Il volume ricostruisce i diversi aspetti dell’opera di Pier Paolo Pasolini, con
particolare attenzione a quattro linee di rapporto con la cultura antica e moderna: la presenza della tradizione letteraria, artistica e antropologica; le rielaborazioni pasoliniane dei classici; le traduzioni di e da Pasolini ancora poco
indagate dalla critica; la costituzione dello scrittore quale modello della letteratura italiana successiva e icona dell’immaginario. Immolata all’impulso incoercibile di una fantasia sperimentale, la sua arte viene esplorata come sguardo irrequieto e tenace sul vasto paesaggio della società occidentale. Sempre sul
filo dell’analisi testuale e sulla scia di un multiforme esercizio di lettura, i saggi
qui raccolti, quasi capitoli di una monografia a più voci, si interrogano sulle
frontiere dell’umanità ibernata nel logos, interpretando le elegie del caos come
il grande codice della concezione intellettuale di questo autore incancellabile
del Novecento, che ha fatto della realtà la sua vitale ragione di luce.
Elegie del caos
Giona Tuccini, già professore ordinario di Letteratura italiana alla University of Cape Town, insegna ora Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”. Si è occupato di letteratura
medievale e rinascimentale, di misticismo e letteratura religiosa, della cultura
spirituale primo-novecentesca, di autori e tendenze del Novecento letterario,
in particolare di Pier Paolo Pasolini e di Enrico Pea. È socio corrispondente
dell’Accademia Nazionale dell’Arcadia, nonché membro del comitato direttivo della rivista internazionale “Studi pasoliniani”. Con Carocci editore ha
pubblicato Nostalgia dell’abisso. I romanzi di Enrico Pea degli anni Trenta
(2020) e Degno del cielo. Umanesimo plebeo e poetica del sacrificio in “Accattone”
di Pasolini (2021).
Giona Tuccini
editore
In copertina: kylix con Edipo e la sfinge. Città del Vaticano, Museo Gregoriano Etrusco. Foto © Scala, Firenze.
Carocci
A cura di Giona Tuccini
Elegie del caos
Civiltà classica e cultura moderna
nell’opera di Pasolini
Carocci
editore
Progetto grafico: Ulderico Iorillo
€ 24,00
Carocci editore
Lingue e letterature
lingue e letterature carocci / 426
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Elegie del caos
Civiltà classica e cultura moderna nell’opera di Pasolini
A cura di Giona Tuccini
Carocci editore
Lingue e letterature
Volume sottoposto a doppio referaggio cieco
This volume has been peer-reviewed according to the “double blind” procedure
This publication is based on research that has been supported in part
by the University of Cape Town’s Research Committee (urc)
1a edizione, marzo 2024
© copyright 2024 by Carocci editore S.p.A., Roma
Impaginazione e servizi editoriali:
Pagina soc. coop., Bari
Finito di stampare nel marzo 2024
dalla Litografia Varo (Pisa)
isbn 7--20-2410-0
Riproduzione vietata ai sensi di legge
(art. 171 della legge 22 aprile 141, n. 6)
Senza regolare autorizzazione,
è vietato riprodurre questo volume
anche parzialmente e con qualsiasi mezzo,
compresa la fotocopia, anche per uso interno
o didattico.
Indice
Presentazione
di Davide Canfora
7
Premessa. Nuove finestre su Pasolini
di Giona Tuccini
1.
Pasolini alla prova del logos
di Giona Tuccini
15
2.
La poesia della tradizione (Trasumanar e organizzar)
di Guido Santato
41
.
Picasso 15. Pasolini, Longhi e l’avanguardia
di Tommaso Mozzati
55
4.
«Un canto funebre che non esiste». Pasolini, Stendalì e il riuso del documento etnografico
di Caterina Verbaro
5.
Uno sguardo a est. Pier Paolo Pasolini e la cultura rumena
di Giovanni Magliocco
6.
«Come in sogno». Da Sofocle a Pasolini: una sequenza in tre
movimenti di Edipo re (167)
di Roberto Chiesi
7.
Porcile, un’opera mutante tra hybris e umorismo
di Stefano Casi
5
71
7
101
11
indice
.
.
Dall’Orestea all’Orestiade. Pasolini traduttore di teatro greco,
per il teatro greco e non solo
di Olimpia Imperio
Pasolini in Brasile. I tempi della ricezione e della storia
di Maria Betânia Amoroso
1
14
10. Ricezione e traduzione di Pier Paolo Pasolini nell’America
spagnola
di Mariarosaria Colucciello
16
11.
177
Pasolini dopo Pasolini
di Roberto Deidier
12. Thanatos è maschio. Discorsi pubblici e reiterazioni audiovisive intorno alla morte di Pier Paolo Pasolini
di Angela Bianca Saponari
11
Indice dei nomi
20
Gli autori
217
6
1
Pasolini alla prova del logos
di Giona Tuccini
Nella vita, capite, non c’è gran scelta. O marcire o ardere.
J. Conrad, Sotto gli occhi dell’Occidente, 1111
Meditare su Pier Paolo Pasolini quale poeta di segni e in particolare sull’esperienza del λόγος quale coagulo di senso innescato dalla facoltà di pensare,
di esprimere e di interrogare la realtà, ci invita a collocarlo contestualmente
sul duplice piano della conservazione e dell’innovazione, complicando subito i giochi. La poesia pasoliniana, infatti, deve essere colta in rapporto di
continuità con la tradizione, per quel va e vieni di forme tipiche del primato
romanzo e dantesco, e per quella dimensione egocentrica che la riannoda
all’interiorità simbolista. Sennonché, oltre questo scambio dinamico di
influssi, l’opera di Pasolini non esisterebbe se non come riverbero della coscienza spontanea che la sottende e che sintetizza, in una copula feconda,
i contenuti della realtà calati negli universi verbali e in quelli travagliati
dell’impegno civile.
Il λόγος posto a suggello del titolo di questo sondaggio sarà da indagare
come movimento eversivo attivato dalla coscienza creativa e come principio
di una epistemologia vivente applicata ai diversi ambiti della produzione
del nostro intellettuale. E poiché il primo dei miei intenti sarà quello di
commentare scorciatamente gli esiti di questa applicazione, verrà ricordata
senza indugio la multilinearità del λόγος attestato come assoluto funzionale, il cui ruolo sarebbe quello di riflettere la realtà radicata nella materia
sociale e subordinata alle esigenze intime di un artista, vale a dire alla sua
determinante affettiva. Logos d’amore, quindi, come ci informano i versi
incipitari della Realtà, dove la ragione pratica comporta uno sforzo di rinnovamento creatore, nell’ascesa infinita verso un ideale supremo:
Oh, fine pratico della mia poesia!
Per esso non so vincere l’ingenuità
che mi toglie prestigio, per esso la mia
1. «In life, you see, there is not much choice. You have either to rot or to burn» (Conrad, 2010, p. 22, trad. mia).
15
giona tuccini
lingua si crepa nell’ansietà
che io devo soffocare parlando.
Cerco, nel mio cuore, solo ciò che ha!2
Tuttavia, spinto dal bisogno di guardare in faccia gli enigmi (quelli della
realtà e dell’amore disperato per la vita da trasporre brutalmente sul piano
discorsivo, secondo l’afflato di un cuore elegiaco), Pasolini sente che un
non so che di irriducibile sussiste al fondo dei segni. Nei nuclei della poesia
qui richiamata, vengono segnalate con poche pennellate le galassie di una
realtà fortemente soggiacente alla pulsione del dire, grazie alla quale la coscienza prende sé stessa come oggetto di riflessione, per concludere che la
realtà e l’amore disperato per l’esistenza non sono soltanto il propellente
degli universali linguistici, ma sono anche definibili unitariamente come
linguaggio. L’espressione che traduce il ritmo della vita, ribollente per la
ricchezza della realtà e per la varietà prodigiosa dell’umanità plebea, scaturisce dall’equilibrio tra essere e linguaggio, certo, ma anche dall’allineamento dell’espressione all’azione sul piano dei valori gramsciani, una morale
sconcertante – questa – se viene considerata sotto il profilo dei contenuti
sentimentali di uno scrittore che ambiva non tanto all’idealità, quanto alla realtà vivente quale meta suprema dell’arte. Ecco il tracciato che i versi
vibranti di queste terzine ci offrono del travagliato pensiero pasoliniano
sottomesso alle spinte e controspinte di un dibattito infinito, ormeggiato a
una specie di assoluto: quanto più puro è l’amore offerto nello slancio verso
la vita inabissata nel grembo/giglio, tanto più oscuro e magmatico è il verbo
di un “discorso” sopra il reale («[...] Solo se leggero, / dentro la norma,
sano, il figlio / può farmi nascere il pensiero // scuro e abbacinante: così
solo gli somiglio / nella verifica infinita di un segreto / ch’è nel suo grembo
impuro come un giglio»). Pasolini è arrivato a identificare la realtà con
la vita delle nature semplici, sottolineando il ruolo che l’amore fisico per
la gioventù riveste in ogni ambito della sua esperienza letteraria e umana4,
2. La realtà, in Poesia in forma di rosa, in Pasolini (200, vol. i, p. 110).
. Ivi, p. 111.
4. Cfr. Appendici a «Poesia in forma di rosa», in Poesie disperse e inedite, in Pasolini
(200, vol. i, p. 1426): «E poi... chi può comprendere un uomo di quarant’anni, / che
soffre fino a sentirsi scollare il cuore / dai precordi... solo perché vede un ragazzo... / due
ragazzi... intorno a una fontanella... / che giocano nel loro dopocena colpevole... / in fondo
alla purezza della notte che copre / il loro quartiere, con la freschezza / che fu di popoli
antichi... Uno si china a bere, / al becco di ferro, e l’altro aspetta, eretto / sui suoi calzoncini
americani: e tutto / è per loro gioventù... che dico gioventù! / Attesa della gioventù... Ah,
ma se essa è mia! / unica mia forma! mio diritto! mia eredità!».
16
1. pasolini alla prova del logos
per poi concludere rocambolescamente che in definitiva il sesso – fonte di
spirito critico e di libertà – è soltanto appannaggio del popolo («Bisogna
essere prole del popolo / per poter sentire il proprio sesso / come un diritto, / rotolarsi / al sole / come animali»)5.
Ora, colto nell’atto di rifrangere la realtà, il λόγος – aristotelicamente
identificato con la “ragione” – si radica nell’opera pasoliniana come sintagma di fermento morale, sociale, cognitivo, estetico, religioso e, in prima
battuta, poetico. Dalle terzine del componimento in oggetto ci è dato ricavare l’identikit di questo “profeta” con un “cuore elegiaco” replicato due
volte e sdoganato nelle pieghe dei versi come mite, inerme e onesto ([...]
appare, / così, indifeso quel mio cuore elegiaco / di cui ho vergogna [...]»),
e comprendiamo che la parola esausta del soggetto “diverso” è anzitutto
correlata al flusso transdiscorsivo della gioventù («stanca e vitale // riflette
la mia lingua una fantasia / di figlio che non sarà mai padre»), così come al
flusso della vita inseparabile da una forma d’amore («[...] contano soltanto
le pure / relazioni di passione e pensiero»), sicché alla parola è attribuita
una funzione mediatrice che ponga in simbiosi l’autore con la sua musa. In
Progetto di opere future Pasolini torna a rimuginare sulle sorti di questo “figlio che non sarà mai padre”, assumendo “l’amore” come nucleo originario
di un’antica morale6 e accompagnando il lettore nei meandri di un senso
di perdita che vira continuamente dal piano privato a quello letterario, e
da quello psicoanalitico a quello etico. In questa prospettiva, la malinconia
diventa una questione di dosaggio che permette al poeta di sprofondare in
crescendo frenetico nel “fango” dove i figli vivono coi padri («[...] sogno
nel fango / armi nascoste, nel fango elegiaco / tra piccoli che giocano, vecchi padri che vangano, // mentre dalle lapidi cade la malinconia»)7, carichi
di un avvertimento che non può che far riflettere: nei campi del Friuli come
nelle borgate di Roma la piccolezza e la finitudine sono rivoluzioni creatrici
(“giocano”, “vangano”) che non solo trasfondono nel cuore la dimensione
5. Ivi, p. 141.
6. Progetto di opere future, in Poesia in forma di rosa, in Pasolini (200, vol. i, p. 1254):
«Quanto a me, tendo pur’io (rabbia) a tale amore, / religione d’un elegiaco figlio, / che
vuole a tutti i costi farmi onore». Si tratta di un concetto puntualizzato da Gianni Scalia
(2020, pp. 17-0, corsivo nel testo): «rabbia vorrebbe dire amore in eccesso. L’eccesso
in amore porta a far sì che l’amore diventi plurale, ovvero “gli amori”: che l’amore diventi
pluriforme, cioè “amore di tutto”; delle persone, delle idee, delle cose naturali [...]. Allora
l’amore è plurale, l’amore è pluriforme e, infine, l’amore è in eccesso, ossia non colmabile,
non risolvibile! Non c’è un oggetto d’amore, ovvero l’oggetto d’amore è mancante, perché
l’amore è desiderio e non bisogno».
7. Appendice 1964, in Poesia in forma di rosa, in Pasolini (200, vol. i, p. 126).
17
giona tuccini
sovrannaturale, ma ispirano anche una continua scelta di vita adombrata
in “armi nascoste”. «Quando si ama non si frequentano le strade maestre»
avvertiva Søren Kierkegaard e Pasolini ne sa qualcosa. La povertà è un’intenzione e con il suo flusso palpitante fa da sfondo al Pianto della scavatrice,
in cui lo scrittore è in sintonia con la grazia del reale e conosce bene il complesso orfico del pantano:
Povero come un gatto del Colosseo,
vivevo in una borgata tutta calce
e polverone, lontano dalla città
e dalla campagna, stretto ogni giorno
in un autobus rantolante:
e ogni andata, ogni ritorno
era un calvario di sudore e di ansie.
Lunghe camminate in una calda caligine,
lunghi crepuscoli davanti alle carte
ammucchiate sul tavolo, tra le strade di fango,
muriccioli, casette bagnate di calce
e senza infissi, con tende per porte...
Passavamo l’olivaio, lo straccivendolo,
venendo da qualche altra borgata,
con l’impolverata merce che pareva
frutto di furto, e una faccia crudele
di giovani invecchiati tra i vizi
di chi ha una madre dura e affamata.
Il concetto di realtà postulato in questi versi è statuito nel corpo, per quella
perennità vitale che lo abita rendendolo il motore nudo di un “quaggiù”
assoluto («una borgata tutta calce / e polverone»). Chi voglia leggerne
l’archetipo alla luce delle testimonianze dell’autore, dovrà rifarsi alla definizione di realtà promossa in termini pragmatici nel saggio La paura del
. Kierkegaard (155, p. 11): «Quando si ama non si frequentano le strade maestre [...];
l’amore preferisce aprirsi da sé le sue strade».
. Il pianto della scavatrice, in Le ceneri di Gramsci, in Pasolini (200, vol. i, p. 6). In
argomento risulta assai pertinente la considerazione offerta in Biancamaria Frabotta (17,
p. 74): «Pasolini soltanto nella semiarcaica folla della borgata può trovare il suo “paesaggio
fatto di pura vita”, un luogo di transito sì, ma mitico e atipico, privo di passages e dunque di
smarrimenti e risvegli».
1
1. pasolini alla prova del logos
naturalismo, posto in appendice alla sezione dedicata al cinema di Empi
rismo eretico: «Per realtà intendo dire il mondo fisico e sociale in cui si
vive»10. È noto come questo eccesso di vita generi nello scrittore il senso
della perdita per quella «infinita fame / d’amore, dell’amore di corpi senza
anima»11 che lo condanna alla solitudine, sfumata nel sentimento splenico,
ragion per cui il tempo presente è sempre incalzato dal tempo più estremo
di tutti, ossia quel “futuro aprile” che nei versi pasoliniani segnala l’al di là
postletale del trapasso. Propriamente parlando, il desiderio e il lutto dionisiaci che rintoccavano già nei verbi di Supplica a mia madre («Tu sei la
sola al mondo che sa, del mio cuore, / ciò che è stato sempre, prima d’ogni
altro amore. / [...] ho passato l’infanzia schiavo di questo senso / alto, irrimediabile, di un impegno immenso. [...] ora è finita»)12 vengono messi
in risonanza anche nella Realtà («Io devo difendere / questa enormità di
disperata tenerezza / che, pari al mondo, ho avuto nascendo»)1, e ciò si
spiega in ragione del senso di morte annidato nell’Eros, pensato mediante
l’oggetto interposto materno: «nel modesto ciuffo pettinato da un’idea
materna / della bellezza maschile, / ardeva il desiderio di morire»14. Ammettiamolo, si tratta di una mortalità impersonale che da un lato sembra
superare la parzialità egocentrica del Narciso friulano, dall’altro invece riduce alla sua vera proporzione la passione carnale di un poeta che, nella
desolazione privata, avverte: «la lussuria cresce con l’età»15. L’ipertrofia
ardente della propria pulsione non è mitigata dalla purezza dell’oggetto
d’amore. Anzi, applicando le norme del paradosso, riflesse in tutta la sua
opera, Pasolini sostiene che la massima lussuria è consentanea al grado più
alto del candore («Essere lussuriosi per descrivere / l’altrui castità!»)16,
giacché entrambi sono inglobati nello stesso mistero destinale del corpo,
come piani convergenti.
10. Appendice. La paura del naturalismo, in Empirismo eretico, in Pasolini (1a, vol.
i, p. 1571).
11. Supplica a mia madre, in Poesia in forma di rosa, in Pasolini (200, vol. i, p. 1102).
Piuttosto intuitivamente, è proprio la natura contraddittoria del desiderio a generare la
dialettica antinomica assenza/presenza. Al riguardo tornano utili le precisazioni contenute
in Aldo Carotenuto (2014, p. 41): «la dimensione amorosa che attraversiamo è sempre
un’esperienza di assenza, e l’assenza ha a che fare con la nostalgia».
12. Supplica a mia madre, in Poesia in forma di rosa, in Pasolini (200, vol. i, p. 1102).
1. La realtà, in Poesia in forma di rosa, in Pasolini (200, vol. i, p. 111).
14. Una disperata vitalità, in Poesia in forma di rosa, in Pasolini (200, vol. i, p. 11).
15. Poesia su una poesia, in Appendici a «Poesia in forma di rosa», in Poesie disperse e
inedite, in Pasolini (200, vol. i, p. 12).
16. Ivi, p. 11.
1
giona tuccini
Se c’è una cosa che bisogna rivendicare quando si ragiona di questo
scrittore è che, per lui, tessere la tela della reminiscenza non distoglie dai
compiti del presente. Afferrata nella sua multiformità, la realtà che problematizza la verbalizzazione ed elettrizza i contenuti attivi nella correlazione tra l’io lirico e il mondo, trova nel λόγος il fuoco industre che la
disciplina. Sul piano dell’enunciato la verbalizzazione lambisce la realtà
con una marea montante di contenuti riconducibile al cumulo nominale
«[...] l’amore vale tutto ciò che ho. / Sesso, morte, passione politica, / sono
i semplici oggetti cui io do // il mio cuore elegiaco...»17 che, a ben vedere,
canalizza nella corrente lirica tutta una costellazione di mondi (plebeo,
contadino, tecnologico, biografico, arcaico). Sul piano dell’enunciazione,
invece, la potenza espressiva del λόγος – inteso a cristallizzare gli elementi
che nella realtà vissuta dal letterato sono dati come inseparabili – viene dosata in un ventaglio di tipologie discorsive che comprendono le strutture
ipotattiche del ragionamento logico-dimostrativo specifico del saggismo
pasoliniano, l’esclamazione intimamente vissuta delle poesie, gli enunciati
del romanzo posti in assetto multicentrico (penso a Petrolio, su cui tornerò
più avanti), le espansioni drammaturgiche che talora levitano nello spessore del sogno, le digressioni sulle quali grava un eccesso di memoria o un
igienico distacco, le descrizioni e le enumerazioni che non solo informano
il discorso ideologico, culturale e poetico al centro degli studi pasoliniani,
ma dànno conto perfino delle proporzioni della vita che – come dicevamo – per Pasolini, messosi a scuola di Dante, è l’abisso più profondo che
ci è dato attraversare.
Per dirla diversamente, il λόγος – da cui prende stoffa l’evoluzione
critica delle forme – è depositario della verità, dell’univocità della realtà,
talché nell’opera del nostro intellettuale esso si attesta quale trascrizione
scalare applicabile alle grandezze dell’esistenza. Questa volontà di dizione
totale della realtà, attuata per i rami della parola, sembra esprimersi non
esclusivamente attraverso la molteplicità dei contenuti e delle categorie discorsive ma, sotto insegna mimetica, anche tramite l’omologazione della
rappresentazione alle strutture del reale (ne è un esempio incontrovertibile
il concetto di cinema come realtà che si auto-rappresenta). In argomento,
Desogus (201, p. 64) afferma che «la realtà è anzitutto il terminus a quo
della semiosi: è una sorgente di espressività che il cinema eleva a sistema
linguistico». Il problema più grosso è che, in questo processo in cui ogni
cosa assume la funzione di segno, la realtà che si auto-rivela è posta a stretto
17. La realtà, in Poesia in forma di rosa, in Pasolini (200, vol. i, p. 1114).
20
1. pasolini alla prova del logos
contatto non solo con il cambiamento concreto e il continuo mutare del
presente, ma anche con il λόγος quale spazio riempito di contenuti intimi
e imbrigliato nelle pieghe del vissuto. Sul côté meramente letterario, c’è da
dire, poi, che il «discorso sopra la realtà»1, che sigilla le terzine della lirica
confluita in Poesie in forma di rosa, corre parallelo alle considerazioni sulla
prassi scrittoria in Petrolio, dove il λόγος viene reclamato quale unico mezzo
di colonizzazione del reale. In questa opera-testamento, in cui la tradizionale forma-romanzo evapora come i chimi di un liquore per disciogliersi
nella baraonda postmoderna, Pasolini (2022, p. 46) prende coscienza che:
Nel progettare e nel cominciare a scrivere il mio romanzo, io in effetti ho attuato
qualcos’altro che progettare e scrivere il mio romanzo: io ho cioè organizzato in
me il senso o la funzione della realtà; e una volta che ho organizzato il senso e la
funzione della realtà, io ho cercato di impadronirmi della realtà. Impadronirmene
magari sul mite e intellettuale piano conoscitivo o espressivo: ma cionondimeno,
in sostanza, brutalmente e violentemente, come accade per ogni possesso, per ogni
conquista.
Eppure, se non vedo male, questa teoria poco si addice a una formulazione
logica del reale, perché fa appello a una stratificazione profonda della coscienza che è essa stessa sorgente primaria e vitale delle elegie del caos che
qualificano la produzione del nostro autore, dai contrasti captabili nei versi friulani, al dissidio insanabile aperto come una voragine nelle Ceneri di
Gramsci (lo scandalo del contraddirsi inscritto nella morfologia micidiale
di un cancro)1, finanche alla dissociazione tripartita ostentata nelle opere
terminali. Basterebbe ribadire non solo che al λόγος viene riconosciuta una
funzione intrinseca al soggetto e alla sua creatività, e quindi archetipica, ma
anche che la contraddizione dell’individuo precede la potenza e la portata
del linguaggio. Con ciò si è detto tutto e le considerazioni successive diventano quasi superflue. Prendiamo questi versi:
Rimase l’inclinazione allo scisma:
un naturale bisogno di farmi male alla ferita
sempre aperta. Un configurare
ogni rapporto col mondo che a sé m’invita20.
1. Ivi, p. 112.
1. Poesie mondane, in Poesia in forma di rosa, in Pasolini (200, vol. i, p. 105): «farmi
morire per cancro da scandalo».
20. La realtà, in Poesia in forma di rosa, in Pasolini (200, vol. i, p. 1115).
21
giona tuccini
Nella sua contraddittorietà, il λόγος del poeta sequenzia il reale – il suo
mondo – centrandone e ritagliandone i significati profondi in progressione
non lineare, bensì con il movimento del rigurgito, di un dolore pulsante. L’acuto paradosso che Pasolini sdoganava sotto forma di sineciosi fortiniana, ovvero l’ὀξύμωρον, il definire le cose per contrapposti acciocché
la poesia resti il contrario di una merce, si riveste tuttavia di un mistero
epistemologico che è la condizione percepita nell’affermazione quotidiana dei propri limiti, delle antitesi di una vita ardente. E questo lo scriveva
Ludwig Wittgenstein21, nella convinzione che il soggetto non appartenesse al mondo, ma che anzi fosse il limite del mondo. In poco meno di un
frustolo (il «rapporto col mondo che a sé m’invita») c’è tutto il vigore
e il raggio d’azione del λόγος che, in ultima battuta, procede dalla visione
dell’individuo, dalla sua «ferita sempre aperta». Finché la vastità del reale
sarà penetrata dalla potenza del λόγος, la capacità del linguaggio di superare
i limiti del mondo – che a un certo punto Guattari (2020) definisce Chaos
mose – dipende da quel «configurare» che implica una risemiotizzazione
dell’esperienza.
Ora, in Pasolini l’intento di organizzare (che è un geometrizzare) il reale, ovvero di vivere il contenuto unicamente sotto la struttura, oltrepassa lo
squarcio lirico per pietrificarsi nel fenomeno dell’iterazione, nell’impianto
metrico sorvegliato, nel ricorso al sacro composto nelle tragiche combinazioni del mito, nelle pratiche citazionali che danno conto del travaglio
stilistico consumato nella fucina dello scrittore; meccanismi verbali, questi,
che esigono un lavoro della parola sulla parola, spalancando nuovi spazi
alla stratificazione testuale. Il punto è chiedersi in che misura queste forme
siano estranee alla vita intima dell’artista. Se l’amore per la realtà si trova
preformato nella dualità forma/sostanza, materiale/immateriale, istinto/
ragione, alla coscienza affiorano contenuti privati non sempre scorporabili da quelli linguistici e intellettuali, e ciò è scontato perché, come ha
ben opinato Anna Ludovico (17, p. 6), «Percepire e verbalizzare sono
la “biunità” del principio di realtà che codifica e transcodifica l’esistente
come conoscenza». C’è poi un altro punto. Quando Pasolini osserva che
21. Cfr. Wittgenstein (1, pp. 2-, corsivo nel testo): «per tracciare un limite al
pensiero, noi dovremmo poter pensare ambo i lati di questo limite (dovremmo, dunque,
poter pensare quel che pensare non si può). [...] I limiti del mio linguaggio significano i
limiti del mio mondo. La logica pervade il mondo; i limiti del mondo sono anche i limiti
di essa. Noi non possiamo, dunque, dire nella logica: Questo e quest’altro v’è nel mondo,
quello no. [...] Ciò che noi non possiamo pensare, noi non lo possiamo pensare; né, di
conseguenza, noi possiamo dire ciò che noi non possiamo pensare».
22
1. pasolini alla prova del logos
«non si sfugge alla realtà, perché essa parla con se stessa, e noi siamo nel suo
cerchio»22 fondamentalmente afferma che i λόγοι del poeta sono inabissati
nella sua realtà privata, ma ci dice anche che il testo letterario – che arbitrariamente si rivolge a un destinatario – a conti fatti è un monologo, una
realtà che parla con sé stessa2. Per Hans-Georg Gadamer questa frequenza
monologica annulla il dialogo vivente con l’alterità del testo, ridotto com’è
a un organo funzionale allo svolgimento di un tema prefissato24. Per restare
all’analisi del componimento pasoliniano da cui siamo partiti, bisognerà
aggiungere che – fra i temi più tempestosi attorno a cui si rapprende lo spessore del λόγος – emerge quello incomprimibile della differenza intrinseca
all’interno di un’uniformità. Il tentativo di dare forma al caos e di concludere il discorso sulla realtà, infatti, è nuvoloso per statuto perché è tassato,
nelle sue intenzioni, da una percussiva dichiarazione di “diversità” leggibile
in filigrana nelle terzine della Realtà (vv. 175-15). Qui l’autore ci avverte
che la sua rappresentazione del mondo non può essere perfettamente razionale, perché è pur sempre correlata alla febbre di vita di un rabdomante
consapevole, la cui omosessualità, tuttavia, è generatrice di discontinuità.
Leggiamo la chiusa:
Questo può urlare, un profeta che non ha
la forza di uccidere una mosca – la cui forza
è nella sua degradante diversità.
Solo detto questo, o urlato, la mia sorte
si potrà liberare: e cominciare
il mio discorso sopra la realtà25.
22. Essere è naturale?, in Empirismo eretico, in Pasolini (1a, vol. i, p. 156).
2. Cfr. La fine dell’avanguardia, in Empirismo eretico, in Pasolini (1a, vol. i, p. 1421,
corsivo nel testo): «mi ci è voluto il cinema per capire una cosa enormemente semplice, ma
che nessun letterato sa. Che la realtà si esprime da sola; e che la letteratura non è altro che
un mezzo per mettere in condizione la realtà di esprimersi da sola quando non è fisicamente
presente. Cioè la poesia non è che una evocazione, e ciò che conta è la realtà evocata che
parla da sola al lettore, come ha parlato da sola all’autore».
24. Nel notare che «ogni fissazione è una mutilazione», il filosofo tedesco conclude che i «lόgoi, che si presentano estrapolati dalla situazione comunicativa, sono esposti
all’abuso e all’incomprensione, poiché sono privi dell’automatica correzione prodotta dal
dialogo vivente» (Gadamer, 2001, p. 05).
25. La realtà, in Poesia in forma di rosa, in Pasolini (200, vol. i, p. 112). Quello della
diversità è davvero un tarlo che si fa strada nei pensieri pasoliniani. In Enigmi. Enigmi grandi...
enigmi piccoli, l’autore confessa: «I più dei miei fastidi, la maggior parte dell’odio che mi si
dedica, vengono dal fatto che sono diverso. Lo sento, questo odio, è “razziale”. È il razzismo
che viene esercitato contro tutte le minoranze del mondo» (Pasolini, 1, ora in Id., 1b, p.
2
giona tuccini
Ragion per cui, la dimensione essenziale dell’enunciazione dovrà essere rivendicata dal critico quale luogo stesso sia dell’esperienza espressiva, sia del magma del dissidio, vale a dire delle pulsioni del poeta che vive e respira nei segni
del reale dove l’io, l’opera e il mondo sono posti in asse. Se non fosse tallonato
dalla mannaia della contraddizione, dall’istante semelfattivo dell’amore carnale e dal termine fatale dei propri istinti, lo scrittore non verrebbe a capo
di niente, giacché nei suoi versi sono la vita folgorante e l’intensità patetica
della diversità a sottrarre il soggetto all’irrealtà incistata nei sogni borghesi:
«Nulla è più terribile / della diversità. Esposta ogni momento / – gridata senza fine – eccezione // incessante – follia sfrenata / come un incendio – contraddizione / da cui ogni giustizia è sconsacrata»26. È come se la realtà, per
affermarsi, dovesse essere contrapposta sempre al suo grado diametrale, ossia
l’irrealtà contro la quale protesta. Nella prospettiva di tale contraddittorio,
l’irrealtà – che non può conciliarsi con la realtà – diventa suo malgrado una
condizione di esistenza per quegli ingranaggi che, nel Libro degli amici di Hugo von Hofmannsthal (200, p. 4), inalberano un dilemma irritante: «Chi
afferra la massima irrealtà, plasmerà la massima realtà». Questa dialettica,
che va al cuore della tragedia della cultura contemporanea, ci rinvia inderogabilmente a Elsa Morante nel cui saggio Pro o contro la bomba atomica la
riflessione pasoliniana sulla realtà trova solide sponde.
Negli ultimi tempi è stato Walter Siti (2022, p. 1) a ribattere che il
concetto di irrealtà postulato da Morante esercitò un grande influsso sull’amico Pasolini, rilevando altresì come nell’opera dei due scrittori alligni uno
stesso concetto di realtà attraversata dal sacro, ch’è la prerogativa degli umili
e dei segnati. Se la realtà che questi ultimi incarnano è perennemente vitale, indegradabile, univoca, integrale (a tal punto da inglobare la morte)27,
1507). Quanto al “profeta che non ha la forza di uccidere una mosca”, il rimando va all’accusa
di rapina a mano armata mossa a Pasolini il 1 novembre 161, al cuore delle vituperanti Note
psichiatriche del professore Aldo Semerari (antisemita e anticomunista affiliato alla p2 di Licio
Gelli) in cui millantava oggettività scientifica nell’argomentare la pericolosità, la perversione
e l’infermità mentale del poeta che replicò su “Vie nuove”, 2, 12 luglio 162 (ora in Pasolini,
12, p. 271): «Nulla è più contrario alla mia natura che la violenza. Ridete pure: ma io mille
volte ho fatto come Tobia: ho preso una mosca, e poi l’ho lasciata andare perché non avevo
il coraggio di ucciderla. Non solo non ho mai posseduto una pistola, io: ma potrei giurare di
non averne mai neanche toccata una, e di averne vista una sì e no una o due volte in vita mia.
Sono stato in India, in Africa, in regioni anche pericolose, dove andare armati può essere
consigliabile: io non solo non avevo in tasca una pistola, ma neanche un coltellino, un temperino». Di questa vicenda tratta anche Giovanni Giovannetti (2020, pp. 276-2).
26. La realtà, in Poesia in forma di rosa, in Pasolini (200, vol. i, pp. 1122-).
27. Cfr. Morante (201, p. 102).
24
1. pasolini alla prova del logos
contrariamente l’irrealtà calata nei potenti e nel corpo borghese ne rappresenta il logorio, l’alienazione e in ultima battuta la disintegrazione2. In altri
termini, l’irrealtà sarebbe l’esperienza della negazione e della privazione di
quella realtà concreta che, senza alcun sottinteso, nel saggio Nove domande
sul romanzo è dotata di una ricchezza mai rarefatta, mai lacunosa, eternamente insorgente in ogni creatura che voglia farla propria2. Tale concetto
è esplicitamente accentuato nei “Dialoghetti” su cinema e teatro in cui Pasolini, a colloquio con Franco Citti, interrogatosi su che cosa sia la realtà,
riprende la definizione morantiana di irrealtà come ingiustizia opposta alla
realtà dei puri che lo stesso Citti afferma di rappresentare0. Dopo aver insistito sulla sacralità del reale che l’irrealtà vorrebbe sopprimere e condannare all’inesistenza, in Pro o contro la bomba atomica Morante scrive infine
che la presenza speciale della realtà, immediatamente vissuta come pienezza
affermativa, si consuma nell’alterità della creatura1. Al lume dei fatti, il tema della diversità del puro è messo in contatto con quello della giustizia
anche nei versi della Realtà, allorquando Pasolini intesse una melopea dello
scartato chiamato a insorgere:
Ah Negri, Ebrei, povere schiere
di segnati e diversi, nati da ventri
innocenti, a primavere
2. Cfr. ivi, pp. 10-4.
2. Ead. (15, ora in Ead., 201, pp. 44-, corsivo nel testo): «Non occorre far notare, evidentemente, che opera poetica significa, per definizione, un’opera che, attraverso la
realtà degli oggetti, renda la loro verità poetica: è inteso da tutti che questa verità è l’unica
ragione del romanzo, come di ogni altra arte. L’interezza, poi, dell’immagine rappresentata, distingue il romanzo dal racconto. Il racconto, difatti, rappresenta un “momento” di
realtà, mentre il romanzo rappresenta una realtà [...]. Bisogna riconoscere, a questo punto,
che simili recensori [certi piccoli recensori di romanzi] di rado osano nominare la verità:
essi nominano più volentieri la realtà, ma hanno il potere, coi loro argomenti, di rendere
irreale perfino questo nome. Non si capisce, difatti, in quale mondo esista il feticcio inerte e rudimentale nel quale essi pretendono di identificare la “realtà assoluta”. Se la realtà
fosse quel simulacro convenzionale vantato da loro, la scienza e l’arte sarebbero morte sul
nascere, per mancanza di alimento. Come ogni altra viva esperienza umana, difatti, l’arte
non può nutrirsi che di realtà. E certo non basteranno le presunzioni ignoranti dei nostri
piccoli conformisti a farla morire di inedia e di noia. La ricchezza della realtà, a loro torto
e dispetto, è inesauribile: essa si rinnova e si moltiplica per ogni nuova creatura vivente che
parte a esplorarla».
0. “Dialoghetti” su cinema e teatro, in Pasolini (1b, p. 114).
1. Cfr. Morante (15, ora in Ead., 201, p. 4, corsivo nel testo): «La molteplicità
delle esistenze non avrebbe né significato né ragione, se non fosse che per ogni esistenza si
scopre una diversa realtà. L’avventura della realtà è sempre un’altra».
25
giona tuccini
infeconde, di vermi, di serpenti,
orrendi a loro insaputa, condannati
a essere atrocemente miti, puerilmente violenti,
odiate!2
Da ciò si evince che la finalità della vita umana riflessa nel diverso e nel poeta sia necessariamente quella rivoluzionaria, giacché l’unico ordine intelligibile in grado di rigenerare il soggetto nel caos è quello tracciato nel Poeta
delle ceneri dove, su cadenza morantiana, Pasolini ci dice che lo scrittore è
sempre una contestazione vivente e che deve affermare in modo vieppiù
forte il disprezzo verso la borghesia e l’irrealtà elevata a forma di realtà.
In fin dei conti, non era questo il messaggio di Cristo messo al centro del
Vangelo secondo Matteo che, nel porre la domanda «Ma voi, chi dite che io
sia?» (Mt 16,1-20), esaltava spiritualmente ad sidera la realtà dei segnati e
sovvertiva ogni scarto feroce, ogni ridicola riparazione, la cattiva sincronizzazione dell’umano rispetto alla libertà di essere che lo consegna all’irrealtà in perfetta asepsi morale? La vera contestazione rivoluzionaria sta nel
combattere palmo a palmo l’azione prosaica del conformismo, e questo lo
comanda un Cristo poeta che fa della ribellione un’epigenesi dell’evoluzione, avvertendoci che l’infrazione del divieto è il prezzo da pagare acciocché
subentri la coscienza risvegliata dall’allogeno irriducibile:
Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non son venuto a portare
pace ma la spada. Perché sono venuto a dividere l’uomo dal padre suo, e la figliola
dalla madre sua, e la nuora dalla suocera sua: e nemici dell’uomo saranno i suoi
familiari. Chi ama il padre e la madre più di me, non è degno di me; e chi ama il
figliolo o la figliola più di me, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita, la
perderà; e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la ritroverà4.
Prima di portare la verifica e la riflessione su alcuni termini-chiave della
mia argomentazione (il λόγος della tradizione, della trasposizione e della
traduzione), sarà bene indugiare sulle trasformazioni cui sono sottoposte
2. La realtà, in Poesia in forma di rosa, in Pasolini (200, vol. i, p. 112).
. Cfr. Poeta delle ceneri, in Poesie varie e d’occasione, in Pasolini (200, vol. ii, pp.
126-).
4. Il Vangelo secondo Matteo, in Pasolini (2001a, vol. i, p. 5). Su questo specifico
aspetto del Messia onnivedente che rinuncia alla sua mitezza per metterci in movimento,
valgano le parole spese in Erri De Luca (2010, p. 6): «Non è riparo, arrocco, trincea, l’esempio che dà il Cristo, ma scelta di sbaraglio e opposizione ai poteri del tempo, politici e
religiosi. Pratica la libertà che non è pista battuta, ma apertura di traccia in neve fresca».
26
1. pasolini alla prova del logos
le articolazioni fondanti della rappresentazione verbale. E cominceremo
col dire che, ricorrendo all’intero universale linguistico – tenendo conto
di tutte le possibilità enunciative che siano tanto superindividuali quanto
immanenti alla materia della soggettività – Pasolini si cimenta in un progetto discorsivo che trova immediatezza nell’alterità e nell’intertestualità. Partiamo da questo distico: «Io sono abituato a leggere nell’occhio /
la bellezza di chi mi è davanti»5. Il sorgere di questo slancio ci riporta
anzitutto all’umanità di Pasolini vissuta nella sua flagranza concreta nella
convinzione che l’occhio e lo sguardo trattengono sotto uno stesso giogo
lo spirituale e il corporeo. Questo incastro è una modalità particolare di
prossimità al sacro nella misura in cui ciò che il poeta avverte nell’osservare la realtà integrale dell’altro costituisce lo sfondo di quanto Lévinas
(10, p. 204) ci ha rivelato: nella nudità dello sguardo dell’altro che mi
è di fronte («nella nudità totale dei suoi occhi, senza difesa»), avverto
che l’uomo è per l’Eterno («apertura assoluta del Trascendente»). Così
come ci è dato localizzare l’anima all’interno del corpo, allo stesso modo
la realtà dell’altro – veicolata dallo sguardo – è inscritta nel λόγος o, per
dirla altrimenti rifacendosi al secondo titolo originario di Petrolio, è racchiusa in questo vaso. Nel suo centro sostanziale, l’occhio (come visus) è
immerso nel linguaggio che lo impregna da ogni poro. E ciò è determinato ancora una volta da Lévinas (ivi, p. 177) che ritaglia un segmento
etico nel senso globale dei significati: «La “visione” del volto non si separa da questa offerta costituita dal linguaggio. Vedere il volto significa
parlare del mondo. La trascendenza non è un’ottica ma il primo gesto
etico».
Ora, nella Guinea il λόγος non è rappreso unicamente nel linguaggio,
ma trova il suo epicentro nella nudità della creatura e nell’autenticità del
suo offrirsi come monade. Sotto questa luce il giovane subalterno – che
condivide con Eros e i santi un’eccellenza effimera – è una figura emblematicamente fragile nei confronti della quale l’autore è chiamato ad
assumersi una responsabilità incondizionata, riconoscendo nel candore
un’arma da guerra contro l’irrealtà. Sennonché questo cogliere al volo la
sacralità precaria dell’innocenza avviene tutta nella carne che possiede il
monopolio della realtà, dato che la distanza minima del poeta dal reale
è la stessa che gli consente di soddisfare nelle fibre “l’infinita fame d’amore”. Nei versi che seguono, l’alterità è sostanzializzata e spazializzata
5. Regni di ginestre, in Appendici a «Poesia in forma di rosa», in Poesie disperse e inedite,
in Pasolini (200, vol. i, p. 1414).
27
giona tuccini
nel corpo (volto, zigomi, fronte, nuca, capelli, pelle, membra), talché la
passione reifica la tentazione e trasforma il λόγος in una propagazione
tangibile:
Alle volte è dentro di noi qualcosa
(che tu sai bene, perché è la poesia)
qualcosa di buio in cui si fa luminosa
la vita: un pianto interno, una nostalgia
gonfia di asciutte, pure lacrime.
[...]
Altro colpo di pollice ha la Bellezza:
modella altri zigomi, si risente
in altre fronti, disegna altre nuche.
Ma la Bellezza è Bellezza, e non mente:
qui è rinata tra anime ricciute
e camuse, tra pelli dolci come seta,
e membra stupendamente cresciute6.
La bellezza è una scheggia nella carne e il volto qui evocato ha in sé qualcosa
di sacro – Lévinas scrive “santo”7 – nella sua nudità e fragilità che, secondo
lo scrittore, oppongono tenacemente una resistenza etica all’irrealtà, a ogni
forma di dominio e di conoscenza. Ragion per cui, osiamo concludere, nel6. La Guinea, in Poesia in forma di rosa, in Pasolini (200, vol. i, pp. 105-7).
7. Su rintocco levinassiano, per lo stesso Pasolini santo è un riflesso condizionato di
sacro, come dimostrano le parole del Centauro che in Medea ripete ritualisticamente per
tre volte la formula «Tutto è santo», a segnalare il carattere trascendentale, separato, imperscrutabile della natura e delle sue irradiazioni. Cfr. Medea, in Pasolini (2001a, vol. i, p.
1274). Altresì, sugli elementi naturali quali gradienti di santità che costellano il monologo
di Chirone, fanno luce le considerazioni dell’autore sulla natura come forma di “linguaggio
puro”, in I segni viventi e i poeti morti, in Empirismo eretico, in Pasolini (1a, vol. i, pp.
157-4): «Il linguaggio più puro che esista al mondo, anzi l’unico che potrebbe essere chiamato linguaggio e basta, è il linguaggio della realtà naturale. Per esempio, quello delle
file di pioppi, dei prati verdi e del Lambro, che mi ha “parlato” presso Milano nelle ultime
scene dell’Edipo. [...] Naturalmente il linguaggio di questi luoghi, di questi “particolarismi” naturali, sono enormemente contaminati da una serie di linguaggi, chiamiamoli
così, “integranti” (per es. il mio italiano attraverso cui traduco la mia percezione di essere
naturale di questi aspetti della natura) [...] e poi, da tutti gli infiniti linguaggi non scenici,
di cui mi fornisce esperienza la mia anagrafe, il mio censo, la mia educazione – la società e
il momento storico in cui vivo. Una sintesi di tutti questi linguaggi integranti uniti al puro
linguaggio della mia presenza naturale di vivente (come un pioppo), è il linguaggio della
mia realtà umana».
2
1. pasolini alla prova del logos
la crasi tra occhio e linguaggio è implicita la salvezza, almeno fino a quando
al tramonto dell’alterità tale vincolo vitale non viene soppiantato dal patto
industriale.
Per riportare il tema sulle tre parole-chiavistello anticipate sopra, diremo come il programma discorsivo marcato dall’alterità e dall’intertestualità
proietti l’espressività oltre il discorso confinato in uno schematismo esteriore, lanciandolo nell’interregno del prefisso “tra” della tra-sposizione e della
tra-duzione, dove l’unità vivente è garantita dalla convergenza con la parola
altrui da metabolizzare. Conferendo al verbo un significato transitivo, il “tra”
implica l’intervento di un elemento agente, il cui operato consisterebbe nella
vita e nella realtà stessa del λόγος. Ora, attraverso il contatto dell’io con la
parola altrui, la forma e la sostanza dell’esprimersi si fondono in quel qualcosa
di intuitivamente vissuto e di inesprimibilmente semplice che altro non è se
non la bellezza dell’influsso e la pregnanza della reattività culturale.
Alla luce di ciò, il morfema “tra” – quale epicentro metaforico e spazio
semiotico di smistamento – canalizza una fiorita di materie affettive, esperienze soggettive e passioni estetiche per coniarle in nuove forme ibride.
Nelle contaminazioni del “tra” c’è tutto un commercio di segni e di significati espresso nel passaggio da un punto all’altro, nell’attraversamento inteso come penetrazione, nell’oltranza del “tra” che, al pari del velocista gettato in avanti e tenuto in equilibrio dallo slancio, si spinge “oltre” sboccando
nell’ultra. Sennonché, come ogni tragitto che si rispetti, tale movimento
presuppone, nella manifestazione discorsiva, l’esistenza di una partenza che
è inizio del senso (ἀρχή, “origine, comando, principio”) e, simmetricamente,
di un punto di arrivo (τέλος, “fine”). Ebbene, in un sondaggio pasoliniano
recente (Tuccini, 202) mi sono interrogato proprio sul lavoro della verbalità come passaggio consumato nell’ambivalenza della trasformazione, implicante la decostruzione del significato seguita dalla costruzione del testo
o del prodotto transcreativo. In tale andirivieni, la tradizione, intesa come
trasmissione di forme e contenuti, si colloca alla radice della verbalità, se è
vero che il discorso pasoliniano (attaccato sul motivo «Io sono una forza
del Passato. / Solo nella tradizione è il mio amore. / Vengo dai ruderi, dalle
chiese, / dalle pale d’altare, dai borghi / abbandonati sugli Appennini o le
Prealpi, / dove sono vissuti i fratelli» ecc.) è, come dicevamo all’inizio,
. La Guinea, in Poesia in forma di rosa, in Pasolini (200, vol. i, p. 10): «è, caro
Attilio, il patto industriale. // Nulla gli può resistere [...]. // irreale è ogni idea, irreale ogni
passione, // di questo popolo ormai dissociato / da secoli, la cui soave saggezza / gli serve
a vivere, non l’ha mai liberato».
. Poesie mondane, in Poesia in forma di rosa, in Pasolini (200, vol. i, p. 10).
2
giona tuccini
il luogo della manifestazione di significati stabiliti, preesistenti, ipostatici.
Per comprendere i fondamentali di questo ragionamento va osservato che
l’uomo del passato, che si cala pieno di entusiasmo nelle tracce spirituali e
materiali di un tempo trascorso, legge l’archetipo nel λόγος e dispone della
scala dialettica per assottigliare la distanza tra qui (ἐνταῦθα) e laggiù (ἐκεῖ).
La seguente dichiarazione ci informa che la parola, il poeta e la memoria
sono tre isole empiriche nelle forme percettive umane e artistiche, messe in
rapporto dalla forza delle rappresentazioni radicate nella giovinezza filogenetica dello spirito:
io sono un uomo antico, che ha letto i classici, che ha raccolto l’uva nella vigna,
che ha contemplato il sorgere o il calare del sole sui campi, tra i vecchi, fedeli
nitriti, tra i santi belati; che è poi vissuto in piccole città dalla stupenda forma
impressa dalle età artigianali, in cui anche un casolare o un muricciolo sono
opere d’arte, e bastano un fiumicello o una collina per dividere due stili e creare
due mondi40.
Per allargare il campo alle vibrazioni d’interferenza è interessante notare come, nel caso di Pasolini, questo al di qua sia un al di là sublimato,
ed è già un fatto molto caratterizzante che, per lui, “trasporre” significhi
quasi sempre “transcreare”, dove il valore dinamico della aemulatio e della traduzione artistica si confonde con quello della pura trasmissione di
contenuti, del rifacimento e della metamorfosi del testo, in quel punto
in cui il transferre si identifica con il tradere. Per mettere a fuoco questa
specifica prassi discorsiva, nel cui ambito Pasolini si distingue per l’arbitrio assoluto dell’immaginazione creatrice, va detto che fra traduzione
e produzione originale c’è interazione costante, se non altro perché la
prima colma i silenzi della seconda. Mi limito a citare il neomedievalismo estetizzante del Decameron, dove la trascrizione, la transcreazione
e l’invenzione forsennata sono ausili ermeneutici alla lettura del testo di
riferimento, in una diacronia fiorentino-napoletana che, per il Medioevo
pasoliniano, è anzitutto una pancronia garantita dalla compresenza di
differenti livelli socioculturali che trascendono le epoche. Per corredare
questa considerazione, potremmo rifarci al bisticcio dialettico “traduzione = tradizione” dove il λόγος storico degli idiomi e la traduzione nella
sua vita millenaria appaiono come la manifestazione tangibile dei cosiddetti universali linguistici al fondo del celebre proverbio paronomastico
40. Quasi un testamento, in Pasolini (1b, pp. 61-2).
0
1. pasolini alla prova del logos
“traduttore = traditore”, messo in circolo da Roman Jakobson allorquando alludeva lepidamente alle criticità del traduttore alle prese con i casi
d’intraducibilità nelle lingue41.
Sulla base di queste premesse, se dovessimo scegliere un’unica parola
che sintetizzi la radicalità sovvertitrice dei tre termini-chiave – tradizione,
trasposizione, traduzione – soggiacenti contemporaneamente ai significati
da essi veicolati e alle strutture fluide in cui essi si incarnano proditoriamente, penserei a “trasgressione”. Anzitutto, trasgressione della forma che
comanda a bacchetta tutte le congetture fatte dall’autore con una matematica ingegnosa; uno schema proteiforme, presto ad atrofizzarsi e a sparire
per riapparire subito dopo sinuose metamorfosi, acciocché possa giocare
con i contenuti che lo dilatano e lo restringono a capriccio. Penso alla composizione “a brulichio” o “a vortice” di Petrolio dove attorno a una riconoscibilissima struttura portante gravitano fatti aggiuntivi, blocchi narrativi
che ribollono come i gorghi del Solaris di Tarkovskij. Trasgressivo è questo
libro che si espande a partire da uno schema di base; e trasgressiva è persino
la digressione vitale che prima dicevamo implicita nel prefisso “tra” e che in
Petrolio determina fluttuazioni di identità, i capitomboli, il ripiegamento
verso il basso della parodia, il disordine della proliferazione ad libitum degli
eventi reali o allegorici. E se l’umorismo mette in rilievo la dissociazione
del sé dalla irrealtà rifiutata, in Petrolio l’uomo è a un capello dall’epilogo,
e colui che presagisce la grande risoluzione degli equivoci – sancita dall’incendio semplificante della morte – si raffigura nell’avvento di una grande
fiera parodica: «ho eretto questa statua per ridere» (Pasolini,
2022, Appunto 74a, Glossa, p. 45).
Quanto alla poesia, invece, la critica più avveduta ha potuto precisare
come la trasgressione consista nel sottoporre forme e strutture a un inesausto processo di corrosione della loro integrità o di contestazione della loro
normatività. Penso, ad esempio, in sede fonica, all’assonanza squisitamente
visiva del binomio “alba pratalia”42 o alla clamorosa irregolarità di un verso
quale «nel Friuli dei miei numi»4 dove, ancora una volta, l’unità ritmica
41. Jakobson (166, p. 64): «Se si dovesse tradurre in inglese il detto italiano tradizionale: traduttore, traditore, con “the translator is a traitor”, si toglierebbe all’epigramma il
suo valore paronomastico. Di qui un’attitudine conoscitiva che ci obbligherebbe a svolgere
questo aforisma in una proposizione più esplicita, e a rispondere a queste domande: traduttore di quali messaggi? traditore di quali valori?».
42. La Guinea, in Poesia in forma di rosa, in Pasolini (200, vol. i, p. 101): «E... alba
pratalia, alba pratalia, / alba pratalia... I prati bianchi!».
4. La realtà, in Poesia in forma di rosa, in Pasolini (200, vol. i, p. 1117).
1
giona tuccini
disattende schemi prefissati. Sono prodotti, questi, di un poeta che gioca
con la realtà mediante un atto di arbitrio volto a stabilire le denominazioni
del λόγος, puri suoni posti alla radice di concetti mitico-linguistici in cui
la realtà si addensa non soltanto con tutto il suo portato esistenziale, ma
soprattutto con il suo spirito. Trasgressiva è la sperimentazione implicita
in queste prove perché valica la frontiera dell’arbitraria invenzione umana per consegnarci precipitati di suggestioni, emanazioni che provengono
dall’esterno, compendi, frustoli, schegge, stralci di un discorso più ampio
e articolato che prolunga in trasparenza nell’al di qua della vita le linee infinite di un al di là già tutto soprannaturale. Ecco perché l’uso che Pasolini
fa del λόγος è un uso a oltranza, in senso adamitico e veterotestamentario.
Fermo è il legame con la tradizione classica e con il Dante del «trapassar
del segno»:
Or, figliuol mio, non il gustar del legno
fu per sé la cagion di tanto essilio,
ma solamente il trapassar del segno (Paradiso, xxvi, 115-117).
Come sappiamo, il punto qui non è tanto aver gustato il frutto proibito,
quanto aver infranto il divieto divino in materia di conoscenza; un ribaltamento posto in suite organica con il caos, la cui azione carismatica nelle
pieghe della scrittura è tutta in quel “fuoco senza tempo” evocato nei versi
di Pasolini44, finitimo alla «ferocia necessaria alla poesia», per dirla ancora nei suoi termini45. Sempre in controluce e in sottofondo, il lavoro del
linguaggio sul linguaggio, dentro l’ordine simbolico del reale, restituisce
il λόγος alla sua funzione originaria: quella della parola fondatrice e testamentaria che precede il soggetto, lo trascende e si proietta oltre la sua fine,
ibernandolo nella perennità del verbo. Propriamente parlando, il λόγος della realtà è coniugato all’universale mediante l’atto ermeneutico del comprendere. Più in profondità lo scrittore penetrerà il dato individuale, maggiore sarà il premio di una conoscenza universale giacché, come abbiamo
argomentato, nell’opera pasoliniana l’umanità è il frutto combinatorio di
un elemento sensibile e di un elemento spirituale gustato voluttuosamente
nel tempo presente, ragion per cui il λόγος quale trascendenza dell’umano
e divinazione del poeta è irradiazione di un’idea eziologica logicamente
motivata dall’equazione paronimica numina = nomina.
44. Ivi, p. 1122: «[...] se il rapimento degli Autori // dell’Apocalisse affabula in un
fuoco / che non ha tempo».
45. Ivi, p. 111: «[...] con la ferocia necessaria // alla poesia».
2
1. pasolini alla prova del logos
La parola del profeta (così Pasolini si autodefinisce insidiosamente
nei versi che abbiamo analizzato e che ora riprenderemo) consiste nel
perpetuarsi di questo equilibrio tra io e tempo. Rabdomante consapevole
è l’antesignano che, anticipando le epoche, oltrepassa i limiti, facendo a
sua immagine il λόγος. Sennonché questo demiurgo non è soltanto oltranzista, installato com’è nello spessore tra limite e assoluto nell’arco
del presente, ma è soprattutto massimalista nella convinzione che in definitiva non c’è niente di più verbale del λόγος della morte. Tutta la sua
produzione è il riflesso di questa escatologia perentoria che intercetta l’estinzione dei tempi nell’ultima parola esiziale della storia sbocciata nel
nulla invariato della Dopostoria, la cui eternità non ha addentellati nel
passato né alcuna ricaduta nella tradizione. Stravolto è persino il rapporto
dell’uomo con la natura, e impossibile è il legame del poeta elegiaco con
una civiltà non più preindustriale, contadina e religiosa, bensì capitalista,
massificata, involgarita. Il circuito con la realtà è definitivamente bruciato perché – lo abbiamo messo in chiaro – lo scrittore senza speranza è
schiacciato dall’irrealtà e non può sopravvivere. Con ciò in mente, rileggiamo i versi incriminati:
Questo può urlare, un profeta che non ha
la forza di uccidere una mosca [...]
[...] e cominciare
il mio discorso sopra la realtà46.
La lettura di questi lacerti, in cui lo scrittore si dichiara “profeta”, ha esposto
lettori e redattori a gravi errori di interpretazione e a continue cantonate. Il
suo messianesimo non deve essere confuso con il missionismo. Eccessivo,
oltranzista, massimalista e purista quanto vogliamo, Pasolini non si è mai
creduto investito di una missione e ha rinunciato da subito all’idea del poeta teoforo. Piuttosto, sente di poter anticipare i tempi perché il futuro è un
presente vicinissimo, dietro una membrana trasparente. E l’urlo è un grido
parenetico che annuncia l’inizio della fine. Il lettore deve sentirla arrivare
nei ritmi di un’opera sempre più frenetici e frastornanti all’avvicinarsi del
prestissimo finale. A conti fatti, l’estinzione di ciò che era vivo spiega l’ultimità del “profeta”, la sua parola definitiva. E su ciò bisogna insistere perché il
messaggio dell’antesignano non è soltanto riferibile alla totalità, ma anche
all’ultimità da cui scaturisce una celebre villotta:
46. Ivi, p. 112.
giona tuccini
O ciamps lontans! Miris’cis!
Ciantànd o no ciantànd,
no sai coma nè quand,
alc di umàn al è finìt!47
Come abbiamo detto, l’uomo che trapassa il segno è un uomo che esagera,
come esagera Pasolini – a una linea dallo scandalo – quando immette nel
gioco del linguaggio il corpo morto, inalberato come segno tracciante; un
ingrediente verbale, quello della morte, che infutura la parola dell’autore
trasportandola oltre la sua vita. Il programma del λόγος, assunto consapevolmente dall’individuo nella realtà puramente ottica dell’esistenza, rimonta dunque all’esprimersi come atto di morte, e cioè fino al compimento
definitivo del messaggio, quando il soggetto cessa di respirare nell’a-priori
irriducibile della poesia che aveva informato la vita e colorato tutti gli istanti
del suo divenire: Hic desinit cantus. Il poeta ha finito di cantare, il tempo ha
fatto il suo tempo e le cose cessano di essere pensabili. Non c’è altra soglia da
varcare. Morendo, l’homo duplex lacerato nel corpo della Storia raggiunge
la soglia della massima espressione e ritorna all’Uno, come Pasolini si rassegna a riconoscere in Bestia da stile quando fa dire alla sorella di Jan che «lo
Sdoppiato ritorna umilmente Unico»4. La morte, pertanto, è sia un limite
esterno, e in qualche modo spaziale, che determina la vita dal di fuori, sia
un’esperienza enunciativa legata alla vita dal di dentro e a-priori; e sebbene
ne sia l’antitesi materiale, sul piano verbale e tematico, la precede del tutto
naturalmente e quasi organicamente.
In sede cinematografica, il regista inteso a trasformare l’intreccio filmico nel linguaggio della realtà punta a riverberare un λόγος prediscorsivo – il
sacro di Accattone – che in Medea sottende una verbalità non naturale persa
nei deserti del silenzio, dove la disperazione non dà più credito alla fecondità del tempo4. E questo è inevitabile nella misura in cui il mito e il sacro
47. Vilota, in La nuova gioventù, in Pasolini (200, vol. ii, p. 44): “Campi lontani!
Mirische! / Cantando o non cantando, / non so come né quando, / qualcosa di umano è
finito!”. Sui risvolti della modernizzazione orfana di intelligenza, popolo, ideologia e identità si basa il concetto di “nuova preistoria”, incardinata nel tempo sterile del consumismo e
dell’industria sottoculturale, messo al centro del libro di Giulio Sapelli (2022).
4. Bestia da stile, in Pasolini (2001b, pp. 22-). Tutto ciò che è leggibile nel λόγος
informa la vita e iscrive l’operazione creatrice nel dominio della morte che permette al poeta di superare l’Alterità e di giungere all’Uno predeterminato nel reale.
4. A tale proposito rimando all’osservazione di Massimo Fusillo (2007, pp. 10-5)
sull’impossibilità in Medea di intravedere nel logos l’estremo avvenire: «una costante profondamente radicata in tutto l’universo pasoliniano, che possiamo sintetizzare con la for-
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1. pasolini alla prova del logos
si eclissano, per dirla nei termini di Gianni Vattimo (2012, p. 110), «in favore di un “nuovo realismo” che rischia di ricadere esattamente nell’idea
di rispecchiamento della natura [...] che ha anche significative e pericolose
conseguenze in termini di vita sociale e politica. Essere antirealisti è oggi
forse l’unico modo di essere, ancora, “rivoluzionari”». Ecco perché al linguaggio compete la costruzione delle figure del mondo e addirittura della
realtà, con la conseguenza che il λόγος finisce per situarsi contestualmente
en arché (prima del discorso) – dove alita la presenza infestante del sacro da
cui il poeta mutua un ritmo indefinibile e spontaneo – e dopo il discorso, in
quella dimensione postuma già segnalata nei versi della Realtà, poi ribattuta
in Saluto e augurio dove si conclude esteticamente l’esperienza della poesia.
A guardare bene, però, tale congedo che sigilla la Nuova gioventù è tutto
anticipato in Poesia in forma di rosa dove il poeta, incadaverito l’atteggiamento elpidico, constata la perdita dell’orizzonte e taglia corto con riflesso
vituperante: «addio, problema chiuso, ormai, per il mondo, / ti lascio ai
tuoi conti: io non rispondo // più dei miei sentimenti verso una nazione /
fatta estranea per sempre dalla delusione»50.
Il discorso sulla vita e sul reale, qualificato nella forma dagli a-priori
logici, estetici, religiosi che abbiamo scandagliato, si arresta allora al cancello della morte quando l’origine del λόγος viene finalmente raggiunta
e il colloquio si è esaurito come i granelli del tempo nella clessidra51. Ad
ogni costo Pasolini ha riconosciuto nelle declinazioni del lutto il manifestarsi naturale della necessità espressiva che era maturata progressivamente attraverso tutta la vita: «O essere immortali e inespressi o esprimersi e
morire»52. L’idea essenziale a cui si ispira questa penetrante escatologia
è che l’origine del λόγος coincida con la fine del cantus che aveva come
primo obiettivo quello di raccontare la realtà, la vita, la storia; ragion
mula della sfiducia nel logos. [...] Anzi, per Pasolini l’alienazione ha inizio proprio quando
il barbaro comincia a considerare naturale la realtà, e a contemplarla secondo un’ottica
spazio-temporale creatrice di illusione». Sul tema insiste anche Alberto Russo Previtali
(2020, p. 45): «Divenuta impraticabile la poesia nella lingua plurale del realismo (“la Logica”), si apre per il poeta “il tempo / della Psicagogica. / Posso scrivere solo profetando”»
(la citazione di Pasolini è tratta da Poesia in forma di rosa, in Pasolini, 200, vol. i, p. 1200).
50. Canto di un bianco errante per l’Africa, in Appendici a «Poesia in forma di rosa», in
Poesie disperse e inedite, in Pasolini (200, vol. i, p. 1).
51. Cfr. L’uomo di Bandung, in Appendici a «Poesia in forma di rosa», in Poesie disperse
e inedite, in Pasolini (200, vol. i, p. 111): «[...] Sanno / che in quest’inferno che abbraccia /
i gironi dei tropici e dell’equatore, / fino alla Città del Capo e alla Terra / del Fuoco, dove
i rustici Leti / sono Conghi bestiali, / non è nello spazio, ma è nel tempo, / nel tempo!».
52. Essere è naturale?, in Empirismo eretico, in Pasolini (1a, vol. i, p. 156).
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giona tuccini
per cui con la morte del λόγος finisce anche la storia del mondo e quella del soggetto. L’evidenza di tutto questo spiega il senso delle seguenti
terzine:
Mostrare la mia faccia, la mia magrezza –
alzare la mia sola, puerile voce –
non ha più senso: la viltà avvezza
a vedere morire nel modo più atroce
gli altri, con la più strana indifferenza.
Io muoio, ed anche questo mi nuoce 5.
Perciò, affermare che “morire” è il verbo più intenso e il più folto di sostanze
emblematiche di tutto il programma poetico pasoliniano mi pare quantomeno plausibile poiché, come abbiamo osservato, già dagli anni Sessanta
maturi, la morte è l’ultimo segno del λόγος, la sigla linguistico-strutturale del
sistema espressivo dell’intellettuale che fissa nel saggio I segni viventi e i poeti
morti, confluito in Empirismo eretico, il fulcro del suo pensiero54. Se il mito
è «l’altra faccia del realismo»55 perché non si limita a rappresentare la realtà
fisica del corpo, bensì ne porta di colpo alla luce il nucleo più sacro sepolto
nelle pieghe dell’Eros, allora il λόγος – quale riverbero di morte – è la realtà
ipso facto. E come è certo che «Ogni nostra vita non è che un esempio, che
parla»56, ciò varrà specialmente per la morte quale antitesi della vita prefor5. La Guinea, in Poesia in forma di rosa, in Pasolini (200, vol. i, p. 10). Questi versi
avvalorano le conclusioni formulate da Gianni Scalia (2020, p. 10): «Mi sembra che Pasolini
sia un poeta “della fine”, non perché piange le cose perdute, anche questo naturalmente, ma
perché parte dalla fine verso l’inizio. Forse è meglio dire non un poeta “della fine”, ma “a partire dalla fine”, dall’ultima figura. Inizia dalla fine storica, dalla fine politica, dalla fine sociale».
54. Cfr. supra, nota 6. Altrettanto paradigmatiche sono le valutazioni finali in Os
servazioni sul pianosequenza, in Empirismo eretico, in Pasolini (1a, vol. i, pp. 1560-1,
corsivo nel testo): «Finché io non sarò morto, nessuno potrà garantire di conoscermi veramente, cioè di potere dare un senso alla mia azione, che dunque, in quanto momento
linguistico, è mal decifrabile. È dunque assolutamente necessario morire, perché, finché
siamo vivi, manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita (con cui ci esprimiamo, e
a cui dunque attribuiamo la massima importanza) è intraducibile: un caos di possibilità,
una ricerca di relazioni e di significati senza soluzione di continuità. La morte compie un
fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi (e
non più ormai modificabili da altri possibili momenti contrari o incoerenti), e li mette in
successione, facendo del nostro presente, infinito, instabile e incerto, e dunque linguisticamente non descrivibile, un passato chiaro, stabile, certo, e dunque linguisticamente ben
descrivibile [...]. Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci».
55. La contestazione, in Il sogno del centauro, in Pasolini (1b, p. 1462).
56. Orgia, in Pasolini (2001b, pp. 276-7): «uomo: La nostra realtà – ormai lo sappia-
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1. pasolini alla prova del logos
mata all’interno della vita. Alludere all’esercizio di una metretica del morire
capace di informare il cursus attivo della poesia nell’enclave atemporale di
una forma, ci porta a concludere che nell’opera di Pasolini il λόγος comprende la sua propria negazione. In un certo senso è come se, per poter esistere,
esso dovesse mutarsi nell’assoluto di un verbo supremo, diciamo pure un
“super-logos”. È vero – e la poesia pasoliniana dimostra in grande misura questo paradosso – che il λόγος non esisterebbe se non in relazione al silenzio,
allo stesso modo della nota musicale che sarebbe puro strepito se non fosse
scandita dalla pausa. Per fare qualche esempio, sotto il rispetto meramente
formale, i segni interpuntivi (primi tra tutti i tre puntini e le parentesi) sono
conduttori di precisi valori di significato, a riprova che lo spazio grafico è
appannaggio di una struttura spazio-temporale più ampia. In Trasumanar e
organizzar i versi interrotti (sul piano dell’enunciato, a conclusione dell’unità ritmica) rientrano in questa logica, così come il verso mutilo dell’ottavo
movimento di Una disperata vitalità che non interrompe soltanto la sintassi
del discorso, ma ne spezza anche l’unità ritmica, con arcano effetto di sospensione, imponendo poi il bianco di un emistichio assente:
Io me ne starò là,
qual è colui che suo dannaggio sogna
sulle rive del mare
in cui ricomincia la vita57.
Il verso mancante, all’occhio e all’orecchio, segnala fragorosamente l’atto
del morire, qui soppresso affinché il vuoto della morte sia dato nella bianchezza ottica, semantica e sintattica, che è la morte stessa nella sua realtà
effettiva. E questo per dire che, nelle intenzioni dello scrittore, la lingua del
lutto si afferma superiore e si dilata senza tregua rispetto alla lingua della
madre e a quella raggelante del padre evocate in Orgia, dove l’uno comanda
e l’altra balbetta; una constatazione a cui bisogna pervenire anche quando
ci imbattiamo nelle «fronti dure / dei padri padani» evocate nelle terzine
della Realtà5. Queste determinazioni dovrebbero aiutarci a riaprire il dos
sier pasoliniano, con la conclusione che se la realtà incontestata del λόγος
mo – siamo noi stessi: / ed è attraverso noi stessi che l’esprimiamo. / Ogni nostra vita non
è che un esempio, che parla; / mentre le parole – anche questo sappiamo – / sono noi stessi
solo per il loro suono / e per una parte, ineffabile, del loro senso. / Non essendo noi stessi,
non sono la realtà: / le parole della lingua non sono dunque / che gli strumenti del sogno:
così che il male / è la realtà, il sogno il bene».
57. Una disperata vitalità, in Poesia in forma di rosa, in Pasolini (200, vol. i, p. 1201).
5. La realtà, in Poesia in forma di rosa, in Pasolini (200, vol. i, p. 110).
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giona tuccini
concilia l’elemento vitale con le forme che lo negano, in ultima battuta essa
andrà ricercata nel “tra” più imprescrittibile di tutti: quello del “trapasso”
che permette di oggettivizzare il narcisismo pieno di fossile dolcezza delle
Poesie a Casarsa, rilanciato nelle Poesie mondane come «sola forza / consolatoria, sola salvezza!»5.
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