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Possibilità logiche, necessità nomologiche

2006, Il cannocchiale. Rivista di studi filosofici

What, exactly, should ever be meant by "possible world"? In this paper, without any decisive pretensions, an attempt will be made to give order to the question, putting forward the following theses: 1) the notion of "logical possibility" is too broad and ambiguous to assign it any essential role, in arguments aiming at some conclusions; 2) also the notion of "nomological necessity" (or "nomicity") shows signs of weakness and leaves room for merely epistemic possibilities (due to an imperfection in the knowledge, rather than to something attributable to "worlds"); 3) only an attenuated notion of nomicity can be referred to, when one wants to assume hypotheses that deny facts, in the course of reflection.

Libertà, deduzioni

Ammesso dunque che il logico, senza impegnarsi preliminarmente sul loro significato, voglia introdurre tecnicamente gli operatori ed i connettivi dei sistemi modali, cerchiamo invece di ricordare in che termini l'interpretazione del formalismo e la sua stessa genesi fossero compromesse -fin dall'inizio -con aspetti che non sono formali.

Il richiamo al libero arbitro ed il presupposto anti-determinista erano del tutto espliciti in Jan Łukasiewicz, quando -nel proporre le sue logiche polivalenti -egli giungeva ad affermare: «Questa nuova logica, introducendo il concetto di possibilità oggettiva, distrugge il vecchio concetto di scienza basata sulla necessità. I fenomeni possibili non hanno cause, per quanto essi (4) Entrambi i problemi mettono capo alla questione del determinismo, sul quale non è dato in questa sede diffondersi. Sul punto, rinvio dunque a Giannoli [1986]; di quel testo, pur datato, tengo ancora ferme l'impostazione e le tesi essenziali. (5) Si deve a W.V. Quine il merito di aver insistito con decisione e continuità, fin dal 1941, sui presupposti "essenzialistici" che sono impliciti nei contesti modali predicativi, quando gli operatori modali si trovano a ricadere sotto l'azione dei quantificatori; si vedano, in particolare: Quine [1953], [1976], [1977], [1986] (soprattutto le repliche di Quine a Bohnert, Føllesdal, Hintikka, Kaplan e Parson). A partire dall'attacco mosso da Quine, la letteratura sull'argomento è cresciuta in maniera imponente, dando vita ad approfondimenti, nuovi approcci e nuovi campi di ricerca, assai articolati. Non avendo alcuna pretesa di fornire un resoconto, anche sommario, dell'intera questione, dovrò limitarmi a richiamare alcuni nodi filosofici tuttora irrisolti, sui quali lo stesso Quine ha continuato ad insistere, anche in tempi recenti. Se, per questi aspetti, la mia riflessione è influenzata dagli argomenti di Quine, è invece tutta a mio carico la critica rivolta, nei successivi paragrafi, alla teoria del riferimento di S. Kripke e S. Putnam, dalla quale -a partire dai primi anni '70 -ha preso le mosse un uso assai disinvolto delle modalità e dei controfattuali, che sarebbe opportuno arginare. stessi possano essere l'inizio di una catena causale. L'atto di un individuo creativo può essere libero e al tempo stesso influenzare il corso del mondo» (6) .

Un appello del genere al libero arbitrio potrebbe essere giudicato del tutto accessorio (un pregiudizio, destinato a restare non influente) rispetto ai contenuti tecnici del sistema formale, se esso non fosse assunto da Łukasiewicz come motivo essenziale per l'abbandono del "postulato di bivalenza" (cioè del criterio secondo il quale alle proposizioni di ogni linguaggio devono essere attribuiti soltanto due valori di verità: vero o falso). Ora, il fatto di postulare un terzo valore per le proposizioni (intermedio tra verità e falsità) non è operazione che possa essere spacciata per "tecnica": e, infatti, Bertrand Russell aveva escluso fin dal 1914 l'opportunità di una mossa del genere, opponendosi all'idea che il valore di verità potesse restare indeterminato, indifferente o dipendente dalle circostanze: «una proposizione è semplicemente vera o falsa e qui termina la faccenda: non può sorgere una questione di "circostanze"» (7) . Insomma: complicare la questione dei valori di verità comporta per Russell un rischio aggiuntivo di inquinare la logica, visto che -dal punto di vista della compromissione metafisica -il problema della verità è già di per sé una questione assai seria. Infatti, fin dai tempi di Aristotele, la verità sembra presupporre qualche accesso al dominio extra-logico dei fatti: affermare che "P è vero" comporta un impegno sul fatto rappresentato da "P". Tuttavia, se si rimane sul terreno delle teorie deduttive, il logico può ammettere che sia legittimo affermare la verità delle tautologie e la falsità delle contraddizioni. Inoltre, il logico potrà concedere che, se gli assiomi d'una teoria sono veri, saranno anche veri i teoremi e sarà falsa le negazione d'ogni teorema. A partire da principi generalissimi della ragione, si può arrivare dunque ad ammettere in logica una nozione molto stretta di verità. In questo quadro, non si dà però mai che il significato espresso da qualche formula possa essere a volte vero e a volte falso. Di qui, il fermo richiamo di Russell. Cosa possa implicare una concezione così definita in ordine al determinismo ed al divenire sarà affrontato più oltre; qui sarà sufficiente osservare che, nella stessa raccolta di articoli e saggi che è stata poc'anzi citata, Russell arrivava a concludere che la questione del libero arbitrio non può essere assunta come un presupposto, perché è invece "una pura questione di fatto". È l'esperienza, non la ragione, che decide su questo punto: siamo insomma agli antipodi rispetto alla presunzione di Łukasiewicz. Già s'intravede così che la discussione contemporanea sulle modalità risulta fin dall'inizio ancorata all'antico terreno filosofico della libertà, anche se tende a concentrarsi (in forma aggiornata) non sulla possibilità dei fenomeni, ma sull'analisi semantica delle formule che esprimono possibilità.

Negli stessi anni in cui Łukasiewicz introduceva la sua logica polivalente, Hans Reichenbach arrivava del resto a concludere che è infondato l'assunto secondo il quale, trattando di probabilità, ci si trovi costretti ad abbandonare l'alternativa "vero-falso", vigente in logica classica. In questo contesto, Reichenbach arrivava persino a sostenere la piena equivalenza tra la logica a due valori e quelle a più valori (8) . Nello stesso periodo, il problema della natura filosofica della logica (6) Citato in: Mangione, Bozzi, [1993], p. 485. L'affermazione di Łukasiewicz è dei primi anni '30 del '900. (7) Russell [1917], trad. it. p. 229. (8) «[…] in realtà, bisogna considerare anche la bivalenza della nostra logica come una convenzione, la quale si potrebbe benissimo sostituire con un'altra del tutto diversa. Si tratta di convenzioni destinate a originare descrizioni equivalenti, nel senso che ciascuna di tali descrizioni della natura si rivela adeguata e che ogni specie di descrizione si lascia trasformare nell'altra […] La traducibilità di una descrizione plurivalente in una bivalente corrisponde, in tal caso, alla traducibilità di ogni altro sistema numerico, per esempio quello duodecimale, in quello decimale. Da questo punto di vista, se la bivalenza della nostra logica appare una proprietà facilmente eliminabile, le considerazioni sopra formulate modale e quello, connesso, della sua riducibilità concettuale, acquistava un crescente rilievo (anche se -tecnicamente -una traduzione completa dei segni e del linguaggio modale non è realizzabile, perché nel formalismo della logica classica non esiste alcun corrispettivo degli operatori modali).

Vale a questo punto la pena di ricordare che, secondo gli auspici di Clarence Irving Lewis, il calcolo modale doveva essere inteso come uno sviluppo del calcolo proposizionale, costruito in modo tale da mettere in luce l'operazione che normalmente si fa, nella vita ordinaria, quando da certe premesse si inferisce qualcosa. L'idea è che la deduzione, oltre che alla cogenza sintattica, si affidi al contenuto semantico di ciò che viene asserito, dunque non solo al fatto che un segno denoti sempre la stessa cosa o abbia un certo valore di verità, bensì al significato concettuale dei segni, alla loro intensione. Per questo, secondo Lewis, "p implica strettamente q" dovrebbe essere inteso come: "q è deducibile da p", ossia come: "non è possibile che sia insieme p e non q". Questo riferimento al contenuto concettuale dei termini era però -fino a quel punto -piuttosto asserito che dimostrato, perché l'interpretazione semantica delle modalità, ancora oggi non esente da grossi problemi, avrebbe dovuto aspettare alcuni decenni per affermarsi, dalla data dei lavori di Lewis (9) .

Semantica

Siamo partiti dagli aspetti più astratti e formali delle logiche di Lewis e Łukasiewicz e siamo giunti ben presto ad avanzare un sospetto: che l'interpretazione filosofica dei sistemi modali reclami un chiarimento preliminare, circa i criteri di assegnazione dei "modi", agli oggetti che ne costituiscono l'ontologia. In breve: quando l'operatore di possibilità è presente in una formula, sulla base di quale criterio tale "possibilità" è asserita? In base a quale aspetto particolare di certe proposizioni siamo legittimati ad asserire che tali proposizioni sono -ad esempio -"necessarie"? Dobbiamo guardare agli aspetti strutturali delle formule, oppure che al loro contenuto concettuale?

Si deve a Rudolf Carnap la caratterizzazione più netta della modalità come "logica delle intensioni" Egli stesso illustrava così la sua posizione:

proposi di interpretare le modalità come quelle proprietà delle proposizioni che corrispondono a certe proprietà semantiche degli enunciati esprimenti proposizioni. Per esempio, una proposizione è logicamente necessaria se e solo se un enunciato che la esprime è logicamente vero» (10) Dunque, la modalità è qui intesa come l'espressione di proprietà semantiche delle proposizioni, quali la proprietà che esse siano (logicamente) vere. In questo senso, un designatore modale non può essere riassorbito nel linguaggio delle proposizioni, perché ciò che esso designa si colloca -per mettono altresì in chiaro che, con l'introduzione di una plurivalenza non ci si guadagna nulla, proprio perché si tratta di descrizioni equivalenti». Reichenbach [1932-33], trad. it. p. 460-461. (9) Come già ricordato alla nota (3), l'introduzione dell'implicazione "stretta", accanto a quella "materiale" consente di ottenere un analogo della formula: (p → q) ↔ ~ (p ∧ ∼q), che diventa: p ⇒ q ↔ ∼M(p ∧ ∼q), valida nel contesto modale. In questo senso, l'operazione di C.I. Lewis può essere interpretata, banalmente, come il tentativo di enfatizzare ciò che l'implicazione ordinaria già da sola asserisce: quest'ultima dice che: "in una implicazione materiale vera non si dà che l'antecedente sia vero ed il conseguente sia falso"; l'analogo modale si limita ad aggiungere: "una simile eventualità non è proprio possibile". Su cosa mai possa fondarsi quest'enfasi, ovvero in cosa consista questa "impossibilità" aggiuntiva di carattere intensionale (contrapposta alle relazioni estensionali ordinarie) resta però alquanto oscuro, almeno finché non vengano date interpretazioni adeguate delle modalità. Tutto ciò che con Lewis abbiamo in più, rispetto al calcolo classico, è soltanto la definizione degli operatori modali, che si rinviano l'un l'altro, circolarmente. Quanto ai paradossi dell'implicazione materiale, che il nuovo calcolo avrebbe dovuto evitare (vedi ancora alla nota (3)), è ben noto che problemi analoghi sorgono anche nei contesti modali. (10) Carnap [1963], trad. it. p. 63. I lavori di Carnap sulla modalità risalgono soprattutto al periodo compreso tra il 1940 e il 1950, culminando in particolare con Carnap [1947]. così dire -al livello del meta-linguaggio. Tuttavia, lo stesso Carnap poté mostrare che sono possibili certe rappresentazioni formali del calcolo, che fanno corrispondere ad ogni enunciato modale S m un enunciato estensionale S e , il quale risulta "L-equivalente" a S m (cioè tale che le estensioni di S e ed S m sono identiche, nel linguaggio estensionale considerato); qualora si accolga questa impostazione, risulterebbe allora possibile interpretare estensionalmente i concetti di modalità logica e di intensione (11) .

Ai nostri fini, piuttosto che seguire i dettagli di queste parziali correlazioni, è importante insistere sul contributo più noto di Carnap, consistente nell'aver ricondotto la necessità (logica) alla analiticità e nell'aver recuperato, a questo scopo, la nozione leibniziana di "mondo possibile"; con questo, veniva anche tracciata una profonda linea di demarcazione tra le verità logiche e le verità fattuali: Questa distinzione, pur messa in crisi da successivi sviluppi, può essere considerata canonica, e viene ampiamente ripresa nei manuali più diffusi che si occupano di logica modale (13) . Tuttavia, prima ancora che essa fosse diversamente riformulata da Saul Kripke (cioè dal logico che ha poi dato un'interpretazione semantica soddisfacente dei sistemi modali, come ricorderemo più avanti) essa apriva la porta almeno a tre ordini di perplessità. La prima, relativa al fatto che -in questo modo -il dominio di ciò che è possibile viene a coincidere col dominio di ciò che non è logicamente contraddittorio (cioè con un dominio un po' troppo vasto, per la scienza e per il senso comune). La seconda, relativa al fatto che, in questo modo, tutto il peso dell'interrogativo filosofico circa le modalità viene a scaricarsi sulla questione filosofica, altrettanto complessa, dell'analiticità. La terza, relativa al fatto che, nei contesti modali, la validità di certe formule (cioè il fatto che esse siano sempre vere, indipendentemente dall'interpretazione dei termini) non è più una qualità strutturale delle formule stesse, conservata in tutti i possibili mondi; costruire una semantica adeguata, per un certo sistema modale, significa identificare quella particolare classe di mondi nella quale certe formule del sistema (assiomi e teoremi) risultano valide; al variare del sistema modale, cambierà la classe dei mondi in cui certe formule (che devono essere valide) risultino tali; in altre parole: la logica modale prevede che il carattere "analitico" di certe proposizioni possa essere specificato soltanto in relazione ad una data classe di mondi.

(11) Carnap [1963], trad it. p. 871-873. La versione originale della prova, più dettagliata, è in Carnap [1947], § 11 e 12. (12) Carnap [1963], trad. it. p. 64-65. (13) «Per "necessità", nel contesto presente, intendiamo quella che viene spesso denominata necessità logica [ …] Il senso in cui usiamo il termine "necessario" si può forse chiarire a sufficienza aggiungendo che quando diciamo che una certa proposizione è necessaria […] intendiamo dire piuttosto che non potrebbe mancare di essere vera indipendentemente da come stanno le cose, o indipendentemente da come si presenta il mondo. Anche se per esempio la proposizione che nessun corpo viaggia più velocemente della luce è sostenuta da una evidenza scientifica così massiccia che noi siamo propensi a dire che è impossibile, in qualche senso importante del termine, che un corpo viaggi più velocemente della luce, questa proposizione non varrà ancora come necessaria nel nostro senso, in quanto le ragioni che la sostengono consistono di fatti circa l'universo fisico che è, e l'universo potrebbe effettivamente essere diverso da come è». Hughes, Cresswell, [1968], trad. it. p. 39. È Willard Van Orman Quine che ha con più forza aggredito il nodo dell'analiticità, facendone -al più -una questione di grado: «È ovvio che la verità in generale dipende sia da fatti linguistici, sia da fatti extra-linguistici […] Ci si sente, perciò, tentati di supporre in generale che la verità di una proposizione sia in qualche modo analizzabile in una componente linguistica e in una componente fattuale. Data questa supposizione, appare subito ragionevole che in qualche proposizione la componente fattuale debba essere nulla; e queste sono le proposizioni analitiche. Ma, con tutta la sua ragionevolezza a priori, una chiara linea di demarcazione tra proposizioni analitiche e sintetiche non è stata tracciata. Che ci debba essere una tale linea di demarcazione, è un dogma non empirico degli empiristi, ma un articolo metafisico di fede» (14) . Oltre a questo rilievo, Quine ne avanza almeno altri due (15) . In primo luogo, i contesti modali, proprio in quanto pretendono di avere a che fare con le intensioni dei termini, sono "referenzialmente opachi", cioè non ammettono il rimpiazzo dei nomi da parte di eventuali sinonimi (perché in tali contesti le proposizioni non dipendono soltanto dagli oggetti che i nomi vengono a denotare, ma anche dalla forma in cui l'oggetto è nominato). Allora, ad esempio, mentre è vero che "9 è necessariamente maggiore di 7", è falso che "il numero dei pianeti è necessariamente maggiore di 7", anche se è vera l'identità "il numero dei pianeti è uguale a 9". Se ora introduciamo una variabile libera "x" in luogo del termine "9" e quantifichiamo, avremo l'enunciato modale: "esiste un x che è necessariamente maggiore di 7", il quale non esprime alcuna necessità logica (ed è anzi un non senso), quando "x" sia inteso come "numero dei pianeti". Riflettendo su questo ordine di problemi, secca è la conclusione di Quine: «In una parola, non possiamo propriamente quantificare entro un contesto referenzialmente opaco».

In secondo luogo, la definizione modale di validità, espressa come verità entro tutti i mondi possibili, rende valida la cosiddetta "formula della Barcan":

che si legge: "Se è possibile che esista qualcosa che abbia Φ, allora esiste qualcosa che è possibile che abbia Φ ". Come ognuno vede, la possibile esistenza dell'ente (con certe caratteristiche) che compare nell'antecedente, si trasforma nella asserita esistenza dell'ente (con certe possibili caratteristiche) che compare nel conseguente. Dunque, in presenza di quantificatori, le asserzioni (14) Two dogmas of empiricism, in Quine [1953], trad. it. in Pasquinelli [1969 p. 879-880. L'argomento di Quine si basa su un'analisi approfondita delle nozioni di analiticità, sinonimia, intercambiabilità e necessità; nel corso dell'analisi prende corpo il sospetto che tali nozioni si rinviino l'un l'altra, circolarmente. Di qui, il convincimento che ci sia una inevitabile contaminazione tra ciò che è "analitico" e ciò che è "sintetico". Deve essere anche ricordato, contro le interpretazioni che estremizzano i risultati di Quine, che egli stesso non arriva ad asserire un piena circolarità tra la sinonimia e l'analiticità, ma parla piuttosto di "quasi-circolarità"; ciò non annulla completamente la distinzione tra analitico e sintetico, ma ne fa una questione di grado. L'attacco di Quine coglie del resto solo un tipo di analiticità: quella che -classicamente -viene fatta discendere dai rapporti di sinonimia linguistica tra i termini presenti in un dato enunciato (in tal modo, cade sotto la critica di Quine anche la pretesa che la verità possa essere garantita dal rapporto di "inerenza" tra ad un dato soggetto e i suoi predicati). Restano fuori dalla critica le verità meramente logiche e quelle matematiche. Per completezza, si può aggiungere che le seconde devono essere distinte dalle prime, perché le verità matematiche richiedono le risorse della teoria degli insiemi e un principio di associazione, che appare difficile far discendere da principi logici più generali. Quanto alle verità meramente logiche, è stato avanzato il dubbio che verità garantite -apparentemente -dal solo principio di non contraddizione (ad esempio: "nulla può essere completamente rosso e completamente verde") siano costruite piuttosto come verità semantiche che riposano su principi di carattere fisico. (15) Reference and modality, in Quine [1953], trad. it. in Pasquinelli [1969 p. 891 sgg. modali possono implicare asserzioni ontologiche, cosa che Quine registra come un evidente indizio di essenzialismo (16) .

Si deve a Kripke, nei primi anni '60, la messa a punto di una semantica dei sistemi modali che rende impossibile la derivazione di formule quali quella della Barcan (17) . Tuttavia, nella proposta di Kripke c'è un aspetto inquietante, che non può restare taciuto: dato un certo mondo, hanno un valore di verità anche le proposizioni che vertono sugli oggetti esclusi da quel certo mondo. Ciò equivale ad ammettere che hanno un significato anche gli enunciati che parlano di oggetti che non esistono. Poco importa se le proposizioni espresse da tali enunciati risultano false; c'è comunque un salto -che va rimarcato -tra l'idea classica secondo cui un enunciato del tipo: "i pirotti carulizano elaticamente" è privo di significato e la proposta di Kripke, secondo il quale il significato di quell'enunciato sarebbe la sua falsità. Del resto: qual è il criterio per stabilire se un certo oggetto appartiene ad un dato mondo o non vi appartiene? In un'ontologia così vasta, il problema tende a sfumare. L'effettiva questione ontologica si sposta su ciò che è vero e su ciò che è necessario, essendo del tutto impregiudicato -a priori -il dominio degli enti esistenti.

A questo punto, sembrerebbe effettivamente legittimo parlare, sensatamente, di zombie e di chimere; tuttavia, con uno scarto improvviso rispetto alla tradizione logica della prima metà del '900, Kripke arriva poi a ricondurre il problema della necessità a quello della fattualità, riscattando, per questa via, le ragioni del mondo attuale. Prima di approfondire questo aspetto assai innovativo, che la letteratura sull'argomento non sottolinea in maniera adeguata, conviene però interrompere per qualche istante il filo dell'analisi svolta, cercando di sollevarne la prospettiva, a un livello più generale di riflessione.

Raziocini dialettici

Nelle ricerche contemporanee sui mondi possibili, sembra assolutamente assente (o, almeno, dimenticata) la consapevolezza che la questione non nasce, modernamente, dal nulla. In particolare, nel riferirsi a questo concetto, non ci si dovrebbe arrestare alle speculazioni di Gottfried Leibniz, cui si fa risalire a buon titolo l'avvio della riflessione moderna sull'argomento. Com'è noto, Leibniz era infatti impegnato a difendere sul piano teologico la libertà delle scelte di Dio, insieme all'onniscienza di questi. Inoltre, a suo modo di vedere: «segue direttamente che tutti i possibili -ossia tutto ciò che esprime l'essenza o realtà possibiletendono con pari diritto all'esistenza […], in proporzione alla loro quantità di essenza o di realtà, cioè al grado di perfezione che contengono» (18) .

Queste idee, anche se innovative, richiamavano aspetti tradizionali degli argomenti ontologici e, soprattutto, stavano alla base di quell'"ottimismo" di Leibniz, che divenne il bersaglio privilegiato dell'illuminato Voltaire.

(16) Per altri aspetti della critica di Quine ai sistemi modali, si veda l'appendice di Plantiga [1974], p. 222 sgg, nonché Haack [1978], trad. it. cap. 10. (17) Kripke [1963 1 ], [1963 2 ]. Tecnicamente, ciò è stato ottenuto da Kripke attraverso un allargamento dell'ontologia dei mondi possibili: da un'ontologia che comprende mondi in cui esistono solo gli oggetti presenti nel mondo attuale (sia pure con proprietà e relazioni diverse), si arriva ad un ontologia più estesa, che comprende anche mondi dai quali sono stati rimossi alcuni degli oggetti presenti nel mondo attuale e altri oggetti sono stati inseriti. Nell'ontologia più ristretta, costruita per clonazione del mondo attuale, la formula di Barcan resta valida, ma questo non costituisce un problema, perché il quantificatore esistenziale spazia ora su oggetti che già esistono per definizione; la formula non asserisce dunque nessuna reale esistenza, oltre a quanto è supposto che esista. Invece, nell'ontologia più allargata, la formula non è più valida e risultano dunque aggirate le preoccupazioni espresse da Quine. (18) Leibniz [1697], in C.J. Gerhardt (ed.), VII, p. 303. Ciò che è assai strano, nella letteratura corrente sull'argomento, è il fatto che i limiti posti da Kant alle "possibilità a priori" (quando egli tratta dei "postulati del pensiero empirico in generale" e respinge seccamente i tentativi di dedurre l'esistenza dalla possibilità) abbiano in genere uno spazio e un rilievo assai marginali. A questo proposito, Bas Van Fraassen ricorda che fu Wilfrid Sellars (19) , nel 1948, ad introdurre la nozione di mondo possibile nella discussione contemporanea sulle leggi della natura e sulla necessità; «ma Sellars era ben consapevole delle critiche kantiane alla problematica metafisica [di Leibniz] [...] Gli scrittori che lo hanno seguito -forse senza aver ben compreso il suo lavoro -non hanno assunto, in maggioranza, il suo atteggiamento» (20) .

Cos'è, dunque, che è bene ricordare di quella grande tradizione critica? Aggredendo la questione nella terza sezione, libro secondo, capitolo secondo dell'Analitica trascendentale, Kant chiarisce immediatamente che la modalità non può essere mai concepita in senso ontologico, ma soltanto (diremmo noi) in senso epistemico: «Le categorie della modalità hanno la caratteristica di non accrescere per nulla, quanto alla determinazione dell'oggetto, il concetto a cui si connettono quali predicati, limitandosi ad esprimere esclusivamente la relazione con la facoltà del conoscere […] Da che mai, infatti, si potrà desumere il carattere della possibilità di un oggetto, che venga pensato per mezzo di un concetto sintetico a priori, se non dalla sintesi che costituisce la forma della conoscenza empirica degli oggetti? Che un concetto del genere non debba risultare in sé contraddittorio, è certamente una condizione logica necessaria, ma per nulla sufficiente a garantire la realtà oggettiva del concetto» (21) .

In questo quadro, la possibilità di un ente non può che dirsi a posteriori: «Se si volessero costruire nuovi concetti di sostanze, forze, azioni reciproche, ricavandoli dal materiale che ci è offerto dalla percezione, senza desumere dall'esperienza stessa l'esempio della loro connessione, si finirebbe per cadere in pure chimere, la cui possibilità risulterebbe priva di ogni segno di riconoscimento, perché nei loro riguardi non fungerebbe da maestra l'esperienza né i concetti verrebbero desunti da essa. Concetti immaginari di questo genere non possono avere il crisma della loro possibilità a priori, […] ma esclusivamente a posteriori, in quanto possono esser dati mediante l'esperienza stessa; la possibilità di tali concetti o ha da esser conosciuta empiricamente, a posteriori, o non può essere conosciuta per nulla» (22) . Ed ancora, quanto alla disciplina della ragion pura rispetto alle ipotesi: «[…] non ci è possibile inventare originariamente, con questa categoria [la possibilità], neanche un solo oggetto di qualità nuova non certificabile empiricamente, e neppure erigere questa qualità a fondamento di un'ipotesi credibile: perché ciò equivale a basare la ragione su vuote chimere invece che sui concetti delle cose» (23) .

Di fronte a tali rigidi confini, viene allora da domandarsi perché, soprattutto nella seconda metà del '900, questi avvertimenti kantiani siano rimasti sostanzialmente in archivio e siano pertanto assai pochi coloro che -nel riflettere sulle modalità -li abbiano tenuti presenti: non solo e non tanto per (19) Sellars [1948]. assumere tali confini come una linea obbligata di marcia, ma almeno -o magari -per farne un bersaglio polemico (24) .

Viene in mente che uno dei motivi principali possa essere questo: la reazione al neoempirismo, alle sue pretese di dettare le regole rigorose del ragionamento scientifico, reazione che ha per molti versi travolto, insieme ai criteri empirici di significato e alla concezione nomologicodeduttiva delle teorie, anche alcune istanze critiche del pensiero kantiano, rivolte contro i concetti puri dell'intelletto, quando essi pretendono di rappresentare qualcosa al di fuori dell'esperienza. Nel contesto dell'Analitica trascendentale, che abbiamo citato, Kant sta infatti enunciando il processo mediante il quale si vengono a costituire i concetti relativi alle cose, ed individua precisamente nell'esperienza un elemento irrinunciabile dell'operazione. Di più, nelle righe che seguono, Kant lega indissolubilmente il modo della necessità al fatto che si diano leggi empiriche di tipo causale: «Ma non si dà esistenza che possa esser conosciuta come necessaria sotto la condizione dì altri fenomeni dati, che non sia l'esistenza degli effetti risultanti da cause date, in base a leggi causali. Ciò dunque di cui possiamo conoscere la necessità non è costituito dall'esistenza delle cose (sostanze), bensì soltanto dal loro stato e sempre in base ad altri stati che ci sono dati nella percezione, secondo leggi empiriche causali» (25) .

Al di fuori di questa necessità nomologica (e quanto alle relazioni più generali tra esistenza e modalità), si finisce inevitabilmente nell'ambito dei raziocini dialettici. Quando infatti si afferma che la totalità dei mondi possibili contiene il mondo attuale come caso particolare, si suggerisce con ciò stesso l'idea che un mondo possibile possa essere ottenuto con le sole risorse della ragione, aggiungendo al mondo attuale qualche ingrediente (il che corrisponde al fatto di immaginare l'esistenza per ciò che invece -attualmente -non c'è). Secondo la linea dell'argomentazione di Kant ciò corrisponde all'aggiungere al possibile l'impossibile, conferendo possibilità all'impossibile (26) .

Insomma: la tradizione critica ci indica che, se vogliamo utilizzare la nozione di possibilità in relazione al mondo, non possiamo farlo assumendo questa nozione in generale, come concetto puro, come forma del pensiero, perché in tale forma essa non può dirci nulla circa le possibilità effettive del mondo. Perciò, se si vuole utilizzare la nozione di possibilità in accezione diversa da quella kantiana, non come mera condizione formale dell'esperienza ma con riguardo ai fatti, sembrerebbe ovvio che ogni affermazione di possibilità rispetti almeno ciò che già sappiamo sui fatti, riferisca ogni ulteriore possibile ontologia a tutto ciò che è già noto.

Una simile mossa, si noti, non bloccherebbe affatto l'ontologia sul patrimonio corrente della scienza attuale, perché questo patrimonio non è affatto chiuso: perché esso è puramente ipotetico e (24) Sia chiaro, come emergerà dalle considerazioni che seguono, che qui non si intende affatto invocare l'autorità di Kant, allo scopo di evitare l'onere dell'argomentazione. Resta però il fatto che il nesso tra la possibilità e l'esistenza è al centro della prova ontologica e della sua confutazione, cioè al centro di una delle sezioni della grande Critica che riteniamo difficile dimenticare. (25) Op. cit., trad. it. p. 255. (26) «E' del resto assai chiara la inconsistenza delle argomentazioni abituali con cui introduciamo una vasta sfera della possibilità, rispetto a cui tutto il reale (ogni oggetto dell'esperienza) costituisce una piccola parte. Ogni reale è possibile; secondo le regole della conversione, ne segue naturalmente la semplice proposizione particolare: qualche possibile è reale; la quale ha tutta l'apparenza di affermare che esistono molti possibili che non sono reali. In verità, pare proprio che sia possibile ampliare tranquillamente il numero del possibile al di là di quello del reale, in conseguenza del fatto che è indispensabile aggiungere qualcosa al possibile per avere il reale. Ma a proposito di questa aggiunta io sono del tutto all'oscuro. Ciò infatti che dovrebbe essere aggiunto al possibile, sarebbe poi impossibile». Ivi, p. 257. Qui si dovrebbe però porre qualche attenzione, ricordando che in Kant la "realtà" è una categoria della qualità ed è dunque riferita al "contenuto del concetto", senza riguardo alla sua modalità d'esistenza. In questo senso, la "realtà" è un contenuto essenziale delle cose possibili, ma è un contenuto assolutamente neutro rispetto all'esistenza effettiva. In questi passi, piuttosto che alla realtà, Kant si riferisce dunque alla categoria della effettività (Wirklichkeit), la cui prova è appunto subordinata all'esperienza. Cfr. Heidegger [1975], trad. it. p. 33-34. presenta al suo interno grosse tensioni. Dunque, una volta assunto il già noto come conoscenza di sfondo, messe in parentesi le teorie in discussione, resta comunque un terreno vastissimo di possibilità, sul quale si può esercitare liberamente la scienza.

Rifiutando questa visione epistemica della possibilità, non sembra restare in effetti che il modello più astratto -oggetto dell'analitica trascendentale -che assegna alla possibilità il mero rispetto delle condizioni formali dell'esperienza; un criterio che, come mero requisito della ragione, risulta del tutto inadeguato a costruire altri "mondi". Chi fosse autorizzato a fare altrimenti, a proporre su questa unica base nuove ontologie, sarebbe anche autorizzato a provare l'esistenza di Dio -cosa che sembra un po' troppo dura da digerire.

Ci si può chiedere, allora, perché in Kant non sia meglio specificata questa nozione epistemica di possibilità, come apertura teorica al nuovo problema scientifico, che abbiamo or ora abbozzato. In realtà, un riferimento del genere si può ritrovare nel metodo dell'analogia, che consente di asserire l'esistenza di enti, sulla base di esperienze possibili (27) . Più in generale, si deve ricordare che tutta l'analisi kantiana della modalità si svolge in un ambito fortemente segnato da un concezione determinista e dal costante richiamo al principio della causalità: «Dal che si vede come il criterio della necessità stia esclusivamente nella legge dell'esperienza possibile secondo cui tutto ciò che avviene è determinato a priori nel fenomeno dalla sua causa. Perciò noi conosciamo nella natura soltanto la necessità degli effetti di cui ci sono date le cause [...] Tutto ciò che accade è ipoteticamente necessario: ecco un principio che sottopone il mutare del mondo a una legge, ossia a una regola dell'esistenza necessaria, in mancanza della quale non ci sarebbe neppure una natura» (28) .

In un contesto del genere, programmaticamente teso a definire le condizioni di ogni conoscenza, Kant non discute i due casi seguenti: -che la previsioni degli effetti sia ostacolata dalla conoscenza imperfetta delle leggi, delle condizioni iniziali o degli strumenti del calcolo (indeterminazione epistemica); -che le leggi del fenomeno in esame facciano corrispondere, ad uno stesso insieme di cause, una pluralità differenziata negli effetti (esistenza di esiti alternativi, previsti dalla legge; indeterminazione essenziale). Quanto al primo caso, esso non sembra metter capo ad un indeterminismo di tipo ontologico, che debba richieda una nozione di possibilità diversa da quella che Kant ha fornito. Quanto al secondo caso, sfugge in effetti al pensiero scientifico del XVIII secolo che possano darsi soluzioni molteplici, tutte legittimamente possibili, d'uno stesso sistema formale, nel quale tutti i vincoli siano accuratamente espressi e formalizzati (ed essi risultino tuttavia insufficienti a determinare univocamente l'effetto). Quando si fosse data una situazione del genere, il pensiero scientifico classico avrebbe inevitabilmente invocato l'esistenza di cause ulteriori, da determinare: anche in questo caso, un laplaciano avrebbe parlato di indeterminazione epistemica.

Ora, è proprio nel senso della riflessione sulle "alternative" possibili -rispetto a condizioni date -che si è andata invece orientando la discussione più recente sulle modalità, come passeremo (27) «E' senz'altro possibile, anche anteriormente alla percezione della cosa, e quindi, sotto certi aspetti, a priori, conoscerne l'esistenza, a patto che questa si colleghi con talune percezioni, in base ai princìpi della loro connessione empirica (le analogie). In questo caso, infatti, l'esistenza della cosa risulta collegata alle nostre percezioni in un'esperienza possibile e, sotto la guida di quelle analogie, ci è possibile muovere dalla nostra percezione reale per arrivare alla cosa, lungo la serie delle percezioni possibili». Kant [1781], trad. it. p. 250-251. (28) Ivi,p. 255. tra breve a vedere. In questo ambito, non mancheranno però (numerosi) gli esempi di "raziocini dialettici" (29) .

Necessità a posteriori

S'è già accennato alle mosse strategiche, sviluppate da Kripke e da altri, per bloccare le "contaminazioni" legate all'uso dei quantificatori nelle espressioni modali (30) . Tuttavia, quanto alla contaminazione ontologica, la mossa di Kripke è stata ben più compromettente, perché egli è arrivato in sostanza a rovesciare completamente quella separazione tra verità logiche e verità fattuali che, come s'è visto, aveva costituito il motivo conduttore della interpretazione di Carnap.

Se, in astratto, l'ontologia di Kripke non pone alcun limite agli oggetti che potrebbero esistere, "praticamente" l'allargamento ontologico è assai contenuto: «I "mondi possibili" sono "modi" totali "in cui il mondo avrebbe potuto essere" o stati o storie dell'intero mondo; […] in pratica, non possiamo descrivere un corso controfattuale di eventi completi, né abbiamo bisogno di farlo; […] si potrebbe pensare alla "situazione controfattuale" come a un minimondo o ministato, limitato a quei caratteri del mondo che sono rilevanti per il problema in esame.

[…] ciò comporta una idealizzazione minore che non considerare le storie intere del mondo o tutte le possibilità» (31) .

Kripke non parte dunque da una nozione astratta di possibilità, che definisca preliminarmente il dominio entro il quale si trovano a risiedere gli oggetti ed i mondi. Parte invece dal mondo che c'è, imponendo ai suoi oggetti qualche piccola variazione (32) . Naturalmente, il fatto di partire dal mondo attuale potrebbe restare ininfluente, ai fini dell'ontologia complessiva che si otterrebbe alla fine, qualora non si ponessero limiti alle variazioni. Ma il mondo reale non è solo il punto di partenza per ampliamenti minimali dell'ontologia. L'aspetto più rilevante è che -nella concezione di Kripke -il mondo attuale, nella sua struttura fisica, nelle sue leggi, fornisce l'unico metro di giudizio effettivo che abbiamo, per asserire o negare la possibilità di qualcosa. Infatti, la necessità di cui trattano i contesti modali non andrebbe ricercata nell'empireo dei principi della ragione, ma nelle leggi empiriche che la ricerca scientifica "scopre": «[…] gli asserti che esprimono scoperte scientifiche su ciò che è questo materiale, non sono verità contingenti, bensì verità necessarie nel senso più stretto possibile» (33) ; «[…] le identificazioni teoriche tipiche, come "il calore è il moto delle molecole" non sono verità contingenti ma necessarie, e qui naturalmente non intendo soltanto fisicamente necessarie, ma necessarie al più alto grado, qualunque cosa ciò significhi. (La necessità fisica (29) Fa eccezione la chiara differenza tra modalità fisiche e modalità logiche tracciata da McCall [1969], che è rimasta però alquanto isolata. In precedenza, riferimenti alle modalità "fisiche" o "causali" -distinte da quelle puramente "logiche" -si trovano rispettivamente in Reichenbach [1947] p. 392 e Sellars [1957]. (30) Si deve comunque accennare anche al fatto che le puntualizzazioni di Kripke non hanno risolto del tutto i problemi di natura ontologica presenti nel formalismo, perché resta aperto il problema dell'eliminazione completa dal calcolo di tutte le cosiddette modalità de re, cioè di quelle modalità che non riguardano le proposizioni, ma gli oggetti del mondo. Sul punto, cfr. Hughes, Cresswell [1968], trad. it. p. 215 sgg. Potrebbe sembrare ben strano che un logico arrivi, nella piena maturità del XX secolo, a questo tipo di conclusioni. Tanto più sembra strana la cosa, perché Kripke non è sospettabile di alcuna forma di riduzionismo, che anzi l'obiettivo dichiarato del suo lavoro è proprio quello di mostrare l'irriducibilità dei predicati mentali. Si deve aggiungere allora che le necessità di cui Kripke parla hanno anche un carattere fortemente stipulativo e, piuttosto che riferirsi a modalità oggettive del mondo, riguardano le modalità di assegnazione dei nomi. L'idea è insomma quella che -all'atto di una "scoperta" scientifica -gli oggetti e i processi del mondo ricevano un'etichetta indelebile, che si portano dietro per sempre, in tutti i loro eventuali "viaggi" nei mondi. Attraverso l'identificazione teorica cui la scienza perviene, ha luogo una sorta di battesimo preliminare, in grazia del quale ogni oggetto risulta "designato rigidamente" per mezzo di qualche sua proprietà, che viene giudicata "essenziale". «In generale, indagando i tratti strutturali di base, la scienza cerca di scoprire la natura e quindi l'essenza (nel senso filosofico) del genere. Il caso dei fenomeni naturali è analogo; le identificazioni teoriche come "il calore è moto molecolare" sono necessarie, anche se non a priori» (35) .

In questo quadro, risultano per Kripke verità necessarie: -che l'acqua sia H 2 O, -che la temperatura sia energia cinetica media delle molecole, -che la luce sia un flusso di fotoni (o un'onda elettromagnetica); mentre risultano verità contingenti:

-le sensazioni (di liquidità, di calore, di luminosità) che sono servite, arcaicamente e preliminarmente, a definire tali enti.

Anche il caso più famoso, esposto originariamente da Gottlob Frege, che era stato assunto da generazioni di logici come l'esempio lampante della differenza tra intensioni e estensioni, esce per molti versi stravolto dall'analisi operata da Kripke: che "la stella del mattino" denoti la stessa cosa denotata da "la stella della sera" non sarebbe una verità contingente, ma necessaria. Anche se Kripke sembra concedere molto a qualche forma di essenzialismo metafisico, è soprattutto l'accordo stipulativo tra i parlanti -sulla base di risultati scientifici accettati -che garantisce il carattere rigido della designazione: «Qualunque mondo in cui immaginiamo che quella sostanza non abbia quella proprietà è un mondo in cui immaginiamo una sostanza che non è [quella sostanza], ammesso che quelle proprietà costituiscano la base di ciò che è la sostanza» (36) .

In questo approccio, sembra in effetti difficile trovare una linea netta di separazione tra la componente essenzialistica e quella convenzionalistica: nelle situazioni controfattuali immaginate da Kripke, un oggetto che abbia tutte le proprietà fenomenologiche dell'oro, meno quella giudicata essenziale durante il suo "battesimo" (il fatto di avere un certo numero atomico), non potrebbe (34) Ivi,p. 96. (35) Ivi,p. 130. (36) Ivi,p. 118. essere considerato legittimamente ciò che noi designiamo con "oro"; semplicemente, in quel mondo, quella fattispecie di oro non sarebbe la sostanza denominata usualmente con "oro". Tutto ciò sembra ragionevole e chiaro, ma presuppone: che nei mondi si diano sostanze e proprietà essenziali; che le designazioni siano universalmente accettate come necessarie; e, soprattutto, che le necessità logiche abbiano garanzie fattuali (37) .

Con questi (malgrado questi) presupposti di fondo, l'interpretazione semantica proposta da Kripke per i contesti modali viene oggi largamente accettata. In particolare, è generalmente accettato (magari per aggirarlo o per mitigarne gli effetti) l'argomento in favore del dualismo che Kripke ha voluto trarre dalla sua impostazione. Alla confutazione della tesi dell'identità mentecorpo Kripke dedica anzi per intero il suo libro più noto (38) : 7. Se il "dolore"" sia "sentire il dolore" L'argomento di Kripke contro l'identità mente-corpo poggia -dal punto di vista formalesull'idea che l'identità tra designatori rigidi implichi la loro identità in tutti i mondi possibili: se "R 1 " e "R 2 " sono designatori rigidi e se è vero che "R 1 = R 2 ", allora "R 1 = R 2 " è una verità necessaria; non è immaginabile un mondo in cui "R 1 ≠ ≠ ≠ ≠ R 2 " (39) . Rovesciando l'implicazione, si ottiene: se in qualche mondo l'identità tra i designatori non tiene (se cioè, in qualche mondo possibile, gli oggetti designati non sono la stessa cosa), allora l'identità non può essere mai sostenuta.

Con queste premesse, se si ammette che l'identità mente-corpo non sia necessaria (nel senso che -come Kripke ritiene -siano concepibili mondi in cui la mente esista senza che esistano i corpi) l'identità non potrà mai essere sostenuta, nemmeno nel nostro mondo attuale. In conclusione, tutto l'argomento poggia -dal punto di vista del merito -sull'idea che si dia qualche mondo in cui le menti esistano, senza che esistano i corpi.

Ora, la cosa un po' imbarazzante -stante la diffusa considerazione della forza dell'argomento di Kripke -è il fatto che di tale eventualità non venga esibita nel libro alcuna evidenza diretta, alcun criterio di sostegno empirico, alcun elemento teorico che vada al nodo della questione. La cosa è imbarazzante, perché non sembra affatto intuitivo e scontato che siano concepibili menti in assenza di corpi; ad esempio, proprio nella sezione concernente la "disciplina della ragion pura rispetto alle ipotesi" -che abbiamo già scomodato al paragrafo 5 -Kant negava che fosse possibile immaginare un intelletto, in assenza dei sensi. Da Kripke, vorremmo dunque qualche elemento ulteriore.

Piuttosto che mostrare in che senso possa darsi occorrenza di menti senza occorrenza di corpi, Kripke analizza il caso del dolore, avanzando la tesi che il dolore -qua dolore -non sia (37) In particolare, è assai discutibile l'attacco che Kripke ha inteso avanzare, con la sua teoria della "designazione rigida" alla teoria della denotazione di Russell [1905] (trad. it. p. 97 sgg.), insistendo sull'idea che sia impossibile concepire i nomi degli oggetti come mera congiunzione delle loro proprietà. Ora, se è già difficile stabilire quale sia, tra le diverse proprietà d'un oggetto, quella "essenziale" (da assumere convenzionalmente, nel rito battesimale), ciò diventa un'impresa impossibile per gli enti della fisica teorica, non suscettibili di osservazione ordinaria, i quali sono introdotti nel formalismo come oggetti puramente "nomologici" e per i quali non si dà dunque alcuna definizione diversa dalla mera enunciazione delle loro proprietà analitiche. (38) Kripke [1972]. Il libro raccogli i testi di tre conferenze, tenute a Princeton nel 1970. L'utilizzazione in chiave dualistica dell'argomento di Kripke appartiene in realtà ai suoi epigoni, visto che il libro si conclude con una nota specifica (trad. it., p. 145), nella quale Kripke ammette che i monisti avanzano molti argomenti sensati e che "il problema mente-corpo è tutto aperto ed è estremamente ingarbugliato". concepibile altro che come uno stato mentale. Dunque: Kripke non dà alcuna prova del fatto che -in qualche mondo possibile -il dolore sia concepibile in modo distinto dalle sue istanze corporee; egli sostiene soltanto che -già nel mondo attuale -"dolore" non è identico a "uno stato particolare del corpo"; quindi, se "dolore" e "un particolare stato del corpo" designano rigidamente i loro oggetti, in nessun mondo possibile "dolore" sarà identico a "un particolare stato del corpo".

A cosa serva in effetti -in questo contesto -l'apparato ingombrante dei "mondi possibili" non è poi così chiaro; se l'aspetto dirimente della questione sta nel fatto che, già qui da noi, nel nostro mondo, la mente mostra caratteri sostanziali irriducibili ad altro, l'apparato dei mondi possibili ha soltanto la funzione d'un enfasi, tesa a suggerirci che questo dualismo è una sorta di necessità di ragione. Tutto ciò non sarebbe poi un gran risultato, perché -come s'è visto -le "necessità di ragione" hanno per Kripke un forte ancoraggio nel fattuale. Stante l'importanza del tema, vale la pena comunque di chiedersi -al di là dei mondi possibili -in cosa esattamente consista per Kripke la particolarità del dolore. Non va infatti passato sotto silenzio che, nel lavoro di Kripke, si dà una evidente asimmetria, a questo proposito, tra il calore e il dolore; infatti: -il calore potrebbe esistere (come calore che, ad esempio, scioglie il ghiaccio, ecc.), senza che sia percepito come calore; -il dolore, invece, non potrebbe esistere senza che sia percepito come dolore. Nella concezione di Kripke, il dolore è dunque irriducibile, perché è una proprietà fenomenologica, non designabile in altro modo che mediante un riferimento a una situazione epistemica: «Trovarsi nella stessa situazione epistemica che varrebbe se si avesse dolore è avere dolore […] il dolore, quindi, a differenza del calore, non solo è designato rigidamente da "dolore", ma il riferimento del designatore è determinato [per questa via, come qualità fenomenologica immediata] da una proprietà essenziale del referente» (40) .

Insomma, l'argomento di Kripke non poggia sul fatto che potrebbe esserci mondi in cui si diano menti e non si diano corpi, ma sul fatto che il dolore sia una qualità fenomenologica non ulteriormente analizzabile. Dal punto di vista di Kripke, sembra allora inessenziale il parallelismo che un neurologo potrebbe tracciare tra il calore e il dolore, attraverso ad esempio lo schema:

Nello schema, sia la sensazione di calore che quella di dolore sono qualità fenomenologiche immediate (qualia). Ora, se si adotta il punto di vista che i qualia sono, in quanto tali, irriducibili, ciò che risulta strano è il fatto che Kripke applichi l'argomento dell'irridicibilità al dolore (rifiutando l'idea che esso sia definibile come stato fisico di qualche sotto-insieme del sistema nervoso centrale, cioè in modo indipendente dalla sensazione di dolore) e non applichi invece lo stesso argomento alla sensazione di calore (41) .

(40) Op. cit., Sulla complessa questione dei qualia pesa sempre il sospetto avanzato da Ryle [1949], che la tesi della loro irriducibilità si riduca in sostanza ad un appello contro la fallacia dell'equivocazione. Così, "università" non sarebbe riducibile a "certi edifici nei quali si studia" e "vino" non sarebbe riducibile a "certi composti organici", perché L'asimmetria che Kripke introduce tra i qualia è ancora più sorprendente se si considera che anche la luce è, per lui, nient'altro che un'onda elettromagnetica. Ora (seguendo lo stesso ragionamento che Kripke adotta per il dolore), prima del 1800 la luminosità di una certa sorgente non avrebbe potuto essere riferita ad altro che alla sensazione di luce: il "battesimo" della luce avrebbe comportato necessariamente un riferimento alla luminosità percepita. Un seguace di Kripke avrebbe potuto allora avanzare il seguente argomento (42) : -posto che la luce sia necessariamente sensazione di luce ("luce" designa rigidamente la sensazione di luce), -posto che una "onda elettromagnetica" designi rigidamente un oggetto fisico, -segue che la luce non può essere un'onda elettromagnetica, perché è possibile pensare ad un mondo in cui la luce non si dia, anche in presenza di onde elettromagnetiche. Ma Kripke non crede che la luce sia qualcosa di diverso da un'onda elettromagnetica; crede piuttosto che, dopo i lavori di James Clerk Maxwell, la luce sia stata "ribattezzata" rigidamente come "onda elettromagnetica" e che questa designazione valga dunque in tutti i mondi possibili. Allora, non è affatto chiaro perché -analogamente -l'accertamento di "onde" nocicettive nel talamo non dovrebbe fornire una designazione più aggiornata di ciò che, qualitativamente, abbiamo sempre chiamato "dolore".

Dopo i lavori di Maxwell, secondo Kripke, noi non possiamo più immaginare mondi possibili il cui spazio sia pieno di onde elettromagnetiche e, ciononostante, sia buio. Quale evidenza potrebbe allora autorizzarci a pensare -con tutto ciò che sappiamo oggi della fisiologia del doloreche una stimolazione opportuna degli stati neuronici più elevati -nella catena che parte dai nocicettori -possa coesistere (ferme restando le condizioni ordinarie dei circostanti neuroni) con la completa assenza di ogni "dolore"?

Quando "acqua" non stava per acqua

Le tesi sostenute da Kripke circa la designazione e il riferimento hanno molti punti in comune con quelle avanzate da Hilary Putnam. Fin dall'inizio degli anni '70 (43) , Putnam aveva insistito sull'idea che concetti diversi (ad esempio quelli corrispondenti ai termini "temperatura" e a "energia molecolare media di traslazione") possano mettere capo a posteriori alla stessa identica proprietà. Questa «vecchia idea che la scienza scopra verità necessarie» (44) fu appunto sviluppata da Kripke, mediante l'idea di verità necessaria a posteriori e mediante la dottrina della designazione rigida, delle quali s'è già detto nel precedente paragrafo.

Anche se Putnam non si impegna in modo specifico sulla natura delle modalità (e ammette senz'altro che «le basi epistemologiche e metafisiche di queste nozioni rimangono oscure» (45) ), il tema della necessità e della designazione rientra implicitamente in uno dei suoi obiettivi. Egli tenta di fornire una spiegazione del significato dei termini, a partire dalle procedure concrete che vengono utilizzate nella scienza, quando si introducono termini di grandezze fisiche mediante la ""università" e "vino" sono termini categorialmente diversi da "edifici" e "componenti chimici del vino". Inoltre, non si può passare sotto silenzio il fatto che il nodo dei qualia viene da molti presentato come un problema d'ordine metafisico (concernente le loro "vere nature"), i cui connotati risultano spesso sfuggenti, nascosti sotto veli d'ambiguità. Si noti che qui non si vuole concludere, sommariamente, che il problema dei qualia sia un falso problema. Ciò che sembra però inammissibile è il fatto che, una volta ammessa la riducibilità della luce e del calore a qualcosa di altro, questa possa essere negata per il dolore, come Kripke dà mostra di fare. (42) L'esempio è utilizzato da Churchland [1996], in polemica con le posizioni di J. Searle, accanito sostenitore dell'irriducibilità del mentale. (43) Putnam [1970]. (44) Putnam [1980], p. 982-983. (45) Ivi,p. 976. formula: "con x intendo la grandezza responsabile dei tali e tali effetti" (46) . La "teoria causale del riferimento" consiste proprio nell'immaginare un "evento introduttivo", nel quale i parlanti cominciano a usare un certo termine per denominare un dato ente, sulla base di una sua descrizione specifica, "approssimativamente esatta". «È chiaro che ogni mio uso successivo del termine sarà collegato causalmente a tale evento introduttivo, fintanto che tali usi esemplificano la capacità da me acquisita nel corso di quell'evento. Anche se uso il termine così spesso da dimenticare l'occasione in cui l'ho appreso, l'intenzione di riferirmi alla stessa grandezza alla quale mi riferivo in passato usando quella parola lega il mio uso attuale agli usi precedenti, ed anzi già il fatto che quella parola è presente nel mio lessico attuale è un prodotto causale di eventi precedenti e in definitiva dell'evento introduttivo. Se insegno a mia volta questa parola a un'altra persona [...], anche se i fatti che riferisco non costituiscono in alcun modo una descrizione precisa e tanto meno una descrizione causale, la presenza di quella parola nel suo lessico sarà tuttavia causalmente legata alla sua presenza nel mio lessico e quindi, in definitiva a un evento introduttivo» (47) .

Con ciò, Putnam pretende di confutare la cosiddetta concezione "internalista" del significato, cioèin breve -l'idea che "i significati siano nella nostra testa": «Secondo una concezione tradizionale, tutti i termini hanno un'intensione e un'estensione. "Conoscere il significato" è avere conoscenza dell'intensione: che cosa sia "conoscere" una intensione (intesa comunemente come una qualche entità astratta) non viene mai spiegato» (48) .

Di fatto, secondo Putnam, questa concezione del significato poggia su due assunzioni: « (I) conoscere il significato di un termine è solo questione di trovarsi in un certo stato psicologico [...];

(II) il significato di un termine (nel senso di "intensione") determina la sua estensione (nel senso che identità d'intensione implica identità di estensione)» (49) . Allora, secondo la teoria "internalista" del significato: -ogni parola è associata a una rappresentazione mentale; -due parole sono sinonimi quando sono associate alla stessa rappresentazione mentale; -la rappresentazione mentale determina il riferimento (ciò a cui la parola si riferisce).

Per confutare tali assunti, Putnam avanza un "esempio fantascientifico", che è rimasto un classico nella letteratura sull'argomento. In breve, l'esempio consiste nell'immaginare una "Terra gemella", nella quale si dà una sostanza che ha tutte le proprietà fenomenologiche dell'acqua ma che, all'analisi chimica, si rivela essere non H 2 O, bensì XYZ. Dunque, a rappresentazioni uguali (liquidità, trasparenza, punto di ebollizione, proprietà dissetanti, ecc.) corrispondono riferimenti

Prima dell'analisi chimica (poniamo: prima del 1750, data in cui viene approssimativamente accertata la composizione chimica dell'acqua): -un terrestre, portato sulla Terra gemella, avrebbe chiamato "acqua" la sostanza XYZ, -un abitante della Terra gemella, portato sulla Terra, avrebbe chiamato "acqua" la sostanza H 2 0.

(46) The refutation of conventionalism, in Putnam [1975], trad. it. p. 200. (47) Explanation and reference (1973), in Putnam [1975], trad. it. p. 223-224. (48) Ivi,p. 222. (49) The meaning of "meaning", in Putnam [1975], trad. it. p. 243. (50) Ivi, p. 247 sgg. L'argomento di Putnam viene dai più considerato come un formidabile attacco rivolto anche contro la Conceptual Role Semantics, cioè contro la tesi secondo la quale il significato delle espressioni è determinato dal modo delle loro correlazioni. Tuttavia, anche allora, il riferimento (la composizione chimica) era diverso. Quindi, conclude Putnam, è errato sostenere che il significato dei termini sia dato dalle rappresentazioni mentali, perché il riferimento non è nella testa, bensì nelle cose. La designazione rigida, che viene a basarsi dopo il 1750 sulla composizione chimica dell'acqua, deve valere in tutti i mondi possibili, quindi anche retroattivamente. "Un po' di realismo!", è l'esclamazione finale (51) .

Ora, senza nulla togliere alla plausibilità d'una concezione "esternalista" del significato, si deve dire che l'argomento è inconsistente, sulla base degli stessi assunti di Putnam.

Nelle sue prime riflessioni sulla semantica, che lo avrebbero successivamente portato alle tesi cui abbiamo accennato, Putnam aveva osservato: «Se descrivo qualcosa come un limone o come un acido, indico che avrà verosimilmente certe caratteristiche (scorza gialla o gusto acido in soluzione d'acqua, secondo i casi); ma indico anche che la presenza di queste caratteristiche (se ci sono) sarà verosimilmente spiegata da una qualche "natura essenziale" che quella cosa ha in comune con gli altri membri del genere naturale» (52) .

Se dobbiamo dar credito a questa osservazione, dobbiamo allora segnalare che il controfattuale immaginato da Putnam ("acqua" che non sta per H 2 O, ma per XYZ) non regge, proprio alla luce di quelle verità necessarie a posteriori che Putnam invoca, per sostenere che la composizione chimica dell'acqua esprime rigidamente il significato del termine "acqua". Infatti, che l'acqua sia H 2 O implica di necessità (alla luce delle teorie che conosciamo) il fatto che l'acqua abbia quelle proprietà fenomenologiche (liquidità, trasparenza, punto di ebollizione, ecc.). È proprio il fatto che l'acqua abbia quella composizione chimica che spiega ed impone quelle proprietà. Viceversa, entro il quadro teorico di cui disponiamo, sembra da escludere che una sostanza diversa da H 2 O possa avere quelle proprietà fenomenologiche (53) . Dunque, alla luce delle stesse teorie scientifiche che Putnam invoca per stabilire il significato di "acqua", non è possibile che si dia una sostanza XYX ≠ H 2 O, che abbia le stesse proprietà di H 2 O. In breve, la "Terra gemella" immaginata da Putnam non è un mondo possibile; il controfattuale di Putnam è nomologicamente impossibile (alla luce degli stessi criteri "forti" di necessità e possibilità che Kripke ha definito e che sono stati assunti da Putnam).

Le conclusioni che dobbiamo trarre da questa vicenda non implicano un rigetto della teoria causale del significato (o, almeno, un rigetto dell'idea che lo sviluppo della conoscenza scientifica consenta un affinamento del significato dei termini). Ciò che la nostra analisi tende semmai a suggerire è che -una volta ammessa la funzione dirimente delle teorie scientifiche, in ordine a ciò che è possibile o necessario -l'ontologia dei "mondi possibili" tende inevitabilmente a collassare sul mondo attuale; entro le regole imposte dal patrimonio scientifico, siamo assai meno "liberi" di costruire fantasie immaginarie, che abbiano come oggetto situazioni controfattuali.

Per riconoscergli l'onore che merita, va detto però che lo stesso Putnam è sempre stato cosciente dell'opportunità di evitare gli "eccessi": «Il problema è se spiegare nozioni problematiche come quelle di modalità e di condizionale controfattuale in termini di una totalità completamente metafisica di "tutti i mondi possibili" costituisca un progresso filosofico, oppure piuttosto un allontanamento dalla chiarezza, dall'analisi, da qualunque tipo di avanzamento epistemologico [...] La teoria dei mondi possibili assume la nozione di possibilità logica; non fa nulla per la filosofia della logica» (54) .

(51) Ivi,p. 259. (52) Is semantics possible? (1970), in Putnam [1975], trad. it. p. 164. (53) Per le conseguenze fenomenologiche implicate dall'accettazione dell'elettrodinamica quantistica, come contesto esplicativo più generale delle chimica teorica, si veda ad esempio Feynman [1985], trad it. p. 20 sgg. (54) Putnam [1980], p. 993-994.

Invasioni di zombie

"Eccessivo", alla luce dello scetticismo di Putnam, potrebbe essere considerato probabilmente David Chalmers, sottile, tenace e fantasioso navigatore dei mondi possibili. È a lui che dobbiamo recenti invasioni di zombie, nel già tormentato terreno della filosofia della mente. Cos'è dunque uno zombie? Da che mondo è venuto? Perché Chalmers ha sentito il bisogno di farlo arrivare?

L'equivalente italiano di "zombie" ("morto-vivente") è un ossimoro troppo evidente, perché il logico possa pensare di costruirci qualcosa. Ma gli zombie amici di Chalmers non sono defunti, non sono come quelli di Hollywood; sono invece sanissimi, come e meglio di noi. Anzi, Chalmers ha un fratello gemello che è proprio identico a lui: non solo fisicamente («molecola per molecola"), ma anche funzionalmente («elabora lo stesso tipo di informazioni, reagisce in modo analogo agli input [...] e dà luogo a comportamenti indistinguibili»); ha solo un difetto: è uno zombie (55) .

Ognuno di noi ha uno zombie, gemello, in un mondo che Chalmers ha scoperto. È un mondo identico al nostro, "fisicamente" identico al nostro e -perché no? -forse anche culturalmente, socialmente, storicamente. Infatti, Chalmers ha scoperto che gli zombie elaborano informazioni, reagiscono e si comportano esattamente come gli esseri umani, proprio nella stessa maniera. Perché allora non immaginare lo zombie-Aristotele, lo zombie-Maometto, lo zombie-Beethoven, lo zombie-Charlot e tutti gli altri zombie normali e particolari, eroici e codardi, timidi oppure arroganti, che hanno popolato la Terra?

Bene: forse Chalmers potrebbe concedere che, nel mondo gemello, siano vissuti questi zombie famosi, insieme a tanti altri zombie "normali". Potrebbe concederlo, perché il suo argomento vorrebbe essere un po' più sottile; per lui, gli zombie sono fisicamente e comportamentalmente uguali agli esseri umani, ma non hanno coscienza. Uno zombie: «vede gli alberi fuori, in senso funzionale, e gusta il cioccolato, in senso psicologico. Tutto ciò è una conseguenza logica del fatto che è identico a me fisicamente, sulla base delle analisi funzionali delle nozioni psicologiche. È anche "cosciente" nei sensi funzionali sopra descritti; è vigile, capace di riferire i contenuti dei propri stati interni, capace di concentrare l'attenzione su vari luoghi, e così via. Semplicemente nessuno di questi processi è accompagnato da una qualsivoglia esperienza conscia autentica. Non c'è un sentire in senso fenomenico. Non si prova nulla a essere uno zombie» (56) .

Prima ancora di saggiare la consistenza di una simile ipotesi, conviene interrogarsi sui motivi che possono aver spinto Chalmers ad avanzarla. Bene, il motivo è evidente: se Chalmers riuscisse a dimostrare che uno zombie è ammissibile, avrebbe con ciò stesso mostrato che la coscienza non è riducibile a qualcosa di fisico o di comportamentale e che, dunque, bisogna inevitabilmente accettare qualche forma di dualismo tra il corpo e la mente. La possibile esistenza di zombie vuole essere dunque un argomento per il dualismo.

Molte obiezioni possono essere sollevate contro questo argomento (57) . Il primo sospetto è che Chalmers stia presupponendo ciò che vuole mostrare: se ammettiamo che gli zombie possano esistere, stiamo già sul suo terreno. Ma gli zombie non possono essere meramente postulati, descrivendone qualche caratteristica; ci vuole una dimostrazione indipendente del fatto che si possano dare esseri con quelle caratteristiche fisiche e comportamentali, i quali siano (55) Chalmers [1996], trad. it. p. 97. (56) Ibidem. (57) Chi fosse interessato alla cosa, può accedere al sito di Chalmers, in particolare alla pagina: http://jamaica.u.arizona.edu/~chalmers/papers/precis.html.

-ciononostante -privi delle proprietà "alte" della coscienza. Ma la risposta di Chalmers potrebbe essere che vale anche il viceversa: se giudichiamo inammissibile il suo esempio, è perché abbiamo già eliminato dal nostro orizzonte il dualismo; è perché già presupponiamo che tutte le funzioni della coscienza siano riducibili a caratteristiche fisiche e comportamentali. Inoltre, Chalmers si impegna a dimostrare che la plausibilità degli zombie è indipendente dall'assunzione di tesi dualistiche. Dobbiamo quindi concedergli che di zombie si possa se non altro parlare, valutando la consistenza dei suoi argomenti soltanto alla fine.

Un'altra obiezione potrebbe colpire la nozione stessa di coscienza: se essa non è ben definita, la questione filosofica posta da Chalmers potrebbe rivelarsi una scatola vuota: non sapremmo di cosa stiamo parlando. Qui si deve notare che la risposta di Chalmers è un po' meno sicura: infatti, proprio all'inizio del suo libro (58) , egli avverte che la definizione di coscienza è un'impresa alquanto difficile, perché la coscienza è -a suo dire -qualcosa di primitivo e fondamentale, irriducibile ad altro, inesprimibile nei termini di nozioni più elementari. Inoltre, Chalmers va in un certo senso a cacciarsi volontariamente nei guai, perché afferma che la coscienza che gli interessa non è quella "psicologica", associabile alla "consapevolezza di sé", ma soltanto quella "fenomenica", riferibile al "provare la sensazione di essere qualcosa". Infatti, gli zombie avrebbero consapevolezza di sé, ma non proverebbero niente ad essere zombie. Insomma, per farla breve: gli stati mentali che interessano Chalmers sono soprattutto le sensazioni qualitative, associate a qualità fenomeniche, cioè i qualia.

Ancora una volta, dobbiamo essere disponibili a considerare fondata la questione posta da Chalmers, nonostante lui stesso faccia trapelare che il rapporto tra "qualia" e "coscienza fenomenica" è circolare, sicché questi termini si sosterrebbero scambievolmente (un po' come faceva un ben noto barone, che pretendeva di raggiungere il cielo tirandosi su per i lacci dei suoi stivali). Ma noi siamo, come s'è detto, ben aperti alle riflessioni dei mentalisti e vogliamo considerare assai seriamente il loro argomento fondamentale, che cioè l'esperienza qualitativa nelle menti coscienti sia un fatto innegabile, perché tutti percepiscono qualia, anche noi, monisti inguaribili.

Ciò ammesso, vorremmo però immediatamente sapere che tipo di prova sia possibile dare, rispetto al fatto che gli zombie non percepiscano qualia e non abbiano alcuna emozione. Per come Chalmers ha posto le cose, non possiamo appellarci agli aspetti fisici e comportamentali, che sono condivisi dagli zombie; quindi, non potremo mai sapere se Mozart non sia stato per caso uno zombie e se anche negli zombie non si accenda per caso qualche neurone del "sentire qualitativo", ogni volta che ascoltano Mozart. Anzi, mentre un non-zombie può parlarci dei qualia e raccontarci le sue esperienze interiori (perché -come s'è detto -sarebbe innegabile che i non-zombie, gli esseri umani, percepiscano i qualia), è dubbio che un simile resoconto -in negativo -possa essere reso da un povero zombie, che -per negare i suoi qualia -dovrebbe conoscere i qualia, quindi dovrebbe "sentire", quindi non sarebbe uno zombie, ecc. ecc.

Fortunatamente, è lo stesso Chalmers a trarci da questi interrogativi, comunicandoci che la sua prova -circa la possibilità degli zombie -vuole essere di carattere logico. A questo puntomemori delle raccomandazioni di Kant -potremmo dunque interrompere la confutazione di Chalmers: dovremmo infatti essere sufficientemente avvertiti che, dalla logica, non può dedursi l'esistenza di alcuna coscienza.

Ma c'è ancora qualcosa che attrae la nostra attenzione: un preciso richiamo di Chalmers, circa il fatto che la possibilità degli zombie possa illuminare il rapporto che c'è tra la logica, la scienza e la metafisica, mostrando in che senso sia legittimo ed indispensabile fare riferimento a mondi logicamente "possibili", nei quali le leggi fisiche siano violate:

(58) Chalmers [1996], trad. it. p. 4 sgg. «I mondi possibili vengono introdotti per dar conto del pensiero controfattuale, per trattare la semantica del linguaggio controfattuale, l'inferenza razionale e il contenuto delle credenze, oltre che per altre ragioni. Una scienziata può pensare controfattualmente (e razionalmente) a proposito di scenari che presentino leggi diverse da quelle usuali e può fare affermazioni vere su questi scenari. Se stiamo usando l'idioma dei mondi possibili per caratterizzare il contenuto delle sue credenze nella scoperta di nuove leggi, abbiamo bisogno di fare appello ad un mondo contro-nomico. Senza mondi contro-nomici, non saremmo in grado di usare l'idioma dei mondi possibili, per dare senso ai suoi processi inferenziali. E così via. Escludere mondi contro-nomici renderebbe inutilizzabili i mondi possibili per molti dei più comuni scopi. Anche se qualcuno insiste che tali mondi non sono metafisicamente possibili, abbiamo bisogno di mondi contronomici, logicamente possibili » (59) .

Uscire dal cerchio

Discuteremo più avanti se sia vero che gli scienziati immaginano continuamente scenari contrari alla legge e in quali limiti essi lo fanno. Per restare nell'ambito puramente speculativo, il fatto che si diano possibilità logiche "contro-nomiche" (cioè escluse dalle leggi scientifiche) è assai questionabile, dopo i lavori di Kripke e di Putnam. Stupisce che Chalmers, per sostenere una cosa del genere, cominci ad esporre il suo punto di vista da un contesto kripkiano. Bisogna seguirlo, per capire come egli cerchi di far tornare la cosa.

La nozione di possibilità, in un senso ordinario, sembra intuitivamente legata a quella di "concepibilità"; tuttavia, come al solito, i due termini ("possibile" e "concepibile") si rinviano a vicenda, sicché è dubbio che questo senso ordinario del termine ci possa aiutare. Tuttavia, Chalmers prova ugualmente a costruire una elaborata tassonomia del concetto di "concepibilità", per controllare se non ci sia una qualche accezione di questo termine che possa costituire "una buona guida per la possibilità" (60) .

Al livello più basso, la concepibilità è garantita dalla coerenza logica: «P è concepibile se non è rilevabile alcuna contraddizione nell'ipotesi che P». Su questa base, Chalmers costruisce altri sei gradi di concepibilità, che non interessa qui riportare in dettaglio; basterà ricordare soltanto la conclusione, che è la seguente: «La concepibilità primaria, positiva, secunda facie è una guida estremamente buona per la possibilità» (61) .

Qui, "P è positivamente concepibile, secunda facie", quando si dà "un chiaro e distinto scenario" che verifica P, sulla base del miglior ragionamento razionale che sia disponibile. Inoltre "P è primariamente concepibile" quando lo scenario che verifica P è considerato attuale.

Vedremo tra poco quale ruolo fondamentale abbia la distinzione operata da Chalmers tra concepibilità "primaria" e "secondaria"; per ora, ammesso che la classificazione sia condivisibile, dobbiamo concentrarci sul requisito più forte, che contempla la messa in campo del "miglior ragionamento razionale che sia disponibile". Se questa doveva essere la strada che ci svincolasse dalla nomicità, il faticoso tragitto sembra riportarci inevitabilmente al punto dal quale eravamo partiti: stante la ben nota difficoltà di fornire criteri assoluti di "ragionamento razionale", non si vede infatti come si possa sfuggire dal plausibile assunto che la conoscenza scientifica fornisca il più sobrio e perspicuo criterio di razionalità. Dunque, la tenaglia della necessità nomologica sembra serrarsi ancora una volta sui mondi possibili; il cerchio torna a chiudersi, nonostante la sottile classificazione proposta.

Tuttavia, Chalmers non si dà affatto per vinto e tenta ancora -tenacemente -di spezzare l'assedio. È esattamente lavorando sulle intensioni che Chalmers pensa di poter "rompere il cerchio" che opprime i mondi possibili; egli intende lavorare cioè su quell'aspetto "ambiguo" della semantica che -l'abbiamo visto -era alla base della critica rivolta da Putnam alla concezione "internalista" del significato. Chalmers avanza infatti la tesi che parlare di necessità in senso forte (non logico, ma metafisico) sia sbagliato, perché mette capo a una concezione falsa della modalità: «La cornice dei mondi possibili è straordinariamente preziosa nel dare un senso alle nozioni modali; come ho suggerito, lo spazio dei mondi di cui qui abbiamo bisogno è lo spazio dei mondi logicamente possibili, sicché si dia un mondo per ogni scenario idealmente concepibile. Una classe più ristretta di mondi non sarebbe d'aiuto nel dare senso a queste nozioni […] Qualcuno potrebbe pensare che non sia possibile "uscire dal cerchio" che porta da certe nozioni razionali a faccende metafisiche quali la necessità a posteriori e la distinzione tra concetti e proprietà; ma questo è sbagliato» (63) .

La "rottura del cerchio" riposerebbe allora sull'indebolimento della nozione kripkiana di "necessità a posteriori", cosa che Chalmers ritiene di poter ottenere distinguendo due livelli di intensionalità.

Secondo Chalmers, il riferimento al concetto può essere fissato come se le cose -nel mondo attuale -andassero così come esse vengono concepite: in questo caso, ad ogni concetto è associata un'intensione primaria; ad esempio, se pensiamo a "Pegaso" come a un certo cavallo effettivamente esistente e dotato di ali, stiamo concependo "Pegaso" in intensione primaria. Alternativamente, possiamo pensare che Pegaso sia soltanto il frutto della nostra immaginazione; nel riferirci al concetto di "Pegaso" daremo allora per scontato che le cose nel mondo vanno così come vanno attualmente; lo scenario immaginario in cui "Pegaso" è concepito sarebbe dunque esplicitamente controfattuale ed avremmo -nel gergo di Chalmers -un'intensione secondaria.

Come abbiamo visto, Kripke e Putnam assumono che le necessità a posteriori siano dettate dalle leggi fisiche dal mondo attuale. Nel gergo di Chalmers, essi concepiscono dunque i mondi possibili solo attraverso intensioni del secondo tipo: da qui, e soltanto da qui, dipenderebbe il fatto che essi restringono a posteriori i mondi logicamente possibili alla classe di quelli fisicamente possibili. I mondi possibili, concepiti in intensione secondaria, ricalcano necessariamente i caratteri del mondo attuale, cosa che Chalmers contesta. La sua operazione è allora esattamente opposta a quella di Kripke e consiste nel ripristino della classe dei mondi logicamente possibili, in luogo di quella dei mondi che sono fisicamente possibili (cioè "possibili" nei termini delle leggi che conosciamo).

Piuttosto che continuare a seguire il ragionamento su questo terreno alquanto opaco dell'intensionalità e dei suoi controversi livelli (dove ogni ente pensabile diventa possibile e poi finisce coll'esercitare un ruolo reale), conviene guardare la cosa da un altro punto di vista, che può forse fornire lumi maggiori sul significato filosofico di operazioni alla Chalmers.

Non c'è dubbio alcuno che, ove si pongano tutti i mondi logicamente possibili sullo stesso piano, diventa arduo individuare criteri (logici) che privilegino qualcuno di essi in particolare; nessun abitante d'un mondo possibile potrà avere la presunzione che il riferimento dei suoi concetti (il riferimento adottato in quel mondo particolare) goda di un privilegio speciale. Ad esempio, la convinzione di un abitante della "Terra gemella" di Putnam (vedi sopra, al paragrafo 8), circa il fatto che il riferimento di "acqua" sia XYZ, sarebbe ugualmente legittima della convinzione di un abitante della Terra normale, circa il fatto che il riferimento di "acqua" sia H 2 O. Poste così le cose, sembra esserci una perfetta simmetria intensionale tra la Terra e la Terra gemella; inoltre, se l'abitante di un mondo w 1 concepisce il suo mondo come mondo attuale, egli è legittimato a dire che la sua nozione di necessità a posteriori è diversa da quella che viene asserita nel mondo w 2 . Stante la perfetta simmetria -sul piano logico -di tutti i mondi possibili, avremo anche una perfetta simmetria delle necessità nomologiche, di fronte alla quale nessun mondo potrebbe più dirsi privilegiato (62) .

Ora, malgrado questo ragionamento richiami in qualche modo il "paradosso dei gemelli" di einsteniana memoria, si deve subito dire che esso ha una pecca essenziale, che lo rende immediatamente indigesto per gli stomaci alquanto sensibili degli scettici indagatori. Infatti, non c'è chi non veda che l'argomento di Chalmers si basa fin dall'inizio su una reificazione dei mondi possibili, che vengono messi -solo per questo -tutti su un medesimo piano. Introdurre, per ogni concetto, intensionalità "primarie" -nel senso di Chalmers -corrisponde infatti ad attualizzare mondi che sono solo logicamente possibili (cioè: possibili in senso assai debole), ciò che comporta anche la reificazione di mondi fisicamente impossibili, cosa che francamente non possiamo accettare. Qui, Chalmers sta in effetti "begging the question", come dicono dalle sue parti, perché è proprio sulla realtà dei mondi meramente possibili che si arrovella da almeno trent'anni la discussione in materia, come ora passeremo a vedere. Il salto dalla possibilità all'esistenza -che egli compie in maniera sottile, apparentemente "innocente" e tecnicamente assai elaborata -non gli si può lasciare passare.

Rompicapo

Le difficoltà e le stranezze che abbiamo fino a questo punto illustrato potrebbero spingere qualcuno a porre una domanda assai radicale: perché occuparci dei mondi possibili? Perché complicare la nostra già difficile ontologia, che stenta a dar conto persino del mondo attuale?

La risposta a questa domanda, da parte di chi si è posto filosoficamente il problema è altrettanto semplice e chiara: noi tutti avremmo qualche radicata intuizione del fatto che "le cose sarebbero potute andare diversamente", del fatto che "le cose potrebbero essere diverse da quello che sono"; inoltre, di fronte a noi c'è molto spesso una scelta da compiere, una decisione da prendere, per far sì che "le cose vadano in un certo modo". Dunque, le modalità sarebbero inestricabilmente presenti nel nostro linguaggio e nelle nostre intuizioni. Il filosofo si preoccuperebbe soltanto di rilevare il problema, di metterlo in forma, di avanzare qualche tipo di spiegazione (64) .

Da questa ragionevole considerazione, parte David Lewis, il quale è considerato uno dei capofila del "possibilismo radicale", vista la sua inclinazione a pensare che i mondi possibili esistano alla stessa stregua del mondo attuale. È bene seguire in dettaglio il suo argomento, perché (63) Chalmers [1996], trad. it. p. 62. (64) , p. 30. Per ulteriori aspetti del dibattito sulle modalità, si veda anche Tooley [1999 2 ] Va notato che l'approccio moderno alle modalità, che insiste sull'esistenza di alternative, non si consolida prima del XIV secolo. Knuuttila [1996] rileva quattro paradigmi per la modalità nella filosofia antica: l'interpretazione statistica della modalità (o "interpretazione secondo la frequenza temporale"); il modello della possibilità come potenza; la modalità diacronica (modalità rispetto all'ordine temporale); il modello della possibilità come non contraddizione. Nessuna di queste concezioni era associata all'idea moderna della modalità, che fa appunto riferimento all'occorrere di alternative. La concezione moderna entra nel pensiero filosofico con le discussioni intorno agli attributi di Dio (influenzate da S. Agostino), ma non si afferma prima dei lavori di Duns Scoto. Una evoluzione del genere è del resto segnalata da Prior [1972] (p. 20-21), che ricorda i suoi primi tentativi di affrontare l'argomento "vittorioso" di Diodoro Crono; in quel contesto, Prior esprimeva la possibilità di α come: "è il caso che α o si darà il caso che α" (formalmente: Mα ↔ α∨ Fα, dove M è l'usuale operatore di possibilità e F è l'operatore temporale che esprime un'occorrenza futura). Più in generale, Prior legge in quella prima fase "Mα" come "è stato il caso, o è il caso, o sarà il caso che α". Solo in un secondo momento Prior perviene al superamento di questa stretta connessione tra la possibilità e la temporalità, riferendo la possibilità al mero sussistere di alternative (Prior [1962], trad. it. p. 135). esso è rivelatore di una precisa fallacia, che sembra consentire la derivazione dell'esistenza dalla possibilità, giocando sul ruolo ambiguo di una parafrasi. «Io credo che ci siano mondi possibili diversi da quello che ci capita di abitare. Se è richiesto un argomento, è questo. È inconfutabilmente vero che le cose potrebbero esser diverse da quello che sono. Io credo, e così fate voi, che le cose avrebbero potuto essere differenti in innumerevoli modi. Ma cosa significa questo? Il linguaggio ordinario permette la parafrasi: ci sono molti modi in cui le cose avrebbero potuto essere, al di là di come esse sono attualmente. Ciò posto, questo asserto è una quantificazione esistenziale. L'asserto dice che esistono molte entità che corrispondono ad una certa descrizione, cioè "modi in cui le cose potrebbero essere state". Io credo che le cose avrebbero potuto essere diverse in innumerevoli modi; credo che sia permesso parafrasare ciò che io credo; prendendo la parafrasi nel suo valore diretto, io quindi credo nell'esistenza di entità che possono essere chiamate "modi in cui le cose avrebbe potuto essere". Preferisco chiamarle "mondi possibili"» (65) .

Ci sono molti aspetti che andrebbero posti in questione, in questo argomento. Ad esempio, un conto è dire che "potremmo immaginare che le cose siano diverse da quello che sono", altro è dire che "le cose potrebbero essere diverse da quello che sono": la seconda espressione tende ad reificare una nostra mera credenza, attribuendola al mondo. Ed ancora: un conto è dire che "ci sono modi in cui le cose potrebbero essere state", altro è dire che "esistono molte entità che corrispondono a una certa descrizione"; la seconda espressione è tendenziosa, perché -dietro le vesti innocenti di una mera riformulazione -aggiunge qualche accentuazione ulteriore, trasformando ogni modalità puramente ipotetica in entità effettivamente esistenti. Ma il punto più critico risiede altrove. Attraverso una "innocua" parafrasi Lewis passa da: "io credo che le cose avrebbero potuto …" a: "ci sono molti modi in cui le cose …", cioè passa da una modalità concettuale -che esprimeva la mera credenza che le cose avrebbero potuto essere diverse -ad una ontologizzazione della modalità, attraverso l'introduzione di un quantificatore esistenziale.

A cosa approda una tale ontologizzazione? È stata rivolta a Lewis la critica di sostenere una teoria inconsistente, per il fatto di supporre che esistano oggetti inesistenti. Ma Lewis non si è fatto impressionare da questa considerazione ed ha piuttosto insistito sulle due diverse accezioni con le quali ci si riferisce all'esistenza: "esistere" in senso modale non è "esistere" in senso attuale. Dunque, gli oggetti di cui egli parla sono oggetti attualmente inesistenti, che esistono tuttavia modalmente (66) . Questo modo di porre le cose allontana in effetti Lewis dal possibilismo più estremo e lo avvicina agli "attualisti modali", cioè a quei filosofi come Alvin Plantinga e Robert Stalnaker, i quali ammettono che l'unico mondo esistente sia quello reale, ma non si sentono di rigettare completamente -per il potere euristico e concettuale che ha -il riferimento ai mondi possibili.

Afferma ad esempio Plantinga:

«Ho detto che la concezione canonica dei mondi possibili produce confusioni rispetto alla nozione di oggetti non esistenti. L'ho detto perché credo che non ci sono né potrebbero esserci stati oggetti che non esistono; proprio l'idea di oggetti non esistenti costituisce una confusione; o almeno costituisce nozioni, come i cerchi quadrati, la cui esemplificazione è impossibile» (67) .

La linea di Plantinga è quella di introdurre la nozione di "stati di cose". Invece di parlare di "inesistenza" di un certo stato di cose, si dirà allora semplicemente che non si dà quello stato di cose:

(65) Lewis [1973], p. 84. Lewis [1968].

(67) Plantinga [1976].

possibilità non realizzata non è qualcosa che possiamo significativamente e obiettivamente postulare di un mondo privo di menti» (71) .

Questo riferimento al carattere "ipotetico" degli scenari controfattuali è in effetti ciò che basta alla scienza, senza alcun riferimento alla supposta "realtà" dei mondi possibili. Ma, proprio a questo proposito, non ci sembra che valga la pena di soffermarsi ulteriormente sugli stratagemmi mediante i quali si possono evitare contraddizioni e petizioni di principio nei contesti modali, perché ci preme sottolineare piuttosto un altro aspetto del lavoro di Lewis, che più ci riguarda. Lewis ha maturato il suo realismo modale sulla base di un approccio tutt'altro che metafisico al problema delle leggi scientifiche. La strada che lo porta al realismo dei mondi possibili parte dal problema della natura delle leggi, passa per il problema dei controfattuali, attraversa la questione delle condizioni di variabilità del mondo attuale ed arriva finalmente (mediante la nozione di "somiglianza" tra mondi) all'ontologizzazione delle modalità (72) . In questo contesto, Lewis sottolinea il carattere contingente delle leggi fisiche: «Se chiediamo alla fisica di dirci cosa è possibile, avremmo forse tutti i mondi possibili? O solo i mondi fisicamente possibili, in accordo con la fisica corrente? Più o meno, questa seconda alternativa […] Ma questo non significa dire che dobbiamo inferire dai risultati contingenti dell'investigazione empirica le conclusioni sulle possibilità che ci sono. Significa solo dire che quando troviamo difficile collocare il nostro mondo attuale tra le possibilità che ammettiamo, dobbiamo essere ragionevolmente stimolati a riconsiderare le nostre opinioni modali [...], dobbiamo chiederci se siamo ancora così sicuri, come prima, rispetto alle nostre opinioni modali che si sono rivelate restrittive. È questa riconsiderazione delle opinioni modali che può influenzare la nostra costruzione di mondi surrogati, non il risultato della investigazione empirica in sé. Non abbiamo a che fare con la fisica propriamente detta, ma con la metafisica preliminare trattata dai fisici» (73) . Dunque Lewis sostiene che, se si vuol spiegare l'eccezione a una legge scientifica ed i modi reali di crescita della scienza, si deve necessariamente presupporre un'ontologia allargata, rispetto a quella definita dalle conoscenze attuali.

Ora, qui, si può essere in qualche senso d'accordo che -quando sorge un rompicapo scientifico -la nostra ontologia è per così dire "sospesa" e le nostre opinioni modali tendonotemporaneamente -ad "allargarsi". Però: -se il rompicapo in questione investe un intero paradigma scientifico, siamo allora in presenza di una "rivoluzione" che annulla la visione del mondo vigente e porta alla costituzione di un'ontologia rinnovata; non si danno -per usare il gergo di Lewis -mondi "surrogati", che coesistano con il mondo attuale; il nuovo mondo elimina l'altro. Per dar conto della svolta paradigmatica, basta ammettere che ogni ontologia è puramente ipotetica, soggetta a falsificazioni, senza alcuna reale esigenza di invocare i mondi possibili; -quando il rompicapo scientifico non ha una potenza eversiva, l'ontologia condivisa viene sospesa soltanto in sede locale, dove il rompicapo ha rivelato i suoi segni; non c'è coesistenza di mondi, ma soltanto la sobria constatazione che qualche asserto dell'ontologia deve essere riformulato; -il fatto che un rompicapo scientifico si manifesti soltanto a un certo punto segnala il fatto chefino a quel punto -l'ontologia prevalente non aveva una "grana" così sottile da rilevare il problema; dunque, individuare un rompicapo non comporta necessariamente il passaggio ad un altro "mondo", ma solo un raffinamento di "grana";

(71) Rescher [1973]. Lewis [1973], p. 91.

-l'"allargamento" ontologico che un rompicapo richiede non ha in genere i caratteri di una speculazione teorica condotta in modo "selvaggio", che cominci col demolire i grandi principi e le "certezze" consolidate di sfondo; le nuove congetture sono comunque guidate dall'evidenza sperimentale e dalla struttura del rompicapo in questione, che nascono sempre e comunque dal mondo attuale; -rispetto ai processi di ridefinizione completa delle ontologie e di "moltiplicazione" dei mondi, prevale in genere il processo opposto, che tende a restringere le nostre opinioni modali, via via che costruiamo rappresentazioni del mondo attuale e formuliamo leggi che hanno un dominio più vasto e dettagliato di applicazione; tanto più avanza il terreno coperto dalla legge scientifica, tanto più indietreggia il terreno indeterminato delle possibilità (74) .

Senza l'aura di necessità

La riflessione che è stata svolta nei precedenti paragrafi sembrerebbe portarci alle conclusioni seguenti: quando si applicano le nozioni modali ai fatti del mondo e si vogliono evitare paralogismi, l'unica strada percorribile è quella di affidarsi ai criteri scientifici di nomicità. Potrà dunque sembrare un piccolo colpo di scena apprendere ora che devono essere presi in seria considerazione i rilievi che sono stati avanzati da posizioni empiriste alle "necessità naturali" e, con questo, alla concezione prevalente (che può essere fatta risalire a J.S. Mill) circa le "leggi della natura". Il tema meriterebbe da solo una riflessione profonda (75) ; qui dovremo limitarci ad una sommaria esposizione dei principali aspetti della questione, richiamando in particolare i rilievi sollevati da Bas Van Fraassen.

Secondo Van Fraassen, quella di necessità (empirica) è una nozione derivata: «È necessario che A è detto essere vero se A è implicato da leggi di natura» (76) .

Quanto alla definizione di "legge di natura", essa viene fornita preventivamente, sicché non sembra esserci alcun circolo definitorio tra "legge" e "necessità". Sono "leggi di natura": «il minor numero di proposizioni generali dalle quali tutte le uniformità che esistono nell'universo possono essere inferite deduttivamente […]; asserti descriventi regolarità, comuni a tutte quelle teorie vere che raggiungono la miglior combinazione di semplicità e forza» (77) .

(74) Rosenberg [forthcoming] -cui Chalmers ha voluto esprimere un ringraziamento particolare nella premessa del suo libro -avanza argomenti analoghi a quelli di Lewis, per sostenere la legittimità di mondi nomicamente impossibili. I fisici, egli afferma in sostanza, sono assai più possibilisti dei logici: «E' chiaramente possibile che ci possa essere un mondo il cui spazio abbia una topologia di dieci dimensioni [...] Lungo linee simili, i miei amici fisici concepiscono spesso mondi possibili completamente bizzarri, con ghiribizzi di leggi. Questi mondi non sono nomicamente possibili e mostrano comportamenti che i miei amici probabilmente descrivono in modi che violano la designazione rigida». Anche in questo caso, si può essere genericamente d'accordo con Rosenberg, senza esagerare. Egli ha ragione, quando afferma che le descrizioni dei fisici violano in genere la designazione rigida, perché è vero che i termini fisici designano i loro oggetti -mediante definizioni -solo fino a prova contraria. E' poi indubbio che il lavoro dei fisici consiste nel fornire continuamente nuove ipotesi sui fatti del mondo (ovvero, nel gergo modale: nuove descrizioni di "mondi possibili"); tuttavia queste ipotesi: inglobano in genere l'evidenza corroborante delle leggi note; dove contraddicono leggi note, pretendono di coprire un evidenza maggiore; fissano nuovi criteri di significato fisico e definiscono criteri per la loro di falsificazione; riformulano in tal modo la nomicità, sicché diventano nomicamente possibili (anzi aspirano al rango della necessità); qualora non soddisfino questi criteri, non hanno uno statuto diverso rispetto alla descrizione fantastica degli ircocervi. (75) Tralasciamo, per ovvi motivi di spazio, di considerare gli importanti contributi di Tooley [1977] [1999 1 ], Dretske [1977] e Armstrong [1983], che hanno tentato una difesa della nomicità su base realistiche. Sul punto, si veda anche la sintesi di Boniolo, Vidali [1999], p. 554 sgg., con la quale concordiamo ampiamente. (76) , p. 44. Già a questo punto sorge un primo problema: infatti, la "necessità" viene in questo modo ad essere garantita dall'esistenza di leggi e queste, per definizione, non sono altro che "asserti descriventi regolarità".

Il gergo dei mondi possibili -che Van Fraassen assume temporaneamente, per mostrarne la vacuità -non sposta di una virgola il nocciolo della questione. In questo gergo, la necessità è definita dalla seguente condizione: è necessario che A è detto vero in un mondo x se e solo se A è vero in ogni mondo che è possibile relativamente a x, dove la "possibilità relativa" tra mondi è definita mediante la condizione: il mondo y è possibile relativamente a un mondo x se le leggi di x sono tutte vere in y; dal che si deduce: è necessario che A è vero nel mondo x se e solo se A è implicato dalle leggi di x.

Anche in questo caso, la necessità viene ad essere garantita da "asserti descriventi regolarità", senza ridondanze di mondi.

Ma c'è un argomento ben più sottile, avanzato da Van Fraassen, che ci porta immediatamente nelle braccia di Hume e ci illumina sul significato filosofico più profondo del realismo modale. L'argomento parte dalla domanda: "sotto quali condizioni saremmo disposti a dichiarare che una legge di natura è vera o falsa"? La risposta immediata potrebbe essere: "sulla base dei risultati empirici". Ma, oltre ai casi della accurata corroborazione e della falsificazione -in virtù dei quali la legge potrebbe essere dichiarata rispettivamente "vera" o "falsa" -bisognerebbe considerare anche il caso in cui i risultati empirici (apparentemente corroboranti) siano ininfluenti ai fini della "verità"; questo potrebbe in effetti accadere, se la "legge" non avesse alcun potere normativo nei confronti della "natura": la "legge" sarebbe in questo caso una pura invenzione concettuale, nulla avendo a che fare con il mondo effettivo. Ciò significa: l'asserto sottoposto al controllo non è falsificato perché non è falsificabile; esso parla di cose e caratteristiche che non appartengono al mondo e che il mondo non può dunque falsificare. Un mondo "humiano" -con mere "regolarità" in luogo di "leggi" -sarebbe identico al nostro (78) .

La conclusione di Van Fraassen è dunque che le necessità di cui parla la scienza non hanno uno statuto metafisico particolare, ma esprimono soltanto universali di fatto. C'è un'aggiunta a questa visione, dettata da considerazioni semantiche, che porta Van Fraassen a privilegiare il modello della "simmetria", come "chiave primaria" per la costruzione scientifica del mondo. Noi non lo seguiremo su questa strada e nemmeno approfondiremo il carattere metafisico che il richiamo alla simmetria comporta (se non in Van Fraassen) in alcune teorie cosmologiche, che (77) Ivi,p. 40. (78) Ivi, p. 90: «Ci sono tre possibilità. La prima e che tale legge ci sia (nel nostro mondo); la seconda che tale legge sia violata -ancora nel nostro mondo [...] Ma se questo è tutto, se una violazione nel mondo attuale è l'unico modo in cui una legge possa essere detta falsa, allora la legge potrebbe essere un mera regolarità. Ciò non corrisponde al concetto di legge di natura, sicché dobbiamo aggiungere la terza possibilità, che la legge non sia mai violata attualmente, ma che essa non sia una legge del nostro mondo attuale […] Al limite, questa riflessione diventa: questo mondo può procedere, in tutte le sue occorrenze e attraverso la sua storia, nello stesso modo in cui procede, anche nel caso in cui non ci sia alcuna legge». concepiscono gli asserti fisici universali come teoremi dedotti da una condizione di simmetria originaria e assoluta, approssimativamente identificata come uno stato fisico di "vuoto" (79) .

Ci preme piuttosto ricordare -condividendolo -il rilievo che Van Fraassen muove al realismo modale: «Secondo il mio punto di vista, la storia dei mondi possibili reifica un modello -cioè attribuisce realtà a ciò che è solo un mezzo della rappresentazione» (80) .

Questa reificazione dipenderebbe dal fatto che chi accetta una teoria è in genere propenso a credere che il mondo sia "correttamente rappresentato" da qualche modello di quella teoria ed a pensare che ogni elemento del modello rappresenti qualche parte o aspetto della realtà; ma, in questo modo, «stiamo già a casa dei realisti». Infatti, questa caratterizzazione del rapporto tra il modello e la realtà, che concepisce il modello come una mappatura "corretta" della realtà, identifica modello e realtà, reifica in effetti il modello. Ma: «la reificazione delle alternative possibili non si è mostrata fruttuosa per noi. Essa richiede l'introduzione di relazioni e di funzioni definite su mondi possibili, che: (a) non possono in effetti essere identificate, (b) non sembrano garantire predizioni o aspettative razionali, (c) non sembrano essere esplicative, (d) danno autorità alla pseudo-scienza, (e) ci conducono -c'est le bouquet -ad un eccesso di metafisica» (81) .

Con questo, possiamo ritenere conclusa la nostra riflessione sulle implicazioni metafisiche della nozione di possibilità. Resta però la questione delle "leggi della natura" e della fiducia che in esse possiamo riporre.

Accettare le conclusioni di Van Fraassen (e anche prendere qualche limitata distanza) circa il fatto che siano irreperibili leggi propriamente causali, o esprimenti rapporti di necessità tra gli eventi, è cosa certamente pesante. Significa fare i conti con almeno quattro secoli (o forse con due millenni) di riflessioni sull'argomento. Fortunatamente, non è questo che qui ci si chiede. Noi possiamo apprezzare i rilievi di Van Fraassen, valutarne il peso, e sospendere il nostro giudizio. Infatti, qui ci si chiedeva soltanto di specificare cosa possa mai intendersi per "mondo possibile" e in che termini possa essere specificata tale "possibilità". Avanziamo dunque la tesi che -per quei compiti di produzione e di revisione scientifica che abbiamo sommariamente descritto alla fine del paragrafo 11 e in nota -è sufficiente un contesto humiano. Sospendiamo l'interrogativo metafisico sulla necessità del mondo attuale, tenendo comunque fermo che -nell'ambito delle congetture scientifiche -ogni possibilità deve essere riferita soltanto a ciò che già sappiamo di questo mondo.

Una tesi del genere potrebbe essere qualificata come "estremo attualismo". Chi voglia criticarla, consideri però che essa si presenta come una tesi "minimalista", che dice solo ciò che intanto è legittimo fare, lasciando a un pensiero più forte il peso di asserire di più (82) .

Del resto, il terreno più idoneo per mettere alla prova una tesi non ci sembra quello speculativo; bisogna vedere piuttosto se la tesi ci basta, per affrontare i problemi per i quali essa è stata cercata. Ora, il problema principale dal quale noi siamo partiti, nel ragionare sui mondi possibili, era quello della libertà. Un buon esercizio, a conclusione della nostra fatica, potrebbe essere dunque quello di mettere in gioco lo stesso problema, controllando se esso non sia per caso affrontabile in maniera adeguata con gli attrezzi che abbiamo dichiarato legittimi alla fine del nostro viaggio, che sono quelli dei dati di fatto, delle regolarità naturali e della loro espressione formale, per mezzo di vettori di stato e di equazioni dinamiche.

Con ciò, potremo forse gettare uno sguardo su un'altra questione, che abbiamo lasciato in sospeso fin dal nostro terzo paragrafo: in che modo un approccio di tipo estensionale, che rispetti il postulato di bivalenza, possa dar conto della libertà e delle sue condizioni, del costituirsi concreto delle alternative e del determinarsi degli esiti.

Attrattori

Il problema della libertà, in accezione non metafisica, riguarda il problema delle costrizioni che -eventualmente -possono influenzare l'agire. Per azione "libera", s'intende azione "sotto il controllo dell'agente", ossia "determinata dai suoi desideri, motivi e intenzioni". Per azione "obbligata", s'intende invece azione "sotto il controllo di altri", ossia "determinata dai desideri, motivi e intenzione di altri". In questo modo, la libertà diventa una funzione dei vincoli entro i quali viene effettuata una scelta (83) . Può essere allora posto l'interrogativo: cos'è, propriamente, una "scelta"?

Per chiarezza, vista l'ambiguità che il termine ha nel linguaggio comune, sarà bene distinguere preliminarmente tra le scelte (come atti di scelta) e le possibilità di scelta (cioè il fatto che sussistano varie alternative possibili, le quali richiedono -appunto -un atto di scelta). In questo quadro, la domanda che ora avanziamo riguarda soprattutto gli atti di scelta, le procedure secondo le quali una scelta viene compiuta (84) . Che una tale interrogativo abbia un senso, entro un quadro di riflessione scientifica (nonostante la pesante tradizione teologica che pesa sulla questione, e che tende a privilegiarne l'aspetto morale), si può ammettere senza problemi. È ad esempio tipico delle equazioni dinamiche dei sistemi complessi il fatto che esse diano luogo a una pluralità di soluzioni alternative, ognuna delle quali costituisce una evoluzione possibile del sistema analizzato. Nello spazio astratto delle sue configurazioni, il sistema si trova allora in un punto singolare, da cui si dipartono una pluralità di "traiettorie". Queste soluzioni alternative si presentano come "attrattori" del sistema, nell'intorno della sua situazione attuale.

Va però precisato che qui, per "sistema", non s'intende soltanto la classe delle condizioni oggettive che caratterizzano un certo problema e rispetto alle quali il soggetto è posto in una posizione distinta, dalla quale egli matura la sua decisione. Al contrario, perché la formulazione del problema sia completa e sia dunque possibile spiegare la decisione, per "sistema" qui deve intendersi l'insieme delle equazioni che descrivono le condizioni "soggettive" ed "oggettive" del caso in esame, cioè l'insieme delle proprietà attribuibili sia all'individuo che al suo "ambiente", allo zero assoluto, irraggiungibile, il sistema sarebbe immune da impercettibili fluttuazioni stocastiche). Per altri versi, la specificazione analitica delle condizioni di ogni sistema è limitata dalla restrizione relativistica sulla velocità della luce, che impedisce in linea di principio di osservare (istantaneamente) quegli eventi che si svolgono ad una distanza finita dal sistema e che potrebbero condizionarne l'evoluzione futura. Qui, l'indeterminatezza dell'evoluzione emerge da limitazioni di carattere fisico, difficilmente collegabili -ancora una volta -al tema della libertà.

iii. Si danno condizioni prevalenti osservabili, ma esse sono ignote al soggetto che sceglie. Qui, l'ignoranza non è essenziale, ma solo accidentale. Può trattarsi di condizioni inconsce o semplicemente non conosciute, pertinenti al soggetto o all'oggetto della sua scelta, le quali non possono essere inserite dal soggetto (in quanto a lui ignote) in una descrizione consapevole del problema e che, tuttavia, determinano (oggettivamente) la prevalenza di un certo attrattore. Qui, c'è forse spazio per una distinzione tra "inclinazioni" e calcolo, posto che certe pulsione caratteriali del soggetto (o certe condizioni richieste dal calcolo) siano a lui ignote, oppure conosciute in modo imperfetto. In questo caso, sembra in qualche modo legittimo parlare di "responsabilità", pur essendo assai arduo evocare la libertà. L'imprevedibilità dell'esito è infatti di tipo epistemico (laplaciano), mentre l'evoluzione del sistema è oggettivamente determinata.

iv. Si danno condizioni prevalenti, note ma non calcolabili. È il caso in cui il tempo di calcolo eccede il tempo a disposizione per effettuare la scelta; il soggetto si affida ad euristiche, si fa trascinare dal prevalere di certe "inclinazioni" e di consolidate abitudini, o effettua un troncamento nella sua riflessione e decide sulla base di risultati parziali. È forse il caso più ricorrente nella vita di tutti i giorni, quando decidiamo d'impulso, senza compiere una reale scansione di tutte le alternative possibili, di tutti gli elementi a favore e di quelli contrari. È il caso su cui insiste Antonio Damasio (89) , che ritiene determinante il fattore emotivo e la reazione immediata, rispetto alla freddezza razionale del calcolo, fonte di stallo e di indecisione. Anche qui, c'è forse spazio per qualche responsabilità del soggetto, pur restando assai arduo il riferimento alla libertà.

v. Tutte le condizioni sono note, calcolabili e calcolate. L'evoluzione è completamente determinata e non si danno allora -propriamente -questioni di scelta. La scelta, come nelle teorie formali dei giochi e delle decisioni, è un puro calcolo, consiste nella ricerca di un valore massimo locale, data una certa funzione di utilità. È assai dubbio che, nel mondo concreto, tale eventualità possa essere mai perfettamente realizzata (90) .

In conclusione: qualsiasi riferimento alla "libertà dell'individuo" (intesa come elemento primitivo e irriducibile che, una volta considerate le alternative, consente una scelta "arbitraria") rinvia necessariamente all'idea di un "teatro cartesiano", cioè all'idea che ci sia un qualche omuncolo, un qualche "autore centrale" (per dirla con Daniel Dennett (91) ) che stia lì a considerareda una posizione assolutamente distinta e privilegiata -un mondo ed un corpo (il proprio corpo),