CONCHIGLIE E ALTRE MERAVIGLIE
1
A sinistra: ricostruzione della cuffia di conchiglie della dama di Caviglione (oggi al Museo dei Balzi Rossi,
Imperia, vissuta tra 30.000 e 20.000 anni fa); e a destra il ritratto a mosaico dell’imperatrice bizantina
Teodora (VI secolo, Basilica di San Vitale, Ravenna) con diadema e pendenti in perle.
Non è un accostamento azzardato, quello costituito dall’insieme di queste immagini, perché a ben
guardare c’è un particolare ritornante, ovvero la conchiglia
insieme al suo prodotto più prezioso: la perla, e insieme, la
madreperla.
Nessuno resiste ancora oggi, camminando su una spiaggia,
al gesto di chinarsi per raccogliere conchiglie. Forse un
istinto infantile, forse semplicemente naturale, ma la
conchiglia attrae sempre la nostra attenzione. Farsene un
“gioiello” semplice, da appendere al collo con un
cordoncino è passo successivo comune, oppure portare le
conchiglie a casa da usare come decorazione, da conservare
come ricordo, come portafortuna. Ma perché la conchiglia,
le conchiglie tutte, ci attraggono e ci parlano?
La lunga strada per comprendere un simbolo
Quando vengono rinvenuti resti preistorici di sepolture non lontanissime dal mare, in cui i reperti
che sono riusciti ad arrivare fino al nostro tempo hanno corredi funerari ove compaiono copricapi
e/o gioielli realizzati con conchiglie, vengono dati ai personaggi nomi che ricordano il luogo e
qualifiche di principi, o di dame. Personaggi che sembrano usciti dal tempo arcaico eppure vivo da
qualche parte nella memoria di tutti, quella delle fiabe. Personaggi di cui si ammira l’abbondanza di
oggetti lasciati presso i loro resti, quasi a proteggerli apotropaicamente per quel tempo oscuro e
ignoto del poi. Corredi che comprendono conchiglie forate, o segmenti di conchiglie, unite a denti,
corni, artigli, oppure ossa o segmenti di ossa, di animali uccisi. Già in un’antichità remota si è
intuita la parentela della sostanza tra la conchiglia e l’osso.
2
A sinistra: la donna di Ostuni (Santa Maria d’Agnano, LE, 25.000 anni fa), a destra, la cosiddetta Venere di
Brassempouy, statuetta in avorio risalente a circa 25.000 anni fa). Entrambi esempi di copricapi realizzati con
l’aggiunta di conchiglie. Sotto: a sinistra il cosiddetto Principe delle Arene Candide, ora al Museo
Archeologico di Genova risalente a circa 24.000 anni fa. A destra: ritratto di Enrico III di Francia, XVI
secolo dall’abito tempestato di perle.
“Ossa” spesso dai colori smaglianti, o dalle forme geometriche affascinanti, quando restituite dal
mare non potevano passare inosservate, o far trattenere la mano dal raccoglierle. Anche perché la
memoria fisica di geometrie naturali, come quelle che stanno alla base dello sviluppo di ogni
cellula, sembra mescolarsi con quella memoria che inizia con “c’era una volta”.
Per risalire al senso di un qualche valore preistorico delle conchiglie, ci viene in aiuto il lavoro di
Marija Gimbutas1. Grazie alle sue approfondite ricerche, la studiosa ci segnala che le conchiglie,
sia bivalvi che gasteropodi, permettono di visualizzare il concetto di maternità, di vita. Del resto,
non possono apparire altrimenti le conchiglie, a un essere umano di tempi infinitamente antichi.
1
Gimbutas Marija, Kurgan, Milano, Medusa, 2010; Gimbutas Marija, Il linguaggio della dea, Milano, CDE, 1991;
Gimbutas Marija, La civiltà della dea, I volume, Viterbo, Stampa Alternativa / Nuovi Equilibri, 2012; Gimbutas Marija,
La civiltà della dea, II volume, Viterbo, Stampa Alternativa / Nuovi equilibri, 2013; Gimbutas Marija, Le dee viventi,
Milano, Medusa, 2005.
3
Qui sopra, esempi di collane realizzate con elementi ricavati da conchiglie o madreperla (a destra), di area
indopacifica (XX secolo).
Tempi in cui la coscienza del mondo è ancora in evoluzione, e le conchiglie sembrano quasi sassi
che le onde depositano vicino alla riva, Sassi che però hanno forme equilibrate e affascinanti,
colorate, ma soprattutto, ospitano creature vive. Non è il caso di andare oltre nell’indagine dopo
aver constatato la possibile presenza di questo stupore, il quale ha certamente messo in moto
ragionamenti, via via sempre più ampi e articolati. Quanto a noi, a distanza di troppe centinaia di
migliaia di anni, dopo esserci adattati lo spazio circostante, fatichiamo a comprendere un pensiero
tanto lontano. Siamo abituati a prove, confutazioni, a scritto e immagini che ci aiutano a capire. O
talvolta fanno deragliare l’immediatezza dell’istinto.
Elementi di collana di conchiglie forate rinvenuta in una grotta sulla costa del Marocco, risalente a 142.000
anni fa.
Un confronto
Rebecca Wragg Sykes2 Ci mette delicatamente in guardia dal caratterizzare le persone a cui i resti
preistorici ritrovati appartengono. Perché ci piace raccontarci la storia con quel che conosciamo e
che ci rassicura, e quindi, se una sepoltura ci arriva integra attraverso tempi incalcolabili dalla
nostra memoria, ci piace pensare che si sia trattato di una persona importante, principe o
principessa, re o regina, così come l’arte storica ci ha insegnato, sulla deriva della saggezza delle
fiabe. Ignoriamo, concentrandoci come bambini sulla scoperta, che milioni e milioni di altri esseri
sono morti in quel tempo infinitamente lungo e ignoto, non percepibile per noi. Perché i
sommovimenti naturali e il tempo atmosferico, per non parlare dell’azione umana nei tempi storici,
hanno modificato, disperso, rimodellato, ogni granello di polvere. E quindi non ci è dato sapere
come vivessero in realtà quei nostri lontani antenati. Antenati che non avevano regni, non avevano
famiglia, non avevano casa, ma vivevano come potevano quando trovavano un luogo accogliente e
abbastanza sicuro; si coalizzavano in gruppi, partecipi ciascuno della vita dell’insieme con quel che
potevano inventarsi, con apporti propri, e probabilmente istintivi, perché la sopravvivenza del
gruppo era la sopravvivenza del singolo. E questo non in un’ottica di brutalità, ma di graduale
avvicinamento alla com-prensione, alla com-mozione. Uno sviluppo costante e libero da
sovrastrutture dogmatiche, proprio come i bambini.
Una situazione che, davanti al mistero della morte, portava a una forma di com-passione diversa
dalla nostra, perché non vi erano mezzi per ricavare tombe, se non spazi di fortuna da coprire alla
meglio per evitare che gli animali facessero scempio dei cadaveri. Né vi erano ancora attrezzi per
scavare una sepoltura profonda abbastanza da proteggere quietamente i poveri resti. Così è accaduto
per la piccola Neve3, come per il bimbo rinvenuto a Le Moustier4.
Nel secondo caso si tratta dei resti di un neonato, ritrovati nel Perigord francese nella località di Le
Moustier, da cui ha preso il nome in seguito una delle culture preistoriche europee che ha lasciato
numerose tracce. Sotto una casa abbandonata, ove gli strati di terreno consolidato lungo i millenni
hanno iniziato in tempi moderni a disfarsi, sono comparsi i resti di un piccino sepolto lì 40.000 anni
fa circa, avvolto in una pelle chiaramente usata. Sepoltura che, secondo un ragionamento che cerca
di liberarsi dalle sovrastrutture della nostra quotidianità, mostra determinate caratteristiche. Il
neonato è stato sepolto nel pietrisco, come per altri neanderthal, in un avallamento di una grotta, poi
abbandonato per una migrazione. Poiché i neanderthal non avevano strumenti per scavare, il corpo
del piccino è stato adagiato avvolto in quel che probabilmente la madre aveva a portata di mano e di
cui poteva fare a meno, almeno in quel momento, per evitare che animali selvatici se ne cibassero.
La pelle come prima protezione; quindi sopra, ghiaia, sabbia, terra, sono state con ogni probabilità
una sepoltura per noi sommaria, ma era tutto quanto si poteva avere allora, e che anche in questo
caso ha retto per tanto tempo.
Si può ipotizzare una situazione simile per la neonata del mesolitico sulla costa ligure, che gli
scopritori hanno battezzato Neve. Certo in questo caso la piccina, morta prima di raggiungere i due
mesi di vita, è stata sepolta con un marsupio in pelle, usato e frusto, probabilmente il suo, decorato
con frammenti di conchiglie forate. La sepoltura, simile alla precedente per condizione, all’ingresso
di una caverna, ci parla di un sofferto abbandono, con un’accurata copertura a protezione del
corpicino dallo scempio possibile di animali in cerca di cibo. Il marsupio decorato, che la madre
probabilmente usava da tempo, è stato quanto ella si è potuta permettere di lasciare indietro per la
sua piccina. Appare una constatazione un po’ azzardata, nonostante l’epoca e il luogo differenti,
voler pensare alla piccola come ad un membro importante del gruppo, figlia di qualche personaggio.
2
Kindred: Neanderthal Life, Love, Death and Art, Londra, Bloomsbury, 2020. Nella versione italiana: Neanderthal.
Vita, arte, amore e morte, 2021.
3
La sepoltura italiana è stata rinventura a Arma Veirana, nel comun ligure di Erli, in val Neva. Notizie su DiRE,
Agenzia di Stampa nazionale del 14 -12 – 2021, e Archeologia Viva, 8 settembre 2022. Consultati nel settembre 2024.
La piccina in questione, è in una sepoltura di circa 10.000 anni fa, e aveva tra 40 e i 50 giorni di vita, avvolta in un
marsupio di pelle decorato da conchiglie.
4
Sykes, p. 45 e segg.
4
Soprattutto se si tiene in considerazione che l’Europa non ha mai avuto limiti per i nostri antenati
che dovevano spostarsi continuamente come cacciatori e raccoglitori, superando mutamenti
climatici che facevano spostare i branchi di animali da cacciare, o modificavano clima e terreni,
portando a variazioni notevoli anche nel mondo verde.
Catalogare i ritrovamenti come frutto di una società simile alla nostra in sostanza, è una
sovrastruttura frutto del nostro mondo, del nostro sociale, e non di una realtà che in effetti non
conosciamo. Solo il caso, e la vicinanza al mare – diversamente dal piccino di Le Moustier – ci ha
tramandato le conchiglie. Questo ci indica solo che il gruppo umano a cui apparteneva la piccola era
avvezzo a raccogliere i “frutti” del mare, sapeva lavorare le conchiglie di conseguenza, le
conosceva, se ne cibava, le usava.
Una deviazione necessaria
Forse, quello sopra, è un discorso troppo ampio, ma ci porta inevitabilmente a rivalutare una
vecchia scoperta, quella del premio nobel del 1965 Jacques Monod, che nelle prime pagine del suo
celebre Il caso e la necessità ci insegna a non giudicare/catalogare “scientificamente” le cose troppo
in fretta con un esempio strettamente scientifico.
[… immaginiamo che… esperti della NASA marziana, desiderosi di scoprire sulla Terra le prove di
un’attività organizzata, creatrice di ‘artefatti’ (mandino una) prima astronave marziana (che) atterri nella
foresta di Fontainbleau, ad esempio vicino al villaggio di Barbizon. La macchina esamina e confronta le due
serie di oggetti più evidenti che esistono nei dintorni: le case di Barbizon da un lato e le rocce di Apremont
dall’altro… essa concluderà senza difficoltà che le rocce sono oggetti naturali, mentre le case sono artefatti.
Rivolgendo poi la sua attenzione ad oggetti di dimensioni più modeste, esaminerà alcuni sassolini, a fianco
dei quali scoprirà cristalli, ad esempio di quarzo. In base agli stessi criteri essa dovrà evidentemente
concludere che, se i sassi sono naturali, i cristalli di quarzo sono invece oggetti artificiali… Ma supponiamo
che la macchina studi ora un altro tipo di oggetto, per esempio un favo di api selvatiche. Essa vi troverebbe
evidentemente tutti i criteri di un’origine artificiale… per cui quel favo verrebbe classificato nella stessa
categoria di oggetti a cui appartengono le case di Barbizon… Risulterebbe ben presto chiaro, proseguendo
nell’indagine, che – se esiste una contraddizione – essa non dipende da un errore di programmazione ma
dall’ambiguità dei nostri giudizi. Infatti se ora la macchina esamina non più il favo ma le stesse api, essa non
potrà riconoscere in esse che oggetti artificiali, estremamente elaborati. Anche l’esame più superficiale
rivelerà nell’ape chiari elementi di simmetria semplice… Inoltre, e soprattutto, esaminando le api una dopo
l’altra, il programma noterà che l’estrema complessità della loro struttura (per esempio il numero e la
posizione dei peli addominali o le nervature delle ali) è riprodotta in ogni individuo con fedeltà straordinaria,
prova quanto mai lampante che tali esseri sono i prodotti di un’attività deliberata, costruttrice, di tipo
raffinatissimo. La macchina, sulla base di prove così schiaccianti, non potrebbe che segnalare… di aver
scoperto sulla Terra un’industria al cui confronto la loro sembrerebbe probabilmente primitiva.]5
A sinistra, conchiglia di Haliotis rinvenuta in un sito preistorico, usata come contenitore, a destra un
esemplare naturale attuale.
5
Jacques Monod, Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea, Milano,
Mondadori, 1970, pp. 19-21.
5
6
Pregiati contenitori tardo rinascimentali realizzati in metalli preziosi con inserti di madreperla, conchiglie
private dell’epitelio per mostrare la madreperla, e corallo.
L’unica cosa che si salva, da una catalogazione scientifica a tutti i costi, è per noi il fascino che
emana della conchiglia in sé, qualcosa di non esprimibile più dettagliatamente di così, che
costituisce un filo ininterrotto tra noi e tutti i nostri antenati. Con quel poco di magia simbolica che
possiamo percepire, ci possiamo rendere conto che la conchiglia occupa un posto importante nella
storia umana. Ha un valore di vita e rinascita, di resistenza, e probabile resilienza in senso fisico in
un’ottica di tempo, di ere geologiche. La conchiglia, intera, o qualche parte di sé per il tutto, sta
nella nostra mano, ci può accompagnare. E’ di innegabile utilità quando, in tempi remoti, diventa un
comodo contenitore impermeabile, per l’acqua, o qualunque altra cosa che la nostra mano non può
stringere.
Da qui la necessità di uno sguardo scientifico sulle cose, esteso con prudenza. Un accettare i
ritrovamenti dapprincipio per quello che appaiono, senza affrettarsi a trarre conclusioni basate sulle
nostre esperienze dirette. Il qui e ora nostro, non corrisponde necessariamente al qui e ora di altri.
Esemplare di Pecten jacobaeus, area adriatica. A sinistra la valva superiore, a destra, la valva concava
inferiore, usata come contenitore o decorazione apotropaica.
Conchiglie radiate
I bivalvi, soprattutto del genere Pecten, con forme e colori tanto perfetti, oltre all’utilità immediata
di essere ottimi contenitori impermeabili “manabili”, hanno probabilmente suscitato associazioni di
idee semplici, immediate, come tutte le cose della natura che circondava gli esseri umani della
preistoria. Ecco così che nell’antichità il loro simbolismo era collegato idealmente agli organi della
nascita. Il latino concha indica la conchiglia e per estensione la perla e i genitali femminili. Venere,
dea della fecondità e della femminilità esce dalle valve di una conchiglia.
7
La nascita di Venere, Botticelli 1485.
Nel Cristianesimo il guscio della conchiglia è anche la tomba cui si affida il corpo prima della
resurrezione; ed è in questo contesto che ad esempio sui sarcofagi tardo romani e bizantini vanno
viste le conchiglie che spesso compaiono nelle scansioni architettoniche ad arco o absidate che fan
da sfondo ai personaggi rappresentati.
La perla poi, è la conoscenza del Cristianesimo celata ai pagani6. Le due valve della conchiglia
simboleggiano l’Antico e il Nuovo Testamento, mentre la perla è il Salvatore. Nell’arte successiva
spesso si vedranno perle/uovo a coronamento del simbolismo della conchiglia che compare quale
apoteosi di personaggi femminili particolarmente distinti, quali, soprattutto, la Madonna.
8
Piero della Francesca 1472-74
Avevamo tuttavia avuto esempi precedenti, che alla luce della storia del simbolo in sé acquisiscono
una potente valenza, come il ritratto a mosaico bizantino dell’Imperatrice Teodora, di cui si è scritto
sopra.
Qui e oltre in questo paragrafo, cfr. Spinelli Anna, Il mare e l’acqua nei mosaici di Ravenna: le simbologie che
accompagnano la vita. Reperibile liberamente in rete su: Academia.edu.
6
All’inizio della nostra epoca era diffusa la credenza che nel Mar Rosso (e per estensione nell’ancora
poco noto – per il mondo mediterraneo – Oceano Indiano), le conchiglie stessero sulla riva con le
valve aperte nell’attesa di cibo. Quando, come spesso accade in quei mari scoppia la tempesta, il
fulmine entra nella conchiglia, la quale, spaventata serra subito le valve, e il fulmine, colpendo i
globi oculari della creatura, glieli trasforma in perle. La conchiglia in seguito muore, ma le perle si
dice che risplendano laggiù, nel Mar Rosso. Su questa fantasiosa tradizione si innesta quella del
fulmine divino, di Maria e della nascita di Gesù. E tuttavia, la leggenda marina è chiaramente basata
su fatti naturali così come potevano venir narrati, carichi di meraviglia, da viaggiatori e mercanti i
quali, a contatto col mondo arabo, per secoli tramiti marittimi verso l’Estremo Oriente, lasciavano
trapelare tracce di un ambiente totalmente ignoto a quello romano imperiale. I racconti, passando di
bocca in bocca, si colorivano caricandosi di imprecisioni e fantasie.
Sopra immagini di diverse varietà di tridacne in vivo, e sotto un esemplare da collezione.
Le conchiglie cui si riferisce la storia sono senza dubbio le Tridacna gigas (Linneo), bivalvi che
raggiungono spesso dimensioni notevoli, superando i due metri d’ampiezza e il quintale di peso. Per
la sua forma lobata che richiama quella della conchiglia di san Giacomo, la tridacna è stata spesso
preda ambita per venir trasformata in acquasantiera. Infatti sono celebri quelle della chiesa di Saint
Sulpice a Parigi (XIII sec.) che misurano circa un metro e mezzo. Usate nei reliquari, spesso
incastonate in metalli preziosi, sono state oggetto di una caccia spietata, che ha dato origine a
leggende ben più fosche che le ha portate sull’orlo dell’estinzione, tanto che oggi si tratta di animali
protetti. Poiché vivono su fondali corallini, le tridacne si cementano alle madrepore durante la
crescita, lasciando sporgere dalle valve solo il mantello che con movimenti ritmici raccoglie piccole
alghe e microrganismi vegetali di cui si nutre. Tutt’altro quindi che il terribile predatore pronto ad
afferrare i malcapitati subacquei a caccia di perle e tesori sommersi che una certa tradizione
fantastica ha consolidato fino ai nostri giorni. Fantasia che spesso si è sommata all’idea del castigo
divino meritato dai malcapitati. E tuttavia leggende sui mitici animali dell’Oceano Indiano si sono
diffuse per secoli, come può testimoniare qualche pagina diaristica antica di viaggio:
9
(26 giugno 1404) [… Dalla città di Ormus, grande abitato che era appartenuto all’India minore mentre ora
era di Timur beg, a questa città di Soltania, arrivano molte perle e pietre di pregio, che dal Catai vengono per
mare le navi fino a una distanza di dieci giornate da questo centro. Navigano attraverso il Mare Occidiano
che è quello al di fuori della terra, e per arrivare al fiume vanno per dieci giorni fino alla città di Ormus. Le
navi e le fuste che navigano in quel mare non hanno nel fasciame né nelle costole altro che cavicchi di legno
e corde; poiché se fossero rifinite in ferro, tosto si disferebbero, per via delle pietre diamantine che
abbondano in questo mare. Con queste fuste arriva una gran quantità di perle, che tuttavia vengono prese per
essere lavorate e forate;… La maggior parte delle perle al mondo si pesca e si trova in quel Mare del Catai, e
viene portato in questo posto di Ormus per essere forato e lavorato. Mercanti cristiani e mori dicono di non
sapere ancora da queste parti dove si lavorino né dove si formino le perle, se non in questo centro di Ormus;
e da qui da Ormus si viene fino alla città di Soltania in sessanta giorni. Inoltre dicono in questa terra di
ponente che la perla nasce in una conchiglia grande che chiamano nacchera, e quelli che vengono da quella
terra e dalle parti di Ormus e del Catai dicono che le perle nascono e si trovano nelle ostriche; e le ostriche in
cui si trovano sono grandi e bianche come la carta; e ne portano a questa città di Soltania e a quella di Turis
ricavandone anellini da donna, orecchini e altre cose che sono simili alle perle…]7
Decorazione parietale con conchiglia lungo il cammino di San Giacomo di Compostella.
Se il Pecten Jacobaeus prende il nome dal santo grazie al culto del quale si sviluppa il
pellegrinaggio meditativo lungo il cammino di San Giacomo di Compostella, rendendo tale
conchiglia un oggetto prezioso per il pellegrino, spesso occhieggiante dall’arte locale sulla costa
settentrionale iberica, è interessante notare che sulla costa meridionale della stessa penisola esistono
pavimenti di sacrari e templi tappezzati di conchiglie bivalvi. Sia del genere pecten, già viste, che di
7
Il brano è riassunto dalla traduzione del diario originale: Spinelli Anna, Dal Mare di Alboran a Samarcanda. Diario
dell’ambasciata castigliana alla corte di Tamerlano (1403-1406), Ravenna, Fernandel, 2004, pp. 180-82. Il Mare
Occidiano citato nel brano, era nell’antichità il mare che circondava le terre note, Quindi l’Oceano Atlantico e quello
Indiano insieme, ovvero il mare esterno ai tre continenti di Europa, Africa e Asia. Quanto alle pietre diamantine, si
intendevano i coralli. Le imbarcazioni, nell’Oceano Indiano, sono state costruite fino a tempi recenti solo in legno, con
cavicchi e corde, senza elementi metallici, che sarebbero stati corrosi rapidamente dalla salinità di quel mare. Inoltre,
essendo realizzate con un materiale uniforme, sono più resistenti nei numerosi bassi fondali ai coralli. Tra le cose che si
favoleggiavano in tempi andati c’è la presenza presunta di diamanti, talvolta rinvenuti in depositi alluvionali nel
subcontinente indiano, e da questo è probabilmente discesa la credenza che pietre taglienti come il diamante
costituissero la materia delle iridescenti quanto pericolose madrepore. Quanto al termine ‘nacchera’ Il termine è derivato
da un vocabolo arabo che ha i significati di ‘incavo’, ‘depressione’, ‘cavità’, ‘orbita dell’occhio’, ‘palmo della mano’. In
spagnolo indicava il timpano o il timballo in quanto tamburelli o strumenti concavi, e anche lumache e conchiglie. Oggi
nacares indica la madreperla o il tamburello ed è stato qui tradotto con l’equivalente italiano di ‘nacchera’, che pur
obsoleto nel senso, è riferito sia al tamburello che a una varietà di bivalve (Pinna spcs.) molto più grande dell’ostrica
perlifera, produttore di bisso, la cui pesca e conseguente produzione del tessuto è oggi scomparsa.
10
Glycymeris, data la maggior facilità di ritrovamento lungo le spiagge mediterranee, ma tale uso
risale al tempo fenicio, ed è diffuso in buona parte del Mediterraneo a partire dal Vicino Oriente.
11
Mosaico pavimentale di San Vitale a Ravenna (VI secolo) reminiscente dei pavimenti fenici risalenti
probabilmente al VI secolo a. C. in area mediterranea (vedi sopra). A sinistra con conchiglie di pecten, a
destra con Glycymeris. Spagna meridionale (Cfr. Conchas de Salvación in bibliografia). Sotto: esemplare di
Glycymeris.
Non ci è dato sapere se vi sia un legame continuativo tra quelle decorazioni risalenti a un periodo
compreso tra il X e il IV secolo a. C. e i Pecten portati dai pellegrini per abbeverarsi lungo il
tragitto. Forse un certo valore apotropaico – difesa psicologica e rinnovamento attraverso il
sacrificio del viaggio – accomuna questi oggetti fin dall’infanzia dell’umanità. Una forma di
affettuoso attaccamento a qualcosa di cui si è perso il ricordo e che ricompare, per esempio, negli
stati meridionali degli Stati Uniti, dove gli spagnoli hanno lasciato comunque grosse influenze, per
esempio nell’uso di coprire con conchiglie di bivalvi radiati le tombe8.
12
Quanto alla perla, “frutto” di molti bivalvi, essa può senz’altro collegarsi al valore della nascita,
della rassicurante continuità del valore della vita. Perciò si usa la madreperla come gioiello.
Ad alimentare la leggenda delle conchiglie colpite dal fulmine che ne trasforma gli occhi in perla,
potrebbe aver probabilmente contribuito il ritrovamento, un tempo senza dubbio ben più frequente
dei cosiddetti “occhi di gatto”, in realtà opercoli di una famiglia di gasteropodi marini di buone
dimensioni e molto comune in passato, i turbinidi. Usati per ricavare madreperla fino a rasentare
l’orlo dell’estinzione, hanno un opercolo che in alcuni casi può arrivare a pesare anche mezzo chilo,
grezzo all’esterno, ma di madreperla lucida all’interno con una macchia centrale di colore variabile
a seconda della specie, che lo fa somigliare in modo inquietante ad un occhio. Il loro ritrovamento
fortuito li ha trasformati in occhi divini, e considerare talismani preziosissimi.
Nell’Apocalisse, a proposito della Gerusalemme celeste è scritto: E le 12 porte sono 12 perle;
ciascuna porta formata da una sola perla (21,21). Nel mondo anglofono le Porte del Cielo si
chiamano infatti Pearly Gates. Nel mondo islamico infine, le parole eccelse sono paragonate a
Cfr. in rete “Riportami a casa” ovvero il senso delle tombe ricoperte di conchiglie nel Sud degli Stati Uniti.
Arzyncampo (consultato nel settembre 2024).
8
perle, dato che la parola è il dono supremo di Dio all’uomo. Infilare perle è in arabo metafora
comune per indicare la composizione di versi, ovvero nell’impiegare il genio dato da Dio, la
scintilla divina più autentica. Di perle possono essere incoronate le immagini dei martiri, un
simbolo della ricompensa eccelsa che essi ottengono, come la palma, come l’alloro. Del resto,
nell’antichità dell’estremo oriente, il drago, una variazione dell’uroboro che rappresenta i corsi e i
ricorsi della vita, insegue una perla perfetta. Perla che è una lacrima della Luna, nel suo incessante
andare e ripresentarsi sempre diversa ogni giorno, sempre nuova, a coronare ciò che è eterno e
rinnovato a un tempo.
Conchiglie a portata di mano
L’impiego utilitaristico delle conchiglie viaggia di pari passo con quello affascinante del
simbolismo attraverso la preistoria e poi la storia umana. E’ così che troviamo conchiglie usate
come strumenti sonori potenti, soprattutto i grandi gasteropodi del genere Charonia, un tempo
diffusi anche nel Mediterraneo, e oggi piuttosto nei mari tropicali, dove sono state oggetto di pesca
sconsiderata fino quasi all’estinzione, la cui conseguenza è stata il minare l’esistenza stessa di zone
costiere e isole9.
9
I gasteropodi del genere Charonia si nutrono di predatori del corallo, il quale crea barriere protettive costiere in tempi
lunghi, ma la cui riduzione porta il mare a erodere le coste.
13
14
I grandi viaggi di scoperta dell’età moderna hanno contribuito ad accrescere il fascino e il valore
delle conchiglie. Quelle adeguate per forma e struttura presero il posto per esempio delle pietre dure
per la produzione di cammei. Arte della gioielleria già nota nell’antichità, ma che dal Settecento in
poi si avvalse anche di conchiglie dal guscio spesso come le Cassis, tra i materiali per la
fabbricazione di cammei. Nel Settecento, grazie agli scavi di Pompei e al manierismo artistico che
pretendeva rifarsi alla classicità, con un già diffuso attaccamento all’esotismo, al fascino dell’ignoto
oriente, fu proprio nella zona costiera campana che probabilmente nacque quest’arte, essendo già in
voga da parecchi secoli la lavorazione del prezioso corallo. In quello stesso secolo, la passione per
oggetti pregiati esotici, come perle e madreperle, portò anche all’invenzione dei bottoni in
madreperla, spesso dipinti come miniature. Divenuti oggetti d’uso comune nel giro di un secolo, i
bottoni rischiarono di portare sull’orlo dell’estinzione i trochidi, gasteropodi dalla spessa
madreperla. In particolare il Trochus niloticus, che già nel nome ci fa comprendere come manie e
leggende si unissero nella credenza che tali conchiglie venissero dall’Egitto misterioso, magico e
affascinante, mentre in realtà provenivano dall’Oceano Indiano, e arrivavano a noi attraverso il Mar
Rosso, su fino alle piste che costeggiavano il Nordafrica.
Si può tuttavia presumere che oggetti di madreperla, ricavati dalle stesse conchiglie, fossero in uso
già alla fine dell’impero romano, tempo da cui tuttavia non sono arrivati materialmente reperti del
genere. La madreperla, da sempre è stata materiale ambito per intarsi su oggetti preziosi, come
cofani portagioie, mobili (suppellettili che solo le classi sociali superiori potevano permettersi), e
poi strumenti musicali, e anche armi da fuoco.
15
16
Va da sé che le conchiglie, grazie ai viaggi di scoperta commerciale e ai ritrovamenti in mari
esotici, sono diventate anche oggetto da collezione. La pittura olandese di genere ce ne presenta
numerosi esempi10. L’Olanda del Seicento, alle prese coi problemi economici di un paese che
andava faticosamente ritagliandosi l’autonomia e sviluppando una propria cultura sociale, era
disposta a guardare con interesse concreto ad ogni novità che arrivasse dall’oriente. Un oriente che
già costituiva motivo di speculazioni economiche in cui proprio l’industrioso paese, dopo essere
stato una colonia spagnola penalizzata, si sarebbe guadagnata un posto di tutto rispetto. Non fu un
caso che le migliorie introdotte nella carpenteria navale permettessero agli olandesi di diventare i
maggiori e incontrastati produttori di capienti imbarcazioni da trasporto oceanico, resistenti e
10
Cfr. in questa stessa raccolta di articoli: Spinelli Anna, Tulipani e speculazioni… di borsa e di pensiero.
attrezzate per le difficoltà di viaggi lunghissimi e in condizioni quantomeno difficili11. Ecco così
che nella pittura di genere comparvero fiori e frutti esotici, e soprattutto i celebri
tulipani virosati12.
17
Fiori che si andarono ad aggiungere in Olanda a quelle cose – belle perché esotiche – dall’alto
rendimento, quali il cacao, il tabacco, le porcellane. Nella nuova classe di benestanti che si andava
consolidando nelle grandi città commerciali settentrionali dei Paesi Bassi, oltre ad argenterie e
porcellane, in casa ci fu spazio per l’arte, non necessariamente utile, ma fatta di oggetti di pregio da
esibire. Perciò fu forse inevitabile che fiori ricercati perché ignoti in precedenza, e dai prezzi
proibitivi, divenissero oggetto di rappresentazioni, come appare da buona parte della corrente
pittorica di fiori dalla fine del XVI secolo in poi. I fiori, nei trionfi di mazzi esuberanti e impossibili,
non furono i soli soggetti della pittura di questo genere poiché li si vede normalmente accompagnati
da vasi in porcellane cinesi o giapponesi rese con tanta perfezione da poter identificare fornaci e
luoghi di provenienza. Spesso in queste esuberanti nature “morte” i mazzi di fiori sono
accompagnati da altri costosi esotismi, quali raffinati oggetti in metallo di provenienza varia o
grandi conchiglie dell’Oceano Indiano a loro volta perfettamente identificabili.
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Cfr. Spinelli 2003 al capitolo La pirateria locale in Europa e s. v. Indiaman. I corsari olandesi bottinavano le saline
spagnole del nuovo mondo per cedere il sale ai paesi baltici in cambio di legname con cui soddisfacevano le numerose
commesse interne e straniere di galeoni per la navigazione e il trasporto oceanico, gli indiamen. Inoltre, si deve
soprattutto agli olandesi la diffusione del tabacco, del cioccolato, e il costante impulso all’importazione di porcellane
prodotte su ordinazione in Cina, oltre che dal Giappone, di cui gli olandesi rimasero gli unici referenti stranieri dopo la
chiusura dei contatti commerciali con l’estero nel periodo shogunale. Ancora oggi, nelle storielle popolari delle coste
cinesi, in città come Hong Kong e in Indonesia, l’olandese rimane come proverbiale sinonimo di avidità e mancanza di
scrupoli nel far denaro.
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Il termine indica scientificamente il tipo unico di marezzatura sui petali di celebri tulipani olandesi, che solo nel XX
secolo si è scoperto essere dovuta a un virus. Cfr. l’articolo in questa serie: Tulipani e speculazioni... di borsa e di
pensiero. http://www.endasravenna.it/wp/pagine-darte/tulipani-e-speculazioni/ .
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Chi poteva poi permettersi di ottenere tante conchiglie esotiche, e magari anche madrepore
coralline, lanciò la moda negli stessi secoli della cosiddetta rocaille (foto sotto). Ovvero, una
decorazione composta di pietre e sassi particolarmente attraenti, uniti a prodotti del mare quali
grandi conchiglie e frammenti corallini per decorare, come fossero stalattiti, angoli di giardini
privati, da mostrare agli ospiti, come tocco di esotismo. Moda che sconfinava nella mania di
stanzette delle meraviglie, cui si aggiungevano porcellane o
altri oggetti preziosi, quanto spesso ignoti, ottenuti dalle
importazioni a seguito dei grandi viaggi per mare.
E’ sempre nell’Oceano Indiano che i primi avventurieri
portoghesi si trovarono di fronte a una tale profusione di
lucidissime conchiglie di ciprea, da presumere che esse
fossero il materia di base della porcellana cinese. Un
prodotto da sempre ambito da essere ritenuto persino
portentoso, il cui segreto sarebbe stato scoperto per caso
solo agli inizi del Settecento in area bavarese13. I marinai
portoghesi che trovarono tanta profusione di cipree,
pensarono di raccoglierle e polverizzarle, per impastarle
come l’argilla e fabbricare porcellana. Inutilmente. Ma quel
primo incontro con questa meraviglia dei mari orientali,
grazie all’aspetto dell’apertura ventrale di tali conchiglie
portava ad un’associazione visiva con i genitali femminili,
tanto che i marinai le chiamarono porsole, ovvero
‘porcelline’, passando poi lo stesso nome alla porcellana. Il
nome scientifico di poi, cipree, si rifà alla leggenda di
Venere come dea dell’amore, mantenendo viva quella prima impressione.
Nell’Oceano Indiano poi, tra le tante cipree, ce n’erano due varietà, piccole, comuni, da essere usate
come moneta in tutti i paesi che si affacciavano su quel mare. La Monetaria moneta e la Monetaria
annulus venivano raccolte soprattutto nell’arcipelago delle Maldive, immergendo in acque basse
foglie raggiate di palma, a cui i piccoli gasteropodi tendevano ad aggrapparsi per nascondersi.
Venivano poi raccolte e vendute (in cambio di oro) ai commercianti degli altri paesi. Questo perché
le monete di rame, o di altro metallo, tendevano a ossidarsi fino a disfarsi rapidamente a causa della
Cfr. Spinelli Anna su Academia.edu.: Dal segreto leggendario della porcellana all’invenzione della maiolica, 2010; e
Arte islamica e Mediterraneo. Castelli, musica, maioliche, 2007.
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salinità di quel mare. Lo stesso motivo accennato sopra, a proposito del fatto che le imbarcazioni
dell’Oceano Indiano non avevano chiodi o altri elementi metallici.
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Insieme di esemplari di Monetaria moneta e Monetaria annulus, esemplari adulti e juvenilia. Sotto, altre
varietà di cipree dell’Oceano Indiano.
Sempre dall’Oceano Indiano arrivavano per il mondo induista e buddhista le conchiglie di buccina,
che un mito voleva essere state usate per nascondere e proteggere testi sacri. Ancora oggi nei
monasteri le conchiglie di Turbinella pyrum, le buccine, vengono conservate, incastonate in
decorazioni preziose, come simbolo beneaugurante, e talvolta usate alla stregua delle charonia
come strumento a fiato per scandire i tempi della vita del monastero. Antico simbolo della forza e
dell’energia delle divinità creatrici, il loro suono viene recepito come il primordiale ōm, a cui tutti
torniamo. Suono sconvolgente che annichilisce la mente affinché si prepari alla percezione,
all’intuizione del suono della verità. Così, se la buccina è un orecchio, la perla è la parola della
saggezza.
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Qui sopra, esemplari di conchiglie di Turbinella pyrum. A sinistra lavorate come oggetti sacri, a destra al
naturale.
Alla fine di questa raccolta di usi, antichi e moderni, resta per noi il fascino dell’oggetto conchiglia,
e tutta la leggendaria mitologia che l’accompagna. Forse non serve cercare il senso e il significato
di questa passione universale, letteralmente, ma basta fermarsi al fascino che le conchiglie
esercitano sugli esseri umani. Un fascino che potrebbe semplicemente essere quello che ci portiamo
dietro fin dall’infanzia, quando si entra in contatto con queste meraviglie della natura.
Anna Spinelli
Stellaria solaris
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Tibia fusus