invece come un vero e proprio atto di governo, l’ultimo, della regina che, per la prima volta, aveva meritato il titolo di consors regni, ossia di associata al regno, da parte della cancelleria imperiale, un titolo che segnava formalmente il suo impegno a fianco del
sovrano nella gestione del regno.
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158
La parola alle fonti
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Adelheid [2004], trad. e c. di S. Gilsdorf, The Catholic University of
America Press, Washington (DC).
159
Le donne nell’alto Medioevo
2.7.1 Una morte pubblica
a) Vita Mathildis reginae antiquior (970 ca.)
Si avvicinava l’ora che il signore aveva destinato per ricompensare la sua diletta serva Matilde delle fatiche temporali.
Nonostante fosse ammalata, continuava a peregrinare qua
e là fra case e castelli, nascondendo per quanto possibile,
la sua infermità. Giunse a Nordhausen e presentatasi a lei
la sua fedele Ricburga che ella stessa aveva fatto nominare
badessa di quel cenobio dato che sperava, grazie alla sua
fede, che avrebbe fatto il bene di quella piccola schiera, le
disse: «Sento che sto per morire, la malattia si sta aggravando e vorrei essere sepolta in questo luogo, in modo tale
che la cura di mio figlio nei vostri confronti divenga più
grande, ma so di non poter far ciò in alcun modo, dato che
il nostro signore Enrico riposa a Quedlimburg. A chi dovete rivolgere allora la vostra speranza, a chi l’animo? Allora, addio». E dando loro comunque moltissimi consigli
salvifici, si diresse a Quedlimburg; e qui tuttavia, subdolamente presa da un morbo troppo potente, versò malata fino alla morte. E rendendosi conto che ormai era imminente l’ultimo giorno, ricordando la parola di Dio quando afferma: «Vendi tutto ciò che hai e dona il ricavato ai poveri
e vieni, seguimi», ordinava senza sosta che tutta la grande
abbondanza di ricchezze che ancora le restava fosse donata
a vescovi, preti e poveri e che fosse divisa fra i monasteri,
riservando per sé soltanto la veste che indossava e altri due
abiti, uno scarlatto e l’altro di lino, che ordinò di tenere da
parte per la sua sepoltura. Giungeva continuamente una
gran quantità di persone, ricchi e poveri, e nessuno andò
via senza aver ricevuto doni, e giunse anche Guglielmo,
arcivescovo di Magonza, figlio dell’imperatore Ottone.
Varcata la soglia dell’abitazione dove giaceva la signora,
con l’animo turbato e con il viso bagnato di lacrime si
struggeva nel pianto, mentre, se il dolore ammettesse una
qualche ragionevolezza, avrebbe piuttosto dovuto gioire,
160
La parola alle fonti
dato che ella, come speriamo, riposa in pace dopo aver
raggiunto il gregge dei giusti. Quando ella lo vide dolente
gemette, dicendo: «Ti affido la mia anima e ti affido anche
l’abbandonata schiera di Nordhausen, non solo perché te
ne occupi in prima persona, ma anche affinché tu ammonisca l’imperatore ad agire in loro favore, poiché finora io
sola me ne sono occupata con la massima cura rispetto a
tutti gli altri cenobi». Egli promise che avrebbe fatto tutto
ciò che ella aveva chiesto.
Oltre a ciò, gli diede molte missive da portare al figlio Ottone ma invano, poiché egli non vide più il re dato che,
poco dopo, anche Guglielmo morì. Quella degna serva di
Cristo vaticinando in modo quasi consapevole la prossima
morte di Guglielmo, mentre stava per andarsene la profetizzò dicendo: «Abbiamo ancora qualcosa da poter donare
al vescovo Guglielmo?». E dato che le fu risposto che non
era rimasto nulla, aggiunse: «Dove sono quegli abiti che
abbiamo ordinato fossero conservati per la nostra sepoltura? Che siano dati a lui, che ne ha più bisogno di noi per il
suo viaggio; adempieremo così a ciò che si usa dire: i parenti procaccino la veste per le nozze e quella per i funerali». Coloro che le stavano intorno, tuttavia, non sapevano a
che fine avesse detto ciò; pesavano infatti che egli sarebbe
ritornato a Magonza. Ma nulla di ciò che la santa donna
aveva profetizzato rimase senza compimento, né la morte
del vescovo, né l’offerta delle vesti. Infatti, quando, morta,
la stavano per porre nel feretro, giunsero nunzî della regina Gerburga che portavano un manto intessuto d’oro,
adatto a ricoprire sia il suo sepolcro, sia quello del suo
signore, il re Enrico. E poi, il giorno di sabato, che aveva
sempre onorato con buone opere, sopraggiunto il momento estremo, fece chiamare a sé la sua nipotina, figlia dell’imperatore e badessa del cenobio, e, insistendo con raccomandazioni salvifiche che si conservasse pia e umile,
prudente e guardinga, le insegnò a provvedere con cura al
gregge che le era stato affidato, uscendo di rado dal monastero, concentrando la mente nelle sacre scritture e inse-
161
Le donne nell’alto Medioevo
gnando alle altre ciò che aveva imparato; e che stimolasse
pure le altre ammonendole, ma che, soprattutto, fosse essa
stessa esempio con le buone azioni, sopravanzando tutte le
altre. E consegnandole in mano il computario, nel quale
erano scritti i nomi degli antenati defunti, le raccomandò
l’anima di Enrico e la propria, e anche quella di tutti i
fedeli dei quali ella stessa conservava memoria.
Inaspettatamente anche Ricburga, badessa di Nordhausen,
giuste con volto mesto e, abbracciando piangente i piedi
della regina, disse: «O speranza e conforto di tutte noi, a
chi ci lasci, noi povere abbandonate?». Ma ella, levando gli
occhi al cielo e aprendo le mani, disse: «Vi affido al sommo
pastore. Credo infatti che mio figlio non sia immemore
della promessa fatta, avendo affermato che durante la sua
vita e quella dei suoi successori mai sarebbe venuto meno il
suo conforto a quel cenobio. E tuttavia voi, anche se
abbandonate dagli uomini, dato che Dio non abbandona
coloro che sperano in lui, per prima cosa cercate di conquistarvi il regno di Dio e tutto vi sarà dato». E poi, voltasi
verso quelle che le stavano intorno, disse: «Agite per bene e
mettetemi sopra al cilicio, e voltatemi di sotto in su, affinché lo spirito ritorni a Dio, e la carne ritorni polvere». Pertanto, stabilite tutte queste cose secondo l’ordine divino,
nella pienezza dei suoi giorni e compiuto il suo tempo,
lasciando ai posteri l’esempio di un buon operato ed essendo riuscita a vedere la propria prole e i figli dei suoi figli fino alla quarta generazione, la regina Matilde rese l’anima a
Dio e agli angeli e salì al cielo il 14 marzo nella città di
Quedlimburg; e ivi, trasportata con ogni onore nella basilica di San Servazio vescovo e confessore, riposò nel sepolcro
accanto alla tomba del suo signore, Enrico.94
94
Testo tratto e tradotto da Vita Mathildis reginae antiquior, cit., pp. 134-139.
162
La parola alle fonti
b) L’epitaffio di una regina
Paolo Diacono, Epitaffio della regina Ansa (774 ca.)
Sopra il sepolcro di Ansa signora regina.
La tomba candida che risplende per il lucente metallo
racchiude il corpo degno di lodi che un giorno dovrà restituire.
Qui infatti la bellissima moglie del re di Ausonia
Ansa giace, ella che sempre nel mondo intero sarà vincitrice
per i suoi celebri meriti, fintanto che i templi degli dei
tonanti resteranno in piedi, e i fiori sbocceranno dalla terra, e il sole sorgerà dalle tenebre.
Costei, sostenendo la patria lacerata dalla guerra e sul
punto di crollare
con il suo grande coniuge, la risollevò e la fece prosperare.
Costei ha partorito per noi colui che impugnerà lo scettro
del regno,
il grande Adelgiso, potente nel corpo e nell’animo,
nel quale, per grazia di Cristo, si affida la speranza più
grande per i Longobardi.
Congiunse i forti petti delle sue figlie in matrimoni
che uniscono uomini divisi dalle rive del rapido Ofanto,
legando con l’amore della pace quelli che il Reno e il
Danubio cingono.
Rimanga anche per il Re eterno una parte di lei,
brillante nel suo splendore virginale, dedicata a questi templi.
Quante chiese ha fondato per il culto di Colui che siede
sull’alto trono,
il gregge bisognoso si trova qui, mentre ovunque si espande la sua ottima fama.
Ormai sicuro, intraprendi il cammino, chiunque tu sia,
pellegrino dalle terre di Occidente, che verso la città del
venerando Pietro
ti dirigi e verso la rupe garganica dal venerabile antro.
Sicuro grazie al suo aiuto, né le frecce dei predoni,
né il freddo, né le nubi della notte oscura dovrai temere:
163
Le donne nell’alto Medioevo
per te infatti ella fece apprestare ampi ricoveri e cibo.
L’odiosa concisione vieta alla lingua ribelle di dire di più;
concluderò con poche parole; qualunque cosa traboccasse
di affetto,
qualunque cosa risplendesse nella mente, o brillasse per la
luce dei gesti,
tutte quante insieme restavano in te, fulgente regina.95
c) L’epitaffio di una donna potente
Epitaphium Bertae, chiesa di S. Martino di Lucca (secolo X)
In questo tumulo è custodito il corpo sepolto della contessa, Berta generosa e giusta, nata da una stirpe illustre.
Ella fu moglie di Adelberto duca d’Italia, ebbe tutta la
magnificenza della sua origine regale.
Nobile per stirpe, della augusta discendenza dei re dei
Franchi, Carlo in persona, il grande re, fu suo nonno.
Splendida nell’aspetto, ancora più splendida per l’agire
corretto, figlia di Lotario, più bella ancora per i meriti.
Propizia è rimasta durante tutta la sua vita su questa terra.
Nessun nemico è riuscito a prevalere su di lei al punto di
vincerla.
Con consigli sapienti guidava molti governi,
e sempre la grazia grande di Dio era con lei.
Molti conti provenienti dai luoghi più diversi venivano
a richiedere un dolcemente proficuo colloquio con lei.
Fu madre carissima per i miseri esuli
e sempre si occupò dei pellegrini.
Fu famosa questa donna sapiente, e salda colonna
di ogni virtù, gloria e luce della patria.
Nel giorno ottavo delle idi di marzo abbandonò codesta
95
Testo tratto e tradotto da Epitaphium Ansae reginae, a c. di L. Bethmann,
G. Waitz, in MGH, Scriptores Rerum Langobardicarum et Italicarum secc. VI-IX,
Hannover 1878, pp. 191-192.
164
La parola alle fonti
vita, viva con il Signore e in pace.
La sua morte rattrista molti per il dolore – Ahimè –
Piange il popolo d’Oriente e quello d’Occidente.
Ora geme l’Europa, ora piange l’intera Francia,
la Corsica, la Sardegna, la Grecia e l’Italia.
Voi che leggete codesti versi, dite tutti quanti:
«Signore, donale la luce perpetua».
Così sia.
Morì nell’anno dell’incarnazione del Signore 925, indizione XIII.96
d) Il testamento di una regina
Testamento di Angelberga (a. 877)
Nel nome della santa e indivisibile Trinità. Io Angelberga,
che sono stata la moglie di Ludovico piissimo imperatore
di sacra memoria e imperatrice augusta […], per diretta
ispirazione di Dio, come credo, ho deciso con il consenso
di chi mi sta vicino e dei miei parenti, di far edificare una
chiesa all’interno delle mura della città di Piacenza, dedicata ai nomi e in gloria della resurrezione del Signore e dei
beati e martiri Bartolomeo, Sisto e Fabiano, dove voglio
che sia un monastero di fanciulle consacrate, sotto la protezione e il governo di Cristo, e insieme un ospizio che
accolga i pellegrini, in suffragio e aiuto dell’anima del clementissimo imperatore e mio signore, della mia, di entrambe le nostre figlie e anche di tutti i nostri parenti comuni.
[Segue l’elenco di tutte le numerose, cospicue proprietà che andranno a costituire il patrimonio del monastero e, separatamente,
i cespiti delle rendite da destinare all’ospizio per i pellegrini.]
96
Testo tratto e tradotto da Epitaphium Berthae, in MGH, Poetae latini aevi
carolini, IV/3, a c. di K. Strecker, Berlino 1923, p. 1008.
165
Le donne nell’alto Medioevo
Voglio che in quel monastero ci stiano fino a quaranta monache che vivano secondo la regola di san Benedetto; e sia
la loro badessa colei che eleggeranno fra loro con comune
consenso, proprio nel modo in cui da quelle che per chiamata di Dio vi sono ora raccolte è stata eletta Cunigonda,
venerabile badessa, da me poi ordinata; secondo tale
modalità e ordine, ossia che fintanto che rimarrò in vita
restino in mio potere sia l’amministrazione sia il controllo
tanto del monastero quanto dell’ospizio; dopo la mia morte voglio e ordino che se Ermengarda, ormai la mia unica
figlia, indosserà l’abito religioso, allora prenda il mio posto
nella gestione del luogo e, con condizione pari a quella
della badessa che vi sarà a quel tempo, gestisca ogni cosa
in modo che si conservi un’attenta osservanza della santa
regola e in modo tale da non venir meno in alcun modo a
questo ordinamento e organizzazione e da non creare
alcun impedimento né al cenobio né all’ospizio. Ma se ella,
dopo la mia morte, non prenderà l’abito religioso, voglio e
ordino che di questo monastero e di questo ospizio e delle
sue proprietà e anche di tutti i beni che abbiamo destinato
a ornamento della chiesa, non sottragga alcunché e piuttosto, nel caso ce ne fosse necessità, si assuma l’onere di
provvedere alle necessità e di difendere quel luogo, in tal
caso assumendosi l’onere di amministrare l’aiuto dato, in
modo tale che le monache non perdano alcunché serva alle
loro necessità di mantenimento. E poi, dopo la morte di
Ermengarda stessa, nel caso abbia avuto una figlia educata
convenientemente in quel monastero e che sia ritenuta
utile e adatta a esercitare il ministero pastorale, una volta
morta la badessa di quell’epoca, allora sia ella a succederle.
Allo stesso modo vorremmo che accadesse se vi fossero
altre, della medesima discendenza di tale mia figlia che
avessero indossato gli abiti sacri e fossero state educate e
cresciute in modo appropriato. Se poi dalla linea di discendenza di questa mia figlia non si trovassero donne adatte
per la loro formazione a tale compito, vogliamo allora che
sia scelta dalla nostra linea di successione paterna una
166
La parola alle fonti
donna tale da rispondere alle caratteristiche che abbiamo
sopra descritto; e se non la si trovasse nella mia linea di
successione paterna si ricorra allora a quella materna, sempre così come si è stabilito sopra; se poi non si riuscisse a
trovare in nessuna delle due parti una persona adatta, sia
allora la congregazione di quel luogo a eleggere fra le proprie consorelle una badessa che abbia le qualità previste
dalla santa regola. E, poiché vogliamo che questo santo
cenobio non sia soggetto alle competenze episcopali, ordiniamo che se nostra figlia o qualcuno dei nostri parenti o
qualunque autorità laica e qualsiasi personaggio potente
perpetrasse violenza o sottraesse indebitamente risorse a
tale luogo consacrato, la badessa che allora sarà in carica
dovrà rivolgersi per aiuto e per ottenere giustizia alla sede
apostolica, sia per difendere i propri beni sia per mantenere in eterno la forza di questa nostra disposizione.
[Aggiunge poi che le eventuali controversie interne al cenobio
debbano essere risolte in prima istanza dall’arcivescovo di Milano, in seconda a quello di Aquileia.]
Fra le altre cose vogliamo e ordiniamo che in suffragio del
suddetto mio signore e re e di me stessa sia celebrata quotidianamente una messa in quel monastero e in ogni officio
sia diurno sia notturno sia cantato un salmo per ciascuno
di noi due, insieme. Ogni anno, in occasione dell’anniversario della morte del mio signore e re, voglio che siano
nutriti in modo sufficiente trecento poveri e che sia fatta la
stessa cosa ogni anno in occasione anche del mio anniversario di morte. Voglio anche che, in occasione di ogni cena
pasquale, siano nutriti e vestiti ventiquattro poveri, dodici
per l’anima del mio signore e dodici per la mia. E che nell’ospizio siano preparati ogni giorno ventiquattro letti per i
poveri, e che siano accolti e rifocillati, sia tali ventiquattro
sia tutti gli altri che sopraggiungano, tanto quanto Dio ce
ne conceda la possibilità in modo che possiamo così accedere alla gioia eterna.
167
Le donne nell’alto Medioevo
Su tutti i miei servi che pertengono a tutte le corti che in
questa carta dispositiva ho nominato, mi riservo la piena
potestà, nel caso io voglia donar loro la libertà o assegnarli
ad altri. Tuttavia, tutti quelli che singolarmente non assegnerò ad altri né libererò, stabilisco che debbano servire
per questo monastero o per questo ospizio, in favore della
salvezza del più volte nominato mio signore e della mia.97
97
Testo tratto e tradotto da Le carte cremonesi dei secoli VIII-XII, a c. di E.
Falconi, I. Documenti dei fondi Cremonesi (759-1069), Cremona 1979, n. 20,
pp. 49-58.
168
3. Misfatti
Nel corso del secolo X il processo di dissoluzione delle strutture
istituzionali entro cui si organizzava il potere determinò il prevalere sulla scena politica di dinamiche strettamente clientelari,
legate a famiglie più o meno allargate dell’aristocrazia che avevano la possibilità concreta di gestire ampie reti di alleanze. In un
contesto di questo tipo le donne, più e meglio che in situazioni
politiche regolate da strutture formali che le escludevano a priori
dall’esercizio diretto del potere, furono in grado di agire in prima
persona, di usare le proprie qualità personali e patrimoniali per
tessere larga parte di quelle reti informali. Unicamente sulla base
di tali premesse si può capire perché nei secoli X e XI le fonti
narrative si affollano di molte donne che riuscirono a esercitare
un potere effettivo, che agirono con capacità ed efficacia per
affermare la propria discendenza d’origine, oppure quella in cui
erano entrate a far parte con il matrimonio o anche, semplicemente, per affermare loro stesse.
L’azione politica – ovvio dirlo ma opportuno rammentarlo –
soprattutto quando efficace, giova ad alcuni almeno tanto quanto
nuoce ad altri: alcune narrazioni mostrano allora giudizi duri,
insulti talvolta, nei confronti di uomini che altrove invece possono essere osannati. Quando sono rivolti a maschi, gli insulti
mostrano varia natura: nelle fonti altomedievali disvalori condivisi appaiono essere l’infedeltà, la grettezza economica e morale, la
codardia in battaglia, la doppiezza e l’ambiguità. Nei confronti
delle donne l’insulto appare invece di un’unica specie, ed è l’insulto sessuale. Tutte le donne potenti che ottengono successo
nelle loro azioni diventano inevitabilmente nelle penne dei loro
avversari politici delle puttane. Non è una novità retorica del
secolo X: le donne che vivevano presso la corte imperiale romana
169
Le donne nell’alto Medioevo
del I secolo d.C. non godettero di una stampa migliore. La storiografia prodotta dalla classe senatoria fece letteralmente a pezzi
Messalina e Poppea, per citare casi rimasti esemplari anche nel
linguaggio contemporaneo. Nel secolo VI, Teodora, moglie dell’imperatore Giustiniano, uscì decisamente malconcia dalla peraltro imprescindibile narrazione di Procopio di Cesarea. Gli
autori del secolo X seguivano insomma un sentiero ben battuto
ma – qui sta il “misfatto” – un sentiero che non ha poi cessato di
essere frequentato, e fittamente, neppure nei secoli successivi,
neppure dagli storici a noi contemporanei. Sulla base della testimonianza di Liutprando, creduto alla lettera sul punto, il potere
esercitato da alcune donne dell’aristocrazia romana nel corso del
secolo X è stato definito a partire dalla fine dell’Ottocento «pornocrazia romana». Più in generale, è stato considerato sintomo e
segno della decadenza politica, prova intrinseca di questa, il fatto
che donne di facili costumi potessero essere così influenti ad alti
livelli; e inversamente, ma con lo stesso pregiudizio di fondo, la
medesima presenza è stata ritenuta spia di una politica di stampo
primitivo, legata a pulsioni elementari quali la violenza e il sesso.
Questo perché, credo, l’insulto sessuale è un argomento retorico, e insieme un’arma politica, che non ha mai cessato di essere
efficace: la moralità per una donna, anche se agisce in una sfera
pubblica, viene sempre definita sulla base dei suoi comportamenti privati.
Il vescovo di Verona Raterio sottolinea nel passo proposto la
possibile forza femminile: non è un argomento consueto, va contro al luogo comune della debolezza e pare prendere atto di una
realtà contemporanea diffusa. Si affretta però a consigliare alle
donne forti di usare questa loro qualità per combattere i vizi e di
associarla a una tranquillizzante obbedienza che, inopinatamente, appare qualità contrapposta al vizio della sensualità. La forza
delle donne viene così ricondotta entro limiti accettabili, mentre
una libera espressione della sessualità femminile potrebbe mettere pericolosamente in discussione, pare di capire, l’ordine costituito.
Il racconto anonimo che denuncia la malvagità, associata con
una libidine disordinata, dell’imperatrice Angelberga impiega
170
Misfatti
forme narrative degne di un romanzo d’appendice per screditare
la donna, e insieme con lei il gruppo parentale cui apparteneva, i
Supponidi, nei confronti di un’altra famiglia emergente, quella
degli Ucpoldingi, che così è chiamata dal nome del primo membro noto, il conte di palazzo Ucpoldo. I due gruppi lottavano fra
loro in quel periodo per il controllo di alcune aree strategiche del
regno italico fra cui, soprattutto, il comitato di Modena: la vicenda condanna la regina cattiva e propone invece una figura femminile ideale nella vedova del conte ingiustamente assassinato,
moglie fedele e madre esemplare, combattiva al punto da affrontare un giudizio divino e camminare su vomeri ardenti per difendere l’onore del marito defunto e i diritti ereditari del figlio.
Con la maldicenza si volle colpire anche Sofia, figlia dell’imperatore Ottone II e della principessa bizantina Teofano, diventata
canonichessa a Gandersheim, dove badessa era la zia Gerberga.
La sua posizione di nascita e le sue doti personali fecero di lei un
personaggio di grande influenza politica alla corte del fratello
Ottone III. Non era una monaca e quindi poteva liberamente frequentare luoghi esterni a Gandersheim: fu presente all’incoronazione a Roma di Ottone, che la definiva «carissima» nei diplomi
in cui compariva quale intermediaria presso di lui di richieste di
personaggi potenti a lei legati. Strinse rapporti politici con l’arcivescovo di Magonza Willigiso, e fu invece avversaria di Ber nardo, che era stato precettore di Ottone III, e poi nominato vescovo di Hildesheim per allontanarlo da corte. Orgogliosa sostenitrice dell’indipendenza di Gandersheim dal potere vescovile,
quando fu eletta badessa Sofia non accettò la benedizione di Bernardo nella cui diocesi sorgeva il monastero. Una dura lotta politica, senza esclusione di colpi, che abbiamo qui riassunto troppo
brevemente, per arrivare al punto: Tangmaro, sostenitore di Bernardo e autore di una vita del vescovo, e insieme con lui altri cronisti del partito avverso a Sofia, non attaccarono mai direttamente le sue azioni ma preferirono attribuirle al vizio morale che ne
minava, a loro dire, la stessa persona. Le attribuirono così una
vita dissoluta riferendosi unicamente a generiche maldicenze che
si sarebbero sparse sul suo conto.
Altrettanto generiche sono le accuse che Liutprando da Cre-
171
Le donne nell’alto Medioevo
mona muove nei confronti di Ermengarda, figlia di Berta di Tuscia e moglie, poi precocemente vedova, del marchese di Ivrea
Adelberto II. La colpa vera di Ermengarda era stata la sua capacità di tessere e mantenere clientele salde che avevano consentito
al fratello Ugo di Arles prima, e al figliastro Berengario II poi, di
diventare entrambi re del regno italico. Liutprando era un cortigiano di Ottone I, aveva aderito con entusiasmo alla sua causa e
ne aveva ricavato consistenti vantaggi personali: l’avversario di
Ottone, Berengario II, e tutti i suoi alleati, i loro stessi antenati,
diventano l’obiettivo polemico della penna crudele del vescovo,
che colpisce tutti, indiscriminatamente, riservando però alle sole
donne insulti che ne colpiscono la sfera intima. Nel caso di Teodora, poi, emerge un altro uso possibile dell’infamia: nel passo
famoso che è qui riportato, essa è dipinta come un personaggio
così deleterio che può utilmente fungere da collettore di tutte le
colpe delle azioni infami che vengono perpetrate nei delicati
momenti in cui occorre nominare sostituti di vescovi, arcivescovi,
papi. La brillante carriera del diacono Giovanni da Bologna che,
in rapida successione, diventa vescovo di Bologna, arcivescovo di
Ravenna e infine papa, appare dovuta unicamente alle trame –
inevitabile sostantivo per designare l’azione politica femminile –
di Teodora: comodissimo capro espiatorio che evita al vescovo
cremonese di esporsi troppo nel giudizio sulle pratiche di cooptazione alle più alte cariche ecclesiastiche in tempi assai vicini a
quello in cui visse.
172
Misfatti
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173
Le donne nell’alto Medioevo
a) Obbedienza e sensualità
Raterio, Praeloquia (936-939)
Sei una donna? Cerca di aggiungere la dolcezza, che è nel
tuo nome, alla virtù dell’obbedienza, non al vizio della sensualità. Poiché in principio fosti chiamata “virago” (Genesi
2, 23), vale a dire “donna forte”, devi sempre ricordare di
essere forte contro i vizi e sottomessa e obbediente ai comandamenti del Signore […] nelle Sacre Scritture ci sono
molti esempi che ti si confanno; nel Vecchio Testamento
puoi leggere che, anche se gli uomini erano distrutti dal
terrore (come con il sonno della morte) del nemico che
terrorizza il mondo, molte donne hanno ottenuto una
meravigliosa vittoria per grazia di Dio; e nel Nuovo, molte
dimenticando la loro debolezza femminile hanno combattuto battaglie da uomini, e sconfiggendo il nemico, hanno
meritato con il loro trionfo la palma della gloria e la magnifica corona della vittoria.1
b) La regina seduttrice
Epitome chronicorum casinensium (940 ca.)
L’imperatore Ludovico che, dopo la morte del padre regnava da solo (851), si reca a Cassino con un immenso esercito e colà riesce a uccidere molti saraceni.
Ma la moglie dell’imperatore Ludovico, dopo la partenza
del marito, pose gli occhi su Tucbaldo, il conte di palazzo, e
vedendo che era bellissimo e secondo solo all’imperatore
per regalità di stirpe, cominciò a provocarlo sessualmente.
Tucbaldo era amato sia dall’imperatore, sia dall’imperatrice, siappure in modo diverso. La donna, posseduta da uno
spirito diabolico, durante le ore della notte, avendo visto il
1
Testo tratto e tradotto da Raterii, Praeloquia, II.3.
174
Misfatti
conte ritornare, entrata nella sua stanza, attirandolo a sé gli
disse: «Ecco, come vedi, muoio d’amore per te; perciò, ti
prego, dimmi di sì. Infatti come tu sai l’imperatore indugia
in Italia; se tu mi dirai di sì metterò nelle tue mani la dignità
imperiale; ma se mi dirai di no, rischierai la morte». Ma il
conte, turbato dalle parole dell’imperatrice, cominciò con
parole dolci a distoglierla da quella passione perversa, ma
inutilmente batteva i denti, inutilmente sferzava l’aria.
Ma ella, vedendosi disprezzata, afferrato un lembo del suo
mantello, cercò di trascinarlo comunque a compiere osceni
atti di libidine.
Tucbaldo allora, temendo più Dio che l’imperatore, si sfilò
il mantello che ella tratteneva con le mani e scappò. Ma la
regina, tenendo l’offesa nel segreto del suo cuore, si lacerò
le vesti e le mostrò all’imperatore al suo ritorno affermando di essere stata violentata dal conte di palazzo. Subito
l’imperatore, come se l’avesse condannato a morte, mandati soldati incontro a Tucbaldo che, ignaro, stava recandosi
da lui, ordinò che fosse ucciso. La moglie di Tucbaldo allora, temendo l’ira di Cesare, si rifugiò insieme con suo figlio
presso il padre Benedetto, denunciando disperata che suo
marito era stato ucciso dall’imperatore Ludovico. Dato che
lo stesso imperatore, a causa degli attacchi dei Saraceni era
stato richiamato in Italia da Bertario, abate di Cassino ed
era già arrivato alle chiuse della Liguria, papa Benedetto,
come era costume fare, gli andò incontro: e pertanto Andaberta, moglie del suddetto Tucbaldo, lamentò che suo
marito era stato ucciso ingiustamente e che voleva riabilitarlo da quella falsa accusa ingiuriosa, se sia l’imperatore
sia il papa glielo avessero consentito.
Senza indugio fu acceso il fuoco e furono così resi incandescenti dodici vomeri sopra i quali la donna, grazie alla protezione divina, camminò a piedi nudi senza subire alcuna
lesione.
Tuttavia l’imperatore, conscio di essere colpevole per aver
perpetrato un crimine, insieme con papa Benedetto, emise
un precetto a favore di Tucbaldo, figlio del conte assassina-
175
Le donne nell’alto Medioevo
to e dei suoi eredi in perpetuo, che riguardava il ducato
della Liguria e Tuscia, dalla città di Roma fino a Modena, e
l’intero ducato di Camerino fino alla Divia, confermandogli anche il comitato di Costanza e tutto ciò che possedeva
in Alamannia. Gli concesse inoltre, in perpetuo, il comitato di Modena con altri otto comitati.2
c) La lotta di Sofia
Thangmari vita S. Bernwardi episcopi Hildesheimensis (1003 ca.)
Quella celebre congregazione di serve di Dio [Gandersheim] fu fondata con tanto impegno e devozione dai nostri
signori, padri della patria, duchi e re, per Altfrido e per i
suoi successori, affinché, come accadde all’inizio, esse fiorissero quali esempio di umiltà e amore, imitabili da tutti,
prestassero ascolto, rispetto e amore al loro vescovo, preposto loro da Dio, come se fosse un nunzio di Dio stesso e
un padre, e accettassero con opportuna benevolenza tutti i
vescovi che si sarebbero succeduti, così come ciascuno di
essi meritava.
Questa era la consuetudine per quelle donne, questo il loro
impegno; il vescovo mostrava reverenza per questo santo
luogo e benevolenza per loro davanti a tutti; in base a tale
privilegio di umiltà, quando venivano chiamate al palazzo
del vescovo per discutere delle cause ecclesiastiche, si presentassero vestite non in modo troppo lussuoso o abietto,
ma come vere serve di Dio da tutti venivano considerate e
venerate. Ma, dopo che subentrarono il lusso e l’amore per
le cose superflue, si insinuò anche l’insolenza dei modi,
l’obbedienza si intiepidì e il rispetto dovuto ai vescovi dava
fastidio; si rendeva lecita la volontà di chiunque. A peggioTesto tratto e tradotto da Epitome chronicorum casinensium, in RIS, II-I, a c.
di L.A. Muratori, Milano 1723, p. 370.
2
176
Misfatti
rare le cose si aggiunse anche la lunga malattia della signora
Gerburga, venerabilissima madre di quel cenobio, che il
Signore aveva dotato di numerosissime insegne di virtù; e
anche la morte delle sorelle religiose che erano state educate dal nutrimento dell’antica disciplina. Sbocciava invece
nel tirocinio di Cristo una numerosa schiera di giovani vergini. Queste, allevate in modo troppo tenero e raffinato,
ignoranti dell’obiettivo della precedente severa disciplina,
come è umano, venivano poi meno ai loro voti. Anche
Sofia, contro il parere della signora Gerburga e con l’ostilità di molte altre, si recò a palazzo aderendo alla fazione
dell’arcivescovo Willigiso, lì trascorse un anno o due, e
oltrepassando il limite della vita dissoluta, fece molto parlare di sé. Il venerabile vescovo Bernardo, senza far caso a ciò
dato che continuava a trattarla con il massimo affetto e
benevolenza, cercò di convincerla con modi gentili a ritornare nel monastero. E poiché ella sembrava che neppure
ascoltasse le sue parole, ripetendole più spesso la ammoniva
familiarmente a ritornare nel monastero. Ella però, come
prima cosa si rifiutò di incontrarlo e di parlarci e poi si rifugiò dall’arcivescovo come a cercarne il patrocinio, esacerbò
il suo animo con le parole più amare, annullò il patto insito
nella sua consacrazione monacale con parole menzognere,
dichiarando di essere stata monacata da lui e non dal vescovo di Hildesheim, e di non dovere alcuna obbedienza al
vescovo Bernardo, che il cenobio di Gandersheim non pertineva alla sua diocesi e che aveva trovato numerosi testimoni in grado di attestare la verità in merito. Con tali parole, di tale gravità, sobillò gravemente l’animo dell’arcivescovo contro il signor Bernardo. Dopo ciò tornò a Gandersheim, e disseminò fra le consorelle numerose maldicenze
sul vescovo e agiva per quanto era in suo potere per estrometterlo da quel luogo ed espropiarlo.3
Testo tratto e tradotto da Thangmari vita s. Bernwardi episcopi Hildesheimensis, MGH, Scriptores IV, a c. di G.H. Pertz, Hannover 1841, pp. 754-782.
3
177
Le donne nell’alto Medioevo
d) “Pornocrazia” del regno italico
Liutprando di Cremona, Antapodosis (960 ca.)
Teodora, impudente puttana, nonna dell’Alberico che da
poco (954) è passato di vita, teneva con energia virile (cosa
che anche a dirsi è turpissima) la monarchia della città di
Roma. Ella ebbe due figlie, Marozia e Teodora, non solo a
lei pari, ma anche più pronte all’esercizio di Venere. Di
queste, Marozia generò con nefando adulterio con papa
Sergio III Giovanni XI che, dopo la morte di Giovanni X di
Ravenna, occupò la dignità della Chiesa romana. Da Alberico [di Spoleto] ebbe invece il marchese Alberico II che in
seguito, ai nostri tempi, usurpò il principato della medesima città di Roma. Nello stesso tempo Pietro reggeva il
pontificato della sede ravennate [in realtà di Bologna], che
è ritenuto il secondo arcivescovado, dopo il primato sacerdotale romano. Poiché questi inviava assai spesso a Roma
dal signore apostolico il già nominato Giovanni che allora
era ministro della sua Chiesa, Teodora meretrice svergognata, accesa dal calore di Venere, arse violentemente per
la bellezza del suo aspetto, e non solo volle, ma anche spinse più volte costui a fornicare con lei. Mentre tali cose
avvengono con impudenza, muore il vescovo della chiesa
bolognese e questo Giovanni è eletto al suo posto. Poco
dopo morì l’arcivescovo di Ravenna, prima della consacrazione di Giovanni, e questi usurpò allora il suo posto per
istigazione di Teodora, abbandonando, gonfio di ambizione, la precedente chiesa bolognese contro le istituzioni dei
santi padri. Infatti, giunto a Roma, fu subito ordinato vescovo della Chiesa ravennate (905-914). Dopo un breve
intervallo di tempo, per chiamata di Dio, anche quel papa
che lo aveva ingiustamente ordinato morì. La mente perversa di Teodora, di quella nuova Glycerio [Terenzio,
Andria], per non aver a godere troppo di rado degli amplessi del suo amante, per le duecento miglia che separano
Ravenna da Roma, costrinse questi ad abbandonare l’arci-
178
Misfatti
vescovado di Ravenna e a usurpare (oh! infamia!) il sommo pontificato romano.4
In quello stesso tempo (925), morto Adelberto marchese di
Ivrea, sua moglie Ermengarda, figlia di Adelberto II, potente marchese di Toscana e di Berta, otteneva il principato di
tutta Italia. La causa della sua potenza era questa, che esercitava (cosa turpissima anche a dirsi!) commercio carnale
con tutti, non solo coi principi, ma anche con i plebei.
Nello stesso tempo re Rodolfo, tornando dalla Borgogna,
venne in Italia e, morto Berengario, tenne fortemente il
regno. Dopo alcuni giorni però tutti gli Italici cominciarono
a essere discordi fra loro. Per la bellezza di Ermengarda
infatti erano trascinati da una grande rivalità dietro la putredine di questa carne mortale, perché ad alcuni essa si
concedeva, ad altri si negava. Onde avvenne che il ricchissimo arcivescovo di Milano e parecchi altri erano favorevoli
al partito di re Rodolfo, ma con Ermengarda stavano tanti
ribelli assieme che impedivano con la forza al re anche la
stessa Pavia, capitale del regno.5
4
Testo tratto da Liutprando di Cremona, Italia e Bisanzio, cit., Antapodosis,
libro II, cap. 48, pp. 95-96.
5
Testo tratto da Liutprando di Cremona, Italia e Bisanzio, cit., Antapodosis,
libro III, capp. 7-8, pp. 112-113.
179
4. Lessico
Aldio-a
Nelle leggi dei longobardi è il termine che designa una condizione giuridica personale intermedia fra libertà e servitù, come si
desume dalle formule «liberi, aldi e servi» che pongono gli aldi in
una posizione gerarchicamente intermedia alle altre due. Nelle
prassi regolate dalle leggi e in quelle che emergono nelle carte
private coeve, la condizione degli aldii appare però essere molto
simile a quella dei servi.
Agnatizio
Nel diritto romano il termine indica il legame di parentela secondo la linea di discendenza maschile diretta che può essere, pertanto, definita anche agnatizia. Agnati sono coloro che hanno in
comune lo stesso padre, anche se nati da madri diverse.
Canonichesse
Erano dette sanctimoniales nel latino altomedievale ed erano
donne che entravano in una comunità femminile, in genere un
monastero, pronunciando solo i voti di castità e di obbedienza, e
non avevano pertanto l’obbligo di seguire integralmente la regola
benedettina. Le monache invece vivevano regulariter, cioè seguendo la regola. Le canonichesse erano in genere donne di
estrazione aristocratica che potevano continuare a vestire secondo l’uso laico, che disponevano liberamente del loro patrimonio,
avevano servitori e talvolta un’abitazione propria, e che potevano
entrare e uscire liberamente dal cenobio. A questa condizione
appartenevano le fanciulle che venivano educate nei monasteri e
che poi non si sposavano, ma neppure prendevano i voti; e anche
le vedove, che così riuscivano a ottenere una buona autonomia
sia dalla famiglia d’origine, sia da quella del marito defunto.
181
Le donne nell’alto Medioevo
Cognatizio
Nel diritto romano è l’aggettivo che indica genericamente il legame di parentela: cognatio era detto il vincolo che lega fra loro
tutti i parenti di sangue, anche se non hanno in comune lo stesso
padre. Secondo il diritto romano una madre, per esempio, era
legata ai propri figli da un vincolo cognatizio e non agnatizio:
nella prassi, ciò significava che i figli non potevano ereditare beni
dalla madre dato che il patrimonio si trasmetteva esclusivamente
attraverso la linea agnatizia di discendenza.
Durante il Medioevo il termine si specializzò per indicare i
parenti acquisiti attraverso i legami matrimoniali, e quindi le
linee di parentela femminili.
Dote
Istituto del diritto romano che prevedeva all’atto del contratto
matrimoniale il versamento di una somma di denaro o la cessione
di beni patrimoniali da parte del padre della sposa al marito. La
donna era formalmente titolare del proprio patrimonio dotale ma
non poteva disporne in prima persona; da parte sua il marito poteva eseguire transazioni economiche sui beni dotali della moglie
solo con il suo consenso.
Dotario
Il dotario o dotalizio è un istituto presente nelle compilazioni
legislative romano-germaniche dei primi secoli del Medioevo,
esclusa quella longobarda. Si trattava di un insieme di beni patrimoniali, denari, gioielli e vesti che l’uomo donava alla promessa
sposa all’atto del contratto che sanciva il fidanzamento fra i due.
I beni entravano nella piena proprietà della donna che, nel caso
non avesse avuto figli, era libera di disporne come meglio credeva e rimanevano suoi anche nel caso in cui il vincolo matrimoniale venisse meno. Per questo motivo si ritiene fosse un istituto
volto a tutelare le donne in caso di vedovanza o divorzio.
Emogenesi
Si tratta di una teoria scientifica di lunga durata, formulata per la
prima volta da Aristotele e accolta nel mondo romano, che spie-
182
Lessico
ga il fenomeno della generazione sulla base del solo apporto del
sangue: un sangue attivo e generatore, quello del maschio, di cui
lo sperma sarebbe null’altro che la schiuma; un sangue passivo,
con esclusiva funzione nutritiva quello della femmina. Tale teoria
negava in tal modo l’esistenza di un rapporto genetico, di sangue,
fra le madri e i loro figli e legittimava scientificamente l’esclusione delle donne dalla tutela giuridica dei figli.
Immunità
Le prime attestazioni di questo istituto si trovano durante il
regno dei re Merovingi, ma furono i Carolingi a trasformarlo in
un efficace sistema di controllo del potere dei funzionari regi.
L’immunità infatti era un privilegio che veniva concesso dal re ad
alcuni grandi proprietari laici, a chiese vescovili e a monasteri;
prevedeva che in tutte le proprietà di quegli enti i funzionari
pubblici non potessero entrare e non avessero il diritto di esercitarvi le loro prerogative, esazione fiscale, esercizio della giustizia,
leva militare. Le proprietà e gli enti venivano in tal modo assoggettati alla diretta tutela del re e, nei fatti, il titolare dell’immunità esercitava nell’ambito dei propri possessi le funzioni pubbliche. Si crearono in tal modo ampie aree dalla giurisdizione autonoma i cui titolari, talvolta, potevano agire in modo antagonista
rispetto ai detentori del potere pubblico.
Meta
Nella legislazione longobarda si definisce “meta” la somma di
denaro che l’uomo che si voleva sposare poteva versare al titolare
del mundio della promessa sposa, fosse esso padre, fratello o
tutore: con tale versamento l’uomo diventava il nuovo titolare del
mundio sulla donna. Il matrimonio poteva avvenire ed essere
valido anche se non era stato preceduto da questa pratica: il
marito in tal caso però non aveva la titolarità del mundio sulla
moglie e quindi neppure sul patrimonio della donna. Il versamento della “meta” costituiva lo scambio indispensabile affinché
un fidanzamento fosse valido. Il matrimonio doveva poi avvenire
entro due anni: se, trascorso questo tempo, il fidanzato rinunciava a sposarsi, la meta rimaneva comunque al titolare del mundio.
183
Le donne nell’alto Medioevo
Nel caso invece fosse la donna a voler rinunciare al matrimonio,
il titolare del suo mundio doveva restituire la “meta” e versare a
titolo di composizione del danno il doppio del suo valore. Si
ritiene che la meta fosse in genere attribuita alla donna stessa,
piuttosto che alla sua famiglia d’origine: la legislazione, a partire
dal secolo VIII, prevedeva la possibilità che fosse direttamente
versata alla donna, all’atto del fidanzamento.
Morgengabe
Noto anche come dote maritale, è l’istituto che prevedeva l’assegnazione di parte del patrimonio di un uomo alla moglie e che
perfezionava giuridicamente l’unione una volta che il matrimonio
fosse stato consumato carnalmente. Il significato letterale del termine, “dono del mattino”, fa esplicito riferimento al momento
preciso della corresponsione. La donna diventava proprietaria
del morgengabe a tutti gli effetti e continuava a disporne per tutta
la vita anche nel caso in cui, rimasta vedova, decidesse di risposarsi.
Mundio
Nelle compilazioni legislative romano-germaniche dei primi
secoli del Medioevo l’istituto del mundio non riguardava solo le
donne, ma l’intera popolazione che non apparteneva al gruppo
degli uomini liberi. Gli aldi, i servi e le donne, tutti i soggetti che
non godevano di piena libertà giuridica, dovevano essere soggetti
all’autorità di un uomo libero che disponeva in pieno di loro ma
che, nel contempo, era tenuto a proteggerli, tutelarli, rappresentarli davanti al tribunale regio in caso di accuse mosse contro di
loro.
184
Nella collana “Il Medioevo attraverso i documenti”
sono stati pubblicati
Duccio Balestracci
Ai confini dell’Europa medievale
Giovanni Cherubini
Le città europee del Medioevo
Roberta Mucciarelli
Magnati e popolani
Un conflitto nell’Italia dei Comuni (secoli XIII-XIV)
Luciano Palermo
La banca e il credito nel Medioevo
Michele Pellegrini
Vescovo e città
Una relazione nel Medioevo italiano (secoli II-XIV)
Sergio Raveggi
L’Italia dei guelfi e dei ghibellini
Pinuccia F. Simbula
I porti del Mediterraneo in età medievale
Manuel Vaquero Piñeiro
Fra cristiani e musulmani
Economie e territori nella Spagna medievale
03 Donne Medioevo.qxd:03 Donne Medioevo
25-01-2010
21:32
Pagina 186
Lazzari, Tiziana
Le donne nell’Alto Medioevo / Tiziana Lazzari. - [Milano] :
Bruno Mondadori, [2010].
(Campus) (Il Medioevo attraverso i documenti).
ISBN 978-88-6159-219-3.
1. Donna − Sec. 5.-10 – Storiografia 2. Donna – Sec. 5.-10 –
Fonti documentarie.
305.40902 (ed. 22).
CIP a cura di CAeB, Milano.
Ristampa
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012345
Anno
__________
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Stampato per conto della casa editrice
presso Fotoincisione Varesina (Varese)