Academia.eduAcademia.edu

Eraldo Affinati: dal 'campo del sangue' alla questione umana

“Credo che Auschwitz chiami in causa il futuro, ancor più del passato”. Eraldo Affinati sancisce così la necessità di rievocare una delle più grandi tragedie del Novecento quale monito per le nuove generazioni, perpetuando l’invito di Primo Levi ad intendere la storia dei campi di sterminio come un “sinistro segnale di pericolo”. Come avviene in Affinati la consegna del testimone del ricordo?Quale percorso distingue uno scrittore testimone indiretto dai superstiti che hanno narrato la loro personale tragedia? Quali sono le strategie adottate da Affinati per evitare che la memoria si perda nell’assuefazione al dolore, fenomeno sempre più ordinario al giorno d’oggi? A questi interrogativi tenta di rispondere il presente saggio. All'analisi "Campo del sangue", seguirà una riflessione di natura filosofica e socio-antropologica, che, attingendo da Jean Baudrillard, Hannah Arendt, Enzo Traverso e Annette Wieviorka tra gli altri, consentirà di rilevare l’impatto che l’evento concentrazionario sortisce nella società attuale e, soprattutto, le contromisure da adottare affinché, come paventa Baudrillard, la commemorazione non si opponga alla memoria.

RICCIARDI, Stefania. ‘Eraldo Affinati: dal ‘campo del sangue’ alla questione umana’. Memoria collettiva e memoria privata: il ricordo della Shoah come politica sociale, a cura di Stefania Lucamante, Monica Jansen, Raniero Speelman & Silvia Gaiga. ITALIANISTICA ULTRAIECTINA 3. Utrecht: Igitur, Utrecht Publishing & Archiving Services, 2008. ISBN 9789067010245. RIASSUNTO “Credo che Auschwitz chiami in causa il futuro, ancor più del passato”. Eraldo Affinati sancisce così la necessità di rievocare una delle più grandi tragedie del Novecento quale monito per le nuove generazioni, perpetuando l’invito di Primo Levi ad intendere la storia dei campi di sterminio come un “sinistro segnale di pericolo”. Se è vero che non esistono ‘mostri’, ma che tutti siamo potenziali carnefici, è allora necessario disattivare quell’interruttore alimentato dai focolai di violenza presenti della nostra società, dove i germi dell’odio razziale e dell’antisemitismo continuano a proliferare nel contesto multietnico e globalizzato in cui viviamo. Come avviene allora in Affinati la consegna del testimone del ricordo? Quale percorso distingue uno scrittore testimone indiretto dai superstiti che hanno narrato la loro personale tragedia? Quali sono le strategie adottate da Affinati per evitare che la memoria si perda nell’assuefazione al dolore, fenomeno sempre più ordinario al giorno d’oggi? A questi interrogativi risponde il saggio che analizza Campo del sangue senza tralasciare Un teologo contro Hitler, opera che conferma l’ossessione dell’autore per il nazismo. Lo studio si snoda lungo una duplice pista: all’approccio letterario, volto a situare l’opera di Affinati all’intersezione tra fiction e non fiction, terreno particolarmente fecondo della narrativa contemporanea, seguirà una riflessione di natura filosofica e socio-antropologica che, attingendo da Jean Baudrillard, Hannah Arendt, Enzo Traverso e Annette Wieviorka tra gli altri, ci consentirà di rilevare l’impatto che l’evento concentrazionario sortisce nella società attuale e, soprattutto, le contromisure da adottare affinché, come paventa Baudrillard, la commemorazione non si opponga alla memoria. PAROLE CHIAVE Affinati, Baudrillard, testimonianza, memoria analogica, testimone-reduce © Gli autori Gli atti del convegno Memoria collettiva e memoria privata: il ricordo della Shoah come politica sociale (Roma, 6-7 giugno 2007) sono il volume 3 della collana ITALIANISTICA ULTRAIECTINA. STUDIES IN ITALIAN LANGUAGE AND CULTURE, pubblicata da Igitur, Utrecht Publishing & Archiving Services, ISSN 1874-9577. (http://www.italianisticaultraiectina.org). 123 ERALDO AFFINATI DAL ‘CAMPO DEL SANGUE’ ALLA QUESTIONE UMANA Stefania Ricciardi ISTI-HEB Institut Supérieur de Traducteurs et Interprètes de la Haute Ecole de Bruxelles La commémoration s’oppose à la mémoire: elle se fait en temps réel et, du coup, l’événement devient de moins en moins réel et historique, de plus en plus irréel et mythique. 1 (Jean Baudrillard) Il 17 febbraio 2005, esattamente venti giorni dopo il sessantesimo anniversario della liberazione dei prigionieri di Auschwitz ad opera dell’Armata Rossa, il quotidiano francese Libération riporta queste parole di Jean Baudrillard che paventano un rischio non indifferente ed invitano a riflettere sulle modalità del fare memoria. Nel caso specifico della Shoah, trarre da questa immane tragedia gli elementi per una politica sociale significa confrontarsi con l’eventualità che il genocidio degli ebrei risulti oggi “sempre meno reale e storico e sempre più irreale e mitico”. Tra gli scrittori che nell’ultimo decennio hanno affrontato l’argomento, Eraldo Affinati, romano, classe 1956, ci sembra scongiurare decisamente questo rischio, come tenteremo di mostrare attraverso l’analisi del suo Campo del sangue, soffermandoci sui perni del racconto: gli scatti analogici, la condizione del reduce e la consegna del testimone del ricordo, con particolare attenzione alle strategie adottate per evitare che la memoria si perda nell’assuefazione al dolore. Prima di addentrarci nello studio del testo, è opportuno delinearne i contorni per una visione globale. Definito da Roberto Carnero come “una delle opere di maggiore impegno etico e intensità lirica degli ultimi anni” (Carnero 2001-2002, 236), questo libro di quasi centottanta pagine è il resoconto del viaggio da Venezia ad Auschwitz compiuto dall’autore insieme a Plinio Perilli, un amico poeta. Un viaggio “sulle orme vere o presunte delle vittime e dei carnefici”, come recita il risvolto di copertina, un viaggio dettato dall’esigenza di solcare la storia familiare (la madre scampata di fortuna alla deportazione e il nonno materno fucilato dai nazisti), intersecandola con quella di coloro che hanno testimoniato sulla pagina scritta la propria agghiacciante vicenda. Ed è questa presenza costante nell’arco del racconto a mostrare l’“ossessione conoscitiva” (Affinati 1998, 17) dell’autore che lo ha condotto a divorare negli ultimi anni una quantità considerevole di libri sulla Shoah, indicati in parte nell’elenco di una decina di pagine considerato “un fermo-immagine” (10) del percorso fisico e 124 conoscitivo da lui compiuto più che uno strumento bibliografico. Tra i cronisti del massacro, sono citati Primo Levi, Jean Améry e Tadeuz Borowsky ma anche Robert Antelme, Jorge Semprun ed Elie Wiesel. E poi scrittori estranei ai campi di sterminio – Albert Camus, Georges Bataille, Edoardo Albinati tra gli altri – per alcune riflessioni particolarmente pregnanti sulla natura umana, a riprova del taglio antropologico impresso all’opera sul quale torneremo in seguito. La progressione narrativa si snoda tra situazioni di viaggio, vicende familiari, riflessioni a sfondo etico, politico e religioso accostate alle testimonianze degli scrittori. Il tono alterna accenti saggistici, lirici – “Io cerco le lapidi. Soltanto quelle. Sono un cane che scodinzola tra le croci: annuso le croste” (Affinati 1998, 69), aforistici – “Primo insegnamento: non bisogna credere che sia possibile distinguere, dentro o fuori di noi, la verità dall’errore” (21) e di confessione in presa diretta – “Sento che il viaggio sta prendendo la piega giusta, avverto la sua necessità” (93). La forma è solo allusivamente diaristica: sebbene la ‘Premessa’ annunci un diario di viaggio (9), in realtà non sono le indicazioni cronologiche a intitolare i venti capitoli che scandiscono le tappe quotidiane, ma espressioni di stampo mazziniano (‘Pensiero e azione’) o orwelliano (‘The Big Brother’);2 evangelico (‘Le perle ai porci’; ‘Campo del sangue’) e fiabesco (‘Il paese delle cicogne’) o suggerite dalla pura contingenza (‘La zuppa è bollente’; ‘Sudato e loico’ tra gli altri). L’unico indizio temporale riguarda il ritorno, avvenuto nel luglio 1995, e lo si coglie ancora dalla ‘Premessa’, datata 21 febbraio 1996. Non è da escludere che l’autore desideri deviare l’ottica da implicazioni autobiografiche, quindi personali, ricorrendo a una modalità narrativa che al contrario universalizza l’esperienza narrata. Perché Auschwitz e perché andarci per gran parte a piedi se non “con mezzi un poco al di sotto del bisogno” (Affinati 1998, 9)? LA MEMORIA ANALOGICA Una risposta plausibile potrebbe fornirla questa osservazione di Alberto Casadei: “La ragione del viaggio si coglie mettendo in cortocircuito eventi lontani e realtà personali interne” (2007, 220). Un esempio di tale meccanismo è offerto dal brano seguente, tratto dalle pagine finali: Quando già le tenebre rischiavano di avvolgermi, alcune immagini si sono incrociate tra loro, nella tipica scarica elettrica degli attacchi febbrili, come un montaggio affrettato: ho riconosciuto mio nonno, nel momento in cui fu raggiunto dalla sventagliata di mitra, mia madre, mentre di corsa fuggiva fuori dalla stazione di Udine, gli scrittori suicidi, tutti i fucilati, i gassati e quei milioni di cadaveri bruciati le cui ceneri ricadevano sulle foglie degli alberi circostanti. (Affinati 1998, 164) Auschwitz non è un concetto astratto appreso sui libri, ma una spia in perenne posizione di attesa, pronta ad uscire dal suo standby non appena si riattiva lo schermo del ricordo. Un libro sul tema o le situazioni fortuite del viaggio fanno scattare questa memoria analogica: è sufficiente portare alle labbra un cucchiaio di 125 minestra per associarvi il passo in cui Robert Antelme si descrive intento a mangiare fino in fondo una zuppa bollente che gli congestiona il viso (Affinati 1998, 93). L’impianto narrativo è costruito su una successione continua tra racconto contingente e quello sulla Shoah che spiega anche la modalità del percorso. Difatti, la spinta per “risalire la corrente del sangue”3 riesce ad attualizzare situazioni cronologicamente estranee alla vita dell’autore, che rallenta l’andatura per recuperare di giorno in giorno il ritardo sul non vissuto. A ben guardare, questa scelta non è scevra di effetti tecnici: Affinati intende conquistare il contenuto del racconto prima ancora di narrarlo,4 e non a caso il libro si apre con un verbo al futuro che esprime il vantaggio del narratore onnisciente sulla materia narrata: “Tornerò da Auschwitz ritrovando, ancora una volta, la condizione spirituale che riconosco mia: quella del reduce” (11). Quest’affermazione funge anche da espediente narratologico: sin dall’incipit, l’attenzione del lettore, concentrata d’istinto sul raggiungimento della meta, è dirottata sul ritorno, a conferma che il culmine dell’esperienza non riguarda il contatto fisico con Auschwitz, ma l’immensa cassa di risonanza di cui l’individuo si fa carico in quel luogo.5 Perché da questo viaggio è impossibile tornare a mani vuote: “hai ricevuto il tuo testimone, non ti resta che consegnarlo a qualcuno capace di proseguire la corsa” (87). L’immagine della staffetta mostra anche l’idea di coralità che permea l’intera opera: il compagno di viaggio e gli autori citati scortano Affinati lungo un crinale che è essenzialmente solitario, laddove l’individuo cerca di metabolizzare nel suo intimo anni di letture e di ricerche per giungere pronto all’appuntamento, pronto ad impregnarsi di ogni essenza per poi emanarla a sua volta. La consegna del testimone costituisce il coronamento di questo percorso in cui l’autore, lungi dal ricoprire il ruolo di protagonista assoluto, è il semplice anello di una catena cominciata prima di lui e destinata a continuare. Si spiega in tal senso l’attenzione verso i giovani, alimentata dal contatto diretto che la professione di docente nelle scuole superiori gli permette di stabilire nel quotidiano, e mostrata a più riprese in Campo del sangue, come ad esempio durante la visita ad Auschwitz: La guida tedesca spiega ai ragazzi il funzionamento delle camere a gas. Pedino il gruppo nelle stanze della baracca in cui siamo, come un detective introspettivo. M’interessa la reazione degli adolescenti. (Affinati 1998, 150) Analizzare il contraccolpo, l’effetto, l’impatto di una situazione costituisce una costante nell’opera di Affinati. È il movente che lo spinge ad intavolare qualche scambio di battute con un gruppetto di liceali di Bordeaux con i quali si era casualmente trovato ad assistere al processo Papon6 in uno dei numerosi viaggi di natura antropologico-documentaria. L’approccio con le generazioni future non è fatto solo di entusiasmo e curiosità, ma riserva anche una buona dose di apprensione, come testimonia il commento dell’autore nei confronti di alcuni ragazzi polacchi incontrati nei pressi del campo di Auschwitz: “Guardo questi giovani con l’ammirazione dolorosa che generalmente riservo agli spettacoli della natura” (146). 126 Affinati è consapevole che essi incarnano al tempo stesso la garanzia della testimonianza e la propaggine umana recante i sintomi delle tragedie che non ha vissuto. L’inesperienza della guerra, della bomba atomica, dei campi di sterminio, del totalitarismo da un lato, e la volontà di raccontare queste catastrofi umane del Novecento dall’altro rappresenta una delle questioni letterarie più dibattute.7 Leggiamo in Campo del sangue: “si può parlare di Auschwitz senza averlo vissuto, si può interiorizzare una situazione, si può empatizzare” (93). Osserviamo come. REDUCE E TESTIMONE Affinati torna da Auschwitz senza averci sperimentato la deportazione. Il suo viaggio “nella matrice delle testimonianze” (Affinati 1998, 13) ha fatto di lui il modello – ci si consenta il corsivo – solo “teorico del deportato” (13). Dunque, la sua condizione di reduce si trova ad autenticare un’esperienza non conforme all’originale, una incongruità che nemmeno una vita di letture a tema può annullare. Come altri scrittori della sua generazione che hanno fatto dell’evento concentrazionario il fulcro di alcune loro opere,8 Affinati alimenta una serie di interrogativi legittimi: cosa si può dire che non sia già stato detto? E soprattutto, cosa potrebbe aggiungere uno scrittore non testimone? Se si considera il termine latino di superstes non nell’accezione più corrente di superstite, bensì in quella di colui che, avendo vissuto qualcosa può fornirne il resoconto, sembrerebbe evidente che la testimonianza indiretta non possa in nessun modo competere con quella diretta. Eppure, se si approfondisce il concetto, si comprende l’opinabilità di queste conclusioni. Quando Primo Levi definisce i superstiti come pseudo-testimoni – perché, essendo scampati alla morte, testimoniano una testimonianza mancante – e proclama testimone integrale il ‘musulmano’, vale a dire l’uomo disumanizzato, il non uomo, ci troviamo di fronte a un paradosso: il ‘salvato’ è in grado di parlare ma è inattendibile, mentre il ‘sommerso’ sarebbe attendibile ma non può parlare. Scrive ancora Levi: “[…] noi parliamo al posto loro, per delega” (Levi in Agamben 1999, 158), avvalorando quindi una tesi desoggettivizzante, dal momento che il superstite testimonia non per proprio conto ma per conto altrui, del ‘musulmano’ nella fattispecie. Come ha notato Giorgio Agamben,9 se ci si attiene al principio giuridico in base al quale gli atti del delegato sono imputati al delegante, è allora il ‘musulmano’ a testimoniare. E se il non uomo testimonia l’uomo, con tutta evidenza l’uomo non è stato completamente distrutto. L’impossibilità di questa distruzione integrale conduce Agamben a considerare il testimone come ciò che resta dallo scarto tra uomo e non uomo, precisando che la testimonianza è sempre l’atto di un autore, e suppone sempre una dualità essenziale in cui si integra e si fa valere un’insufficienza, un’incapacità (Agamben 1999, 198). Sempre secondo Agamben, tale incapacità non inficia il valore della testimonianza, poiché essa non garantisce la verità fattuale dell’enunciato conservato in archivio, ma la sua inarchiviabilità (208). In pratica, l’esito etico della 127 testimonianza non si realizza nella conformità tra parole e fatti, ma nella garanzia che quelle parole e quei fatti non saranno dimenticati (31). Lo scrittore non testimone si inscrive esattamente nella sfera del recupero della memoria intesa non in senso retorico, come recupero della coscienza, bensì come “momento della responsabilità”10 che, secondo Affinati, dovrebbe essere concepita in modo pre-giuridico, pre-morale: “Proprio i Lager ci hanno insegnato quello che già Dostoevskij aveva compreso: si è responsabili dello sguardo altrui ed è questo, in buona sostanza, ciò che ci distingue dagli animali”.11 LE CONSEGUENZE ETICHE Alla soglia delle cento pagine, con Auschwitz in dirittura d’arrivo, il racconto registra una svolta significativa. Sulla collina di Slavín a Bratislava, dinanzi al monumento ai seimila soldati sovietici caduti nell’ultima battaglia che ha liberato la Slovacchia dai nazisti, lo scrittore realizza la portata dei massacri del Novecento e, al contempo, la fine del “secolo più violento della storia” (Wiesel in Semprun & Wiesel 1995, 23). Il sollievo per questa pagina voltata è proporzionale alla sconcertante consapevolezza della sua indelebilità etica. Ecco affiorare nella mente dell’autore una lunga serie di gesti estremi compiuti nello stesso secolo, e il diario di viaggio conosce una pausa digressiva di una decina di pagine, la più lunga dell’opera, destinata all’evocazione di suicidi descritti con dovizia di particolari (luogo, data, modalità). Si muore in nome dell’arte (Marina Cvetaeva, Pierre Drieu La Rochelle, Cesare Pavese, Stig Dagerman, Ernest Hemingway, Paul Celan e Yukio Mishima), della vita (Majakovskij), senza invocare nessuna causa particolare, come Sylvia Plath, Amelia Rosselli, Jerzy Kosinski, Jean Améry e Primo Levi tra i tanti citati. Affinati s’interroga a più riprese sul nesso tra il suo viaggio e queste soluzioni definitive. Tra le idee che si profilano, una è quella che il suicidio del sopravvissuto ai campi non è così diverso da quello di chi è estraneo all’esperienza concentrazionaria, perché questi gesti sarebbero tutti il prodotto autentico della civiltà occidentale,12 come sostengono negli stessi anni il saggista americano Dwight MacDonald e, sul versante francese, la voce isolata di Albert Camus (Traverso 1997, 33). Affinati assume posizioni più prudenti: per lui potrebbe trattarsi “soltanto di movimenti residui presenti nell’energia collettiva” (1998, 113), mentre Imre Kertész si pronuncia essenzialmente sulle conseguenze del genocidio ebraico: L’Olocausto è riuscito a raggiungere le sue vittime non solo nei campi di sterminio, ma anche dopo, a distanza di decenni. Come se la liberazione dei lager avesse solo rimandato la condanna definitiva, eseguita poi dai condannati a morte con le proprie mani: così si suicidarono Paul Celan, Tadeusz Borowski, Jean Améry e lo stesso Primo Levi, che nelle sue lettere aperte aveva polemizzato con l’esistenzialismo radicale di Améry. (Kertész 2007, 80) Lo scrittore ungherese premio Nobel 2002 afferma di essere scampato al proprio suicidio perché il regime totalitario della società in cui vive ha assicurato la continuità della sua vita da prigioniero, preservandolo dall’“onda anomala della 128 delusione” che ha iniziato a travolgere le persone con ricordi simili “ai suoi che vivevano in società più liberali e inutilmente acceleravano il passo davanti all’onda” (Kertész 2007, 215). Se non è stato il vagheggiamento di una libertà irraggiungibile a completare l’opera del nazismo, viene effettivamente da immaginare che esso abbia iniettato una sostanza letale a rilascio lento nel corpo dei sopravvissuti. Ma il discorso di Affinati è più ampio, dal momento che a questi suicidi ne associa altri privi di attinenza con la vicenda ebraica. Si può supporre che il monumento ai seimila soldati sovietici abbia innescato la consapevolezza di altri ‘campi del sangue’ disseminati lungo il Novecento dei quali Auschwitz è il più eloquente, ma non il solo su cui riflettere per evitare spargimenti di sangue futuri. È opportuno allora soffermarsi sulla causa scatenante per poterne cogliere l’elevata incidenza sull’intera opera: Ora posso dirlo: sulla collina di Bratislava ho visto il sangue incrostato delle generazioni dei nostri padri; di fronte a loro, a qualsiasi schieramento appartenessero, mi sono idealmente tolto il cappello. Nel silenzio e nel caldo di Slavín, in anticipo sulla visita che, di lì a poco, avrei compiuto ad Auschwitz, le due grandi dittature del secolo per un attimo si sono rialzate come fantasmagoriche quinte a dirmi che il Novecento, questo secolo paralizzato dalla propria lucidità, era finalmente finito. (Affinati 1998, 99) L’onda d’urto provocata dalla duplice visione deborda in tutta la sua violenza, riversando nell’animo dell’autore quei detriti che lo accompagneranno fino alle ultime righe: “Ho pensato: questo è il corpo del Novecento, il campo del sangue, il vero giardino di pietra del tempo che abbiamo vissuto” (166). L’opera si chiude su questa riflessione che condensa nella forma e nel fondo l’estratto appena citato. Cominciamo con l’osservare l’identica struttura degli enunciati: l’inizio è dato dall’esternazione di un pensiero intimo che irrompe in maniera decisamente più perentoria nel primo, dove l’espressione “ora posso dirlo” rappresenta un atto liberatorio. Rotti gli argini, il flusso del racconto si placa nella progressione narrativa, fino a disseccarsi nelle tre immagini strazianti che concludono il testo. Si noti inoltre come in entrambi i casi la riflessione si articoli intorno a due elementi che, inizialmente distinti, finiscono per fondersi. Se il Novecento è visto dapprima come l’emblema di due regimi sanguinari, nelle righe finali si passa dalla similitudine all’identificazione metaforica: il “secolo paralizzato dalla propria lucidità” è diventato corpo di membra dissolte in cui pulsa “il sangue incrostato” dei padri. Da qui scaturiscono ulteriori constatazioni. Anzitutto, corpo e sangue rinviano anche al sacrificio eucaristico di Cristo, riconducibile all’accezione filologicamente inesatta ma corrente di Olocausto come sacrificio supremo,13 nonché sinonimo per antonomasia dello sterminio degli ebrei. Inoltre, restando in ambito religioso, l’espressione ‘campo di sangue’ è citata nel Vangelo secondo Matteo per indicare il campo comprato con il ricavato del tradimento di Giuda14 e dunque assimilabile ad Auschwitz in quanto prezzo di sangue.15 Si osservi tuttavia che l’espressione non sottende le implicazioni di colpa presenti nella citazione evangelica: laddove si può identificare in Giuda l’unico responsabile, il testo di Affinati esula dall’ambito del 129 diritto per inscriversi esclusivamente in quello dell’etica. Come precisa Agamben, l’etica è la sfera che non conosce né colpa né responsabilità, vale a dire i due risvolti dell’imputabilità penale (1999, 23). L’approccio di Affinati si colloca all’intersezione alquanto vaga tra bene e male. Esemplare in tal senso il parallelismo tra due figure apparentemente inaccostabili: la statua di Padre Massimiliano Kolbe nella nicchia del colonnato esterno della chiesa dei Francescani richiama alla memoria dell’autore la vicenda di Elsa Krug, un’ex prostituta. Se il sacerdote polacco si è immolato al posto di un condannato perché non venisse a mancare alla moglie e ai figli, Elsa Krug, detenuta nel Lager femminile di Ravensbrück, ha sancito la propria condanna con un gesto d’insubordinazione, quello di rifiutarsi di bastonare una detenuta, pur essendo lei specializzata nella clientela masochista e dunque – come ricorda Affinati – “abituata a picchiare chi lo chiedeva” (Affinati 1998, 74). Eticamente, la vita di un sacerdote può non essere così distante da quella di una prostituta. Se esiste una ‘zona grigia’ nell’eroismo, essa può esistere anche negli atti più biechi. Questo nuovo elemento etico scoperto da Primo Levi ad Auschwitz isola un materiale refrattario ad ogni stabilimento di responsabilità e trova la sua incarnazione nelle squadre speciali del Sonderkommando, quei gruppi di deportati chiamati a gestire le camere a gas e i forni crematori. Il carnefice e la vittima sono legati. Spesso i ruoli s’invertono e il boia diventa a sua volta vittima di un ingranaggio che sfugge al suo controllo.16 Auschwitz è il luogo in cui l’ebreo si trasforma in ‘musulmano’, l’uomo in non uomo, e questo processo di disfacimento costituisce l’interesse principale di Affinati. Non a caso, il primo fantasma del Lager che incrocia, seduto ai tavolini di un bar nella tappa iniziale a San Donà del Piave, è la figura del ‘Muselmann’ nella terrificante citazione di Wolfgang Sofsky. Dopo che per anni si è guardato in prevalenza alle cause storiche della Shoah, oggi peraltro sufficientemente note, ci si volge verso la comprensione umana del fatto, cioè la sua attualità. Ed è in questa direzione che Campo del sangue raggiunge gli esiti più fecondi. LA QUESTIONE UMANA Ho cercato di andare ad Auschwitz secondo motivazioni antropologiche, per scoprire la natura dell’uomo, come reagisce l’uomo di fronte a condizioni estreme […]. Quindi è un libro su Auschwitz ma in fondo è un libro sull’uomo, sulla specie umana, per citare il titolo di un celebre romanzo di Robert Antelme.17 Cinquant’anni dopo, Affinati va a scavare nel solco aperto da Primo Levi e Robert Antelme, le cui opere, entrambe del 1947, pongono l’accento sull’uomo sin dal titolo. La maggiore sintonia con il testo di Antelme si coglie anzitutto negli squarci di ottimismo che da esso trapelano. La “revendication biologique”18 di appartenenza alla stessa specie espressa dall’autore francese mostra palesi assonanze, non solo lessicali, con il “bosco biologico” (Affinati 1998, 150) cui allude Affinati, l’“ancestrale 130 patrimonio” (151) comune del quale rimarrà almeno un frammento a garantire l’integrità dell’uomo. Scrivendo che il nazismo, nonostante gli sforzi, non era riuscito a modificare la natura profonda dell’essere umano, Antelme fu considerato portatore di un messaggio di speranza nel clima del dopoguerra, tanto da indurre Dyonis Mascolo a trarne risvolti politici positivi.19 In realtà la sua opera è spietata, sia nell’idea ricorrente di odio verso i carnefici sia nella scelta di un linguaggio crudo, essenziale, reciso dall’esperienza a caro prezzo e per questo improponibile una seconda volta. Difatti, L’espèce humaine è l’unico libro di Antelme, quello che segna al contempo la rinascita dell’uomo e l’esaurimento della scrittura. Nella lettera a Dyonis Mascolo del 21 giugno 1945, Antelme testimonia la propria sopravvivenza come “la naissance d’un autre homme, à lui-même inconnu, le même devenu autre”,20 sensazione non estranea al reduce del ‘campo del sangue’, che tuttavia completerà proprio attraverso la scrittura – pensiamo in particolare a Un teologo contro Hitler – l’esperienza di profondo rinnovamento interiore che gli permette di attualizzare il passato in una dimensione carica di valori umani personali e universali, come testimoniano le righe finali del saggio appena citato: Dietrich Bonhoeffer mi ha insegnato la qualità dell’impegno quotidiano, l’importanza del lavoro che abbiamo scelto, l’umiltà del confronto e la difesa della dialettica […] Grazie a lui ho riparlato, ancora una volta, con mio nonno, fucilato da un camerata di Eberhard Betge [biografo di Bonhoeffer] e, nello stesso tempo, ho stretto la mano alla Germania. (Affinati 2002, 163) La rinascita umana di Affinati, meno esplicita e fisica rispetto a quella di Antelme ma non per questo meno evidente ed incisiva, evidenzia il superamento di radicati pregiudizi. Senza volerle attribuire valenze etiche o religiose, la sua azione è rilevante perché riesce a cancellare quel sentimento di odio nei confronti del boia, talvolta esteso all’intero popolo tedesco, pienamente legittimato ne L’espèce humaine e in altri testi sulla Shoah. Il testimone del ricordo consegnato al lettore reca impressa la visione del nazismo come strumento di conoscenza dell’uomo e della ‘banalità del male’, che non è solo fabbricazione di cadaveri. Come la stessa Hanna Arendt ha sottolineato, lo sterminio industriale non nasce dal deragliamento eccezionale del singolo, ma dalla normalità dell’uomo, dall’individuo comune fragilmente e repentinamente in bilico tra eroismo e malvagità. Conoscere la natura umana nelle reazioni entrambe disumane di chi cerca di sopravvivere al proprio annientamento da un lato e di chi questo annientamento lo attua in modo freddo e meccanico dall’altro aiuta a comprendere che lo sterminio di un intero popolo non è il frutto di un conflitto ebraico-tedesco, ma di un trauma della ragione annunciato. Certi “sinistri segnali di pericolo”, per dirla con Primo Levi, sono tuttora in agguato, basti pensare al numero crescente di focolai di violenza, di fatti riprovevoli spesso inspiegabili presenti nella nostra società, dove i germi dell’odio razziale e dell’antisemitismo continuano a proliferare nel contesto multietnico e globalizzato in cui viviamo. Non è un caso se nelle opere di Imre Kertész l’Olocausto non è mai 131 potuto apparire al passato21 e se nel discorso di Stoccolma in occasione del conferimento del premio Nobel lo scrittore si è espresso in questi termini: Quando rifletto sull’effetto traumatico di Auschwitz, mi sembra di tornare ai quesiti fondamentali sulla vitalità e creatività dell’uomo di oggi, e riflettendo in questo modo su Auschwitz forse in modo paradossale medito piuttosto sul futuro che sul passato. (Kertész 2007, 260) Eppure, il Novecento ha coniugato la Shoah al passato remoto. Per quanto le ragioni di questa incongruenza di tempi siano note, ci si interroga ancora sul perché la memoria di Auschwitz abbia stentato ovunque a farsi conoscere. In Italia, come ha osservato Alberto Cavaglion,22 il vuoto più grave si attesta per un buon trentennio dopo il 1961, data del processo Eichmann che segna la diffusione pressoché mondiale dell’evento. Al contrario, dagli anni Novanta si registra un ‘pieno’, fino all’istituzione della Giornata della Memoria celebrata il 27 gennaio. Come definire questo improvviso riflusso? Spettacolarizzazione mediatica, risveglio delle coscienze o sintomo di una nuova percezione dell’evento? Indubbiamente, come sostiene Jorge Semprun,23 siamo davanti all’urgenza della fine: presto gli ultimi sopravvissuti scompariranno, e il timore che con essi muoia il ricordo vivo della Shoah accelera e amplifica il processo della memoria, che tuttavia necessita di strategie adeguate per conservare intatto il suo valore universale. Il viaggio di Affinati è un invito a sperimentare sulla propria pelle le ferite indotte dal più grande massacro novecentesco per poterle riconoscere ancora aperte in una società che, consapevolmente o no, si adopera per renderle sempre meno visibili, come accade quando l’evento è inquadrato in una prospettiva storica e moralistica che, ritualizzandone la memoria, lo rende astratto. Al contrario, Campo del sangue va in ben altra direzione, come mostra questa analisi di Alberto Casadei: Il pellegrinaggio laico verso Auschwitz propone gli stimoli visivi e situazionali che permettono di far rivivere nella mente del viandante le testimonianze di coloro che avevano compiuto quello stesso viaggio come deportati: si crea cioè un cortocircuito fra ciò che resta visibile, e però muto circa la rievocazione del passato, e quanto di quel passato ci è rimasto nelle testimonianze, che però vanno riattualizzate, riverificate nel presente di ciascuno. (Casadei 2007, 217) Il racconto di Affinati è dunque tutt’altro che avulso dalla realtà e i continui interrogativi che l’autore pone sembrano accogliere idealmente l’invito di Annette Wieviorka a smettere di sostituire la morale alla riflessione, se si vuol far scomparire il senso di saturazione rispetto all’argomento.24 Saturazione che oggi più che mai rischia di investire non solo la memoria della Shoah ma ogni tragedia di cui si ha notizia in tempo reale in qualsiasi luogo avvenga. L’iperofferta d’informazione che ci inonda anestetizza gli effetti anche più devastanti di un evento, neutralizzato dalla scansione quotidiana e reso irreale dall’efferatezza che spesso lo distingue. Ecco 132 perché non basta contestualizzare una tragedia per evitare l’assuefazione al dolore provocata dall’intrusione di vicende incresciose spiattellate di continuo nelle nostre case. In un mondo che ha perso ogni sensibilità rispetto alla catastrofe collettiva, che sembra palesare maggiore indifferenza proprio laddove il numero di vittime è più elevato, è necessario incidere nel tessuto del singolo per renderlo consapevole delle piaghe sottostanti. Eraldo Affinati sfoglia con estrema cura pagine del “secolo infelice” (Kertész 2007, 108) spesso voltate sbrigativamente, nell’impellenza di voler comprendere troppo e troppo in fretta o di non voler comprendere affatto. Il suo è un gesto letterario notevole non solo perché capace di coniugare la memoria al presente, ma anche e soprattutto perché riesce a trasmettere un’esperienza umana, la sua personale, che per ricchezza di intenti, acume delle riflessioni e impatto emotivo evoca il ‘campo del sangue’ che ogni individuo solca nel corso della propria esistenza senza saperlo riconoscere, fino a quando è posto al cospetto di un’atroce verità: “Se hai l’impressione di essere nato a una distanza di sicurezza rispetto allo sterminio, come puoi non considerare te stesso un sopravvissuto?” (Affinati 1998, 11). NOTE Qui e nelle prossime citazioni dal francese, mi permetto di fornire la mia traduzione: “La commemorazione si oppone alla memoria: essa avviene in tempo reale e, di colpo, l’evento risulta sempre meno reale e storico, sempre più irreale e mitico”. 1 2 Nella fattispecie, l’espressione è riferita a Marx. 3 Mariano 2003. 4 Ibidem Una conferma di questa tesi è riscontrabile nell’estratto seguente: “Due settimane per arrivare, senza pensare ad altro che a questo. E ora? Ecco Auschwitz. Cos’altro credevi che fosse?” (Affinati 1998,136). 5 6 Si veda il capitolo intero dedicato all’evento raccolto in Compagni segreti (Affinati 2006, 99-109). 7 Sul tema, si veda il saggio di Scurati 2006. 8 Per gli esiti raggiunti, segnalo in particolare Tuena 2005. 9 Cfr. Giorgio Agamben 1998. Per la presente analisi, si è consultata l’edizione francese. 10 WUZ – Le interviste 1997. 11 Mariano 2003. Si veda Traverso 1997, segnatamente il capitolo ‘La responsabilité des intellectuels. Dwight MacDonald et Jean-Paul Sartre’. 12 Le etimologie latina (Holocaustum) e greca (Holokaustos) indicano ‘ciò che è completamente bruciato’. La storia semantica del termine risale ai Padri della Chiesa, che se ne servirono, senza grande rigore, per tradurre la complessa dottrina del sacrificio nella Bibbia, in particolare nei libri del Levitico e dei Numeri. I Padri della Chiesa designano, non senza una punta critica, con “Olocausto” i cruenti sacrifici degli Ebrei. In seguito, il termine è esteso ai martiri cristiani, per assimilare il loro supplizio a 13 133 un sacrificio, fino a diventare sinonimo di sacrificio supremo, senza implicazioni superiori o sacre (Agamben 1999, 33). 14 Mt., 27,5-8. L’espressione ritorna anche negli Atti degli Apostoli (1,19). Un ulteriore scatto analogico risulta, secondo Alberto Casadei, dall’immagine decisiva del “giardino di pietra” di tradizione zen “che rimanda alla configurazione ultima nella quale natura e cultura si sono, metaforicamente, pietrificate, quasi a sintetizzare i caratteri profondi del secolo scorso, capace di un’allegorica e brutale equiparazione fra un giardino sublime e un campo-Lager infernale” (Casadei 2007, 220). 15 Sulla presunta umanità del boia, Edoardo Albinati cita una celebre pagina tratta dalle Serate di Pietroburgo (1821) di De Maistre, che definisce il boia “un essere sublime”, “la pietra angolare” della società (Albinati 2001, 147-148). 16 17 WUZ – Le interviste 1997. “La mise en question de la qualité de l’homme provoque une revendication presque biologique d’appartenance à l’espèce humaine” (Antelme 1957, 11). 18 “En cette reconnaissance de l’unité de l’espèce se trouve tout ce dont aura été fait notre communisme” (Mascolo 1987, 64). 19 20 “[…] la nascita di un altro uomo, ignoto a se stesso, lo stesso diventato un altro” (Ibidem). 21 Cfr. Kertész 2007, 255. 22 Cfr. Cavaglion 2006, 30. 23 Cfr. Semprun & Wiesel 1995, 37. Si veda Wieviorka citata da Dominique Vidal su Le Monde diplomatique (2005). Segnaliamo Wieviorka 2005. 24 BIBLIOGRAFIA Affinati, Eraldo. Campo del sangue. 1997. Roma: Mondadori, 1998. ---. Un teologo contro Hitler. Sulle tracce di Dietrich Bonhoeffer. Milano: Mondadori, 2002. ---. Compagni segreti. Storie di viaggi, bombe e scrittori. Roma: Fandango, 2006. Agamben, Giorgio. Quel che resta di Auschwitz. Torino: Bollati Boringhieri, 1998. Ce qui reste d’Auschwitz. Paris: Payot et Rivages, 1999. Albinati, Edoardo. Maggio selvaggio. 1999. Milano: Mondadori, 2001. Antelme, Robert. L’espèce humaine. 1947. Paris: Gallimard, 1957. Baudrillard, Jean. Libération (17.02.2005). Carnero, Roberto. ‘La nuova narrativa italiana’. The italianist 21-22 (2001-2002): 208-270. Casadei, Alberto. Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo. Bologna: Il Mulino, 2007. Cavaglion, Alberto. Il senso dell’arca. Ebrei senza saperlo: nuove riflessioni. Napoli: L’ancora del mediterraneo, 2006. Kertész, Imre. Il secolo infelice. Milano: Bompiani, 2007. 134 Mariano, Beppe. ‘La letteratura quale sismografo dell’estremità. Intervista a Eraldo Affinati’. Il cavallo di Cavalcanti 2 (2003) – 18.10.2007 http://www.ilditoelaluna.net/affinati.htm. Mascolo, Dyonis. Autour d’un effort de mémoire. Paris: Maurice Nadeau, 1987. Monda, Andrea. ‘Squarci di verità: intervista a Eraldo Affinati’. RaiLibro. Settimanale di letture e scritture – 18.10.2007 http://www.railibro.rai.it/interviste.asp?id=217. Scurati, Antonio. La letteratura dell’inesperienza. Scrivere romanzi al tempo della televisione. Milano: Bompiani, 2006. Semprun, Jorge & Wiesel, Elie. Se taire est impossible. Paris: Arte Edition, 1995. ‘Tra l’Italia e Auschwitz, il viaggio di Eraldo Affinati diventa romanzo’. [20.06.1997] Wuz – Le interviste – 18.10.2007 http://www.wuz.it/archivio/cafeletterario.it/interviste/affinati.html. Traverso, Enzo. L’histoire déchirée. Essai sur Auschwitz et les intellectuels. Paris: Editions du Cerf, 1997. Tuena, Filippo. Le variazioni Reinach. Milano: Rizzoli, 2005. Vidal, Dominique. ‘Commémorations…’. Le Monde Diplomatique mars (2005). Wieviorka, Annette. Auschwitz soixante ans après. Paris: Robert Laffont, 2005. 135