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Francesco da Barberino e il tristico

il tristico nelle note ai Documenti di Francesco da Barberino

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GIANCARLO BRESCHI Francesco da Barberino, la gobula e il tristico ABB In margine ad un intervento sui tituli volgari tracciati nell’affresco del Maestro di Bruto giudice nella Sala delle udienze del Palagio dell’Arte della Lana a Firenze1, ma relati anche da altre testimonianze, pergamenacee, cartacee e murali, ritengo meritevole di un’indagine supplementare la loro struttura strofica, che consta di tre endecasillabi nello schema ABB, un verso iniziale irrelato seguito da una cauda a rima baciata. D’accordo con Furio Brugnolo, al quale si deve anche il felice cartellino «poesia per pittura» apposto alle didascalie integrative di un complesso figurato, i tre versi li aggregherei sotto l’etichetta di tristico, meglio che di terzina, anche se possono richiamare, come si mostrerà, le volte del sonetto. Brugnolo, nel compilare l’inventario degli affreschi nei quali compare il tristico, afferma a ragione che esso è una delle «due formule metriche forse più tipiche delle iscrizioni poetiche trecentesche per pittura», anzi il «metro per eccellenza epigrafico»2. Già se n’era accorto Francesco Novati, che, ponendo in rilievo la «particolare predilezione» mostrata da Francesco da Barberino per questa forma nel duplice allotropo ABB e Ab7B, la definisce «istrumento di poesia gnomica ed epigrammatica» nel secolo XIV; e, a distanza di qualche decennio, Francesco Egidi confermava che «questo è lo schema comunemente usato nel ’300 per gli epigrammi composti allo scopo di dichiarare pitture»3. Brugnolo procede oltre, quando recupera l’ipotesi, sulla traccia segnata da Egidi, che «all’origine della fortuna, e anzi della specializzazione, dello schema ABB nella poesia per pittura ci siano le cobbole di Francesco da Barberino»4. Ipotesi più che verisimile, avanzata fin troppo cautamente, quando si consideri che, a stare alla documentazione disponibile, Francesco è il primo ad adottarlo nella sua produzione poetica, nei Documenti e nel Reggimento e costumi di donna5. Lo coinvolge nel corredo delle miniature del suo manoscritto, il cartello allegorico ad inizio dell’appendicolare Tractatus Amoris6, e quasi certamente nell’esegesi e illustrazione di opere pittoriche. Se tituli latini corredano un ciclo allegorico nell’episcopio di Treviso7, versi volgari (tristici?) furono dettati in sedi non esattamente localizzabili, come la fiorentina, in un edificio pubblico, per due affreschi, uno dei quali dedicato alla guerra tra Curialitas e Ava155 GIANCARLO BRESCHI ritia, tra Probitas e Codardia8. Quale che fosse l’assetto formale dei «dicta vulgaria», resta il fatto che i Documenti si ascrivono agli anni 1310-1314 e i tristici che vi si leggono anticipano di molto quelli superstiti: nel Camposanto di Pisa, forse ispirati dall’arcivescovo Simone Santarelli, già priore nel fiorentino convento di san Domenico; nel Palagio dell’Arte della Lana, nella chiesa di San Michele a Paganico, sulla facciata del Bargello, nel Tribunale della Mercanzia Vecchia e quelli composti e traditi da Franco Sacchetti. È lecito presumere che l’epicentro irradiatore del tristico possa indicarsi senz’altro in Firenze, donde promana, grazie agli allievi di Giotto (del quale Francesco aveva osservato le didascalie latine sovrastanti i Vizi e le Virtù nella Cappella degli Scrovegni9) o di pittori transitati per Firenze (Biagio di Goro Ghezzi, allievo di Pietro Lorenzetti, per qualche anno vi fu operoso), la sua diffusione in Toscana e fuori della Toscana (Siena, come è noto, fa storia a sé, compiaciuta del suo precoce epigonismo dantesco). Anche i tristici didascalici delle pitture infamanti, di cui si ha notizia, scendono a date tarde (del 1344 quello a biasimo di Gabriello, figlio del capitano del popolo Guglielmo d’Assisi) e comunque sono connessi con le sommosse magnatizie e popolari a partire dagli anni Quaranta10. Ed è altrettanto lecito presumere che in Francesco di Barberino si debba salutare il promotore dell’iniziativa. A favore dell’ipotesi giocano altri fattori indiscutibili e cogenti relativi alla personalità di Francesco: la coerenza nell’adibizione dell’involucro strofico propria di chi per cultura e per elezione si sente votato alla divulgazione di principi morali ed etici, integrati da consigli molto pratici; e l’impellenza, didatticamente avvertita, di esprimerli in motti agevolmente memorabili, entro un contesto epigrammatico alla stregua delle sentenze proverbiali, non soltanto quelle desunte dalla voce del popolo, ma anche di quelle vulgate e volgarizzate in iniziative parallele e indipendenti da più o meno illustri colleghi, antecedenti e coevi. I quali tuttavia si esprimono in distici: di alessandrini da parte di Girardo Patecchio; o in settenari, sillabicamente elastici, del paremiografo ser Garzo; o isosillabici, come quelli di Brunetto Latini, dedito a sermoneggiare insegnamenti etici e retorici11. Di tale, non precaria, consistenza, la stessa press’a poco che ci consente di riferire a Giacomo da Lentini l’invenzione del sonetto e a Dante quella della terzina, si sostanziano gli argomenti per attribuire l’atto costitutivo della formula tristica a Francesco da Barberino, assiduo sperimentatore di equilibri strofici, fino a giungere, tra i primi nel Trecento toscano alla «contaminazione tra forme liriche e forme narrative»12. Meno convincente la seconda ipotesi di Brugnolo che il tristico ABB e il distico AA derivino dal madrigale, struttura di per sé alquanto labile13. La duplice formula costituirebbe, «elemento sistematico e strutturante, unicamente nella tradizione madrigalistica» e dalla segmentazione delle figure madrigalesche ABB CDD EE o ABB ACC DD, scisse in due componenti, avrebbero origine a loro volta due figure isolate. Francesco da Barberino si sarebbe ispirato dunque «a un modulo madrigalistico e lo avrebbe ‘rilanciato’ in altre sedi disposte ad accoglierlo»14. Insorgono alcuni motivi di perplessità. Il primo si fonda sul fatto che il madrigale, entro il quale si opererebbe la scissione amebica, cala nelle sue formulazioni canoniche e letterarie ad epoca di molto posteriore rispetto agli attestati barberiniani del 156 Francesco da Barberino, la gobula e il tristico ABB tristico. Guido Capovilla, attento indagatore del genere, attribuisce i primi campioni a Petrarca e, in ragione di una expertise musicologica, agli anni Trenta e Quaranta le anonime composizioni conservate nel Vaticano Rossi 21515; ai medesimi anni attorno ai quali si colloca, sempre a parere degli storici della musica, l’attività dei primi intonatori16. Anzi la priorità petrarchesca affidata a Non al suo amante più Dïana piacque (Rvf 52), peraltro articolato nello schema ABA BCB CC (tra il 1343 e il 1345 si situa il n. 121, Or vedi, Amor, che giovenetta donna, l’unico dei quattro madrigali con schema ABB ACC CDD) rischierebbe di saltare, se la data del 1326-1336 conferita in base all’ordinamento del Canzoniere, dovesse posticiparsi al 1348-1352, con il conseguente trapasso e slittamento cronologico, seppur di poco, del titolo di primo firmatario di un madrigale a favore dell’amico Lancillotto Anguissola17, se non di Giovanni da Firenze o Jacopo da Bologna (citato quest’ultimo da Brugnolo). Né i termini sopra fissati potranno agevolmente ribaltarsi: «Non ci sono giunti, finora, dati reali che attestino una preistoria della forma in questione, né, d’altronde, sembra che si debba ipotizzare una lunga incubazione»; anzi «le prime e più significative testimonianza teoriche sul madrigale risultano anteriori (o, in parte, appena coeve) ai più antichi componimenti in nostro possesso»18. Sovviene l’argomento principe derivato dall’auctoritas dei trattatisti. Antonio da Tempo, pur ammettendo che «licet hodie subtilius et pulchrius per rithimatores mandriales huiusmodi compilentur», attesta la grossièreté del madrigale: «Mandrialis namque rithimus debet constare ex verbis valde vulgaribus et intellegibilibus et rudibus, quasi cum prolationibus et idiomatibus rusticalibus: ita quod verba mandrialis sint quasi omnino diversa ab aliis verbis et modis vulgaribus rithimandi, quod forte non est ita facile invenire quemadmodum alia verba quae amoris venerei causa compilantur pro cantu»19. E Gidino da Sommacampagna, quasi a tradurre: «questo modo de rithimare primamente venne da li pastori inamorati, li quali sì come homeni rustici e grossi, per compiacere a le loro femine rusticane cominciarono a compillare parole grosse, e quelle cantavano ne le pive loro con grosso modo, ma naturalemente: quamvis deo che li moderni facieno li marighali loro con più sotile e ligiadre parole»20. Dopo Antonio, in un trattatello appendicolare alla Summa in un manoscritto veneziano, il Capitulum de vocibus applicatis verbis, il madrigale viene qualificato nelle forme (ma non si «accenna alla partizione in terzetti» e si «prevede l’impiego esclusivo di settenari») e, unico tra i generi considerati, nei contenuti («cuius verba volunt esse de villanellis, de floribus, de arbustis, sertis, ubere et similia»)21. E infine sarà da evocare – testimonianza senz’altro più rilevante, e non soltanto perché anteriore – Francesco da Barberino, il quale, nell’accennare ai «matricale et similia» nel trattato di metrica inserito nei Documenti, li sottopone, nell’undicesimo dei «modi inveniendi», al genere del «voluntarium», a sua volta specificato quale «rudium inordinatum concinium»22. Notevole che tutti gli autori concordino nell’associare il testo alla musica e al canto: «cantus consonet verbis», sottolinea Antonio da Tempo23; e Francesco ribadisce che il «matricale» è un canto a più voci, distinto dal canto solista, il sicinium, e da quello amebeo, il bicinium24. Se ne ricava che, pur consentendo con l’ipotesi di una precoce incubazione pri157 GIANCARLO BRESCHI ma della fruizione culta, almeno ai tempi e nel giudizio di Francesco, il madrigale si distingue quale genere poetico creato in stretta sinergia con la musica e con il canto, ricetto di applicazioni specifiche, quelle erotiche, coltivate da rozzi interpreti ed espresse da un lessico condizionato da un registro a loro condegno. Insomma un sano prodotto della creatività popolare, di ambiente genericamente bucolico o villereccio, tramandato oralmente e del quale si è perduta la traccia, se non in qualche citazione nel Decameron. Soltanto nella seconda metà del secolo, limitatamente a qualche esemplare, verrà usufruito per verbalità di contenuto meno depresso. In conseguenza appare affatto improbabile che per enuclearvi il tristico Francesco da Barberino si sia ispirato alla struttura strofica del madrigale, involucro per nulla consono ad accogliere apoftegmi morali e civili, senza avvertire il rischio – lui, precettore di norme grammaticali e retoriche – di infrangere il principio della convenientia tra forma metrica e tematica, prescritta dalla trattatistica medievale (Dante se ne fa illustre didatta nel De vulgari Eloquentia, II.IV.7, V.3) e rigorosamente osservata dai dictatores eloquentes nella scelta delle sententiae, delle constructiones, dei vocabula e dei carmina. Dalla lunga premessa deriva la conclusione, a mio avviso, che l’ipotesi madrigalesca vada accantonata a vantaggio di altra concorrente. Che non sarà a maggior ragione il serventese, da Francesco collocato nell’ordinamento dei modi inveniendi al quarto posto, dopo la canzone, la ballata e il sonetto, e liquidato abruptamente, senza altre indicazioni, con severa sentenza esclusoria: «serventese a probis expiravit, et si vis scire, cecos audi»25, senza considerare che nelle virtualità strofiche, ivi comprese quelle, pur non esaustive, esemplificate da Antonio da Tempo, non compare o non è scindibile il tristico ABB26. A salvaguardia del parametro della convenientia irreprensibile si candiderebbe il sonetto, addetto per lunga tradizione anche a temi didascalici, etici e civili, grazie allo schema iniziale del sestetto CDD, giusta il tipo |abb|27, sequenza talora replicata nella seconda. Lunga è la lista degli utenti, da Chiaro Davanzati, a Onesto da Bologna, a Dante, agli Stilnovisti, fino a Cecco Angiolieri28, e tra questi compare proprio Francesco da Barberino per la prima terzina, variata nella seconda (CDD DCC), del sonetto I’ son sì fatto d’una visïone incluso nella parte IV del Reggimento, o con schema inalterato (CDD CDD) nell’altro sonetto, Testo d’un’erba c’ha nome zentilina, attribuitogli dal Barberiniano latino 3953 di Niccolò de’ Rossi29. Oppure si estrapolerà, sempre dal sonetto, la non rara cauda di endecasillabi, privi di rispondenza con le terzine, il primo verso irrelato, i secondi rimati, in uso presso Panuccio del Bagno, Giovanni Quirini, Matteo Mezzovillani e alcuni poeti perugini30. A rigore di cronologia l’elenco andrà potato degli ultimi menzionati e forse anche dei precedenti in considerazione della desultoria peregrinazione di Francesco dal 1304 al 1314, soprattutto negli anni in cui pose mano ai Documenti. Mentre per ciò che è del distico disponibile si offrirebbe la cauda semplice ben collaudata non soltanto dagli stilnovisti e non ignota a Francesco nel citato sonetto Testo d’un’erba31. Occorre tentare altre vie e la maestra mi sembra quella che conduce diritta a Francesco da Barberino, partendo da un istituto capitale nella sua teoresi formale e 158 Francesco da Barberino, la gobula e il tristico ABB nella prassi applicativa: la gobula. Nel catalogo dei modi inveniendi inserito nella Pars secunda, alla glossa del Documentum vj («undecim modi sunt inter antiquos et novos in usu, et tres alii subrepserunt de novo, qui nondum obtinent cursum plene, duo alii in desuetudinem abierunt»)32, spicca in posizione privilegiata, al quinto posto, il modus gobularum, più sotto glossato nei termini seguenti: «gobula est aliqua brevis oratio circumthonsa et rimata, nec brevi vel longo ordine limitata»33. In un passo di poco anteriore, nel V. Documentum de regulis Amoris sub Industria (Pars secunda) Francesco, dettando il proemio volgare alle sezione delle Regule, si era indotto ad una preliminare avvertenza ai vv. 6-9: «lor stilo [delle Regule] in rime non è limitato, C’ongnuna d’esse à remota matera, E tal poco comprende, E tal in più si stende», concetto ribadito nell’esegesi latina, «stilus quidem eaurundem non est strictus limitibus, quo ad rimas»34; e nella glossa, alludente al modus delle regule, ne aveva giustificato la disparità formale e tematica: «Sequitur de secundo [cioè «quibus modis iste regule facte sint et numquid debito stilo refulgeant»], videlicet de quo dicas quod iste regule, ut dicit earum prohemium, sub certo stilo, ut una similetur alteri vel ad rimas respondeat, non formantur, eo quod quelibet remotam ab altera et dissimilem tam in quantitate quam in qualitate habet materiam. Quelibet tamen habet ordinem in se ipsam, et facte sunt ad instar provincialium gobularum, ex quo eas debito fulgere ordine non negabis»35. La gobula, pertanto, nell’ottica dei prelievi volgari e latini dalla Pars secunda dei Documenti, si precisa come l’unità discreta monostrofica realizzata in varianti intercambiabili: i tratti pertinenti, di ragione semantica e funzionale, ineriscono al contesto di circoscritta affabulazione e di media latitudine, costituito da un insieme organico in virtù del concorso rimico; i tratti irrilevanti alla materia, tuttavia ristretta alla pervasiva monitoria («ad bene agendum vel malum vitandum, seu bene loquendum»), al numero e alla tipologia di versi, nonché alla sequenza delle rime, tuttavia non preclusiva di un debitus ordo intrastrofico. Sempre dal V. Documentum de regulis Amoris sub Industria (Pars secunda) si inferisce che le 150 Regulae si ascrivono al genere gobula, e la deduzione trova piena conferma nella loro rispondenza al canone espresso nei due luoghi sopra citati: le Regulae si configurano di fatto come strofe unitarie, di poliedrica varietà, sia nel computo sillabico (ma prevalgono l’endecasillabo e il settenario, e in rima interna trovano posto anche il senario e il quaternario), sia nella disposizione delle rime, sia negli schemi metrici, ed infine nel numero di versi incluso fra gli estremi del complesso più consistente, peraltro limitato a sette esemplari, e del minimo di due (anch’esso ristretto all’unica Regula III)36. Gobule o, come si anticipano nell’ipocorismo «gobbolette», senza puntuale riferimento topico, si intercalano nel Reggimento: «Non vo’ che sia lo tuo parlare [dell’Eloquentia] oscuro, … né parlerai rimato, acciò che non ti parta, per forza di rima, dal proprio intendimento; ma ben porrai tal fiata, per dare alcun diletto a chi ti legerà, di belle gobbolette seminare»37. Nel pur attenuato impegno formale, e a prescindere dai poco persuasivi ingredienti metrici ammanniti dall’editore, strutture tristiche si leggono in apertura delle Parti prima e seconda, e, disposte nel continuum narrativo, nel159 GIANCARLO BRESCHI la parte quinta (qui la «gobboletta» è preceduta da un’autocitazione dalla tristica Regula XXXV dei Documenti), mentre il nucleo più numeroso si addensa nella parte sedicesima per un totale di quattordici nello schema ABB, di quattro in misure sillabiche variabili nello schema abb, di due nello schema AbB e di una nello schema ABA38. Nella polimetria costitutiva dei Documenti, a parte quelle concatenate, AaA, BbB, ecc. nella parte VI; e aaB, bcC, ddE, eff, oppure aab, bbC, ddE nella parte IV39; occorre avvertire che, sebbene non ne sia resa esplicita l’etichetta, di gobule tristiche si intessono, sempre nella Pars secunda, VJ Documentum et ultimum, i Motti o Mottetti, morfologicamente affini alle Regule, calati in nove schemi con le occorrenze a fianco segnate: AaA (12), Aaa (1), a8a8a8 (2), a8a5A, (1), aa3a8 (1), ABC, o meglio AB(c)C, (1), AbB (2), a8b8b8 (1), compreso ABB (2, XVI e XXXIII)40. Alla definitiva identificazione del tristico, e anzi a corroborare la sua specializzazione funzionale, concorre il Tractatus Amoris. Dichiaratane la natura ascitizia rispetto ai Documenti, dove pure se ne fa menzione anticipandone materia e forme41, Francesco allude in prima persona alle «figuris quas sub Amoris figura retraxi actenus in alio loco»; e prosegue: «Sequitur ergo ad maiorem claritatem habendam representatio figure Amoris in eadem forma qua supra in principio huius libri, deinde figure alie subsecuntur et dicta vulgaria per me dudum circa istam materiam compilata»42. Più oltre si legge che le «figure predicte superius posite fuerunt ut picte iacent representate in publico et gobule subposite singulariter singulis ad pedes earum et due stantie de dicta cantione [la canzone firmata Io non descrivo in altra guisa Amore] scripte fuerunt ad pedes earum post gobulas, et relique due stantie ab opposito et ritornellum». La miniatura dei Barberiniani, stesa su due terzi della carta, rappresenta Amore in piedi su un bianco cavallo alato (di fianco in un cartiglio il primo tristico della serie dei quindici, «Io son amor in nova forma tracto E se disotto da me riguardrete L’ovre ch’io faccio in figure vedrete»), e sotto tredici figure, ciascuna, come Amore, individuata – ma soltanto in B – da un cartiglio soprastante, («religioso», «religiosa», «fanciulla», ecc.43) e ai piedi, composta in una stretta colonna, da una didascalia autoreferenziale, duplice per il Religioso e la Religiosa. In calce alla medesima carta si leggono le prime due stanze della canzone Io non descrivo in altra guisa Amore. Si ponga mente che le gobule subposite, scritture esposte nell’affresco e nel Tractatus intercalate tra il proemio latino e la canzone, sono rappresentate esclusivamente da tristici, a schema ABB per le individuali (una rimalmezzo nel secondo verso, scalata in posizioni decrescenti: a7, a6, a5, frange i tristici per il «donzel che non cura», per il «fanciullo» e per il «morto»), a schema Ab7B e ABBCC, unica con cauda, rispettivamente per le collettive dei religiosi e della coppia «moglier e marito», in forza del carnale coniugio figurata da due teste in un unico corpo («Amor, che ci ài di due facta una cosa»)44. Dalla doppia testimonianza dei Documenti, imperativa quella del Tractatus, e del Reggimento si deduce che per Francesco da Barberino il tristico, costituisce un allotipo dell’entità gobula, una sottospecie del genere gobula, e si caratterizza per i tratti comuni del monostrofismo e dell’autosufficienza semantica, sia che si presenti isolato (ad esempio il Mottum XVI della Pars secunda e nel Reggimento), oppure coinvolto in una sequenza di altre gobule difformi (come nelle Regulae nella Pars secunda) oppure 160 Francesco da Barberino, la gobula e il tristico ABB in una serie omogenea (come nelle gobule subposite del Tractatus)45. Non soltanto: quel che conta evidenziare è il calcolo statistico portato sulla morfologia rimica: dall’esame sinottico delle testimonianze testuali si ricava che prevale largamente nelle Regole, nei Mottetti e nel Reggimento il tipo |abb|, per una frequenza totale di 44 occorrenze di contro a sette del tipo |aba|, a 17 del tipo |aaa| e al solitario |abc| (presenti questi ultimi due soltanto nei Mottetti); mentre nell’ambito del tipo |abb|, la formula endecasillabica sopravanza le altre nelle Regole e nel Reggimento, e in misura pressoché totale nel Tractatus. Nei confronti dei concorrenti il tipo |abb| si ritaglia uno spazio, che non si limita soltanto a quello circoscritto dal numero dei versi. Di contro alla monotona sequenza di |aaa|, all’univoca alternanza raccostata di |aba| e alla completa dissoluzione reticolare di |abc|, il prediletto |abb| si avvale di una struttura compromissoria, derivante dalla arimicità del primo verso e dalla coerenza rimica degli ultimi due. L’isolamento iniziale non è in assoluto eterodosso, poiché la medesima cadenza denuncia la maggioranza delle gobule da cinque a diciotto versi (eccepiscono quelle di quattro versi, per quanto vi si notino i tipi |abcc|, |abcb|, complicato in |ab(c)cb|, e l’unica di diciassette) e, come vedremo, i piedi delle canzoni. L’asimmetria viene giustificata da Francesco nell’esporre l’undicesimo dei diciotto vizi da evitare nel comporre versi: «rimam aliquam dimictere solam, quod in principio aliquando non vitatur»46. «Aliquando», dunque, e «in principio», in iniziale assoluta, è dunque lecito introdurre una rima irrelata47. Se in un contesto strofico ampio questa si diluisce e stempera nel ricorrere delle rime seguenti, nel tristico ABB la transizione si avverte come uno stacco netto e, almeno nelle Regole e nei Mottetti, detiene valenza stilistico-tematica. Alla segmentazione proposta dalla Goldin, ispirata ai dettami della dialettica scolastica (nel primo verso l’articolazione della sentenza, nel secondo verso un’obiezione, nel terzo la risposta sentenziosa o l’emblematico suggello aforistico)48, se ne indicherà una, a nostro parere meglio congrua, calcata sul motto proverbiale: ad un exordium investito di una massima universale, per lo più tratta da un’auctoritas scritturale o demotica, segue il concentrato della didassi barberiniana, lessicalmente e sintatticamente contratto, registrato nelle categorie dell’indeterminato e dell’atto illocutivo: un tecnica di esposizione ben collaudata, riconducibile alle ‘forme semplici’ della ricca tradizione gnomica medievale49. Meno sembrerebbe prestarsi il modello al cartiglio assegnato agli individui rappresentati in un contesto figurativo, come nel «visibile parlare» del Tractatus Amoris. Pur deferenti all’ovvia esigenza dell’affabulazione compendiosa e all’intento parenetico, i tristici si avvalgono obbligatoriamente di altro schema espressivo, condizionato dalla formulazione personalizzata: il locutore (religioso, religiosa, fanciulla, donzella, lo stesso Amore) si espone in prima persona, e nel dialogo con Amore, inseriti gli opportuni elementi identificativi del proprio essere, si produce in un discorso fuso, compatto, pur nell’articolazione subordinante, che raramente coincide con la sequenza rimica. A questo punto si porrà il quesito circa il modello a cui si è ispirato Francesco e, come dice bene Roberto Antonelli, ci si confronterà «coll’operazione filologicamente più complessa e opinabile, quella di tipo ricostruttivo». 161 GIANCARLO BRESCHI Se ho ben visto, il tipo |abb| mai si registra nei Siciliani, bensì si ripete la sequenza |abc|, frequentata dal citato «Iacobus notarius», dal fiorentino «Brunectus Latinus»50, oppure, ancora da Giacomo da Lentini, Mazzeo di Ricco, Guido delle Colonne ed da altri, nella variante con rimalmezzo |ab(b)c|51; entrambe, sequenza e variante, esemplate dai siculo-toscani, «Guittone de Aretio», Bonagiunta Orbicciani, Chiaro Davanzati, Panuccio del Bagno, tutti, insieme con i residui usufruttuari, apparentemente ignoti, eccetto il primo, a Francesco52. Gli unici ad adottare il piede |abb| sono Guittone nelle prime due strofe di No è da dir Gioane a tal che noce, giusta lo schema di Margueron, e, se si interpreta quadripartita la fronte, |abb, aab, abb, aab|, Lapuccio Belfratelli nella canzone Donna senza pietanza53. Quanto agli stilnovisti, si riproduce sostanzialmente il quadro già disegnato per i Siciliani e i siculo-toscani: assente il tipo |abb|, se non in una ballata di Cino, Angel di Deo simiglia in ciascun atto (identico il tipo, diversa la misura: AbB54) un solo esempio del tipo |ab(b)c| nella canzone In quanto la natura, da Aldo Menichetti, con finissima argomentazione assegnata a Bonagiunta Orbicciani e pertanto da retrocedere al comma pregresso (anche lo schema dei piedi, ignoto al contendente, Guido Guinizelli, lo comproverebbe)55. Spesseggia la sequenza |abc| in circa un terzo delle canzoni, tanto che Domenico De Robertis la definisce «una delle più usuali, e si potrebbe dire stilnovistica»; e tra i massimi tributari figurano i pluricitati nei Documenti «Guido Guiniçelli de Bononia» e, in primissima sede, «Dante Arigherij»56. Per amore di completezza è opportuno sottolineare che il tristico ABB non si caletta in strutture strofiche della canzone lungo tutto il corso del Trecento57. Accertata la modesta risposta nella cultura strofica indigena, antecedente e coeva, isolana e peninsolare, al tipo |abb|, giova ritornare alla dichiarazione di Francesco che le gobule «facte sunt ad instar provincialium gobularum»58, cioè a guisa delle coblas provenzali, non sussistendo dubbi sull’identificativo etnico-linguistico provincialis59. Non stupisce che, attivandosi in un impegno costante di apprendistato culturale nel corso dei quattro anni trascorsi tra la Provenza e la Francia, Francesco abbia adunato, come mostrano le citazioni trovadoriche nei Documenti, un copioso retaggio di letture condotte direttamente sui canzonieri, uno dei quali citato con la rubrica iniziale latina, Flores dictorum nobilium provincialium60. Il titolo sembra evocare piuttosto un florilegio, sul paradigma di quelli circolanti nell’ecumene occidentale per gli autori latini e mediolatini ovvero per raccogliere testi devozionali o parenetici, e che furono per via di sollecita mimesi allestiti anche per accogliere, ad istanza di appassionati commitenti, antologie di exempla narrativi (Francesco cita i Flores novellarum), e, per ciò che ci pertiene più da vicino, il fior fiore del patrimonio trobadorico. Né si può escludere che oltre ai florilegi Francesco, negli anni di esilio trascorsi in Provenza abbia sperimentato una conoscenza più ampia della produzione occitanica e delle tendenze allora correnti, consultando anche le Gelegenheitssammlungen: lo farebbe supporre l’elevato numero di trovatori da lui richiamati, circa venticinque, compresi quelli di cui si ha notizia soltanto grazie ai Documenti, e dalle citazioni, la maggior parte delle quali tradotta in latino e soltanto raramente riportate in occitanico, talora estratte da più di una cobla della medesima canso61. Illuminante il caso del 162 Francesco da Barberino, la gobula e il tristico ABB prediletto Folquet de Marseille, emergente su tutti i colleghi e introdotto «in lingua sua» con le canzoni Per Dieus, Amors, ben sabes veramen (richiamata in ben tre luoghi dei Documenti), con i vv. 1-3, 8, 27-28, 41 (da Amors, merce, si citano i vv. 29-30). Seguono con due estrapolazioni Uc Brunenc62, Cortesamen mou en mon cor mesclanza, vv. 5-8, 15-16, e con una Gaucelm Faidit, Mon cor e mi e mas bonas chansons, vv. 4-6 (ma i vv. 1-3 sono ‘volgarizzati’ in latino); Guiraut de Borneil, Jois e chans, vv. 35-36; Peire Vidal, Si·m laissava de chantar, vv. 21-26; Peirol, D’un bon vers vau pensan, vv. 19-20. E neppure si può escludere, fatta la tara di erroneità addebitabili alla registrazione mnemonica, che Francesco abbia avuto tra mano più di un canzoniere, se le resultanze della tradizione manoscritta relative ai singoli excerpta risultano, a parere degli editori – i pochi avventuratisi in congetture –, scarsamente omogenee quanto alla riunione in gruppi e alla posizione nello stemma63. Il fatto si è che lo scrutinio degli inventari strofici dei trovatori non consente a prima vista di reperire adeguati riscontri, registrando il tristico una presenza statistica di poco superiore a quella riscontrata per il massiccio strofismo ultraquarantenario, a conferma della postuma disciplina impartita dalle Leys d’Amors, che prescrivono per la strofe un minimo di otto e un massimo di dodici versi64. Nell’ambito della poesia lirica occorre risalire alle tre canzoni di Guglielmo IX, Companho, farai un vers q’er covinen, Compaigno, non puosc mudar e Companho, tant ai agutz d’avols conres; al controcanto polemico di Marcabru, En abriu s’esclairo·il riu65, precedenti assai poco probabili perché i tre versi procedono in sequenza polimetrica e sulla medesima rima, 11a11a14a, né si trascuri il fatto che i due trovatori non sono mai menzionati nei Documenti. Soltanto per completezza di inventario si allegano i tercets di Jean Nicolas de Pignans (7a7a7b) in una satira contro un chierico locale e un intermezzo lirico del Jeu de sainte Agnès, datato al secolo XIV, ma restauratore di timbres estratti da composizioni anteriori, in particolare da una chanson de toile o d’histoire con schema monorimico 12a12a12a, nel planctus di Cristo «in sonu al pe de la montaina», vv. 469471, nella risposta di Gabriele «in eodem sonu», vv. 472-474, e in almeno due battute ai vv. 333-335 e 442-444, la seconda in alessandrini sempre monorimi66. Tristici compaiono nel salut di Raimon de Miraval, Dona, la genser c’om demanda67, il «Miraval provincialis» apprezzato nei Documenti; ma quei tristici, almeno nelle partizioni IIIII, V-XLII giusta la prima ipotesi formulata da Borriero, la più convincente, non rispondono allo schema barberiniano, perché prevedono una diversa distribuzione rimica e il nesso capcaudado, ed infine sono di computo inferiore (8a8a4b)68. Tuttavia il Répertoire di Frank, che allinea fuori da qualsiasi discrimine le sequenze sillabiche, maschili o femminili, corrispondenti alla successione dei versi e, al massimo, con operazione talora discutibile, segmenta gli elementi secondo la ricorrenza della rima, andrà riguardato sotto una diversa angolazione. Del resto la tarda manualistica occitanica a noi tradita, solerte nel classificare la tipologia della cobla, si astiene dal segnalare le ripartizioni interne, pur implicite nella prassi e obbedienti all’articolazione melodica che organizza i livelli del metro e della sintassi69. Francesco proviene da altra cultura, che aveva sancito la separazione, se non il divorzio, tra poesia e musica, fin dai Siciliani, i quali, a differenza dei Minnesänger inclini ai contrafacta, e 163 GIANCARLO BRESCHI pertanto alla mimesi melodica del testo-fonte, ne obliterano e ne alterano nelle traduzioni o nelle rielaborazioni la multipla compagine strutturale, ricreandola – si allude qui al capostipite –, «in modo del tutto autonomo»70. In piena consapevolezza, sostenuta dall’esperienza non dichiarata dei Siciliani, dei Siculo-toscani e degli Stilnovisti, Francesco inquadra il disegno intrastrofico della canzone in un rigido canone, istruito in rigide norme da lui, e indipendentemente da Dante, ad imporre la distinzione tra piedi e volte nelle canzoni distese («dum modo fiant similes primi pedes et postea sibi similes due volte tot sunt modi»), e a suggerire al contempo gli artifici per renderne più o meno complessa la testura, concedendo ampio margine di ampliamento per gli esperti («quot subtilis homo sciverit commutare … posses etiam facere plures pedes et voltas»)71. Segnato dalla sua educazione metrica e da un’agnostica attitudine verso la componente musicale72 – e non è detto che i canzonieri provenzali da lui compulsati fossero provvisti di notazione – Francesco era indotto a interpretare gli schemi trobadorici delle coblas sulla traccia delle convenzioni apprese in Italia ed a riportarli ad una tassonomia implacabilmente sanzionatrice della suddivisione in fronte, in piedi, in sirima e in volte. Sul fondamento di tale presupposto numerosi lemmi dell’inventario di István Frank andranno posti sotto osservazione: tutti quelli che offrono la possibilità di suddividere i primi sei versi della strofa in due piedi omogenei, quanto alla disposizione delle rime, non necessariamente isosillabiche. In primo luogo, il n° 577 (abb acc dd), comprensivo di ben 306 esponenti, inclusivi di 83 coblas esparsas; ma anche si annetteranno gran parte di quelli compresi tra il n° 466 e il n° 765, dei quali almeno il 62%, si inizia con la sequenza |abb|, astraendo dalla testura immeditamente seguente o dalle successive. Se si prendono ad esempio i numeri 577 e 592 (abb acc ddee), si può supporre che nella indiscreta serie versale Francesco abbia praticato l’incisione a lui consueta risolvendola in tre segmenti omogenei, |abb/acc/dd| e |abb/acc/ddee|: serie entrambe riconducibili alla struttura di una stanza, costituita da una fronte di due piedi e da una sirima, oppure alle mute del sonetto chiuso da una o due caude. Proprio perché, come si è detto, estranee alla tradizione strofica italiana, non soltanto delle canzoni ma anche delle stanze isolate, quelle formule saranno ricondotte da Francesco all’esperienza culturale maturata in Provenza. Del resto la stanza Non solamente si perde se fai (ABb, ACc; Dd, EE) coincide nella disposizione rimica, non quanto al computo, con il numero 592 di Frank, che archivia, con molte varianti sillabiche, 70 esemplari, e ben 26 fissati sul limite della cobla esparsa. L’opzione sarà caduta sulla formula |abb|, perché maggioritaria tra gli schemi provenzali, di contro a |aaa| oppure |abc|, relegate ad un quoziente percentuale insignificante, oppure all’altrettanto isolabile |aab|, che pur attestandosi alla quota del 37,5%, resta minoritaria. Non v’ha dubbio che Francesco abbia appreso dai provenzali l’uso della rima priva di corrispondenza nel segmento esordiale della strofa, non soltanto nell’assetto delle singulars, ma anche delle unissonans, inevitabile nel caso di coblas esparsas. Se ne contano 26 esemplari nel Rèpertoire di Frank, e se stavolta tra i ventisei trovatori noti a Francesco compare il nome di Raimon Vidal73, tra i titolari di cansos pluristrofiche segnalate dalla irrelata iniziale, un centinaio, emerge la mag164 Francesco da Barberino, la gobula e il tristico ABB gior parte degli autori citati nei Documenti: Aimeric de Peguillan, Arnaut de Mareuil, Bertran de Born, Folquet de Marseille, Gaucelm Faidit, Guilhem Ademar, Guilhem de Berguedan, Guiraut de Borneil, le Moine de Montaudon, ancora Peire Vidal, Peirol, Raimon de Miraval, incluso Bernart de Ventadorn, omesso dal benemerito e tuttora fondamentale Antoine Thomas74. Se questa, nell’assenza già constatata di una promozione indigena, appare come la definitiva conferma della derivazione occitanica del tristico, di rincalzo sopraggiunge un altra valido considerando. Si allude all’abilità di Francesco nel costruire e decostruire gli spazi costitutivi della stanza, e di isolarli, favorendone la dissoluzione, divenuta operativa nel disegnare il componente ABB. In un passo, segnato dalla nota marginale «de inventione», nel quale Francesco impartisce a vantaggio dei giovani imperiti colpiti da passione amorosa una lezioncina sugli utensili formali da maneggiare nell’evenienza75, la gobula assume altra funzione da quella precedentemente esposta nella glossa del Documentum VJ. della Pars secunda. Lo juniore, sollecitato da trasporto erotico, ovviamente ristretto al lecito comportamento («iuvenis quidam amore licito quandam dominam diligebat»), potrà cantare le lodi della sua domina, trascegliendo l’involucro rimato tra la ballatella, la canzone extensa e il sonetto, forme canoniche per tradizione letteraria usufruite a tal uopo, ad esclusione di ogni altra già enumerata tra i modi inveniendi (compreso il matricale). L’esposizione è quanto mai didascalica: l’alloquito apprendista viene invitato ad educarsi sugli esemplari strofici presenti nei Documenti. Per comporre la ballatella «faciat responsum ad similitudinem lictere que ponitur supra parte secunda documento v, ut in regula v (Ab7B) vel ut in vj (Ab7B) vel ut in xiij (ABB); et si velis responsum longius fabricare summe similitudinem xxiiij regule (AaBB); facto responso, poteris facere duos breves pedes quorum similitudinem habes infra in parte xj Gratitudinis in qualibet gobula sua (aBb Cc Dd Ee …vZZ). Vel fac duo pedes ad modum regule lxiij … » (a5)B(a5)BC. Seguono altre istruzioni sul rapporto rimico all’interno dei due piedi, oppure dei tre, qualora si opti per tale soluzione, e, infine sul raccordo tra le volte e il responsum. Quanto alla cantio extensa altrettanto precisi si offrono i riferimenti: «fac duos pedes invicem correspondentes, quorum uterque sit ad similitudinem unius gobule ex gobulis prime partis Docilitatis (aBbCcDdEeFf … vZZ), vel ex gobulis iiij partis Discretionis (aa Bb cC dD Ee fF gg Hh iI), vel ex gobulis tertie Constantie (AbbA CddC EffE). Postea fac duas voltas76 invicem correspondentes, quarum finis prime concordet cum fine ultimi pedis, ut melius memorie commendetur: non autem ex necessitate et istorum pedum quemlibet fac ad similitudinem unius ex gobulis secunde partis Industrie ex documentis que precedunt documentum regularum (Abbc5c5A), vel ex gobulis partis v Patientie (a4a4 b7c5c5b7d5d5e6f4f5e7), vel ex gobulis partis x Innocentie (Aa7b5b4c7C), vel ex gobulis gobularum prohemii libri huius, primis duabus gobulis exceptis (AbbccD)»77. Si estromette la trattazione, molto articolata, circa la testura del sonetto, suddivisa in pedes e in mutae, perché non vi si parla di gobulae, bensì di versiculi per entrambe le sezioni, indicandosi sempre all’interno dei Documenti le sequenze esemplari; ma non può tacersi che per alcuni tipi di mutae vale la similitudine delle regole XLV e XLIIIJ strutturate secondo la formula tristica |abb|78. 165 GIANCARLO BRESCHI La sinossi dei luoghi sopra allegati induce a concludere che sotto l’etichetta di gobula si collocano istituti polivalenti, come si dichiara nel Documentum VJ, Pars secunda, intesi ad una conclusa affabulazione, sia pure gravitanti tra la massima escursione della strofe inventariata tra i modi inveniendi – si veda ancora la stanza nella Pars secunda, Regula XLVIJ, Non solamente si perde se fai79 –, e la misura sommaria del distico o del tristico. In quest’ultima accezione gobula si presta ad assolvere l’ufficio strutturante proprio dei pedes e delle volte nella ballatella e nella cantio extensa, e di conseguenza si interpone e si caletta entro una serialità normativamente modulare, quale segmento strofico. È ovvio che, quando occupi la sede dei pedes, si insedierà prevalentemente la gobula minima, in particolare il tristico. Il passo ulteriore compiuto da Francesco è di conferire autonomia alla componente minimale e di affrancarla dal contatto e dalla sinergia con l’unità superiore80. L’equiparazione prammatica e funzionale dei pedes e della gobula, comportando la loro equipollenza, costituisce ulteriore conferma della matrice ideale del tipo |abb|. Nè dovrebbe stupire l’itinerario bustrofedico dalla gobula ai pedes e per converso dai pedes alla gobula da parte di chi con specillo affilato seziona con mano sicura le membra interne della strofe. Con operazione del tutto simile a quella con la quale ha equiparato i pedes alle gobule Francesco ha estratto dall’architettura portante della cobla occitanica sorpresa nell’applicazione più corrente – come si è mostrato – un elemento strutturale, il primo piede, e lo ha promosso a pezzo fungibile dotato di statuto indipendente: una ipostasi creata non da un prodotto dequalificato o poco nobile della rimeria corsiva, bensì da un modello condegno alla materia trattata, di nobile ascendenza culturale. Avranno concorso all’opzione anche i contenuti, epigrammatici, gnomici della tarda stagione trobadorica che in quella forma avevano trovato espressione81. E che il tristico sia stato applicato da Francesco ad uno dei «magnalia», la «directio voluntatis», giusta l’autorevole parere dell’illustre coetaneo, stanno a testimoniarlo le epigrafi, delle quali ha costellato la sua carriera di scrittore e di illustratore, affidando a loro con eloquio perentorio i principi della sua didassi etica. È l’elemento intrinseco del repertorio che lo ha indotto ad accogliere e ad elaborare l’involucro strofico, successivamente variato alla stregua delle necessità espressive. In questo margine, non vistoso ma resistente, consiste l’invenzione di Francesco da Barberino. NOTE 1 G. Breschi, Visibile parlare: i cartigli dell’affresco di Bruto giudice nel Palagio dell’Arte della Lana a Firenze, in La parola e l’immagine. Studi in onore di Gianni Venturi, Firenze, Olschki, 2011, vol. I, pp. 117-35. 2 F. Brugnolo, “Voi che guardate …”. Divagazioni sulla poesia per pittura del Trecento, in «Visibile parlare». Le scritture esposte nei volgari italiani dal Medioevo al Rinascimento, a cura di C. Ciociola, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1997, p. 312-13. Segnalati nel medesimo volume da Maria Monica Donato (Immagini e iscrizioni nell’arte ‘politica’ fra Tre e Quattrocento) si aggiungano i tristici nell’affresco di Giottino sulla facciata del Bargello (p. 358) e in quello, ormai scomparso, di Taddeo Gaddi nel Tribunale della Mercanzia Vecchia, dove era raffigurata la Verità che estrae la lingua alla Bugia (pp. 387-88): «La pura Verità per ubbidire Alla santa Giustizia che non tarda, Cava la lingua a la falsa Bugiarda», seguito da un distico: 166 Francesco da Barberino, la gobula e il tristico ABB «Taddeo dipinse questo bel rigestro Discepol fu di Giotto il buon maestro» (G. Vasari, Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani, da Cimabue, insino a’ tempi nostri, a cura di L. Bellosi e A. Rossi. Presentazione di G. Previtali, Torino, Einaudi, 19912, vol. I, p. 162). 3 F. Novati, Le serie alfabetiche proverbiali e gli alfabeti disposti nella letteratura italiana dei primi tre secoli, Torino, Loescher, 1910, p. 25 n. 2 (a p. 26). Si cita dall’estratto che raccoglie i saggi pubblicati sul «Giornale storico della letteratura italiana», XV, 1890, pp. 337 sgg.; XVIII 1891, pp. 104 sgg.; LIV, 1909, pp. 36 sgg.; LV, 1910, pp. 266 sgg. Il Novati ricorda i tristici di Francesco da Barberino, di Franco Sacchetti e stampa uno degli otto epigrammi dell’affresco di Bruto giudice traendolo dal manoscritto N (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, II.II.146, c. 53a-b). Brugnolo contesta a Novati che la fortuna di questa forma dovett’essere però passeggera: di fatto lo schema, almeno a Firenze, non superò il secolo XIV. Entro questo secolo si colloca il capitolo anonimo, ritmato nel tristico ABB, Trentacinque anni intende ch’avia, pedestre sintesi della Commedia (S. Bellomo, Dizionario dei commentatori danteschi. L’esegesi della Commedia da Iacopo Alighieri a Nidobeato, Firenze, Olschki, 2004, p. 205). La citazione dell’Egidi da Francesco da Barberino, I documenti d’Amore ..., a cura di F. Egidi, Società Filologica Romana, 1927, vol. IV, p. 134 n. 7. 4 F. Brugnolo, «Voi che guardate …» cit., p. 314. 5 Non si richiameranno, se non per mera curiosità archeologica, i tristici press’a poco endecasillabici, ma speculari al confronto con quelli di Francesco, AAB, dell’anonimo veronese, peraltro inseriti nel ritmo poco allegro del serventese. 6 C. Ciociola, Scrittura per l’arte, arte per la scrittura, in Storia della letteratura italiana, vol. II (Il Trecento), Roma, Salerno Editrice, 1995, p. 570, con esaustiva bibliografia. I Documenti d’Amore si leggono, com’è noto, in due manoscritti, conservati entrambi nella Biblioteca Apostolica Vaticana, il Barb. lat. 4076 (siglato A) e il Barb. Lat. 4077 (siglato B). A fu giudicato autografo da Federico Ubaldini e da Francesco Egidi (Francesco da Barberino, I documenti d’Amore, ed. Egidi cit., vol. IV, pp. XXI-XXIII), B parzialmente autografo (ibidem, p. XXV), entrambi copie del testo compiuto e scritto in Francia: B rappresenterebbe un primo tentativo, non concluso, di messa a pulito; A, iniziato anch’esso in Francia, fu completato in Italia sul finire del 1313 (ibidem, pp. XXXIII-XLI). L’autografia è stata di recente rimessa in discussione da Armando Petrucci (Minima barberiniana. i. Note sugli autografi dei ‘ Documenti d’Amore’, in Miscellanea di studi in onore di Aurelio Roncaglia a cinquant’anni dalla sua laurea, Modena, Mucchi, 1989, pp. 1006-09), che la limita in A alla trascrizione del testo volgare e ad alcune correzioni, in B ad interventi rapsodici; cfr. F. Brugnolo, La poesia del Trecento, in Storia della letteratura italiana cit., 2001, vol. X (La tradizione dei testi), p. 231-32 e n. 17. 7 «Ut tamen non crederes quod michi apropriem aliena, nota quod eam [la figura della Giustizia] dudum primitus pingi feci modo simili in episcopali palatio Trevisino ad discum ubi ius redditur …Misericordia enim, ut infra videre poteris in figura loco superius allegato, dicit duobus coram se genuflexis: “Ite et amplius nolite peccare”. Iustitia dicit: “Ego quidem etsi morte preoccupata fuero in refrigerio ero”». Conscientia dicit: “Tunc pura sum et simplex dum michil ago nisi quod palam possum»: Francesco da Barberino, I documenti d’Amore [Documenta Amoris], a cura di M. Albertazzi, Lavis, La Finestra Editrice, 2008, vol. II, p. 511. Nel medesimo passo Francesco avverte che la Misericordia, «in capite officii mortuorum» e la Conscientia si vedono effigiate anche nel suo «Officiolo», il manoscritto miniato di recente, il 5 dicembre 2003, battuto a Roma in un’asta da Christie’s. Secondo l’opuscolo informativo pubblicato dalla Casa la Misericordia, «che istruisce due uomini inginocchiati», si trova a c. 117r. Di altre miniature presenti nell’Officiolo si parla alle pp. 44-45 dei Documenti d’Amore, ed. Albertazzi cit., vol. II. 8 Francesco da Barberino, Documenti d’Amore, ed. Albertazzi cit., vol. II, p. 19: «si formas pictas [della Probitas, della Audacia e della Curialitas] queris vide Florentie, ubi bellum inter Curialitatem et Avaritiam et seguaces et Probitatem et Codardiam et sequaces in figuris representavi, et dicta vulgaria que sunt ibi, cum novitatibus aliis circumpictis». In altra sede Francesco fece dipingere la figura dell’Ipocrisia, «cum aperta bursa multis pauperibus coram se existentibus publice elemosinas conferens» e con ai piedi un lupo (Francesco da Barberino, Documenti d’Amore, ed. Albertazzi cit., vol. II, p. 444); C. Ciociola, Poesia gnomica, d’arte, di corte, allegorica e didattica, in Storia della letteratura italiana cit., vol. II (Il Trecento), p. 424. 167 GIANCARLO BRESCHI Francesco da Barberino, Documenti d’Amore, ed. Albertazzi cit., vol. II, p. 275. F. Suitner, Rime e pitture d’infamia, in La poesia satirica e giocosa nell’età dei Comuni, Padova, Antenore, 1983, pp. 183 e 187; G. Ortalli, La pittura infamante nei secoli XIII-XVI, Roma, Jouvence, 1979, p. 144; pp. 357 e 371-73. 11 Formule tristiche endecasillabiche adotterà Graziolo Bambaglioli nel Trattato delle volgari sentenze sopra le virtù morali, XXIII (AAA) e XXIV (AAB). 12 M. C. Panzera, Varietà metrica e stroficità nei Documenti d’Amore di Francesco da Barberino, in Les manuscrits ne brûlent pas. Actes du XXIIe Congrès International de Linguistique et de Philologie Romanes, publiés par A. Englebert, M. Pierrard, L. Rosier, D. van Raemdonck, Tübingen, Niemeyer Verlag, 2000, vol. V, cit., p. 98. 13 «Il madrigale antico è una forma molto libera»: così Pietro G. Beltrami, La metrica italiana, Bologna, il Mulino, 2002, p. 327. 14 F. Brugnolo, «Voi che guardate …» cit., p. 315. 15 G. Capovilla, Materiali per la morfologia e la storia del madrigale ‘antico’, dal Ms Vaticano Rossi 215 al Novecento, in «Metrica», III, 1982, pp. 163-64 e n. 8. 16 F. Alberto Gallo, Il Medioevo, II, Torino, E.D.T., pp. 61-64. 17 Si veda il commento di Marco Santagata al Canzoniere di Petrarca, Milano, Mondadori, 1996, pp. 268-69, 566. Il madrigale di Lancillotto Anguissola, La bella stella che sua fiamma tene, fu musicato da Giovanni da Cascia (o da Firenze). 18 G. Capovilla, Materiali per la morfologia cit., pp. 166 e 180. 19 Antonio da Tempo, Summa artis rithimici vulgaris dictaminis. Edizione critica a cura di R. Andrews, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1977, p. 70. 20 Gidino da Sommacampagna, Trattato inedito dei ritmi volgari, a cura di G. B. C. Giuliari, Bologna, G. Romagnoli, 1870 (rist. an.: Bologna, Forni, 1968), p. 133. 21 G. Capovilla, Materiali per la morfologia cit., pp. 181-82 («cenni che s’approssimano alle direttrici tecnico-stilistiche dei testi pervenutici; lasciando così supporre che l’autore di queste delucidazioni si trovasse a registrare tendenze già largamente in atto»). Il Capitulum si legge, dietro la Summa di Antonio, nel ms. Lat. XII.97 della Biblioteca Nazionale di San Marco a Venezia e fu pubblicato da Santorre Debenedetti negli «Studi Medievali», II, 1906, pp. 59-77; e recentemente da Thorsten e Oliver Huck, Voces applicatae verbis. Ein musicologischer und poetologischer Traktat aus dem 14. Jahrhundert, in «Acta Musicologica», LXXIV, 2002, pp. 1-34. Elena Abramov-Van Rijk sostiene con argomenti molto convincenti che il Capitulum fu composto dopo il 1332 ed è quindi posteriore alla Summa di Antonio da Tempo (Evidence for a revised dating of the anonymous fourteenth-century Italian tratise Capitulum de vocis applicatis verbis, in «Plain song and Medieval Music», XVI, 2007, 1, pp. 19-30. La posteriorità del Capitulum è stata di recente ribadita da M. S. Lannutti, Implicazioni musicali nella versificazione italiana del Due-Trecento (con un excursus sulla rima interna da Guittone a Petrarca), «Stilistica e metrica italiana», IX, 2009, p. 22. n. 9. Devo la segnalazione ad Aldo Menichetti. 22 Francesco da Barberino, Documenti d’Amore, ed. Albertazzi cit., vol. II, p. 316. In precedenza, p. 315, si allude a non meglio specificati voluntarij, forse così definiti, secondo Guido Capovilla (Materiali per la morfologia cit., pp. 180-81), in rapporto alla spontaneità o alla «peculiare sregolatezza» del genere. 23 «L’immagine musicale della consonanza […] prospetta un’analogia tra testo poetico e testo musicale tipica della polifonia medievale»: F. Alberto Gallo, Il Medioevo cit., p. 65. 24 Isidoro di Siviglia, Etimologie o origini, a cura di A.Valastro Canale, Torino, Utet, 2006, vol. I, p. 522. 25 Francesco da Barberino, Documenti d’Amore, ed. Albertazzi cit., vol. II, p. 315. 26 Antonio da Tempo, Summa artis rithimici vulgaris dictaminis …, ed. cit., p. 79: «ego vero de quolibet ex modis infrascriptis compilabo exempli gratia solum aliquos paucos versus causa demonstrandi tantum formas, quia sic posset fieri singulatim usque quasi ad infinitum, secundum materiam rithimantium». L’esemplificazione è sufficiente a consentire l’inserimento dell’iscrizione campita nell’affresco del Paradiso dipinto dal Guariento nel Palazzo Ducale di Venezia, citata da Brugnolo, nel canone di un serventesius simplex et cruciatus, piuttosto che come sequenza ABA (terzina) + B (verso finale concatenato). Alla matrice del serventese si affida Maria Cristina Panzera per collegare i tristici monorimi AaA, BbB ecc. del9 10 168 Francesco da Barberino, la gobula e il tristico ABB la parte VI dei Documenti; le quartine AbbA, CddC ecc., della parte III; le gobboleABbC, cDdE ecc. della parte I, senza tuttavia fare riferimento al tristico ABB (M. C. Panzera, Varietà metrica e stroficità nei Documenti d’Amore di Francesco da Barberino cit., pp. 100-01). 27 Adotto l’utile espediente di Roberto Antonelli, R. Antonelli, L’invenzione del sonetto, in Miscellanea di studi in onore di Aurelio Roncaglia a cinquant’anni dalla sua laurea, Modena, Mucchi, 1989, p. 39 n. 7: il tipo è «frutto di un’astrazione formale di parte di uno schema metrico reale, indipendentemente dalla rime precedenti, che modifico nel senso che prescindo dalla posizione della sequenza e dal computo sillabico dei versi». 28 Nel suggerire gli exempla che facciano «corda … crescere» degli uditori Francesco da Barberino cita testi (in primo luogo la Bibbia) e autori dai quali attingere: «de modernis ut notarii Iacobi, Guittonis de Aretio, domini Guidonis Guiniçelli, Guidonis Cavalcanti, Dantis Aligherii, domini Cini de Pistorio, Dini Compagni et multorum proborum dicta et actus que, si non dormieris, poteris recenseri» (Documenti d’Amore, ed. Albertazzi cit., vol. II, p. 63). 29 L. Biadene, Morfologia del sonetto nei secoli XIII-XIV, Firenze, Le Lettere, 19772, pp. 37-38; Francesco da Barberino, Reggimento e costumi di donna. Edizione critica a cura di G. E. Sansone, Roma, Zauli, 19952, pp. 38-39. I due sonetti editi da Giuseppe E. Sansone, Il canzoniere stilnovistico di Francesco da Barberino [1997], in Barberiniana e altra italianistica, a cura di M. Milali, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2005, p. 28. 30 Corrispondono ai numeri 52, 81, 105, 105b (Matteo Mezzovillani) e 108 nell’edizione curata da Elena Maria Duso: G. Quirini, Rime, Roma-Padova, Editrice Antenore, 2002; L. Biadene, Morfologia del sonetto nei secoli XIII e XIX cit, pp. 70-71. 31 M. C. Panzera (Varietà metrica e stroficità nei Documenti d’Amore cit., p. 100) addita per il distico l’ascendenza dal serventesius duplex o duatus, ma persistono le perplessità sopra esposte. 32 Francesco da Barberino, I Documenti d’Amore, ed. Albertazzi cit., vol. II, pp. 314-15. 33 Francesco da Barberino, I Documenti d’Amore, ed. Albertazzi cit., vol. II, p. 314. 34 Francesco da Barberino, I Documenti d’Amore, ed. Albertazzi cit., vol. I, p. 134. 35 Francesco da Barberino, I Documenti d’Amore, ed. Albertazzi cit., vol. II, p. 238. (Egidi nella sua edizione dei Documenti d’Amore, vol. II, p. 85, stampa videre in luogo di videlicet). 36 Tre le gobule di dodici versi (Regule XXXVIII, LXXXV, XCVI), due di undici (Regule CX, CXXVI), una di diciassette (Regula IX), una di diciotto (Regula XXXIX). Per un completo inventario, basterà rinviare all’elenco, compilato dal benemerito Francesco Egidi, I documenti d’Amore, ed. cit., vol. IV, pp. 134-37: gli esempi di gobule di tre versi ABB si trovano a partire dalla Pars secunda, Documentum quintum, in diciotto regulae e in due mottetti del Documentum sextum, a cui sono da aggiungere le quattordici gobole della miniatura della canzone d’Amore. 37 Francesco da Barberino, Reggimento e costumi di donna, ed. cit., p. 5. 38 Francesco da Barberino, Reggimento e costumi di donna, ed. cit., pp. 9, 19, 39, 74, 180-86. Nelle pagine introduttive, dedicate anche alla versificazione, il curatore non tocca delle strutture strofiche, alludendo soltanto alla polimetria, modo poetico congeniale all’autore (p. LXXXIX e n. 1). 39 Si escludono le forme irregolari segnalate da Egidi nella n. 4 a p. 133 nel vol. IV della sua edizione. 40 L’indice metrico dei Mottetti è redatto da Daniela Goldin, Un gioco poetico di società: i Mottetti di Francesco da Barberino, «Giornale storico della letteratura italiana», CL, 1973, p. 272. Si veda ora C. Giunta, Sul ‘mottetto’ di Guido Cavalcanti, «Studi di filologia italiana», LVIII, 2000, pp. 5-28; e Ancora sul ‘mottetto’ di Guido Cavalcanti, «Stilistica e metrica italiana», V, 2005, pp. 311-27. 41 Francesco da Barberino, I Documenti d’Amore, ed. Albertazzi cit., vol. II, p. 10: «Sed quia hic spatium tot dicta et figuras adduci bene non patitur, igitur in fine huius libri et toto libro expedito invenies eandem figuram pictam et tredecim alias figuras sub ea in quibus representantur modi et actus et passiones amantium, et apud dictas figuras invenies quandam cantiones et quasdam gobulas vulgares». 42 Francesco da Barberino, I Documenti d’Amore, ed. Albertazzi cit., vol. II, p. 577. 43 Francesco da Barberino, I Documenti d’Amore, ed. Egidi cit., vol. III, p. 407 n. 2. 44 Francesco da Barberino, I Documenti d’Amore, ed. Albertazzi cit., vol. II, p. 581-82: nella glossa la- 169 GIANCARLO BRESCHI tina dei religiosi è detto: «Gobula ista comunis est predictorum duorum […] ipsi duo de se locuntur»; in quella dei coniugi: «ista gobula est viri et uxoris et ideo sunt duo in una figura ut vides, et quia ipsi sunt in matrimonio et clare lictera potest adaptari me amplius non extendam quia clara et licita est». 45 Corretta la definizione di gobula che figura nel glossario metrico del manuale di Beltrami (La metrica italiana cit., p. 396): «Termine equivalente al prov. cobla, it. cobbola, cioè genericamente ‘strofa, stanza’, usato da Francesco da Barberino per vari tipi metrici nei suoi Documenti d’Amore e nel Reggimento e costumi di donna». 46 Francesco da Barberino, Documenti d’Amore, ed. Albertazzi cit., vol. II, p. 315. 47 Aldo Menichetti, Metrica italiana. Fondamenti metrici, prosodia, rima, Padova, Antenore, 1993, p. 122 afferma che non è chiaro se l’xi ‘vitium’ … alluda al verso irrelato o anarimo (nella terminologia da lui proposta anarimo è il verso privo di rispondenza nell’ambito strofico di una canzone a coblas singulars, mentre irrelato si specifica entro la strofe isolatamente considerata nella canzone a coblas unissonans, nelle quali la rispondenza rimica è ripetutamente recuperata nella verticalità del testo (pp. 120-21). Nelle canzoni e nella ballata di Francesco non si riscontrano versi iniziali isolati nella testura, che occorrono invece nelle strofe dei Documenti e nelle monostrofiche gobole delle Regole e Mottetti (cfr. Francesco da Barberino, Documenti d’Amore, ed. Egidi cit., vol. IV. pp. 133-38). Qui si adotterà convenzionalmente il termine di irrelato. 48 D. Goldin, Un gioco poetico di società cit., p. 271. 49 Si cita, ad esempio, la Regula VI: «Magion non face l’om, ma homo quella. / Dunqua vertù ben giace / in quel che vuol la sua fama verace». Per una compiuta rassegna dei testi proverbiali medievali si rinvia a C. Segre, Le forme e le tradizione didattiche, in Grundriss der romanischen Literaturen des Mittelalters, hrgb. von H. R. Jauss und E. Köhler, Heidelberg, Winter, 1968, vol. VI, t. I (La littérature didactique, allegorique et satirique), pp. 102-08; per lo stile proverbiale tuttora valide le brevi, ma acute notazioni di P. Zumthor, Semiotica e poetica medievale. Trad. it. di M. Liborio, Milano, Feltrinelli, 1973, pp. 79-80. 50 R. Antonelli, Repertorio metrico della scuola poetica siciliana, Palermo, Centro di Studi filologici e linguistici siciliani, 1984, n° 132, 136, 138, 141-42, 145, 149-50, 155-56,158,-59, 161, 165, 173, 191-92, 199. 51 R. Antonelli, Repertorio metrico cit., n° 212-14, 218-25, 229-31, 235-51, 253, 256-66, 268-83, 285312, 314-21, 323-24, 329-31. 52 A. Solimena, Repertorio metrico dei siculo-toscani, Palermo, Centro di Studi filologici e linguistici siciliani, 1984, n° 297, 302-313, 316, 318-28, 331-37, 339-41, 343-56, 358-71, 373-77 (|abc|); n° 220, 222, 225-26, 228, 231, 236, 239-40, 243, 245, 255, 259, 271-72, 295 (|ab[b]c|). 53 Guittone d’Arezzo, Lettere. Edizione critica a cura di C. Margueron, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1990, p. 191. Adriana Solimena, Repertorio metrico, cit., n° 295 non segmenta gli undici versi della canzone di Guittone e per quella di Lapuccio, n° 157, riconosce nella fronte due piedi: abbaab, abbaab. 54 A. Solimena, Repertorio metrico dello Stilnovo, Roma, Società Filologica Romana, 1980, n° 110 (ripresa YzY). Non si tiene conto del sonetto di Guido Orlandi, Per troppa sottiglianza il fil si rompe, inventariato dubitosamente dalla Solimena (Repertorio metrico dello Stilnovo cit., n° 97), perché, appunto, si tratta di un sonetto dalla «fronte decastica specialmente praticata da Monte Andrea», come esattamente chiarisce Domenico De Robertis nel suo commento alle Rime di Guido Cavalcanti, Torino, Einaudi, 1986, p. 198. 55 A. Menichetti, Riletture di testi antichi. 1. Neri de’ Visdomini, 2. Bonagiunta e Dante, «Medioevo romanzo», V, 1978, pp. 355-61. La proposta è accolta dall’ultimo commentatore: Guido Guinizzelli, Rime, a cura di L. Rossi, Torino, Einaudi, 2002, pp. 105-06. 56 Guido Guinizelli, Madonna, il fino amore ch’io vi porto; Donna, l’amor mi sforza – ma nella terza e quarta strofe si ripetono rime della fronte –, Con gran disio pensando lungamente; Donna, lo fino amore, ritenute apocrife da Luciano Rossi, ed. cit., pp. 109, 112; Dante Alighieri, Amor, da che convien; Donna pietosa; E’ m’incresce di me sì duramente; Io sento sì d’Amor; Io son venuto; La dispietata mente; Li occhi dolenti; Lo doloroso amor; Quantunque volte, lasso!, mi rimembra; Voi che’ntendendo; Ai faus ris (in tutte la rima C si replica nella concatenatio, nelle ultime due nel secondo piede si invertono le rime |ab|). 170 Francesco da Barberino, la gobula e il tristico ABB A. Pelosi, La canzone italiana del Trecento, «Metrica», V, 1990, pp. 3-162. Francesco da Barberino, Documenti d’Amore, ed. Albertazzi cit., vol. II, p. 84-85. 59 Destinato al Monge de Montaudon, a Giraut de Bornelh, a Guilhem Ademar, per esempio: «ut inquid Monachus de Montalto in provinciali», «Dixit Giraut de Brunel provincialis in lingua sua», «Guillelmus autem Aemaris provincialis dixit» (Francesco da Barberino, Documenti d’Amore, ed. Albertazzi cit., vol. II, pp. 73, 210). Per la variante oitanica viene adottato il termine gallicus. 60 Francesco da Barberino, Documenti d’Amore, ed. Albertazzi cit., vol. II, p. 212. 61 Tuttora inappuntabile per informazione e rigore A. Thomas, Francesco da Barberino et la littérature provençale en Italie au Moyen Age, Paris, Thorin, 1883, pp. 103-27. Sui contatti trobadorici di Francesco da Barberino l’importante volume di Stefano Asperti, Carlo I d’Angiò e i trovatori. Componenti provenzali e angioine nella tradizione manoscritta della lirica trobadorica, Ravenna, Longo Editore, 1995, pp. 36-37 (conferma, tra l’altro, la menzione di Arnaut Catalan e di Ademar de Rocaficha, presenti entrambi nel canzoniere M). 62 Nell’Index nominum dell’Egidi (ed. cit. dei Documenti d’ Amore) Uc Brunenc (Nuc Brunenct) compare sotto Brunect provincialis. 63 Non è questa la sede opportuna per affrontare una discussione sugli stemmi proposti nelle edizioni di Folquet de Marseille, Gaucelm Faidit, Guiraut de Borneil, Peire Vidal, Peirol e Uc Brunenc. Basti accennare al fatto che le citazioni barberiniane non risultano omogenee quanto alla possibile fonte. 64 Las Leys d’Amors. Manuscrit de l’Académie des Jeux Floraux publié par J. Anglade, Toulouse, Privat, 1919, vol. II, pp. 120-21. 65 I. Frank, Répertoire métrique de la poésie des Trobadours, Paris, Champion, 1966, vol. I, p. 1, vol. II, p. 68. Frank propone per la canzone di Marcabru due interpretazioni formulari enunciate sotto i numeri 1 e 196, 2; sulle possibili soluzioni, con esame della bibliografia precedente, si confrontano gli ultimi editori, S. Gant, R. Harvey, L. Paterson, Marcabru. A Critical Edition, Cambridge, Brewer, 2000, pp. 327-29. 66 I. Frank, Répertoire métrique de la poésie des Trobadours cit., vol. I, 1, 1; vol. II, pp. 10, 23, 194 202; Le jeu se sainte Agnès, édité par A. Jeanroy, Paris, Champion, 1931 (alle pp. XI-XIV l’analisi dei morceaux lyriques). 67 I. Frank, Répertoire métrique de la poésie des Trobadours cit., vol. II, pp. 41, 213. 68 Giovanni Borriero discute , vagliando, con la larga escussione della bibliografia precedente, le proposte concorrenti e fondando la sua su un rigoroso esame dei segni paragrafali segnati nel canzoniere R: Raimon de Miraval, Dona, la genser c’om demanda (BdT 406.1), in Salutz d’Amor. Edizione critica del corpus occitanico, a cura di F. Gambino, Roma, Salerno Editrice, 2009, pp. 413-22. 69 C. Di Girolamo, Elementi di versificazione provenzale, Napoli, Liguori, 1979, pp. 55-6. 70 R. Antonelli, L’invenzione del sonetto cit., pp. 52-3; e Introduzione a Giacomo da Lentini, in I poeti della scuola siciliana, vol. I, Milano, Mondadori, 2008, p. LXV. 71 Francesco da Barberino, Documenti d’Amore, ed. Egidi cit., vol. II, p. 262. 72 Qualche allusione, ormai scaduta a mera reliquia culturale, al supporto melodico nel distinguere il contesto verbale e metrico si coglie qua e là: cfr. F. Egidi, ed. cit. dei Documenti d’Amore, vol. II, p. 262: «de similitudine [dei pedes e delle volte] autem intelligas, ut sub eisdem vocibus concurrant ad cantum, quoddam additum posto voltas quod egeret alio per se sono». 73 673,2 Guilhem Raimon, 673,4 Mola, 705,6 Bertran Carbonel, 710 anon, 715, 6 anon, 719,1 Guilhem Raimon, 720,1 Guilhem de l’Olivier, 729 anon, 731,2 Raimon Vidal, 740,1 Matfre Ermengau, 745,2 Raimon Rigaut, 746 anon, 749, 4 anon, 750,1 Folquet de Romans, 750,2 Comte de Biandrade, 754,1 Bertran Carbonel, 761 Raimon Vidal, 778 anon, 786 Ademar Jordan, 791 Guilhem de Berguedan, 828,2 Peire de la Mula, 850 Lo Vesques de Clarmon, 850,2 Dauphin d’Auvergne, 850,3 Elias de Barjols, 850,4 Olivier de la Mar, 879,5 Uc de Saint-Circ. 74 A. Thomas, Francesco da Barberino et la littérature provençale en Italie au Moyen Age cit., pp. 103-27. 75 Francesco da Barberino, I Documenti d’Amore, ed. Albertazzi cit., vol. II, p. 447. 76 Si noti che Francesco da Barberino è il primo teorico a designare con il termine volta la ripartizione omogenea della sirma: Dante adotta versus (De vulgari Eloquentia, II X 4), per aver volgarizzato poco prima (x 2) con volta la diesis, l’intervallo che segna il mutamento melodico e strutturale della stanza 57 58 171 GIANCARLO BRESCHI (cfr. la nota di P. V. Mengaldo nel suo commento al De vulgari Eloquentia, in Dante Alighieri, Opere minori, Milano-Napoli, Ricciardi, 1979, tomo II, p. 211). 77 Gli schemi citati, sempre dall’edizione Albertazzi, vol. I, si trovano alle pp. seguenti: Ab7B, p.136; ABB, p. 138; AaBB, pp. 141-42; aBb Cc Dd Ee …vZZ; p. 403, (a5)B(a5)BC, p. 154; a7Bb7Cc7Dd7Ee7Ff7 … vZZ, p. 63; aa Bb cC dD Ee fF gg Hh iI, p. 213; AbbA CddC EffE …, p. 197; Abbc5c5A, p. 113; a4a4 b7c5c5b7d5d5e6f4f5e7, p. 227 (il computo dei versi è irregolare); Aa7b5b4c7C, p. 393; AbbccD, p. 5 (le prime due gobule, di quattro versi, presentano lo schema ABb7C, Add7C, con la rima finale ripresa all’inizio della seguente secondo il modello delle coblas capcaudadas. 78 Francesco da Barberino, I Documenti d’Amore, ed. Albertazzi cit., vol. II, pp. 447-48. 79 Francesco da Barberino, I Documenti d’Amore, ed. Albertazzi cit., vol. I, p. 149. 80 Aldo Menichetti, che ringrazio, insieme con Giuliano Tanturli, per l’attenta lettura, mi suggerisce di non sottovalutare nella enucleazione del tristico il sussidiario incoraggiamento insito nel responsum della ballata o ballatella, collocata, immediatamente dopo la canzone, al secondo posto dei modi inveniendi. Si è già detto che la didassi barberianiana costruisce il responsum della ballata in analogia con i pedes della canzone: ebbene la serie |abb|, attualizzata in YZZ, copre due terzi degli schemi della ripresa, risultando di gran lunga la più diffusa regesto allestito da Linda Pagnotta, nel suo Repertorio metrico della ballata italiana. Secoli XIII e XIV, Milano-Napoli, Ricciardi, 1995, pp. 193-94. Persiste tuttavia il dubbio che dalla ripresa della ballata o della ballatella, consigliata allo juniore innamorato a fini propiziatori, potesse estrarsi un lacerto strofico adibito ad altra funzione. 81 A. Jeanroy, La poésie lyrique des Troubadours, Toulouse-Paris, Privat-Didier, 1934; si cita dalla ristampa anastatica, Genève, Slatkine, 1973, vol. II, p. 274 e n. 281. 172